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CECILIA Mario Paternuosto

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CECILIA

Mario Paternuosto

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I edizione: dicembre 2008

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A mia moglie e a mio figlio

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La lanugine delle foglie dei pioppi del fiume dondolava

senza peso cullata dal soffio garbato del vento d’aprile. Le foglie dei pioppi salutavano i fiocchi con un concitato sven-tolare e con un brusio sommesso raccomandavano loro di tenersi lontano dalle acque limacciose e lente del fiume.

I fiocchi andavano ondeggiando fatui, tremuli, incerti corteggiati dal vento al quale si concedevano con voluttà inventando mille passi di danza. La loro breve vita era le-gata al vento e quando esso si chetava parte dei fiocchi ca-deva sulla riva e parte nel fiume. Quelli che avevano im-biancato la riva pazienti aspettavano il vento per continua-re la danza, quelli che cadevano nel fiume non avrebbero mai più danzato. La riva del fiume era il nostro rifugio se-greto. Ai piedi di una grande quercia in un anfratto rico-perto di muschio profumato, da anni ormai, trovava appa-gamento il nostro bisogno di tenerezze. In primavera era-vamo al mattino accarezzati dalla neve dei pioppi. La sera ammiravamo le nuvole basse imbrattate dal sangue dell’o-rizzonte lontano trafitto dalla lama d’acciaio della palude.

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Quella mattina Cecilia, stretta a me, sotto la grande quer-

cia, con il capo reclinato sulla mia spalla si divertiva ad

abbracciarmi passando il braccio nella tasca posteriore

della mia giacca maremmana.

Mi teneva stretto a se quasi temesse che da un momento

a un altro avessi a scivolare nelle acque del fiume. Aveva

diciotto anni Cecilia! Mai i miei occhi avevano visto don-

na più bella.

Non era alta. Aveva sopracciglia sottili e affusolate. Se

sorrideva, lo scintillio degli occhi neri aumentava prima

che il volto tutto s’illuminasse.

La mia donna era particolare anche nel nome!

Le nostre donne si chiamano Maria, Carmela, Concet-

ta… ma lei no!

Il padre l’aveva chiamata Cecilia perché l’unico libro

che aveva letto nella sua vita era quello della famosa storia

di Renzo e Lucia ed era rimasto impressionato dal perso-

naggio di Cecilia. Avevamo fatto insieme le scuole. Io le

regalavo le caramelle che mio nonno, che faceva il dro-

ghiere, mi infilava furtivamente nella tasca del grembiule

ogni mattina che passavo a salutarlo prima di andare a

scuola. Eravamo insomma cresciuti insieme nello stesso

paese e come spesso accade non ci eravamo nemmeno ac-

corti che quel bisogno di cercarci per stare insieme, quella

sensazione di incompletezza quando stavamo lontani sino

a diventare prima inquietitudine poi ansia e poi infine sof-

ferenza significava che eravamo innamorati. Avevo qual-

che anno in più di Cecilia che in una coppia, come dicono

i nostri vecchi non guasta. Quello che guastava purtroppo

era il fatto che io ero un tenente dei carabinieri e Cecilia la

figlia di Don Carmine Galasso. Questo signore era a capo

della più potente cosca camorristica delle terre a nord di

Caserta. La proprietà della tenuta di Don Carmine confi-

nava con la riva del Volturno e per Cecilia era facile arri-

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vare a cavallo sino alla piccola porticina nel muro di cinta della tenuta. Il confine della proprietà distava circa un chi-lometro dalla vecchia fattoria di Don Carmine e Cecilia era un’abile cavallerizza. Non destava nessun sospetto il fatto che Cecilia a cavallo scompariva nella vasta tenuta. Io non ho mai creduto comunque che il padre non sapesse del nostro rapporto. Cecilia aveva un fratello di dieci anni più vecchio e che era un degno erede del padre. Era vio-lento e sanguinario e, anche se nessuno l’aveva mai dimo-strato, era accusato di un notevole numero di omicidio. Era anche cocainomane. Quella mattina sotto la grande quercia fra le braccia di Cecilia mi sentivo il padrone del mondo ed ero riuscito a relegare in un recondito angolo dell’animo mio quell’inquietitudine che mi possedeva quando mi incontravo con Cecilia.

— Dove hai messo la mia foto? — chiese Cecilia dopo aver invano e a lungo frugato nel tascone posteriore e in tutte le altre tasche della mia maremmana.

