Carlo F. Traverso (ePub) - Liber Liber · Carlo Magno, e idea dello stato civile e lettera-rio...

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 3. – Parte 1: Dalla caduta dell'impero occidentale fino all'annoMCLXXXIIIAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE: CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx).

CODICE ISBN E-BOOK: 9788828101314

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenzaspecificata al seguente indirizzo Internet:http://www.liberliber.it/online/opere/libri/licenze/

COPERTINA: [elaborazione da] "Gesta Theodorici -Flavius Magnus Aurelius Cassiodorus” - 1177 - Lei-

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TITOLO: Storia della letteratura italiana del cav.Abate Girolamo Tiraboschi – Tomo 3. – Parte 1: Dalla caduta dell'impero occidentale fino all'annoMCLXXXIIIAUTORE: Tiraboschi, GirolamoTRADUTTORE: CURATORE:NOTE: Il testo è presente in formato immagine sulsito The Internet Archive (http://www.archive.org/).Alcuni errori sono stati verificati e corretti sullabase dell'edizione di Milano, Società tipograficade' classici italiani, 1823, presente sul sito OPALdell'Università di Torino(http://www.opal.unito.it/psixsite/default.aspx).

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den, University Library - https://upload.wikime-dia.org/wikipedia/commons/a/a0/Gesta_Theodorici_-_Flavius_Magnus_Aurelius_Cassiodorus_(c_485_-_c_580).jpg - Pubblico dominio.

TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 3. [-9.]Dalla rovina dell'impero occidentale fino all'anno1183. 1. - Firenze : presso Molini, Landi, e C.o,1806. - LXVI [i. e. 46], 226, [2] p

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 febbraio 2014

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT004200 CRITICA LETTERARIA / Europea / Italiana

DIGITALIZZAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected]

REVISIONE:Claudio Paganelli, [email protected] Santamaria

IMPAGINAZIONE:Ferdinando Chiodo, [email protected] (ODT)Carlo F. Traverso (ePub)Ugo Santamaria (revisione ePub)

PUBBLICAZIONE:Claudio Paganelli, [email protected]

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TRATTO DA: Storia della letteratura italiana delcav. abate Girolamo Tiraboschi ... Tomo 3. [-9.]Dalla rovina dell'impero occidentale fino all'anno1183. 1. - Firenze : presso Molini, Landi, e C.o,1806. - LXVI [i. e. 46], 226, [2] p

CODICE ISBN FONTE: n. d.

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 6 febbraio 2014

INDICE DI AFFIDABILITÀ: 10: affidabilità bassa1: affidabilità standard2: affidabilità buona3: affidabilità ottima

SOGGETTO:LIT004200 CRITICA LETTERARIA / Europea / Italiana

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Prefazione.......................................................................9Riflessioni sull'indole della lingua italiana...................31Indice, e Sommario del Tomo III. Parte I.....................67Storia della letteratura italiana dalla rovina dell'imperooccidentale fino all'anno MCLXXXIII.........................79

LIBRO PRIMO. Storia della Letteratura Italianadalla rovina dell'Impero occidentale fino al princi-pio del regno de' Longobardi................................79

Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio d'Italia sotto il regno de' Goti.....................81Capo II. Studj sacri.........................................111Capo III. Belle lettere.....................................129Capo IV. Filosofia e Matematica....................151Capo V. Medicina...........................................172Capo VI. Giurisprudenza...............................176Capo VII. Arti liberali....................................184

LIBRO II. Storia della Letteratura Italiana sotto ilregno de' Longobardi..........................................200

Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio d'Italia in quest'epoca...............................202Capo II. Studj sacri.........................................230Capo III. Belle Lettere....................................277Capo IV. Filosofia, Matematica, Medicina.. . .289Capo V. Giurisprudenza.................................293

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Indice generale

Liber Liber......................................................................4Prefazione.......................................................................9Riflessioni sull'indole della lingua italiana...................31Indice, e Sommario del Tomo III. Parte I.....................67Storia della letteratura italiana dalla rovina dell'imperooccidentale fino all'anno MCLXXXIII.........................79

LIBRO PRIMO. Storia della Letteratura Italianadalla rovina dell'Impero occidentale fino al princi-pio del regno de' Longobardi................................79

Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio d'Italia sotto il regno de' Goti.....................81Capo II. Studj sacri.........................................111Capo III. Belle lettere.....................................129Capo IV. Filosofia e Matematica....................151Capo V. Medicina...........................................172Capo VI. Giurisprudenza...............................176Capo VII. Arti liberali....................................184

LIBRO II. Storia della Letteratura Italiana sotto ilregno de' Longobardi..........................................200

Capo I. Idea generale dello stato civile e lettera-rio d'Italia in quest'epoca...............................202Capo II. Studj sacri.........................................230Capo III. Belle Lettere....................................277Capo IV. Filosofia, Matematica, Medicina.. . .289Capo V. Giurisprudenza.................................293

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Capo VI. Arti liberali.....................................296LIBRO III. Storia della Letteratura Italiana da'tempi di Carlo Magno fino alla morte di OttoneIII........................................................................305

Capo I. Risorgimento degli studi per opera diCarlo Magno, e idea dello stato civile e lettera-rio d'Italia in quest'epoca...............................308Capo II. Studj sacri.........................................364

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Capo VI. Arti liberali.....................................296LIBRO III. Storia della Letteratura Italiana da'tempi di Carlo Magno fino alla morte di OttoneIII........................................................................305

Capo I. Risorgimento degli studi per opera diCarlo Magno, e idea dello stato civile e lettera-rio d'Italia in quest'epoca...............................308Capo II. Studj sacri.........................................364

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STORIA DELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO III. - PARTE I. DALLA ROVINA DELL'IMPERO OCCIDEN-

TALE FINO ALL'ANNO MCLXXXIII.

www.liberliber.it

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STORIA DELLA

LETTERATURA ITALIANADEL CAV. ABATE

GIROLAMO TIRABOSCHI

TOMO III. - PARTE I. DALLA ROVINA DELL'IMPERO OCCIDEN-

TALE FINO ALL'ANNO MCLXXXIII.

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PREFAZIONE.

Quanto più ci allontaniamo da' lieti tempi della romanarepubblica, e quanto più c'inoltriamo nelle vicende dellanostra infelice Italia, tanto più sterile e più spiacevoleargomenti di ragionare ci somministra l'italiana lettera-tura. Molti secoli noi dobbiamo trascorrere in questotomo; e dobbiamo trascorrerli senza mai incontrarci inoggetto della cui vista possiam chiamarci pienamentecontenti. Uomini d'abito di legge, di lingua, di costumidiversi, ma quasi tutti barbari e incolti, Goti, Longobar-di, Franchi, Tedeschi, Saracini, Normanni, innondan daogni parte l'Italia, se ne contendon tra loro, o se ne divi-don l'impero, e la riempiono in ogni parte di desolazionee di orrore. Le arti e le scienze in mezzo a sì fiero scon-volgimento costrette sono o a nascondersi, o a fuggirse-ne altrove, e, se pur osan mostrarsi, convien loro pren-dere abito e portamento straniero, per non offendere losguardo degli stranieri signori. Noi dovrem dunque ve-dere la barbarie e la rozzezza sparsa per ogni dove; e setalvolta ci si offriranno alcuni gran genj che in altri tem-pi avrebbono gareggiato co' più dotti e coi più leggiadriscrittori, avremo il dolore di rimirarli far bensì qualchesforzo per sollevare all'antico onore le scienze, ma osoccombere nella troppo ardua impresa, o non otteneredalle loro fatiche che un tenue e momentaneo frutto. Inmezzo a sì incolto e insalvatichito terreno io debbo ora

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PREFAZIONE.

Quanto più ci allontaniamo da' lieti tempi della romanarepubblica, e quanto più c'inoltriamo nelle vicende dellanostra infelice Italia, tanto più sterile e più spiacevoleargomenti di ragionare ci somministra l'italiana lettera-tura. Molti secoli noi dobbiamo trascorrere in questotomo; e dobbiamo trascorrerli senza mai incontrarci inoggetto della cui vista possiam chiamarci pienamentecontenti. Uomini d'abito di legge, di lingua, di costumidiversi, ma quasi tutti barbari e incolti, Goti, Longobar-di, Franchi, Tedeschi, Saracini, Normanni, innondan daogni parte l'Italia, se ne contendon tra loro, o se ne divi-don l'impero, e la riempiono in ogni parte di desolazionee di orrore. Le arti e le scienze in mezzo a sì fiero scon-volgimento costrette sono o a nascondersi, o a fuggirse-ne altrove, e, se pur osan mostrarsi, convien loro pren-dere abito e portamento straniero, per non offendere losguardo degli stranieri signori. Noi dovrem dunque ve-dere la barbarie e la rozzezza sparsa per ogni dove; e setalvolta ci si offriranno alcuni gran genj che in altri tem-pi avrebbono gareggiato co' più dotti e coi più leggiadriscrittori, avremo il dolore di rimirarli far bensì qualchesforzo per sollevare all'antico onore le scienze, ma osoccombere nella troppo ardua impresa, o non otteneredalle loro fatiche che un tenue e momentaneo frutto. Inmezzo a sì incolto e insalvatichito terreno io debbo ora

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aggirarmi, e spero che ognuno comprenderà facilmentequanto di noia debba io sentire nel correrlo. Questo migiovi almeno per ottenere compatimento da' cortesi ederuditi lettori, se in mezzo a sì gran buio mi vedrannosonnecchiare talvolta, ed anche inciampare. È egli pos-sibile il non sentirsi, fra tenebre così folte, venir meno leforze e il coraggio? Prima però d'innoltrarmi, mi è sembrato opportuno ditrattar qui brevemente del danno che dalle invasioni deiBarbari soffrì la lingua latina, e del sorgere che quindifece la nostra italiana. Dissi di trattar brevemente; per-ciocchè io confesso che a cotali ricerche di origini, dietimologie, di derivazioni, io ho una certa, comunquevoglia appellarsi, o pregiudicata, o naturale avversione,che non ho mai potuto ottenere da me medesimo di far-ne un serio e attento studio. E inoltre su questo argo-mento si è già disputato da tanti illustri scrittori, che ap-pena rimane luogo a parlarne senza ripetere inutilmenteciò ch'essi han detto. Io penso però, che il non essersideterminato colla chiarezza e precisione dovuta lo statodella quistione, abbia introdotte inutili e lunghe contesesu un punto su cui forse non si sarebbe altrimenti dispu-tato giammai, e su cui non mi sembra che si possa di-sputar molto. Rechiam prima le diverse opinioni, e veg-giam poscia se ci riesca di unire in pace i loro sostenito-ri. Leonardo Bruni saprannomato l'Aretino, erudito e coltoscrittore del XV sec. pensò e lusingossi di dimostrare

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aggirarmi, e spero che ognuno comprenderà facilmentequanto di noia debba io sentire nel correrlo. Questo migiovi almeno per ottenere compatimento da' cortesi ederuditi lettori, se in mezzo a sì gran buio mi vedrannosonnecchiare talvolta, ed anche inciampare. È egli pos-sibile il non sentirsi, fra tenebre così folte, venir meno leforze e il coraggio? Prima però d'innoltrarmi, mi è sembrato opportuno ditrattar qui brevemente del danno che dalle invasioni deiBarbari soffrì la lingua latina, e del sorgere che quindifece la nostra italiana. Dissi di trattar brevemente; per-ciocchè io confesso che a cotali ricerche di origini, dietimologie, di derivazioni, io ho una certa, comunquevoglia appellarsi, o pregiudicata, o naturale avversione,che non ho mai potuto ottenere da me medesimo di far-ne un serio e attento studio. E inoltre su questo argo-mento si è già disputato da tanti illustri scrittori, che ap-pena rimane luogo a parlarne senza ripetere inutilmenteciò ch'essi han detto. Io penso però, che il non essersideterminato colla chiarezza e precisione dovuta lo statodella quistione, abbia introdotte inutili e lunghe contesesu un punto su cui forse non si sarebbe altrimenti dispu-tato giammai, e su cui non mi sembra che si possa di-sputar molto. Rechiam prima le diverse opinioni, e veg-giam poscia se ci riesca di unire in pace i loro sostenito-ri. Leonardo Bruni saprannomato l'Aretino, erudito e coltoscrittore del XV sec. pensò e lusingossi di dimostrare

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che la lingua italiana sia antica al pari della latina, e cheamendue il tempo medesimo fossero usate in Roma, laprima dal rozzo popolo, e ne' famigliari ragionamenti, lasecondi dai dotti scrivendo e parlando nelle pubblicheassemblee (l. 6, ep. 10). Il card. Bembo introdusse eglipure nelle sue Prose (l. 1) mess. Ercole Strozza a soste-ner tal opinione, la quale ancora è stata più recentemen-te dal Quadrio abbracciata e difesa (Stor. della Poes. t.1, p. 41). Or se essi con ciò pensano di persuaderci chela lingua italiana, qual l'usiamo al presente, o non guaridiversa, si usasse ancor da' Romani, parmi impossibilech'essi non si avveggano della frivolezza delle ragioniche arrecano a provare il lor sentimento. In Plauto e in Terenzio, dicono essi, troviamo alcunimodi di dire, e alcune parole che si accostan molto alparlare italiano, e che non veggonsi mai usate dagli altriscrittori latini. Dunque il parlar popolare a cui s'accostaquel di Terenzio e di Plauto, era italiano. Se questa siauna e legittima conseguenza, lascio che ogni uom disenno il decida per se medesimo. A me sembra che dallostile usato da que' due scrittori altro non si ricavi, se nonche il popol di Roma era qual è anche al presente qua-lunque popol del mondo, cioè che nel parlar famigliaresi usavan da esso parole, frasi, desinenze, troncamentied altri, dirò così, diversi accidenti che nello scriverenon si usavano; e che appunto perchè essi erano usatinel parlar famigliare, si mantennero durevolmente, e sipropagarono fino a noi. Ma aggiungono essi, nelle scuo-

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che la lingua italiana sia antica al pari della latina, e cheamendue il tempo medesimo fossero usate in Roma, laprima dal rozzo popolo, e ne' famigliari ragionamenti, lasecondi dai dotti scrivendo e parlando nelle pubblicheassemblee (l. 6, ep. 10). Il card. Bembo introdusse eglipure nelle sue Prose (l. 1) mess. Ercole Strozza a soste-ner tal opinione, la quale ancora è stata più recentemen-te dal Quadrio abbracciata e difesa (Stor. della Poes. t.1, p. 41). Or se essi con ciò pensano di persuaderci chela lingua italiana, qual l'usiamo al presente, o non guaridiversa, si usasse ancor da' Romani, parmi impossibilech'essi non si avveggano della frivolezza delle ragioniche arrecano a provare il lor sentimento. In Plauto e in Terenzio, dicono essi, troviamo alcunimodi di dire, e alcune parole che si accostan molto alparlare italiano, e che non veggonsi mai usate dagli altriscrittori latini. Dunque il parlar popolare a cui s'accostaquel di Terenzio e di Plauto, era italiano. Se questa siauna e legittima conseguenza, lascio che ogni uom disenno il decida per se medesimo. A me sembra che dallostile usato da que' due scrittori altro non si ricavi, se nonche il popol di Roma era qual è anche al presente qua-lunque popol del mondo, cioè che nel parlar famigliaresi usavan da esso parole, frasi, desinenze, troncamentied altri, dirò così, diversi accidenti che nello scriverenon si usavano; e che appunto perchè essi erano usatinel parlar famigliare, si mantennero durevolmente, e sipropagarono fino a noi. Ma aggiungono essi, nelle scuo-

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le romane insegnavasi la lingua latina, come or s'inse-gna tra noi. Dunque ella non era la lingua usata dal vol-go. Sì certo; la lingua latina elegante, colta, vezzosa nonsi usava dal popolo, come non si usa dal popolo tra noil'elegante lingua italiana. E come tra noi nelle scuoleben regolate, oltre il latino, s'istruiscono i fanciulli nelcolto toscano, così i Romani, oltre la lingua greca, eranoammaestrati nell'eleganze della latina; e come tra noi,benchè la lingua italiana sia a tutti comune, pochi nondi-meno scrivono in essa con eleganza, non altrimenti av-veniva ancor tra' Romani, che non molti erano i colti egraziosi scrittori. Io non voglio qui trattenermi a esami-nare le altre ragioni che da' sostenitori di questa opinio-ne si allegano in lor favore. Ognun può vederle ne' lorolibri; e se ciascheduna di esse, o tutte insieme han forzaa dimostrare altro che ciò ch'io ho detto poc'anzi, cioèche il parlar del volgo in Roma e in tutta l'Italia era piùrozzo che il parlare e lo scriver dei dotti, come appuntoil parlar del volgo in Italia e in ogni altro paese del mon-do è più rozzo del parlare e dello scriver de' dotti, io ce-derò volentieri, e confesserò di essere stato in errore. Un'altra non meno nuova opinione sull'origine della lin-gua italiana è stata proposta dal march. Maffei. Questogrand'uomo ha scoperti e combattuti felicemente moltipopolari errori in ciò che appartiene ad antichità e a sto-ria, che sembravano dalla perpetua tradizione comuni-carsi dall'una all'altra età, e gittare sempre più ferma ra-dice non sol tra' il volgo, ma ancor tra' dotti. Ma sembra

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le romane insegnavasi la lingua latina, come or s'inse-gna tra noi. Dunque ella non era la lingua usata dal vol-go. Sì certo; la lingua latina elegante, colta, vezzosa nonsi usava dal popolo, come non si usa dal popolo tra noil'elegante lingua italiana. E come tra noi nelle scuoleben regolate, oltre il latino, s'istruiscono i fanciulli nelcolto toscano, così i Romani, oltre la lingua greca, eranoammaestrati nell'eleganze della latina; e come tra noi,benchè la lingua italiana sia a tutti comune, pochi nondi-meno scrivono in essa con eleganza, non altrimenti av-veniva ancor tra' Romani, che non molti erano i colti egraziosi scrittori. Io non voglio qui trattenermi a esami-nare le altre ragioni che da' sostenitori di questa opinio-ne si allegano in lor favore. Ognun può vederle ne' lorolibri; e se ciascheduna di esse, o tutte insieme han forzaa dimostrare altro che ciò ch'io ho detto poc'anzi, cioèche il parlar del volgo in Roma e in tutta l'Italia era piùrozzo che il parlare e lo scriver dei dotti, come appuntoil parlar del volgo in Italia e in ogni altro paese del mon-do è più rozzo del parlare e dello scriver de' dotti, io ce-derò volentieri, e confesserò di essere stato in errore. Un'altra non meno nuova opinione sull'origine della lin-gua italiana è stata proposta dal march. Maffei. Questogrand'uomo ha scoperti e combattuti felicemente moltipopolari errori in ciò che appartiene ad antichità e a sto-ria, che sembravano dalla perpetua tradizione comuni-carsi dall'una all'altra età, e gittare sempre più ferma ra-dice non sol tra' il volgo, ma ancor tra' dotti. Ma sembra

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che da questo suo lodevol costume di farsi incontro a'pregiudizj degli uomini, quando non fosser conformi oalla retta ragione, o a una valida autorità, egli si sia tal-volta lasciato condur tropp'oltre, e che in qualche occa-sione troppo facilmente abbia gridato all'errore. Alcuneprove avremo a recarne in questa parte di Storia, a cui orci accingiamo. Fra queste parmi che debba aver luogociò ch'egli ha scritto intorno all'origine della nostra lin-gua. Egli rigetta a ragione il sentimento da noi confutatopoco anzi, poichè, dice (Ver. illustr. par. 1, l. 11): "Nonbisogna dar nelle estremità in cui, come si vede nel prin-cipio delle Prose del Bembo, si diede per alcuni altrevolte, cioè di dire che l'italiana favella fosse già fin daltempo de' Romani; perchè que' volgarismi non bastava-no a formare una lingua, nè a renderla tale, che potesseusarsi dagli scrittori". Ma egli ciò non ostante non vuolsentire la comune opinione. "Comunissima dottrina è,dic'egli, che se ne debba l'origine a' Barbari e che na-scesse dal mescolamento della lingua loro colla latina.Con tutto ciò indubitato a noi sembra che niuna parteavessero nel formare l'italian linguaggio nè i Longobar-di nè i Goti, e ch'esso da così fatto accoppiamento nonderivasse altramente. Ma da che dunque, diranno, pro-siegue egli dopo altre cose, provenne la trasformazionedella lingua latina nella volgare? Provenne dall'abban-donar del tutto nel favellare la latina nobile, gramaticalee corretta, e dal porre in uso generalmente la plebea,

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che da questo suo lodevol costume di farsi incontro a'pregiudizj degli uomini, quando non fosser conformi oalla retta ragione, o a una valida autorità, egli si sia tal-volta lasciato condur tropp'oltre, e che in qualche occa-sione troppo facilmente abbia gridato all'errore. Alcuneprove avremo a recarne in questa parte di Storia, a cui orci accingiamo. Fra queste parmi che debba aver luogociò ch'egli ha scritto intorno all'origine della nostra lin-gua. Egli rigetta a ragione il sentimento da noi confutatopoco anzi, poichè, dice (Ver. illustr. par. 1, l. 11): "Nonbisogna dar nelle estremità in cui, come si vede nel prin-cipio delle Prose del Bembo, si diede per alcuni altrevolte, cioè di dire che l'italiana favella fosse già fin daltempo de' Romani; perchè que' volgarismi non bastava-no a formare una lingua, nè a renderla tale, che potesseusarsi dagli scrittori". Ma egli ciò non ostante non vuolsentire la comune opinione. "Comunissima dottrina è,dic'egli, che se ne debba l'origine a' Barbari e che na-scesse dal mescolamento della lingua loro colla latina.Con tutto ciò indubitato a noi sembra che niuna parteavessero nel formare l'italian linguaggio nè i Longobar-di nè i Goti, e ch'esso da così fatto accoppiamento nonderivasse altramente. Ma da che dunque, diranno, pro-siegue egli dopo altre cose, provenne la trasformazionedella lingua latina nella volgare? Provenne dall'abban-donar del tutto nel favellare la latina nobile, gramaticalee corretta, e dal porre in uso generalmente la plebea,

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scorretta e mal pronunziata. Quindi quasi ogni parola al-terandosi, e diversi modi prendendo, nuova lingua ven-ne in progresso di tempo a formarsi. Nè si creda che da'Barbari recata fosse così fatta scorrezione e falsa pro-nunzia, sì perchè abbiam già veduto come del tutto op-posto se ne sarebbe per essi indotto il cambiamento, e, sìperchè molto prima de' Barbari era già tutto questo inItalia, come faremo ora in pochi versi conoscere". Pren-de egli quindi a mostrare che prima delle invasioni de'Barbari erano nella lingua latina parole ed espressioniche noi crederemmo introdotte da' Barbari. Ma da qualiautori le trae egli? La maggior parte da Cassiodoro, daGellio, da Servio, da s. Girolamo, da s. Gaudenzio, da s.Zenone, cioè da autori che vissero quando la lingua lati-na era già decaduta dall'antica sua purezza. Che se ve neha alcuni altri più antichi, come Plauto e Terenzio, ciòpruova solo che nel parlar popolare erano in uso alcunevoci che dalle più colte persone non si usavano. Or ionon comprendo come un uomo di sottile discernimento,qual era il march. Maffei, non abbia avvertito che i passida lui addotti pruovan contro di lui. Non fu egli forse finda' tempi d'Augusto, e molto più sotto i seguenti impe-radori, che Roma e l'Italia cominciò ad essere innondata,se non vuol dirsi da Barbari, almen da stranieri? Quantioratori, poeti, storici venuti di Francia e di Spagna ab-biam noi trovati in Roma sotto i primi Cesari? Molto piùcrebbe il numero degli stranieri, dappoichè cominciaro-no a sedere sul trono stranieri imperadori, come si spes-so avvenne dopo la morte di Domiziano fino alla caduta

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scorretta e mal pronunziata. Quindi quasi ogni parola al-terandosi, e diversi modi prendendo, nuova lingua ven-ne in progresso di tempo a formarsi. Nè si creda che da'Barbari recata fosse così fatta scorrezione e falsa pro-nunzia, sì perchè abbiam già veduto come del tutto op-posto se ne sarebbe per essi indotto il cambiamento, e, sìperchè molto prima de' Barbari era già tutto questo inItalia, come faremo ora in pochi versi conoscere". Pren-de egli quindi a mostrare che prima delle invasioni de'Barbari erano nella lingua latina parole ed espressioniche noi crederemmo introdotte da' Barbari. Ma da qualiautori le trae egli? La maggior parte da Cassiodoro, daGellio, da Servio, da s. Girolamo, da s. Gaudenzio, da s.Zenone, cioè da autori che vissero quando la lingua lati-na era già decaduta dall'antica sua purezza. Che se ve neha alcuni altri più antichi, come Plauto e Terenzio, ciòpruova solo che nel parlar popolare erano in uso alcunevoci che dalle più colte persone non si usavano. Or ionon comprendo come un uomo di sottile discernimento,qual era il march. Maffei, non abbia avvertito che i passida lui addotti pruovan contro di lui. Non fu egli forse finda' tempi d'Augusto, e molto più sotto i seguenti impe-radori, che Roma e l'Italia cominciò ad essere innondata,se non vuol dirsi da Barbari, almen da stranieri? Quantioratori, poeti, storici venuti di Francia e di Spagna ab-biam noi trovati in Roma sotto i primi Cesari? Molto piùcrebbe il numero degli stranieri, dappoichè cominciaro-no a sedere sul trono stranieri imperadori, come si spes-so avvenne dopo la morte di Domiziano fino alla caduta

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dell'impero occidentale. Una cognizione mediocre dellastoria romana basta a persuadercene. Qual maravigliadunque se, essendo Roma e l'Italia piena di nuovi abi-tanti di patria e d'idioma diversi, venisse la lingua latinacorrompendosi a lenti passi, e facendosi rozza ed incol-ta?Il march. Maffei dice che questo corrompimento vennedall'abbandonarsi il parlar colto ed elegante, e dall'intro-dursi il popolar grossolano. Ma ci dica egli di graziaonde ciò appunto avvenisse. Per molti secoli la lingualatina avea successivamente acquistate nuove grazie ebellezze, sino a giungere a quella perfezione che ottennea' tempi di Cesare e di Augusto. Perchè mai decaddeella poscia? Perchè quelli ch'ei chiama popolari idioti-smi, s'introdussero ancora tra le persone colte e ne' libri?Gli storici, gli oratori, i poeti del II. sec. e de' susseguen-ti scrivevan pure nella più pulita maniera che fosse loropossibile, e se fosse stato lor detto che introducevano ne'loro libri il rozzo parlar del volgo, essi avrebbon credutodi ricevere oltraggio. Perchè dunque ciò non ostante illoro stile è si diverso da quello de' più antichi scrittori?Perchè si veggono nelle lor opere voci ed espressioniche agli antichi erano sconosciute? Perchè, volendo essipure essere colti ed eleganti scrittori, son nondimenoscrittori rozzi ed incolti? Di ciò già si è favellato nellaDissertazione premessa al secondo tomo di questa Sto-ria. Il gran numero di stranieri ch'era in Roma, ne fu, amio parere, la sola e vera ragione. Questi non potevano

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dell'impero occidentale. Una cognizione mediocre dellastoria romana basta a persuadercene. Qual maravigliadunque se, essendo Roma e l'Italia piena di nuovi abi-tanti di patria e d'idioma diversi, venisse la lingua latinacorrompendosi a lenti passi, e facendosi rozza ed incol-ta?Il march. Maffei dice che questo corrompimento vennedall'abbandonarsi il parlar colto ed elegante, e dall'intro-dursi il popolar grossolano. Ma ci dica egli di graziaonde ciò appunto avvenisse. Per molti secoli la lingualatina avea successivamente acquistate nuove grazie ebellezze, sino a giungere a quella perfezione che ottennea' tempi di Cesare e di Augusto. Perchè mai decaddeella poscia? Perchè quelli ch'ei chiama popolari idioti-smi, s'introdussero ancora tra le persone colte e ne' libri?Gli storici, gli oratori, i poeti del II. sec. e de' susseguen-ti scrivevan pure nella più pulita maniera che fosse loropossibile, e se fosse stato lor detto che introducevano ne'loro libri il rozzo parlar del volgo, essi avrebbon credutodi ricevere oltraggio. Perchè dunque ciò non ostante illoro stile è si diverso da quello de' più antichi scrittori?Perchè si veggono nelle lor opere voci ed espressioniche agli antichi erano sconosciute? Perchè, volendo essipure essere colti ed eleganti scrittori, son nondimenoscrittori rozzi ed incolti? Di ciò già si è favellato nellaDissertazione premessa al secondo tomo di questa Sto-ria. Il gran numero di stranieri ch'era in Roma, ne fu, amio parere, la sola e vera ragione. Questi non potevano

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ivi usare del natio lor linguaggio, che non era inteso.Conveniva dunque che usassero del latino. Ma ben pos-siamo immaginarci qual fosse il loro latino, e quantebarbare voci essi vi frammischiassero, paghi di dare adesse suono e desinenza latina. Queste voci e questeespressioni di nuovo conio passavano ancora nella vi-cendevole conversazione dagli stranieri a' Romani; equesti non sol ne usavano ragionando, ma quasi loromalgrado le inserivano ancora ne' loro libri. Veggasi ciòche detto ne abbiamo nella sopraccennata Dissertazione,esaminando la difficil quistione onde sia avvenuto cheper tanti secoli appena vi sia stato colto scrittor latino. Molto più dovette ciò avvenire quando i Goti, e poscia iLongobardi, invaser l'Italia. Il march. Maffei per confer-mare il suo sentimento, che nè le arti nè la lingua nonsoffrì danno da' Barbari, si è sforzato di persuaderci chescarso fosse il lor numero, e in niun modo bastevole aoperare sì gran cambiamento. Ma su questo punto ilMuratori lo ha confutato, a mio parere, con evidenza,mostrando colla testimonianza degli antichi scrittori chegrandissimo fu il numero de' Goti e de' Longobardi che,innondaron l'Italia, e noi pur qualche cosa ne dovremdire parlando del dicadimento delle arti al tempo de'Goti. Or poichè questi popoli a guisa di rovinoso torren-te si sparsero nella più parte delle nostre provincie, pos-siam noi dubitare che gran cambiamento perciò non av-venisse nella lingua latina? A me sembra tal cosa nonsol sì probabile, ma sì necessaria a seguire, che non so

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ivi usare del natio lor linguaggio, che non era inteso.Conveniva dunque che usassero del latino. Ma ben pos-siamo immaginarci qual fosse il loro latino, e quantebarbare voci essi vi frammischiassero, paghi di dare adesse suono e desinenza latina. Queste voci e questeespressioni di nuovo conio passavano ancora nella vi-cendevole conversazione dagli stranieri a' Romani; equesti non sol ne usavano ragionando, ma quasi loromalgrado le inserivano ancora ne' loro libri. Veggasi ciòche detto ne abbiamo nella sopraccennata Dissertazione,esaminando la difficil quistione onde sia avvenuto cheper tanti secoli appena vi sia stato colto scrittor latino. Molto più dovette ciò avvenire quando i Goti, e poscia iLongobardi, invaser l'Italia. Il march. Maffei per confer-mare il suo sentimento, che nè le arti nè la lingua nonsoffrì danno da' Barbari, si è sforzato di persuaderci chescarso fosse il lor numero, e in niun modo bastevole aoperare sì gran cambiamento. Ma su questo punto ilMuratori lo ha confutato, a mio parere, con evidenza,mostrando colla testimonianza degli antichi scrittori chegrandissimo fu il numero de' Goti e de' Longobardi che,innondaron l'Italia, e noi pur qualche cosa ne dovremdire parlando del dicadimento delle arti al tempo de'Goti. Or poichè questi popoli a guisa di rovinoso torren-te si sparsero nella più parte delle nostre provincie, pos-siam noi dubitare che gran cambiamento perciò non av-venisse nella lingua latina? A me sembra tal cosa nonsol sì probabile, ma sì necessaria a seguire, che non so

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intendere come ne possa nascere dubbio. Ma le linguede' popoli che invaser l'Italia, dice il march. Maffei, era-no aspre e di difficil pronuncia, piene di consonanti, eappena mai finivano le parole con una vocale. La linguaitaliana al contrario è lingua dolce e soave, in cui molteson le vocali colle quali quasi sempre ella termina le sueparole. Dunque non potè una lingua si dolce nascer dacosì barbare madri. Io non dubito punto che se avesserdovuto gli stessi stranieri formare una nuova lingua, essil'avrebbono, per così dire, acconciata al loro dosso. Magl'Italiani serbarono il loro antico idioma, benchè il con-versare coi Barbari li conducesse a usare essi pure tal-volta delle lor voci e delle loro espressioni. Essi ne usa-vano, ma procuravano insieme di ridurle alla dolcezzadella desinenza latina. E i Barbari stessi volendo adat-tarsi al linguaggio de' popoli fra cui viveano, si sforza-vano di spogliarsi della natia rozzezza del loro idioma, edi conformarsi, quanto più era loro possibile, alla soavi-tà del parlare usato in Italia (1). Qual maraviglia che ne

1 Opportunissimo a questo proposito è il passo di Cicer. prodotto dal sig.Landi nelle sue note al Compendio francese della mia Storia (t. 2, p. 429,ec.) ove quel grand'uomo riflette che dagli stranieri stabilitisi in Atene e inRoma erasi cominciata a corrompere la lingua greca non meno che la lati-na: Mitto C. Laelium, P. Scipionem: aetatis illius ista fuit laus, tamquaminnocentiae, sic latine loquendi ... sed hanc rem deteriorem vetustas fecitet Romae, et in Graecia: confluxerunt enim et Athenas et in hanc urbesmulti inquitate loquentes ex diversis locis: quo magis expurgandus est ser-mo (De Claris Orat. n. 74). Aggiugne poscia il suddetto compendiatore,che, ove io ho asserito che i Siciliani, i quali furono i più antichi tra' poetiitaliani, amavano di terminar le parole colla vocale, ho forse toccata lavera origine di quella general desinenza in vocale, che ha la lingua italia-na; perciocchè è facile che dalla Sicilia (ma non so con qual fondamento)

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intendere come ne possa nascere dubbio. Ma le linguede' popoli che invaser l'Italia, dice il march. Maffei, era-no aspre e di difficil pronuncia, piene di consonanti, eappena mai finivano le parole con una vocale. La linguaitaliana al contrario è lingua dolce e soave, in cui molteson le vocali colle quali quasi sempre ella termina le sueparole. Dunque non potè una lingua si dolce nascer dacosì barbare madri. Io non dubito punto che se avesserdovuto gli stessi stranieri formare una nuova lingua, essil'avrebbono, per così dire, acconciata al loro dosso. Magl'Italiani serbarono il loro antico idioma, benchè il con-versare coi Barbari li conducesse a usare essi pure tal-volta delle lor voci e delle loro espressioni. Essi ne usa-vano, ma procuravano insieme di ridurle alla dolcezzadella desinenza latina. E i Barbari stessi volendo adat-tarsi al linguaggio de' popoli fra cui viveano, si sforza-vano di spogliarsi della natia rozzezza del loro idioma, edi conformarsi, quanto più era loro possibile, alla soavi-tà del parlare usato in Italia (1). Qual maraviglia che ne

1 Opportunissimo a questo proposito è il passo di Cicer. prodotto dal sig.Landi nelle sue note al Compendio francese della mia Storia (t. 2, p. 429,ec.) ove quel grand'uomo riflette che dagli stranieri stabilitisi in Atene e inRoma erasi cominciata a corrompere la lingua greca non meno che la lati-na: Mitto C. Laelium, P. Scipionem: aetatis illius ista fuit laus, tamquaminnocentiae, sic latine loquendi ... sed hanc rem deteriorem vetustas fecitet Romae, et in Graecia: confluxerunt enim et Athenas et in hanc urbesmulti inquitate loquentes ex diversis locis: quo magis expurgandus est ser-mo (De Claris Orat. n. 74). Aggiugne poscia il suddetto compendiatore,che, ove io ho asserito che i Siciliani, i quali furono i più antichi tra' poetiitaliani, amavano di terminar le parole colla vocale, ho forse toccata lavera origine di quella general desinenza in vocale, che ha la lingua italia-na; perciocchè è facile che dalla Sicilia (ma non so con qual fondamento)

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nascesse quindi una lingua che, in mezzo a molte voci ea molte maniere di dire prese da' Barbari, ritenesse ciònon ostante in gran parte la dolcezza e l'armonia dellalingua latina? Per ciò poi che appartiene al terminar diogni parola con qualche vocale, ch'è proprio della linguaitaliana, se al march. Maffei non sembra difficile cheessa si sia potuta formare dalla latina, ove pure moltissi-me son le parole che terminano con consonante, nondeegli sembrare strano ch'essa abbia potuto prenderl'origine ancor da quelle de' Barbari. Sembra adunque che debba ancor ritenersi la più anticae la più comune opinione, cioè che la lingua italiana sianata dal corrompersi che fè la latina per le invasioni de'Barbari e degli stranieri che innondaron l'Italia. Nondi-meno questa opinione ancora soffre una non lieve diffi-coltà, a cui non so se da alcuno siasi posta mente. Se lalingua italiana è nata dal corrompimento della latina,converrà dire che questa sia venuta a poco a poco dege-nerando talmente dalla sua antica purezza, e insalvati-chendosi, per così dire, in tal modo, ch'ella siasi final-mente trovata una lingua quasi interamente diversa,

che fin da' tempi in cui vi si parlava il greco secondo il dialetto dorico,quel popolo amava assai le vocali, si propagasse questo costume in Italia.Ma parmi che converrebbe recare sicure pruove di questo amore antichis-simo de' Siciliani per le vocali. Finalmente egli produce alcune riflessioni,comunicategli da m. Castillon, che però protesta di non aver letta la Vero-na illustrata del march. Maffei, colle quali egli crede si possa conciliare lamia opinione con quella del dottiss. scrittor veronese. Ma chi esamina at-tentamente ciò che questi ha scritto, vedrà che troppo è difficile una talconciliazione.

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nascesse quindi una lingua che, in mezzo a molte voci ea molte maniere di dire prese da' Barbari, ritenesse ciònon ostante in gran parte la dolcezza e l'armonia dellalingua latina? Per ciò poi che appartiene al terminar diogni parola con qualche vocale, ch'è proprio della linguaitaliana, se al march. Maffei non sembra difficile cheessa si sia potuta formare dalla latina, ove pure moltissi-me son le parole che terminano con consonante, nondeegli sembrare strano ch'essa abbia potuto prenderl'origine ancor da quelle de' Barbari. Sembra adunque che debba ancor ritenersi la più anticae la più comune opinione, cioè che la lingua italiana sianata dal corrompersi che fè la latina per le invasioni de'Barbari e degli stranieri che innondaron l'Italia. Nondi-meno questa opinione ancora soffre una non lieve diffi-coltà, a cui non so se da alcuno siasi posta mente. Se lalingua italiana è nata dal corrompimento della latina,converrà dire che questa sia venuta a poco a poco dege-nerando talmente dalla sua antica purezza, e insalvati-chendosi, per così dire, in tal modo, ch'ella siasi final-mente trovata una lingua quasi interamente diversa,

che fin da' tempi in cui vi si parlava il greco secondo il dialetto dorico,quel popolo amava assai le vocali, si propagasse questo costume in Italia.Ma parmi che converrebbe recare sicure pruove di questo amore antichis-simo de' Siciliani per le vocali. Finalmente egli produce alcune riflessioni,comunicategli da m. Castillon, che però protesta di non aver letta la Vero-na illustrata del march. Maffei, colle quali egli crede si possa conciliare lamia opinione con quella del dottiss. scrittor veronese. Ma chi esamina at-tentamente ciò che questi ha scritto, vedrà che troppo è difficile una talconciliazione.

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come appunto quasi interamente diversa è l'italiana dallalatina. Or chieggo io, quando è mai che un tal cambia-mento è seguito? A qual tempo la lingua latina è divenu-ta lingua italiana? Se ne suole fissar l'epoca comune-mente nel XII sec.; e noi ancora a suo luogo ci atterremoa questo parere. Ma allora, chieggo io di nuovo, era lalingua latina guasta e contraffatta per modo, che si possacredere avvenuto un tal cambiamento? Leggo le Operescritte a quel secolo di s. Anselmo, di Pier Lombardo, diGraziano e di tanti altri scrittori italiani, e io le trovo benlungi è vero, dall'antica eleganza, ma insieme troppo an-cora lontane dal potersi dir la lor lingua non più latina,ma italiana. Anzi il loro stile è certamente più colto chenon quello degli scrittori di tre, o di quattro secoli addie-tro, come potè dunque allora accadere un tal cambia-mento? E perchè anzi non accadde esso assai prima,quando lo stil che si usava latinamente scrivendo, eratanto più incolto? Questa difficoltà ci apre, s'io mal nonm'appongo, la via a scoprire il vero in questa intralciataquistione, coll'osservare più attentamente in qual manie-ra seguisse il corrompimento della lingua latina, e coldistinguere la diversa maniera con cui ella si venne alte-rando nello scrivere e nel parlare. Riprendiamo la cosada' suoi principj, e spieghiamola, quanto più ci è possi-bile, chiaramente. Già abbiamo accennato che qualche diversità era ancortra' Romani tra lo scriver de' dotti, e il parlare del volgo.Il volere tra loro introdurre, come alcuni han fatto, due

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come appunto quasi interamente diversa è l'italiana dallalatina. Or chieggo io, quando è mai che un tal cambia-mento è seguito? A qual tempo la lingua latina è divenu-ta lingua italiana? Se ne suole fissar l'epoca comune-mente nel XII sec.; e noi ancora a suo luogo ci atterremoa questo parere. Ma allora, chieggo io di nuovo, era lalingua latina guasta e contraffatta per modo, che si possacredere avvenuto un tal cambiamento? Leggo le Operescritte a quel secolo di s. Anselmo, di Pier Lombardo, diGraziano e di tanti altri scrittori italiani, e io le trovo benlungi è vero, dall'antica eleganza, ma insieme troppo an-cora lontane dal potersi dir la lor lingua non più latina,ma italiana. Anzi il loro stile è certamente più colto chenon quello degli scrittori di tre, o di quattro secoli addie-tro, come potè dunque allora accadere un tal cambia-mento? E perchè anzi non accadde esso assai prima,quando lo stil che si usava latinamente scrivendo, eratanto più incolto? Questa difficoltà ci apre, s'io mal nonm'appongo, la via a scoprire il vero in questa intralciataquistione, coll'osservare più attentamente in qual manie-ra seguisse il corrompimento della lingua latina, e coldistinguere la diversa maniera con cui ella si venne alte-rando nello scrivere e nel parlare. Riprendiamo la cosada' suoi principj, e spieghiamola, quanto più ci è possi-bile, chiaramente. Già abbiamo accennato che qualche diversità era ancortra' Romani tra lo scriver de' dotti, e il parlare del volgo.Il volere tra loro introdurre, come alcuni han fatto, due

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lingue diverse, sicchè la latina non s'intendesse, se nonda chi apprendevala nelle scuole, è opinione troppo pri-va di ragionevole fondamento. Ma troppo insieme con-traria alla comune sperienza e all'indole popolare sareb-be l'opinione di chi credesse che fosse interamente lastessa lingua che usavasi, singolarmente scrivendo, daCesare e da Cicerone, e quella con cui parlavano i lorcuochi e i loro cocchieri. Non credo che faccia d'uopo dilungo ragionamento a persuaderlo. Tra gli scrittori anco-ra del medesimo tempo veggiamo stile diverso, più col-to, più soave, più ricercato in alcuni, più rozzo e più tra-scurato in altri. Or se da alcuni scriveasi men coltamenteche non da altri, quanto più incoltamente avrà favellatoil popolo ne' famigliari ragionamenti? Plauto e Terenzio,che pur sono eleganti e tersi scrittori, usan però di unostile che non sarebbe piaciuto a' Romani in un Virgilio,in un Orazio, o in altri scrittori di epica e di lirica poe-sia. Il popolo ama comunemente voci e maniere di dire,da cui un colto scrittore si tien lontano; or aggiugne, ortoglie lettere alle sillabe e alle parole, usa articoli, segnacasi, avverbj, preposizioni, che dalle leggi di buona lin-gua si vietano severamente. Ciò che avvien nelle lingueche or si parlano in Europa, ci può far conoscere ciò cheavvenir dovea tra' Romani. Or ciò presupposto, che dobbiam noi intendere, quandoudiam dire che il miscuglio degli stranieri e l'innonda-zione de' Barbari guastò e corruppe la lingua latina? Noiveggiamo divenir rozzo lo stile degli scrittori; e come

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lingue diverse, sicchè la latina non s'intendesse, se nonda chi apprendevala nelle scuole, è opinione troppo pri-va di ragionevole fondamento. Ma troppo insieme con-traria alla comune sperienza e all'indole popolare sareb-be l'opinione di chi credesse che fosse interamente lastessa lingua che usavasi, singolarmente scrivendo, daCesare e da Cicerone, e quella con cui parlavano i lorcuochi e i loro cocchieri. Non credo che faccia d'uopo dilungo ragionamento a persuaderlo. Tra gli scrittori anco-ra del medesimo tempo veggiamo stile diverso, più col-to, più soave, più ricercato in alcuni, più rozzo e più tra-scurato in altri. Or se da alcuni scriveasi men coltamenteche non da altri, quanto più incoltamente avrà favellatoil popolo ne' famigliari ragionamenti? Plauto e Terenzio,che pur sono eleganti e tersi scrittori, usan però di unostile che non sarebbe piaciuto a' Romani in un Virgilio,in un Orazio, o in altri scrittori di epica e di lirica poe-sia. Il popolo ama comunemente voci e maniere di dire,da cui un colto scrittore si tien lontano; or aggiugne, ortoglie lettere alle sillabe e alle parole, usa articoli, segnacasi, avverbj, preposizioni, che dalle leggi di buona lin-gua si vietano severamente. Ciò che avvien nelle lingueche or si parlano in Europa, ci può far conoscere ciò cheavvenir dovea tra' Romani. Or ciò presupposto, che dobbiam noi intendere, quandoudiam dire che il miscuglio degli stranieri e l'innonda-zione de' Barbari guastò e corruppe la lingua latina? Noiveggiamo divenir rozzo lo stile degli scrittori; e come

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non possiamo giudicar dello stato della lingua latina,che dalle Opere loro, così di esse intendiamo comune-mente di favellare, quando diciamo, che quella linguada' Barbari sofferse danno. E il sofferse certamente nonpiccolo. Ma esso nondimeno fu assai maggiore nel par-lar popolare, che nello stile dei dotti. Questi aveano purfinalmente innanzi agli occhi le Opere de' buoni scritto-ri, su cui poteano formare il loro stile. Il conversare co'Barbari rendeva, è vero, a lor famigliari le nuove voci,la nuova sintassi, le nuove maniere di dire, che da essiudivano. Ma nondimeno, quando prendevano a scrivere,avean agio a riflettere alla scelta delle parole e delleespressioni. Era quasi impossibile che ne' loro scrittinon entrasse in qualche parte la barbarie e la rozzezza; eperciò veggiamo quanto essi sian diversi da que' dei se-coli precedenti; ma nondimeno, il ripeto, la riflessione elo studio li teneva lontani dal parlare del tutto barbara-mente. Quindi è che, finchè non furon rare le copie deibuoni libri esemplari di culto stile si videro scrittori diqualche eleganza. Quando ne fu più scarso il numero, larozzezza divenne maggiore; ma scriveasi nondimeno la-tinamente, perchè i libri non mai mancarono in tutto; equando sorsero alcuni ch'ebbero ed agio maggiore e piùfelice ingegno per coltivare gli studj, essi non furonocerto eleganti scrittori, ma pure scrissero in un linguag-gio che poteasi dire latino. Non così la lingua che si usava dal popolo ragionando.Il popolo non coltivava gli studj, nè leggeva i buoni

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non possiamo giudicar dello stato della lingua latina,che dalle Opere loro, così di esse intendiamo comune-mente di favellare, quando diciamo, che quella linguada' Barbari sofferse danno. E il sofferse certamente nonpiccolo. Ma esso nondimeno fu assai maggiore nel par-lar popolare, che nello stile dei dotti. Questi aveano purfinalmente innanzi agli occhi le Opere de' buoni scritto-ri, su cui poteano formare il loro stile. Il conversare co'Barbari rendeva, è vero, a lor famigliari le nuove voci,la nuova sintassi, le nuove maniere di dire, che da essiudivano. Ma nondimeno, quando prendevano a scrivere,avean agio a riflettere alla scelta delle parole e delleespressioni. Era quasi impossibile che ne' loro scrittinon entrasse in qualche parte la barbarie e la rozzezza; eperciò veggiamo quanto essi sian diversi da que' dei se-coli precedenti; ma nondimeno, il ripeto, la riflessione elo studio li teneva lontani dal parlare del tutto barbara-mente. Quindi è che, finchè non furon rare le copie deibuoni libri esemplari di culto stile si videro scrittori diqualche eleganza. Quando ne fu più scarso il numero, larozzezza divenne maggiore; ma scriveasi nondimeno la-tinamente, perchè i libri non mai mancarono in tutto; equando sorsero alcuni ch'ebbero ed agio maggiore e piùfelice ingegno per coltivare gli studj, essi non furonocerto eleganti scrittori, ma pure scrissero in un linguag-gio che poteasi dire latino. Non così la lingua che si usava dal popolo ragionando.Il popolo non coltivava gli studj, nè leggeva i buoni

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scrittori. Parlava quella lingua che avea ricevuta da' suoimaggiori, e che udiva da' suoi uguali. Finchè Roma el'Italia non fu abitata che da Romani e da Italiani, la lorlingua non era coltissima, ma pur era lingua veramentelatina. Ma dappoichè cominciò ad essere frequentata da-gli stranieri, e molto più quando fu innondata da' Barba-ri, grande alterazione dovette soffrirne il parlar popola-re. Gli stranieri ed i Barbari, come poc'anzi si è detto,non poteano sperare che gl'Italiani volessero apprenderegli strani loro linguaggi, ed eran perciò costretti a usare,come meglio poteano, della lingua latina ma la usavanocome appunto suole avvenire a uno straniero che si av-vezza praticamente a parlare in lingua non sua, e chedall'ingegno e dallo studio non ha aiuto ad apprenderlafelicemente. Si sforzavano di favellare latinamente; manella lingua latina recavano molte delle lor voci e delleloro espressioni; e pareva loro di essere elegantissimiparlatori, quando alle lor parole aggiugnevano in qual sifosse maniera desinenza e armonia latina. I Romani e glialtri popoli italiani, che parlavan la lingua meno elegan-te qual si usava dal volgo, vivendo fra tanti stranieri, eparlando e convenendo con loro, non poteano a meno dinon contrarre in gran parte la lor barbarie, e di usare essiancora di quelle parole, di quelle frasi, di quella sintassi,che udivano usarsi da' loro vicini. Quanto maggior fa-ceasi col volger degli anni il numero degli stranieri chesi spargean per l'Italia, tanto più si andava corrompendola lingua usata dal volgo, tanto più dimenticavansi le la-tine maniere di dire adoperate già da' maggiori, tanto

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scrittori. Parlava quella lingua che avea ricevuta da' suoimaggiori, e che udiva da' suoi uguali. Finchè Roma el'Italia non fu abitata che da Romani e da Italiani, la lorlingua non era coltissima, ma pur era lingua veramentelatina. Ma dappoichè cominciò ad essere frequentata da-gli stranieri, e molto più quando fu innondata da' Barba-ri, grande alterazione dovette soffrirne il parlar popola-re. Gli stranieri ed i Barbari, come poc'anzi si è detto,non poteano sperare che gl'Italiani volessero apprenderegli strani loro linguaggi, ed eran perciò costretti a usare,come meglio poteano, della lingua latina ma la usavanocome appunto suole avvenire a uno straniero che si av-vezza praticamente a parlare in lingua non sua, e chedall'ingegno e dallo studio non ha aiuto ad apprenderlafelicemente. Si sforzavano di favellare latinamente; manella lingua latina recavano molte delle lor voci e delleloro espressioni; e pareva loro di essere elegantissimiparlatori, quando alle lor parole aggiugnevano in qual sifosse maniera desinenza e armonia latina. I Romani e glialtri popoli italiani, che parlavan la lingua meno elegan-te qual si usava dal volgo, vivendo fra tanti stranieri, eparlando e convenendo con loro, non poteano a meno dinon contrarre in gran parte la lor barbarie, e di usare essiancora di quelle parole, di quelle frasi, di quella sintassi,che udivano usarsi da' loro vicini. Quanto maggior fa-ceasi col volger degli anni il numero degli stranieri chesi spargean per l'Italia, tanto più si andava corrompendola lingua usata dal volgo, tanto più dimenticavansi le la-tine maniere di dire adoperate già da' maggiori, tanto

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maggior copia di parole e di locuzioni estranee si aggiu-gneva al parlare del popolo; in somma la lingua popola-re latina tanto più allontanavasi dall'esser veramente la-tina, e si veniva formando un quasi interamente nuovolinguaggio. Ed ecco la lingua de' dotti, e la lingua del volgo, la lin-gua de' libri, e la lingua della conversazione, che primanon eran guari diverse l'una dall'altra, divenute per talmodo dissomiglianti, che più non sono la stessa. I dottil'imparan da' libri, e benchè o il poco studio, o la scar-sezza dei libri stessi, e l'infezione, per così dire, dell'uni-versale contagio, renda le loro opere comunemente trop-po diverse dalle antiche, esse nondimeno si posson inqualche modo dire latine. Il volgo al contrario, che con-tro il contagio non ha riparo di sorte alcuna, col corso dimolti secoli ha fatto nel ragionare sì gran cambiamento,che non si può più dire ch'ei parli latinamente e se odealcuno parlare in questo linguaggio, più non l'intende.Esso usa ancora molte parole latine; latina è spesso ladesinenza, e la sintassi latina; ma in mezzo a questescarse reliquie dell'antica sua lingua tante cose nuove sison già introdotte, che quelle vi restano interamentesommerse. Così dall'unione degli stranieri co' nazionalie dal vicendevol loro commercio si forma un nuovo lin-guaggio; ma linguaggio assai rozzo e informe, senza de-terminate leggi, senza esemplari da imitare, e che solodipende dal capriccio del volgo. Non è dunque a stupire se per molti secoli non si pren-

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maggior copia di parole e di locuzioni estranee si aggiu-gneva al parlare del popolo; in somma la lingua popola-re latina tanto più allontanavasi dall'esser veramente la-tina, e si veniva formando un quasi interamente nuovolinguaggio. Ed ecco la lingua de' dotti, e la lingua del volgo, la lin-gua de' libri, e la lingua della conversazione, che primanon eran guari diverse l'una dall'altra, divenute per talmodo dissomiglianti, che più non sono la stessa. I dottil'imparan da' libri, e benchè o il poco studio, o la scar-sezza dei libri stessi, e l'infezione, per così dire, dell'uni-versale contagio, renda le loro opere comunemente trop-po diverse dalle antiche, esse nondimeno si posson inqualche modo dire latine. Il volgo al contrario, che con-tro il contagio non ha riparo di sorte alcuna, col corso dimolti secoli ha fatto nel ragionare sì gran cambiamento,che non si può più dire ch'ei parli latinamente e se odealcuno parlare in questo linguaggio, più non l'intende.Esso usa ancora molte parole latine; latina è spesso ladesinenza, e la sintassi latina; ma in mezzo a questescarse reliquie dell'antica sua lingua tante cose nuove sison già introdotte, che quelle vi restano interamentesommerse. Così dall'unione degli stranieri co' nazionalie dal vicendevol loro commercio si forma un nuovo lin-guaggio; ma linguaggio assai rozzo e informe, senza de-terminate leggi, senza esemplari da imitare, e che solodipende dal capriccio del volgo. Non è dunque a stupire se per molti secoli non si pren-

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desse a scrivere in questa lingua, sì perchè non pocospazio di tempo fu necessario a renderla così diversadalla latina, che divenisse altra lingua, si perchè essendoella usata solo dal volgo, non pareva che all'onor de'dotti si convenisse l'introdurla ne' libri. Ma si trovò fi-nalmente chi ebbe coraggio a tentarlo, e ardì di adopera-re scrivendo un linguaggio che non pareva ancora a talfine opportuno. E veramente i primi saggi che abbiamodi lingua italiana, ci mostrano quanto ella sapesse anco-ra di barbaro, e come non avesse ancora del tutto dimen-ticata l'antica sua madre. Noi non dobbiamo cercar gliesempj della nascente lingua italiana in quegli scrittoriche, benchè vissuti ne' primi anni di essa, furon posciadati alle stampe travisati non poco, e vestiti, per cosìdire, all'usanza moderna, ma negli antichi codici cercarli dobbiamo, o in quelle edizioni che ai codici stessisono esattamente conformi. Io ne recherò un solo esem-pio tratto da alcuni versi di un poeta milanese che purnon fu de' più antichi, e scrivea l'an. 1264, e che da uncodice sono stati pubblicati dall'Argelati (Bib. Script.mediol. t. 1, pars 2, p. 129).

