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MEMORIE LETTERARIE DELLA VENEZIA ORIENTALE MEMORIE LETTERARIE DELLA VENEZIA ORIENTALE AZIENDA DI PROMOZIONE TURISTICA DI BIBIONE via maja 30020 Bibione tel 0431 442111 fax 0431 439997 AZIENDA DI PROMOZIONE TURISTICA DI CAORLE calle delle liburniche 16 - 30021 Caorle tel 0421 81085 fax 0421 218623 AZIENDA DI PROMOZIONRISTICA DI PORTOGRUARO via martiri della libertà 19 - 30026 Portogruaro tel 0421 73558 fax 0421 72235 itinerari del Veneto Orientale Veneto orientale MEMORIE LETTERARIE DELLA VENEZIA ORIENTALE MEMORIE LETTERARIE DELLA VENEZIA ORIENTALE

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MEMORIELETTERARIEDELLA VENEZIAORIENTALE

MEMORIELETTERARIEDELLA VENEZIAORIENTALE

AZIENDA DI PROMOZIONE TURISTICA DI BIBIONE via maja 30020 Bibione tel 0431 442111 fax 0431 439997

AZIENDA DI PROMOZIONE TURISTICA DI CAORLEcalle delle liburniche 16 - 30021 Caorle tel 0421 81085 fax 0421 218623

AZIENDA DI PROMOZIONRISTICA DI PORTOGRUAROvia martiri della libertà 19 - 30026 Portogruaro tel 0421 73558 fax 0421 72235

itineraridel VenetoOrientale

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MEMORIELETTERARIEDELLA VENEZIAORIENTALE

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Un territorio può essere visitato sotto diversipunti di vista, privilegiandone ora un particolare aspettoora un altro, oppure cercando di cogliere l’insieme dellesue risorse, inevitabilmente tra loro intrecciate, che locaratterizzano, ne definiscono l’identità e lo rendonounico.

Attraverso lo sguardo di poeti, scrittori, artisti, ilpaesaggio, le opere dell’uomo, le abitudini, i modi di vive-re, i gesti, le parole,i colori, gli odori diventano memoria eicona di una terra, elementi chiave di un viaggio sentimen-tale guidato talvolta da personaggi a metà tra il reale e ilfantastico, nati dalla sensibilità e dai diversi legami con ilterritorio dei loro creatori.

Gli itinerari suggeriti da questa “mappa letteraria”attraversano la porzione orientale della Provincia diVenezia per giungere fino all’Istria, permeata di culturaveneta, richiamando le figure di alcuni intellettuali e arti-sti che negli ultimi cinquecento anni sono nati, hanno vis-suto e lavorato in queste terre o si sono lasciati ispiraredai loro paesaggi e dalla loro gente.

PREMESSAPREMESSA

Premessa

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CARTINA IN PREPARAZIONE

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Fulvio Tomizza nasce nel 1935 a Giurizzani presso Materada,villaggio istriano nel comune di Umago, che darà il nome al suoprimo romanzo.Conseguita la maturità classica a Capodistria, a vent’anni, inseguito ai trattati di pace del 1954 (Memorandum di Londra)che, dopo la seconda guerra mondiale, assegnarono la sua terraalla Jugoslavia, Tomizza si trasferì a Trieste, ritornata all’Italia.Redattore del locale giornale radio, fece il suo esordio comescrittore nel 1960 con il citato Materada che attirò l’attenzionedei maggiori critici italiani. Seguirono La ragazza di Petrovia eIl bosco di acacie, riuniti poi con Materada nel volume Trilogiaistriana.Nel 1965 ottenne il Premio Selezione Campiello col romanzo Laquinta stagione e, quattro anni dopo, con L’albero dei sognivinse il Premio Viareggio per la narrativa. Quasi un seguitodell’Albero dei sogni può venir considerata la raccolta di rac-conti onirici La torre capovolta del 1970. Al romanzo La città diMiriam del 1972 andò il Premio Fiera Letteraria, mentre il suc-cessivo Dove tornare si affermò di nuovo al venezianoCampiello. Il consenso più vistoso gli giunse tuttavia nel 1977con La miglior vita, romanzo che ebbe in Italia una tiraturacomplessiva di quattrocentomila copie, vinse il Premio Stregaed è stato finora tradotto in dieci lingue. La traduzione tedescavalse a Tomizza il Premio di Stato Austriaco per la LetteraturaEuropea 1979, che nelle edizioni precedenti era toccato adautori quali Vaclav Havel, Eugène Ionesco, Italo Calvino,Simone de Beauvoir, Friederich Dürrenmatt e che successiva-mente è stato assegnato a Giorgio Manganelli e Milan Kundera.

Mentre scriveva e pubblicava, rispettivamente nel 1980 e ‘81, iromanzi L’amicizia e La finzione di Maria, Fulvio Tomizza avevagià iniziato la ricerca storica per il vasto affresco Il male vienedal Nord, imperniato sulla figura del vescovo di CapodistriaPier Paolo Vergerio (1498-1565) passato alla RiformaProtestante. Nel 1984, anno della sua pubblicazione, l’universi-tà di Trieste conferì allo scrittore istriano la laurea honoriscausa in lettere “per l’elevato livello artistico della sua intensaattività narrativa, nella quale - afferma ancora la motivazione -si è reso acuto, originale interprete di una cultura basata suivalori della pacifica convivenza tra le genti”.

Nel 1985 raccolse i suoi racconti scritti nell’arco di un trenten-nio nel volume Ieri, un secolo fa. Nel 1986 tornò al romanzocon Gli sposi di via Rossetti. Tragedia in una minoranza,

FULVIO TOMIZZAFULVIO TOMIZZAFulvio Tomizza

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Premio Selezione Campiello, Premio Internazionale Vilenica dellaAssociazione Scrittori Sloveni e Premio Ascona degli scrittoridella Svizzera italiana, conferito nell’ambito dei lavori dellariunione annuale del Pen Club Internazionale, dedicata nel 1987al tema «Letteratura di frontiera». Di Tomizza sono uscite in questi ultimi anni le opere narrativeQuando dio uscì di chiesa, Vita e fede di un borgo istriano del‘500(Mondadori), Poi venne Cernobyl (Marsilio) e, dall’editoreBompiani, L’ereditiera veneziana, Fughe incrociate, I rapporticolpevoli (Premio Selezione Campiello e Premio GiovanniBoccaccio), L’abate Roys e il fatto innominabile e Alle spalle diTrieste. Della sua opera teatrale vanno ricordati il dramma Vera Verk, chesul piano culturale segnò il primo avvicinamento tra Trieste e leconfinanti repubbliche di Slovenia e di Croazia, e L’idealista, libe-ra drammatizzazione del romanzo del “classico sloveno” IvanCankar, rappresentato nelle maggiori città d’Italia e di Jugoslaviae che inaugurò la stagione di prosa 1983-‘84 del Volkstheater diVienna.

Per l’infanzia ha pubblicato le operette La pulce in gabbia eTrick, storia di un cane (Mondadori), Anche le pulci hanno latosse (Edizione E. Elle) e Il gatto Martino (Editori Lisciani &Giunti). Con diversi romanzi e con singole novelle Tomizza è tra-dotto in Spagna, Francia, Stati Uniti, Brasile, Norvegia, Svezia,Polonia, Austria, Germania, Ungheria, Romania, Slovenia,Croazia, Grecia, Olanda, Russia e in esperanto. Nel 1996 con il romanzo Dal luogo del sequestro è tornato al suoprimo editore Arnoldo Mondadori che gli ha poi pubblicato ilbestseller Franziska e, nel 1999, dopo la morte, La visitatrice enel 2000 Nel chiaro della notte e La casa col mandorlo.Tomizza morì a Trieste il 21 maggio 1999 e fu sepolto a Materada.

Materada (1960), suo primo romanzo, e L’abate Roys e il fattoinnominabile (1994), una delle ultime opere, sono le produzioniletterarie in cui meglio traspaiono, rispettivamente, il legame diTomizza con il suo paese natale in Istria e i riferimenti al territo-rio a cavallo tra Veneto e Friuli, in particolare alle località diPortogruaro, Summaga, Concordia.

“(...) Materada era un’opera epica che nasceva da lacerazioni reali e profonde, drammatichee direttamente vissute, componendole in quella malinconia e umanissima armonia che èappunto il segno della vera epicità, la quale fa intravedere una superiore unità aldilà dellecontraddizioni e dei dolori contingenti, ch’essa pure rappresenta in tutta la loro immediatatragicità senza smorzare né attenuare la pena di chi soffre sulla pelle le tempeste della storia.Il mondo da cui nasceva Materada (...) era un mondo realmente straziato dai rancori, torti evendette sanguinose fra italiani e slavi e Tomizza l’ha vissuto e patito. La coralità ch’egli hasaputo esprimere era una fraternità raggiunta realmente, e non solo metaforicamente, oltre ilconflitto e lo scontro esasperati fino all’odio (...)”.

Con queste parole Claudio Magris, intellettuale e scrittore trie-stino, descrive l’anima del romanzo di Tomizza, il cui protagoni-sta Francesco, istriano di Materada, dopo i trattati di pace del1954 che assegnano definitivamente la zona B dell’Istria allaJugoslavia, decide di abbandonare il suo paese, pur essendoconsentito scegliere se restare o passare a Trieste, e di strappa-re, così, le radici che lo legano da generazioni ad una terraaspra e fertile, ora negata e contesa. In questo lacerante scena-rio storico, le vicende di una famiglia e di una proprietà frodatae inottenibile raccontano il destino di un popolo diviso, allaricerca di una nuova identità, tra rancori, odi e sanguinose ven-dette.

Da noi non ci sono grandi tenute in un unico posto; i contadinihanno un campo qua e un altro là, cinto da siepi o da piante,che raramente misura più di un ettaro o al massimo due. E pas-sando tra quegli appezzamenti tenuti a viti, a frumento, a gra-noturco o a foraggio tra le macchie di ulivi – per dritto e pertraverso – mi veniva ora di ricordare le facce di tutti coloro, vivio morti, che qua e là s’incontravano con la falce, l’aratro, o labotte nei giorni di vendemmia, anche nei lontani tempi diprima della guerra, quando qui c’era miseria ma ognuno erasicuro di poter morire nel proprio letto.(...) Giurizzani è giusto a metà strada tra Buje e Umago,e ognicasa ha la luce elettrica. (...)L’intricata questione di Trieste, bene o male, era stata oramairisolta. Pochi mesi prima, nel novembre del ’54, i ministri ave-vano firmato il Memorandum di Londra, secondo il quale Tiesteritornava all’Italia, la zona B passava definitivamente allaJugoslavia. La gente, alla quale non accomodava di restare,poteva prendersi le sue poche robe e andarsene in Italia: sipoteva optare liberamente. E i nostri capi si erano abbastanzaacquetati, e a quei ragazzi ora era concesso di cantare libera-mente una barcarola mentre negli anni passati guai a cantarein italiano, ciò voleva dire già far propaganda (...).« (...) Ma è duro lasciare la terra sulla quale ti sono venuti icapelli bianchi, e la tua casa, e la tua gente. Tu lasceresti lacampagna, Franz, di cui conosci ogni solco, ogni erba, ognizolla? »(...) Già si sentiva di certi che avevano fatto la prigionia, o dialtri ai quali era morto il figlio in guerra, o di terzi cui avevanoprelevato il padre di notte, che rispolveravano i documenti,chiamavano testimoni e andavano a consultarsi dall’avvocato odal console italiano a Capodistria.(...) Milio (...) ora mi diceva «Certo che a voialtri, con tutta la

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terra e le bestie che avete, non conviene partire. Lo sai, Franzmio, che pur trovando l’America mai più potresti farti di nuovoventi o trenta ettari di questa terra che è la migliore di tuttaMaterada?»(Materada, III)

L’intero borgo rurale di Materada era stato assegnato in feudo nelXVII secolo alla famiglia Tomizza, probabilmente originariadell’Albania e trasferitasi in loco a seguito delle invasioni turche.La chiesa di Materada, dedicata alla Madonna della Neve, è stataricostruita nel 1664 dall’allora gastaldo (amministratore) GiorgioTomice, come si desume dall’iscrizione incisa sull’architrave dellaporta d’ingresso. Accanto all’edificio sacro si trova il cimitero conla tomba di famiglia dei Tomizza e dello stesso Fulvio.

(...) Le cittadine dell’Istria si stavano svuotando giorno per gior-no, specie quelle della costa, e per noi era ormai diventata un’a-bitudine vedere in quei giorni i soliti camion traballanti di poveremasserizie lasciare Umago e Buje e dirigersi alla volta di Trieste.Ma chi avrebbe mai pensato che alla fine si sarebbe mossa anchela campagna?(...) In breve tempo presentare la domanda, portare i dinari aCapodistria oppure comperarsi vestiti o mobili nuovi, caricare leproprie robe sul camion, aiutarsi gli uni con gli altri, salutarequando l’autista aveva già messo in moto, era diventata unamoda: la nuova moda di Giurizzani e degli altri paesi che nonavevano mai visto campanile più lontano di quello di Buje, néstrada più larga, né monte più alto.(Materada, XI)

« (...) Allora domattina sono a Umago.»Aggiogammo i manzi e tornammo verso casa.Era già l’avemaria e le campane suonavano. A quelle di Buje ave-vano risposto subito quelle di Verteneglio e di Carsette, poi lanostra di Materada poi quelle di Petrovia e San Lorenzo.(...) Una baracca – pensavo -, due pasti al giorno, il latte al mat-tino, un po’ di sussidio ogni mese. Le scuole per mia figlia. Vigimandarlo magari a qualche corso per falegname, meccanico, omuratore. E poi partire per l’Australia, l’America, o il Canada.Diventare gente che parla un’altra lingua e mangia e vive diffe-rente. Oppure spendere un po’ di soldi e girare l’Italia e trovar dalavorare qualche terra. Di nuovo coloni; e magari fosse. Lì ci sonobuone terre, anche più vicino, nel Friuli. Ti dà granoturco ancheper il diavolo. Ma io, prima o poi, ci pianterei un po’ di viti. Checosa è una campagna senza viti? Potersi portar dietro gli incalmidi malvasia. (...) No, per le viti bisogna rispettarci. A ognuno il

suo, e noi le sappiamo lavorare, e tenere la vigna come unbiliardo; così per la bella figura. Il nipote di Marco Zupan hascritto che i contadini istriani sono molto ricercati nelle cam-pagne italiane.(Materada, XIII)

Chi si reca in visita a Portogruaro, la cittadina veneta percorsada doppie file di portici che sembrano voler dar fretta all’incan-tato Lémene che pure la attraversa, si sentirà consigliare dispingersi ai vicini centri storici di Concordia e Summaga.Il primo borgo era sede di una delle due diocesi del patriarcatodi Aquileia e abbracciava l’intera zona del pordenonese, al diqua del fiume Tagliamento verso Venezia. Summaga invece con-tinua a essere nota per la sua antica abbazia benedettina, unadelle quattro di tutto il Friuli. I monaci della regola di sanBenedetto la abbandonarono verso la metà delQuattrocento,quando il territorio passò sotto il dominio veneto.Da allora la badia, destinata a decadere nel suo complessoarchitettonico fino a mantenere in vita soltanto la chiesa roma-nica, luogo di culto anche per il mezzo migliaio di contadinidella villa, veniva assegnata in commenda a un ecclesiasticoper lo più della media nobiltà veneziana, il quale riceveva solouna fetta delle ricche rendite, spremeva i mezzadri per ingros-sarla e recava il titolo di abate commendatario.(L’abate Roys e il fatto innominabile, parte prima, I).

E’ questo l’esordio della vicenda narrata, ricostruitaspulciando tra antichi documenti; si svolge alla fine delCinquecento nel territorio concordiese, ai confini con il Friuli,popolato di bassa spiritualità, fattucchiere, trafficanti di animee di corpi.Il protagonista, Alessandro Roys, è un mercante venezianosenza scrupoli, di origine spagnola, che, con l’appoggio dellealte sfere ecclesiastiche romane, è riuscito ad ottenere la guidadella decaduta ma ancora ricca abbazia benedettina diSummaga e l’obbligatoria ordinazione sacerdotale richiesta perassumere l’incarico. La rivalità tra l’abate Roys e il vescovo diConcordia Pietro Querini, che pretende di far rientrare l’abba-zia sotto la sua giurisdizione, fa da sfondo agli intrighi del Royse alle accuse nei confronti della giovane popolana Cecilia deiFacchi, che costituiscono l’asse portante del racconto. Laragazza, dopo aver convissuto per anni a Summaga con l’abateed esserne stata l’amante, lo aveva improvvisamente abbando-nato per seguire un altro uomo e questo aveva scatenato lagelosia del Roys, spingendolo ad accusarla presso il vescovo dipratiche sacrileghe, al limite della stregoneria. Cecilia sarebbe

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stata iniziata alle pratiche incriminate da una fattucchiera diMorsano e, a sua volta, le avrebbe insegnate ad un’altra giovane.La denuncia del Roys avvia il procedimento giudiziario da partedel tribunale vescovile che convoca una ad una le persone coin-volte o informate dei fatti, direttamente o indirettamente. Ma ilvescovo Querini utilizza le deposizioni dei testimoni, in particola-re quella di Cecilia che si discolpa e attribuisce il fatto innomina-bile ad un’invenzione dell’abate geloso, per provare il discreditodi cui è coperto il Roys, la sua mancanza di credibilità e la suaindegnità. L’inchiesta, iniziata dall’Inquisizione veneta attraversoil tribunale vescovile, dopo oltre un anno di immobilismo, passaall’Inquisizione romana e lì si ferma definitivamente.L’abate ne uscirà decisamente insoddisfatto nei suoi desideri divendetta ma, nonostante i moniti e le ingiunzioni, del vescovoprima e del visitatore apostolico poi, in relazione al modo di con-durre e governare l’abbazia, necessariamente intrecciato agli epi-sodi oggetto della vicenda processuale, egli riuscirà astutamentea mantenere fino alla fine privilegi e diritti senza impegnareminimamente né le sue energie né le sue sostanze.

(...) gli alberi, il muro di recinzione e soprattutto la facciata dellachiesa romanica con la sua alta torre quadrangolare, si stagliava-no netti sull’acciottolato del cortile avvolto da una luce bianca-stra. Alla sua destra il profilo dell’antico convento si allungava in unaprogressione rovinosa. Contrariamente al fratello che per la suaabitazione aveva rinforzato il primo edificio ancora sano del com-plesso abbaziale, lui si era eretto una casa nuova, per staccarsidalla fila di porte e finestre sempre meno stabili nel muro incri-

nato e che mostravano imposte cineree,marcite, o distrutte dal tempo. (...)

