Casablanca n.34

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Bella Ciao Bella Ciao

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Bella CiaoBella Ciao

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Le Siciliane - CASABLANCA N.34/ marzo - aprile 2014/ SOMMARIO

Casablanca pagina 2

A che serve vivere se non c’è

il coraggio di lottare?

Pippo Fava

4 – Raimondo Catanzaro Ma cos’è la destra, che cos’è la sinistra

6 – Nello Papandrea Gameti liberi e democratici

8 – Giuliana Buzzone Desiderato, sognato, anelato…figlio disegnato?

9 Sarà una seconda Mineo? Eleonora Corace

11 – Fulvio Vassallo Paleologo Sistema allo Sbando

14 – Distruggiamo i campi e allarghiamo i lager Antonio Mazzeo

16 – Gigi Malabarba Spremi gli agrumi non i braccianti

19 –Santo Laganà Strage di Genova: alla ricerca della verità perduta

22 – Elisabetta Tripodi: donna meridionale. Franca Fortunato

25 –Antonella Cocchiara Modello Messina

28 –Rino Giacalone Rostagno: l’uomo che non doveva sapere

31 – Valentina Colli Mafia: plurale femminile

35 – Tagli alla Cultura in Sicilia Livio Tita

37 – Tea Ranno Angela Bonanno, pani schittu

38 – Stefania Zampi 25 Aprile… in nome del papa re?

41 – Lettere dai luoghi di frontiera

42 - Libri dalle città di frontiera

44 – Eventi di Frontiera

In copertina il Partigiano Mitraglia

Un grazie particolare a Mauro Biani

Direttore Graziella Proto – [email protected] - Redazione tecnica: Vincenza Scuderi - Nadia Furnari Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Lillo Venezia

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Editoriale

Corsaro, Mitraglia, Smith, o Renzi F35, F24…?

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Un pomeriggio particolare organizzato dall’ANPI di Catania – il 24 aprile scorso – durante il quale i giovani catanesi hanno ascoltato i racconti e le testimonianze di Nicola Di Salvo, conosciuto con il nome di battaglia “Corsaro”, Antonino Mangano, “Mitraglia”, e Salvatore Militti,

“Smith”. Solo alcuni dei nostri

Partigiani. I sopravvissuti. D’altronde sono passati 66 anni. I nostri Corsaro, Mitraglia e Smith stanno seduti dietro il tavolo della presidenza come investiti da una situazione difficile da risolvere. Problematica. Con la faccia impaurita e impacciata. Hanno 66 anni in più sulle spalle. L’atmosfera gradevole, a volte

emozionante, serena, piacevole. Dopo una manciata di minuti il più anziano di loro, Smith, sembrava un ragazzino discolo e incontrollabile, raccontava, riportava, riferiva… Non si

fermava più, ad un certo punto perse il filo, si fermò. Guardava la platea come se chiedesse aiuto “…

scusate disse, è che stanotte sono scivolato in bagno…”. Una semplicità sconvolgente. Eppure lo stesso uomo, su al nord, è stato un partigiano valoroso. Uno di quelli che organizzavano la guerriglia contro i tedeschi. Che ha combattuto contro il nazifascismo. Ha camminato senza scarpe, non ha mangiato per giorni… ha fatto

la guerra. Quella guerra che oggi con la sua semplicità fanciullesca racconta ai giovani. E mentre li ascoltiamo con un certo brivido di emozione, su uno schermo passano le immagini di tanti partigiani: giovani, armati, spavaldi, allegri. Affrontavano la morte guardandola negli occhi. E

tante storie più o meno tristi si accavallano. Niente scivolamenti sul dolore. I nostri partigiani, di ogni colore politico, di ogni angolo remoto dell’Italia, uomini e donne, sono

stati grandi, ci hanno regalato l’Italia democratica senza sconto di

sacrifici e vite umane. Una storia sintetizzata nella nostra Costituzione. Grazie! Laddove è ancora possibile, ascoltiamoli, coccoliamoli, viziamoli, le cose che rivelano solo loro le conoscono e le possono raccontare. Accettiamone il testimone. Senza divisioni nord, sud, centro. Difendiamo tutto ciò che hanno costruito con sacrificio. Sono le nostre radici, non tagliamole… garantiamole, se

necessario raddrizziamole semplicemente. La Resistenza! Il suo prodotto, la nostra Costituzione (scritta col sangue dei nostri nonni – so già…

retorica…). La sua attualità nei principi fondamentali. L’insopportabile

supponenza di tutti coloro che l’aggrediscono perché vecchia. Gli

stessi a cui non viene in mente la parola “disapplicata”. Quelli che

conoscono solo F35, F24, mercati, governabilità… Gli stessi che

accusano di populismo qualsiasi intervento contro i loro interessi e a favore del “popolo”, proponendo

e promovendo svolte autoritarie e populistiche sotto forma di nuovi valori: la comunicazione, la fretta, la stabilità… Gli accordi fuori

dalle sedi istituzionali. Il nuovo che avanza (?). Nessun conservatorismo, ma, per cortesia, si impieghino i giusti canali, quelli istituzionali, costituzionali e democratici… già,

la DEMOCRAZIA! No le primarie, la democrazia. No i sondaggi elettorali, la democrazia. No la riduzione di spazi di partecipazione, la democrazia. La nostra, povera, martoriata democrazia ridotta a un triste, sciatto, scolorito, sbrindellato “cencio” dai mercati. I mercati come fosse il verbo. Il vangelo. I mercati dettano leggi, i politici, fottendosene delle persone che li hanno votati e delle problematiche che avrebbero dovuto risolvere, officiano. Un bel paradigma! Niente anima, vita, sogni, fantasie, progetti… futuro. “… il liberalismo è di destra, oggi

va bene anche per la sinistra…”

diceva Gaber tanti anni fa, ed io mi sono offesa e incazzata contro quel cantante profetico. Lorsignori di ieri e di oggi, l’Italia

non è un’azienda, non può essere solo un grande mercato dove l’uomo con i suoi problemi e le sue

aspettative e le sue speranze non vale nulla. C’è stata la Resistenza,

ci sono stati i partigiani. Non tutti partirono subito. Non tutti insieme. C’è voluto del tempo per capire e attrezzarsi. Vero, la gente è stanca. Non sopporta più questa carestia di giustizia sociale, di occasioni ed opportunità. Conosco gente che è affamata, senza futuro, quasi impedita nel pensare al domani. Dobbiamo parlare fra noi, chi capisce di più deve spiegarci meglio, incanalare la nostra rabbia, organizzare le nostre esigenze… Nessuna stia serena, ci saranno i nuovi partigiani. La linea di demarcazione tra sinistre e destre esiste. Bisogna rispolverarla, riportarla alla luce. Farla scoprire.

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AAA … Ideali Cercasi

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Ma cos’è la destra

cos’è la sinistra?

Raimondo Catanzaro

C’è qualcosa che differenzia la sinistra dalla destra? Vo-

gliamo riflettere… cercare… individuare… La disugua-glianza è un problema? Il mercato la risolve o ne crea tante altre? Necessita un’analisi delle

disuguaglianze che riesca a ricomprenderle in un paradigma di analisi compiuto. Proponiamo un percorso – a più tappe – per capire. Non è vangelo, non è il verbo, ma in maniera parti-giana vorremmo provare a riconoscere o ritrovare o riscoprire la stella polare della sinistra. Nessun Enrico stia sereno… il pensiero liberale che era di destra, ora è buono anche per la

sinistra.

Esattamente vent’anni addietro, nel 1994, Giorgio Gaber s’interro-

gava ironicamente su cosa fosse la destra e cosa la sinistra, e con rara preveggenza anticipava un tema oggi più che mai attuale: “il pen-

siero liberale è di destra, ora è buono anche per la sinistra”.

Una tematica che, con il crollo del muro di Berlino, la crisi dei si-stemi di welfare ispirati al keynesi-smo, la potente spinta del liberi-smo economico a partire dagli anni Ottanta con Reagan e la Thatcher, e infine con la crisi economico-fi-nanziaria mondiale degli inizi del XXI secolo ha caratterizzato la

fase attuale di fine delle ideo-logie e della contrapposizione tra due modelli di sistema economico e sociale, quello comunista e quello capitalista. Oggi dunque è più che mai le-gittimo chiedersi ancora se c’è qualcosa che differenzia la sinistra dalla destra, e cosa sia. Per una strana coincidenza della storia, nello stesso anno in cui Gaber scriveva la sua canzone, un grande intellet-tuale italiano, Norberto Bob-bio, affrontava lo stesso tema, con lo stesso titolo, pubbli-cando il famoso saggio: De-stra e sinistra. Ragioni e si-gnificati di una distinzione politica. Bobbio individuava nell’uguaglianza tra tutti gli

esseri umani lo spartiacque tra de-stra e sinistra. Dunque l’ugua-

glianza, cioè il superamento della disuguaglianza, è la stella polare della sinistra, ciò che la caratte-rizza e la differenzia rispetto alla destra. La sinistra persegue politi-che di uguaglianza, la destra no. Così formulato il problema sem-brerebbe risolto, ma in realtà è ap-pena abbozzato. Ci sono infatti una serie di domande da porsi, a cominciare da quella se sia preferi-bile parlare di disuguaglianza ov-vero di disuguaglianze, per prose-guire con l’individuazione dei vari

tipi di disuguaglianza, per finire al modo in cui gli individui percepi-scono (se le percepiscono) le disu-guaglianze, se ritengono che siano una manifestazione di ingiustizia sociale e dunque si sentono privati di diritti o comunque di ricom-pense che ritengono di meritare. Ma, prima ancora di affrontare queste tematiche, occorre fare un’ulteriore precisazione. La diffe-

renza tra destra e sinistra non sta nel fatto che soltanto la sinistra (comunque la si voglia definire) individua le disuguaglianze come

???

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AAA … Ideali Cercasi

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costitutive delle relazioni sociali e dei rapporti economici e politici. Anche la destra, il pensiero libe-rale, il liberismo economico ne sono consapevoli. La differenza è più sottile.

LA GIUSTIZIA DEL MERCATO

Per il liberismo economico l’eco-

nomia di mercato è il sistema mi-gliore di organizzazione delle rela-zioni economiche e sociali. Il mer-cato lasciato ad autoregolarsi senza vincoli che non siano quelli di natura economica è, secondo questa concezione, il modo più efficace per gestire l’allocazione

delle risorse e la loro distribuzione tra gli in-dividui. Sarà dunque il mercato a riequilibrare automaticamente gli squilibri, e tra questi anche quelli relativi alle disuguaglianze, ri-conoscendo meriti e contributi dei singoli ed erogando le giuste ri-compense per ciascuno. In altri termini per il li-berismo la disugua-glianza esiste, ma il suo superamento è un pro-blema di secondo grado, che dipende dal buon funzionamento dei mercati. Se questo funzionamento è garan-tito, anche le disuguaglianze sa-ranno, se non superate, quanto

meno fortemente stemperate. È per questo motivo, e in questo senso, che le disuguaglianze non costitui-scono un problema, né un tema d’interesse per i liberisti, che non

lo ritengono tema degno di studio, e per la destra che a loro si ispira. Viceversa la sinistra non ritiene che il mercato autoregolato (per dirla con Polanyi) sia il sistema migliore di relazioni economiche e sociali. Al contrario v’è il convin-

cimento che sia esso a produrre di-suguaglianze, e dunque che sia ne-cessaria una sua etero-regolamen-

tazione, da parte pubblica, e dun-que della politica, per evitare che

le disuguaglianze persistano e si accentuino. Dunque per la sinistra la disugua-glianza è un problema. Ma lo è an-che in un altro senso, e cioè che, se si ritiene che non ci sia una corri-spondenza automatica tra miglior funzionamento del mercato e ap-pianamento delle disuguaglianze, sarà necessario comprendere quali siano, e di che natura, per poter at-tuare politiche efficaci di ugua-glianza economica e sociale. In altri termini, per la sinistra la sfida di governare è più complessa

di quanto non lo sia per la de-stra. Richiede infatti l’onere di

individuare fonti, criteri, forme di disuguaglianza e atti-vare politiche atte a combat-terle, un onere sconosciuto alla destra. È forse per questo motivo che, di fronte alla crescente com-plessità delle società del XXI secolo, la sinistra ha difficoltà a governare con successo. Ri-spetto alle analisi relativa-mente semplici delle dimen-sioni della disuguaglianza quali si presentavano nell’Ot-

tocento o ancora per buona parte del Novecento, oggi non sembra presentarsi un’analisi

delle disuguaglianze che riesca a ricomprenderle in un para-digma di analisi compiuto. Ed è su questo punto che è dun-que necessario sviluppare ulte-

riormente l’analisi e l’approfondi-

mento.

“L'ideologia, l'ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa dove non si sa, dove non si sa.”

(Giorgio Gaber)

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Tutela, Obbligo e Divieto

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Gameti Liberi e

Democratici

Nello Papandrea

Lo scorso 9 aprile la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcuni aspetti della legge 40, in particolare il divieto all’uso di tecniche di procreazione assistita di tipo eterologo. Per la

seconda volta in dieci anni la Corte Costituzionale è dovuta intervenire per correggere alcuni aspetti della legge che influivano negativamente sulle tecniche rendendole inefficaci e pericolose per la salute, creando anche un contesto discriminatorio. La legge 40, che nella sua formulazione originaria si poneva l’obiettivo di favorire la soluzione di problemi riguardo alla sterilità umana

in alcune specificità si mostrava ideologica, priva di fondamento scientifico tanto da diventare impedimento alla corretta cura della sterilità.

La sentenza della Corte Costitu-zionale con la quale viene cancel-lato dal nostro ordinamento il di-vieto di fecondazione “eterologa”,

ossia con donazione di gameti (previsto dalla L. 40/2004), chiude il cerchio su una delle leggi peg-giori mai concepite dal nostro legi-slatore. Per capire l’importanza di questa

sentenza occorre ricordare l’im-

pianto originario della legge che prevedeva come principio la tutela di tutti i “soggetti”coinvolti com-preso il concepito, attuata me-diante l’accesso alle cure riservato

esclusivamente a coppie formate da partners di sesso diverso, en-trambi viventi e con la donna in età potenzialmente fertile; l’ob-

bligo di produrre non più di tre embrioni e del simultaneo im-pianto di tutti gli embrioni pro-dotti; divieto di fecondazione ete-rologa; divieto di ricerca clinica e sperimentale sugli embrioni; di-

vieto di revocare il consenso infor-mato dopo la fecondazione degli ovuli. La legge, così concepita non la-sciava margini di discrezionalità al medico il quale si trovava a dover applicare la medesima cura anche a pazienti con problematiche e ne-cessità assolutamente diverse. Per essere chiari, la fertilizzazione dell’ovulo non è sempre scontata,

dipendente in larga parte dalla qualità dell’ovulo e dello sperma-

tozoo. L’obbligo di produrre non

più di tre embrioni, si traduceva, per il medico, nella necessità di tentare di fertilizzare sempre tre ovuli. Il risultato di tale tentativo: 0,1, 2 o 3 embrioni poteva rivelarsi inadeguato o eccessivo a seconda dell’età e dello stato di salute della

paziente. Per donne più in avanti negli anni (ma sempre in età po-tenzialmente fertile), spesso insuf-ficiente, ma per donne giovani, nel caso di massimo risultato, il trasfe-

rimento di tre embrioni era assolu-tamente sconsigliato sotto un pro-filo scientifico, ma obbligatorio per legge. Ecco perché nel periodo di applicazione della L. 40/2004, fino al 2009, il tasso di gravidanze trigemine in Italia è aumentato del 300% con relativo carico di aborti, nascite premature, danni alla salute della madre. Tale sistema, inoltre, non consen-tiva di effettuare la diagnosi preimpianto sugli embrioni, ai por-tatori di malattie genetiche gravi che si trovavano poi costretti, sus-sistendo i presupposti, a ricorrere all’interruzione di gravidanza, con

maggior carico di sofferenze e di rischi per la salute della donna. Nello stesso periodo, si è assistito, inoltre ad una vistosa riduzione dell’indice di positività delle cure. Nel 2009, con sentenza n. 151/09 la Corte Costituzionale è interve-nuta proprio su questo primo punto, chiarendo che il legislatore

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Tutela, Obbligo e Divieto

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in materie tecniche non può legife-rare senza tener conto delle evi-denze scientifiche e vincolando il medico in scelte che sono di sua esclusiva competenza e che, co-munque, vanno salvaguardate la salute della donna e le “giuste esi-

genze della procreazione”. Per la

Corte Costituzionale, quindi, il medico deve produrre il numero di embrioni strettamente necessario, ma tenuto conto delle esigenze della donna e delle sue condizioni di salute e trasferire in utero il nu-mero necessario a salvaguardare la salute della donna eventualmente crioconservando gli embrioni in eccedenza per un successivo tra-sferimento.

IO PARTORISCO (ALL’ESTERO) TU NO

Cade il limite dei tre embrioni, l’obbligo di contemporaneo im-

pianto di tutti gli embrioni prodotti ed il divieto di diagnosi preim-pianto. La pronuncia di pochi giorni orsono, inter-viene, invece sul di-vieto di fecondazione eterologa, ossia di uti-lizzare il seme o l’ovulo di un soggetto

esterno alla coppia nei casi in cui i partner non siano in grado di produrre gameti va-lidi. Si trattava di un di-vieto odioso perché escludeva dalle cure quei soggetti che per problemi di salute, quali menopausa pre-coce, problemi onco-logici etc… si trovavano in condi-

zioni di infertilità più severa. Trat-tandosi di tecnica attuata quasi in tutta Europa, il divieto era facil-mente aggirabile recandosi

all’estero, tanto che la stessa legge

40 paradossalmente disciplinava le conseguenze giuridiche dell’etero-

loga effettuata oltre confine. Ma ciò creava un’ulteriore discrimina-

zione per censo riservando tale op-portunità solo alle coppie più fa-coltose. A rendere ancora più assurdo ed ingiustificato tale divieto va sotto-lineato che gli studi compiuti all’estero sui bambini nati da fe-

condazione eterologa dimostrano che non vi siano ricadute di alcun tipo, né sotto il profilo della salute fisica, né sotto quello della salute psichica. Problematiche bioetiche? Risentimento psicologico per la mancata conoscenza di uno degli ascendenti biologici? Il divieto finirebbe per impedire il concepimento. Insomma, è evidente che si tratta di una cautela eccessiva e spropor-zionata, mentre non può sottrarsi ai partners la libera scelta di af-frontare il proprio compito genito-

riale, anche se uno dei due non sia geneticamente ascendente del pro-prio figlio. Del resto, anche in Italia, sino al 2004 la fecondazione eterologa era

pacificamente utilizzata e ciò non ha mai sollevato alcuna problema-tica, anzi, tutta una serie di atti am-ministrativi la disciplinavano in modo attento.

*** La sentenza della Corte Costitu-zionale sarà efficace dal giorno successivo alla sua Pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e non abbiso-gna di alcun passaggio parlamen-tare. Con tale pronuncia non si crea, infatti, alcun vuoto legisla-tivo posto che rimangono le norme della stessa legge 40 che vietano, a tutela della salute e della libertà dei donatori, di fare mercato dei gameti e che disciplinano le conse-guenze giuridiche per i genitori, il concepito ed il donatore. Inoltre già dal D.lgs. 191/07 i centri di procreazione assistita sono equipa-rati ai centri trapianti, sicché la ge-stione dei gameti è soggetta alla stessa rigidissima normativa che riguarda i tessuti destinati al tra-pianto. La sentenza scaturisce da due ordinanze di rimessione dei

Tribunali di Milano e Catania (Avvocati Marilisa D’Amico,

Maria Paola Costan-tini, Sebastiano Pa-pandrea e Massimo Clara) riguardanti casi di infertilità maschile (Tribunale di Milano) e menopausa precoce (Tribunale di Catania) su ricorsi ex art. 700 c.p.c. promossi nel 2010. La proposizione dei ricorsi era stata preceduta da una fase di studio, culminata in un seminario tenutosi a Santa Tecla nel

2009 nel quale la materia è stata esaminata in ogni aspetto giuri-dico, medico, sociologico, psicolo-gico, bioetico.

