Cesare Pavese, · compagno, Dialoghi con Leucò, La bella estate, Prima che il gallo canti, La luna...

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Suplemento da Revista Comunità Italiana. Não pode ser vendido separadamente. ano VII - numero 62 Cesare Pavese, cent’anni e oltre INSERTO DELLA RIVISTA COMUNITÀITALIANA - REALIZZATO IN COLLABORAZIONE CON I DIPARTIMENTI DI ITALIANO DELLE UNIVERSITÀ PUBBLICHE BRASILIANE

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Inserto della rIvIsta ComunItàItalIana - realIzzato In CollaborazIone Con I dIpartImentI dI ItalIano delle unIversItà pubblIChe brasIlIane

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Cesare Pavese, cent’anni e oltre

Il 2008 è ormai finito, ma questa seconda edizione di Mosaico Italiano del 2009 indugia idealmente col proprio sguardo sulle ri-correnze storiche del recente passato, come il celeberrimo Angelo della Storia descritto da Benjamin. Ci è sembrato giusto, infatti, continuare a ripercorrere un avvenimento che ha segnato l’agenda letteraria dello scorso anno: il centenario della nascita di uno dei più grandi scrittori e poeti italiani del ‘900, Cesare Pavese.

Lavorare stanca, Paesi tuoi, La spiaggia, Feria d’agosto, Il compagno, Dialoghi con Leucò, La bella estate, Prima che il gallo canti, La luna e i falò, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, La lettera-tura americana e altri saggi, Il mestiere di vivere, Racconti, Lettere sono alcune delle opere pubblicate in vita o postume, note o meno note, che delineano l’immensa e fitta costellazione intel-lettuale e poetica pavesiana, fatta di uno stile asciutto e stringato, eppure evocativo e intenso come pochi. Dalla prima prosa alle poesie più mature ed ancora agli abbozzi di un “diario intimo”, iniziato verso la metà degli anni ’30, si intravede una voce soli-taria e intrisa dei sentimenti di nostalgia per l’amata terra delle Langhe, nel piemontese, con il suo carico di allegorie e simboli.

Una costellazione alla quale devono essere aggiunti due al-tri punti cardinali: il lavoro alla casa editrice Einaudi e l’attività di traduzione, in particolare di autori americani, quali Stein-beck, Dos Passos e Melville (come non ricordare la traduzione di Moby Dick?), portata avanti per un lungo periodo. In effetti, quest’ultima attività occuperà un grande spazio nella vita di Ce-sare Pavese: da un lato, come sottolineato da Valerio Ferma, essa può essere intesa in senso politico, dati gli autori scelti e tradotti; dall’altro, può essere vista anche come uno spazio formativo che precede il lavoro del poeta e del prosatore (un esempio potrebbe essere rappresentato dall’influenza esercitata su di lui dall’opera di Melville, come riscontrato, tra gli altri, da Paolo Biasin).

L’universo intimo di Pavese è contrassegnato inoltre dalla so-litudine, conseguenza della personalità timida e introversa dello scrittore, che sfocia in una congenita difficoltà nei rapporti inter-personali. Basti pensare alle donne amate e desiderate, le quali non hanno mai corrisposto alle sue intense e fragili aspettative. Un essere solo, dunque, i cui più fedeli compagni sono stati gli strumenti del mestiere di scrittore, carta, penna, idee e libri, i qua-li, tuttavia, ad un certo punto non sono più bastati. Questa la suc-cinta traiettoria di Cesare Pavese, che proprio quando vince il Pre-mio Strega, nel ’50, ottenendo finalmente il riconoscimento della critica italiana, pone fine al suo percorso di individuo e poeta:

Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene?

Questo numero di Mosaico, insomma, è dedicato al ricco prisma tematico dell’opera pavesiana – dal debito nei confronti della letteratura americana alle posizioni assunte in campo poli-tico-ideologico, dagli esiti poetici ai rapporti con il cinema – at-traverso il contributo di studiosi italiani, americani e brasiliani.

La Redazione

Febbraio / 2009

Istituto Italiano di CulturaEditora Comunità

Rio de Janeiro - Brasil

[email protected]

Direttore responsabilePietro Petraglia

DirettoriPatricia Peterle

e Andrea Santurbano

CoordinatoriAndréia Guerini,

Anna Palma,Alessandra Rondinie Marco Galeotti

GraficoAlberto Carvalho

CopertinaCittà di Torino Archive

ComItato dI redazIoneAnna Palma; Annita Gullo (UFRJ); Arcangelo Carrera; Cristiana Cocco (UFF); Cristiane Magalhães; Doris Natia Cavallari (USP); Ernesto Livorni (Wisconsin-Madison); Esman Dias (UFPE); Fabio Andrade (UFPE); Fabrizio Fassio; Flora De Paoli Faria (UFRJ); Francesca Papi; Giovanni Zambito; Giuzy D’Alconzo; Hilário Antonio Amaral (UNESP); Katia d’Errico; Laura Pacelli; Livia Apa (Istituto Orientale di Napoli); Maria Lizete dos Santos (UFRJ); Maria Pace Chiavari (IIC-RJ); Mauricio Santana Dias (UFF); Paola Micheli (Siena); Paolo Spedicato (UFES); Sonia Cristina Reis (UFRJ); Wander Melo Miranda (UFMG)

ComItato edItorIaleAffonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino; Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Luciana Stegagno Picchio; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus

Gruppo dI traduzIonI

Antonella Genna; NUPLITT - Núcleo de pesquisa em literatura e tradução da UFSC (Universidade Federal de Santa Catarina): Andréia Guerini, Cláudia Borges de Faveri, Marie-Hèlene C. Torres, Mauri Furlan, Walter Carlos Costa e Werner Heidermann.

rICerCa

Federico Bertolazzi; Nello Avella; Rino Caputo; Università Roma II “Tor Vergata”

esemplarI anterIorI

Redazione e AmministrazioneRua Marquês de Caxias, 31Centro - Niterói - RJ - 24030-050Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione.

sI rInGrazIano

ABPI, ACIB, Imprensa Oficial do Estado do Rio de Janeiro, UFBA, UFF, UFRJ, IIC, USP.

stampatore

Editora Comunità Ltda.

ISSN 1676-3220

Giacché alcune delle funzioni più salien-ti delle rappresentazioni del paesaggio nell’ultimo romanzo di Pavese La luna e

i falò (1950) si possono già individuare nella sua prima pubblicazione, la raccolta di poesie Lavorare stanca (1936), è quasi impossibile in-dicare una sua opera che non faccia riferimen-ti al mondo naturale.

A partire da “I mari del sud”, la poesia di apertura di Lavorare stanca, il paesaggio geor-gico delle Langhe ha già la funzione di attribu-to metonimico di esperienze d’infanzia, che la voce narrativa della poesia recupera attraverso l’ausilio della memoria. Inoltre la quinta poe-sia della raccolta “Il dio caprone” ci fa presen-te che nelle comunità agricole i giorni di fe-sta spesso coincidevano con l’alternarsi delle stagioni e introduce un parallelismo fra la ses-sualità femminile e la fertilità agricola da una parte e la sessualità degli animali dall’altra. In seguito il romanzo Il carcere (1938) rende esplicite delle tendenze già implicite in opere precedenti, fra cui l’idea che la collina, su cui poggia il nucleo storico del paese, può avere valenza simbolica quale centro generativo dei suoi abitanti, inteso in senso biologico. Come

si sa, la rappresenta-zione pavesiana del paesaggio in queste opere è anche me-diata dall’attenzione dello scrittore du-rante gli anni trenta agli studi di culture primitive e di mito-logia e etnologia.

Gli studi su Pa-vese finora hanno preso atto di questi elementi, oltre alla

possibile influenza sulle sue opere di quelle degli autori regionalisti nordamericani che lui tradusse, fra cui alcuni dei più rilevanti sono Herman Melville, Sherwood Anderson e Wil-liam Faulkner; ma fra gli studiosi che si sono interessati all’influenza degli americani molti hanno rilevato soprattutto l’interesse di Pavese per il linguaggio e il gergo popolare america-ni quale indizio di quanto gli autori americani avessero potuto ispirare nello scrittore piemon-tese un tentativo di creare uno stile narrativo analogo che fosse, ciò nonostante, non dialet-tale. Parecchi hanno individuato l’evidenza di narratori quali Cain, Faulkner, Steinbeck e Er-skine Caldwell, soprattutto nelle prime opere pavesiane. Oltre al primo romanzo Paesi tuoi, sono i racconti le opere da includere maggior-mente in questa categoria, per altro ricordata anche da Elio Gioanola, il quale ha indicato la violenza del romanzo Sanctuary di Faulk-ner come modello del racconto “Temporale d’estate” del 1937 (176). Pare perciò che il consenso critico abbia finora privilegiato una visione di Pavese come scrittore che si fosse in gran parte distanziato nelle opere mature da influenze americane perché da Paesi tuoi in poi tendeva ad elaborare in sintesi narrativa concetti etnologici e mitologici riguardanti la

Pavese, Steinbeck e il paesaggio

Cristopher Concolino

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struttura della mentalità primitiva. Questa pro-spettiva critica induce gli studiosi degli ultimi quarant’anni a considerare la questione di in-fluenze americane un capitolo chiuso.

A questo proposito è opportuno indicare che alcuni elementi della rappresentazione del paesaggio nel romanzo The Grapes of Wrath (1939) di Steinbeck sono analogici a caratteristiche particolari de La luna e i falò, anche se qualche aspetto di questi stessi ele-menti pavesiani si può rintracciare in opere di Pavese scritte prima del romanzo steinbe-ckiano. Per quanto riguarda il rapporto Pavese-Steinbeck viene naturale voler prima prendere in considerazione la traduzione pavesiana di Of Mice and Men del 1938 poiché Pavese non ha lasciato riferimenti al romanzo di Steinbeck del 1939 nei Saggi o ne Il mestiere di vivere, ma Of Mice and Men offre pochi punti di con-tatto con l’ultimo romanzo pavesiano, e dato il grande interesse di Pavese per la narrativa americana contemporanea e la conoscenza del romanzo che ha tradotto, sembra molto probabile che Pavese abbia letto anche il ro-manzo successivo.

