Casablanca n.23

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ANNO VII NUM.22 Storie dalle città di frontiera Edizioni LeSiciliane marzo 2012 ESCLUSIVA: APPELLO DALLA GRECIA INTERVISTA a ROSARIA CAPACCHIONE Foto di Letizia Battaglia ‐ Lidia Menapace Nando dalla Chiesa Donne che si ribellano. Inseguono la libertà, un sogno, l’amore vero. L’amore che non uccide. L’amore più forte della paura. Sanno che vanno incontro alla morte, ma spesso non hanno alternativa D D O O N N N N E E

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il numero di marzo 2012

Transcript of Casablanca n.23

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ANNO VII NUM.22S t o r i e d a l l e c i t t à d i f r o n t i e r a

EdizioniLeSiciliane marzo 2012

ESCLUSIVA: APPELLO DALLA GRECIA INTERVISTA a ROSARIA CAPACCHIONEFoto di Letizia Battaglia ‐ Lidia Menapace Nando dalla Chiesa

Donne che siribellano.

Inseguono lalibertà, un

sogno, l’amorevero. L’amore

che nonuccide.

L’amore piùforte della

paura. Sannoche vanno

incontro allamorte, maspesso non

hannoalternativa

DDOONNNNEE

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CASABLANCA N.23/ MARZO 2012/ SOMMARIO

Casablanca pagina 2

4 - Letizia Battaglia Fotografie… Donne

7 - 8 marzo sotto la crisi Lidia Menapace

8 - Francesca Chirico Violenza sulle donne...

10 - Antonella Serafini Balla, balla, ballerina

12 - Rosita Rijtano ROSARIA giornalista di frontiera

14 - La siciliana ANNA PUGLISI Graziella Proto

16 - Rosa Maria Di Natale GABRIELLA Antiracket

18 - Inchiesta mafia Graziella Proto

21 - Valentina Ersilia Matrascia Gli sfigati si raccontano

23 - Ordinaria amministrazione Alessio Di Florio

24 - Franco Lo Re SGARBI

28 - Appello dalla Grecia (esclusivo) Natasha Merkouri

30 - Nando Dalla Chiesa LIBERA manifestazione nazionale

32 - DANILO DOLCI Lorenzo Barbera

35 - Amalia Bruno Vignette

Vignette Gianni Allegra

Casablanca – Direttore Graziella Proto – [email protected] Edizione Le Siciliane di Graziella Rapisarda – versione on-line: http://www.lesiciliane.org/casablanca

Registraz. Tribunale Catania n.23/06 del 12.07.2006 – dir. Responsabile Riccardo Orioles

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Editoriale

Giustizia, abusi, politica

e diritti umani

Casablanca pagina 3

“A chi lo ha ucciso spaccherò il petto

con le mie mani e mangerò il

cuore …” urlò disperata Leoluchina

Sorisi, fidanzata di Placido Rizzotto,

sindacalista socialista rapito ed ucciso

dalla mafia corleonese. Era 1948 il

giovane combatteva a fianco dei

contadini e li incitava a ribellarsi al

grande latifondo in mano ai mafiosi

capeggiati dal giovane Luciano

Liggio.

Tuttavia, il giorno che arrestarono

don Lucianuzzo, indicato quale

assassino di Placido Rizzotto, lo

trovarono nella casa di Leoluchina,

nel suo letto, accudito e curato

proprio da lei. Leoluchina non era

solo la fidanzata di Placido, ne

condivideva la passione, credeva

nelle stesse cose, combatteva la stessa

battaglia. Mentre Placido faceva i

comizi e denunciava le malefatte e gli

scippi di Luciano Liggio ai contadini,

lei teneva in alto la bandiera rossa e

la faceva sventolare. Che cosa fa

cambiare idea a una donna

innamorata e combattiva? Cos’è che

la fece passare dall’altra parte della

barricata?

***

Quando il branco la violentò Anna

Maria aveva appena tredici anni,

sognava l’amore, sperava nel futuro.

Loro erano famelici e violenti. Lei

piccola e sola. Impaurita. Per tre

lunghissimi anni. “Domani porta

pure tua sorella” le dissero una sera.

Questo no pensò la piccola. Non

l’avrebbe permesso. Arrivò il

coraggio. La denuncia. Una

splendida avvocata. Giorni

durissimi. Le donne dei suoi

carnefici giovanissime e meno, la

guardano con spregio. Nell’aula del

tribunale di Cinquefrondi, la piccola

famiglia è scrutata minacciosamente

dall’esercito di parenti che sostiene

gli stupratori. Come fosse lei la

colpevole. Assieme alla sua

avvocata, Anna Maria, a questo

punto non si ferma più. Non si

arrende. Sei dei suoi stupratori,

sono stati condannati, ma il paese

intero le è contro. Quelle persone di genere

femminile, mogli, figlie, madri,

delle belve che hanno fatto

violenza ad Anna Maria, che

guardano i loro uomini come se

avessero fatto chissà quale impresa

meravigliosa, grandiosa, splendida;

che ai loro compagni in catene

mandano baci e mostrano i

piccolissimi figli, una di appena tre

mesi, come fossero trofei;

incipriate e agghindate come

stessero andando in discoteca e non

in aula di tribunale, ecco quelle lì,

cosa hanno in comune con la

giovane Anna Maria?

E il magistrato che nei confronti di

due stupratori con le catene e

relative compagne si ammanta di

un’umanità commovente - che

stona all’interno di quell’aula – che

significa?

Nel frattempo, in un’altra città, in

altro tribunale, una sentenza ci fa

sapere che se lo stupro è collettivo,

ai componenti del branco si applica

una riduzione. Come si suole dire

sconto comitiva.

***

Alcune donne in questo periodo

occupano e svolgono un ruolo di

rilevante importanza politica e

sociale. Una consuetudine poco

praticata qui in Italia.

Personalmente non mi sento

particolarmente vicina a nessuna di

loro, ma mi rendo conto della

circostanza straordinaria. Tre donne

in tre ministeri strategici. Elsa

Fornero al ministero del lavoro, Paola

Severino al ministero della giustizia e

Anna Maria Cancellieri al ministero

degli interni. Inoltre, da posizioni

contrapposte, altre due donne,

guidano due eserciti avversi: Emma

Marcegaglia presiede l’Associazione

Nazionale degli industriali, Susanna

Camusso è a capo della CGIL.

Orgoglio di genere ? Orgogliose lo

vorremmo essere. Invece, l’amarezza

e la delusione serpeggia ovunque. Il

clima è terribilmente teso, avanza la

normalizzazione soprattutto nella

recrudescenza delle violenze alle

donne. L'offensiva conservatrice

contro i diritti di tutti, ma, delle

donne in particolare, è trasversale a

tutti i poteri. Tutti i presupposti. Tutte

le filosofie e le non ideologie. Le

donne sono diventate più ricattabili.

Le retribuzioni degli italiani medi

sono molto sotto della media europea,

ci dicono, le italiane, guadagnano

ancora meno. Troppo poco. In tempi

di depressione poi le donne, è

risaputo, pagano un prezzo più alto.

Siano crisi economiche e lavorative.

Di meriti e talenti. O di valori come

oggi.

Alle nostre donne autorevoli,

ministre, segretarie o presidenti,

diciamo, non guardate solo gli

obiettivi a lunga scadenza. Non siate

solo tecniche. Asservite alle

“logiche”, alle questioni di principio,

alle false esigenze europee. Al credo

del mercato. Alla legge della

precarizzazione. Al divieto sacrale.

Siate donne, cioè libere, competenti,

sensibili, coraggiose.

Vorremo essere orgogliose di voi.

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Letizia Battaglia / Le Donne

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Donne: Letizia Battaglia

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Letizia Battaglia / Le Donne

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Suicidate da ‘ndrangheta e camorra, assassinate dalla

mafia, maltrattate dai famigliari, aggredite per strada,

uccise perché si odiano, disubbidiscono, lasciano o si

“amano troppo”… La violenza sulle donne è in una

fase di recrudescenza e normalizzazione.

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8 marzo della Crisi o nella Crisi? / Fiori di Mimosa

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8 Marzo

della Crisi o nella Crisi?

Fiori di Mimosa Lidia Menapace

La concezione parassitaria del genere femminile, la valutazione mercantile del corpo delle

donne hanno dilagato insopportabilmente e hanno coagulato un senso di orrore, rabbia e

rifiuto che non si cancella. Intanto cene, regali, mimose. Una ricorrenza politica che stinge

sempre più. Che cosa ha trasmesso il femminismo degli anni settanta? Che cosa è rimasto?

Che cosa era utile? Quali i passi da non cancellare?

Ogni anno -si può dire - torna l'otto

marzo - anche con un che di affliggente,

ripetitivo, celebrativo. E sembra portare

con sé uno stigma di lamento,

rivendicazione, pretesa. Insomma un

qualcosa di luttuoso, che viene mitigato

con i fiori di mimosa, le cene comuni, gli

omaggi cavallereschi: i presidenti delle

assemblee fanno arrivare un mazzo di fiori

sui banchi occupati dalle sempre scarse

donne parlamentari.

Di anno in anno stinge un po' la qualità

politica della ricorrenza, anche perché non

si può dire davvero che i bilanci che si

possono fare siano esaltanti. E' vero che la

coscienza di sé tra le donne cresce, si

radica, si consolida, sembra diventare

qualcosa che non si cancella: ma è

ugualmente vero che questo livello di

coscienza appartiene al genere femminile,

non scalfisce l'altro genere.

E' uscito allo scoperto il fastidio, la

tristezza, la protesta per tutto ciò con "Se

non ora, quando?". Tutta la volgarità

tradizionalista, la concezione parassitaria

del genere femminile, la valutazione

mercantile del corpo delle donne hanno

dilagato insopportabilmente e hanno

coagulato un senso di orrore rabbia e

rifiuto che non si cancella.

Ma la destra che con Berlusconi

metteva in scena, lanciava, usava i modi

di rappresentazione delle donne ( che

hanno trovato denuncia convincente da

parte di Lorella Zanardo), insieme,

produceva una novella brutalità (lo ha

notato di recente in una accorata

intervista televisiva Dacia Maraini) , che

si manifesta nel bullismo delle ragazze

(fino a prendere parte a violenze di

gruppo anche verso altre ragazze?), a

pratiche di sesso estremo fino al rischio

di morte e alla violenza sessuale maschile

di vendetta per l'abbandono o il

tradimento, fino al diffuso femminicidio.

Il quadro è fosco, ma non lo evoco

con alcun compiacimento

granguignolesco. Intendo solo

sottolineare che nella sua turpitudine tutto

ciò significa e rivela anche che le donne

costituiscono davvero ora un soggetto

politico di pieno rilievo, che si compone

col contesto vigente, prende i colori della

cronaca, le parole della protesta, le

movenze dell'agire politico in modo

autonomo e quasi senza rendersene conto.

E' una novità rilevante: ma non si fa

strada, non suscita risposte né attenzione, e

forse proprio perché il femminismo degli

anni Settanta ha ormai trasmesso un

linguaggio in forma di moneta di scambio

facile. Tanto mi disturba ora sentire donne

e anche uomini dire: "Parto da me", "e

dove vai?" mi viene sempre da chiedere,

dato che da un bel po' siamo partite da noi,

ma sembra che ci siamo perse nelle nebbie.

Forse perché non abbiamo mai contato il

tempo del nostro andare? Ben venga

perciò il grido di Snoq: "se non ora,

quando? " "ADESSO" gridiamo

all'unisono. Ma la domanda persino

angosciosa è : "CON CHI?".

Qui si svela la miseria del presente e il

bisogno di teoria politica. Sto studiando

l'economia della riproduzione (biologica,

domestica e sociale) e mi pare una buona

direzione, in un tempo di crisi che stimola,

e insieme alle donne (e agli uomini) che

non cancellano il segno dei passi che ci

siamo lasciati alle spalle.

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Ribelle e Sola / Donne in cerca di guai

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Ribelle e Sola

Donne in cerca di guai

Disubbidisci? Io ti suicido Francesca Chirico

Donne che si ribellano. Per inseguire la libertà, un sogno, l’amore vero. L’amore che non uccide. L’amore più

forte della paura. Sanno che vanno incontro alla morte, ma spesso non hanno alternativa. Non vogliono fare

con i loro figli gli errori che hanno subito dalle loro madri. Sono sole con il loro tormento. Se non lo fossero

forse nessuno si sognerebbe di “suicidarle”. In Calabria la ‘ndrangheta per punirle, le fa bere una bella dose

di acido muriatico. Oppure, immerge direttamente la donna dentro un bagno di acido muriatico, così non resta

nemmeno l’odore di quella donna indisciplinata che non vuole più ubbidire.

REGGIO CALABRIA – Il nuovo

fronte della lotta alla ‘ndrangheta? Il

focolare domestico. Un fronte interno che

si è aperto negli ultimi anni nel cuore

stesso del potere criminale calabrese e sta

minando lo spazio da cui la “famiglia-

cosca” trae nutrimento di regole e

legittimazione. In alcune case di

‘ndrangheta, sempre più spesso, quello

spazio sta rimanendo vuoto. Le donne, che

lo governano e tengono vivo, sono andate

vie. Dietro l’amore vero, dietro un sogno di

liberazione, dietro il desiderio di sparigliare

il destino e di scriverne uno diverso per i

propri figli. Storie di ribellione, come tante

brecce nel muro. Inattese. Anche perché, la

‘ndrangheta ha sempre vantato l’assenza di

pentiti, sedenti e convertiti fra le sue fila. A Rosarno, il paese in cui Maria Rosa

Bellocco è stata assassinata dalla sua stessa

famiglia l’1 settembre 1977, assieme al

figlio di nove anni e al marito che non

aveva avuto il coraggio di punirne il

tradimento; il paese in cui Annunziata

Pesce è stata ammazzata nel 1981 da zii e

fratelli per la relazione con un carabiniere,

le donne della famiglie di ‘ndrangheta

hanno imparato prima a tacere che a

parlare. Hanno imparato, soprattutto, che se

un fratello o un padre si avvicina e ti dice

“Vieni con me”, potrebbe avere una

pistola dietro la schiena e un pezzo di

campagna pronto per seppellirti. E però

anche a Rosarno, e nelle case di

‘ndrangheta, certe cose sono più forti

della paura: la vita, i figli, l’amore. La collaboratrice di giustizia

Giuseppina Pesce, il 23 agosto 2011, lo

spiega bene ai magistrati della Dda di

Reggio Calabria: “Ho espresso la mia

volontà di iniziare questo percorso,

spinta dall’amore di madre e dal

desiderio di poter avere anche io una vita

migliore, lontano dall’ambiente in cui

siamo nati e cresciuti. Ero e sono

convinta che sia la scelta giusta, dal

momento che per scelte di vita di

familiari e congiunti, siamo sempre stati

segnati da una vita piena di sofferenza e

difficoltà e soprattutto mancanza di

coraggio per paura delle conseguenze

(…) Ho capito l’importanza della

motivazione per cui ho collaborato: il

futuro dei bambini e l’amore per un uomo

che mi ama per quello che sono e non per

il cognome che porto”. Ha trentuno anni,

si è sposata che ne aveva quattordici ed è

madre di tre figli. Nell’aprile 2010

l’hanno arrestata nella maxi-operazione

“All Inside” contro la storica cosca Pesce

di Rosarno, accusandola di avere ricoperto

il ruolo di postina tra il padre in galera (il

boss Salvatore Pesce arrestato nel 2005) e

gli affiliati a piede libero. Qualche mese

dopo Giuseppina ha avviato la sua

collaborazione e, dopo una tormentata fase

di ripensamento legata alle pressioni

esercitate dai familiari, si appresta a

testimoniare nel processo che vede alla

sbarra, di fronte al Tribunale di Palmi, i

boss e gli affiliati della cosca Pesce. Ha trentuno anni, si è sposata che ne

aveva quattordici ed è madre di tre figli

anche Maria Concetta Cacciola che di

Giusy Pesce è pure cugina. Concetta

Cacciola, però, ruota attorno all’altra

storica cosca di Rosarno, i Bellocco. Alla

madre, prima di partire nel maggio 2011

per la località protetta, scrive parole

semplici. “Mi sono resa conto che in fondo

sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo

il lusso, non volevo i soldi... era la serenità

l’amore, che si prova, quando fai un

sacrificio ma avere le soddisfazioni, a me

la vita non ha dato nulla che solo dolore, e

la cosa più bella sono i miei figli che li

porterò nel mio cuore, li lascio con dolore,

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Ribelle e Sola / Donne in cerca di guai

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un dolore, che nessuno mi ricompensa”. La

invita pure a non ripetere con i figli gli

stessi errori fatti con lei: “Di un’unica

cosa ti supplico, non fare l’errore mio…a

loro dai una vita migliore di quella che ho

avuto io, a 13 anni sposata per avere un

po’ di libertà credevo potessi tutto, invece

mi sono rovinata la vita perché non mi

amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico

non fare l’errore a loro che hai fatto con

me… dagli i suoi spazi”. Di spazi fuori e

dentro la sua casa di Rosarno Maria

Concetta Cacciola, moglie di un detenuto

condannato per associazione mafiosa, ne

poteva avere solo su internet: in chat

aveva conosciuto un uomo e al telefono si

era innamorata. Virtuale, d’accordo, ma

sempre tradimento. Le lettere anonime

spedite al padre, cognato del boss

Gregorio Bellocco, nel giugno 2010 per

segnalare l’ammaccatura all’onore di

famiglia avevano scatenato una

rappresaglia brutale, di calci e pugni.