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Desiderato, sognato, anelato…figlio disegnato?

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Desiderato, Sognato,

Anelato… Figlio Disegnato?

Giuliana Buzzone

Subito dopo l’entrata in vigore

della legge 40 - nell’Aprile 2004 - al Tribunale di Catania venne pre-sentato il primo ricorso da una coppia di talassemici che chiede-vano la diagnosi reimpianto. Il Tri-bunale rigettò la domanda ed il re-sponso del Giudice Dott. Felice Lima fu secco: considerò insussi-stente un diritto al figlio come lo si vuole e rigettò anche i dubbi di co-stituzionalità proposti dai ricor-renti, attraverso gli avv.ti Maria Paola Costantini e Sebastiano Pa-pandrea, ritenendo che la norma fosse non solo conforme al dettato costituzionale ma giusta ed oppor-tuna. Una vicenda lacerante: la coppia aveva iniziato il trattamento prima che entrasse in vigore la legge, l'ordinanza del giudice fu terribile. Lo stress psichico al quale fu sot-toposta la donna, probabilmente non consentì l’impianto degli em-

brioni prodotti nei quali era effetti-vamente presente la devianza ge-netica. Per il Giudice i ricorrenti non ave-vano diritto al figlio come lo desi-deravano loro, non comprendendo che i coniugi volessero solo evitare la trasmissione di talassemia major della quale erano portatori con alta probabilità di trasmissione ai figli. La vicenda fu da stimolo per la campagna referendaria del 2005 che molte associazioni condussero senza però molto successo, visto che, nonostante l’esito positivo

sull’accoglimento dei quesiti,

l’astensionismo prevalse sul

raggiungimento del quorum, solo il 25,9% degli aventi di-ritto partecipò alla consulta-zione. Tre italiani su quattro non andarono a votare influen-zati dalla complessità dei quesiti, dalle pressioni della Chiesa e l’ef-

ficace campagna astensionista. La primavera inoltrata con l’estate

dietro l’angolo. Nel settembre del 2009, la Sen-tenza n. 151. Storica e importante. Al vaglio della Corte Costituzio-nale erano giunti tre casi, fra i quali quello, proveniente dal Tri-bunale di Firenze di una coppia di coniugi siciliani, il marito malato di Neuroblastoma, che avevano chiesto di ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto. In tale occa-sione, i due coniugi videro accolta la propria richiesta di ricorrere alla diagnosi genetica preimpianto. Inoltre vennero accolti i dubbi di costituzionalità sollevati innanzi ai giudici remittenti dagli Avvocati Marilisa D’Amico, Maria Paola

Costantini, Sebastiano Papandrea e Massimo Clara e dichiarati mani-festamente inammissibile diversi aspetti di vari articoli.

*** Tra le associazioni che operano nel campo dell’assistenza, della ri-

cerca, della prevenzione un parti-colare ruolo ha svolto l’associa-

zione Hera di Catania, che si occupa anche di cura dell’infertilità e tutela della genito-

rialità L’Associazione Hera, una fra le maggiori Associazioni di pazienti ed operatori, ha sostenuto dal prin-cipio la lunga battaglia giudiziale, contro le linee guida emanate dal Ministero (Sirchia) e proponendosi fra gli obiettivi quello scardinare il pilastro, antiscientifico ed ideolo-gico della legge, costituito dal di-vieto di eterologa. Allo scopo venne convocato a Santa Tecla CT) nel 2009 un seminario nel corso del quale il tema dell’etero-

loga venne sviscerato studiandone tutti gli aspetti scientifici, medici, legali, psicologici, sociologici. I casi portati alla Corte, dai Tribu-nali di Milano e Catania, dal team di legali, riguardavano anche due coppie, una affetta da infertilità maschile e l’altra, la donna era af-

fetta da menopausa precoce. Nei ricorsi intervennero anche i re-sponsabili di centri medici, Ales-sandra Vucetich e Antonino Gu-glielmino.

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Il PalaNebiolo come Mineo?

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Sarà una seconda

Mineo?

Eleonora Corace

Dramma della prima accoglienza: anche Messina coinvolta negli sbarchi diretti dei migranti, con l’arrivo di oltre 361

persone direttamente sui moli cittadini. Il centro del PalaNe-biolo è al collasso, e il Comune sembra considerare la pro-posta del Ministro Alfano, di istituire un Cara in un ex Caserma, ma la società civile insorge: “Sarà un’altra Mineo”. Intanto, imperversa la psicosi per la malattia ebola e la caccia agli untori. Eppure “ l’Orga-

nizzazione Mondiale della Sanità non raccomanda restrizioni di viaggi e movimenti di per-sone, mezzi di trasporto e merci”. Secondo gli specialisti appare estremamente improbabile un contagio da parte dei migranti. Nessun alibi per persecuzioni.

Simbolo dello sbarco avvenuto verso le 20 di sera del 9 Aprile, è una donna con suo bambino stretto al collo, la prima a scen-dere dalla nave. I suoi sono dei piccoli passi incerti lungo la sca-letta che conduce dal grande mer-cantile al molo, messa in sicu-rezza con delle reti. Stretto al collo il bambino, una testolina che fa capolino appena tra la co-perta in cui è avvolto, che svo-lazza intorno, ad ampie pieghe, nel vento e nell’umido della sera,

tanto da ostacolare, a volte, l’in-

cedere sfinito e prudente della madre. I migranti sono sub-sahariani, tutti disidratati, contusi e “forte-

mente traumatizzati” come di-

chiara testualmente chi ha prestato il primo soccorso. Dopo la donna con il bambino stretto in braccio, inizia la lunga processione dei rifugiati: donne – alcune anziane – feriti e poi pian

piano gli altri. Tutti sfiniti, tutti scalzi. In occasione dello sbarco di questi migranti, la Prefettura dà ordine di riaprire il palazzetto sportivo ac-canto alla tendopoli del PalaNe-biolo, nonostante sia stato chiuso a

novembre in seguito ad una rela-zione dell’azienda sanitaria che ne

denunciava le condizioni igieni-che. Qui i migranti sono stati am-massati, in una distesa di brande, spesso accatastate l’una sull’altra. Attualmente, dopo il trasferimento di un gruppo di migranti e la fuga di oltre un centinaio, restano 40 persone nel palazzetto e 250 nelle tende. La Prefettura, dal canto suo, ha indetto un terzo bando per l’in-

dividuazione di una struttura ido-nea ai fini della prima accoglienza dei migranti. Il bando gemello, emesso qualche mese fa, è andato deserto, per la difficoltà da parte di enti pubblici e società private di trovare luoghi che corrispondes-sero ai criteri imposti dal bando. A sorpresa, però, interviene il Co-mune. Dopo un sopralluogo nell’area dell’ex Caserma di Bi-

sconte, svolto dall’assessore all’ur-

banistica, l’amministrazione sem-

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Il PalaNebiolo come Mineo?

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bra puntare per l’alternativa sugge-

rita dallo stesso Ministero degli In-terni, in concerto con quello della Difesa che ha messo a disposi-zione l’area: spostare i migranti dalla tendopoli del PalaNebiolo ad una delle strutture che formano l’ex Caserma. Questo, con molta

probabilità, segnerebbe l’instaura-

zione di un vero e proprio Cara – centro accoglienza richiedenti asilo – nella città di Messina. Il PalaNebiolo, infatti, è un centro sorto sul modello dei vecchi “cen-

tri Puglia”, ovvero un non-luogo giuridico che sfugge ad ogni clas-sificazione ministeriale. A questa ipotesi la società civile – PRC, Arci e associazioni varie – lancia l’allarme: “Sarà una seconda Mi-neo”. Nel frattempo fonti ministe-

riali confermano l’ipotesi di tra-

sformare lo stesso Cara di Mineo in un CPA - Centro di Prima Ac-coglienza. Viene da pensare che l’ipotesi si inserisca nello stesso

disegno Ministeriale che vede sor-gere un centro di accoglienza an-che nell’area enorme di Bisconte.

Se Mineo diventasse un Cpa, a Messina toccherebbe il Cara.

***

Psicosi ebola. L’Organizza-

zione Mondiale della Sanità smentisce rischi per l’Italia,

ma la paranoia del contagio dilaga ancora, sul web e non solo. Tutto nasce da un au-mento dei casi di questo par-ticolare tipo di febbre emor-ragica in Guinea e il conseguente accrescimento del livello di rischio di contagio in tutta l’Africa Sub

Sahariana. Da qui, l’esplosione

della fobia dei “nuovi untori” in

Italia, che hanno come bersaglio, ovviamente, il soggetto sociale più debole: il migrante. A rendere le cose più difficili, una circolare del Ministero della Salute siglata il 4 Aprile, che riferendosi al virus Ebola, parla – solo- di

“misure di sorveglianza” da appli-

care “ai punti di ingresso in Italia”.

La notizia viene riportata sui social network e su alcuni media come la conferma dell’epidemia incom-

bente. Qualche giorno dopo, però, l’11 Aprile, il Ministero rettifica se

stesso pubblicando una nota uffi-ciale che titola, testuale: “Virus

Ebola, nessun rischio per l’Italia”.

Il sottotitolo recita: “ L’OMS non

raccomanda restrizioni di viaggi e movimenti di persone, mezzi di trasporto e merci”. Scrive il Ministero della Salute: “Si sottolinea che l’Organizza-zione Mondiale della Sanità non raccomanda, al momento, restri-zioni di viaggi e movimenti inter-nazionali di persone, mezzi di tra-sporto e merci. Il rischio di infe-zione per i turisti, i viaggiatori in genere ed i residenti nelle zone colpite, è considerato molto basso se si seguono alcune precauzioni elementari, quali: evitare il con-tatto con malati e/o i loro fluidi corporei e con i corpi e/o fluidi corporei di pazienti deceduti oltre alle altre semplici e generiche pre-

cauzioni sempre consigliate in caso di viaggi in Africa Sub-saha-riana quali ad esempio, evitare contatti stretti con animali selvatici vivi o morti, evitare di consumare carne di animali selvatici, lavare e sbucciare frutta e verdura prima del consumo, lavarsi frequente-mente le mani”. La cosa che sembra angustiare di più gli onesti cittadini che si di-chiarano contro il razzismo a pa-role per praticarlo nei fatti, sarebbe

il tempo di incubazione della ma-lattia che può raggiungere i 25 giorni. La soluzione del problema, però, sta proprio in questo dal mo-mento che ogni migrante, partendo dall’Africa sub-sahariana, impiega minimo sei mesi – ma anche un anno e oltre – per arrivare all’im-

barco sulle coste dell’Africa Set-

tentrionale. Questo perché i per-corsi della “tratta” attraversano il

deserto e sono soggetti a numero-sissime battute d’arresto. “La ma-

lattia da virus Ebola uccide in circa 2/3 settimane da quando viene contratto il virus – spiega Giuseppe Cannuni, medico specia-lista in malattie infettive - Facendo un riferimento specifico ai mi-granti, coloro che vengono dalle zone interessate di diffusione del virus ci mettono mesi, spesso anni prima di raggiungere le coste libi-che dalle quali poi vengono imbar-cati, pertanto appare estremamente improbabile un contagio da parte loro”. Qualcuno crede che i rifugiati viaggino in charter per poi farsi calare in barconi fatiscenti in pros-

simità delle coste italiane per puro passatempo? “Appare improbabile un epide-

mia importata in Italia a seguito dei flussi migratori provenienti dalle nazioni africane – continua lo specialista -Premesso che il vi-rus in questione, da quando iden-tificato (1976), è sempre stato at-tivo solo, ed esclusivamente, nelle regioni dell'Africa sub-sa-

hariana, non ha biologicamente le caratteristiche adatte a creare pan-demie o epidemie al di fuori delle aree in cui è già diffuso,non ha dif-fusione aerea, ma soltanto attra-verso il contagio ematico con san-gue e/o altri liquidi biologici in-fetti. Coloro che guariscono non sono contagiosi già dopo 3 setti-mane”. Attendiamo, dopo l’ebola, la pros-

sima psicosi xenofoba, magari sulla peste o il cannibalismo…

Page 11: Casablanca n.34

Sbarchi e accoglienza in Sicilia

Casablanca 11

Sistema allo

sbando

Fulvio Vassallo Paleologo

L’Italia rimane uno dei paesi europei con il tasso rela-

tivo – rispetto alla popolazione – più basso per quanto concerne il numero dei richiedenti asilo. Ancora nel mese di marzo del 2014 non si ha certezza sulla effettiva disponibilità delle somme necessarie per avviare i pro-getti di accoglienza dei progetti SPRAR – Sistema pro-tezione per richiedenti asilo e rifugiati – progetti trien-nali che avrebbero dovuto avviare le loro attività entro il 1° aprile 2014. Ancora troppi i “centri per stranieri”, nelle diverse tipologie

(CIE/CARA/CPA). Aumentano le strutture di prima accoglienza CPA-CDI e le strutture SPRAR. Comunque mancano quasi sempre i requisiti previsti… mancano mediatori lingui-

stico-culturali e consulenti legali… qualità della vita.

Per quanto riguarda gli sbarchi, meglio gli arrivi via mare, spesso dopo operazioni di ricerca e soc-corso, preoc-cupa l’incre-

mento registrato nel secondo se-mestre dello scorso anno e l’elevato nu-

mero di arrivi nei primi mesi del 2014 – an-che 4.000 in soli due giorni. Un incremento che non trova an-cora in Sicilia un sistema di prima acco-glienza in grado di fare fronte

alle prime esigenze di assistenza ed orientamento.

Tuttavia, secondo stime di diverse agenzie, gli ingressi via mare ri-

mangono una por-zione mo-desta degli arrivi di immigrati irregolari, complessi-vamente tra il 10 ed il 15 per cento del totale com-plessivo. Nel mese di marzo, per la prima volta, il Ministero dell’in-

terno è

(SPRAR) Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati

Il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è costituito dalla rete degli enti locali che – per la realizzazione di progetti di accoglienza inte-grata – accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le po-litiche e i servizi dell’asilo...

A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono interventi di “accoglienza integrata” che superano la sola di-

stribuzione di vitto e alloggio, prevedendo in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la co-struzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico.

I progetti territoriali dello SPRAR sono caratterizzati da un protagonismo attivo, condiviso da grandi città e da piccoli centri, da aree metropolitane e da cittadine di provincia.

A differenza del panorama europeo, in Italia la realizzazione di progetti SPRAR di dimensioni medio-piccole – ideati e attuati a livello locale, con la diretta partecipa-zione degli attori presenti sul territorio – contribuisce a costruire e a rafforzare una cultura dell’accoglienza presso le comunità cittadine e favorisce la continuità dei

percorsi di inserimento socioeconomico dei beneficiari.

Page 12: Casablanca n.34

Sbarchi e accoglienza in Sicilia

Casablanca 12

stato costretto ad attivare voli di trasferimento per offrire ai profu-ghi soccorsi dalle navi dell’opera-

zione Mare Nostrum una qualche possibilità di accoglienza. In base alla circolare n. 2204 del 19 marzo 2014 “a seguito dell’av-

venuta saturazione di tutti i centri governativi e di quelli garantiti da alcuni enti locali nell’ambito del

Sistema SPRAR”, dopo che già

erano stati attivate 115 strutture di prima accoglienza (ex legge Puglia del 1995), in Sicilia, in Puglia ed in altre regioni, le prefetture sono state invitate “in via d’urgenza” a

reperire altre migliaia di posti per la prima accoglienza “in previ-sione di ulteriori arrivi”. I dati sono difficilmente contesta-bili, l’Italia rimane uno dei paesi

europei con il tasso relativo (ri-spetto alla popolazione) più basso per quanto concerne il numero dei richiedenti asilo, che negli anni più recenti costituiscono la parte più consistente di co-loro che sono costretti all’in-

gresso irregolare per la situa-zione di estremo pericolo che corrono nei paesi di transito. In Libia, soprattutto, dove non trovano accoglienza e status legale neppure quei pochi migranti ai quali le delegazioni dell’Alto

Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati riconoscono lo status di rifugiato, senza però riu-scire a garantire un loro successivo ingresso legale in un paese euro-peo. I provvedimenti per implementare nuovi posti nel sistema dei CARA e nel sistema degli SPRAR gestiti dai comuni sono rimasti ancora al di sotto delle esigenze già forte-mente avvertite nel corso del 2012, ed anche in questo caso solo nell’ultima parte del 2013 si riu-

sciva ad ottenere un primo au-mento dei posti effettivamente di-sponibili. Ma ancora nel mese di marzo del 2014 non si ha certezza sull’effettiva disponibilità delle

somme necessarie per avviare i progetti di accoglienza dei progetti Sprar approvati dall’apposita com-

missione del Ministero dell’in-

terno, progetti triennali che avreb-bero dovuto avviare le loro attività entro il primo aprile 2014.

L’EUROPA SUGGERISCE, LA

SITUAZIONE ESIGE

Dopo le stragi del 3 e dell’11 otto-

bre sembra verificarsi una inver-sione di tendenza, innanzitutto con l’individuazione di risorse aggiun-

tive da destinare all’accoglienza,

anche con specifico riferimento ai minori non accompagnati ed ai soggetti vulnerabili, tuttavia, man-cano ancora le risorse necessarie per il concreto avvio dei progetti. Inoltre, occorre rivedere alcuni aspetti particolarmente critici della

legislazione, per dare attuazione alle due direttive dell’Unione Eu-

ropea adottate nel 2013 in materia di accoglienza e di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. Anche per quanto concerne la di-sciplina e la gestione dei CIE, nei quali si continua ad inviare una parte dei richiedenti asilo, mal-grado la riduzione dei posti, per ef-fetto della chiusura di otto strutture su dodici, si attende un intervento legislativo che adegui la normativa italiana alla Direttiva rimpatri 2008/115/CE anche per evitare la presenza di migranti provenienti dal sistema carcerario. Rimangono comunque ancora troppi i “centri per stranieri”, nelle

diverse tipologie

(CIE/CARA/CPA), privi dei requi-siti previsti dal Ministero dell’in-

terno nel 2008. Ad esempio mancano mediatori linguistico-culturali e consulenti legali, e questo dato appare preoc-cupante perché rischia di ripetersi anche dopo il recente aumento delle strutture di prima acco-glienza CPA-CDI e delle strutture SPRAR. Si dovrà verificare adesso, dopo la circolare del Mini-stero dell’interno n. 2204 del 19

marzo 2014 come saranno realiz-zati i servizi che la circolare im-pone ai gestori dei centri di prima accoglienza e se ci saranno con-trolli efficaci. Un caso a parte è costituito poi dal mega CARA di Mineo (Catania), una struttura talmente complessa che non consente neppure al suo interno un effettivo controllo sulle

regole minime di legalità e re-golarità amministrativa. Una prima esigenza che si pone a questo punto, soprat-tutto dopo l’aumento di danaro

pubblico destinato a questo settore, è l’attivazione di un ri-goroso sistema di MONITO-RAGGIO indipendente che

consenta controlli effettivi sulla spesa e sui servizi erogati dagli enti gestori. Una attività che le prefetture hanno purtroppo dimo-strato di non potere garantire effi-cacemente, al punto che in diverse occasioni si è reso necessario l’in-

tervento della magistratura penale (come nei casi dei CIE o dei CARA di Bologna, Modena e Gra-disca d’Isonzo). Una seconda esigenza che do-vrebbe soddisfarsi è costituita dal rapido decongestionamento delle strutture più grosse, come il CARA di Mineo o quello di Ca-stelnuovo di Porto (Roma), fa-cendo transitare il maggior numero possibile dei richiedenti asilo o dei rifugiati nei centri del sistema SPRAR il cui numero è stato adesso incrementato.