"Como Deo a facto lo Mondo, Et como de terra fo lo homo formo, Cum el descencè de cel in terra In la vergene regal polzella, Et cum el sostene passion Per nostra grande salvation, Et cum verà el dì del ira

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desse a scrivere in questa lingua, sì perchè non pocospazio di tempo fu necessario a renderla così diversadalla latina, che divenisse altra lingua, si perchè essendoella usata solo dal volgo, non pareva che all'onor de'dotti si convenisse l'introdurla ne' libri. Ma si trovò fi-nalmente chi ebbe coraggio a tentarlo, e ardì di adopera-re scrivendo un linguaggio che non pareva ancora a talfine opportuno. E veramente i primi saggi che abbiamodi lingua italiana, ci mostrano quanto ella sapesse anco-ra di barbaro, e come non avesse ancora del tutto dimen-ticata l'antica sua madre. Noi non dobbiamo cercar gliesempj della nascente lingua italiana in quegli scrittoriche, benchè vissuti ne' primi anni di essa, furon posciadati alle stampe travisati non poco, e vestiti, per cosìdire, all'usanza moderna, ma negli antichi codici cercarli dobbiamo, o in quelle edizioni che ai codici stessisono esattamente conformi. Io ne recherò un solo esem-pio tratto da alcuni versi di un poeta milanese che purnon fu de' più antichi, e scrivea l'an. 1264, e che da uncodice sono stati pubblicati dall'Argelati (Bib. Script.mediol. t. 1, pars 2, p. 129).

"Como Deo a facto lo Mondo, Et como de terra fo lo homo formo, Cum el descencè de cel in terra In la vergene regal polzella, Et cum el sostene passion Per nostra grande salvation, Et cum verà el dì del ira

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La o serà la grande roina, Al peccator darà grameza, Lo justo avrà grande alegreza. Ben e raxon ke l'homo intenda De que traira sta legenda."

E al fine del codice stesso così si legge:"In mille duxento sexanta et quatro Questo Libro si fo facto, Et de Junio si era lo prumer dì, Quando questo dito se fenì, Et era in secunda diction In un Venerdì abassando lo Sol. Petro de Bersagapè ke era un Fanton Si ha facto sto sermon, Si il compillio et si la scripto Ad honor de Jhu Xpo."

Ognun vede qual linguaggio sia questo, quanto ritengaancor del latino, e quanto insieme se ne discosti. Ed erangià circa cento anni che erasi cominciato a scrivere incotal lingua, come altrove diremo, e nondimeno ellaavea fatto ancora si poco progresso. Per qual ragione andasse si lentamente avanzandosi lalingua italiana, non è difficil l'intenderlo. La stessa lin-gua latina nelle diverse provincie e nelle diverse cittàd'Italia parlavasi diversamente. Quindi diverse ancorafurono le mutazioni che nel parlar s'introdussero, ancheperchè, non avendo esse altra legge che il capriccio del

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La o serà la grande roina, Al peccator darà grameza, Lo justo avrà grande alegreza. Ben e raxon ke l'homo intenda De que traira sta legenda."

E al fine del codice stesso così si legge:"In mille duxento sexanta et quatro Questo Libro si fo facto, Et de Junio si era lo prumer dì, Quando questo dito se fenì, Et era in secunda diction In un Venerdì abassando lo Sol. Petro de Bersagapè ke era un Fanton Si ha facto sto sermon, Si il compillio et si la scripto Ad honor de Jhu Xpo."

Ognun vede qual linguaggio sia questo, quanto ritengaancor del latino, e quanto insieme se ne discosti. Ed erangià circa cento anni che erasi cominciato a scrivere incotal lingua, come altrove diremo, e nondimeno ellaavea fatto ancora si poco progresso. Per qual ragione andasse si lentamente avanzandosi lalingua italiana, non è difficil l'intenderlo. La stessa lin-gua latina nelle diverse provincie e nelle diverse cittàd'Italia parlavasi diversamente. Quindi diverse ancorafurono le mutazioni che nel parlar s'introdussero, ancheperchè, non avendo esse altra legge che il capriccio del

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popolo, era impossibile che in tutte le città fosse unifor-me e somigliante il linguaggio. Ed ecco in tal modo for-marsi i diversi particolari dialetti che veggiamo anche alpresente nelle città italiane. Questi eran già così usati finda' tempi di Dante, che egli potè trattare di ciaschedunonel suo libro della Volgare Eloquenza (l. 1, c. 10, ec.), erecarne saggi, e confrontarli tra loro. Or finchè gl'Italia-ni non si accordarono insieme a ripurgare e ad abbellirela loro lingua, non è maraviglia ch'essa non facesse senon lenti progressi. A perfezionare una lingua convienprima che o si scelga tra' diversi dialetti qual sia quelloche voglia condursi a perfezione, o scegliendo il meglioda tutti, se ne formi una lingua generale e fondata sucerti e determinati principj. Dante dopo aver ragionato de' particolari dialetti dellecittà italiane, passa a favellare di quello ch'ei chiama co-mune a tutti gl'italiani (c. 16, ec.), e a cui dà i magnificinomi d'illustre, cardinale, aulico e cortigiano. Ma questalingua sì nobile ove trovavasi ella mai? Dante, qualun-que ragione se n'avesse, non volle farne onore nè a' To-scani in generale, nè in particolare a' Fiorentini, de' qualie del lor dialetto egli anzi parla con sì gran biasimo, chesi è creduto da alcuni che questo libro gli fosse stato fal-samente attribuito; di che però non vi ha il presente uomsaggio che ardisca pure di dubitare. Io non debbo qui ri-cercare se in ciò debba credersi a Dante; nè voglioespormi a pericoli di rinnovar le calde contese che sutale argomento si eccitarono tra' letterati del sec. XVI. Io

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popolo, era impossibile che in tutte le città fosse unifor-me e somigliante il linguaggio. Ed ecco in tal modo for-marsi i diversi particolari dialetti che veggiamo anche alpresente nelle città italiane. Questi eran già così usati finda' tempi di Dante, che egli potè trattare di ciaschedunonel suo libro della Volgare Eloquenza (l. 1, c. 10, ec.), erecarne saggi, e confrontarli tra loro. Or finchè gl'Italia-ni non si accordarono insieme a ripurgare e ad abbellirela loro lingua, non è maraviglia ch'essa non facesse senon lenti progressi. A perfezionare una lingua convienprima che o si scelga tra' diversi dialetti qual sia quelloche voglia condursi a perfezione, o scegliendo il meglioda tutti, se ne formi una lingua generale e fondata sucerti e determinati principj. Dante dopo aver ragionato de' particolari dialetti dellecittà italiane, passa a favellare di quello ch'ei chiama co-mune a tutti gl'italiani (c. 16, ec.), e a cui dà i magnificinomi d'illustre, cardinale, aulico e cortigiano. Ma questalingua sì nobile ove trovavasi ella mai? Dante, qualun-que ragione se n'avesse, non volle farne onore nè a' To-scani in generale, nè in particolare a' Fiorentini, de' qualie del lor dialetto egli anzi parla con sì gran biasimo, chesi è creduto da alcuni che questo libro gli fosse stato fal-samente attribuito; di che però non vi ha il presente uomsaggio che ardisca pure di dubitare. Io non debbo qui ri-cercare se in ciò debba credersi a Dante; nè voglioespormi a pericoli di rinnovar le calde contese che sutale argomento si eccitarono tra' letterati del sec. XVI. Io

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riferisco il parere di questo antico scrittore, e lascio cheognun ne giudichi a suo talento. Convien però confessa-re che Dante, dopo aver biasimato ciascun de' dialettiitaliani, fra' quali il bolognese è quello che sembri spia-cergli meno, parla del suo volgare cortigiano in manieraillustre, cardinale, aulico e alquanto enigmatica e miste-riosa; perciocchè ei dice, secondo la traduzione italiana,a cui è interamente conforme l'originale latino, questovolgare essere quello che in ciascuna città appare, e,che in niuna riposa, e poco appresso soggiugne ch'èquello di tutte le città italiane, e non pare che sia di niu-na. Parole delle quali sembra difficile ad intendersi ilsenso. Conciossiachè, s'è vero, come afferma Dante, chenon vi ha città in Italia, in cui non si usi dialetto vizioso,questo suo volgare illustre onde sbucò egli mai, e qualpatria ebbe? Dante confessa che di esso hanno usato ipoeti d'ogni provincia d'Italia. "Questo veramente,dic'egli (c. 19), hanno usato gl'illustri dottori che in Ita-lia hanno fatti poemi in lingua volgare, cioè i Siciliani, iPugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i Lombardi, e quellidella Marca Trivigiana, e della Marca di Ancona". Orcome hanno essi potuto cospirare insieme a formar cote-sto linguaggio? Ad intendere questo passo di Dante con-vien riflettere al modo con cui ogni lingua si vien for-mando; e a ristrignerci a un esempio particolare prendia-molo dalla latina. I frammenti che ci son rimasti dei piùantichi scrittori, ci fan vedere quanto ella fosse a' lortempi rozza e disadorna. Essi introducevano ne' loroscritti i popolari idiotismi e i loro scritti perciò sono in

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riferisco il parere di questo antico scrittore, e lascio cheognun ne giudichi a suo talento. Convien però confessa-re che Dante, dopo aver biasimato ciascun de' dialettiitaliani, fra' quali il bolognese è quello che sembri spia-cergli meno, parla del suo volgare cortigiano in manieraillustre, cardinale, aulico e alquanto enigmatica e miste-riosa; perciocchè ei dice, secondo la traduzione italiana,a cui è interamente conforme l'originale latino, questovolgare essere quello che in ciascuna città appare, e,che in niuna riposa, e poco appresso soggiugne ch'èquello di tutte le città italiane, e non pare che sia di niu-na. Parole delle quali sembra difficile ad intendersi ilsenso. Conciossiachè, s'è vero, come afferma Dante, chenon vi ha città in Italia, in cui non si usi dialetto vizioso,questo suo volgare illustre onde sbucò egli mai, e qualpatria ebbe? Dante confessa che di esso hanno usato ipoeti d'ogni provincia d'Italia. "Questo veramente,dic'egli (c. 19), hanno usato gl'illustri dottori che in Ita-lia hanno fatti poemi in lingua volgare, cioè i Siciliani, iPugliesi, i Toscani, i Romagnuoli, i Lombardi, e quellidella Marca Trivigiana, e della Marca di Ancona". Orcome hanno essi potuto cospirare insieme a formar cote-sto linguaggio? Ad intendere questo passo di Dante con-vien riflettere al modo con cui ogni lingua si vien for-mando; e a ristrignerci a un esempio particolare prendia-molo dalla latina. I frammenti che ci son rimasti dei piùantichi scrittori, ci fan vedere quanto ella fosse a' lortempi rozza e disadorna. Essi introducevano ne' loroscritti i popolari idiotismi e i loro scritti perciò sono in

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uno stil pedestre ed incolto. Ma quelli che venner dopo,ben conoscendo quanto vizioso fosse un cotal linguag-gio, si dierono ad abbellirlo ad ornarlo, e a raddolcirlo.Nuove voci si aggiunsero, si cambiarono le desinenze, sicercò l'armonia, s'introdussero vezzi. Plauto e Terenziosuperarono Livio e Nevio. Lucrezio si lasciò addietroEnnio. Virgilio e Orazio e gli altri eleganti poeti del se-col d'Augusto dierono alla lingua latina l'ultima perfe-zione. Non altrimenti dovette avvenire dell'italiana. Fin-chè ella non fu usata che nel parlar famigliare, ogni cittàebbe il suo particolar dialetto; e allor perciò non v'aveauna lingua che si potesse dire comune a tutta l'Italia. Mapoichè cominciossi a scrivere e a parlare co' posteri, sicominciò ancora ad ornarla e a ripulirla. Di qualunquecittà, o di qualunque provincia fosser coloro che furonoi primi ad aprir agli altri la via, essi pensarono certa-mente che maggior diligenza doveasi usar nello scrive-re, che nel parlare; si sforzaron perciò di toglierne,quanto più fosse possibile, ogni asprezza, e di renderla,meglio sapessero, elegante e vezzosa. Io credo certo chese avessimo i primi saggi che furono scritti di lingua ita-liana, noi vi vedremmo non poche vestigia del dialettodi quella in cui essi furono scritti. Ma questi saggi frat-tanto passando nell'altrui mani eccitarono altri ad andareancora più oltre. I secondi scrittori furon migliori de'primi; i terzi andaron innanzi a' secondi; e si venne fi-nalmente a formar una lingua piena di eleganza e di vez-zi, quale or l'abbiamo.

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uno stil pedestre ed incolto. Ma quelli che venner dopo,ben conoscendo quanto vizioso fosse un cotal linguag-gio, si dierono ad abbellirlo ad ornarlo, e a raddolcirlo.Nuove voci si aggiunsero, si cambiarono le desinenze, sicercò l'armonia, s'introdussero vezzi. Plauto e Terenziosuperarono Livio e Nevio. Lucrezio si lasciò addietroEnnio. Virgilio e Orazio e gli altri eleganti poeti del se-col d'Augusto dierono alla lingua latina l'ultima perfe-zione. Non altrimenti dovette avvenire dell'italiana. Fin-chè ella non fu usata che nel parlar famigliare, ogni cittàebbe il suo particolar dialetto; e allor perciò non v'aveauna lingua che si potesse dire comune a tutta l'Italia. Mapoichè cominciossi a scrivere e a parlare co' posteri, sicominciò ancora ad ornarla e a ripulirla. Di qualunquecittà, o di qualunque provincia fosser coloro che furonoi primi ad aprir agli altri la via, essi pensarono certa-mente che maggior diligenza doveasi usar nello scrive-re, che nel parlare; si sforzaron perciò di toglierne,quanto più fosse possibile, ogni asprezza, e di renderla,meglio sapessero, elegante e vezzosa. Io credo certo chese avessimo i primi saggi che furono scritti di lingua ita-liana, noi vi vedremmo non poche vestigia del dialettodi quella in cui essi furono scritti. Ma questi saggi frat-tanto passando nell'altrui mani eccitarono altri ad andareancora più oltre. I secondi scrittori furon migliori de'primi; i terzi andaron innanzi a' secondi; e si venne fi-nalmente a formar una lingua piena di eleganza e di vez-zi, quale or l'abbiamo.

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In tal maniera parmi di avere spiegata l'origine della lin-gua italiana, senza stendermi in quelle troppo minute ri-cerche che soglion recare a' lettori noja maggior delfrutto, e senza entrare in certe più difficili e più perico-lose quistioni, alcune delle quali, come sopra ho accen-nato, han data occasione a sanguinose battaglie tra moltiscrittori del sec. XVI, altre in questi ultimi tempi nuoveguerre hanno destate tra il ch. monsig. Fontanini e i suoiillustri avversari. E parmi inoltre che in tal maniera sipossano forse non difficilmente unire in pace le diverseopinioni sull'origine della nostra lingua. Perciocchè secoloro che affermano che la lingua italiana fu usata an-cor da' Romani nel favellare del volgo si ristringano adire ch'era presso essi quel parlar popolare da cui si èposcia formata col volger de' tempi la nostra lingua, ionon verrò con essi a contrasto; e concederò ancora almarch. Maffei, e agli altri sostenitori della sua opinione,che la lingua italiana non sia nata da' Barbari, ma cheabbia avuto principio dal sempre maggiormente corrom-persi che fece il già guasto parlar del volgo, quando eglinon neghi che a questo corrompimento contribuirono innon piccola parte i Barbari che innondaron l'Italia. Chese essi in nulla si vogliano dipartire dal lor sentimento,io non perciò verrò con essi ad alcun'altra contesa; per-ciocchè non mi sembra questo argomento di tal natura,che vaglia la pena di disputarne più lungamente. Potrebbe finalmente parer questo il luogo a cercare chisiano stati i primi e più antichi scrittori di nostra lingua.

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In tal maniera parmi di avere spiegata l'origine della lin-gua italiana, senza stendermi in quelle troppo minute ri-cerche che soglion recare a' lettori noja maggior delfrutto, e senza entrare in certe più difficili e più perico-lose quistioni, alcune delle quali, come sopra ho accen-nato, han data occasione a sanguinose battaglie tra moltiscrittori del sec. XVI, altre in questi ultimi tempi nuoveguerre hanno destate tra il ch. monsig. Fontanini e i suoiillustri avversari. E parmi inoltre che in tal maniera sipossano forse non difficilmente unire in pace le diverseopinioni sull'origine della nostra lingua. Perciocchè secoloro che affermano che la lingua italiana fu usata an-cor da' Romani nel favellare del volgo si ristringano adire ch'era presso essi quel parlar popolare da cui si èposcia formata col volger de' tempi la nostra lingua, ionon verrò con essi a contrasto; e concederò ancora almarch. Maffei, e agli altri sostenitori della sua opinione,che la lingua italiana non sia nata da' Barbari, ma cheabbia avuto principio dal sempre maggiormente corrom-persi che fece il già guasto parlar del volgo, quando eglinon neghi che a questo corrompimento contribuirono innon piccola parte i Barbari che innondaron l'Italia. Chese essi in nulla si vogliano dipartire dal lor sentimento,io non perciò verrò con essi ad alcun'altra contesa; per-ciocchè non mi sembra questo argomento di tal natura,che vaglia la pena di disputarne più lungamente. Potrebbe finalmente parer questo il luogo a cercare chisiano stati i primi e più antichi scrittori di nostra lingua.

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Ma di ciò noi dovremo parlare nel decorso di questo stu-dio medesimo, ove esamineremo se nell'epoca che ab-biamo in esso compresa sia stato alcun poeta italiano; emolto più nel seguente ove di ciascheduno de' primi no-stri scrittori dovrem parlare partitamente. Così pure iolascio qui di trattare dello studio che tra' nostri fiorì, del-la lingua provenzale nel XII e nel XIII secolo; percioc-chè dovrem ragionarne stesamente a luogo più opportu-no. A me basta l'aver finora esposto, come a me è sem-brato più verisimile, il modo con cui il popolo, abbando-nata la lingua latina, passò ad usare dell'italiana, e concui questa dall'essere adoperata solo dal volgo giunse adessere illustrata ancor dalla penna degli scrittori.

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Ma di ciò noi dovremo parlare nel decorso di questo stu-dio medesimo, ove esamineremo se nell'epoca che ab-biamo in esso compresa sia stato alcun poeta italiano; emolto più nel seguente ove di ciascheduno de' primi no-stri scrittori dovrem parlare partitamente. Così pure iolascio qui di trattare dello studio che tra' nostri fiorì, del-la lingua provenzale nel XII e nel XIII secolo; percioc-chè dovrem ragionarne stesamente a luogo più opportu-no. A me basta l'aver finora esposto, come a me è sem-brato più verisimile, il modo con cui il popolo, abbando-nata la lingua latina, passò ad usare dell'italiana, e concui questa dall'essere adoperata solo dal volgo giunse adessere illustrata ancor dalla penna degli scrittori.

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RIFLESSIONI SULL'INDOLE

DELLA LINGUA ITALIANA

In risposta alla nota A, p. 99, ec. aggiunta dal sig. ab.Arteaga alla dissertazione del sig. dott. Borsa Del Gu-sto presente in Letteratura italiana (2).

Sono già più anni che il felice destino della nostra Italiaha nel seno di essa condotti alcuni valorosi stranieri,prescelti ad istruirci di mille cose che finora si eran danoi vergognosamente ignorate. Uno de' più illustri traessi è il sig. ab. d. Stefano Arteaga matritese, il qualedopo averci additate le Rivoluzioni del Teatro musicaleitaliano, che prima ci erano sconosciute, mosso a pietàdella nostra melensaggine, che non ci permetteva pur diosservare l'indole della nostra lingua, ha intrapreso amo-revolmente a spiegarcela. Ma uomini di sì grossa pastasiam noi che non ci conduciamo sì di leggieri a deporreque' pregiudizj dei quali fin dall'infanzia siamo stati im-bevuti. Mi perdonerà egli dunque se io ancora ardirò di

2 Mi è sembrato questo il luogo più opportuno ad inserire questa Rispostache l'idea della mia opera pareva da me richiedere, acciocchè l'apologiadella lingua Italiana vada unita alle ricerche sulla prima origine della me-desima.

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RIFLESSIONI SULL'INDOLE

DELLA LINGUA ITALIANA

In risposta alla nota A, p. 99, ec. aggiunta dal sig. ab.Arteaga alla dissertazione del sig. dott. Borsa Del Gu-sto presente in Letteratura italiana (2).

Sono già più anni che il felice destino della nostra Italiaha nel seno di essa condotti alcuni valorosi stranieri,prescelti ad istruirci di mille cose che finora si eran danoi vergognosamente ignorate. Uno de' più illustri traessi è il sig. ab. d. Stefano Arteaga matritese, il qualedopo averci additate le Rivoluzioni del Teatro musicaleitaliano, che prima ci erano sconosciute, mosso a pietàdella nostra melensaggine, che non ci permetteva pur diosservare l'indole della nostra lingua, ha intrapreso amo-revolmente a spiegarcela. Ma uomini di sì grossa pastasiam noi che non ci conduciamo sì di leggieri a deporreque' pregiudizj dei quali fin dall'infanzia siamo stati im-bevuti. Mi perdonerà egli dunque se io ancora ardirò di

2 Mi è sembrato questo il luogo più opportuno ad inserire questa Rispostache l'idea della mia opera pareva da me richiedere, acciocchè l'apologiadella lingua Italiana vada unita alle ricerche sulla prima origine della me-desima.

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proporgli alcune difficoltà che mi ritengon finora dal se-guire le nuove luminose vie da lui segnate. Io speroch'egli mi onorerà di risposta, e che la risposta sarà inquel medesimo stile grazioso e colto con cui egli ha im-pugnato l'ab. Andres suo nazionale, ma troppo da lui di-verso, e il cav. Vannetti. E io mel recherò ad onore, poi-chè con ciò ci farà conoscere chiaramente che le miedifficoltà gli son sembrate di qualche peso. Comincia ei dunque dal lodare la nostra lingua, dicendoche essa "è la più dolce, la più gentile, la più pieghevolee la più musicale di tutte le lingue viventi"; e perchèniuno osi di dubitarne, cita la sua medesima autorità, ele pruove che ne ha recate nelle sue Rivoluzioni del Tea-tro musicale italiano. Ma delle lodi basta fin qui. Ei pas-sa tosto a' biasimi, e due gran difetti ravvisa nella linguaitaliana, cioè ch'essa "è soverchiamente pusillanime, eassai meno feconda di quello che altri non crede". L'ab.Arteaga non afferma cosa di cui non rechi le più convin-centi ripruove. Perciò a confermare la prima sua propo-sizione, ei produce, Domine aiutaci, fino a otto argo-menti. Facciamoci a esaminarli l'un dopo l'altro. I. "La poca libertà che la gramatica della lingua permet-te alla sua costruzione". Io ho creduto finora che niunalingua tra le viventi avesse varietà e moltiplicità di co-struzione più grande di quella che ha l'italiana. Rechia-mone un esempio, e facciamo il confronto colla linguafrancese che, come tra poco vedremo, dall'ab. Arteaga sicrede forse più copiosa dell'italiana, J'aime le jeu, dice il

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proporgli alcune difficoltà che mi ritengon finora dal se-guire le nuove luminose vie da lui segnate. Io speroch'egli mi onorerà di risposta, e che la risposta sarà inquel medesimo stile grazioso e colto con cui egli ha im-pugnato l'ab. Andres suo nazionale, ma troppo da lui di-verso, e il cav. Vannetti. E io mel recherò ad onore, poi-chè con ciò ci farà conoscere chiaramente che le miedifficoltà gli son sembrate di qualche peso. Comincia ei dunque dal lodare la nostra lingua, dicendoche essa "è la più dolce, la più gentile, la più pieghevolee la più musicale di tutte le lingue viventi"; e perchèniuno osi di dubitarne, cita la sua medesima autorità, ele pruove che ne ha recate nelle sue Rivoluzioni del Tea-tro musicale italiano. Ma delle lodi basta fin qui. Ei pas-sa tosto a' biasimi, e due gran difetti ravvisa nella linguaitaliana, cioè ch'essa "è soverchiamente pusillanime, eassai meno feconda di quello che altri non crede". L'ab.Arteaga non afferma cosa di cui non rechi le più convin-centi ripruove. Perciò a confermare la prima sua propo-sizione, ei produce, Domine aiutaci, fino a otto argo-menti. Facciamoci a esaminarli l'un dopo l'altro. I. "La poca libertà che la gramatica della lingua permet-te alla sua costruzione". Io ho creduto finora che niunalingua tra le viventi avesse varietà e moltiplicità di co-struzione più grande di quella che ha l'italiana. Rechia-mone un esempio, e facciamo il confronto colla linguafrancese che, come tra poco vedremo, dall'ab. Arteaga sicrede forse più copiosa dell'italiana, J'aime le jeu, dice il

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francese, e quando ha detto così, non può collocare inaltro modo le stesse parole. Io amo il giuoco, dice l'ita-liano. Ma quante diverse costruzioni può egli fare diqueste stesse parole? "Io il giuoco amo: amo il giuocoio: amo io il giuoco: il giuoco io amo: il giuoco amo io".Aggiungasi che l'italiano può ommettere il pronome io,e può ancora talvolta ommettere gli articoli; il che nonpuò il francese. È ella dunque questa la lingua che pocalibertà accorda alla costruzione? Ciò ch'è più strano, si è che il biasimatore della linguaitaliana "per la poca libertà ch'essa permette alla sua co-struzione" è l'ab. Arteaga, quell'ab. Arteaga, io dico, ilquale in un'altra sua opera scrive che un "altro vantaggiodella lingua italiana per l'oratoria, la musica, la poesia, èla trasposizione, cioè quando il collocamento delle paro-le si fa non secondo l'ordine naturale delle idee, macome più torna a proposito per la bellezza del periodo eper il piacere dell'orecchio" (Rivoluz. del Teatro music.ital. t. 1, p. 83 ed ven.). E si stende a lungo mostrandoquante bellezze reca alla nostra lingua la libertà e la va-rietà della sua costruzione. A chi dobbiam noi credere?All'autor delle Note alla Dissertazione del dott. Borsa, oall'autore delle Rivoluzioni del Teatro musicale italiano?II. "Il gran numero di precetti coattivi intorno all'usodelle parti dell'orazione". Se l'ab. Arteaga usa di questasorte di pruove, non vi sarà cosa ch'ei non possa dimo-strare. Egli asserisce, e coll'asserire crede di aver con-vinto. Ma ove trova egli questo gran numero di precetti

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francese, e quando ha detto così, non può collocare inaltro modo le stesse parole. Io amo il giuoco, dice l'ita-liano. Ma quante diverse costruzioni può egli fare diqueste stesse parole? "Io il giuoco amo: amo il giuocoio: amo io il giuoco: il giuoco io amo: il giuoco amo io".Aggiungasi che l'italiano può ommettere il pronome io,e può ancora talvolta ommettere gli articoli; il che nonpuò il francese. È ella dunque questa la lingua che pocalibertà accorda alla costruzione? Ciò ch'è più strano, si è che il biasimatore della linguaitaliana "per la poca libertà ch'essa permette alla sua co-struzione" è l'ab. Arteaga, quell'ab. Arteaga, io dico, ilquale in un'altra sua opera scrive che un "altro vantaggiodella lingua italiana per l'oratoria, la musica, la poesia, èla trasposizione, cioè quando il collocamento delle paro-le si fa non secondo l'ordine naturale delle idee, macome più torna a proposito per la bellezza del periodo eper il piacere dell'orecchio" (Rivoluz. del Teatro music.ital. t. 1, p. 83 ed ven.). E si stende a lungo mostrandoquante bellezze reca alla nostra lingua la libertà e la va-rietà della sua costruzione. A chi dobbiam noi credere?All'autor delle Note alla Dissertazione del dott. Borsa, oall'autore delle Rivoluzioni del Teatro musicale italiano?II. "Il gran numero di precetti coattivi intorno all'usodelle parti dell'orazione". Se l'ab. Arteaga usa di questasorte di pruove, non vi sarà cosa ch'ei non possa dimo-strare. Egli asserisce, e coll'asserire crede di aver con-vinto. Ma ove trova egli questo gran numero di precetti

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coattivi? Si compiaccia d'indicarcelo, e ci mostri che lalingua italiana ne ha assai più copia delle altre lingue.Allora ei potrà darsi il vanto di aver provato la sua pro-posizione. Ma finchè egli non fa che magistralmente af-fermare, negheremo noi pur magistralmente. III. "La soverchia scrupolosità nell'adoperare le transi-zioni e i passaggi". E dove è mai che la lingua italianaesiga cotesta scrupolosità? Ci mostri il sig. ab. Arteagaqual legge abbiamo, la quale c'intimi di far sempre usodelle transizioni e de' passaggi. Io certo non la conosco,e non la conosce chiunque ha studiata la nostra lingua.Anzi in ciò ancora si scuopre la varietà e l'abbondanzadella lingua italiana che può a suo talento usare, o nonusare delle transizioni e de' passaggi, e veggiamo soven-te i più valorosi scrittori passare, come si suol dire, exabrupto da un sentimento all'altro, senza che perciò ilragionamento ne contragga oscurità e sconnessione. Va-glian per tutti il Chiabrera in poesia, in prosa il Davan-zati. Io sfido il sig. ab. Arteaga a darmi qualunque trattoegli voglia di scrittore italiano, che più sia ripieno ditransizioni e passaggi, e mi impegno a volgerla in modoche, togliendonegli interamente il discorso riesca nondi-meno ugualmente bello, e forse ancor ne acquisti ele-ganza maggiore. IV. "L'eccessivo abborrimento ad ogni forma non conse-crata dall'uso". Questo eccessivo abborrimento non esi-ste che nella fantasia del sig. ab. Arteaga. È certo che inniuna lingua, è permesso ad ognuno l'aggiugnere espres-

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coattivi? Si compiaccia d'indicarcelo, e ci mostri che lalingua italiana ne ha assai più copia delle altre lingue.Allora ei potrà darsi il vanto di aver provato la sua pro-posizione. Ma finchè egli non fa che magistralmente af-fermare, negheremo noi pur magistralmente. III. "La soverchia scrupolosità nell'adoperare le transi-zioni e i passaggi". E dove è mai che la lingua italianaesiga cotesta scrupolosità? Ci mostri il sig. ab. Arteagaqual legge abbiamo, la quale c'intimi di far sempre usodelle transizioni e de' passaggi. Io certo non la conosco,e non la conosce chiunque ha studiata la nostra lingua.Anzi in ciò ancora si scuopre la varietà e l'abbondanzadella lingua italiana che può a suo talento usare, o nonusare delle transizioni e de' passaggi, e veggiamo soven-te i più valorosi scrittori passare, come si suol dire, exabrupto da un sentimento all'altro, senza che perciò ilragionamento ne contragga oscurità e sconnessione. Va-glian per tutti il Chiabrera in poesia, in prosa il Davan-zati. Io sfido il sig. ab. Arteaga a darmi qualunque trattoegli voglia di scrittore italiano, che più sia ripieno ditransizioni e passaggi, e mi impegno a volgerla in modoche, togliendonegli interamente il discorso riesca nondi-meno ugualmente bello, e forse ancor ne acquisti ele-ganza maggiore. IV. "L'eccessivo abborrimento ad ogni forma non conse-crata dall'uso". Questo eccessivo abborrimento non esi-ste che nella fantasia del sig. ab. Arteaga. È certo che inniuna lingua, è permesso ad ognuno l'aggiugnere espres-

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sioni e parole a capriccio, come meglio gli sembra; altri-menti si formerebbe un caos, e niuna lingua avrebbe maiprincipj certi e stabile consistenza. Ma è certo ancorache in ogni lingua è permesso, checchè ne dicano alcunitroppo rigidi moralisti toscani, quando si vede mancarleun'espressione, una frase, una parola, che sia analoga algenio della lingua medesima, il tentar d'introdurla. Se aqualche tribunale a ciò destinato, o il comune consenti-mento della nazione l'approva, essa allora divieneespressione, frase e parola propria di quella lingua. Diquesta libertà, al pari delle altre lingue, gode ancor l'ita-liana. Si confronti la prima colle ultime edizioni del Vo-cabolario della Crusca, e si vedrà quante voci siano stateaggiunte a queste che mancavano alla prima, voci nuo-vamente coniate; e non solo da autori toscani, ma ancheda' veneti, lombardi, romani, ec. quali furono il Bembo,il Castiglione, lo Speroni, il Segneri, ec., ec. O non esi-ste dunque questo eccessivo abborrimento, o, se esiste,è comune alle altre lingue ancora, e non si vede per qualragione alla italiana soltanto debba riuscir dannoso, ecome possa accadere che l'Accademia della Crusca ab-bia tenuto quasi sotto crudel servitù il nostro idioma, elo stesso non sia accaduto del francese e dello spagnuo-lo, della cui perfezione si sono parimente incaricate leRR. Accademie francese e spagnuola. Egli è vero chel'Accad. della Crusca è stata considerata da alcuni comeuna dispotica e severa tiranna che, arrogandosi ingiusta-mente l'impero sulla lingua italiana, prescriveva arbitra-rie leggi, e o riceveva, o escludeva a capriccio le voci,

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sioni e parole a capriccio, come meglio gli sembra; altri-menti si formerebbe un caos, e niuna lingua avrebbe maiprincipj certi e stabile consistenza. Ma è certo ancorache in ogni lingua è permesso, checchè ne dicano alcunitroppo rigidi moralisti toscani, quando si vede mancarleun'espressione, una frase, una parola, che sia analoga algenio della lingua medesima, il tentar d'introdurla. Se aqualche tribunale a ciò destinato, o il comune consenti-mento della nazione l'approva, essa allora divieneespressione, frase e parola propria di quella lingua. Diquesta libertà, al pari delle altre lingue, gode ancor l'ita-liana. Si confronti la prima colle ultime edizioni del Vo-cabolario della Crusca, e si vedrà quante voci siano stateaggiunte a queste che mancavano alla prima, voci nuo-vamente coniate; e non solo da autori toscani, ma ancheda' veneti, lombardi, romani, ec. quali furono il Bembo,il Castiglione, lo Speroni, il Segneri, ec., ec. O non esi-ste dunque questo eccessivo abborrimento, o, se esiste,è comune alle altre lingue ancora, e non si vede per qualragione alla italiana soltanto debba riuscir dannoso, ecome possa accadere che l'Accademia della Crusca ab-bia tenuto quasi sotto crudel servitù il nostro idioma, elo stesso non sia accaduto del francese e dello spagnuo-lo, della cui perfezione si sono parimente incaricate leRR. Accademie francese e spagnuola. Egli è vero chel'Accad. della Crusca è stata considerata da alcuni comeuna dispotica e severa tiranna che, arrogandosi ingiusta-mente l'impero sulla lingua italiana, prescriveva arbitra-rie leggi, e o riceveva, o escludeva a capriccio le voci,

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secondo che a lei meglio sembravane. Nè io debbo quiintraprendere l'apologia di quella accademia. A me bastail riflettere, che in primo luogo, come già si è osservato,essa ha adottate non poche voci di nuovo conio, e hacon ciò animati gli scrittori italiani a formarne altre nuo-ve; e che in secondo luogo questo assoluto imperodell'accademia non è comunemente riconosciuto in Ita-lia, e che la maggior parte degli scrittori italiani ha sem-pre usato di quella saggia e discreta libertà che da niunalegge può esser rattenuta e frenata. V. "L'esser troppo sollecita di conservar l'armonia; dalche avviene sovente che si tolga all'immaginazione ciòche vuol darsi all'orecchio". Ecco una nuova legge, a cuici vuole soggetti il sig. ab. Arteaga, e che noi non sap-piamo che mai ci sia stata intimata. In qual codice haegli trovato che la lingua italiana debba più che alla for-za aver riguardo all'armonia? Io lo sfido a produrmi unsolo scrittore che cel prescriva, o cel raccomandi. Ma,dirà egli, vedesi però certamente che gli scrittori italianisembrano aver più riguardo all'armonia che alla forza.Sia pur vero. Ma ne vien egli per conseguenza che siaciò difetto intrinseco della lingua? Se il sig. ab. Arteagane trae questa illazione, io non posso avere troppo favo-revol concetto della sua logica. So in quel tempo in cuigli scrittori spagnuoli (e si può dir lo stesso degl'italiani)non usavano nello stile che delle più ridicole e più stra-ne metafore, si fosse ciò attribuito a colpa della lor lin-gua, che avrebbe detto il Sig. Arteaga? Io aggiungo anzi

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secondo che a lei meglio sembravane. Nè io debbo quiintraprendere l'apologia di quella accademia. A me bastail riflettere, che in primo luogo, come già si è osservato,essa ha adottate non poche voci di nuovo conio, e hacon ciò animati gli scrittori italiani a formarne altre nuo-ve; e che in secondo luogo questo assoluto imperodell'accademia non è comunemente riconosciuto in Ita-lia, e che la maggior parte degli scrittori italiani ha sem-pre usato di quella saggia e discreta libertà che da niunalegge può esser rattenuta e frenata. V. "L'esser troppo sollecita di conservar l'armonia; dalche avviene sovente che si tolga all'immaginazione ciòche vuol darsi all'orecchio". Ecco una nuova legge, a cuici vuole soggetti il sig. ab. Arteaga, e che noi non sap-piamo che mai ci sia stata intimata. In qual codice haegli trovato che la lingua italiana debba più che alla for-za aver riguardo all'armonia? Io lo sfido a produrmi unsolo scrittore che cel prescriva, o cel raccomandi. Ma,dirà egli, vedesi però certamente che gli scrittori italianisembrano aver più riguardo all'armonia che alla forza.Sia pur vero. Ma ne vien egli per conseguenza che siaciò difetto intrinseco della lingua? Se il sig. ab. Arteagane trae questa illazione, io non posso avere troppo favo-revol concetto della sua logica. So in quel tempo in cuigli scrittori spagnuoli (e si può dir lo stesso degl'italiani)non usavano nello stile che delle più ridicole e più stra-ne metafore, si fosse ciò attribuito a colpa della lor lin-gua, che avrebbe detto il Sig. Arteaga? Io aggiungo anzi

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che niuna tra le viventi lingue d'Europa ha di sua naturauna sì varia e sì moltiplice armonia quanta ne ha l'italia-na, del che niuno, io credo, vorrà muovermi dubbio, eche perciò non vi ha lingua in cui sia più agevole a chiben la possiede l'unir l'armonia alla forza, e l'eleganzaalla espressione. Ma di ciò dovremo nuovamente dir tranon molto. VI. "Il cercar nelle metafore non quello che rappresentavivamente e pienamente l'oggetto, ma quello chel'accenna soltanto, e lo mostra quasi in iscorcio". Io con-fesso che tanto ingegnosa è l'accusa, che non arrivo acomprenderla; e perciò non veggo la via a ribatterla.Vuol egli condennar le metafore generalmente, perchèesse non rappresentan l'oggetto che solo in iscorcio? Ovuol condennar quelle soltanto che, invece di pienamen-te descriverlo, non fan che adombrarlo? Se egli vuol es-sere inteso nel primo senso egli avrà la gloria di esser ilprimo che sbandisca dal ragionar la metafora; percioc-chè essa consiste appunto in questo, che l'oggetto si rap-presenti sotto un'altra immagine che non l'adegua perfet-tamente (poichè allora non sarebbe metafora) ma lo rap-presenta appunto quasi in iscorcio, segnando quei trattine' quali l'oggetto e l'immagine si rassomigliano. Maqualunque cosa egli intenda, la metafora è stata almenoin qualche tempo comune a tutte le nazioni; nè se nepuò incolpare una più che un'altra lingua; poichè è in ar-bitrio degli scrittori di qualunque lingua il farne o sag-gio, o biasimevole uso. Gl'Italiani del sec. XVI. furon

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che niuna tra le viventi lingue d'Europa ha di sua naturauna sì varia e sì moltiplice armonia quanta ne ha l'italia-na, del che niuno, io credo, vorrà muovermi dubbio, eche perciò non vi ha lingua in cui sia più agevole a chiben la possiede l'unir l'armonia alla forza, e l'eleganzaalla espressione. Ma di ciò dovremo nuovamente dir tranon molto. VI. "Il cercar nelle metafore non quello che rappresentavivamente e pienamente l'oggetto, ma quello chel'accenna soltanto, e lo mostra quasi in iscorcio". Io con-fesso che tanto ingegnosa è l'accusa, che non arrivo acomprenderla; e perciò non veggo la via a ribatterla.Vuol egli condennar le metafore generalmente, perchèesse non rappresentan l'oggetto che solo in iscorcio? Ovuol condennar quelle soltanto che, invece di pienamen-te descriverlo, non fan che adombrarlo? Se egli vuol es-sere inteso nel primo senso egli avrà la gloria di esser ilprimo che sbandisca dal ragionar la metafora; percioc-chè essa consiste appunto in questo, che l'oggetto si rap-presenti sotto un'altra immagine che non l'adegua perfet-tamente (poichè allora non sarebbe metafora) ma lo rap-presenta appunto quasi in iscorcio, segnando quei trattine' quali l'oggetto e l'immagine si rassomigliano. Maqualunque cosa egli intenda, la metafora è stata almenoin qualche tempo comune a tutte le nazioni; nè se nepuò incolpare una più che un'altra lingua; poichè è in ar-bitrio degli scrittori di qualunque lingua il farne o sag-gio, o biasimevole uso. Gl'Italiani del sec. XVI. furon

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per lo più troppo timidi nelle metafore: troppo arditique' del sec. XVII. Que' del presente (intendo di que'che scrivono italianamente, e non francescamente, o in-glesamente) le adoprano con quella saggia moderazioneche le rende lodevoli. VII. "Il preferir comunemente nello stile l'eleganza allaforza". Questa è a un di presso la stessa ragione chequella di cui si è ragionato al num. V, e non fa perciò bi-sogno di altra risposta. VIII. "I pochi progressi che hanno fatto gl'Italiani nellalirica chiamata icastica, cioè in quel genere che fa piùd'ogni altro conoscere l'energia d'una lingua, e in cuitanto si distinsero fra gli antichi Pindaro ed Orazio, emodernamente gl'Inglesi". E dove, e a chi ha coraggio ilsig. ab. Arteaga di scrivere cotali cose? L'Italia che findal primo nascere della sua poesia nel canto di Dante sulconte Ugolino, e in diverse poesie del Petrarca ci additatali esempi d'icastica poesia, che i più energici e i piùvivi difficilmente altrove si troveranno; l'Italia che inmolte stanze dell'Ariosto e del Tasso, e nelle Canzonidel Chiabrera, del Testi, del Filicaia, del Guidi, del Man-fredi, del Frugoni per tacer d'alcuni viventi, può mo-strarne non pochi che non temono il confronto di Pinda-ro e d'Orazio; l'Italia che, se anche ogni altra cosa man-cassele, nel solo idillio tradotto dall'inglese per operadel Magalotti, che incomincia:

Nel più riposto impenetrabil giro, ec.

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per lo più troppo timidi nelle metafore: troppo arditique' del sec. XVII. Que' del presente (intendo di que'che scrivono italianamente, e non francescamente, o in-glesamente) le adoprano con quella saggia moderazioneche le rende lodevoli. VII. "Il preferir comunemente nello stile l'eleganza allaforza". Questa è a un di presso la stessa ragione chequella di cui si è ragionato al num. V, e non fa perciò bi-sogno di altra risposta. VIII. "I pochi progressi che hanno fatto gl'Italiani nellalirica chiamata icastica, cioè in quel genere che fa piùd'ogni altro conoscere l'energia d'una lingua, e in cuitanto si distinsero fra gli antichi Pindaro ed Orazio, emodernamente gl'Inglesi". E dove, e a chi ha coraggio ilsig. ab. Arteaga di scrivere cotali cose? L'Italia che findal primo nascere della sua poesia nel canto di Dante sulconte Ugolino, e in diverse poesie del Petrarca ci additatali esempi d'icastica poesia, che i più energici e i piùvivi difficilmente altrove si troveranno; l'Italia che inmolte stanze dell'Ariosto e del Tasso, e nelle Canzonidel Chiabrera, del Testi, del Filicaia, del Guidi, del Man-fredi, del Frugoni per tacer d'alcuni viventi, può mo-strarne non pochi che non temono il confronto di Pinda-ro e d'Orazio; l'Italia che, se anche ogni altra cosa man-cassele, nel solo idillio tradotto dall'inglese per operadel Magalotti, che incomincia:

Nel più riposto impenetrabil giro, ec.

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potrebbe con questo solo mostrare qual sia la forza el'enfasi della sua lingua, l'Italia sarà ripresa di aver fattipochi progressi nell'icastica poesia? Fin qui l'ab. Artea-ga ci ha fatto vedere che noi siam pusillanimi. Grave di-fetto, ma pur tollerabile, quando la pusillanimità, trovasiin certo modo sostenuta ed avvivata dalla ricchezza. Manoi infelici non solo siam pusillanimi, ma siamo anchepoveri, ed è lo stesso sig. ab. Arteaga che sulla sua paro-la ce ne assicura. Buon per noi che a provarcelo nonproduce più otto argomenti, ma tre soli, i quali però a luisembrano di tal forza, che invano possiam lusingarci discioglierli. I. Il primo argomento del formidabil nostro avversario sitrae dalla "difficoltà di tradurre adeguatamente in italia-no certa classe di libri originali, anzi, dall'impossibilitàdi ottenerlo senza sbrigarsi dai ceppi dell'autorità, crean-do nuove attitudini nello stile proporzionate alla novitàdelle idee, siccome ha dovuto fare il valoroso sig. ab.Cesarotti nella versione di Ossian, e come far dovrebbechiunque render volesse toscani senza avvilirli Omero,Pindaro, Aristofane, Orazio, Tacito, Milton, Montagne,e cent'altri scrittori, i quali dopo tante traduzioni ponnodirsi ancor non tradotti". Ma io chiederò prima al sig.ab. Arteaga qual sia quella lingua la cui povertà ei vuolprovare con questo argomento; giacchè esso si può ri-volgere, contro tutte le viventi lingue d'Europa. Qual èmai quella che possa mostrarci traduzioni adeguate deiclassici autori greci e latini? La francese forse, la spa-

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potrebbe con questo solo mostrare qual sia la forza el'enfasi della sua lingua, l'Italia sarà ripresa di aver fattipochi progressi nell'icastica poesia? Fin qui l'ab. Artea-ga ci ha fatto vedere che noi siam pusillanimi. Grave di-fetto, ma pur tollerabile, quando la pusillanimità, trovasiin certo modo sostenuta ed avvivata dalla ricchezza. Manoi infelici non solo siam pusillanimi, ma siamo anchepoveri, ed è lo stesso sig. ab. Arteaga che sulla sua paro-la ce ne assicura. Buon per noi che a provarcelo nonproduce più otto argomenti, ma tre soli, i quali però a luisembrano di tal forza, che invano possiam lusingarci discioglierli. I. Il primo argomento del formidabil nostro avversario sitrae dalla "difficoltà di tradurre adeguatamente in italia-no certa classe di libri originali, anzi, dall'impossibilitàdi ottenerlo senza sbrigarsi dai ceppi dell'autorità, crean-do nuove attitudini nello stile proporzionate alla novitàdelle idee, siccome ha dovuto fare il valoroso sig. ab.Cesarotti nella versione di Ossian, e come far dovrebbechiunque render volesse toscani senza avvilirli Omero,Pindaro, Aristofane, Orazio, Tacito, Milton, Montagne,e cent'altri scrittori, i quali dopo tante traduzioni ponnodirsi ancor non tradotti". Ma io chiederò prima al sig.ab. Arteaga qual sia quella lingua la cui povertà ei vuolprovare con questo argomento; giacchè esso si può ri-volgere, contro tutte le viventi lingue d'Europa. Qual èmai quella che possa mostrarci traduzioni adeguate deiclassici autori greci e latini? La francese forse, la spa-

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gnuola, l'inglese, la tedesca? Ci additi egli di grazia al-cuno de' nominati scrittori tradotto in modo in qualun-que altra lingua, che adegui l'originale. L'Omero delPope è forse la miglior cosa che in questo genere si pos-sa indicare. Ma ardirà egli di dire che esso abbia tutta lasublimità o la maestà del poeta greco? Perchè dunque ri-volgere contro la lingua italiana un argomento che ha lamedesima forza contro qualunque altra lingua? Io potreianche ricordare alcune traduzioni che ha la volgar nostralingua, le quali smentiscono il detto del sig. ab. Arteaga;e le due singolarmente sì celebri di Lucrezio e di Staziofatte dal Marchetti e dal card. Bentivoglio, e alcune altredi autori viventi che posson coraggiosamente mostrarsiin pubblico, ed esser credute degne de' loro originali.Ma per non recargli argomento da cui si possa scioglierecon una franca e semplice negativa, io mi varrò solo diciò ch'egli stesso generosamente ci accorda, allor quan-do dalla folla de' miseri traduttori sembra eccettuarel'ab. Cesarotti nella sua traduzione dell'Ossian, a cui milusingo ch'ei vorrà ora congiungere quella di Omero,dopo la quale non ci rimprovererà più che non abbiamoOmero in lingua italiana. Ci concede egli dunque che ilsig. ab. Cesarotti ha tradotto Ossian per tal maniera cheha adeguato il vero, o supposto originale, e ci concederàancora che ha fatto parlar Omero come egli avrebbe par-lato, se fosse stato tra noi. Ma acciocchè di questo argo-mento non ci gioviamo in favor della nostra lingua, egliavverte che ad ottenere il suo intento l'ab. Cesarotti, "hadovuto sbrigarsi da' ceppi dell'autorità, creando nuove

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gnuola, l'inglese, la tedesca? Ci additi egli di grazia al-cuno de' nominati scrittori tradotto in modo in qualun-que altra lingua, che adegui l'originale. L'Omero delPope è forse la miglior cosa che in questo genere si pos-sa indicare. Ma ardirà egli di dire che esso abbia tutta lasublimità o la maestà del poeta greco? Perchè dunque ri-volgere contro la lingua italiana un argomento che ha lamedesima forza contro qualunque altra lingua? Io potreianche ricordare alcune traduzioni che ha la volgar nostralingua, le quali smentiscono il detto del sig. ab. Arteaga;e le due singolarmente sì celebri di Lucrezio e di Staziofatte dal Marchetti e dal card. Bentivoglio, e alcune altredi autori viventi che posson coraggiosamente mostrarsiin pubblico, ed esser credute degne de' loro originali.Ma per non recargli argomento da cui si possa scioglierecon una franca e semplice negativa, io mi varrò solo diciò ch'egli stesso generosamente ci accorda, allor quan-do dalla folla de' miseri traduttori sembra eccettuarel'ab. Cesarotti nella sua traduzione dell'Ossian, a cui milusingo ch'ei vorrà ora congiungere quella di Omero,dopo la quale non ci rimprovererà più che non abbiamoOmero in lingua italiana. Ci concede egli dunque che ilsig. ab. Cesarotti ha tradotto Ossian per tal maniera cheha adeguato il vero, o supposto originale, e ci concederàancora che ha fatto parlar Omero come egli avrebbe par-lato, se fosse stato tra noi. Ma acciocchè di questo argo-mento non ci gioviamo in favor della nostra lingua, egliavverte che ad ottenere il suo intento l'ab. Cesarotti, "hadovuto sbrigarsi da' ceppi dell'autorità, creando nuove

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attitudini nello stile proporzionate alla novità delleidee". Ma questo è per noi un oscuro e inintelligibil ger-go. Di quai ceppi, di quale autorità ragiona l'ab. Artea-ga? Quai sono queste nuove attitudini nello stile dall'ab.Cesarotti create? Ha egli forse introdotta qualche nuovavoce, o qualche nuova espressione nella volgar nostralingua? Sì certo; ma in primo luogo ei l'ha fatto dentroque' discreti confini che ei medesimo si è prescritti(Saggio sopra la lingua ital. p. 94, ec.); e parrà ancheforse ad alcuno, che non tutte le nuove voci dall'ab. Ce-sarotti trovate fossero necessarie, e che altre all'intentougualmente opportune avesse già la lingua italiana. Insecondo luogo, di questa libertà hanno finora usato,come abbiam poc'anzi avvertito, i migliori scrittori ita-liani; e l'Accad. della Crusca, qualunque fosse il dirittoche essa avea a deciderne, l'ha in certo modo autentica-mente approvato, inserendo nel suo Vocabolario i nuovivocaboli e le nuove frasi che si andavano di mano inmano coniando. Ha egli data alla lingua italiana un'ener-gia e una forza maggiore che non avesse avuta ancor perl'addietro? Ma questo è manifesta pruova ad un tempodel raro ingegno del traduttore, e dell'eccellenza dellavolgar nostra liagua, la quale da valente scrittor maneg-giata può rivolgersi in mille guise, a mille forme adattar-si, e or imitare la mollezza d'Anacreonte, or pareggiarela rapidità di Pindaro e la maestà di Omero. Certo il sig.ab. Cesarotti non pensa che la nostra lingua sia sì pove-ra, come sembra all'ab. Arteaga; perciocchè anzi egli af-ferma che la "nostra lingua nobilitata e abbellita sempre

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attitudini nello stile proporzionate alla novità delleidee". Ma questo è per noi un oscuro e inintelligibil ger-go. Di quai ceppi, di quale autorità ragiona l'ab. Artea-ga? Quai sono queste nuove attitudini nello stile dall'ab.Cesarotti create? Ha egli forse introdotta qualche nuovavoce, o qualche nuova espressione nella volgar nostralingua? Sì certo; ma in primo luogo ei l'ha fatto dentroque' discreti confini che ei medesimo si è prescritti(Saggio sopra la lingua ital. p. 94, ec.); e parrà ancheforse ad alcuno, che non tutte le nuove voci dall'ab. Ce-sarotti trovate fossero necessarie, e che altre all'intentougualmente opportune avesse già la lingua italiana. Insecondo luogo, di questa libertà hanno finora usato,come abbiam poc'anzi avvertito, i migliori scrittori ita-liani; e l'Accad. della Crusca, qualunque fosse il dirittoche essa avea a deciderne, l'ha in certo modo autentica-mente approvato, inserendo nel suo Vocabolario i nuovivocaboli e le nuove frasi che si andavano di mano inmano coniando. Ha egli data alla lingua italiana un'ener-gia e una forza maggiore che non avesse avuta ancor perl'addietro? Ma questo è manifesta pruova ad un tempodel raro ingegno del traduttore, e dell'eccellenza dellavolgar nostra liagua, la quale da valente scrittor maneg-giata può rivolgersi in mille guise, a mille forme adattar-si, e or imitare la mollezza d'Anacreonte, or pareggiarela rapidità di Pindaro e la maestà di Omero. Certo il sig.ab. Cesarotti non pensa che la nostra lingua sia sì pove-ra, come sembra all'ab. Arteaga; perciocchè anzi egli af-ferma che la "nostra lingua nobilitata e abbellita sempre

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più giunse a tal grado di pregio, che nella sua totalitàcede di poco alle antiche, può per molti capi far invidiaalle moderne, e se in qualche parte è forse inferiore adalcuna, non è certamente colpa della sua attitudine" (l.c. p. 132). E onde dunque è avvenuto, dirà l'ab. Arteaga, che niunaltro traduttor valoroso abbia finora avuto l'Italia? Io po-trei, come già ho accennato, rammentarne parecchi, iquali, se restano addietro all'ab. Cesarotti, l'intervallonon ne è però così grande che non gli si possan dire vi-cini. Ma gli si conceda ciò ch'egli vuole. Ei non potrà al-meno negare che l'ab. Cesarotti ha fatto conoscere findove possa giugnere la lingua italiana; che ciò ch'egli hafatto, potevasi ugualmente fare da qualunque altro cheavesse avuto ingegno e studio a lui uguale; e che, se ciònon è accaduto, non deesene dar la colpa alla lingua, maa quella, comunque vogliam chiamarla, o fatalità, o sor-te, o legge di natura, per cui rari sempre furono in ognietà e presso ogni nazione gl'ingegni sommi. Di fatto perqual ragione la lingua italiana non sarà opportuna adesprimere le bellezza e i pregi di qualunque lingua e diqualunque stile? Una lingua che usando del medesimometro può nondimeno variare l'armonia per tal modo,che renda un suono, totalmente diverso, ed esprima af-fetti totalmente contrarj, come in quelle due celebri otta-ve del Tasso.

