Carlo Magaletti - Volare con i piedi per terra

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Pratiche quotidiane per un armonico sviluppo dell'ego Edizioni Spazio Interiore 2013 144 pagine

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SPAZIOINTERIORE

Carlo Magaletti

VOLARE CON I PIEDIPER TERRA

Pratiche quotidiane per un armonico sviluppo dell’ego

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Carlo MagalettiVolare con i piedi per terra

© 2013 Carlo Magaletti© 2013 Spazio InterioreTutti i diritti riservati

Edizioni Spazio InterioreVia Vincenzo Coronelli 46 • 00176 RomaTel. [email protected]

illustrazione in copertinaSatvat

I edizione: luglio 2013ISBN 88-97864-18-9

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Uno studente andò a fare visita a Dokuon di Shokoku e gli disse:«La mente, Buddha e gli esseri senzienti in fondo non esistono.La vera natura dei fenomeni è il vuoto. Non c’è nessuna realizzazione, nessuna illusione, nessun saggio, nessuna mediocrità.Non c’è nessuno che dia e niente che si riceva».Dokuon, che stava fumando in silenzio, non fece commenti.Tutt’a un tratto colpì lo studente con la sua pipa di bambù.Questo fece arrabbiare moltissimo il giovane.«Se niente esiste» domandò Dokuon «da dove viene questa tua collera?»

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INDICE

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9

Capitolo 1 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 19il cammino evolutivoPasso per passo: la gerarchia dei bisogniPrendere e lasciare: il doppio cono evolutivoSano ego, vera illuminazioneIl beato stato del paradiso terrestre: la macro-fase del ricevereCol sudore della tua fronte: la macro-fase del prendere

Qui si lotta: la fase del guerriero e il tema della forzaIl lusso della scelta: la fase del mercante e il tema del benessereE ora si fa sul serio: la fase del re e il tema del potereSi comincia a volare: la fase del mago e il tema della conoscenza

Conclusione dell’inspirazione-espansione

Capitolo 2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 51l’evoluzione calata nella realtàNiente fuga: ci si evolveLa sindrome del mosconeVedere quel che èPresenza per vite normaliGiocare seriamente

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Capitolo 3 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 65la pratica quotidianaSviluppare la presenzaLasciare spazio al sentireRallentareIl silenzio, l’ascolto e l’arte della pausaConosci te stesso? Dove, come e quando osservarsiIl corpo fisico

Il viso parlanteRitrovare la propria originale voceAl risveglioUn incontro più intimoPostura e andatura: la nostra firma nello spazioIncorporare diversi personaggi

Il corpo mentaleL’identifichiteMa il mondo non ama troppo i cambiamentiDis-identificarsi dai propri pensieriDis-identificarsi dal giudizio degli altriLiberarsi dalle catene della menteI meccanismi di manipolazione e la vocina interioreI contenuti inconsci del linguaggioAbitudini verbali: gli intercalariLe classificazioni che impediscono un ascolto intimo

Il corpo emotivoLe emozioni non esistono!Sensibilità emotivaLa mappa dei luoghi emotivi: fisicalizzare un’emozioneI buchi neri energetici. Le emozioni negative: un metodo per uscirne

Stretching dell’anima

Capitolo 4 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 127superare un blocco evolutivoUn caso concretoCome fuori così dentro... e viceversa

Epilogo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 139

Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141

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INTRODUZIONE

Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte.Khalil Gibran

Anni fa frequentavo un gruppo di meditazione che seguiva una delle vie del buddhismo tibetano. Gli incontri, oltre alle pratiche spirituali, prevedevano dei momenti ludici in cui si mangiava e beveva qualcosa. In queste serate su quello tibetano prevaleva lo stile italico, e accanto alle pietanze vegetariane di tanto in tanto appariva qualche casseruola della mamma o della nonna di qualcuno di noi, che proprio vegeta-riano non era. E, nonostante il padrone di casa si sforzasse di offrire solo bibite analcoliche, c’era spesso qualcosa da festeggiare, e così si materializzavano miracolosamente ora un vinello fatto in casa, ora un liquorino di un padre o di uno zio, che non si potevano non assaggiare. Almeno per non dispiacere al festeggiato di turno. Le serate passavano leggere e allegre, un po’ per le meditazioni messe a punto nei secoli dai maestri buddisti e un po’ per le esperienze culinarie maturate in altret-tanti secoli da mamme, nonne, padri e zii del Sud Italia.