Dal barcone naufragato l’11 ottobre

erano partite tre telefonate di soccorso

alle autorità italiane. Ma la centrale

operativa ha perso due ore. E alla fine ha

risposto: “Chiamate Malta”. Così sono

annegati 268 siriani in fuga dalla guerra,

tra cui 60 bambini. (L’Espresso)

Page 13: Casablanca n.34

Sbarchi e accoglienza in Sicilia

Casablanca 13

Una terza esigenza improrogabile è la velocizzazione delle procedure per il riconoscimento della proce-dura internazionale. La misura del raddoppio delle Commissioni terri-toriali non si è ancora tradotta in una minore durata delle procedure, le nuove commissioni non si sa quando potranno cominciare ad operare, ed il clima nei centri per stranieri, compresi i CIE come quello di Trapani Milo nel quale sono stati rinchiusi una parte dei richiedenti protezione internazio-nale, sta rapidamente degenerando. Occorre dunque procedere all’in-

sediamento più rapido delle nuove commissioni ed all’adozione di

procedure più rapide.

ABUSI, XENOFOBIA E RAZZISMO

La questione di nuove politiche migratorie, e dunque di nuove leggi che dovranno essere adottate dal Parlamento, rimane purtroppo molto legata alle prossime sca-denze elettorali, e su questo si re-gistra, a livello europeo come a li-vello nazionale, una crescita espo-nenziale dei diversi populismi che spesso sconfinano nella xenofobia dichiarata e nel razzismo. In considerazione di questo pro-cesso degenerativo del tessuto so-ciale, alimentato dalle politiche più restrittive in materia di asilo ed immigrazione adottate in passato, oltre che dalla spinta dei partiti apertamente xenofobi, la questione è evidentemente molto più ampia dell’implementazione di un si-stema effettivo di accoglienza e di integrazione, dell’abolizione del

reato di immigrazione clandestina o della minore durata del tratteni-mento amministrativo nei centri di detenzione amministrativa. Oc-corre una svolta non solo sul piano legislativo ma anche sul terreno delle prassi applicate dalle autorità amministrative. Nella prospettiva delle misure da adottare sul piano amministrativo

occorre evitare categoricamente il trattenimento all’interno dei Centri

di primo soccorso ed accoglienza per un tempo eccedente le 48-72 ore. Cosa che si era riusciti a ga-rantire fino al 2008 quando era operante il cd. Modello Lampe-dusa, ideato dal Prefetto Morcone, supportato dall’avvio e dalla piena

efficienza del Progetto Praesidium. A partire dal febbraio del 2009, quel modello è stato progressiva-mente abbandonato, e nelle strut-ture di prima accoglienza (CPSA e CPA ex legge Puglia) si sono veri-ficati, e si continuano a verificare, anche in danno di minori stranieri non accompagnati, trattenimenti prolungati, senza fondamento giu-ridico, ed una serie di abusi che sono stati ben documentati dai giornalisti quando non si è impe-dito loro di svolgere le inchieste. Sul piano europeo andrebbe ri-messo in discussione il criterio do-minante del Regolamento Dublino III, che, seppure reso più elastico dalle modifiche entrate in vigore lo scorso gennaio con riferimento alla nozione allargata di nucleo fa-miliare, presenta ancora rigidità tali che addossano sui paesi più esterni dell’Unione il peso preva-

lente delle richieste di asilo, pro-ducendo come risultato una serie di movimenti secondari che ali-mentano intermediazione ed irre-golarità che non si possono contra-stare con le misure puramente re-pressive finora adottate. Allo stesso modo non si può pensare che anticipare il momento del pre-lievo delle impronte digitali a bordo delle navi della missione Mare Nostrum possa costituire una soluzione del problema, o ridurre il numero dell’immigrazione irre-

golare, come è confermato dal tasso degli allontanamenti dai cen-tri di prima accoglienza, sempre assai elevato. Va ricordato anche che dopo le stragi di ottobre nel Canale di Sici-

lia, il Parlamento Europeo ha adot-tato una risoluzione, del 23 ottobre 2013, nella quale si sottolinea l’importanza della riapertura di ca-

nali di ingresso legale per lavoro. Le proposte del Parlamento Euro-peo non si limitano alle questioni della protezione internazionale e del diritto di asilo, o alle linee guida delle missioni Frontex, ma riguardano anche i cosiddetti “mi-

granti economici”, distinzione an-cora adottata, anche se diventa sempre più difficile da utilizzare. Per loro il Parlamento “esorta l’Unione a elaborare una strategia

più ampia, soprattutto per il Medi-terraneo, che ponga la migrazione dei lavoratori nel contesto dello sviluppo sociale, economico e po-litico dei paesi del vicinato; invita l’Unione e gli Stati membri a esa-

minare gli strumenti disponibili nel quadro della politica dell’UE

in materia di visti e della sua legi-slazione sulla migrazione dei lavo-ratori”. Una sollecitazione che nessun paese europeo ha finora raccolto. In questo senso dovrebbe muo-versi l’Italia nel semestre di presi-

denza dell’Unione Europea. Una

direzione che si potrebbe seguire, ma che i primi passi del nuovo go-verno non lasciano certo intrave-dere. Le modifiche al quadro nor-mativo in materia di immigrazione ed asilo, sulle quali si stanno impe-gnando diverse commissioni parla-mentari, non sembrano tali da co-stituire una svolta autentica ri-spetto alle politiche seguite dai di-versi governi in passato. Occorre dunque combinare la proposta po-litica con la capacità di incidere su un mutamento immediato delle prassi amministrative applicate, in modo da anticipare, per quanto possibile, quelle riforme che ben difficilmente saranno approvate dal Parlamento in questa legisla-tura.

Page 14: Casablanca n.34

Il lager di Lampedusa chiude? No, raddoppia

Casablanca 14

Distruggiamo i campi e

allarghiamo i lager

Antonio Mazzeo

Mentre va avanti la campagna Porto l’orto a Lampe-

dusa, lo stato promuove Esproprio l’orto a Lampe-

dusa. Nell’isola, infatti, si procede con gli espropri di

terreni agricoli per ampliare il centro di accoglienza e soccorso degli immigrati. Quindi canali, briglie e va-sche per il deflusso … Le opere incidono in un’area

soggetta a vincolo paesaggistico, idrogeologico e am-bientale e sono state finanziate dall’Unione Europea. I terreni non sono pagati molto, ed è successo anche che alcuni appezzamenti coltivati, assegnati anni orsono in concessione all’Esercito Italiano per la Caserma

Adorno non siano stati mai pagati, nonostante le nume-rose richieste dei legittimi proprietari. Insomma lo Stato procede ad una sempre più massic-cia militarizzazione dell’isola senza preoccuparsi delle modalità con cui continua a trattare i suoi cittadini. I Lampedusani? Brava gente!

Mai più Lampedusa avevano fatto sapere dal governo dopo la tra-smissione al Tg2 Rai del video shock sulle “disinfestazioni di

massa” a cui erano sottoposti i mi-

granti rinchiusi nel Centro di Primo Soccorso e Accoglienza (C.P.S.A.) di contrada Imbriacola. Invece di essere chiuso, il lager vergogna d’Italia sta però per ri-

sorgere a nuova vita. L’amplia-

mento e il potenziamento infra-strutturale del Centro di Lampe-dusa era stato ammesso lo scorso mese di gennaio dal Ministero dell’Interno in una risposta ad

un’interrogazione parlamentare

inoltrata dal deputato del Movi-mento 5 Stelle, Francesco D’Uva.

Al parlamentare che chiedeva lumi

sulle politiche di accoglienza mi-granti che le autorità governative intendevano adottare in Sicilia, il ministro Angelino Alfano aveva annunciato che il 10 novembre 2013 erano stati avviati a Lampe-dusa i lavori di ristrutturazione del Centro “che consentiranno di am-

pliare la capienza fino a più di 350 posti, riducendo la possibilità che si verifichino situazioni di sovraf-follamento della struttura”. Sem-

pre secondo il ministro Alfano, il completamento dei lavori sarebbe avvenuto entro la primavera 2014. Adesso è il Provveditorato Interre-gionale per le Opere Pubbliche di Sicilia e Calabria del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a rilevare modalità ed entità dei la-vori di potenziamento del “centro

d’accoglienza” di Lampedusa. Nel

corso di una conferenza di servizi tenutasi nei giorni scorsi a Pa-lermo, l’Ispettorato, dal 14 dicem-bre 2011 stazione appaltante per l’esecuzione dei lavori di ripristino

del C.P.S.A. ha annunciato l’appo-

sizione del vincolo all’esproprio su

alcune aree confinanti con la strut-tura per “ospitare” migranti onde

realizzare “canali, briglie e vasche per il deflusso e recapito nel val-lone Imbriacola delle acque me-teoriche, previste nel progetto di ripristino dell’agibilità del Cen-

tro”. Le opere che incidono in un’area

soggetta a vincolo paesaggistico, idrogeologico e ambientale, sono state finanziate dall’Unione Euro-

pea grazie al PON Sicurezza per lo

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Il lager di Lampedusa chiude? No, raddoppia

Casablanca 15

Sviluppo – Obiettivo Convergenza 2007-2013 per un importo di 3.700.000 euro. Il progetto di mas-sima è stato redatto nel maggio 2012 dal Settore tecnico provin-ciale di Agrigento ed è stato ap-provato il 18 febbraio 2004 dopo alcune modifiche richieste dallo stesso Provveditorato interregio-nale, previa autorizzazione della Soprintendenza ai Beni Culturali e Ambientali di Agrigento e nulla osta del Comune di Lampedusa e Linosa e del Corpo Forestale della Regione Siciliana. Invariato l’im-

porto previsto per le opere, suddi-viso specificatamente in 2.600.050 euro per i lavori veri e propri e gli oneri di sicurezza e in 1.099.950 per le somme a disposizione dell’Amministrazione, fra cui i

3.500 euro destinati agli interventi di esproprio (solo 2.284 euro giun-geranno però alle tre famiglie pro-prietarie dei 3.345 mq di terreni agricoli che passeranno allo Stato). Per eseguire i lavori di amplia-mento del C.P.S.A. di contrada Imbriacola saranno occupati tran-sitoriamente altri terreni adibiti alla coltivazione di ortaggi per una superficie di 4.104 mq.

NON PIU’ CAVOLI…

“L’ennesimo esproprio

di terreni di proprietà dei lampedusani è un’ulte-

riore conferma della sempre più massiccia militarizzazione dell’isola e delle moda-lità con cui lo Stato con-tinua a trattare i suoi cit-tadini”, denuncia Gia-

como Sferlazzo dell’as-

sociazione culturale Askavusa. “Mentre si

lancia la campagna Porto l’orto a Lampedusa per cui i promotori cercano 7.000 euro, lo Stato ripropone la sua campagna Esproprio l’orto a Lampedusa.

Molto grave è che l’amministra-

zione comunale non abbia saputo portare a conoscenza dei diretti in-teressati questo ennesimo furto, e che non si sia opposta ad esso. Ci risulta inoltre che nessun sopral-luogo sui fondi interessati sia mai stato effettuato. La parte dei ter-reni che si vorrebbero espropriare e occupare andranno a frazionare irrazionalmente e inutilmente la proprietà dei fondi, ciò al presumi-bile fine di diminuire l’indennizzo

da corrispondere, lasciando ai le-gittimi proprietari parte dei loro terreni che però, di fatto, saranno inutilizzabili oltre che sicuramente inaccessibili e non più idonei alle finalità agricole”. Come ricorda l’associazione Aska-

vusa, il processo di militarizza-zione di Lampedusa e in partico-lare del vallone Imbriacola prese il via nell’aprile del 1986 a seguito

degli eventi bellici che videro con-trapposti allora le forze armate sta-tunitensi e il governo di Tripoli e del presunto tentativo di attacco missilistico libico contro l’installa-

zione “Loran” della Guardia co-

stiera Usa, al tempo ospitata nell’isola. Oltre ai terreni dema-

niali presenti nel vallone, dove vi era l’edificio del vecchio ospedale

militare dismesso, alcuni terreni

coltivati di proprietà di una fami-glia lampedusana di circa 5.670 mq., furono assegnati in conces-sione all’Esercito Italiano al fine di

garantire un presidio militare (Ca-serma Adorno). “Da allora i legit-

timi proprietari non hanno mai ri-cevuto alcun indennizzo da parte delle competenti Autorità Statali, nonostante le numerose richieste in tal senso formulate a partire del 1990”, ricorda Giacomo Sferlazzo.

“Nell’anno 2005 l’area di contrada

Imbriacola è stata smilitarizzata per potere assumere una nuova de-stinazione d’uso e precisamente

quella di Centro di prima acco-glienza per gli immigrati e ciò sulla base di un decreto d’urgenza

emesso dal Prefetto di Agrigento che autorizzava il Ministero dell’Interno ad occupare per un

anno i fondi di proprietà della fa-miglia Tonnicchi, ancora una volta senza corrispondere alcun inden-nizzo. Come se non bastasse, nel 2003 altre particelle di terreno dei medesimi proprietari, confinanti con quelle già illegittimamente oc-cupate, furono requisite con de-creto prefettizio, al fine dichiarato di realizzare un nuovo centro di permanenza con primaria funzione di primo soccorso e smistamento”. Il progetto fu poi abbandonato an-che se il provvedimento di occupa-zione non è mai stato revocato for-malmente e nessun indennizzo è stato attribuito ai legittimi proprie-

tari. Nel 2007 la famiglia Tonnicchi intraprese una lunga e costosa causa in-nanzi al Tribunale di Pa-lermo al fine di ottenere il risarcimento per l’occupa-

zione del terreno che in-tanto era stato irrimediabil-mente deturpato dal ce-mento. “Ad oggi ancora

non è stata pubblicata la relativa sentenza”, con-

clude Sferlazzo. “Intanto

altri terreni agricoli ven-gono sacrificati in nome della falsa emergenza immigrazione per in-crementare il business dei gestori dei nuovi centri di detenzione per migranti e richiedenti asilo”.

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Un accordo di mutuo soccorso tra RiMaflow e SOS Rosarno

Casablanca 16

Spremi gli agrumi, non i

braccianti

Gigi Malabarba

Nella piana di Gioia Tauro la ’ndrangheta ha

in mano il business e il caporalato, le pres-sioni sono forti e molti produttori non hanno alternative, o piegarsi o lasciare marcire le arance sugli alberi. SOS Rosarno, l’idea di mettersi in rete per sfuggire alla filiera di sfrutta-

mento. RiMaflow è una fabbrica metalmeccanica recuperata, che con il suo Fuorimercato, organizza la distribuzione dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano in collaborazione con il Distretto di economia solidale rurale e con il circuito dei Gas. Una collaborazione per una pratica quotidiana che oggi mette insieme i deboli con i deboli per produrre ortaggi, conserve e marmellate. Per la sovranità alimentare e un’alternativa economica e sociale. Piccole-grandi risposte concrete.

Quattro anni fa nella Piana di Gioia Tauro un gruppo di brac-cianti africani organizzò una ri-volta contro i caporali della ’ndrangheta che li supersfrutta-

vano e non li pagavano, perpe-trando il regime di lavoro in schia-vitù che ormai consideravano con-solidato durante la rac-colta delle arance. I caporali li accolsero a fucilate e una caccia all’uomo perseguitò i braccianti ribelli. Ma quella lotta lasciò il se-gno e di lì a poco nac-que SOS Rosarno, una rete creata da piccoli produttori locali e da persone impegnate a realizzare un modello di agricoltura, relazioni e società basato sulla so-stenibilità, sull’equità e

sulla solidarietà. Non un modello astratto, ma una pratica quotidiana

che oggi mette insieme i deboli con i deboli e che sta evolvendo in un percorso interetnico di costru-zione dell’alternativa: dai primi

progetti di economia etica in soli-darietà con i braccianti africani del primo periodo, alla creazione di una vera e propria cooperativa di

lavoro formata da afrocalabresi e calabresi di nascita. Obiettivo?

Produrre ortaggi, conserve e mar-mellate, coordinare arrivi e acco-glienza nell’ambito dei progetti di turismo responsabile e organizzare eventi di carattere culturale e inter-culturale. Inoltre, all’interno del progetto

SOS Rosarno è stato deciso di in-cludere da subito i pro-dotti della cooperativa nel proprio listino e di destinare allo sviluppo della stessa anche metà della quota di solidarietà che si versa con l’acqui-

sto dei prodotti. Questa quota è riservata ai pro-getti di solidarietà ed esplicitata con la mas-sima trasparenza come tutte le altre componenti che concorrono a for-mare il prezzo finale de-gli agrumi.

Quattro anni fa anche la lotta contro la chiusura della Maflow di

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Un accordo di mutuo soccorso tra RiMaflow e SOS Rosarno

Casablanca 17

Trezzano sul Naviglio raggiungeva il suo culmine con la semi-occupa-zione dello stabilimento che sa-rebbe durata mesi. Anche quella resistenza fu sconfitta, perché l’imprenditore polacco che acqui-stò all’asta gran parte del gruppo

industriale era interessato al mar-chio e alle commesse della Bmw cui Maflow conferiva la compo-nentistica e non ai lavoratori e alle lavoratrici, che alla fine furono messi in mezzo alla strada. Ma dall’esperienza di quella mobilita-

zione nacque il progetto di autoge-stione e una volta che Boryszew chiuse i cancelli nel febbraio 2013, un gruppo di operai e di operaie li riaprì per ridare una prospettiva di lavoro e dignità a chi era stato con violenza privato di tutto. Da allora RiMaflow, la rinascita della Maflow per opera di chi ci lavo-rava, è diventata il simbolo della “fab-

brica recuperata” se-

condo il modello ideato e sviluppato da ormai più di dieci anni nell’Argentina della grande crisi degli anni 2000. SOS Rosarno e RiMa-flow non potevano quindi non incontrarsi. Sia sul piano diretta-mente politico-sociale nella difesa della dignità del lavoro, ma anche su quello ecologico e della sovra-nità alimentare contro le grandi multinazionali.

SFRUTTATI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI!