Dall’altra parte dello stagno, sullimitare della strada ciottolosa chepartendo da Badia escludeva Villa esi attaccava a quella grossa perVenezia e Portogruaro, sorgevanodue case di una certa pretesa in cuiabitavano il capitano Raffaele ealtri preposti al governo dell’abba-

zia. (...) S’inoltrò pertanto nellastrada per Venezia, benpresto fu sul ponte delRèghena il cui corsodenso e scuro parevaricoperto da uno stratodi morchia.

(...) gli stessi squamosi affreschi benedettini, che chiazzavanole pareti della chiesa, riservavano spazio a qualche scena di vitarustica, come quella del raccoglitore di uova col grembiule bencolmo e le galline che lo attorniavano sospese sullo stesso pianocome fiori di campo. (...) Là dirimpetto all’abside interamenteriempita di immagini di santi e con a destra la Madonna fattadipingere dal fratello Filippo che pure vi figurava con lo stem-ma di famiglia, si sentiva sicuro, persino protetto.(L’abate Roys e il fatto innominabile, parte seconda, II)

La nostra abbazia fuuna delle tante metedi un altro vescovo,quello di Parenzo,designato dalVaticano per le visi-te apostoliche dellazona ispirate ai det-tami del Concilio diTrento. MonsignorCesare Nores giunsea Summaga il 3 novembre 1584, a quattro anni dall’ultima mis-sione del Querini, e un anno e mezzo dopo che l’abate avevaredatto e affidato a un notaio il proprio testamento. (...) Ciòche nell’insieme e nel particolare si offrì allo sguardo del vesco-vo di Parenzo era del più desolante squallore. Egli scuoteva ilcapo in silenzio, riservandosi di dare sfogo al proprio animonella relazione della visita che avrebbe vergata l’indomani nelvescovado di Portogruaro. (...) giunse alla constatazione che inquasi cinquantasei anni di governo la famiglia Roys avevalasciato andare la ricca e insigne abbazia in completa rovina.(...) Dopo quindici giorni un notaio di Portogruaro, che si eraprestato al presule quale cancelliere, tornò a Summaga con duetestimoni per consegnare a monsignor Roys una lettera nellaquale il Visitatore elencava tutti i lavori di restauro e di rico-struzione da apportare principalmente negli edifici e nellestanze del convento, della chiesa e nel cimitero. L’abate eratenuto ad impegnarsi sborsando entro due giorni la somma disettecento ducati e, a partire dal mese di agosto, duecentoscudi annui fino alla copertura delle spese per le opere ritenuteindispensabili. In caso d’inadempienza si sarebbe proceduto alsequestro dei beni mobili dell’abbazia e sarebbe stato ordinatoai contadini di versare gli affitti e il raccolto alla camera apo-stolica di Portogruaro.(L’abate Roys e il fatto innominabile, ultima parte, III)

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Concordia Sagittaria ha dato i natali nel 1637 al pittore AntonioCarneo, personalità di spicco nella pittura veneto–friulana delSeicento, artista sensibile, estroso e spontaneo, estremamentericettivo nei confronti di sollecitazioni artistiche spesso diverse econtrastanti che ha saputo far proprie personalizzandole.

Della sua formazione artistica negli anni giovanili si samolto poco ed è probabile che Antonio, figlio di GiacomoCargnello, campanaro di Concordia, e di Sabbada, abbia seguitoun percorso formativo da autodidatta. Nella terra d’origine hamodo di conoscere le opere del Pordenone e dell’Amalteo, diPalma il Giovane e del Padovanino. I suoi primi lavori rivelanol’influsso del tardo-manierismo unito alla drammaticità e allaconcretezza dei personaggi che si ispirano direttamente alla suagente, al tessuto sociale e umano, carico delle esperienze delquotidiano, dal quale l’artista proviene. Manca ancora la cono-scenza degli elementi di rinnovamento già presenti nella pitturaveneziana.

Dal 1658 al 1667 Antonio Carneo dimora a Cordovadoinsieme alla moglie Betta e a sei figli, tra i quali Giacomo che, siapure meno dotato artisticamente del padre, ne seguirà le ormeintraprendendo la carriera di pittore. A Cordovado entra in con-tatto con le più importanti famiglie del luogo. Nel Santuario dellaMadonna di Cordovado realizza gli otto ovali con Profeti e Sibilleche decorano il soffitto.

Nell’agosto del 1667 si trasferisce a Udine dove comin-cia a lavorare per i conti Caiselli e stipula un contratto di locazio-ne per una casa di loro proprietà; nel contratto è definito “pittoredi Portogruaro”, ad indicare una sua probabile permanenza nellacittadina prima o dopo il periodo cordovadese. A causa delle ini-ziali difficoltà economiche, il pittore paga parte del canone d’af-

fitto in tele di sua mano ed è addirittura costretto a chiedere aiconti-mecenati un sostegno in beni materiali per la sopravvi-venza quotidiana. Udine diventa la terra d’elezione, il luogo incui trova l’atmosfera congeniale per il suo percorso artisticofatto di ricerca personale agevolata da una straordinaria capa-cità di assimilazione, nello scontro fra tradizione e innovazionepittorica. Dopo il 1670 entra in contatto diretto con la pitturaveneziana di allora, subendo l’influenza, nei temi e nei colori,soprattutto della pittura “popolaresca” del Veronese; ma ilCarneo, a conferma del suo eclettismo, è influenzato anche dapittori accomunati dalla matrice del Rubens. I contrasti diombre e luci, i colori angoscia-ti, le tematiche violente,le rappresentazionicrude hanno facilepresa nell’animosensibile dell’ar-tista. A Udinerimane almenovent’anni e siassicura presti-giose commis-sioni lavorando,oltre che per iconti Caiselli,per iDomenicanidella chiesa diS. Pietro marti-re, per i padriBarnabiti, pernumerosechiese cittadi-ne, per ilPubblicoPalazzo. Leopere dellamaturità rive-lano un’inter-pretazione del tutto personale e stravolgente dei modi espressi-vi dei cosiddetti “tenebrosi”, utilizzando tavolozze cangianti ecromie luminose di matrice veneta anche in scene orripilantiche avrebbero richiesto ben diverse gamme coloristiche.

Nel 1689 Carneo realizza la pala con la Madonna, S.Zenone e S. Maria Maddalena per l’altar maggiore della chiesaparrocchiale di Fossalta di Portogruaro. Fino alla fine di quel-

ANTONIO CARNEOANTONIO CARNEO

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Antonio Carneo

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l’anno è presente a Udine, poi si trasferisce a Portogruaro doveabita con un suo giovane aiutante udinese e dove muore nel 1692.

Alla mano di Antonio Carneo sono state assegnate oltrecento opere, la maggior parte delle quali non è firmata; altre, dicui parlano le fonti, sono andate perdute. E’ difficile collocare entro una precisa sequenza cronologica lasua vasta e diversificata produzione, sia pure individuando unalinea di tendenza che dalle prime opere di carattere neocinque-centesco passa attraverso una fase più propriamente naturalisti-ca, giunge all’adesione alla corrente dei tenebrosi, per poi arriva-re ad esperienze più specificatamente barocche. Le tematiche sono varie: si va dalle opere a carattere religiosoalle scene mitologiche, ai temi allegorici, alle scene popolareschee agresti, senza dimenticare la ritrattistica efficace e tagliente e iquadri celebrativi. Elevato è il numero di opere che rientrano nel filone drammaticoe, ancora più nello specifico, che hanno per tema la morte, untema caratterizzante la pittura barocca ma capace anche di rive-lare un aspetto inquieto e tragico della personalità dell’artista.

Giuseppe Tartini nacque a Pirano l’8 aprile 1692 da GiovanniAntonio, di origine fiorentina, e Caterina Zangrandi, di Pirano.Il padre del famoso violinista e compositore divenne cittadinodi Pirano molto probabilmente tra la fine del 1678 e gli inizidel 1679 e nel 1692 venne nominato pubblico scrivano dei Salidella Repubblica di Venezia; grazie all’importante nomina ealle altre redditizie attività economiche di cui si occupava,come fondi saliferi, peschiere, campi e oliveti, raggiunse unaposizione sociale di prestigio. Il 25 maggio 1699 Giovanni Antonio, incluso tra i cittadini piùin vista della città, venne nominato «sindico, tutore e procura-tore» del convento di S. Francesco d’Assisi di Pirano.L’infanzia di Giuseppe, che viene ricordato come un bambinomolto vivace, si divise tra i bei giorni trascorsi nella villa pater-na di Strugnano e l’educazione religiosa ricevuta sia in casa sianella Scuola dei Filippini, non lontano dal convento francesca-no piranese.I genitori lo destinarono a intraprendere la carriera ecclesia-stica, e la sua formazione giovanile si svolse presso il Collegiodei Padri delle Scuole Pie di Capodistria, dove sembra abbiaappreso i primi rudimenti di violino. Nel 1708 si trasferì aPadova dove, sempre per volere del padre e indossando già l’a-bito talare, frequentò i corsi di legge all’Università. La sua atti-vità preferita a quel tempo, però, doveva essere la scherma, ela sua abilità in questo campo è testimoniata in diverse fonticome ineguagliabile.

..Nel 1710, poco dopo la morte del padre, Tartini si ribellò aldestino ecclesiastico impostogli dalla famiglia e si unì in matri-

GIUSEPPE TARTINIGIUSEPPE TARTINIGiuseppe Tartini

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monio con una cittadina padovana, Elisabetta Premazore: lenozze furono celebrate il 29 luglio 1710 nella chiesa delCarmine. Questa iniziativa un po’ ardita scatenò la contrarietàdella madre e del vescovo di Padova, il cardinale GiorgioCornaro: per sfuggire alle continue pressioni e minacce, Tartinifu costretto a lasciare la città. Trovò rifugio ad Assisi, nel con-vento di San Francesco dove un suo parente, padre G. B. Torre,lo accolse e assecondò il suo interesse per lo studio del violino. A questo periodo si può ricondurre l’incontro del giovane con ilpadre âernohorsk_, il quale lo introdusse allo studio della com-posizione. Dovendo provvedere al proprio sostentamento in seguito allamorte di padre Torre, iniziò a suonare nelle orchestre di alcuniteatri; nel 1714, ad esempio, prestava servizio nell’orchestradell’Opera di Ancona.

Calmatesi le pressioni delle autorità padovane, Tartini tornònel Veneto e, riunitosi con la moglie, visse per qualche tempotra Padova e Venezia. Al 1716 si può far risalire il suo incontro con Veracini a

Venezia, durante la festa in onore delPrincipe Elettore di Sassonia. Fu forse in

questa occasione che il violinista decise diriprendere l’attività concertistica e di

perfezionare il proprio virtuosismo. Trail 1717 e il 1718 si trovava di nuovonelle Marche: figura infatticome primo violino nell’orche-stra del Teatro di Fano.Nel 1721 la Presidenza

della

Veneranda Arca del Santo si rivolse a Girolamo AscanioGiustiniani, figlio di Gerolamo, procuratore e protettoredella basilica di S. Antonio, nonché allievo di musica diTartini, affinché intercedesse presso il violinista e lo convin-cesse a prestare il suo servizio a Padova. Fu così che Tartini, accettato l’invito, si recò nella cittàpatavina ed entrò nella Cappella musicale del Santo rive-stendo il ruolo di «primo violino e capo di concerto». Grazie all’elasticità del suo vincolo con la cappella antonia-na, negli anni immediatamente successivi alla sua assunzio-ne Tartini viaggiò in Italia e all’estero: nel 1723 fu invitato aPraga in occasione dei festeggiamenti per l’incoronazione diCarlo VI a Imperatore di Boemia, e in questa città rimaseper ben tre anni. La sua presenza come musicista è inoltre testimoniata aParma (1728), Bologna (1730), Camerino (1735), Ferrara(1739) e, soprattutto, Venezia. Il busto del compositore conservato a Casa Tartini, Pirano

Nel 1726, il malessere causato dal clima praghese lo costrin-se a tornare in Italia; si stabilì quindi nuovamente a Padova,dove riprese la sua attività presso la basilica antoniana edove diede vita (in un periodo compreso tra il 1727 e il1728) alla famosa scuola di violino (detta «Scuola delleNazioni»), alla quale affluivano studenti provenienti da tuttaEuropa. È in questi anni che escono le prime edizioni a stampa dellesue composizioni, come ad esempio i 12 concerti op.1 pub-blicati da Le Cène in due volumi. L’interesse di Tartini per le speculazioni teoriche, iniziatonel periodo in cui Callegari era maestro di Cappella al Santoe sostenuto tra gli altri da Vallotti, Caratelli, dall’astronomoGianrinaldo Carli e da Padre Martini (con il quale intratten-ne un rapporto epistolare lungo quarant’anni), fu costanteper tutta la sua vita, al punto che egli si allontanò progressi-vamente dalla pratica compositiva e da quella esecutiva perdedicarsi assiduamente all’elaborazione dei suoi trattati.

Tartini fu ufficialmente in servizio presso la CappellaAntoniana fino al 1765, anno in cui gli successe l’allievoGiulio Meneghini. Svolse l’attività di insegnante almeno finoal 1767 e continuò fino alla fine dei suoi giorni a perseguirelo scopo di perfezionare la sua teoria sul sistema armonico.

A causa di una cancrena alla gamba che l’aveva reso ormaiinfermo, si spense a Padova il 26 febbraio 1770, due anni

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dopo la morte della moglie, e fu sepolto accanto alla consortenella chiesa di Santa Caterina della stessa città.

Nonostante Giuseppe Tartini abbia trascorso solo pochi annidella sua vita a Pirano, la città, molto orgogliosa di essere lapatria natale di una così interessante figura, nel 1896 fece eri-gere un monumento a lui dedicato opera dello scultore AntonioDal Zotto. La piazza della città è intitolata a Giuseppe Tartini e sullastessa piazza si affaccia anche «Casa Tartini» che custodiscealcuni importanti documenti manoscritti e a stampa e alcunisignificativi oggetti appartenuti al compositore.

Pier Paolo Pasolini nasce a Bologna nel 1922 da CarloPasolini, tenente di fanteria di vecchia famiglia ravennate, dicui aveva dissipato il patrimonio, e da Susanna Colussi, inse-gnante, di Casarsa della Delizia (PN). La carriera militare diCarlo Pasolini obbliga la famiglia a frequenti spostamenti: daBologna a Parma, da Conegliano a Belluno dove, nel 1925,nasce il fratello Guido Alberto. E’ certo che padre e madreesercitano opposte e decisive influenze su Pier Paolo; con il

PIER PAOLO PASOLINIPIER PAOLO PASOLINI

PIER PAOLO PASOLINI

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padre, temuto e tirannico, cresceranno progressiva-mente incomprensioni e dissensi; la mitissimamadre, vera figura dominante, è costante oggettod’amore e ad essa dedicherà nella maturità alcunidei suoi versi più sconvolgenti. Da bambino trascor-re le vacanze in Friuli, nel paese d’origine dellamadre, Casarsa della Delizia. Le poesie infantilisono scritte a Sacile, dove Pasolini frequenta le ele-mentari. Seguono altri trasferimenti: Cremona,Reggio Emilia, dove frequenta il ginnasio, e infineBologna, dove studia al liceo “Galvani” e poiall’Università.

Nel 1942, mentre il padre è prigioniero in Kenya, lafamiglia si trasferisce in via definitiva a Casarsa. In quell’anno,Pasolini raccoglie in un volume e pubblica a sue spese le Poesie aCasarsa, liriche in dialetto friulano nelle quali, ispirandosi aipoeti greci, idealizza la vita rustica. L’anno seguente è soldato aLivorno; dopo l’armistizio dell’8 settembre fugge e ritorna aCasarsa.

Nel 1945 il fratello Guido, partigiano cattolico dellaBrigata Osoppo, appena diciannovenne viene trucidato dai parti-giani comunisti nel massacro delle malghe di Porzûs. Sconvoltodagli eventi, il poeta trova rifugio nella propria passione artistica;nelle sue opere ritornano più volte dolore, memoria, trauma elutto per la morte del fratello e il “morto giovanetto” diventa unodei temi maggiori e più dolenti.

Alla fine della guerra, il ritorno del padre a Casarsaacuisce irrimediabilmente il loro già conflittuale rapporto.Pasolini si laurea in lettere a Bologna con una tesi sul Pascoli e,tra il 1945 e il ’49, insegna nelle scuole medie di Valvasone, unpaese vicino a Casarsa. Nel febbraio 1945 fonda, con alcuni giova-ni universitari friulani, l’associazione letteraria che prende ilnome di Academiuta de Lenga Furlana, un centro studi filologicisulla lingua e la cultura friulane, i cui quadernetti, intitolatiStroligut de ca’ da l’aga, raccolgono saggi e poesie, molti dei qualiin dialetto, di Pasolini e degli altri membri dell’Academiuta. Iprincipali modelli dell’estetismo pasoliniano sono, per quantoriguarda la lirica, Leopardi, Garcia Lorca, Rimbaud, Ungaretti ePascoli, per la loro purezza solenne, mentre nella pittura Giotto,Masaccio, Mantegna, Caravaggio e i Manieristi quali Pontormo eRosso Fiorentino, per la loro drammaticità incentrata sullo studiodel corpo umano. Dal punto di vista ideologico invece, Pasolini fariferimento soprattutto alla psicoanalisi di Freud, al Vangelo diCristo e al Capitale di Marx, per il loro razionalismo umanistico.Nelle sue linee maestre, l’impegno civile e letterario di Pasolini si

forma a Casarsa, negli anni giovanili vissuti in un mondo conta-dino amato e studiato con vero amore, anni incancellabili chesentì più tardi mitici, arcaici, religiosi, innocenti. Altrettantoincancellabile è la partenza – la fuga, come il poeta la definisce– da quei luoghi. Il fatto che, alla vigilia delle elezioni del 1948,un ragazzo abbia confessato al parroco di Casarsa di aver avutorapporti con Pasolini, rende in breve la vita impossibile al gio-vane insegnante.

Perseguitato dalla Chiesa Cattolica per la sua omoses-sualità, accusato dalla magistratura italiana di oltraggio alpudore, atti osceni e corruzione di minori, espulso dal PartitoComunista Italiano, nel 1949 si trasferisce con la madre a Romadove, inizialmente, vive anni difficilissimi da disoccupato dispe-rato. In seguito riesce a trovare un impiego come insegnante aCiampino e poi a lavorare a qualche sceneggiatura cinemato-grafica. Nel decennio successivo, pubblicherà due discussiromanzi sperimentali, Ragazzi di vita e Una vita violenta, in cuil’osservazione del mondo del sottoproletariato delle borgateromane è strettamente legata al suo sentire il mondo contadi-no. Nella capitale, inoltre, attraversa diverse esperienze giorna-listiche, sempre orientate all’impegno civile e ideologico.