The Grapes of Wrath anticipa l’elaborazio-ne pavesiana della coscienza rurale in La luna e i falò in modi che le opere precedenti aveva-no articolato diversamente. L’ultimo romanzo invece rende esplicito, per la prima volta in un romanzo, il fatto che elementi del paesag-gio – non meno dei rapporti interpersonali del

protagonista Anguilla – svolgono le funzioni di significanti della personalità del protago-nista in modo tale da plasmare e definire la sua identità adulta. In questo contesto molte opere pavesiane precedenti sono servite da esercizi preparatori determinanti nel formare le basi culturali per poter esprimere un intenso legame affettivo ad un luogo, legame che nel La luna e i falò si colora quasi del sentimento di riverenza. Analogo all’atteggiamento di An-guilla è quello del Cavaliere, personaggio di punta nel capitolo otto. Una volta facoltoso, quest’ultimo ha sepolto sia la moglie che il fi-glio unico, e malgrado le condizioni di penuria in cui vive ora da vecchio, rifiuta di vendere gli ultimi terreni modesti rimastigli perché, come Anguilla, le sue terre determinano e definisco-no la sua identità. Nella società agraria di cui fa parte la proprietà terriera è un significante importante di maturità e per il Cavaliere can-cellarla sarebbe equivalente all’emarginazione sociale. Come Anguilla, questo personaggio prova inoltre un legame affettivo fra le terre di sua proprietà e “i suoi morti”. Seguendo le tra-dizioni locali, il Cavaliere coltiva una parte del suo terreno a vigne sfruttandola perciò come unità di produzione economica, mentre l’altra, “un ciuffo di pini e di canne”, in cima ad una collina, è lasciata incolta come monumento al figlio morto, che da bambino amava le stesse terre che una volta avevano fatto parte di un vasto patrimonio terriero (35).

Del tutto analogo è il podere della fami-glia Joad in The Grapes of Wrath, contadini dell’Oklahoma, nei cui campi sono investiti i sentimenti più sacri di famiglia, storia e vita. Il romanzo di Steinbeck costituisce un’analo-gia potente alla percezione di Pavese del pae-saggio di Santo Stefano da parte di Anguilla e del Cavaliere, sia perché anticipa i commenti precisi di quest’ultimo, tutti nello stesso ca-pitolo, sia perché tracce delle opinioni del Cavaliere in opere pavesiane precedenti si possono rinvenire solo sparpagliate e in for-me più deboli. La famiglia di Muley Graves, come quella dei Joad, coltiva la stessa terra, anche se da mezzadri, da almeno due genera-zioni, ma è costretta ad abbandonarla duran-te la depressione economica degli anni tren-ta. Come Anguilla e il Cavaliere, il legame psichico che Muley prova nei confronti della terra deriva dalla sua percezione del paesag-

gio come fonte e deposito di vita, al punto che questa percezione sopraffa perfino le sue capacità di poter capire la situazione difficile in cui si trova; infatti è lui l’unico che insiste a rimanere alla casa natale quando tutta la famiglia l’ha già abbandonata. Le ragioni che determinano il suo rifiuto di partire sono mol-to simili a quelle che vincolano il Cavaliere alle poche terre che ha ancora, ma sono an-che a quelle che richiamano Anguilla a Santo Stefano. Inoltre, Muley ricorda le nascite e le morti di diverse generazioni della sua fami-glia e prova il bisogno di rivisitare i luoghi del suo passato biologico famigliare per poter

rivivere gli eventi più significativi della sua vita: la prima volta che ha fatto l’amore, la morte del padre e la nascita del fratello.

Allo stesso tempo, mentre e Anguilla e Muley sentono un’attrazione ineluttabile per i luoghi campestri del loro passato, ci sono certe differenze che distinguono i due perso-naggi. Come il Cavaliere, Muley non ha mai lasciato le terre a cui si sente legato, mentre la situazione personale di Anguilla è più com-plessa: nonostante la sua nostalgia nei con-fronti di Santo Stefano, è orfano e sa di essere nato altrove. Di conseguenza la sua orfanità e il ventennio della sua assenza da Santo Ste-fano sono fattori che determinano in lui una lotta interiore per capire il proprio rapporto personale alla Valle del Belbo. Questi fatto-ri e i suoi viaggi all’estero gli permettono di capire la sua relazione con Santo Stefano in modo conscio e eloquente che perciò supera i sentimenti intensi ma viscerali del Cavaliere e Muley Graves. Gli sforzi fatti per raggiun-gere un livello di autocomprensione più arti-colato fanno di Anguilla un personaggio più sviluppato degli altri due.

Degno di nota è anche il fatto che sia Stein-beck che Pavese impiegano due personaggi di generazioni diverse per comunicare il rapporto affettivo con il paesaggio. In questo contesto il Cavaliere rappresenta lo sdoppiamento di Anguilla, mentre questa stessa struttura binaria era già stata proposta in The Grapes of Wrath, in cui il personaggio di Grampa Joad ribadisce il rifiuto di partire di Muley Graves, ma costret-to ad andar via Grampa Joad si indebolisce e muore quasi subito come se fosse una pianta sradicata dal suo habitat.

Infine, il rifiuto di Muley di lasciare le terre che coltiva da sempre in Oklahoma è condi-zionato anche dai suoi ricordi di feste, matri-moni e balli. Ancora una volta una caratteri-stica di Muley prelude ad un’altra de La luna e i falò, in cui i riferimenti ai giorni di festa, sia religiosa che campagnola, indicano fra l’altro la consapevolezza che i riti sociali nel-le società agrarie servono a segnare--e perciò a ricordare--il tempo che passa. A differenza delle feste di cui parla Muley, quelle ricorda-te da Anguilla ricorrono ad intervalli regolari dall’inizio alla fine dell’ultimo romanzo pave-siano, e coincidono con momenti di svolta nel calendario agrario. Per questo motivo le feste di Santo Stefano hanno anche una risonanza sacra e simbolica che è solo implicita in The Grapes of Wrath.

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I mari del sudCamminiamo una sera sul fianco di un colle, in silenzio. Nell’ombra del tardo crepuscolo mio cugino è un gigante vestito di bianco, che si muove pacato, abbronzato nel volto, taciturno. Tacere è la nostra virtù. Qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo - un grand’uomo tra idioti o un povero folle - per insegnare ai suoi tanto silenzio.

Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto se salivo con lui: dalla vetta si scorge nelle notti serene il riflesso del faro lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino... “ mi ha detto “...ma hai ragione. La vita va vissuta lontano dal paese: si profitta e si gode e poi, quando si torna, come me a quarant’anni, si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”. Tutto questo mi ha detto e non parla italiano, ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre di questo stesso collle, è scabro tanto che vent’anni di idiomi e di oceani diversi non gliel’hanno scalfito. E cammina per l’erta con lo sguardo raccolto che ho visto, bambino, usare ai contadini un poco stanchi.

Vent’anni è stato in giro per ii mondo. Se n’ andò ch’io ero ancora un bambino portato da donne e lo dissero morto. Sentii poi parlarne da donne, come in favola, talvolta; uomini, più gravi, lo scordarono.

Un inverno a mio padre già morto arrivò un cartoncino con un gran francobollo verdastro di navi in un porto e auguri di huona vendemmia. Fu un grande stupore, ma il bambino cresciuto spiegò avidamente che il biglietto veniva da un’isola detta Tasmania circondata da un mare più azzurro, feroce di squali, nel Pacifico, a sud dell’Australia. E aggiunse che certo il cugino pescava le perle. E staccò il francobollo. Tutti diedero un loro parere, ma tutti conclusero che, se non era morto, morirebhe. Poi scordarono tutti e passò moito tempo.

Oh da quando ho giocato ai pirati malesi, quanto tempo è trascorso. E dall’ultima volta che son sceso a hagnarmi in un punto mortale e ho inseguito un compagno di giochi su un albero spaccandone i bei rami e ho rotta la testa a un rivale e son stato picchiato, quanta vita è trascorsa. Altri giorni, altri giochi, altri squassi del sangue dinanzi a rivali più elusivi: i pensieri ed i sogni. La città mi ha insegnato infinite paure:

una folla, una strada mi han fatto tremare, un pensiero talvolta, spiato su un viso. Sento ancora negli occhi la luce beffarda dei lampioni a migliaia sul gran scalpiccìo.

Mio cugino è tornato, finita la guerra, gigantesco, tra i pochi. E aveva denaro. I parenti dicevano piano: “Fra un anno, a dir molto, se li è mangiati tutti e torna in giro. I disperati muoiono cosi “. Mio cugino ha una faccia recisa. Comprò un pianterreno nel paese e ci fece riuscire un garage di cemento con dinanzi fiammante la pila per dar la benzina e sul ponte hen grossa alla curva una targa-rèclame. Poi ci mise un meccanico dentro a ricevere i soldi e lui girò tutte le Langhe fumando. S’era intanto sposato, in paese. Pigliò una ragazza esile e bionda come le straniere che aveva certo un giorno incontrato nel mondo. Ma usci ancora da solo. Vestito di bianco, con le mani alla schiena e il volto abbronzato, al mattino batteva le fiere e con aria sorniona contrattava i cavalli. Spieghò poi a me, quando fallì il disegno, che il suo piano era stato di togliere tutte le bestie alla valle e obbligare la gente a comprargli i motori. “Ma la bestia” diceva “più grossa di tutte, sono stato io a pensarlo. Dovevo sapere che qui buoi e persone son tutta una razza”.

Camminiamo da più di mezz’ora. La vetta è vicina, sempre aumenta d’intomno il frusciare e ii fischiare del vento. Mio cugino si ferma d’un tratto e si volge: “Quest’anno scrivo sul manifesto: - Santo Stelano è sempre stato il primo nelle feste della valle del Belbo - e che la dicano quei di Canelli “. Poi riprende l’erta. Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio, qualche lume in distanza: cascine, automobili che si sentono appena; e io penso alla forza che mi ha reso quest’uomo, strappandolo al mare, alle terre lontane, al silenzio che dura. Mio cugino non parla dei viaggi compiuti. Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell’altro e pensa ai suoi motori.

Solo un sogno gli è rimasto nel sangue: ha incrociato una volta, da fuochista su un legno olandese da pesca, il cetaceo, e ha veduto volare i ramponi pesanti nel sole, ha veduto fuggire balene tra schiume di sangue e inseguirle e innalzarsi le code e lottare alla lancia. Me ne accenna talvolta.

Ma quando gli dico ch’egli è tra i fortunati che han visto l’aurora sulle isole più belle della terra, al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro.

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L’incontro mancato: note sulla poesia di Cesare Pavese

Prisca Agustoni

Se l’esordio letterario di Cesare Pavese si deve a Lavorare stanca, libro di

poesie pubblicato nel 1936, in cui, come è possibile no-tare in liriche quali I mari del Sud, il progetto iniziale che gli servirà come carro trai-nante di tutta la sua produzio-ne posteriore é già presente, pur se in una veste seminale, nel tentativo di superare il li-rismo dell’ermetismo italiano abbracciando quindi un’aper-tura verso un dettato più mar-catamente narrativo – rifacen-dosi anche a voci, esperienze e realtà regionali, contadine, in opposizione alla realtà urbana – d’altro canto non si può ridurre questa prima esperienza letteraria di Pavese ad una fase embrionale delle seguenti pubblicazioni.