— Io ero convinto che mi tenevi abbracciato per amore e invece cercavi la foto Non te l’ho portata quindi è inutile che cerchi!

— Non ti credo! Dammi la foto altrimenti togliti la giacca!

La foto l’avevamo scattata due giorni prima in quello stesso posto e ci ritraeva entrambi, feci un significativo cenno di resa e gli porsi la foto per evitare di rimanere senza giacca. Era una bella foto e infatti Cecilia dopo a-verla osservata a lungo disse: — È stupenda! Adesso devi scriverci sotto per la mia Cecilia.

— Non posso! — Perché non puoi! — Perché io non faccio niente senza una ricompensa! — Allora io ti darò un bacio per ogni lettera a che met-

terai in coda al mio nome!

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— Accetto! I tuoi baci sono l’essenza della mia vita. Allungherò il tuo nome sino a uscire fuori dalla foto.

Presi il pennarello che mi offriva e scrissi almeno una decina di a in coda a Cecilia.

Il delicato brusio dell’acqua del fiume che accarezzava i rami dei pioppi e i nostri baci furono d’un tratto interrotti da tonfi ritmici. Era il tipico rumore di remi che affonda-vano nell’acqua.

Durò poco. Il silenzio riprese il sopravvento, Cecilia si sciolse dal mio abbraccio e mi guardò preoccupata.

— Non è niente, — dissi. Non rispose ma girò la testa verso il suo cavallo legato

con un lungo lacciolo allo snello fusto di un pioppo. Il ca-vallo aveva alzato il capo smettendo di brucare l’erba. A-veva le orecchie ritte e con lo sguardo fissava un punto della riva. Con la stessa rapidità con la quale era cessato così riprese lo sciabordio dei remi.

— C’è qualcuno! — disse Cecilia alzandosi e trala-sciando il rituale gesto di togliere con il frustino da cavalle-rizza la sabbia dai pantaloni di velluto. Tacqui perché ormai era evidente che qualcuno su un’imbarcazione a remi stesse risalendo il fiume. Avanzava con circospezione e si afferra-va ai rami bassi dei pioppi interrompendo così il ritmico la-voro dei remi. Non doveva certamente essere un pescatore. Il pescatore non ha bisogno di fermarsi a brevi tratti per spiare la riva e poi generalmente non pescavano da quella riva del fiume. Il padrone delle terre di quel lato della riva era un motivo sufficiente per tenerli al largo. Potevamo in-dividuare il punto dove ancora si trovava lo sconosciuto dal fremere dei pioppi ai quali si afferrava quando non usava i remi. Cecilia riconobbe per prima il solitario navigatore.

— È zio Mattia! La persona che con difficoltà si avvicinava a noi su un

“lontro”, tipica imbarcazione in uso sul Volturno, era sia

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per lungo sia per largo, di molto superiore a una media stazza. Era un po’ la guardia del corpo di Cecilia ma non perché avesse avuto un incarico in tal senso da Don Car-mine Galasso ma perché essendogli, in tenera età, morta una figlia si era affezionato morbosamente a Cecilia. Qualsiasi malintenzionato per arrivare a Cecilia doveva prima superare quella montagna di muscoli.

Zio Mattia sapeva sempre dove si trovava la sua protetta e sapeva anche del nostro amore che favoriva in tutti i mo-di. Di professione giardiniere lavorava praticamente solo per i giardini di Don Carmine. L’imbarcazione a fondo piatto appariva pericolosamente inclinata da un lato, ma zio Mattia non sembrava preoccuparsene più di tanto, con la sua forza, se fosse naufragato, avrebbe trovato facile soste-gno afferrandosi ai rami dei pioppi che scendevano sino a lambire il pelo dell’acqua limacciosa. Cecilia sorrise e lo salutò con la mano. Zio Mattia a gesti espresse la soddisfa-zione per averci trovato. Era strano però che per raggiun-gerci avesse usato un percorso a lui non consono né fra l’altro facile. Quando arrivò alla nostra altezza legò con una cima l’imbarcazione al ramo sporgente di una betulla e saltò pesantemente sulla riva. Era affannato e sudato e ci disse di pazientare un attimo per poter riprendere le forze.

— Dovete… tornare… a casa… subito. Sta succedendo qualche cosa di grave in paese! Signorina, vostro fratello ha sparato a un carabiniere e adesso si è trincerato nella scuola e tiene i ragazzi in ostaggio.