Nella poesia pasoliniana il contrasto tra purezza epeccato si rivela uno degli elementi costanti, ma negli anniSessanta egli cerca di superare la tendenza simbolista e, pren-dendo spunto dalla poetica dantesca e dal pensiero che AntonioGramsci aveva esposto nei Quaderni dal carcere prima di esse-re ucciso dai fascisti, indirizza il proprio interesse verso lo spe-rimentalismo e il plurilinguismo, con l’intento di rispecchiare inuovi problemi dell’Italia negli anni della Guerra Fredda e del-l’apparente “miracolo economico”. Del cosiddetto “boom”, infat-ti, un poeta “maledetto” come Pasolini denuncia l’abusivismoedilizio, le speculazioni finanziarie, l’inquinamento industriale,la corruzione politica dilagante, l’omologazione culturale realiz-zata sfruttando la rigidità degradante e falsamente moralisticadel sistema scolastico e la mercificata banalità televisiva, insostanza tutte le contraddizioni del mondo borghese capitalisti-co. Su questa scia, negli anni Cinquanta e Sessanta pubblicaraccolte di poesie civilmente impegnate, come Le ceneri diGramsci, L’usignolo della Chiesa Cattolica, La religione del miotempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizar, e scri-ve opere teatrali piuttosto anticonvenzionali comeAffabulazione e Orgia.

Dal 1960 in poi, Pasolini acquista fama internazionaledirigendo film che suscitano scandalo per il provocatorio acco-stamento di Sacro (la religione, la religiosità, la fede, il mistero

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Portogruaro:

El cuòr su l’aquaIl cuore sull’acqua

È Domenica! Io sono soloXe Domenega! Mi son so’o

in una barcheta sul Lemenein una barchetta sul Lemene.

El Burin el xe de veudo.Il Borino pare di velluto.

Tuti i fa festa e mi so’oTutti fanno festa e io solo

meso nuo sul cuòr del Lemenemezzo nudo nel cuore del Lemene

scaldo i me strassi al sol de veudo.scaldo i miei stracci al sole di velluto.

No go un scheo, son paron so’oNon ho un soldo, sono padrone solo

de me cavei de oro sul Lemenedei miei capelli di oro sul Lemene

pien de pissigoe de veudo.pieno di pesciolini di velluto.

El xe pien de pecai el me cuòr so’o.È pieno di peccati il mio cuore solo.

(in La meglio gioventù, 1954, raccolta ripubblicata con il titoloLa nuova gioventù, 1975)

Tema unico del romanzo Amado mio, pubblicatopostumo nel 1982 insieme a Atti impuri, è l’eros omosessuale,incarnato dalla passione del giovane Desiderio per l’adolescen-te Iasìs e ambientato nel Friuli in cui Pasolini è vissuto.L’ultimo capitolo del breve romanzo è tutto dedicato alla narra-zione della gita in bicicletta a Caorle, alla quale prendono partei protagonisti insieme ad altri due amici.

(...) si accordarono per andare a Caorle con Gilberto e Mario.(...)Caorle si trova presso le foci del Livenza, nel punto più a set-tentrione dell’arco che l’Adriatico disegna da Trieste a Venezia.Il suo retroterra è un fascia di una ventina di chilometri, palu-dosa e deserta, bonificata da pochi anni; ed è tutta intersecatada canali, argini, dighe; i campi sono immensi, e il granoturco èverde come l’anguria.Dopo Portogruaro si comincia a respirare l’odore della Bassa,che si apre sconfinata al di là di Concordia. Gil, Desi, Iasìs e

della vita e della morte, la divinità) e di Profano (i corpi, la sen-sualità, la fame, il sesso, l’allegria), come Accattone, MammaRoma, La ricotta, Il Vangelo secondo Matteo, Uccellacci e uccelli-ni, Edipo re, Il Decameron, Il fiore delle Mille e una notte, Salò ole 120 giornate di Sodoma. La scelta del mezzo cinematograficonon è casuale perchè il regista si rende conto che attraverso il“cinema di poesia” può rivolgersi ad un pubblico immenso, sfer-rando così il proprio attacco alla cultura borghese, alla poesiaconsolatoria, al linguaggio standardizzato imposto dalla tecnolo-gia e alla nuova dittatura delle sciocchezze televisive. Il cinema èper Pasolini “lingua scritta della realtà”, linguaggio immediato,oggettivo ed è l’unico mezzo che fa capire la realtà perché le dàsignificato, così come la Morte fa nei confronti della Vita: bloc-candone lo svolgimento la rende comprensibile.

Sulle colonne del quotidiano “Il Corriere della Sera”Pasolini pubblica una serie di articoli che saranno raccolti e pub-blicati dopo la sua morte nel saggio Scritti corsari; in essi espri-me il proprio marxismo “eretico”, cioè non ortodosso, intriso dicristianesimo evangelico e svincolato dalle imposizioni delPartito Comunista Italiano. Contro l’omologazione della società dimassa, propone il rifiuto dell’arte borghese, falsa, classista, ipo-crita e paternalistica e afferma, invece, la necessità di studiare ilmistero sacro della Morte, della Natura, del Corpo, intesi comefonti dell’arte popolare, prodotta dal popolo negli interessi delpopolo; contro la volgarità del consumismo, egli intende guidareil popolo alla riscoperta di una religiosità primitiva e autentica.

Poco prima di morire, il poeta riscrive, con feroce eamara ritrattazione, le liriche giovanili in friulano pubblicate nel1954 nella raccolta La meglio gioventù alla quale cambia polemi-camente il titolo in La nuova gioventù, sostenendo che ormaianche i giovani sono cambiati, le poesie sono inutili, tutto ilmondo è inquinato e mercificato: l’unico rimedio all’alienazionedell’uomo-massa consiste nella diversità, nella lotta leopardianacontro i falsi miti, contro l’omologazione e il perbenismo borghe-se. Proprio nel momento in cui la massificazione spersonalizza gliintellettuali, Pasolini emerge come figura “nuova” e incarna l’ideadi un intellettuale “corsaro” nel territorio nemico che deve para-dossalmente usare l’incultura dei massmedia, sfruttando la lorostessa cassa di risonanza.

All’alba del 2 novembre 1975, in circostanze misteriose,Pier Paolo Pasolini viene assassinato sul litorale di Ostia, neipressi di Roma.

Tra le opere di Pasolini in cui il poeta sperimenta il plurilingui-smo, oltre alle produzioni in friulano e in dialetto romanesco, sitrova anche questa lirica scritta nel dialetto veneto di

El cuòr su l’aqua

È Domenica! Io sono solo

in una barcheta sul Lemene

El Burin el xe de veudo.

Tuti i fa festa e mi so’o

meso nuo sul cuòr del Lemene

scaldo i me strassi al sol de veudo.

No go un scheo, son paron so’o

de me cavei de oro sul Lemene

pien de pissigoe de veudo.

El xe pien de pecai el me cuòr so’o.

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Il cuore sull’acqua

Xe Domenega! Mi son so’o

in una barchetta sul Lemene.

Il Borino pare di velluto.

Tutti fanno festa e io solo

mezzo nudo nel cuore del Lemene

scaldo i miei stracci al sole di velluto.

Non ho un soldo, sono padrone solo

dei miei capelli di oro sul Lemene

pieno di pesciolini di velluto.

È pieno di peccati il mio cuore solo.

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Mario entrarono in Concordia verso le sei del mattino; il paeseera ancora ovattato dal sonno e dalla nebbia. Sull’olio verde delLemene rimbalzavano i riflessi dei fanali ancora accesi, scompa-rendo e riapparendo sotto gli scafi dei barconi incatramati,addossati all’argine. Lungo il Lemene le vecchie case diConcordia nella scialbatura della luce ridivenivano grigie, bian-che e rosa, coi loro pergoli veneti, e, nel piazzale, due o tre gio-stre avvolte in enormi tendoni riverberavano dall’azzurro dei pin-nacoli le porporine e i morelli dei loro ornati, mentre qualchemuso di cavallino o qualche catena occhieggiavano dietro i ten-doni penzolanti.Poco fuori dal paese si vide una barca che scivolava sul fango delLemene verdissimo come se fosse piena di spiriti: grigia e arcuatasfiorava appena l’acqua, e il barcaiolo con un paio di calzoni bian-chi come la calce la sospingeva colpendo l’acqua con un remosolo. Sull’argine oche e anitre, appena destate, sbattevano le alibianchissime, starnazzando giù per la scarpata.Le strade della Bassa erano dei rettilinei infiniti, che si incrocia-vano come in una carta geografica; e quelli che in Friuli eranosemplici casolari, qui erano grandi fattorie, rosse e bianche, sìche sembrava di essere entrati in un altro mondo, nel Far West onell’Alaska. Le anguriare si stendevano, verdi, a perdita d’occhio.Su quelle strade di pietra, senza polvere, si correva divinamente,in bicicletta – ci si sentiva leggeri. Iasìs correva come un matto,tirandosi dietro gli altri un po’ affannati. A sei o sette chilometridal mare ci fu un guado con una zattera, attraverso un canaleche univa il Lemene a una Valle.«Dov’è il mare?» chiedeva ogni momento Iasìs.«Laggiù, dietro la palude,» gli indicava Desi dalla zattera che unragazzo sospingeva lentamente aggrappandosi a un filo di ferroteso da una riva all’altra. Dietro alla Valle, verde e greve, c’era unazzurro, un azzurro di sogno. Passarono come freccie attraversoSan Gaetano, e ben presto videro il campanile di Caorle – ma nonancora il mare.Le case di Caorle compaiono d’improvviso, dipinte violentementedi blu, di nero, di rosso, di verde, di lilla... In mezzo ad esse scor-re un canale zeppo di barche dalle vele afflosciate e rattoppate.Giungendo dalla campagna arida e sporca, appena attraversato ilcanale, si entra subito nella piazza del mercato. Così Desi e glialtri si internarono quasi miracolosamente tra le baracche e ilchiasso fin nel cuore delle calli di Caorle, odorose di pesce, tragruppi di ragazze dagli orecchini e dagli occhi di perla, che cuci-vano le reti alle soglie delle case; le porte e le finestrelle eranoaperte, e passando per la strada si intravedevano dei piccoliinterni stupendi. Mobili del settecento, fini e fragili, merletti,vetrine; anche le cucine più povere erano piene di questa grazia

rustica e squisita.Giunsero infine ai piedi della diga, dall’altra parte del paese,salirono di corsa i gradini e s’imbatterono col mare.(...) Scesero subito verso la spiaggia, che ai piedi della diga, si spinge-va in direzione di Jesolo e della lontana Venezia verso Ponente, stret-ta, soffocata dalle boschine di acacie – immensi campi minati – finoa un piccolo promontorio, dietro al quale doveva trovarsi la foce dellaLivenza e la Valle.(…) Andarono, passeggiando, fin presso a quel promontorio che ave-vano visto dalla diga; e quando tornarono indietro era ormai mezzo-giorno. (...)Dopopranzo ritrovarono i tre ragazzetti di Caorle seduti sullabanchina, coi piedi nella schiuma. La spiaggia si era ripopolatae straripava di gente.«Andiamo a mangiare l’anguria,» esclamò Gil: e tutti e sette,fendendo la folla ammattita, oltrepassarono i capanni – saliro-no sull’argine giallo e sporco – e ridiscesero verso il paese conle sue villette novecento e le sue pensioni color pisello, coi suoiorti secchi e i panni stesi ad asciugare. Presero la stradicciolaverso Santa Margherita, dietro i boschetti di acacie (che dall’al-tra parte giungevano fin quasi al mare) seminati da cartelli chepuntavano al cielo le scritte: «Pericolo di morte», «Zona mina-ta», sbiadite dal sole massiccio. Ma poco dopo la stradicciola sitramutava in sentiero costeggiante la nuova strada in costruzio-ne verso le foci del Livenza. Naturalmente quella strada incostruzione era deserta: a sinistra la zona minata, a destra unasterminata anguriara. Lì c’era la baracchetta delle angurie, condue rozze panche e un tavolino pieno di coltelli.«Compriamo due o tre angurie intere e andiamo a mangiarlealle foci della Livenza,» propose Desi: e così fecero. Luciano eArmando portavano tra le braccia le due grosse angurie, fre-sche di verde, e si misero in marcia per il viottolo sull’arginedella strada nuova, tra i salti e le grida dei ragazzetti.Rifacevano il viaggio della mattina, ma questa volta giunseroproprio al Porto Santa Margherita: quattro o cinque catapec-chie di pescatori lungo la riva della Livenza, che, profonda eaccesa come lo smeraldo, sfociava nel mare azzurro chiaro.«Andiamo in barca?» chiese Mario.«Già, ma chi ce la dà…» osservò Desi, guardandosi intorno: siasulle onde verdi della Livenza che in secco, sulla spiaggia, sivedevano solo delle barche di pescatori nere di catrame.(…)«Tentiamo,» gridò Gil e spiccò la corsa verso una casetta dipescatori. Dalla cucina dal pavimento rosso, venne fuori ai lororichiami un’intera tribù: c’erano vecchi, donne, adolescenti. Gile Desi faticarono molto per spiegarsi, ma infine un giovane

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pescatore capì e sorridendo li condusse alla sua barca:«Prendetela,» disse, «ma non state fuori tanto!»(…)Andarono fuori finché la terra fu lontana, e si vide verso destratutta Caorle, col vecchio campanile rotondo, e i capanni arancio-ne, e il porto deserto; verso sinistra invece si stendeva il litoraleselvaggio, disabitato, senza colore. E in mezzo la foce verdissimadella Livenza. Andarono verso Occidente, remando a lungo etenendosi al largo. Ogni tanto si tuffavano, nell’acqua d’oro, infondo a cui si scorgeva il tappeto di sabbia cosparso di stelle e digranchi, con l’ombra della barca.Dopo una mezz’ora videro sulla spiaggia un’altra foce: ma cosìregolare che sembrava più di un canale che d’un corso d’acqua.«Cos’è?» chiese Desi. «È la Valle,» rispose Armando.«Andiamoci!»Spinsero la barca verso quel canale, e, lasciatala alla foce, insecco, si internarono verso la Valle, sulla riva destra del canale. Illuogo era deserto. Interminabili distese di canne, ole e fontanai,si spingevano a perdita d’occhio, solcate dalle lame azzurre deicanali.Qualche gabbiano volava stridendo, dal mare o verso il mare, e lecanne, rossicce, viola e gialle, si muovevano appena alla brezza.(…)(Amado mio, capitolo IV)Ernest Miller Hemingway nasce a Oak Park, Illinois, il 21 luglio

1899, in una famiglia agiata di religione protestante. Il padre

Clarence Edmonds Hemingway, medico, è persona di moltepliciinteressi e attività; da lui Ernest erediterà la passione per lacaccia e la pesca. La madre, Grace Hall, ha studiato da contral-to ma ha dovuto abbandonare il palcoscenico a causa di distur-bi alla vista.Negli anni della high school, Ernest collabora ai giornali scola-stici segnalandosi per il suo stile satirico e, una volta diploma-to nel 1917, viene assunto come cronista dal Kansas City Star.Nel frattempo, gli Stati Uniti sono entrati nella prima guerramondiale e il ragazzo cerca di arruolarsi volontario. Vieneriformato, ma l’anno successivo riesce comunque a partire perl’Europa come autista di ambulanze della Croce Rossa. Viene

ERNEST HEMINGWAYERNEST HEMINGWAY

ERNEST HEMINGWAY

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assegnato al fronte italia-no e, nel luglio 1918, rima-ne ferito a una gamba aFossalta di Piave. Dopo tremesi di ospedale a Milano,si arruola nell’esercito ita-liano e combatte finoall’armistizio.Rientrato in America altermine delle ostilità, ini-zia a scrivere racconti,suscitando la disapprova-

zione della madre. È in questo periodo che comincia a bere, percombattere l’insonnia. Nel 1920 si trasferisce a Toronto presso unamico del padre e inizia a collaborare col Toronto Star.Successivamente si trasferisce a Chicago e nel settembre 1921sposa Elizabeth Hadley Richardson. Verso la fine dell’anno, mari-to e moglie partono per l’Europa e si stabiliscono a Parigi, doveErnest riprende la collaborazione col Toronto Star.Nel 1923 esce il suo primo libro, Three Stories and Two Poems.Dopo un soggiorno canadese di alcuni mesi, Ernest e la moglie(che nel frattempo hanno avuto un figlio, John Hadley Nicanor)tornano a Parigi. Nel 1926 esce Fiesta. L’anno dopo Hemingwaydivorzia dalla Richardson e sposa Pauline Pfeiffer.Nel 1928 inizia un lungo soggiorno in Florida. L’anno seguentepubblica Addio alle armi, nel 1935 Verdi colline d’Africa. Nel 1936scoppia la guerra di Spagna e Hemingway si reca in quel paesecome corrispondente di guerra dell’agenzia giornalistica NorthAmerican Newspaper Alliance. Nel 1938 pubblica i Quarantanoveracconti.Prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, Hemingwaysi stabilisce a Cuba con Martha Gellhorn, che più tardi diverrà lasua terza moglie. A Cuba scrive Per chi suona la campana, cheesce nel 1940. Gli anni del secondo conflitto lo vedono corrispon-dente di guerra prima in Estremo Oriente e poi in Europa alseguito dell’esercito americano. Nel 1945 divorzia da MarthaGellhorn per sposare Mary Welsh, una giornalista americanaconosciuta a Londra.Finita la guerra, torna al suo lavoro di scrittore. Nel 1950 pubbli-ca Di là dal fiume e tra gli alberi, nel 1952 Il vecchio e il mare.Nel 1953 vince il Pulitzer, l’anno dopo il Nobel per la letteratura.È l’apice della sua carriera di scrittore, ma le sue condizioni psi-cofisiche si deteriorano progressivamente a causa dei sempre piùgravi problemi esistenziali e dell’abuso di alcool. Nel 1958 inter-rompe improvvisamente la stesura delle sue memorie (il postumo

Festa mobile) e la revisione di un romanzo iniziato nel 1946 (Ilgiardino dell’Eden) per fare il suo ultimo viaggio in Europa, alseguito dei toreri Ordoñez e Dominguin nelle arene spagnole.Da questa esperienza uscirà dapprima un lungo reportage suLife, poi un libro dal titolo Un’estate pericolosa.Alla fine del 1960 viene ricoverato in una clinica delMinnesota. I suoi disturbi nervosi sono sempre più evidenti e imedici non esitano a ricorrere all’elettrochoc. Nel gennaio del-l’anno seguente torna a Ketchum, nell’Idaho, dove si è stabilitoda quando si sono guastati i suoi rapporti con la nuova Cuba diFidel Castro. Il 2 luglio 1961, dopo un tentativo di suicidiosventato dalla moglie pochi mesi prima, Hemingway si sparacon uno dei suoi fucili da caccia.