Sommessi accenti e tacite parole, Rotti singulti e flebili sospiri, ec.

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più giunse a tal grado di pregio, che nella sua totalitàcede di poco alle antiche, può per molti capi far invidiaalle moderne, e se in qualche parte è forse inferiore adalcuna, non è certamente colpa della sua attitudine" (l.c. p. 132). E onde dunque è avvenuto, dirà l'ab. Arteaga, che niunaltro traduttor valoroso abbia finora avuto l'Italia? Io po-trei, come già ho accennato, rammentarne parecchi, iquali, se restano addietro all'ab. Cesarotti, l'intervallonon ne è però così grande che non gli si possan dire vi-cini. Ma gli si conceda ciò ch'egli vuole. Ei non potrà al-meno negare che l'ab. Cesarotti ha fatto conoscere findove possa giugnere la lingua italiana; che ciò ch'egli hafatto, potevasi ugualmente fare da qualunque altro cheavesse avuto ingegno e studio a lui uguale; e che, se ciònon è accaduto, non deesene dar la colpa alla lingua, maa quella, comunque vogliam chiamarla, o fatalità, o sor-te, o legge di natura, per cui rari sempre furono in ognietà e presso ogni nazione gl'ingegni sommi. Di fatto perqual ragione la lingua italiana non sarà opportuna adesprimere le bellezza e i pregi di qualunque lingua e diqualunque stile? Una lingua che usando del medesimometro può nondimeno variare l'armonia per tal modo,che renda un suono, totalmente diverso, ed esprima af-fetti totalmente contrarj, come in quelle due celebri otta-ve del Tasso.

Sommessi accenti e tacite parole, Rotti singulti e flebili sospiri, ec.

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EChiama gli abitator dell'Ombre eterne Il rauco suon della tartarea tromba, ec.

una lingua che nelle sole arie del Metastasio or tenere emolli, or impetuose e sublimi fa sì chiaramente conosce-re la sua volubilità e pieghevolezza, perchè non sarà ellacapace di ritrarre e di esprimere le bellezze e i pregi diqualunque altra lingua? Se dunque l'Italia o non ha avutifinora, o ha avuti in assai scarso numero traduttori valo-rosi ed insigni, non dee incolparsene la nostra lingua,ma la estrema difficoltà che seco porta il ben tradurre.Chi a ciò si accinge, non solo dee possedere perfetta-mente la lingua in cui scrisse l'autore che vuol tradursi,e quella in cui dee esso tradursi, ma dee conoscerne an-cora le relazioni che hanno l'una coll'altra; riflettere allecircostanze dei tempi in cui scrisse l'autore, e a quelle incui dee pubblicarsi la traduzione, alla diversa indole del-le nazioni, ai diversi costumi, al diverso genio della lin-gua. Un'espressione sarà sublime in un linguaggio, tra-dotta letteralmente in un altro sarà bassa e triviale.Un'immagine sarà sembrata nobile venti secoli addietro,or si rimirerà come vile. Chi può or soffrire l'Omero delSalvini? E nondimeno egli avea una perfettissima cogni-zione della lingua greca e dell'italiana. Ma col voler tra-sportare letteralmente i pensieri e le espressioni de' tem-pi di Omero a' tempi nostri, ei ci ha data una traduzioneche sembra screditare e avvilire quel sommo poeta. II. "Le molte significazioni tutte approvate dal Vocabo-

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EChiama gli abitator dell'Ombre eterne Il rauco suon della tartarea tromba, ec.

una lingua che nelle sole arie del Metastasio or tenere emolli, or impetuose e sublimi fa sì chiaramente conosce-re la sua volubilità e pieghevolezza, perchè non sarà ellacapace di ritrarre e di esprimere le bellezze e i pregi diqualunque altra lingua? Se dunque l'Italia o non ha avutifinora, o ha avuti in assai scarso numero traduttori valo-rosi ed insigni, non dee incolparsene la nostra lingua,ma la estrema difficoltà che seco porta il ben tradurre.Chi a ciò si accinge, non solo dee possedere perfetta-mente la lingua in cui scrisse l'autore che vuol tradursi,e quella in cui dee esso tradursi, ma dee conoscerne an-cora le relazioni che hanno l'una coll'altra; riflettere allecircostanze dei tempi in cui scrisse l'autore, e a quelle incui dee pubblicarsi la traduzione, alla diversa indole del-le nazioni, ai diversi costumi, al diverso genio della lin-gua. Un'espressione sarà sublime in un linguaggio, tra-dotta letteralmente in un altro sarà bassa e triviale.Un'immagine sarà sembrata nobile venti secoli addietro,or si rimirerà come vile. Chi può or soffrire l'Omero delSalvini? E nondimeno egli avea una perfettissima cogni-zione della lingua greca e dell'italiana. Ma col voler tra-sportare letteralmente i pensieri e le espressioni de' tem-pi di Omero a' tempi nostri, ei ci ha data una traduzioneche sembra screditare e avvilire quel sommo poeta. II. "Le molte significazioni tutte approvate dal Vocabo-

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lario, che si danno ad una stessa parola" sono il secondoargomento con cui il sig. ab. Arteaga dimostra la pover-tà della lingua italiana; perciocchè; egli dice, e, suppostala verità del fatto, dice a ragione, che non v'ha giustaproporzion nella lingua tra le immagini e la manierad'esprimerle. E aggiugne poscia che questa proporzionesi va ogni giorno scemando attese le molte parole edespressioni antiquate, che cadono in disuso. Dalle qualiriflessioni ei trae la conseguenza che il numero de' voca-boli nella lingua francese supera forse di non poco il nu-mero corrispondente nell'italiana. Se il sig. ab. Arteagacosì parlasse a' Messicani, o ai Brasiliesi ei potrebbe ot-tener fede. Ma ch'egli abbia coraggio di scriver così inItalia, chi può non farne le maraviglie? Egli è verissimoche molte parole hanno diverse significazioni. Ma non èegli ciò comune a tutte le lingue? E per restringerci allepiù note, la latina e la francese non hanno esse pure que-sta moltiplicità di significazioni in diverse parole? Nonha ella ancora la lingua francese molte parole e molteespressioni che or sono del tutto dimenticate, e quasi piùnon s'intendono? Perchè dunque argomentare la povertàdella lingua italiana da ciò che pruova ugualmente lapovertà delle altre lingue? Vorrà forse affermare il sig.ab. Arteaga, che la lingua italiana abbia maggior nume-ro di voci di diverse significazioni, e che non ne abbianoaltre corrispondenti, e maggior numero abbia ancora divoci disusate, a cui altre migliori non siano state sosti-tuite? Non basta affermarlo. Si accinga a provarlo: e al-lora alle pruove ch'ei si degnerà di recarne, ci studiere-

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lario, che si danno ad una stessa parola" sono il secondoargomento con cui il sig. ab. Arteaga dimostra la pover-tà della lingua italiana; perciocchè; egli dice, e, suppostala verità del fatto, dice a ragione, che non v'ha giustaproporzion nella lingua tra le immagini e la manierad'esprimerle. E aggiugne poscia che questa proporzionesi va ogni giorno scemando attese le molte parole edespressioni antiquate, che cadono in disuso. Dalle qualiriflessioni ei trae la conseguenza che il numero de' voca-boli nella lingua francese supera forse di non poco il nu-mero corrispondente nell'italiana. Se il sig. ab. Arteagacosì parlasse a' Messicani, o ai Brasiliesi ei potrebbe ot-tener fede. Ma ch'egli abbia coraggio di scriver così inItalia, chi può non farne le maraviglie? Egli è verissimoche molte parole hanno diverse significazioni. Ma non èegli ciò comune a tutte le lingue? E per restringerci allepiù note, la latina e la francese non hanno esse pure que-sta moltiplicità di significazioni in diverse parole? Nonha ella ancora la lingua francese molte parole e molteespressioni che or sono del tutto dimenticate, e quasi piùnon s'intendono? Perchè dunque argomentare la povertàdella lingua italiana da ciò che pruova ugualmente lapovertà delle altre lingue? Vorrà forse affermare il sig.ab. Arteaga, che la lingua italiana abbia maggior nume-ro di voci di diverse significazioni, e che non ne abbianoaltre corrispondenti, e maggior numero abbia ancora divoci disusate, a cui altre migliori non siano state sosti-tuite? Non basta affermarlo. Si accinga a provarlo: e al-lora alle pruove ch'ei si degnerà di recarne, ci studiere-

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mo di far risposta. Per ciò poi, che appartiene al con-fronto tra le due lingue italiana e francese, noi crediamoche niuna abbia mai avanzato un sì strano paradosso; ecrediamo ancora che niuno si lascerà persuadere dallasola asserzione del sig. ab. Arteaga. III. L'ultimo argomento del sig. ab. Arteaga è di eviden-za uguale a quella degli altri due. Esso ricavasi dalle"tante e tante idee per cui non trovasi il vocabolo corri-spondente, ove non si ricorra ad una circonlocuzione, oa qualche idioma straniero". La risposta che fatta abbia-mo al precedente argomento, dee anche a questo adattar-si. Ogni lingua si è sempre arricchita, e si arricchiràsempre colle altrui spoglie. Quante voci ha preso la lin-gua greca dalle orientali! Quante la latina dalla greca!Quante l'italiana, la francese, la spagnuola dalla latina!E quante voci delle suddette tre lingue viventi si sonodall'una all'altra comunicate! L'argomento dunque nonvale per la lingua italiana più che per le altre, finchè ilsig. ab. Arteaga non pruova che la lingua italiana assaimaggior numero di voci straniere è costretta ad adottaredi quel che facciano le altre. Egli non l'ha provato, nè ilproverà forse giammai. E se altro non fosse che il solopregio della volgar nostra lingua, in cui niuna certo lepuò stare al confronto, di aver ne' nomi tanti diminutivi,accrescitivi, peggiorativi, che sono come le mezze tintenella pittura, basta a mostrarne la varietà e l'abbondanza.Il sig. ab. Arteaga però ha un invincibile argomento aprovare che grandissimo è nella lingua italiana il nume-

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mo di far risposta. Per ciò poi, che appartiene al con-fronto tra le due lingue italiana e francese, noi crediamoche niuna abbia mai avanzato un sì strano paradosso; ecrediamo ancora che niuno si lascerà persuadere dallasola asserzione del sig. ab. Arteaga. III. L'ultimo argomento del sig. ab. Arteaga è di eviden-za uguale a quella degli altri due. Esso ricavasi dalle"tante e tante idee per cui non trovasi il vocabolo corri-spondente, ove non si ricorra ad una circonlocuzione, oa qualche idioma straniero". La risposta che fatta abbia-mo al precedente argomento, dee anche a questo adattar-si. Ogni lingua si è sempre arricchita, e si arricchiràsempre colle altrui spoglie. Quante voci ha preso la lin-gua greca dalle orientali! Quante la latina dalla greca!Quante l'italiana, la francese, la spagnuola dalla latina!E quante voci delle suddette tre lingue viventi si sonodall'una all'altra comunicate! L'argomento dunque nonvale per la lingua italiana più che per le altre, finchè ilsig. ab. Arteaga non pruova che la lingua italiana assaimaggior numero di voci straniere è costretta ad adottaredi quel che facciano le altre. Egli non l'ha provato, nè ilproverà forse giammai. E se altro non fosse che il solopregio della volgar nostra lingua, in cui niuna certo lepuò stare al confronto, di aver ne' nomi tanti diminutivi,accrescitivi, peggiorativi, che sono come le mezze tintenella pittura, basta a mostrarne la varietà e l'abbondanza.Il sig. ab. Arteaga però ha un invincibile argomento aprovare che grandissimo è nella lingua italiana il nume-

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ro delle idee innominate. E qual sarà esso mai? "Il pocoesercitarsi che hanno fatto gli Italiani in certi generi distile, i quali però formano la quotidiana lettura nonmeno che le delizie dell'altre nazioni". Anche qui la lo-gica del sig. ab. Arteaga ci sembra di una forma del tut-to nuova. Gl'Italiani non si esercitano in certi generi distile che piacciono alle altre nazioni. Dunque la loro lin-gua è più povera di quelle delle altre nazioni. E perchènon potrò io dir similmente? Gli antichi Greci appenamai si sono esercitati nello scriver romanzi che tantopiacquero sempre alle colte nazioni. Dunque la linguagreca è povera, ed è grandissimo il numero in essa delleidee innominate? Chi potrà sostenere gli attacchi di unavversario che ragiona sì sottilmente? Di fatto può perpiù ragioni avvenire che ricchissima sia una lingua, eadattata ad ogni genere di argomento e di stile, e chenondimeno in qualche genere particolare essa abbia mi-nor numero di egregi scrittori di quel che abbia una lin-gua men ricca. Senza diffonderci a esaminare quali pos-sano essere queste ragioni, rechiamone una pruova.L'Italia non ha certamente nel genere tragico tal copia esceltezza di autori che possano quella gloria ottenerleche ottennero alla Francia Cornelio, Racine, Voltaire.Dirassi perciò che la lingua francese sia più ricca e piùabbondante dell'italiana in ciò che a poesia appartiene?Io mi lusingo che niuno sosterrà questa eresia letteraria,la quale dal discorso del sig. ab. Arteaga discenderebbenecessariamente.

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ro delle idee innominate. E qual sarà esso mai? "Il pocoesercitarsi che hanno fatto gli Italiani in certi generi distile, i quali però formano la quotidiana lettura nonmeno che le delizie dell'altre nazioni". Anche qui la lo-gica del sig. ab. Arteaga ci sembra di una forma del tut-to nuova. Gl'Italiani non si esercitano in certi generi distile che piacciono alle altre nazioni. Dunque la loro lin-gua è più povera di quelle delle altre nazioni. E perchènon potrò io dir similmente? Gli antichi Greci appenamai si sono esercitati nello scriver romanzi che tantopiacquero sempre alle colte nazioni. Dunque la linguagreca è povera, ed è grandissimo il numero in essa delleidee innominate? Chi potrà sostenere gli attacchi di unavversario che ragiona sì sottilmente? Di fatto può perpiù ragioni avvenire che ricchissima sia una lingua, eadattata ad ogni genere di argomento e di stile, e chenondimeno in qualche genere particolare essa abbia mi-nor numero di egregi scrittori di quel che abbia una lin-gua men ricca. Senza diffonderci a esaminare quali pos-sano essere queste ragioni, rechiamone una pruova.L'Italia non ha certamente nel genere tragico tal copia esceltezza di autori che possano quella gloria ottenerleche ottennero alla Francia Cornelio, Racine, Voltaire.Dirassi perciò che la lingua francese sia più ricca e piùabbondante dell'italiana in ciò che a poesia appartiene?Io mi lusingo che niuno sosterrà questa eresia letteraria,la quale dal discorso del sig. ab. Arteaga discenderebbenecessariamente.

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Ma se la logica di questo scrittore non è troppo giusta, eivanterassi almeno di avere con verità affermata la man-canza di libri italiani in certi generi di stile, che non do-vrebbon loro mancare, se così ricca fosse la loro lingua,come essi si vantano. Questo è ciò che colla usata suaeloquenza si fa a provare diffusamente il sig. ab. Artea-ga, e che noi verremo ora esaminando partitamente. Comincia egli dal confessare che l'Italia in genere dipoesia ha eccellenti modelli che posson servir di guida achi i medesimi studj intraprende. Ma nella prosa, conti-nua a dire, qual è lo scrittore che riunisca, o possa riuni-re i suffragi della nazione? Riconosce che il Boccaccio èil più eloquente e il più originale fra i prosatori toscani;ma aggiugne che poco uso può farsi oggi della sua ma-niera di scrivere nel gusto presente e pei bisogni dellamoderna letteratura. Belle parole, ma delle quali io nonarrivo ad intendere il senso. Che è la moderna letteratu-ra? Tutto ciò, io credo, che forma l'applicazione e lo stu-dio de' letterati moderni, e perciò dee in essa compren-dersi la proprietà dell'espressione, l'eloquenza delle par-late, la grazia de' racconti. Or, se il Boccaccio è il piùeloquente e il più originale fra i prosatori toscani, perchènon può egli giovar molto anche alla moderna letteratu-ra, quando dallo stile di esso si levino i difetti dell'età acui visse, cioè la costruzione e la tessitura del periodo edell'orazione troppo somigliante alla lingua latina, dacui di fresco erasi questa bella figlia staccata, e moltoperciò ancora serbava del portamento e dell'andamento

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Ma se la logica di questo scrittore non è troppo giusta, eivanterassi almeno di avere con verità affermata la man-canza di libri italiani in certi generi di stile, che non do-vrebbon loro mancare, se così ricca fosse la loro lingua,come essi si vantano. Questo è ciò che colla usata suaeloquenza si fa a provare diffusamente il sig. ab. Artea-ga, e che noi verremo ora esaminando partitamente. Comincia egli dal confessare che l'Italia in genere dipoesia ha eccellenti modelli che posson servir di guida achi i medesimi studj intraprende. Ma nella prosa, conti-nua a dire, qual è lo scrittore che riunisca, o possa riuni-re i suffragi della nazione? Riconosce che il Boccaccio èil più eloquente e il più originale fra i prosatori toscani;ma aggiugne che poco uso può farsi oggi della sua ma-niera di scrivere nel gusto presente e pei bisogni dellamoderna letteratura. Belle parole, ma delle quali io nonarrivo ad intendere il senso. Che è la moderna letteratu-ra? Tutto ciò, io credo, che forma l'applicazione e lo stu-dio de' letterati moderni, e perciò dee in essa compren-dersi la proprietà dell'espressione, l'eloquenza delle par-late, la grazia de' racconti. Or, se il Boccaccio è il piùeloquente e il più originale fra i prosatori toscani, perchènon può egli giovar molto anche alla moderna letteratu-ra, quando dallo stile di esso si levino i difetti dell'età acui visse, cioè la costruzione e la tessitura del periodo edell'orazione troppo somigliante alla lingua latina, dacui di fresco erasi questa bella figlia staccata, e moltoperciò ancora serbava del portamento e dell'andamento

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materno? Il che pure vuol dirsi de' cinquecentisti, i cuieterni periodi e troppo studiati ravvolgimenti giustamen-te riprende l'ab. Arteaga. La lingua latina non ava anco-ra perduto quel vasto e universale dominio che avea finallora avuto in Italia, e i buoni nostri scrittori formatisisulle opere de' classici latini ne ritraevano anche scri-vendo in lingua italiana i lineamenti e i contorni. Noidunque non li proporremo come perfetti modelli di stileitaliano; ma come autori da' quali possiamo apprenderela proprietà e l'eleganza dell'espressione senza imitarne idifetti, da' quali tanto più facilmente possiam noi ora te-nerci lontani, quanto più era ad essi difficile di purgarse-ne interamente. Ma, lode a Dio, l'ab. Arteaga trova pur finalmente unnostro scrittore cui "la sua profondità di pensare, e lostile pieno di nervo e di cose avvicinan di molto al cor-rente filosofico genio del nostro secolo. Egli è il Mac-chiavelli, ma che? Ecco la fatal disgrazia della nostrapovera Italia. La nerezza delle sue massime rilegandologiustamente fra le mani di pochi, non gli ha permesso fi-nora, nè gli permetterà per l'avvenire di aver tuttal'influenza di cui sarebbe capace sul gusto letterariod'Italia". Riflessione, per vero dire, ingegnosa, e nuovoesempio della maniera di ragionare direttamente. Qui sicerca se la lingua italiana sia capace di quella forza e diquella energia che secondo l'ab. Arteaga hanno altre lin-gue, ed essa non ha nè può avere, perchè è soverchia-mente pusillanime e assai meno feconda che altri non

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materno? Il che pure vuol dirsi de' cinquecentisti, i cuieterni periodi e troppo studiati ravvolgimenti giustamen-te riprende l'ab. Arteaga. La lingua latina non ava anco-ra perduto quel vasto e universale dominio che avea finallora avuto in Italia, e i buoni nostri scrittori formatisisulle opere de' classici latini ne ritraevano anche scri-vendo in lingua italiana i lineamenti e i contorni. Noidunque non li proporremo come perfetti modelli di stileitaliano; ma come autori da' quali possiamo apprenderela proprietà e l'eleganza dell'espressione senza imitarne idifetti, da' quali tanto più facilmente possiam noi ora te-nerci lontani, quanto più era ad essi difficile di purgarse-ne interamente. Ma, lode a Dio, l'ab. Arteaga trova pur finalmente unnostro scrittore cui "la sua profondità di pensare, e lostile pieno di nervo e di cose avvicinan di molto al cor-rente filosofico genio del nostro secolo. Egli è il Mac-chiavelli, ma che? Ecco la fatal disgrazia della nostrapovera Italia. La nerezza delle sue massime rilegandologiustamente fra le mani di pochi, non gli ha permesso fi-nora, nè gli permetterà per l'avvenire di aver tuttal'influenza di cui sarebbe capace sul gusto letterariod'Italia". Riflessione, per vero dire, ingegnosa, e nuovoesempio della maniera di ragionare direttamente. Qui sicerca se la lingua italiana sia capace di quella forza e diquella energia che secondo l'ab. Arteaga hanno altre lin-gue, ed essa non ha nè può avere, perchè è soverchia-mente pusillanime e assai meno feconda che altri non

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crede. Or se anche il sol Macchiavelli ha lo stile pienodi nervo e di cose, non è egli omai provato abbastanzache la lingua italiana non è quale l'ab. Arteaga ce la de-scrive? Che a far dunque l'essere il Macchiavelli nellemani di pochi coll'intrinseca pusillanimità e povertà del-la nostra lingua? Benchè anche questo argomento mipare di conio del tutto nuovo. Il Macchiavelli contieneree ed eserabili massime. Dunque non può esser model-lo di scrivere italiano. Son forse tutte le opere del Mac-chiavelli ugualmente pericolose? Non è egli letto damolti i quali non temono di contrarne il veleno, e a' qua-li perciò ne è permessa la lettura da chi ha diritto di di-vietarla? Non è egli letto ancora da molti i quali si lusin-gano che niuno possa avere autorità a toglierlo lor dallemani? Perchè dunque non è egli imitato da molti, e per-chè sì pochi tra gl'italiani scrittori a lui si assomiglianonello stile? Non è ancor tempo di esaminarlo; e noi dob-biamo ora continuare la censura de' nostri scrittori fattadal sig. ab. Arteaga. Escluso il Macchiavelli, ei non trova che il solo Galileo"il qual sarebbe in qualche modo adattabile alle attualicircostanze, d'Italia per la precisione, eleganza, proprie-tà e robustezza del suo stile". Ma qui ancora un'altra di-sgrazia, ci attende. "Confinato, com'egli è, nelle cose fi-siche, non può servir di modello a chi vuol esercitarsinegli altri generi". Così secondo l'ab. Arteaga non è inalcun modo possibile che noi possiamo scrivere colta-mente. Ma diamo ancora all'autore di sì formidabil sen-

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crede. Or se anche il sol Macchiavelli ha lo stile pienodi nervo e di cose, non è egli omai provato abbastanzache la lingua italiana non è quale l'ab. Arteaga ce la de-scrive? Che a far dunque l'essere il Macchiavelli nellemani di pochi coll'intrinseca pusillanimità e povertà del-la nostra lingua? Benchè anche questo argomento mipare di conio del tutto nuovo. Il Macchiavelli contieneree ed eserabili massime. Dunque non può esser model-lo di scrivere italiano. Son forse tutte le opere del Mac-chiavelli ugualmente pericolose? Non è egli letto damolti i quali non temono di contrarne il veleno, e a' qua-li perciò ne è permessa la lettura da chi ha diritto di di-vietarla? Non è egli letto ancora da molti i quali si lusin-gano che niuno possa avere autorità a toglierlo lor dallemani? Perchè dunque non è egli imitato da molti, e per-chè sì pochi tra gl'italiani scrittori a lui si assomiglianonello stile? Non è ancor tempo di esaminarlo; e noi dob-biamo ora continuare la censura de' nostri scrittori fattadal sig. ab. Arteaga. Escluso il Macchiavelli, ei non trova che il solo Galileo"il qual sarebbe in qualche modo adattabile alle attualicircostanze, d'Italia per la precisione, eleganza, proprie-tà e robustezza del suo stile". Ma qui ancora un'altra di-sgrazia, ci attende. "Confinato, com'egli è, nelle cose fi-siche, non può servir di modello a chi vuol esercitarsinegli altri generi". Così secondo l'ab. Arteaga non è inalcun modo possibile che noi possiamo scrivere colta-mente. Ma diamo ancora all'autore di sì formidabil sen-

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tenza che il solo Galileo tra' nostri scrittori si possa pro-porre a modello di eleganza e di precisione nelle cose fi-siche. Non basta egli ciò a provare che la lingua italiananon è così pusillanime, nè così povera come ei preten-tende? Ciò che nella storia e nella politica ha fatto ilMacchiavelli, ciò che ha fatto il Galileo nella fisica enella matematica, non potrà egli farsi da altri scrittorinella teologia, nella medicina, nella giurisprudenza e inqualunque altro genere? Ci mostri il sig. ab. Arteaga perqual razione ciò che fu possibile ad essi negli argomentia cui si rivolsero, non sia possibile ad altri in altri generidi stile. Benchè come posso io concedergli che il solo Galileo sipossa proporre a modello di stil colto, elegante e preci-so, anche restringendosi solo alle cose fisiche? Ignoraegli forse il sig. ab. Arteaga le opere del Redi, del Ma-galotti, del Vallisnieri, dell'ab. Conti, del dott. Cocchi edi più altri che si potrebbono rammentare, scrittori col-tissimi in fisica, in medicina, in istoria naturale? Se gliignora, con qual coraggio si fa a decidere del merito de-gli scrittori italiani? Se li conosce, perchè li dissimula?Perchè rimprovera all'Italia una sognata povertà di scrit-tori? Ed ecco, conchiude questa parte del suo ingegnoso ra-gionamento l'ab. Arteaga, "ed ecco l'origine di quellaspecie di anarchia letteraria, che rendendo incerti i giu-dizj sulla vera maniera di scrivere per la mancanza di undittatore sovrano, fa che altrettanti siano i gusti d'Italia,

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tenza che il solo Galileo tra' nostri scrittori si possa pro-porre a modello di eleganza e di precisione nelle cose fi-siche. Non basta egli ciò a provare che la lingua italiananon è così pusillanime, nè così povera come ei preten-tende? Ciò che nella storia e nella politica ha fatto ilMacchiavelli, ciò che ha fatto il Galileo nella fisica enella matematica, non potrà egli farsi da altri scrittorinella teologia, nella medicina, nella giurisprudenza e inqualunque altro genere? Ci mostri il sig. ab. Arteaga perqual razione ciò che fu possibile ad essi negli argomentia cui si rivolsero, non sia possibile ad altri in altri generidi stile. Benchè come posso io concedergli che il solo Galileo sipossa proporre a modello di stil colto, elegante e preci-so, anche restringendosi solo alle cose fisiche? Ignoraegli forse il sig. ab. Arteaga le opere del Redi, del Ma-galotti, del Vallisnieri, dell'ab. Conti, del dott. Cocchi edi più altri che si potrebbono rammentare, scrittori col-tissimi in fisica, in medicina, in istoria naturale? Se gliignora, con qual coraggio si fa a decidere del merito de-gli scrittori italiani? Se li conosce, perchè li dissimula?Perchè rimprovera all'Italia una sognata povertà di scrit-tori? Ed ecco, conchiude questa parte del suo ingegnoso ra-gionamento l'ab. Arteaga, "ed ecco l'origine di quellaspecie di anarchia letteraria, che rendendo incerti i giu-dizj sulla vera maniera di scrivere per la mancanza di undittatore sovrano, fa che altrettanti siano i gusti d'Italia,

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quante sono le provincie che la compongono". Io avreicreduto che la povertà e la pusillanimità di una linguadovesse produrre uno stile monotono ed uniforme in tut-ti gli scrittori. Ma l'acuta logica dell'ab. Arteaga ci fa co-noscere che ne nasce un effetto del tutto contrario, e cheuna lingua sì povera è madre feconda di tanti stili e ditanti gusti diversi. Ma passandogli ancor per buono que-sto suo ragionamento, giacchè egli è disposto a crederela lingua francese più ricca dell'italiana, ci dica in gra-zia, qual è nella lingua francese il modello dell'eloquen-za sacra? È egli Bourdalüe, o Bossuet, o Massillon, oFlechier, o Neuville? Tutti oratori eloquenti, ma tutti distile troppo l'un dall'altro diverso. Chi proporrà egli adesemplare nello scriver tragedie? Sarà egli Cornelio, oRacine, o Crebillon, o Voltaire? Chi imiterem noi nellaStoria? Sarà egli o Mezeray, o Daniel, o Hainault, oBougeant? E così dicasi di ogni altro genere di stile.Ecco dunque anche nella lingua francese questa anar-chia che produrrà quello sconcerto medesimo che pro-duce nella lingua italiana. Noi siamo omai giunti all'ultimo articolo del processoche il sig. ab. Arteaga fa alla lingua italiana. Ed a mepare ch'egli abbia qui col suo vivace ingegno imitatique' borghigiani o terrazzani che a festeggiare qualcheloro principale solennità dispongono una lunga e ben or-dinata batteria di mortari da fuoco, col cui scoppio ralle-grar la brigata. Cominciasi dal dar fuoco a' più piccoli,indi si viene a' più grandi, e prima si ode lo scoppio di

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quante sono le provincie che la compongono". Io avreicreduto che la povertà e la pusillanimità di una linguadovesse produrre uno stile monotono ed uniforme in tut-ti gli scrittori. Ma l'acuta logica dell'ab. Arteaga ci fa co-noscere che ne nasce un effetto del tutto contrario, e cheuna lingua sì povera è madre feconda di tanti stili e ditanti gusti diversi. Ma passandogli ancor per buono que-sto suo ragionamento, giacchè egli è disposto a crederela lingua francese più ricca dell'italiana, ci dica in gra-zia, qual è nella lingua francese il modello dell'eloquen-za sacra? È egli Bourdalüe, o Bossuet, o Massillon, oFlechier, o Neuville? Tutti oratori eloquenti, ma tutti distile troppo l'un dall'altro diverso. Chi proporrà egli adesemplare nello scriver tragedie? Sarà egli Cornelio, oRacine, o Crebillon, o Voltaire? Chi imiterem noi nellaStoria? Sarà egli o Mezeray, o Daniel, o Hainault, oBougeant? E così dicasi di ogni altro genere di stile.Ecco dunque anche nella lingua francese questa anar-chia che produrrà quello sconcerto medesimo che pro-duce nella lingua italiana. Noi siamo omai giunti all'ultimo articolo del processoche il sig. ab. Arteaga fa alla lingua italiana. Ed a mepare ch'egli abbia qui col suo vivace ingegno imitatique' borghigiani o terrazzani che a festeggiare qualcheloro principale solennità dispongono una lunga e ben or-dinata batteria di mortari da fuoco, col cui scoppio ralle-grar la brigata. Cominciasi dal dar fuoco a' più piccoli,indi si viene a' più grandi, e prima si ode lo scoppio di

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un solo, poi di due, o tre insieme. Finalmente si compiela festa collo sparo di alcuni de' più grossi mortai tuttiad un tratto, che rassomigliano ad un fulmine rovescia-tor di ogni cosa. Non altrimenti l'ab. Arteaga, dopo ave-re quasi scherzato con noi, ed or uno, or un altro argo-mento opposto a' difensori della lingua italiana, dà fineal suo assalto col dar fuoco tutto ad un colpo alla piùformidabil batteria che ne' letterarj campi siasi mai ve-duta. E quale strage non mena essa? Ecco a terra ad uncolpo tutte le glorie delle quali noi andavam prima su-perbi e fastosi. Eccoci rapito, qualunque diritto che po-tessimo sperar di avere ad acquistarci l'immortalità colleopere d'ingegno. Noi non abbiamo, secondo lui, nè libridi sentimento, nè libri di spirito, nè romanzi, nè letterefamigliari, nè dialoghi, nè orazioni forensi, nè elogi, nètrattati scientifici, nè storie letterarie, nè libri didascalici,nè ... Qui l'ab. Arteaga pietosamente si arresta, e pago difarci conoscere che potrebbe stendersi assai più a lungo,a guisa di Nettuno, con un grave Quos ego ci mostraquanto alla sua clemenza siam debitori, che non vuolper ora travagliarci più oltre. Ma ci sarà egli permesso,passato il rimbombo di sì terribile scoppio, il rilevarcialquanto, e l'osservare diligentemente se le nostre rovinesiano di fatto sì grandi, come l'impeto dell'assalto po-trebbe farci temere? Noi non abbiamo, dice il sig. ab. Arteaga, opere, comediconsi in Francia "di sentimento, cioè quelle dove unapiù minuta analisi delle passioni, ed una più squisita

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un solo, poi di due, o tre insieme. Finalmente si compiela festa collo sparo di alcuni de' più grossi mortai tuttiad un tratto, che rassomigliano ad un fulmine rovescia-tor di ogni cosa. Non altrimenti l'ab. Arteaga, dopo ave-re quasi scherzato con noi, ed or uno, or un altro argo-mento opposto a' difensori della lingua italiana, dà fineal suo assalto col dar fuoco tutto ad un colpo alla piùformidabil batteria che ne' letterarj campi siasi mai ve-duta. E quale strage non mena essa? Ecco a terra ad uncolpo tutte le glorie delle quali noi andavam prima su-perbi e fastosi. Eccoci rapito, qualunque diritto che po-tessimo sperar di avere ad acquistarci l'immortalità colleopere d'ingegno. Noi non abbiamo, secondo lui, nè libridi sentimento, nè libri di spirito, nè romanzi, nè letterefamigliari, nè dialoghi, nè orazioni forensi, nè elogi, nètrattati scientifici, nè storie letterarie, nè libri didascalici,nè ... Qui l'ab. Arteaga pietosamente si arresta, e pago difarci conoscere che potrebbe stendersi assai più a lungo,a guisa di Nettuno, con un grave Quos ego ci mostraquanto alla sua clemenza siam debitori, che non vuolper ora travagliarci più oltre. Ma ci sarà egli permesso,passato il rimbombo di sì terribile scoppio, il rilevarcialquanto, e l'osservare diligentemente se le nostre rovinesiano di fatto sì grandi, come l'impeto dell'assalto po-trebbe farci temere? Noi non abbiamo, dice il sig. ab. Arteaga, opere, comediconsi in Francia "di sentimento, cioè quelle dove unapiù minuta analisi delle passioni, ed una più squisita

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anatomia del cuore fanno, a così dir, germogliareun'abbondanza d'idee più individuali e distinte, le qualiper esser comprese a dovere hanno bisogno di vocabolinuovi che presentano a chi ascolta non solo il senso ge-nerico dell'idea, ma le differenze altresì più minute".Noi dunque non ne abbiamo? E non ci permetterà eglialmeno di indicargli uno scrittore in cui egli non potrànon riconoscere "la più minuta analisi delle passioni, ela più squisita anatomia del cuore?" Un solo che noi netroviamo, abbiam vinta la causa; perciocchè se la linguaitaliana non è capace di questo genere di stile, non puòaverne neppure un solo, e se ne ha uno, può averneugualmente i cento e i mille. Or non sembra egli al sig.ab. Arteaga, che noi non possiam mostrargli nel Meta-stasio quello scrittore che ei ci rimprovera di non avere?"Niuno ha sentito tanto avanti quanto Metastasio nellafilosofia dell'amore ... Niuno l'ha dipinto con più genui-ni colori, ora rendendo visibili i sentimenti più nascosi,ora simplificando i più complicati, ora smascherando lepiù illusorie apparenze. Basta, non che altro, leggerel'Asilo d'Amore per ravvisarvi dentro un compiuto filo-sofico trattato, dove coi più vaghi colori della poesia tut-ti si veggono espressi i morali sintomi di questa passio-ne con finezze e verità superiori di gran lunga al pompo-so e inintelligibile gergo con cui vien trattata da Platonela stessa materia nel suo Simposio. Niuno l'ha egual-mente ingentilito... Niuno possiede in sì alto grado l'elo-quenza del cuore, nè sa meglio di lui porre in movimen-to gli affetti". L'autor ch'io cito (Arteaga Rivoluz. del

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anatomia del cuore fanno, a così dir, germogliareun'abbondanza d'idee più individuali e distinte, le qualiper esser comprese a dovere hanno bisogno di vocabolinuovi che presentano a chi ascolta non solo il senso ge-nerico dell'idea, ma le differenze altresì più minute".Noi dunque non ne abbiamo? E non ci permetterà eglialmeno di indicargli uno scrittore in cui egli non potrànon riconoscere "la più minuta analisi delle passioni, ela più squisita anatomia del cuore?" Un solo che noi netroviamo, abbiam vinta la causa; perciocchè se la linguaitaliana non è capace di questo genere di stile, non puòaverne neppure un solo, e se ne ha uno, può averneugualmente i cento e i mille. Or non sembra egli al sig.ab. Arteaga, che noi non possiam mostrargli nel Meta-stasio quello scrittore che ei ci rimprovera di non avere?"Niuno ha sentito tanto avanti quanto Metastasio nellafilosofia dell'amore ... Niuno l'ha dipinto con più genui-ni colori, ora rendendo visibili i sentimenti più nascosi,ora simplificando i più complicati, ora smascherando lepiù illusorie apparenze. Basta, non che altro, leggerel'Asilo d'Amore per ravvisarvi dentro un compiuto filo-sofico trattato, dove coi più vaghi colori della poesia tut-ti si veggono espressi i morali sintomi di questa passio-ne con finezze e verità superiori di gran lunga al pompo-so e inintelligibile gergo con cui vien trattata da Platonela stessa materia nel suo Simposio. Niuno l'ha egual-mente ingentilito... Niuno possiede in sì alto grado l'elo-quenza del cuore, nè sa meglio di lui porre in movimen-to gli affetti". L'autor ch'io cito (Arteaga Rivoluz. del

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Teatro t. 1, p. 121, ec. ed. ven.) non si rigetterà, spero,dal sig. ab. Arteaga, e perciò ei dovrà confessare che lalingua italiana, quando è ben maneggiata, è al par d'ognialtra, e forse più d'ogni altra opportuna, "all'analisi dellepassioni e all'anatomia del cuore". Noi non abbiam libri che diconsi di spirito e per recarneun esempio, il sig. ab. Arteaga che ad uno ad uno cono-sce tutti i letterati italiani, e sa fin dove ciaschedun diessi possa giugnere col suo stile, ci assicura sulla suaparola "che il più bravo letterato di qua da' monti nonsarebbe capace di spiegare in accomodato stile volgareun libro simile al Tableau de Paris". Ognun vede l'invin-cibil forza di questo argomento; e gran disonor dell'Ita-lia sarebbe certo, essa non fosse capace di produrreun'opera somigliante a quella ch'egli ci ha indicata. Maanche senza ciò, non posso io sfidare ugualmente il piùbravo poeta che sia oltremonti a tradurre in accomodatostile della sua lingua, per tacer d'altri libri, il Mattino e ilMezzogiorno dell'ab. Parini? Ogni lingua ha i suoi vezzi,le sue espressioni, le sue maniere di satireggiare e di al-legorizzare, che trasportate a un'altra lingua stranieraperdono ogni lor pregio. Accade anche sovente che unanazione ama più che un'altra un cotal genere di opere, eperciò in esso più che in ogni altro si esercita, enell'esercitarsi arricchisce sempre più la sua lingua diparole e di frasi a quel genere adattate. Gl'Italiani a ca-gion d'esempio non si son mai occupati molto nello scri-ver romanzi, dico gl'Italiani dotti, eleganti, ingegnosi;

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Teatro t. 1, p. 121, ec. ed. ven.) non si rigetterà, spero,dal sig. ab. Arteaga, e perciò ei dovrà confessare che lalingua italiana, quando è ben maneggiata, è al par d'ognialtra, e forse più d'ogni altra opportuna, "all'analisi dellepassioni e all'anatomia del cuore". Noi non abbiam libri che diconsi di spirito e per recarneun esempio, il sig. ab. Arteaga che ad uno ad uno cono-sce tutti i letterati italiani, e sa fin dove ciaschedun diessi possa giugnere col suo stile, ci assicura sulla suaparola "che il più bravo letterato di qua da' monti nonsarebbe capace di spiegare in accomodato stile volgareun libro simile al Tableau de Paris". Ognun vede l'invin-cibil forza di questo argomento; e gran disonor dell'Ita-lia sarebbe certo, essa non fosse capace di produrreun'opera somigliante a quella ch'egli ci ha indicata. Maanche senza ciò, non posso io sfidare ugualmente il piùbravo poeta che sia oltremonti a tradurre in accomodatostile della sua lingua, per tacer d'altri libri, il Mattino e ilMezzogiorno dell'ab. Parini? Ogni lingua ha i suoi vezzi,le sue espressioni, le sue maniere di satireggiare e di al-legorizzare, che trasportate a un'altra lingua stranieraperdono ogni lor pregio. Accade anche sovente che unanazione ama più che un'altra un cotal genere di opere, eperciò in esso più che in ogni altro si esercita, enell'esercitarsi arricchisce sempre più la sua lingua diparole e di frasi a quel genere adattate. Gl'Italiani a ca-gion d'esempio non si son mai occupati molto nello scri-ver romanzi, dico gl'Italiani dotti, eleganti, ingegnosi;

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giacchè io concederò di buon animo all'ab. Arteaga ciòch'ei ci rinfaccia, che in questo genere non "abbiam cosache meriti l'attenzione de' forastieri"; poichè l'Italia, ve-dendosi abbondevolmente fornita di cotal merce dagliOltramontani, non si è curata di farne l'oggetto de' suoistudj, e solo in esso si sono impiegati alcuni che nonerano destinati a' primi onori nel regno della letteratura.Ma ciò non pruova che se gli Italiani volessero, non po-tessero anche nello scriver romanzi mostrar le ricchezze,la dolcezza, l'armonia della lor lingua. Un recente esem-pio ce ne convincerà facilmente. Ognuno avrebbe credu-to che la concisa e vibrata lingua francese fosse assaipiù che l'italiana opportuna a scrivere epigrammi. E cer-to i pochi che avevamo avuti finora, trattine però alcunidel Rolli, non eran degni di stare al confronto con quelliche i Francesi ci mostravano ne' loro scrittori. Ma di fre-sco il co. Roncalli col fare italiani molti dei più rinomatiepigrammi francesi, e più ancora l'ab. Bettinelli così coltradurne parecchi, come collo scriverne molti nuovi, hanfatto chiaramente conoscere che la lingua italiana, senzaprender cosa alcuna dalle altre, non uguaglia in ciò sola-mente, ma supera ancor la francese, poichè a una pariprecisione e robustezza congiunge una maggior elegan-za poetica. Ciò dunque ch'è avvenuto degli epigrammi,potrebbe accader de' romanzi, e di ogni altra sorta di li-bri di spirito, se coloro tra gl'Italiani, che posseggono laloro lingua, e che sanno l'arte di scrivere, volessero inessi occuparsi.

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giacchè io concederò di buon animo all'ab. Arteaga ciòch'ei ci rinfaccia, che in questo genere non "abbiam cosache meriti l'attenzione de' forastieri"; poichè l'Italia, ve-dendosi abbondevolmente fornita di cotal merce dagliOltramontani, non si è curata di farne l'oggetto de' suoistudj, e solo in esso si sono impiegati alcuni che nonerano destinati a' primi onori nel regno della letteratura.Ma ciò non pruova che se gli Italiani volessero, non po-tessero anche nello scriver romanzi mostrar le ricchezze,la dolcezza, l'armonia della lor lingua. Un recente esem-pio ce ne convincerà facilmente. Ognuno avrebbe credu-to che la concisa e vibrata lingua francese fosse assaipiù che l'italiana opportuna a scrivere epigrammi. E cer-to i pochi che avevamo avuti finora, trattine però alcunidel Rolli, non eran degni di stare al confronto con quelliche i Francesi ci mostravano ne' loro scrittori. Ma di fre-sco il co. Roncalli col fare italiani molti dei più rinomatiepigrammi francesi, e più ancora l'ab. Bettinelli così coltradurne parecchi, come collo scriverne molti nuovi, hanfatto chiaramente conoscere che la lingua italiana, senzaprender cosa alcuna dalle altre, non uguaglia in ciò sola-mente, ma supera ancor la francese, poichè a una pariprecisione e robustezza congiunge una maggior elegan-za poetica. Ciò dunque ch'è avvenuto degli epigrammi,potrebbe accader de' romanzi, e di ogni altra sorta di li-bri di spirito, se coloro tra gl'Italiani, che posseggono laloro lingua, e che sanno l'arte di scrivere, volessero inessi occuparsi.

