Case Di Emergenza

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Case di emergenza, Massimiliano Botti

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INDICE

PrefazioneQuella modestia un po’ guerriera Marina Montuori

L’architettura ai tempi dell’emergenzaMassiMiliano Botti

Lo spazio dove non c’èGenny CeleGhini

Macchine intelligentiMario Mento I progetti VeroniCa andreis, Chiara MiCheletti

andrea BorBoni

Carlo Bossini, andrea Parisi

FranCo Candusso, MarCo ForBiti

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anna CaVallari, FederiCa taGlietti

anna Cesenni, niCole Farina GiorGio ChiaPPini, Matteo GiaCoMini luCa enriCo Ferrarini, Maurizio zaPPa Caterina GaGliardi, Marta PaGani, annalisa raiMondi

luCa GandaGlia, Mario toGnoli alBerto Gandossi, Carlo siMoni

silVia MastroleMBo, daniela Pasini

Valeria Pini

Gaia Pirozzi

liCia rizzonelli, steFano sCaroni oMar rosaMilia

JaCoPo saleri, luCa silVestrini

Giuliana sCuderi, sara zanotti

AppendiceUrban Survival: Cubo4 BarBara anGi

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Da Fuller a Fillmore (e ritorno)MassiMiliano Botti

Pre-testoEstratto dal bando di concorso Casa per tuttidella Triennale di Milano

Case di emergenzaManifesto della mostra

Ringraziamenti

Note biografiche

Referenze illustrazioni

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Case di emergenza, mostra. Università degli Studi di Brescia - Facoltà di Ingegneria, maggio 2009

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Ewoks Village, Orlando, Florida

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Prefazione

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Padiglione del Giappone. La Biennale di Venezia, 10a Mostra Internazionale di Architettura

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Quella modestia un po’ guerrieraMarina Montuori

La progettazione di alloggi minimi, essenziali, è una pratica che, di recen-te, risulta sempre più frequentata e approfondita dagli architetti e che ha espresso anche fecondi esiti in molteplici concorsi legati alla necessità di realizzare residenze temporanee sia urbane sia destinate a fronteggiare catastrofi naturali.Migliaia di professionisti hanno posto – e stanno ponendo – al centro della loro ricerca il tema dell’edilizia residenziale “disassemblabile”, mon-tata a secco e al contempo “sostenibile”. Basti ricordare le competizioni che hanno fatto seguito all’uragano di New Orleans bandite nel 2005 da «Architectural Record» con la Tulane University: New Orleans Prototype House Competition e Katrina Design Competition: High-Density on the High-Ground; il concorso internazionale Living Box(1) proposto da edilportale.com, o ancora Casa per tutti, organizzato nel 2007 dalla Triennale di Mila-no. «Dal punto di vista dei modelli abitativi – recitava il bando – si tratta di coniugare il tema dell’abitare difficile delle condizioni metropolitane con l’abitare provvisorio che devono approntare gli organismi di prote-zione civile per situazioni di calamità.»(2)

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14 Marina Montuori

renée lorenz, Architekturbüro [lu:p], Living Box, 2006; 1° premio ex-aequo

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15Prefazione. Quella modestia un po’ guerriera

Questa premessa serve a iniziare un ragionamento sulla massiccia mo-bilitazione di risorse intellettuali all’interno del panorama disciplinare contemporaneo, che non solo apre nuove strade nei settori della pre-fabbricazione, semi-prefabbricazione o addirittura dell’autocostruzione regolamentata, ma si configura anche come una sorta di revival di una ricerca ormai sedimentata, con numerosi e illustri precedenti nel panora-ma architettonico del Ventesimo secolo. L’elenco degli autori di piccoli alloggi prefabbricati o autocostruiti nel Novecento comprende Jean Prouvé, Le Corbusier, Richard Buckminster Fuller, i Radicals, il gruppo Metabolism, Shigeru Ban, fino alle più re-centi elaborazioni minimaliste dei Lot-ek, di Rural Studio, di Lacaton e Vassal, tanto per ricordare i più noti. Una ricerca paziente e probabilmen-te mai decisamente interrotta che sottende una filosofia del progetto le cui radici si rintracciano nel macchinismo delle avanguardie futuriste e costruttiviste, alimentando le utopie di Archigram e passando attraverso i sistemi urbani a obsolescenza programmata. Alla base di queste speri-mentazioni non c’è solo la volontà di provare nuove modalità costruttive o varianti tipologiche, ma principalmente di misurarsi con la messa a pun-to di nuovi sistemi abitativi tesi a esplorare forme di comfort innovative e, nel contempo, minimali che si proclamano addirittura come antesignane

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alessandro Baldo, Living Box, motto “Mokka”, 2006; 1° premio ex-aequo

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di una nuova concezione di “lusso”(3). More with less(4), sistema abitativo prefabbricato progettato da Cibic & Partners, è un esempio italiano che costituisce una vera e propria reifica-zione di questa tendenza. Si inserisce all’interno di un programma dal-l’accattivante titolo Vivere la natura e suggerisce modalità abitative sparta-ne e innovative. Moduli di ridotte dimensioni (a base 4 m x 4 m con 3 m di altezza) possono assemblarsi in configurazioni diverse e adattarsi a usi differenti tanto degli spazi interni che di quelli esterni. Minimalismo e prefabbricazione, ready-made e reinvenzione tecnologi-ca sono certamente istanze alla base di queste micro-architetture, oggetti non “griffati” tesi a inverare il ben noto motto miesiano Less is more o lo slogan coniato da Massimiliano Fuksas, direttore della 7a Mostra Inter-nazionale di Architettura della Biennale di Venezia (2000): Less aesthetics, more ethics. Sono forme ridotte e allo stesso tempo complesse, espressione di una sorta di «orgoglio della modestia»(5) o forse, per meglio dire, di una «modestia un po’ guerriera» di manzoniana memoria. Questa deriva dell’architettura contemporanea che si pone in antitesi con le performance mediatiche cui fa da contraltare sembra, peraltro, voler ribadire la volontà di recuperare istanze costruttive razionali a costi eco-nomici e sociali contenuti. Un monito che emerge anche dall’operazione

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CiBiC & Partners, More with less, sistema abitativo prefabbricato

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sponsorizzata dalla Cassina nel 2006 quando, nei giardini della Triennale di Milano, mise in mostra un remake del Cabanon di Le Corbusier, de-contestualizzato e ridotto a pura icona come esempio di “casa per tutti”: un capanno costruibile (addirittura auto-costruibile) in tempi ridotti con scarsi e poveri mezzi: una sorta di tenda o bungalow da campeggio(6). In realtà il buen retiro sulla Costa Azzurra del Maestro svizzero, il modesto rifugio con annesso “laboratorio”, insieme alle Maisons Loucheur (1929), alle M.A.s. – Maisons montées à sec – (1940) e alle coeve Murondins, rap-presentano alcuni tra i più interessanti progenitori di questa tendenza, esempi ante litteram di quelle microscopiche costruzioni che lo studio Bow Wow chiama Pet Architecture(7). A una prima superficiale osservazione si potrebbe anche pensare che il revival del piccolo e le connesse aspirazioni pauperiste si configurino come legittimazioni del recupero del trash, dell’architettura della favela, che tra-pelano da un’iconologia connotata dalla stringatezza dei disegni e da una sorta di afasia che il materiale povero evoca nell’immaginario collettivo. Furono, infatti, quasi presi da sgomento molti visitatori della Biennale di Venezia del 2008 davanti agli scheletri e ai tralicci di Jean Prouvé(8), recupe-rati e rimontati all’Arsenale che, per altro verso, destavano l’ammirazione dei connaisseur per l’agilità delle membrature, per il carattere innovativo del-

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Pet architecture, Tokyo

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le soluzioni tecnologiche e per la raffinatezza nella declinazione dei nodi.Una serie di ulteriori considerazioni interessanti in proposito si possono leggere nel saggio di Mirko Zardini, dal titolo Un terzo paesaggio per l’archi-tettura. Nelle aree residue dell’architettura contemporanea una miriade di scoper-te, nel quale l’autore punta l’accento sulle possibili modalità di intervento in aree residuali, sottolineando che le molteplici ricerche nel settore del “piccolo” costituiscono «i terreni dove poter sviluppare una biodiversità architettonica che sembrava cancellata dal prevalere di pratiche e immagi-ni consolidate dal marketing architettonico degli ultimi decenni […] Sono progetti tesi alla ricerca di nuove strategie, piuttosto che nuove forme […] una delle caratteristiche è infatti la loro attenzione verso il processo di definizione del progetto stesso»(9). Per inserirsi all’interno delle richieste di mercato, legate solo in parte alle situazioni di emergenza determinate da catastrofi naturali (anche se, soprattutto nel nostro Bel Paese, solo nel-l’ultimo anno i dissesti naturali hanno superato le più pessimistiche pre-visioni), occorre infatti assumere nuove responsabilità sociali pregnanti e ineludibili, riuscire a evitare il rischio della autoreferenzialità ritrovando il senso della forma attraverso la declinazione del dettaglio ed esercitando un rigoroso controllo della coerenza tecnico-costruttiva. Sempre più viene avvertita la necessità di realizzare insediamenti non im-

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le CorBusier, le Cabanon, Roquebrune-Cap Martin, Francia, 1952

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pattanti e temporanei che vanno, come già sopra accennato, dalle dimore per studenti a quelle per senza tetto, per extra comunitari, per rifugiati politici, per nomadi fino a investire il settore turistico nel quale, dopo lo scempio del territorio, si tenta di sperimentare operazioni che possa-no coinvolgere finanche le oasi protette dal W.W.F., progettando oggetti non lesivi a modesta impronta ecologica. Una volontà di “ritorno alle origini”? Una rivalutazione della capanna dell’Abate Laugier? Forse solo la consapevolezza che non tutti possono dedicarsi alle grandi opere. Un messaggio da accogliere per declinare, tra le molteplici derive di ricerca, il tema didattico ideale che non permetta farneticazioni o ispirazioni gratuite. Bisogna infatti far comprendere agli studenti che lo spazio del progetto è uno spazio da guadagnarsi con fati-ca. Bisogna persuaderli che ogni linea va depositata sul foglio pensando, usando la ragione, servendosi delle misure, delle costruzioni geometriche, che i dettagli tecnologici non vanno copiati sperando così di soddisfare le richieste del professore (copiare è difficile e richiede cultura e competen-za, come ricordava Le Corbusier). Nel progetto didattico occorre guarda-re al dettaglio – alla sommatoria dei dettagli – come elemento generatore di una forma non definita a priori, ma ricercata come risultato di un cor-retto connubio tra i materiali e le funzioni che il manufatto deve ospitare.