Gli agrumi sono il prodotto “prin-

cipe” della Piana di Gioia Tauro:

limoni, mandarini, clementine e arance succose. Qui si approvvi-gionano i colossi dei soft drink come la Coca Cola che con le

arance di Rosarno produce la Fanta. La proprietà degli agrumeti è molto frazionata e ciò rende i pro-duttori ancora più deboli nei con-fronti dei grossisti che comprano in blocco il raccolto per conto delle multinazionali. La ’ndrangheta ha in mano il busi-

ness e il caporalato, le pressioni sono forti e molti produttori non hanno alternative tra il piegarsi o il lasciare marcire le arance sugli al-beri abbandonando la loro terra. Gli agrumi di SOS Rosarno sono prodotti da piccole aziende biolo-giche che auto-organizzandosi e mettendosi in rete sono riuscite a

sfuggire a questa filiera di sfrutta-mento. Il prodotto è certificato bio ed è ottimo, ma non è standardiz-zato: trattandosi di piccoli appez-zamenti in cui convivono piante di differenti varietà, la cassetta con-tiene frutti di diversi calibri e tipo-logie, perché raggiunto il giusto grado di maturazione il frutto viene raccolto e spedito a prescin-dere che si tratti di una navellina, di un tarocco o di un’altra varietà

ancora. Una cassetta di arance o di mandarini è dunque un piccolo

concentrato di biodiversità.Agli agrumi si aggiungono le squisite marmellate di mandarini e arance, l’olio extravergine, i pecorini fre-

schi e la ’nduja, passando per sa-

lumi tradizionali, miele, cosmetici naturali e vino. Tutti prodotti certi-ficati bio, realizzati nella zona da-gli aderenti al progetto di SOS Ro-sarno. E poi il turismo responsa-bile e la grande, difficile scom-messa del recupero del borgo me-dioevale di Nicotera: un progetto in parte già avviato e per il quale SOS Rosarno chiede appoggio al mondo dei gruppi d’acquisto soli-

dale. RiMaflow è una fabbrica metal-

meccanica recuperata che ha avviato in que-sti mesi di occupa-zione molte attività nell’ambito dell’eco-

nomia solidale, del ri-ciclo e del riuso oltre-ché nel settore dei ser-vizi ricreativi e cultu-rali (è stata da poco inaugurata anche una sala prove musicale in un box-laboratorio in-sonorizzato, un tempo

utilizzato per lo sviluppo della componentistica auto). Oltre agli ex operai Maflow anche un centi-naio di disoccupati hanno trovato posto per un’attività significativa di mercato permanente dell’usato.

Un insieme di attività che servono a dare una base concreta al tenta-tivo di costruire una prospettiva economico-lavorativa sostenibile e solidale e che al tempo stesso rap-presentano la naturale e coerente

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Un accordo di mutuo soccorso tra RiMaflow e SOS Rosarno

Casablanca 18

evoluzione della de-cisione di andare avanti insieme auto-gestendosi. Nell’ambito dell’As-

sociazione Occupy Maflow, che gestisce l’occupazione e ha

posto le basi per l’avvio della Coope-

rativa di produzione, si è costituita anche Fuorimercato, ossia un’attività che orga-nizza la distribu-zione dei prodotti del Parco agricolo Sud Milano in collaborazione con il Distretto di economia solidale rurale e con il circuito dei Gas.

I DEBOLI CON I DEBOLI PER ESSERE FORTI

Un percorso che non poteva non incrociare quello così diverso ep-pure per tanti versi così simile di SOS Rosarno: le scelte operate da RiMaflow permet-tono di innescare su Milano un processo virtuoso tutto interno all’economia soli-

dale. Un processo non solo economico e solidaristico, ma capace anche di sti-molare una rifles-sione profonda sulle strade finora intra-prese dal mondo del consumo critico e dai produttori per ra-gionare insieme sul futuro, sui modi di fare rete, incidere e

produrre cambiamento.RiMaflow è quindi diventato, oltre che la piattaforma logistica su Milano per i produttori del Parco Agricolo e per SOS Rosarno, anche uno dei luoghi di riferimento per discutere e confrontarsi su questi temi e la grande Festa del 5 aprile a Trez-zano “Spremi gli agrumi e non i braccianti” organizzata insieme a

SOS Rosarno e all’Associazione Il

Brigante di Serra San Bruno rappre-senta l’approdo di questo per-corso. La lotta contro Expo 2015, che ha ipocritamente intitolato “Nu-

trire il Pianeta”

quest’evento

devastante, e che una Rete di associazioni e movimenti porta avanti or-

mai da anni, vedrà proprio un pro-tagonismo diretto per i prossimi mesi di RiMaflow insieme a tutte le realtà di produttori e di consu-matori per la sovranità alimentare e un’alternativa economica e so-ciale a un sistema che non sa of-frire che Debito, Cemento e Preca-rietà, come Expo è stato rinomi-nato.

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Strage porto di Genova… dopo un anno… solo retorica

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Alla ricerca della

verità perduta

Santo Laganà

La notte del 7 maggio del 2013 al porto di Genova una nave urtò contro la torre facendola sbriciolare al suolo. Mori-rono nove persone che in quel momento vi si trovavano dentro per lavoro. Adele Chiello è la mamma di Giuseppe Tusa, uno delle nove vittime. Marinaio, militare della Guardia Costiera, aveva 30 anni. Adele da quel giorno disgraziato quasi non dorme, studia, si documenta. Vuole giustizia per la morte di suo figlio. Chi è re-sponsabile di quella strage sulla quale sembra essere caduto il silenzio dei media e delle isti-tuzioni? Adele Chiello, una donna siciliana, una donna piccola, minuta ma con una forza e una determinazione esplosive; una donna in cerca di verità e giustizia.

“Mio figlio e le altre vittime non possono essere considerati vittime del caso o della sfortuna. Sono vit-time del lavoro. Quella torre, non unica nel panorama dei grandi porti nazionali e internazionali, è, però, l’unica che è stata costruita a

pelo d’acqua, quasi come una pa-

lafitta. Chi ha permesso che fosse costruita in quel posto? E poi, una volta costruita, perché non è stata protetta da eventuali incidenti che in un bacino portuale come quello, stretto e angu-sto per manovre di grandi navi, potevano e dovevano essere previste? E poi an-cora: con quali mate-riali è stata costruita quella torre? E’ stato

sufficiente un urto, pur causato da una nave di grossa stazza, a far sbriciolare una torre alta 50 metri. E se ci fosse stato un

terremoto, avrebbe resistito quella torre? Sono stati mai fatti controlli preventivi? La stessa società arma-trice della nave, ovviamente per ri-durre la propria responsabilità, sta cercando di dimostrare che la parte esteriore di quella torre aveva uno spessore di appena 20 centimetri; e al suo interno vi era un ascensore e le scale; alla sommità della stessa, ad un’altezza di circa 50 metri, più

larga del cilindro della torre, come il cappello di un fungo, c’era la

zona dei comandi dove, di solito operava mio figlio insieme agli al-tri operatori. L’ipotesi, quindi, che

il datore di lavoro di mio figlio lo abbia mandato a lavorare in un ambiente ed in una struttura insi-cura è, a mio avviso, molto più di una semplice ipotesi”.

Adele è un fiume in piena. L’abbiamo in-

contrata a Milazzo (ME) dove vive da sola circondata dal ri-cordo di suo figlio, uno stillicidio di foto che lo ritraggono ora vestito da marinaio, ora impegnato nel suo hobby preferito, il dj. E’ vedova dal 1993 e ha altre due figlie che vivono rispettivamente a Palermo e in Pie-monte: Giuseppe era il

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Strage porto di Genova… dopo un anno… solo retorica

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suo unico figlio maschio. Da quella tragica notte lei non ha smesso di studiare, di inda-gare anche autonomamente su quella tragedia. Ha scoperto qualcosa di importante?

“Io sono stata decine di volte a Ge-nova e ho avuto modo di parlare con tanta gente; ho scoperto una cosa inquietante, per altro debita-mente documentata. Ho scoperto che nel novembre del 2012, sei mesi prima, quindi, della trage-dia, nei pressi della torre e del molo Giano c’è stata l’esi-

genza di aumentare la profondità dei fondali per garantire il pescaggio delle grandi navi che ope-ravano in quella zona. Questo au-mento dei fondali è stato ottenuto tra-mite l’uso di cariche

esplosive. Queste cariche esplosive hanno causato danni e preoccupazione addirittura a qualche chilometro da dove sono state usate, fin al centro della città di Genova. Un prete di una zona di Genova ha addirittura costituito un comitato di cittadini che ha protestato contro l’uso di

queste cariche. Tutto questo è re-golarmente documentato da nume-rosi articoli della stampa locale del tempo. Mi sembra ovvio porgere una domanda: se queste cariche esplosive hanno causato qualche danno a qualche chilometro di di-stanza, qualcuno ha mai pensato di verificare eventuali danni causati alla torre visto che le cariche fu-rono fatte brillare nei pressi di quella struttura?”

Dove si trovava suo figlio quando la torre è caduta giù?

“Mio figlio si trovava in ascen-sore. In ascensore erano partiti in 4. Uno dei quattro è uscito prima per vidimare la sua presenza e sono rimasti in tre. Al momento dell’urto dei tre uno si è salvato e

gli altri due, fra i quali mio figlio, sono rimasti intrappolati nell’ascensore. Anche qui sorgono

numerosi interrogativi. La persona che si è salvata ha subito indicato ai soccorritori l’esistenza di per-

sone dentro l’ascensore (testimo-

nianza è documentata). Non riesco dunque a capacitarmi come sia stato possibile che l’incidente è av-

venuto alle 22, 59’, 42” del 7 mag-

gio e i morti dentro l’ascensore

sono stati rinvenuti alle ore 14, 45 dell’8 maggio, ben 15 ore dopo.

Malgrado abbia più volte richiesto copia dei verbali dei soccorsi, di questi ultimi non si hanno notizie: forse sono secretati?”

Lei con un gesto di grande no-biltà morale ha rifiutato un primo acconto di circa 200 mila

euro che la società armatrice le ha proposto a titolo di risarci-mento. Mi scusi la domanda un po’ banale: ma non le avrebbero

fatto comodo quei soldi visto che la sua ricerca di verità e giustizia ha comunque dei costi altissimi (avvocati, viaggi, perizie di parte, ecc), per una donna come lei che vive di pensione?

“Io ho rifiutato quei soldi perché nessuno potrà mai comprare la vita di mio figlio. Giu-seppe non è in vendita. Fino ad ora ho utilizzato i miei ri-sparmi e i soldi di mio fi-glio, il tfr, l’ultimo stipendio

che gli è stato erogato e le raccolte che hanno fatto i suoi amici. Non saranno i soldi a farmi arrendere: se è necessario venderò anche i chiodi di casa mia; fin quando avrò vita il mio unico obiettivo è restituire a mio figlio verità e giusti-zia”.

Perché, secondo lei, non si parla più di questa storia? Perché sembra caduta una cappa di silenzio su questa strage? E’ vero che ha

scritto a Fabio Fazio chiedendo-gli di ricordare questa tragedia all’ultimo festival di Sanremo?

“Andando avanti nelle mie inda-gini, nei miei studi, nelle mie ri-cerche storiche sul porto di Ge-nova mi sono resa conto che su questa struttura portuale vige una sovrastruttura di potere impenetra-bile funzionale a tanti interessi, forse non tutti leciti. E da questo porto che sono partite le cosiddette “navi dei veleni” sulle quali inda-

gava anche Ilaria Alpi e, guarda caso, alcune delle indagini più controverse hanno riguardato pro-prio le navi della compagnia Mes-

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Strage porto di Genova… dopo un anno… solo retorica

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sina Spa alla quale apparteneva an-che la jolly nero, la nave della strage. E il silenzio uccide. Sì, è vero, ho scritto a Fabio Fazio per-ché l’ho sempre apprezzato per il

suo interesse per i casi più contro-versi della nostra nazione. E poi, mi sono detta: Fazio è un ligure, il festival si svolge in Liguria, do-veva essere quasi normale ricor-dare quella sciagura; e invece si è visto come è andata a finire: du-rante il festival si è parlato di di-soccupati, di Ucraina, dei marò in India (tutte cose importanti, per carità) ma della strage della torre del porto di Genova, non si è fatto cenno. Né ho mai ricevuto risposta alle mie lettere. Sì perché di lettere ne ho inviate più di una: la prima era di richiesta, la seconda di solle-cito, la terza di…insulti”.

Il prossimo 7 maggio ricorrerà il primo anniversario della strage. Cosa si aspetta dalle autorità, dallo Stato per quella ricor-renza?

“ Non mi aspetto nulla di impor-tante. So già cosa si farà. Mi è stato fatto recapitare un protocollo. Vede, mesi fa erano partiti alla grande; addirittura avevano previ-sto una sorta di monu-mento che ricordasse i “nove

angeli”,

così li hanno de-finiti. Pian piano è tutto sfu-mato. Ci sarà una messa con in prima fila tutte le au-torità, forse una conferenza stampa e la sera un giretto in nave, solo i familiari, fino al luogo del disastro

dove verrà lanciata in mare una corona di fiori. Retorica, solo vuota retorica. Io avevo proposto un corteo di familiari e cittadini dalla capitaneria al molo Giano e mi hanno risposto, udite, udite, che non ci sono i requisiti di sicurezza. Ora parlano di sicurezza. I militari che muoiono durante il loro lavoro in guerra sono eroi, i militari che muoiono durante il loro lavoro in pace sono militari di serie B?Io il 7 maggio sarò a Genova e ricorderò quella strage a modo mio, anche se so che le televisioni si guarderanno bene da inquadrarmi e i giornalisti non mi intervisteranno.”

Signora Adele, l’inchiesta in

corso sembra avere imboccato la direzione dell’incidente:. Perché

a lei non convince questa pista?

“Questa è una pista ma non può essere considerata l’unica. Certa-

mente la nave o i rimorchiatori o entrambi hanno le loro responsabi-lità. Per altro la storia della società armatrice di quella nave, la Mes-sina Spa è costellata da incidenti anche mortali e in alcuni di essi hanno avuto un ruolo sia il coman-dante della Jolly Nero (la nave dell’incidente, ndr), sia il pilota del

porto che si trovava a bordo della nave quella notte. Ma io penso che esistano tante altre responsabilità

che devono assolutamente venire fuori”.

Che ragazzo era suo figlio?

“Può sembrare scontato che una madre dica che suo figlio era un angelo. Provate a chiederlo a quanti l’hanno conosciuto. E Giu-

seppe era conosciuta da tanti per via della sua passione: la musica, era un deejay”.

Signora Adele ha fiducia nella giustizia?

“ Fiducia? E’ una parola impor-

tante. Non so. So solo che la mia famiglia è sempre stata pervasa di valori come diritti, doveri, legalità e giustizia. E’ un diritto-dovere chiedere giustizia”

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Elisabetta Tripodi: donna meridionale

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Elisabetta Tripodi Sindaca anti ’ndrangheta? No,

donna meridionale Franca Fortunato

A Rosarno, paese di 15 mila abitanti nella Piana di Gioia Tauro, il paese calabrese a più alta densità di ’ndrangheta, il

paese di Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola, il centro della rivolta dei migranti, dal 2010 a guidare il Comune, dopo il secondo scioglimento per mafia, c’è Elisabetta Tripodi. Quando

era candidata sindaco le misero contro anche una lista di sole donne “La città del Sole”, “donne che non facevano politica, messe lì dagli

uomini”. Nessuno ci scommetteva sopra, ma lei a sorpresa ha scombussolato e sbaragliato

tutti. Il suo punto di forza? Il coraggio, la forza, la determinazione, le pratiche di buon go-verno. Il rispetto per i migranti.

Vive sotto scorta ed è conosciuta ed apprezzata anche fuori dalla Calabria. Il suo nome è stato asso-ciato più volte a quello di Anna-maria Cardamone, sindaca di De-collatura, di Maria Concetta Lan-zetta, ex sindaca di Monasterace ed ora Ministra del governo Renzi, di Carolina Girasole, ex sindaca di Isola Capo Rizzuto, da mesi agli arresti domiciliari con l’accusa – a cui mi ostino a non credere – di voto di scambio, turbativa d’asta e

abuso d’ufficio a favore degli

Arena, una delle più potenti fami-glie mafiose di Isola. Elisabetta, come e insieme alle al-tre, non ha mai accettato l’eti-

chetta di “sindaca anti ’ndran-

gheta”, ma ha sempre parlato del

suo desiderio di cambiare il pro-prio paese. Nata e cresciuta a Rosarno, dove ha frequentato tutte le scuole, Eli-sabetta è la prima di tre sorelle, di

cui una vive a Siena ed è gineco-loga, l’altra in provincia di Man-

tova ed è dentista. È figlia di una donna di cui è molto orgogliosa. “Mia madre, Lidia, è insegnante.

Ci ha sempre educate ad avere un lavoro ed una nostra indipendenza economica. Nonostante fosse una donna tradizionale e venisse da una famiglia borghese, è stata una delle prime donne a lavorare quando questo veniva ritenuto di-sdicevole. Si è presa il diploma e ha fatto l’università mentre inse-

gnava. Non si è laureata perché sono nata io. Le mancavano tre esami e questo è sempre stato il suo cruccio. Lei è cresciuta con la madre e i nonni. Mio nonno è morto in guerra”. Elisabetta ha sempre creduto che “la donna sia uguale all’uomo e

deve avere la sua indipendenza”,

forse perché, dice “ho fatto un la-

voro che viene visto come ma-schile. Sono arrivata nel Comune e

mi hanno detto “donna di prima

nomina e meridionale”. Tornavo a

mezzanotte dal Consiglio comu-nale da sola in macchina. Ho sem-pre vissuto in maniera autonoma. Ho trovato anche un compagno in-telligente che ha sempre collabo-rato”. Finito il liceo Scientifico, si

scrive in giurisprudenza a Pavia perché “lì c’erano” delle sue “ami-

che”. Voleva scappare da Rosarno,

dove lascia il suo fidanzato. Non le piaceva stare lì. Torna soltanto dopo la laurea in giurisprudenza. Fa pratica presso uno studio legale e, quando nel 1994 vince il con-corso per segretaria comunale, sceglie come sede Varese perché lì si era traferito il suo fidanzato per insegnare. Si sposano e diventa madre del primo figlio. Alla fine del 1998 ha la possibilità di trafe-rirsi e tornare a Rosarno. “Sono

stata molto combattuta. Da una parte volevo tornare perché i miei genitori erano rimasti soli. Mia

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Elisabetta Tripodi: donna meridionale

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madre è figlia unica, le mie sorelle sono tutte fuori, ed io ho un rap-porto molto forte con lei”. Torna

“col sogno di far vivere” i propri

figli nel paese dove era “vissuta da

ragazza”. Il marito resta a Varese,

lei va a vivere insieme al figlio da sua madre. Lavora come segretaria comunale a San Ferdinando, a po-chi chilometri da Rosarno. Nel 2000 nasce il suo secondo figlio e due anni dopo rientra a Rosarno anche il marito.