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Noi non abbiamo cosa alcuna importante nel genere epi-stolare "sendochè sarebbe lo stesso che voler insultar ilbuon senso, il paragonar le insipide raccolte dei Cari,dei Bembi, dei Tolomei e dei Zucchi con dieci letteresole dell'incomparabile Sevigné per tacer di tante altre".Se sia idoneo giudice del buon senso chi unisce insiemele lettere di tre de' più eleganti scrittori italiani, qualisono il Caro, il Bembo, il Tolomei, con quelle del Zuc-chi, che niuno sognò mai di proporre per modello di sti-le, è facile il comprenderlo. Se poi il sig. ab. Arteaga silusinga che basti l'autorevole sua decisione per rimirarcome insipide le dette Raccolte ei s'inganna di molto. Ionon negherò che molte di quelle lettere, e quelle singo-larmente che diconsi di complimenti, non siano languidee snervate per la ragione poc'anzi accennata, che la lin-gua italiana non erasi allor per anco staccata del tuttodalla latina, e molto riteneva delle somiglianze materne.Ma è certo che parecchie ne sono in quelle del Caro edel Tolomei singolarmente, cioè quelle scritte a' piùconfidenti loro amici, che nulla temono il confrontodell'incomparabile, ma sempre uniforme e monotonaSevigné. Oltre di che, qual ingiustizia è cotesta! Sonforse que' soli gli scrittori di lettere, che noi abbiamo!Perchè tacere quelle di altri più recenti italiani, quelle acagion di esempio del Redi, dei Magalotti, del Bianconi,del Taruffi e di tanti altri scrittori o viventi, o mortipoc'anzi, le cui lettere non cedono in eleganza o in leg-giadria a quelle di qualunque altro? E che cosa può darsidi più saporito e di più piccante in lor genere delle lette-

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Noi non abbiamo cosa alcuna importante nel genere epi-stolare "sendochè sarebbe lo stesso che voler insultar ilbuon senso, il paragonar le insipide raccolte dei Cari,dei Bembi, dei Tolomei e dei Zucchi con dieci letteresole dell'incomparabile Sevigné per tacer di tante altre".Se sia idoneo giudice del buon senso chi unisce insiemele lettere di tre de' più eleganti scrittori italiani, qualisono il Caro, il Bembo, il Tolomei, con quelle del Zuc-chi, che niuno sognò mai di proporre per modello di sti-le, è facile il comprenderlo. Se poi il sig. ab. Arteaga silusinga che basti l'autorevole sua decisione per rimirarcome insipide le dette Raccolte ei s'inganna di molto. Ionon negherò che molte di quelle lettere, e quelle singo-larmente che diconsi di complimenti, non siano languidee snervate per la ragione poc'anzi accennata, che la lin-gua italiana non erasi allor per anco staccata del tuttodalla latina, e molto riteneva delle somiglianze materne.Ma è certo che parecchie ne sono in quelle del Caro edel Tolomei singolarmente, cioè quelle scritte a' piùconfidenti loro amici, che nulla temono il confrontodell'incomparabile, ma sempre uniforme e monotonaSevigné. Oltre di che, qual ingiustizia è cotesta! Sonforse que' soli gli scrittori di lettere, che noi abbiamo!Perchè tacere quelle di altri più recenti italiani, quelle acagion di esempio del Redi, dei Magalotti, del Bianconi,del Taruffi e di tanti altri scrittori o viventi, o mortipoc'anzi, le cui lettere non cedono in eleganza o in leg-giadria a quelle di qualunque altro? E che cosa può darsidi più saporito e di più piccante in lor genere delle lette-

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re di Gasparo Gozzi? Le quali analizzano spesso, comebrama il sig. Arteaga, le passioni umane con finissimasatira. Io son certo che una raccolta di lettere in linguaitaliana fatta da mano maestra darebbe a conoscerech'essa supera di gran lunga anche in questo genere tuttele altre lingue d'Europa. Noi non abbiamo alcun esempio imitabile della manieradi scriver dialoghi alla foggia di Luciano, giacchèall'ab. Arteaga non piacciono nè il Cortegiano del Casti-glione, nè gli Asolani del Bembo, ne il "Dialogo sulleforze vive dell'aureo e freddo Zanotti, il quale, prenden-do od ornare alla foggia accademica una materia intrat-tabile, rese frivola una questione importante". Il nostroautor si dimentica che ci ha proposto poc'anzi il Galileocome modello di precisione, di eleganza di proprietà edi robustezza di stile, e che perciò dovrebbe almeno ec-cettuare in questa sua censura i Dialoghi intorno allanuova scienza. Che intende poi egli di dire ove dà al Za-notti gli aggiunti di aureo e freddo? Certo ei non ha ilfuoco del sig. ab. Arteaga, di che non so s'ei debba esserripreso. Ma chiunque ha buon gusto, dovrà confessareche gli accennati Dialogi sono scritti con rara eleganza;e che invece di biasimarlo per aver presa ad ornare unamateria intrattabile, ei debb'essere ammirato e lodato,perchè con tal leggiadria ha maneggiato un sì sterile e sìdifficile argomento che, benchè il comun consenso de'dotti abbia conceduto l'onore della vittoria al celebre suoavversario il p. Vincenzio Riccati, egli ha potuto nondi-

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re di Gasparo Gozzi? Le quali analizzano spesso, comebrama il sig. Arteaga, le passioni umane con finissimasatira. Io son certo che una raccolta di lettere in linguaitaliana fatta da mano maestra darebbe a conoscerech'essa supera di gran lunga anche in questo genere tuttele altre lingue d'Europa. Noi non abbiamo alcun esempio imitabile della manieradi scriver dialoghi alla foggia di Luciano, giacchèall'ab. Arteaga non piacciono nè il Cortegiano del Casti-glione, nè gli Asolani del Bembo, ne il "Dialogo sulleforze vive dell'aureo e freddo Zanotti, il quale, prenden-do od ornare alla foggia accademica una materia intrat-tabile, rese frivola una questione importante". Il nostroautor si dimentica che ci ha proposto poc'anzi il Galileocome modello di precisione, di eleganza di proprietà edi robustezza di stile, e che perciò dovrebbe almeno ec-cettuare in questa sua censura i Dialoghi intorno allanuova scienza. Che intende poi egli di dire ove dà al Za-notti gli aggiunti di aureo e freddo? Certo ei non ha ilfuoco del sig. ab. Arteaga, di che non so s'ei debba esserripreso. Ma chiunque ha buon gusto, dovrà confessareche gli accennati Dialogi sono scritti con rara eleganza;e che invece di biasimarlo per aver presa ad ornare unamateria intrattabile, ei debb'essere ammirato e lodato,perchè con tal leggiadria ha maneggiato un sì sterile e sìdifficile argomento che, benchè il comun consenso de'dotti abbia conceduto l'onore della vittoria al celebre suoavversario il p. Vincenzio Riccati, egli ha potuto nondi-

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meno coll'amenità dello stile sorprendere e rapir talmen-te i lettori, che si è dubitato per qualche tempo a chi sidovesse la palma. E perchè non posso io rammentareall'ab. Arteaga oltre alcuni altri elegantissimi dialogi cheha la lingua italiana, quelli del celebre co. Algarotti nel-la sua opera del Newtonianismo per le dame? Il qual au-tore si potrebbe anche recare a modello di altri generi distile, che dall'ab. Arteaga ci vengon negati. E io so benciò ch'ei mi risponderà, cioè che il co. Algarotti se havoluto essere scrittor colto e grazioso, ha dovuto, percosì dire, scrivere all'oltramontona, e introdurre vezzi edespressioni francesi nella volgar nostra lingua. Maquest'accusa che si dà al co. Algarotti, è ella veramentecosì fondata come credesi comunemente? Forse se sichiamasse a maturo esame, vedrebbesi ch'ei non è poitanto reo. Nondimeno accordiamo ancora che ciò siavero. Rimane a vedere se quell'elegante scrittore nonpotesse usare altrimenti, e se levando da' suoi dialogi ifrancesismi, e sostituendo loro grazie e vezzi italiani,essi non conservassero ancor quella eleganza che in essisi vede. Io son certo che si vedrebbe alla pruova, che lalingua italiana non ha alcun bisogno delle straniere perabbellire e infiorare lo stile. Dove per altro si avvertache i Dialogi del Castiglione, del Bembo, del Zanotti,ec. s'accostan di molto alla maniera di quelli di Cicero-ne, e nulla han che far con Luciano, il cui gusto se tantobrama il sig. Arteaga veder fra noi trasportato, legga iDialogi del co. Gozzi ed i Sogni, e neghi loro, se può,un'original bizzarria. E se non in dialogi, in somiglianti

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meno coll'amenità dello stile sorprendere e rapir talmen-te i lettori, che si è dubitato per qualche tempo a chi sidovesse la palma. E perchè non posso io rammentareall'ab. Arteaga oltre alcuni altri elegantissimi dialogi cheha la lingua italiana, quelli del celebre co. Algarotti nel-la sua opera del Newtonianismo per le dame? Il qual au-tore si potrebbe anche recare a modello di altri generi distile, che dall'ab. Arteaga ci vengon negati. E io so benciò ch'ei mi risponderà, cioè che il co. Algarotti se havoluto essere scrittor colto e grazioso, ha dovuto, percosì dire, scrivere all'oltramontona, e introdurre vezzi edespressioni francesi nella volgar nostra lingua. Maquest'accusa che si dà al co. Algarotti, è ella veramentecosì fondata come credesi comunemente? Forse se sichiamasse a maturo esame, vedrebbesi ch'ei non è poitanto reo. Nondimeno accordiamo ancora che ciò siavero. Rimane a vedere se quell'elegante scrittore nonpotesse usare altrimenti, e se levando da' suoi dialogi ifrancesismi, e sostituendo loro grazie e vezzi italiani,essi non conservassero ancor quella eleganza che in essisi vede. Io son certo che si vedrebbe alla pruova, che lalingua italiana non ha alcun bisogno delle straniere perabbellire e infiorare lo stile. Dove per altro si avvertache i Dialogi del Castiglione, del Bembo, del Zanotti,ec. s'accostan di molto alla maniera di quelli di Cicero-ne, e nulla han che far con Luciano, il cui gusto se tantobrama il sig. Arteaga veder fra noi trasportato, legga iDialogi del co. Gozzi ed i Sogni, e neghi loro, se può,un'original bizzarria. E se non in dialogi, in somiglianti

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scritti però quante cose non ha il p. Bartoli sommamentefine e vivaci ed insieme preziose in lingua? Questo au-tor solo, benchè abbia usato di uno stile ch'io non pro-porrò all'imitazione di alcuno, ha nondimeno forse piùd'ogni altro mostrato qual sia la forza e l'abbondanza ela grazia della lingua italiana, e quanto essa sia adattataalle vivaci descrizioni, a' forti non meno che a' teneri af-fetti, a' pungenti sarcasmi, a' piacevoli scherzi, e ad ognigenere di argomenti. Ma pochi or sono che leggan tai li-bri. Noi non abbiamo "alcun modello di eloquenza forense,purchè lo snervato Badoaro, non letto omai da chicches-sia, non voglia da qualcheduno mettersi a confronto col-le incomparabili Aringhe perlamentarie d'Inghilterra, ocon alcune delle Cause celebri del Pitaval". L'osserva-zione non può esser più bella; ed è somigliante a quelladi chi opponesse agl'Inglesi, agli Svedesi, ec. che la lorlingua è povera, perchè non ha alcun modello dei Pane-girici de' Santi. Ove è che l'Italia abbia occasione diesercitar l'eloquenza forense? Non vi è che Venezia ovegli avvocati posson far pompa della loro facondia. Machi non sa ch'essi usano del volgare lor dialetto, e cheperciò le loro arringhe, per quanto siano eloquentissime,se non vengono in lingua italiana tradotte da chi sappiausarle con eleganza, perdono in gran parte la loro forza?Così è avvenuto di quelle del Badoaro, nelle quali peròchiaramente si scorge che assai più eloquenti ci sembre-rebbono esse, se una mano più esperta le avesse adorna-

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scritti però quante cose non ha il p. Bartoli sommamentefine e vivaci ed insieme preziose in lingua? Questo au-tor solo, benchè abbia usato di uno stile ch'io non pro-porrò all'imitazione di alcuno, ha nondimeno forse piùd'ogni altro mostrato qual sia la forza e l'abbondanza ela grazia della lingua italiana, e quanto essa sia adattataalle vivaci descrizioni, a' forti non meno che a' teneri af-fetti, a' pungenti sarcasmi, a' piacevoli scherzi, e ad ognigenere di argomenti. Ma pochi or sono che leggan tai li-bri. Noi non abbiamo "alcun modello di eloquenza forense,purchè lo snervato Badoaro, non letto omai da chicches-sia, non voglia da qualcheduno mettersi a confronto col-le incomparabili Aringhe perlamentarie d'Inghilterra, ocon alcune delle Cause celebri del Pitaval". L'osserva-zione non può esser più bella; ed è somigliante a quelladi chi opponesse agl'Inglesi, agli Svedesi, ec. che la lorlingua è povera, perchè non ha alcun modello dei Pane-girici de' Santi. Ove è che l'Italia abbia occasione diesercitar l'eloquenza forense? Non vi è che Venezia ovegli avvocati posson far pompa della loro facondia. Machi non sa ch'essi usano del volgare lor dialetto, e cheperciò le loro arringhe, per quanto siano eloquentissime,se non vengono in lingua italiana tradotte da chi sappiausarle con eleganza, perdono in gran parte la loro forza?Così è avvenuto di quelle del Badoaro, nelle quali peròchiaramente si scorge che assai più eloquenti ci sembre-rebbono esse, se una mano più esperta le avesse adorna-

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te. E perchè l'ab. Arteaga non ci rimprovera egli ancorala mancanza di sacri eloquenti oratori? Se la lingua ita-liana non e atta all'eloquenza forense, come sarà atta allasacra? Ma di questa ei sa che dopo il ritorno del buongusto in Italia abbiamo esempj troppo splendidi e lumi-nosi, e che Segneri, Tornielli, Venini, Pellegrini, e piùaltri han fatto conoscere che, avuto riguardo al genio eal costume della nazione, in questo genere non abbiamodi che invidiare ad alcuno. Ed il Pellegrini in alcune pre-diche specialmente offre una pruova di più contral'asserzione del sig. Arteaga, che gl'Italiani non possannotomizzare scrivendo il cuor umano. Lo stesso dee dir-si degli elogi, la cui inopia parimenti ci rimprovera l'ab.Arteaga. Io non esalterò alle stelle la Raccolta di essidataci negli anni addietro dal sig. ab. Rubbi. Ma pure al-cuni ne ha tra essi, come quello del Montecuccoli fattodal co. Agostino Paradisi, e alcuni altri ad esso somi-glianti, i quali bastano a provare che non mancano an-che in questo genere alla lingua italiana eregi modelli. Noi non abbiamo alcun autore che "ripurgando le scien-ze dallo squallore scolastico, sappia infiorar il sentieroche vi conduce, e rivestir la filosofia delle spoglie dellegrazie, come fece maravigliosamente l'ingegnoso scrit-tore della Pluralità de' Mondi". E perchè forse teme l'ab.Arteaga, che non l'intendiamo abbastanza, ripete pocoappresso lo stesso, e ne forma un altro capo d'accusarimproverandoci che "niun trattato abbiamo descrittivodi qualche scienza, che possa servir di regola nel genere

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te. E perchè l'ab. Arteaga non ci rimprovera egli ancorala mancanza di sacri eloquenti oratori? Se la lingua ita-liana non e atta all'eloquenza forense, come sarà atta allasacra? Ma di questa ei sa che dopo il ritorno del buongusto in Italia abbiamo esempj troppo splendidi e lumi-nosi, e che Segneri, Tornielli, Venini, Pellegrini, e piùaltri han fatto conoscere che, avuto riguardo al genio eal costume della nazione, in questo genere non abbiamodi che invidiare ad alcuno. Ed il Pellegrini in alcune pre-diche specialmente offre una pruova di più contral'asserzione del sig. Arteaga, che gl'Italiani non possannotomizzare scrivendo il cuor umano. Lo stesso dee dir-si degli elogi, la cui inopia parimenti ci rimprovera l'ab.Arteaga. Io non esalterò alle stelle la Raccolta di essidataci negli anni addietro dal sig. ab. Rubbi. Ma pure al-cuni ne ha tra essi, come quello del Montecuccoli fattodal co. Agostino Paradisi, e alcuni altri ad esso somi-glianti, i quali bastano a provare che non mancano an-che in questo genere alla lingua italiana eregi modelli. Noi non abbiamo alcun autore che "ripurgando le scien-ze dallo squallore scolastico, sappia infiorar il sentieroche vi conduce, e rivestir la filosofia delle spoglie dellegrazie, come fece maravigliosamente l'ingegnoso scrit-tore della Pluralità de' Mondi". E perchè forse teme l'ab.Arteaga, che non l'intendiamo abbastanza, ripete pocoappresso lo stesso, e ne forma un altro capo d'accusarimproverandoci che "niun trattato abbiamo descrittivodi qualche scienza, che possa servir di regola nel genere

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didascalico, come tanti ne hanno gli stranieri, e partico-larmente i Francesi, bastando per tutti l'immortale Buf-fon". Qui ancora il sig. ab. Arteaga non si ricorda dellelodi che poc'anzi ha date al Galilei, proponendolo comemodello agli scrittori di cose fisiche. E io, oltre quel va-loroso scrittore, ricorderò all'ab. Arteaga que' non pochialtri che sopra ho rammentati, il Redi, il Magalotti, ilVallisnieri, il Cocchi, ec., che alla sodezza delle loro ri-cerche nelle quistioni filosofiche e mediche hanno con-giunto le spoglie delle grazie, e hanno infiorato il sen-tiero, pregio ch'ei non può negar certamente ne pur almarch. Maffei nella sua Arte cavalleresca. Oltre di chela quistione che qui si agita, è se la lingua italiana siaricca abbastanza per poter con essa spiegare tutto ciòche a qualunque scienza appartiene. Or concedendo an-cora che noi non abbiamo scrittori che possano parago-narsi a Fontenelle e a Buffon, non ne viene in conse-guenza che la nostra lingua non abbia espressioni oppor-tune a trattar di qualchessiasi argomento. Se vi è materiain cui la lingua francese sembri più doviziosa dell'Italia-na, ella è l'arte militare che per poco non credesi tuttafrancese. E nondimeno veggasi il Discorso del soprallo-dato ec. Algarotti al sig. Felice Salimbeni sopra la ric-chezza della lingua italiana ne' termini militari (Op. t.5, p. 135 ed. cremon.) e si vedrà quanto anche in ciò siala comune opinione insussistente e falsa. Finalmente noi non abbiamo "nessuna storia letterariascritta con quella sublimità di pensare, con quella critica

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didascalico, come tanti ne hanno gli stranieri, e partico-larmente i Francesi, bastando per tutti l'immortale Buf-fon". Qui ancora il sig. ab. Arteaga non si ricorda dellelodi che poc'anzi ha date al Galilei, proponendolo comemodello agli scrittori di cose fisiche. E io, oltre quel va-loroso scrittore, ricorderò all'ab. Arteaga que' non pochialtri che sopra ho rammentati, il Redi, il Magalotti, ilVallisnieri, il Cocchi, ec., che alla sodezza delle loro ri-cerche nelle quistioni filosofiche e mediche hanno con-giunto le spoglie delle grazie, e hanno infiorato il sen-tiero, pregio ch'ei non può negar certamente ne pur almarch. Maffei nella sua Arte cavalleresca. Oltre di chela quistione che qui si agita, è se la lingua italiana siaricca abbastanza per poter con essa spiegare tutto ciòche a qualunque scienza appartiene. Or concedendo an-cora che noi non abbiamo scrittori che possano parago-narsi a Fontenelle e a Buffon, non ne viene in conse-guenza che la nostra lingua non abbia espressioni oppor-tune a trattar di qualchessiasi argomento. Se vi è materiain cui la lingua francese sembri più doviziosa dell'Italia-na, ella è l'arte militare che per poco non credesi tuttafrancese. E nondimeno veggasi il Discorso del soprallo-dato ec. Algarotti al sig. Felice Salimbeni sopra la ric-chezza della lingua italiana ne' termini militari (Op. t.5, p. 135 ed. cremon.) e si vedrà quanto anche in ciò siala comune opinione insussistente e falsa. Finalmente noi non abbiamo "nessuna storia letterariascritta con quella sublimità di pensare, con quella critica

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interessante e filosofica, con quello stile che presentel'immortalità, con quella forza di genio, che caratterizza-no la storia dell'Astronomia del sig. Bailly". A me nonappartiene il rispondere al gentil complimento, di cuiognun vede ch'ei vuol qui onorare singolarmente me e lamia Storia. Ma gli chiederò solamente, e mi piace di do-ver ripeter più volte la stessa interrogazione, di qual lo-gica ei faccia qui uso. S'egli avesse fatto solo il paragondello stile, l'osservazione poteva esser vera, giacchè iocerto non mi vanto di avere uno stile che a guisa di brac-co presenta l'immortalità. Ma di grazia, che ha a farecolla ricchezza, coll'energia, coll'armonia della lingua,di cui solo qui trattasi, la sublimità di pensare, la "criticainteressante e filosofica; la forza di genio?" La mancan-za di questi medesimi pregi sarà forse quella che non milascerà ravvisare la connessione di questo ragionamentodel sig. ab. Arteaga, e perciò pregherò lui stesso che nel-la sua storia delle Rivoluzioni del Teatro musicale ha sìbene riunite in se stesso le doti da lui ammirate nel sig.Bailly, a indicarmi per qual maniera la mancanza di su-blimità del pensare, e di critica nel ragionare provi lapovertà e la pusillanimità d'una lingua. Io frattanto gliindicherò uno scrittore di storia letteraria, che a mio pa-rer può bastare per rivendicare l'onor dell'Italia; ed egli èil celebre procuratore e poi doge Marco Foscarini; la cuiStoria della Letteratura Veneziana non teme in ogni suaparte il confronto di qualunque altro scrittore. Io son venuto rispondendo finora a tutti i rimproveri che

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interessante e filosofica, con quello stile che presentel'immortalità, con quella forza di genio, che caratterizza-no la storia dell'Astronomia del sig. Bailly". A me nonappartiene il rispondere al gentil complimento, di cuiognun vede ch'ei vuol qui onorare singolarmente me e lamia Storia. Ma gli chiederò solamente, e mi piace di do-ver ripeter più volte la stessa interrogazione, di qual lo-gica ei faccia qui uso. S'egli avesse fatto solo il paragondello stile, l'osservazione poteva esser vera, giacchè iocerto non mi vanto di avere uno stile che a guisa di brac-co presenta l'immortalità. Ma di grazia, che ha a farecolla ricchezza, coll'energia, coll'armonia della lingua,di cui solo qui trattasi, la sublimità di pensare, la "criticainteressante e filosofica; la forza di genio?" La mancan-za di questi medesimi pregi sarà forse quella che non milascerà ravvisare la connessione di questo ragionamentodel sig. ab. Arteaga, e perciò pregherò lui stesso che nel-la sua storia delle Rivoluzioni del Teatro musicale ha sìbene riunite in se stesso le doti da lui ammirate nel sig.Bailly, a indicarmi per qual maniera la mancanza di su-blimità del pensare, e di critica nel ragionare provi lapovertà e la pusillanimità d'una lingua. Io frattanto gliindicherò uno scrittore di storia letteraria, che a mio pa-rer può bastare per rivendicare l'onor dell'Italia; ed egli èil celebre procuratore e poi doge Marco Foscarini; la cuiStoria della Letteratura Veneziana non teme in ogni suaparte il confronto di qualunque altro scrittore. Io son venuto rispondendo finora a tutti i rimproveri che

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il sig. ab. Arteaga ha fatti alla lingua italiana e agli ita-liani scrittori. Ma a conchiudere quest'apologia, ei mipermetterà ch'io gli dimostri generalmente che non v'haforse lingua tra le viventi d'Europa, che più dell'italianasia opportuna a qualunque stile e a qualunque materia.Perciocchè qual lingua è mai questa nostra? Ella è unalingua che riunisce in sè i pregi "dell'evidenza delle suefrasi imitative, delle quali si trovano esempj maraviglio-si negli autori, della ricchezza de' termini cagionata dalgran numero de' dialetti che son concorsi a formarla,della varietà nata appunto dalla ricchezza e moltiplicitàdelle sue forme, dell'abbondare d'aumentativi e di dimi-nutivi, che la rendono opportuna, quelli per lo stile diti-rambico, questi per l'anacreontico, della pieghevolezzache in lei nasce dal concorso di questa e d'altre cause,una lingua che sa congiungere l'ordine colla vivacità ecolla chiarezza la forza, imbrigliare la immaginazionesenza rallentarne la possa, accomodarsi a tutte le infles-sioni e a tutti gli stili, conservando ciò non ostantel'indole sua propria e nativa; una lingua che tanto vale aesprimere tutte le passioni, e a dipinger tutti gli oggetti,e che diviene lo strumento ugualmente dello spirito, del-la fantasia, e degli affetti". Io spero che il sig. ab. Artea-ga non negherà che tal sia la lingua italiana, purchè sonquesti i pregi medesimi che in essa altrove ci riconosceed esalta (Rivoluz. del Teatro music. t. 1, p. 85, ec.). Orse una tal lingua non è ad ogni stile e ad ogni argomentoopportuna, qual sarà mai? Ancorchè dunque si ammet-tesse per vero che un solo scrittore non avesse l'Italia,

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il sig. ab. Arteaga ha fatti alla lingua italiana e agli ita-liani scrittori. Ma a conchiudere quest'apologia, ei mipermetterà ch'io gli dimostri generalmente che non v'haforse lingua tra le viventi d'Europa, che più dell'italianasia opportuna a qualunque stile e a qualunque materia.Perciocchè qual lingua è mai questa nostra? Ella è unalingua che riunisce in sè i pregi "dell'evidenza delle suefrasi imitative, delle quali si trovano esempj maraviglio-si negli autori, della ricchezza de' termini cagionata dalgran numero de' dialetti che son concorsi a formarla,della varietà nata appunto dalla ricchezza e moltiplicitàdelle sue forme, dell'abbondare d'aumentativi e di dimi-nutivi, che la rendono opportuna, quelli per lo stile diti-rambico, questi per l'anacreontico, della pieghevolezzache in lei nasce dal concorso di questa e d'altre cause,una lingua che sa congiungere l'ordine colla vivacità ecolla chiarezza la forza, imbrigliare la immaginazionesenza rallentarne la possa, accomodarsi a tutte le infles-sioni e a tutti gli stili, conservando ciò non ostantel'indole sua propria e nativa; una lingua che tanto vale aesprimere tutte le passioni, e a dipinger tutti gli oggetti,e che diviene lo strumento ugualmente dello spirito, del-la fantasia, e degli affetti". Io spero che il sig. ab. Artea-ga non negherà che tal sia la lingua italiana, purchè sonquesti i pregi medesimi che in essa altrove ci riconosceed esalta (Rivoluz. del Teatro music. t. 1, p. 85, ec.). Orse una tal lingua non è ad ogni stile e ad ogni argomentoopportuna, qual sarà mai? Ancorchè dunque si ammet-tesse per vero che un solo scrittore non avesse l'Italia,

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che si potesse proporre a modello di colto stile, ciò pro-verà difetto d'ingegno e di studio negl'Italiani, non pro-verà mai difetto, o povertà di lingua, ch'era ciò che ilsig. ab. Arteaga si era accinto a provare. Benchè nondimeno io abbia, se mal non m'avviso, chia-ramente mostrato al sig. ab. Arteaga, che noi non solopossiamo avere, ma abbiamo ancora scrittori sommi inogni genere di argomento e di stile, confesserà nondime-no che il numero de' nostri scrittori cattivi è assai mag-giore di quello de' buoni, e che il difetto di stile si scor-ge forse più spesso negli scrittori italiani che negli stra-nieri. Ma io credo che questo sia un nuovo argomento aprovare non la povertà, ma la ricchezza della nostra lin-gua. Una lingua che non sappia esprimere la cosa stessache in una, o al più in assai poche maniere, che non pos-sa dare diversa costruzione alle parole medesime, madebba necessariamente disporle sempre in un ordine,che abbia sempre a un di presso la stessa armonia, lostesso contorno di periodo, che non abbia diversi stilialle diverse occasioni adattati, e in cui lo stil poetico ap-pena possa distinguersi dallo stile prosaico, una tal lin-gua, io dico, sarà certo assai più agevole a maneggiarsifelicemente, e a scriversi senza difetti che una lingua fe-conda di mille diverse espressioni, di trasposizioni infi-nite, di varia armonia, di diversi stili. Ove non è, o appe-na è luogo alla scelta, non è, o appena è luogo all'errornella scelta. Ma ove l'ingegno si vede innanzi gran nu-mero di oggetti diversi, altri più, altri meno pregevoli, fa

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che si potesse proporre a modello di colto stile, ciò pro-verà difetto d'ingegno e di studio negl'Italiani, non pro-verà mai difetto, o povertà di lingua, ch'era ciò che ilsig. ab. Arteaga si era accinto a provare. Benchè nondimeno io abbia, se mal non m'avviso, chia-ramente mostrato al sig. ab. Arteaga, che noi non solopossiamo avere, ma abbiamo ancora scrittori sommi inogni genere di argomento e di stile, confesserà nondime-no che il numero de' nostri scrittori cattivi è assai mag-giore di quello de' buoni, e che il difetto di stile si scor-ge forse più spesso negli scrittori italiani che negli stra-nieri. Ma io credo che questo sia un nuovo argomento aprovare non la povertà, ma la ricchezza della nostra lin-gua. Una lingua che non sappia esprimere la cosa stessache in una, o al più in assai poche maniere, che non pos-sa dare diversa costruzione alle parole medesime, madebba necessariamente disporle sempre in un ordine,che abbia sempre a un di presso la stessa armonia, lostesso contorno di periodo, che non abbia diversi stilialle diverse occasioni adattati, e in cui lo stil poetico ap-pena possa distinguersi dallo stile prosaico, una tal lin-gua, io dico, sarà certo assai più agevole a maneggiarsifelicemente, e a scriversi senza difetti che una lingua fe-conda di mille diverse espressioni, di trasposizioni infi-nite, di varia armonia, di diversi stili. Ove non è, o appe-na è luogo alla scelta, non è, o appena è luogo all'errornella scelta. Ma ove l'ingegno si vede innanzi gran nu-mero di oggetti diversi, altri più, altri meno pregevoli, fa

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d'uopo di accorgimento a sceglier ciò che conviene; espesso accade che un si appigli al peggiore. Aggiungasiche una lingua più povera assai più facilmente appren-desi che una più ricca, e perciò minor sarà sempre il nu-mero degli scrittori viziosi in una lingua povera, che inuna ricca e abbondante. Questa è ancor la ragione percui la lingua italiana ha miglior copia di eleganti e coltiscrittori in poesia che non in prosa. Abbiamo preceden-temente osservato che anche nella lingua latina accadelo stesso, e abbiam recata la medesima spiegazione diquesto letterario fenomeno. Benchè il prosatore e il poe-ta usino della medesima lingua, come nondimeno lapoesia italiana ha il proprio suo stile diverso da quel del-la prosa, ma stile legato a metro, che tiene, per così dire,in freno chi scrive, e lo obbliga a più matura riflessione,e stile ristretto entro a più angusti confini, perchè nontutte le espressioni, non tutte le trasposizioni, non tuttele figure, che alla prosa convengono, convengono anco-ra alla poesia, così a minor occasione di errori è espostochi la coltiva, e racchiuso entro più breve spazio, quan-do egli abbia quel talento e quel genio, senza cui non èlecito l'esser poeta, può più agevolmente correrlo senzapericol d'inciampo. Ma di apologie basti fin qui; ed en-triamo omai nel poco lieto argomento che in questo stu-dio ci si offre a trattare.

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d'uopo di accorgimento a sceglier ciò che conviene; espesso accade che un si appigli al peggiore. Aggiungasiche una lingua più povera assai più facilmente appren-desi che una più ricca, e perciò minor sarà sempre il nu-mero degli scrittori viziosi in una lingua povera, che inuna ricca e abbondante. Questa è ancor la ragione percui la lingua italiana ha miglior copia di eleganti e coltiscrittori in poesia che non in prosa. Abbiamo preceden-temente osservato che anche nella lingua latina accadelo stesso, e abbiam recata la medesima spiegazione diquesto letterario fenomeno. Benchè il prosatore e il poe-ta usino della medesima lingua, come nondimeno lapoesia italiana ha il proprio suo stile diverso da quel del-la prosa, ma stile legato a metro, che tiene, per così dire,in freno chi scrive, e lo obbliga a più matura riflessione,e stile ristretto entro a più angusti confini, perchè nontutte le espressioni, non tutte le trasposizioni, non tuttele figure, che alla prosa convengono, convengono anco-ra alla poesia, così a minor occasione di errori è espostochi la coltiva, e racchiuso entro più breve spazio, quan-do egli abbia quel talento e quel genio, senza cui non èlecito l'esser poeta, può più agevolmente correrlo senzapericol d'inciampo. Ma di apologie basti fin qui; ed en-triamo omai nel poco lieto argomento che in questo stu-dio ci si offre a trattare.

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INDICE, E SOMMARIO DELTOMO III. PARTE I.

LIBRO I.Storia della Letteratura Italiana dalla rovina dell'Impe-ro occidentale fino al principio del regno de' Longobar-

di.

CAPO I. Idea generale dello stato civile, letterario d'Italia sotto

il regno de' Goti.

I. Regno di Odoacre tranquillo. II. Principj di Cassiodo-ro: diverse opinioni degli scrittori. III. Diverse dignità etitoli che si trovano conferiti a un Cassiodoro. IV. Di-stinzione di diversi personaggi del medesimo tempo. V.Regno di Teodorico, e carattere di esso. VI. Primi onorida lui conferiti a Cassiodoro. VII. Opinioni di m. deSant-Marc confutate. VIII. Altri onori conferiti da Teo-dorico a Cassiodoro. IX. Questi ispira a Teodoricol'amor per le lettere, e la munificenza verso i loro colti-vatori. X. Se Cassiodoro si ritirasse dalla corte dopo la

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INDICE, E SOMMARIO DELTOMO III. PARTE I.

LIBRO I.Storia della Letteratura Italiana dalla rovina dell'Impe-ro occidentale fino al principio del regno de' Longobar-

di.

CAPO I. Idea generale dello stato civile, letterario d'Italia sotto

il regno de' Goti.

I. Regno di Odoacre tranquillo. II. Principj di Cassiodo-ro: diverse opinioni degli scrittori. III. Diverse dignità etitoli che si trovano conferiti a un Cassiodoro. IV. Di-stinzione di diversi personaggi del medesimo tempo. V.Regno di Teodorico, e carattere di esso. VI. Primi onorida lui conferiti a Cassiodoro. VII. Opinioni di m. deSant-Marc confutate. VIII. Altri onori conferiti da Teo-dorico a Cassiodoro. IX. Questi ispira a Teodoricol'amor per le lettere, e la munificenza verso i loro colti-vatori. X. Se Cassiodoro si ritirasse dalla corte dopo la

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morte di Boezio. XI. Ministero glorioso di Cassiodoronel regno di Amalasunta e di Atalarico. XII. Favore daessi accordato alle scienze ed ai dotti. XIII. Regno diTeodato e di Vitige: Cassiodoro ritirasi dalla corte. XIV.Opere da lui scritte nel tempo del suo ministero. XV. Di-fesa di Cassiodoro contro una calunniosa accusa di m.de Sant-Marc. XVI. Desolazion dell'Italia: fine del re-gno degli Ostrogoti. XVII. Vicende di Narsete. Ma colfinire del regno degli Ostrogoti non ebber fine le sciagu-re dell'infelice Italia. XVIII. Qual forza avessero inRoma alcune leggi pubblicate in addietro da Giustinia-no.

CAPO II.Studj sacri.

I. Cassiodoro, essendo ancora ministro, promuove glistudj sacri. II. Ritiratosi dalla corte, fonda un monasteroe tutto si occupa in tali studj. III. Sue premure nel racco-gliere e far copiare più codici. IV. Opere in quel tempoda lui composte. V. Altre opere da altri composte perconsiglio di Cassiodoro. VI. Lucerne e gli orologi da luiusati: sua morte. VII. Gli altri monaci ancora e talvoltale monache si occupano nel copiar libri. VIII. Notizie edelogio di Dionigi il piccolo. IX. Ciclo pasquale ed eracristiana da lui introdotta. X. Vite dei Santi, e loro apo-logia. XI. Scuole ecclesiastiche nelle chiese parrocchia-

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morte di Boezio. XI. Ministero glorioso di Cassiodoronel regno di Amalasunta e di Atalarico. XII. Favore daessi accordato alle scienze ed ai dotti. XIII. Regno diTeodato e di Vitige: Cassiodoro ritirasi dalla corte. XIV.Opere da lui scritte nel tempo del suo ministero. XV. Di-fesa di Cassiodoro contro una calunniosa accusa di m.de Sant-Marc. XVI. Desolazion dell'Italia: fine del re-gno degli Ostrogoti. XVII. Vicende di Narsete. Ma colfinire del regno degli Ostrogoti non ebber fine le sciagu-re dell'infelice Italia. XVIII. Qual forza avessero inRoma alcune leggi pubblicate in addietro da Giustinia-no.

CAPO II.Studj sacri.

I. Cassiodoro, essendo ancora ministro, promuove glistudj sacri. II. Ritiratosi dalla corte, fonda un monasteroe tutto si occupa in tali studj. III. Sue premure nel racco-gliere e far copiare più codici. IV. Opere in quel tempoda lui composte. V. Altre opere da altri composte perconsiglio di Cassiodoro. VI. Lucerne e gli orologi da luiusati: sua morte. VII. Gli altri monaci ancora e talvoltale monache si occupano nel copiar libri. VIII. Notizie edelogio di Dionigi il piccolo. IX. Ciclo pasquale ed eracristiana da lui introdotta. X. Vite dei Santi, e loro apo-logia. XI. Scuole ecclesiastiche nelle chiese parrocchia-

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li. XII. Ragioni dello scarso numero. XIII. Se ne indica-no alcuni.

CAPO III.Belle lettere.

I. Il favore di Teodorico e di Atalarico risveglia gli studjdell'amena letteratura. II. Codici antichi corretti: notiziedel Virgilio mediceo-laurenziano. III. Notizie di s. En-nodio vescovo di Pavia. IV. Se le scuole delle quali egliparla nelle sue orazioni fossero in Pavia o in Milano. V.Altre sue Orazioni composte prima di entrar nel clero.VI. Suo vescovato, sua morte, e sue opere. VII. Notizieche da queste si traggono intorno alle scuole pubblichedi Milano. VIII. E intorno a Fausto e ad Avieno alloracelebri per eloquenza. IX. E ad altri oratori e poeti. X.Notizie di Aratore e delle sue lettere. XI. Altri poeti vis-suti in questi tempi. XII. La storia ha pochi e poco felicicoltivatori.

CAPO IV.Filosofia e Matematica.

I. Parve che la filosofia dovesse risorgere sotto i re goti.II. Entrasi a parlar di Boezio: dignità da lui sostenute.

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li. XII. Ragioni dello scarso numero. XIII. Se ne indica-no alcuni.

CAPO III.Belle lettere.

I. Il favore di Teodorico e di Atalarico risveglia gli studjdell'amena letteratura. II. Codici antichi corretti: notiziedel Virgilio mediceo-laurenziano. III. Notizie di s. En-nodio vescovo di Pavia. IV. Se le scuole delle quali egliparla nelle sue orazioni fossero in Pavia o in Milano. V.Altre sue Orazioni composte prima di entrar nel clero.VI. Suo vescovato, sua morte, e sue opere. VII. Notizieche da queste si traggono intorno alle scuole pubblichedi Milano. VIII. E intorno a Fausto e ad Avieno alloracelebri per eloquenza. IX. E ad altri oratori e poeti. X.Notizie di Aratore e delle sue lettere. XI. Altri poeti vis-suti in questi tempi. XII. La storia ha pochi e poco felicicoltivatori.

CAPO IV.Filosofia e Matematica.

I. Parve che la filosofia dovesse risorgere sotto i re goti.II. Entrasi a parlar di Boezio: dignità da lui sostenute.

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III. Suoi studj ed elogi fattine da Cassiodoro. IV. SueOpere. V. Esame delle cagioni della prigionia e dellamorte di Boezio. VI. Provasi che Boezio fu stretto inprigione: se ciò fosse in Calvenzano. VII. Sua morte esuo sepolcro in Pavia. VIII. Se Boezio avesse in moglieElpide. IX. Notizie di Rusticiana vera moglie di Boezio.X. Elogio di Simmaco suocero di Boezio.

CAPO V.Medicina.

I. Il solo medico conosciuto di quest'età è Alessandro daTralle. II. Leggi dei re Ostrogoti in vantaggio de' profes-sori di medicina. III. Questa si esercita spesso anche da-gli Ecclesiastici.

CAPO VI.Giurisprudenza.

I. I Goti lasciano in vigore la romana giurisprudenza. II.Non trovasi nondimeno notizia di alcun celebre giure-consulto in Italia a questi tempi. III. Pubblicazione delCodice di Giustiniano. IV. Diversità di pareri intorno adesso. V. Quando fosse ricevuto in Italia. VI. Se il codicepisano, or fiorentino, delle Pandette sia l'originale stessomandato in Italia.

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III. Suoi studj ed elogi fattine da Cassiodoro. IV. SueOpere. V. Esame delle cagioni della prigionia e dellamorte di Boezio. VI. Provasi che Boezio fu stretto inprigione: se ciò fosse in Calvenzano. VII. Sua morte esuo sepolcro in Pavia. VIII. Se Boezio avesse in moglieElpide. IX. Notizie di Rusticiana vera moglie di Boezio.X. Elogio di Simmaco suocero di Boezio.

CAPO V.Medicina.

I. Il solo medico conosciuto di quest'età è Alessandro daTralle. II. Leggi dei re Ostrogoti in vantaggio de' profes-sori di medicina. III. Questa si esercita spesso anche da-gli Ecclesiastici.

CAPO VI.Giurisprudenza.

I. I Goti lasciano in vigore la romana giurisprudenza. II.Non trovasi nondimeno notizia di alcun celebre giure-consulto in Italia a questi tempi. III. Pubblicazione delCodice di Giustiniano. IV. Diversità di pareri intorno adesso. V. Quando fosse ricevuto in Italia. VI. Se il codicepisano, or fiorentino, delle Pandette sia l'originale stessomandato in Italia.

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CAPO VII.Arti liberali.

I. Premure di Teodorico per conservare gli antichi mo-numenti. II. E nel riparare in Roma e altrove gli antichiedificj. III. Nuove magnifiche fabbriche da lui in piùparti innalzate. IV. Se a' Goti si possa dare la traccia diaver cagionato il decadimento dell'arti. V. Se l'architet-tura venisse a lor tempo a stato peggiore assai. VI. Esa-me della apologia del Goti fatta dal march. Maffei. VII.Gran danno che agli antichi monumenti recarono leguerre tra i Goti e i Greci. VIII. La scultura fu esercitatafrequentemente, ma con poco felice successo. IX. Pareche i Goti non amassero la pittura. X. Trovasi anche aquei tempi frequente menzione di pitture e di musaici.

LIBRO II.Storia della Letteratura Italiana sotto il regno de' Lon-

gobardi.

CAPO I.Idea generale dello stato civile e letterario d'Italia in

quest'epoca.

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CAPO VII.Arti liberali.

I. Premure di Teodorico per conservare gli antichi mo-numenti. II. E nel riparare in Roma e altrove gli antichiedificj. III. Nuove magnifiche fabbriche da lui in piùparti innalzate. IV. Se a' Goti si possa dare la traccia diaver cagionato il decadimento dell'arti. V. Se l'architet-tura venisse a lor tempo a stato peggiore assai. VI. Esa-me della apologia del Goti fatta dal march. Maffei. VII.Gran danno che agli antichi monumenti recarono leguerre tra i Goti e i Greci. VIII. La scultura fu esercitatafrequentemente, ma con poco felice successo. IX. Pareche i Goti non amassero la pittura. X. Trovasi anche aquei tempi frequente menzione di pitture e di musaici.

LIBRO II.Storia della Letteratura Italiana sotto il regno de' Lon-

gobardi.

CAPO I.Idea generale dello stato civile e letterario d'Italia in

quest'epoca.

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I. Alboino re de' Longobardi invade e conquista granparte d'Italia. II. Regno di Clefo: division dell'Italiadopo la sua morte. III. Serie degli altri re longobardi, efine del loro regno. IV. Se il regno dei Longobardi fossecosì felice e dolce, come da alcuni è descritto. V. Si mo-stra che quasi tutto il tempo di questo regno fu tempo didesolazioni e di stragi. VI. Quanto sanguinose e crudelifossero allora le guerre. VII. La diversità di religionerendeva i Longobardi ancor più crudeli. VIII. Guerre ci-vili tra i Longobardi medesimi. IX. Ferocia de' Longo-bardi e loro totale ignoranza. X. Infelice stato delle pub-bliche scuole. XI. Era alquanto migliore lo stato dellescuole ecclesiastiche. XII. Scarsezza di libri e distruzio-ne delle biblioteche. XIII. In quale stato fosse allora labiblioteca della chiesa romana. XIV. Generale ignoranzasparsa per tutta l'Italia.

CAPO II.Studj sacri.

I. Stato degli studj sacri; si entra a parlare di s. Gregorio.II. Epoche della sua vita. III. Sue opere: apologia diesse, e singolarmente dei Dialogi. IV. Accuse che sidanno al santo pontefice riguardo alla letteratura. V. Ma-niera poco lodevole con cui il Brukero ha trattato questaquistione. VI. Si esamina se s. Gregorio preservasse lamatematica, e si mostra che ciò dee intendersi solo

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I. Alboino re de' Longobardi invade e conquista granparte d'Italia. II. Regno di Clefo: division dell'Italiadopo la sua morte. III. Serie degli altri re longobardi, efine del loro regno. IV. Se il regno dei Longobardi fossecosì felice e dolce, come da alcuni è descritto. V. Si mo-stra che quasi tutto il tempo di questo regno fu tempo didesolazioni e di stragi. VI. Quanto sanguinose e crudelifossero allora le guerre. VII. La diversità di religionerendeva i Longobardi ancor più crudeli. VIII. Guerre ci-vili tra i Longobardi medesimi. IX. Ferocia de' Longo-bardi e loro totale ignoranza. X. Infelice stato delle pub-bliche scuole. XI. Era alquanto migliore lo stato dellescuole ecclesiastiche. XII. Scarsezza di libri e distruzio-ne delle biblioteche. XIII. In quale stato fosse allora labiblioteca della chiesa romana. XIV. Generale ignoranzasparsa per tutta l'Italia.

CAPO II.Studj sacri.

I. Stato degli studj sacri; si entra a parlare di s. Gregorio.II. Epoche della sua vita. III. Sue opere: apologia diesse, e singolarmente dei Dialogi. IV. Accuse che sidanno al santo pontefice riguardo alla letteratura. V. Ma-niera poco lodevole con cui il Brukero ha trattato questaquistione. VI. Si esamina se s. Gregorio preservasse lamatematica, e si mostra che ciò dee intendersi solo

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dell'astrologia giudiciaria. VII. Si cerca s'egli facesse in-cendiare la biblioteca palatina, e si mostra che non bastaa provarlo l'autorità del Sarisberiense. VIII. Pruove dellacredulità e mancanza di critica di questo scrittore. IX.Nè alcun motivo poteva determinar s. Gregorio a tale ri-soluzione. X. Si mostra ch'ei non fece gittare alle fiam-me neppure le Opere di Cicerone e di Livio. XI. Sipruova falsa l'accusa ch'ei vietasse l'amena letteratura:spiegazione di un suo passo. XII. Nuovi argomenti aprovarne la falsità. XIII. Si mostra che s. Gregorio nonsostituì i suoi Morali a' libri profani. XIV. E ch'è falsopure che facesse atterrare gli antichi monumenti. XV.Testimonianza del Bayle in difesa di s. Gregorio. XVI.Notizie di due amici di s. Gregorio, cioè dell'abate Clau-dio. XVII. E di s. Paterio. XIX. Notizie di Mauro e diFelice arcivescovi di Ravenna. XX. E di altri di questitempi. XXI. S. Damiano vescovo di Pavia, ss. Mansuetoe Natale arcivescovi di Milano. XXII. S. Colombano eGiona abati del monast. di Bobbio. XXIII. Fausto mona-co di Monte Cassino. XXIV. Anastasio bibliotecario ilvecchio sembra autor supposto. XXV. Notizie del mona-co Ambrogio Autperto.

CAPO III.Belle Lettere.

I. Stato infelice dell'amena letteratura, e origine di esso.

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dell'astrologia giudiciaria. VII. Si cerca s'egli facesse in-cendiare la biblioteca palatina, e si mostra che non bastaa provarlo l'autorità del Sarisberiense. VIII. Pruove dellacredulità e mancanza di critica di questo scrittore. IX.Nè alcun motivo poteva determinar s. Gregorio a tale ri-soluzione. X. Si mostra ch'ei non fece gittare alle fiam-me neppure le Opere di Cicerone e di Livio. XI. Sipruova falsa l'accusa ch'ei vietasse l'amena letteratura:spiegazione di un suo passo. XII. Nuovi argomenti aprovarne la falsità. XIII. Si mostra che s. Gregorio nonsostituì i suoi Morali a' libri profani. XIV. E ch'è falsopure che facesse atterrare gli antichi monumenti. XV.Testimonianza del Bayle in difesa di s. Gregorio. XVI.Notizie di due amici di s. Gregorio, cioè dell'abate Clau-dio. XVII. E di s. Paterio. XIX. Notizie di Mauro e diFelice arcivescovi di Ravenna. XX. E di altri di questitempi. XXI. S. Damiano vescovo di Pavia, ss. Mansuetoe Natale arcivescovi di Milano. XXII. S. Colombano eGiona abati del monast. di Bobbio. XXIII. Fausto mona-co di Monte Cassino. XXIV. Anastasio bibliotecario ilvecchio sembra autor supposto. XXV. Notizie del mona-co Ambrogio Autperto.

CAPO III.Belle Lettere.

I. Stato infelice dell'amena letteratura, e origine di esso.

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II. Lo studio però della lingua greca non fu interamentedimenticato. III. Venanzio Fortunato quasi il solo poetadi questa età: sua patria suoi studj. IV. Altre epoche del-la sua vita: sue Opere. V. Notizie di Givannicio da Ra-venna lodato anche come poeta. VI. Felice gramatico inPavia onorato dal re Cuniberto. VII. La storia fu quasiaffatto trascurata.

CAPO IV.Filosofia, Matematica, Medicina.

I. Non trovasi a questi tempi pur uno celebre per saperfilosofico. II. Che cosa fosse l'orologio notturno manda-to da Paolo I al re Pipino. III. Anche la medicina nonebbe alcun illustre coltivatore.

CAPO V.Giurisprudenza.

I. Non trovasi a questa età alcun celebre giureconsulto.II. Leggi che allora avean forza in Italia; i Greci e gliItaliani lor sudditi seguivano le leggi imperiali. III. Isudditi de' Longobardi potevan seguir le loro leggi, o leimperiali. IV. Leggi pubblicate da' re longobardi.

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II. Lo studio però della lingua greca non fu interamentedimenticato. III. Venanzio Fortunato quasi il solo poetadi questa età: sua patria suoi studj. IV. Altre epoche del-la sua vita: sue Opere. V. Notizie di Givannicio da Ra-venna lodato anche come poeta. VI. Felice gramatico inPavia onorato dal re Cuniberto. VII. La storia fu quasiaffatto trascurata.

CAPO IV.Filosofia, Matematica, Medicina.

I. Non trovasi a questi tempi pur uno celebre per saperfilosofico. II. Che cosa fosse l'orologio notturno manda-to da Paolo I al re Pipino. III. Anche la medicina nonebbe alcun illustre coltivatore.

CAPO V.Giurisprudenza.

I. Non trovasi a questa età alcun celebre giureconsulto.II. Leggi che allora avean forza in Italia; i Greci e gliItaliani lor sudditi seguivano le leggi imperiali. III. Isudditi de' Longobardi potevan seguir le loro leggi, o leimperiali. IV. Leggi pubblicate da' re longobardi.

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CAPO VI.Arti liberali.

I. Infelice stato delle arti in quest'epoca. II. I re Longo-bardi nondimeno innalzano molte fabbriche. III. Nonmancano a questi tempi sculture, ma rozze ed informi.IV. Si mostra che la pittura non fu mai del tutto dimenti-cata in Italia. V. Si annoverano molte pitture in Italia fat-te a questi tempi. VI. Non si può affermare che fossertutte opere di pittori greci. VII. E molto meno il potero-no esser quelle che furono fatte ne' paesi soggetti a'Longobardi.

LIBRO III.Storia della Letteratura Italiana da' tempi di Carlo Ma-

gno fino alla morte di Ottone III.

CAPO I.Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, eidea dello stato civile e letterario d'Italia in quest'epo-

ca.

I. Si prende a esaminare qual parte avesse l'Italia nelleletterarie cure di Carlo Magno. II. Questo principe do-vette le prime istruzioni a Pietro da Pisa a Paolo diaconoe a Paolino di Aquileja. III. E solo più tardi fu istruito da

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CAPO VI.Arti liberali.

I. Infelice stato delle arti in quest'epoca. II. I re Longo-bardi nondimeno innalzano molte fabbriche. III. Nonmancano a questi tempi sculture, ma rozze ed informi.IV. Si mostra che la pittura non fu mai del tutto dimenti-cata in Italia. V. Si annoverano molte pitture in Italia fat-te a questi tempi. VI. Non si può affermare che fossertutte opere di pittori greci. VII. E molto meno il potero-no esser quelle che furono fatte ne' paesi soggetti a'Longobardi.

LIBRO III.Storia della Letteratura Italiana da' tempi di Carlo Ma-

gno fino alla morte di Ottone III.

CAPO I.Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, eidea dello stato civile e letterario d'Italia in quest'epo-

ca.

I. Si prende a esaminare qual parte avesse l'Italia nelleletterarie cure di Carlo Magno. II. Questo principe do-vette le prime istruzioni a Pietro da Pisa a Paolo diaconoe a Paolino di Aquileja. III. E solo più tardi fu istruito da

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Alcuino nelle scienze. IV. Lo stesso Alcuino probabil-mente dovette in parte all'Italia il suo sapere. V. Esamedel racconto del monaco di s. Gallo intorno allo Scozze-se mandato in Pavia. VI. Si mostra l'inverisimiglianza diquesto fatto. VII. Contraddizioni ed errori di molti nelvolerlo sostenere. VIII. Conchiudesi che questo fatto sidee credere favoloso. IX. Esame del modo tenuto dalGatti per difenderne la verità. X. Quindi non può am-mettersi che Carlo M. fondasse l'università di Pavia, oveperò erano pubbliche scuole. XI. Anzi Carlo M. dall'Ita-lia chiama in Francia maestri del canto. XII. E altri mae-stri di gramatica e di aritmetica. XIII. E di più altri Ita-liani si vale a far risorgere in Francia le scienze e le let-tere. XIV. Nell'Italia ancora procurò Carlo M. di far ri-fiorire la letteratura. XV. Stato civile dell'Italia. Prima dipassar oltre, ci conviene qui dare un'idea generale dellostato in cui era l'Italia di questi tempi. XVI. Regno d'Ita-lia di Pipino, e poi di Bernardo: impero di Lodovico ilPio e di Lottario. XVII. Legge pubblicata da Lottarioper le scuole d'Italia. XVIII. Riflessioni sulle città nellequali in esse si ordina di aprire pubblica scuola. XIX.Chi fosse Dungalo nominato professore in Pavia. XX.S'ei sia lo stesso di cui si ha una lettera a Carlo Magnosopra le ecclissi. XXI. Sua opera in difesa delle sacreimmagini. XXII. Probabilmente si debban distingueredue Dungali. XXIII. Leggi ecclesiastiche per le scuoledei chierici. XXIV. Scarso frutto da questi editti raccol-to. XXV. Continuazione degl'imperadori e de' re di Italiafino a Rodolfo di Borgogna. XXVI. Continuazione della

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Alcuino nelle scienze. IV. Lo stesso Alcuino probabil-mente dovette in parte all'Italia il suo sapere. V. Esamedel racconto del monaco di s. Gallo intorno allo Scozze-se mandato in Pavia. VI. Si mostra l'inverisimiglianza diquesto fatto. VII. Contraddizioni ed errori di molti nelvolerlo sostenere. VIII. Conchiudesi che questo fatto sidee credere favoloso. IX. Esame del modo tenuto dalGatti per difenderne la verità. X. Quindi non può am-mettersi che Carlo M. fondasse l'università di Pavia, oveperò erano pubbliche scuole. XI. Anzi Carlo M. dall'Ita-lia chiama in Francia maestri del canto. XII. E altri mae-stri di gramatica e di aritmetica. XIII. E di più altri Ita-liani si vale a far risorgere in Francia le scienze e le let-tere. XIV. Nell'Italia ancora procurò Carlo M. di far ri-fiorire la letteratura. XV. Stato civile dell'Italia. Prima dipassar oltre, ci conviene qui dare un'idea generale dellostato in cui era l'Italia di questi tempi. XVI. Regno d'Ita-lia di Pipino, e poi di Bernardo: impero di Lodovico ilPio e di Lottario. XVII. Legge pubblicata da Lottarioper le scuole d'Italia. XVIII. Riflessioni sulle città nellequali in esse si ordina di aprire pubblica scuola. XIX.Chi fosse Dungalo nominato professore in Pavia. XX.S'ei sia lo stesso di cui si ha una lettera a Carlo Magnosopra le ecclissi. XXI. Sua opera in difesa delle sacreimmagini. XXII. Probabilmente si debban distingueredue Dungali. XXIII. Leggi ecclesiastiche per le scuoledei chierici. XXIV. Scarso frutto da questi editti raccol-to. XXV. Continuazione degl'imperadori e de' re di Italiafino a Rodolfo di Borgogna. XXVI. Continuazione della

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medesima serie fino alla morte di Ottone. XXVII. Scia-gure dell'Italia, per le quali giacque nella ignoranza.XXVIII. Trovasi nondimeno menzione di alcune scuole.XXIX. E di diverse biblioteche, benchè molte di esseperissero miseramente. XXX. Stato della biblioteca pon-tificia.