È innegabile che l’autore fosse principalmente un note-vole narratore, ossia un artista capace di modellare la sua vi-sione del mondo nella stesura di una vicenda, nella carat-terizzazione psicologica dei suoi personaggi. Ma è anche vero che la voce espressa dai versi iniziali di Pavese metto-no in rilievo alcune tematiche o preoccupazioni care all’au-tore, come il complesso rap-porto che questi manteneva con la figura femminile, reso celebre al pubblico principal-mente grazie alle poesie la-sciate postume, e pubblicate

dopo il suo suicidio, avvenu-to il 27 agosto 1950, in una camera d’albergo a Torino, dopo un’ennesima frustrazio-ne amorosa. Questi testi, dieci liriche in tutto – otto in italia-no e due in inglese – furono ri-trovate ordinate all’interno di una cartella, come se stessero lì a testimoniare il seguito tra-gico della vicenda biografica dell’autore. Vennero poi pub-blicate, con il titolo emblema-tico di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, un anno dopo, dall’editore Einaudi, assieme alle nove poesie della raccolta La terra e il mare, del 1947.

La prima di queste liriche ci presenta d’entrata, al quin-to verso, uno dei temi costanti nell’opera di Pavese, che è il riferimento al suicidio, “il vi-zio assurdo”, il peso di un’in-soddisfazione dell’anima che lo portò a compiere il gesto fi-nale. Come spesso riferiscono i critici e scrittori che si dedi-carono allo studio dell’opera di Pavese, o che lo conobbe-ro personalmente, una delle ragioni attribuite alla depres-sione e sconforto che lo domi-navano per lunghi periodi era l’assenza, durante tutta una vita, di una relazione affettiva stabile e felice. In questo sen-so, se la donna fu per Pavese una figura spesso sfuggente, “traditrice” – perché capace di mantenere una relazione intellettuale ricca e stimolante

ma incapace di darsi appieno in una relazione amorosa con lui, come avvenne con diverse donne delle quali s’innamorò e con le quali alimentò una densa relazione d’amicizia e di scambio intellettuale –, la sua poesia, già dagli esordi, rivela alcuni tratti che confi-gureranno la personalità della donna cristallizzata poi anche dagli avvenimenti biografici e da lasciti di elementi deca-dentisti, come possiamo leg-gere nel suo saggio Analisi di P., che Pavese scrisse per Fer-nanda Pivano, allora giovane universitaria, per la quale nutrì un’intensa passione amorosa.

Nel frammento che ripor-tiamo, è possibile cogliere la lucidità con la quale analizza il suo comportamento davanti al fenomeno dell’innamoramen-to, e fornisce importanti indizi del suo processo creativo:

[...] P. è senza dubbio un soli-

tario perché crescendo ha capito che nulla che valga si può fare se non lontano dal commercio del mondo, è il martire vivente di queste contrastanti esigenze. [...] Che potrà fare un uomo si-

mile davanti all’amore? [...] Una volta che sarà innamorato, P. farà

esattamente ciò che gli detta la sua indole e che è appunto ciò

che non va fatto. Lascerà capire, innanzi tutto, di non essere più

padrone di sé; lascerà capire che nulla per lui nella giornata

vale quanto il momento dell’in-contro; vorrà confessare tutti i

pensieri più segreti che gli passe-ranno in mente [...] Perché tanta

ingenuità? È evidente: P. fa sul serio, recita sul serio, e si monta come l’attore di vecchia scuola

o come quel trageda dannunzia-no che voleva che nemmeno la maschera dorata di un suo Atri-

de fosse di “metallo vile”. Ecco la mania di assoluto, di simbolismo

[...] P. vuole che ciò che prova sia nobile;significhi, simboleggi

una nobiltà sua e delle cose: di-venti un idolo, insomma.[...] Qui occorre tener presente che in P.

una passione s’intrica con la sua poesia, diventa carne di poesia,

e come tale gli s’identifica col linguaggio, con lo sguardo, col

respiro della fantasia [...]

Se questo testo venne scritto nel 1940, vi percepia-mo aspetti che riprendono e approfondiscono tematiche già insinuate nella raccol-ta Lavorare stanca. A questo proposito, ci interessa evi-denziare, oltre al già riferito lignaggio simbolista-deca-dentista con le sue sfumatu-re romantiche – percepibile, al di là dell’esplicito dato dannunziano, anche dallo spiccato volo trascendente dell’anima dell’artista, che “si monta”, ossia, tende verso l’assoluto, il sublime, l’idolo – , la rappresentazione della donna come essendo quella figura, o meglio, quell’entità irraggiungibile, incapace di colmarlo e che quindi lo fa sprofondare, ripetutamente, nella solitudine.

Vediamo a questo proposi-to il componimento Incontro, nel quale troviamo tratteggia-ta con particolare precisione la linea sottile che conduce l’uomo, in questo caso la voce enunciatrice, alla ricerca del-la completezza nell’emblema femminile che vi si presenta,

reso materia grazie alla forza del paesaggio. Una linea che porta anche allo smarrimento, allo sradicamento – concetti essenziali al mondo pavesia-no. La poesia s’apre attraver-so il rapporto metaforico fra donna e paesaggio, sul quale s’appoggia tutta la lirica: le “dure colline” che forgiaro-no il corpo dell’uomo (v.1) e che sono metafora della don-na, passano l’idea che sia la figura femminile, sia la natura dalla quale questa nasce siano inattingibili nella loro segreta realtà o essenza, come rive-la l’ultimo verso della prima strofa: “[...] mi han schiuso il prodigio / di costei, che non sa che la vivo e non riesco a comprenderla”.

Poco a poco, nella lirica si profila con maggior chiarezza la similitudine tra gli attributi del paesaggio, in particolare della collina – uno dei miti più cari a Pavese – e quelli della donna, la cui voce “suonò / come se uscisse da queste col-line”, una voce che è “netta e aspra insieme, una voce di tempi perduti” (v.9). Il rinvio a una nozione di “tempi perdu-ti”, anticipa i versi successivi, nei quali ritorna la stessa idea, rafforzata però da un innalza-mento della figura umana alla sfera del mito, che è immuta-bile ed eterno e che mantiene la sua struttura universale pur nel contesto rurale nel quale si svolge il componimento: “Qualche volta la vedo, e mi vive dinnanzi/ definita, im-mutabile, come un ricordo./ Io non ho mai potuto afferrar-la: la sua realtà/ ogni volta mi sfugge e mi porta lontano [...] Mi accenna negli occhi / tutti i cieli lontani di quei mattini remoti” (vv.10-18). L’enfasi data al campo semantico della lontananza, del remoto, di ciò che si colloca in un toponimo non definibile con precisione,

e situato in un tempo anterio-re e impreciso, crea una so-spensione riferenziale, ossia, l’atmosfera mitica alla quale Pavese fece ricorso per creare il suo universo simbolico: nei miti, infatti, Pavese credeva racchiudersi il codice di lettu-ra e comprensione del mondo. “Il mito – scriveva - è un fatto avvenuto una volta per tutte che perciò si riempie di signi-ficati e sempre se ne andrà riempiendo in grazia appunto della sua fissità, non più reali-stica. Esso avviene sempre alle origini, come nell’infanzia; è fuori dal tempo”.

Il componimento si chiude con una strofa emblematica: “L’ho creata dal fondo di tutte le cose/ che mi sono più care, e non riesco a comprenderla” (vv.21-22). Esiste una ricerca, da parte dell’autore, di scava-re nella propria interiorità per estrarvi queste raffigurazio-ni mitiche, dell’infanzia, del mondo pre-razionale, per cui incomprensibili, e che provo-cano lo sradicamento esisten-ziale, fonte della solitudine ontologica contro la quale Pavese lottò tutta la vita, te-stimoniando l’impegno, la dedicazione, la sofferenza e la sensibilità di un individuo che, condividendo preoccu-pazioni specifiche della sua era moderna, si individualiz-zano nella vicenda personale e nell’opera di una vita.

Esiste quindi la frustrazio-ne, in coda al componimen-to, dell’incontro mancato, della donna, del dialogo e dell’amore come mete irrag-giungibili, in una poesia il cui titolo, ora letto come pa-radossale, ci sembra un tra-gico augurio o messaggio di speranza lanciato in un oce-ano di parole, sul fondale del tempo, e approdato oggi alle rive della nostra sensibilità contemporanea.

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Nel recensire i racconti raccolti nel volume Not-te di festa, Leo Penna

recrimina lo scarso interesse del cinema per l’opera di Ce-sare Pavese, a suo avviso “la più organica e la più ricca di motivi autentici di tutta la narrativa italiana degli ultimi vent’anni”. La recensione vie-ne pubblicata su Cinema Nuo-vo nel settembre 1953, anno in cui il neorealismo cinema-tografico, se non già tramon-tato nel 1948, volgeva ormai al tramonto, sopraffatto dal controrealismo o dal neorea-lismo rosa di quei film intrisi di cronaca minuta in contra-sto con il realismo pavesiano, in cui quel che conta non è la trama ma quel mondo che un suo romanzo o raccon-to scoprono, “il modo come incidono nei rapporti umani chiarendoli e risolvendoli sul piano dell’arte, cioè dello sti-le”. Ancora secondo Penna, la campagna piemontese,

quale la vide e la descrisse Pavese, potrebbe fornire a un

regista l’occasione per un felice incontro con la nostra civiltà

contadina non idealizzata alla maniera dell’Arcadia né ridotta a una specie di rozza e spuria

imitazione del proletariato cittadino. Una campagna, in-

tendiamo dire, dove non ci sia

posto né per due né per cinque soldi di speranza; se mai per la difficile ricerca di una speranza

non elusiva ma socialmente e umanamente impegnata a ri-

solvere sul piano della giustizia terrena i problema del nostro

tempo e di sempre.

Tralasciando le battaglie che si scatenarono intorno al neorealismo cinematografico, ciò che interessa ricordare ora è che, quasi a raccogliere l’in-vito del recensore, Michelan-gelo Antonioni, non puntando sulla campagna ma sugli am-bienti urbani ritratti da Pavese, nel 1955 porta sullo schermo uno dei suoi racconti lunghi o romanzi brevi, Tra donne sole (1949), trasformandolo, con la collaborazione di Suso Cecchi d’Amico e Alba de

Cespedes alla sceneggiatura, ne Le amiche.