Padre e fratello le fratturano una costola

e le impediscono di recarsi in ospedale.

La curerà in casa un medico

compiacente. E’ da questo inferno che

Cetta Cacciola decide di uscire

rivolgendosi ai carabinieri di Rosarno.

Parla di bunker, omicidi, traffici di

droga e parte per una località protetta.

Ma non resiste. Cetta torna sui suoi

passi, pur non ignorando ciò che può

attenderla. “Tutti me lo dicono, renditi

conto di quello che ti aspetta, perché ormai

lo hai fatto, il passo lo hai fatto, una cosa e

un'altra ti dicono che ti perdonano però

che so nel cuore … Te lo dicono in questo

momento e poi tra un po' di tempo ti

fanno…”, ragiona al telefono con la sua

migliore amica. Il 10 agosto è di nuovo a

Rosarno. Il dodici agosto le fanno

registrare un audio presso lo studio di un

avvocato per smentire tutte le dichiarazioni

rese ai magistrati: le fanno dire che era

arrabbiata, che era depressa, che ora è

felice e vuole essere lasciata in pace. Il

venti agosto si attacca a una bottiglietta

rossa piena di acido muriatico. La trovano

agonizzante sul pavimento bagnato del

bagno. Dall’inferno ha deciso di andare

via definitivamente. Suo padre, sua

madre e suo fratello sono stati arrestati

nel mese scorso per maltrattamenti in

famiglia. Per i parenti soffriva di “depressione-

psichica” anche la 38enne Tita

Buccafusca e per sottolineare che le

parole della donna non potevano avere

alcun valore si erano presentati con tanto

di certificati medici alla caserma dei

carabinieri di Limbadi, nel Vibonese. Il

quattordici marzo 2011 Santa

Buccafusca, per tutti Tita, moglie del

boss Pantaleone Mancuso (“Luni

Scarpuni”) è negli uffici della Dda di

Catanzaro con il figlio di due anni in

braccio. Ha deciso di parlare, ma nella

località segreta in cui viene condotta

subito dopo le prime dichiarazioni resiste

pochissimo. Poi il ritorno a casa. Un

ricovero nel reparto di psichiatria

dell’ospedale di Polistena e il sedici

aprile 2011, la scelta atroce di

“rivolgersi” all’acido muriatico. Come

Cetta Cacciola e come aveva fatto il

quindici dicembre 2010, in un contesto

assai diverso, anche Orsola Fallara,

44enne dirigente del settore Finanze e

Tributi del Comune Reggio Calabria,

travolta dal peso dello scandalo per

l’allegra gestione finanziaria del

“modello Reggio” di Peppe Scopelliti.

Acido. Che entra bruciando e

spazzando via la vita da ogni cellula. La

35enne di Petilia Policastro Lea

Garofalo la notte del ventiquattro

novembre 2010 ce l’hanno immersa

dentro. A Monza, nel magazzino in

località San Fruttuoso dove, sostengono i

magistrati milanesi, sarebbe stata

torturata, uccisa e sciolta nell’acido non

ne è rimasto neppure l’odore da far

annusare ai cani. “Sarà che la storia si

ripete o che la genetica non cambia, ho

ripetuto e sto ripetendo passo dopo passo

quello che nella mia famiglia è già

successo. E sa qual è la cosa peggiore?

La cosa peggiore è che conosco già il

destino che mi aspetta. La morte. ”-

aveva scritto Lea nell’aprile 2009 al

presidente della Repubblica. “Oggi e

dopo tutti i precedenti – aveva aggiunto -

mi chiedo ancora come ho potuto anche

solo pensare che in Italia possa realmente

esistere qualcosa di simile alla giustizia”.

Sembra darle ragione il processo in corso a

Milano contro l’ex marito Carlo Cosco,

accusato di averla sequestrata e uccisa con

la complicità di Giuseppe Cosco, Vito

Cosco, Rosario Curcio, Massimo Sabatino,

Carmine Venturino, tutti calabresi e tutti

legati alla 'ndrangheta. Un processo che

non vede però contestata agli imputati

l’aggravante mafiosa. Lea sarebbe stata

sciolta in 50 litri di acido per problemi di

coppia e non per avere raccontato ai

magistrati dei traffici di droga e degli

omicidi del marito e dei cognati. L’ultimo

schiaffo.

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Bella de papà te faccio adottà

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Balla, balla, ballerina Bella de papà te faccio adottà

Antonella Serafini

I nonni a te non comprano niente perché sei cattiva, a me comprano le pellicce e i gioielli. Per lei non c’era

niente di più’ bello che ascoltare musica e seguirne i ritmi. E questo sogno le dava la forza di sopportare tutto.

Storia di una bambina adulta, maltrattata e rifiutata, dal padre naturale prima e dalla madre adottiva dopo.

Deprivata, molestata, picchiata… ma lei volteggiava.

“Bella de papà" disse alla sua

piccolina. Erano ancora dentro al

Tribunale, una nuova famiglia stava

adottando Tamira, la sua piccola

figlia perché, lui era un papà

incapace di crescerla . “Bella de papà

- insisteva - vuoi stare con me? Si?

Peccato, non puoi più farlo perché

sei stata adottata”.

Che una mamma fosse

importante Tamira l’ha sempre

saputo. Fin da piccolissima,

quando la sua è morta. Aveva

solo due anni.

Le hanno raccontato di una

mamma e un papà molto

affiatati. Una famiglia felice,

fino all’incidente in moto che

costò la vita a sua madre. Tutti i

ricordi sulla madre, incluso il

funerale, Tamira li ha perché le

sono stati raccontati. Le hanno

riferito che piangeva davanti alla

bara perché’ capiva che dentro

c’era sua madre, anche se

nessuno le aveva detto niente.

Troppo piccola. Appena due

anni di vita, ma, già sapeva

l’importanza della mamma. Il

suo amore. Il suo odore. Le sue

coccole. Le rimaneva il papà.

La morte della moglie ha

portato il padre all’alcolismo e

di conseguenza a un carattere

negligente e violento con tutte le

figlie. Le bambine, tenute dal

papà, vivono in condizioni di

estremo disagio, sporche e

denutrite, pidocchi tra i capelli. Indigenza

si dice con una sola parola, vanno a

vivere dai nonni. Tutte tranne lei, Tamira,

che di lì a poco sarà adottata da tre

estranei. Un grosso trauma.

Non che con il padre naturale andasse

bene. L’alcolismo lo portava ad

aggressività durezze e violenze

quotidiane, e poi quelle parole al

tribunale “ bella de papà vò sta con me? Si?

Peccato, non puoi più farlo perché sei stata

adottata”. Parole indelebili che ancora oggi,

pur essendo una donna nuova le risuonano

nella testa.

Tamira,

fu adottata da tre persone

Sì, tre, perché la madre adottiva era

divorziata, e non potendo avere in

adozione una figlia, chiese ai

propri genitori di fare da

prestanome. I nonni adottivi erano

così ufficialmente i genitori, ma

solo sulla carta. Lo sport preferito

della mamma, era parlare male

della madre naturale e picchiare

con forza la bambina. Ogni

pretesto era buono. Giocava sul

letto e giù botte, briciola sul

pavimento, e giù botte. Una volta

addirittura per maggiore comodità

si mise cavalcioni su Tamira e le

tirava i capelli sbattendole la

faccia a terra con violenza,

costringendola poi, a non andare a

scuola per evidenti segni di

contusioni sul volto. Era come se

la bambina servisse a dimostrare

quanto fosse migliore la sua

madre adottiva. Frasi del tipo “a te

i nonni non comprano niente

perché sei cattiva, a me comprano

le pellicce e l’oro” non erano

comprensibili per una bambina,

ma erano pane quotidiano. Per

lavorare, lasciavano la bambina

sola in casa e quando calava il

sole, per paura del buio Tamira

accendeva tutte le luci. E anche

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Bella de papà te faccio adottà

Casablanca pagina 11

quello era motivo di percosse. Nonostante

tutto, la piccola aveva un chiodo fisso che

scacciava tutti i brutti pensieri: lei voleva

imparare a ballare. Niente c’era di più bello

per lei che ascoltare musica e seguirne i

ritmi. Era questo sogno che le dava la forza

di sopportare tutto.

Per farla interagire con altri bambini e

perché si rifiutava di mangiare, la bambina

fu mandata in un istituto di suore, ma

nemmeno a scuola la condizione di violenza, fisica e

psicologica cambiava molto.

Farsi la pipì addosso e dover rimanere in

piedi con le mutandine bagnate in testa

davanti a tutti, oggi sarebbe da prima

pagina di cronaca per i maltrattamenti ai

minori, ma prima, quarantacinque anni fa,

circa, era considerato normale. Educativo,

quasi. Così come, era educativo per l’epoca

lo svegliarsi alle cinque del mattino.

Tuttavia, tutte queste cose contavano poco,

perché Tamia aveva un idolo: Carla Fracci.

La imitava davanti alla tv, simulava un tutù

utilizzando buste di plastica e cercava di

imitare la postura da ballerina. Tamira

sapeva che nel suo futuro c’era la danza.

Sopportava tutto, anche il fatto che la

madre adottiva la dimenticava in istituto

quando invece doveva tornare a casa, e

assisteva ai lavori di cucito delle suore,

vedendo gli orpelli, le perline, e continuava

a immaginare la danza, i costumi. La

scuola era un tormento, non riusciva a

concentrarsi, a studiare, percosse

quotidiane, ematomi visibili e nessuno che

si fosse mai interessato. L’unica volta che

riesce a studiare una poesia a memoria, per

la festa del papà. Chiede di essere

interrogata, comincia la poesia “tu, papà,

giovane e forte... ” e la suora scoppia a

ridere rimarcando che in realtà suo padre è

vecchio ed ha l’età di un nonno. Uno

smacco dietro l’altro.

Un giorno di ritorno a casa,

un’assistente sociale le comunica che

sarebbe andata in un nuovo istituto, un

collegio dove sarebbe rimasta fino alla

maggiore età. La madre adottiva aveva

trovato un compagno e non serviva più la

sua compagnia.

In quattro anni di permanenza in

collegio, Tamira ha visto la madre adottiva

solo un paio di volte. Si mangiava poco e

male, punizioni restrittive, non si usciva

mai se non in gruppi e con assistenti,

quanto bastava per far dimenticare a

Tamira le molestie ricevute da due uomini

di cui uno era sacerdote quando era ancora

una bambina. Episodi rimossi e tornati alla

memoria solo molto tempo dopo, quando

ha trovato un po’ di serenità con il suo

primo ragazzo, oggi attuale marito, con

cui Tamira ha messo su una famiglia.

La prima figlia a diciotto anni. Doveva

andare tutto bene. Problemi? Solo

economici. Lui aveva un lavoro che di

regolare aveva solamente la fatica, perché

spesso saltavano gli stipendi. Per fortuna

le difficoltà erano solo economiche.

Soffrire la fame a volte non era solo un

modo di dire. Ma non fu mai accantonato

il pensiero di ballare. Dopo la terza

bambina, ormai adulta, un’amica le fa

conoscere il mondo della danza orientale.

A lla giovane mamma sembrava tardi per

cominciare, ma lo vide come un segno

del destino. E’ cominciato così, in

maniera amatoriale, un percorso artistico

durato anni. Per evitare di incidere sullo

stipendio del marito, Tamira ha deciso

mantenersi la danza con un altro lavoro.

Entra in una cooperativa di pulizie, e si

alza tutti i giorni alle quattro di mattina,

per poi continuare a coltivare il suo

sogno. Una volta nell’ambiente, il suo

carattere solare e sempre proiettato al

futuro, le consente di incontrare molte

persone simili a lei con le stesse passioni e

umanamente speciali, con cui Tamira ha

messo su un gruppo che quest’anno si è

esibito anche in un festival internazionale.

Ora Tamira ha due scuole in cui insegna, fa

uno spettacolo dietro l’altro, il suo primo

fan è il marito. Le sue allieve sperano di

poter diventare un giorno come lei per

quello che trasmette, per i sorrisi che

elargisce. Ma nessuno sa che dietro quei

sorrisi ci sono pianti, c’e’ sofferenza, c’e’

amarezza, sacrificio.

Oggi Tamira è nonna, ma continua a fare

spettacoli. Grazie ai sogni è ringiovanita,

ha molti progetti per il futuro, perché sa

che la sua vita è cominciata da poco.

Page 12: Casablanca n.23

Rosaria Capatosta / Intervista a Rosaria Capacchione

Casablanca pagina 12

Rosaria Capatosta

Intervista a Rosaria Capacchione. Rosita Rijtano

Voleva fare il medico invece fa la lotta alla camorra. Le minacce alla “zoccola ragazzina” arrivarono presto:

lettere; telefonate; c’era perfino un piano per “sopprimerla”, Da diversi anni vive sotto scorta. “Sono una

cronista, svolgo solo la mia professione” È un po’ fastidioso però si sopravvive…”, dice con aria di

sufficienza, interrompendo qualsiasi futuro pensiero sull’argomento. Francesco Bidognetti e Antonio Iovine

tanto per fare due nomi, in pubblico l’accusarono d’influenzare la Corte d’Appello con i suoi articoli.

Rigorosi, precisi, taglienti. Armi pericolosissime.

Non è difficile immaginarla china sul

microscopio. A esaminare provette con la

stessa perizia che dedica ai fatti. Da

ragazza Rosaria Capacchione sognava di

diventare medico. Il giornalismo? Solo uno

dei tanti interessi. “In realtà volevo fare la

ricercatrice. Mi piacevano molto la

microbiologia e la genetica”, spiega con

aria nostalgica. Oggi è una delle migliori

croniste di giudiziaria che lavorano nel

nostro paese. Nel 2010 la rivista

americana Newsweek l’ha inserita nella

lista delle grandi donne d’Italia. Al

fianco del premio Nobel Rita Levi

Montalcini. Piccola soddisfazione per

chi sperava nella carriera da studiosa.

La rigorosità scientifica però non l’ha

mai tradita. Anzi. È diventata

un’ossessione. “Il motivo che si cela

dietro il fatto lo devo trovare. Costi quel

che costi. E le risposte ufficiali non mi

bastano mai”, chiosa.

Alla carta stampata è arrivata per

caso: “Mio padre aveva una quota di

partecipazione in un piccolo giornale.

L’idea di lavorarci mi piaceva e volevo

provare. Poi non sono più andata via”. Il

suo non è stato un colpo di fulmine ma un

grande amore. Di quelli che maturano con

il tempo e durano tutta la vita. A folgorarla

inizialmente è la macchina, più che la

scrittura: trascorre notti intere in tipografia,

titola e impagina. Capacità che le apre le

porte di tutti i giornali: “Vivevo a Latina

e trovai lavoro in un piccolo settimanale

sportivo. Un giorno il direttore mi

propose di accompagnarlo in stamperia.

Andai”. Da quel momento in poi chiesero

solo di lei, la napoletana. “Mandateci la

picciridda”, era l’ordine. Aveva solo

vent’anni, eppure nessuno riusciva a

starle dietro. “Chiudevo il giornale in

un’ora anziché in un giorno. E poi ciò che

non ho mai superato è l’emozione di

portare a casa la notte il giornale che sarà

in edicola il giorno dopo. È come se tu

sapessi qualcosa prima degli altri”. Le

storie arrivarono solo dopo.

È domenica pomeriggio e la redazione

de "Il Mattino" brulica di giornalisti. Al

terzo piano di Via Chiatamone numero 6,

Rosaria trascorre buona parte dei

pomeriggi. Arriva dopo ora di pranzo e va

via quando è buio. Dalla sua stanza esce

solo per prendere il caffè e fumare. “Amo

profondamente la mia terra ma non al

punto di considerarla l’unico luogo al

mondo dove potrei vivere”, confessa

bevendo d’un fiato il terzo espresso.

“Rimango qui perché ho il mio lavoro.

Però mi piacerebbe vedere il mondo per

poterlo raccontare. È con lo stesso spirito

che cerco di parlare della mia terra: come

se la vedessi da esterna”. Anche se in

realtà Caserta la conosce benissimo.