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le CorBusier, Unità di campeggio, Roquebrune-Cap Martin, Francia, 1952

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Lavorare sull’oggetto-casa, sul prototipo, operare una sorta di studio in vi-tro da compiere in termini puramente sperimentali, permette di liberarsi dalle pastoie di una localizzazione spesso condizionante e di considerare solo la corretta disposizione del manufatto rispetto all’asse eliotermico. Sono questioni queste che consentono di ripensare a nuove forme del-l’abitare su solide basi operative avvalendosi, per quanto possibile, anche di altri contributi disciplinari, quali la fisica tecnica e l’impiantistica, gli studi sulle energie rinnovabili e sull’ambiente. Definita la complessità del lavoro, tracciati i confini disciplinari, il tema della piccola architettura proposto da Massimiliano Botti a studenti del secondo anno del Corso di Laurea specialistica in Ingegneria Edile-Ar-chitettura di Brescia, dotati ancora di modesti mezzi grafici, con un back-ground limitato sul piano delle conoscenze disciplinari, ha comportato ragionamenti su termini quali funzionalismo, razionalismo o minimali-smo oltre ad aver rappresentato una vera e propria sfida intellettuale tesa alla necessità di scardinare preconcetti estetici e aspirazioni formalistiche. Il tutto alla ricerca di nuovi stimoli e di motivazioni appassionanti. Il lavoro prodotto nel corso ha dimostrato peraltro che si può riuscire a radicare negli studenti la convinzione che per fare architettura si può lavorare con “poco”, che non si deve prescindere dalla manualità, che

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Jean ProuVé, Maison tropicale, Congo Brazzaville, 1952. Ricostruzione, 2005

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il modello di studio, il plastico può diventare strumento di controllo morfologico al pari della matita o del computer, ma soprattutto che si può anche vivere in modo essenziale, spartano, in una tenda solidificata, purché pensata con la dovuta coerenza e competenza tecnica. In un momento in cui la progettazione dello spazio abitativo diventa anche progettazione della precarietà si pone, infatti, la questione del riconosci-mento della molteplicità dell’abitare e delle conseguenti diverse interazio-ni che lo spazio è in grado di instaurare con gli elementi con i quali si relaziona. Quando il docente vince il senso di disagio provocato dai primi elaborati sottoposti alla sua analisi, riesce a far superare allo studente gli inevitabili schematismi e a tramutare in “gioco sapiente” un incerto balbet-tio che allude solo superficialmente al procedimento compositivo, atto che permette ai materiali una difficile quanto inevitabile convivenza. Il risultato didattico consiste nell’acquisizione di competenze multiple e talora antagoniste, ma ciò non può avvenire se non si tenta, fin dai primi approcci, di far “amare l’architettura” a questi giovani che spesso pensano alla facoltà che hanno scelto solo come al dominio di aride formule mate-matiche la cui utilità futura devono accettare, quasi fideisticamente, nella speranza che un “un giorno questo dolore gli sarà utile”, come recitava il titolo di un romanzo di Peter Cameron(10).

27Prefazione. Quella modestia un po’ guerriera

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Note

1. «Il concorso, lanciato nel maggio 2006 dalle pagine di www.edilportale.com, ha af-

frontato il tema dell’unità residenziale prefabbricata, una casa-scatola abitabile in for-

ma temporanea o come residenza permanente, capace di unire architettura e design in

uno spazio funzionale limitato ma curato in ogni minimo dettaglio. Due le soluzioni

tipologiche a disposizione dei concorrenti: nella prima il prototipo di Living Box poteva

nascere da un blocco pre-assemblato in fabbrica, realizzato nelle dimensioni massime

di un container in modo da poter essere trasportabile via mare-terra anche su grandi di-

stanze e già pronto per essere abitato; nella seconda tipologia le idee progettuali potevano

sfruttare l’assemblaggio in opera di piccoli elementi prefabbricati, una sorta di casa-kit

realizzabile tramite semplici innesti a secco dei componenti. L’unità modulare poteva

infine essere proposta in modalità singola o aggregata in più esemplari, a formare veri

e propri Living Box Village adatti alla vita di comunità omogenee (ad esempio residenze

per studenti). Questa è la prima competizione mondiale di design per progetti di casa

modulare prefabbricata. Primo posto ex-aequo allo studio tedesco Architekturbüro [lu:p]

e all’italiano Alessandro Baldo. Successo senza precedenti per un concorso di design in-

teramente organizzato sul web. I numeri di Living Box Design Competition: 2.570 progettisti

partecipanti, 1.048 progetti presentati, 6.806 tavole inviate, 12 gigabytes di file trasmessi

via internet, 65 paesi rappresentati, 500.000 visitatori del sito www.livingbox.it in un

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anno.» http://www.edilportale.com/livingbox/comunicatostampa.asp

2. Dal bando di concorso Casa per tutti. Concorso internazionale per la progettazione di un

modulo abitativo d’emergenza, Triennale di Milano 2007, scadenza aprile 2008.

3. Di recuperare il concetto di lusso parlano esplicitamente Frédéric Druot, Anne Laca-

ton e Jean-Philippe Vassal, in Plus. Les grands ensembles de logements. Territoire d’exception.

Etude réalisée pour le Ministère de la Culture et de la Communication, Direction de l’Architec-

ture et du Patrimoine, Parigi 2004, uno studio teso al recupero dell’habitat sociale delle

banlieue francesi. Va ricordato che questi architetti (autori del molto discusso “restauro”

del Palais de Tokyo di Parigi) da circa un decennio sono impegnati in operazioni di in-

tervento minimale che non ambiscono alla permanenza nella storia, ma privilegiano

modalità alternative di uso dello spazio e dei materiali da costruzione.

4. Il sistema prefabbricato More with less, progettato da Aldo Cibic e Tommaso Corà, è

stato prodotto dall’azienda veneta Holiday Home Design ed esposto al Salone interna-

zionale del Mobile di Milano nel 2009. Cfr. Maura PerCoCo, Cibic & Partners. More with

less, «Materia» n. 63, 2009 e www.cibicpartners.com.

5. Espressione che Giuseppe Pagano mutuò da Lionello Venturi per rivalutare lo studio

dell’architettura delle origini contro il monumentalismo fascista.

6. Il Cabanon di Roquebrune-Cap Martin è infatti una sorta di “escrescenza” della attigua

Etoile de mer, la piccola locanda di Rebutato, l’amico per il quale Le Corbusier costruisce

anche una serie di cabanon a schiera: la cosiddetta unità di campeggio. In questa seconda

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accezione il modesto rifugio in legno dimostra quindi anche la possibilità di moltiplicarsi

e aggregarsi così come avviene nei progetti dei concorsi sopra citati.

7. Yoshiharu Tsukamoto e Momoyo Kaijima dello studio Bow Wow definiscono Pet Ar-

chitecture quelle costruzioni di ridottissime dimensioni, bizzarre, sorprendenti, spontanee

che, a Tokyo, occupano spazi di risulta, intercapedini di parti urbane frutto di stratifi-

cazioni diacroniche o fuori controllo, e che vanno a formare una sorta di sottosistema

urbano indipendente.

8. Anche Prouvé è stato glorificato con un remake o, per meglio dire, un restauro filo-

logico. La Maison tropicale (140 m2), antesignana dell’edilizia sostenibile e costruita per

Brazzaville nel 1952 (stessa data del progetto del Cabanon) è stata acquistata nel 2000

da Eric Touchaleaume della Galleria 54 di Parigi. Il prototipo, dopo essere stato messo

in mostra in molte capitali, è stato battuto all’asta da Christie’s a New York il 5 giugno

2007 per 5 milioni di dollari.

9. «Lotus international» n. 130, 2007, pp. 124-129.

10. Peter CaMeron, Un giorno questo dolore ti sarà utile, Adelphi, Milano 2007. È un grazio-

so romanzo di formazione che racconta storie, sarcasmi e malumori di un ragazzo che sta

ai nostri anni come il giovane Holden stava ai suoi. La frase, quasi un enigma nella stesura

del racconto, trova poi una sua liceità: si tratta del motto di una scuola di vela particolar-

mente dura e faticosa alla quale il giovane protagonista si era iscritto.

30 Marina Montuori

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L’architettura ai tempi dell’emergenzaMassimiliano Botti

L’architettura non ha i tempi dell’emergenza. Di solito. Quando affiora porta con sé l’enorme peso della responsabilità, delle conoscenze neces-sarie al progetto. Si muove con grande fatica, serrata com’è tra esigenze contingenti, codici e norme, ambizioni formali, leggi fisiche.Talora si annuncia e subito tradisce le aspettative, avendo attraversato non senza conseguenze il procelloso mare della costruzione, arrivando male in arnese, non conclusa, inconcludente. A volte, e allora è il tempo dell’inaspettata levità, si materializza dimenti-ca delle incrostazioni che l’hanno via via appesantita ed è probabile che lo stupore kahniano (la polvere si posa, il frastuono del cantiere cessa…) costituisca la più sincera ammissione, da parte di un Maestro, del gra-do di imponderabilità che l’effettivo passaggio dal disegno alla cosa vera comporta. Per quanto il progetto sia frutto di studio, risultato di accurate verifiche, prodotto di innumerevoli compromessi e abili scorciatoie. Il progetto allora, pare dirci Kahn, esiste di per sé, fuori dal tempo.Tutto questo, nell’emergenza, non è possibile. Questa attesa, non è pos-sibile. L’emergenza quando è autentica prevede risposte precise e subita-