— Gesù, che dite? Quando è successo? — Un’ora fa! Adesso il paese è pieno di agenti! — Il carabiniere è morto? — Non è morto, è malconcio ma ce la farà! — Mio padre lo sa? — Sì, lo sa! Io stavo lavorando a casa vostra quando

sono venuti ad avvisarlo. Sono corso ad avvisare voi e ho

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preso in prestito questa imbarcazione per fare prima. Sa-pevo più o meno dove stavate.

— Zio Mattia, diteci esattamente quello che è succes-so! — chiese implorante Cecilia.

— Vostro fratello è stato fermato dai carabinieri e non aveva documenti. Sapete come vanno queste cose! Una parola tira l’altra! I carabinieri erano i carabinieri!Don Ni-cola era don Nicola! Il paese guardava e alla fine un cara-biniere è rimasto sul terreno con una palla calibro trentotto nel polmone! L’altro carabiniere si è sfilato il cinturone e ha alzato le mani. Don Nicola è entrato nella scuola che si trova all’altro lato della piazza e non è più uscito. Adesso la piazza è piena di poliziotti e carabinieri e ne continuano ad arrivare!

— Cristo! In quella scuola c’è anche mio nipote, — dissi a voce bassa.

Cecilia non trattenne le lacrime che scivolarono veloci sul volto pallido e contratto.

— Dio, come siamo sfortunati, — sussurrò fra i sin-ghiozzi. — Vai a casa! Io debbo correre in paese e farò di tutto per impedire che la situazione peggiori. Parla con tuo padre! Costringilo a venire in piazza… Con la sua autorità forse potrà risolvere il problema! Tu rimani a casa! Mi raccomando non uscire! Io vado, ci manterremo in contat-to tramite zio Mattia.

Zio Mattia annuì con un lieve movimento del capo sul collo taurino. La strada per il ritorno era molto accidentata e avrebbe allungato di molto in mio ritorno in paese. Io l’avevo percorsa con una mia vecchia bici. Zio Mattia pre-cedette la mia richiesta e si offrì a malincuore di traghet-tarmi dall’altra parte del fiume. Mi sedetti a poppa e con-statai con piacevole meraviglia che l’imbarcazione era molto stabile. Con una potente spinta del remo sulla riva ci spingemmo sin quasi al centro del fiume dove la corrente

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era veramente forte e dove Zio Mattia mostrò tutta la sua inesperienza. Arrancava con i remi ora a destra e ora a si-nistra rischiando ogni volta di finire in acqua e solo con molta fortuna e con molti sforzi raggiungemmo l’altra ri-va. Il momento più pericoloso fu al centro del fiume dove per la forza della corrente l’imbarcazione girò più volte su se stessa senza controllo. Approdammo a circa duecento metri più a valle. Il tempo che mi ero proposto di guada-gnare era andato praticamente in fumo.

Mi afferrai al primo grosso ramo di salice che mi capitò a tiro e mi catapultai letteralmente sulla scivolosa riva del fiume. Uno stretto sentiero tracciato dalle volpi e che si contorceva nella fitta e bassa vegetazione mi portò in vici-nanza della strada. Dopo cinque minuti ero a bordo di una macchina che era diretta al centro del paese. In un paese ci si conosce tutti e il guidatore della macchina, il fornaio, compagno di giochi della mia adolescenza, disse solamen-te: — Dentro c’è anche tuo nipote!

Poi non profferì più parola rispettando la mia preoccu-pazione. Mi lasciò a cento metri dalla piazza dove si tro-vava la scuola. Per la strada non c’era nessuno e anche i negozi erano chiusi. Stavano certamente tutti in piazza. Percorsi a passo svelto il breve tratto di strada ricoperto dai neri lastroni vulcanici e mi trovai nella piazza occupata da tutta la gente del paese. Vi era una cinquantina fra poli-ziotti e carabinieri che facevano fatica a tenere la popola-zione in uno spazio della piazza lontano dell’ingresso della scuola. Guadagnai il posto di comando formato da un ten-done fissato da un lato alla Rover di servizio e dall’altro alle punte delle aste di due ombrelloni del bar. Un capita-no seduto a un tavolo imprecava contro il ritardo delle squadre speciali.

Lo conoscevo! Era stato a Modena mio compagno d’accademia ed era più anziano di qualche anno. Rimasi

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perplesso perché conoscendo la fama dell’uomo non sape-vo se la sua presenza fosse un vantaggio od un ulteriore problema. Il capitano Diego Cavallero faceva parte del comando carabinieri di Napoli ed era un tipo duro.