Nessuno meglio di lei ha documentato le

zone d’ombra dell’amministrazione

comunale; la radicata collusione con la

camorra; gli affari dietro la gestione

dell’emergenza rifiuti. Evitando qualsiasi

riguardo per il potere.

Le minacce alla “zoccola ragazzina”

arrivano presto: lettere; telefonate; e c’era

perfino un piano per “sopprimerla”, come

rivelato nel ’96 dal pentito Dario De

Simone. Poi Spartacus: il processo alla

mafia più importante degli ultimi quindici

anni con 113 accusati e 500 testimoni; una

Page 13: Casablanca n.23

Rosaria Capatosta / Intervista a Rosaria Capacchione

Casablanca pagina 13

doccia scozzese per la criminalità locale,

gestita dal clan dei Casalesi. Rosaria lo

segue, spulciando carte e sentenze. Senza

mai stancarsi. “Sono una cronista, svolgo

solo la mia professione”, ribatte escludendo

ogni appello quando si accenna alla sua

lotta contro la camorra. “Se ciò coincide

con l’impegno sociale, vuol dire che c’è

qualcosa che non va nel nostro mestiere;

che qualcuno non fa il proprio dovere”.

Lei invece il suo lavoro lo fa bene. Degli

imputati riesce a conoscere tutto, tanto da

fare paura. “Francesco Bidognetti e

Antonio Iovine mi accusarono in pubblico

d’influenzare la Corte d’Appello con i miei

articoli. Volevano farmi fuori”, ricorda. Lo

sguardo diventa acuto, difficile da

penetrare. Quasi impossibile fargli

domande. È lei a dettare legge durante

l’intervista. Argomento particolarmente

delicato: la scorta imposta quattro anni fa

che la segue sempre e ovunque. Pentita?

“No, mai. È un po’ fastidioso però si

sopravvive…”, dice con aria di sufficienza.

Chissà se lo pensa davvero.

Dopo l’arresto di Zagaria, quale

futuro per i Casalesi?

La struttura del clan – com’è raccontata

nel processo Spartacus - era cambiata già

prima. Più che la cattura del latitante, a

creare problemi è stata la morte per infarto

del cognato, Franco Zagaria: la mente

imprenditoriale. Credo però che la famiglia

continui a essere molto forte e a controllare

settori economici strategici.

C’è qualcuno cerca di approfittare

della situazione?

I figli di Schiavone stanno creando

parecchi problemi. Vorrebbero assumere il

comando ma sono arroganti, violenti e

cocainomani. Lontani dalle logiche di

Zagaria, il cui modello è Provenzano.

Quindi molto più orientato a una mafia di

tipo imprenditoriale ed economico.

Quali sono i nuovi affari?

Non si fanno mancare niente: il gioco; il

commercio di autovetture di lusso; gli

stabilimenti balneari. Quello che vuoi.

Le alleanze con le altre mafie, in Italia

e all’estero.

In genere le grandi mafie non si fanno la

guerra, si alleano. All’interno dei confini

italiani i Casalesi hanno ottimi legami

con la ‘ndrangheta. Mentre all’estero i

rapporti sono stabili con la mafia dell’est:

Romania, Albania e Russia. Di recente il

pentito Vargas ha parlato di un

collegamento con Al Qaeda. La

connessione esiste ed è anche

documentata da tempo. Ma non è

un'unione ideologica, bensì d’interessi.

Vargas ha parlato anche di un

accordo per uccidere il procuratore

Federico De Raho. Lei ha dei timori?

Parto dal principio che se sono nata,

prima o poi devo anche morire.

Personalmente non ho mai avuto paura di

Zagaria. Credo che se un giorno

decidesse la mia morte, nessuno sarebbe

in grado di fermarlo. Quindi è inutile

pensarci. A farmi paura sono i figli di

Schiavone: ragazzi senza una visione

strategica della criminalità che sono in

grado di compiere anche un omicidio

dimostrativo.

Che cosa vuol dire parlare di terzo

livello in Campania?

Non credo all’esistenza di

compartimenti stagni. Penso che di volta

in volta ci siano stati degli accordi. Giunti

anche a terzi o quarti livelli: apparati di

sicurezza, lobby e consorterie, più che

partiti politici. A mio parere - come in

Sicilia - lo Stato ha tacitamente

voluto delegare alla mafia degli

affari, la tutela

dell’ordine

pubblico. Accordo

che è stato palese

durante la

gestione

dell’emergenza

rifiuti.

La situazione è

migliorata?

Non abbiamo ancora

smesso di produrre

immondizia. Quindi

dovremmo anche trovare dove

metterla. Non ho ancora capito

come hanno deciso di smaltire i rifiuti. E

l’idea di trasportarli altrove, per inquinare

altri paesi e far morire altri al nostro

posto, la trovo ipocrita, egoistica e

scandalosa. Perciò credo che per un

periodo l’inceneritore serva.

Perché nell’inceneritore sì e nelle

discariche no? Nel trasporto dei rifiuti no?

Anzi. Più passaggi intermedi ci sono, più è

rischioso. Con l’inceneritore il pericolo si

dimezzerebbe.

Secondo lei il cambiamento è

possibile?

Forse la crisi ci farà bene. Se sapremo

come sfruttarla.

Qual è il ruolo delle donne nella lotta

contro la camorra?

Esistono centinaia di piccole storie di

vita quotidiana. Persone che hanno reagito

al “sistema” e che sono fondamentalmente

donne. Perché poi il perpetuarsi del potere

mafioso passa tutto attraverso le madri, le

famiglie. Il cambiamento parte

dall’educazione.

Che cosa pensi debba fare un

giornalista?

Raccontare. Un giornalista non può fare

altro. Quando vuole fare qualcosa in più,

sbaglia.

Page 14: Casablanca n.23

Anna Puglisi / La commendatora antimafiosa

Casablanca pagina 14

Anna

La Commendatora

Graziella Proto

Perché è importante la storia di Anna Puglisi? Perché dentro la sua ci sono storie di donne meravigliose,

coraggiose, speciali. Storie che lei ha raccontato. Storie che si sono incrociate con la sua, il suo impegno e la

sua generosità.

Ci presentammo con i nostri inviti

all’ingresso del Quirinale. Non sapevamo

cosa fare e come comportarci. Dopo vari

controlli, seguendo gli altri, perché mi

vergognavo a chiedere informazioni,

entriamo nella sala riservata al pubblico. Il

posto di Umberto si trovò immediatamente,

quello della signora Anna Puglisi non

esisteva. Un disagio incredibile. Io non

sapevo cosa fare. Che cosa pensare. La

signora che cercava fra i posti anche lei era

in difficoltà. Leggeva e rileggeva i fogli a

sua disposizione … no, Anna Puglisi nella

lista dei nomi non c’era proprio. Poi a

qualcuno viene in mente di guardare un

altro elenco, ” signora lei è una persona

importante, non va tra il pubblico”. Che

vuol dire? Guardo Umberto in cerca di

aiuto, ma, la signora mi esorta a seguirla. Io

da sola. Lasciare Umberto da solo …

attimi incredibili, ero titubante, ma la

signora con gentilezza e altrettanta

decisione mi condusse via.

Le “persone importanti”, quelle da

premiare erano separate dal

pubblico. Sette in tutto.

Erano elegantissimi, e lo

stesso tutto il pubblico. Noi

c’eravamo presentati con

molta semplicità. Non

avevamo portato nemmeno

una macchina fotografica.

L’ansia mi terrorizzava, ma

poi cominciammo a fare

conoscenza fra noi e

ridevamo scherzando della

situazione. Ero molto

emozionata. Poi finalmente

toccò a me. ”il presidente Giorgio Napolitano ha

conferito ad Anna Puglisi, l’onorificenza

di Commendatore dell’Ordine al merito

della Repubblica Italiana con la

seguente motivazione: con i suoi studi e

la sua attività di raccolta di

testimonianza di vita, svolta soprattutto

attraverso il Centro Siciliano di

Documentazione, intitolato a Giuseppe

Impastato, ha valorizzato il contributo

delle donne nella mobilitazione

antimafia” Bello. Importante. Gratificante! Lei

sorride e minimizza. ”mi fa piacere per la

motivazione, perché fa riferimento al

lavoro che ho fatto”. Poi riprende fiato e

aggiunge che nemmeno lei sa spiegarsi

certe cose, tante risatine per nascondere il

disagio. (di che?) Poi quasi a volersi

giustificare inizia a raccontare e ad

argomentare sul come sia potuto accadere.

Umile e semplice Anna! “Nel 2007 ricorreva il sessantesimo

anno della strage di Portella delle Ginestre.

Con altre associazioni invitammo il

Presidente Napolitano per le celebrazioni, lui

non poteva venire, però, ci fece sapere, che

da lì a poco sarebbe venuto a Palermo al

giardino della memoria di Ciaculli per la

giornata della memoria. Avrebbero messo un

albero anche per Peppino quindi il nostro

Centro avrebbe partecipato. Quando

Umberto andò a salutare, il Presidente e sua

moglie, a lui, regalò i libri suoi, alla signora

Clio (Napolitano) regalò i miei. Dopo un

anno mi telefonano dalla Presidenza della

Repubblica e mi chiedono dei dati personali.

Ma perché chiedo.. le faremo sapere. Dopo

qualche tempo una altra telefonata. Il

Presidente mi dice la voce all’altro capo del

filo ha deciso di nominarla commendatore

della Repubblica. Al più presto riceverà

l’invito per venire al Quirinale. “Ma può

venire mio marito?”.

*** “Figli? Non ne abbiamo voluti. Una scelta.

Non mi sentivo di assumermi la

responsabilità di fare figli. Non mi sentivo la

forza di portare avanti la maternità. Era un

fatto personale, non ci costruirei molto …

Fra me e Umberto abbiamo un esercito di

nipoti. So che ho fatto bene”.

Alta ed esile. Calma ed equilibrata. Anna

Puglisi continua - “Volevo essere utile in

qualche modo, ma, non era assolutamente

una spinta del mio essere cattolica .Se non ci

fosse stato Umberto, avrei continuato nel

mio impegno sociale, così come facevo

prima di conoscerlo, ma non sarei stata

Page 15: Casablanca n.23

Anna Puglisi / La commendatora antimafiosa

Casablanca pagina 15

impegnata in modo così totalizzante. Tutta

la vita. Tutta la giornata. Assolutamente no.

Però ho accettato questa avventura, ho

accettato di farne parte e la porto avanti,

anche se sono stanca” .Una grande

dichiarazione d’amore per Umberto, suo

marito.

Autorevole, diligente, rigorosa. Potresti

pensare che è scontrosa, ma non hai il tempo

di formulare il pensiero perché il suo sorriso

dolce e accattivante ti disarma.

Tuttavia, non facciamoci fuorviare, Anna

Puglisi, sposata Santino, sa il fatto suo, e se

vuole, sa essere molto tagliente. Difendere

una sua opinione, raggiungere un suo

obbiettivo con grinta e passione.

Penultima di sei figli, viene da una famiglia

borghese. Suo padre avvocato la mamma

figlia di un noto commerciante.

Ciononostante, vivono come tutti, un dopo

guerra fatto di miseria “ … mangiavamo

cose incredibili … quando, assieme a mia

sorella, passavamo davanti ad una

pasticceria ci giravamo dall’altra parte, per

evitare l’acquolina in bocca … I vestiti che

si passavano dal più grande al più piccolo. Si

giocava con i giocattoli che c’erano in casa,

cose che venivano dalla mamma o dalla zia

…”. Una profonda dignità

Il padre più che severo era “scantuso”,

si preoccupava per tutto, quindi non

permetteva nulla. Nemmeno la gita

parrocchiale. Una famiglia tutta chiesa e

casa. Tuttavia Anna e sua sorella

s’impegnano nel sociale. Adolescente a

scuola è brava, ma non secchiona, “ … non

è che fossi una grande cima”. Lo stesso

anche all’università e si laurea in

matematica. Il rigore.

“Non volevo insegnare .Volevo fare

altro. Ero sicura”. Nel 1964, subito dopo la laurea la prima

uscita dalla famiglia. Si trasferisce a

Milano e si dedica ai primi cervelli

elettronici. Lontani parenti materni che

vivono a Milano la accolgono. Tuttavia, la

mamma piangeva perché desiderava che lei

ritornasse a casa. Il grosso passo del

distacco l’aveva fatto, l'esperienza per

quanto dolorosa aveva prodotto i suoi

frutti, si sente più autonoma e così si decide

a fare un colloquio all’università di

Palermo, dove assumerà l’incarico di

assistente del professor Gulotta un

socialista molto conosciuto e molto attivo.

In tutto l’ambiente universitario, c’era

molto fermento politico, con Mario Mineo

segue seminari ed iniziative. Dibattiti e

assemblee. La passione politica.

Il terremoto nella valle del Belice

nell’estate del 1968 ha provocato un

enorme disastro. C’è tanto da lavorare.

C’è bisogno di tutto. Anna fa doposcuola

ai ragazzini del campo di Salaparuta,

gestito da un gesuita “Grazie al parrino,

io cattolica, cominciai ad avere dubbi

sulla mia fede”. A poco a poco si

avvicina al Manifesto che, da giornale

dissidente del PCI è diventato un vero

partito. “Incontro Umberto. – arrossisce,

è imbarazzata quando dice velocemente -

ci siamo innamorati”. Non si separeranno

più. S’iscrive al Manifesto, inizia la vera

militanza di base. Lavora nel quartiere

zen 1 dove, dopo il terremoto le famiglie

del centro storico hanno occupato in

massa gli alloggi popolari. Il rione era un

disastro, non c’era nulla. Nemmeno

l’acqua. ”… abbiamo fatto un comitato e

aperto un ambulatorio medico, con lotta

continua facevamo assemblee di scala”.

Nel frattempo Anna ed Umberto

decidono di sposarsi. Velocemente.

Cerimonia ovviamente civile. “Ci

sposammo in un posto orribile, una

delegazione del quartiere Uditore subito

dopo il CEP. Non lo rifarei mai più. Uno

squallore … Gli addetti non capivano

nulla. Quando andai per ritirare il

certificato di matrimonio mi risposero il

parroco non l’ha portato. Il parroco?”

Il tempo passa fra un impegno e

l’altro, nel 1975 all’interno del Manifesto

ci furono i primi problemi Anna e Santino

decidono di uscirne. Ne seguì un periodo

senza impegno politico. Si fa altro. Per

esempio si lavora per far nascere il

Centro Siciliano di Documentazione.

L’assassinio di

Peppino Impastato

“L’impegno antimafia? È venuto da

sé. Spontaneo. Non l’ho cercato. Vicino a

me c’era Umberto, studiava questi

problemi da anni anche dentro il

manifesto. Sulla scia di Mario Mineo mi

sono trovata accanto a lui ed ho

proseguito”.

Quando assassinarono Peppino

Impastato, andammo al funerale.

L’indomani era previsto il comizio di

Peppino per la chiusura della campagna

elettorale, ” questi ragazzi saranno soli è

giusto andare pensammo, contro

l’opinione di alcuni del centro ,andammo.

Solo noi due”. Usa quasi sempre il

plurale. Non dice mai ho fatto. Ho

pensato. Un rifiuto del protagonismo?

Del personalismo?

“Nei giorni successivi al funerale, si

recarono spesso a trovare i compagni di

radio aut, “ Conoscemmo Felicia

Impastato la madre di Peppino che poi

deciderà di costituirsi parte civile,

cominciammo un lungo rapporto e questo

grande impegno per Peppino. Giravamo

tantissimo. Iniziative, convegni, progetti, la

prima manifestazione nazionale contro la

mafia nel 79.Un successo, duemila persone

intervenuti da tutta Italia … Ma che vi è

venuto in mente di organizzare la

manifestazione Nazionale contro la mafia?-

ci disse qualcuno degli intervenuti, però

erano venuti ”. Nel frattempo il Centro

Siciliano di documentazione era stato

intestato a Peppino Impastato, che

continuava a essere uno sconosciuto ai più,

un terrorista che aveva deciso di morire,

insomma, se l’era cercata. Ma Anna, suo

marito e tutto il gruppo del centro rifiutano

tale ipotesi continuano la loro strada, anche

quando questo impegno “ ci portò all’

isolamento. Stavamo dalla parte del

terrorista, così com’era definito Peppino

dalla maggior parte della gente e dalla

stampa. Comprese le nostre famiglie.

Qualche socio del centro andò via.

Tuttavia, nel 1986 abbiamo fatto riaprire le

inchieste, con la pubblicazione

dell’intervista alla signora Impastato e il

dossier ‘notissimi ignoti ‘. Dopo il

depistaggio, l’inchiesta l’aveva presa in

mano il giudice Rocco Chinnici che, ” fino

alla sua uccisione ci ha aiutato a fare

seminari molto importanti.”