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34 Massimiliano Botti

Tione degli Abruzzi, 7 aprile 2009

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35L’architettura ai tempi dell’emergenza

nee, saldezza di nervi e prontezza di riflessi. Definire un progetto in condizioni limite (il tempo che non c’è) permette di adottare differenti strategie; la più seguita è l’approdo nel porto sicuro dell’iterazione, nella replica di soluzioni consolidate. La più complessa è la deriva tipologica, il tentativo cioè di investigare nuove possibilità, che diventano credibili proprio perché nascono dall’urgenza. Perché il dare di nuovo un rifugio alla persona permette di considerarla il centro asso-luto del fare architettura, e da questo ri-partire. In questo volume vengono pubblicati alcuni dei progetti elaborati da-gli studenti del corso di Caratteri morfologici, tipologici e distributivi dell’architettura (anno accademico 2007-08) iscritti al secondo anno del Corso di Laurea specialistica a ciclo unico in Ingegneria Edile-Architettu-ra della Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Brescia. Unità residenziali minime di 18 metri quadri da costruire in caso di ca-lamità, naturali o meno. Sono case di emergenza. Comunque case. Nei disegni che qui sono posti in sequenza il tentativo, a volte manifesto, a volte sottinteso, è stato di costruire una dignità dell’abitare che implicas-se il concetto di casa come strumento per riconquistare l’idea di felicità, di serenità. Non l’abitazione come mise en scène di sé o del proprio status né la casa

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36 Massimiliano Botti

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come macchina, ma la casa-utensile, versatile, prensile verrebbe da dire, per ricostruire a partire da essa un seme di società, nei luoghi dove i segni della società – e le sue conquiste – vengono spazzati via. I piccoli edifici che popolano queste pagine sono immaginati razional-mente come il prodotto di assemblaggi di materiali potenzialmente depe-ribili e sostituibili, possono accogliere senza traumi eccessivi ampliamenti e modifiche, possono essere espiantati e ricollocati. Perché lo sviluppo delle aree che escono da eventi traumatici è difficil-mente prevedibile, ma la rinuncia alla rigidità programmatica obbliga ad avere uno sguardo lungo, implica una disponibilità al cambiamento che diventa, essa stessa, programma a lungo termine. Questo aspetto arriva a mettere in discussione una certa fissità insita nel-l’idea di tipo (che appare invece a noi, sulla scorta di quanto sostiene Carlos Martí Arís, fondamentalmente uno strumento operativo) quan-do, a titolo di esempio, in alcuni di questi progetti il sistema micro-di-stributivo muta nel corso della singola giornata utilizzando espedienti che rendono complessa e varia la fruizione degli ambienti, o l’involucro stesso modifica la propria geometria secondo le necessità o, ancora, viene progettato come layer di grande spessore utile per condensare funzioni e spazi serventi.

L’architettura ai tempi dell’emergenza

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alBerto Burri, Cretto, Gibellina, Belice, 1968

Massimiliano Botti

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Nel tentativo non di disegnare la vita degli altri quanto di offrire oppor-tunità perché la vita stessa, duramente provata, torni a prendere il soprav-vento carica delle singolarità che porta con sé. Un esercizio di questa natura permette di investigare aspetti che prescin-dono dalla scala dell’intervento, che hanno a che fare con la costruzione, con la definizione del dettaglio, con il tentativo di controllo dei processi produttivi che permetta la razionalizzazione delle risposte, con la rinun-cia all’ambizione formale, intendendo la figurazione come risultato della sommatoria ben temperata di esigenze altre (l’ornamento che inizia con il giunto…). Un esercizio di questa natura implica una riflessione sul radicamento, perché il punto di partenza prevede l’assenza del luogo – se questi alloggi sono prototipi si presume che possano adattarsi a qualunque condizione climatica, di orientamento, orografica, ecc. – e di conseguenza viene a mancare uno degli appigli a cui, usualmente, il progetto guarda desidero-so di acquisire legittimità. È tuttavia storia nota e recente di come insediamenti a carattere provviso-rio siano divenuti pressoché permanenti; di come, quando questo è acca-duto, siano mutati generando dinamiche sociali e urbane non previste, e tensioni. Anche su questi aspetti si misurano la tenuta di una società e la

L’architettura ai tempi dell’emergenza

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Jed Crystal, Birdhouse One, 2007

Massimiliano Botti

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sua capacità di dare risposte, anche a livello internazionale.Il “luogo” interviene, in questo caso, come elemento non desiderato – si vorrebbe che non ci fosse il tempo per sperimentarlo, il radicamento – e il progetto, questo genere di progetto, deve tenerne conto. Si può arrivare così a definire una strategia architettonica che, per quanto possibile, non si lasci cogliere totalmente impreparata da pieghe inaspet-tate e non volute degli eventi. Un esercizio di questa natura, infine, ha a che fare con l’etica del co-struire, non tanto perché occorre lavorare seriamente secondo gli ormai consueti temi propri della sostenibilità – spesso evocati e altrettanto di frequente disattesi – quanto perché il passo indietro richiesto ai giovani progettisti (non serve l’idea© né il disegno compiaciuto di un oggetto bel-lo come un soprammobile e adatto a ben figurare, realizzato in scala 1:1, come pezzo forte di una mostra) affonda le sue motivazioni nell’assunzio-ne di responsabilità nei confronti di un utente fragile, e ignoto.Senza pietismo, ma senza perdere di vista che questo e non altro è il carat-tere che il progetto dovrà assumere, pena la sua rubricazione nel novero degli esercizi di stile. Pena il perdurare di alternative efficienti (?) e ampia-mente sperimentate (container, prefabbricazione pesante, ecc.). Anche l’aspetto giocoso che alcuni di questi esperimenti in vitro ha as-

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42 Massimiliano Botti

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sunto è in realtà figlio di queste tensioni: la leggerezza in quanto prodot-to della gravità del pensiero, come ci ha insegnato Italo Calvino molti anni fa chiarendo con un apparente paradosso alcuni dei motivi primi che stanno alla base dell’agire nell’atto di modificare consapevolmente il mondo che ci circonda. Quanto di riuscito ci sia, nell’affrontare questi temi da parte degli studen-ti, è lasciato al giudizio di chi si troverà a osservare i disegni qui riprodot-ti. In questa sede si aggiungerà solo che chi si prova – per la prima volta – con l’architettura se non i tempi, i modi di reazione all’emergenza li può trovare semplicemente lavorando con lo stesso criterio con cui ogni progetto dovrebbe essere affrontato: con onestà intellettuale, ostinato ri-gore, senso di responsabilità. E forse, intendendo tutto ciò non come zavorra ma come propellente solido, arrivando con il tempo alla rapidità di esecuzione che è figlia della disciplina, e della pazienza.

L’architettura ai tempi dell’emergenza

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Piena del fiume Po, Borgo Santa Maura, Polesella

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Lo spazio dove non c’èGenny Celeghini

In un articolo intitolato Gli spazi a disposizione dei viaggiatori Giovanni Klaus Koenig scrive dello spazio che deve esserci, all’interno di un va-gone, per garantire al fruitore un viaggio in treno piacevole, vivibile e confortevole. Lo studio si concentra sull’indagine dei comportamenti dei viaggiatori di due diversi tipi di carrozze: a pullman, a scompartimenti. Nel tipo a pullman, annota Koenig, lo spazio a disposizione, detto “raggio di disturbo”, è più esteso rispetto al tipo a scompartimento, e i viaggiatori hanno maggiori contatti tra di loro. Questo raggio di disturbo, o di azione, si lega al modo in cui il viaggiatore si accomoda nella carrozza o nello scompartimento. Alla diversa posizione del viaggiatore corrisponde infatti un differente codice prossemico, e quindi un diverso grado di relazione tra le persone che con-dividono il medesimo tragitto. La prossemica, come studio delle relazioni, anche spaziali, si lega fortemente ai comportamenti sociali dell’uomo. Un ulteriore aspetto relativo alla fruizione degli spazi minimi è quello legato all’ergonomia: sapere come muoversi e dove senza rinunciare a un accettabile livello di comodità.

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46 Genny Celeghini

Case con tetto di paglia, Baracoa, Cuba, 2009

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47Lo spazio dove non c’è

Se pensiamo di confrontarci, come progettisti, con uno spazio ridotto, dobbiamo renderci conto delle possibili relazioni e dimensioni spaziali. Fatte queste premesse e riferendoci al “luogo” inteso, in senso lato, come spazio abitativo, la ricerca e gli studi sugli spazi minimi s’incontrano e si scontrano con questa esigenza: ricavare spazio dove sembra non ve ne sia. Una possibile risposta, nella storia dell’architettura moderna, a questa apparente mancanza di spazio, è data dai noti studi sull’existenz minimum, nei quali Walter Gropius pone l’accento sul fatto che lo spazio dell’allog-gio minimo deve in ogni caso espletare tutte quelle singolari funzioni ne-cessarie all’uomo per uno sviluppo completo e sereno della propria vita. Non si tratta solo di una risposta architettonica, ma di una possibile so-luzione per superare un momento di crisi economica, affrontando il pro-blema dell’alloggio con mezzi, anche costruttivi, essenziali. Merita una riflessione ulteriore il fatto che quel corpus di studi evochi, tra le altre cose, l’esigenza dell’uomo di rifugiarsi in uno spazio ance-strale, ridotto, materno. La capanna nel bosco, l’archetipo, è l’esempio di un’architettura costruita per abitare da qualcuno che sa abitare quel peculiare tipo di spazio. A differenza dei manufatti dell’uomo che, ad esempio, svolgono un’azione ben determinata quale formare luoghi della vita privata o pubblica e costituirne quindi la scena fissa, e partendo dal

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Ex idrovora, Museo regionale della Bonifica, Ca’ Vendramin

Genny Celeghini

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presupposto che non tutti gli edifici possono essere monumenti o chiese, appare utile orientare l’indagine sulla ottimizzazione dell’uso degli spazi, sull’abitare a carattere transitorio. Due aspetti essenziali si legano a questo tipo d’abitazione: il tempo di permanenza dell’uomo e la costruzione secondo una logica che leghi pul-sione etica ed economicità. La costruzione di un edificio, ancora prima della sua effettiva realizza-zione, viene attuata attraverso l’invenzione e il disegno; in questo caso la costruzione deve essere pensata come non stanziale, di facile montaggio e altrettanto semplice rimozione. Non mancano gli esempi: gli innumere-voli progetti di Jean Prouvé per le case coloniali, i prototipi di Le Corbu-sier per le Maisons montées à sec del 1940, ecc. Nei casi più felici si tratta di una vera e propria proposta di tipologia abitativa e non una mera riflessione sulla razionalizzazione dei processi produttivi e sulla standardizzazione degli elementi costruttivi. A proposito della costruzione, Pier Luigi Nervi scriveva: «Come sempre in tutta la mia opera progettistica [sic] ho constatato che i suggerimenti statici interpretati e definiti con paziente opera di ricerca e di proporzio-ni sono le più efficaci fonti di ispirazione architettonica. Per me questa regola è assoluta e senza eccezioni». In questo caso la progettazione perse-