Ora, non che in queste piacevoli serate si chiacchierasse sempre di questioni capitali, di vita e di morte, ma quella sera il tono era piutto-sto serio e tra un boccone e l’altro una ragazza, congiungendo le mani in segno di ringraziamento come si usa fare in Oriente, rifiutò un bic-chierino di ottimo nocino fatto in casa. E a voce bassa mi confessò che voleva diventare illuminata, motivo per il quale frequentava il nostro gruppo di meditazione e ragion per cui non poteva accettare il liquore. Annuii silenziosamente e, mentre con fare automatico bevevo anche

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il suo bicchierino, mi chiesi: «Ma si può volere una cosa del genere?» Non che questa non potesse essere un’aspirazione legittima. Io, del resto, perché partecipavo a quegli incontri? Cercavo di migliorarmi? Di trovare la pace interiore? Forse anch’io inconsciamente volevo di-ventare illuminato?

In realtà, sino ad allora non mi ero posto chiaramente la doman-da. Semplicemente seguivo una voce interiore che mi diceva che c’era qualcosa che non andava nella mia vita, e stavo ricercando cosa fosse. E, comunque, mi faceva piacere partecipare a quelle serate. Fino a quel momento questo mi era bastato, ma ora cominciavano a sorgere nuovi pensieri. Per quanto riuscissi ad accettare logicamente l’affermazione di quella ragazza, da qualche parte in me c’era una voce che mi diceva che quella frase non funzionava: voler diventare illuminati... Non avevo difficoltà a pensare che qualcuno volesse diventare un ingegnere, un astronauta, persino un filosofo, ma non mi quadrava l’idea che si po-tesse decidere di diventare illuminati o magari, a questo punto perché no?, anche santi.

Mi sembrava fosse come volersi innamorare di una certa persona in particolare. Chiunque abbia un minimo di esperienza in proposito sa che le cose non vanno affatto così. E poi, se anche questo desiderio fosse stato legittimo, erano veramente condizioni indispensabili il ve-getarianesimo, l’astinenza dagli alcolici, una pratica sessuale modera-ta, la gentilezza a tutti i costi, la preghiera tre volte al giorno davanti all’immagine di un Buddha e altre cose del genere? Questi e altri dub-bi, man mano che mi inoltravo nel variopinto mondo della spiritualità, invece di dissolversi si rinforzavano.

Dopo un certo periodo di pratica nel mio gruppo di meditazio-ne, arrivò il momento in cui avrei potuto pronunciare la promessa di Bodhisattva1 e ricevere il nome buddista. Quell’anno molti praticanti europei s’incontravano per questa cerimonia in Germania, perché ec-cezionalmente sarebbe stata presieduta dal suo massimo esponente, il

1. Si tratta di promettere (fare voto) di raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.

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Karmapa in persona – tanto per capirci, quasi l’equivalente del Papa per i cattolici. Il fatto era particolarmente importante soprattutto perché maggiore era il grado di altezza spirituale del Bodhisattva da-vanti al quale veniva pronunciata la promessa, maggiore sarebbe stato l’aiuto che il praticante avrebbe ricevuto a livello sottile per adempiere al proprio impegno. Almeno così si diceva. E il Karmapa era l’ultima reincarnazione di una lunga serie di guide spirituali che facevano risa-lire in linea diretta la loro conoscenza profonda direttamente al Buddha storico. E questa era la prima volta che avevamo l’occasione di averlo in Occidente... si poteva desiderare di più?

Intrapresi da Bari, la città in cui vivevo, un lungo viaggio di quasi duemila chilometri e mi ritrovai, insieme a migliaia di altre persone, seduto su un cuscino e una stuoia in un palazzetto dello sport che aveva assunto per l’occasione un vago stile tibeto-germanico. Dopo una serie di passi rituali fatti di preghiere, prostrazioni e momenti di raccoglimento, arrivammo alla fase dell’assegnazione del nome. Ed eccomi faccia a faccia proprio con il Karmapa: un ragazzo che, ri-petendo dei gesti rituali e senza neanche guardarmi, disse qualcosa che immaginai dovesse essere indirizzata a me. Intanto un monaco piccoletto al suo fianco prese da una scatola di cartone un pieghevole precompilato su cui c’era scritto il mio futuro nome buddista, infilò nel mezzo due immagini raffiguranti due diversi tipi di Buddha, mi consegnò il tutto e senza tante cerimonie mi invitò ad andare. Non che mi aspettassi un abbraccio commosso, ma neanche tutta quella distanza. Era questo il massimo rappresentante del cuore amorevo-le, la reincarnazione di schiere di illuminati e santi? Scesi le scalette, tornai al mio posto con quel cartoncino in mano e continuai a osser-vare da lontano i movimenti automatici del ragazzo-Karmapa che, nonostante la riverenza dalla quale era circondato e il trono sul quale sedeva, continuava a sembrarmi solo un giovane un po’ triste e piut-tosto a disagio. Cominciavo ad accusare un certo malessere. Invece di sostenermi spiritualmente, questa cerimonia, e tanto più la presenza del Karmapa, mi stavano scoraggiando. In quell’adolescente proprio non riuscivo a vedere una guida spirituale. Dovevo credere a ciò che