CAPO II.Studj sacri.

I. Molti tra' pontefici del IX secolo furono uomini dotti:non così quei del X. II. Notizie di s. Paolino patriarcad'Aquileja: pruovasi ch'ei fu italiano. III. Epoche dellasua vita: in quanta stima egli fosse. IV. Sue opere. V. Sientra a parlare di Teodolfo vesc. d'Orleans, e si pruovach'ei fu italiano. VI. Chiamato in Francia da Carlo Ma-gno è fatto vescovo d'Orleans. VII. Onori ricevuti daCarlo Magno e da Lodovico il Pio. VIII. Incorre nelladisgrazia di Lodovico il Pio: sua morte. IX. Sue opere.X. Notizie di Claudio vescovo di Torino: sua eresia. XI.Errori dell'Argelati nel ragionar di Pietro arcivescovo diMilano. XII. In quanta stima egli fosse di uom dotto.XIII. Odelberto arcivesc. di Milano, e Massenzio pa-triarca d'Aquileja onorati essi pure da Carlo Magno.XIV. Autperto e Bertario abati di Monte Casino, e uomi-ni dotti. XV. Notizie di Andrea Agnello. XVI. Notizie diAnastasio bibliotecario: da lui deesi distinguere il card.

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medesima serie fino alla morte di Ottone. XXVII. Scia-gure dell'Italia, per le quali giacque nella ignoranza.XXVIII. Trovasi nondimeno menzione di alcune scuole.XXIX. E di diverse biblioteche, benchè molte di esseperissero miseramente. XXX. Stato della biblioteca pon-tificia.

CAPO II.Studj sacri.

I. Molti tra' pontefici del IX secolo furono uomini dotti:non così quei del X. II. Notizie di s. Paolino patriarcad'Aquileja: pruovasi ch'ei fu italiano. III. Epoche dellasua vita: in quanta stima egli fosse. IV. Sue opere. V. Sientra a parlare di Teodolfo vesc. d'Orleans, e si pruovach'ei fu italiano. VI. Chiamato in Francia da Carlo Ma-gno è fatto vescovo d'Orleans. VII. Onori ricevuti daCarlo Magno e da Lodovico il Pio. VIII. Incorre nelladisgrazia di Lodovico il Pio: sua morte. IX. Sue opere.X. Notizie di Claudio vescovo di Torino: sua eresia. XI.Errori dell'Argelati nel ragionar di Pietro arcivescovo diMilano. XII. In quanta stima egli fosse di uom dotto.XIII. Odelberto arcivesc. di Milano, e Massenzio pa-triarca d'Aquileja onorati essi pure da Carlo Magno.XIV. Autperto e Bertario abati di Monte Casino, e uomi-ni dotti. XV. Notizie di Andrea Agnello. XVI. Notizie diAnastasio bibliotecario: da lui deesi distinguere il card.

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Anastasio. XVII. Impieghi ed opere del bibliotecario.XVIII. Qual parte abbia nelle Vite dei romani Pontefici.XIX. Opere di Giovanni diacono della chiesa romana.XX. E di Giovanni diacono e di Pietro suddiacono dellachiesa di Napoli. XXI. Elogio di s. Atanasio vescovo diNapoli. XXII. Il Martirologio di Adone dee la sua origi-ne all'Italia. XXIII. Notizie di tre scrittori sacri siciliani.XXIV. Ignoranza universale del X secolo: ricerche sullapatria di Attone vesc. di Vercelli. XXV. Epoche dellasua vita, e sue opere. XXVI. Vita e vicende di Rateriovesc. di Verona. XXVII. Sue opere. XXVIII. Alcuni al-tri scrittori sacri accennati. XXIX. Se a questi tempi fio-risse un Teodolo scrittor polemico.

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Anastasio. XVII. Impieghi ed opere del bibliotecario.XVIII. Qual parte abbia nelle Vite dei romani Pontefici.XIX. Opere di Giovanni diacono della chiesa romana.XX. E di Giovanni diacono e di Pietro suddiacono dellachiesa di Napoli. XXI. Elogio di s. Atanasio vescovo diNapoli. XXII. Il Martirologio di Adone dee la sua origi-ne all'Italia. XXIII. Notizie di tre scrittori sacri siciliani.XXIV. Ignoranza universale del X secolo: ricerche sullapatria di Attone vesc. di Vercelli. XXV. Epoche dellasua vita, e sue opere. XXVI. Vita e vicende di Rateriovesc. di Verona. XXVII. Sue opere. XXVIII. Alcuni al-tri scrittori sacri accennati. XXIX. Se a questi tempi fio-risse un Teodolo scrittor polemico.

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STORIADELLA

LETTERATURA ITALIANADALLA ROVINA DELL'IMPERO OCCIDENTALE FINO

ALL'ANNO MCLXXXIII.

LIBRO PRIMO. Storia della Letteratura Italiana dalla rovi-na dell'Impero occidentale fino al principio

del regno de' Longobardi.

L'Italia finalmente caduta in potere de' Barbari, che per-tanto tempo l'aveano colle scorrerie continue travagliata,comincia ora, e proseguirà poscia per lungo tempo adare di se medesima un troppo acerbo e funesto spetta-colo. Ella è costretta ad ubbidire a sovrani per nascita,per educazione, per indole feroci, violenti e rozzi; a'quali pare che ogni altra legge debba essere sconosciuta,fuorchè quella del lor capriccio e del loro furore. Le cit-tà e le campagne sono innondate da Barbari che frammi-schiandosi co' naturali abitanti, e usurpandosi col favorede' loro signori le terre e i dominj degli antichi padroni,si vendicano in certo modo della schiavitudine odiosache per lungo tempo avean dovuto soffrire. Or qualesarà egli in sì dolorose vicende lo stato dell'italiana let-

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STORIADELLA

LETTERATURA ITALIANADALLA ROVINA DELL'IMPERO OCCIDENTALE FINO

ALL'ANNO MCLXXXIII.

LIBRO PRIMO. Storia della Letteratura Italiana dalla rovi-na dell'Impero occidentale fino al principio

del regno de' Longobardi.

L'Italia finalmente caduta in potere de' Barbari, che per-tanto tempo l'aveano colle scorrerie continue travagliata,comincia ora, e proseguirà poscia per lungo tempo adare di se medesima un troppo acerbo e funesto spetta-colo. Ella è costretta ad ubbidire a sovrani per nascita,per educazione, per indole feroci, violenti e rozzi; a'quali pare che ogni altra legge debba essere sconosciuta,fuorchè quella del lor capriccio e del loro furore. Le cit-tà e le campagne sono innondate da Barbari che frammi-schiandosi co' naturali abitanti, e usurpandosi col favorede' loro signori le terre e i dominj degli antichi padroni,si vendicano in certo modo della schiavitudine odiosache per lungo tempo avean dovuto soffrire. Or qualesarà egli in sì dolorose vicende lo stato dell'italiana let-

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teratura? Sotto il governo di principi i quali non cheaver coltivate le scienze, ne ignorano perfino il nome,che sono incolti per modo, che non sanno di lor manosottoscrivere i regj editti, e che altro finalmente non pre-giano che la militare ferocia, si potrà egli sperare chegl'Italiani abbattuti ed oppressi possano pur solamentepensare a scienze e ad arti? Aggiungansi le continueguerre trai Goti e i Greci, mentre questi usano di ognisforzo per ricuperare il perduto dominio, e quelli si ado-prano con ogni mezzo a mantenersene signori, ma frat-tanto e gli uni e gli altri si volgono con ugual furorecontro l'infelice e desolata Italia. Le rovine, le stragi egl'incendj non furon mai tanto frequenti, come a questastagione, e sembrava che amendue i partiti cercasseroanzi di distruggere che di conquistare. E nondimeno sot-to i primi re Goti lo stato della letteratura non fu così in-felice come pareva doversi aspettare. I re ancora più in-colti si videro aver in pregio le scienze; e fra le rovine efra il sangue esse si videro ancora levare il capo, e pas-seggiare sicure. Un solo Italiano ch'ebbe l'onore di stareal fianco e di goder della grazia de' nuovi monarchi, fuquegli che per qualche tempo salvolle dal funesto nau-fragio di cui erano minacciate; e fece vedere al mondotutto un oggetto a cui forse non si vide giammai l'ugua-le, alcuni dei più rozzi sovrani che mai sedesser sul tro-no, essere ciò non ostante liberali e magnanimi fomenta-tori de' buoni studj. Io parlo del celebre Cassiodoro, lacui storia troppo è congiunta con quella de' re Goti Ita-liani, perchè non dobbiamo di lui insieme e di essi trat-

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teratura? Sotto il governo di principi i quali non cheaver coltivate le scienze, ne ignorano perfino il nome,che sono incolti per modo, che non sanno di lor manosottoscrivere i regj editti, e che altro finalmente non pre-giano che la militare ferocia, si potrà egli sperare chegl'Italiani abbattuti ed oppressi possano pur solamentepensare a scienze e ad arti? Aggiungansi le continueguerre trai Goti e i Greci, mentre questi usano di ognisforzo per ricuperare il perduto dominio, e quelli si ado-prano con ogni mezzo a mantenersene signori, ma frat-tanto e gli uni e gli altri si volgono con ugual furorecontro l'infelice e desolata Italia. Le rovine, le stragi egl'incendj non furon mai tanto frequenti, come a questastagione, e sembrava che amendue i partiti cercasseroanzi di distruggere che di conquistare. E nondimeno sot-to i primi re Goti lo stato della letteratura non fu così in-felice come pareva doversi aspettare. I re ancora più in-colti si videro aver in pregio le scienze; e fra le rovine efra il sangue esse si videro ancora levare il capo, e pas-seggiare sicure. Un solo Italiano ch'ebbe l'onore di stareal fianco e di goder della grazia de' nuovi monarchi, fuquegli che per qualche tempo salvolle dal funesto nau-fragio di cui erano minacciate; e fece vedere al mondotutto un oggetto a cui forse non si vide giammai l'ugua-le, alcuni dei più rozzi sovrani che mai sedesser sul tro-no, essere ciò non ostante liberali e magnanimi fomenta-tori de' buoni studj. Io parlo del celebre Cassiodoro, lacui storia troppo è congiunta con quella de' re Goti Ita-liani, perchè non dobbiamo di lui insieme e di essi trat-

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tare a questo luogo diligentemente, e mostrare quanto alui dovesse allora l'Italia che per opera di questogrand'uomo anche in mezzo alle sue sciagure potè chia-marsi non del tutto infelice.

CAPO I. Idea generale dello stato civile e letterario d'Italia sot-

to il regno de' Goti.

I. Ucciso Oreste, e deposto Augustolo,Odoacre si vide l'an. 476 signor pacifico ditutta l'Italia, e avrebbe potuto senza ostacoloalcuno prendere il nome e la corona impe-

riale. Ei nondimeno volle usar dipendenza dall'imp.d'Oriente, ch'era allora Zenone; e inviogli ambasciatori,altro per se non chiedendo che l'onorevol titolo di patri-zio. Ma poscia ei si fè appellar re d'Italia, e Zenone fucostretto a dissimulare almeno per qualche tempo questach'ei per altro dovea necessariamente chiamare ingiustausurpazione. Sotto di lui l'Italia ebbe per circa 13 annipace e riposo, troppo a lei necessario per riparare i dannidi tante guerre che aveanla travagliata. Odoacre, benchèbarbaro e ariano, fu nondimeno principe giusto e cle-mente anche per riguardo a' Cattolici. Anzi il cel. s. Epi-fanio vesc. di Pavia da lui ottenne l'esenzione da ogniimposta per 5 anni, affinchè si potesse rifabbricare lasua cattedrale e le mura insieme e le case incendiate dal-lo stesso Odoacre e distrutte, quando vi fece prigione

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Regno di Odoacre tranquillo.

tare a questo luogo diligentemente, e mostrare quanto alui dovesse allora l'Italia che per opera di questogrand'uomo anche in mezzo alle sue sciagure potè chia-marsi non del tutto infelice.

CAPO I. Idea generale dello stato civile e letterario d'Italia sot-

to il regno de' Goti.

I. Ucciso Oreste, e deposto Augustolo,Odoacre si vide l'an. 476 signor pacifico ditutta l'Italia, e avrebbe potuto senza ostacoloalcuno prendere il nome e la corona impe-

riale. Ei nondimeno volle usar dipendenza dall'imp.d'Oriente, ch'era allora Zenone; e inviogli ambasciatori,altro per se non chiedendo che l'onorevol titolo di patri-zio. Ma poscia ei si fè appellar re d'Italia, e Zenone fucostretto a dissimulare almeno per qualche tempo questach'ei per altro dovea necessariamente chiamare ingiustausurpazione. Sotto di lui l'Italia ebbe per circa 13 annipace e riposo, troppo a lei necessario per riparare i dannidi tante guerre che aveanla travagliata. Odoacre, benchèbarbaro e ariano, fu nondimeno principe giusto e cle-mente anche per riguardo a' Cattolici. Anzi il cel. s. Epi-fanio vesc. di Pavia da lui ottenne l'esenzione da ogniimposta per 5 anni, affinchè si potesse rifabbricare lasua cattedrale e le mura insieme e le case incendiate dal-lo stesso Odoacre e distrutte, quando vi fece prigione

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Regno di Odoacre tranquillo.

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Oreste (Ennodius in Vita s. Epiph.). E noi non troviamoalcun vescovo cattolico da lui molestato, nè lamento al-cuno che di lui si facesse, come d'uom barbaro e crude-le.

II. A' tempi di Odoacre noi veggiamo la pri-ma volta comparir sulla scena il nome diCassiodoro da lui onorato di ragguardevolicariche, e appena vi ha tra gli antichi e tra'moderni scrittori chi non creda lui essere

quel Cassiodoro medesimo che fu poscia sì celebre sottoi re Goti, e di cui abbiamo più opere, e i cui nomi eranoMagno Aurelio Cassiodoro Senatore (3). Il p. Sirmondofu il primo, ch'io sappia, ad accennar brevemente (innot. ad l. 3, ep. I Ennod.) che due Cassiodori doveanoammettersi; padre e figlio, e divider tra loro le diversecose che di un solo si narrano comunemente. Ma ciònon ostante tutti gli scrittori che gli venner dopo, segui-rono a non far menzione che di un sol Cassiodoro.L'opinione del p. Sirmondo è stata recentemente di nuo-vo proposta, e più ampiamente provata dal cav. di Bautin una Memoria inserita nel primo tomo di quelledell'Accad. di Baviera, di cui però io non ho veduto cheil solo estratto nel Giornale di Trevoux (an, 1764, août

3 Dopo la pubblicazione di questo tomo ho veduta la Vita di Cassiodoroscritta dal dotto Sainte Marthe, e stampata in Parigi nel 1695. Essa spiega imeriti di Cassiodoro verso lo Stato, e verso le scienze; ma riguardo alla di-visione de' Cassiodori, su cui mi son qui steso alquanto, ei segue le opinio-ni del p. Garet, senza però indicarcene più forti pruove.

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Principj diCassiodoro:diverse opi-nioni degliscrittori.

Oreste (Ennodius in Vita s. Epiph.). E noi non troviamoalcun vescovo cattolico da lui molestato, nè lamento al-cuno che di lui si facesse, come d'uom barbaro e crude-le.

II. A' tempi di Odoacre noi veggiamo la pri-ma volta comparir sulla scena il nome diCassiodoro da lui onorato di ragguardevolicariche, e appena vi ha tra gli antichi e tra'moderni scrittori chi non creda lui essere

quel Cassiodoro medesimo che fu poscia sì celebre sottoi re Goti, e di cui abbiamo più opere, e i cui nomi eranoMagno Aurelio Cassiodoro Senatore (3). Il p. Sirmondofu il primo, ch'io sappia, ad accennar brevemente (innot. ad l. 3, ep. I Ennod.) che due Cassiodori doveanoammettersi; padre e figlio, e divider tra loro le diversecose che di un solo si narrano comunemente. Ma ciònon ostante tutti gli scrittori che gli venner dopo, segui-rono a non far menzione che di un sol Cassiodoro.L'opinione del p. Sirmondo è stata recentemente di nuo-vo proposta, e più ampiamente provata dal cav. di Bautin una Memoria inserita nel primo tomo di quelledell'Accad. di Baviera, di cui però io non ho veduto cheil solo estratto nel Giornale di Trevoux (an, 1764, août

3 Dopo la pubblicazione di questo tomo ho veduta la Vita di Cassiodoroscritta dal dotto Sainte Marthe, e stampata in Parigi nel 1695. Essa spiega imeriti di Cassiodoro verso lo Stato, e verso le scienze; ma riguardo alla di-visione de' Cassiodori, su cui mi son qui steso alquanto, ei segue le opinio-ni del p. Garet, senza però indicarcene più forti pruove.

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Principj diCassiodoro:diverse opi-nioni degliscrittori.

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p. 415). Convien dunque entrare all'esame di questopunto; e io riputerò ben impiegate le mie fatiche, se miverrà fatto di aggiugnere qualche nuova luce alla storiadi questo grand'uomo. Per proceder con ordine e conchiarezza, veggiam prima le cariche che noi troviamconferite a un Cassiodoro, per esaminar poscia se tuttesi debban credere conferite ad un solo, o veramente adue diversi. Le lettere scritte dal cel. Cassiodoro a nomede' re Ostrogoti a cui egli ebbe l'onor di servire, e chefuron poscia da lui raccolte, e divise in XII libri colnome di Varie, debbono essere il principale, anzi l'unicofondamento di queste ricerche.

III. E in primo luogo noi troviamo una let-tera di Teodorico re degli Ostrogoti a Cas-siodoro uomo illustre e patrizio (Var. l. 1,ep. 3), in cui conferendogli questo stessoonorevol titolo di patrizio, rammenta che ne'principj del suo regno Cassiodoro avea con-

tenuti i Siciliani, sicchè non si sollevassero contro di lui,come sembrava doversi temere, e che quindi egli erastato governatore de' Bruzj e della Lucania; e commen-da altamente gli esempj d'ogni più bella virtù, che inquesti governi egli avea dati. A questa segue un'altra let-tera che Teodorico scrive al senato (ib. ep. 4), raggua-gliandolo della dignità di patrizio a cui avea sollevatoCassiodoro; e qui ancora, oltre il ricordare con qual pru-denza avesse egli governate le provincie a lui affidate

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Diverse di-gnità e tito-li che si tro-vano confe-riti a un Cassiodoro.

p. 415). Convien dunque entrare all'esame di questopunto; e io riputerò ben impiegate le mie fatiche, se miverrà fatto di aggiugnere qualche nuova luce alla storiadi questo grand'uomo. Per proceder con ordine e conchiarezza, veggiam prima le cariche che noi troviamconferite a un Cassiodoro, per esaminar poscia se tuttesi debban credere conferite ad un solo, o veramente adue diversi. Le lettere scritte dal cel. Cassiodoro a nomede' re Ostrogoti a cui egli ebbe l'onor di servire, e chefuron poscia da lui raccolte, e divise in XII libri colnome di Varie, debbono essere il principale, anzi l'unicofondamento di queste ricerche.

III. E in primo luogo noi troviamo una let-tera di Teodorico re degli Ostrogoti a Cas-siodoro uomo illustre e patrizio (Var. l. 1,ep. 3), in cui conferendogli questo stessoonorevol titolo di patrizio, rammenta che ne'principj del suo regno Cassiodoro avea con-

tenuti i Siciliani, sicchè non si sollevassero contro di lui,come sembrava doversi temere, e che quindi egli erastato governatore de' Bruzj e della Lucania; e commen-da altamente gli esempj d'ogni più bella virtù, che inquesti governi egli avea dati. A questa segue un'altra let-tera che Teodorico scrive al senato (ib. ep. 4), raggua-gliandolo della dignità di patrizio a cui avea sollevatoCassiodoro; e qui ancora, oltre il ricordare con qual pru-denza avesse egli governate le provincie a lui affidate

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Diverse di-gnità e tito-li che si tro-vano confe-riti a un Cassiodoro.

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aggiugne che anche Odoacre avealo fatto primieramenteconte dell'entrate private, e poscia delle regie donazio-ni, cariche a que' tempi ragguardevolissime; e finalmen-te rammenta che il padre ancora e l'avolo di Cassiodoroerano stati per grandi virtù e per magnanime impresechiarissimi, perciocchè il padre oltre altri onori fu unode' deputati ad Attila per indurlo a ritirarsi dall'Italia, acui minacciava rovina e strage; l'avolo difese la Sicilia el'Abbruzzo dalle scorrerie de' Vandali e del loro re Gen-serico. Un'altra lettera abbiamo di Teodorico a Cassio-doro uomo illustre e patrizio (l. 3, ep. 28), in cui chia-mandolo alla corte gli conferisce il titolo e la dignità diconte. E queste sono le sole cariche che di Teodoricoveggiam date a Cassiodoro. Due lettere inoltre abbiamodi Atalarico nipote e successore di Teodorico (l. 9, ep.24, 25) scritte nella XII indizione ossia l'an. 534; una aSenatore (altro nome, come si è detto, del cel. Cassiodo-ro) preposito ossia prefetto del pretorio, con cui il solle-va a questa medesima dignità di prefetto del pretorio, ericorda insieme gli onori a cui da Teodorico suo avoloesso era stato innalzato, perciocchè dice che essendo an-cora in età giovanile era stato fatto questore del sacropalazzo, poscia promosso a quella di maestro degli uffi-cj dello stesso palazzo. Quindi parlando della nuova ca-rica di prefetto del pretorio, a cui or sollevavalo, accen-na che il di lui padre ancora avea avuto il medesimoonore: Sed quamvis habeas paternam praefecturam ita-lico orbe praedicatam, aliorum tibi tamen exempla nonponimus. Nell'altra lettera scritta al senato, in cui Atala-

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aggiugne che anche Odoacre avealo fatto primieramenteconte dell'entrate private, e poscia delle regie donazio-ni, cariche a que' tempi ragguardevolissime; e finalmen-te rammenta che il padre ancora e l'avolo di Cassiodoroerano stati per grandi virtù e per magnanime impresechiarissimi, perciocchè il padre oltre altri onori fu unode' deputati ad Attila per indurlo a ritirarsi dall'Italia, acui minacciava rovina e strage; l'avolo difese la Sicilia el'Abbruzzo dalle scorrerie de' Vandali e del loro re Gen-serico. Un'altra lettera abbiamo di Teodorico a Cassio-doro uomo illustre e patrizio (l. 3, ep. 28), in cui chia-mandolo alla corte gli conferisce il titolo e la dignità diconte. E queste sono le sole cariche che di Teodoricoveggiam date a Cassiodoro. Due lettere inoltre abbiamodi Atalarico nipote e successore di Teodorico (l. 9, ep.24, 25) scritte nella XII indizione ossia l'an. 534; una aSenatore (altro nome, come si è detto, del cel. Cassiodo-ro) preposito ossia prefetto del pretorio, con cui il solle-va a questa medesima dignità di prefetto del pretorio, ericorda insieme gli onori a cui da Teodorico suo avoloesso era stato innalzato, perciocchè dice che essendo an-cora in età giovanile era stato fatto questore del sacropalazzo, poscia promosso a quella di maestro degli uffi-cj dello stesso palazzo. Quindi parlando della nuova ca-rica di prefetto del pretorio, a cui or sollevavalo, accen-na che il di lui padre ancora avea avuto il medesimoonore: Sed quamvis habeas paternam praefecturam ita-lico orbe praedicatam, aliorum tibi tamen exempla nonponimus. Nell'altra lettera scritta al senato, in cui Atala-

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rico il ragguaglia della prefettura del pretorio conferita aSenatore, accenna varie opere da lui scritte, delle qualiposcia ragioneremo, e quindi aggiugne ch'egli salendo altrono avea trovato Senatore nella carica di maestro degliufficj, e che poscia avealo fatto suo questore, e ricordala sollecitudine e il zelo con cui questi erasi adoperatoper lui ne' principj singolarmente del suo regno. Final-mente in due lettere di Teodato successore di Atalaricoveggiam nominato (l. 10, ep. 27, 28) Senatore col titolodi prefetto del pretorio, e le lettere che veggiamo scritteda lui a nome di questo re, e di Vitige che gli fu succes-sore ci mostrano che sotto questi principi egli ebbe lacarica di lor segretario; come pure aveala avuta sottoTeodorico e Atalarico. Or tutte queste cariche dobbiamnoi crederle conferite a un sol uomo? Ed è egli un solCassiodoro ossia Senatore che in tutte le mentovate let-tere è rammentato?

IV. La maggior parte degli scrittori che,come abbiam detto, non riconoscono in tuttequeste lettere che un sol Cassiodoro, nehanno stabilita la nascita all'an. 479, o 480,non ben riflettendo che Odoacre, da cui pur

essi pretendono ch'ei fosse sollevato alle cariche mento-vate, morì l'an. 493, e che converrebbe dire perciò, cheCassiodoro in età di poco oltre a 10 anni fosse statoonorato d'impieghi che richiedevan persone sagge e pru-denti. Il p. Garet che ci ha dato una bella edizione

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Distinzionedi diversi personaggi del medesi-mo tempo.

rico il ragguaglia della prefettura del pretorio conferita aSenatore, accenna varie opere da lui scritte, delle qualiposcia ragioneremo, e quindi aggiugne ch'egli salendo altrono avea trovato Senatore nella carica di maestro degliufficj, e che poscia avealo fatto suo questore, e ricordala sollecitudine e il zelo con cui questi erasi adoperatoper lui ne' principj singolarmente del suo regno. Final-mente in due lettere di Teodato successore di Atalaricoveggiam nominato (l. 10, ep. 27, 28) Senatore col titolodi prefetto del pretorio, e le lettere che veggiamo scritteda lui a nome di questo re, e di Vitige che gli fu succes-sore ci mostrano che sotto questi principi egli ebbe lacarica di lor segretario; come pure aveala avuta sottoTeodorico e Atalarico. Or tutte queste cariche dobbiamnoi crederle conferite a un sol uomo? Ed è egli un solCassiodoro ossia Senatore che in tutte le mentovate let-tere è rammentato?

IV. La maggior parte degli scrittori che,come abbiam detto, non riconoscono in tuttequeste lettere che un sol Cassiodoro, nehanno stabilita la nascita all'an. 479, o 480,non ben riflettendo che Odoacre, da cui pur

essi pretendono ch'ei fosse sollevato alle cariche mento-vate, morì l'an. 493, e che converrebbe dire perciò, cheCassiodoro in età di poco oltre a 10 anni fosse statoonorato d'impieghi che richiedevan persone sagge e pru-denti. Il p. Garet che ci ha dato una bella edizione

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Distinzionedi diversi personaggi del medesi-mo tempo.

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dell'opere di Cassiodoro, ha osservata questa difficoltà,e però ne ha stabilita la nascita all'an. 469, o 470. Collaquale opinione ei rende la difficoltà alquanto minore,ma non la toglie del tutto. È egli dunque verisimile cheun giovinetto di circa 20 anni fosse da Odoacre innalza-to alla carica di conte dell'entrate private, che richiedeval'ispezione delle terre proprie del sovrano, la custodiadell'erario, la vigilanza sopra gli schiavi, ed altre somi-glianti cure di non lieve momento (V. l. 6 Var. form. 8), eche fosse poi sollevato a quella di conte delle regie do-nazioni, di cui era proprio l'invigilare sulla saggia distri-buzione de' favori e delle liberalità del sovrano? È egliinoltre credibile che al principio del regno di Teodorico,cioè l'an. 493, quando Cassiodoro, anche secondo l'opi-nione del p. Garet, non dovea avere che circa 24 anni dietà, avesse nondimeno credito e poter così grande chebastasse a tenere in dovere la tumultuante Sicilia? Sem-bra dunque più verisimile che il Cassiodoro sollevato daOdoacre alle cariche mentovate non fosse il celebrescrittore, ma il padre di lui; e al padre pure crede, e par-mi a ragione, il p. Sirmondo, che sia indirizzata la lette-ra dello stesso Teodorico, che in terzo luogo abbiammentovata, e della quale parleremo più lungamente asuo luogo. Quindi del cel. Cassiodoro scrittore non si ra-giona, a mio credere, che nelle lettere di Atalarico e diTeodato. In fatti riflettasi. Atalarico nelle citate letteredice che il Cassiodoro, a cui egli conferiva la dignità diprefetto del pretorio, era stato a' tempi di Teodorico que-store e maestro degli ufficj. E il Cassiodoro di cui parla

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dell'opere di Cassiodoro, ha osservata questa difficoltà,e però ne ha stabilita la nascita all'an. 469, o 470. Collaquale opinione ei rende la difficoltà alquanto minore,ma non la toglie del tutto. È egli dunque verisimile cheun giovinetto di circa 20 anni fosse da Odoacre innalza-to alla carica di conte dell'entrate private, che richiedeval'ispezione delle terre proprie del sovrano, la custodiadell'erario, la vigilanza sopra gli schiavi, ed altre somi-glianti cure di non lieve momento (V. l. 6 Var. form. 8), eche fosse poi sollevato a quella di conte delle regie do-nazioni, di cui era proprio l'invigilare sulla saggia distri-buzione de' favori e delle liberalità del sovrano? È egliinoltre credibile che al principio del regno di Teodorico,cioè l'an. 493, quando Cassiodoro, anche secondo l'opi-nione del p. Garet, non dovea avere che circa 24 anni dietà, avesse nondimeno credito e poter così grande chebastasse a tenere in dovere la tumultuante Sicilia? Sem-bra dunque più verisimile che il Cassiodoro sollevato daOdoacre alle cariche mentovate non fosse il celebrescrittore, ma il padre di lui; e al padre pure crede, e par-mi a ragione, il p. Sirmondo, che sia indirizzata la lette-ra dello stesso Teodorico, che in terzo luogo abbiammentovata, e della quale parleremo più lungamente asuo luogo. Quindi del cel. Cassiodoro scrittore non si ra-giona, a mio credere, che nelle lettere di Atalarico e diTeodato. In fatti riflettasi. Atalarico nelle citate letteredice che il Cassiodoro, a cui egli conferiva la dignità diprefetto del pretorio, era stato a' tempi di Teodorico que-store e maestro degli ufficj. E il Cassiodoro di cui parla

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Teodorico nelle sue lettere, non veggiamo che da luiavesse tal dignità; ma solo troviamo accennarsi il gover-no de' Bruzj e della Calabria, e il titolo di patrizio, di cuilo stesso Teodorico l'avea onorato. E pare perciò, che didue diverse persone si debbano intendere le lettere de'due sovrani. Inoltre nelle lettere di Teodorico sempre sinomina Cassiodoro, in quelle di Atalarico e di Teodatosempre si chiama non Cassiodoro, ma Senatore. Ondemai questa diversità, se non dall'esser diverse le personein esse nominate? Molto più che così le lettere di Teodo-rico, come quelle di Atalarico e di Teodato tutte a nomeloro furono scritte dal cel. Cassiodoro che perciò le inse-rì nella raccolta delle sue lettere. Per qual ragione adun-que dovea egli in esse chiamar se stesso or col nome diCassiodoro, or con quello di Senatore? E non è egli que-sto un altro argomento a provare che Teodorico parla delpadre, detto sol Cassiodoro, Atalarico e Teodato parlandel figlio a cui si aggiunse anche il nome di Senatore,col qual solo, a distinguerlo dal padre, ei soleva più co-munemente esser chiamato, e col qual solo di fatto eglistesso si chiama nelle lettere degli ultimi due libri da luiscritte in suo proprio nome? Io penso dunque che il Cas-siodoro che da Odoacre fu innalzato alle accennate ono-revoli dignità, fosse il padre del cel. Cassiodoro; e che ilpadre e l'avolo di lui, che pur da Teodorico si nominano,non fosser già il padre e l'avolo, ma l'avolo e il bisavolodi questo illustre scrittore e ministro di Stato. Or rimet-tiamoci in sentiero.

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Teodorico nelle sue lettere, non veggiamo che da luiavesse tal dignità; ma solo troviamo accennarsi il gover-no de' Bruzj e della Calabria, e il titolo di patrizio, di cuilo stesso Teodorico l'avea onorato. E pare perciò, che didue diverse persone si debbano intendere le lettere de'due sovrani. Inoltre nelle lettere di Teodorico sempre sinomina Cassiodoro, in quelle di Atalarico e di Teodatosempre si chiama non Cassiodoro, ma Senatore. Ondemai questa diversità, se non dall'esser diverse le personein esse nominate? Molto più che così le lettere di Teodo-rico, come quelle di Atalarico e di Teodato tutte a nomeloro furono scritte dal cel. Cassiodoro che perciò le inse-rì nella raccolta delle sue lettere. Per qual ragione adun-que dovea egli in esse chiamar se stesso or col nome diCassiodoro, or con quello di Senatore? E non è egli que-sto un altro argomento a provare che Teodorico parla delpadre, detto sol Cassiodoro, Atalarico e Teodato parlandel figlio a cui si aggiunse anche il nome di Senatore,col qual solo, a distinguerlo dal padre, ei soleva più co-munemente esser chiamato, e col qual solo di fatto eglistesso si chiama nelle lettere degli ultimi due libri da luiscritte in suo proprio nome? Io penso dunque che il Cas-siodoro che da Odoacre fu innalzato alle accennate ono-revoli dignità, fosse il padre del cel. Cassiodoro; e che ilpadre e l'avolo di lui, che pur da Teodorico si nominano,non fosser già il padre e l'avolo, ma l'avolo e il bisavolodi questo illustre scrittore e ministro di Stato. Or rimet-tiamoci in sentiero.

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V. Erano già 12 anni che Odoacre signoreg-giava pacificamente l'Italia, quando Teodo-rico re degli Ostrogoti, o a persuasione,come dicono alcuni, o sol col consenso,come gli altri pensano, dell'imp. Zenone,

l'an. 488 si accinse a combatterlo, a patto di rimanere si-gnor dell'Italia, ma con dipendenza dall'imperadore.Dopo un'ostinata guerra di presso a 5 anni, Teodorico fi-nalmente astringe l'an. 493 Odoacre ad arrendergli Ra-venna che sola gli rimaneva, e se stesso. Odoacre pocodopo è ucciso da Teodorico, o perchè reo veramente, operchè voluto reo di macchinata congiura. Così divenutopacifico possessor dell'Italia, Teodorico usò ogni mezzoperchè essa non si avvedesse di esser sotto l'impero diun Barbaro. Perciò non solo egli ritenne l'usato ordinede' magistrati, ma e prese egli stesso, e volle che i suoiGoti prendessero l'abito dei Romani. Principe inoltre af-fabile, splendido, liberale, tenne per molti anni un sìglorioso governo, che sotto di lui fu assai più felice l'Ita-lia, che non sotto la maggior parte de' passati imperado-ri. Benchè ariano, i Cattolici non ebbero a dolersi di luianzi molti de' lor vescovi, e fra gli altri Lorenzo di Mila-no e s. Epifanio di Pavia, furon da lui onorati e favoritisingolarmente, e lo scisma che contro il pontef. Simma-co si formò a' suoi tempi, fu da lui con regia autoritàestinto ed oppresso. Delle magnifiche fabbriche che inmolte città d'Italia ei fè innalzare, parleremo altrove. Eraegli sì rozzo nella letteratura, che non sapea pure scrive-re il suo nome. Convenne perciò, come racconta l'antico

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Regno di Teodorico, e carattere di esso.

V. Erano già 12 anni che Odoacre signoreg-giava pacificamente l'Italia, quando Teodo-rico re degli Ostrogoti, o a persuasione,come dicono alcuni, o sol col consenso,come gli altri pensano, dell'imp. Zenone,

l'an. 488 si accinse a combatterlo, a patto di rimanere si-gnor dell'Italia, ma con dipendenza dall'imperadore.Dopo un'ostinata guerra di presso a 5 anni, Teodorico fi-nalmente astringe l'an. 493 Odoacre ad arrendergli Ra-venna che sola gli rimaneva, e se stesso. Odoacre pocodopo è ucciso da Teodorico, o perchè reo veramente, operchè voluto reo di macchinata congiura. Così divenutopacifico possessor dell'Italia, Teodorico usò ogni mezzoperchè essa non si avvedesse di esser sotto l'impero diun Barbaro. Perciò non solo egli ritenne l'usato ordinede' magistrati, ma e prese egli stesso, e volle che i suoiGoti prendessero l'abito dei Romani. Principe inoltre af-fabile, splendido, liberale, tenne per molti anni un sìglorioso governo, che sotto di lui fu assai più felice l'Ita-lia, che non sotto la maggior parte de' passati imperado-ri. Benchè ariano, i Cattolici non ebbero a dolersi di luianzi molti de' lor vescovi, e fra gli altri Lorenzo di Mila-no e s. Epifanio di Pavia, furon da lui onorati e favoritisingolarmente, e lo scisma che contro il pontef. Simma-co si formò a' suoi tempi, fu da lui con regia autoritàestinto ed oppresso. Delle magnifiche fabbriche che inmolte città d'Italia ei fè innalzare, parleremo altrove. Eraegli sì rozzo nella letteratura, che non sapea pure scrive-re il suo nome. Convenne perciò, come racconta l'antico

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Regno di Teodorico, e carattere di esso.

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incerto autore pubblicato dal Valesio, e che quindi sidice l'Anonimo valesiano, convenne, dico, lavorare unalamina d'oro forata per guisa che i fori formassero le pri-me lettere del suo nome, cioè THEOD; ed egli condu-cendo la penna fra l'aperture de' fori medesimi sottoscri-veva così i memoriali e gli editti (Anon. vales. ad calc.Hist. Amm. Marcell. p. 512 ed. Lugd. Bat. 1693). E non-dimeno egli fu magnanimo fomentator delle lettere, e gliuomini dotti si videro da lui sollevati a' più ragguarde-voli onori.

VI. Fra questi il primo che aprì la stradaagli altri fu Cassiodoro, non già quegli,come abbiam di sopra mostrato, che daOdoacre avea già ricevute onorevoli cari-che, e che da Teodorico medesimo fu fatto

governatore de' Bruzj e della Lucania e poscia patrizio,ma un altro Cassiodoro di lui figliuolo, che nelle letterede' re Goti chiamasi sempre col nome di Senatore, e ch'èquegli appunto che per le sue opere è rimasto tra noi fa-moso col nome di Cassiodoro. Era egli natio di Squilla-ci, come ad evidenza dimostra il mentovato p. Garet, edera figliuolo, nipote e pronipote di uomini sollevati a'più onorevoli impieghi, e per probità non meno che perprudenza famosi. Teodorico, come si è provato colla te-stimonianza di Atalarico (l. 9 Var. ep. 24), gli diè la cari-ca di questore del sacro palazzo, mentre egli era ancorain età giovanile: primaevum recipiens ad quaestoris of-

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Primi onorida lui con-feriti a Cas-siodoro.

incerto autore pubblicato dal Valesio, e che quindi sidice l'Anonimo valesiano, convenne, dico, lavorare unalamina d'oro forata per guisa che i fori formassero le pri-me lettere del suo nome, cioè THEOD; ed egli condu-cendo la penna fra l'aperture de' fori medesimi sottoscri-veva così i memoriali e gli editti (Anon. vales. ad calc.Hist. Amm. Marcell. p. 512 ed. Lugd. Bat. 1693). E non-dimeno egli fu magnanimo fomentator delle lettere, e gliuomini dotti si videro da lui sollevati a' più ragguarde-voli onori.

VI. Fra questi il primo che aprì la stradaagli altri fu Cassiodoro, non già quegli,come abbiam di sopra mostrato, che daOdoacre avea già ricevute onorevoli cari-che, e che da Teodorico medesimo fu fatto

governatore de' Bruzj e della Lucania e poscia patrizio,ma un altro Cassiodoro di lui figliuolo, che nelle letterede' re Goti chiamasi sempre col nome di Senatore, e ch'èquegli appunto che per le sue opere è rimasto tra noi fa-moso col nome di Cassiodoro. Era egli natio di Squilla-ci, come ad evidenza dimostra il mentovato p. Garet, edera figliuolo, nipote e pronipote di uomini sollevati a'più onorevoli impieghi, e per probità non meno che perprudenza famosi. Teodorico, come si è provato colla te-stimonianza di Atalarico (l. 9 Var. ep. 24), gli diè la cari-ca di questore del sacro palazzo, mentre egli era ancorain età giovanile: primaevum recipiens ad quaestoris of-

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Primi onorida lui con-feriti a Cas-siodoro.

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ficium; e insieme gli diè l'impiego di scrivere in suonome le lettere e gli editti. In qual anno ciò avvenisse,non è facile a diffinire. La prima lettera che troviamoscritta da Cassiodoro a nome di Teodorico, è indirizzataall'imp. Anastasio che allor regnava in Oriente (l. 1 Var.ep. 1), e in essa Teodorico il richiede di concordia e dipace, la qual sembra che tra loro fosse alterata: ut since-ritas pacis quae caussis emergentibus cognoscitur fuis-se vitiata, detersis conditionibus, in sua deinceps firmi-tate restituta permaneat. Il card. Baronio pensa che que-sta lettera fosse scritta l'an. 493 quando Teodorico, vintoed ucciso Odoacre, spedì ambasciatori ad Anastasio,perchè secondo la promessa già fattagli da Zenone il di-chiarasse re d'Italia. Ma il Muratori osserva a ragione(Ann. d'Ital. ad an. 494) che allora non vi era fra Teodo-rico e Anastasio disparere alcuno. Ei crede dunque (ib.ad an. 497) ch'ella appartenga all'an. 498, nel quale Teo-dorico che non avea ancora ottenuto da Anastasio il tito-lo sospirato, e che anzi ne temeva lo sdegno, perchè dase medesimo l'avea preso, gli spedì un'altra ambasciata,e ottenne finalmente ciò che bramava. Ma io non veggoche alcun movimento d'armi fosse ancora seguito tra'due sovrani; e benchè l'Anonimo valesiano chiami colnome di pace l'amichevol trattato che fra essi allora sistrinse, a me non pare che si potesse dir veramente cheprima fosse tra essi alterata e turbata la pace. Io pensoperciò più probabile ch'ella fosse scritta l'an. 509, per-ciocchè veggiamo che l'anno innanzi Anastasio, sapen-do che le truppe di Teodorico guerreggiavano nelle Gal-

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ficium; e insieme gli diè l'impiego di scrivere in suonome le lettere e gli editti. In qual anno ciò avvenisse,non è facile a diffinire. La prima lettera che troviamoscritta da Cassiodoro a nome di Teodorico, è indirizzataall'imp. Anastasio che allor regnava in Oriente (l. 1 Var.ep. 1), e in essa Teodorico il richiede di concordia e dipace, la qual sembra che tra loro fosse alterata: ut since-ritas pacis quae caussis emergentibus cognoscitur fuis-se vitiata, detersis conditionibus, in sua deinceps firmi-tate restituta permaneat. Il card. Baronio pensa che que-sta lettera fosse scritta l'an. 493 quando Teodorico, vintoed ucciso Odoacre, spedì ambasciatori ad Anastasio,perchè secondo la promessa già fattagli da Zenone il di-chiarasse re d'Italia. Ma il Muratori osserva a ragione(Ann. d'Ital. ad an. 494) che allora non vi era fra Teodo-rico e Anastasio disparere alcuno. Ei crede dunque (ib.ad an. 497) ch'ella appartenga all'an. 498, nel quale Teo-dorico che non avea ancora ottenuto da Anastasio il tito-lo sospirato, e che anzi ne temeva lo sdegno, perchè dase medesimo l'avea preso, gli spedì un'altra ambasciata,e ottenne finalmente ciò che bramava. Ma io non veggoche alcun movimento d'armi fosse ancora seguito tra'due sovrani; e benchè l'Anonimo valesiano chiami colnome di pace l'amichevol trattato che fra essi allora sistrinse, a me non pare che si potesse dir veramente cheprima fosse tra essi alterata e turbata la pace. Io pensoperciò più probabile ch'ella fosse scritta l'an. 509, per-ciocchè veggiamo che l'anno innanzi Anastasio, sapen-do che le truppe di Teodorico guerreggiavano nelle Gal-

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lie, mandò una numerosa flotta a devastar la Calabria(Murat. ad h. an.); ma che poscia essendosi Teodoricoben premunito, nel seguente anno Anastasio affrettossi astringer con lui pace; e in quest'occasione parmi proba-bile che Teodorico scrivesse l'accennata lettera, e cheperciò verso questo tempo ei conferisse la carica di suosegretario e questore a Cassiodoro.

VII. Ma m. de Saint-Marc il quale ci hadato un assai diffuso e non meno esattoCompendio della Storia d'Italia, che co-mincia da Odoacre, non solo suppone

che un sol Cassiodoro debbasi riconoscere da Odoacre epoi da' re Goti onorato, la qual opinione già si è da noiconfutata, ma crede ancora che l'an. 499 fosse egli in-nalzato alla carica di prefetto del pretorio (Abr. chronol.de l'Hist. d'Ital. t. 1 ad h. an.); e quindi afferma chel'anno seguente, in cui Teodorico entrò per la prima vol-ta con solenne pompa in Roma, Cassiodoro, come pre-fetto del pretorio, disponesse ogni cosa a ciò necessaria.Ei ne arreca in pruova due lettere perciò da lui scritte (l.12. Var. ep. 18, 19), in una delle quali ei comanda a Co-stantiniano, o, come altri leggono, Costantino, che fac-cia adattare la via Emilia, per cui dovea il re far passag-gio, e che tenga pronte le vittovaglie a lui e al suo segui-to necessarie; nell'altra ordina a Massimiano vicario diRoma, che dovendo il re venirsene a Roma faccia gittarsul Tevere un fermo e ben rassodato ponte. Ma come

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Opinioni di m. de Sant-Marc confutate.

lie, mandò una numerosa flotta a devastar la Calabria(Murat. ad h. an.); ma che poscia essendosi Teodoricoben premunito, nel seguente anno Anastasio affrettossi astringer con lui pace; e in quest'occasione parmi proba-bile che Teodorico scrivesse l'accennata lettera, e cheperciò verso questo tempo ei conferisse la carica di suosegretario e questore a Cassiodoro.

VII. Ma m. de Saint-Marc il quale ci hadato un assai diffuso e non meno esattoCompendio della Storia d'Italia, che co-mincia da Odoacre, non solo suppone

che un sol Cassiodoro debbasi riconoscere da Odoacre epoi da' re Goti onorato, la qual opinione già si è da noiconfutata, ma crede ancora che l'an. 499 fosse egli in-nalzato alla carica di prefetto del pretorio (Abr. chronol.de l'Hist. d'Ital. t. 1 ad h. an.); e quindi afferma chel'anno seguente, in cui Teodorico entrò per la prima vol-ta con solenne pompa in Roma, Cassiodoro, come pre-fetto del pretorio, disponesse ogni cosa a ciò necessaria.Ei ne arreca in pruova due lettere perciò da lui scritte (l.12. Var. ep. 18, 19), in una delle quali ei comanda a Co-stantiniano, o, come altri leggono, Costantino, che fac-cia adattare la via Emilia, per cui dovea il re far passag-gio, e che tenga pronte le vittovaglie a lui e al suo segui-to necessarie; nell'altra ordina a Massimiano vicario diRoma, che dovendo il re venirsene a Roma faccia gittarsul Tevere un fermo e ben rassodato ponte. Ma come

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Opinioni di m. de Sant-Marc confutate.

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può egli provare m. de Saint-Marc che Cassiodoro quiparli di Teodorico? Egli non nomina il re che dee entrarein Roma, e le accennate lettere non ci danno indicio al-cuno a conoscere chi egli si fosse. Ma ben abbiamo daaltre lettere di Cassiodoro non solo indicj, ma argomentichiarissimi a dimostrare ch'egli non ebbe mai da Teodo-rico la carica di prefetto del pretorio. Nella lettera giàmentovata di sopra, in cui Atalarico ad essa lo innalza, ein quella scritta per questo stesso fine al senato, ei ram-menta bensì le altre dignità di cui Cassiodoro era statoonorato, ma di quella di prefetto del pretorio ei non famotto; benchè pure accenni, come abbiam detto, che alpadre di lui era essa stata conferita. È egli possibile chein tal occasione Atalarico non volesse mentovare cheCassiodoro avea altra volta goduto di questo onore? Ame sembra dunque evidente che solo a' tempi di Atalari-co Cassiodoro fosse nominato prefetto del pretorio. Equindi l'argomento addotto da m. de Saint-Marc non ba-sta a provare che Cassiodoro fosse alla corte di Teodori-co prima dell'an. 509, nel qual anno solamente noi cre-diamo probabile ch'ei vi fosse chiamato. E se egli eranato, come affermano la più parte degli scrittori, verso il480, a ragione Atalarico affermò che giovane ancoraegli era stato innalzato alla dignità di questore, perchènon contava che circa 30 anni di età.

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può egli provare m. de Saint-Marc che Cassiodoro quiparli di Teodorico? Egli non nomina il re che dee entrarein Roma, e le accennate lettere non ci danno indicio al-cuno a conoscere chi egli si fosse. Ma ben abbiamo daaltre lettere di Cassiodoro non solo indicj, ma argomentichiarissimi a dimostrare ch'egli non ebbe mai da Teodo-rico la carica di prefetto del pretorio. Nella lettera giàmentovata di sopra, in cui Atalarico ad essa lo innalza, ein quella scritta per questo stesso fine al senato, ei ram-menta bensì le altre dignità di cui Cassiodoro era statoonorato, ma di quella di prefetto del pretorio ei non famotto; benchè pure accenni, come abbiam detto, che alpadre di lui era essa stata conferita. È egli possibile chein tal occasione Atalarico non volesse mentovare cheCassiodoro avea altra volta goduto di questo onore? Ame sembra dunque evidente che solo a' tempi di Atalari-co Cassiodoro fosse nominato prefetto del pretorio. Equindi l'argomento addotto da m. de Saint-Marc non ba-sta a provare che Cassiodoro fosse alla corte di Teodori-co prima dell'an. 509, nel qual anno solamente noi cre-diamo probabile ch'ei vi fosse chiamato. E se egli eranato, come affermano la più parte degli scrittori, verso il480, a ragione Atalarico affermò che giovane ancoraegli era stato innalzato alla dignità di questore, perchènon contava che circa 30 anni di età.

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VIII. Non furon però questi soli gli onori acui il celebre Cassiodoro fu sollevato daTeodorico. Ebbe ancora quello di maestrodegli ufficj del sacro palazzo, che noi oradiremmo gran ciambellano. Di tal dignità

dice Atalarico nelle più volte citate lettere, ch'ei trovolloadorno, quando salì all'impero; e aggiugne ch'egli eragiudice famigliare e cortigiano domestico di Teodorico:egisti rerum domino judicem familiarem et internumprocerem; colle quali parole io credo che non una nuovadignità si accenni, che venissegli conferita, ma solo laconfidenza e la famigliarità del principe, di cui godeva.Troviamo innoltre ne' Fasti Capitolini all'an. 514 nomi-nato Cassiodoro solo console; ed è certo ch'ei fu il no-stro, poichè egli stesso parla nella sua Cronaca di questosuo consolato appunto in quest'anno. Nè vale qui, a miocredere, l'argomento di noi recato a provare che il nostroCassiodoro non fu nè conte delle private rendite, nè del-le regie donazioni, nè prefetto del pretorio sotto Teodo-rico; cioè il non farsi motto di queste cariche da Atalari-co nell'innalzare ch'ei fa Cassiodoro alla suddetta digni-tà di prefetto del pretorio. Perciocchè tutte queste erano,direm così, cariche di palazzo, e che aveano relazioneimmediata al servigio del principe; non così quella delconsole, ch'era carica della repubblica; ne è perciò ma-raviglia che da Atalarico non fosse rammentata.

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Altri onori conferiti daTeodorico aCassiodoro.

VIII. Non furon però questi soli gli onori acui il celebre Cassiodoro fu sollevato daTeodorico. Ebbe ancora quello di maestrodegli ufficj del sacro palazzo, che noi oradiremmo gran ciambellano. Di tal dignità

dice Atalarico nelle più volte citate lettere, ch'ei trovolloadorno, quando salì all'impero; e aggiugne ch'egli eragiudice famigliare e cortigiano domestico di Teodorico:egisti rerum domino judicem familiarem et internumprocerem; colle quali parole io credo che non una nuovadignità si accenni, che venissegli conferita, ma solo laconfidenza e la famigliarità del principe, di cui godeva.Troviamo innoltre ne' Fasti Capitolini all'an. 514 nomi-nato Cassiodoro solo console; ed è certo ch'ei fu il no-stro, poichè egli stesso parla nella sua Cronaca di questosuo consolato appunto in quest'anno. Nè vale qui, a miocredere, l'argomento di noi recato a provare che il nostroCassiodoro non fu nè conte delle private rendite, nè del-le regie donazioni, nè prefetto del pretorio sotto Teodo-rico; cioè il non farsi motto di queste cariche da Atalari-co nell'innalzare ch'ei fa Cassiodoro alla suddetta digni-tà di prefetto del pretorio. Perciocchè tutte queste erano,direm così, cariche di palazzo, e che aveano relazioneimmediata al servigio del principe; non così quella delconsole, ch'era carica della repubblica; ne è perciò ma-raviglia che da Atalarico non fosse rammentata.

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Altri onori conferiti daTeodorico aCassiodoro.