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Begijnhof, Amsterdam

Genny Celeghini

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gue la ricerca di proporzioni attraverso la costruzione stessa. L’architettura dell’abitare transitorio deve tener conto della storia legata alla tradizione costruttiva e alla logica dei materiali del nostro tempo. Nel 1929 Hans Schmidt ipotizzava che l’architetto del futuro un giorno avrebbe cercato di ottenere il massimo delle prestazioni con il minimo di-spendio di energia; di controllare tutte le forze della natura; di utilizzare tutte le risorse umane per la collettività. Considerando il pensiero di Schmidt sul formarsi del sapere tecnico, e riferendoci alle abitazioni minime prodotte in serie, sembra essere chiaro che una logica razionale e la lettura delle esperienze precedenti possano essere i principi per la definizione di una forma e di un fine. In sostanza, si può affermare che la coerenza del progetto si esplicita attraverso la messa a punto di un sistema logico della costruzione, una costruzione enunciata negli schizzi e nei disegni preparatori: un metodo che segue dei principi definiti e che trova la sua attuazione attraverso la realizzazione.Il sistema costruttivo mostra e determina le forme architettoniche, si tra-sforma in costruzione, è reificazione di un progetto che attraverso una tecni-ca data diviene architettura, e pone in atto le figure stesse dell’architettura.Questa architettura, costruibile a scale differenti, diventa in tal modo possibile indagine su “spazi” diversi e variabili, dove il compito della mi-

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Genny CeleGhini, studio sul progetto per gli Alberghi polifunzionali di Ivrea di Cesare Cattaneo

Genny Celeghini

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sura e della proporzione non è quello di enunciare rapporti assoluti, ma consiste soprattutto nel chiarire il rapporto spaziale fra gli uomini e gli elementi architettonici, in questo caso elementi minimi.

Bibliografia

étienne-louis Boullée, Architettura. saggio sull’arte, Einaudi, Torino 2005.

GioVanni Klaus KoeniG, Gli spazi a disposizione dei viaggiatori, «Casabella», n. 406, 1975.

antonio Monestiroli, L’Architettura della realtà, Allemandi, Torino 2004.

Pier luiGi nerVi, scienza o arte del costruire? Caratteristiche e possibilità del cemento armato,

Edizioni della Bussola, Roma 1945.

hans sChMidt, Contributi all’architettura 1924 – 1964, Franco Angeli, Milano 1978.

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Palificazioni sulla spiaggia, Bacino di Arcachon, Francia

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Macchine intelligentiMario Mento

L’architettura intesa come esperienza effimera e dunque transitoria è il ri-sultato, per alcuni aspetti, di riflessioni recenti che tracciano un confine labile tra artificiale e naturale. I temi della a-tettonicità, del costruire a zero cubatura, del playground, della land-art, hanno cercato e cercano di indagare il limite fisico e concettuale tra due ambiti apparentemente antitetici. Nel corso del XX secolo la cultura del “moderno” ha senza dubbio contri-buito a mettere in relazione architettura e natura: da Frank Lloyd Wright ad Alvar Aalto, per citare i precursori, la ricerca è stata indirizzata verso una riscoperta del ruolo della “natura naturale” e delle suggestioni post-romantiche che la dialettica tra le due espressioni poteva suggerire. Tuttavia le esperienze moderniste che ponevano l’accento sui concetti di spazio-volume e tettonica erano lontane dal prevedere contaminazioni formali e figurative, così come sono rintracciabili più tardi, ad esempio, nei Playground di Isamu Noghuci dove, complice l’influenza delle arti fi-gurative negli Stati Uniti degli anni Cinquanta e Sessanta, si fa strada l’idea che il “segno” del paesaggio divenga volume, arrivando a definire una sorta di “bassorilievo” architettonico. Esperienze queste che più tar-

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Strutture per vigneti, Val d’Orcia

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di sconfineranno nella land-art, da Smithson a Christo e Jeanne-Claude, dove il concetto di costruito assume un contorno rarefatto al punto da lasciare il posto al puro segno. Apparentemente di facile comprensione, il concetto di transitorio risul-ta di difficile traslazione se esteso al costruito come comunemente lo si intende. La storia stessa non contribuisce a definire una soglia, un limite chiaro che separi il provvisorio dal definitivo, l’utile dall’effimero.Possiamo ritenere architettura anche l’opera legata all’uso delle risorse naturali: le campagne e le coste marittime in particolare costituiscono paesaggi dove convivono naturale e artificiale, legati da una necessità pri-maria che impedisce la classificazione entro categorie rigide. Tra le diverse possibili architetture “necessarie” (e primitive) forse quelle che più di altre disegnano paesaggi sono le opere destinate alla coltivazione: vigneti, frutteti, ordinati filari di betulle e altro ancora, si distinguono per la loro capacità di mutare, senza apparentemente inciderlo, il territorio. In realtà, anche se si tratta di piccoli e leggeri interventi, le geometrie che compongono (e basate su logiche di stringente concretezza, date dalle pen-denze necessarie allo scorrere delle acque o dalla presenza di venti dominan-ti) assumono un carattere astratto non riscontrabile in natura, rimandando alla percezione di una modificazione latente e sicuramente transitoria.

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Serre, Andalusia, Spagna

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Le recenti esperienze architettoniche, anche sulla scorta di una nuova sensibilità ecologica, tendono a riconoscere un valore alla transitorietà, ovvero a ciò che idealmente non è destinato a durare. Tuttavia occorre comprendere il senso di questa affermazione. L’attenzione nei confronti di un costruito “leggero”, di manufatti com-patibili, è probabilmente anche la conseguenza di un’intensa attività edi-lizia, in particolare negli ultimi dieci, quindici anni nel nostro paese, che progressivamente ha eroso voracemente superficie. Oggetto di questa sottrazione non sono stati tanto i centri urbani quanto le aree periferiche e decentrate del territorio. Rivolgendo uno sguardo alla cosiddetta “provincia”, si assiste all’emersio-ne incontrollata di grandi manufatti, destinati in prevalenza ad attività industriali, artigianali e alla grande distribuzione; panorami di desolata bruttezza e caratterizzati da un unico elemento riconoscibile: l’assenza generalizzata di qualità. Queste amorfe distese di volumi fuori controllo pesano sul nostro vissuto visivo e più o meno inconsciamente spingono verso risposte diverse e alternative. Da qui la ricerca, tra le altre, di un’architettura genericamente definita “sostenibile”. Il problema tuttavia, non è risolvibile se non estende il con-cetto di sostenibilità all’intera pianificazione; l’architettura intesa come

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Vigneti, Val d’Orcia

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episodio infatti, anche se di grande qualità, nulla può rispetto all’assenza di una visione ampia e consapevole del fenomeno. Pensare pertanto a una pianificazione consapevole presuppone prima di tutto conoscenza dei luoghi, delle necessità, delle funzioni, da cui dedurre espressioni del costruito che possano prevedere un carattere transitorio.Forse allora la transitorietà ricercata non risiede in risposte estreme, in co-stosissime macchine capaci di garantire quello che la natura non può dare (ricordiamo per inciso che il “verde” raramente è “verticale”) ma più sem-plicemente “macchine intelligenti”, e una macchina è intelligente quan-do è utile, riparabile, smontabile, implementabile, modificabile, ovvero quando appartiene a un sistema di macchine utili. Non vogliamo qui fare un’apologia della “tecnica” nell’accezione comune quando parliamo di macchine, bensì una difesa della tekhnê. Le Corbu-sier, riferendosi agli anni Venti, nella prefazione alla riedizione del 1958 del suo Vers une Architecture parlava di «anni straordinari, [che] passavano veloci, occupati, da noi, nella ricerca di un’architettura, di un’urbanisti-ca, un quadro di vita, un’etica e un’estetica dell’arte della costruzione». Gli anni in cui viviamo forse non sono così suggestivi, o quantomeno non più animati da quello spirito pionieristico e avventuroso di cui par-lava Le Corbusier, tuttavia ogni epoca ha il proprio esprit noveau.

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Pale eoliche, sud della Spagna

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L’insegnamento dell’architettura, rivolto a studenti del secondo anno di corso, si è mosso anche tenendo conto delle considerazioni sino a qui esposte. Ecco allora che educare alla “tecnica” significa innanzitutto co-noscere, acquisire coscienza e indirizzare le tensioni verso uno “spirito”. Il carattere transitorio dell’architettura è uno dei volti possibili che la stes-sa assume: conoscerlo, ri-conoscerlo e ri-proporlo è stato uno degli impe-gni assunti dal corso nell’anno di studi. Un tentativo di educare all’etica prima ancora che all’estetica, avendo ben chiaro come quest’ultima non possa sopravvivere credibilmente in assenza della prima.