Hemingway aveva conosciuto il paesaggio veneto-friulanoaffacciato sul mare nel 1918, durante la prima guerra mondia-le, mentre prestava servizio inizialmente nell’esercito america-no come autista d’ambulanze, poi, una volta guarito dal feri-

mento a Fossalta di Piave,come soldato dell’esercito

italiano fino alla fine delconflitto. Questi luoghi, inparticolare gli ambientilagunari fatti di canneti,lingue di terra, reticoli dicanali, specchi di acquetranquille popolate da moltespecie animali, alternati allepinete e ai coltivi, hanno ispi-rato allo scrittore pagine digrande narrativa. Tornatonel Veneto nell’imme-diato secondo dopo-guerra, soggiornandotra Cortina e Venezia,rivisita le località in

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cui era stato giovanissimo combattente e si dedica alla cacciaalle anatre nelle valli lagunari alla foce del Tagliamento e nellalaguna di Caorle, dove è spesso ospite del barone venezianoRaimondo Franchetti, proprietario dell’omonima Valle dove pos-sedeva una casa di caccia, e ideatore del centro agricolo azienda-le di S. Gaetano di Caorle, sorto dopo le opere di bonifica e nelquale ancora oggi si conservano la villa padronale e alcune carat-teristiche architetture rurali. E’ il romanzo Di là dal fiume e tra gli alberi (Across the River andinto the Tress), iniziato a Cortina nel 1949, continuato a Cuba e aParigi e revisionato a Venezia, a rivelare i paesaggi dai quali loscrittore è intensamente attratto e i luoghi ai quali lo legano fortiricordi. E’ la storia del cinquantenne colonnello americanoRichard Cantwell, ferito in gioventù nello stesso luogo dove erastato colpito l’autore, che, carico di stanchezza, si sente ormaivicino alla morte. Ma in questa attesa silenziosa dell’insidia inagguato, Cantwell si innamora di una diciannovenne, Renata, chefinisce per diventare una sorta di confessore (o di psicanalista) elo conduce ad affrontare la vita più che ad affrontare la morte.Simbolismi e simbologie ricorrenti rimandano continuamenteambienti, situazioni, luoghi del romanzo al vissuto di Hemingway.

(...) Spuntò l’alba prima che giungessero alla botte di doghe diquercia immersa nel fondo della laguna. Era circondata da unbordo di terra in pendenza nel quale erano stati piantati falasco eerba, e il cacciatore vi si calò dentro con cautela mentre i filid’erba gelata gli si spezzavano sotto i piedi. (...) Il cacciatore,che indossava stivaloni alti fino alle reni e una vecchia giaccamilitare, con una toppa incomprensibile a tutti sulla manicasinistra, e con le tac-che leggermente piùchiare nei puntidove erano statetolte le stellettedai filetti, scesenella botte e ilbarcaiolo gliporse ifucili.

(...) Osservò il cielo rischiararsi oltre il lungo margine dellapalude e voltandosi nella botte sommersa guardò la lagunagelata e la palude e vide in lontananza le mon-tagne coperte di neve. (...) Mentre guardava lemontagne si sentì in faccia un soffio d’aria eallora capì che il vento sarebbe giunto di lì,levandosi col sole, e senza dubbio quando fos-sero state disturbate dal vento le anatre sareb-bero giunte a volo dal mare. (I)

(...) Aveva cinquant’anni ed era colonnello difanteria nell’esercito degli Stati Uniti e, primadi passare una visita medica fissata per il giorno prima di que-sta sua venuta a Venezia per andare a caccia, aveva preso unagran quantità di esanitrato di manitolo (...).«Signorsì» disse il chirurgo. «Sei in forma.»«Grazie» disse il colonnello. «Vuoi venire a caccia di anatrenelle paludi alla foce del Tagliamento? Una caccia magnifica.Appartiene a italiani molto simpatici che ho conosciuto aCortina.»«È lì che vanno a caccia di folaghe?»«No. Lì cacciano proprio anatre. Bravi ragazzi. Bella caccia.Proprio anatre. Germani reali, codoni, fischioni. Qualche ocaselvatica. Bello come a casa, quando eravamo ragazzi.» (II)

Al periodo in cui Hemingway faceva la spola tra il Tagliamentoe Venezia risale la stretta amicizia con Adriana Ivancich e con

suo fratello Gianfranco, al quale lo scrittore volle leg-gere le bozze di Di là dal fiume e tra gli alberi prima

della stampa, per avere suggerimenti e ragguagli utiliad ambientare le vicende in un Veneto credibile. Adriana e

Gianfranco appartenevano alla famiglia proprietaria di villaBiaggini-Ivancich, a S. Michele al Tagliamento, edificio pesan-temente danneggiato dall’ultima guerra mondiale, che nel

romanzo lo scrittore attribuisce all’opera delLonghena.

(...) Ieri era sceso in macchina da Trieste aVenezia per la vecchia strada che univa

Monfalcone e Latisana attraverso la pianura.Aveva un bravo autista e si era abbandonato

tranquillo sul sedile anteriore della macchina aguardare la regione che aveva conosciuto da ragazzo.

(...) Fecero una curva e attraversarono su un ponte provvi-sorio il Tagliamento. Era verde lungo le rive e qualcuno pesca-

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va sulla sponda lontana che precipitava ripida nell’acqua. Ilponte saltato in aria era in riparazione tra un frastuono di mar-telli, e a ottocento metri di distanza i resti degli edifici e annessidi ciò che ormai erano le macerie di una villa costruita in passatoda Longhena mostravano il punto nel quale i bombardieri mediavevano sganciato il loro carico. (...) Ormai avevano oltrepassatole macerie della villa e avevano infilato il rettilineo coi salici checrescevano lungo i fossi ancora cupi per l’inverno, e i campi pienidi gelsi. (III)

(...) Qualche settimana prima era passato da Fossalta e si eraspinto sulla strada avvallata per trovare il punto dov’era statoferito, sulla sponda del fiume. Era facile da trovare per via dellacurva del fiume, e nel punto dov’era stato il nido di mitragliatricipesanti il cratere era coperto d’erba liscia. Era stato usato comepascolo, da pecore o capre, fino a parere una depressione predi-sposta in un campo da golf. In quel tratto il fiume era lento e diun azzurro fangoso, con le canne lungo le sponde, e il colonnello,mentre non c’era nessuno a vederlo, si accoccolò a terra e guar-dando di là dal fiume dalla sponda dove non si poteva maimostrare la testa alla luce del sole, fece i suoi bisogni nel puntoesatto dove aveva stabilito, per triangolazione, di esser stato feri-to gravemente trent’anni prima. (...)Si alzò e si guardò attorno. Non c’era nessuno in vista e avevalasciato la macchina sulla strada avvallata davanti all’ultima casaricostruita di Fossalta, la più triste di tutte. (III)

Ora, in viaggio verso Venezia, rigidamente controllata e indiffe-rente al gran desiderio di arrivare del colonnello, la grossa Buicklasciò le ultime case di San Donà e risalì verso il ponte sul Piave.Attraversarono il ponte e giunsero sulla sponda italiana del fiumee il colonnello rivide la vecchia strada avvallata. Ora era liscia euniforme, come lungo tutto il fiume. Ma il colonnello rivide leantiche posizioni. E ora, sui due lati della strada dritta, piana,fiancheggiata da un canale, sulla quale procedevano in fretta, c’e-rano i salici dei due canali che avevano raccolto i morti. (...)«È una zona maledettamente piatta, per combatterci» disse l’au-tista. «Era in vostre mani quel fiume?»«Sì» disse il colonnello. «Lo tenevamo e lo abbiamo perduto e loabbiamo ripreso» «Non c’è un’altura a perdita d’occhio»«Era questo il guaio» disse il colonnello. «Si dovevano usare altu-re che non si vedevano neanche, tanto erano basse, e fossi e casee sponde di canali e siepi. Era come la Normandia, ma ancora piùpiatta. Credo che sia stato un po’ come combattere in Olanda.»(IV)Luigi Russolo nasce a Portogruaro il 1 maggio 1885 da Domenico

ed Elisabetta Michielon, quarto di cinque figli. Il padre è orga-nista del duomo di Portogruaro e direttore della ScholaCantorum di Latisana. Nel 1901, dopo aver ultimato gli studiginnasiali, raggiunge la famiglia, trasferitasi a Milano qualcheanno prima per dare la possibilità ai fratelli maggiori Giovannie Antonio di frequentare il Conservatorio Giuseppe Verdi, dovepoi si diplomeranno il primo in violino e organo, il secondo inpianoforte e organo. Dopo qualche breve approccio con la musica, Luigi opta per la

LUIGI RUSSOLOLUIGI RUSSOLO

LUIGI RUSSOLO

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pittura, alternandola al lavoro come apprendista restauratore.Nel 1909 esordisce nella mostra annuale del Bianco e

Nero alla Famiglia Artistica di Milano con un gruppo di acquefor-ti di sapore simbolista. In quella occasione conosce UmbertoBoccioni con il quale instaura una profonda amicizia, tanto che ilavori successivi ricalcano, in qualche modo, le tematiche tipichedella produzione grafica boccioniana, con una serie di incisionisul tema della madre e paesaggi di periferie industriali.

L'11 febbraio 1910 sottoscrive il Manifesto dei pittorifuturisti e l'11 aprile il Manifesto tecnico della pittura futurista.Da questo momento inizia la sua militanza attiva nel MovimentoFuturista, partecipando a tutte le serate futuriste e alle esposi-zioni organizzate in Italia e all'estero. Appartengono alla sua produzione pittorica di questo periodo:Autoritratto con teschi, 1909-1910; Profumo, 1910; Periferia-lavo-ro, 1910; Chioma, 1910, Lampi, 1910; La rivolta, 1911; La musica,1911; Ricordi di una notte, 1912; Maison + lumière + ciel, 1912-1913; Sintesi plastica dei movimenti di una donna, 1912; Soliditàdella nebbia, 1913; Volumi dinamici, 1913; Dinamismo di un'auto-mobile, 1912-1913, Autoritratto futurista, 1912-1913.

Nel 1911 partecipa, insieme a tutti i pittori firmatari delManifesto della pittura futurista, alla Prima Esposizione d’ArteLibera organizzata dalla Casa del Lavoro di Milano, mostra chesuscita violente reazioni da parte della stampa. L’anno successivo è Marinetti a curare i rapporti con la stampa,intervenendo con articoli di chiarimento sul pensiero futurista; èlo stesso Marinetti, con il quale Russolo ha un rapporto di stimareciproca, a difendere spesso e a spiegare al grande pubblico l’ar-tista portogruarese.

Nel marzo 1913, dopo la serata futurista al TeatroCostanzi, dove il maestro Francesco Balilla Pratella dirige Musicafuturista, Russolo gli dedica la lettera-manifesto L’arte dei rumo-ri, nella quale teorizza l'impiego del suono-rumore nel contestomusicale. A partire da questa data, cessa momentaneamente l’at-tività pittorica per dedicarsi alle sue ricerche musicali. Poco dopo realizza con l’amico Ugo Piatti una serie di intonaru-mori, spettacolari macchine sonore atte a creare e modificarenella loro intensità il suono-rumore, anticipando tutte quelle spe-rimentazioni sonore che sfoceranno, nel secondo dopoguerra,nella musica concreta di Schaeffer e in quella elettronica.Presenta al pubblico il primo di questi intonarumori, un ronzato-re, il 2 giugno 1913 nel corso di una serata futurista al TeatroStocchi di Modena. L’11 agosto ne presenta quindici ai corrispon-denti della stampa estera in casa Marinetti. La rivista Lacerba pubblica il 1° luglio l’articolo di Russolo Gliintonarumori futuristi e il 1° novembre l’articolo Conquista totale

dell’enarmonismo mediante gli intonarumori futuristi.L’11 gennaio 1914 Russolo brevetta a Milano gli into-

narumori. Il 1° marzo Lacerba pubblica il suo articolo Grafiaenarmonica per gli intonarumori futuristi e due fogli di partitu-ra di Risveglio di una città. Nell’aprile dello stesso anno dirigeal Teatro Dal Verme di Milano il Gran concerto futurista d’into-narumori. In programma tre «spirali di rumori»: Risveglio di una città, Si pranza sulla terrazza del Kursaal,Convegno d’areoplani e d’automobili. L’orchestra è composta da 18 intonarumori suddivisi in gorgo-gliatori, crepitatori, ululatori, rombatori, scoppiatori, sibilatori,ronzatori, stropicciatori e scrosciatori. Le reazioni del pubblico sono violentissime: fra gli spettatori ei futuristi scoppiano tafferugli, con feriti e contusi, tali dadover richiedere l’intervento della forza pubblica. Due giornidopo Russolo, all’uscita da un concerto al Conservatorio,schiaffeggia il critico musicale del quotidiano cattolico L’Italia,Cameroni, che aveva violentemente stroncato il concerto al DalVerme. Ne seguono una denuncia e un processo.Il 15 maggio 1914 il maestro Balilla Pratella finalmente rispon-

de alla lettera-manifesto di Russolo con un articolo su Lacerba,Gl’intonarumori futuristi nell’orchestra. Il 20 maggio Russoloripete il concerto degli intonarumori al Politeama di Genova enel giugno tiene dodici concerti al Coliseum di Londra, doveconosce Stravinsky. Iniziano in tutta Italia le manifestazioni interventiste e nelcorso di una di queste, il 16 settembre in Galleria a Milano,Russolo viene arrestato assieme a Boccioni, Marinetti, Mazza ePiatti e trattenuto nel carcere di San Vittore per cinque giorni. Lo scoppio della grande guerra interrompe i rapporti interna-zionali di Russolo il quale, in compagnia degli amici futuristi, siarruola volontario. È incorporato nel Battaglione VolontariCiclisti Lombardi e, dopo un breve periodo di addestramento aGallarate, viene inviato al fronte. Il 10 novembre, nominatotenente al merito, passa al 5° Battaglione Alpini del Brenta.

Nel 1916 esce per conto delle Edizioni Futuriste ilvolume di Russolo L’arte dei rumori, che diventa il più impor-tante testo teorico diretto al rinnovamento dell’arte della musi-ca. Nel dicembre di quell’anno l’artista viene ferito gravementealla testa durante un combattimento sul Grappa, a MalgaCamperona: trascorrerà diciotto mesi tra un ospedale militaree l’altro. Per il suo eroico comportamento sarà decorato conmedaglia d’argento al valor militare. La sua attività artistica subisce un drastico rallentamento, nonsolo per la ferita subita ma anche per la perdita di contatto conmolti suoi amici, in particolare con Boccioni al quale era molto

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legato. Ma il suo lavoro non viene meno. Nel 1919, nel corso dell’inaugurazione della «Grande

Esposizione Nazionale Futurista» alla Galleria Centrale nel palaz-zo Cova di Milano, dà un saggio di musica con intonarumori. Nel marzo 1920 partecipa ad una collettiva a Milano alla GalleriaArte, dove espone il Ritratto della Moglie. Nel giugno 1921 Russolo è a Parigi per tre concerti al Theatre desChamps Elysées: vengono eseguite musiche composte da NuccioFiorda e dallo stesso Russolo con 27 intonarumori inseriti in uncomplesso orchestrale diretto dal fratello Antonio il quale, purnon aderendo al Futurismo, ha sempre operato in quell'area cul-turale scrivendo molte partiture. Alla prima del concerto, in parte disturbato dalla gazzarra insce-nata da un gruppo di dadaisti capeggiati da Tzara, sono presentiStravinskij, Ravel entusiasta, Milhaud, Casella, Honegger, DeFalla Kahan, Claudel e Mondrian, il quale dedicherà agli intona-rumori un lungo articolo sulla rivista De Stijl. In questo periodo Russolo ottiene in Germania, Francia e Italia ilbrevetto per un nuovo strumento: il rumorarmonio.Nel corso del 1922 viene rappresentato al Teatro Verdi di Pisa, alTeatro Nazionale di Praga e al Lirico di Milano il dramma diMarinetti Il Tamburo di fuoco con scenografie di Prampolini,musiche di Balilla Pratella e commento degli intonarumori. A partire dal 1923 Russolo si dedica alla costruzione di una seriedi rumorarmoni, una sorta di armonium ove vengono raccolte lesonorità base degli intonarumori. Nel 1925 brevetta l'arco enarmonico. Con questo strumento tiene un concerto nella Sala degli affreschidella Società Umanitaria di Milano eseguendo musiche del fratel-lo Antonio e di Casavola.

Il 16 giugno 1926 sposa a Milano l’insegnante MariaZanovello. Per tutto l’anno tiene la rubrica musicale sul quotidia-no milanese La borsa e torna per un breve periodo alla pittura.Appartengono a questa fase i dipinti Autoritratto con teschi eImpressioni di un bombardamento. Da maggio a giugno 1927 partecipa con il rumorarmonio aglispettacoli della Pantomima futurista al Théâtre de la Madeleinedi Parigi nell'atto unico di Prampolini Santa Velocità. Alla fine di maggio tiene un concerto per rumorarmonio e arcoenarmonico al Centre international de la musique della Sorbonaeseguendo musiche di suo fratello Antonio e di Casavola. Ancoraa Parigi, nell’ottobre 1929 tiene concerti di accompagnamento afilm muti con il rumorarmonio allo Studio 28. Ha contatti con il regista Epstein, il produttore Grenieff e con laFox Movietone, per la collaborazione musicale a film di loro pro-

duzione. Il critico cinematografico Deslaw rammenta tre diquesti film: Futuristi a Parigi in cui Russolo era autore dellemusiche e protagonista assieme a Marinetti, La marche desmachines ancora con musiche di Russolo e Montparnasse incui figuravano Marinetti, Russolo e Prampolini, ma le ricerchedi queste pellicole risultano vane. Trasferitosi a Montrouge, unsobborgo di Parigi, conosce il cineasta Jean Painlevé e com-menta con il rumorarmonio alcuni suoi film di carattere scien-tifico. Il 28 dicembre 1929, in occasione dell’inaugurazione di unamostra di pittura futurista alla Galerie 23, tiene il suo ultimoconcerto pubblico per rumorarmonio e arco enarmonico pre-sentato da Edgar Varèse.