Il mito pavesiano del ri-torno alle origini si perde nel film di Antonioni: la Torino della Clelia cinematografica è piuttosto quella della so-cietà borghese, intrappolata in pettegolezzi e in vuoti riti amorosi, che quella dei suoi ricordi di un’infanzia vissuta nei quartieri popolari.

Sebbene il regista ferrare-se colga “quel nocciolo mo-rale che fu proprio di Pavese” e come questi faccia luce sulla difficoltà di comunica-zione fra i suoi personaggi, sulla crudeltà che presiede i loro rapporti, in cui gli af-fetti sono perennemente in crisi, il film risulta troppo sentimentale rispetto al testo letterario. Inoltre è più ridut-tivo, poiché il male di vivere che corrode Rosetta diventa sullo schermo un dramma d’amore. Antonioni è stato probabilmente suggestionato dalle interviste fatte per l’epi-sodio “Tentato suicidio”, del progetto collettivo diretto da Cesare Zavattini, Amore in città (1953), in cui togliersi la vita sembrava la conseguen-za naturale di un fallimento sentimentale.

Non è solo questo per-sonaggio a subire delle mo-difiche nella sua psicologia.

Anche gli altri appaiono mol-to inconsistenti riguardo al romanzo, a cominciare da Clelia, più futile di quella let-teraria, oppure, come osserva Italo Calvino, piuttosto confu-sa che problematica. “Anche Momina – prosegue lo scrit-tore – la vedevo diversa: più acre e aggressiva, con un cini-smo più scoperto”. Le donne di Antonioni, individualmen-te fragili, si rivelano più forti nell’insieme; forse questo giustifichi il cambiamento del titolo nella trasposizione ci-nematografica: la solitudine individuale annunciata nel titolo pavesiano si trasforma nell’unione (anche se non priva di incomprensione e rivalità) dalla quale il gruppo antonioniano sembra trarre la sua forza.

Nonostante delle inqua-drature e delle sequenze – come quella della spiaggia – già preannuncino l’austerità auditiva e visuale delle opere seguenti, Le amiche è un film troppo parlato, quasi “chiac-chierato”, e in alcuni momen-ti la scena si presenta conge-stionata dall’eccesso di attori o addirittura di comparse sul-lo sfondo (la folla che caratte-rizza le metropoli, secondo lo scrittore piemontese?).

“Non ho mai avuto pre-occupazione della fedeltà a Pavese”, dichiara il regista, difendendosi dalle critiche fattegli:

In Pavese il pericolo era sempre latente, soprattutto in un

racconto come Tra donne sole scritto in una prosa così incanta-

ta, allusiva, ferma in un mondo di sentimenti come una pianta miracolosamente immobile in

un mulinello del vento. Portare sullo schermo il racconto così com’è sarebbe stato non solo

impossibile, ma forse dannoso a Pavese stesso.

Il non aver conseguito un risultato all’altezza del testo letterario non vuol dire che la presenza di Pavese non si farà sentire in altri film del regista, se pensata in termini meno puntuali e più vasti – ad esem-pio, nella costruzione del senso dell’opera non tramite la descrizione delle azioni dei personaggi, ma creando o seguendo tali azioni.

Riprendendo un’attività in-terrotta dopo una prima espe-rienza nel 1928 (Un uomo da nulla), Pavese, nella prima-vera del 1950, si cimenta di nuovo nella stesura di soggetti cinematografici, fra cui Il dia-volo sulle colline (8 marzo), Le due sorelle (o Breve libertà o Gioventù crudele, 18 marzo), Amore amaro (12 maggio) e Il serpente e la colomba (o La vita bella, 8-11 giugno), considerato “il più sviluppa-to e riuscito”. Con il primo, l’autore intende rispondere alle critiche negative mosse al racconto omonimo e riba-dire il suo parere favorevole su quell’opera. Gli altri tre li scrive per due giovani attrici americane, Doris Dowling e sua sorella, la “folgorante” Constance, con cui ha una re-lazione amorosa.

Il soggetto del 18 marzo 1950 narra la storia di Clara e Rosetta, due sorelle innamo-rate di Guido, un “individuo sradicato del dopoguerra”, in bilico fra l’ambiente borghe-se e la malavita. Nelle stesse parole di Pavese:

Chi fa del triangolo una questione di gelo-sia è Rosetta: Clara

capisce presto che l’amore con Guido è finito e

cerca soltanto di salvare la sorella.

Il dramma sta nell’incompren-

sione di Rosetta, che crede che Clara le corra dietro per ripren-

dersi Guido.

Ambientato in un paesag-gio ricorrente nella narrativa dello scrittore (una metropo-li, una cittadina della Riviera e una città di provincia cir-condata dalla campagna), Le due sorelle risente di un tono eccessivamente melodram-matico riscontrabile in alcu-ne opere cinematografiche neorealiste come Il bandito (1946) di Alberto Lattuada o Riso amaro (1949) di Giu-seppe De Santis.

Riguardo al raccon-to lungo o romanzo breve scritto nel 1948, Il diavolo sulle colline risulta un po’ sche-matico forse perché

Cesare Pavese e il cinematografo

Mariarosaria Fabris

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si tratta appunto di un sogget-to e non di una sceneggiatura. In questo caso, la mancanza dei dialoghi, che hanno una “funzionalità essenziale” nell’opera pavesiana – “Per il dialogo, sono uno dei mae-stri riconosciuti del genere (!) […].”–, e dello spezzettamen-to della trama in brevi capito-li ne impoverisce la struttura narrativa. Anche i personaggi, in specie quello femminile, appaiono molto semplificati e l’aspetto mitico sembra esser-si diluito.

Quasi sempre poco svi-luppati o appena abbozzati, i soggetti sono spesso corre-dati da “osservazioni” (così le chiama l’autore), le quali, come sottolinea Mariarosa Masoero, “chiariscono l’in-tento dello scrittore e offrono la chiave di lettura del testo”. Consapevole di non domina-re la terminologia cinemato-grafica, Pavese riconosce di avere una grande difficoltà a stendere una sceneggia-tura vera e propria, per cui si limitava a raccontare una storia “in una semplice prosa descrittiva, [...] come una no-vella”, cioè a “scrivere sem-plicemente come uno scrit-tore, un narratore [...] e poi, se la storia andrà bene a quei tipi, discuteremo su chi sia più adatto a sviluppare una sceneggiatura”.

Meno conosciuti dei sog-getti sono i testi giovanili che Pavese dedica al cinemato-grafo, pubblicati da Massi-mo Mila alcuni anni dopo la scomparsa dell’amico: “Il problema critici del cinema-tografo” (scritto fra il 28 mag-gio e il 6 giugno 1929) e “Di un nuovo tipo d’esteta (Il mio film d’eccezione)”.

Nel primo dei due sag-gi – come osserva Mila, nel presentarli –, lo scrittore è “diligentemente impegnato

a formulare una definizione estetica del fatto cinemato-grafico”. Infatti se la prende con coloro che non riescono ad andare oltre a una critica empirica di un film, a capire di trovarsi di fronte ad una nuova espressione artistica e, difettando i mezzi adeguati per giudicarla, la riducono spesso a una semplice tradu-zione del teatro, della lettera-tura o della pittura. In questo modo, è dubbio

se il cinematografo inteso storicamente come congenie di mezzi tecnici atti a rappre-sentare è tale da permettere a questi mezzi bruti una sintesi, un’espressione, un così detto

insomma fantasma poetico, che sia se stesso, soltanto nella nuo-

va natura cinematografica e non invece una possibile meccanica

traduzione di altra precedente sintesi trasposta in questa forma

a scopo divulgativo.

Pur riconoscendo che il cinema è ancora in gran par-te illustrativo, “che esso cioè dice le cose traducendole o come se le traducesse da altre arti”, non esclude che molti film portino “esempi di una nuova sensibilità cinemato-grafica che, se non è giunta finora a creare tutta un’opera schietta, lo deve alla tradizio-ne inceppante dei falsi clichés già formatasi e all’influsso ap-

punto della falsa concezione critica corrente”. Nell’indivi-duare la natura ancora ibrida della nuova arte, Pavese bia-sima che fino allora “molto romanzo e più teatro cercano di farsi valere sotto il nome di cinematografo”.

Nel secondo testo non da-tato, ma steso di sicuro dopo l’avvento del sonoro (“re-centemente, ‘il parlato non va’”, scrive il nostro contro gli esteti), Pavese disdegna coloro che, avendo scoperto in ritardo l’importanza del ci-nema, in nome delle sue doti artistiche, sottovalutano lo spettacolo di intrattenimento e vanno alla ricerca del “film d’eccezione”:

Il cinematografo è un’arte da folla e che la ragione della sua vitalità è appunto questa: che

esso ha creato un’arte nient’af-fatto d’eccezione, fine-ottocento

o principio-novecento, ma in-teramente popo lare, che parla cioè a tutti i pubblici. E si capi-

sce, così, come i suoi primi frutti di qualche valore siano venuti dal Nordamerica, il paese che, per la sua giovinezza e per la

sua formazione unica al mondo, ha meno divario di bisogni spiri-tuali tra le classi e rinnova quin-

di per noi, in parte, lo spettacolo di una civiltà primitiva attraverso

forme raffinate.

Queste idee dell’autore piemontese sul cinema non sono presenti solo nei testi te-orici, poiché le aveva espresse anche in vari passi di racconti pubblicati postumi, come in “Arcadia” (1929), in cui al “cinema d’arte” contrappone quello che, secondo lui, rive-lava la vita:

Soffriva che quella ragazza invece di amare i film che a

lui parevano esprimere la sua vita – quelle storie di com-

messe, di impiegate nelle case ni tide d’ America, in mezzo a

una città enorme e pure fre sca come una campagna – cer-

casse invece, e ne parlas se, le pellicole storiche coi bei vesti-ti, le belle pettinatu re, i duelli

generosi e tutta la patina da cartolina illustrata.

Critico di una certa pro-duzione europea, in specie quella italiana, per Pavese il cinematografo, quale arte nuova, appartiene ad un pa-ese nuovo, l’America, come viene detto in uno degli scritti che compongono la Trilogia delle macchine (1928) e di nuovo in “Arcadia”:

Era partito pieno di feb-bre e di risolutezza salda, a

vent’anni, verso l’America nuo-va, fanatico di quell’uma nità, con una speranza ardente di

vivere quella vita, as sorbirla e esprimerla nell’arte nuova che doveva vestire la nuova bellez-

za del mondo. E là, s’era aggirato, aveva

fatto di tutto, intorno ai focola-ri della cinematografia, tutte le

parti più umili, dall’operaio alla comparsa, aveva sofferto, fati-

cato in si lenzio, con poco cibo e meno riposo, senza tregua

per anni, sperando credendo sempre. […]

E ora, la sopravvivenza irritante degli insopportabili

drammi, a lui, che nel suo lungo attrito col1e folle più

di verse, aveva sentito confu-samente, ma recisamente, il

bi sogno della forma nuova, la sua cinematografia […].