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osCar nieMeyer, Palazzo Mondadori, Segrate, Milano, 1971-75. Viaggio di studio, maggio 2008

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I progetti

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Veronica Andreis - Chiara Micheletti

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Andrea Borboni

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Carlo Bossini - Andrea Parisi

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Franco Candusso - Marco Forbiti

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Anna Cavallari - Federica Taglietti

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Anna Cesenni - Nicole Farina

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Giorgio Chiappini - Matteo Giacomini

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Luca Enrico Ferrarini - Maurizio Zappa

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Caterina Gagliardi - Marta Pagani - Annalisa Raimondi

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Luca Gandaglia - Mario Tognoli

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Alberto Gandossi - Carlo Simoni

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Silvia Mastrolembo - Daniela Pasini

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Valeria Pini

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Menzione “Green Prefab Honorable Selection” nell’ambito del concorso Un’idea per la ricostruzione

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Gaia Pirozzi

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Licia Rizzonelli - Stefano Scaroni

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Omar Rosamilia

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Jacopo Saleri - Luca Silvestrini

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Giuliana Scuderi - Sara Zanotti

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Appendice

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Urban Survival: Cubo4 Barbara Angi

La partecipazione al concorso internazionale Casa per tutti indetto dalla Triennale di Milano nel 2007(1) si basa su di un presupposto ben preciso: i modelli d’intervento finora applicati per gestire l’emergenza abitativa, quali quelli per l’habitat minimo progettato per eventi calamitosi, devono aprire i loro orizzonti verso nuove emergenze legate alle attuali esigenze socia-li ed economiche di una crescente porzione della popolazione mondiale. È indubbio che le metropoli contemporanee presentano sempre maggio-ri forme di contraddizioni logistiche e funzionali. Il libero commercio e l’autonomia nella circolazione individuale segnano la fine del modello urbano basato sulla stanzialità.Attualmente, agli albori del XXI secolo, si determinano scenari metro-politani in cui vengono richieste soluzioni spaziali a carattere nomade, così da rispondere alle esigenze di nuove categorie sociali alla ricerca di soluzioni abitative a tempo determinato(2). Tra le caratteristiche principali dell’evidente assetto globale emerge un grado di mobilità impensabile fino a un recente passato, attribuibile a una classe simbolica costituita da un numero crescente di individui

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che divengono global-trotter(3) per scelta di vita o per destino lavorativo, facendo così emergere realtà urbane transoceaniche quali, ad esempio, Ny–Lon(4). Inoltre il divario tra paesi ricchi e paesi poveri spinge un’altra parte del-l’umanità a intraprendere viaggi della speranza: esodi disperati alla ricer-ca di benessere economico e sociale. Sono, questi, massicci fenomeni migratori che, se in alcuni casi portano nuova linfa e nuova energia alle metropoli, generano dubbi identitari e nuove forme d’isolamento producendo sensazioni generalizzate di cre-scente insicurezza, sottolineando i numerosi punti dolenti dell’instabile rapporto tra la città dernier cri e i suoi abitanti(5). Proporre un modello di sviluppo urbano dinamico significa, in prima istanza, considerare il movimento continuo di masse socialmente mobili come un’invariante del progetto architettonico e urbano. Questo compor-ta la predisposizione di assetti edilizi continuamente variabili al mutare incessante delle esigenze degli abitanti. Non basta quindi più far fronte agli eventi con una politica edilizia, eco-nomica e sociale tendente a identificare modelli decisionali a piramide; è necessario bensì predisporre processi di crescita urbana che si realizzano per mezzo di «strumenti edilizi democratici»(6) costituiti da componenti

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costruttivi duttili e versatili facilmente montabili e ricomponibili dagli utenti stessi o con l’ausilio minimo di assistenza specializzata.La strategia Cubo4 auspica uno scenario urbano evolutivo in stretta relazione con le metamorfosi sociali in atto. In essa la casa non si conforma intorno ad apparati rigidi e inalterabili ma si trasforma in funzione alle necessità, difficilmente prevedibili, e costantemente temporanee dell’utenza. Cubo4 è attuabile indifferentemente in qualsiasi contesto: in zone cicatri-ziali tra la città storica e quella diffusa, in territori liberati(7), tra le rovine di conglomerati urbani afflitti da calamità naturali; attuando di volta in volta scenari edilizi a densità variabile: alta, media o bassa oppure seguen-do le dinamiche di cutting (and slip)(8). Cubo4 prefigura pratiche abitative in continuo divenire. Partendo dalla modularità dimensionale minima strategicamente mutuata dai sistemi logistici internazionali(9), costituisce ambienti vivibili altamente specia-lizzati e diversamente componibili. L’utilizzo di moduli tridimensionali attrezzati ha come obiettivo principale quello di velocizzare il processo di allestimento dell’insediamento e di ripristino delle condizioni di parten-za dell’area scelta. Cubo4 utilizza un sistema costruttivo costituito da una gabbia di elementi in alluminio alla quale possono essere agganciate pannellature di colora-

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zioni diverse scelte dall’utenza, così da rendere ogni modulo personaliz-zabile e adattabile al modello di vita del fruitore. Il sistema di isolamento dell’elemento è costituito da una miscela di fibre corte, medie e lunghe di canapa e di kenaf. L’elemento base inoltre può essere ulteriormente arricchito dal montag-gio di una facciata ad assetto variabile, trasformabile in poggiolo grazie all’utilizzo di un sistema di cerniere atte a consentire una serie di ribalta-menti a catena. L’aggancio tra i diversi moduli abitabili avviene tramite chiusure in allu-minio a pressione facilmente utilizzabili data la semplicità del meccani-smo, realizzabili semplicemente sfruttando il know-how tecnico proprio del comune scarpone da sci. Grazie alla scelta di questo sistema, i moduli risultano liberamente ag-gregabili in orizzontale potendo predisporre numerose soluzioni spaziali ulteriormente arricchite dalla presenza di un blocco ad apertura telesco-pica che permette l’assemblaggio multiplo degli elementi. Lo sviluppo in verticale invece richiede l’utilizzo di strutture di supporto alle quali è possibile appoggiare le diverse unità composte dall’assemblaggio dei singoli blocchi. Cubo4 affronta simultaneamente i problemi afferenti alle diverse scale di

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progetto (territoriale, architettonica, di dettaglio costruttivo). Il risultato finale è definibile solamente se si considerano i rapporti che si innescano tra i manufatti coinvolti: i moduli base, i dispositivi attivi e passivi per il contenimento dei consumi energetici (pannelli solari, fotovoltaici, serra solare) e le strutture di supporto. Ciascuno di essi vive una vita propria, ma assume valenze diverse in fasi temporali diverse. Cubo4 è un variare continuo di ruoli e funzioni tra le quali anche i diversi assetti che l’organismo edilizio deve predisporre in relazione ai regimi estivi o invernali, ipotizzando comunque un sistema energetico a isola. Questo funzionamento prevede la realizzazione di una rete locale auto-sufficiente e autonoma almeno per un tempo assegnato, che presenterà un punto di produzione: un serbatoio per gli impianti idraulici e, per le fognature, un depuratore prefabbricato dimensionato per il numero di abitanti previsti, grazie al quale i liquami prodotti potranno essere riuti-lizzati a fini agricoli. Per la distribuzione elettrica bisognerà utilizzare dispositivi attivi quali pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua sanitaria e pannelli foto-voltaici per la produzione di energia. La partecipazione al concorso Casa per tutti si è rivelata un utile strumen-

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to di verifica tipologica e tecnologica nonché di sperimentazione di nuo-vi impianti insediativi mutanti. La riflessione progettuale ha proceduto in sintonia con quello che Andrea Branzi definisce «uno stato di crisi permanente» dal quale è sempre possibile trovare soluzioni innovative, talvolta banali, in certe circostanze inaspettate, ma di certo necessarie per il ripensamento di un settore disciplinare dallo statuto scientifico debole e a evidente rischio di estinzione.

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Note

1. Partecipai come capogruppo in collaborazione con Lionella Biancon e Andrea Vincenzi.

2. Lo slogan del Movimento Moderno casa come macchina per abitare sembra cedere il

posto a una sempre più impellente necessità di abitare la macchina.

3. Sono i pendolari a lungo raggio del terzo millennio che fanno la spola tra due me-

tropoli o più. Una comunità che traina l’economia globale, accumula miglia da frequent

flyer e viene monitorata congiuntamente dai dipartimenti di sociologia della New York

University e della London School of Economics.

4. L’origine del termine “nylon” – materiale inventato nel 1935 dall’azienda chimica

americana Dupont – è il frutto di un’audace provocazione: un elemento talmente ela-

stico da poter essere tirato da New York a Londra senza rompersi, da cui l’acronimo NY

(New York)-LON (London). Settant’anni dopo il concetto di NyLon ha abbattuto i con-

fini della chimica, diventando un asse portante della vita metropolitana nell’epoca della

globalizzazione. Oggi sulla tratta New York-Londra si muovono assiduamente persone e

idee, rendendola la spina dorsale del mondo occidentale.

5. In particolare nelle città europee un dato cruciale è rappresentato dalla differenza tra

il numero degli abitanti residenti e il numero dei city user, soggetti liberi da ogni legame

organizzativo, bisognosi di nuove forme di auto-organizzazione. Questo fenomeno ha

prodotto la crescita esplosiva delle bidonville, uno dei drammi geopolitici del nostro tem-

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po, rimarcando ancora una volta la sconfitta del modello urbano consolidato e facendo

riaffiorare, come sottolinea De Certeau, «quello che il progetto urbanistico escludeva».

6. santiaGo CiruGeda, situaciones Urbanas, Tenov, Barcellona 2007.

7. In tali aree è indubbia la nascita di inaspettati fenomeni di coesione sociale di una

moltitudine in continuo movimento. Questa massa dinamica in fuga perenne, non rico-

noscendosi nello spazio urbano consolidato della metropoli contemporanea, ha cercato

di modificarlo con operazioni reversibili e in costante evoluzione. Le realtà dei centri

sociali, delle cosiddette Temporany Autonomy Zone (TAZ), sono divenute attualmente,

e paradossalmente, fenomeni stabili che danno voce a un dissenso generalizzato ma

organizzato, operazioni consolidate per la gestione di territori “in emergenza”, ma co-

munque inseriti all’interno del sistema urbano. Le realtà altre sorgono spontaneamente

in aree a perdere: tra i binari ferroviari, tra i viadotti autostradali, lungo le rive dei fiumi,

a ridosso di stazioni ferroviarie e aeroportuali o all’interno di complessi industriali di-

smessi in attesa delle tanto auspicate riconversioni. In questi tipi di insediamento, molto

spesso, l’unico stile di vita possibile è la sopravvivenza. Modalità di surviving in condi-

zioni urbane estreme in territori analfabeti dove l’unico elemento di unione tra la mol-

titudine in fuga e il popolo stanziale sembra essere la diffidenza e l’intolleranza. In tali

ambiti l’abitazione diventa tana: rifugio temporaneo dotato, talora, di tutti i comfort

dell’era informatica.