LA POLITICA COME DOVERE CIVICO

“Sono stati anni faticosi. La di-

stanza, i bambini, alla fine ce l’ab-

biamo fatta”. Nel 2007 la sua vita cambia. Crea, con alcune amiche, un’associa-

zione culturale, con cui organizza “giornate della donna, incontri

sulla violenza di genere, presenta-zione di libri”. Nel 2008 Il Co-

mune viene sciolto per mafia, il sindaco arrestato e poi prosciolto. “Nessun amministratore dal 2003 ha finito il mandato. Dal 2003 al 2005 un sindaco di Forza Italia e poi commissariamento. Dal 2006 al 2008 ancora Forza Italia e scio-glimento per mafia”. In vista delle

amministrative del 2010, alcuni conoscenti e amici del Pd, di cui il marito aveva fondato il circolo lo-cale insieme alla sua “ex compa-

gna di banco del Liceo”, le pro-

pongono di candidarsi. “No, asso-

lutamente, siete pazzi” è la sua

prima risposta. Le donne dell’As-

sociazione la incoraggiano, gli uo-mini insistono. Sua madre è forte-mente contraria. “Non ti devi can-

didare. Non ti rendi conto, ti vo-gliono usare. Vogliono utilizzare il tuo nome”. Contrarie anche le so-

relle e i figli. Nel gennaio 2010 scoppia la rivolta dei migranti, su cui si dice convinta che dietro non c’era “la regia della ’ndrangheta”

perché non “ha piacere che ci sia

la militarizzazione del territorio”,

ma che “sia stata frutto della cul-

tura mafiosa di quella parte mino-ritaria della popolazione rosarnese delle campagne, non abituata a stare a contatto con i migranti come il centro urbano. Si sono scandalizzati perché facevano la pipì per strada. Questo è stato uno dei motivi del conflitto che si è poi innescato nella cultura mafiosa del non toccare una donna. Quello che li ha fatti andare fuori testa, infatti, è stato il fatto che si disse avessero picchiato una donna e che questa avesse abortito”. Qualche mese prima due donne di famiglie mafiose di Rosarno, Giu-seppina Pesce e Maria Concetta Cacciola, “suicidata”, avevano

fatto la scelta di farsi collaboratrici di giustizia. “Questa cosa mi ha

fatto capire che nella parte femmi-nile di questo paese c’era una

grandissima volontà di cambia-mento, da parte di tutte le donne”.

Elisabetta non accetta che Rosarno venga presentato come “il paese

della ’ndrangheta e del razzismo”

e decide di candidarsi. “Ho accettato come una sorta di

dovere civico, per fare qualcosa per il mio paese. Provarci. In cam-pagna elettorale ho detto che vo-levo la normalità e che se tutti stiamo alla finestra a guardare e diciamo che gli altri devono fare e ci lamentiamo sempre, questo paese non cambierà mai. Un paese che al mio ritorno avevo trovato peggiorato, sul piano sociale e po-litico. Non pensavo di vincere”. A

convincere la madre, donna molto religiosa, ci pensa uno dei due par-roci del paese che conosce Elisa-betta “fin da bambina”.

LA CASA E LA CAPPELLA DEL BOSS

Elisabetta porta avanti una campa-gna elettorale “bellissima”, anche

se era stato “difficile formare le li-

ste”, la gente “non voleva candi-

darsi, aveva paura”. “Eravamo fa-

vorite per il modello di donna di-verso che offrivo. Le bambine sono state fantastiche. Dicevano alle madri che dovevano votarmi. Mi hanno votata molte donne”. Il 13 dicembre 2010 vince al bal-lottaggio con 3370 voti (+ 325 di scarto) con una lista civica e di si-nistra e parecchie donne dentro. Era stata sostenuta da tre liste (Sel, parte dell’Udc e dal Pd “apparen-

temente unito”). Insieme a lei en-

trano in Consiglio comunale altre tre donne, di cui due della maggio-ranza e una dell’opposizione,

eletta in una lista di sole donne “La città del Sole”, “donne che

non facevano politica, messe lì da-gli uomini” in contrapposizione a

lei. Un’altra della maggioranza en-

trerà in Consiglio al posto di un consigliere, nominato assessore. “Su 20 consiglieri 5 donne. Una

cosa rivoluzionaria per Rosarno, mai successo”. I primi mesi sono

stati difficilissimi. “Tutti dicevano

che duravo sei mesi, come era av-venuto, vent’anni prima con An-

gela La Rosa, eletta sindaco dopo il primo scioglimento per mafia (1988) e fatta dimettere con mi-nacce e intimidazioni”. A distanza

di pochi mesi si ripresenta il pro-blema dei migranti e della loro si-stemazione. Si allestisce un campo che viene dato in gestione a una cooperativa. Si scontra con i Pe-sce, una delle più potenti famiglie mafiose di Rosarno insieme ai Bellocco. Insieme alla Giunta emette un’or-

dinanza di sgombero di una casa abusiva, che andava fatta dal 2003 e che nessuno aveva fatto, e un’al-

tra di abbattimento di una cappella abusiva, entrambe di proprietà della famiglia Pesce. Dopo varie difficoltà, perché la casa era occu-pata da un giovane agli arresti do-miciliari, riesce nell’intento. È al-

lora che dal carcere l’ergastolano

Rocco Pesce, figlio del capomafia

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Elisabetta Tripodi: donna meridionale

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di Rosarno Giuseppe, le invia una lettera minatoria. Elisabetta “all’inizio” pensava

“fosse uno scherzo”. Le viene as-

segnata la scorta. “Ho fatto solo 7

mesi da sindaco libero, poi con la scorta la mia vita è stata sconvolta. Non la volevo. Mi pesa. Uscire con la famiglia e avere sempre ap-presso due persone non è bello. Non posso passeggiare, frequen-tare il paese e le poche amiche che ho. Se passeggio mi guardano. I primi tempi mi vergognavo e non uscivo”.

NON HO MAI VOLUTO LA SCORTA

Accanto alla notorietà e alla soli-darietà di donne e uomini di Ro-sarno, Elisabetta sente crescere in-torno a sé anche “l’odio”, “l’invi-

dia”, “la rivalità” dei suoi opposi-

tori, dentro e fuori il Comune. “Il

fatto che io abbia avuto molta visi-bilità me lo vogliono fare pagare. Non si sopporta che abbia uno spazio per vicende che io avrei preferito non vivere assoluta-mente. Non vedo cosa mi devono invidiare. Dicono che la scorta co-sta e che vado a ritirare premi non meritati. Dopo la scorta non poten-domi intimidire, hanno cercato di delegittimarmi”. Si sente oggetto

di attacchi pesanti sulla stampa lo-cale. “Sono stata attaccata anche da un’associazione anti ’ndran-

gheta per non essermi costituita parte civile nel processo contro Rocco Pesce, che è stato condan-nato e poi assolto per quella let-tera. La parte offesa non ero io di-rettamente, ma tutta la Giunta e in-sieme abbiamo deciso deliberata-mente di non costituirci parte ci-vile perché con il processo in corso all’‘Inside’, dove Pesce era

imputato, ci sembrava eccessivo. C’era un clima di paura e dovevo

tenere unita la Giunta. Alcuni as-

sessori hanno subito anche loro in-timidazioni. Spesso sono stata io a dover dare coraggio alla squadra. Siamo parte civile in ben 18 pro-cessi per mafia”. Elisabetta resiste

e va avanti. “Non mi dimetterò

mai. Ho sopportato talmente tanto. Ho appaltato opere per 28 milioni di euro e voglio portarle avanti. Non li voglio lasciare in mano a nessuno. Lavori per la realizza-zione di un centro sportivo, una pi-scina, un centro culturale con tea-tro e cinema, un centro di forma-zione per migranti, un’isola ecolo-

gica, case popolari per i migranti”. Nel novembre 2012 l’Udc ritira

dalla Giunta i suoi assessori. “Vo-

levano fare terra bruciata intorno a me per farmi dimettere”. Nel set-

tembre 2013 si dimettono due con-sigliere della maggioranza con la motivazione che “non erano d’ac-

cordo con la nomina di un asses-sore, concordato su proposta di una delle due”. La minoranza

cerca di approfittare e presenta una mozione di sfiducia, che non passa perché non ha i numeri. “Le due

dimissionarie le abbiamo sostituite ma siamo sempre 11 a 10, un equi-librio molto precario”. Elisabetta sente intorno a sé l’ap-

provazione di molte donne. “Le

donne del paese, una parte, anche quelle che non mi hanno votato, mi dicono che ammirano il corag-gio per quello che sto facendo e come sto resistendo. Ho ricevuto insulti su facebook da altre donne, che sono mogli o fidanzate di uo-mini che parlano male di me. In li-nea di massima ho più consensi che dissensi da parte delle donne”.

C’è amarezza in lei ma non rasse-

gnazione.

LA SPERANZA DI UNA VITA NORMALE

“Mi aspettavo che fosse difficile ma non che fosse così difficile. Né mi aspettavo i premi e i riconosci-

menti che mi hanno dato. Mi sem-bra di non aver fatto niente di strano. Penso che era giusto fare queste cose e che altre al posto mio avrebbero potuto fare. Forse avrebbero avuto più paura. Questa rivoluzione nella mia vita perso-nale non me l’aspettavo. Quando

ritornerò alla vita normale, avrò un po’ di rimpianto, ma ho desiderio

di tornare alla normalità. Avere più tempo per me, per i miei figli. Di questa esperienza quello che più mi ha fatto male non è la ‘ndrangheta, che è una cosa che tu

metti in conto, ma la mala politica che prima cerca di intimidirti e poi di delegittimarti”. Nel 2015 scadrà il suo mandato e ha deciso che non si ricandiderà. Si dice convinta che dopo di lei “ci

sarà la restaurazione a Rosarno perché solo nel periodo dopo lo scioglimento per mafia è facile che candidino persone nuove”. I “vec-

chi politici aspettano che io fini-sca”. Non si sente sconfitta “asso-

lutamente” perché, grazie a lei, “di

Rosarno finalmente si è parlato in termini diversi”. Non ha rimpianti

perché pensa che “ognuno che fa

una scelta non si deve guardare in-dietro. Le cose le deve affrontare giorno per giorno così come av-vengono”. Spera che passi il mes-

saggio che il suo “sacrificio” sarà

servito a dire che è possibile anche a Rosarno che le donne facciano politica”. Desidera che i suoi figli

“scelgano in libertà se restare o

andare via”. Al di là delle scelte

che Elisabetta farà, nessuno/a po-trà cancellare il fatto che a Ro-sarno una donna ha saputo cam-biare ed amministrare, con signo-ria ed autorità, un paese notoria-mente conosciuto per la presenza della ’ndrangheta e la mala poli-

tica.

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Modello Messina…

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Modello Messina Il libro di Marcello La Rosa, un poliziotto laureato in Scienze Politiche e dot-

tore di ricerca in Storia delle istituzioni giuridiche e politiche

Antonella Cocchiara

Altro che città babba, tranquilla, altro che realtà marginale rispetto ad altre realtà del Meri-dione d’Italia! La mafia, nella “tranquilla” città di Messina, è ben radicata e innumerevoli

sono i suoi coinvolgimenti col notabilato cittadino. Il “modello Messina”, a causa degli in-

trecci col mondo della politica e delle istituzioni, per spessore e organizzazione pare sia un gradino sopra rispetto a quanto strutturato nel territorio circostante. Un libro “Il fenomeno

mafioso: Il caso Messina” di Marcello La Rosa per

ricostruire la storia mafiosa della città babba.

Nella storia della mafia siciliana e dell’antimafia, il 1982 è un anno di svolta: anno di “morti eccel-

lenti”. Proprio da questa data ha

inizio la storia ricostruita da Mar-cello La Rosa nel suo libro “Il fe-

nomeno mafioso: Il caso Messina”

presentato il 14 marzo scorso nella sede di “Addiopizzo” (un bene

confiscato alla mafia). Il libro accende i riflettori su ciò che accade dal 1982 al 1994 nella città dello Stretto, basandosi su un’attenta ricognizione delle fonti

giudiziarie (verbali di polizia, te-stimonianze e sentenze) e su un’intervista a Iano Ferrara, il boss del villaggio CEP. Nessuno dei grandi storici contem-poranei della mafia ne aveva fi-nora parlato, finendo per avvalo-rare quello stereotipo secondo il quale Messina, la città babba, aveva tutt’al più una sua delin-

quenza locale, che non era tuttavia assimilabile all’associazione di

tipo mafioso. Nella prima del libro si ricostrui-scono storia e dinamiche dei clan messinesi, guerre intestine per l’affermazione della leadership,

ascesa di alcuni clan e successivo declino a vantaggio di altri, molte-plici fatti di sangue. Dopo un confronto tra mafia siciliana e cala-brese, si delineano an-che, i connotati della mafia messi-nese: una sorta di “mafia dell’area

dello Stretto” con peculiarità sue

proprie. Una mafia che presenta profili verticistico-militari attinti da “Cosa nostra”, coniugati però

con alcuni tratti della ‘ndrangheta

calabrese. Non la struttura famili-stica della ‘ndrangheta, ma di si-

curo le liturgie dell’affiliazione, le

qualifiche e la parziale autonomia dei clan che pure – almeno fino a una certa data – si riconoscono nell’egemonia di un capo, Gaetano

Costa, detto facci ‘i sola. Mentre però la ‘ndrangheta, pro-

prio per la coincidenza tra la sua struttura organizzativa e la fami-glia naturale, conosce in modo li-mitato il fenomeno del pentitismo, la mafia messinese finisce per di-ventare un “caso di specie”: tutti i

sopravvissuti alle guerre di mafia

si pentiranno per poter trarre pro-fitto dalla normativa premiale. Come dire: “Tutti pentiti, nessun

pentito”. Nella seconda parte, l’Autore pro-

pone alcune linee interpretative delle dinamiche di gestione e di approvvigionamento del denaro, derivanti principalmente dal racket delle estorsioni e dal traffico di droga, entrambi determinanti sia per i proventi illeciti che ne deri-vano sia a dimostrazione del pieno controllo del territorio, ma anche da attività “minori”, come qualche

rapina, l’usura e la gestione delle bische più o meno clandestine. A proposito del traffico di droga, l’autore si sofferma su Luigi Spa-

racio, definendolo un «esempio eccelso di intelligenza criminale». In realtà, Sparacio è un boss ano-malo, che costituisce un caso unico in Italia per il fatto di essere

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Modello Messina…

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un incensurato, mai condannato da un tribunale italiano, nonostante la sua vita sia stata dedicata intera-mente al crimine. La Rosa studia il “caso Sparacio” e collega la sua

intelligenza organizzativa alla puntuale applicazione della cosid-detta “teoria divisionale”.

LA PACE DI VOLTERRA

A differenza del clan Galli, che aveva concentrato in un’unica

zona lo spaccio di droga, Sparacio aveva diviso il territorio cittadino in “rioni” e questi a loro volta in

“quadranti”, rendendo così più ef-ficiente e vicina all’utente la distri-

buzione della droga; creando oc-cupazione dal momento che lo spaccio era affidato a un consi-stente numero di pusher; redistri-buendo dal basso i proventi dell’attività criminale; facendo di-

ventare più difficile alle forze dell’ordine l’individuazione dei

capi-cosca, che erano esentati dall’operare direttamente sul terri-

torio. Sparacio è anche bravo a reinvestire i proventi dell’attività

criminale. Una parte dell’ingente

volume d’affari viene da lui “sag-

giamente” investita nell’usura.

Centrale sarà il ruolo svolto dalla suocera, Vincenza Settineri, anche se entrambi negheranno sempre di aver “lavorato assieme”. Il libro restituisce anche un’imma-

gine fragile e sovraesposta del tes-

suto commerciale e imprendito-riale della città, assoggettato alle estorsioni, che rappresentano la maggiore voce delle entrate dei clan peloritani: la stra-grande maggioranza dei commercianti, esercenti e imprenditori messinesi, ogni cantiere edile a co-minciare da quello di San Filippo per la costruzione del nuovo campo sportivo comunale, che fece entrare circa un miliardo e mezzo di lire nelle casse della mafia mes-sinese, gestite dal cassiere Dome-nico Di Dio, che era reggente di Iano Ferrara quando questi era la-titante. Anche i venditori ambu-lanti, come per esempio u tedescu, il venditore di granite e brioches del viale Europa, e qualche casa di appuntamento della provincia. In controluce, appaiono però an-che le contiguità tra vittime e car-nefici: in qualche caso i primi, per sottrarsi all’estorsione, non ci pen-

sano due volte ad avviare e intrat-tenere rapporti societari con i ma-lavitosi. Impossibile soffermarsi sull’intera

trama del libro: l’invito è quello di

leggerlo, per ricavarne un quadro per molti versi inedito della città

di Messina, per cono-scerla me-glio e aver consapevo-lezza del perché, per esempio, sia tanto più cara e tanto più povera di altri capo-

luoghi di provincia siciliani. Almeno un cenno meritano, tutta-via, per gli anni presi in esame da La Rosa, i rapporti tra mafia e isti-tuzioni: le carceri e le connivenze con alcuni agenti di custodia (Gio-

vanni Moschella e Francesco Scaramuz-zino), ma anche il ceto politico e la magistratura. Sulle carceri italiane si parla tanto per le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere i detenuti. L’affresco che offre questo libro è

molto diverso. Le carceri sono la “casa del mafioso”, il luogo in cui

si muove con grande padronanza: in carcere si diventa “figliocci” e

si tengono le cerimonie di affilia-zione; le carceri sono il luogo di accordi di pacificazione tra fami-glie rivali (per esempio, la “Pace

di Volterra” tra i Costa e i Cariolo,

siglata nel penitenziario toscano nel giugno del 1981); in carcere si definiscono nuove strategie, si de-creta la “fine” di vecchi capi e la

nascita di nuovi organigrammi, e se ne dà plateale conoscenza, con gesti dall’alto valore simbolico

(nel carcere-albergo di Gazzi, Ma-rio Marchese comunica a Gaetano Costa la determinazione di ren-dersi autonomo facendosi spostare – lui e tutti i suoi uomini – di cella, dal reparto “cellulari” al re-

parto “camerotti”); in carcere si

continua a esercitare lo spaccio di droga; in carcere entrano anche le armi; dalle carceri partono gli or-dini dei capi per la gestione del territorio durante la loro deten-zione; dal carcere partono infine le “sentenze di morte” emesse dai

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Modello Messina…

Casablanca 27

boss o altri provvedimenti puni-tivi, come l’ordine di uccidere

l’agente di custodia Giovanni Ter-

razzino e poi l’avvocato Giuseppe Carrabba. Ed è sempre da un luogo delle istituzioni – l’Aula del

maxiprocesso del 1986 – che sa-rebbe partito l’ordine di giustiziare

l’avv. Nino D’Uva, un eccellente

penalista colpevole solo di essere un professionista integerrimo, pa-dre e suocero di due magistrati a cui mai e poi mai avrebbe chiesto di mettersi a disposizione dei suoi clienti.

ATTRAZIONE FA-TALE

Secondo Paolo Borsel-lino «Politica e mafia sono due poteri che vi-vono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si met-tono d’accordo». Sin dalle sue origini, la ma-fia siciliana si è presen-tata come l’anti-Stato, un contropotere capace di soddisfare meglio dello Stato le esigenze degli abitanti di un quartiere o di una certa comunità, di garantire la sicurezza. Marcello La Rosa riporta in proposito una frase del boss del Cep Iano Ferrara, secondo il quale, grazie al suo operato, «il quartiere è sicuro, nes-suno ruba niente e le per-sone possono lasciare la porta di casa aperta». Non solo, ma mafia e politica sono poteri che si alimentano di con-senso popolare tanto da assecon-dare quella che La Rosa definisce la «attrazione fatale» tra mafia e politica. Noi la percezione di ciò l’abbiamo ogni volta che si svol-gono delle consultazioni elettorali.

Per il periodo da lui studiato, La Rosa conferma questa percezione, tant’è che afferma: «I mafiosi messinesi riuscirono [non solo a incidere sui risultati delle elezioni comunali, ma] anche a condizio-nare la politica nazionale ed a rac-cogliere tanti voti fino a consentire le nomine di assessori e di un vice-ministro (v.l’on. Saverio

D’Aquino, noto oncologo ed espo-nente del PLI ). Anche la magistratura del tempo

non esce bene da questo affresco: accanto a PM coraggiosi ma forse poco esperti in processi di mafia, altri risultano decisamente pavidi, inerti o addirittura collusi. La Rosa ne fa i nomi, sempre sulla base delle risultanze giudiziarie.