Nel settembre 1931 brevetta a Parigi il piano enarmo-nico. Presumibilmente nello stesso anno conosce l’italianoTorre e da questi viene iniziato allo studio delle scienze occul-te e delle tecniche yoga; nasce in lui la convinzione di possede-re poteri parapsicologici. Nel contempo abbandona completamente la sua attività musi-cale. Nel 1932 si trasferisce a Tarragona, in Spagna, e di làinvia alla rivista Dinamo futurista di Depero l’ultimo suo arti-colo di carattere musicale: L’enarmonismo.

Rientra definitivamente in Italia nel 1934 e si stabili-sce a Cerro di Laveno, sul lago Maggiore, dove inizia la stesura

di un volume di carattere filo-sofico, Al di là della materia,che verrà pubblicato nel 1938dall’editore Bocca. Nel 1942 riprende la praticadella pittura con uno stile dalui stesso definito «classico-moderno» e tiene mostre per-sonali a Como e Milano; laproduzione pittorica di questoperiodo è estremamenteabbondante: oltre cento operein cinque anni, contro le soletredici del periodo futurista.

Il 4 febbraio 1947 muorea seguito di un’embolia eviene sepolto nel cimitero diLaveno. Lascia incompiuto ilvolume Io e l’anima.

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Giacomo Ca’ Zorzi nasce a Noventa di Piave il 31 marzo 1898,ultimo di cinque figli di una famiglia dell’agiata nobiltà terriera. I Ca’ Zorzi vivevano in una settecentesca villa veneta di stile pal-ladiano che fungeva anche da sede della loro azienda agricola.Giacomo frequenta la scuola nel suo paese natale e a San Donà,per poi iscriversi al Liceo “Foscarini” di Venezia, facendosi notareben presto per il suo carattere ribelle. Successivamente si trasferisce a Udine, dove, in qualità di ester-no, frequenta la quinta ginnasiale e due anni di liceo. Nel frat-tempo (1915), l’Italia entra in guerra contro l’Austria-Ungheria eGiacomo, a 17 anni, scappa da Udine per arruolarsi volontario.Viene rispedito a casa, ma il ragazzo non demorde e, compiuti 18anni, si ripresenta al distretto militare. Stavolta riesce ad arruolarsi ed entra nel corpo degli Arditi,reparti di volontari, perlopiù nazionalisti, mandati al fronte con

lo scopo di ridare vitalità e slancio a una truppa ormai stancadella guerra.

Nel 1919 Noventa, avendo concluso il servizio milita-re, raggiunge la sua famiglia a Venezia, dove i Ca’ Zorzi si eranotrasferiti dopo l’invasione austriaca del 1917. In questo periodo scrive le sue prime poesie, frutto dell’espe-rienza bellica, ma i componimenti non vengono pubblicati, inquanto Giacomo deve ancora ottenere la licenza liceale. Si trasferisce, quindi, a Torino per frequentare il liceo“Cavour”. Ma l’esperienza di guerra e cinque anni di distanzadalle scuole non hanno cambiato il suo carattere, tanto che,dopo aver preso a male parole il professore di filosofia, vienebocciato. Passa allora ad un altro liceo torinese, il “MassimoD’Azeglio”, dove consegue il diploma nel 1920.Successivamente si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenzadell’Università di Torino; in quegli anni fa continuamente laspola fra Torino e Venezia e nel 1923 si laurea con una tesi daltitolo Analisi sulla forma migliore di governo, in cui critica ilfascismo.Le prime poesie di Noventa, scritte con lo pseudonimo diEmilio Sarpi, non suscitano interesse negli ambienti intellet-tuali torinesi e il poeta torna, così, a Venezia per poi trasferirsia Roma nel 1924 con l’intento di svolgere il praticantato in unostudio legale. Anche l’esperienza romana si rivela, però, sterile: Noventa noncerca di inserirsi nei circoli culturali e letterari della capitale,forse rifiutando di aderire al circolo degli intellettuali fascisti,e non mette nessun entusiasmo nella professione legale. Nel 1925 torna a Venezia, compie un viaggio a Trieste per cono-scere Umberto Saba e nel 1926 si trasferisce nuovamente aTorino dove comincia a frequentare i principali letterati dellacittà, come Carlo Levi e Mario Soldati. Ma il suo atteggiamento critico nei confronti del fascismo locostringe a fuggire a Parigi, dove frequenta il filosofo JacquesMaritain. Dopo qualche tempo, Noventa e Mario Soldati (anchelui fuggito dall’Italia) lasciano Parigi e si trasferiscono inSavoia, dove iniziano a scrivere Il Castogallo, poema eroicomi-co ispirato ad una delusione amorosa e in seguito ampiamenterivisto per lasciare molto più spazio alla riflessione intellettua-le sull’ambiente torinese.Dopo altro girovagare per la Francia, nel 1929 Noventa eSoldati rientrano in Italia. A Torino, Giacomo riesce finalmentea pubblicare – col suo vero nome – alcune sue poesie. In questo periodo, durante un nuovo soggiorno a Parigi,Bruxelles, Grenoble e in Savoia, comincia a comporre anche indialetto ma senza scrivere le composizioni. Nel 1930 si reca in

GIACOMO CA’ZORZIGIACOMO CA’ZORZIGIACOMO CA’ZORZI

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Germania; ad Heidelberg, dove frequenta l’Università, conosceClara Fuchs, che diventerà la compagna del suo soggiorno tede-sco e alla quale dedicherà anni dopo la poesia Gh’è nei to grandi.Insieme a Clara si reca a Marburg, a Vienna e infine a Weimar, inquegli anni capitale della Germania e luogo di sepoltura diGoethe, uno dei suoi poeti preferiti. Il successivo rientro in Italia avviene nel 1932, in occasione delmatrimonio della sorella; subito dopo parte per Barcellona etorna nell’ottobre dello stesso anno a Torino. Questo rientro viene però a coincidere con una visita ufficiale diMussolini nel capoluogo piemontese. Ormai schedato come antifascista, Noventa viene imprigionato etenuto in carcere per tutta la durata della visita. Rimane comunque a Torino, dove nell’aprile 1933 sposa l’ex com-pagna di Università Franca Reynaud, della quale era sempre statoinnamorato, ma senza riuscire ad ottenerne la mano prima deilunghi viaggi in Francia e in Germania. Subito dopo il matrimo-nio, marito e moglie partono per Parigi e da lì si trasferiscono aLondra; in riva al Tamigi, dove nasce il suo primo figlio, Noventadecide di scrivere le poesie dialettali che aveva composto qual-che anno prima, con l’intenzione di pubblicarle in Italia. In questa occasione, il poeta abbandona lo pseudonimo di EmilioSarpi («morto a Londra il 19 ottobre 1933», come ebbe a scriverelui stesso) e inizia a firmarsi, appunto, come Giacomo Noventa, apartire dalla prima poesia in dialetto intitolata Chi gavesse l’a-ventura. Con la “morte” di Emilio Sarpi si chiude un periodo dellacarriera di Noventa e si apre una nuova fase nel segno di una rag-giunta maturità artistica.Nel frattempo, si trasferisce con la famiglia a Losanna e per l’en-nesima volta a Parigi. Nel maggio 1934, in occasione di un ritorno a Torino nel corso delquale conosce Benedetto Croce, appaiono sulla rivista Solariaalcuni frammenti di Principi di una scienza nuova, l’opera a cuiNoventa stava lavorando in quel periodo. Il 1934 è anche l’anno di nascita della secondogenita Emilia.L’anno successivo, il poeta è di nuovo incarcerato come antifasci-sta e rilasciato dopo un mese per mancanza di prove. Dopo una breve visita ai familiari a Noventa di Piave, riparte perFirenze dove ritrova l’amico Mario Soldati che gli propone dilavorare ad una sua sceneggiatura cinematografica, in seguitomai utilizzata.Nel 1936 fonda a Firenze il mensile La riforma letteraria, cheuscirà per tre anni, pubblicando molti scritti teorici del fondato-re, ma sarà poi costretto a interrompere le pubblicazioni per con-trasti sulla linea editoriale.

Trasferitosi a Milano, cerca di rifondare la rivista, ma ormai ilregime fascista ha chiuso tutti gli spazi di dibattito intellettua-le. Nel 1938 nasce Antonio, terzo figlio di Giacomo e Franca; ilpoeta viene nuovamente arrestato l’11 novembre 1939 e stavol-ta condannato al confino a Noventa di Piave, anche se la sen-tenza è in seguito convertita nel divieto di risiedere in cittàsedi di Università.L’anno seguente l’Italia entra in guerra e Noventa riceve lachiamata alle armi. Viene destinato a Piombino con il grado di tenente e successi-vamente trasferito all’ospedale militare di Firenze. Anche seufficiale, viene costantemente sorvegliato in quanto antifasci-sta. Congedato nel 1941, vive fra Torino, Noventa di Piave,Courmayeur e Firenze fino all’armistizio, quando riesce fortu-nosamente a sfuggire all’arresto da parte dei tedeschi. Da qui alla liberazione vive sotto falso nome, grazie ancheall’aiuto prestatogli dal movimento antifascista e dai suoi amiciintellettuali, primo fra tutti Mario Soldati.Dopo il 25 aprile 1945, Noventa torna a Venezia dove ha unabreve esperienza politica nelle fila del rinato Partito LiberaleItaliano. Fonda in seguito una rivista, La gazzetta del Nord, incui pubblica le sue poesie e i suoi saggi. La rivista cessa le pub-blicazioni nel 1947, quando Noventa lascia per l’ultima voltaVenezia insieme alla famiglia per trasferirsi a Torino. Qui collabora con riviste letterarie come Mondo nuovo e siavvicina agli ambienti socialisti, collaborando anche con le rivi-ste Italia socialista e Il giornale dei socialisti. Alle elezioni del 1948 e del 1953 si candida nelle liste democra-tico-socialiste.Verso la metà degli anni Cinquanta, si trasferisce a Milano doveviene pubblicata l’edizione completa delle sue poesie e dei suoisaggi. Nel 1956 vince il Premio Viareggio per la poesia con la raccoltaVersi e Poesie. Verso la fine del decennio pubblica in due volu-mi, Nulla di nuovo e Gott mit Uns, tutti gli scritti raccolti daglianni ’20 fino a quel momento.Colpito da tumore al cervello, riesce a pubblicare pochi mesiprima della morte, avvenuta il 4 luglio 1960, una nuova edizio-ne aggiornata di Versi e Poesie.

I Comuni di Noventa di Piave e S. Stino di Livenza,con il patrocinio della Regione del Veneto e della Provincia diVenezia, dal 1994 hanno istituito un premio letterario nazionaleintitolato a Giacomo Noventa e Romano Pascutto, riservato apoesie di autori che si esprimono in dialetto.

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Un giorno o l’altro...Un giorno o l’altro ...

Un giorno o l’altro mi tornarò,Un giorno o l’altro io tornerò

No’ vùi tra zénte strània morir,Non voglio morire tra gente estranea

Un giorno o l’altro mi tornaròUn giorno o l’altro io tornerò

Nel me paese.Nel mio paese.

Dentro le pière che i gà inalzàDentro le pietre che hanno innalzato

Su le rovine, mi çercarò,Sulle rovine, io cercherò,

Dentro le pière che i gà inalzà,Dentro le pietre che hanno innalzato,

Le vecie case.Le vecchie case.

Sarò pai zoveni un forestier,Sarò per i giovani un forestiero,

Che varda dove che i altri passa,Che guarda dove gli altri passano,

Sarò pai zoveni un forestier,Sarò per i giovani un forestiero,

No’ lori a mi.Non loro per me.

Carghi dei sogni dei me vint’ani,Carichi dei sogni dei miei vent’anni,

Vedarò i burci partir ancora,Vedrò i burchi partire ancora,

Carghi dei sogni dei me vint’ani,Carichi dei sogni dei miei vent’anni,

Dal Piave al mar.Dal Piave al mare.

(...)(in Versi e poesie, 1960)Nel me paese...

Nel mio paese...(Programmi poetici)

Nel me paese ghe xé una casaNel mio paese c’è una casa

Putèl filosofo là gò vissùo

Bambino filosofo là ho vissutoLà me son pianto e divertìo

Là ho pianto e mi sono divertitoEh, sì, anca alora!

Eh, sì, anche allora!

Come un artista che se rispettiCome un artista che si rispetti

Appena toso la gò lassadaAppena ragazzo l’ho lasciata

Dio ga vossùdo che quella casaDio ha voluto che quella casa

Fusse distrutta.Fosse distrutta.

Nel me paese ghe xé ‘na femenaNel mio paese c’è una donna

Inamorada de mi e del benInnamorata di me e del bene

Come un filosofo la gò lassadaCome un filosofo l’ho lasciata

Cara, marçir.Cara, marcire.

Dio ga vossùdo che quella femenaDio ha voluto che quella donna

Dopo morisse.Dopo morisse.

‘Na casa e un’animaUna casa e un’anima

Mi gò distruttoIo ho distrutto

Cossa me resta da fabricar?Cosa mi resta da costruire?

Vecio filosofo continuo el zogoVecchio filosofo continuo il gioco

‘Na casa e un’animaUna casa e un’anima

Gò da sognar.Ho da sognare.

(in Versi e poesie, 1986)

Romano Pascutto nasce a S. Stino di Livenza nel 1909 da una

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numerosa famiglia di artigiani, sarti e calzolai, poveri come i loroclienti contadini e operai. Allo scoppio della prima guerra mon-diale, il padre e tre fratelli partono per il fronte; dopo la disfattadi Caporetto la famiglia, con tredici tra bambini e ragazzi, è pro-fuga a Firenze, da dove tornerà nella vecchia casa di S. Stinodopo due anni di dura esistenza.

Il paese era stato immediata retrovia delle truppeaustriache attestate sul Piave e la guerra aveva segnato profonda-mente le masse popolari, ponendo le basi delle lotte operaie del1919-’20, cui segue un profondo cambiamento delle condizioni disecolare soggezione dei lavoratori. A S. Stino, come in altri comu-ni della zona, queste lotte si concludono con la vittoria delle listesocialiste i cui rappresentanti entrano ai vertici dell’amministra-zione comunale. I Pascutto non appoggiano il movimento sociali-sta; anzi, il padre è attirato dalla propaganda dannunziana efascista ed il figlio Romano lo segue nelle manifestazioni. Intanto,le ristrettezze economiche costringono la famiglia a trasferirsi aPordenone, dove il padre aveva trovato il posto di prima cornettanella banda cittadina, con la promessa di un lavoro. Romano fre-quenta l’Istituto Tecnico e nel nuovo ambiente, caratterizzato darobuste tradizioni operaie e socialiste, da forti movimenti controla guerra e da una tenace opposizione al fascismo, incontra nuovicompagni di letture e discussioni, tra i quali il pittore ArmandoPizzinato. In quel clima matura la sua scelta antifascista cheviene a coincidere con il delitto Matteotti del 1924 ed apre unanuova fase della sua vita. Nel giro di pochi mesi Romano restitui-sce la tessera del partito fascista, passa all’azione propagandisti-ca diretta contro il regime, viene arrestato e incarcerato.

Finiti gli studi, resta senza fissa occupazione sino alla

chiamata alle armi e dopo due anni di servizio militare, al suorientro non trova altra prospettiva che raggiungere il fratelloSante in Libia, dove riesce a trovare impiego presso un’impor-tante compagnia di navigazione a Tripoli. Vi rimane per dodicianni consecutivi, con una breve interruzione per il matrimoniocon Rina, che porterà con sè. I suoi primi vent’anni di vita por-tano già le profonde radici di quello che scriverà in seguito:Viver l’è ‘na fadiga granda (...). Fatica come sofferenza subita,ma anche come lotta per un vivere migliore che non si esauri-sce tutta nella lotta di classe fatta propria dal poeta; fatica

45ROMANO PASCUTTOROMANO PASCUTTOROMANO PASCUTTO

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come condizione perenne dell’umana esistenza.A Tripoli il clima è diverso da quello di Roma. Le autori-

tà di polizia si limitavano a controllare i movimenti di Pascutto ead intimargli di stare in casa durante le visite dei gerarchi e deimonarchi; e lui manifestava il suo antifascismo con la “disubbi-dienza”, leggendo libri proibiti, ascoltando radio Londra e discu-tendo di politica in circoli ristretti. L’esperienza libica sarà di fon-damentale ispirazione per il poemetto Storia de Nane, il cui pro-tagonista, come l’autore, è costretto ad emigrare in Africa percercare quella terra che a S. Stino aveva bonificato per i padroninella palude delle Sette Sorelle e alla fine è travolto dalla guerrafascista.

Verso la fine del 1942 Pascutto ritorna a S. Stino e rista-bilisce i contatti con gli antifascisti locali; insieme tentano diorganizzare dapprima i moti spontanei che accompagnano lacaduta del regime e poi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1493,gli aiuti ai soldati sbandati in fuga, l’assistenza ai deportati e lacopertura dei prigionieri alleati, nascondendoli e avviandoli suc-cessivamente ai loro comandi. Nell’autunno del 1943 si costitui-sce a S. Stino il primo nucleo di resistenza e nella primavera del-l’anno successivo è funzionante il Comitato di LiberazioneNazionale, in cui Romano Pascutto è incaricato del coordinamen-to con le forze politiche, oltre che con le formazioni partigiane eil CLN provinciale. A S. Stino, dove gli obiettivi della liberazionesi fondevano con quelli del riscatto sociale, il CLN promuove icomitati di difesa dei contadini, esperienza dalla quale nascerà,subito dopo la fine della guerra, la nuova organizzazione sindaca-le dei coltivatori. In quel periodo, è di Pascutto l’iniziativa distampare il giornale La verità, distribuito in 500 copie.

Nonostante il terribile rastrellamento dell’autunno-inverno 1944, agli inizi della primavera 1945 l’azione delle forma-zioni partigiane riprende con crescente incisività: anche Pascuttoviene arrestato e tradotto nelle carceri di Portogruaro dalla guar-dia nazionale repubblicana. Con la complicità di due giovani ade-renti alla repubblica sociale, riesce a ristabilire i contatti con ilCLN provinciale che tenta di organizzare l’evasione dei prigionie-ri. Ma, con l’avvicinarsi della liberazione, riesce ad evitare unadura condanna e rientra a S. Stino tra l’entusiasmo popolare, par-tecipando agli aspri combattimenti dei giorni successivi al 25aprile 1945 che portano alla liberazione del territorio sanstinesegià prima dell’arrivo degli alleati. Sul periodo 1943-’45 Pascuttoha scritto Uno dei mille paesi durante la lotta clandestina, docu-mento ricco di preziose informazioni per la ricerca storiografica el’analisi politica sulla lotta di liberazione nel Basso Livenza.