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mi era stato raccontato o a ciò che sentivo intimamente e osservavo con i miei occhi? Tutto l’entusiasmo, la dedizione e la pratica che mi avevano spinto a intraprendere quel viaggio vacillavano. Avevo mol-to investito per arrivare a quell’esperienza e avrei proprio desiderato non percepire ciò che invece stava succedendo. E gli altri, che cosa vedevano? Con questi pensieri che mi ronzavano nella testa arrivò il momento in cui avrei dovuto confermare in coro (almeno di questo pensai che si trattasse) la mia promessa di Bodhisattva, e invece la bocca mi rimase chiusa.

La sera in treno, tornando a casa, mi venivano in mente le imma-gini della giornata appena passata, e sempre più le associavo ai ricordi delle cerimonie già vissute nella mia adolescenza in ambito cattolico. Cambiavano la scenografia, i rituali, la lingua, ma la sostanza rimaneva la stessa: dogmi, credenze, venerazione. Che differenza c’era nel crede-re ciecamente al fatto che Gesù, sfidando qualsiasi legge della fisica e del buonsenso, fosse resuscitato e volato in cielo in carne e ossa come mi era stato insegnato durante il mio catechismo obbligatorio o nel credere che un adolescente dallo sguardo triste fosse la reincarnazione di una sfilza di maestri spirituali? La cosa mi intristì non poco. Ero andato sin lì per trovare ciò che avevo dietro casa: una religione. E la religione, pensai, mi richiede fede e in qualche modo di rinunciare al mio sentire, alla mia capacità di discernere. Così, il giorno del mio “battesimo” buddista fu anche il giorno della mia morte buddista, an-che se ebbi poi modo di resuscitare e morire altre volte in quello stesso solco spirituale.

Se le religioni sono soggette sempre agli stessi problemi forse ci si dovrebbe avvicinare a una via prima che questa diventi una religione, mi dicevo. Cercando in questa direzione, venni a sapere dell’esisten-za di Sai Baba e decisi d’impiegare le mie ferie natalizie per andare a conoscerlo personalmente nel suo ashram di Puttaparthi in India. Lì appresi che veniva considerato una vera e propria divinità vivente, con tanto di miracoli conclamati. A tal proposito, non so dirvi se ma-terializzasse veramente gli anelli e la Vibuti (cenere sacra), ma posso testimoniare che esisteva un grandissimo ospedale in cui le cure erano

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completamente gratuite per la gente del posto, interamente finanziato dalla sua fondazione. Inoltre, non vi era alcuna speculazione sugli ospi-ti occidentali dell’ashram, cosa che invece ho visto fare in altri luoghi di questo tipo. Nonostante ciò, anche lì regnavano le stesse modalità, le stesse attitudini dogmatiche, e mi diventava sempre più chiaro che le religioni rispondevano a dei bisogni archetipici degli esseri umani, su tutti quello di credere in qualcosa che sia in grado di offrire un senso più profondo alla vita. I bhajan (canti devozionali), i mantra, le pre-ghiere e la visione del guru alle prime ore del mattino non stravolsero la mia vita. Ma, durante quei pochi giorni di permanenza all’ashram, ebbe inizio una serie “fortuita” d’incontri che mi permisero negli anni seguenti di conoscere e praticare diverse vie spirituali, seguire alcuni insegnanti e un maestro. Sai Baba ebbe questo compito nella mia vita.