Col passare del tempo, una parte della

sua casa è diventata la sede del Centro

Siciliano di Documentazione Peppino

Impastato un vero e proprio archivio

biblioteca aperto a tutti per consultare,

studiare. Pile e pile di libri. Documenti.

Pubblicazioni. Per Anna una fatica

incredibile. Anche perché studia, ricerca,

partecipa alla nascita di associazioni e

comitati, scrive. Pubblica libri. Con

Antonia Cascio, elabora il primo testo sul

rapporto donne e mafia. Seguiranno storie e

biografie di donne che si erano costituite

parti civili in processi di mafia; di donne

che denunciano i loro violentatori, gli

assassini di mariti, figli, padri. Le storie di

donne meravigliose quali Felicia Bartolotta

Impastato, Michela Buscemi, Piera Lo

Verso, saranno lette e conosciute da tanti.

“La storia della signora Benigno non la

potei pubblicare per ragioni di sicurezza.

L’abbiamo aiutato nel processo su Leoluca

Bagarella e Salvatore Rinella. Il processo

si svolgeva in aula molto piccola, a stretto

contatto con gli imputati. Bagarella e la sua

fidanzata Vincenzina - una gran bella

ragazza - si scioglievano guardandosi negli

occhi. Vincenzina era diversa delle solite

donne del boss, si è uccisa quando ha

saputo della morte del piccolo Giuseppe Di

Matteo, figlio del mafioso. Vincenzina

non aveva avuto figli “.

Page 16: Casablanca n.23

A Catania l’antiracket è donna

Casablanca pagina 16

A Catania l’antiracket è

Donna

Gabriella e le donne dell’antiracket

Rosa Maria di Natale

CATANIA E’ donna. Gentile. Risoluta. Ha sessantacinque anni. E’ impegnata con tenacia nell’antiraket .

Vandalismi, minacce, richieste pressanti, Gabriella Guerini e il marito Leonardo Sicuro li avevano subiti e da

soli, facevano la guerra ai mafiosi per proteggere la loro azienda già dal 1982. Nel capoluogo etneo il primo

gruppo che intraprese la battaglia per sostenere le imprese che subivano richieste e vessazioni era formato da

sole donne. Non tutte erano coinvolte in casi di estorsione, ma erano spinte da un forte senso civico e dall’idea

che il racket andava combattuto sempre e comunque. Donne che anziché regalarsi al partito di turno, hanno

preferito lavorare per cambiare la città. Oggi all’interno dell’associazione gli uomini sono la maggioranza. A

Catania nonostante tutto e seppure lentamente, le denunce crescono.

Quando ancora l’antiracket non esisteva

e i siciliani avevano il terrore di

pronunciare la parola “pizzo”, Gabriella

Guerini e il marito Leonardo Sicuro

facevano la guerra ai mafiosi per

proteggere la loro azienda di ricambistica

per la frantumazione di inerti. Subivano di

tutto già dal 1982: vandalismi, minacce,

richieste pressanti. La guerra al pizzo la

facevano da soli, senza il conforto di una

parola o di un’associazione. Ma

soprattutto, senza mai pagare il pizzo e

subendo tutti quei danni materiali e morali

che ogni imprenditore vittima della mafia

ancora oggi subisce. E, particolare di non

poco conto, senza poter contare su un

qualunque risarcimento in denaro da parte

dello Stato. Poi la signora Gabriella, ora

sessantacinque anni, bresciana di nascita

ma catanese di adozione, decise che

l’esempio di Tano Grasso a Capo

d’Orlando, imprenditore simbolo della lotta

alla mafia e presidente onorario del Fai

(oggi Federazione delle associazioni

Antiracket) andava seguito con una vera

e propria militanza. Iniziò per lei una

lunga esperienza che oggi compie

vent’anni. Gabriella Guerini è solo una delle

tante donne che a Catania aprirono un

varco generazionale, storico, civico, di

notevole importanza. E’ strano che i

media

nazionali

negli

anni del

“boom”

dell’anti

mafia (

quei duri

ma

speranzo

si anni

Novanta,

quando

sembrava

che la

Sicilia fosse davvero pronta alla svolta

definitiva) non si siano mai accorti

quanto alcune signore che lavoravano sin

da allora nel chiuso delle loro stanze, senza

regalarsi al partito di turno, abbiano

influito positivamente. E non in una città

qualunque, ma nella Catania che ancora

oggi subisce danni indicibili dalla mafia dei

colletti bianchi. Quella mafia che continua

vivere e fare proseliti ai piedi dell’Etna.

Insieme a Gabriella che oggi presiede

l’ASAAE , l’Associazione antiracket

antiusura etnea, (www. asaae.it ed esiste

pure un’aggiornatissima pagina Facebook

“Asaae liberarsi dal racket”) , con otto

processi conclusi in tre anni a favore degli

imprenditori che hanno denunciato i loro

aguzzini, alcuni dei quali condannati sia in

primo che in secondo grado, ci sono state -

e molte ci sono ancora- donne pronte a

dedicare la maggior parte del loro tempo

libero alla lotta contro le estorsioni e

l’usura, altro male antico di difficile

soluzione.

Un esempio di energia e testardaggine

che ha coinvolto decine e decine di

volontari catanesi, più certi che dedicare il

Page 17: Casablanca n.23

A Catania l’antiracket è donna

Casablanca pagina 17

loro tempo all’associazionismo a tutela

degli imprenditori taglieggiati fosse

doveroso. Tutte rose e fiori? Certo che no.

“Oggi le associazioni antiracket sono

molto partecipate dalle donne, anche se gli

uomini, alla fine, sono sempre in numero

maggiore – spiega la Guerini, sorridendo.-

Ma Catania è stato un caso molto

particolare. Nel ’91 iniziammo con Adriana

Guarnaccia, Linda Russo, Margherita

Scuderi, Pia Giulia Nucci. Allora

l’impegno da parte di molte iniziò non

tanto perché tutti fossero sottoposte, come

nel mio caso, ad estorsione, ma per un forte

senso civico. E per l’idea che il racket

andava combattuto sempre e comunque”.

All’inizio Gabriella ha lavorato presso

l’Asaec, l’associazione antiestorsione di

Catania “Libero grassi”, per poi

concentrare le sue energie con lo “Sportello

antiusura” della Confesercenti, e oggi

invece presiede l’Asaae, con 85 iscritti e

tanti progetti da mandare avanti. Qui tra le

donne più attive ci sono anche Maria Luisa

Barrera e Samantha Viva, commercialista

la prima, giornalista la seconda, e Rosaria

Nociforo. Ma molte altre donne, di varie

sigle , ASAAE compresa, fanno parte del

circuito rosa dell’antiracket rappresentando

le singole realtà di riferimento in seno al

FAI. Ma cos’è cambiato in questi vent’anni

nell’associazionismo dell’antiracket?

“Diciamo che molte delle associazioni

hanno perso il punto di vista iniziale- dice

Gabriella- ossia lo scopo per il quale

siamo nati, che è quello di aiutare le

persone a denunciare, e seguirle in tutto

l’iter per poter accedere ai benefici delle

leggi. E, quello che è più importante,

sostenere la loro speranza fino a quando

ci sarà il processo. Sino a quando

potranno ricominciare a lavorare. E

questo è molto difficile. In effetti, i tempi

della giustizia sono molto lenti,

soprattutto nell’ambito dei casi d’usura.

Possono essere anche superiori ai tre

anni”.

C’è però la voglia di interagire con le

istituzioni e la giustizia. Gabriella

Guerini racconta l’ottimo lavoro di

squadra dentro l’associazione “Libera” e

la richiesta di organizzare un tavolo

tecnico col nuovo Procuratore della

Repubblica, Giovanni Salvi.

“Chiediamo aiuto a più livelli.

Purtroppo non è detto che chi denuncia

sia sempre mosso da nobili intenzioni.

Qualche volta lo si fa per i soldi e per la

sospensione dei termini. Anche per

questo gli inquirenti ci devono aiutare…

“.

Come vi

finanziate?

“Prima la Regione ci dava diecimila

euro. Ce li facevamo bastare per gli

spostamenti e per pagare i periti. Oggi

nessuna ci dà nulla, siamo seguiti da

professionisti che ci credono… ”

E Catania come risponde?

“Questa città è diversa da molti altri

grossi centri del meridione, Palermo

compresa. Lì, ad esempio, sono usciti fuori

processi importanti, di grande valenza. Se

si dimenticasse lo spirito egoistico dell’“Io

sono meglio di te”, andrebbe molto meglio.

Ma credo molto nell’unità delle sigle e

stiamo lavorando in questo senso. Però è

ben tenere presente un dato importante: a

Catania le denunce , seppure lentamente,

crescono”.

Page 18: Casablanca n.23

L’onore di fare il padrino / il boss che NON voleva fare “scruscio”

Casablanca pagina 18

L’onore del padrino

Il boss che NON voleva fare SCRUSCIO

Graziella Proto

A novembre scorso, Calogero Battista Passalacqua storico uomo d'onore di “Cosa Nostra” palermitana

e capo della famiglia di Carini, è stato arrestato assieme alla figlia Margherita, elemento di spicco del

clan. Si trovava agli arresti domiciliari nella sua casa di Carini dal 2007, aveva perso il potere, i suoi

erano ai margini. I Pipitone, grandi alleati dei Lo Piccolo e Giuseppe Pecoraro sopranominato " u

cagnuleddu" hanno comandato il paese e ci tentano ancora dall’interno del carcere. Dalla sua

abitazione il vecchio capo richiama a sé i suoi uomini e ricostruisce il gruppo, arricchito dalla

personalità della figlia Margherita. Durante la sua assenza, i suoi uomini sono rimasti a guardare o

hanno fatto piccole cose. Compreso Giuseppe, Passalacqua figlio del boss. Adesso comandano loro e

bisogna dimostrarlo ma, a un passo da una nuova guerra di mafia, il quindici novembre, affiliati,

fiancheggiatori e collusi, sono stati arrestati.

.

“questa volta lo sbaglio di dieci anni fa

non si deve fare, non si fa questa volta lo

sbaglio, se la cosa deve continuare....

appena …. dice eheh....subito....se no

magari... gli si stringe il collo, perché

questi appena hanno un po’ di largo... è

fatta..”. “. li dobbiamo fare piangere!”.-

sbuffano alcuni picciotti del clan

Passalacqua, soprattutto fra i più giovani,

durante una telefonata intercettata dagli

inquirenti. Un propellente pericolosissimo

che attende solo una scintilla per

scatenare

la faida. Ma, Calogero battista

Passalacqua, boss della omonima

famiglia di Carini, li tiene quieti. Cerca di

fargli capire che gli affari si devono finire

senza fare “scrusciu”. In sordina. Senza

far ricorso alle armi. Possibilmente.

Insomma, senza dare nell’occhio. Una

strategia, nuova per i più giovani, in

verità molto antica.

Da sempre vicino ai “Corleonesi”,

Calogero Passalacqua detto “Battista i

Santi” sin dai tempi del Maxiprocesso è

considerato elemento di spicco

nell’organizzazione di Cosa Nostra

palermitana. I primi rapporti giudiziari

redatti sul suo conto risalgono agli anni 70

e lo fotografano come storico reggente

della famiglia mafiosa di Carini.

Territorio che abbandona per scappare e

La famiglia mafiosa di Carini La famiglia di Carini, da sempre, fa capo del mandamento di San Lorenzo – Tommaso Natale, uno dei più estesi e

potenti di “cosa nostra” palermitana. Esercita la sua influenza oltre che sulla parte nord-occidentale del territorio

metropolitano di Palermo, anche sulle famiglie dei comuni di Capaci, Isola delle Femmine, Carini, Villa Grazia di

Carini, Sferracavallo, Tommaso Natale e Partanna Mondello. E’ caratterizzata dalla presenza di numerosi intrecci

familiari.

Esponenti di spicco della famiglia carinese, i fratelli Pipitone (Vincenzo, Angelo Antonio e Giovan Battista),

Salvatore Gallina e Calogero Battista Passalacqua.

I fratelli Pipitone, lo raccontò Tommaso Buscetta, e lo confermò anche la sentenza ordinanza del cosiddetto

Maxiprocesso, erano ritenuti responsabili del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso in concorso

con Bernardo Provenzano (capo della famiglia mafiosa di Corleone), il fratello Salvatore Provenzano, Procopio Di

Maggio , Giuseppe Lipari Gaspare Pulizzi, collaboratore di giustizia, dal sedici gennaio 2008 ha raccontato che il ruolo dei Pipitone in seno a

Cosa Nostra e nella famiglia di Carini è cresciuto grazie all'egemonia di Salvatore Lo Piccolo che ,basava il suo

potere e la sua forza sulla fedeltà di Vincenzo Pipitone e il giovane Antonino Pipitone figlio di Angelo Antonino.

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L’onore di fare il padrino / il boss che NON voleva fare “scruscio”

Casablanca pagina 19

nascondersi. Una latitanza interrotta nel

1997, perché catturato dai Carabinieri a

Chianciano . Insieme a lui suoi numerosi

fiancheggiatori che ne favorivano

l’irreperibilità.

Della sua assenza, sul territorio ne benefi-

ciano i fratelli Pipitone, Angelo Antonino,

Giovan Battista e Vincenzo, e infine, quan-

do loro finiscono in galera, i giovanissimi

rimasti ancora liberi: Gaspare Pulizzi, oggi

collaboratore, Ferdinando Gallina e Pipito-

ne Antonino, figlio di Angelo Antonino.

Fra i vari gregari, Giuseppe Passalacqua -

figlio di Calogero Gio’ Battista e Pecoraro

Giuseppe “ u cagnuleddu”che farà una sca-

lata rapidissima fra i Pipitone.

Dieci anni di reclusione, poi, Battista

Passalacqua per motivi di salute ottiene gli

arresti domiciliari e torna nel “suo

territorio”. Era la fine del novembre 2007.

Una buona occasione per lui e i suoi

fedelissimi. Gli amici. Fra i tanti,

Domenico Raccuglia della zona di

Partinico che lo aiuta per tornare al

comando della famiglia. “Battista i Santi”

richiama a sé i suoi fedelissimi che,

nell’ultimo decennio, dopo averne favorito

la latitanza, hanno trovato lavoro lontano

dalla Sicilia o, tornati a Carini, si sono

tenuti fuori da Cosa Nostra e, comincia la

riorganizzazione.

INDAGINI DIFFICOLTOSE

Recluso nella sua casa, Battista i Santi è

circondato da affetto e rispetto. Conosce

tutti e sa tutto di tutti. Mantiene rapporti.

Riceve visite. L’anzianità, la lunga

militanza nelle fila di “Cosa nostra”, la sua

storia personale, il carisma da padrino, gli

crea fedeltà e stima. Gode della protezione

di una cortina quasi impenetrabile.

Dalla sua casa situata nel cuore di

Carini ha il totale controllo di quanto

avviene all’esterno delle mura

domestiche, grazie alla complicità del

vicinato, soggetti che pur non potendo

definire mafiosi o criminali di sicuro

gli permettono di controllare

meticolosamente il quartiere dove vive.

Avvicinarsi a quell’abitazione senza

essere notati, era quasi impossibile,

persino i bambini, sembra siano stati

addestrati a guardarsi dagli “sbirri”

mentre giocano in strada.

Rendendo così le indagini a suo

carico molto difficoltose. Fra i più

fedeli, Grigoli Gianfranco arrestato a

Montepulciano perché favoriva la sua

latitanza e che è rientrato in Sicilia per

ubbidire al capo. C’è dell’altro, l’abitazione

di Grigoli ha un ingresso che comunica con

l’abitazione dei Passalacqua . Una bella

situazione per non dare nell’occhio. Il

fedele Grigoli, spesse volte è stato notato

mentre accoglieva all’esterno

dell’edificio, o a volte addirittura

accompagnare con la sua macchina,

soggetti che secondo gli inquirenti sono

molto vicini al reggente che da lui si

recavano per le” riunioni” nella casa-

prigione. Da lì, secondo gli investigatori,

il reggente, decide gli indirizzi che

l’organizzazione criminale deve

perseguire e risolve personalmente, la

gestione del potere economico, cioè

l’economia dell’intero paese. Inoltre,

come un vero padrino, interviene per

risolvere controversie, offrire

raccomandazioni, ascoltare tutti quelli

che lo richiedano. Invia messaggi che

scrive e spesso consegna la figlia

Margherita. In alcuni casi è stato visto che i

messaggi sarebbero brevi scambi di

battute fra Passalacqua affacciato al

balcone della propria abitazione, e

soggetti che si fermavano lungo la strada

a breve distanza. Poche parole appena

sillabate. Oppure un bigliettino

appallottolato.