8. «Tagliare e infilare sono operazioni di innesto, di ibridazione che consistono, fonda-

149Appendice. Urban Survival: Cubo4

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mentalmente, in una interazione che collega una struttura dal supporto flessibile con

l’accoppiamento – o l’assemblaggio – di un’altra ipotetica struttura inserita in essa. La

struttura di sostegno nutre questi nuovi innesti i quali a loro volta apportano migliora-

menti alla condizione iniziale. Questo è, allora, un’alleanza, un beneficio – virtualmen-

te – reversibile, un contratto precario (gli inserti possono essere sostituiti senza altera-

re l’organismo principale) implicito in ogni ibrido presente in natura. Un contratto,

concordato e diverso, di esperienze individuali, piuttosto che formato da un singola – e

coesiva – intesa di collettive esperienze. Perché nell’ibrida miscela o innesto, ogni parte

mantiene la propria individualità, è come una parte dell’altro e d’un tratto collettore e

multiplo» [t.d.a.]. Manuel Gausa, VinCente Guallart, Willy Müller, FederiCo soria-

no, Ferdinando Porras, José Morales, The Metapolis: dictionary of advanced architecture,

Actar, Barcellona 2003.

9. L’elemento container è così trasformato in modulo abitativo agendo su due linee

preferenziali: miglioramento delle prestazioni energetiche e riqualificazione delle carat-

teristiche spaziali.

150 Barbara Angi

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151Appendice. Urban Survival: Cubo4

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Fillmore the Van, riproduzione amatoriale al vero

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Da Fuller a Fillmore (e ritorno)Massimiliano Botti

John Lasseter è, probabilmente, il Floyd Gottfredson del nostro tempo. Gottfredson, dal 1928 tra gli autori della casa di produzione di Walt Disney, disegnava l’America semi-rurale e annichilita dalla Grande De-pressione che costituiva il primo, dimenticato sfondo delle avventure di Mickey Mouse, allora una sorta di teppistello assai lontano dall’immagi-ne che oggi ci sorride da innumerevoli poster e schermi. Mickey Mouse Boxing Champion, storia del 1931 nella quale il topo con i pantaloni corti si batte contro il gigantesco pugile Creamo Catnera, è una vicenda il cui fondale è costituito da strade sterrate e baracche, pove-re costruzioni di fortuna perfettamente riprodotte: disegnate da qualcu-no che sapeva esattamente cosa stava traducendo nella necessaria sintesi visiva di una striscia domenicale a fumetti. Lasseter agisce nello stesso modo. Quando inventa Fillmore, il furgone hippie tra i protagonisti del film di animazione digitale Cars del 2006, e il suo Taste-In (una mescita e rivendita di bio-carburante) sceglie tra tutti i tipi possibili di ricovero una Geodesic Dome di Buckminster Fuller. E la riproduce con maniacale esattezza.

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Pontiac Bonneville special experimental sports car, GM Motorama, 1954

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Questo ci propone diversi promettenti inneschi, ma ne sceglieremo in questa sede solo due: quando si disegna occorre sapere cosa si sta fa-cendo, occorre cioè che il nostro segno sia consapevole e informato: in una parola, colto. E ancora: Lasseter fissa qualcosa che nella storiografia ufficiale e nell’immaginario statunitense era sedimentato, e lo fa con la forza ineludibile di un’opera che è anche prodotto di consumo e come tale deve comunicare a un pubblico ampio: l’esperienza di Fuller è così inesorabilmente inchiodata a un passato al quale guardare sorridendo, paternalisticamente. Un passato fatto anche di propositiva generosità, e di speranza. Buckminster Fuller e le sue invenzioni tipologiche (o meglio, i suoi bre-vetti: Dymaxion House, Wichita House, Geodesic Dome, ecc.) rappre-sentavano quanto di più avanzato all’epoca si potesse preconizzare e sono state confinate, come altre esperienze coeve, in un paleo-futuro popolato di automobili ultra-areodinamiche che non hanno mai viaggiato, capsule abitative rimaste vuote, ecc. Per dirla in altri termini, meno eleganti: le case nomadiche di Fuller sono le case del futuro, e sempre lo saranno.Se guardiamo alle numerose abitazioni geodetiche che nel corso degli anni sono state costruite in Nord America e altrove da seguaci di Buck-

Appendice. Da Fuller a Fillmore (e ritorno)

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Casa geodetica rivisitata

Massimiliano Botti

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minster Fuller, ci accorgiamo che poco hanno a che fare con il brevetto originale e si sono mascherate da villette suburbane, costituendo un mi-sterioso ibrido che fonde stanzialità e backyard con temporaneità e spazi liberi. Fuller agiva e pensava in periodi di fortissima crisi sociale ed eco-nomica (i suoi primi brevetti si collocano tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta del Novecento) e il suo posare lieve sul terreno unità abitative diventava l’epitome di una condizione di provvisorietà in cui la crisi stessa era probabilmente vista come somma di opportunità. Tuttavia, il mito della frontiera mobile per esistere ha bisogno di spazi ancora ignoti e, nel nostro mondo parimenti in crisi ma in cui i vuoti si riducono progressivamente, la colonizzazione insita nei programmi di Fuller appare possibile solo negli spazi lasciati liberi, ignorati da un’oc-cupazione edilizia del suolo che ricorre ad altre ben diverse strategie, di consumo. Una sorta di Dunkerque architettonica in cui i margini di ma-novra disciplinari si riducono per la difficoltà (impossibilità?) di incidere positivamente sul territorio. Fuller, proto-ecologista, dotato di una personale visione, integro e coe-rente (lui appena poté costruì per la sua famiglia una casa geodetica speri-mentando su di sé la tenuta delle proprie idee), ragionava poeticamente sulla libertà di un mondo in cui fosse possibile costruirsi un riparo e

Appendice. Da Fuller a Fillmore (e ritorno)

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riChard BuCKMinster Fuller, Geodesic Dome, 1951

Massimiliano Botti

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ricominciare, e lo faceva mettendo a punto sistemi geometrici pervasivi, che tendevano fatalmente a ripetere l’eguale fomentando un conflitto perenne con i modi dell’abitare comunemente intesi. Fuller nel suo ri-proporre la cupola pare infatti ogni volta dimentico della reale efficacia del tipo spaziale che ha scelto. La calotta sferica entra in collisione con la suddivisione funzionale della casa d’abitazione unifami-liare statunitense con cui pur deve misurarsi e questo apre un problema al quale è complesso dare una soluzione coerente: abitare una porzione di sfera così concepita implica la ridefinizione di tutto ciò che fa parte dell’idea di comfort domestico – e che Fuller stesso non rinnega – e obbliga al ridisegno e alla produzione ex-novo di ogni cosa, dalla cucina al più semplice scaffale diminuendo i gradi di libertà che la nuova casa dovrebbe al contrario garantire. Per tacere della qualità degli spazi che si vengono a formare quando, piaccia o no, l’involucro cavo necessita di una seppur parziale suddivisione interna. Forse il limite è questo: l’invenzione è legata alla natura dell’involucro, ma non comporta un reale rinnovamento del tipo. Anche alla sfera Ful-ler arriva (con la Fabbrica automatica per la filatura del cotone del 1951 e con il Padiglione U.S.A. all’Expo di Montreal del 1967) scegliendo di posizionare piani flottanti al suo interno, connessi da scale mobili, che

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riChard BuCKMinster Fuller, Padiglione U.s.A., Montreal, 1967. Stato attuale

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programmaticamente non toccano i limiti della bolla nella quale sono sospesi. Ancora una volta il geode si fa ambito spaziale metaforico che è prima di tutto abito mentale, mentre l’edificazione al suo interno, ben-ché spettacolare nella forma, ricorre a trouvailles ben inserite nell’ortodos-sia del Movimento Moderno per risolvere problemi consueti (spostarsi, vedere, sostare, ecc.). Se è così che senso ha, allora, parlare ancora di Fuller? Per sua fortuna (e nostra) non tutto si riduce al ridisegno di una cupola, ché allora avrem-mo quasi finito perché una volta fissato con esattezza il partito strutturale non ci resterà che ripeterlo variando dimensioni e portate, come peraltro Fuller non ebbe difficoltà a fare costruendo con successo crescente in-volucri di luce libera sempre più impegnativa. Né si limita al problema, squisitamente compositivo e quindi solo relativamente interessante, di come piegare un’unità abitativa alla tirannia del cerchio (Wichita House) o della calotta sferica (Geodesic Dome). Quello che ci interessa è chiarire la portata eversiva di un messaggio che la nostra società ha semplicemente rimosso e che rappresenta il cardine dell’intera vita progettuale di Richard Buckminster Fuller: l’occupazione razionale dello spazio è un atto politico, che presuppone un’etica diri-mente.

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louis i. Kahn, Richards Medical Research Laboratories, Philadelphia, 1957

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Se confrontiamo gli standard dimensionali abitativi italiani con quelli presenti anche solo nell’ambito dell’Unione europea ci accorgiamo di come questi nostri siano tra i più generosi. Standard fissati ad aeternum a partire dagli anni Cinquanta in un periodo, giova ricordarlo, di sviluppo impetuoso, che parlano oggi di una società la quale tende a vivere al di sopra dei propri mezzi. Ricordare, anche nella nostra realtà, la lezione di Fuller (termine che probabilmente non avrebbe condiviso) significa lavorare sulla standar-dizzazione ben temperata degli elementi costruttivi, sull’uso dello spa-zio – anche interno alle abitazioni – che permetta variazioni, che non implichi un solo percorso per arrivare a una specifica unità funzionale, significa immaginare modi di aggregazione che possano, per progressi-vi e lenti aggiustamenti, donare un nuovo senso allo stare in un luogo. Interpretandolo con un atteggiamento di tesa leggerezza che molto ha a che fare con la gravitas e poco con il pondus (i due termini che la lingua latina, molto più esatta della nostra, utilizzava per parlare di “peso”) e che implica determinazione e serietà. E intendendo la leggerezza, anche, come tentativo di diminuzione del peso dell’abitare su quello che chiamiamo “ambiente” lavorando per diminuire le tracce del nostro stare. Con un atteggiamento opposto al-

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Diga del Vajont, Longarone

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l’inconfessabile esigenza dell’uomo di lasciare testimonianza del proprio operato attraverso le opere e la fisicità. Al contrario giudicando oppor-tuno, quando è il momento, alzarsi e andare via rendendo la nostra im-pronta trascurabile.Non si tratta con questo di preconizzare una nuova società di abitanti di villaggi transitori costituiti da versioni cheap dei bungalow turistici, né di preparare fughe in avanti usando la propria abitazione come micro-ma-nifesto di una religio nei confronti della natura che si vorrebbe “inconta-minata” nonostante noi (drop cities, ecc. ché altrimenti terremmo compa-gnia al dolce Fillmore) ma di ragionare qui e ora sui termini di riflessione che il dibattito architettonico e la professione prevedono.Usando l’uno come l’onda (non più grosstadt ma mainstream) su cui il sur-fista-architetto rischia del suo, e l’altra per iniziare una lenta modificazio-ne di luoghi comuni sclerotizzati a partire da quanto di più immutabile pare esistere: l’abitare nella sua accezione corrente. La costruzione leggera, talora in addizione, sbilenca, come motore delle opportunità. Come apparentemente innocuo caso di studio che permet-terà, con grande sorpresa nostra, di riversare un atteggiamento di atten-zione (al dettaglio, alla tolleranza, alla consequenzialità delle azioni che è viatico per la non-arbitrarietà) nel progetto, a prescindere dalla sua scala.