I famosi grattacieli Paolo li aveva scoperti al cinemato-

grafo. […] Era stata una sera che

lui, ancora studente, strascina-va in un piccolo cine un pome-riggio tedioso e freddo d’inver-no. Una scena improvvisa: sul telone nebbioso, il paesaggio

irreale dei colossi accatastati, geometrici e re moti.

Quel che piacque dap-prima a Paolo fu l’atmosfera

della scena, quella lontananza, quei lumi radi. Somigliava a ciò

che da un pezzo lui andava per la città a cercare fin nelle

barriere: le vedute lontane, d’inverno, i corsi in terminabili dai lampioni annebbiati, e gli

urti i contatti di quella folla di operai, alla sera, affrettantesi

intorno a lui trasognato. Le piccole sale cinemato-

grafiche, soprattutto i “locali di barriera” – dove davano “i filmetti d’America”, con la loro “trama semplice e visto-sa” –, siti in quelle strade che sconfinavano nella campa-gna, sono le predilette dello scrittore, che coniuga la sco-perta di una nuova società e quella della realtà popolare della sua città, come in uno dei brani di Ciau Masino (1939-1932):

Masino usciva al pomerig-gio, camminava per vie inter-minabili, oltre i corsi, oltre le grandi vie del centro, fino a

Dora, fino alle regioni dei prati, tra le case operaie, dove tutto

è recente e in co struzione – grandi case nel cielo coi fianchi lisci, taglia ti, pronti a riceverne

altre, all’infinito – respirava quel l’aria più aperta, più friz-

zante, guardava i negozietti lu cidi, provinciali e immaginava

di vivere quella vita, di soffrire quel lavoro – le fabbriche, le

acque luride, le er be bruciac-chiate, l’orizzonte.

I film americani. Costava poco entrare in quei cinemi e si vedevano le cose piú belle. Buck Jones, Giorgio O’Brien, Olive Bordeu, Sue Carol – il mare, il Pacifico, le foreste,

le navi. Ma sopratutto le cit-tadine dell’Ameri ca, quelle

case nitide in mezzo alle cam-

pagne, quella vi ta schietta e elementare. Tutto era bello. Gli

uomini, in dividui sicuri, forti, con un sorriso tra i denti, pu-gni so di ed occhio aperto. Le ragazze, sempre le stesse dai villaggi alle metropoli, corpo chiaro, volto allegro, sere no,

anche in mezzo alle sventure. Si usciva leggeri da quei film. Nel centro dicevano che eran cose banali senz’ef fetto e sen-

za vita, ma a Masino pareva proprio d’impa rare a vivere

assistendo a quelle scene.

In quegli anni, per molti giovani, cinematografo vo-leva dire cinema americano, con quei “filmetti ottimistici dell’american way of life […] e del keep smiling”, come ri-corda Mila:

Sarà stata […] la retorica dell’antiretorica; certo è che

questa infatuazione per il cine-ma americano, inteso in maniera

giovanile come una miniera di modelli di comportamento e

come un ideale di vita, faceva parte d’un nostro costume e

d’una nostra tenace volontà di antiletteratura: in una parola,

faceva parte del nostro antidan-nunzianesimo.

L’interesse di Pavese verso il cinema americano come un fatto di costume ci porta a pensare quanto ne siano debitrici alcune produzioni italiane che hanno prepara-to l’avvento del neorealismo cinematografico, da Gli uo-mini, che mascalzoni! (1932) di Mario Camerini a Quattro passi fra le nuvole (1942) di Alessandro Blasetti: esso ha insegnato a camminare, par-lare, comportarsi in una so-cietà contemporanea. Ossia i film d’America, hanno aiu-tato a svecchiare una cultura e a superare un cinema ancor troppo teatrale o letterario.

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[…] tutta la mia vita scolastica mi par che sia stata un continuo litigare con i miei scolari, ossia un “discutere” con essi, specie con quelli più vicini a me […] per cui si può discutere solamente con le persone con le quali sei già d’accordo. E il primo dei miei scolari, il primo che, uscito dalla mia scuola, abbia voluto entrar nella mia amicizia, il primo quindi anche

cronologicamente dei miei scolari più miei, è stato anche quello con cui ho più a lungo e più tenacemente discusso, anzi, letteralmente, litigato. Avete capito che si tratta di Cesare Pavese.

(Augusto Monti)

Riflessioni su Il compagno

Patricia Peterle

La Torino degli anni di Gramsci e di Gobetti continuava ad avere una forte identità culturale attraverso

gli incontri ed i cenacoli dei quali facevano parte Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila, Vittorio Foa, Carlo Argan, Giulio Einaudi tra gli altri, che come af-ferma Giuseppe Petronio erano “il fior fiore dell’anti-fascismo libe-

ralsocialista”. Leone Ginzburg, un anno più giovane di Pavese, conob-

be lo scrittore piemontese attraverso Monti e fu tra i fondatori del movimen-

to “Giustizia e Libertà”, e per le sue at-tività contro il regime fu arrestato e con-

dannato due volte. Anche Pavese, verso la metà degli anni ’30, ebbe la sua casa perquisita, fu arrestato e portato a Branca-

leone Calabro a causa di una lettera ri-volta a Tina, “la donna della voce

rauca”. Questo gruppo storico d’intellettuali torinesi al qua-le poi si aggiungeranno Elio Vittorini, Natalia Ginzburg, Italo Calvino e altri lavorò per la casa editrice Ei-naudi. Prima del carce-re, per la stessa Einaudi, Pavese curerà la ses-sione di etnologia del periodico La cultura, dopo la prigionia di Ginzburg.

Nell’ottobre del 1935, in Calabria, in una lettera indirizzata a Davide Lajolo cita il suo “zibaldone”, una specie di diario che conti-nuò nel corso della sua vita e che, poi, venne pubblicato postumo col titolo Il mestiere di vivere (1952). Questi sono anni importanti per Pavese che vede la pubblicazione del suo primo libro di poe-sia Lavorare Stanca (1936) e dopo l’uscita dal carcere è già di ritorno a Torino, dove si dedica al lavoro di tradu-zione per varie case editrici come Bompiani e Mondado-ri; finché, inizia a collaborare in modo stabile con l’Einaudi per le collane “Narratori stra-nieri tradotti” e “Biblioteca di cultura storica”. Questo è un periodo di intenso lavoro, in cui si comincia già ad intra-vedere quelle che saranno le sue tematiche più importanti: infanzia e maturità, campa-gna e città, le memorie, l’in-dividuo e la sua esistenza, l’impossibilità di partecipare alla storia senza compromes-si, il ritorno.

Tematiche che sono anche state influenzate dal suo lavo-ro come traduttore degli scrit-tori americani: Dos Passos, Sinclair Lewis, Sherwood An-derson, Gertrude Stein, John Steinbeck. Gli autori ameri-cani, in effetti, rappresentano una specie di vigore, uno sti-le realistico, asciutto, un vita-lismo nel mito, infine l’Ame-rica. Come afferma Vittorini: “L’America è oggi […] una specie di nuovo Oriente favo-loso”; o “un mito da noi tutti vissuto” come dice lo stesso Pavese, nell’articolo “Ieri e oggi”, apparso su L’Unità di Torino il 13 agosto 1947. È in questo momento che l’attività di Pavese e di Vittorini si av-vicina nel cosiddetto “sogno americano”.

“Ci si accorse, duran-te quegli anni di studio, che l’America non era un altro paese, un nuovo inizio della storia, ma soltanto il gigan-tesco teatro dove con mag-giore franchezza che altrove veniva recitato il dramma di tutti.” (PAVESE, 1971, p.189). Si sa che gli atteggiamenti di Elio Vittorini e Cesare Pave-se come scrittori-intellettuali sono ben diversi: se il primo può essere definito senza dubbio come un intellettua-le impegnato – basti pensare alla sua proposta di cultura e alla concezione della rivi-sta Il Politecnico –, il secon-do ha sempre mantenuto una posizione un po’ distaccata, anche se l’esistenza non è separabile dall’inserzione nel mondo (come dice Jean-Paul Sartre, l’essere nel mondo è fondamentale).

Se l’America di Vittorini può rappresentare una ban-diera di vitalità istintiva, di passioni, di una lotta contro il conformismo e le ipocri-sie – i famosi “astratti furori” di Conversazione in Sicilia (1941) –, quella di Pavese è delineata dalla fatica, dalla natura selvaggia, dalle indu-strie, infine, da un mondo che riproduce i problemi dell’esi-stenza ed i miti dell’epoca moderna. L’America, quindi, vista come una grande alle-goria, come dirà anni dopo Calvino, nella prefazione a La letteratura americana e al-tri saggi di Pavese.

Cadute le costrizioni più brutali, noi abbiamo compreso

che molti paesi dell’Europa e del mondo sono oggi il laboratorio

dove si creano le forme e gli stili, e non c’è nulla che impedisca a

chi abbia buona volontà, vivesse magari in un vecchio convento,

di dire una nuova parola. Ma senza un fascismo a cui

opporsi, senza cioè un pensiero storicamente progressivo da

incarnare, anche l’America, per quanti grattacieli e automobili

e soldati produca, non sarà più all’avanguardia di nessuna

cultura. Senza un pensiero e senza lotta progressiva, rischierà

anzi di darsi essa stessa a un fascismo, e sia pure nel nome

delle sue tradizioni migliori. (Pavese, 1971, p.190)

Certamente, Pavese non entra nel grande filone degli scrittori impegnati con la re-altà italiana e che si dichia-ravano antifascisti. Tuttavia, non può essere immune agli avvenimenti che vede e ai cui partecipa in prima persona, come è il caso della prigione, della tortura e della morte dei vari amici, e del suo stesso carcere. L’esperienza perso-nale del cittadino si mescola in Pavese con un senso pro-fondo di insoddisfazione e di solitudine.

Il Compagno (1947) è forse considerata l’opera più impegnata di Cesare Pavese; in effetti, in essa può esse-re rintracciato il processo di presa di coscienza del pro-tagonista Pablo. Nonostan-te lo scrittore piemontese si fosse sempre tenuto distante dall’agenda politica italiana e si fosse iscritto al Partito Co-munista solo dopo la guerra, in quest’opera, pur senza tra-lasciare i luoghi mitici della sua poetica, ritrae il percorso di una maturazione.