“Patriarca mafioso”

Per gli inquirenti ci si troverebbe di

fronte ad un vecchio tipo di patriarca.

Un “capo-famiglia” molto distante dai

Lo Piccolo padre e figlio, soprattutto

nell’esercizio e nella concezione del

potere mafioso. Perciò, quando loro, i

vari Pipitone e Pecoraro finiscono in

galera e lui riprende il controllo del

territorio, cambia subito alcune cose. Il

pizzo sistematico che a cadenza periodica

pagavano i commercianti, gli artigiani e i

piccoli imprenditori, era solo vessazione

esercitata nei confronti di chi produce.

Peggio, origina malumore e dissenso.

Allora le piccole attività commerciali o

quelle appena avviate non devono pagare il

pizzo, perché non si deve aggiungere alle

già gravose difficoltà economiche anche il

peso delle richieste estorsive. Il pizzo deve

essere imposto alle grosse imprese, capaci

di sostenere anche la famiglia mafiosa.

Inoltre, i titolari di imprese o di appalti

ricadenti sul territorio della locale famiglia

mafiosa sono tenuti ad assumere soggetti

imposti dalla congrega locale. L’impiego di

un gregario ha un duplice aspetto,

garantisce autonomia economica agli

affiliati e permette il controllo del

territorio. Impiegati, operai e soprattutto

guardiani notturni. Gli inquirenti hanno

accertato che, molte ditte, che assumono il

guardiano imposto, nelle ore notturne si

avvalgono di servizi di vigilanza e che nel

territorio in esame, le assunzioni e

licenziamenti sono eseguiti secondo le

indicazioni impartite dal vertice della

famiglia mafiosa. Un ufficio di

collocamento. Una morsa criminale

potente. Ovviamente non è solo questo.

Molti membri della famiglia tramite

parenti, amici, prestanome, false società,

sono proprietari di numerose aziende

economiche nella zone e fuori. Oltre alla

droga, che si compra dal pescivendolo e

che è tenuta dalle mogli, appalti, servizi,

concessioni… C’è dell’altro ancora. Ciò che fa si che

questa famiglia apparentemente, per i più,

poco importante rispetto ai gruppi mafiosi

che costruiscono intere città all’altro capo

del mondo, logisticamente oltre che

geograficamente, ricade nel mandamento

mafioso di San Lorenzo - Tommaso Natale

che tiene sotto scacco buona parte di

Palermo e provincia. Cioè la famiglia di

Carini è un elemento strategico

nelle logiche e nelle alleanze.

GIO’ L’AMERICANO

Fra gli arrestati,

nell’operazione dei carabinieri

contro la cosca Passalacqua c’è un

personaggio alquanto singolare.

Non fa parte ma partecipa. E’

esterno ma conosce le cose

dall’interno. Esige “rispetto”.

Pretende di essere “riconosciuto”

Mafioso? No!

Nell’ambiente mafioso è

conosciuto come Giò l’americano

perché in passato ha vissuto

parecchi anni negli Stati Uniti

dove ha gestito numerose attività

commerciali soprattutto pizzerie.

In paese lo conoscono come sensale di

affari immobiliari. Inoltra si dedica e

Page 20: Casablanca n.23

L’onore di fare il padrino / il boss che NON voleva fare “scruscio”

Casablanca pagina 20

amministra gli affari e gli immobili del

genero che vive negli USA. Per

raggiungere i suoi obiettivi non disdegna

fare ricorso alle misure forti.

Giò l’americano che mostra di

conoscere le vicende delle famiglie mafiose

di Carini e che agisce secondo un codice, è

considerato punto di riferimento. Uno

capace di portare la pace tra le fazioni

opposte evitando l’intervento delle forze

dell’ordine. Una che parla con tutti, gli uni

e gli altri. Per telefono e di persona. Sa che

lo ascolteranno. Un mediatore, dunque. Per

vocazione e parentela. E’lo zio acquisito di

Giuseppe Pecoraro “ u cagnuleddu”; è

cugino acquisito di Battista Passalacqua.

Esponente di spicco della famiglia Pipitone

il primo, capo della omonima famiglia il

secondo. Lo zio Giò è molto legato alla nipote

Antonella Buffa sposata con Pecoraro, in

carcere per diversi provvedimenti fra i

quali appartenenza a cosa nostra . Per lui lo

zio ha delicatezze, comprensione

generosità. Manda e riceve messaggi.

Desidererebbe andare a trovarlo in carcere.

Insomma gli sta molto vicino. Ascolta e

conforta sua nipote quando ritorna dai

colloqui in carcere. Per lei è il suo punto

di riferimento. Un rapporto oltre

all’affetto, di fiducia reciproca. Un

rapporto non molto dissimile da quello

che c'è fra Giò e il cugino battista

Passalacqua. Le due mogli sono cugine di

primo grado, le famiglie si vogliono bene

si frequentano. Sono disponibili da

entrambi le parti. Perciò può capitare c ed

è venuto fuori dalle intercettazioni che,

Giò Evola riceva una telefonata dalla

moglie che lo informa di aver ricevutola

telefonata di sua cugina Maria

Passalacqua che lo invita a passare da

casa sua perché deve consegnargli

qualcosa. Il tono della conversazione era

quantomeno sospetto, soprattutto perché

la signora Evola suggeriva al marito di

passare dall’abitazione dei cugini nella

serata “con lo scuro…”. Fare delle ipotesi

non è poi così difficile. Tuttavia, ciò che emerge con chiarezza

dalle indagini è che Giò Evola, pur

essendo legato a Battista i Santi da

affetto, rispetto e complicità, in realtà si

muove ed opera come espressione delle

posizioni del gruppo Pecoraro, quindi dei

Pipitone. Una situazione imbarazzante

forse, ma non per lui. Giò Evola oltre ad

essere punto di riferimento delle famiglie

mafiose di Carini mantiene rapporti con

quelle Americane. L’intercettazione di una

telefonata fra Vito Caruso il pescivendolo

ed Evola può essere esemplificativa.

Durante la conversazione, Giò gli

comunica di essere stato contattato da Giò

Gambino ( il famoso esponente della mafia

americana ) direttamente dagli Stati Uniti.

Gli avrebbe chiesto notizie sul conto dello

stesso Caruso Vito, attuale convivente di

Antonina Vincenza Gambino - sua figlia.

Mentre Vito Caruso si affatica a spiegargli

che tutto va bene, che lo deve

tranquillizzare, Giò comunque lo

ammonisce dal comportarsi in maniera

irresponsabile ed immorale, perché ha

garantito personalmente circa la sua serietà.

Una persona perbene!

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Aspirante Precario Giornalista

Casablanca pagina 21

Aspirante Precario

Giornalista

Contro la monotonia moderna PROTEST…. Sfigato, presfigato postsfigato.

Valentina Ersilia Matrascia

La mobilità e il desiderio di accettare nuove sfide, devono essere una scelta e non la sola condizione possibile

di lavorare. Chiara, Claudia, Enzo, Raffaella aspiranti operatori dell’informazione - storie diverse - sogni e

difficoltà comuni si confrontano. Ragazzi di una generazione che fa i conti con la crisi e con politiche di

welfare inesistenti o quasi. Con un tasso di disoccupazione dei giovani tra diciotto e ventinove anni, che

ammonta al 18,6%, almeno undici punti percentuali al di sopra di quello complessivo. Flessibilità e mobilità,

antidoti contro la monotonia dell'uomo moderno? Ragazzi a confronto.

Chiacchierata fra aspiranti giornalisti: diversamente occupati

CHIARA

"Non mi sento sfigata. Mi sento

sconfortata, perché il mio paese non mi dà

la possibilità di fare quello che voglio e di

farlo in modo dignitoso, cioè uno stipendio

che possa essere definito tale. Lavoro e

anche tanto, ma non sono pagata. Faccio

quello che mi piace fare, quello che sogno

da sempre: la giornalista. Al momento sono

all'estero e personalmente continuo a

sognare l'Italia, ogni notte. Perché per

quanto sia bello stare in Canada, per quanto

sia sicuramente un'esperienza importante e

formativa, non è questo il mio Paese.

Voglio fare la giornalista in Italia. Nel MIO

paese. Perché voglio fornire un buon

servizio alla MIA comunità. Sarò un'illusa,

ma credo ancora che il giornalismo sia al

servizio della società e che possa

risollevarla dal buco nero in cui si è

schiantata".

Chiara, neo laureata a pieni voti con una

tesi sul precariato giornalistico, a esser

definita sfigata proprio non ci sta. E con

lei, nemmeno Enzo, Claudia, Raffaella,

Claudia B. e Claudia P. Neo laureati o

laureandi in Editoria e giornalismo, con

un sogno nel cassetto: diventare

giornalisti o editori in Italia e il desiderio

che quanto hanno studiato possa essere

utile a se stessi e agli altri.

Storie diverse ma sogni e difficoltà

comuni. Ritratto spietato di una

generazione che fa i conti con la crisi e

con politiche di welfare da decenni

totalmente inesistenti o quasi.

Sfigati, così li hanno definiti nelle scorse

settimane il neo vice-ministro del

Welfare, Michel Martone e il deputato del

Pdl, Giorgio Clelio Stracquadanio.

Sfigato chi a ventotto anni non ha ancora

raggiunto il traguardo della laurea, per il

primo; chi guadagna 500 euro al mese,

per il secondo. Da bamboccioni a

mammoni, per i giovani italiani il posto

fisso diventa sempre più utopia.

Flessibilità, precariato e difficile accesso al

mercato del lavoro sono un cocktail

esplosivo.

E intanto, stando ai dati Istat, nei primi

tre mesi del 2011, l'occupazione giovanile

ha subito una flessione del 2,5% (circa

ottanta mila unità). Il tasso di

disoccupazione dei giovani tra diciotto e

ventinove anni, infatti, ammonta al 18,6%,

almeno undici punti percentuali al di sopra

di quello complessivo. Si arriva al 31%

nella fascia di età 15-24 anni, seconda solo

alla Spagna. Flessibilità e mobilità, antidoti

contro la monotonia dell'uomo moderno. E

se laureandoti a venticinque anni sei fuori

dai giochi perché senza esperienza, se ti

laurei a ventotto o ventinove anni la

situazione, di certo, non migliora.

RAFFAELLA

"La dichiarazione del vice-ministro mi

ha toccato nel profondo, perché a ventinove

anni non ho un lavoro, né stabile né

Page 22: Casablanca n.23

Aspirante Precario Giornalista

Casablanca pagina 22

remunerativo e solo a giugno di quest'anno

otterrò la laurea specialistica. Eppure non

mi sento una sfigata, almeno non nei

termini intesi da Martone", spiega

Raffaella. "In tutto questo tempo, però, non

sono stata certo con le mani in mano. Ho

sempre lavorato, in nero, ovviamente. La

lista di lavori assurdi che ho fatto non può

neanche essere inserita nel curriculum. Mi

sento sfigata perché tutto mi fa sembrare

che ogni scelta fatta per il mio futuro da

quindici anni a questa parte non sia stata

inutile ma stupida, una specie di suicidio

lavorativo: Studiare tanto e non aver

ottenuto nulla. Così, nei momenti peggiori,

mi sento sull'orlo del fallimento e per

questo motivo non mi sento di definire

qualcuno sfigato. Credo che ognuno cerchi

di fare il meglio secondo le proprie

possibilità".

“L’impatto con il mondo del lavoro,

anche un paio di mesi dopo il

conseguimento del sospirato pezzo di carta,

non è dei più felici”. Un frontale contro un

muro di cemento, lo definisce Raffaella

che, in attesa di trovare qualcosa di più

affine ai suoi studi e ai suoi interessi,

collabora gratuitamente con due siti - "per

cercare il più possibile di fare curriculum"

–aggiunge speranzosa - di trovare un

lavoro, qualsiasi, per iniziare, che mi dia

modo di vivere la mia vita".

"Conosco giovani laureati che si

affacciano al post laurea consegnando il

proprio curriculum ovunque - dai call

center alle catene fast-food - e spesso, al

contrario di quanto afferma Stracquadanio,

guadagnando anche molto meno di

cinquecento euro. Perciò, credo, che il

problema dell’Italia in generale non sia

neanche più la versatilità (un tempo ancora

di salvezza) ma la mancanza proprio di

posti di lavoro e ancora peggio la

mancanza di meritocrazia, tanto decantata

dall’onorevole. Insomma, la fila dei

raccomandati va sempre più veloce, mentre

quella dei meritevoli resta immobile".

ENZO

"Da sei mesi cerco lavoro e mando CV

da laureando - spiega Enzo che punta il

dito sulla formazione - in sei mesi, però,

avrò ricevuto tre o quattro risposte. In due

casi complimenti che magari mettono

prima di buon umore, ma poi tristezza. Il

problema di fondo è che la crisi è un dato

di fatto. Il lavoro non è tanto ma credo che

il vero punto debole della nostra

generazione sia la formazione: la nostra

preparazione accademica non è ritagliata su

misura per le necessità di un'azienda. Un

corso nozionistico, che non ti fa utilizzare i

software utilizzati all'interno di una casa

editrice, ad esempio, non ti forma a livello

professionale. Deve essere tutto

strutturato in funzione delle aziende".

"Come può un ventinovenne mettersi

in gioco se in alcune offerte, anche

pubbliche, il limite massimo è di ventotto

anni? Non è forse che non si ha una

limpida visione della realtà odierna?

D'altronde a ventinove anni, non

m'identifico certo nella definizione di

sfigato. Di postsfigato, forse. Qualcosa

di buono verrà. Eppure il giorno delle

dichiarazioni di Martone, piansi tutto il

giorno. A tratti, imprecai e provai rabbia,

ma non toccai libro: non riuscivo a

concentrarmi. E poi la notte, con gli occhi

sbarrati, non c'era nessun Martone a

dirmi: Dormi, andrà tutto bene, hai

sempre dato tutto e troverai la tua

strada".

Discussione

Non lasciano scampo le parole di

Claudia B. che tracciano il ritratto di una

generazione condannata di certo a non

annoiarsi per la monotonia del posto

fisso, tutt'altro. "Non siamo più nei

magnifici anni '80, bisogna guardare in

faccia la realtà: il posto fisso, oggi, non

esiste. Questo non vuol dire, però, creare,

come è stato fatto, un esercito di precari",

le fa eco in modo risoluto Chiara e con lei

anche Claudia P.. "Non sopporto

sentire top manager da stipendi

mensili che per altri sono annui

(lordi) dire che bisogna accettare

nuove sfide e non fossilizzarsi. È

insopportabile il tentativo di far

passare per scarsa ambizione la

necessità di mantenere una famiglia

o il desiderio di farsene una, di

avere qualche piccola certezza, di

poter per esempio comprarsi un pc,

magari a rate. Tutti salteremmo

volentieri da un lavoro all'altro se

solo avessimo il paracadute di una

piccola certezza e non parlo

davvero di 30mila e passa euro al

mese di stipendio. Credo che la

flessibilità sia una dote che

chiunque, da sempre, deve avere,

nel lavoro e nella vita e oggi più

che mai. La mobilità e il desiderio

di accettare nuove sfide, però,

devono essere una scelta e non la

sola condizione possibile di

lavorare".

Se entrare nel mondo del lavoro,

non è facile, il giornalismo e

l'editoria sembrano ancora più

irraggiungibili. Il giornalismo, di

fatto, "non è considerato un lavoro

ma un mondo in cui spendi tempo e

collaborazioni per essere un

disoccupato creativo. È un ruolo

particolare, anche un po' bizzarro",

racconta con amara ironia Claudia B.

"Scrivi di cassintegrati, di disoccupati, di

crisi locale e globale, il tutto ovviamente in

maniera completamente gratuita. È una

solitudine occupazionale, o meglio

diversamente occupazionale, che mortifica

totalmente la coscienza personale, cinque

anni di studi universitari, e la voglia di

costruirsi un futuro grazie alle proprie

forze. Io personalmente lavoro, come ho

sempre fatto anche quando studiavo, in

maniera stagionale come commessa, ma,

continuo ad inseguire la mia grande

passione, quella del giornalismo come

professione. Passione che per me significa

anche essere impegnati eticamente. Senza

troppi perché, servendo solo il principio

che per me scrivere è il mestiere più bello

del mondo".

***

Inevitabile la rabbia per una classe

politica che sembra aver perso di vista gli

artefici del presente e del futuro del Paese,

accecata dai suoi limiti più meschini: il

desiderio di non perdere le prossime

elezioni di non scontentare il potentato

economico. Obiettivi a lungo termine

inesistenti, totale incapacità di comunicare

un qualsiasi ideale di futuro.