— Buon giorno capitano! — dissi appena depose il te-lefono.

— Ciao, tenente! Abiti qui tu? Bella gente i tuoi com-paesani! Lì dentro c’è un tipo in parte matto in parte dro-gato e in parte camorrista che ha ancora tre ragazzi in o-staggio e minaccia di ucciderne qualcuno. Ha fatto uscire gli altri… ma tre sono ancora dentro.

— Cosa vuole? — dissi. — Veramente siamo noi che vogliamo qualche cosa da

lui. Questo signore per futili motivi ha quasi ammazzato uno dei nostri! Erano in due e l’altro milite coraggiosa-mente si è immediatamente arreso altrimenti avrebbe bu-cato la pelle anche a lui! Adesso però ha un problema: ci sono io qui a pareggiare i conti!

Il capitano Diego Cavallero era un allievo del generale Dalla Chiesa e ogni volta che aveva la possibilità più o meno legittima di sparare a un mafioso era per lui un gior-no di festa. Era alto molto più della norma e il profilo del volto non conosceva curve come se un cesellatore avesse voluto compiere l’opera senza attardarsi sui particolari. La bocca sottile e una cicatrice sullo zigomo destro davano a quell’uomo un’area risoluta e cattiva.

— Posso vedere l’elenco dei ragazzini che già sono stati liberati o forse è più semplice per voi dirmi i nomi di quelli che sono ancora dentro, — chiesi con garbo al capi-tano che tormentava la sedia sulla quale era seduto.

Il capitano si girò e prese un foglio dal tavolino, vi die-de uno sguardo fugace nel porgermelo e disse: — Tenente, tu non ti chiami Magliulo?

— Sì!

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— Uno dei tre ragazzini che sono ancora dentro porta il tuo nome! Chi è tuo figlio?

Non risposi subito. Avevo sperato sino ad allora che mio nipote fosse stato liberato.

— No, è mio nipote! Il figlio di mio fratello! Dov’è mio fratello? Perché non è qui? — dissi.

— Porca miseria! — esclamò il capitano alzandosi in piedi. — Abbiamo dovuto allontanare tuo fratello insieme ai familiari degli altri bambini per motivi di sicurezza. Ma non sono lontano! Appena risolta la questione li faremo venire qui subito.

Si fermò un attimo poi corrugando la fronte disse quasi fra sé e sé: — I tiratori scelti avrebbero già dovuto essere qui! Così la faremo finita! Ho notato che il nostro amico è molto disattento e compare spesso dietro i vetri delle fine-stre della scuola,non dovrebbe essere difficile piazzargli una palla al centro della fronte.

— Capitano anche lui sa che non sono ancora arrivati i tiratori! Vedrete che quando arriveranno sarà più pruden-te! — commentai pensieroso.

La nostra conversazione fu interrotta da un carabiniere che si era avvicinato e aspettava a distanza un cenno del suo superiore per poter parlare.

Non ci fu nessun cenno ma con uno scatto rabbioso il capitano rivolgendogli la parola disse: — Caputo, che vuoi? Spero che tu abbia dei buoni motivi per aver abban-donato il tuo posto!

— Signor capitano c’è un signore che dice di essere il padre del bandito che è chiuso nella scuola e vuol parlar-gli.

— Tu sei di queste parti, lo conosci? — Certo che lo conosco, come lo conoscono tutti… è

don Carmine Galasso! È uno importante! In caserma ab-biamo un dossier su di lui grande quanto un’enciclopedia!

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— Com’è che è ancora in circolazione? — Questo proprio non lo so! È uno dei tanti! — Caputo, che significa è uno dei tanti? Non ti ci met-

tere pure tu! Toglimi questo sant’uomo dalle palle… ma subito. Capito? Subito!

— Capitano Cavallero! Scusatemi se interferisco! Pur-troppo lì dentro c’è mio nipote! Don Carmine Galasso ve-ramente potrebbe dare una mano. Noi non sappiamo inol-tre quanto può controllare il figlio e farlo provare non ci costa nulla.

— Tenente, io farò come vuoi tu perché lì dentro c’è tuo nipote, ma quello che non tollero è che tu metta quel “don” innanzi al nome di un delinquente il cui figlio, di pari caratura se non peggiore, potrebbe stare per uccidere tuo nipote!

Aveva parlato in modo sprezzante. Io per non indispor-lo preferii tacere.