Dopo aver fatto parte della Giunta comunale espressadal CLN, nel 1946 aderisce alla sezione del Partito Comunista

Italiano di S. Stino e ne diventa segretario, mantenendo questoruolo per 35 anni. Nel 1947 viene chiamato dalla federazioneprovinciale del partito a dirigere la commissione stampa e pro-paganda. A Venezia, dove lavora come funzionario di una com-pagnia di navigazione, ritrova i vecchi compagni comeArmando Pizzinato; inizia la collaborazione con il mensileCalendario del Popolo (con liriche, racconti e scritti teatrali),nel 1950 pubblica l’atto unico Il colle delle voci, trasmessoanche alla radio nel 1952. Fa la spola tra S. Stino e Veneziamescolandosi con le decine di operai pendolari che quotidia-namente si spostano verso Marghera: l’esperienza di quelperiodo si ritrova nella poesia Operaio in treno, della raccoltaTempo de brumèsteghe. Dopo la giornata di lavoro, la sera rag-giunge in bicicletta i militanti del partito nelle borgate di cam-pagna, accompagnato da un piccolo nucleo di inseparabiliamici-collaboratori.

Nel 1953 esce Cammino e canto con loro, compren-dente una sezione di poesie dialettali; due anni dopo ottiene ilPremio Pozzale per l’atto unico Restituiteci i nostri figli e ilPremio Pescara per il dramma in due parti Con molta strage;nel 1955 vince la medaglia d’oro del Premio Giacinto Gallinaper la commedia in tre atti La vita no xe un sogno. Nel 1961ottiene il premio Guido Marta per la poesia dialettaledell’Ateneo Veneto con il poemetto Storia de Nane (edito poinel 1963) e nel 1966 riceve lo stesso premio per Tempo de bru-mèsteghe, raccolta di liriche edita nel ’71 con altri componi-menti. Una raccolta di liriche italiane, contenente anche alcu-ne prose liriche, dal titolo Nostro tempo contato esce nel 1972,evocativa di alcuni momenti salienti dell’infanzia; nello stessoanno esce il poemetto I muradori. Nel 1973, con Il pretoredelle baracche, Pascutto tenta un’appassionata osservazionedelle forme che governano gli interventi dei giudici popolari,registrando in maniera non neutrale la partecipazione alle fasidibattimentali e giudicanti di processi ordinari. Dedicato altrentennale della Resistenza è, invece, il poemetto L’angelo diferro (1975). Negli ultimi anni si dedica anche alla narrativacon La lodola mattiniera (1977), romanzo rievocativo – conrisvolti autobiografici – che mette in scena contadini e latifon-disti del Veneto dagli inizi agli anni Settanta del secolo XX.Segue Il viaggio (1979), che, pur essendo la continuazionedella Lodola mattiniera, è la registrazione in forma romanze-sca e sempre più autobiografica di una vecchiaia contrassegna-ta dalla malattia ma, al tempo stesso, da un’irriducibile vogliadi vivere. Nel 1981 appare la raccolta di poesie Foie de tilioche gli vale, l’anno dopo, il premio del Lions Club Duomo diMilano; nel 1982 è la volta di L’acqua, la piera, la tera, raccolta

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di carattere antologico con introduzione di Andrea Zanzotto.L’ispirazione fondamentale dell’opera poetica e della

lunga militanza politica di Romano Pascutto deriva dalla contrad-dizione fra l’armonia della natura, lo svolgersi delle stagioni, ilritmo lento e regolato delle opere degli uomini e il disordinesociale, lo sfruttamento, la miseria e la disperazione di un mondocontadino oppresso e umiliato, che lo scrittore fa diventare prota-gonista delle sue composizioni. Il dialetto gli serve per far parlarein modo più diretto ed efficace i suoi personaggi: Nane, la Gigia,il Birt, protagonisti degli omonimi poemetti, e molti altri anonimiattori delle sue opere.

Dopo essere stato ininterrottamente dal 1946 consiglie-re comunale e assessore dal 1946 al 1951, riveste la carica di sin-daco di S. Stino di Livenza dal 1975 al 1980. Solo la malattia locostringerà ad abbandonare l’attività politica e gli impegni pub-blici per raccogliersi nella tranquillità della sua casa, poco primadella morte avvenuta l’8 aprile 1982 all’ospedale civile di Treviso.

Postumi sono usciti i volumi: Riunione di cellula, Unodei mille paesi durante la lotta clandestina e nell’insurrezione, eL’acqua, la piera, la tera e altre poesie, che raccoglie tutte le poe-sie in dialetto sanstinese edite nell’arco di trent’anni.

Ultimo casonUltimo casone

Te te domanda, da zovene buloto,Ti domandi, da giovane moderno,

se là drento ghe stava le bestiese là dentro ci stavano le bestie

ligade co la cadena a la gripia.legate con la catena alla greppia.

Là drento, sot el covert de paia,Là dentro, sotto il tetto di paglia,

sora el pantan batù, co sofego,sopra il pavimento di fango, con afa,

fredo, pedoci, malaria e peagra,freddo, pidocchi, malaria e pellagra,

ghe stava insieme bestie e omenici stavano insieme bestie e uomini

e no so se çerti zorni gera meioe non so se in certi giorni era meglio

la gripia piena o la panera voda.la greppia piena o la madia vuota.

(in Tempo de brumèsteghe, 1971)

PalùPalude

Co’l sol alt e ‘na fassina su le spaeCol sole alto e una fascina sulle spalle

el gera un inferno, ma apena la seraera un inferno, ma appena la sera

la impignìa l’acqua de nuvoète rosariempiva l’acqua di nuvolette rosa

e un ventesèl guaìvo el fèa tremare un venticello lieve faceva tremare

le ninfe ancorade su le foie tonde,le ninfee ancorate sulle loro foglie tonde,

anche i barconi stracarghi de strameanche i barconi stracolmi di strame

i sbrissèa via squasi sensa fadigascivolavano via senza fatica

in mezo al canal che ‘l portèa a casa.sul canale che portava a casa.

I omeni i se scoltèa respirar forteGli uomini si ascoltavano respirare profondamente

e, no sintindose pi’ la pel sudada,e non sentendosi più la pelle sudata,

furse i pensèa de esser le ombreforse pensavano di essere le ombre

de quei che gera partidi da casadi quelli che erano partiti da casa

che no gera zorno, co la rosada.che non era giorno, con la rugiada.

(in L’acqua, la piera, la tera e altre poesie, 1990)

BiveronBeveraggio

Le boarie le bevei da la LivenzaLe vacche bevevano dalla Livenza

come i cristiani che no vèa pozz.come i cristiani che non avevano pozzo.

L’ultimo sol, de oro su l’acqua,L’ultimo sole, d’oro sull’acqua,

alt sora l’arzene come un muro,alto sopra l’argine come un muro,

el disegnèa le bestie cussì bone,disegnava le bestie così calme,

co oci grandi e zate che le sonèacon occhi grandi e zampe che suonavano

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el tamburo sul sabiòn de la riva.Il tamburo sul sabbione della riva.

Dopo el foraio mis-cià al stramèlDopo il foraggio mischiato allo strame

la gran bevuda dal fiume ciaro,la gran bevuta dal fiume chiaro,

specio de lengue rosa e sisìe nere;specchio di lingue rosa e rondini nere;

un fià de respiro dopo la fadigaun po’ di respiro dopo la fatica

in ‘n’altro mondo, squasi foresto:in un altro mondo, quasi estraneo:

i spetèa la not dove tut se fermèaaspettavano la notte in cui tutto si fermava

sot le stèe, co i cani sensa pasesotto le stelle, con i cani senza pace

e la luna picada a i piopi alti,e la luna appesa ai pioppi alti,

dispicadi i insogni da la tera.spiccati i sogni dalla terra.

(in L’acqua, la piera, la tera e altre poesie, 1990)

Qua sot la riva zancanaQua sotto la riva sinistra

de la Livenza dormionadel Livenza sonnacchioso

in ‘na vecia barachetain una vecchia baracca

fra spini e more de roafra spine e more di rovo

vive la Gigia de carità.Vive la Gigia di carità.

Nissun sa che ani l’ha,Nessuno sa quanti anni ha,

se mai l’è stada zovenese mai è stata giovane

co i cavei neri, i denticon i capelli neri, i denti

bianchi e un fazzoletònbianchi e un fazzoletto

in testa de coton stampàin testa di cotone stampato

come de verta tut un pra’.come in primavera tutto un prato.

(La Gigia, 1-11)

Originario della comunitàebraica di Ceneda (oggiVittorio Veneto), dove nascenel 1749, Lorenzo Da Pontesi chiamava in realtàEmanuele Conegliano. Nel1763 il padre Geremia, com-merciante di pellame rima-sto vedovo, decide di sposa-re una cattolica e si fa bat-tezzare dal vescovo diCeneda, monsignor Da Ponte, insieme ai suoi figli nati dal pre-cedente matrimonio. Emanuele, allora quattordicenne, vienedestinato al sacerdozio dal vescovo che, secondo l’uso, gliimpone il suo nome (Lorenzo Da Ponte) e si assume l’oneredei suoi studi nel seminario di Ceneda e del suo mantenimen-to.

Ordinato sacerdote nel 1773, Lorenzo non svolgeràmai funzioni sacerdotali vere e proprie, ma si rivelerà partico-larmente adatto al ruolo di educatore, tanto da ottenere unostraordinario successo come insegnante in diversi seminari delVeneto, tra cui Treviso e Portogruaro, dove viene nominato vicerettore nel periodo 1770-1773. Sembra che possedesse il donodi suscitare interesse nei suoi allievi, introducendoli in mate-rie quali la letteratura latina classica, la letteratura italiana ela lingua francese. Diventa un seguace dell’Illuminismo e diRousseau e lavora anche come istitutore privato presso nobilifamiglie di Venezia. In questa città, tuttavia, inizia una fase della sua vita – si

LORENZO DA PONTELORENZO DA PONTE

LORENZO DA PONTE

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direbbe quasi una doppia vita – dominata dalla passione per ledonne e per il gioco d’azzardo, si dimostra libertino e spregiudica-to, tanto che nel 1779 la Serenissima lo espelle per quindici annida tutti i suoi territori. Un paio d’anni prima era stato condannato ed espulso dall’inse-gnamento per aver proposto in un pubblico dibattito nel semina-rio di Treviso temi allora proibiti, come la questione se la civiltàbasata su Stato e Chiesa abbia reso più felice l’uomo o meno;negli atti della commissione che aveva istruito il caso giudiziariosi legge che negli scritti di Da Ponte “si ravvisa il raro talentod’un uomo che scrive bene ma che pensa male”.

Dopo l’espulsione dalla Repubblica di Venezia, si rifugiaa Gorizia, poi è a Dresda e, nel 1782, a Vienna, dove, grazie ancheall’interessamento del noto musicista Salieri, si inserisce subitocome librettista e diventa poeta ufficiale alla corte dell’imperato-re Giuseppe II. A Vienna, dove il teatro è istituzione importantissima e lo stessoimperatore ha competenze musicali non comuni, Da Ponte rima-ne dieci anni, il periodo per lui più fruttuoso. Scrive diversi libretti d’opera, allora quasi obbligatoriamente initaliano, per Salieri e testi per altri musicisti; conosce Mozart eper lui scrive Le nozze di Figaro nel 1786, il Don Giovanni nel1787 e Così fan tutte nel 1790. Come poeta è in grado di corrispondere alle esigenze del musici-sta in modo straordinario e quasi in uno stato di grazia: su questosi fonda l’irripetibile sodalizio con Mozart che porta a successiartistici straordinari.

Ma il periodo d’oro è destinato a finire. Dopo la morte diGiuseppe II, nel 1790, anche il clima viennese diventa sfavorevo-le: il nuovo sovrano Leopoldo II non ha per la musica le stesseattenzioni del suo predecessore, inoltre la guerra degli Asburgocontro i Turchi comporta forti limitazioni alle attività musicali eagli spettacoli a Vienna. Da Ponte viene destituito dall’incarico presso il teatro di corte,

abbandona Vienna per Trieste, dove si innamora di una giovaneinglese, Nancy Grahl, con la quale si trasferisce a Parigi e poi aLondra. Qui rimane tredici anni, scrivendo libretti per musicisti eriuscendo, dopo le iniziali difficoltà ad ottenere spazi e lavoro,ad insediarsi come poeta del King’s Theater. Nel 1798 compie un viaggio in Italia e rivede dopo oltre 25 annila sua Ceneda; ma il viaggio si prolunga eccessivamente e l’as-senza del poeta impedisce la programmazione della stagioneteatrale del King’s Theater di Londra, con effetti devastantisulla situazione finanziaria dell’impresario che licenzia DaPonte. Per il librettista inizia un periodo difficile, caratterizzato dafallimenti in attività di vario genere e anche da un arresto perdebiti.

Nel 1805, per sfuggire ai creditori, Da Ponte fugge inAmerica con l’adorata Nancy, dalla quale ha quattro figli,diventando nel frattempo tutt’altro uomo: da avventurierolibertino a marito fedelissimo e affettuoso padre di famiglia. Vive per lo più a New York e riprende un’instancabile attività diinsegnante, traduttore, editore e impresario teatrale. Tra il 1823 e il 1827 pubblica le sue Memorie, che avranno unastesura definitiva nel 1829-’30; pur rivelandosi interessanti,sono tuttavia un documento inattendibile, in quanto caratteriz-zate dal desiderio di accaparrarsi la stima e l’ammirazione dellettore, dando un’immagine imperturbabile di sé.Dopo il durissimo colpo rappresentato dalla morte di Nancy nel1831, l’anno successivo, all’età di 83 anni, trova la forza di pro-muovere con successo una sottoscrizione per la realizzazionedi una stagione teatrale italiana. Muore nel 1838 e una grandissima folla partecipa al suo fune-rale nella cattedrale cattolica di S. Patrizio a New York.Silvio Trentin nasce a S. Donà di Pave l’11 novembre 1885 da

una famiglia di ricchi proprietari terrieri.

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Frequenta il liceo-ginnasio “Canova” di Treviso, ospite al collegio“Nardari” diretto da Francesco Nardari, suo futuro suocero euomo di grande vivacità intellettuale. Per uno scherzo combinato in collegio, frutto del suo carattereesuberante, è costretto a cambiare istituto, completando l’ultimoanno degli studi liceali al “Foscarini” di Venezia. Tra le sue passioni c’erano la caricatura, che esercitava in modoarguto e spietato, e il volo. A poco più di 20 anni aveva già all'attivo parecchie ore trascorsesui primi fragili biplani apparsi sui cieli italiani.

Nel 1904 si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenzadell’Università di Pisa, con particolare predilezione per il dirittoamministrativo; si laurea nel 1908 e si avvia alla carriera accade-mica, ottenendo la libera docenza in diritto amministrativo escienza dell'amministrazione a Pisa a soli 24 anni. Nel 1911 inse-gna all’Università di Camerino, dove, l’anno dopo, viene promossoprofessore ordinario con assegnazione permanente della catte-dra.Interrompe la carriera accademica per partecipare alla primaguerra mondiale, da convinto interventista. Nel frattempo sposa,nel 1916, Giuseppina Nardari, figlia del proprietario e direttoredell’omonimo collegio di Treviso dove Silvio aveva vissuto daliceale; nel 1917 nasce il primogenito Giorgio. In guerra svolgefunzioni amministrative come volontario della Croce Rossa; nel-l’ultimo anno di conflitto viene trasferito al Gruppo SpecialeInformazioni della III Armata come addetto alle riprese di foto-grafia aerea, che gli avrebbero dato drammaticamente la misuradella strage provocata dall’evento bellico. Durante la terribile battaglia del Solstizio, nel giugno 1918, in cuila stessa S. Donà viene completamente rasa al suolo, Trentin ècostretto a sganciare bombe sulla propria casa, in precedenzarequisita dagli austriaci per farne la sede del loro comando eallora ancora in mano nemica. Già da qualche mese aveva parte-cipato alla più lunga ricognizione aerea della guerra: da bordo diun dirigibile era stata infatti fotografata l'intera linea del frontedal Trentino all'Adriatico. Questa missione gli procurerà il primo di una serie di encomi emedaglie. La guerra gli provoca, però, una lacerazione profonda elui stesso dichiara: «Ho fatto il mio dovere di combattente, maquale angoscia mi è rimasta nel cuore. Bisogna veramente com-piere ogni sforzo per evitare le guerre e ogni forma di brutale vio-lenza».

Terminati gli eventi bellici, si impegna in politica e nel1919 viene eletto deputato nelle liste della Democrazia Socialeche alla Camera confluisce nel gruppo parlamentare di AlleanzaDemocratica, guidato da Giovanni Amendola.

Nello stesso anno si trasferisce stabilmente a Venezia dovenasce la secondogenita Franca. Nel 1921 non viene rieletto etorna all’attività accademica a Venezia, esponendosi sempre piùnelle file dell’antifascismo. E’ il principale organizzatore dello storico convegno sulle operedi bonifica tenutosi a S. Donà dal 22 al 25 marzo 1922. Armato di progetti concreti Trentin, in un discorso poi ricorda-to a lungo da amici e avversari, dà una nuova interpretazione equindi nuova dimensione al problema della bonifica agraria. Ammirato dagli studenti per la scelta antifascista ma isolatodai suoi colleghi docenti, nel 1925 decide di dimettersi dagliincarichi universitari, di vendere tutte le sue proprietà e diemigrare in Francia con tutta la famiglia, alla quale nel 1926 siaggiunge il terzogenito Bruno. L’investimento in terreni agricolinei pressi di Auch, in Provenza, si rivela un errore e Trentinfinirà per sopravvivere aprendo una libreria a Tolosa, chediventa punto di riferimento per gli antifascisti italiani emigra-ti e che gli consente di seguire i suoi studi di diritto pubblico.Nel frattempo aderisce al movimento “Giustizia e Libertà” diCarlo Rosselli.

Nel 1940 scrive Stato nazione federalismo e, entratonella resistenza francese, fonda il movimento e il periodico“Libérer et Fédérer”, tesi a recuperare gli ideali socialisti, unitiad un progetto di federalismo europeo.