Altro che città babba, tranquilla, altro che realtà marginale rispetto ad altre realtà del Meridione d’Ita-

lia! La mafia, nella “tranquilla”

città di Messina, è ben radicata e innumerevoli sono i suoi coinvol-gimenti col notabilato cittadino, tanto da ritenere che il “modello

Messina”, a causa degli intrecci

col mondo della politica e delle istituzioni, sia addirittura per spes-sore e organizzazione un gradino sopra rispetto a quanto strutturato

nel territorio circo-stante. La ricostruzione si ferma al 1994, l’anno

dei “pentimenti di

massa”. Resta il dubbio

che certe verità dei pen-titi siano state il frutto di decisioni prese a ta-volino, per stabilire chi proteggere e chi accu-sare. Se ad esse si ag-giungono i clamorosi errori commessi dalla magistratura nella ge-stione di alcuni pentiti, il dubbio sull’attendibi-

lità delle loro dichiara-zioni e testimonianze è davvero molto forte.

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Rostagno: l’uomo che non doveva sapere

Casablanca 28

Rostagno: l’uomo che

non doveva sapere Passeggiando fra Lima, Lipari, Salvo, Ciancimino, Massoneria… PAM

Rino Giacalone

La mafia l’ha ammazzato la sera del 26 settembre del 1988. Il Consiglio comunale di Trapani

riunito per una seduta ordinaria dinanzi a quel morto ammazzato, quel corpo sfigurato dai colpi di arma da fuoco ma ancora caldo decise di proseguire i suoi lavori senza fermarsi. Dopo 26 anni il processo per la sua uccisione non è ancora finito. Tre anni di dibattimento e attività processuale, quattro perizie. Una fotografia per niente ingiallita, con personaggi poli-tici vecchi e attuali corrotti e rapaci. Armati di compasso e non. Ne viene fuori una Sicilia di-laniata dalla mafia dalla malapolitica, affari e intrallazzi.

Un processo che si avvia alla con-clusione a 26 anni dal fatto di san-gue. Circa 80 udienze, tre anni di dibattimento, attività processuale segnata da quasi 150 testi, quattro perizie. E’ il processo per il delitto

del sociologo e giornalista Mauro Rostagno. Mauro, fondatore assieme ad Adriano Sofri di Lotta Continua, “sporcata” da

un processo che ne ha stra-volto la storia, condan-nando i suoi maggiori atti-visti per la morte del com-missario Calabresi. Mauro maestro e promo-tore della comunità tera-peutica Saman a Lenzi. Fu ucciso a pochi metri dal cancello di ingresso del ba-glio dove aveva sede la Sa-man a sua volta macchiata dalle malefatte e dalle om-bre sorte attorno al “guru”

Francesco Cardella. Non c’entrano nulla Lotta Conti-

nua e Saman con la morte di Mauro Rostagno, c’entra l’ultima

cosa che Rostagno aveva deciso di (ri)cominciare a fare, il giornalista. La mafia l’ha ammazzato quella

sera di settembre completando una scia di sangue che dal 14 settem-bre di quell’anno scorreva in quel

mese: Alberto Giacomelli, giudice in pensione ammazzato perché aveva confiscato la casa al fratello

di Totò Riina, il giudice Saetta am-mazzato il 25 settembre col figlio a Caltanissetta perché si appre-stava a presiedere il processo di appello alla potente mafia sici-liana, per arrivare a quella sera del

26 settembre, l’omicidio del

sociologo. Mauro Rostagno: ammazzato, delegittimato, in-fangato non solo perché il ri-tuale mafioso vive di queste cadenze, il piombo per ucci-dere esploso da fucili e calibro 38, la vittima che raccontava minchiate, l’isolamento dei fa-

miliari, il mascariamento come se il criminale fosse il morto ammazzato. Mauro era troppo irriverente. Osservava tanto. Raccontava molto. Per 26 anni il ricordo è stato sporcato, la memoria quasi cancellata, rimossa. La mafia intanto è cresciuta, si è fatta più forte, si è arricchita e ha in-

quinato, ha continuato a fare le trattative e gli inciuci. Ha tolto di

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Rostagno: l’uomo che non doveva sapere

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mezzo un avversario, una “camur-

ria”, ne ha ucciso uno per inse-

gnare cosa fare a tutti gli altri. Forse, “la mafia non ha perso”.

UNA VECCHIA ATTUALE FOTOGRAFIA

Un processo lungo. Tre anni di di-battimento che hanno dato una fo-tografia della Sicilia, di Trapani, della mafia tremendamente attuale. La mafia, come cultura e modo di pensare e di agire, è anche dentro l’antimafia. Lo abbiamo visto. Lo

vediamo. A Trapani ma non solo a Trapani. Ce lo hanno detto anche in un certo senso i pm del pro-cesso, Gaetano Paci e Francesco Del Bene quando per esempio, quest’ultimo in particolare, hanno

ricordato che attendono ancora una tv che alla pari di quella tv di Ro-stagno venga a seguire una udienza del processo. Mauro Rostagno nel 1988 seguì in particolare il processo per il delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari. Coglieva in quel dibatti-mento la trasformazione della mafia, le alleanze tra mafiosi e tra mafiosi e politici. Il delitto Lipari fu un omicidio che ri-calca quello dell’on. Salvo

Lima. E se il delitto Lima oggi fa parte dell’atto di accusa in-

serito nelle trame della tratta-tiva tra Stato e mafia, il delitto Lipari era da inserire nelle trame tra la mafia e l’econo-

mia, la ricostruzione del Be-lice, la cassaforte degli esattori Salvo, i potenti cugini di Sa-lemi - ai quali Lipari era legato- militanti di quella Dc che in quegli anni mal celava già i legami con le organizzazioni mafiose. Lipari fu ammazzato in quel 1980 quando la Dc era governata da quel Cianci-mino che in apparenza era mino-ranza dentro lo scudocrociato. Anni dopo a Trapani un altro Dc, tale Ciccio Canino, governava Tra-pani e gran parte della Provincia,

frequentava la massoneria e se-deva al tavolino degli appalti con i mafiosi e col capo mafia Vincenzo Virga.

***

Rostagno seguiva il processo, per l’omicidio Lipari, e più seguiva

quel dibattimento più si faceva chiaro quello che andava acca-dendo, ciò che sarebbe accaduto. E Ciccio Canino divenne il suo av-versario tanto che una preziosa te-stimonianza al processo Rostagno, quella di un tecnico di Rtc, Peppe Aiello, ha sottolineato alla Corte il fatto che l’editore di Rtc, Puccio

Bulgarella, attribuì proprio a Ca-nino la responsabilità della morte di Rostagno. E la sera del delitto Rostagno il Consiglio comunale di Trapani riunito per una seduta ordinaria de-cise di proseguire i suoi lavori senza fermarsi dinanzi a quel morto ammazzato, quel corpo sfi-gurato dai colpi di arma da fuoco ma ancora caldo. Era quello il

Consiglio comunale che era “go-

vernato” da Canino che aveva

grande capacità a muoversi in modo trasversale da destra a sini-stra. L’aula del processo per la morte di

Mauro Rostagno in tre anni di udienze non è stata mai piena, poco pubblico, scarsa attenzione, un processo da addetti ai lavori, la

chiesa dove si sono svolti i fune-rali dell’on. Ciccio Canino, appena

poche settimane addietro, era in-vece piena, stracolma, e l’ultimo

saluto all’ex deputato è stato uno

schiaffo, una offesa a chi stava ce-lebrando il processo per il delitto Rostagno. Canino è morto all’indomani di

una richiesta di condanna per ma-fia a 12 anni, un importante col-letto bianco della città, il presi-dente dell’ordine dei medici, Giu-

seppe Morfino, lo ha salutato da “eroe”, come Berlusconi ha salu-

tato allo stesso modo il suo “stal-

liere” Mangano. Eroi.

STALLIERI, ASSASSINI, MASSONI E POLITICI

A volere la morte di Mauro Rosta-gno fu il padrino del Belice, don Ciccio Messina Denaro. Oggi la caccia è tutta per il figlio, Matteo, latitante dal 1993, stragista, assas-sino, profittatore, abbuffino, asso pigliatutto. E chissà che quella sera del 26 settembre 1988 non c’era anche il giovane e già bril-

lante (mafioso) Matteo a Lenzi, lui che con Vito Mazzara ha condi-viso omicidi e assassinii. Ieri come oggi c’è un Messina Denaro che governa il potere criminale che sa essere efferato e ammorbante. Foto attuale quindi: da Matteo Messina Denaro si dipanano legami con tanti soggetti e tanti sono quelli che Mauro Rostagno aveva già in-dicato in quel 1988. La mafia non gli ha dato tempo di continuare a fare gli altri nomi che sicuramente si apprestava a fare. La tela del potere politico sotto-messo alla mafia contro la quale Rostagno si era schierato e voleva che tutta la città si schierasse con-tro, si è estesa, allargata, le maglie sono state rafforzate. Altri processi in questi 26 anni si sono svolti, processi per stragi e delitti, contro commistioni e intrecci, il processo contro la massoneria deviata che

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Rostagno: l’uomo che non doveva sapere

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ha dovuto attendere quasi 10 anni dalla scoperta degli elenchi per ar-rivare a dibattimento, quando Ro-stagno era già morto, ci sono stati i processi contro la vecchia e la nuova mafia, quelli sulle commi-stioni tra mafia, imprese e appalti pilotati, i nomi ricorrenti sempre gli stessi da quegli anni ’80 ad

oggi. Per questa ragione la foto che viene fuori dal processo per il delitto di Mauro Rostagno sembra essere stata scattata oggi: c’è

l’on. Francesco Canino ma anche l’on. Bartolo Pellegrino che riscuote una mazzetta dai ma-fiosi ma che viene prescritto, niente ag-gravante mafiosa, è stato fatto uscire a testa alta, incolpevole, addirit-tura perseguitato. E’ lo

stesso Bartolo Pellegrino che rivolgeva a Rostagno l’invito ad andare a zap-

pare. La mafia forse non ha perso in questi 26 anni. Sovente però ha affer-mato le sue regole. E’ diventata regola

la domanda di chie-dere a chiunque ra-gione della sua appartenenza, “tu a

cu apparteni? Inoltre, la mafia è di-ventata quella cosa che col pro-cesso Lipari cominciava ad essere: capace di corrompere un carabi-niere solo regalandogli un’auto,

garantendogli poi una comoda as-sunzione nella banca degli “amici”, di usare la massoneria per

arrivare sin dentro le stanze della giustizia, della prefettura, per in-sabbiare una indagine, ammorbi-dire una sentenza, regalare una pa-tente.

LA TRAPANI DI ROSTAGNO

La mafia ha saputo e sa tenere spenti i riflettori sulla città, sa agi-tare le voci, fa raccontare a sprov-veduti, vigliacchi, che magari una indagine si fa come contraccambio ad una scopata, che un giornalista scrive raccontando una inchiesta per fare “carriera”. Siamo in una Sicilia che ieri si di-batteva sull’esistenza o meno della

mafia e oggi si interroga sull’anti-

mafia e continua a non interrogarsi a fondo su cosa è dav-vero la mafia. E questo mentre c’è

una antimafia che - con tutti i limiti possibili - si dimostra capace di produrre nuove occa-sioni di lavoro, come ac-cade con Libera e le cooperative sostenute da

Libera e non “di Libera”.

Una antimafia che riesce a sopravvivere e non rie-sce a vivere piena-mente…e non per pro-prie colpe. La Trapani che fu di Rostagno è la stessa di quella di oggi, con un pazione, con la ripresa che qui non si vede, con la bel-

lezza conquistata a caro prezzo, con le im-prese dei mafiosi che hanno preso gli appalti più grossi e i politici che hanno fatto finta di non vedere in cambio di con-senso elettorale e bustarelle. Oggi c’è la mafia che produce le

sue verità, e facendo così nega ve-rità alle sue vittime. Rostagno nel 1988 voleva dimostrare che non era vero che la mafia era invinci-bile, oggi ci sono anche studenti che interrogati ci dicono che la mafia è invincibile e lo è per colpa della politica, che ascolta ma non cambia registro.

La massoneria è la chiave di volta del processo per il delitto Rosta-gno. L’avere messo il naso in que-

gli affari ha agitato ancora di più i mafiosi contro Rostagno, tanto da farlo ammazzare in quei giorni di settembre del 1988 scelti per to-gliersi di mezzo uomini che del dovere avevano fatto il loro unico credo. La massoneria oggi c’è an-

cora, governa, trama, inciucia. Ma-gari non riesce più come prima ad arrivare dentro le stanze della giu-stizia, ma massoneria, mafia, oggi riescono a cancellare verità e giu-stizia , a falsare la realtà. In pochi fanno da contrasto, i più si pie-gano…calati junco chi passa la

china…

Lo Speciale http://issuu.com/casablanca_sici-lia/docs/cb31bis

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Mafia: plurale femminile

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Mafia: plurale femminile Madrine, complici, umili sorelle e

pentite… impunite!

Valentina Colli

Il termine mafia in arabo significa baldanza, spavalderia. Giuseppe Pitrè, invece, ne sottoli-neò l’aspetto legato ad una concezione utilizzata nei quartieri popolari palermitani, che aveva

come significato “bellezza” ed “eccellenza”. Quindi, racchiuso in un unico termine, coesi-

stono i due aspetti che poi, nella trasposizione sociologica, rimangono circoscritti in due mondi diversi, quello della maschilità e della femminilità. Il termine ’ndrangheta deriva dal

greco “andragatia” che significa “virilità, coraggio, rettitudine”. Il ruolo delle donne?

La concezione della donna in Cosa Nostra non può trascendere da quella che è la società siciliana sia antica che moderna: una società che poggiava le sue basi su un’economia rurale e contadina. In

famiglia il ruolo del dominus era prerogativa del pater familias, che conduceva e governava tutte le lo-giche della casa. Alla donna era af-fidato il compito di cura della casa e dell’educazione dei figli e do-

veva sottostare alle decisioni del marito o del padre. Questa posi-zione subalterna la relegava a mera custode del focolare domestico, ad un silenzio rassegnato e in armonia con la concezione mafiosa, poteva essere letta anche attraverso lo schema antropologico del codice d’onore. La mafia formalmente è un’orga-

nizzazione maschile che rispecchia pienamente l’organizzazione so-

ciale siciliana. Nonostante questa col tempo abbia subito dei processi evolutivi che hanno visto emergere anche la donna e inquadrarla in

una situazione di affrancamento dalle logiche maschiliste, Cosa Nostra siciliana ha conservato in-tatti i suoi canoni legati ad un tra-dizionalismo estremo. Diversamente, la ’ndrangheta cala-

brese contempla dinamiche diffe-renti, figlie di concezioni diverse della società calabra. Il termine ’ndrangheta deriva dal greco “an-

dragatia” che significa “virilità,

coraggio, rettitudine”. La ’ndrangheta si discosta profon-damente da Cosa Nostra e cela una veste complessa e dinamica che vuole assurgere a vera e propria elite che “tende all’occupazione

delle gerarchie superiore della scala sociale”. Come accade in

Cosa Nostra, anche nella ’ndran-

gheta si individua una predilezione per i legami di sangue che pote-vano consacrarsi sia nella nascita ma anche attraverso matrimoni come quello tra Francesca Citarda e Giovanni Bontade, vero e pro-prio matrimonio di mafia.

Nella ’ndrina, la famiglia, la donna

è privilegiata rispetto alla posi-zione occupata nella famiglia ma-fiosa siciliana. Segno di un’aper-

tura di veduta nel modo di conce-pire la società che non rimane le-gata ad una visione totalmente ma-schilista ma che invece valorizza l’apporto e l’operato della donna

anche nella gestione dei traffici il-leciti. Nella realtà criminale cala-brese, le donne, hanno svolto un ruolo importante: attraverso i ma-trimoni perché hanno consentito al rafforzamento della cosca, ma so-prattutto all’interno dell’organiz-

zazione sono riuscite a gestire i traffici della famiglia. Nella gerar-chia interna si è rilevato che le donne hanno raggiunto un ruolo subordinato a quello maschile, quello di Sorella d’Umiltà, che co-

stituisce una novità rispetto a Cosa Nostra che, a parte l’episodio di

Giusy Vitale, unica donna boss, non ha mai visto un inquadra-mento gerarchico delle donne nelle sue file.

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Mafia: plurale femminile

Casablanca 32

SORELLE D’UMILTÀ

IMPUNIBILI

Le donne svolgono il ruolo di edu-catrici per i figli, mantengono i rapporti con la Chiesa e la politica, trasmettono messaggi. Tutelano i canoni mafiosi sui quali si reggono le famiglie. Sanno alimentare il si-lenzio che serve alle organizza-zioni per andare avanti con i propri affari. Sono prima di tutto madri, mogli, sorelle o figlie, che subi-scono o che, con complicità, agi-scono e creano la cappa d’isola-

mento del territorio in cui vivono. Le donne sono anche quelle che decidono di rompere questo silen-zio e molto spesso devono pagare con la vita questa scelta. Come emerge dalla ricerca dell’associa-

zione DaSud “Sdisonorate – Le mafie uccidono le donne”, sono

più di 150 le donne che dal 1896 ad oggi sono state uccise dalle ma-fie. Dati che sfatano il mito se-condo il quale i clan, in virtù di un presunto codice d’onore, non ucci-

dono le donne. In realtà, Cosa Nostra ha sistemati-camente creato e rappresentato de-gli stereotipi di genere dentro il genere. Nelle rare occasioni in cui le donne venivano indagate, i giu-dici – loro stessi fuorviati dagli stereotipi – le assolvevano in quanto considerate non capaci di delinquere autonomamente, ma solo come “mogli di”, “madri di”,

“sorelle di”. Questa idea dell’impunibilità è

uno stereotipo di genere; il se-condo pregiudizio è quello dell’in-

capacità di commettere atti vio-lenti. E gli stereotipi prendevano piede proprio quando le donne co-minciavano ad avere ruolo di po-stine, assumevano il coordina-mento di piccoli gruppi, gestivano alcune attività. A maggior ragione, in quella fase, la mafia ha avuto la necessità che

passasse l’idea della loro incapa-

cità di delinquere autonomamente e della conseguente impunibilità. Nel 1990 si contava solo una donna denunciata per associazione mafiosa, nel ’95 sono salite a 89. L’autorappresentazione che queste

donne danno di sé è funzionale alle mafie: quando queste donne si raccontano recitano un ruolo, for-niscono giustificazioni agli atti commessi dai parenti, si mostrano incapaci di delinquere autonoma-mente, quasi vittime di situazioni più complesse di loro. Spesso è solo una facciata. Sembra che a queste donne non sia concessa neanche la cattiveria. Tra le donne di famiglie mafiose, possono individuarsi dei ruoli par-ticolari che esse rivestono, anche se la specificità della provenienza mafiosa non può non esercitare un forte condizionamento, ma non fino al punto da tradursi in stan-dard uniformi. Altre donne di famiglie mafiose sono religiosissime: Filippa Inze-rillo, vedova di Salvatore, autrice di un appello rivolto alle donne di mafia pubblicato dal “Giornale di

Sicilia” il 2 novembre del 1996:

“Donne di mafia, ribellatevi. Rom-

pete le catene, tornate alla vita. Sangue chiama sangue, vendetta chiama vendetta. Basta con questa spirale senza fine. Lasciate che Pa-lermo rifiorisca sotto una nuova luce, nel segno dell’amore di Dio.

Lasciate che i vostri figli crescano secondo principi sani, capaci di esaltare quanto di bello c’è nel mondo”. Antonietta Brusca, che

dopo l’arresto dei figli dichiara di

averli educati nel timor di Dio e che la sua vita è tutta casa e chiesa.