Ma, a dispetto di tutte le energie e del tempo impiegati in questa ricerca, i miei dubbi sulla questione della spiritualità, dell’illuminazio-ne e dei relativi metodi per il suo raggiungimento erano ancora tutti lì. Continuavo a sentirmi a disagio, come quando si leggono quelle frasi imponenti tipo «Abbandona il tuo ego e troverai la porta della verità». Se da una parte ne percepisci la bellezza e la verità, allo stesso tempo ti senti, di fronte a queste affermazioni, come perso nell’enormità del messaggio. O i paradossi come «La vita è una strada senza via», che qualche volta mi affascinavano e qualche volta mi davano proprio sui nervi, perché mi sembravano una presa in giro. «Non attaccarti a nul-la!» Bello, bellissimo, ma come si faceva? Quando sentivo di essere at-taccato a certi sentimenti e a certi desideri, anche banalissimi, cercavo di applicare i rimedi e le pratiche che avevo imparato, ma non potevo non notare che continuavo a essere irrimediabilmente appiccicato a piccinerie e inezie di cui potevo persino accorgermi e anche vergognar-mi, ma da cui non riuscivo proprio a staccarmi. Altro che paradossi e koan Zen! Ho anche cercato di obbligarmi a non fare certe cose, a ignorare certi sentimenti, a non arrabbiarmi per delle sciocchezze, ma la realtà di ciò che ero emergeva comunque. Mi sentivo come una barca dal fondo fragilissimo: appena chiudevo una falla se ne apriva un’altra.

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E le pratiche, le meditazioni, i mantra, i ritiri spirituali non produ-cevano grandi spostamenti. Forse l’unica vera soluzione era ritirarsi in un monastero? O forse tutto questo era fatto per dei Superman spirituali di cui però non vedevo traccia intorno a me, e a ben guar-dare neanche un po’ più in là. Nel mio peregrinare spirituale, infatti, oltre a coloro che avevano più o meno i miei stessi problemi ho in-contrato molti specialisti che non hanno fatto che alimentare i miei dubbi. Monaci zen che davano di matto per un nonnulla, preti che si infuriavano se contraddetti, “madri spirituali” che si ingozzavano come nella migliore tradizione papale medioevale. Una volta andai ad ascoltare un ultrasessantenne, vestito da guru indiano con tanto di barba, che predicava di abbandonare la materialità per elevarsi a un livello superiore di energia, in modo da rendere la nostra aura più sottile. «Fantastico!» pensai. Poi, alla prima pausa, era lì che flirtava sfacciatamente con una ventenne in un modo che mi ricordava tanto la mia adolescenza. Un’altra volta ascoltai un tipo che in un famoso cen-tro di cultura orientale a New York diceva che non ci saremmo dovuti accontentare di sviluppare la nostra coscienza, ma avremmo dovuto puntare alla supercoscienza. Addirittura! E fu capace di parlare per l’intera conferenza con un microfono spento in mano, davanti a una ristretta audience che per questa ragione ridacchiava divertita. E po-trei continuare a lungo. Ero io che non ero fatto per questo genere di cose o c’era qualcosa che non funzionava nel modo in cui era impostata la questione della spiritualità? Cosa mi sfuggiva? La risposta, come ac-cade spesso, arrivò proprio quando non la stavo cercando, al termine di una giornata di prove per uno spettacolo teatrale, di quelle dove ti chiedi se non sia il caso di cambiare mestiere. Mi trovavo in bagno completamente scarico, abbattuto, frustrato, e intravidi nello specchio il mio sguardo affranto. Che mi ricordava quello sguardo? Cercai di non muovere un solo muscolo del viso per aiutarmi a ricordare, e la risposta arrivò come un fulmine. In un attimo intuii tutto ciò che la mia mente ordinaria avrebbe impiegato anni a comprendere e tradurre in qualcosa di comunicabile.

Il fatto è che allora ero molto affascinato (e ancora lo sono) dalla

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figura del mistico Jiddu Krishnamurti. Avevo letto molto di lui e su di lui, ero anche riuscito a fermarmi un paio di giorni alla fondazione a lui dedicata a Madras dove mi ero immerso nella lettura dei suoi discorsi, nell’ascolto delle registrazioni e nella visione di filmati che lo riguar-davano (oggi ormai si trova quasi tutto su internet). I suoi messaggi e il modo in cui li trasmetteva erano per me fonte di grande ispirazione. Eppure c’era qualcosa che mi lasciava perplesso: il suo sguardo triste, come se avesse rinunciato. Avevo letto che si era sentito in qualche modo incompreso ma, considerando le centinaia di pubblicazioni che esistevano su di lui in tutto il mondo e le folle che avevano partecipato ai suoi discorsi, non riuscivo proprio a capire come ciò fosse possibile. Mi sembrò di comprenderlo quella sera dopo le prove dello spettaco-lo, quando riconobbi nel mio sguardo allo specchio lo stesso senso di rinuncia e desolazione.