Caduto il fascismo in Italia, Trentin rientra a S. Donàdi Piave, aderisce al Partito d’Azione e si impegna a diffondereanche nella Resistenza italiana la sua piattaforma autonomisti-ca, associata allo sviluppo di una democrazia di base. Quando entra nel Comitato di Liberazione Nazionale veneto sibatte per l’unione dei tre partiti di sinistra, già propugnata nelperiodo in cui si trovava a Tolosa. Finisce presto nelle mani della polizia fascista che, il 19novembre 1943, lo arresta insieme al figlio minore Bruno. Ha documenti intestati ad un fantomatico professor Ferrari espiega la falsa identità con le esigenze legate al viaggio. Resta in carcere circa quindici giorni, poi viene rilasciato sottosorveglianza nonostante fosse stato colpito da una grave crisicardiaca. Ricoverato all’ospedale di Treviso, Trentin viene trasferito nellaclinica di Monastier per sottrarlo allo stress dei bombardamen-ti aerei ma una crisi definitiva ne causa la morte il 12 marzo1944. Poco prima, alla presenza della moglie Peppa e del figlioGiorgio, aveva lasciato scritto su di un foglio: Purchè l’Italiaviva.

Numerosissimi sono i testi giuridici e i saggi politiciscritti da Silvio Trentin, tra i quali un progetto di CostituzioneItaliana ricalcato su quello già tracciato per la Francia. Un Centro Studi a lui intitolato è attivo a Jesolo dal 1974.

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Ippolito Nievo nasce il 30 novembre 1831 a Padova, dal nobileAntonio, dottore in legge operante presso il tribunale della città,e da Adele Marin, figlia del patrizio veneziano Carlo e di Ippolita,discendente dai nobili friulani Colloredo di Mont’Albano. L’annosuccessivo il padre viene nominato pretore e trasferito a Soave,nel veronese, dove rimane con la famiglia cinque anni; poi, sem-pre con la famiglia al seguito, passa alla pretura di Udine. Nelfrattempo nascono altri quattro fratelli, due dei quali partecipe-ranno alla seconda guerra d’indipendenza (1859).

A Udine l’insegnamento primario viene impartito aIppolito privatamente, da un sacerdote; nel 1841 entra nel colle-gio del seminario di Verona e frequenta il ginnasio. Si fanno piùstretti i legami con il nonno materno, Carlo Marin, che risiede aVerona quale intendente di finanza. Nel 1847 rientra in famiglia,allora stabilitasi a Mantova, e si iscrive al liceo che frequenta finoal marzo 1848 quando, fallito il tentativo insurrezionale contro gliAustriaci a Mantova al quale aveva partecipato, lascia deluso lacittà in compagnia dell’amico Attilio Magri, con il quale concludel’anno scolastico a Cremona. L’anno successivo è in Toscana esembra abbia partecipato ai moti iniziati a Livorno; nel settembredello stesso anno rientra in famiglia e riprende privatamente glistudi conseguendo la licenza liceale nel 1850 dopo aver sostenutol’esame da privatista presso il liceo di Cremona.

Si iscrive al corso di diritto all’Università di Pavia, manel frattempo il padre viene trasferito d’autorità a Udine in con-seguenza del comportamento tenuto durante i moti del 1848. Sirompe l’idillio con Matilde Ferrari, di cui si era innamorato aCremona, e scrive il “romanzetto” Antiafrodisiaco per l’amor pla-tonico, pubblicato più di un secolo dopo. Ippolito continua glistudi di diritto a Padova, esordisce nel 1852 come pubblicistasulla Sferza di Brescia e con il poemetto Il crepuscolo. In questo

periodo vive molto in Friuli, dove risiedono i parenti di partematerna, legandosi a persone e luoghi; con la pubblicazionedel componimento in versi Centomila poeti inizia un’assiduacollaborazione con il settimanale “L’Alchimista friulano”, sulquale compariranno a puntate nel 1854 gli Studii sulla poesiapopolare e civile massimamente in Italia e la sua prima provadi narratore rappresentata dall’opera Un capitolo di storia.Scrive anche una commedia, Emanuele, e un dramma, Gli ulti-mi anni di Galileo Galilei, rappresentato a Padova con scarsosuccesso. Ancora nel 1854 pubblica a Udine il primo volumedei Versi, contenente le poesie già uscite su “L’Alchimista friu-lano”; l’anno dopo, che annovera anche la sua laurea a Padovain diritto ecclesiastico e civile, esce il secondo volume.

Amareggiato dalla situazione politica, si ritira incampagna nella sua casa di Fossato di Rodigo, nella zona diMantova, e concepisce i romanzi Angelo di bontà e Il contepecoraio, entrambi usciti nel 1857, il racconto Il Varmo e altrenovelle campagnole; raccoglie nel canzoniere Le lucciole icomponimenti poetici apparsi in vari periodici. Disgustatodall’”Alchimista friulano”, troppo accomodante nei riguardidell’autorità, trasferisce la sua collaborazione all’”Annotatorefriulano” e pubblica articoli, poesie, novelle su diversi altrigiornali di Venezia, di Padova, di Napoli, di Mantova, diMilano. Tra il 1856 e il 1857 compie frequenti soggiorni aMilano, dove prende consistenza l’amore per Bice Melzi,moglie di suo cugino Carlo Gobi, della quale è spesso ospitenella villa di Bellagio sul lago di Como.

Nel 1857 inizia la stesura delle Confessioni d’unItaliano che termina l’anno dopo, accantonandone per ilmomento la pubblicazione; la prima edizione del romanzouscirà postuma nel 1867. Continua con impeto torrenziale ascrivere e pubblicare poesie, racconti e saggi. Nel maggio 1859parte per Torino, si arruola volontario e viene assegnato al

IPPOLITO NIEVOIPPOLITO NIEVO

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corpo dei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, seguendo il generaleper tutta la seconda guerra d’indipendenza. Dopo l’armistizio,Ippolito si trova a Sondrio e poi a Milano, dove procede alla revi-sione degli appunti poetici Gli Amori Garibaldini, pubblicati aVenezia nel 1860. Inizia la stesura del romanzo Il pescatore d’ani-me, presto interrotto, e probabilmente lavora al saggio, anch’essoincompiuto, uscito postumo col titolo La rivoluzione nazionale.

Nel 1860 partecipa alla spedizione dei Mille guidata daGaribaldi in Sicilia; dopo aver occupato Palermo, Garibaldi gliaffida la vice-intendenza generale della spedizione e Ippolitostende un primo Rendiconto amministrativo della spedizione perdifendere il corpo dei Volontari dalla campagna denigratoria delgoverno piemontese. Quando l’intendente generale segueGaribaldi oltre lo stretto di Messina, Nievo rimane a Palermo e losostituisce con il grado di maggiore e con l’incarico di riordinarele pratiche da trasmettere agli uffici del governo piemontese.

Trascorre gli ultimi mesi di vita tra Mantova, Milano, eNapoli, dove il I febbraio 1861 il Comando Generale del Corpo deiVolontari si scioglie, ma Ippolito riceve l’ordine di tornare aPalermo per raccogliere la documentazione necessaria a smenti-re la campagna di calunnie orchestrata contro l’amministrazionegaribaldina. Il 4 marzo 1861 si imbarca a Napoli sul piroscafo“Ercole” diretto a Palermo dove non arriverà mai perchè la nave,

con ottanta persone a bordo, si ina-bissa nel Mar Tirreno.

A Fossalta diPortogruaro è stato

allestito unmuseo

dedicato a Ippolito Nievo ed è attivo un centro culturale colle-gato ad una biblioteca specializzata. A Tarcento (UD) ha sedeil Centro Friulano di Studi “I. Nievo”.

La Fondazione “Ippolito Nievo”, su iniziativa diStanislao Nievo, pronipote dello scrittore, ha promosso in tuttaItalia, nei luoghi in cui esiste ancora il paesaggio ispiratore digrandi autori e poeti, il sorgere dei Parchi Letterari, il primodei quali è proprio quello dedicato al Nievo.

Il romanzo Le confessioni di un italiano, ambientato nel perio-do risorgimentale, ha per protagonisti Carlino Altoviti e laPisana, le cui vicende si svolgono in gran parte nel territorio acavallo tra Veneto e Friuli, a Portogruaro, a Cordovado, nelcastello di Fratta, a Teglio, a Stalis di Gruaro ... .

Il castello di Fratta, demolito alla fine del XVIII secolo, Nievonon ha sicuramente potuto vederlo, ma sembra che si sia ispi-rato per la sua descrizione, ad altri manieri friulani, primo fratutti il castello di Colloredo di Mont’Albano che ben conosceva.

(…) Io vissi i miei primi anni nel castello di Fratta, il qualeadesso è nulla più di un mucchio di rovine donde i contadinitraggono a lor grado sassi e rottami per le fonde dei gelsi; mal’era a quei tempi un gran caseggiato con torri e torricelle, ungran ponte levatoio scassinato dalla vecchiaia e i più bei fine-stroni gotici che si potessero vedere tra il Lemene e ilTagliamento. In tutti i miei viaggi non mi è mai accaduto di

veder fabbrica che disegnasse sul terreno una più bizzarrafigura, né che avesse spigoli, cantoni, rientrature e spor-

genze da far meglio contenti tutti i punti cardinali edintermedi della rosa dei venti.(…) Il castello stava

sicuro a meraviglia tra profondissimi fossati dovepascevano le pecore quando non vi cantavano le

rane; ma l’edera temporeggiatrice era venutainvestendolo per le sue strade coperte;

e spunta di qua e inerpica di là,avea finito col fargli

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addosso tali paramenti d’arabeschi e festoni che non si discerne-va più il colore rossigno delle muraglie di cotto. (...) Un’altra ano-malia di quel fabbricato era la moltitudine di fumaioli; (...) ecerto se gli antichi signori contavano un solo armigero per cami-no, quello doveva essere il castello meglio guernito dellaCristianità. (...) per me che non ho veduto né il colosso di Rodi né le pirami-di d’Egitto, la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumen-ti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della terra.(...) La cucina di Fratta era un vasto locale, d’un indefinitonumero di lati molto diversi in grandezza, il quale s’alzava versoil cielo come una cupola e si sprofondava dentro terra più d’unavoragine: oscuro anzi nero d’una fuliggine secolare, sulla qualesplendevano come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruo-le (...) appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormicredenze, da armadi colossali, da tavole sterminate; e solcato inogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita digatti bigi e neri, che gli davano figura d’un laboratorio di streghe.(Le confessioni d’un Italiano, capitolo I)

La prima volta ch’io uscii dalla cucina di Fratta a spaziare nelmondo, questo mi parve bello fuor d’ogni misura. (...) Un ponti-cello di legno sulla fossa posteriore del castello che dalla corticel-la della scuderia metteva nell’orto; due pergolati di vigne annosee cariche nell’autunno di bei grappoli d’oro corteggiati da tutte levespe del vicinato; più in là campagne verdeggianti di rape e digranoturco, e finalmente oltre ad un muricciolo di cinta cedentee frastagliato, delle vaste e ondeggianti praterie piene di rigagno-li argentini, di fiori e di grilli! Ecco il mondo posteriore al castellodi Fratta. (...)(Le confessioni d’un Italiano, capitolo III)

A Fratta, in comune di Fossalta di Portogruaro, sul sito archeolo-gico dell’antico fortilizio, è stato ricostruito un giardino dellamemoria all’interno del quale si trova anche il cosiddetto “corti-no”, ovvero il rustico un tempo appartenente al castello, oggirestaurato e sede di attività e iniziative culturali, oltre che delmuseo nieviano.

Ed ecco come il Nievo descrive la città di Portogruaro nelle pagi-ne del suo romanzo:

(...) Portogruaro non era l’ultima fra quelle piccole città di terra-ferma nelle quali il tipo della Serenissima Dominante era copiatoe ricalcato con ogni possibile fedeltà. Le case, grandi spaziose coltriplice finestrone nel mezzo, s’allineavano ai due lati delle con-trade, in maniera che soltanto l’acqua mancava per completare la

somiglianza con Venezia. Un caffè ogni due usci, davanti a que-sto la solita tenda, e sotto dintorno a molti tavolini un discretonumero d’oziosi; leoni alati a bizzeffe sopra tutti gli edifici pub-blici; donnicciuole e barcaiuoli in perpetuo cicaleccio per lecalli e presso ai fruttivendoli; belle fanciulle al balcone dietro agabbie di canarini o vasi di garofani e dibasilico; su e giù per la podesteria eper la piazza toghe nere d’avvocati,lunghe code di nodari, e riveritissi-me zimarre di patrizi; quattroSchiavoni in mostra dinanzi le car-ceri; nel canale del Lemene puzzod’acqua salsa, bestemmiar di paroni, econtinuo rimescolarsi di burchi, d’an-core e di gomene; scampanio per-petuo delle chiese, e gran pompadi funzioni e di salmodie; madonni-ne di stucco con fiori festoni efestoncini ad ogni cantone; mammebigotte inginocchiate col rosario;bionde figliuole occupate cogliamorosi dietro le porte; abaticogli occhi nelle fibbie dellescarpe e il tabarrino raccolto pudicamente sul ventre: nullainsomma mancava a render somigliante al quadro la miniatura.Perfino i tre stendardi di S. Marco avevano colà nella piazza illoro riscontro: un’antenna tinta di rosso, dalla quale sventolavanei giorni solenni il vessillo della Repubblica.(Le confessioni d’un Italiano, capitolo VI)

Tra le pagine più note delle Confessioni c’è l’incontro del prota-gonista Carlino con le paludi costiere e il mare. Il luogo di que-sto incontro esiste solo nel romanzo ma l’ispirazione letterariadel Nievo nasce da paesaggi più volte frequentati, fatti di spec-chi d’acqua interni, di zone umide, di valli e di tratti costieriche appartengono decisamente al Veneto Orientale; in ValleVecchia e nella spiaggia della Brussa di Caorle si è voluto indi-viduare il sito dell’incontro di Carlino con il mare.

(...) era ben certo che il sito dove mi trovava non appartenevaalla solita cerchia delle mie scorrerie (...). Quel sito invece eraluogo deserto e sabbioso che franava in un canale d’acqualimacciosa e stagnante; da un lato una prateria invasa dai giun-chi allargavasi per quanto l’occhio potea correre e dall’altros’abbassava in una campagna mal coltivata. (...) Mi rotolai su lemie brache fino alla piegatura delle coscie, e discesi nel pelago

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impigliandomi i piedi e le mani nelle ninfee e nelle giunchiglieche lo asserragliavano. (...) Aveva dinanzi un vastissimo spazio dipianure verdi e fiorite, intersecate da grandissimi canali simili aquello che aveva passato io, ma assai più larghi e profondi. I qualis’andavano perdendo in una stesa d’acqua assai più grande anco-ra; (...) Ma più in là ancora l’occhio mio non poteva indovinarcosa fosse quello spazio infinito d’azzurro, che mi pareva unpezzo di cielo caduto e schiacciatosi in terra (...)(Le confessioni d’un Italiano, capitolo III)

Giulio Camillo Delminio nasce a Portogruaro nel 1479. Di fami-glia nobile, avrebbe preso il soprannome di Delminio per l’originedalmata del padre. Compie i primi studi a Portogruaro, frequentapoi l’Università di Padova laureandosi in discipline giuridiche eletterarie. Come molti letterati del suo tempo, si guadagna davivere al servizio di mecenati pubblici e privati. FrequentaVenezia dove incontra Girolamo Muzio, suo grande amico pertutta la vita, ed Erasmo da Rotterdam.Inizialmente insegna logica presso la Comunità di S. Vito alTagliamento, dove fonda una Accademia di belle lettere. Dal 1515si trova a Udine, città nella quale si distingue come fervido inizia-tore di attività culturali e come insegnante di eloquenza retribui-to con pubblico stipendio, oltre che con la concessione in uso diun bosco comunale. In questo periodo concepisce il grande dise-gno di racchiudere tutto lo scibile umano all’interno di un grandeteatro, strumento per acquisire conoscenza e sapienza da partedi chi l’avesse consultato. Per realizzare un’opera simile eranecessario l’appoggio di un grande mecenate che Giulio Camillotrova nel re di Francia Francesco I.Nel 1519 si reca alla sua corte, uno dei centri più attivi della cul-tura europea dell’epoca, e ottiene un finanziamento di 600 scudiper la costruzione del suo teatro della conoscenza, una sorta dienciclopedia universale del sapere.Tra il 1521 e il 1525 è a Bologna, dove insegna logicaall’Università e, contemporaneamente, ottiene incarichi di inse-gnamento nelle città di Reggio e di Modena. Successivamente, fino al 1535, si sposta tra Parigi, dove ha sedela corte del re di Francia, Venezia, Bologna, Modena e Roma,dove si reca con il cardinale di Lorena per l’elezione a ponteficedi Paolo III Farnese. Nel frattempo il progetto per la realizzazio-ne del “teatro” non si concretizza, Camillo non ha nulla da pre-

GIULIO C. DELMINIOGIULIO C. DELMINIO

GIULIO CAMILLO DELMINIO

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sentare a Francesco I e il sovrano gli revoca il suo appoggio e ilsuo sostegno finanziario. Per raccogliere i fondi necessari a completare il modello in legnodell’opera, dopo diversi tentativi falliti, si rivolge nel 1543 adAlfonso d’Avalos, marchese del Vasto e governatore di Milano,riuscendo a convincerlo della grandezza del progetto. Il marchesepretende, tuttavia, che il Delminio stenda il suo progetto metten-dolo su carta, cosa che egli fa di malavoglia scrivendo L’idea delTheatro. Del presunto modello in legno del teatro nessuno ha più saputonulla e non è certo che qualche contemporaneo sia riuscito a

vederlo: ne rimane tracciasolo nel disegno a stampapubblicato con l’opera diGiulio Camillo.Il letterato trascorre gli ulti-mi giorni della sua vita aMilano, presso la corte delmarchese d’Avalos, dovemuore il 15 maggio 1544.Giulio Camillo è stato unodegli ingegni più celebratidel suo secolo, ma nel con-tempo è stato anche aperta-mente contestato da chi,lungi dal considerarlo ungenio, lo accusava di ciarlata-neria. Lodi e accuse nonriguardavano tanto i suoiscritti (Rime, Lettere, saggifilosofici), pubblicati quasitutti postumi, quanto il per-sonaggio stesso, circondatoda un’aura di mistero legataalle inclinazioni magico-ermetiche e consideratospesso vizioso per atteggia-menti e comportamenti neiconfronti di cibo, donne evino.L’Idea del Theatro, la suaopera maggiore, pubblicataper la prima volta nel 1550 aFirenze, è destinata a rima-nere l’unica testimonianzacirca quella “macchina” alla

quale l’autore aveva dedicato tutta la sua vita: un “teatro” nelquale raccogliere e ordinare, secondo le tecniche dell’arte dellamemoria, l’intero sapere umano, fino a rispecchiare nella suastruttura quella dell’universo. In questo contesto è chiaro l’in-flusso delle esigenze “enciclopediche” e classificatorie tipichedel Cinquecento, fuse con le principali correnti filosofiche deltempo, prima fra tutte il neoplatonismo. Sulla base di questoapproccio filosofico, infatti, nella ricostruzione di un ordineuniversale operata da Delminio tutto è legato a tutto e l’Uno èdovunque. Ma la struttura dell’impianto riflette anche una con-cezione simbolico-sapienziale del cosmo, nella quale conflui-scono altri filoni significativi del pensiero cinquecentesco, dal-l’ermetismo, all’astrologia, alla cabala.Il “teatro”, o meglio l’anfiteatro, avrebbe dovuto essere organiz-zato, secondo l’impostazione classica di Vitruvio, in sette ordiniorizzontali (“gradi”) solcati da sette corsie (“colonne” o“porte”) ciascuno. In questo modo, tutto il sapere poteva essereincasellato in una griglia di 49 caselle, o luoghi, ognuna dellequali era identificata da una figura derivata dalla mitologia,dalle arti figurative o dalle imprese cavalleresche, come sugge-riva la mnemotecnica. Il primo ordine del teatro della memoria è costituito dai settepianeti conosciuti, rappresentati in forma umana; i gradi suc-cessivi, ognuno dei quali presieduto da una figura mitologica,incarnano il progressivo passaggio dall’unità al molteplice, daldivino all’umano. Il secondo ordine simboleggia le idee e gli elementi primi, ilterzo gli elementi naturali che costituiscono il mondo fisico, ilquarto l’interiorità umana divisa in tre anime (secondo glischemi cabalistici); il quinto grado è dedicato alla discesa del-l’anima nel corpo, all’incarnazione, il sesto allude alle attivitànaturali dell’uomo, il settimo e ultimo rappresenta le arti, lescienze e le professioni.