Page 23: Casablanca n.23

Ordinaria amministrazione

Casablanca pagina 23

Ordinaria amministrazione

Macché clientelismo e spazzatura

Alessio di Florio

Nascono come cattedrali nel deserto per il compostaggio e il riciclaggio dei rifiuti e diventano

centri per la raccolta voti. Al Civeta – Consorzio Intercomunale di Cupello, si è registrata negli

anni la contestata assunzione del figlio del vice sindaco – oggi tra i responsabili di un settore

importantissimo nella gestione del consorzio - ed è stato allontanato un consigliere

d'amministrazione che si batteva per l’etica e contro la “degenerazione nell’amministrazione

della cosa pubblica”.

Cupello, piccolo paese a poco meno di

un'ora dal confine con il Molise, sulle

colline del Vastese, è la sede - sin dalla sua

nascita - del Consorzio Intercomunale Del

Vastese (CIVETA), che, ospita gli impianti

di compostaggio e riciclaggio dei rifiuti.

Negli anni scorsi il CIVETA è stato al

centro di una gravissima crisi, che l'ha

portato ad un passo dalla chiusura a causa

della sua gestione politica e

amministrativa.

Una conduzione finita varie volte anche

nel mirino della Regione Abruzzo, che per

ben tre volte , nel luglio 2007, dicembre

2008, agosto 2009, ha diffidato il CIVETA

"dall’effettuare attività di gestione degli

impianti difformemente" da quanto

previsto e dovuto.

Una grandissima "vacca da mungere"-

come lo definì nel 2009 Rifondazione

Comunista – il consorzio è caratterizzato

da una pianta organica nettamente sopra le

sue reali necessità e rispondente solo a

esigenze clientelari, caratteristica

dominante dalla fine della Seconda Guerra

Mondiale nel Vastese. Basti pensare a

Remo Gaspari, ex ministro DC deceduto da

pochi mesi, abruzzese, autoproclamatosi in

varie interviste il "re del clientelismo".

Facciamo qualche passo indietro.

Il ventisei novembre 2005 il direttore

generale del CIVETA, l’ingegner

Sammartino propone al Consiglio di

Amministrazione la richiesta di nuovi

inserimenti lavorativi per soddisfare

"insopprimibili esigenze". Il consigliere

Angelo Bucciarelli, facendo esplicito

riferimento a possibili clientelismi,

esprime la propria opposizione a possibili

consulenze esterne. Il consigliere Sandro

Di Scerni dal canto suo, propone di

cercare tra il personale già presente le

possibili professionalità richieste dalle

esigenze evidenziate da Sammartino e, in

mancanza, di rivolgersi a professionisti.

Alla fine il Consiglio di Amministrazione

sceglie l'istituzione di "itinerari

formativi" (ovvero di tirocini).

Il cinque luglio 2006 Sammartino

attiva il tirocinio previsto. La persona

prescelta è Alessandro Pasquale, figlio

del vice-sindaco di Cupello, Giulio

Pasquale. Il dodici gennaio 2007 il

Consiglio di Amministrazione del

CIVETA, come primo atto dell'anno, in

nome di "attività improcrastinabili e

inderogabili la cui non attuazione

potrebbe pregiudicare il funzionamento,

l’operatività e la gestione del

consorzio"assume Alessandro Pasquale,

che ormai ha finito il tirocinio. Un

"contratto a tempo determinato"per la

durata di sei mesi.

Il sedici luglio, cioè il giorno della

scadenza del contratto, il Consiglio di

Amministrazione dà mandato al direttore

Sammartino di prorogare il contratto fino

alla fine dell'anno. Il direttore esegue

immediatamente nella giornata.

Il ventiquattro agosto, dopo

trentanove giorni, Consiglio di

Amministrazione ci ripensa e decide di

assumere Alessandro Pasquale con

contratto a tempo indeterminato.

Era necessaria tutta questa messa in

scena? Ma, non avevano detto che

bisognava evitare i clientelismi?

Nello stesso periodo un'altra gravissima

vicenda coinvolge il Consiglio di

Amministrazione del CIVETA.

Nel giugno 2006 il sindaco di Cupello

Angelo Pollutri decide di revocare l'incarico

di consigliere a Sandro Di Scerni,

professionista molto affermato nel campo

della gestione dei rifiuti.

Un provvedimento quello del sindaco, su cui

forti sono stati i dubbi di legittimità.

Tuttavia, secondo Pollutri le colpe di Sandro

Di Scerni sarebbero state il "venir meno del

rapporto di fiducia" e l'aver mancato di

"tutelare gli interessi dell’ente" con

"comportamenti e prese di posizione

ostativi". Donatello D'Arcangelo, segretario

provinciale di Rifondazione Comunista, ha

rigettato le accuse di Pollutri accusandolo di

aver revocato l'incarico perché il consigliere

all’interno del consorzio aveva sempre

tenuto fede ai principi di eticità della

politica, attaccando "l’emergere e il

prosperare di tanti gasparini che si credono

proprietari dei voti e dei territori che

amministrano". Una vicenda “emblematica

della degenerazione cui si è giunti

nell’amministrazione della cosa pubblica”.

Oggi il vice sindaco Giulio Di Pasquale fa

parte degli amministratori del Consorzio

Civeta.

Page 24: Casablanca n.23

Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà

Casablanca pagina 24

Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà

Salemi, primo comune “demafizzato” Franco Lo Re

A Salemi gli assessori al Nulla, al Gusto e al Disgusto, ai Sogni, alle Mani in Pasta, alla Creatività,

all’Ebbrezza escono di scena. A Salemi non esiste la mafia, ma il museo della mafia. La mafia si anniderebbe

in certi settori dell’antimafia ripeteva ossessivamente l’ex sindaco Vittorio Sgarbi il cui primo vicesindaco, era

il diretto rappresentante dell’ex deputato democristiano Pino Gianmmarinaro, sul quale la magistratura

avrebbe molto da dire.(Casablanca n°19)

"Giammarinaro partecipava sempre alle riunioni della giunta municipale di Salemi. Sgarbi dica quello che

vuole. Ma questa è la realtà che, tra l'altro, ho raccontato ai magistrati" – dichiara Oliviero Toscani, ex

assessore al comune di Salemi.

Sembra tutta uscita dalla

penna di Andrea Camilleri

questa storia che vede

protagonista Vittorio Sgarbi.

Gli ingredienti ci sono tutti.

Una cittadina siciliana

abbarbicata su una ridente

collina, situata nel cuore

della Valle del Belice.

Origini arabo-medievale, e

un importante rilievo

urbanistico. Il nome che

sembra inventato: Salemi, da

“Salam” città salubre e

sicura, o da “Salem”, luogo

di pace. Un Castello

federiciano, simile a una

aquila appollaiata sulla rocca

e adibito subito dal sindaco

come luogo per promozioni

editoriali, spesso della

Bompiani. La presenza

trentennale di un ras politico

democristiano, Pino Giammarinaro,

cresciuto alla corte dei cugini Salvo,

eletto deputato regionale con 50mila

voti e sponsorizzato, da Giulio

Andreotti e noto per essere molto

“‘ntisu” negli ambienti della sanità

pubblica trapanese e per avere

intessuto rapporti politici

trasversali. Un discreto numero di

palazzi patrizi e baronali in gran

parte, in decadenza o

semiabbandonati. Alcuni dei quali

oggetto di attenzioni e

interesse da parte del sindaco

e della sua vice sindaca

Favuzza.

Un quartiere ebraico, la

Giudecca all’interno del quale

avrebbe dovuto sorgere una

Sinagoga. Come pure una

grande Moschea sarebbe stata

eretta in quello arabo, il

Rabato. “Salemi, la Città delle

tre religioni”, recitava, infatti,

uno dei tanti cartelloni fatti

affiggere dal critico d’arte

lungo la strada che porta in

paese. E così anche le stradine

silenziose, la strada mastra

con botteghe artigiane, palazzi

e case, negozi, una volta pieni

di vita e di fervore, che non

costituiscono più quel circuito

naturale che cingeva,

armoniosamente, l'intero

abitato, con gemme di monumenti

laici e religiosi, abbandonati

dall’incuria della politica nazionale

e regionale ma anche deturpati dal

cattivo gusto dell'uomo, avrebbero

dovuto riacquistare vitalità e vigore

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Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà

Casablanca pagina 25

con il cosiddetto progetto delle

“Case a 1 euro”. Ma la scommessa

più ambiziosa del ferrarese era tutta

incisa su un altro sferzante cartello.

Quello che avvisava il visitatore di

essere arrivato a “Salemi, primo

comune demafizzato”. Già. Perché

l’affermazione paradossale secondo

cui la vera mafia si anniderebbe in

certi settori dell’antimafia, è stato il

leitmotiv della missione siciliana di

Sgarbi. Ripetuto fino all’ossessione.

Salemi nota al mondo non più come

la città degli esattori Salvo: semmai

per essere stata “la prima Capitale

d’Italia” ad opera di Garibaldi o

perché ad Amedeo di Savoia gli fu

conferito il titolo di “Conte di

Salemi”. Perciò, la costituzione di

un “Museo della Mafia”, intitolato

niente di meno che a Sciascia.

Erano i primi mesi della sua

sindacatura. Il periodo aureo -

rivoluzionario che il radicale

Bellario, assistente di Oliviero

Toscano, ebbe l’imprudenza di

paragonare addirittura all’impresa

fiumana di D’Annunzio.

Erano i tempi in cui

venivano nominati

assessori con un ritmo

vertiginoso: al Nulla, al

Gusto e al Disgusto, ai

Sogni, alle Mani in Pasta,

alla Creatività,

all’Ebbrezza.

***

Sgarbi, quale novello

Federico II, in questi

bollenti anni ha rivolto lo

sguardo oltre i confini,

non esitando ad invitare

alla sua Corte i

personaggi più disparati:

il Raìs Gheddafi (“la

Libia annetta la Sicilia...”

, “il mio Gheddafi sedotto e

abbandonato”, lo definirà alla

caduta), lo sceicco del Qatar,

rabbini. Sognando persino di

portare il Dalai Lama nella “sua

Città” dove, peraltro, il parlamento

del Tibet in esilio, se lo avesse

voluto, avrebbe trovato sede e

ospitalità per tutto il tempo che

avrebbero ritenuto opportuno. E di

conseguenza ecco proclamata

Salemi nuovamente “Capitale”,

ma stavolta del Tibet, tra lo

sbigottimento generale dei

cittadini, che un bel mattino si

sveglieranno con la città tutta

pavesata a festa con bandiere del

lontano Paese Orientale. Nel

frattempo la composizione della

Giunta cambiava continuamente

fisionomia, a cominciare dal

primo vicesindaco, il dottor Nino

Scalisi rappresentante diretto

dell’ex deputato democristiano

Pino Giammarinaro. Sarà il primo,

dopo pochissimi mesi, a gettare la

spugna e a denunciare l’incapacità

amministrativa di Sgarbi. Sarà

l’inizio della rottura

dell’Incantesimo. Cui seguiranno

noiosi e inconcludenti rimpasti di

giunta e l’inizio del turno di

Antonella Favuzza come

plenipotenziaria del sindaco. Che

si dimostrerà, con l’andare del

tempo, sempre meno presente in

città e in giunta (le delibere lo

stanno a dimostrare). Ma la rottura

definitiva del “Grande Sogno”

avverrà con l’imprevista e

imprevedibile rumorosa e plateale

uscita di scena di Oliviero Toscani,

Assessore alla Creatività e ai

Diritti Umani. Si servirà di una

testata nazionale il noto fotografo

per motivare l’abbandono e la fuga.

E lo farà usando una violenza

verbale e senza mezzi termini.

Dichiarando svanito il “sogno”.

Scatenerà reazioni altrettanto

violente da parte dell’antico amico

Sgarbi, ma, soprattutto l’avvio, si

dice, dell’inchiesta giudiziaria

denominata “Salus Iniqua” che,

oltre a determinare il sequestro di

beni per un ammontare di 36

milioni di euro riconducibili

direttamente a Pino Giammarinaro o

suoi prestanomi, ha anche attivato

una commissione prefettizia che per

mesi ha lavorato presso il comune

di Salemi. I risultati si trovano oggi

all’esame del ministero dell’Interno.

Le richieste sono di scioglimento di

Giunta e Consiglio per

“infiltrazione mafiosa”. Non è

bastato averla relegata in un Museo,

la Mafia, a quanto pare. Sembra

essere trascorso un secolo da

quando, Sgarbi amava sostenere che

“a Salemi esiste

una grave azione

criminogena e di

allarme sociale da

parte di

un’antimafia che

crede in uno

stereotipo della

mafia”. Mafia che

a Salemi, è

acclarato, non

esiste più”.

***

A prestare fede

invece

all’inchiesta ‘Salus

Iniqua’ e al lavoro

della commissione

prefettizia

sembrerebbe tutto il contrario.

Persino Vittorio Sgarbi ha dovuto

prenderne atto formalizzando in

Consiglio Comunale, nel corso di

una seduta straordinaria, le

dimissioni dalla carica di Sindaco di

Salemi. Anche se lo ha fatto

adombrando oscure manovre che

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Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà

Casablanca pagina 26

avrebbero indotto gli ispettori

prefettizi a “rappresentare

un’immagine totalmente distorta e

infedele delle realtà politica ed

amministrativa di Salemi».

Ipotizzando ,“arbitrariamente e

mendacemente un vero e proprio

condizionamento mafioso di tutta

l’attività amministrativa del

Comune di Salemi”. Il sillogismo di

Sgarbi è semplice e, a suo dire,

lapalissiano. Non essendo affatto

«occulto» che Pino Giammarinaro,

nella funzione dichiarata di

Commissario comunale della

Democrazia Cristiana, sia stato

l’animatore e il sostenitore della sua

candidatura a sindaco, avendo vinto

le elezioni ed essendo il gruppo

politico di Giammarinaro

maggioranza in Consiglio comunale

con l’elezione di 12 consiglieri,

risulta “inaccettabile e in perfetta

malafede interpretare e presentare

come «regia occulta» la normale

attività politica e la dialettica

trasparente tra sindaco, assessori e

consiglieri comunali di

maggioranza. In democrazia le

decisioni si prendono anche e

inevitabilmente consultando la

maggioranza, la quale ha nell’ex

parlamentare Pino Giammarinaro

non un «regista occulto», ma un

referente politico esplicito”.

Altrimenti (e qui s’innesca la

polemica accesa contro l’ex Pm

Massimo Russo) non si capisce

come mai l’attenzione degli

inquirenti non si è rivolta verso altre

operazioni politiche dove

sicuramente la presenza di

Giammarinaro sarebbe stata

determinante. Quale appunto quel

famigerato accordo politico

consumato a Mazara del Vallo che

vedeva la candidata, sponsorizzata

dall’attuale assessore regionale alla

sanità, appoggiata anche dal politico

inquisito salemitano. “Capisco – ha

osservato Sgarbi in proposito- il

disagio di Massimo Russo, ma

ribadisco che la differenza tra la mia

posizione e la sua è che io non ho

mai nascosto il mio accordo

politico con Giammarinaro”.

Insomma, secondo il critico

ferrarese, d’indagini ispirate da

pregiudizi e non dalla verifica dei

fatti, si tratta. Con la perversa

conseguenza che “i consiglieri

comunali di maggioranza,

regolarmente eletti, vengono

considerati complici e, per

«associati di mafia», pur non

essendo Giammarinaro indagato

per mafia.” Per poi, infine e quasi

a volere segnare i confini,

concludere “si processi

Giammarinaro , ma non si

trasformi la sua attività politica in

una interferenza criminale”.

"Giammarinaro – ribatte

Oliviero Toscani - partecipava

sempre alle riunioni della giunta

municipale di Salemi. Sgarbi dica

quello che vuole. Ma questa è la

realtà che, tra l'altro, ho raccontato

ai magistrati".

Gli ispettori avrebbero tratto le

conclusioni che la Giunta, parte

del Consiglio comunale e qualche

vertice della burocrazia, hanno

subito pressioni e influenze nelle

decisioni da prendere fuori da ogni

contesto di democrazia e

confronto. Inoltre, ci sarebbe

anche una non tanta velata critica

sul numero di consulenze per

migliaia di euro, su una serie di

decreti ingiuntivi che

quotidianamente arrivano sul

tavolo del segretario comunale,

perché l’amministrazione non

riuscirebbe ad onorare le spettanze

dei fornitori di beni e servizi. Se si

ricorda che all’indomani della

nomina della commissione

prefettizia Sgarbi aveva dichiarato

che “nessun atto della Pubblica

Amministrazione è stato

determinato dal benché minimo

intervento o sollecitazione

esterna”, si può capire la sua

delusione che certamente l’ha

spinto alle sue irrevocabili

dimissioni.