Il carabiniere scelto Caputo incassato il permesso del Capitano si avviò verso la folla che distava circa una cin-quantina di metri. L’ingresso della scuola dove si era rifu-giato don Nicola Galasso era dotato di un portone in legno massiccio le cui ante erano adesso semiaperte. Davanti al-l’edificio si allargava una piazza larga un centinaio di me-tri con la pavimentazione in pietra vulcanica alquanto irre-golare. I tiratori dovevano quindi appostarsi sui tetti dei palazzi che distavano almeno cento metri dall’ingresso della scuola per godere di una posizione frontale.

Lateralmente ogni possibilità di appostamento era im-pedita da grossi platani che superavano in altezza l’edifi-cio dove si era asserragliato don Nicola Galasso. Mentre fra me e me elaboravo queste considerazioni vidi il volto del capitano diventare torvo mentre fissava lo sguardo die-tro le mie spalle. Mi girai anche io e vidi avvicinarsi tre uomini vestiti di nero accompagnati da Caputo che non

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dava assolutamente l’idea di un carabinieri che scortava un pericoloso camorrista anzi sembrava fosse il terzo guarda-spalle nonostante fosse vestito da carabiniere. Camminava alla stessa altezza degli uomini della scorta di don Carmi-ne Galasso e mostrava chiari segni di imbarazzo nell’uma-no inutile tentativo di non suscitare pericolose ostilità nella mente del personaggio che accompagnava e nello stesso tempo evitare pericolosi giudizi sul suo conto da parte del capitano Cavallero. I due uomini che accompagnavano Don Carmine erano i prototipi dei guardaspalle, bassi tar-chiati, vestiti di scuro, cravatte rigorosamente Marinella e scarpe nere a tacco basso e pianta larga. Uno dei due si di-stingueva perché aveva il lobo superiore dell’orecchio ta-gliato di netto.

Al fianco di don Carmine camminava sua figlia Cecilia con gli occhi bassi.

Un fremito mi prese, avevo sperato che Cecilia avesse esaudito il mio desiderio e fosse rimasta a casa. Cercai di incrociare il suo sguardo ma fu tutto inutile.

Il capitano rimase seduto appoggiando i gomiti sugli schienali di due sedie da campo. Intorno a lui stazionavano una quindicina di carabinieri con giubbotti antiproiettili e armi automatiche di vario tipo, sembrava un generale che avesse vinto la battaglia e stesse ricevendo gli ambasciato-ri nemici per contrattare la resa. Quando il gruppetto giun-se di fronte a noi il capitano prima che potessero profferire parola disse con tono aspro e imperioso: — Perquisiteli… tutti… anche la signorina.

Tre carabinieri solerti si avvicinarono e incominciarono il rito della perquisizione. Una poliziotta condusse Cecilia in un camper per una perquisizione più riservata. Alla fine della perquisizione sul tavolo di fronte al capitano c’erano due Pyton 357 magnum trovate addosso agli uomini di don Carmine.

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— Sono armi regolarmente dichiarate e i miei uomini hanno tutti il porto d’armi! — disse don Carmine con voce calma.

— Non ne avevo dubbi Galasso! — Signor Carmine Galasso, prego! — precisò il padre

di Cecilia. Il capitano si alzò in piedi minaccioso. Superava in al-

tezza di parecchie spanne tutti i presenti. Ignorò la puntualizzazione di don Carmine e con voce

metallica disse: — Vai e convinci quell’altro “signore” che si nasconde dietro a dei bambini di uscire con le mani in alto e bene in vista se non vuol rimetterci le penne. Gli conviene obbedire e subito altrimenti prima di mezzo giorno sarà un uomo morto parola del capitano Cavallero. Vai!

La folla al limite della piazza assisteva muta al succe-dersi degli eventi. Il significato di quanto stava accadendo andava molto più lontano dei semplici fatti. Era lo stato di diritto che si giocava la faccia. Se don Carmine fosse riu-scito a risolvere la situazione avrebbe aumentato ulterior-mente il suo carisma. Questo spiegava il particolare nervo-sismo del capitano Cavallero. Don Carmine era una bella figura di uomo. Alto e diritto come un fuso nonostante gli anni, esibiva la tipica eleganza vistosa degli uomini del suo genere. Il volto era per metà coperto da grossi occhiali neri identici a quelli dei suoi guardaspalle. Sorrise e rassi-curò Cecilia con un cenno della mano. Cecilia continuava a fissare le nere pietre vulcaniche della piazza.