Quel giorno, prima di ritrovarmi in bagno, stavo lavorando con un’attrice su un ruolo per una commedia. Insistevo con lei su una certa attitudine che ritenevo dovesse avere il personaggio sul quale stavamo lavorando. Ma, nonostante le mie indicazioni, non riusciva a realizzare ciò che desideravo. Così interpretai io stesso il personaggio, mostran-dole esattamente qual era il tipo di attitudine (uno dei peggiori errori che un regista possa fare!). Ricordo che l’attrice mi disse di essere affa-scinata dalla mia interpretazione, che si trattava della giusta soluzione interpretativa, e che ne era assolutamente convinta. Eppure, ancora una volta, il massimo che riusciva a ottenere era una cattiva imitazione di ciò che le avevo malauguratamente mostrato. Era sconfortata e fru-strata, e io vivevo un senso di impotenza e di colpa per aver distrutto la sua fiducia nei propri mezzi espressivi. Perché io ero in grado di interpretare quel ruolo, oltretutto femminile, e lei, una buona attrice, non ci riusciva? Sapevo di aver fatto un lungo cammino di compren-sione psicofisica e interiore prima di arrivare al risultato che le avevo mostrato, ma quando cercai di riordinare tutti i passaggi che avevo fatto per studiare quel personaggio, mi resi conto improvvisamente che ne avevo perso le tracce. Un bel disastro dal quale ora non sapevo come tirarmi fuori. Ecco com’ero arrivato ad assumere quello sguardo

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affranto. Che Krishnamurti avesse vissuto, nel suo campo, un’espe-rienza di impotenza simile a quella che stavo vivendo io? Conoscevo qual era la verità di quel ruolo, ero in grado di raccontarla, persino di incarnarla, ma ora ero troppo lontano dal processo che avevo fatto per raggiungere quel risultato, per potermi ricordare precisamente i vari passaggi e riproporli a qualcuno.

Nelle osservazioni che hanno fatto seguito a quell’esperienza mi sono reso conto che quando abbiamo un’intuizione, un’illuminazione, è fatto piuttosto comune quello di dimenticarsi presto del processo che ci ha portati a quel punto, a quella scoperta. Da quel momento in poi la nostra attenzione si sposta in avanti, e nella nostra mente riman-gono i punti d’arrivo, i traguardi del percorso conoscitivo. Così quello di cui parliamo è spesso il risultato di un lungo processo, magari au-tentico e saggio come lo sono la maggior parte dei suggerimenti e delle indicazioni lasciateci dai mistici di ogni tempo. Ma è come se questi ci parlassero dell’atto finale del processo, come se ci mostrassero la giusta interpretazione, come io feci con l’attrice. Mi viene da dire che questi grandi pensatori sono troppo illuminati per chi ancora non si trova così avanti nel cammino spirituale.

L’idea che mi sono fatto in questi anni di ricerca è che il percorso di evoluzione personale sia un lungo cammino estremamente pratico e concreto, metaforicamente simile a quello che si deve fare per raggiun-gere la vetta di una montagna priva di sentieri. I mistici di ogni tempo si trovano lì in alto e ci invitano a sollevare lo sguardo e a raggiungerli ma, per poter arrivare sani e salvi, oltre a rivolgere di tanto in tanto lo sguardo verso l’alto per verificare di essere ancora nella giusta direzio-ne, dovremmo anche fare attenzione a dove mettiamo i piedi, cercan-do la via più praticabile, quella a noi più adatta. Guardando solo verso l’alto, infatti, è facile che si finisca col cadere continuamente, rimanen-do bloccati alla base della montagna, con la frustrazione di percepire la giusta direzione ma senza riuscire a superare neanche i primi e più semplici ostacoli della vita materiale. Allo stesso modo, tenendo gli oc-chi concentrati solo sui propri passi, solo sulla materiale quotidianità, è probabile che si continui semplicemente a vagare per la montagna

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senza neanche arrivare a intravedere quella vetta; e il non aver fatto dei passi falsi sarà una ben magra consolazione.

Da ciò che ho potuto osservare nella vita, dunque, per procede-re nel proprio cammino di evoluzione personale senza dubbio si deve aspirare a volare verso le alte vette della spiritualità di cui ci parlano i mistici di ogni tempo, ma continuando comunque a stare con i piedi ben saldi per terra.

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