UOMINI PENTITI E DONNE

DETERMINATE

Ci sono le donne appartenenti a fa-miglie storiche della mafia, i cui matrimoni avvenivano nel loro ambiente, sposate con mafiosi di

rango. Donne per le quali è ragio-nevole pensare alla connivenza: donne che svolgono compiti crimi-nali in prima persona che si pos-sono definire “madrine” a pieno ti-

tolo, anche in presenza di uomini, o “supplenti” in seguito all’arresto

o alla latitanza degli uomini. Il matrimonio tra Francesca Ci-tarda e Giovanni Bontate viene ri-chiamato nel rapporto della que-stura come un evidente patto tra famiglie mafiose. Francesca viene proposta per il soggiorno obbligato nel marzo del 1983, in applicazione della dispo-sizione della legge La Torre: lo stesso, Rosa Bontate, sorella di Giovanni e Stefano e moglie di Giacomo Vitale, coinvolto nel falso sequestro Sindona; Epifania Letizia Lo Presti e Francesca Bat-taglia, rispettivamente sorella e moglie di Francesco Lo Presti, ma-fioso di Bagheria; Anna Maria Di Bartolo, moglie del mafioso Do-menico Federico; Anna Vitale, co-gnata di Gerlando Alberti. Per tutte queste donne, il Tribunale di Palermo respinge la richiesta di soggiorno obbligato e la confisca dei beni con una sentenza che pro-voca le proteste da parte delle as-sociazioni femminili, come l’As-

sociazione delle donne contro la mafia e l’UDI: per i magistrati,

non sono soggetti di diritto penale, ma donne che sopravvivono all’ombra dei loro uomini. L’universo femminile si è manife-

stato anche negli esempi del rigore e della “fedeltà” totale a Cosa No-

stra come fece Rosalia Basile, che diffamò il marito Vincenzo Sca-rantino, implicato nella strage di Via D’Amelio. Giuseppa Manda-rano, moglie di Marco Favaloro, imputato e “pentito” per l’omici-

dio di Libero Grassi dichiarò che il marito era un infame e che non lo avrebbe mai più voluto vedere. Rosa Romeo, sorella di Pietro, kil-ler al servizio di Leoluca Baga-

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Mafia: plurale femminile

Casablanca 33

rella, nel momento del “penti-

mento” del fratello, lo rinnegò giu-

dicandolo pazzo e infame. Angela Morvillo tentò di dissuadere il ma-rito Fedele Battaglia dal collabo-rare con la giustizia. Vincenzina Marchese, moglie di Leoluca Ba-garella devastata da formidabili e insopportabili preoccupazioni per non riuscire a dare un figlio al ma-rito, da un senso di colpa per le re-sponsabilità del marito per la scomparsa del piccolo Santino Di Matteo, avvertita come “punizione

divina”, si suicidò. Ninetta Baga-

rella che a differenza di Giusy Vi-tale, non aveva in mano le redini di una famiglia, non poteva essere definita una boss in gonnella, ma attendeva al ruolo di moglie del boss Totò Riina e ricopriva il ruolo di madre dei figli del boss corleo-nese con serietà e cura. Ha cre-sciuto i figli in latitanza e ha tra-smesso loro le regole fondamentali del codice onorifico mafioso le-gate al culto del rispetto e dell’omertà. A Ninetta Bagarella,

va riconosciuto anche il ruolo di una donna capace di custodire i se-greti di una famiglia di mafia e per questo motivo è stata la prima donna ad essere proposta per il confino, misura di sicurezza previ-sta dalla legge 575 del 1965, per la sua presunta attività in favore della cosca corleonese.

IO MI PENTO IO TESTIMONIO

TU NO

Di fronte al pentitismo, ci sono ul-teriori sfaccettature nella lettura del ruolo delle donne di mafia. Molte hanno accettato di condivi-derlo diventando a loro volta colla-boratrici di giustizia, ma tante al contrario hanno preso le distanze: per paura ma anche per una vo-lontà di persistenza nel ruolo, di fronte a un mondo che sembra crollare, per la netta prevalenza della famiglia mafiosa su quella

naturale. Per molte, tante. Anche con manifestazioni eclatanti come le donne della famiglia Buffa. Per Giuseppina Spadaro, Angela Marino, Agata Di Filippo, i mariti e fratelli sono “infami e traditori”. Giovanna Cannova per dissuadere la figlia Rita Atria ha fatto di tutto, arrivando anche lei a minacciarla di morte, dicendo che le avrebbe fatto fare la fine del fratello Ni-cola. Dopo il suicidio di Rita, qualche giorno dopo la morte del giudice Borsellino, la Cannova non parte-cipa al funerale; poi il 2 novembre 1992, giorno dei morti, rompe a martellate la fotografia della figlia. Altre madri non si sono limitate a minacciare ma sono arrivate a col-laborare con i sicari, come nel caso di Luigina Maggi. Soltanto alcune donne si sono “pentite”. La maggior parte delle

donne collaboratrici di giustizia sono vedove, orfane, madri a cui hanno ucciso i figli: donne, quindi, per le quali il lutto è stato il pas-saggio necessario che le ha portate a ribellarsi. E se qualcuna, sopraf-fatta dalla paura di ritorsioni ha ri-trattato, come è capitato a Patrizia Beltrame, altre sono andate fino in fondo, come Antonella Cangemi che ha fatto arrestare il fratello colpevole di omicidio; Pasqua Burgio che ha accusato di assassi-nio il marito mafioso di Ravanusa; Concetta Zaccardo, anche lei mo-glie di un mafioso; Rosalba Triolo. Le donne collaborano anche per vendetta: Serafina Battaglia e, per sua stessa ammissione, Giacoma Filippello. Anche Rita Atria, che ha cominciato a testimoniare dopo l’uccisione del fratello a cui era

molto legata, sembra che all’inizio

sia stata spinta in qualche modo dal desiderio di vendicare così i suoi cari, come dice Alessandra Camassa, che come sostituto pro-curatore a Marsala ha raccolto le sue testimonianze. Vendetta che

presto sarà sostituita dal senso di Giustizia consapevole. La componente femminile è pre-sente nei movimenti Antimafia fin dai primi anni ’80, con la nascita

dell’Associazione donne siciliane

per la lotta contro la mafia. Figure storiche, sebbene diverse, furono quelle di Felicia Impastato, Pietra Lo Verso e Michela Bu-scemi, donne del popolo palermi-tano costituitesi parti civili in pro-cessi di mafia a volte abbandonate dall’antimafia stessa. Queste donne invece si sono poste al di fuori di questa visione ba-gnata di sangue, hanno assunto un ruolo preminente nel movimento antimafia, ma sono anche quelle che silenziosamente hanno appog-giato la missione del proprio uomo, come ad esempio Francesca Laura Morvillo. Lei non era un giudice antimafia ma la mafia l’ha

vissuta con suo marito, Giovanni Falcone, sostenendolo in una bat-taglia impari. Un pensiero va pro-prio a questa donna ma anche a Emanuela Loi, agente di scorta di Paolo Borsellino, morta in via D’Amelio. Alle tante donne, mogli madri compagne di magistrati e agenti di scorta: angeli silenziosi, grazie anche alle quali “un

giorno, questa terra sarà bellis-sima” (P. Borsellino).

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Mafia: plurale femminile

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La Cultura in Sicilia…ma che musica maestro

Casablanca 35

Tagli alla cultura in Sicilia… Quando alle parole

non seguono i fatti

Livio Tita

Mentre l’intero settore è in gravissima crisi per ritardi nei pa-

gamenti, mancanza di fondi e soprattutto mancanza di gover-nance, il mondo culturale siciliano è in grande fermento, in un fer-mento che nasce dal basso. In Sicilia ci sono tutti gli elementi essenziali per far bene: dalla “materia prima” ai buoni modelli in campo amministrativo, con la presenza di un sistema di regole, almeno nel settore privato, che hanno messo un freno alla politica clientelare dimo-strando che con meno del 5% della grande torta da 50.000.000,00 di Euro che la Regione Si-cilia ha distribuito ogni anno solo per il settore spettacolo, si potevano ottenere risultati di grandissimo rilievo. Il grande assente rimane il governo Crocetta, che parla solo di tagli e mai di sviluppo e di idee.

Il mondo culturale siciliano è in grande fermento, ed è un fermento che nasce dal basso. Per la prima volta il mondo privato dello spet-tacolo dal vivo (Teatro, Danza e Musica) si mette in rete con oltre cento adesioni tra compagnie, teatri, as-sociazioni, festival agli Stati Generali dello Spettacolo in Sicilia e avvia un dialogo con i sinda-cati e col mondo delle imprese per di-scutere di regole e di prospettive. Questo mentre l’in-

tero settore è in gra-vissima crisi per ri-tardi nei pagamenti, mancanza di fondi e soprattutto mancanza di governance. Infatti

il grande assente in questo dibat-tito rimane il governo Crocetta, un governo che sempre più naviga a vista nelle acque piene di insidie dell’ARS e che soprattutto non di-

mostra di avere una visione strate-gica in un campo vitale come quello culturale e dello spettacolo. Sappiamo tutti che in Sicilia ab-biamo un patrimonio straordinario di beni culturali – materiali e im-

materiali – abbiamo poi ben due Teatri Lirici, un’Orchestra

Regionale, il Vittorio Emanuele di Mes-sina, due Teatri sta-bili, TaoArte e le Orestiadi (enti pub-blici per la gran parte stritolati da anni di malagestione poli-tico-clientelare ma che rappresentano un grandissimo poten-ziale), abbiamo an-che un vivacissimo mondo culturale che esprime da un canto

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La Cultura in Sicilia…ma che musica maestro

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eccellenze di assoluto rilievo sul piano artistico (non fac-cio nomi perché la lista è davvero troppo lunga!) e dall’altro è animato dal set-tore privato a vocazione pub-blica che produce e distribui-sce ogni anno, con piccolis-sime risorse, centinaia di spettacoli in tutto il territo-rio, anche nelle zone meno servite, nelle scuole, etc. In Sicilia insomma ci sono tutti gli elementi essenziali per far bene: dalla “materia prima” (beni cultu-

rali, artisti, teatri, operatori cultu-rali professionali) ai buoni modelli in campo amministrativo, con la presenza di un sistema di regole, almeno nel settore privato, (le Leggi Regionali 44 del 1985 sulla musica – uno dei primi esempi in Italia – e la Legge 25 del 2007 sul Teatro e la Danza), che hanno messo un freno alla politica clien-telare dimostrando che con meno del 5% della grande torta da 50.000.000,00 di Euro che la Re-gione Sicilia ha distribuito ogni anno solo per il settore spettacolo, si potevano ottenere risultati di grandissimo rilievo sul piano cul-turale e insieme raggiungere centi-

naia di migliaia di spettatori, pro-durre migliaia di posti di lavoro tra stabili e stagionali, produrre in-cassi che coprono la metà dei costi di gestione... Ma purtroppo il governo regionale conosce un’unica lingua che parla

solo di tagli e mai di sviluppo e di idee, mette personaggi incompe-tenti, con l’unico titolo della “pa-

tente antimafia”, a dirigere Fonda-

zioni Orchestrali, e continua a non saper spendere le ingenti risorse europee che se ben investite po-trebbero (come di mostra l’esem-

pio pugliese) produrre risultati straordinari. Così facendo rischia di condan-nare a morte insieme a centinaia di esperienze vive e vitali del territo-rio una delle poche ipotesi di svi-luppo sostenibile per l’isola:

quella che vedrebbe formazione,

cultura, agricoltura e turismo cam-minare a braccetto. Purtroppo però queste idee risul-tano solo un slogan vuoto, buono per tutte le stagioni politiche, quando alle parole non seguono mai i fatti. E i fatti, a volerci cre-dere davvero, sarebbero chiari, se non semplici, da attuare: traspa-renza amministrativa, premi per la qualità e le buone pratiche, no-mine di figure competenti e al di sopra delle parte ai vertici dei grandi enti regionali, una buona e tempestiva programmazione sia per l’utilizzo dei fondi europei che

per quelli in bilancio, un maggiore coordinamento tra i vari attori che operano nel settore che metta con-cretamente in collegamento il set-tore pubblico e quello privato coordinando produzione, distribu-zione, formazione e promozione. Speriamo allora davvero che que-sto fermento, che questa rinnovata voglia di dialogo, non resti ina-scoltata e possa produrre tutti i suoi effetti positivi, perché non dobbiamo dimenticare che krisis significa scelta e di scelte necessa-rie e coraggiose la Sicilia ha un di-sperato bisogno.

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Angela Bonanno, Pani schittu

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Quando è il grido

che apre la parola

Tea Ranno

È uscita, per le edizioni CFR di Gianmario Lucini, Pani schittu, l’ul-

tima raccolta della poeta catanese Angela Bonanno, vincitrice del “Pre-

mio Fortini 2013”, che per la prima volta è andato a una silloge in dialetto. Angela Bonanno

scrive nella carne, scrive la carne. E lo fa con la misura di chi sa che il poco è importante e il troppo fastidioso, e dunque toglie, scarta il superfluo giungendo alla noce di suono, di senso, che ci restituisce intatta l’emozione.

Senz’anima sugnu. Questo l’esor-

dio. In un tempo che trabocca di anime variamente enfatizzate, l’afferma-

zione di esserne priva è spiazzante. Senz’anima. Ma tutta paroli. Sono le parole, infatti, che ne prendono il posto e se ne fanno sostanza, concreta come un pezzo di pane nudo, che non vuole essere cun-zatu perché è la vita che conza, e sempre a modo suo: boccate amare, agro di bile, ogni tanto una goccia di miele, il piccante di amori consumati in piedi, il frut-tato di mattine che hanno dentro il divino canto dei muratori mentre il pane adduppa per la fretta di man-giarne. Parole che non sono meri segni, scarabocchi sulla pagina o sulla pelle per fermare l’attimo, cogliere

un’emozione. No, le parole di An-

gela Bonanno sono girasuli ca si rapunu cu ’na schigghia. E dire schigghia è dire grido, dire dolore, perché è il dolore che spacca la pa-rola e la intende, la vive, le dà senso. Anche nella gioia. Anche nello sfottò, nell’ironia che spoglia

e taglia e non dà consolazione: mi

lavu mi vestu / na pinnula e / ne-sciu ch’e cosci di fora / ncazzata (mi lavo mi vesto / una pillola ed esco / con le cosce di fuori / incaz-zata). Anche nella trascrizione di pensieri minimi, quotidiani: la pentola che bolle, i ragazzi che non tornano, un pezzo di pane secco nel cassetto e neanche un poco di latte per bagnarlo, le mani che lisciano la veste e sbrogliano i capelli. Gesti minuti, la puntualità di attimi che insieme compongono la gran corona della giornata, e le parole che pulsano, che danno forma al sentire, che sono lì, sem-pre presenti, perché non hanno sta-gioni, perché sono abituate a tutto – stanu ô nfernu / su piccaturi (stanno all’inferno / sono pecca-

tori) – e l’unica lingua che sanno è

chidda ca scava na fossa n’a (…)

ucca (quella che scava una fossa … nella bocca) e l’unico svago

che conoscono è quello della mente che inventa fughe: vasamu u pani d’aieri e / ittamulu ê cani /

mittemuni l’ali (baciamo il pane di ieri / e gettiamolo ai cani / mettia-moci le ali). Perché del pane di ieri si può fare a meno quando oggi c’è

l’amore che porta lontano.

Che poi l’amore sia vacanza, an-

dare e venire, è altra storia. Do-lente e irriguardosa. Felicità nella gloria dell’attimo che si fa pie-

nezza e poi sconforto perché riat-tacca la litania dell’andare e del

venire, dell’esserci e dello sparire, dell’incanto e della delusione. È

un’altalena, la vita, sogno che si

posa su tavole dure, ghiacciate, su un letto coperto da cuttunati di nivi (coperte di neve) ma anche un de-siderio improvviso di pace: astu-tari vulissi ccu du ita / u picciu d’e

cannili / cammari a tussi d’o

munnu (spegnere vorrei con due dita / il pianto delle candele / cal-mare la tosse del mondo). Angela Bonanno scrive nella carne, scrive la carne. E lo fa con la misura di chi sa che il poco è importante e il troppo fastidioso, e dunque toglie, scarta il superfluo giungendo alla noce di suono, di senso, che ci restituisce intatta l’emozione. Ed è appunto di queste emozioni che è intrisa la raccolta di versi Pani schittu, (Edizioni CFR – Col-lana Poiein, 2014) con la quale Angela Bonanno ha vinto il Pre-mio Fortini.

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25 Aprile… Resistere!

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25 Aprile… in nome del

papa re?

Dal profilo Facebook di Stefania Zampi

IN NOME DEL PAPA RE?- No in nome dei nostri padri e nonni , do-mani ricorderemo come sempre come ogni anno della nostra vita , domani andremo a festeggiare e a ricordare in un piccolo parco stretto tra la via Prenestina e la sua stazione ferroviaria, ma appena un po’ più in la si odono i treni che vanno verso la stazione Tiburtina- Nel parchetto ex SNIA c'è un la-ghetto apparso così come per ma-gia dopo uno scavo per fare le fon-damenta di un centro commerciale che logicamente non ha mai visto la luce, per fortuna dico io e molti come me, nel parco le sugge-stioni sono molte , oltre ad una pista su cui correre c'è un parco giochi per i bimbi e un re-cinto per i cani , accanto al parco c'è un centro sociale e vicino al lago vecchi edifici e manufatti figli della speculazione edilizia ,come dicevo le suggestioni sono tante , alberi verde e aria più pulita, ma non solo questo , la suggestione maggiore è che il luogo è un luogo del cuore , un luogo della storia di Roma dei suoi partigiani del suo popolo generoso , dei suoi nascon-digli per chi durante la Resistenza aveva bisogno di un posto sicuro,

Dalla stazione Tiburtina partivano i treni con i vagoni piombati per la Germania ed è li che i coraggiosi compagni ferrovieri aiutavano i prigionieri , nel loro possibile , a scappare , e sempre lì che veni-vano presi al volo da mani amiche e sicure i biglietti che gli ebrei e gli oppositori del regime gettavano dai treni- Come dicevo è un luogo del cuore questo piccolo gioiello stretto oltre che da 2 strade consi-liari anche dai palazzoni venuti su negli anni 60 e 70 , quando a

Roma i palazzinari avevano il di-ritto di sfigurare la capitale e deva-starla , la chiamavano il sacco di Roma , così tra le borgate , care a Pier Paolo Pasolini e i primi pa-lazzi degli anni 30 sorse il quar-tiere prenestino che dette lo spunto ai neorealisti italiani come Rossel-lini , Germi e appunto il grande Pasolini , tra le strade dei vecchi palazzi antecedenti alla specula-zione edilizia troviamo Via Mon-tecuccoli , la strada dove si girò

Roma città aperta con Anna Ma-gnani che viene brutalmente assas-sinata dai tedeschi , ed invece tra le vie del Pigneto che Pasolini gira il suo Accattone , simbolo di una Roma delle borgate del dopo guerra, simbolo dell'emarginazione della Roma proletaria ma soprat-tutto sotto-proletaria , ed ancora sulla nascente sopraelevata che sempre Pasolini girò la sequenza del viaggio che Totò e Ninetto Da-voli fanno nello splendido film UCCELLACCI E UCCELLINI ,

film direi quasi pro-fetico il corvo , che rappresenta l'intellet-tuale verrà mangiato proprio ad ostia dalla parte dove fiume , come dicono i romani del Tevere, si con-giunge con il mare , e che dire del Ferro-viere di Germi ? Al-

tro meraviglioso film , molte se-quenze del cortile sono state girate in uno dei palazzi ante specula-zione, quelli con il cortile dove li ragazzini facevano cagnara mentre giocavano, le famiglie erano ope-rai , appunto ferrovieri ma il dopo guerra , le paure la frustrazione del compagno Germi macchinista fer-roviere vengono tutte a galla , e già le frustrazioni del comunista del dopo il fascismo del dopo 25

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25 Aprile… Resistere!