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IX. Di questi onori, e del favore di cui go-deva presso di Teodorico, saggiamente sigiovò Cassiodoro ad ispirare nell'animo diquesto principe que' sentimenti di stimaper gli studj delle bell'arti e degli uominidotti, che dalla barbara e rozza sua educa-zione ei non poteva aver ricevuti. Perciò

egli, valendosi del facile e frequente accesso al re, chegli davano i suoi impieghi, trattenevalo spesso in saggied eruditi ragionamenti; e l'ottimo principe godeva eglistesso d'interrogarlo or delle massime de' più saggi filo-sofi, a cui potesse egli ancor conformarsi, or di varie na-turali quistioni, del corso delle stelle, della natura de'fonti e del mare, e di altre somiglianti cose (l. 9 Var. ep.24). Quindi ne venne il favore da lui prestato alle lettere,e l'impegno con cui fomentò sempre gli studj. Cassiodo-ro a nome di lui scriveva le lettere e gli editti, e sapendodi far cosa a lui gradita, ad ogni occasione esaltava conampie lodi i coltivator delle scienze. Ei chiama Roma lacittà delle lettere (l. 5 Var. ep. 22), madre dell'eloquenzae tempio delle virtù tutte (l. 4 Var. ep. 6). Sollevando Ve-nanzio alla carica di conte de' domestici, più che ognialtra cosa commenda in lui la letteratura di cui era ador-no (l. 2 Var. ep. 15); e questa pure loda singolarmente inArmentario e in Superbo di lui figliuolo, cui sollevaall'onore di senatori (l. 3 Var. ep. 33). Così dicasi di piùaltre lettere in cui s'incontrano somiglianti espressioniindirizzate a risvegliare l'antico fervore nel coltivamentodelle bell'arti. Quindi ancora veggiamo che anche a que-

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Questi ispira a Teodorico l'amor per le lettere, e la munificenza verso i loro coltivatori.

IX. Di questi onori, e del favore di cui go-deva presso di Teodorico, saggiamente sigiovò Cassiodoro ad ispirare nell'animo diquesto principe que' sentimenti di stimaper gli studj delle bell'arti e degli uominidotti, che dalla barbara e rozza sua educa-zione ei non poteva aver ricevuti. Perciò

egli, valendosi del facile e frequente accesso al re, chegli davano i suoi impieghi, trattenevalo spesso in saggied eruditi ragionamenti; e l'ottimo principe godeva eglistesso d'interrogarlo or delle massime de' più saggi filo-sofi, a cui potesse egli ancor conformarsi, or di varie na-turali quistioni, del corso delle stelle, della natura de'fonti e del mare, e di altre somiglianti cose (l. 9 Var. ep.24). Quindi ne venne il favore da lui prestato alle lettere,e l'impegno con cui fomentò sempre gli studj. Cassiodo-ro a nome di lui scriveva le lettere e gli editti, e sapendodi far cosa a lui gradita, ad ogni occasione esaltava conampie lodi i coltivator delle scienze. Ei chiama Roma lacittà delle lettere (l. 5 Var. ep. 22), madre dell'eloquenzae tempio delle virtù tutte (l. 4 Var. ep. 6). Sollevando Ve-nanzio alla carica di conte de' domestici, più che ognialtra cosa commenda in lui la letteratura di cui era ador-no (l. 2 Var. ep. 15); e questa pure loda singolarmente inArmentario e in Superbo di lui figliuolo, cui sollevaall'onore di senatori (l. 3 Var. ep. 33). Così dicasi di piùaltre lettere in cui s'incontrano somiglianti espressioniindirizzate a risvegliare l'antico fervore nel coltivamentodelle bell'arti. Quindi ancora veggiamo che anche a que-

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Questi ispira a Teodorico l'amor per le lettere, e la munificenza verso i loro coltivatori.

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sti tempi venivan molti per tal motivo a Roma da lontanipaesi, e intorno ad essi avea Teodorico saggiamente or-dinato che non si partisser da Roma senza il suo consen-timento (l. 1 Var. ep. 39; l. 4, ep. 6) per accertarsi ch'essiavessero compito il corso de' loro studj. A questi gene-rosi suoi sentimenti par nondimeno che si opponga ciòche narra Procopio (l. 1 de Bello goth. c. 1) cioè ch'eivietò che i suoi Goti andassero alle pubbliche scuole,perchè il timor della sferza non li rendesse poi vili allabattaglia. Ma tutto il fin qui detto non ci lascia dar fedea un tale racconto. E certo diversamente ei si contennecolla sua figliuola Amalasunta cui fece diligentementeistruire negli studj d'ogni maniera, come raccogliam dauna lettera di Teodato successore di Atalarico (l. 10 Var.ep. 4.), e da un'altra del medesimo Cassiodoro (l. 11 Var.ep. 1). Noi vedrem finalmente molti uomini dotti di que-sti tempi, dei quali dovrem or or favellare, sollevati daTeodorico in premio del lor sapere ad onorevoli cariche.

X. In tal maniera il gran Cassiodoro sep-pe render favorevole alle scienze unprincipe da cui pareva ch'esse dovessertemere danno e rovine. Gli ultimi dueanni della vita di Teodorico furono i soli

che alla sua gloria riusciron funesti; poichè in essi si la-sciò trasportare ad atti di crudeltà e d'ingiustizia, da cuisi era fin allora tenuto lodevolmente lontano. Fra questifu l'uccision di Boezio di cui ragionerem tra' filosofi di

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Se Cassiodoro siritirasse dalla corte dopo la morte di Boezio.

sti tempi venivan molti per tal motivo a Roma da lontanipaesi, e intorno ad essi avea Teodorico saggiamente or-dinato che non si partisser da Roma senza il suo consen-timento (l. 1 Var. ep. 39; l. 4, ep. 6) per accertarsi ch'essiavessero compito il corso de' loro studj. A questi gene-rosi suoi sentimenti par nondimeno che si opponga ciòche narra Procopio (l. 1 de Bello goth. c. 1) cioè ch'eivietò che i suoi Goti andassero alle pubbliche scuole,perchè il timor della sferza non li rendesse poi vili allabattaglia. Ma tutto il fin qui detto non ci lascia dar fedea un tale racconto. E certo diversamente ei si contennecolla sua figliuola Amalasunta cui fece diligentementeistruire negli studj d'ogni maniera, come raccogliam dauna lettera di Teodato successore di Atalarico (l. 10 Var.ep. 4.), e da un'altra del medesimo Cassiodoro (l. 11 Var.ep. 1). Noi vedrem finalmente molti uomini dotti di que-sti tempi, dei quali dovrem or or favellare, sollevati daTeodorico in premio del lor sapere ad onorevoli cariche.

X. In tal maniera il gran Cassiodoro sep-pe render favorevole alle scienze unprincipe da cui pareva ch'esse dovessertemere danno e rovine. Gli ultimi dueanni della vita di Teodorico furono i soli

che alla sua gloria riusciron funesti; poichè in essi si la-sciò trasportare ad atti di crudeltà e d'ingiustizia, da cuisi era fin allora tenuto lodevolmente lontano. Fra questifu l'uccision di Boezio di cui ragionerem tra' filosofi di

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Se Cassiodoro siritirasse dalla corte dopo la morte di Boezio.

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questo tempo, che accadde l'anno 524. M. de Saint-Marc. pensa (Abr. ec. t. 1, ad an. 524) che a questa occa-sione il nostro Cassiodoro si ritirasse dalla corte, e nereca in pruova la lettera con cui Teodorico ad essa il ri-chiama (l. 3 Var. ep. 28). Ma noi abbiam già mostratoche questa lettera fu diretta al padre. E veramente, oltrele ragioni che ne abbiamo recate, si rifletta di grazia.Questa lettera è scritta certamente dal nostro Cassiodoroa nome di Teodorico, poichè egli l'ha inserita tra quelleche a nome de' suoi sovrani egli avea scritte. Or come èdunque possibile che Cassiodoro ritiratosi dalla cortescrivesse questa lettera a nome di Teodorico, con cui ri-chiamarvi se stesso? Questa riflessione a me pare chenon lasci luogo ad alcun dubbio su tal quistione. Il padredunque del nostro Cassiodoro fu quegli che forse allorasi allontanò da Teodorico; benchè, se le lettere di Cas-siodoro son disposte, come sembra probabile, secondol'ordin dei tempi, non pare che ciò possa asserirsi; poi-chè dopo la morte di Boezio Teodorico non sopravvisseche due anni; e dopo la lettera che si suppone scritta perrichiamarne il padre alla corte, veggiamo altre lettere inmaggior numero, che non sono le scritte prima; e sem-bra perciò che più assai di due anni passasser di mezzotra il richiamo alla corte di Cassiodoro il padre, e lamorte di Teodorico. Ma ciò poco monta al nostro argo-mento.

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questo tempo, che accadde l'anno 524. M. de Saint-Marc. pensa (Abr. ec. t. 1, ad an. 524) che a questa occa-sione il nostro Cassiodoro si ritirasse dalla corte, e nereca in pruova la lettera con cui Teodorico ad essa il ri-chiama (l. 3 Var. ep. 28). Ma noi abbiam già mostratoche questa lettera fu diretta al padre. E veramente, oltrele ragioni che ne abbiamo recate, si rifletta di grazia.Questa lettera è scritta certamente dal nostro Cassiodoroa nome di Teodorico, poichè egli l'ha inserita tra quelleche a nome de' suoi sovrani egli avea scritte. Or come èdunque possibile che Cassiodoro ritiratosi dalla cortescrivesse questa lettera a nome di Teodorico, con cui ri-chiamarvi se stesso? Questa riflessione a me pare chenon lasci luogo ad alcun dubbio su tal quistione. Il padredunque del nostro Cassiodoro fu quegli che forse allorasi allontanò da Teodorico; benchè, se le lettere di Cas-siodoro son disposte, come sembra probabile, secondol'ordin dei tempi, non pare che ciò possa asserirsi; poi-chè dopo la morte di Boezio Teodorico non sopravvisseche due anni; e dopo la lettera che si suppone scritta perrichiamarne il padre alla corte, veggiamo altre lettere inmaggior numero, che non sono le scritte prima; e sem-bra perciò che più assai di due anni passasser di mezzotra il richiamo alla corte di Cassiodoro il padre, e lamorte di Teodorico. Ma ciò poco monta al nostro argo-mento.

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XI. Teodorico morto l'an. 516 non avea al-lora altri figli che Amalasunta, e questa ma-ritata con Eutarico avea un figlio di soli 10anni non ancora compiti, detto Atalarico.Questi dunque sotto la reggenza della madrefu dichiarato re d'Italia. Amalasunta donnaper coraggio, per accorgimento, per senno

degna di andar del pari colle più illustri reine, ebbe ellapure in gran pregio, e presso di sè ritenne il gran Cassio-doro, il quale nel nuovo regno continuò a' provvederecol medesimo zelo al vantaggio e alla gloria de' suoi so-vrani, di tutta l'Italia e delle scienze. Io non rammenteròqui la saggia condotta da lui tenuta ne' principj del regnodi Atalarico per prevenire qualunque movimento nemi-co della corte di Costantinopoli; il correre che egli fecele spiaggie tutte del mare perchè fossero ben guardate;l'accordar grazie a' popoli per tenerli cheti e contenti; ilmantenere a sue proprie spese le truppe per non aggra-vare nè il regio erario nè i sudditi; ed altre sì fatte impre-se che son rammentate in una lettera di Atalarico (l. 9Var. ep. 25), ma che non appartengono al mio argomen-to. Io debbo solo osservare ciò che a vantaggio de' buonistudj egli ottenne dal re e dalla reggente. Questa bendiede a vedere in qual conto avesse le lettere perciocchèpose al fianco del giovane Atalarico uomini dotti che loistruissero nelle scienze. Ma i Goti, uomini allevati trale barbarie e che altro studio non avevano in pregio chequel dell'armi, mal volentieri sofferivano un re erudito.Perciò alcuni dei principali tra loro dissero arditamente

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Ministero glorioso di Cassiodoro nel regno diAmalasuntae di Atala-rico.

XI. Teodorico morto l'an. 516 non avea al-lora altri figli che Amalasunta, e questa ma-ritata con Eutarico avea un figlio di soli 10anni non ancora compiti, detto Atalarico.Questi dunque sotto la reggenza della madrefu dichiarato re d'Italia. Amalasunta donnaper coraggio, per accorgimento, per senno

degna di andar del pari colle più illustri reine, ebbe ellapure in gran pregio, e presso di sè ritenne il gran Cassio-doro, il quale nel nuovo regno continuò a' provvederecol medesimo zelo al vantaggio e alla gloria de' suoi so-vrani, di tutta l'Italia e delle scienze. Io non rammenteròqui la saggia condotta da lui tenuta ne' principj del regnodi Atalarico per prevenire qualunque movimento nemi-co della corte di Costantinopoli; il correre che egli fecele spiaggie tutte del mare perchè fossero ben guardate;l'accordar grazie a' popoli per tenerli cheti e contenti; ilmantenere a sue proprie spese le truppe per non aggra-vare nè il regio erario nè i sudditi; ed altre sì fatte impre-se che son rammentate in una lettera di Atalarico (l. 9Var. ep. 25), ma che non appartengono al mio argomen-to. Io debbo solo osservare ciò che a vantaggio de' buonistudj egli ottenne dal re e dalla reggente. Questa bendiede a vedere in qual conto avesse le lettere perciocchèpose al fianco del giovane Atalarico uomini dotti che loistruissero nelle scienze. Ma i Goti, uomini allevati trale barbarie e che altro studio non avevano in pregio chequel dell'armi, mal volentieri sofferivano un re erudito.Perciò alcuni dei principali tra loro dissero arditamente

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Ministero glorioso di Cassiodoro nel regno diAmalasuntae di Atala-rico.

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ad Amalasunta, che essi non si curavano d'avere un redotto, ma sì di averlo guerriero e queste due cose potersidifficilmente insieme congiungere. Amalasunta aveatroppo a temere della ferocia de' suoi per potergli offen-dere con un rifiuto (Procop. de Bello goth. l. 1, c. 1). Siarrese ella dunque alle loro istanze. Atalarico fu allevatoalla gotica; e Amalasunta fu la prima a portarne la pena.Ma perchè ella frattanto, reggeva il regno, continuò amostrarsi favorevole a' coltivatori delle scienze. Quindiper cancellare in qualche maniera il delitto di Teodoricocommesso nell'uccision di Boezio, a' figliuoli di lui nonmeno, che a que' di Simmaco, rendè i beni paternich'erano stati confiscati (ib.).

XII. Ma assai più glorioso alla memoria diAmalasunta e del suo ministro Cassiodorosi è l'editto che a nome di Atalarico fu pub-blicato intorno a' professori delle scuole ro-mane. Fin dagli ultimi anni dell'impero oc-

cidentale, come abbiamo altrove osservato, si era per lepubbliche calamità de' tempi sospeso il pagamentodell'annuo stipendio per antica legge loro assegnato.Atalarico perciò diè ordine al senato, che in avvenire iprofessori di gramatica, di eloquenza e di legge (chequesti soli veggiam da lui nominati) ricevessero annual-mente ciò che lor si doveva; perciocchè dice egli, dopoaver lungamente parlato delle lodi e dei vantaggi di que-ste scienze, "se noi a sollevare il popolo co' teatrali spet-

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Favore da essi accor-dato alle scienze ed ai dotti.

ad Amalasunta, che essi non si curavano d'avere un redotto, ma sì di averlo guerriero e queste due cose potersidifficilmente insieme congiungere. Amalasunta aveatroppo a temere della ferocia de' suoi per potergli offen-dere con un rifiuto (Procop. de Bello goth. l. 1, c. 1). Siarrese ella dunque alle loro istanze. Atalarico fu allevatoalla gotica; e Amalasunta fu la prima a portarne la pena.Ma perchè ella frattanto, reggeva il regno, continuò amostrarsi favorevole a' coltivatori delle scienze. Quindiper cancellare in qualche maniera il delitto di Teodoricocommesso nell'uccision di Boezio, a' figliuoli di lui nonmeno, che a que' di Simmaco, rendè i beni paternich'erano stati confiscati (ib.).

XII. Ma assai più glorioso alla memoria diAmalasunta e del suo ministro Cassiodorosi è l'editto che a nome di Atalarico fu pub-blicato intorno a' professori delle scuole ro-mane. Fin dagli ultimi anni dell'impero oc-

cidentale, come abbiamo altrove osservato, si era per lepubbliche calamità de' tempi sospeso il pagamentodell'annuo stipendio per antica legge loro assegnato.Atalarico perciò diè ordine al senato, che in avvenire iprofessori di gramatica, di eloquenza e di legge (chequesti soli veggiam da lui nominati) ricevessero annual-mente ciò che lor si doveva; perciocchè dice egli, dopoaver lungamente parlato delle lodi e dei vantaggi di que-ste scienze, "se noi a sollevare il popolo co' teatrali spet-

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Favore da essi accor-dato alle scienze ed ai dotti.

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tacoli rivolgiam le nostre ricchezze, e di queste godoncoloro che ne sono men degni, quanto più ne son meri-tevoli quelli che formano alla città uomini ben costuma-ti, e uomini eloquenti e dotti alla nostra corte? (l. 9 Var.ep. 21)" Noi veggiamo innoltre a' tempi di Atalaricoonorati egualmente gli uomini dotti, e premiati ampia-mente gli studj loro come raccogliesi dalle lettere concui egli solleva Aratore di cui poscia ragioneremo, alladignità di conte de' domestici (l. 8 Var. ep. 13), e Felicea quella di questore del sacro palazzo (ib. ep. 18), e dapiù altre che parimenti si porrebbano arrecare. Cassio-doro stesso fu da lui innalzato a una delle più ragguarde-voli dignità che fossero allora, cioè alla prefettura deipretorio (l. 9. Var. ep. 24). Abbiam già di sopra mostratoche fu questa la prima volta in cui Cassiodoro fu di talcarica onorato. E ciò avvenne l'an. 534, com'è evidentedalla XII indizione che cadeva appunto in quest'anno,segnata da Atalarico nelle lettere scritte in tal occasione.In fatti la seconda delle lettore scritte da Cassiodoro,mentre era prefetto, è indirizzata a Giovanni papa (l. 11,Var. ep. 2), e in essi parla di se medesimo come di re-centemente innalzato a tal dignità; e con cristiana mode-stia gli chiede l'ajuto de' suoi consigli non meno che del-le sue preghiere. Or questi non potè esser Giovanni Iche morì qualche mese prima di Teodorico prigione inRavenna. Fu dunque Giovanni II eletto pontefice versola fine dell'anno 532. E innoltre la lettere con cui Atala-rico gli conferisce tal carica, è l'ultima di quelle che anome di lui furono scritte da Cassiodoro. Ed egli morì

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tacoli rivolgiam le nostre ricchezze, e di queste godoncoloro che ne sono men degni, quanto più ne son meri-tevoli quelli che formano alla città uomini ben costuma-ti, e uomini eloquenti e dotti alla nostra corte? (l. 9 Var.ep. 21)" Noi veggiamo innoltre a' tempi di Atalaricoonorati egualmente gli uomini dotti, e premiati ampia-mente gli studj loro come raccogliesi dalle lettere concui egli solleva Aratore di cui poscia ragioneremo, alladignità di conte de' domestici (l. 8 Var. ep. 13), e Felicea quella di questore del sacro palazzo (ib. ep. 18), e dapiù altre che parimenti si porrebbano arrecare. Cassio-doro stesso fu da lui innalzato a una delle più ragguarde-voli dignità che fossero allora, cioè alla prefettura deipretorio (l. 9. Var. ep. 24). Abbiam già di sopra mostratoche fu questa la prima volta in cui Cassiodoro fu di talcarica onorato. E ciò avvenne l'an. 534, com'è evidentedalla XII indizione che cadeva appunto in quest'anno,segnata da Atalarico nelle lettere scritte in tal occasione.In fatti la seconda delle lettore scritte da Cassiodoro,mentre era prefetto, è indirizzata a Giovanni papa (l. 11,Var. ep. 2), e in essi parla di se medesimo come di re-centemente innalzato a tal dignità; e con cristiana mode-stia gli chiede l'ajuto de' suoi consigli non meno che del-le sue preghiere. Or questi non potè esser Giovanni Iche morì qualche mese prima di Teodorico prigione inRavenna. Fu dunque Giovanni II eletto pontefice versola fine dell'anno 532. E innoltre la lettere con cui Atala-rico gli conferisce tal carica, è l'ultima di quelle che anome di lui furono scritte da Cassiodoro. Ed egli morì

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appunto l'an. 534, e poscia l'anno seguente morì il pon-tef. Giovanni II.

XIII. Queste sagge disposizioni di Atalaricoci persuaderebbono facilmente ch'ei fosseprincipe nato alla felicità dell'Italia. Ma tuttala lode se ne dovea ad Amalasunta e a Cas-siodoro. Egli giovane abbandonato a' vizid'ogni maniera finì in età di soli 18 anni la

vita, come si è detto l'an. 534. Teodato figlio di Amala-freda sorella di Teodorico fu per opera di Amalasuntasollevato al trono. Se in lui non avessimo a rimirare chele scienze e gli studj, noi avremmo a parlarne con gran-de elogio. Non solo egli avea coltivata la latina letteratu-ra, ma nella filosofia ancora, e in quella di Platone sin-golarmente, era bene istruito, e ne facea le sue delicie(Procop. de Bello goth. l. 1, c. 3). Ma in mezzo alle let-tere e alla filosofia era uomo scellerato, codardo, avaro,e, nell'arte della guerra del tutto inesperto. E ben diedeegli tosto a vedere il malvagio suo animo col rilegarenel primo anno del suo regno in una isoletta del lago diBolsena la regina Amalasunta, ov'ella poco appresso oper comando, o col consenso di lui fu strozzata. Ei non-dimeno tenne ancor Cassiodoro alla corte, e di lui si val-se a suo segretario, e il mantenne nella prefettura delpretorio, come dalle lettere da lui scritte a nome di que-sto re e a nome suo ancora si raccoglie (l. 10. Var. ep.11, 12). Frattanto Giustiniano imperador d'Oriente, che

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Regno di Teodato e di Vitige: Cassiodoro ritirasi dallacorte.

appunto l'an. 534, e poscia l'anno seguente morì il pon-tef. Giovanni II.

XIII. Queste sagge disposizioni di Atalaricoci persuaderebbono facilmente ch'ei fosseprincipe nato alla felicità dell'Italia. Ma tuttala lode se ne dovea ad Amalasunta e a Cas-siodoro. Egli giovane abbandonato a' vizid'ogni maniera finì in età di soli 18 anni la

vita, come si è detto l'an. 534. Teodato figlio di Amala-freda sorella di Teodorico fu per opera di Amalasuntasollevato al trono. Se in lui non avessimo a rimirare chele scienze e gli studj, noi avremmo a parlarne con gran-de elogio. Non solo egli avea coltivata la latina letteratu-ra, ma nella filosofia ancora, e in quella di Platone sin-golarmente, era bene istruito, e ne facea le sue delicie(Procop. de Bello goth. l. 1, c. 3). Ma in mezzo alle let-tere e alla filosofia era uomo scellerato, codardo, avaro,e, nell'arte della guerra del tutto inesperto. E ben diedeegli tosto a vedere il malvagio suo animo col rilegarenel primo anno del suo regno in una isoletta del lago diBolsena la regina Amalasunta, ov'ella poco appresso oper comando, o col consenso di lui fu strozzata. Ei non-dimeno tenne ancor Cassiodoro alla corte, e di lui si val-se a suo segretario, e il mantenne nella prefettura delpretorio, come dalle lettere da lui scritte a nome di que-sto re e a nome suo ancora si raccoglie (l. 10. Var. ep.11, 12). Frattanto Giustiniano imperador d'Oriente, che

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Regno di Teodato e di Vitige: Cassiodoro ritirasi dallacorte.

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mal volentieri vedeva l'Italia in man de' Goti, sotto pre-testo di vendicare la morte di Amalasunta mosse guerraa Teodato, e l'an. 536 pose piede in Italia coll'esercitoimperiale il celebre Belisario che già avea soggiogata erenduta all'imperador la Sicilia, e diè principio alla piùarrabbiata e più orrenda guerra che mai si vedesse, laquale per lo spazio di 17 anni devastò per tal modol'infelice Italia, che per più secoli non potè risorgere eriaversi dalle sofferte sciagure. Teodato timido e vile sirendette sì odioso e sì spregevole a' suoi, che Vitige dalui fatto general dell'esercito fu da' soldati lo stesso an.536 acclamato re, e Teodato rifugiatosi a Ravenna vi fuucciso. Vitige servissi egli pure dell'opera di Cassiodo-ro; ma le poche lettere che abbiam da lui scritte a nomedi questo re (l. 10. Var. ep. 31, ec.), ci fan conoscerech'egli, veggendo lo sconvolgimento in cui la guerra po-neva l'Italia tutta, presto si ritirò dalla corte, e abbando-nate le luminose cariche di cui godeva, andò a nascon-dersi nel monastero, ove fra l'esercizio delle cristianevirtù, e fra l'erudite sue fatiche passò il rimanente dellasua vita. Di ciò ch'egli ivi operasse a coltivare e a pro-muover le scienze, ragioneremo nel capo seguente, ovedegli studi sacri dovrem favellare. Ma prima d'innoltrar-ci, due cose ci rimangono a esaminare che appartengonoa' tempi in cui Cassiodoro fu alla corte, cioè primiera-mente quali opere in questo tempo ei componesse; e insecondo luogo per qual motivo egli abbandonasse lacorte.

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mal volentieri vedeva l'Italia in man de' Goti, sotto pre-testo di vendicare la morte di Amalasunta mosse guerraa Teodato, e l'an. 536 pose piede in Italia coll'esercitoimperiale il celebre Belisario che già avea soggiogata erenduta all'imperador la Sicilia, e diè principio alla piùarrabbiata e più orrenda guerra che mai si vedesse, laquale per lo spazio di 17 anni devastò per tal modol'infelice Italia, che per più secoli non potè risorgere eriaversi dalle sofferte sciagure. Teodato timido e vile sirendette sì odioso e sì spregevole a' suoi, che Vitige dalui fatto general dell'esercito fu da' soldati lo stesso an.536 acclamato re, e Teodato rifugiatosi a Ravenna vi fuucciso. Vitige servissi egli pure dell'opera di Cassiodo-ro; ma le poche lettere che abbiam da lui scritte a nomedi questo re (l. 10. Var. ep. 31, ec.), ci fan conoscerech'egli, veggendo lo sconvolgimento in cui la guerra po-neva l'Italia tutta, presto si ritirò dalla corte, e abbando-nate le luminose cariche di cui godeva, andò a nascon-dersi nel monastero, ove fra l'esercizio delle cristianevirtù, e fra l'erudite sue fatiche passò il rimanente dellasua vita. Di ciò ch'egli ivi operasse a coltivare e a pro-muover le scienze, ragioneremo nel capo seguente, ovedegli studi sacri dovrem favellare. Ma prima d'innoltrar-ci, due cose ci rimangono a esaminare che appartengonoa' tempi in cui Cassiodoro fu alla corte, cioè primiera-mente quali opere in questo tempo ei componesse; e insecondo luogo per qual motivo egli abbandonasse lacorte.

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XIV. Delle opere da Cassiodoro composteragiona Atalarico nella lettera scritta al se-nato, quando lo sollevò alla prefettura preto-riana (l. 9. Var. ep. 25). E in primo luogorammenta le diverse orazioni panegiriche

innanzi a diversi principi da lui recitate, e poscia i libridella Storia de' Goti da lui composti, ne' quali svolgevaper diciassette generazioni la serie de' lor sovrani. Delleune e degli altri fa menzione il medesimo Cassiodoronella prefazione alle sue lettere, e della seconda operadice ch'era divisa in dodici libri. Noi dobbiamo dolercidi averla perduta, poichè intorno alla storia di questa na-zione assai meglio ci avrebbe egli istruiti, che non altriscrittori. Delle orazioni ancora da lui recitate nulla ci èrimasto. Fin da' tempi di Teodorico innoltre egli scrissela breve sua Cronaca dal principio del mondo sinoall'anno di Cristo 519, opera in cui s'incontrano errori einesattezze in buon numero; ma che da molti nonall'autore si attribuiscono, ma a' copiatori. Era egli anco-ra prefetto del pretorio, quando scrisse il libro della Na-tura dell'Anima, di cui fa egli stesso menzione nella pre-fazione all'XI libro delle sue lettere. Finalmente essendoancora nella medesima dignità, per soddisfare agli amiciraccolse e pubblicò divise in dodici libri tutte le lettereche nel tempo del suo ministero egli avea scritte. E i pri-mi cinque libri contengon le scritte a nome di Teodori-co; il sesto e il settimo le formole che si usavano nelconferire per lettera le cariche del palazzo e della repub-blica; i tre seguenti le lettere scritte a nome di Atalarico,

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Opere da lui scritte nel tempo del suo mi-nistero.

XIV. Delle opere da Cassiodoro composteragiona Atalarico nella lettera scritta al se-nato, quando lo sollevò alla prefettura preto-riana (l. 9. Var. ep. 25). E in primo luogorammenta le diverse orazioni panegiriche

innanzi a diversi principi da lui recitate, e poscia i libridella Storia de' Goti da lui composti, ne' quali svolgevaper diciassette generazioni la serie de' lor sovrani. Delleune e degli altri fa menzione il medesimo Cassiodoronella prefazione alle sue lettere, e della seconda operadice ch'era divisa in dodici libri. Noi dobbiamo dolercidi averla perduta, poichè intorno alla storia di questa na-zione assai meglio ci avrebbe egli istruiti, che non altriscrittori. Delle orazioni ancora da lui recitate nulla ci èrimasto. Fin da' tempi di Teodorico innoltre egli scrissela breve sua Cronaca dal principio del mondo sinoall'anno di Cristo 519, opera in cui s'incontrano errori einesattezze in buon numero; ma che da molti nonall'autore si attribuiscono, ma a' copiatori. Era egli anco-ra prefetto del pretorio, quando scrisse il libro della Na-tura dell'Anima, di cui fa egli stesso menzione nella pre-fazione all'XI libro delle sue lettere. Finalmente essendoancora nella medesima dignità, per soddisfare agli amiciraccolse e pubblicò divise in dodici libri tutte le lettereche nel tempo del suo ministero egli avea scritte. E i pri-mi cinque libri contengon le scritte a nome di Teodori-co; il sesto e il settimo le formole che si usavano nelconferire per lettera le cariche del palazzo e della repub-blica; i tre seguenti le lettere scritte a nome di Atalarico,

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Opere da lui scritte nel tempo del suo mi-nistero.

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di Amalasunta, di Teodato, e di Vitige; gli ultimi duequelle ch'egli stesso, essendo prefetto, avea scritte. Tuttequeste lettere sono un pregevole monumento della storiadi questi tempi. Esse insieme ci mostrano l'egregio e vir-tuoso carattere di Cassiodoro, in cui sempre si scorge unministro ugualmente sollecito per l'onor de' sovrani epel vantaggio de' sudditi, e dotato di una probità incor-rotta, di una saggia prudenza di una religion soda e ve-race. Lo stile ha un'armonia, una sintassi, un fraseggiarecosì tutto suo proprio, ch'io non saprei meglio diffinirlo,che col nome di barbara eleganza. Le digressioni e leamplificazioni vi sono così frequenti che parmi vedereun uomo, che vivendo tra' Barbari vuol far pompa delsuo sapere, e col mostrar loro quanto egli sappia, fargliarrossire della loro ignoranza. E forse egli così facevaanche per risvegliare in tal modo tra essi l'amor dellescienze. Egli certo non ommise alcuno che potesse essergiovevole; e a lui dobbiamo singolarmente se, finchè fualla corte fiorirono, come vedremo, gli studj in Italia,più ancora che in altre età l'addietro; benchè la barbariede' popoli che la innondavano, alterasse notabilmente ilgusto non men che lo stile degli scrittori. Or passiamoall'altra questione.

XV. Tutti gli scrittori avean finora attri-buito il ritiro di Cassiodoro alle turbolen-ze da cui era allora sconvolta l'Italia, e aun sincero desiderio di servir meglio a

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Difesa di Cas-siodoro contro una calunniosa accusa di m. deSant-Marc.

di Amalasunta, di Teodato, e di Vitige; gli ultimi duequelle ch'egli stesso, essendo prefetto, avea scritte. Tuttequeste lettere sono un pregevole monumento della storiadi questi tempi. Esse insieme ci mostrano l'egregio e vir-tuoso carattere di Cassiodoro, in cui sempre si scorge unministro ugualmente sollecito per l'onor de' sovrani epel vantaggio de' sudditi, e dotato di una probità incor-rotta, di una saggia prudenza di una religion soda e ve-race. Lo stile ha un'armonia, una sintassi, un fraseggiarecosì tutto suo proprio, ch'io non saprei meglio diffinirlo,che col nome di barbara eleganza. Le digressioni e leamplificazioni vi sono così frequenti che parmi vedereun uomo, che vivendo tra' Barbari vuol far pompa delsuo sapere, e col mostrar loro quanto egli sappia, fargliarrossire della loro ignoranza. E forse egli così facevaanche per risvegliare in tal modo tra essi l'amor dellescienze. Egli certo non ommise alcuno che potesse essergiovevole; e a lui dobbiamo singolarmente se, finchè fualla corte fiorirono, come vedremo, gli studj in Italia,più ancora che in altre età l'addietro; benchè la barbariede' popoli che la innondavano, alterasse notabilmente ilgusto non men che lo stile degli scrittori. Or passiamoall'altra questione.

XV. Tutti gli scrittori avean finora attri-buito il ritiro di Cassiodoro alle turbolen-ze da cui era allora sconvolta l'Italia, e aun sincero desiderio di servir meglio a

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Difesa di Cas-siodoro contro una calunniosa accusa di m. deSant-Marc.

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Dio. Ma il sig. di Saint-Marc ha creduto di averne sco-perto un tutto altro motivo. Questo per altro ingegnosoassai e assai diligente scrittore ha talvolta abusato delsuo ingegno medesimo per oscurare la fama de' più ce-lebri personaggi con gittar dubbj, e risvegliare sospettiche altro fondamento non hanno, mi si permetta di dirlo,che un animo mal prevenuto e troppo facile a credere ilmale, ove avrebbe piacer di trovarlo. Udiam dunque ciòch'egli dice del ritiro di Cassiodoro (Abr. ec. t. 1, p.143): "Sembra che l'amore della solitudine, e il deside-rio di frapporre, come si dice, un intervallo tra la vita ela morte, siano stati i soli motivi che il condussero almonastero. Ma ciò non ostante il precipitoso suo ritirar-si, quando Vitige già era per soccombere sotto l'armi diBelisario; e rumor che i Goti, i quali dipendevan da Ma-tasunta figlia di Amalasunta e di Eutarico, volesserovendicar la morte di questa principessa, fan sospettareche per altri motivi egli abbandonasse la corte. La storianon dee dissimular cosa alcuna. La morte sì spedita diAmalasunta è un enimma difficile a sciogliere. Era egliTeodato abbastanza potente per sol concepirne il dise-gno? Cassiodoro che essendo da tanto tempo primo mi-nistro di Stato, dovea certo avere più credito che unprincipe disprezzato e di fresco salito al trono, non do-vea egli prender le opportune misure per impedir la di-sgrazia e la morte della figlia di Teodorico suo benefat-tore ed amico, di Amalasunta sua benefattrice ed amicaella pure? Debbo io dirlo? La morte di questa infelicereina sparge una cotal nuvola sulla vita di Cassiodoro,

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Dio. Ma il sig. di Saint-Marc ha creduto di averne sco-perto un tutto altro motivo. Questo per altro ingegnosoassai e assai diligente scrittore ha talvolta abusato delsuo ingegno medesimo per oscurare la fama de' più ce-lebri personaggi con gittar dubbj, e risvegliare sospettiche altro fondamento non hanno, mi si permetta di dirlo,che un animo mal prevenuto e troppo facile a credere ilmale, ove avrebbe piacer di trovarlo. Udiam dunque ciòch'egli dice del ritiro di Cassiodoro (Abr. ec. t. 1, p.143): "Sembra che l'amore della solitudine, e il deside-rio di frapporre, come si dice, un intervallo tra la vita ela morte, siano stati i soli motivi che il condussero almonastero. Ma ciò non ostante il precipitoso suo ritirar-si, quando Vitige già era per soccombere sotto l'armi diBelisario; e rumor che i Goti, i quali dipendevan da Ma-tasunta figlia di Amalasunta e di Eutarico, volesserovendicar la morte di questa principessa, fan sospettareche per altri motivi egli abbandonasse la corte. La storianon dee dissimular cosa alcuna. La morte sì spedita diAmalasunta è un enimma difficile a sciogliere. Era egliTeodato abbastanza potente per sol concepirne il dise-gno? Cassiodoro che essendo da tanto tempo primo mi-nistro di Stato, dovea certo avere più credito che unprincipe disprezzato e di fresco salito al trono, non do-vea egli prender le opportune misure per impedir la di-sgrazia e la morte della figlia di Teodorico suo benefat-tore ed amico, di Amalasunta sua benefattrice ed amicaella pure? Debbo io dirlo? La morte di questa infelicereina sparge una cotal nuvola sulla vita di Cassiodoro,

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che mi fa pena. A me spiace, dappoichè ella è uccisa,vederlo ministro dell'uccisore. Io il vedrei volentieri riti-rarsi allora nel Monastero Vivariense. Ma egli non si ri-tira che quando Giustiniano travaglia per suo interesse avendicar la morte d'Amalasunta, e quando parte de' Gotisembrano a tal fine con lui congiunti. Cassiodoro alloraritirossi a far penitenza. Io bramo ch'ei non ne avessemaggior motivo, che non credesi comunemente". Così ilsig. di Saint-Marc con questo affettato contegno di chinon vorrebbe pure, ma si mostra costretto a sospettare ea temere, ci dipinge coi più neri colori questogrand'uomo, e cel rappresenta come un ipocrita, un in-grato, un macchinatore e suggeritore de' più atroci delit-ti. E con qual fondamento? La storia non dee dissimularcosa alcuna. Ma lo storico debb'egli sognare e fingere acapriccio; ove singolarmente si tratti di oscurare la famadi alcun celebre personaggio? Vi è egli autore alcuno, viè alcun monumento su cui fondar quest'accusa? Ancor-chè ciò fosse, converrebbe riflettere attentamente se siatale, a cui debbasi prestar fede; e ricordarsi che moltecose si scrivono, e si divolgano, e si credon ancora, chepur son false. Ma senza alcun fondamento imputare adalcuno i più orrendi misfatti, qual nuova legge di criticaè questa mai? Cassiodoro, dice il sig. di Saint-Marc, siritira dal mondo, quando Vitige già era vicino a rimane-re oppresso dall'armi di Belisario; quando Giustinianopareva risoluto di vendicar la morte di Amalasunta;quando alcuni ancora de' Goti parevan con lui congiuntia tal fine. Potrebbesi a queste osservazioni opporre qual-

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che mi fa pena. A me spiace, dappoichè ella è uccisa,vederlo ministro dell'uccisore. Io il vedrei volentieri riti-rarsi allora nel Monastero Vivariense. Ma egli non si ri-tira che quando Giustiniano travaglia per suo interesse avendicar la morte d'Amalasunta, e quando parte de' Gotisembrano a tal fine con lui congiunti. Cassiodoro alloraritirossi a far penitenza. Io bramo ch'ei non ne avessemaggior motivo, che non credesi comunemente". Così ilsig. di Saint-Marc con questo affettato contegno di chinon vorrebbe pure, ma si mostra costretto a sospettare ea temere, ci dipinge coi più neri colori questogrand'uomo, e cel rappresenta come un ipocrita, un in-grato, un macchinatore e suggeritore de' più atroci delit-ti. E con qual fondamento? La storia non dee dissimularcosa alcuna. Ma lo storico debb'egli sognare e fingere acapriccio; ove singolarmente si tratti di oscurare la famadi alcun celebre personaggio? Vi è egli autore alcuno, viè alcun monumento su cui fondar quest'accusa? Ancor-chè ciò fosse, converrebbe riflettere attentamente se siatale, a cui debbasi prestar fede; e ricordarsi che moltecose si scrivono, e si divolgano, e si credon ancora, chepur son false. Ma senza alcun fondamento imputare adalcuno i più orrendi misfatti, qual nuova legge di criticaè questa mai? Cassiodoro, dice il sig. di Saint-Marc, siritira dal mondo, quando Vitige già era vicino a rimane-re oppresso dall'armi di Belisario; quando Giustinianopareva risoluto di vendicar la morte di Amalasunta;quando alcuni ancora de' Goti parevan con lui congiuntia tal fine. Potrebbesi a queste osservazioni opporre qual-

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che non piccola difficoltà. Pure gli si conceda ogni cosa.Or che ne siegue? Che Cassiodoro si ritirasse per noncader nelle mani di Belisario e di Giustiniano? E pernon ricever da essi la pena della morte di Amalasunta?Ma non potevan essi arrestarlo e punirlo anchequand'era monaco? Questo suo nuovo stato salvavaloforse dalle lor mani e dal loro risentimento? Il monaste-ro poi da lui scelto era appunto opportuno per nascon-dersi a' loro sguardi, cioè presso Squillaci nella Calabriavicino al mare, e il più esposto allo sbarco delle truppegreche; e tanto più che questo tratto d'Italia nella lungaguerra tra i Goti e i Greci fu quasi sempre in man diquesti. Se Cassiodoro avesse temuto che Giustinianofosse per chiedergli conto del sangue di Amalasunta, sa-rebbesi egli sì ciecamente gittato nelle mani de' suoi ni-mici? L'altro argomento su cui il sig. di Saint-Marc fon-da il suo calunnioso sospetto, non è punto miglior delprimo. Cassiodoro, dic'egli, avea più credito che nonTeodato; dunque ei dovea impedire la morte d'Amalu-sunta; o almen, poichè ella fu uccisa, dovea ritirarsi dalfianco dell'uccisore. Maniera di scrivere e pensare leg-giadra veramente e piacevole. Ragionare di fatti accadu-ti dodici secoli addietro, de' quali non sappiamo che lamera sostanza precisamente, e le circostanze tutte cisono affatto sconosciute ed incerte; e nondimeno argo-mentare, decidere, e sentenziare quasi con sicurezza digiudice. Come, e donde sa egli il sig. di Saint-Marc cheCassiodoro sapesse gli ordini da Teodato dati per l'ucci-sione di Amalasunta? E se pur ne riseppe, come sa egli

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che non piccola difficoltà. Pure gli si conceda ogni cosa.Or che ne siegue? Che Cassiodoro si ritirasse per noncader nelle mani di Belisario e di Giustiniano? E pernon ricever da essi la pena della morte di Amalasunta?Ma non potevan essi arrestarlo e punirlo anchequand'era monaco? Questo suo nuovo stato salvavaloforse dalle lor mani e dal loro risentimento? Il monaste-ro poi da lui scelto era appunto opportuno per nascon-dersi a' loro sguardi, cioè presso Squillaci nella Calabriavicino al mare, e il più esposto allo sbarco delle truppegreche; e tanto più che questo tratto d'Italia nella lungaguerra tra i Goti e i Greci fu quasi sempre in man diquesti. Se Cassiodoro avesse temuto che Giustinianofosse per chiedergli conto del sangue di Amalasunta, sa-rebbesi egli sì ciecamente gittato nelle mani de' suoi ni-mici? L'altro argomento su cui il sig. di Saint-Marc fon-da il suo calunnioso sospetto, non è punto miglior delprimo. Cassiodoro, dic'egli, avea più credito che nonTeodato; dunque ei dovea impedire la morte d'Amalu-sunta; o almen, poichè ella fu uccisa, dovea ritirarsi dalfianco dell'uccisore. Maniera di scrivere e pensare leg-giadra veramente e piacevole. Ragionare di fatti accadu-ti dodici secoli addietro, de' quali non sappiamo che lamera sostanza precisamente, e le circostanze tutte cisono affatto sconosciute ed incerte; e nondimeno argo-mentare, decidere, e sentenziare quasi con sicurezza digiudice. Come, e donde sa egli il sig. di Saint-Marc cheCassiodoro sapesse gli ordini da Teodato dati per l'ucci-sione di Amalasunta? E se pur ne riseppe, come sa egli

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che Cassiodoro non si adoperasse, ma inutilmente, perimpedirne l'effetto? Cassiodoro avea più credito che nonTeodato. Ma Teodato non avea egli più forza che nonCassiodoro? Teodato non era abbastanza ardito per con-cepire un tal disegno. Qual pruova ne adduce il sig. diSaint-Marc? E innoltre non eranvi per avventura altricortigiani ed altri ministri da' quali potesse esser condot-to a commettere un tal delitto? Ci dica per ultimo il sig.di Saint-Marc per qual ragione dovesse Cassiodoro al-lontanarsi dalla corte dopo la morte di Amalasunta. Undelitto che si commette da un re, costringerà dunque isuoi ministri ad abbandonarlo? E se pur vogliasi direche per gratitudine ad Amalasunta, e per mostrare l'orro-re che provava per tale attentato, ei dovea partir dallacorte, ci dica in grazia, come sa egli che Cassiodoro noncercasse di fatto di allontanarsi, ma che da Teodato ciònon gli fosse permesso? Quando si tratti di togliere al-trui la fama, e di accusare di un atroce misfatto un uomcreduto sempre saggio ed onesto, basta egli per avventu-ra il dire che non si pruova ch'ei fosse innocente? O nonabbiamo noi anzi ogni più giusto diritto a crederlo inno-cente, finchè chiaramente non provisi ch'egli fu reo? Misi perdoni questa piccola digressione ch'io ho pensato didover fare e per difesa di un uomo a cui molto dee l'ita-liana letteratura ch'egli sempre fomentò e sostenne, eper dare un saggio della maniera di pensare e di scriveredi alcuni moderni autori, i quali troppo volentieri ab-bracciano ogni occasione di oscurare la fama de' celebri

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che Cassiodoro non si adoperasse, ma inutilmente, perimpedirne l'effetto? Cassiodoro avea più credito che nonTeodato. Ma Teodato non avea egli più forza che nonCassiodoro? Teodato non era abbastanza ardito per con-cepire un tal disegno. Qual pruova ne adduce il sig. diSaint-Marc? E innoltre non eranvi per avventura altricortigiani ed altri ministri da' quali potesse esser condot-to a commettere un tal delitto? Ci dica per ultimo il sig.di Saint-Marc per qual ragione dovesse Cassiodoro al-lontanarsi dalla corte dopo la morte di Amalasunta. Undelitto che si commette da un re, costringerà dunque isuoi ministri ad abbandonarlo? E se pur vogliasi direche per gratitudine ad Amalasunta, e per mostrare l'orro-re che provava per tale attentato, ei dovea partir dallacorte, ci dica in grazia, come sa egli che Cassiodoro noncercasse di fatto di allontanarsi, ma che da Teodato ciònon gli fosse permesso? Quando si tratti di togliere al-trui la fama, e di accusare di un atroce misfatto un uomcreduto sempre saggio ed onesto, basta egli per avventu-ra il dire che non si pruova ch'ei fosse innocente? O nonabbiamo noi anzi ogni più giusto diritto a crederlo inno-cente, finchè chiaramente non provisi ch'egli fu reo? Misi perdoni questa piccola digressione ch'io ho pensato didover fare e per difesa di un uomo a cui molto dee l'ita-liana letteratura ch'egli sempre fomentò e sostenne, eper dare un saggio della maniera di pensare e di scriveredi alcuni moderni autori, i quali troppo volentieri ab-bracciano ogni occasione di oscurare la fama de' celebri

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personaggi (4). Ma rimettiamoci in sentiero.

XVI. Il ritiro di Cassiodoro si può chiama-re a ragione l'epoca dell'intera rovinadell'italiana letteratura. D'allora in poi l'Ita-lia non potè occuparsi in altro che nel pian-ger le sue sciagure. I Greci e i Goti guer-

reggiando furiosamente, devastarono in ogni parte. Ap-pena vi ebbe città che non fosse più volte assediata ordagli uni, or dagli altri; e in alcune ancora, e singolar-mente in Milano, si videro stragi e rovine che non siposson leggere senza orrore. "Gl'Italiani tutti, dice Pro-copio (l. c. l. 3, c. 9), erano da ambedue gli eserciti mal-trattati aspramente, percìocchè i Goti devastavano le lorcampagne, i Greci portavan seco quanto rapir potevanodella lor supellettile. Innoltre senza ragione alcuna eranmalconci colle percosse, e uccisi di fame". Vitige per treanni si difese valorosamente contro di Belisario ma fi-nalmente costretto a rendersegli insiem con Ravenna fumandato a Costantinopoli. Ildobaldo e poscia Erarico,che gli succederono, appena si furon sul trono, che ne

4 Il sig. ab. Lampillas ha voluto fare un confronto tra i fondamenti che sihanno di creder reo Cassiodoro, e que' che si hanno di creder reo Seneca dique' delitti de' quali io ho detto ch'è difficile cosa purgarli (Sag. apolog.della Letterat. spagn. par. 1, t. 1, p. 168, ec.), e vorrebbe persuaderci chemaggior fondamento abbiamo contro Cassiodoro che contro Seneca. Chileggerà quel passo del Saggio apologetico, conoscerà quanto ragionevolesia la mia risoluzione di non perder tempo nel confutarlo. Si può nondime-no vedere ciò che contro di esso ha scritto il sig. d. Pietro Napoli Signorelli(Vicende della Coltura nelle due Sicilie t. 2, p. 16, ec.)

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Desolazione dell'Italia: fine del re-gno degli Ostrogoti.

personaggi (4). Ma rimettiamoci in sentiero.

XVI. Il ritiro di Cassiodoro si può chiama-re a ragione l'epoca dell'intera rovinadell'italiana letteratura. D'allora in poi l'Ita-lia non potè occuparsi in altro che nel pian-ger le sue sciagure. I Greci e i Goti guer-

reggiando furiosamente, devastarono in ogni parte. Ap-pena vi ebbe città che non fosse più volte assediata ordagli uni, or dagli altri; e in alcune ancora, e singolar-mente in Milano, si videro stragi e rovine che non siposson leggere senza orrore. "Gl'Italiani tutti, dice Pro-copio (l. c. l. 3, c. 9), erano da ambedue gli eserciti mal-trattati aspramente, percìocchè i Goti devastavano le lorcampagne, i Greci portavan seco quanto rapir potevanodella lor supellettile. Innoltre senza ragione alcuna eranmalconci colle percosse, e uccisi di fame". Vitige per treanni si difese valorosamente contro di Belisario ma fi-nalmente costretto a rendersegli insiem con Ravenna fumandato a Costantinopoli. Ildobaldo e poscia Erarico,che gli succederono, appena si furon sul trono, che ne

4 Il sig. ab. Lampillas ha voluto fare un confronto tra i fondamenti che sihanno di creder reo Cassiodoro, e que' che si hanno di creder reo Seneca dique' delitti de' quali io ho detto ch'è difficile cosa purgarli (Sag. apolog.della Letterat. spagn. par. 1, t. 1, p. 168, ec.), e vorrebbe persuaderci chemaggior fondamento abbiamo contro Cassiodoro che contro Seneca. Chileggerà quel passo del Saggio apologetico, conoscerà quanto ragionevolesia la mia risoluzione di non perder tempo nel confutarlo. Si può nondime-no vedere ciò che contro di esso ha scritto il sig. d. Pietro Napoli Signorelli(Vicende della Coltura nelle due Sicilie t. 2, p. 16, ec.)

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Desolazione dell'Italia: fine del re-gno degli Ostrogoti.

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furon balzati, uccisi da' lor soldati medesimi. Totila di-chiarato re de' Goti e d'Italia l'an. 541, per 11 anni so-stenne il rovinoso suo regno, principe di valor, di pru-denza, di onestà assai maggiore di quella che di un Bar-baro si potesse aspettare. Ma poichè egli fu morto per leferite ricevute in battaglia l'an. 552, Teia che gli succe-dette, per lo spazio di un anno solo proseguì a difender-lo contro de' Greci, e l'anno seguente cadde ucciso eglipur combattendo, e con lui cadde il regno degli Ostrogo-ti, ch'era durato per lo spazio di circa 60 anni, comin-ciandolo dalla morte di Odoacre.

XVII. Ma col finire del regno degli Ostro-goti non ebber fine le sciagure dell'infeliceItalia. Benchè Narsete ne rendesse il domi-

nio all'imp. Giustiniano che ancor regnava, ebbe eglinondimeno ancor per più anni a combattere e contro va-rie bande de' Goti che occupavano alcune piazze, e con-tro numerose schiere di Alemanni e di Franchi scesi adinnondarla dalla Germania. Egli si mostrò sempre quelvaloroso ed eccellente capitano ch'era stato in addietro,e insieme attese con premurosa sollecitudine a ristorarel'Italia, per quanto gli era possibile, da' sofferti danni. Eciò non ostante accusato all'imp. Giustino il quale l'an.565 era succeduto a Giustiniano suo zio materno, di trat-tare i popoli con insofferibil durezza, e perciò richiama-to a Costantinopoli, l'ottimo vecchio ne morì di dolorel'an. 567. Ma la morte di Narsete fu troppo fatale

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Vicende diNarsete.

furon balzati, uccisi da' lor soldati medesimi. Totila di-chiarato re de' Goti e d'Italia l'an. 541, per 11 anni so-stenne il rovinoso suo regno, principe di valor, di pru-denza, di onestà assai maggiore di quella che di un Bar-baro si potesse aspettare. Ma poichè egli fu morto per leferite ricevute in battaglia l'an. 552, Teia che gli succe-dette, per lo spazio di un anno solo proseguì a difender-lo contro de' Greci, e l'anno seguente cadde ucciso eglipur combattendo, e con lui cadde il regno degli Ostrogo-ti, ch'era durato per lo spazio di circa 60 anni, comin-ciandolo dalla morte di Odoacre.

XVII. Ma col finire del regno degli Ostro-goti non ebber fine le sciagure dell'infeliceItalia. Benchè Narsete ne rendesse il domi-

nio all'imp. Giustiniano che ancor regnava, ebbe eglinondimeno ancor per più anni a combattere e contro va-rie bande de' Goti che occupavano alcune piazze, e con-tro numerose schiere di Alemanni e di Franchi scesi adinnondarla dalla Germania. Egli si mostrò sempre quelvaloroso ed eccellente capitano ch'era stato in addietro,e insieme attese con premurosa sollecitudine a ristorarel'Italia, per quanto gli era possibile, da' sofferti danni. Eciò non ostante accusato all'imp. Giustino il quale l'an.565 era succeduto a Giustiniano suo zio materno, di trat-tare i popoli con insofferibil durezza, e perciò richiama-to a Costantinopoli, l'ottimo vecchio ne morì di dolorel'an. 567. Ma la morte di Narsete fu troppo fatale

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Vicende diNarsete.