Testo scritto poco pri-ma dei Dialoghi con Leucò (1947), è senz’altro il ritorno di Pavese alla narrativa, dopo l’esordio di Paesi tuoi (1941). Il Compagno è un libro com-posto nettamente da due par-ti, che corrispondo ai venti-due capitoli del libro. I pri-mi undici formano la prima, quella torinese, e gli ultimi

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11 compongono la seconda, che non ha più come scena-rio la Torino delle colline, ma sì la grande città, Roma. La storia è raccontata in prima persona dal personaggio pro-tagonista Pablo.

La prima parte del roman-zo, dunque, presenta aspetti già caratteristici della scrittu-ra pavesiana, come le lunghe giornate di ozio e i paesaggi di una Torino caratterizzata dal fiume Po, dai suoi viali, dal tramonto e dalla mitica immagine della collina. Que-ste pagine iniziali servono a contestualizzare il protago-nista e a definire così il luo-go che egli occupa nei suoi rapporti con la società. Pablo, infatti, è presentato come un giovane senza grandi com-promessi con se stesso e con gli altri, la sua fedele compa-gna è una chitarra – questo strumento lo accompagnerà durante tutto il suo tragitto, eccetto in prigione. Tuttavia, le giornate di Pablo, un giova-ne ragazzo, sulla cui famiglia il lettore sa molto poco, sono anche segnate da un gran fa-stidio interiore: “Ero stufo di quella vita” (p.45).

L’espressione “ero stufo di quella vita”, ripetuta varie volte in momenti e modi di-versi, fin dalla pagina iniziale del libro, indica già una situa-zione di squilibrio, una spe-cie di inquietudine, che verrà capita solo più tardi. Questa sensazione, tuttavia, che può sembrare a prima vista “stan-chezza”, può essere altresì rintracciata in Silvestro, pro-tagonista di Conversazione in Sicilia (1941) di Elio Vittorini. Gli “astratti furori” inquie-tano Silvestro così come “il sentirsi stufo” infastidisce Pa-blo. Però, parallelamente, Pa-blo ha voglia di fare qualco-sa, di cambiare, ma non sa, almeno in questo momento,

come: “[…] girarlo cam-biarlo? Quel mattino sapevo soltanto che qualcosa avrei fatto. Tutto doveva ancor ve-nire.” (p.50). Tra il gruppo di amici frequentato da Pablo, quello che si distacca è Ame-lio, non solo per il fatto di aver subito un incidente, ma perché lavora ed ha un atteg-giamento diverso, forse più maturo e cosciente. Questo personaggio che ha sofferto un incidente con la moto re-cupera il racconto “Fedeltà”, del 1938. In questa parte to-rinese, questo personaggio, Amelio è praticamente l’uni-co che ha contatti con quel che succede. Gli altri amici e compagni di Pablo, come afferma la stessa Linda, non leggono, hanno altri interes-si. Lario e Chelino, per esem-pio, vengono solo nominati e confermano la vita sregolata che aveva Pablo. Sarà Amelio ed il suo incidente e le fre-quentazioni dell’ambiente freddo della sua camera che spingono Pablo ad un futuro cambiamento. Di fatto, sarà nelle visite costanti all’amico che conosce Linda e, poi, tra-mite lei, tutto il gruppo di Lu-brani e di Carletto. Ed è pro-prio quando Linda e Pablo stanno parlando di Carletto, che lei nomina la parola “Fa-scio” due volte:

Nel caffè parlammo ancora di Carletto. <<È un disgraziato>>

mi disse. <<Si fa mettere a spasso così per capriccio. Anche

a Lubrani dice sempre tutto in faccia. Stava bene, nossignore,

se la piglia col Fascio.>><<Ma adesso lavora di

nuovo>><<Chi comincia, è finita.

Senti>> mi disse, pigliandomi il braccio << non far mai niente

contro il Fascio, prometti.>>[…] La calmai ridendo

anch’io (p.117)

Questo è uno dei rari momenti dell’ambientazio-ne piemontese in cui si fa riferimento al fascismo e alla situazione italiana. D’ora in poi, pian piano, si avvicina la fine della prima parte, ed è possibile trovare ulterio-ri riferimenti al regime; però tutti vengono fatti in modo indiretto. Tuttavia, in questo piccolo dialogo, le parole di Linda non rivestono la minor importanza, probabilmente perché la realtà dei fasci non appartiene all’universo finora esperito e anche ricercato da Pablo. I suoi interessi e le sue aspettative sono altri.

Se si volessero individua-re altri frammenti, seguendo questa prospettiva, due sono di fondamentale importanza. Il primo è un dialogo tra Pa-blo e Carletto, ed è forse que-sta la prima volta che stanno da soli e parlano tra di loro senza la compagnia di Linda o Lubrani.

<<Cosa c’entra?>> Un Lubrani c’è sempre.>>

Gli chiesi allora perché non cercava lavoro con altri. <<Sai com’è>> disse lui <<mi hanno fregato quella volta. Tu non sai

quanti uffici bisogna passare per avere un permesso. Lubrani ha di buono che piglia occhi chiusi.>>

(p.163)

Fasci, uffici, si potrebbe aggiungere tessera, dato il contesto, sono tutte parole che non appartengono né al vocabolario di Pablo né alla sua “vita spericolata” senza grandi compromessi. Il pas-sare d’ufficio in ufficio può ricordare al lettore un brano emblematico di Fontamara (1933), dell’autore abruzzese Ignazio Silone, quando già a Roma, prossimo destino del personaggio pavesiano, Be-rardo ed il suo compagno,

due peregrini, vanno da un ufficio all’altro per ottenere il permesso di lavoro, senza però nessun successo. No-nostante ciò, senza venirlo a sapere subito, Pablo si avvi-cina ai “discorsi di Amelio” e a quelli di politica, parola, questa, che viene menzionata solo una volta in questa parte. In un altro brano, nel decimo capitolo, si possono ancora trovare i termini “fascisti” e “la camicia”:

Ce l’aveva con quelli che mangiano i soldi del popolo e

han bisogno che non si protesti, per poter digerire. “Ma stavolta la pignatta è andata per fuoco” diceva. “Se se ne accorgono in Spagna. Non so se mi spiego.”

“Solo i fascisti mangiano?” gli dissi.

“È la cucina che è fascista” disse lui. “Non c’è bisogno di portare la camicia.” (PAVESE,

1972, p. 174-175)

E ancora:

<<Vedi quello che han fatto in Italia>> mi disse.

<<Sei padrone di muovere un dito? Puoi lavorare se non hai

la carta? Se non chini la testa ti danno un boccone?>> (p.184)

L’innocenza e l’ingenui-tà della domanda di Pablo e l’ignoranza di cosa significhi usare “la camicia” richiama-no l’attenzione e confermano il modo in cui il personaggio trascorre i suoi giorni tra un amico e l’altro, sempre ac-compagnato dalla chitarra. Una vita chiusa e limitata al negozio della famiglia, agli amici, alle serate ed agli amo-ri adolescenziali. È in un at-teggiamento blasé e contras-segnato dall’insoddisfazione, “ero stufo”, presente fin dalle prime righe del romanzo, che Pablo decide di lasciare Tori-

no con un camionista e di an-dare a Roma.

Qui inizia la seconda par-te del romanzo di Pavese, ambientata nella metropoli. A Roma il protagonista entra in contatto con un’altra real-tà, ben diversa da quella da lui vissuta nella vita bohè-me delle borgate di Torino, e qui ha l’opportunità di fare nuove amicizie. Lo sposta-mento da una città all’altra significa, pian piano, anche un’altra prospettiva di vita. I primi contatti a Roma sono i contatti di Carletto, e cioè il nucleo di Dorina che aveva avuto due figlie “d’un socia-lista ch’era dentro”.

I giorni nella nuova città sembrano dare a Pablo una specie di sollievo per le in-quietudini vissute prima. Continua, comunque, a fre-quentare i locali, nello spe-cifico romano, le osterie e il Varietà dove lavora Carletto. Ma l’atmosfera è diversa, con queste compagnie che si de-lineano sempre più come an-tifasciste.

Un riferimento diretto al Duce, che poi viene corrobo-rato dalla domanda di Mari-na: “<< Non sei del Fascio>> […] <<Non hai con te quella camicia>>.” Tutto questo fa

parte di un processo di presa di coscienza e di maturazio-ne del personaggio, il quale una volta uscito “dal guscio”, dagli spazi già conosciuti, comincia a vedere quello che gli sta attorno con altri occhi. E, allo stesso tempo, si ricorda e comincia a capire i discorsi fatti dall’amico Amelio; anzi, ora è Pablo che comincia a fare quei tipi di discorso: “Allora facemmo i discorsi di Amelio. I discorsi che Ame-lio cominciava soltanto, poi scuoteva la testa e diceva: ‘Sciocchezze’ […]” (p.203). Si saprà più tardi, che Amelio era sparito perché faceva il rosso e il comunista e l’ave-vano portato in carcere.

La scoperta della vita po-litica, “militante”, è accom-pagnata da un rapporto con Gina (Ginetta), la bionda, la padrona del negozio da ciclista, che era vedova. La cospirazione politica nella periferia romana, aspetto di primo piano in questa secon-da parte, è anche la tematica principale del libro. Dal mo-mento in cui Pablo comincia a capire l’atmosfera e le si-tuazioni, il nucleo di Dorina e Carletto inizia a subire del-le conseguenze per le attivi-tà praticate contro il regime. Il primo di una serie di fatti che caratterizzano il soggior-no romano è la prigione di Luciano; in seguito, possono essere citati lo stato d’animo dei personaggi, “a quel matti-no anche Carletto non fu più la stessa cosa.” (p.224), e i li-bri del marito di Dorina.

La Roma grandiosa, cit-tà-museo, in questo roman-zo non appare; lo spazio ro-mano ricostruito da Pavese è quello delle periferie e delle borgate che, a sua volta, si contrappone al potere con sede in Piazza Venezia, uni-co grande monumento del-

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Daniele Fioretti

Pavese e l’engagement postbellico: dai Dialoghi col compagno a La casa in collina

la capitale che viene citato come punto di riferimento del potere dell’Impresario. Pablo, quindi, passa attraver-so delle esperienze mai vis-sute prima, come la prigione di un amico, il contatto con delle pubblicazioni censu-rate e proibite dal regime, la frequentazione di perso-ne coinvolte nei movimen-ti antifascisti e la paura del carcere. Questo processo di presa di coscienza per il quale passa Pablo si con-cretizza nel dialogo con il padre di Giuseppe, quando il protagonista gli chiede di spiegare che cos’era succes-so negli anni ‘20, i rossi… Alla domanda “A Torino con gli altri non parlavi di quel che succede?”, Pablo rispon-de: “<<Che Torino. Sapevo appena ballare.>>” (p.242). E poi anche con la figura di Gino Scarpa, ricercato dalla polizia fascista, a cui i com-pagni chiedono di dargli asi-lo. Alle avventure romane di Pablo ed alla sua maturazio-ne come individuo, uomo e cittadino, non potrebbe essere assente l’esperienza del carcere: “Mi arrestarono prima di giorno, pigliandomi dal letto.” (p.292).