— Capitano, fate in modo che mio figlio sappia che io sono qui e che voglio parlargli! Se non avete nulla in con-trario voglio parlargli dinanzi a tutti, — disse don Carmine.

— Attento, Galasso, potresti anche perdere dinanzi a tutti! — disse il capitano con una sottile vena di ironia nel-le parole.

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— È un mio problema! Pensate a fare uscire mio figlio, — rispose don Carmine con voce ferma.

Il capitano fece un cenno e l’altoparlante incominciò a scandire l’invito mentre don Carmine con passo calmo si posizionò a circa venti metri dal portone dell’edificio sco-lastico che aveva sempre le ante semiaperte. Il silenzio era totale.Gli occhi di tutti erano fissi sul portone della scuola.

Finalmente una delle due ante incominciò a muoversi e nel vano del portone comparve la figura di don Nicola Ga-lasso che con la mano destra impugnava la Pyton 357 con la canna da otto pollici e teneva distrattamente la mano si-nistra sulla spalla di mio nipote. S’incamminò lentamente verso don Carmine. Era un uomo alto e per tenere la mano sulla spalla di mio nipote camminava leggermente curvato in avanti.Non sembrava molto preoccupato di proteggersi con il corpo di mio nipote evidentemente aveva capito che non erano ancora arrivati i corpi speciali. Si fermò a circa tre metri dal padre.

— Vieni avanti! — disse don Carmine con tono duro. Il figlio ubbidì docile. Quando fu abbastanza vicino con mossa tanto brusca

quanto inaspettata don Carmine colpì il volto del figlio con uno schiaffo violentissimo. La rotazione del braccio era quella dello schiaffo ma la mano era rimasta chiusa. Era praticamente un pugno portato in modo inusuale. Era chiaro l’intento di don Carmine di far crollare al suolo il figlio ma rimase deluso perché don Nicola indietreggiò so-lo di due passi ma non cadde. Ci aspettavamo tutti una re-azione ma non accadde niente i due uomini muti rimasero l’uno di fronte all’altro poi don Carmine porse al figlio la stessa mano che lo aveva colpito e lui la baciò con rispet-to.Un fremito percorse la folla.

— Da quando un Galasso si nasconde dietro a dei ra-gazzini? Nicola devi assumerti le responsabilità di quello

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che hai fatto. Cosa vuoi ottenere? La solita macchina per fuggire! Ma dove? Dammi la pistola, libera questi ragaz-zini e costituisciti al capitano Cavallero prima che arrivino i tiratori scelti. Tu sei un uomo d’onore non puoi farti spa-rare come un tordo. La morte di gente come noi deve pri-ma di ogni cosa essere un evento pieno di dignità! Dammi quella pistola!

Don Nicola fissava il padre in silenzio. I lineamenti del volto divennero sempre più contratti e serrò con più forza la spalla di mio nipote che emise un gemito di dolore. Poi finalmente disse: — Padre proprio tu parli di onore?

— Io ho sempre vissuto con onore! La mia famiglia è sempre vissuta con onore, — rispose don Carmine con vo-ce alterata. — Tu hai vissuto sempre con onore? Adesso mi stai chiedendo di comportarmi da uomo d’onore? Mi stai chiedendo di seguire i principi che mi hai insegnato e dei quali ti sei fatto negli anni garante nei riguardi di tutti. Tu dici che hai vissuto sempre con onore! Ma è vero? Dici che io adesso sto mettendo un’ipoteca sul tuo onore. Io membro della tua famiglia ti sto infangando tenendo in o-staggio dei ragazzini. L’ipoteca che da anni ha messo tua figlia Cecilia sul tuo onore non conta? Per Dio hai fatto finta e fai finta di non vederla! Tu saresti un uomo d’ono-re? Tu hai permesso, per anni, che tua figlia Cecilia fosse la femmina di uno sbirro e non l’hai uccisa con le tue stes-se mani! Tu saresti un uomo d’onore?

Un vento leggero scompigliò la chioma bianca di don Carmine il di cui volto era diventato cereo.

Si tolse gli occhiali e trafisse a lungo il figlio con uno sguardo. I fatti intimi della prediletta Cecilia esposti in pubblico lo facevano impazzire di rabbia. Quanto il figlio aveva detto era già noto a don Carmine ma sperava che la situazione prendesse con il tempo la piega migliore ossia che io e Cecilia andassimo lontano per costruirci nell’ano-