In procinto di partire per la Francia, Giulio Camillo scrive un’e-gloga latina in cui cita il fiume Lemene che attraversa la suacittà natale:Damone, crudo Damone che soloho posto in cuor, te sol, misera, io invanoche, per schiava a te darmi, ho detestatola patria, ed ho del Lemene lasciato,ostinata, i virenti agri e le Ninfed’Adriatico mare, e pur Dafni …(traduzione dal testo originale in latino in F. SCARAMUZZA,Giulio Camillo Delminio: un’avventura intellettuale nel ‘500europeo, Udine, 2004, p. 24 e nota 14 pp. 27-28).

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GUIDO PIOVENEGUIDO PIOVENE

GUIDO PIOVENE

modo esemplare intorno ad una trama esilissima.Guido Piovene muore a Londra il 12 novembre 1974 e

viene sepolto nel cimitero di Vicenza. Postumi sono apparsi i saggiIdoli e ragione e Verità e menzogna, scritti nel 1975.

Il “Giornale di Vicenza” e la Banca Popolare di Vicenzabandiscono il concorso “Il Piovene per i ragazzi”, riservato agli stu-denti degli Istituti Superiori di Vicenza e provincia, ai quali si propo-ne di elaborare un testo in lingua italiana in forma di reportage ocronaca di viaggio nel loro territorio di riferimento o in altre regioniitaliane.

In un articolo sul “Nuovo Corriere della Sera” del 30novembre 1957, così Eugenio Montale parla di Guido Piovene:“(...) Guido Piovene ha compiuto per conto della R.A.I. nella nostraPenisola un viaggio di ricognizione di una completezza che non haprecedenti, e ci ha dato un inventario, com’egli lo chiama, delle cosed’Italia che scoraggerà per molti anni chi vorrà tentare l’impresa.(...) L’opera (…) si proponeva, crediamo, due intenti: una personalee poetica scoperta dell’Italia, non tanto dell’Italia dei monumentiquanto dell’Italia viva; e un rendiconto di quanto da noi s’è fatto neldopoguerra per sanare le ferite inferte alla nostra penisola, e perraccogliere segni di ripresa nelle opere e negli spiriti e comunicare,se era possibile, ragioni di speranza. (…) Scrittore esatto ed elegan-te, uomo che prima di rovistare da capo a fondo le case e le cose dicasa nostra ha vissuto a lungo in paesi stranieri, egli riuniva in sémolte delle diverse e opposte qualità che il suo compito richiedeva.Era, ed è soprattutto, un uomo che sa mantenere l’equilibrio e chenasconde una vorace curiosità e una perenne inquietudine nervosa(lo sanno i lettori dei suoi romanzi) sotto la compostezza del genti-luomo; un uomo che ha in sé tanta carica di vitalità da diffidaredelle idées reçues, dei punti di vista prefabbricati.(…)”

In Viaggio in Italia così Piovene parla delle iniziative economichedel conte Marzotto a Portogruaro e negli immediati dintorni:(…)L’esperimento agricolo di Portogruaro è ormai famoso in Europa e inAmerica; questa è la ragione dello straordinario spettacolo a cui hoassistito per un paio di giorni. Arrivo la sera al crepuscolo in unagrande villa monumentale al centro dell’antica, pittoresca cittadinaveneta. Macchine d’ogni qualità nel cortile, e cani da caccia cheabbaiano; quasi tutte le camere occupate dagli ospiti. E nelle came-re si trova la vecchia mobilia bonaria delle case di campagna venete.Ma ognuna ha il suo telefono, ed un elenco telefonico per l’interno;numero uno, “camera del signor conte”. La villa è vasta, ma la gentes’affolla nella sala d’ingresso, simile a una hall d’albergo. Si mangianella sala da pranzo del primo piano, o in una trattoria vicina. Lasera del mio arrivo, nella trattoria, Marzotto al centro della tavola,qualche ospite accanto scelto senza troppo studio, e tutti gli altrialla rinfusa. Mi guardo intorno; una principessa Pacelli, nipote del

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Guido Piovene nasce a Vicenza nel 1907 da famiglia nobile. Compiegli studi a Milano, laureandosi in filosofia. Inizia giovanissimo l’attivi-tà di giornalista: è corrispondente dell’”Ambrosiano” dalla Germania,poi del “Corriere della Sera” da Londra e da Parigi; è condirettoredella rivista “Pan”, collaboratore ed inviato della “Stampa”, che lasce-rà nel 1974 per diventare responsabile della sezione culturale e let-teraria del “Giornale Nuovo” diretto da Indro Montanelli.

Esordisce come narratore nel 1931 con i racconti del volu-me La vedova allegra, nei quali già si definiscono i caratteri peculiaridella sua narrativa: una ricerca di sottili atmosfere psicologiche,indagate con moralismo acuto e amaro, sullo sfondo di una provinciaveneta limpidamente descritta e incisivamente rievocata nei suoicostumi, dominati da una rigida tradizione cattolica, dove la religio-sità sfuma in sospetto e in sensualità repressa.

Nel romanzo epistolare Lettere di una novizia, capolavorouscito nel 1941, narra la tragica vicenda di una ragazza che lascia ilconvento in cerca di libertà per poi morire in carcere: è l’occasioneper analizzare l’ambiguità esasperata di certi sentimenti cattolici,che emerge anche in La gazzetta nera, del 1943, e in altri lavori usci-ti in seguito. Dopo la seconda guerra mondiale, pubblica nel 1946Pietà contro pietà, una requisitoria contro le filosofie della guerra e Ifalsi redentori (1949).

E’ autore di libri di viaggio, tra il reportage e l’indagine dicostume, quali De America (1953), Viaggio in Italia (1957), Madamede France (1967), La gente che perdé Gerusalemme (1968), oltreche di saggi politici e morali. Nel 1962, con La coda di paglia, giusti-fica la propria attività giornalistica durante il regime fascista, inpolemica con un certo atteggiamento di opportunismo antifascista;nel 1963, con il romanzo Le furie, descrivere l’emergere violento deifantasmi del passato.

Un salto qualitativo netto nel suo stile si ha con Le stellefredde, del 1970, un tentativo di romanzo filosofico incentrato sultema della fine della cultura umanistica, un’analisi morale cucita in

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Il conte Enrico Altan detto il Vecchio, nasce a Salvarolo, attual-mente in comune di Pramaggiore, nel 1570, da Giambattista eda Terenzia dei nobili Varmo; eredita il titolo di conte, legato alfeudo e al castello di Salvarolo. Compie i primi studi aPortogruaro, affidato ad un maestro; continua poi a Roma pres-so il Collegio Romano. Frequenta, in seguito, l’Università diPadova, coltivando in particolare l’interesse per le lettere e ildiritto, e lì si laurea in giurisprudenza nel 1601.

Letterato e commediografo, dopo la laurea si dedicaalla composizione di opere comiche basate sul classico intrecciodi equivoci, facendosi apprezzare da molti contemporanei per lostile pulito e l’umorismo leggero ed elegante , privo di volgaritàe pesantezze.

Le sue commedie, scritte in prosa ma con i prologhi inversi sdruccioli, sono state messe in scena in diverse cittàd’Italia; alcune di esse sono state pubblicate, già in epoca con-temporanea all’autore, a cura del fratello Alcide: L’America, Laprigioniera, Mecan Bassà ovvero Il garbuglio, Le maschera-te, La Romilda. Altre cinque commedie sono rimasteinedite: Alì Bassà, L’Olimpia, La Rebecca, LaGiletta, La luce.

Nel 1630, al tempo della grandeepidemia di peste, Enrico Altan vienescelto dalla Repubblica di Veneziacome uno dei Soprintendentialla Sanità per il Friuli eil Luogotenente vene-ziano di Udine gliconcede ampia auto-rità in materia.

Muore nel1648 a Salvarolo.

ENRICO ALTANENRICO ALTAN

ENRICO ALTAN

pontefice, signore dell’aristocrazia veneta e napoletana che viaggia-no come in Goldoni, grandi proprietari terrieri, periti agricoli venutia studiare le stalle, piccoli agricoltori, tecnici delle varie industrie,una deputatessa del partito repubblicano, alcuni uomini politici tra-montati o in auge, un ammiraglio, un colonnello, un grande uomo difinanza venuto dagli Stati Uniti, ufficiali e sergenti americani venutida Trieste, una ragazza imprecisabile, ex compagni di scuola delpadrone di casa, ed il sergente di Marzotto nella guerra 1915 invita-to a passare quindici giorni all’aria buona. Quaranta persone intutto. Si ha l’impressione che chiunque possa entrare e sedersi. Allafine del pranzo Marzotto taglia la torta personalmente distribuendo-ne le fette. Sovrasta, equidistante, quel miscuglio umano, come il renel suo regno che è sopra le divisioni dei ceti.Portogruaro è il massimo esperimento tentato finora in Italia diazienda agricola-industriale, con stalle, silos, direzione centrali, madi proprietà privata. Criteri: abolire il bracciante e fissarlo alla terra,redimere la campagna dall’ozio forzato dei mesi freddi, ed affrancareil contadino dalle necessità di vivere unicamente sui prodotti delsuolo. Marzotto ha bonificato due tra le “valli” paludose, che listanola costa veneta, affollate di uccelli acquatici, regno di pochi pescato-ri, di cacciatori e di romantici, a cui piace guardare tra le canne l’e-norme bocca di fornace della luna di fuoco. Ha ridotto a colturaintensiva la terraferma, le acque a pesca industriale: enorme siste-ma di hangar, di darsene, di abitazioni, di chiaviche, di trappole, dipozzi artesiani, d’impianti idrovori e di condutture elettriche. Nonlontano, su altri terreni, è la tenuta agricola. Un villaggio con tuttele opere assistenziali a somiglianza di Valdagno; le stalle in cui siconcentra il bestiame, i silos in cui si concentra il grano; un macel-lo, un salumificio, stabilimenti adibiti alla lavorazione della frutta edel latte, ed altre industrie meno agricole, lanificio, cotonificio, zuc-cherificio, vetreria, saponificio. Le case mezzadrili hanno un pezzodi terra che ciascuna famiglia coltiva invece a suo piacere; ognilavoratore è mezzo contadino e mezzo operaio. Il sistema è perfetto,e questa è certo la via giusta, adatta ai desideri dei tempi. L’unicodubbio è su coloro che stanno fuori dei confini del “principato”. Michiedo se un paese come l’Italia, con i suoi milioni di uomini impro-duttivi e bisognosi, può essere risanato da una somma d’iniziativeanche grandiose come questa, e tuttavia chiuse nei limiti di una sin-gola industria e di una singola ricchezza.La famiglia Marzotto ama la velocità. Qui, grandi corse in motoscafonelle valli bonificate. Storie d’avannotti, di trappole, di notti senzaluna che favoriscono la pesca. Frutteti a fior d’acqua sorgenti dallelingue di terra, alcune palme solitarie che si levano contro cielo,alcuni “casoni” superstiti che difendono malinconici il colore locale.Incontro uomini che lavorano nelle valli, e vi hanno la casa, sperdutitra cielo e acque. Osservo che le mogli mancano, e ne chiedo il per-ché. «Qui non possono stare donne» mi risponde uno «perché ilnostro lavoro è quasi sempre a torso nudo.» Gli accompagnatori mispiegano che il costume locale vieta la presenza di donne dove gliuomini devono lavorare semivestiti.(Viaggio in Italia, cap. Le tre Venezie. Vicenza)

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di affreschi raffiguranti la Vita della Vergine nella chiesa di S.Maria dei Battuti.

Nel 1539 muore il Pordenone: Amalteo porta a termi-ne molte commissioni iniziate dal suocero, probabilmente neeredita la bottega, ma è deciso a non muoversi più da S. Vito,dove proprio in quell’anno acquista una casa, e non modificanulla del suo stile di vita e di lavoro ben organizzato. Le com-missioni aumentano, tanto che quasi ogni paese del Friuli avràsue opere. Poco dopo muore anche la moglie Graziosa ePomponio nel 1541 si risposa per la terza volta con Lucrezia,dalla quale avrà quattro figlie; due di esse andranno spose adallievi della sua bottega,Giuseppe Moretto eSebastiano Secante.

Negli anni ’40del Cinquecento lavoranel duomo di Cividale(l’Annunciazione), sioccupa della decorazionedell’organo del duomo diOderzo, realizza la palaper l’altar maggiore dellachiesa di S. Martino alTagliamento raffiguranteCristo in gloria con S.Martino, S. Stefano e S.Giovanni Battista; dipingeanche nella chiesa par-rocchiale di Valvasone.Delle opere eseguite aUdine rimangono un S.Francesco che riceve le stimmate, conservato ai Civici Musei, ele portelle per l’organo del duomo risalenti al 1555, ma il suointervento è documentato anche nel palazzo del Luogotenentee nelle sale del castello. Altre tele si trovano nel duomo diMotta di Livenza e in quello di Maniago.

Nel 1562 riveste la carica di podestà di S. Vito alTagliamento e continua la sua laboriosa esistenza dipingendo,tra l’altro, la tela con una Sacra Conversazione (1583) e cinquepannelli da cantoria raffiguranti le Storie di S. Andrea per ilduomo di Portogruaro.

Amalteo muore il 9 marzo 1588 a S. Vito alTagliamento, dove era vissuto quasi stabilmente per oltre cin-quant’anni, e viene sepolto nella chiesa di S. Lorenzo dove siera preparato la tomba fin dal 1541.

Pomponio Amalteo nasce a Motta di Livenza nel 1505, daLeonardo Della Motta e Natalia Amalteo, della quale porta ilcognome allora famoso nel mondo delle lettere. Compie i primistudi sotto la guida dello zio Marcantonio, eruditissimo maestropubblico della sua città natale dal 1510 al 1515. Scoperta la voca-zione per la pittura, impara i primi rudimenti da tale Domenicopittore di Motta ed entra giovanissimo nella bottega delPordenone a S. Vito al Tagliamento. E’ probabile che nel 1520segua il maestro a Treviso per affrescare la cappella Malchiostroin duomo, ma solo come garzone; altrettanto credibile è che ci siatornato in seguito per completare le parti non finite dalPordenone.

L’influenza del maestro sull’allievo è molto forte, purnella diversità dei caratteri; nella vita di Amalteo, inoltre, vi èuna sincronia tra avvenimenti di carattere privato e attività pro-fessionale. Pomponio si forma attraverso un diligente, laborioso eumile apprendistato nella bottega del Pordenone, al quale lolegheranno gratitudine, ammirazione e anche affetto, in seguitoal matrimonio nel 1534 con Graziosa, figlia del suo unico mae-stro. Per Amalteo si trattava di seconde nozze, dopo la morte nel1531 della prima moglie Orsina di Sbrojavacca.

Nel 1532 dipinge ad affresco una Sacra Famiglia con S.Cristoforo nella chiesa di S. Cristoforo di Portogruaro, nel 1533esegue per la Confraternita di S. Giovanni di Gemona il soffittodella chiesa con le raffigurazioni, in 42 lacunari, di Santi, Profeti,Sibille e inizia così il periodo migliore per il pittore, che dureràfino agli anni ’50 del XVI secolo. Tra il 1533 e il 1535 lavora inproprio ad affreschi a Ceneda, a Portogruaro, a Gleris, aProdolone, a S. Vito al Tagliamento, dove realizza un grande ciclo

POMPONIO AMALTEOPOMPONIO AMALTEO

POMPONIO AMALTEO

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Il portogruarese Giambattista Bettini, scultore vissuto nel XVIIIsecolo, secondo lo storico Antonio Zambaldi, suo concittadino,“teneva in questa città una rinomata officina d’architettura dialtari, de’ quali ne costruì molti e sontuosi”.

Del Bettini, infatti, sono l’altar maggiore, con decorazio-ne sul paliotto, e il tabernacolo, posto su un altare laterale, delduomo di Portogruaro. Opere analoghe si trovano a Concordia, a Latisana, a Codroipo, aMarano e in Istria. A Latisana, in particolare, Giambattista realiz-za gli altari di S. Giovanni Battista e di S. Antonio da Padova e

completa nel 1763 l’altare della Madonnadel Rosario, ricco di marmi policromi ecaratterizzato da un alto fastigio sovrac-carico di statue.

Tra gli allievi dello scultore vi èAntonio Dreon che ha decorato i

capitelli delle colonne del duomo diPortogruaro, il cui progetto

iniziale è opera, invece,del figlio Pietro

Bettini (1740-1821),autore anche didecorazioni sculto-ree con il padre.

GiambattistaBettini muore aPortogruaro il 23gennaio 1789.

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