“Alienata” e “squilibrata” sono forse degli aggettivi che possono delineare e definire la vita di Pablo prima della deci-sione di partire per Roma. La noncuranza e l’individualismo iniziali cedono il passo a uno sguardo più attento nei con-fronti di ciò che gli succede at-torno. Il Pablo bohèmien di To-rino, poco a poco, viene sosti-tuito da un Pablo più cosciente della realtà del suo paese; il viandante degli spazi romani è caratterizzato da un forte im-pegno civile. Il primo profilo di questo personaggio è con-trassegnato dalla vita notturna, dalle avventure e disavventure

amorose: egli non ha nessun rapporto con la politica.

Pablo rilascia la sua testi-monianza, è picchiato, riesce ad uscire della prigione, dopo aver firmato il documento re-lativo alla sua testimonianza, letto dagli agenti, e deve ritor-nare a Torino. In quest’opera Pavese, pur senza aver par-tecipato alla lotta armata, discute e mette in scena le tensioni e le paure che prece-dono e segnano il movimento della Resistenza.

Ciò che viene presentato sono così gli spazi e le topo-grafie segnati dall’azione di censura, persecuzione e inter-vento del regime totalitario. Il verso dell’Inferno di Dante, “Questa selva selvaggia aspra e forte”, può calzare bene per definire gli spazi rappre-sentati da Pavese; spazi che sono frutto di un momento storico al quale egli, in quan-to scrittore e frequentatore di un certo gruppo intellettuale, non avrebbe potuto lasciare passare tranquillamente. Il compagno, quindi, può es-sere visto come il tentativo di uno sforzo di andare oltre i limiti della solitudine, che non viene abbandonata dallo scrittore; infatti, essa domina, in qualche modo, tutta la pri-ma parte del romanzo.

E èd anche in questa pro-spettiva che si può recuperare una riflessione del suo diario: “La letteratura è una difesa contro gli attacchi della vita” (1938). È a partire pertanto dai meccanismi inerenti a questo atto che gli spazi geografici vengono letti e rappresentati ed altri, allegorici, vengono ad essere immaginati e deli-neati. Parlando di se stesso in terza persona, in una intervi-sta degli anni ’50, dice:

Quando Pavese comincia un racconto, una favola, un libro,

non gli accade mai di avere in mente un ambiente socialmente

determinato, un personaggio o dei personaggi, una tesi. Quello che ha in mente è quasi sempre

soltanto un ritmo indistinto, un gioco di eventi che, più che altro, sono sensazioni

e atmosfere. Il suo compito sta nell’afferrare e costruire

questi eventi secondo un ritmo intellettuale che li trasformi in simboli di una data realtà. Ciò

gli riesce, beninteso, secondo il grado di concretezza, sensoriale,

dialogica, umana, che porta nella sua elaborazione. Nasce di qua il fatto, non mai abbastanza

notato, che Pavese non si cura di “creare dei personaggi”. I personaggi sono per lui un

mezzo, non un fine. I personaggi gli servono semplicemente a

costruire delle favole intellettuali il cui tema è il ritmo di ciò che accade. (Apud, TELLINI, 1998,

p.356)

Infine, per dirla con Fou-cault, lo scrittore, un intellet-tuale, non deve più «legifera-re» o essere portatore di una verità o coscienza da essere diffusa; questo soggetto si presenta ora sfaccettato, pro-dotto di una società, quella del secolo XX, ugualmente frammentata.

Riferimenti Bibliografici:CHABOD, Federico, 2002, L’Italia contemporânea (1918-1948), Tori-no, Einaudi.FOUCAULT, Michel, 1977, Microfi-sica del potere, Torino, Einaudi.GIGLIUCCI, Roberto. Cesare Pavese. Milano: Bruno Mondadori, 2001.MONTI, Augusto. I miei conti con la scuola. Torino: Einaudi, 1965.VACCANEO, Franco (a cura). Cesare pavese – una biografia per immagini: la vita, i libri, le carte, i luoghi. Verona: Gribaudo, 2000.TELLINI, Gino. Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento. Mila-no: Bruno Mondadori, 1998.

La fine della Seconda guer-ra mondiale rappresenta, come è noto, un momento

di ripensamento in merito alla letteratura e al suo rapporto con la storia e con la società. Per usare le parole di Vittorini molti poeti e scrittori si sento-no chiamati “ad altri doveri”, ossia a contribuire all’edifica-zione di una società nuova, in cui la cultura avrebbe dovuto esercitare un ruolo determi-nante, tanto nella gestione del potere quanto nella forma-zione di un popolo maturo e consapevole; il tutto a partire da quella che Calvino defini-sce, nel saggio Il midollo del leone, “coscienza del negati-vo”, ovvero la «coscienza di vivere nel punto più basso e tragico di una parabola uma-na, di vivere tra Buchenwald e la bomba H».

L’engagement pone però anche inquietanti domande e suscita non di rado dolorosi esami di coscienza, soprat-tutto negli intellettuali che si erano affermati nel corso del

fascismo. Tipica del periodo è la condanna della cosid-detta generazione “ermeti-ca”, cui veniva addebitata la responsabilità di non aver contrastato apertamente il regime mussoliniano, ma-nifestando disinteresse nei confronti della realtà storica e politica contemporanea.

Paradossalmente, a questo giudizio piuttosto sommario non sfugge neppure lo stesso Pavese, che pure poteva es-sere considerato, all’interno della sua generazione, il po-eta antiermetico per eccel-lenza, per intendersi l’autore di Lavorare stanca. Eppure, scrive Calvino in un articolo

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del 1948, «non si sfugge alla storia, né all’anagrafe. Che Pavese non sia altri che uno dei più intelligenti poeti del-la generazione “ermetica” ce lo ricorda il suo nuovo volume che Einaudi pubbli-ca nei “Coralli”: Prima che il gallo canti». Tema del libro secondo Calvino è infatti «la posizione dell’intellettuale in un momento di scelta po-litica», nel quale è messa in evidenza la debolezza e lo scontento del protagonista, il suo “negativo”. I tempi ri-chiedevano invece luminose certezze, positive afferma-zioni di chiaro impegno ide-ologico, inequivocabili scel-te di campo. Soprattutto, la precondizione della nuova letteratura è l’eliminazione della distanza di classe fra lo scrittore, tradizionalmen-te di estrazione borghese, e il proletariato. Spetta al let-terato il compito, delineato con chiarezza da Gramsci nei Quaderni del carcere, di “andare verso il popolo”; o meglio, lo scrittore deve “farsi popolo”, rifiutando in blocco buona parte del-la letteratura novecentesca, indiscriminatamente accu-sata di “decadentismo”, ma anche la propria cultura e la propria classe d’origine. Si tratta però di un’impresa tutt’altro che semplice, para-gonabile a quella compiuta dal barone di Münchausen di uscire da una palude ti-randosi per i capelli. Que-sta auspicata identificazione fra lo scrittore e il popolo non sembra un problema per Calvino, in virtù della sua esperienza di militanza partigiana nelle “Brigate Ga-ribaldi”, nella quale egli ha combattuto a fianco di ope-rai e contadini; ben più diffi-cile è la situazione di coloro che, come Vittorini, Bilenchi

o Pratolini, avevano inizial-mente aderito al fascismo strapaesano ritenendolo un movimento rivoluzionario, una sorta di “bolscevismo italiano”, salvo poi ricreder-si dopo l’intervento dell’Ita-lia nella guerra di Spagna.

In questo quadro gene-rale la posizione di Pavese appare in un certo senso unica e non aliena da forti contraddizioni. Non stare-mo qui a ripercorrere, come già è stato fatto, il contra-stato percorso ideologico pavesiano sottolineandone slanci, ripensamenti e crisi di coscienza; né ci interes-sa entrare nella questione aperta da Lorenzo Mondo dopo la pubblicazione di un taccuino, risalente agli anni 1942-43, nel quale Pavese formula un atto di riconosci-mento dei valori di fascisti e nazisti. Le scelte ideologiche e le contraddizioni dell’uo-mo Pavese non ci appaiono rilevanti ai fini del discor-so letterario. Concordiamo anzi con Luigi Baldacci, che ha sottolineato la necessi-tà di occuparci esclusiva-mente dell’opera pavesiana, che «è l’unica cosa di cui gli scrittori dovranno essere chiamati a rispondere (non abbiamo detto: di cui sono responsabili)». Quello che però ci sembra interessante è la presa di posizione di Pa-vese in merito al già ricorda-to rapporto tra scrittore e po-polo. L’autore sembra infatti rifiutare nettamente la stessa impostazione del problema allorché dichiara, in un arti-colo scritto nel 1945 e inti-tolato Ritorno all’uomo:

il discorso è questo, che noi non andremo verso il popolo.

Perché già siamo popolo e tutto il resto è inesistente. Andremo

se mai verso l’uomo. Perché

questo è l’ostacolo, la crosta da rompere: la solitudine

dell’uomo – di noi e degli altri. La nuova leggenda, il nuovo

stile sta tutto qui. E, con questo, la nostra felicità.