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Mattias adolFsson, Villa Rotunda

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Infine, come lavoro di indagine sul tipo.Studiare Buckminster Fuller non comporta appropriarsi di una forma (molti furono sedotti dalle sue geometrie e si misurarono con esse, senza peraltro ricavare granché) ma cogliere il senso profondo del suo agire. L’esattezza del costruire, la leggerezza che eviti di marchiare il suolo («sia-mo solo di passaggio» ricorderà il Presidente J. F. Kennedy nel 1962, dopo la crisi di Cuba), la consapevolezza che lo spazio è prezioso e come tale va organizzato con intelligenza e lungimiranza sono tra gli insegna-menti che possono tornare a essere utili. Naturalmente non si tratta di trovare posto a ogni cosa e di fare in modo che ogni cosa sia al suo posto (una sorta di funzionalismo ingenuo, quella “libertà che blocca” nell’accezione koolhaasiana secondo cui anche la casa Schroeder di Gerrit Rietveld appare, «con un po’ di cattiva volontà», come «la più sublimata versione di una roulotte di zingari») ma di proporre una strategia d’uso dello spazio costruendo ragionevoli opportunità che l’uten-te potrà cogliere o meno a seconda del suo proprio modo di vita. Attraverso la modularità delle soluzioni costruttive, il posizionamento di determinati elementi strutturali e impiantistici (un impianto finalmente disegnato e non subìto), attraverso l’uso di parti di arredo integrate al-l’abitazione come moltiplicatori di possibilità spaziali, allo scopo ultimo

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Fernand Pouillon, Résidence salmson Le Point du Jour, Boulogne-Billancourt, 1957-63

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di fare sì che la casa – perché infine di casa si parla – possa suggerire alternative. Tutte le abitazioni più riuscite di Fuller infatti, che risolvano o meno le questioni legate all’incompatibilità della produzione corrente con le geometrie ultimative che ne sono alla base, lasciano in noi questa idea di non-finito, di quasi giusto. Paiono assicurarci che esiste sempre la possibilità di aggiungere o fare in modo diverso, ben sapendo che non di mancate decisioni si tratta ma del dono prezioso e discreto del progettista al suo deuteragonista ultimo: il committente, senza il quale nulla è dato.

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Pre-testo

Lo scritto che segue è un estratto del bando di concorso promosso dalla Triennale di Milano intitolato Casa per tutti - Concorso internazionale per la progettazione di un modulo abitativo d’emergenza. Questo ha costituito il pre-testo per una prima riflessione su tipo, progetto e costruzione che si è svolta nell’ambito del laboratorio di Caratteri morfologici, tipologici e distributivi del-l’architettura del secondo anno del Corso di Laurea specialistica a ciclo unico in Ingegneria Edile-Architettura presso la Facoltà di Ingegneria di Brescia, anno accademico 2007-2008. Gli elaborati qui pubblicati, che costituiscono una selezione dei contributi prodotti in sede d’esame dalla totalità dei partecipanti al laboratorio e che sono stati esposti in mostra presso la Facoltà di Ingegneria di Brescia nel mese di maggio 2009, rappresentano l’esito di questa riflessione.

Bando di concorso1. PremessaLa Triennale di Milano organizzerà da maggio a settembre 2008 la mostra sul tema dell’abitare Casa per tutti. In quest’ambito e in coerenza con la pro-pria tradizione, la Triennale bandisce un concorso pubblico internazionale

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finalizzato alla selezione di una serie di progetti di moduli abitabili adatti a rispondere ai temi posti dalle emergenze abitative delle aree metropolitane e delle aree colpite da improvvisa calamità, da esporre accanto alle sezioni dedicate alla documentazione delle ricerche sul tema dell’abitare, condotte dalla cultura architettonica nel corso del Novecento e nella contemporanei-tà. Il concorso è aperto alla partecipazione di tutti i soggetti in possesso dei requisiti di cui al presente bando.2. Ente PromotoreIl concorso Casa per tutti è indetto dalla Fondazione Triennale di Milano, nell’ambito delle iniziative di Triennale Architettura, curate dal Prof. Fulvio Irace, responsabile scientifico settore Architettura e territorio. Il concorso gode, inoltre, del patrocinio del Politecnico di Milano che assicura altresì un sostegno scientifico all’iniziativa.3. Tema e obiettivi specifici del concorsoIl concorso mira a promuovere la ricerca sulla casa per l’emergenza. Ha lo scopo di raccogliere e mettere a confronto progetti per un diverso modello costruttivo, sociale ed economico dell’abitazione e degli insediamenti, de-stinato a rispondere ai problemi posti dalle emergenze abitative delle aree metropolitane e delle aree colpite da calamità naturali e da eventi catastrofici imprevedibili. Il riproporsi nei paesi occidentali dell’emergenza abitativa, in-

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sieme al diffondersi del fenomeno dei senza-casa, alimentato da una progres-siva espansione della marginalità sociale e dalla crescita dei processi migratori conseguenti alla fuga in massa da condizioni di povertà estrema, giustificano l’opportunità di affrontare l’emergenza dell’abitare difficile delle grandi città insieme al tema dell’abitare necessario per fare fronte alle calamità naturali (terremoti, alluvioni, ecc.) e agli eventi catastrofici imprevedibili.Anche se si tratta di situazioni molto diverse, i problemi abitativi delle ca-tegorie sociali in difficoltà grave sono analoghi e possono trovare soluzione soltanto nell’ambito di politiche indirizzate a esse in modo specifico. Rispet-to alle correnti rigidità della produzione abitativa, potrebbe risultare ricca di opportunità una svolta radicale che si proponga di mettere a fuoco un nuovo modello costruttivo sociale ed economico della casa e degli insediamenti.Un modello costruttivo che permetta così di realizzare case articolate in mo-duli tridimensionali o per componenti assemblabili a secco, realizzabili se-rialmente, leggeri e mobili, che possano essere aggregati in modo da ottenere alloggi di tagli e dimensioni diverse, componibili verticalmente e orizzontal-mente dove servono, facilmente montabili e smontabili, trasportabili e con-servabili in deposito per nuovi utilizzi.Dal punto di vista dei modelli abitativi si tratta di coniugare insieme il tema dell’abitare difficile delle condizioni metropolitane con l’abitare provvisorio

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che devono approntare gli organismi di protezione civile per situazioni di calamità. Cioè di provare a identificare, progettare e realizzare moduli abi-tativi facilmente disponibili al manifestarsi dello stato di necessità, adatti al-l’abitare temporaneo e per tempi prolungati, sia di quanti sono colpiti da improvvisa e imprevedibile calamità, sia di coloro che sono senza fissa dimo-ra, rom in transito o stanziali ma anche studenti, immigrati e lavoratori in mobilità, che nell’attuale contingenza propongono problematiche caratteriz-zate da forti condizioni di analogia. I moduli abitativi da progettare devono essere caratterizzati da elevata flessibilità, adatti a rispondere ai diversi profili di un’utenza varia e quindi disponibili ad attivare processi di precisazione e articolazione di spazi, misure, impianti e finiture che potrebbero essere gestiti anche direttamente da parte degli abitanti, secondo una gamma discreta di soluzioni compatibili. Moduli che non diano luogo a case anonime, ma che viceversa possano essere rese individuali e quindi riconoscibili, cioè disponi-bili ad adattarsi per permettere di accentuare nel microcosmo la rispondenza al personale modello di vita. In breve, moduli che contribuiscano a indagare i paradigmi della dignità dell’abitare da garantire a tutti anche nelle situazio-ni transitorie e di breve periodo.4 . Dati generali di progettoIl progetto deve mirare a identificare i connotati tipologici, morfologici e

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tecnologici di un modulo flessibile in grado di adattarsi facilmente alle diver-se necessità dell’abitare e altrettanto in grado di relazionarsi con i paesaggi naturali e costruiti. È facoltà dei concorrenti evidenziare una particolare vocazione del modulo progettato e gli eventuali casi particolari in cui in modo privilegiato può esse-re utilizzato. Conforme ai criteri della sostenibilità, il modulo deve essere ad alto rendimento energetico, ecologico e integrabile nelle reti; particolarmen-te curato per contribuire all’efficienza ambientale complessiva (in termini di uso del suolo, impatto ambientale, utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, ecc.) e di costo contenuto grazie all’uso di processi di costruzione seriali che potranno essere mutuati anche da tecniche di intervento e di prodotto di settori diversi da quello delle costruzioni residenziali. I moduli, che in linea generale devono rispettare le normative vigenti nel paese d’origine dei con-correnti, se ne potranno discostare solo per particolari aspetti che gli stessi concorrenti cureranno di evidenziare e motivare. Essi dovranno comunque attenersi ai seguenti dati di progetto: a) la superficie massima netta del modulo base, unità abitabile minima, deve essere di mq 18. Potrà essere una superficie unitaria o articolata in ambienti specifici, ma dovrà comunque contenere gli arredi fissi e/o mobili occorrenti per lo svolgimento delle attività domestiche di una persona (in particolare

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per la cura del corpo: wc, bidet, lavandino, doccia; e per la preparazione dei pasti: lavello, piano cottura, frigorifero, piano di lavoro e contenitori anche pensili, che insieme agli armadi possono essere previsti come parte integran-te dei componenti della costruzione); b) per dimostrare la flessibilità deve essere sviluppata una ragionevole gamma di alternative d’uso dello spazio interno del modulo proposto;c) deve essere dimostrata la possibilità di espansione e/o di aggregazione oriz-zontale e verticale del modulo base per formare unità abitative di dimensioni maggiori e per formare organismi edilizi: l’aggregazione dei moduli in corpi edilizi deve sperimentare articolazioni funzionali adatte a valorizzare in modo differenziato le diverse quote degli edifici;d) la composizione dei moduli in edifici deve consentire che disposizione e orien-tamento possano favorire il massimo sfruttamento delle energie rinnovabili;e) la composizione in complessi insediativi deve dimostrare come i modu-li possono permettere di realizzare i modelli a medio-bassa densità e quelli ad alta densità più propriamente urbani, con particolare attenzione al verde (anche di orti, riferiti alle unità abitative, per svago e “autoconsumo”) e alla frammistione con spazi per attività lavorative compatibili, sia artigianali che terziarie.