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all'impero greco, perciocchè l'anno seguente i Longo-bardi invasero furiosamente l'Italia, e cominciarono aimpadronirsene, come avremo a vedere nel libro se-guente.

XVIII. Prima però di passare a ragionare inparticolare degli studj di questo tempo dicui ora trattiamo, vuolsi qui fare una rifles-sione ch'io non so se da altri sia stata fattafinora. Giustiniano pubblicò il Codice l'an.529 mentre regnava in Italia Atalarico; e inesso, oltre alle leggi appartenenti agli studj,

vedesi applicata anche a Roma la legge che, come a suoluogo dicemmo, solo per Costantinopoli avea pubblicataTeodosio il giovane, legge in cui ordinavasi che inRoma nel Campidoglio, ove erano le pubbliche scuolefossero tre oratori ossia retori latini, e cinque sofisti gre-ci, dieci gramatici latini ed altrettanti greci, un professo-re di filosofia e due di legge. Ma inutilmente intimavaGiustiniano le leggi a' popoli che ubbidivano ad altri pa-droni. Noi non veggiamo che si pensasse ad eseguire untal comando; anzi dalla sopraccitata lettera di Atalarico,in cui comanda che a' pubblici professori si paghino idovuti stipendj, la quale probabilmente fu scritta l'an.533, poichè è tra le ultime fra quelle che Cassiodoroscrisse per suo comando, noi veggiamo ch'egli parla inmodo come se altri professori allora non vi avesse, cheun di gramatica, un di rettorica e uno di legge: Succes-

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Qual forzaavessero inRoma alcu-ne leggipubblicatein addietroda Giusti-niano.

all'impero greco, perciocchè l'anno seguente i Longo-bardi invasero furiosamente l'Italia, e cominciarono aimpadronirsene, come avremo a vedere nel libro se-guente.

XVIII. Prima però di passare a ragionare inparticolare degli studj di questo tempo dicui ora trattiamo, vuolsi qui fare una rifles-sione ch'io non so se da altri sia stata fattafinora. Giustiniano pubblicò il Codice l'an.529 mentre regnava in Italia Atalarico; e inesso, oltre alle leggi appartenenti agli studj,

vedesi applicata anche a Roma la legge che, come a suoluogo dicemmo, solo per Costantinopoli avea pubblicataTeodosio il giovane, legge in cui ordinavasi che inRoma nel Campidoglio, ove erano le pubbliche scuolefossero tre oratori ossia retori latini, e cinque sofisti gre-ci, dieci gramatici latini ed altrettanti greci, un professo-re di filosofia e due di legge. Ma inutilmente intimavaGiustiniano le leggi a' popoli che ubbidivano ad altri pa-droni. Noi non veggiamo che si pensasse ad eseguire untal comando; anzi dalla sopraccitata lettera di Atalarico,in cui comanda che a' pubblici professori si paghino idovuti stipendj, la quale probabilmente fu scritta l'an.533, poichè è tra le ultime fra quelle che Cassiodoroscrisse per suo comando, noi veggiamo ch'egli parla inmodo come se altri professori allora non vi avesse, cheun di gramatica, un di rettorica e uno di legge: Succes-

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Qual forzaavessero inRoma alcu-ne leggipubblicatein addietroda Giusti-niano.

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sor scholae liberalium literarum tam gramaticus, quamorator, nec non juris expositor. E benchè poscia gl'impe-radori greci ripigliassero e conservassero per qualchetempo il dominio di Roma, e benchè, come vedremo,Giustiniano comandasse che il Codice ricevuto fosse intutta l'Italia, non è però verisimile, nè abbiamo argo-mento alcuno a provare che negl'infelicissimi tempi cheallor correvano, si pensasse all'esecuzione di questa leg-ge. Più probabilmente potè condursi ad effetto l'ordineche al medesimo tempo diè Giustiniano, e che era con-forme a quello già dato da Atalarico, cioè che a' medicie a' professori romani si pagassero i dovuti stipendj:"Annonas, quae gramaticis ac oratoribus, vel etiam me-dicis vel jurisperitis antea dari solitum esset, et in poste-rum, suam professionem scilicet exercentibus, erogaripraecipimus, quatenus juvenes liberalibus studiis eruditiper nostram rempublicam floream" (Pragm. Sanct. Ju-stin. imp. c. 22). Egli è però vero che di Ateneo e discuole del Campidoglio io non trovo più in avveniremenzione alcuna; ed è probabile che all'occasion delleguerre e delle rovine, onde fu devastata l'Italia per tantotempo, le pubbliche scuole fossero abbandonate. Ma dellagrimevole stato a cui venne l'italiana letteratura, do-vrem favellare più lungamente nel libro seguente.

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sor scholae liberalium literarum tam gramaticus, quamorator, nec non juris expositor. E benchè poscia gl'impe-radori greci ripigliassero e conservassero per qualchetempo il dominio di Roma, e benchè, come vedremo,Giustiniano comandasse che il Codice ricevuto fosse intutta l'Italia, non è però verisimile, nè abbiamo argo-mento alcuno a provare che negl'infelicissimi tempi cheallor correvano, si pensasse all'esecuzione di questa leg-ge. Più probabilmente potè condursi ad effetto l'ordineche al medesimo tempo diè Giustiniano, e che era con-forme a quello già dato da Atalarico, cioè che a' medicie a' professori romani si pagassero i dovuti stipendj:"Annonas, quae gramaticis ac oratoribus, vel etiam me-dicis vel jurisperitis antea dari solitum esset, et in poste-rum, suam professionem scilicet exercentibus, erogaripraecipimus, quatenus juvenes liberalibus studiis eruditiper nostram rempublicam floream" (Pragm. Sanct. Ju-stin. imp. c. 22). Egli è però vero che di Ateneo e discuole del Campidoglio io non trovo più in avveniremenzione alcuna; ed è probabile che all'occasion delleguerre e delle rovine, onde fu devastata l'Italia per tantotempo, le pubbliche scuole fossero abbandonate. Ma dellagrimevole stato a cui venne l'italiana letteratura, do-vrem favellare più lungamente nel libro seguente.

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CAPO II. Studj sacri.

I. Nel parlare che fatto abbiamo finora dellostato in cui fu la letteratura italiana di questitempi, il cel. Cassiodoro ci ha quasi unica-mente occupati perchè a lui più che ad ognialtro si dee, se i sovrani che a questa età si-gnoreggiaron l'Italia, furon liberali e magna-

nimi protettori de' buoni studj e lo stesso ci convien fareanche a questo luogo ove degli studj sacri di questo tem-po medesimo dobbiam ragionare. Questo grand'uomo,di cui non v'ebbe altri più nel fomentare le scienze, aquesti ancora volse il pensiero; e sin da quando egli eraministro de' re ostrogoti, cercò di avvivarli e di farli fio-rire felicemente. "Io vedeva, dic'egli stesso (praef. ad l.de Instit. div. lit.), con dolore gravissimo, che mentre isecolari studj si coltivavano con non ordinario fervore,non vi era alcun pubblico professore, o interprete dellasacra Scrittura. Mi adoperai pertanto presso il pontef.Agapito (che fu innalzato al pontificato l'an 535, ma iltenne meno di un anno) perchè a comuni spese si stabi-lissero in Roma professori di scienze sacre". Ma questasì vantaggioso disegno rimase allora per la calamità de'tempi senza effetto alcuno, e solo molti anni dopo fu da'seguenti pontefici, come a suo luogo vedremo, felice-mente eseguito.

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Cassiodoro,essendo an-cora mini-stro, pro-muove gli studj sacri.

CAPO II. Studj sacri.

I. Nel parlare che fatto abbiamo finora dellostato in cui fu la letteratura italiana di questitempi, il cel. Cassiodoro ci ha quasi unica-mente occupati perchè a lui più che ad ognialtro si dee, se i sovrani che a questa età si-gnoreggiaron l'Italia, furon liberali e magna-

nimi protettori de' buoni studj e lo stesso ci convien fareanche a questo luogo ove degli studj sacri di questo tem-po medesimo dobbiam ragionare. Questo grand'uomo,di cui non v'ebbe altri più nel fomentare le scienze, aquesti ancora volse il pensiero; e sin da quando egli eraministro de' re ostrogoti, cercò di avvivarli e di farli fio-rire felicemente. "Io vedeva, dic'egli stesso (praef. ad l.de Instit. div. lit.), con dolore gravissimo, che mentre isecolari studj si coltivavano con non ordinario fervore,non vi era alcun pubblico professore, o interprete dellasacra Scrittura. Mi adoperai pertanto presso il pontef.Agapito (che fu innalzato al pontificato l'an 535, ma iltenne meno di un anno) perchè a comuni spese si stabi-lissero in Roma professori di scienze sacre". Ma questasì vantaggioso disegno rimase allora per la calamità de'tempi senza effetto alcuno, e solo molti anni dopo fu da'seguenti pontefici, come a suo luogo vedremo, felice-mente eseguito.

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Cassiodoro,essendo an-cora mini-stro, pro-muove gli studj sacri.

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II. Ma dappoichè egli, abbandonato il mon-do, ritirossi nel monastero, allora il pensierdegli studj alla nuova sua profession conve-nienti occupollo interamente. Il luogo da luipreso pel suo ritiro fu presso Squillaci suapatria, come evidentemente mostra il p. Ga-ret nell'altre volte citata Vita di Cassiodoro,

contro il parer di quelli che pensano ch'egli si ritirassepresso Ravenna. Ivi in un luogo cui gli orti ameni e lelimpide acque scorrenti e il vicin mare rendeva amenis-simo, come egli stesso descrive (de Instit. div. lit. c. 29),e a cui dalle copiose peschiere che vi erano, diè il nomelatino di Vivariense, fabbricò a sue proprie spese un mo-nastero, e innoltre sulle pendici del monte, detto Castel-lo, un eremo per coloro che vi volesser vivere da anaco-reti. Che lo stesso Cassiodoro vi abbracciasse la vitamonastica, non può negarsi. Egli stesso, oltre l'accenna-re più volte, espressamente nomina il tempo della suaconversione, col qual nome soleasi ne' più antichi tempichiamare la professione monastica (V. Mabillon. Ann.Ord. s. Bened. vol. 1 ad an. 528, n. VIII; Du CangeGloss. ad voc. Conversus, ec.). Al che io mi stupiscoche non abbia posto mente l'erudito Fabricio; il qualedal vedere che Cassiodoro s'intitola Cassiodori Senato-ris jam Domino praestante conversi, ne ha inferito(Bibl. lat. l. 3, c. 16) ch'egli fosse prima idolatra e cheposcia abbracciasse la religion cristiana. Se poi egli aisuoi monaci prescrivesse la Regola di s. Benedetto, oquella di Cassiano, o qualunque altra, nè è facile a diffi-

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Ritiratosi dalla corte, fonda un monastero e tutto si occupa in tali studj.

II. Ma dappoichè egli, abbandonato il mon-do, ritirossi nel monastero, allora il pensierdegli studj alla nuova sua profession conve-nienti occupollo interamente. Il luogo da luipreso pel suo ritiro fu presso Squillaci suapatria, come evidentemente mostra il p. Ga-ret nell'altre volte citata Vita di Cassiodoro,

contro il parer di quelli che pensano ch'egli si ritirassepresso Ravenna. Ivi in un luogo cui gli orti ameni e lelimpide acque scorrenti e il vicin mare rendeva amenis-simo, come egli stesso descrive (de Instit. div. lit. c. 29),e a cui dalle copiose peschiere che vi erano, diè il nomelatino di Vivariense, fabbricò a sue proprie spese un mo-nastero, e innoltre sulle pendici del monte, detto Castel-lo, un eremo per coloro che vi volesser vivere da anaco-reti. Che lo stesso Cassiodoro vi abbracciasse la vitamonastica, non può negarsi. Egli stesso, oltre l'accenna-re più volte, espressamente nomina il tempo della suaconversione, col qual nome soleasi ne' più antichi tempichiamare la professione monastica (V. Mabillon. Ann.Ord. s. Bened. vol. 1 ad an. 528, n. VIII; Du CangeGloss. ad voc. Conversus, ec.). Al che io mi stupiscoche non abbia posto mente l'erudito Fabricio; il qualedal vedere che Cassiodoro s'intitola Cassiodori Senato-ris jam Domino praestante conversi, ne ha inferito(Bibl. lat. l. 3, c. 16) ch'egli fosse prima idolatra e cheposcia abbracciasse la religion cristiana. Se poi egli aisuoi monaci prescrivesse la Regola di s. Benedetto, oquella di Cassiano, o qualunque altra, nè è facile a diffi-

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Ritiratosi dalla corte, fonda un monastero e tutto si occupa in tali studj.

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nire, nè a me appartiene l'esaminarlo. Il suddetto p. Ga-ret alla Vita di Cassiodoro ha aggiunta un'erudita disser-tazione in cui usa di ogni sforzo a provare ch'egli seguì,e seguir fece ai suoi monaci, la Regola di s. Benedetto, ea ribattere la contraria opinione dei card. Baronio e dialtri scrittori. Se egli abbia provata abbastanza l'opinionsua, io lascerò che altri il decida. E molto men mi trat-terrò a ricercare s'ei fosse, o non fosse abate del suo mo-nastero, di che io penso assai poco sian solleciti i mieilettori. Checchessia di ciò, era allora Cassiodoro in etàdi di circa 70 anni, supposto ch'ei nascesse secondo lacomune opinione, verso l'an. 480. E nondimeno egli ap-plicossi e a coltivare egli stesso studj sacri e ad avvivarlitra' suoi con tal fervore ed impegno che maggiore nonpoteva aspettarsi da un uomo della più verde età.

III. I libri da lui scritti furono singolar-mente indirizzati a vantaggio de' suoimonaci, e in essi egli continuamentegli esorta ad occuparsi negli studi lor

proprj. Egli esercitavali singolarmente nel trascrivere ilibri, ed io confesso, dic'egli stesso sinceramente (de In-stit. div. lit. c. 30) che fra tutte le corporali fatiche quel-la singolarmente mi piace de' copiatori che egli collausata voce latina chiama antiquarii. E non si posson leg-gere senza un dolce sentimento di tenerezza le minutez-ze a cui egli discende, nel raccomandar loro qual manie-ra debban tenere per ben copiarli (ib. c. 15). Egli giunge

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Sue premure nel raccogliere e far copiare più codici.

nire, nè a me appartiene l'esaminarlo. Il suddetto p. Ga-ret alla Vita di Cassiodoro ha aggiunta un'erudita disser-tazione in cui usa di ogni sforzo a provare ch'egli seguì,e seguir fece ai suoi monaci, la Regola di s. Benedetto, ea ribattere la contraria opinione dei card. Baronio e dialtri scrittori. Se egli abbia provata abbastanza l'opinionsua, io lascerò che altri il decida. E molto men mi trat-terrò a ricercare s'ei fosse, o non fosse abate del suo mo-nastero, di che io penso assai poco sian solleciti i mieilettori. Checchessia di ciò, era allora Cassiodoro in etàdi di circa 70 anni, supposto ch'ei nascesse secondo lacomune opinione, verso l'an. 480. E nondimeno egli ap-plicossi e a coltivare egli stesso studj sacri e ad avvivarlitra' suoi con tal fervore ed impegno che maggiore nonpoteva aspettarsi da un uomo della più verde età.

III. I libri da lui scritti furono singolar-mente indirizzati a vantaggio de' suoimonaci, e in essi egli continuamentegli esorta ad occuparsi negli studi lor

proprj. Egli esercitavali singolarmente nel trascrivere ilibri, ed io confesso, dic'egli stesso sinceramente (de In-stit. div. lit. c. 30) che fra tutte le corporali fatiche quel-la singolarmente mi piace de' copiatori che egli collausata voce latina chiama antiquarii. E non si posson leg-gere senza un dolce sentimento di tenerezza le minutez-ze a cui egli discende, nel raccomandar loro qual manie-ra debban tenere per ben copiarli (ib. c. 15). Egli giunge

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Sue premure nel raccogliere e far copiare più codici.

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perfino a chiamare al suo monastero artefici valorosi perlegare i codici pulitamente, e a disegnare egli stesso leimmagini di cui poteansi adornare (ib.). Anzi questa suasollecitudine fu tale, che in età di 93 anni (praef. ad l.de Orth.) non si sdegnò l'ottimo vecchio di comporre aduso de' suoi monaci un trattato di Ortografia, perchè ap-prendessero a scrivere esattamente. Nè pago di esortaregli altri a questo lavoro, vi si esercitava egli stesso, main quella maniera che si conviene ad uom dotto; per-ciocchè egli rammenta (praef. ad Instit. div. lit.) di avereesaminati e confrontati tra loro parecchi codici della sa-cra Scrittura, per averne un ben corretto esemplare. Aquesto fine medesimo egli arricchì il suo monastero diuna copiosa biblioteca. Aveane già egli una in Roma, ericorda egli medesimo (de Musica) un libro da un certoAlbino scritto intorno alla musica, ch'egli avea ivi nellasua biblioteca. E questa probabilmente avrà egli fattatrasportare al suo monastero benchè la maniera con cuiegli a questo luogo ne parla, mi sembri indicare ch'einon l'avesse ancor fatto. Ma oltre ciò egli mandò in ogniparte a cercar libri ad uso dello stesso suo monastero.Noi veggiamo ch'egli parli a' suoi monaci de' codicich'egli sperava di ricevere presto da diverse parti oveavea inviato a farne ricerche (de Instit. div. lit. c. 8); enomina singolarmente i Comenti sulle Pistole di s. Pao-lo di un certo Pietro abate di Tripoli, ch'egli aspettavadall'Africa (ib.); e il libro intorno alla musica di Gau-denzo greco, ch'egli da Muziano avea fatto recare in la-tino, e ch'essi aveano nel lor monastero, insieme col li-

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perfino a chiamare al suo monastero artefici valorosi perlegare i codici pulitamente, e a disegnare egli stesso leimmagini di cui poteansi adornare (ib.). Anzi questa suasollecitudine fu tale, che in età di 93 anni (praef. ad l.de Orth.) non si sdegnò l'ottimo vecchio di comporre aduso de' suoi monaci un trattato di Ortografia, perchè ap-prendessero a scrivere esattamente. Nè pago di esortaregli altri a questo lavoro, vi si esercitava egli stesso, main quella maniera che si conviene ad uom dotto; per-ciocchè egli rammenta (praef. ad Instit. div. lit.) di avereesaminati e confrontati tra loro parecchi codici della sa-cra Scrittura, per averne un ben corretto esemplare. Aquesto fine medesimo egli arricchì il suo monastero diuna copiosa biblioteca. Aveane già egli una in Roma, ericorda egli medesimo (de Musica) un libro da un certoAlbino scritto intorno alla musica, ch'egli avea ivi nellasua biblioteca. E questa probabilmente avrà egli fattatrasportare al suo monastero benchè la maniera con cuiegli a questo luogo ne parla, mi sembri indicare ch'einon l'avesse ancor fatto. Ma oltre ciò egli mandò in ogniparte a cercar libri ad uso dello stesso suo monastero.Noi veggiamo ch'egli parli a' suoi monaci de' codicich'egli sperava di ricevere presto da diverse parti oveavea inviato a farne ricerche (de Instit. div. lit. c. 8); enomina singolarmente i Comenti sulle Pistole di s. Pao-lo di un certo Pietro abate di Tripoli, ch'egli aspettavadall'Africa (ib.); e il libro intorno alla musica di Gau-denzo greco, ch'egli da Muziano avea fatto recare in la-tino, e ch'essi aveano nel lor monastero, insieme col li-

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bro di Censorino sul Dì Natalizio (de Mus.). Dalla men-zione de' quali libri noi raccogliamo ancora che non solone' sacri, ma anche ne' profani studj voleva egli che fos-ser colti i suoi monaci, in quanto essi potevan giovare ameglio intendere la sacra Scrittura. Perciò egli loro ri-corda che "i santi loro istitutori non avean già divietatolo studio delle lettere secolari; perciocchè molto vantag-gio da esse si trae all'intelligenza de' santi libri" (de Inst.div. lit. c. 28). Anzi nella medicina ancora bramava eglich'essi fosser periti a sollievo de' lor fratelli infermi; enomina molti libri di tale argomento, di cui perciò aveaegli provveduta la biblioteca del monastero: "Voi avete,ei dice loro (ib. c. 31) l'Erbario di Dioscoride il quale hadescritte e dipinte con ammirabile proprietà l'erbe de'campi. Leggere ancora Ippocrate e Galeno recati in lin-gua latina, cioè le Terapeutica di Galeno scritta al filos.Glaucone, e un Anonimo che ha uniti insieme molti au-tori. Innoltre i libri di medicina di Aurelio Celio (forseCelso), e quei d'Ippocrate sull'erbe e sulle cure, e più al-tri libri di medicina, ch'io col divino ajuto ho riposti nel-la nostra bliblioteca".

IV. Queste sue occupazioni però non gli vie-tarono di comporre al tempo medesimomolte opere, la più parte delle quali ci sonorimaste. Nella prefazione al citato libro del-la Ortografia, che fu tra gli ultimi da lui

composti, egli le annovera coll'ordine stesso con cui

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Opere in quel tempo da lui com-poste.

bro di Censorino sul Dì Natalizio (de Mus.). Dalla men-zione de' quali libri noi raccogliamo ancora che non solone' sacri, ma anche ne' profani studj voleva egli che fos-ser colti i suoi monaci, in quanto essi potevan giovare ameglio intendere la sacra Scrittura. Perciò egli loro ri-corda che "i santi loro istitutori non avean già divietatolo studio delle lettere secolari; perciocchè molto vantag-gio da esse si trae all'intelligenza de' santi libri" (de Inst.div. lit. c. 28). Anzi nella medicina ancora bramava eglich'essi fosser periti a sollievo de' lor fratelli infermi; enomina molti libri di tale argomento, di cui perciò aveaegli provveduta la biblioteca del monastero: "Voi avete,ei dice loro (ib. c. 31) l'Erbario di Dioscoride il quale hadescritte e dipinte con ammirabile proprietà l'erbe de'campi. Leggere ancora Ippocrate e Galeno recati in lin-gua latina, cioè le Terapeutica di Galeno scritta al filos.Glaucone, e un Anonimo che ha uniti insieme molti au-tori. Innoltre i libri di medicina di Aurelio Celio (forseCelso), e quei d'Ippocrate sull'erbe e sulle cure, e più al-tri libri di medicina, ch'io col divino ajuto ho riposti nel-la nostra bliblioteca".

IV. Queste sue occupazioni però non gli vie-tarono di comporre al tempo medesimomolte opere, la più parte delle quali ci sonorimaste. Nella prefazione al citato libro del-la Ortografia, che fu tra gli ultimi da lui

composti, egli le annovera coll'ordine stesso con cui

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Opere in quel tempo da lui com-poste.

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aveale scritte. E in primo luogo il Commentario su' Sal-mi, ch'egli raccolse dalle opere singolarmente de' Padrilatini; e ch'egli dice di aver composto prima d'ogni altracosa dopo aver abbracciata la vita monastica. Soggiugneposcia le Istituzioni delle divine ed umane lettere in duelibri divise, nel primo de' quali ei tratta in qual modo sidebba attendere allo studio della sacra Scrittura, qualiautori l'abbiano più felicemente e più dottamente spie-gata, quali altri libri siano a' monaci più opportuni e gio-vevoli; libro a parer di tutti eccellente, e che ci mostral'erudizione, l'ingegno, il discernimento del suo autore.Il secondo libro ch'è intitolato ancora delle Sette disci-pline, è un breve compendio della gramatica, della retto-rica, della dialettica, della geometria, dell'aritmetica,della musica e dell'astronomia; nelle quali scienze anco-ra voleva ei saggiamente che istruiti fossero i suoi mo-naci. Quindi nomina un Comento sull'Epistole di s. Pao-lo, che sembra essere quel di Pelagio, e da cui dicech'egli avea tolto tutto ciò che a' Pelagiani poteva esserefavorevole, avvertendo a far lo stesso coloro che pren-dessero a trascrivere i Comenti sulle altre Epistole. Poiil Comento sopra Donato, ossia il libro delle Otto partidel ragionare, e un cotal Compendio della sacra Scrittu-ra ch'egli perciò intitolò Memoriale. Innoltre le celebriComplessioni sugli Atti e sulle Epistole degli Apostoli esull'Apocalissi, che dal chiar. march. Maffei furono perla prima volta pubblicate in Firenze l'an. 1721. Final-mente il libro dell'Ortografia, di cui abbiam poc'anziparlato, scritto da lui quando già avea 93 anni di età.

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aveale scritte. E in primo luogo il Commentario su' Sal-mi, ch'egli raccolse dalle opere singolarmente de' Padrilatini; e ch'egli dice di aver composto prima d'ogni altracosa dopo aver abbracciata la vita monastica. Soggiugneposcia le Istituzioni delle divine ed umane lettere in duelibri divise, nel primo de' quali ei tratta in qual modo sidebba attendere allo studio della sacra Scrittura, qualiautori l'abbiano più felicemente e più dottamente spie-gata, quali altri libri siano a' monaci più opportuni e gio-vevoli; libro a parer di tutti eccellente, e che ci mostral'erudizione, l'ingegno, il discernimento del suo autore.Il secondo libro ch'è intitolato ancora delle Sette disci-pline, è un breve compendio della gramatica, della retto-rica, della dialettica, della geometria, dell'aritmetica,della musica e dell'astronomia; nelle quali scienze anco-ra voleva ei saggiamente che istruiti fossero i suoi mo-naci. Quindi nomina un Comento sull'Epistole di s. Pao-lo, che sembra essere quel di Pelagio, e da cui dicech'egli avea tolto tutto ciò che a' Pelagiani poteva esserefavorevole, avvertendo a far lo stesso coloro che pren-dessero a trascrivere i Comenti sulle altre Epistole. Poiil Comento sopra Donato, ossia il libro delle Otto partidel ragionare, e un cotal Compendio della sacra Scrittu-ra ch'egli perciò intitolò Memoriale. Innoltre le celebriComplessioni sugli Atti e sulle Epistole degli Apostoli esull'Apocalissi, che dal chiar. march. Maffei furono perla prima volta pubblicate in Firenze l'an. 1721. Final-mente il libro dell'Ortografia, di cui abbiam poc'anziparlato, scritto da lui quando già avea 93 anni di età.

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Queste sono le sole sue opere di cui fa egli stesso men-zione. Credesi nondimeno ch'egli scrivesse ancora dopoesse il piccol trattato del Computo pasquale, che ancoraabbiamo. E inoltre, benchè ei rammenti, come abbiamdetto, l'ordine con cui egli scrisse le sue Opere, ella ènondimeno opinione del p. Garet, e parmi bastevolmen-te provata, ch'egli le cominciasse bensì con quell'ordineche egli descrive, ma che alcune, benchè più presto in-cominciate, fossero nondimeno da lui condotte a finepiù tardi che non altre posteriormente intraprese. Di al-cune altre opere che falsamente si attribuiscono a Cas-siodoro, veggansi le Biblioteche degli Scrittori Ecclesia-stici, e singolarmente il Ceillier (Hist. des Aut. eccl. t.15).

V. Nè pago di ciò, altri ancora animò egli aintraprendere altri eruditi lavori che allaChiesa e alle lettere fosser giovevoli. E inprimo lungo Epifanio soprannomato Scola-stico per consiglio di lui tradusse di greco inlatino le tre Storie ecclesiastiche di Socrate,

di Sozomeno, e di Teodoreto (de instit. div. lit. c. 17),che poscia ridotte in compendio diviso in dodici libri fu-rono intitolate Istoria tripartita, la qual opera ancor cirimane. Questo compendio credesi comunemente operadel medesimo Cassiodoro, e così sembra egli indicarenella prefazione ch'ei vi premise, ma io rifletto ch'ei nonfa menzione di questa tra le altre sue opere di sopra ac-

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Altre opere da altri composte per consi-glio di Cas-siodoro.

Queste sono le sole sue opere di cui fa egli stesso men-zione. Credesi nondimeno ch'egli scrivesse ancora dopoesse il piccol trattato del Computo pasquale, che ancoraabbiamo. E inoltre, benchè ei rammenti, come abbiamdetto, l'ordine con cui egli scrisse le sue Opere, ella ènondimeno opinione del p. Garet, e parmi bastevolmen-te provata, ch'egli le cominciasse bensì con quell'ordineche egli descrive, ma che alcune, benchè più presto in-cominciate, fossero nondimeno da lui condotte a finepiù tardi che non altre posteriormente intraprese. Di al-cune altre opere che falsamente si attribuiscono a Cas-siodoro, veggansi le Biblioteche degli Scrittori Ecclesia-stici, e singolarmente il Ceillier (Hist. des Aut. eccl. t.15).

V. Nè pago di ciò, altri ancora animò egli aintraprendere altri eruditi lavori che allaChiesa e alle lettere fosser giovevoli. E inprimo lungo Epifanio soprannomato Scola-stico per consiglio di lui tradusse di greco inlatino le tre Storie ecclesiastiche di Socrate,

di Sozomeno, e di Teodoreto (de instit. div. lit. c. 17),che poscia ridotte in compendio diviso in dodici libri fu-rono intitolate Istoria tripartita, la qual opera ancor cirimane. Questo compendio credesi comunemente operadel medesimo Cassiodoro, e così sembra egli indicarenella prefazione ch'ei vi premise, ma io rifletto ch'ei nonfa menzione di questa tra le altre sue opere di sopra ac-

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Altre opere da altri composte per consi-glio di Cas-siodoro.

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cennate, e non sembra probabile che dopo 93 anni di etàei potesse intraprendere sì gran lavoro. Per altra parteegli nel luogo sopraccitato sembra indicare che il com-pendio ancora in dodici libri fosse fatto da Epifianio:Quos a viro disertissimo Epiphanio in uno corpore duo-decim libris fecimus, Deo auxiliante transferri. E io per-ciò inclino a pensare che Cassiodoro altra parte non viavesse che la direzione e il consiglio, e che in questosenso soltanto si debba credere ch'egli parli nella prefa-zione accennata. Per consiglio parimenti di Cassiodoro,Muziano, detto egli pure Scolastico, tradusse dal grecoin latino 35 Omelie di s. Giovanni Grisostomo sulla Epi-stola agli Ebrei (ib. c. 8), la qual versione di nuovo èstata pubblicata dal p. Montfaucon nella sua edizionedelle Opere di questo s. dottore (vol. 12); e questi è quelMuziano medesimo che avea pur recato di greco in lati-no il libro di Gaudenzio intorno la Musica. Da lui pureveggiamo che Bellatore fu persuaso a comporre i co-menti su molti libri della sacra Scrittura, e a tradurre dalgreco in latino alcune omelie di Origene; delle quali fa-tiche di Bellatore parla egli stesso più volte (de Instit.div. lit. c. 1, 6). Di esse nulla ci è pervenuto, seppur nonvogliasi adottare la congettura di monsig. Huet, chel'antica versione di alcuni opuscoli di Origene, che tutto-ra abbiamo, sia quella appunto di Bellatore. Qual parteavesse per ultimo Cassiodoro negli studj di Dionigi so-prannomato il piccolo, il vedremo tra poco, ove di luistesso ragioneremo.

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cennate, e non sembra probabile che dopo 93 anni di etàei potesse intraprendere sì gran lavoro. Per altra parteegli nel luogo sopraccitato sembra indicare che il com-pendio ancora in dodici libri fosse fatto da Epifianio:Quos a viro disertissimo Epiphanio in uno corpore duo-decim libris fecimus, Deo auxiliante transferri. E io per-ciò inclino a pensare che Cassiodoro altra parte non viavesse che la direzione e il consiglio, e che in questosenso soltanto si debba credere ch'egli parli nella prefa-zione accennata. Per consiglio parimenti di Cassiodoro,Muziano, detto egli pure Scolastico, tradusse dal grecoin latino 35 Omelie di s. Giovanni Grisostomo sulla Epi-stola agli Ebrei (ib. c. 8), la qual versione di nuovo èstata pubblicata dal p. Montfaucon nella sua edizionedelle Opere di questo s. dottore (vol. 12); e questi è quelMuziano medesimo che avea pur recato di greco in lati-no il libro di Gaudenzio intorno la Musica. Da lui pureveggiamo che Bellatore fu persuaso a comporre i co-menti su molti libri della sacra Scrittura, e a tradurre dalgreco in latino alcune omelie di Origene; delle quali fa-tiche di Bellatore parla egli stesso più volte (de Instit.div. lit. c. 1, 6). Di esse nulla ci è pervenuto, seppur nonvogliasi adottare la congettura di monsig. Huet, chel'antica versione di alcuni opuscoli di Origene, che tutto-ra abbiamo, sia quella appunto di Bellatore. Qual parteavesse per ultimo Cassiodoro negli studj di Dionigi so-prannomato il piccolo, il vedremo tra poco, ove di luistesso ragioneremo.

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VI. In tal maniera questo grand'uomo affati-cavasi con instancabile zelo in coltivare, inpromuovere, in fomentare gli studj d'ognimaniera. Egli giunse perfino, per render piùagevoli a' suoi monaci cotali studj, a prov-

vederli di certe lucerne a uso delle notturne fatiche, dicui egli parla come di cosa di sua invenzione (ib. c. 30).Quali esse fossero, nol dice; ma solo accenna ch'essegittavano copioso e durevol lume, e che "l'olio non veni-va lor meno, benchè nutrisse continuamente la fiamma".Le quali parole han fatto credere ad alcuni, che le lucer-ne di Cassiodoro tali fossero veramente, che avessero unlume non mai manchevole. Ma i valorosi fisici nons'indurranno a crederlo, così di leggieri; ed è probabileche Cassiodoro altro non voglia dire, se non che le suelucerne conservavano il lume, più lungamente assai, chenon soleano fare le usate comunemente. Egli ancor famenzione di due orologi ch'egli avea lavorati ad uso delsuo monastero, l'uno solare, l'altro ad acqua (ib.). Ma diquesti già abbiam veduto che fin da' tempi più antichiconoscevasi l'uso in Roma. In somma, come egli era sta-to in corte, così fu ancora nel monastero, coltivatore efomentatore indefesso delle scienze, e vi aggiunse insie-me l'esercizio delle cristiane virtù, per cui ne rimase a'posteri venerabile il nome per modo, ch'esso vedesi in-serito in alcuno degli antichi martirologi. In qual anno eimorisse, non si può diffinir certamente. Alcuni pensanoch'egli oltrepassasse il centesimo anno, e ne recano inpruova quelle sue parole: Pudet enim dicere, peccatis

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Lucerne e orologi da lui usati: sua morte.

VI. In tal maniera questo grand'uomo affati-cavasi con instancabile zelo in coltivare, inpromuovere, in fomentare gli studj d'ognimaniera. Egli giunse perfino, per render piùagevoli a' suoi monaci cotali studj, a prov-

vederli di certe lucerne a uso delle notturne fatiche, dicui egli parla come di cosa di sua invenzione (ib. c. 30).Quali esse fossero, nol dice; ma solo accenna ch'essegittavano copioso e durevol lume, e che "l'olio non veni-va lor meno, benchè nutrisse continuamente la fiamma".Le quali parole han fatto credere ad alcuni, che le lucer-ne di Cassiodoro tali fossero veramente, che avessero unlume non mai manchevole. Ma i valorosi fisici nons'indurranno a crederlo, così di leggieri; ed è probabileche Cassiodoro altro non voglia dire, se non che le suelucerne conservavano il lume, più lungamente assai, chenon soleano fare le usate comunemente. Egli ancor famenzione di due orologi ch'egli avea lavorati ad uso delsuo monastero, l'uno solare, l'altro ad acqua (ib.). Ma diquesti già abbiam veduto che fin da' tempi più antichiconoscevasi l'uso in Roma. In somma, come egli era sta-to in corte, così fu ancora nel monastero, coltivatore efomentatore indefesso delle scienze, e vi aggiunse insie-me l'esercizio delle cristiane virtù, per cui ne rimase a'posteri venerabile il nome per modo, ch'esso vedesi in-serito in alcuno degli antichi martirologi. In qual anno eimorisse, non si può diffinir certamente. Alcuni pensanoch'egli oltrepassasse il centesimo anno, e ne recano inpruova quelle sue parole: Pudet enim dicere, peccatis

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Lucerne e orologi da lui usati: sua morte.

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obnoxium centenarii numeri foecunditate provectum (inPsalmo 100). Ma a dir vero, per quanto io abbia più vol-te letto quel passo, non saprei accertare se queste paroledebban intendersi in senso letterale, o in altro senso alle-gorico. Certamente ei giunse a 93 anni di sua vita, comesi è dimostrato, e a me pare perciò, che l'opinione la piùprobabile sia quella appunto ch'è ancora la più comune,cioè ch'egli nato l'an. 479, o 480, morì l'an. 575 in età dicirca 96 anni.

VII. I monaci di Cassiodoro non erano i soliche in tali studj si occupassero. Anche neglialtri monasteri era, come abbiamo mostratonell'epoca precedente, comune l'uso di averebiblioteca; e benchè il lavoro delle manifosse ai monaci caldamente raccomandato,quello nondimeno dell'esercitarsi nel legge-

re e nel ricopiare i libri sembra che più di tutti si avessecaro. E di s. Fulgenzo singolarmente raccontasi (Mabill.Ann. bened. t. 1, l. 2, n. 11) che avendo egli due mona-steri fondati nell'Isola di Sardegna, per tal maniera rac-comandava a' suoi monaci il lavoro e la lettura, che mi-nor amore mostrava per quelli che lavoravan bensì, manon godevan di leggere; e sommamente amava colorche studiavano, benchè non avesser forze per le corpo-rali fatiche. Dal frequente uso di copiar libri ne vennetra' monaci il nome di antiquario ossia copiatore, che sìspesso s'incontra nell'antica Storia monastica (V. Mabill.

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Gli altri monaci an-cora e tal-volta le monache si occupano nel copiar libri.

obnoxium centenarii numeri foecunditate provectum (inPsalmo 100). Ma a dir vero, per quanto io abbia più vol-te letto quel passo, non saprei accertare se queste paroledebban intendersi in senso letterale, o in altro senso alle-gorico. Certamente ei giunse a 93 anni di sua vita, comesi è dimostrato, e a me pare perciò, che l'opinione la piùprobabile sia quella appunto ch'è ancora la più comune,cioè ch'egli nato l'an. 479, o 480, morì l'an. 575 in età dicirca 96 anni.

VII. I monaci di Cassiodoro non erano i soliche in tali studj si occupassero. Anche neglialtri monasteri era, come abbiamo mostratonell'epoca precedente, comune l'uso di averebiblioteca; e benchè il lavoro delle manifosse ai monaci caldamente raccomandato,quello nondimeno dell'esercitarsi nel legge-

re e nel ricopiare i libri sembra che più di tutti si avessecaro. E di s. Fulgenzo singolarmente raccontasi (Mabill.Ann. bened. t. 1, l. 2, n. 11) che avendo egli due mona-steri fondati nell'Isola di Sardegna, per tal maniera rac-comandava a' suoi monaci il lavoro e la lettura, che mi-nor amore mostrava per quelli che lavoravan bensì, manon godevan di leggere; e sommamente amava colorche studiavano, benchè non avesser forze per le corpo-rali fatiche. Dal frequente uso di copiar libri ne vennetra' monaci il nome di antiquario ossia copiatore, che sìspesso s'incontra nell'antica Storia monastica (V. Mabill.

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Gli altri monaci an-cora e tal-volta le monache si occupano nel copiar libri.

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praef. ad vol. 1 Act. SS. Ord. s. Bened. n. 114, ec.). Anzitra le monache ancora vedevansi talvolta alcune occu-parsi anch'esse nel copiar libri, come del monastero divergini da s. Cesario fondato in Arles l'an. 521 afferma eprova il dotto p. Mabillon (ib. l. 1, n. 52) che più altriesempi produce altrove a provare che gli studj sacri fu-ron talvolta usati ancor fra le monache (praef. ad Act.SS. saec. 3, p. 1, n. 47). In tal maniera mentre i Barbarico' frequenti incendj e co' rapaci saccheggiamenti deva-stavano ogni cosa, e a' codici e alle biblioteche recavanoincredibile danno, adoperavansi i monaci colle loro fati-che a compensare in qualche modo sì fatte perdite; e adessi singolarmente noi siam debitori, se abbiamo ancormolte dell'opere degli antichi, che senza la loro industriasarebbono probabilmente perite.

VIII. Non è perciò a stupire se molti mona-ci dotti si vedessero fino da questi tempi re-care non piccol vantaggio alle scienze co'loro studj. Fra questi uno de' più famosi fuAlionigi soprannominato il piccolo per la

piccolezza della sua statura. Era egli scita di nascita, madi costumi romano, come afferma Cassiodoro (de Inst.div. lit. c. 23), e possiam aggiugnere ancora di abitazio-ne, poichè da Paolo Diacono (De gestis Lang. l. 1, c. 25)e da Beda (De Tempor. c. 45) si dice ch'egli era abate inRoma; colle quali parole non è chiaro se vogliano essiindicarci ch'egli avesse la dignità di abate, o solo che

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Notizie ed elogio di Dionigi il piccolo.

praef. ad vol. 1 Act. SS. Ord. s. Bened. n. 114, ec.). Anzitra le monache ancora vedevansi talvolta alcune occu-parsi anch'esse nel copiar libri, come del monastero divergini da s. Cesario fondato in Arles l'an. 521 afferma eprova il dotto p. Mabillon (ib. l. 1, n. 52) che più altriesempi produce altrove a provare che gli studj sacri fu-ron talvolta usati ancor fra le monache (praef. ad Act.SS. saec. 3, p. 1, n. 47). In tal maniera mentre i Barbarico' frequenti incendj e co' rapaci saccheggiamenti deva-stavano ogni cosa, e a' codici e alle biblioteche recavanoincredibile danno, adoperavansi i monaci colle loro fati-che a compensare in qualche modo sì fatte perdite; e adessi singolarmente noi siam debitori, se abbiamo ancormolte dell'opere degli antichi, che senza la loro industriasarebbono probabilmente perite.

VIII. Non è perciò a stupire se molti mona-ci dotti si vedessero fino da questi tempi re-care non piccol vantaggio alle scienze co'loro studj. Fra questi uno de' più famosi fuAlionigi soprannominato il piccolo per la

piccolezza della sua statura. Era egli scita di nascita, madi costumi romano, come afferma Cassiodoro (de Inst.div. lit. c. 23), e possiam aggiugnere ancora di abitazio-ne, poichè da Paolo Diacono (De gestis Lang. l. 1, c. 25)e da Beda (De Tempor. c. 45) si dice ch'egli era abate inRoma; colle quali parole non è chiaro se vogliano essiindicarci ch'egli avesse la dignità di abate, o solo che

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Notizie ed elogio di Dionigi il piccolo.

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fosse monaco, come osserva il p. Mabillon essere statocostume degli Orientali per riguardo a' monaci per virtùe per sapere più illustri. Un magnifico elogio di questoerudito monaco ci ha lasciato Cassiodoro (l. c.), il qualevolendo provare che la Chiesa cattolica avea anche a'suoi giorni uomini dotti ed illustri, rammenta il monaco,Dionigi ch'è stato, dice, a' giorni nostri, e il chiama"uomo nella greca e nella latina lingua dottissimo; e incui il sapere vedeasi congiunto con una grande semplici-tà, colla umiltà la dottrina, e l'eloquenza colla sobrietànel parlare; cattolico perfetto, e delle tradizioni de' Padrifedel seguace". Egli ancora rammenta la facilità ch'egliavea a sciogliere prontamente o in greco, o in latinoqualunque dubbio sulle sacre Scritture, di cui venisse ri-chiesto, e insieme le virtù religiose di cui era mirabil-mente adorno. Ciò che aggiugne qui Cassiodoro, cheamendue insieme avean letta la dialettica, ha fatto cre-dere ad alcuno ch'egli facesse al suo monastero venirDionigi, e di lui si valesse a istruir nella dialettica i suoimonaci. Ma, come riflette il p. Mabillon (Ann. ben. t. 1,l. 5, n. 25), Cassiodoro nel passo citato delle sue Istitu-zioni delle divine lettere parla di Dionigi come d'uomogià trapassato; e quest'opera fu la seconda, com'eglistesso c'insegna, da lui composta dopo la sua conversio-ne, cioè poco tempo dopo ch'egli ebbe abbracciata lavita monastica. Oltre che se ciò fosse stato, pare cheCassiodoro avrebbe citato il testimonio de' suoi monacistessi che l'aveano conosciuto, e avrebbe rammentato ilvantaggio che dalle istruzioni di lui aveano ricavato; di

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fosse monaco, come osserva il p. Mabillon essere statocostume degli Orientali per riguardo a' monaci per virtùe per sapere più illustri. Un magnifico elogio di questoerudito monaco ci ha lasciato Cassiodoro (l. c.), il qualevolendo provare che la Chiesa cattolica avea anche a'suoi giorni uomini dotti ed illustri, rammenta il monaco,Dionigi ch'è stato, dice, a' giorni nostri, e il chiama"uomo nella greca e nella latina lingua dottissimo; e incui il sapere vedeasi congiunto con una grande semplici-tà, colla umiltà la dottrina, e l'eloquenza colla sobrietànel parlare; cattolico perfetto, e delle tradizioni de' Padrifedel seguace". Egli ancora rammenta la facilità ch'egliavea a sciogliere prontamente o in greco, o in latinoqualunque dubbio sulle sacre Scritture, di cui venisse ri-chiesto, e insieme le virtù religiose di cui era mirabil-mente adorno. Ciò che aggiugne qui Cassiodoro, cheamendue insieme avean letta la dialettica, ha fatto cre-dere ad alcuno ch'egli facesse al suo monastero venirDionigi, e di lui si valesse a istruir nella dialettica i suoimonaci. Ma, come riflette il p. Mabillon (Ann. ben. t. 1,l. 5, n. 25), Cassiodoro nel passo citato delle sue Istitu-zioni delle divine lettere parla di Dionigi come d'uomogià trapassato; e quest'opera fu la seconda, com'eglistesso c'insegna, da lui composta dopo la sua conversio-ne, cioè poco tempo dopo ch'egli ebbe abbracciata lavita monastica. Oltre che se ciò fosse stato, pare cheCassiodoro avrebbe citato il testimonio de' suoi monacistessi che l'aveano conosciuto, e avrebbe rammentato ilvantaggio che dalle istruzioni di lui aveano ricavato; di

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che ei non fa motto. Sembra dunque probabile che altronon voglia egli indicare con quelle parole, se non che inRoma si erano esercitati insieme nello studio della dia-lettica.

IX. Ciò che ha renduto più celebre ilnome di Dionigi, sono il nuovo ciclopasquale di 92 anni da lui ritrovato adeterminare per ogni anno il dì di Pa-squa, e l'uso di segnar gli anni coll'uso

dell'era cristiana da lui primieramente introdotto. Intor-no a che veggasi il p. Petavio (De doctr. temp. l. 12, c. 2,3), il quale ha ancor pubblicato qualche frammento didue lettere inedite dello stesso Dionigi su tale argomen-to. Egli fissò il primo anno dell'era cristiana, comincian-dolo dal gennaio seguente alla nascita del Redentore,all'anno della fondazione di Roma 754; nel che però cre-desi comunemente da' moderni cronologi, ch'egli ren-desse errore, e che la nascita del Divin Redentore sidebba anticipare di 4 anni, benchè in questo numerostesso non tutti convengano. Ma non è di quest'operal'entrare a contesa su tal quistione. Egli innoltre ad istan-za di Stefano vesc. di Salona recò dal greco in latino laraccolta de' Canoni Ecclesiastici, e poscia ancora raccol-se le Lettere Decretali cominciando da Siricio fino adAnastasio II, oltre più altre operette ch'egli parimenti dalgreco traslatò in latino, e che si posson vedere annovera-te dagli scrittori di Biblioteche Ecclesiastiche, e singo-

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Ciclo pasquale edera cristiana da luiintrodotta. Altresue opere.

che ei non fa motto. Sembra dunque probabile che altronon voglia egli indicare con quelle parole, se non che inRoma si erano esercitati insieme nello studio della dia-lettica.

IX. Ciò che ha renduto più celebre ilnome di Dionigi, sono il nuovo ciclopasquale di 92 anni da lui ritrovato adeterminare per ogni anno il dì di Pa-squa, e l'uso di segnar gli anni coll'uso

dell'era cristiana da lui primieramente introdotto. Intor-no a che veggasi il p. Petavio (De doctr. temp. l. 12, c. 2,3), il quale ha ancor pubblicato qualche frammento didue lettere inedite dello stesso Dionigi su tale argomen-to. Egli fissò il primo anno dell'era cristiana, comincian-dolo dal gennaio seguente alla nascita del Redentore,all'anno della fondazione di Roma 754; nel che però cre-desi comunemente da' moderni cronologi, ch'egli ren-desse errore, e che la nascita del Divin Redentore sidebba anticipare di 4 anni, benchè in questo numerostesso non tutti convengano. Ma non è di quest'operal'entrare a contesa su tal quistione. Egli innoltre ad istan-za di Stefano vesc. di Salona recò dal greco in latino laraccolta de' Canoni Ecclesiastici, e poscia ancora raccol-se le Lettere Decretali cominciando da Siricio fino adAnastasio II, oltre più altre operette ch'egli parimenti dalgreco traslatò in latino, e che si posson vedere annovera-te dagli scrittori di Biblioteche Ecclesiastiche, e singo-

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Ciclo pasquale edera cristiana da luiintrodotta. Altresue opere.

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larmente dal p. Ceillier (Hist. des Aut. Eccl. t. 16, p.220). Ma intorno alle Raccolte de' Canoni e delle Decre-tali da lui fatte merita di esser letto ciò che ne hannoscritto i dottissimi Ballerini (Diss. de Collect. Decretal.pars 3, c. 1, vol. 3, Op. s. Leon.). In qual anno ei moris-se, non si può accertare; ma pare che non si possa diffe-rir molto dopo l'an. 540, verso il qual tempo, come ab-biam detto, Cassiodoro ritirossi nel monastero.

X. Aggiungansi a questi que' molti monaciche cominciarono di questi tempi a scriverle Vite de' fondatori de' lor monasteri, o diquelli che in essi per la santità de' loro co-stumi si renderono illustri; molte delle quali

si posson veder raccolte e date alla luce dell'eruditiss. p.Mabillon negli Atti de' Santi dell'Ord. di s. Benedetto.Ed io ben so che molti troppo severi critici de' nostrigiorni hanno cotali Vite in conto di favolose, e le diconopiene di puerili e di claustrali semplicità. Nè voglio giàio negare che alcuni di questi scrittori non siano staticreduli oltre il dovere, e molte cose non ci abbian narra-te inverisimili e false. Ma parmi ragionevole primiera-mente, che col rigettare ogni cosa non si cada in un di-fetto uguale, o forse ancora maggiore di quello di crede-re ogni cosa; in secondo luogo, che allor quandos'incontra qualche racconto maraviglioso, non si griditosto all'impostura (seppure non si pretenda di aver di-mostrato che cose maravigliose non posson mai accade-

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Vite dei Santi, e loro apolo-gia.

larmente dal p. Ceillier (Hist. des Aut. Eccl. t. 16, p.220). Ma intorno alle Raccolte de' Canoni e delle Decre-tali da lui fatte merita di esser letto ciò che ne hannoscritto i dottissimi Ballerini (Diss. de Collect. Decretal.pars 3, c. 1, vol. 3, Op. s. Leon.). In qual anno ei moris-se, non si può accertare; ma pare che non si possa diffe-rir molto dopo l'an. 540, verso il qual tempo, come ab-biam detto, Cassiodoro ritirossi nel monastero.

X. Aggiungansi a questi que' molti monaciche cominciarono di questi tempi a scriverle Vite de' fondatori de' lor monasteri, o diquelli che in essi per la santità de' loro co-stumi si renderono illustri; molte delle quali

si posson veder raccolte e date alla luce dell'eruditiss. p.Mabillon negli Atti de' Santi dell'Ord. di s. Benedetto.Ed io ben so che molti troppo severi critici de' nostrigiorni hanno cotali Vite in conto di favolose, e le diconopiene di puerili e di claustrali semplicità. Nè voglio giàio negare che alcuni di questi scrittori non siano staticreduli oltre il dovere, e molte cose non ci abbian narra-te inverisimili e false. Ma parmi ragionevole primiera-mente, che col rigettare ogni cosa non si cada in un di-fetto uguale, o forse ancora maggiore di quello di crede-re ogni cosa; in secondo luogo, che allor quandos'incontra qualche racconto maraviglioso, non si griditosto all'impostura (seppure non si pretenda di aver di-mostrato che cose maravigliose non posson mai accade-

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Vite dei Santi, e loro apolo-gia.

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re), ma si esamini su quai fondamenti esso si asserisca;in terzo luogo, che a ciò che uno assicura di aver vedu-to, cogli occhi suoi propj, non si neghi fede così di leg-geri; nè si dia ad altri senza gravissimo fondamento lataccia di mentitore, che troppo mal volentieri si soffri-rebbe di ricevere; per ultimo che per gli storici sacri siabbia almeno quel riguardo medesimo che si ha pe' pro-fani; nè si uniscan tutti in un fascio, e si gettino con di-spetto come indegni di fede. Ed è certo che a cotaliscrittori sacri noi dobbiamo non poco per le notizie ap-prtenenti ancora alla storia profana, ch'essi ci hanno la-sciate, e che inutilmente si cercherebbono altrove. Ionon mi tratterrò nondimeno a parlare di ciascheduno diessi, e lascerò ancora di favellare di altri monaci che aquesto tempo diedero qualche saggio del lor sapere; in-torno a' quali si potrà vedere oltre altri scrittori la Storialetteraria dell'Ord. di s. Benedetto del p. Ziegelbaver.