Dunque per Pavese, al-meno apparentemente, il problema di uscire dalla mentalità borghese non sus-siste; la questione gli ap-pare anzi come il sintomo di una cattiva coscienza da parte dell’intellettuale. Non a caso, sia pure riferendosi alla poesia, già in una nota del suo diario del 4 ottobre 1943, Pavese scriveva: «Non capisci questo rovello che tanti sentono, di uscire dalla mentalità borghese. Trattan-dosi di poesia, ti senti già proletarizzato quanto basta: figure e gesti ti si avvistano con tratti elementari al di qua della cultura». Tale fiducia è riaffermata nel primo di una serie di articoli pubblicati su «L’Unità» fra il 1° maggio e l’11 luglio 1946 e raccol-ti in seguito sotto il titolo complessivo Dialoghi col compagno, nel quale Pavese rimarca: «non si ha contatto col popolo, si è popolo. Nel nostro mestiere non viene un momento che si possa deci-dere a scrivere d’or innanzi in un certo modo, di parla-re per una certa classe o per certi interessi. Si può farlo ma allora si è dei venduti, anche se chi ti compra è la classe operaia. Nel nostro mestie-re non si va verso qualcosa: si è qualcosa». Tuttavia, tale certezza viene in qualche modo smentita sul piano dei risultati: il romanzo “nuovo” non sembra ancora nato, e gli scrittori, sia pure a diver-so titolo, devono fare i conti con le difficoltà connesse al compito di farsi “ingegneri di anime”, secondo il precetto

staliniano. Nel già citato pri-mo “dialogo col compagno” infatti Pavese è costretto ad ammettere, incalzato dal suo interlocutore operaio, che il progetto di una letteratura concretamente “popolare” è ancora fermo ad una fase progettuale:

Ho incontrato il compagno operaio che conobbi un anno

fa quando scrivevo che noi intellettuali siamo popolo come

lui. [...] – Bene, – mi ha detto il compagno, un po’ magro e

stremato, ma risoluto come allora, – ci sono quei libri che

dicevi l’altr’anno? Tu li hai scritti? Li hanno scritti i tuoi

colleghi? – Non ancora, – gli ho detto. – Non li abbiamo scritti.

Ma abbiamo discusso come si devono scrivere. [...] Si è

discusso molto. Si è discusso di come si devono scrivere. Non è

avanzato il tempo per farli.

In questo quadro di og-gettiva pressione sugli intel-lettuali di sinistra da parte

degli esponenti della poli-tica culturale del PCI nasce nel 1947 Il compagno. Il difetto principale di questo romanzo, tanto per i pri-mi recensori quanto per la critica successiva, sta sen-za dubbio nel velleitarismo che ne informa le parti più “ideologiche”. Occorre però tener presente che tale difet-to non è prerogativa soltan-to pavesiana: solo due anni prima, sull’onda dell’entu-siasmo per la Liberazione, Vittorini aveva pubblicato uno dei suoi romanzi meno convincenti, Uomini e no, e Calvino a sua volta aveva inserito, nella sua “favola di bosco” partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno) un capi-tolo, il nono, pesantemen-te ideologico e totalmente avulso dalla logica della narrazione, quasi un cor-po estraneo. Visto il quadro generale dell’epoca non ci appare del tutto convincente la teoria, sostenuta da alcuni importanti critici, fra cui Gu-

glielminetti, de Il compagno come sorta di anticipata di-fesa e quasi “richiesta di as-soluzione” dall’accusa di di-simpegno nei confronti della Resistenza; tale elemento, certo presente nelle inten-zioni di Pavese, non basta a comprendere fino in fondo un romanzo che, come Uo-mini e no, va forse visto so-prattutto come documento della difficoltà di rapportare le ragioni della letteratura “alta” con le istanze propa-gandistiche portate avanti dalla direzione culturale del PCI. Con Il compagno infatti Pavese tenta di scrivere un Bildungsroman, un roman-zo di formazione incentrato sulla acquisizione di una coscienza comunista, come si ricava dalle parole stesse di Pavese nelle lettere a Aldo Garosci e a Elio Chinol (18 febbraio 1948). La formazio-ne del protagonista, Pablo, è in qualche modo scandi-ta dal passaggio da Torino a Roma, città nella quale egli

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trova lavoro come mecca-nico e nella quale entra in contatto con gli ambienti antifascisti. Significativo in questo senso è il rapporto col militante Gino Scarpa, lo studente che si è liberato dei suoi pregiudizi di classe per combattere durante la Guer-ra di Spagna. Nonostante lo svolgimento di un percorso che porta Pablo dal disimpe-gno all’impegno, nonostante un evidente «omaggio “po-pulista” alla spontaneità e integrità della coscienza po-polare» neppure ne Il com-pagno lo scrittore “si fa po-polo” e Pablo, lungi dal rap-presentare l’eroe “positivo” del realismo socialista, mo-stra invece i connotati del ti-pico personaggio pavesiano, lo “scappato di casa” con poca voglia di lavorare, solo e disimpegnato, già presente in alcune delle sue poesie più belle ma anche in Paesi tuoi: un personaggio su cui pesa come una condanna una condizione esistenziale di incolmabile distanza da-gli altri, un senso di “esilio” che trova forse la sua espres-sione più alta nel personag-gio di Anguilla in La luna e i falò. A nostro giudizio Pavese non cerca affatto di rendere Pablo una figura esemplare di eroe proletario. Questo fraintendimento è alla base della critica fatta al roman-zo da Asor Rosa, secondo il quale Pablo sarebbe solo un prototipo mal riuscito di fi-gura popolare.

Il compagno, roman-zo “dell’impegno”, sembra chiudersi con il fallimento di quella identificazione tra scrittore e popolo che ap-pariva scontata negli scritti teorici pavesiani fin qui esa-minati. Lo scrittore, necessa-riamente proveniente dalla classe borghese, anziché

disconoscere o rinnegare la propria origine sociale, deve utilizzarla per farne il fulcro di una spietata autocritica, vivendo fino in fondo e nar-rando la propria crisi, che naturalmente non è solo di ordine politico ma coinvol-ge il piano morale ed esi-stenziale, come avviene ne La casa in collina. Scrive in-fatti Pavese in una lettera in risposta a un saggio di Rino Dal Sasso:

il personaggio di Corrado, oltre alla viltà davanti

all’azione, rappresenta anche l’estremo problema di ogni

azione – l’angoscia davanti al mistero. Discutibile sarà l’aver

fuso i due motivi in un’unica persona (benché non ne sia

convinto), non certo – mi pare – averli sentiti come una

realtà di oggi.

Nella trascrizione di que-sto travaglio l’autore prende senza dubbio spunto dalla propria vicenda persona-le, ma allo stesso tempo la narrazione trascende il dato autobiografico e si presenta come una fedele rappresen-tazione dell’atteggiamento dell’intellettuale borghese di fronte agli eventi bellici. La casa in collina assume il ruolo di metafora non solo dell’aspirazione del prota-gonista, Corrado, ad una tranquilla esistenza borghe-se, ma funziona anche come emblema di un limbo esi-stenziale ed affettivo, di una condizione bloccata, sterile, rappresentata nel romanzo anche dalla figura di Elvira, zitella che vorrebbe “siste-marsi” facendosi sposare da Corrado. Sull’altro versante c’è l’impegno, la responsa-bilità verso il proprio tempo, impersonati principalmente da Cate, amata in passato

dal protagonista e da suo fi-glio, il giovane Dino. L’auto-re non rivela se Corrado sia o meno il padre di Dino; è evidente però che quest’ulti-mo assume nei confronti del protagonista un ruolo di alter ego e forse di coscienza cri-tica. Infatti, mentre Dino si unisce alle formazioni par-tigiane e combatte in prima persona, Corrado non sa ri-solversi a rompere la propria immobilità, la propria con-dizione di stasi, per esporsi in prima persona.

La casa in collina rappre-senta senza dubbio uno dei vertici assoluti della pro-duzione pavesiana: con la sua scrittura scabra, aspra e scontrosa Pavese mette in scena allo stesso tempo il privilegio e la condanna pre-sente nella condizione esi-stenziale del protagonista. La casa rappresenta infatti il nido, il guscio protettivo che mette Corrado al riparo dai pericoli della guerra e dalla violenza dei bombar-damenti, ma che sancisce anche irreparabilmente il suo destino di inettitudine e di separazione dagli altri. Ma la vitalità del romanzo sta anche nella sua capacità di trascendere l’impegno re-sistenziale e la contingenza storica, l’hic et nunc, tanto che il romanzo si conclude con una condanna in assolu-to di qualsiasi guerra:

Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? perché

sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso,

almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno

unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita

davvero.

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I dubbi non fanno parte delle

virtù di un capoCome deve essere il capo

in tempo di crisi? Deve

avere le qualità di un le-

ader carismatico. Cioè venir ri-

conosciuto e voluto come capo

dai suoi dipendenti perché cre-

dono in lui, ne hanno fiducia.

Non deve essere dubbioso, in-

certo, spaventato. Il capitano di

una nave in tempesta darà sem-

pre l’impressione di avere per-

fettamente sotto controllo la si-

tuazione e saper portare tutti in

salvo. Questo tipo di leader ha

sempre due aspetti.

Da un lato è lontano, supe-

riore, inaccessibile, circonfuso

da un alone di invincibilità ma,

nello stesso tempo, tutti devono

sentirlo vicino come se si occu-

passe personalmente di ciascu-

no di loro. I grandi condottie-

ri sono sempre scesi in mezzo

ai soldati a condividere le loro

stesse fatiche. E non deve mai

dare l’impressione di fare le

cose per sé, ma per tutti. Infi-

ne è importante che sia giusto,

riprendendo chi fa male e pre-

miando chi merita. Nei momen-

ti di emergenza la gente sa che

deve rinunciare ai privilegi, la-

vorare meglio e accettare una

maggior disciplina. Il capo per-

ciò dovrà essere fermo, esigen-

te, chiedere di più.

Ma a sua volta dovrà spen-

dersi, prodigarsi. Da lui ci si

aspetta che sia bravo, bravis-

Francesco Alberoni simo. Tutti si sentono rassicurati

quando sono diretti da un genio.

Ma il genio deve dimostrare le

sue capacità, fare azioni che pro-

ducono immediato successo. E

innovare, inventare, tenendo tutti

attivi, mobilitati... Vi sono dei ca-

pi incapaci che invece non cam-

biano nulla pensando di dare si-

curezza. Sbagliano, l’immobilità

fa paura. Quando deve tagliare le

spese il bravo capo mette in atto

nuove iniziative che fanno spera-

re in una ripresa, in una espan-

sione. Dalle sue parole e dalle

sue azioni i dipendenti capisco-

no che ha una visione globale,

una strategia di successo. Il catti-

vo capo invece vuol ridurre solo

le cifre.

E i suoi si accorgono che non

conosce la realtà umana e socia-

le, non conosce il mercato, non

ha una strategia e che perciò ta-

glia anche le risorse più prezio-

se. Ricordo un leader che teneva

sotto le armi un numero enorme

di soldati e, per risparmiare, non

investiva nella tecnologia e nel-

le armi più moderne. Ci sono dei

capi che agiscono ancora così.

Che considerano la crisi un puro

fatto contabile. Si isolano o fanno

riunioni inconcludenti, non pren-

dono nuove iniziative, annegano

nei conti e così generano sfiducia

e diffidenza. Il miglior risparmio,

in questi casi, sarebbe quello di

licenziare immediatamente loro.

BicruciverBa

27SOLu

ZiON

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cruc

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