La relazione dei commissari,

infatti, sostiene il contrario e

conferma quello che c’è scritto nel

rapporto “Salus Iniqua”, “e cioè che

la presenza di Pino Giammarinaro –

soprannominato dai suoi amici

‘Pino Manicomio’ – all’interno del

Comune di Salemi era garantita da

funzionari e politici”. I “fidati”

dell’ex onorevole sono indicati in

un rapporto dei Carabinieri di

Salemi: cominciando dal segretario

generale del Comune Vincenzo

Barone e dall’ex direttore di

ragioneria Gaspare Manzo,

passando per diversi assessori e

consiglieri comunali. In diverse

intercettazioni risulta come

Giammarinaro, sebbene privo di

ruolo politico e amministrativo

ufficiale, venisse quotidianamente

consultato sui problemi politici e

del Comune. Circostanza che, come

abbiamo visto, è stata confermata

anche dall’ex assessore e fotografo

Oliviero Toscani e anzi indicata

come motivo delle sue dimissioni.

Dal canto suo Sgarbi, anche nel

momento dell’abbandono,

ripropone il suo noto teorema

secondo il quale il Prefetto di

Trapani, Marilisa Magno, il

Maresciallo dei Carabinieri della

locale stazione, Giovanni Teri e gli

investigatori della Questura di

Trapani, guidati dal capo della

divisione Anticrimine Giuseppe

Linares, «per dare forza alle loro

indagini su Giammarinaro,

attraverso quelle che sono solo

ipotesi, suggestioni, ricostruzioni

infondate e veri e propri falsi, hanno

prospettato un condizionamento di

Giammarinaro

sull’amministrazione, per consentire

poi al Prefetto di chiedere la

Commissione di accesso agli atti».

E’ la ragione per la quale ha inviato

la lettera di dimissioni al Presidente

della Regione, al Ministro

dell’Interno, all’assessore regionale

alle Autonomie locali e al

Segretario comunale, «ma non al

Prefetto di Trapani che ha

dimostrato di agire senza

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Sgarbi / Il tramonto di un sogno tra finzioni e realtà

Casablanca pagina 27

autonomia». Una lettera, che è un

duro atto di accusa contro Prefettura

e pezzi dell’Arma dei Carabinieri e

della Polizia di Stato. Rei a suo dire

di avere addirittura congiurato

contro di lui per costringerlo “in

forza di una regia occulta di

funzionari della Prefettura, della

Questura e dell’Arma dei

Carabinieri, contestualmente

denunciati al Ministro dell’Interno”

alle dimissioni. Che sono state

operative (una delle sue ultime

bizzarre trovate?), dopo una

settimana, dalle ore 21,00 del 21

febbraio. “Solo per consentire al

sindaco di agevolare le operazioni

di trasloco di migliaia di libri,

cataloghi, oggetti d’arte che aveva

raccolto nei suoi uffici del

Comune”, è stato detto. Infine, un

invito ai dodici consiglieri della

maggioranza a seguirlo nelle

dimissioni, per dare all’assessore

regionale agli Enti Locali la

possibilità di inserire il comune di

Salemi nella prossima tornata

elettorale. Fino al momento in cui

scriviamo i consiglieri che hanno

aderito al suo appello, si sono

arenati a quota dieci. Intanto a

maggio si dovrebbe ritornare al

voto. Il condizionale è d’obbligo.

Potrebbe accadere, infatti, che,

scattata la macchina

elettorale, in piena campagna i

candidati possano essere bloccati

dal tanto temuto pronunciamento

del Ministro degli Interni.

Potrebbe accadere che,

accogliendo la proposta dei

commissari prefettizi, il Comune

sia sciolto per “infiltrazione

mafiosa”.

Ha scritto il Giornale “Salemi,

da capitale mafiosa per

antonomasia per aver dato i natali

agli esattori in odore di Cosa

Nostra Nino e Ignazio Salvo

avrebbe dovuto essere

trasformata in un esempio

positivo con la cultura, oggi

con rabbia e amarezza

Vittorio Sgarbi urla: addio

Sicilia irredimibile, addio

Salemi, torno al Nord.”

Evidentemente i famosi

cugini Salvo, non avendo

gradito di essere stati

relegati in un Museo,

avranno delegato il loro

epigono Giammarinaro a rovinare il

sogno del ferrarese. L’epilogo

grottesco di una storia, iniziata in

una serata primaverile romana,

secondo i canoni del migliore

Camilleri pirandelliano.

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Arriva la Democrazia / Solidarietà, complicità, condivisione

Casablanca pagina 28

Arriva la Democrazia Solidarietà, complicità, condivisione

Natasha Merkouri

Traduzione di Roberta Buscema

Ci sentiamo umiliati, ma la Grecia è stata il capro espiatorio d’Europa e i greci sono stati stigmatizzati per la

loro inerzia. Siamo stati trascinati nel cuore di una crisi sociale come fossimo schiavi, noi, greci, mediterranei,

europei. Stiamo lottando. Ce la faremo. Anche questa volta. Una intellettuale greca interpella alcuni suoi

colleghi e amici con i quali compone un appello collettivo. Ciò che ci inviano è un coro di voci, ora tristi e

tormentate ora ottimiste e costruttive per dire al mondo ci siamo. La dimostrazione? L’agire quotidiano

improntato sulla solidarietà, complicità, condivisione.

“You, people, can watch while I'm scrubbing these floors

And I'm scrubbin' the floors while you're gawking”

Pirate Jenny

B. Brecht, K. Weill

Atene, 5 marzo 2012

Cari tutti,

state guardando me che scrivo in una

rivista straniera e il mio paese che viene

distrutto a livello finanziario e politico.

Non appena sono venuti a conoscenza

di questa lettera, alcuni dei miei amici

hanno risposto alla mia richiesta di

collaborazione con collera, altri in maniera

pensierosa, altri ancora stoicamente.

“L’unico modo per uscire dalla crisi è la

prevenzione. Questo è un vero e proprio

imperativo per poter apprendere la nostra

lingua fino in fondo, prima che gli studenti

greci vivano la disillusione del sistema

educativo. Se non ci lasceremo incantare di

nuovo da parole e bugie, i nostri brontolii

muteranno forse in parole di pensiero

critico. Potremmo salvarci da noi stessi.

Tutto ciò mi fa una tale rabbia.” – Katy

Thireou, scrittrice (oggi vive al Cairo,

Egitto). “Declino della lingua vuol dire

decadenza della civiltà. Nei tempi antichi il

paria era il solo a starsene in disparte, in

maniera tale da non far parte di nulla. Noi

stiamo proprio là. Siamo stati trascinati

nel cuore di una crisi sociale come

fossimo schiavi, noi, greci, mediterranei,

europei” – Maria Linardi, giornalista.

“Lavorare per i propri connazionali

non rappresenta un’opportunità di

profitto, eccetto che per coloro che

governano. Con questo atto fraudolento si

approfittano dei guadagni della

collettività. E fingono di ignorare che il

denaro giunto da lontano rischia di

trasformarsi in maledizioni straniere.” –

Nikos Stereopoulos, giornalista

“Non sono mai stato un evasore fiscale.

Ho aiutato i miei allievi ovunque io fossi

chiamato a insegnare. Io resto ancora

fiducioso. Siamo sopravvissuti alla

Seconda guerra mondiale e ad una guerra

civile. Ce la faremo anche stavolta.” –

Thanos Merkouris, insegnante in pensione

Conosciamo tutti le cause dell’erosione,

abbiamo preso parte tutti al gioco delle

responsabilità e abbiamo detto tutti

abbastanza al riguardo. Proviamo vergogna

e ci sentiamo umiliati. La Grecia è stata il

capro espiatorio d’Europa e i greci sono

stati stigmatizzati per la loro inerzia. La

Grecia rappresenta una scena del crimine.

Dopo il Memorandum II la gente di tutto il

mondo segue l’iniziativa “Solidarity for

Greece”. Per quanto riguarda il fallimento

dell’euro almeno i greci non sono gli unici

che devono essere rimproverati. Ciò che

bisogna fare adesso è volgerci verso un

agire positivo, intraprendente e creativo.

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Arriva la Democrazia / Solidarietà, complicità, condivisione

Casablanca pagina 29

Dopo mesi di risentimento, depressione

e disperazione, mi sono resa conto che

l’elemento fondante del mio paese è ancora

pieno di vita. La democrazia è la sana

reazione sociale alla patologia sociale; non

la violenza, il terrorismo o la repressione,

solamente l’azione che nasce dall’istinto di

sopravvivenza, dai paradigmi storici, dal

comune DNA. E questo è quanto è

accaduto fra la popolazione greca nel corso

delle ultime settimane. Gli insegnanti

avviano classi private gratuite per gli

studenti bisognosi; i produttori vendono i

loro prodotti direttamente ai consumatori a

prezzi davvero convenienti; nei

supermercati locali gli acquirenti donano

generi alimentari alle famiglie povere. Tre

parole: solidarietà, complicità e

condivisione. “Il Noos greco (ossia la “mente”) dà

vita alla Luce, sotto un cielo chiaro, al di là

di ogni pensiero dolente. Attraverso il

Caos, esso ricerca l’armonia e prevede

istintivamente il futuro. Quante persone

riuscirebbero a sopportare quella Verità?”,

Anna Stereopoulou, compositrice. Non è una questione di orgoglio.

È credere fermamente nella democrazia

che ha sempre agito in maniera silenziosa.

Ma solo nelle società che in essa si sono

formate.

Così dunque non importa se noi

sfreghiamo il pavimento mentre gli altri ci

guardano.

Quando finiremo, tutto sarà pulito.

Page 30: Casablanca n.23

17 marzo 2012 Giornata della Memoria e dell’Impegno

Casablanca pagina 30

XXVII Giornata

Della Memoria e

dell’impegno Nando Dalla Chiesa

Libera a Genova, Libera in Liguria. Per

festeggiare a Genova la giornata della

memoria e dell’impegno del 17 marzo del

2012. E’ una scelta naturale. Un’altra

grande e storica città del nord, dopo le

esperienze di straordinaria partecipazione

di Torino e di Milano. Perché ce lo stanno

raccontando i processi, ce lo stanno

dicendo ripetutamente le cronache e gli

studi: è il nord ormai la vera terra di

conquista delle mafie, la vera posta in

gioco se si vuole rovesciare la strategia dei

clan. Se si vuole decidere di non mettere a

loro disposizione –pressoché indifese- le

terre più ricche. Se si punta a saldare

invece la rivolta delle regioni meridionali, e

dei loro giovani in particolare, con una

rivolta di tipo nuovo; capace di crescere e

mettere radici in quelle che una volta erano

le aree “di insediamento non tradizionale”

e che tali non sono più se mezzo secolo è in

grado di fare “tradizione”.

Liguria, Lombardia e Piemonte. Nel nord-

ovest, come anche nel Lazio, le

organizzazioni mafiose si stanno

scatenando. Non vogliono più gestire spazi

residuali, non bastano più loro i tipici

interstizi degli affari criminali. Pretendono,

perché sentono di averne ormai la forza, di

dettare legge, di conquistare il celebre

“monopolio del ciclo del cemento”.

Vogliono penetrare l’economia legale, dai

ristoranti ai centri commerciali alla sanità,

ed espandere i business illegali, a partire

dallo smaltimento dei rifiuti. Tendono a

intensificare i rapporti con la politica,

dimostratasi troppo permeabile e

“avvicinabile”. Meno che mai, sia chiaro,

sono disposte a retrocedere. Non è nella

loro natura. Hanno piuttosto dimostrato,

soprattutto la ‘ndrangheta, ormai egemone

nel nord, una forte vocazione

colonizzatrice. Per questo si apre con

ogni evidenza un conflitto dalle grandi

implicazioni civili e culturali. Al quale

sono chiamati a partecipare, schierandosi

con lo Stato di diritto, con la libertà, con

la giustizia, con la trasparenza

amministrativa, tutti i cittadini onesti e

responsabili, gelosi dei propri diritti

costituzionali. In Liguria come in tutto il

nord troppi sono stati gli occhi chiusi per

quieto vivere, per incapacità di

comprendere, talora per connivenza.

Eppure (e proprio per questo) il comune di

Bordighera è stato sciolto per infiltrazioni

mafiose, dopo molte e inascoltate denunce

di esponenti delle istituzioni e della società

civile. E forse non rimarrà il solo. Eppure

(e proprio per questo) la provincia di

Imperia è stata abbandonata alle pretese dei

clan grazie a esponenti delle istituzioni di

recente -e per fortuna- rimossi o perseguiti.

Eppure (e proprio per questo) informazioni

più precise e preoccupanti giungono su

attività mafiose nella altre provincie liguri,

Genova compresa.

Il contributo che Libera intende dare con la

sua presenza nazionale sarà dunque come

un atto di attenzione e di amore verso

questa regione. Una giornata, quella del 17

marzo, che riassuma mesi di

sensibilizzazione condotta a contatto

quotidiano con gli esponenti più attenti

delle istituzioni, con le scuole, le

università, i sindacati, il ricco mondo delle

associazioni, la chiesa più impegnata, le

professioni, quegli imprenditori che

apprezzano il nuovo vento che spira in

Confindustria, siciliana e non solo. Un atto

di attenzione e di amore tanto più dovuto

dopo la prova terribile delle alluvioni

autunnali, che hanno suscitato in tutta Italia

un moto spontaneo di solidarietà verso

Genova e verso la Liguria. Mettere la

propria esperienza, l’entusiasmo di tanti

giovani e la loro domanda di futuro, al

servizio della causa della legalità e della

giustizia in una terra di grandi tradizioni

democratiche. Testimoniare, anche

attraverso la presenza di centinaia di

familiari di vittime, qual è il costo sociale e

umano della mafia, perché tutti prendano

coscienza dei prezzi che ogni anno di

Page 31: Casablanca n.23

17 marzo 2012 Giornata della Memoria e dell’Impegno

Casablanca pagina 31

ritardo può comportare. Tra i genovesi, con

i genovesi. Tra i liguri, con i liguri. Ogni

giornata della memoria e dell’impegno

lascia nella città in cui si svolge un tesoro

di relazioni sociali, di sensibilità civile, di

coinvolgimento personale e collettivo.

Lascia la città ospite più ricca, così come

più ricca e responsabile diventa Libera

attraverso queste giornate e i rapporti

costruiti con città tanto diverse. Che la

primavera arrivi e faccia sbocciare una

nuova coscienza collettiva contro la mafia.

Che lo faccia ovunque, partendo da

Genova.

Nando dalla Chiesa

Presidente Onorario di Libera

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Danilo Dolci: un mondo senza miseria

Casablanca pagina 32

DANILO DOLCI:

Un Gigante che lottò contro la miseria Lorenzo Barbera

Danilo Dolci architetto, sociologo, poeta educatore, attivista della non violenza, stato

promotore, catalizzatore e ispiratore, di mobilitazioni collettive. Protagonista di

azioni individuali che hanno suscitato grande attenzione, simpatia e solidarietà in

modo trasversale. Gli scioperi della fame e la azioni non violente per difendere i più

deboli, i più poveri e bistrattati. L’indignazione verso le istituzioni che ai bambini

poveri non garantivano la sopravvivenza e l’adolescenza. La lotta per la pace e

contro la mafia.

I ricordi di chi ha vissuto e lottato con Danilo. Avevamo fame, ma eravamo felici ed

entusiasti perché stavamo cambiando il mondo. Così ci pareva ascoltando

disoccupati, contadini, artigiani, vecchi e ragazzi su come il loro paese potesse arrivare al lavoro e al

benessere per tutti, senza più emigrazione. E se riscoprissimo Danilo Dolci?

Danilo Dolci, sociologo di Trieste, è stato promotore, catalizzatore o ispiratore, a volte anche a sua insaputa, di

mobilitazioni collettive, protagonista di azioni individuali che hanno suscitato grande attenzione, simpatia e solidarietà.

Tuttavia, spesso, ha provocato anche tanta ostilità dei media, del mondo politico, delle gerarchie ecclesiastiche. Quando,

nel 1952, appena arrivato a Trappeto, scoprì che un bambino era morto di fame perché nato con la lingua attaccata al

palato, denunciò pubblicamente l’incuria dei medici, del sistema sanitario, e del mondo politico, facendo il suo primo

sciopero della fame nella stessa casetta del bambino morto.

Un secondo sciopero della fame, sempre a Trappeto, fu contro la pesca di frodo a strascico nel golfo di Castellammare,

che distruggeva la fauna ittica e affamava i piccoli pescatori.

Nel 1954 scoprì il quartiere Spine Sante di Partinico dove, in casette a pianterreno di sedici metri quadri in terra battuta,

vivevano famiglie con sette-otto bambini con genitori disoccupati che vivevano di espedienti e fu un altro sciopero della

fame contro l’incuria delle istituzioni e dei benestanti. In seguito studiò Partinico e scoprì che, dall’Unità d’Italia fino al

1954, i partinicesi avevano ricevuto dallo Stato molti più anni di galera che di scuola e pubblicò “Banditi a Partinico”.