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aprile che già sente l'odore del tra-dimento che avverrà e come av-verrà !!Domani sarà il 25 aprile , domani sarà il giorno del ricordo e della nostalgia , oggi intanto sono andata a camminare e a correre , correre poco ho un'età , comunque mentre cercavo di fare stretching, cosi si dice bo , insomma allungare i muscoli delle gambe mi è venuto un pensiero, anzi ho constatato , 63 anni ho buoni muscoli e un buon muscolo cardiaco che non si abbatte che freme e invece batte ,

batte forte per noi si per noi , per i compagni che non ci sono più , per i comunisti che hanno lottato e ri-schiato , per i padri per i nonni , mentre camminavo mi sembrava di essere in corteo e canticchiavo dentro di me … compagno citta-dino fratello partigiano tenia-moci per mano in questi giorni tristi di nuovo a Reggio Emilia di nuovo la in Sicilia son morti dei compagni per mano dei fasci-sti, di nuovo come un tempo so-pra l'Italia intera fischia il vento

infuria la bufera…nostro vero amico che abbiamo a fianco adesso è sempre quello stesso che fu con noi in montagna ed il ne-mico attuale è ancora uguale a quel che combattemmo sui no-stri monti in Spagna… […]

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25 Aprile… Resistere!

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La Resistenza a Catania

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Lettere dai luoghi di frontiera…

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Barcellona P.G.: il TAR annulla la delibera del 2009 sul Parco Commerciale Questa Associazione apprende con grande soddisfazione la notizia che il Tar ha annullato la delibera del 2009 del Consiglio Comunale di Barcellona Pozzo di Gotto istitutiva del Parco commerciale. Questa sen-tenza conferma la bontà dell’impianto dell’esposto che il 4/01/ 2011 fu presentato dall’Associazione Anti-

mafie “Rita Atria” e dalla associazione “Città Aperta” al Prefetto di Messina e alla Procura della Repubblica di Barcellona P.G. L’anomalia riscontrata dal Tribunale amministrativo è, infatti, solo una della tante ano-malie presenti in quell’esposto e per il quale ben 15 imputati dovranno rispondere penalmente nel processo che verrà celebrato presso il tribunale della città del Longano a partire dal prossimo 2 maggio. Tuttavia que-sta notizia ci impone la seguente riflessione: Quando la magistratura, sia essa amministrativa, contabile o penale, arriva prima della politica per affermare la legalità è una sconfitta della politica stessa e, quindi, dei cittadini. Qualche mese fa l’Associazione Antimafie “Rita Atria”, l’associazione “Città Aperta” insieme ad

altre trenta associazioni varie chiesero al Consiglio Comunale di Barcellona P.G. non solo di revocare quella delibera organo competente per farlo, ma di prenderne le distanze solennemente in quanto quell’operazione era finalizzata all’interesse della criminalità organizzata. Non c’è stata risposta. Perché non c’è alcun dub-

bio, anche alla luce di questa sentenza del Tar, che quella operazione fosse finalizzata agli interessi di “Cosa

Nostra” barcellonese. A coloro i quali in queste ore si affannano a dire che questa sentenza dimostra che la mafia non c’entra ma che si tratta solo di una violazione amministrativa diciamo:

a) Il Tar è un tribunale amministrativo e, in quanto tale, si occupa solo di reati amministrativi; b) Il “padre” di quella operazione ha un nome e un cognome ben definito: Rosario Pio Cattafi,

ed è inconfutabile che oltre al suo “glorioso” passato ampiamento conosciuto, in atto, questo signore, si trovi rinchiuso in regime di carcere duro ex 41bis ed è stato di recente condannato in primo grado a 12 anni per associazione mafiosa.

c) E che sia lui il padre di quella operazione è provato non solo dalle “carte” ma anche dal fatto

che il Cattafi ha citato in giudizio il giornalista Antonio Mazzeo, che fu il primo con i suoi articoli a “svelare” l’affare Parco Commerciale, accusandolo, di fatto, di avergli fatto fallire quell’affare e chie-

dendogli un risarcimento di due milioni di euro. Giova anche ricordare che questa associazione nel dicembre del 2010 ebbe modo di spiegare in un convegno pubblico a Barcellona Pozzo di Gotto alla presenza anche di consiglieri comunali dell’epoca, con l’esau-

riente relazione dell’allora membro del direttivo nazionale dell’associazione Santa Mondello, tutti i passaggi anomali di questa vicenda, anche quelli amministrativi, facendo presente che non esistono coincidenze o er-rori umani quando c’è di mezzo la mafia ma , anzi, quelli che sembrano “errori” non sono altro che mezzi

per accelerare le procedure illegali sottraendole ai controlli previsti dalla legge. La conferma di tutto ciò sta nel capo d’imputazione dei 15 imputati, fra cui il Cattafi, al processo del prossimo 2 maggio laddove i magi-

strati sostengono che il consiglio Comunale, sul parco commerciale, fu “tratto in inganno”.

Associazione Antimafie “Rita Atria” www.ritaatria.it [email protected]

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Libri di frontiera…

Casablanca 42

Serena Maiorana, Quello che resta – Storia di Stefania Noce, Villaggio Maori Edizioni, 2013

Femminicidio e diritti delle donne Rita Proto Stefania è una ragazza solare, generosa, impegnata nel sociale,

sempre in prima linea. Studia Lettere a Catania ma vive a

Licodia Eubea. Vuole fare la giornalista. Ha tanti sogni, cose da

dire, desideri da realizzare. È femminista, e scende in piazza con

un cartello che dice: «Non sono in vendita».

Stefania è stata uccisa, a soli 24 anni, dopo un lungo

appostamento, dal suo ex, il 27 gennaio 2011. «La violenza più

grande di Loris – dice Serena Maiorana, autrice di Quello che

resta – Storia di Stefania Noce – Il femminicidio e i diritti delle

donne nell’Italia di oggi, Villaggio Maori Edizioni – è stato

toglierle la parola. Questo libro cerca di ridargliela. Lei è morta

per la stessa violenza che denunciava».

Secondo gli ultimi dati, viene uccisa una donna ogni tre giorni e

il fenomeno della violenza interessa almeno una donna su tre.

«E il 70% delle vittime – precisa la giovane giornalista catanese,

autrice del libro – riconosce la violenza nel rapporto. Si tratta di

donne molto coraggiose, prive però di una rete di protezione

sociale e culturale».

Ma torniamo a Stefania. Di lei restano l’impegno, i suoi scritti, la sua allegria, il suo orgoglio di essere donna.

«Le piaceva la letteratura – si legge – l’arredamento etnico, la musica balcanica e la voce rauca di Janis Joplin.

Le piacevano gli orecchini grandi, le piaceva ballare, le piaceva scrivere e le sarebbe piaciuto viaggiare. Una

volta era stata a Praga. Per il resto del mondo le è mancato il tempo».

Incontra Loris a Roma, dove lui studia Psicologia alla Sapienza. Si innamorano ma poi qualcosa non va. Lui

la tradisce con una studentessa romana. Stefania cerca di salvare il rapporto ma le cose vanno sempre peggio,

fino al momento in cui, a dicembre del 2011, lei gli dice di voler interrompere la relazione.

Lui non accetta la decisione della sua ragazza, si apposta in una casa abbandonata vicino a quella di Stefania

e organizza una vendetta spietata. Quella sera – scrive Graziella Proto, direttrice di Casablanca, nel n. 33 –

ritorna a casa con la sua amica Annamaria che la accompagna fin dentro casa... agirà l’indomani. Il progetto

cambia: entrerà nel garage, danneggerà l’auto della mamma Rosa che andrà dai carabinieri, si accerterà che

lei sia in caserma e che con la ragazza ci siano solo i due anziani nonni, quindi entrerà con le chiavi che

possedeva, il nonno lo metterà da parte prima che lo stesso imbracci il vecchio fucile, e a lei darà ciò che si

merita. È andata così: ha ammazzato il nonno, ferito mortalmente la nonna, ucciso con ripetute aggressioni la

ragazza». Secondo il medico legale Stefania è stata scannata.

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Libri di frontiera…

Casablanca 43

La sentenza di primo grado del processo, pronunciata il 5 aprile 2013 dal tribunale di Caltagirone, ha giudicato

Loris Gagliano colpevole, condannandolo al carcere a vita. Il 4 marzo, in assenza della perizia psichiatrica per

stabilire se sia incapace di intendere e di volere, è stato deciso che sarà trasferito a Rebibbia.

L’imputato ha ricusato il suo legale e dichiara di non voler essere considerato «matto», in un sussulto di

orgoglio maschile. Non vuole assumere la terapia farmacologica che gli è stata prescritta. Ci saranno ancora

strazianti sedute in aula, per la madre, la nonna e tutti quelli che amavano Stefania.

Serena Maiorana, raccontando storie di femminicidio, centra il punto più importante: il linguaggio e la

comunicazione. «In Italia, se una donna muore uccisa da un uomo, la cronaca nera si tinge di rosa e del sangue

resta solo il colore, sbiadito. Le parole sono sempre le stesse. Passione. Gelosia. Raptus. Vergogna. Onore.

Attrazione. Intimità. Istinto. Rispetto. Tradimento. Cuore. Sesso. E poi l’amore, soprattutto. Alle storie

romantiche si appassionano in tanti. Al dolore, invece, non si appassiona nessuno. Così, sulla carta opaca dei

quotidiani come tra i pixel sfavillanti della TV, finisce per chiamarsi amore anche la violenza, la ferocia, la

persecuzione, la morbosità».

Ed ecco che si parla di «amori criminali», di delitti «passionali»: si giustifica come amore anche la violenza,

la morbosità, la smania di possesso.

«Pare che Loris, poco dopo l’arresto, – scrive l’Autrice – abbia dichiarato agli inquirenti: “L’amavo troppo”.

E alcuni giornalisti non hanno trovato niente di meglio da raccontare, trasformando quelle parole in titoli di

articoli scritti con lettere spesse e scure, dall’alto delle prime pagine. Come se il succo della storia fosse proprio

quello: il troppo amore. Eppure trecentosessanta donne uccise in poco più di tre anni non sono storie d’amore

finite male. Sono un’ecatombe, una guerra, una strage. Sono vergogna per un paese intero, dolore che

appartiene a tutti e di cui dobbiamo avere il coraggio di farci carico. […] Donne che pagano con la vita il

mancato adeguamento a ruoli e compiti».

L’Autrice ci ricorda che, fino al 1975, il diritto di famiglia consentiva all’uomo di «correggere» la moglie

anche utilizzando mezzi violenti; fino al 1981 esisteva il «delitto d’onore».

Nulla potrà riportare Stefania all’affetto dei suoi cari, ma chiediamo giustizia per un delitto crudele,

dell’ennesimo uomo che non accetta il NO di una donna. Lei, scrive Graziella Proto, «sognava un amore felice

e la rivoluzione. Noi vogliamo collocarla fra le “siciliane”, quelle donne che contano, che meritano di essere

ricordate perché magari senza saperlo hanno fatto la storia del nostro paese. Per il loro impegno, le loro idee,

i loro comportamenti, il loro quotidiano».

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Eventi di frontiera…

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9 maggio 2014 – Cinisi

Per il dettaglio del programma: http://www.peppinoimpastato.com/ - http://www.casamemoria.it/

“Fiore di campo nasce sul grembo della terra nera,

fiore di campo cresce odoroso di fresca rugiada,

fiore di campo muore sciogliendo sulla terra

gli umori segreti.”

Peppino Impastato

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Eventi di frontiera…

Casablanca 45

I FRUTTI DEL CARCERE Milano, 24 maggio 2014

Mercato delle produzioni carcerarie: cibo, artigianato e servizi per la città

Milano, marzo 2014

Il Comitato Cittadini Solari X Milano e il Comitato X Milano Zona 1 sono presenti dal 2011 sul territorio

cittadino con l’obiettivo di attivare percorsi di democrazia partecipativa, cogliendo le esigenze e valorizzando

le risorse espresse dai loro ambiti territoriali. Assieme a La Cordata – impresa sociale, educativa e di comunità che da oltre vent’anni opera sul territorio

metropolitano e si occupa di accoglienza e integrazione – hanno intrapreso un'attività di impegno nei confronti

delle carceri e delle persone detenute. Nel settembre 2013 hanno dato vita a “I FRUTTI DEL CARCERE” il primo evento cittadino per conoscere il

mondo del lavoro dei detenuti, per scoprire dove, come e perché acquistare prodotti e servizi provenienti dal

mondo carcerario. Perché il lavoro è lo strumento più efficace di reinserimento nella società, per la

formazione e per la professionalizzazione che offre, e anche una grande opportunità di scambio con la città e

le persone. Sulla base della grande partecipazione e dei riscontri positivi raccolti lo scorso anno, i promotori si accingono

ora a organizzare la seconda edizione che si terrà il 24 maggio prossimo. Anche questa edizione sarà ospitata

nei giardini de La Cordata, a Milano in via San Vittore 49. Come nell'edizione precedente si affiancheranno all’esposizione dei prodotti dell'economia carceraria due

sessioni di incontri e di dibattito sul tema del lavoro delle persone ristrette. Si affronterà il tema dalla parte di chi il lavoro lo offre o potrebbe farlo, mettendo in luce le opportunità e i

vantaggi per i datori di lavoro, ma anche gli ostacoli, reali e psicologici, che li frenano. Insieme ad alcuni

esperti si cercherà di trovare risposte vere e attuali a alcune domande: “A cosa serve il lavoro penitenziario?

Perché produrre beni e servizi in carcere? Come offrirli al mercato "libero"? Per sviluppare al meglio questi temi, dall’edizione di quest’anno parteciperà all’organizzazione dell’evento

anche A&I scs ONLUS, cooperativa sociale che da oltre 20 anni si occupa di lavoro per soggetti svantaggiati e

detenuti, con un’attenzione particolare ai rapporti con le imprese che troverà realizzazione in un apposito

“infopoint” per le aziende che intendono offrire opportunità formative e di lavoro a persone che provengono

da esperienze di detenzione. Cittadini SolariXMilano (Patrizia Restiotto - [email protected]) Comitato XMilanoZona1 (Francesca Calanchi - [email protected]); La Cordata (Michela Bellodi - [email protected]); A&I (Claudio Cazzanelli - [email protected])

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Eventi di frontiera…

Casablanca 46

8 e 9 Agosto 2014 – Milazzo (ME) 20 anni di Memoria Attiva Associazione Antimafie “Rita Atria” Programma in via di definizione

“Finché il sangue dei figli degli altri varrà meno del sangue

dei nostri figli, fin quando il dolore degli altri per la morte

dei loro figli, varrà meno del nostro dolore per la morte dei

nostri figli, ci sarà sempre qualcuno che potrà organizzare

stragi in piazze, banche o stazioni, su treni o su aerei, con

bombe o missili, con la certezza di rimanere impunito.” Sandro Marcucci

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Eventi di frontiera…

Casablanca 47

Ridiamo dignità alle Donne Vittime

dell'incendio della Triangle Waist (L'iniziativa lanciata dal Gruppo Toponomastica Femminile è cogestita con l'editore Navarra) Il 25 marzo del 1911 un rogo sviluppatosi alla Triangle, una fabbrica di camicie sita all'Asch Building di

Washington Place in New York, spezzò la vita di 146 persone. Di queste, 126 erano donne di cui 38 di

nazionalità italiana e, fra esse, ben 24 partirono dalla Sicilia. Qualunque fosse il loro luogo di provenienza

lasciarono, in molti casi per sempre, genitori, fratelli, figli e mariti. In seguito all'incendio alcune morirono bruciate, altre si lanciarono dalle finestre nel disperato tentativo di

salvarsi. Parecchie di loro erano ancora

giovanissime. Il processo a cui furono sottoposti i

proprietari della fabbrica si concluse senza

rendere loro giustizia. Donne e migranti, quindi. Donne sfruttate: dall'Italia, di cui divennero

spesso la colonna portante di una fragile

economia nazionale che si resse sui proventi del

loro lavoro; e dal Paese di accoglienza,

l'America, in cui trovarono la morte per pochi

dollari a settimana. Il fuoco ha bruciato anche il ricordo delle loro esistenze invisibili, troppo presto rimosse. Le loro vite e la

loro tragica morte richiamano ingiustizie sociali che esistono ancora oggi. Rintracciare i loro nomi e le loro storie, raccontate per la prima volta in Italia da Ester Rizzo nel suo libro

“Camicette Bianche” è stato, prima di tutto, un atto di riconoscenza e di giustizia. E' infatti grazie al loro

sacrificio che si sono conquistati diritti e norme nuove in campo di sicurezza del lavoro. L’incendio della

Triangle è uno degli eventi che si ricorda l’otto Marzo, Giornata Internazionale della Donna. RIVOLGIAMO UN APPELLO alle istituzioni comunali interessate affinché non dimentichino le storie di queste donne: Isabella e Maria

Giuseppa Tortorelli di Armento; Michela Nicolosi e Maria Anna Colletti di Bisacquino; Serafina e Teresa

Saracino di Bitonto; Antonia Pasqualicchio e Anna Vita Pasqualicchio Ardito di Casamassima; Provvidenza

Bucalo Panno e Vincenza Pinello di Casteldaccia; Concetta Prestifilippo e Rosa Grasso di Cerami; Rosina

Cirrito, Giuseppa Concetta Maria Rosa Del Castillo e Maria Santa Salemi di Cerda; Clotilde Terranova di

Licata; Vincenza Benanti di Marineo; Caterina, Rosaria e Lucia Maltese di Marsala; Elisabetta e Francesca

Maiale di Mazara del Vallo; Gaetana Midolo di Noto; Marianna Santa L’Abbate di Polignano a Mare; Rosa

Bona Bassino e Caterina Bona Giannattasio di Sambuca di Sicilia; Vincenza Bellotto di Sciacca; Giuseppina

Buscemi Carlisi e Grazia Maria Gullo Floresta di Sperlinga; Maria Michela Clorinda Marciano Cordiano di

Striano e di tutte le altre donne la cui sola certezza è che fossero italiane. Ciò per restituire loro non una

memoria indistinta e generica, ma un ricordo tangibile, che abbia la qualità di essere personale e nominale

attraverso l'intitolazione di una piazza, una via, un giardino o altro luogo di pubblico interesse che riconsegni

a queste donne il posto che meritano nella storia del nostro Paese. Maria Pia Ercolini, Presidente di Toponomastica Femminile Ester Rizzo, autrice di Camicette Bianche Ottavio Navarra, Editore Link alla petizione: http://www.change.org/it/petizioni/franco-curto-ridiamo-dignit%C3%A0-alle-donne-

vittime-dell-incendio-della-triangle-waist-2

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Le Siciliane.org – Casablanca n. 34

http://www.lesiciliane.org/casablanca/pdf/CB33Inserto.pdf

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Le Siciliane.org – Casablanca n. 34

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“A che serve vivere se non c’è il coraggio

di lottare”

Pippo Fava