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RINgRAzIAMENTI

Grazie a Marina Montuori per la generosità, il serrato e appassionante con-fronto sulle questioni della didattica e l’indispensabile appoggio dato a que-sto volume. A Barbara Angi per gli utili suggerimenti e la disponibilità alla condivisione di temi, materiali e riflessioni. A Genny Celeghini e Mario Mento, amici e sodali nella complessa pratica della maieutica, per l’appropriatezza ed efficacia degli interventi.A Silvia, Lorenzo e Laura per infiniti personalissimi motivi.A tutti gli studenti che hanno reso, con entusiasmo, partecipazione e impe-gno davvero encomiabili, l’esperienza del laboratorio un ininterrotto dialogo sui molteplici temi che la progettazione implica, indipendentemente dalla scala d’intervento che ci si trovi ad affrontare.

Mi scuso con coloro che non compaiono in questa pubblicazione e che cito qui di seguito: Orjana Alizoti, Simone Bassani, Claudia Buffoli, Davide Campo, Emilia Ca-taldo, Marta Cordioli, Federico Corona, Katia Corradi, Alessandra Crescini, Alessia Crisafi, Pierangelo Cristini, Michela Cucchi, Gian Paolo Costantino

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Della Nave, Maurizio Do’, Caterina Festa, Ludovico Filippini, Stefano Gatta, Claudio Ghidini, Federico Giustacchini, Dario Gottardi, Andrea Guerini, Sara Lanzoni, Eleonora Longo, Chiara Lussignoli, Michela Maculotti, Silvia Madella, Michele Maiolini, Ruben Manenti, Francesca Manni, Isabella Mar-chesini, Stefano Marelli, Adriana Micheletti, Silvia Mirabella, Piera Mirani, Francesca Monteverdi, Tiziano Morgano, Sebastiano Nassini, Adriano Nit-to, Michele Nodari, Matteo Olivetti, Alberto Pasolini, Michele Pasolini, Mar-cello Pasotti, Sara Pelizzari, Alessandro Perda, Martino Peretti, Alessandro Piantoni, Marco Pietroboni, Riccardo Rigo, Mauro Riviera, Stefano Rossi, Giacomo Salducco, Federica Salvi, Agostino Schivalocchi, Michele Segoli-ni, Fatos Selmani, Esmeralda Serjanaj, Andrea Signorelli, Rudy Signorini, Alberto Simonini, Maurizio Sisto, Mariacarmela Tassone, Lucia Tinti, Ales-sandra Toselli, Katia Tosoni, Federica Turrina, Elisabetta Veneziani, Beatrice Venturini, Giovanmatteo Veschetti, Stefano Vezzoli, Davide Vitali, Giada Volpi, Gorana Vuleta, Luca Zamboni, Giovanni Zanardelli, Damiana Zotti.

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NoTE BIogRAFIChE

Barbara Angi (Trieste, 1976) si laurea in Architettura presso l’Iuav di Venezia (2001) con una tesi compositiva sul paesaggio industriale di Marghera dal titolo The New Waterfront, Venice Aquarium. Dal 2009 è dottore di ricerca in Composizione architettonica e urbana, presso la Facoltà di Architettura di Trieste, con una tesi dal titolo strategie di sopravvivenza urbana in contesti me-tropolitani in continua evoluzione, relatore Giancarlo Carnevale. Svolge attività didattica e di ricerca collaborando con Marina Montuori all’Iuav e all’Uni-versità degli Studi di Brescia, Corso di Laurea specialistica a ciclo unico in Ingegneria Edile-Architettura. Dal 2006 è assegnista di ricerca presso l’Uni-versità degli Studi di Brescia. Partecipa a concorsi nazionali e internazionali e nel 2006 è segnalata per il Premio di Architettura Portus con il progetto Ma-therboard beach, connessioni lungo il litorale adriatico, nell’ambito della X Bienna-le di Architettura di Venezia.

genny Celeghini si laurea presso l’Università degli Studi di Ferrara, Facoltà di Architettura “Biagio Rossetti”. Nel 2001 partecipa al progetto internazio-nale Leonardo presso lo studio Roger Wenn Patnership ltd di Canterbury (UK). Dal 2002 collabora con lo studio RWS Architetti Associati di Padova.

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Con Gino Malacarne e RWS partecipa a numerosi concorsi di progettazione architettonica. Nel 2006 è tutor nell’ambito del Workshop ‘06 (il laboratorio intensivo di progettazione dell’Iuav) con Armando Dal Fabbro ed espone alla Biennale di Architettura di Venezia nella sezione Città di pietra. Progetto per Bari, Punta Perotti. Dal 2008 è cultore della materia presso l’Università degli Studi di Brescia. Nel 2008 con RWS vince diversi premi di architettura nazionali e internazionali (tra cui: premio Archès, Triennale di Milano, me-daglia d’argento al Premio Oderzo). Nel 2009 consegue il titolo di dottore di ricerca in Composizione architettonica presso l’Iuav di Venezia con la tesi Alberghi polifunzionali di Ivrea 1942-1943. Cesare Cattaneo: razionalismo e aspira-zioni classiche, ricerca di un’identità architettonica.

Mario Mento (Brescia, 1962) si laurea presso il Politecnico di Milano nel 1989. Nel 1994 fonda un proprio studio maturando esperienze professiona-li nel campo della progettazione architettonica alle diverse scale di interven-to: dagli studi sul territorio all’edilizia residenziale pubblica, all’architettura di interni. Negli ultimi anni, grazie alla collaborazione con Francesca Ziliani, la produzione progettuale ha interessato anche i sistemi espositivi e il disegno di arredi destinati ad attività commerciali e show-room. Parte dell’attività del-lo studio è dedicata alla ricerca architettonica e alla partecipazione a numero-

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si concorsi, nei quali ottiene diversi riconoscimenti. È cultore della materia e collaboratore alla didattica nella Facoltà di Ingegneria di Brescia presso il Corso di Laurea specialistica in Ingegneria Edile-Architettura. Attento alle problematiche relative alla diffusione della disciplina architettonica, svolge da anni attività presso la Sezione IN/ARCH di Brescia e l’Ordine degli archi-tetti, in qualità di coordinatore della Commissione concorsi.

Marina Montuori si laurea in Architettura a Napoli nel 1970. Dal 1983 al 2006 svolge attività didattica e di ricerca presso l’Iuav di Venezia in quali-tà di ricercatore e professore associato. Attualmente è professore ordinario in Composizione architettonica e urbana presso la Facoltà di Ingegneria di Brescia (Corso di Laurea specialistica a ciclo unico in Ingegneria Edile-Archi-tettura). Ha coordinato la redazione della rivista «Aura», del «Giornale-Cata-logo della Fondazione Angelo Masieri» dal 1987 al 1988 e, dal 1991, è stata redattore della rivista «Op. cit.». È curatore di numerose pubblicazioni, tra cui: Lezioni di Progettazione. Dieci maestri dell’architettura italiana, (Electa 19881, 19942). Per i tipi di Officina Edizioni dirige la collana Occasioni di architettura e cura numerosi volumi: «Annali dell’Architettura Italiana Contemporanea» 1986-87 e 1988-89, studi in onore di Giuseppe samonà (1988), Giuseppe e Alberto samonà (2000). È autore di Matita e penna. Antologia di scritti di architettura

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(1999); Progetti da laboratorio (1999). Suoi progetti sono pubblicati in due mo-nografie: Giancarlo Carnevale e Marina Montuori. Dieci progetti illustrati (1997); Giancarlo Carnevale e Marina Montuori. Occasioni di architettura. Architetture di occasione (1999). Coordina e organizza numerosi workshop progettuali in Ita-lia e all’estero. Nel 2008 e nel 2009 ha assunto il coordinamento scientifico dei quotidiani dei Workshop dell’Iuav. Dal 1970 al 2000 progetta con G. Carnevale con il quale partecipa a concorsi, iniziative culturali ed esposizioni nazionali e internazionali.

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REFERENzE ILLUSTRAzIoNI

Ren Adams: p. 42Mattias Adolfsson: p. 166Andrea Allen: p. 156Barbara Angi: pp. 22; 138; 140; 142; 144; 146Genny Celeghini: pp. 9; 44; 46; 48; 50; 52; 64designcommission.com: p. 40Jean-Michel Gobet: p. 168Dave Gruen: p. 152Jonathon Harper: p. 134Matt Himrod: p. 160Stéphane Martin: p. 38Mario Mento: pp. 54; 56; 58; 60; 62Marshall D. Meyers: p. 162Marina Montuori: pp. 12; 20; 24; 26http://www.ct.ingv.it: p.5http://community.webshots.com/user/lbc420geek: p. 10http://www.livingbox.it: pp. 14; 16http://www.cibicpartners.com: p. 18

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http://www.homesfromthegroundup.com: p. 31http://www.defenselink.mil: p. 32http://gruppoargo.wordpress.com: p. 34http://dic.academic.ru: p. 36http://www.culch.ie: p. 136http://www.culch.ie: p. 151http://viewlinerltd.blogspot.com: p. 154http://cva.ap.buffalo.edu: p. 158http://www.protezionecivileconcorezzo.it: p. 164

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