Nel 1956, durante il lavoro che portò alla pubblicazione di “Inchiesta a Palermo”, Danilo scoprì pezzi di città

ultradegradati come “Cortile Cascino” dove le famiglie vivevano in baracchette in mezzo alle macerie dei

bombardamenti del 1943. Naturalmente nei confronti di queste denunce pubbliche attraverso scioperi della fame vi fu un

crescendo di attenzione dei media e il consolidarsi di schieramenti pro e contro Danilo

Negli anni sessanta, compreso il fortissimo intreccio tra mafia, chiesa e potere politico, Danilo mise a fuoco il ruolo che

in tutto questo avevano avuto, dal dopoguerra, l’on. Bernardo Mattarella e il senatore Volpe, il primo sempre ministro

del governo italiano e il secondo sempre sottosegretario. Contro di loro, dopo averli denunciati alla Commissione

Antimafia, realizzò uno sciopero della fame di oltre venti giorni a Castellammare del Golfo, paese di Mattarella che era

il “Mamma Santissima” della Provincia di Trapani. Il Cardinale Ruffini, di Palermo, tuonò contro di lui, giurando e

spergiurando che Danilo era un bugiardo pagato per denigrare la Sicilia.

Il sociologo Danilo interrogava e ascoltava tutti, ne comprendeva i problemi e, quando si trattava di persone

svantaggiate, era capace di spendersi totalmente. E’ stato un gigante nella lotta contro la miseria, contro la fame, contro

la corruzione, contro il clientelismo; ed è stato un maestro dell’azione non violenta. Un genio nel dare visibilità ai

problemi socioeconomici, culturali, etici, politici ed alle azioni che intraprendeva per la loro soluzione.

E’ stato anche un lavoratore instancabile, ordinato e meticoloso. Tutti i suoi scritti lo confermano. Tutte queste qualità,

negli anni tra il 1950 e il 1960, ne hanno fatto una luminosa bussola sociale, etica, politica e culturale. Migliaia di

scienziati, artisti, poeti, filosofi, religiosi, educatori, tecnici e, persino, politici e diplomatici di ogni angolo del pianeta

hanno visto in Danilo una possibile guida per la costruzione di un mondo senza miseria, senza guerre, senza violenze di

qualsiasi tipo, senza prepotenze e senza discriminazioni politiche, economiche, etniche, religiose, sociali, sessuali,

culturali.

Page 33: Casablanca n.23

Casablanca pagina 33

“I lavoratori occupati fanno valere le

loro ragioni scioperando, in che modo

possono far valere le proprie i

disoccupati?” domandava Danilo.

“Lavorando!” rispondevano i disoccupati.

“Quale lavoro si potrebbe fare tutti

insieme?”, domandava ancora Danilo.

“Aggiustare le trazzere del territorio di

Partinico, tutte intransitabili ai carretti dei

contadini” convennero i disoccupati.

Conobbi Danilo nel 1956, partecipando

a una riunione con i disoccupati presso la

Camera del Lavoro di Partinico.

Partinico era un paesone di 25.000

abitanti di cui la stragrande maggioranza

agricoltori, perciò ci vollero diverse

riunioni per arrivare alla decisione di

riparare la Trazzera Vecchia che era

l’arteria agricola più importante. Dopo

avere informato tutti i partinicesi, in

centinaia, iniziammo a ripararla, armati

degli attrezzi di lavoro necessari.

La nostra azione fu considerata eversiva

da Mario Scelba, allora ministro

dell’interno, che decise di impedirla usando

come pretesto l’occupazione di suolo

pubblico. Arrivarono, perciò, camion e

camion di poliziotti ai quali noi

rispondemmo con la resistenza passiva a

cui Danilo ci aveva istruiti.

Gli agenti non usarono contro di noi la

violenza grazie alla presenza di molti

giornalisti e operatori televisivi che Danilo

aveva accuratamente invitato. Essi, perciò,

impiegarono diverse ore per riuscire a

interrompere il lavoro dei disoccupati.

Un centinaio di persone furono portate

via con i camion. Venti di esse, Danilo

compreso, furono imprigionate. Un mese

dopo, il processo per direttissima che Piero

Calamandrei, avvocato difensore di Danilo,

definì “processo all’articolo 4”.

Avevo vent’anni e grazie Danilo,

scoprii di essere completamente libero,

anche da me stesso, e mi dedicai ai

problemi di tutti, alla partecipazione di tutti

e alla piena occupazione.

Nel 1956, mentre Danilo intervistava i

palermitani dei quartieri popolari, con altri

giovani mi dedicavo, ai bambini di Spine

Sante allora il quartiere più povero di

Partinico. Case piccole, tutte a

pianterreno, con pavimenti in terra

battuta, erano regolarmente abitate da

famiglie numerose. Genitori

completamente analfabeti, senza lavoro,

vivevano di espedienti a limite della

legalità come chiedere o rubare frutta e

verdura nelle campagne, aiutare nei

traslochi, fare il borseggio in città. Tanti

bambini, infatti, avevano il padre in

carcere.

La piena occupazione

Nel 1957 realizzammo un’inchiesta in

dieci comuni della Sicilia Occidentale per

scoprire com’era possibile perseguire la

piena occupazione mobilitando le risorse

locali, i saperi e i saper fare degli abitanti.

Io e altri due giovani ci occupammo di

Corleone, Campofiorito e Bisacquino.

Di nostro non avevamo una lira.

Alloggiavamo in una locanda di

Bisacquino, tutti e tre in una stanza,

andavamo a piedi da un paese all’altro.

Danilo ci raggiungeva un giorno la

settimana e, ogni volta ci lasciava cento

lire che spendevamo interamente per

comprare pomodori e cipolle che

costavano solo cinque o sei lire il chilo.

Per il resto integravamo con torzoli di

cardi, cicoria e altre verdure selvatiche.

Avevamo fame, ma eravamo felici ed

entusiasti perché stavamo cambiando il

mondo. Così ci pareva ascoltando

disoccupati, contadini, artigiani, vecchi e

ragazzi. Grazie a questo lavoro Danilo

osò organizzare a Palermo il convegno

“Una politica per la Piena Occupazione”,

cui parteciparono economisti, sociologi,

scrittori, artisti, politici italiani ed

europei. L’Unione Sovietica assegnò a

Danilo il premio Lenin per la Pace, sedici

milioni di lire, che Danilo ed io

andammo, in treno, a ritirare presso la

sede romana della Banca d’Italia.

Dopo alcuni giorni di discussione con

altri volontari si decise di creare al

“Centro studi e iniziative per la piena

occupazione nella Sicilia Occidentale”,

con cinque sedi: Partinico, Corleone,

Roccamena, Menfi e S. Giovanni Gemini.

Consapevoli che i sedici milioni non

potevano durare in eterno proponemmo ai

nostri amici e simpatizzanti svedesi,

svizzeri, inglesi, tedeschi e italiani di farsi

carico dei costi delle attività di ciascuno dei

cinque centri. Danilo, quindi viaggiò per

l’Europa e per l’Italia, assistendo alla

nascita dei comitati di sostegno svedese,

inglese, svizzero, tedesco, torinese, romano

e milanese.

In quegli anni, in diversi paesi si

realizzavano politiche di piena

occupazione: Unione Sovietica, Iugoslavia,

Svezia, Israele. Danilo Nel 1958 e nel 959

visitò e studiò questi paesi e invitò loro

esperti a partecipare ai nostri seminari sulla

pianificazione dal basso.

Nel giugno 1960 mi fu assegnata la

responsabilità del Centro di Roccamena A

fine dicembre si erano costituiti i gruppi sui

temi “Diga sul fiume Belice”, “Uscire dalla

monocultura del grano”, “Strade

intercomunali e agricole”,

“Rimboschimento”, “Nucleo urbano” e

“Mafia”.

Convenimmo che tutti dovevano poter

dare il loro contributo, compreso lo “scemo

del paese”, e ognuno doveva essere

ascoltato da tutti con attenzione per

avanzare tutti insieme verso la soluzione

del problema. Tutti i gruppi interagivano

fra loro.

Nei gruppi di lavoro gli analfabeti erano

la maggioranza, ma c’erano anche persone

che sapevano leggere e scrivere e persino

qualche studente universitario, che metteva

nero su bianco l’avanzamento del lavoro e

le decisioni condivise.

Il due aprile 1962 Roccamena fu invasa

da migliaia di persone provenienti da tutta

la Valle, ma anche da Palermo, Trapani e

Agrigento. E, persino, giornalisti e docenti

universitari. Fu necessario sistemare

all’esterno del cinema diversi altoparlanti

perché tutti potessero seguire il dibattito

che si svolgeva all’interno del cinema che,

pieno come un uovo, tra posti a sedere e in

Si trattava di persone che non vedevano nelle forze politiche dell’epoca il sogno, l’opera per la costruzione di un mondo

di giustizia, di pace, di solidarietà e partecipazione. Molte di queste persone venivano e si mettevano a disposizione di

Danilo per operare in Sicilia, in altre regioni italiane o in qualunque altra zona della terra. Molte di esse hanno dato vita

a comitati di sostegno politico ed economico all’attività di Danilo e dei suoi collaboratori che operavano in Sicilia. Tutto

ciò spiega la candidatura di Danilo al “Premio Nobel per la Pace” nel 1968 e nel 1969.

Nonostante le sue grandissime qualità, però, Danilo Dolci non riuscì a divenire il collante di quella straordinaria umanità

che egli stesso aveva messo in moto. Danilo pensava e agiva da far sognare quando pensava e agiva solo, circondato

dalla stima, dal sostegno e dal plauso di tutto questo mondo. Pensare e operare insieme e di concerto con persone capaci

di pensare, agire e interagire in modo efficace, produttivo e, spesso, anche innovativo, era per Danilo terribilmente

stressante e diventava presto insostenibile.

Alla fine degli anni sessanta Danilo decise di concentrare le sue energie sul fronte pedagogico e nella produzione

poetica, abbandonando la prima linea della lotta contro la miseria, la disoccupazione, la mafia e la guerra.

Page 34: Casablanca n.23

Danilo Dolci: un mondo senza miseria

Casablanca pagina 34

piedi, riusciva a contenere solo novecento

persone.

I relatori erano stati espressi dai gruppi

di lavoro. Sulla diga espose uno studente

d’ingegneria, per il nucleo urbano un

barbiere con la quinta elementare. Per

un’agricoltura alternativa alla monocoltura

del grano svolse una relazione, in perfetta

lingua dialettale, Nino Pezzullo, un

contadino di sessantacinque anni,

totalmente analfabeta, che aveva

perfettamente stampato nella sua corteccia

cerebrale il territorio di Roccamena

antecedente alla Riforma Agraria del 1950,

quello attuale e quello futuro. A molti

partecipanti fu distribuito il “Piano di

sviluppo di Roccamena” ciclostilato. In

tutti i comuni della Valle del Belice

nacquero i comitati cittadini. Io e Paola,

con i nostri bambini di diciotto mesi e tre

anni, ogni sera eravamo in un paese

diverso, in un’assemblea di Comitato

Cittadino.

Nella primavera del 1963 ognuno dei

venticinque paesi del Belice aveva

abbozzato il piano di sviluppo comunale e

fu deciso di realizzare, a Roccamena, una

settimana di pressione sulle istituzioni

nazionali e regionali al fine di creare

occupazione e ad arrestare l’emigrazione

dei giovani. Danilo Dolci partecipò

digiunando in piazza per sette giorni e a lui

si unirono diversi obiettori di coscienza e

tanti nostri sostenitori italiani e stranieri.

Vi parteciparono inoltre i comitati cittadini,

quattordici sindaci, tanti consiglieri

comunali e tanta popolazione. Decine di

giornalisti italiani e stranieri bivaccarono

con noi in piazza fermandosi anche la

notte.

La settimana di pressione si concluse

con una marcia di popolo al sito della

futura diga, cui parteciparono anche donne

e bambini.

Dall’indomani Danilo Dolci partecipò

anche alla nutrita delegazione che incontrò

tutte le autorità regionali e nazionali che

avevano titolo per realizzare diga. Tutte le

autorità incontrate assunsero puntuali

impegni: cominciarono i rilevamenti nel

sito della futura diga e fu istituita la

commissione parlamentare d’inchiesta sulla

mafia. Eravamo perciò ottimisti.

Tuttavia, all’inizio del 1965 dovemmo

costatare che tutti gli impegni assunti nel

1963 dalle autorità nazionali e regionali

erano del tutto fermi: la diga sul Belice

perché, dopo il disastro del Vaiont, si scoprì

che il sito individuato nel sessantatré era a

rischio di frane, tutti gli altri impegni erano

disattesi perché erano cambiati i ministri e

gli assessori regionali.

Ancora marce, grandi partecipazioni e

sostegni nazionali ed estere, nuovo sito

per la diga sul fiume Belice, e di nuovo in

delegazione, con Danilo con i nuovi

ministri e i nuovi assessori regionali

tecnici e burocrati. Furono presi impegni

per le tappe, i tempi e responsabilità

politiche tecniche e burocratiche … Alla

fine del 1966 tuttavia, abbiamo constatato

che, mentre la popolazione della valle del

Belice aveva fatto molti passi avanti,

dandosi programmi, organismi, metodi e

strumenti di programmazione partecipata,

le istituzioni nazionali sistematicamente

disattendevano gli impegni presi nel 1965

nella piazza di Roccamena. E

verificammo, ogni giorno di più, la

gestione mafiosa e clientelare delle

istituzioni e delle risorse pubbliche. E per

questa ragione maturò nella Valle del

Belice e, grazie a Danilo, anche nella

zona di Partinico, il progetto di una

Marcia per la Sicilia Occidentale per lo

sviluppo, contro la mafia e contro la

guerra.

La marcia iniziata il cinque marzo del

67, attraversò tutta la Valle del Belice:

Partanna, Castelvetrano, Menfi, Santa

Margherita Belice, Roccamena, Partinico.

Terminò la sera dell’11 marzo a Palermo.

Ogni sera, una piazza diversa. Un

dibattito sui temi della marcia con tutta la

popolazione.

A questa marcia hanno partecipato

decine di migliaia di persone della Valle

del Belice, comprese donne, studenti e

bambini, ma anche studenti universitari e

docenti di molte università italiane e tanti

artisti, economisti, scrittori e poeti

europei e d’altri continenti. Dalla Svezia

al Cile, al Vietnam e agli Stati Uniti,

hanno testimoniato sui travagli dei loro

paesi e dei loro popoli, accrescendo la

consapevolezza che i comportamenti

mafiosi, le prepotenze e le ruberie sono

presenti dappertutto e che le buone

soluzioni si trovano con il dialogo, le

iniziative e le lotte non violente e la

partecipazione consapevole delle

popolazioni interessate.

La marcia per la pace

Nacque l’idea di una marcia nazionale:

la “Marcia dal Nord e dal Sud per la Pace”,

partendo l’uno novembre alla stessa ora da

Milano e da Palermo per riunirci a Roma, a

Piazza San Giovanni, nella mattinata del 30

novembre e marciare insieme fin a piazza

Esedra, dove ci sarebbe stata la

conclusione.

Danilo, nordico, partì da Palermo con i

siciliani ed io, siciliano, partii da Milano

con i lombardi.

Nei circa tre mesi di preparazione ci fu

una straordinaria fioritura di gruppi

pacifisti in tutte le regioni italiane. In ogni

città che raggiungevamo la sera, c’era un

palco circondato di popolo sul quale ci

accoglieva il comitato cittadino per la pace

e dal quale prendevano la parola, non solo i

padroni di casa, ma anche i partecipanti

alla marcia, con priorità a quelli di altri

paesi. In ventotto città il comitato cittadino

ha anche provveduto a sfamare ed

alloggiare tutti i mille marciatori continui.

Il trenta novembre da piazza San

Giovanni a Piazza Esedra eravamo

centinaia di migliaia. Non avevo mai visto

e non ho più visto tanto popolo insieme.

Ho lavorato con Danilo dal 1956 al

1969 ed egli è stato determinante per le mie

scelte esistenziali. Devo a lui, certamente,

la mia dedizione alla qualità delle persone e

dei loro rapporti, la mia tensione verso la

ricerca sociale, economica, culturale e

scientifica e verso la ricerca della verità e

delle buone soluzioni ascoltando

attentamente e mobilitando gli altri. A lui

devo anche il ripudio della mercificazione

della mia intelligenza, della mia

conoscenza e del mio saper fare, la mia

coerenza, la mia costanza, la mia tenacia e

la fedeltà alla mia etica.

Se non avessi incontrato Danilo non so

chi sarei stato e chi sarei oggi.

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Amalia / Le Vignette

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