XI. Il clero secolare ancora ebbe aquest'epoca valorosi coltivatori, per quan-to il permetteva la condizione de' tempi,de' buoni studj. Abbiamo altrove (t. 1, p.391, ec.) fatta menzione del Concilio di

Vaison tenuto l'an. 529, in cui si ordina che i parrochitutti debban nelle lor case tenere alcuni giovinetti, e ve-nirgli istruendo negli studi opportuni a coloro che deb-bon servire alla chiesa; e si rammenta che tale appuntoera l'uso di tutta Italia: secundum consuetudinem, quam

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Scuole eccle-siastiche nellechiese parroc-chiali.

re), ma si esamini su quai fondamenti esso si asserisca;in terzo luogo, che a ciò che uno assicura di aver vedu-to, cogli occhi suoi propj, non si neghi fede così di leg-geri; nè si dia ad altri senza gravissimo fondamento lataccia di mentitore, che troppo mal volentieri si soffri-rebbe di ricevere; per ultimo che per gli storici sacri siabbia almeno quel riguardo medesimo che si ha pe' pro-fani; nè si uniscan tutti in un fascio, e si gettino con di-spetto come indegni di fede. Ed è certo che a cotaliscrittori sacri noi dobbiamo non poco per le notizie ap-prtenenti ancora alla storia profana, ch'essi ci hanno la-sciate, e che inutilmente si cercherebbono altrove. Ionon mi tratterrò nondimeno a parlare di ciascheduno diessi, e lascerò ancora di favellare di altri monaci che aquesto tempo diedero qualche saggio del lor sapere; in-torno a' quali si potrà vedere oltre altri scrittori la Storialetteraria dell'Ord. di s. Benedetto del p. Ziegelbaver.

XI. Il clero secolare ancora ebbe aquest'epoca valorosi coltivatori, per quan-to il permetteva la condizione de' tempi,de' buoni studj. Abbiamo altrove (t. 1, p.391, ec.) fatta menzione del Concilio di

Vaison tenuto l'an. 529, in cui si ordina che i parrochitutti debban nelle lor case tenere alcuni giovinetti, e ve-nirgli istruendo negli studi opportuni a coloro che deb-bon servire alla chiesa; e si rammenta che tale appuntoera l'uso di tutta Italia: secundum consuetudinem, quam

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Scuole eccle-siastiche nellechiese parroc-chiali.

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per totam Italiam satis salubriter teneri cognovimus.Era dunque questo general costume in questi tempi intutta la nostra Italia, che i parrochi tenessero una cotalescuola di studj sacri. Io credo però, che solo i primi ele-menti vi s'insegnassero; perchè parmi strano che, se usa-vano i parrochi d'insegnare anche le scienze sacre, inRoma non ve ne fosse pubblica scuola, come abbiamudito narrarsi da Cassiodoro il quale adoperossi congrande ardore per introdurla, ma per le sciagure de' tem-pi nol potè ottenere. Sembra dunque probabile che intali scuole s'insegnasse ciò solamente che ad un eccle-siastico è necessario precisamente; ma non si andassepiù oltre.

XII. Non sono nè molti nè molto celebri co-munemente gli scrittori sacri italiani di que-sti tempi, e due ragioni vi concorsero a mioparere. Nell'epoca precedente, cioè ai tempi

di Costantino e de' suoi successori, la religion cristianacominciò ad alzare liberamente il capo; e a' pastori fu le-cito l'istruire a tutto loro agio i fedeli e colla voce e cogliscritti de' dogmi della lor fede. Quindi molti vi furonoche presero a scriver libri e trattati a comune istruzione,e i sermoni ancora tenuti da alcuni al lor popolo furonraccolti, e per maggiore utilità pubblicati. Questo biso-gno cominciava ora ad esser minore, poichè i Cristianivenivano più facilmente istruiti, e le opere degli scrittoridell'età precedenti bastavano ancora all'istruzione de'

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Ragionidello scarsonumero.

per totam Italiam satis salubriter teneri cognovimus.Era dunque questo general costume in questi tempi intutta la nostra Italia, che i parrochi tenessero una cotalescuola di studj sacri. Io credo però, che solo i primi ele-menti vi s'insegnassero; perchè parmi strano che, se usa-vano i parrochi d'insegnare anche le scienze sacre, inRoma non ve ne fosse pubblica scuola, come abbiamudito narrarsi da Cassiodoro il quale adoperossi congrande ardore per introdurla, ma per le sciagure de' tem-pi nol potè ottenere. Sembra dunque probabile che intali scuole s'insegnasse ciò solamente che ad un eccle-siastico è necessario precisamente; ma non si andassepiù oltre.

XII. Non sono nè molti nè molto celebri co-munemente gli scrittori sacri italiani di que-sti tempi, e due ragioni vi concorsero a mioparere. Nell'epoca precedente, cioè ai tempi

di Costantino e de' suoi successori, la religion cristianacominciò ad alzare liberamente il capo; e a' pastori fu le-cito l'istruire a tutto loro agio i fedeli e colla voce e cogliscritti de' dogmi della lor fede. Quindi molti vi furonoche presero a scriver libri e trattati a comune istruzione,e i sermoni ancora tenuti da alcuni al lor popolo furonraccolti, e per maggiore utilità pubblicati. Questo biso-gno cominciava ora ad esser minore, poichè i Cristianivenivano più facilmente istruiti, e le opere degli scrittoridell'età precedenti bastavano ancora all'istruzione de'

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Ragionidello scarsonumero.

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posteri. Inoltre nell'epoca precedente l'eresie di Ario e diPelagio e di altri aveano anche in Italia non pochi segua-ci. Ed era d'uopo perciò, che da' padri venissero confuta-te, ed avvertiti i fedeli, perchè fosser cauti a non lasciar-si trarre in errore. Ma ora queste eresie cominciavanoormai ad essere dimenticate e neglette; e benchè i reostrogoti fossero comunemente ariani, come nondimenoessi non molestavano per tal riguardo i Cattolici, nè sistudiavan di stendere i loro errori, e gli Ostrogoti ch'era-no pure in gran parte ariani, non erano uomini a convin-cersi con dottrina e con libri, perciò i Cattolici paghidelle confutazioni già fatte di cotali eresie non furonmolto solleciti, nè crederon esser d'uopo di rinnovar lebattaglie.

XIII. Di alcuni tra que' medesimi de' qualiabbiam qualche opera, come di s. Ennodio,di Aratore, e di alcuni altri, mi riserverò aparlare nel capo seguente, al cui argomento

propriamente appartengono i loro libri. Io accennerò quisolamente Vittore vescovo di Capova, che fiorì versol'an. 545, e che oltre l'aver tradotto dal greco in latinol'armonia evangelica attribuita ad Ammonio, ch'è inseri-ta nella Biblioteca de' Padri, scrisse ancora qualche trat-tato sul ciclo pasquale, impugnando un nuovo canoneche da Vittorio d'Aquitania erasi divulgato, e una Catenaossia un Comento raccolto da più autori sopra gli Evan-gelj; Pascasio diacono della Chiesa romana, che al prin-

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Se ne indi-cano alcu-ni.

posteri. Inoltre nell'epoca precedente l'eresie di Ario e diPelagio e di altri aveano anche in Italia non pochi segua-ci. Ed era d'uopo perciò, che da' padri venissero confuta-te, ed avvertiti i fedeli, perchè fosser cauti a non lasciar-si trarre in errore. Ma ora queste eresie cominciavanoormai ad essere dimenticate e neglette; e benchè i reostrogoti fossero comunemente ariani, come nondimenoessi non molestavano per tal riguardo i Cattolici, nè sistudiavan di stendere i loro errori, e gli Ostrogoti ch'era-no pure in gran parte ariani, non erano uomini a convin-cersi con dottrina e con libri, perciò i Cattolici paghidelle confutazioni già fatte di cotali eresie non furonmolto solleciti, nè crederon esser d'uopo di rinnovar lebattaglie.

XIII. Di alcuni tra que' medesimi de' qualiabbiam qualche opera, come di s. Ennodio,di Aratore, e di alcuni altri, mi riserverò aparlare nel capo seguente, al cui argomento

propriamente appartengono i loro libri. Io accennerò quisolamente Vittore vescovo di Capova, che fiorì versol'an. 545, e che oltre l'aver tradotto dal greco in latinol'armonia evangelica attribuita ad Ammonio, ch'è inseri-ta nella Biblioteca de' Padri, scrisse ancora qualche trat-tato sul ciclo pasquale, impugnando un nuovo canoneche da Vittorio d'Aquitania erasi divulgato, e una Catenaossia un Comento raccolto da più autori sopra gli Evan-gelj; Pascasio diacono della Chiesa romana, che al prin-

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Se ne indi-cano alcu-ni.

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cipio del VI sec. scrisse due libri intorno allo SpiritoSanto contro l'eresia di Macedonio, i quali però da altrisi attribuiscono a Fausto di Riez; e quel Lorenzo, chiun-que egli fosse, e a qualunque tempo vivesse, la cui elo-quenza fu in sì gran pregio, ch'ei n'ebbe il nome di Mel-lifluo, e di cui abbiamo ancora qualche omelia. De' qua-li, e di altri scrittori sacri ch'io tralascio e per brevità eperchè non ci han lasciate opere di gran nome, veggansigli scrittori di Biblioteche Ecclesiastiche, e singolar-mente il più volte citato Ceillier (t. 16, p. 547, 175; t. 15,p. 352).

CAPO III. Belle lettere.

I. I giorni lieti e tranquilli che sorseroall'Italia, mentre regnavano Teodorico eAtalarico, sembrarono risvegliare negl'Ita-liani per qualche tempo quel vivo e fervidoentusiasmo nel coltivamento degli amenistudj, onde essi erano stati compresi ne' se-coli addietro, ma che per le pubbliche cala-

mità che travagliarono nella sua decadenza il romanoimpero, erasi rattepidito, e quasi interamente estinto. Fu-rono dunque all'epoca di cui trattiamo, non pochi chenello studio dell'amena letteratura si esercitarono; e ben-chè la maggior parte di essi lasciassero penetrare ne'loro scritti quella barbarie medesima che contraevano

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Il favore di Teodorico edi Atalaricorisveglia glistudj dell'amena letteratura.

cipio del VI sec. scrisse due libri intorno allo SpiritoSanto contro l'eresia di Macedonio, i quali però da altrisi attribuiscono a Fausto di Riez; e quel Lorenzo, chiun-que egli fosse, e a qualunque tempo vivesse, la cui elo-quenza fu in sì gran pregio, ch'ei n'ebbe il nome di Mel-lifluo, e di cui abbiamo ancora qualche omelia. De' qua-li, e di altri scrittori sacri ch'io tralascio e per brevità eperchè non ci han lasciate opere di gran nome, veggansigli scrittori di Biblioteche Ecclesiastiche, e singolar-mente il più volte citato Ceillier (t. 16, p. 547, 175; t. 15,p. 352).

CAPO III. Belle lettere.

I. I giorni lieti e tranquilli che sorseroall'Italia, mentre regnavano Teodorico eAtalarico, sembrarono risvegliare negl'Ita-liani per qualche tempo quel vivo e fervidoentusiasmo nel coltivamento degli amenistudj, onde essi erano stati compresi ne' se-coli addietro, ma che per le pubbliche cala-

mità che travagliarono nella sua decadenza il romanoimpero, erasi rattepidito, e quasi interamente estinto. Fu-rono dunque all'epoca di cui trattiamo, non pochi chenello studio dell'amena letteratura si esercitarono; e ben-chè la maggior parte di essi lasciassero penetrare ne'loro scritti quella barbarie medesima che contraevano

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Il favore di Teodorico edi Atalaricorisveglia glistudj dell'amena letteratura.

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nel ragionar famigliare dal continuo commercio co' Bar-bari, furon però degni di lode i loro sforzi co' quali siadoperarono a tener viva la memoria de' buoni autori, ea persuaderne l'imitazione; e alcuni di essi ancora si sep-per difendere per tal maniera dalla comune rozzezza,che parvero richiamare lo stile de' tempi andati. Fra que-sti fu singolarmente Boezio i cui versi son certamentemigliori assai che non quelli della più parte degli scritto-ri de' due ultimi secoli. Ma come più che in ogni altrasorte di studio ei si rendette celebre nella filosofia, di luici riserberemo a ragionare nel capo seguente, e qui ram-menteremo coloro che o per eloquenza o per poesia, oper qualche altra parte di amena letteratura divenner fa-mosi.

II. A questo tempo incominciamo a vederealcuni uomini dotti esser solleciti di conser-vare, di accrescere, di emendare i codici incui si contenevano l'opere degli ottimi au-tori latini. Questi cominciavano ad essereantichi, e insieme a divenir rari assai, es-sendo molte le copie che se ne smarrivano

per le sciagure de' tempi; e innoltre crescendo semprepiù la barbarie, e rozzi essendo i copiatori vi s'introduce-vano non pochi falli che li rendevano viziosi insieme edoscuri. Quindi uomini anche cospicui per dignità e persapere si preser talvolta il pensiero di confrontare e diemendare tali codici, perchè fosser più esatti. Molti ne

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Codici anti-chi corretti: notizie del Virgilio me-diceo-lau-renziano.

nel ragionar famigliare dal continuo commercio co' Bar-bari, furon però degni di lode i loro sforzi co' quali siadoperarono a tener viva la memoria de' buoni autori, ea persuaderne l'imitazione; e alcuni di essi ancora si sep-per difendere per tal maniera dalla comune rozzezza,che parvero richiamare lo stile de' tempi andati. Fra que-sti fu singolarmente Boezio i cui versi son certamentemigliori assai che non quelli della più parte degli scritto-ri de' due ultimi secoli. Ma come più che in ogni altrasorte di studio ei si rendette celebre nella filosofia, di luici riserberemo a ragionare nel capo seguente, e qui ram-menteremo coloro che o per eloquenza o per poesia, oper qualche altra parte di amena letteratura divenner fa-mosi.

II. A questo tempo incominciamo a vederealcuni uomini dotti esser solleciti di conser-vare, di accrescere, di emendare i codici incui si contenevano l'opere degli ottimi au-tori latini. Questi cominciavano ad essereantichi, e insieme a divenir rari assai, es-sendo molte le copie che se ne smarrivano

per le sciagure de' tempi; e innoltre crescendo semprepiù la barbarie, e rozzi essendo i copiatori vi s'introduce-vano non pochi falli che li rendevano viziosi insieme edoscuri. Quindi uomini anche cospicui per dignità e persapere si preser talvolta il pensiero di confrontare e diemendare tali codici, perchè fosser più esatti. Molti ne

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Codici anti-chi corretti: notizie del Virgilio me-diceo-lau-renziano.

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annovera il Fabricio (Bibl. lat. t. 1, p. 36 ed. ven.), alle-gando l'autorità del Lindenbrogio che ne' suoi comenti aTerenzio ne ha diligentemente raccolti i nomi, e tra essiveggiamo Vezio Agorio Basilio Mavorzio che fu conso-le l'an. 526, il cui nome trovasi in qualche antichissimocodice delle poesie d'Orazio rammentato ancor dal Ben-tley (praef. ad Hor. Carm.); e un Felice retore cheemendò un codice di Marziano Capella, ch'è forse quelFelice medesimo che vedrem fra non molto fatto questo-re da Atalarico. Ma di uno singolarmente è celebre ilnome, perchè fino a noi è pervenuto il codice ch'egli disua propria mano volle emendare. Io parlo del celebrecodice di Virgilio, che ora conservasi nella Bibliotecalaurenziana in Firenze, e ch'è forse il più antico di quan-ti ci son rimasti, quando non si voglia credere de' tempidi Costantino il Virgilio vaticano di cui si è già detto.Turcio Rufio Aproniano Asterio, uomo celebre per le di-gnità sostenute, e console l'an. 494, fu quegli appuntoche rivide ed emendò questo codice, e ce ne lasciò eglistesso un autorevole testimonio con queste parole scrittedi sua propria mano al fine della Buccolica, con cui ciannovera le ragguardevoli cariche alle quali era stato in-nalzato: Tarcius Rufius Apronianus Asterius V. C. et Inl.Ex Comite domest. Protect. Ex Com. Priv. Largit. ExPraef. Urbi Patricius et Consul Ordin. legi et distinxiCodicem Fratris Macharii V. C. non mei fiducia, sedeius cui si ad omnia sum devotus arbitrio XI. Kal. MajRomae.

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annovera il Fabricio (Bibl. lat. t. 1, p. 36 ed. ven.), alle-gando l'autorità del Lindenbrogio che ne' suoi comenti aTerenzio ne ha diligentemente raccolti i nomi, e tra essiveggiamo Vezio Agorio Basilio Mavorzio che fu conso-le l'an. 526, il cui nome trovasi in qualche antichissimocodice delle poesie d'Orazio rammentato ancor dal Ben-tley (praef. ad Hor. Carm.); e un Felice retore cheemendò un codice di Marziano Capella, ch'è forse quelFelice medesimo che vedrem fra non molto fatto questo-re da Atalarico. Ma di uno singolarmente è celebre ilnome, perchè fino a noi è pervenuto il codice ch'egli disua propria mano volle emendare. Io parlo del celebrecodice di Virgilio, che ora conservasi nella Bibliotecalaurenziana in Firenze, e ch'è forse il più antico di quan-ti ci son rimasti, quando non si voglia credere de' tempidi Costantino il Virgilio vaticano di cui si è già detto.Turcio Rufio Aproniano Asterio, uomo celebre per le di-gnità sostenute, e console l'an. 494, fu quegli appuntoche rivide ed emendò questo codice, e ce ne lasciò eglistesso un autorevole testimonio con queste parole scrittedi sua propria mano al fine della Buccolica, con cui ciannovera le ragguardevoli cariche alle quali era stato in-nalzato: Tarcius Rufius Apronianus Asterius V. C. et Inl.Ex Comite domest. Protect. Ex Com. Priv. Largit. ExPraef. Urbi Patricius et Consul Ordin. legi et distinxiCodicem Fratris Macharii V. C. non mei fiducia, sedeius cui si ad omnia sum devotus arbitrio XI. Kal. MajRomae.

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P. Virgilii Maronis Distincxi emendans gratum mihi munus amici

Suscipiens operi sedulus incubui.

Buccolicon liber explicit. Dalle quali parole noi racco-gliamo ch'egli avea avuto questo codice in dono da Ma-cario cui prima chiama per affetto fratello, ma posciaspiega ch'eragli solamente amico; e ch'egli avealo dili-gentemente emendato, come di fatto si vede nel codicestesso. Questo codice doveva essere di qualche antichi-tà, e tale che fosse presente degno da offerirsi ad unconsole, e quindi l'Olstenio citato dal card. Noris (Ce-not. pisana diss. 4, c. 2, § 1) pensa che fosse scritto a'tempi di Valente, ovvero di Teodosio il grande (5). DiAproniano e delle dignità sostenute da lui e dai chiarisuoi antenati parla ampiamente con somma erudizione ilsopraccitato dottissimo cardinale (l. c.). Ma io osserveròsolamente che la correzion di lui fatta di questo codice,e in quell'anno stesso, come ora vedremo, in cui fu con-sole, cel fa conoscere uomo assai amante de' poetici stu-dj. E di questi un piccol saggio ci ha egli lasciato nellostesso codice in un suo epigramma da lui soggiunto alleparole or or recitate, in cui dichiara ciò che sopra abbia-mo accennato, che all'emendazione di questo codice egliattese in quell'anno stesso in cui era console, e mentre sicelebravano gli spettacoli da lui perciò dati al popol ro-

5 Di questo celebre codice si parlerà nuovamente più in avanti, quando ra-gionerassi della biblioteca del card. Rodolfo Pio, a cui già appartenne.Veggasi frattanto l'esatta descrizione che ce ne ha poi data il ch. sig. can.Bandini (Cat. Codd. lat. Bibl. Laurent. t. 2, p. 281, ec.).

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P. Virgilii Maronis Distincxi emendans gratum mihi munus amici

Suscipiens operi sedulus incubui.

Buccolicon liber explicit. Dalle quali parole noi racco-gliamo ch'egli avea avuto questo codice in dono da Ma-cario cui prima chiama per affetto fratello, ma posciaspiega ch'eragli solamente amico; e ch'egli avealo dili-gentemente emendato, come di fatto si vede nel codicestesso. Questo codice doveva essere di qualche antichi-tà, e tale che fosse presente degno da offerirsi ad unconsole, e quindi l'Olstenio citato dal card. Noris (Ce-not. pisana diss. 4, c. 2, § 1) pensa che fosse scritto a'tempi di Valente, ovvero di Teodosio il grande (5). DiAproniano e delle dignità sostenute da lui e dai chiarisuoi antenati parla ampiamente con somma erudizione ilsopraccitato dottissimo cardinale (l. c.). Ma io osserveròsolamente che la correzion di lui fatta di questo codice,e in quell'anno stesso, come ora vedremo, in cui fu con-sole, cel fa conoscere uomo assai amante de' poetici stu-dj. E di questi un piccol saggio ci ha egli lasciato nellostesso codice in un suo epigramma da lui soggiunto alleparole or or recitate, in cui dichiara ciò che sopra abbia-mo accennato, che all'emendazione di questo codice egliattese in quell'anno stesso in cui era console, e mentre sicelebravano gli spettacoli da lui perciò dati al popol ro-

5 Di questo celebre codice si parlerà nuovamente più in avanti, quando ra-gionerassi della biblioteca del card. Rodolfo Pio, a cui già appartenne.Veggasi frattanto l'esatta descrizione che ce ne ha poi data il ch. sig. can.Bandini (Cat. Codd. lat. Bibl. Laurent. t. 2, p. 281, ec.).

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mano. Tempore, quo penaces Circo subjunximus, atque

Scenam Euripo extulimus subitam, Ut ludos currusque simul variumque ferarum

Certamen junctim Roma teneret ovans, Tantum quippe sofos merui: terna agmina vulgi

Per caveas plausus concinuere meos: Pretium (sic) In quaestum famae census jactura cucurrit,

Nam laudis fructum talia damna ferant. Sic tota consumptas servant spectacula gazas,

Festorumque trium permanet una dies, Asteriumque suumvivax transmisit in aevum,

Qui parcas trabeis tam bene donat opes.

A lui pure dobbiamo la divulgazione del poema intitola-to Pasquale di Sedulio, e non a un altro Asterio, comeprova il suddetto card. Noris, ribattendo le opposte ra-gioni del p. Sirmondo; del che nondimeno la religionepiù che la poesia gli dee saper grado. A questo ancora eipremise un suo breve epigramma. Alcuni affermanoch'egli sia ancora l'autore di un altro piccol poema inti-tolato, Collatio veteris et novi Testamenti, che da altri siattribuisce allo stesso Sedulio.

III. Monumenti assai più copiosi de' suoistudj di poesia non meno che di eloquenzaci ha lasciato il celebre s. Ennodio vescovodi Pavia. I Maurini autori della Storia Lette-raria di Francia gli han dato luogo tra' loro

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Notizie di s. Ennodio vescovo di Pavia.

mano. Tempore, quo penaces Circo subjunximus, atque

Scenam Euripo extulimus subitam, Ut ludos currusque simul variumque ferarum

Certamen junctim Roma teneret ovans, Tantum quippe sofos merui: terna agmina vulgi

Per caveas plausus concinuere meos: Pretium (sic) In quaestum famae census jactura cucurrit,

Nam laudis fructum talia damna ferant. Sic tota consumptas servant spectacula gazas,

Festorumque trium permanet una dies, Asteriumque suumvivax transmisit in aevum,

Qui parcas trabeis tam bene donat opes.

A lui pure dobbiamo la divulgazione del poema intitola-to Pasquale di Sedulio, e non a un altro Asterio, comeprova il suddetto card. Noris, ribattendo le opposte ra-gioni del p. Sirmondo; del che nondimeno la religionepiù che la poesia gli dee saper grado. A questo ancora eipremise un suo breve epigramma. Alcuni affermanoch'egli sia ancora l'autore di un altro piccol poema inti-tolato, Collatio veteris et novi Testamenti, che da altri siattribuisce allo stesso Sedulio.

III. Monumenti assai più copiosi de' suoistudj di poesia non meno che di eloquenzaci ha lasciato il celebre s. Ennodio vescovodi Pavia. I Maurini autori della Storia Lette-raria di Francia gli han dato luogo tra' loro

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Notizie di s. Ennodio vescovo di Pavia.

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scrittori (t. 3, p. 96); ed egli era certamente originariodella Gallia, come egli stesso si appella (l. 1, ep. 2, ecarm. 73); ma ch'ei nascesse in Arles, essi l'affermanbensi, ma nol provano abbastanza. La lettera da lui scrit-ta ad Euprepia sua sorella (l. 7, ep. 8), ch'essi ne arrecanper pruova, ci mostra solo ch'essa abitava allora in Ar-les, mentre s. Ennodio era in Milano, e che questi colpensiero recavisi alla casa, ove essa dimorava nella sud-detta città, cui però egli non chiama mai sua patria: Ha-buit Arelatensis habitatio, cum Mediolanensibus murisincluderer; et cum ad dulcem sedem libertas mentis ex-curreret, intra Italiam me corporis captivitas include-bat. Al contrario il ch. dottor Sassi afferma ch'ei nacquein Milano (De stud. mediol. c. 5), e a questa opinione sieran già mostrati favorevoli il p. Sirmondo (in Vita En-nod.) e il p. Sollier (Acta SS. jul. t. 4, p. 271). Nondime-no le ragioni ch'egli ne arreca, non mi sembrano sì con-vincenti che rendan del tutto certa questa opinione. Maciò che i Francesi stessi non negano, si è ch'egli fosse inMilano, e che in Italia passasse presso che tutti i suoigiorni, il che ci basta perchè dobbiam noi pure annove-rarlo fra' nostri. E nacque verso l'an. 473, come racco-gliesi dal narrar che fa egli stesso (Eucharist. de Vitasua), che avea circa 16 anni allor quando Teodorico en-trò in Italia contro di Odoacre, il che avvenne l'an 489.Nella gioventù attese egli con grande ardore agli studjdell'eloquenza e della poesia; e frutto di questi suoi studjfurono e i molti Epigrammi e le molte Orazioni che dilui ci son rimaste.

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scrittori (t. 3, p. 96); ed egli era certamente originariodella Gallia, come egli stesso si appella (l. 1, ep. 2, ecarm. 73); ma ch'ei nascesse in Arles, essi l'affermanbensi, ma nol provano abbastanza. La lettera da lui scrit-ta ad Euprepia sua sorella (l. 7, ep. 8), ch'essi ne arrecanper pruova, ci mostra solo ch'essa abitava allora in Ar-les, mentre s. Ennodio era in Milano, e che questi colpensiero recavisi alla casa, ove essa dimorava nella sud-detta città, cui però egli non chiama mai sua patria: Ha-buit Arelatensis habitatio, cum Mediolanensibus murisincluderer; et cum ad dulcem sedem libertas mentis ex-curreret, intra Italiam me corporis captivitas include-bat. Al contrario il ch. dottor Sassi afferma ch'ei nacquein Milano (De stud. mediol. c. 5), e a questa opinione sieran già mostrati favorevoli il p. Sirmondo (in Vita En-nod.) e il p. Sollier (Acta SS. jul. t. 4, p. 271). Nondime-no le ragioni ch'egli ne arreca, non mi sembrano sì con-vincenti che rendan del tutto certa questa opinione. Maciò che i Francesi stessi non negano, si è ch'egli fosse inMilano, e che in Italia passasse presso che tutti i suoigiorni, il che ci basta perchè dobbiam noi pure annove-rarlo fra' nostri. E nacque verso l'an. 473, come racco-gliesi dal narrar che fa egli stesso (Eucharist. de Vitasua), che avea circa 16 anni allor quando Teodorico en-trò in Italia contro di Odoacre, il che avvenne l'an 489.Nella gioventù attese egli con grande ardore agli studjdell'eloquenza e della poesia; e frutto di questi suoi studjfurono e i molti Epigrammi e le molte Orazioni che dilui ci son rimaste.

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IV. Ma queste Orazioni, e quellesingolarmente ch'egli intitolò Di-zioni scolastiche son cagion di con-tesa tra due città, Milano e Pavia; eciascheduna di esse pretende che

delle sue scuole si debba intendere ciò ch'egli dice trop-po generalmente. Veggiam prima qual sia l'argomento diqueste Orazioni, e poscia esamineremo a qual delle dueparti siano esse più favorevoli. Esse furono quasi tutteda lui composte all'occasione di condurre la prima voltaalle pubbliche scuole alcuni giovinetti, de' quali talunogli era parente, altri per altre ragioni gli eran cari; e inesse egli esorta i giovani ad attendere con ardore aglistudj, dice loro gran lodi del loro maestro, e a lui calda-mente li raccomanda. In due di esse (dict. 8, 9) egli no-mina il maestro, a cui consegnavali, cioè Deuterio cele-bre gramatico di questa età di cui ancora egli parla altrevolte con molta lode (l. 2, epigr. 104). Nelle altre nolnomina, ma è verisimile che fosse lo stesso Deuterio. Orqueste scuole erano esse in Milano, ovvero in Pavia?Ecco il principale oggetto di questa contesa. L'eruditoAntonio Gatti (Hist. gymnas. ticinens. c. 4) sostiene chenon solo s. Ennodio parla delle scuole pavesi non dellemilanesi, ma ch'egli ancora in quelle fu professore. Il ch.Sassi al contrario afferma che delle scuole milanesi sidee intendere ciò ch'egli dice, benchè insieme sostengach'egli non vi tenne scuola giammai (De stud. mediol. c.5). E quanto a questo secondo punto, a me pare chel'opinione del Sassi sia chiaramente provata. Il Gatti ar-

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Se le scuole delle quali egli parla nelle sue ora-zioni fossero in Pavia oin Milano.

IV. Ma queste Orazioni, e quellesingolarmente ch'egli intitolò Di-zioni scolastiche son cagion di con-tesa tra due città, Milano e Pavia; eciascheduna di esse pretende che

delle sue scuole si debba intendere ciò ch'egli dice trop-po generalmente. Veggiam prima qual sia l'argomento diqueste Orazioni, e poscia esamineremo a qual delle dueparti siano esse più favorevoli. Esse furono quasi tutteda lui composte all'occasione di condurre la prima voltaalle pubbliche scuole alcuni giovinetti, de' quali talunogli era parente, altri per altre ragioni gli eran cari; e inesse egli esorta i giovani ad attendere con ardore aglistudj, dice loro gran lodi del loro maestro, e a lui calda-mente li raccomanda. In due di esse (dict. 8, 9) egli no-mina il maestro, a cui consegnavali, cioè Deuterio cele-bre gramatico di questa età di cui ancora egli parla altrevolte con molta lode (l. 2, epigr. 104). Nelle altre nolnomina, ma è verisimile che fosse lo stesso Deuterio. Orqueste scuole erano esse in Milano, ovvero in Pavia?Ecco il principale oggetto di questa contesa. L'eruditoAntonio Gatti (Hist. gymnas. ticinens. c. 4) sostiene chenon solo s. Ennodio parla delle scuole pavesi non dellemilanesi, ma ch'egli ancora in quelle fu professore. Il ch.Sassi al contrario afferma che delle scuole milanesi sidee intendere ciò ch'egli dice, benchè insieme sostengach'egli non vi tenne scuola giammai (De stud. mediol. c.5). E quanto a questo secondo punto, a me pare chel'opinione del Sassi sia chiaramente provata. Il Gatti ar-

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Se le scuole delle quali egli parla nelle sue ora-zioni fossero in Pavia oin Milano.

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reca alcune parole in cui pare che s. Ennodio chiami semedesimo precettore (dict. 7). Ma leggasi tutta quellaorazione, e si vedrà che in essa ancora egli esorta i gio-vani ad usar con profitto dell'ottimo maestro chegl'istruisce, e a lui stesso volgendosi, Salve ergo, eglidice, nutritor profectuum, fax et splendor inge nuitatis,qui nobilia germina laboriosis purgando sarculis infructibus facis agnosci, ec. E in tutte le altre orazioninon vi è parola da cui ricavisi ch'egli stesso tenessescuola anzi dal vedere ch'egli in tutte raccomanda almaestro i discepoli, parmi che si raccolga con evidenza,che altri dunque e non già egli era il maestro; molto piùche se il fosse stato egli stesso, sembra che non avrebbeaffidati ad altri que' giovani che o per sangue, o per ami-cizia gli eran congiunti. Perciò poi che appartiene allaprima quistione, cioè se in Milano, o in Pavia fosser lescuole di cui s. Ennodio ragiona, io dico primieramenteche dalle parole di lui non raccogliamo argomento alcu-no che pruovi a favore d'una città più che dell'altra; poi-chè alcune parole nelle quali il Gatti crede che si accen-ni la distruzion di Pavia seguita nella guerra tra Teodori-co e Odoacre, sono così generali che niuno potrà maiprovare che non si possan intendere di altra città e in al-tro senso. Ma le conghietture che da varj argomenti siposson raccogliere, tutte son favorevoli alla città di Mi-lano. Che in Milano vi fossero molto prima di questotempo pubbliche scuole, l'abbiamo altrove provato. Chevi fossero in Pavia, il Gatti lo afferma, ma non ne recain pruova alcun antico scrittore. Dunque è assai più pro-

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reca alcune parole in cui pare che s. Ennodio chiami semedesimo precettore (dict. 7). Ma leggasi tutta quellaorazione, e si vedrà che in essa ancora egli esorta i gio-vani ad usar con profitto dell'ottimo maestro chegl'istruisce, e a lui stesso volgendosi, Salve ergo, eglidice, nutritor profectuum, fax et splendor inge nuitatis,qui nobilia germina laboriosis purgando sarculis infructibus facis agnosci, ec. E in tutte le altre orazioninon vi è parola da cui ricavisi ch'egli stesso tenessescuola anzi dal vedere ch'egli in tutte raccomanda almaestro i discepoli, parmi che si raccolga con evidenza,che altri dunque e non già egli era il maestro; molto piùche se il fosse stato egli stesso, sembra che non avrebbeaffidati ad altri que' giovani che o per sangue, o per ami-cizia gli eran congiunti. Perciò poi che appartiene allaprima quistione, cioè se in Milano, o in Pavia fosser lescuole di cui s. Ennodio ragiona, io dico primieramenteche dalle parole di lui non raccogliamo argomento alcu-no che pruovi a favore d'una città più che dell'altra; poi-chè alcune parole nelle quali il Gatti crede che si accen-ni la distruzion di Pavia seguita nella guerra tra Teodori-co e Odoacre, sono così generali che niuno potrà maiprovare che non si possan intendere di altra città e in al-tro senso. Ma le conghietture che da varj argomenti siposson raccogliere, tutte son favorevoli alla città di Mi-lano. Che in Milano vi fossero molto prima di questotempo pubbliche scuole, l'abbiamo altrove provato. Chevi fossero in Pavia, il Gatti lo afferma, ma non ne recain pruova alcun antico scrittore. Dunque è assai più pro-

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babile che s. Ennodio parli di una città in cui sappiamoche vi erano pubbliche scuole, che non di un'altra di cuinol possiamo accertare. In una di queste Orazioni (dict.9) ei raccomanda Aratore a Deuterio nell'atto di darglie-lo a scolaro; e racconta che di questo giovane, essendo-gli morto il padre, erasi pietosamente incaricato Lorenzovescovo di Milano, di cui dice gran lodi, e parla in ma-niera che sembri a indicar chiaramente ch'egli tenealopresso di se. Era dunque Aratore in Milano, ed in Mila-no era ancora la scuola a cui s. Ennodio il condusse. Fi-nalmente s. Ennodio fu lungamente in Milano come rac-cogliesi ad evidenza e dalle sue Lettere e da suoi Epi-grammi. Or quando vi potè egli abitare se non da giova-ne, mentre attendeva a coltivare le lettere umane? Quan-do egli si consacrò alla chiesa passò, come vedremo, aPavia; ma allora attese agli studj sacri più che a' profani,nè in Pavia perciò potè egli comporre e dire le mentova-te Orazioni. Tutti questi argomenti mi rendono assaiprobabile l'opinione del Sassi, che nelle scuole di Mila-no l'esser da s. Ennodio recitate tutte le Orazioni mede-sime; e così pensa anche il Sirmondo (in not. ad dict. 9).Questi però congettura che una delle suddette Orazioni(dict. 7) che ha per titolo, In dedicatione Auditorii,quando ad forum translatio facta est, fosse da lui tenutain Roma; e fonda la sua opinione singolarmente su que-ste parole: Non agnoscit forum Romani populi, non libe-ralis eruditionis gymnasium, qui adhuc quasi in secessi-bus conticescit: nel qual passo ei crede che veramente siparli del foro romano, dove in Roma fossero state tra-

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babile che s. Ennodio parli di una città in cui sappiamoche vi erano pubbliche scuole, che non di un'altra di cuinol possiamo accertare. In una di queste Orazioni (dict.9) ei raccomanda Aratore a Deuterio nell'atto di darglie-lo a scolaro; e racconta che di questo giovane, essendo-gli morto il padre, erasi pietosamente incaricato Lorenzovescovo di Milano, di cui dice gran lodi, e parla in ma-niera che sembri a indicar chiaramente ch'egli tenealopresso di se. Era dunque Aratore in Milano, ed in Mila-no era ancora la scuola a cui s. Ennodio il condusse. Fi-nalmente s. Ennodio fu lungamente in Milano come rac-cogliesi ad evidenza e dalle sue Lettere e da suoi Epi-grammi. Or quando vi potè egli abitare se non da giova-ne, mentre attendeva a coltivare le lettere umane? Quan-do egli si consacrò alla chiesa passò, come vedremo, aPavia; ma allora attese agli studj sacri più che a' profani,nè in Pavia perciò potè egli comporre e dire le mentova-te Orazioni. Tutti questi argomenti mi rendono assaiprobabile l'opinione del Sassi, che nelle scuole di Mila-no l'esser da s. Ennodio recitate tutte le Orazioni mede-sime; e così pensa anche il Sirmondo (in not. ad dict. 9).Questi però congettura che una delle suddette Orazioni(dict. 7) che ha per titolo, In dedicatione Auditorii,quando ad forum translatio facta est, fosse da lui tenutain Roma; e fonda la sua opinione singolarmente su que-ste parole: Non agnoscit forum Romani populi, non libe-ralis eruditionis gymnasium, qui adhuc quasi in secessi-bus conticescit: nel qual passo ei crede che veramente siparli del foro romano, dove in Roma fossero state tra-

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sportate le scuole del Campidoglio, ove fin allora eranostate. Ma a me sembra che anche delle scuole e della cit-tà di Milano si possa intendere. Che Milano avesse ilsuo foro niuno, io credo, vorrà muoverne dubbio. Adesso dunque potean essere trasportate le scuole; e perchèin esse insegnavasi a perorare, potea allora quel foroconsiderarsi come somigliante al romano, ove gli oratorisi esercitavano nel trattare le cause. E certo non mi parverisimile che s. Ennodio il quale quando andò a Roma,dovea essere almeno diacono, volesse comporre e reci-tare pubblicamente un'orazione su tale argomento (6).

V. Oltre queste Orazioni altre ancorane abbiamo da lui composte a foggiadelle antiche declamazioni, e una diesse detta improvvisamente su un argo-

6 Assai meglio del Gatti ha difesa l'opinione de' Pavesi l'erudito p. m. Cap-soni dell'Ord. de' Predicatori nel tomo III non ancora pubblicato delle sueMemorie su quella illustre città, di cui egli ha voluto gentilmente comuni-carmi alcuni tratti (paragr. 51, ec.). Egli esaminando parecchi passi di al-cune delle Orazioni da me qui indicate, giustamente riflette che Ennodioera, quando le recitò, uomo di età già matura, ed arrolato nel clero, e cheperciò essendo certo che, quando egli consecrossi a Dio, fissò la sua dimo-ra in Pavia, deesi credere che ivi ei tenesse queste Orazioni, quando nonvoglia credersi che egli a bella posta si trasferisse a Milano, quando dovearecitarle. Egli osserva ancora che, ove Ennodio ragiona di Aratore e delvescovo di Milano Lorenzo, accenna bensì che questi aveasi preso in casaquell'orfano giovane, ma non afferma che tenesselo ancora, quando ebbelomandato alle scuole. In somma io debbo qui confessare sinceramente chela mia opinione mi sembra ora assai meno probabile che non mi sembrassedapprima, e che alcune di quelle Orazioni per certo che da s. Ennodio fos-sero recitate in Pavia.

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Altre sue Orazionicomposte prima dientrar nel clero.

sportate le scuole del Campidoglio, ove fin allora eranostate. Ma a me sembra che anche delle scuole e della cit-tà di Milano si possa intendere. Che Milano avesse ilsuo foro niuno, io credo, vorrà muoverne dubbio. Adesso dunque potean essere trasportate le scuole; e perchèin esse insegnavasi a perorare, potea allora quel foroconsiderarsi come somigliante al romano, ove gli oratorisi esercitavano nel trattare le cause. E certo non mi parverisimile che s. Ennodio il quale quando andò a Roma,dovea essere almeno diacono, volesse comporre e reci-tare pubblicamente un'orazione su tale argomento (6).

V. Oltre queste Orazioni altre ancorane abbiamo da lui composte a foggiadelle antiche declamazioni, e una diesse detta improvvisamente su un argo-

6 Assai meglio del Gatti ha difesa l'opinione de' Pavesi l'erudito p. m. Cap-soni dell'Ord. de' Predicatori nel tomo III non ancora pubblicato delle sueMemorie su quella illustre città, di cui egli ha voluto gentilmente comuni-carmi alcuni tratti (paragr. 51, ec.). Egli esaminando parecchi passi di al-cune delle Orazioni da me qui indicate, giustamente riflette che Ennodioera, quando le recitò, uomo di età già matura, ed arrolato nel clero, e cheperciò essendo certo che, quando egli consecrossi a Dio, fissò la sua dimo-ra in Pavia, deesi credere che ivi ei tenesse queste Orazioni, quando nonvoglia credersi che egli a bella posta si trasferisse a Milano, quando dovearecitarle. Egli osserva ancora che, ove Ennodio ragiona di Aratore e delvescovo di Milano Lorenzo, accenna bensì che questi aveasi preso in casaquell'orfano giovane, ma non afferma che tenesselo ancora, quando ebbelomandato alle scuole. In somma io debbo qui confessare sinceramente chela mia opinione mi sembra ora assai meno probabile che non mi sembrassedapprima, e che alcune di quelle Orazioni per certo che da s. Ennodio fos-sero recitate in Pavia.

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Altre sue Orazionicomposte prima dientrar nel clero.

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mento propostogli dal mentovato Deuterio, alcune anco-ra da lui fatte ad uso altrui e singolarmente del suo Ara-tore, una per Onorato vesc. di Novara, e un'altra per uncotale Stefano vicario; il che ci fa conoscere in qual pre-gio egli fosse, poichè gli venivano all'occasione, comead uomo eloquente, richiesti componimenti di tal natura.E nondimeno era egli ancor giovinetto, perciocchè nato,come si è detto, l'an. 473, egli continuò ad esercitarsi intali studj solo finchè arrolossi nel clero. Ciò avvennecertamente prima della morte. di s. Epifanio vesc. di Pa-via, perciocchè egli racconta che da lui era stato ammes-so tra' cherici: quem religionis titulis insignisti religio-sorum in divinam repromissionem redde participem (adfin. Vit. Epiph.). Or questo celebre vescovo secondo ipiù esatti storici, morì l'an. 496, e perciò s. Ennodio nondovea allora contare che 23 anni di età. Anzi secondouna probabile congettura del p. Sollier, pare che findall'an. 494 ei fosse ammesso tra il clero, e quindi in etàdi soli 21 anni dovea egli esser salito a sì grande fama.Dell'occasione di cui egli volgendosi a Dio si determinòdi consecrarsi alla Chiesa, della malattia da cui fu libe-rato per la protezione del martire s. Vittore, della gene-rosa risoluzione che prese la sua moglie (a cui non so suqual fondamento abbia l'ab. Longchamps (Tabl. hist. t.2, p. 439) dato il nome di Melanide) di consecrarsi ellapure a Dio, e di altre minute particolarità della vita di s.Ennodio, io lascio che ognuno vegga gli autori di mepoc'anzi citati che ne hanno scritta diligentemente la sto-ria. Io rifletterò solamente che parmi probabile, che

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mento propostogli dal mentovato Deuterio, alcune anco-ra da lui fatte ad uso altrui e singolarmente del suo Ara-tore, una per Onorato vesc. di Novara, e un'altra per uncotale Stefano vicario; il che ci fa conoscere in qual pre-gio egli fosse, poichè gli venivano all'occasione, comead uomo eloquente, richiesti componimenti di tal natura.E nondimeno era egli ancor giovinetto, perciocchè nato,come si è detto, l'an. 473, egli continuò ad esercitarsi intali studj solo finchè arrolossi nel clero. Ciò avvennecertamente prima della morte. di s. Epifanio vesc. di Pa-via, perciocchè egli racconta che da lui era stato ammes-so tra' cherici: quem religionis titulis insignisti religio-sorum in divinam repromissionem redde participem (adfin. Vit. Epiph.). Or questo celebre vescovo secondo ipiù esatti storici, morì l'an. 496, e perciò s. Ennodio nondovea allora contare che 23 anni di età. Anzi secondouna probabile congettura del p. Sollier, pare che findall'an. 494 ei fosse ammesso tra il clero, e quindi in etàdi soli 21 anni dovea egli esser salito a sì grande fama.Dell'occasione di cui egli volgendosi a Dio si determinòdi consecrarsi alla Chiesa, della malattia da cui fu libe-rato per la protezione del martire s. Vittore, della gene-rosa risoluzione che prese la sua moglie (a cui non so suqual fondamento abbia l'ab. Longchamps (Tabl. hist. t.2, p. 439) dato il nome di Melanide) di consecrarsi ellapure a Dio, e di altre minute particolarità della vita di s.Ennodio, io lascio che ognuno vegga gli autori di mepoc'anzi citati che ne hanno scritta diligentemente la sto-ria. Io rifletterò solamente che parmi probabile, che

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quando s. Ennodio entrò nell'ordine clericale, passasseda Milano a Pavia, acciocchè lontano dagli amici, daglionori e da' pericoli fra' quali fin allora era stato, potessecon libertà e con sicurezza maggiore servire a Dio. Cer-to è, come abbiamo detto, ch'ei fu ricevuto nel clero das. Epifanio, e che a lui, e poscia a Massimo che gli suc-cedette, ei si tenne stretto e congiunto.

VI. Poichè egli fu arrolato nel clero, abban-donati i profani studj, si volse a' sacri, e diquesto tempo dee intendersi ciò ch'egli scri-ve ad Aratore: ego ipsa studiorum libera-lium nomina jam detestor (l. 9, ep. 1); e in

queste scienze egli ebbe a suo maestro un cotal Servilio-ne, come da lui medesimo si raccoglie (l. 5, ep. 12). Al-cune nondimeno delle sue poesie ei certamente composeessendo già diacono, come quella ch'è intitolata: DictioEnnodii Diaconi, quando Roma rediit (l. 2, epigr. 6),onde convien credere che solo in esse si occupasse,quando le circostanze eran tali che non potea sottrarse-ne. Frattanto nella sede vescovil di Pavia a s. Epifanioera succeduto s. Massimo; e con lui Ennodio diacono alprincipio del VI sec. sen venne a Roma, e intervenne aun de' Concilj tenuti in occasion dello scisma di Loren-zo contro il pontef. Simmaco, in difesa del quale egliscrisse un'apologia che fu avuta in sì grande stima, chevenne inserita negli Atti stessi del Sinodo. Noi l'abbia-mo ancora, come pure un panegirico da lui recitato a

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Suo vesco-vato, sua morte, e sue opere.

quando s. Ennodio entrò nell'ordine clericale, passasseda Milano a Pavia, acciocchè lontano dagli amici, daglionori e da' pericoli fra' quali fin allora era stato, potessecon libertà e con sicurezza maggiore servire a Dio. Cer-to è, come abbiamo detto, ch'ei fu ricevuto nel clero das. Epifanio, e che a lui, e poscia a Massimo che gli suc-cedette, ei si tenne stretto e congiunto.

VI. Poichè egli fu arrolato nel clero, abban-donati i profani studj, si volse a' sacri, e diquesto tempo dee intendersi ciò ch'egli scri-ve ad Aratore: ego ipsa studiorum libera-lium nomina jam detestor (l. 9, ep. 1); e in

queste scienze egli ebbe a suo maestro un cotal Servilio-ne, come da lui medesimo si raccoglie (l. 5, ep. 12). Al-cune nondimeno delle sue poesie ei certamente composeessendo già diacono, come quella ch'è intitolata: DictioEnnodii Diaconi, quando Roma rediit (l. 2, epigr. 6),onde convien credere che solo in esse si occupasse,quando le circostanze eran tali che non potea sottrarse-ne. Frattanto nella sede vescovil di Pavia a s. Epifanioera succeduto s. Massimo; e con lui Ennodio diacono alprincipio del VI sec. sen venne a Roma, e intervenne aun de' Concilj tenuti in occasion dello scisma di Loren-zo contro il pontef. Simmaco, in difesa del quale egliscrisse un'apologia che fu avuta in sì grande stima, chevenne inserita negli Atti stessi del Sinodo. Noi l'abbia-mo ancora, come pure un panegirico da lui recitato a

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Suo vesco-vato, sua morte, e sue opere.

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Teodorico, ma non sappiamo nè quando, nè dove; solo ècerto ch'ei recitollo come deputato a ciò della chiesa;poichè così accenna egli stesso e nell'esordio del panegi-rico, e verso il fine con quelle parole: Vide divitias sae-culi tui: tunc vix fora habuere perfectos; nunc Ecclesiadirigit laudatorum. Quindi l'an. 510, o nel seguente, sol-levato egli stesso alla medesima sede dopo la morte di s.Massimo, la tenne fino all'an. 521 in cui morì, come rac-cogliesi dall'epitafio di cui ne fu ornato il sepolcro, eche vedesi anche al presente nella chiesa di s. Michele,nel quale si dice ch'egli morì Valerio V. C. Consule, eappunto nell'an. 521 Valerio fu console. Delle due lega-zioni all'imp. Anastasio da lui intraprese per ordine delpapa Ormisda, de' travagli che in esse sostenne, deglielogi di cui fu onorato da molti uomini celebri per santi-tà, e per sapere, si veggano i mentovati scrittori. Oltre leopere che già abbiam rammentate, ci rimangono ancoradi lui 9 libri di Lettere, la Vita di s. Epifanio vesc. di Pa-via e di s. Antonio monaco di Lerins, ed altri opuscoli,che sono stati raccolti ed eruditamente illustrati dal p.Sirmondo (vol. 1 Op.). In esse si scorge facilmente unuomo di acuto e vivace ingegno ma che usa di uno stilecosì intralciato, duro ed incolto che si ha spesso gran fa-tica ad intenderne il senso. I versi però, come di altri au-tori abbiamo osservato, sono assai meno incolti. Il Du-pin, censore troppo severo di autori che forse non aveamai letti, accusa s. Ennodio di esser caduto negli erroride' Semipelagiani (Bibl. des Aut. eccl. t. 6, p. 27); ma ilp. Sollier (l. c. p. 275), e poscia i Maurini autori della

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Teodorico, ma non sappiamo nè quando, nè dove; solo ècerto ch'ei recitollo come deputato a ciò della chiesa;poichè così accenna egli stesso e nell'esordio del panegi-rico, e verso il fine con quelle parole: Vide divitias sae-culi tui: tunc vix fora habuere perfectos; nunc Ecclesiadirigit laudatorum. Quindi l'an. 510, o nel seguente, sol-levato egli stesso alla medesima sede dopo la morte di s.Massimo, la tenne fino all'an. 521 in cui morì, come rac-cogliesi dall'epitafio di cui ne fu ornato il sepolcro, eche vedesi anche al presente nella chiesa di s. Michele,nel quale si dice ch'egli morì Valerio V. C. Consule, eappunto nell'an. 521 Valerio fu console. Delle due lega-zioni all'imp. Anastasio da lui intraprese per ordine delpapa Ormisda, de' travagli che in esse sostenne, deglielogi di cui fu onorato da molti uomini celebri per santi-tà, e per sapere, si veggano i mentovati scrittori. Oltre leopere che già abbiam rammentate, ci rimangono ancoradi lui 9 libri di Lettere, la Vita di s. Epifanio vesc. di Pa-via e di s. Antonio monaco di Lerins, ed altri opuscoli,che sono stati raccolti ed eruditamente illustrati dal p.Sirmondo (vol. 1 Op.). In esse si scorge facilmente unuomo di acuto e vivace ingegno ma che usa di uno stilecosì intralciato, duro ed incolto che si ha spesso gran fa-tica ad intenderne il senso. I versi però, come di altri au-tori abbiamo osservato, sono assai meno incolti. Il Du-pin, censore troppo severo di autori che forse non aveamai letti, accusa s. Ennodio di esser caduto negli erroride' Semipelagiani (Bibl. des Aut. eccl. t. 6, p. 27); ma ilp. Sollier (l. c. p. 275), e poscia i Maurini autori della

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Storia Letteraria di Francia (l. c. p. 108) hanno mostratoche il santo non poteva più apertamente di quel che hafatto combattere gli stessi errori.

VII. Prima di parlare di altri scrittori di que-sta medesima età, ci conviene qui osservarealcune cose appartenenti al nostro argomen-to, che s'incontran nell'Opere di s. Ennodio.E in primo luogo noi vi veggiamo la cele-brità e il fiore in cui erano allora le scuole dibelle lettere in Milano (Veggasi la nota 6 al

numero IV di questo capo). L'uso di condurre ad esse ifanciulli con una cotale solennità, e di recitare nell'offe-rirgli al maestro un'orazione; il costume delle pubblicherecite nelle scuole medesime, come ricaviamo daun'altra orazione dello stesso Ennodio (dict. 10); certigradi di onore, che in esse si conferivano, e che veggia-mo da lui accennati (dict. 12); il ragionamento da lui te-nuto pubblicamente come si è detto, allor quando lascuola fu dall'antico luogo trasportata al foro, ed altresomiglianti riflessioni che ci si fanno innanzi leggendol'opere di questo autore, ci mostrano chiaramente ch'era-no allora in onore gli studj e i pubblici professori. Egli èvero però, che a me par di raccogliere dagli stessi ragio-namenti di s. Ennodio, che un solo, cioè Deuterio era al-lor quegli che teneva scuola in Milano. Io non veggomai nè ch'egli nomini alcun altro professore, nè accennipiù professori nella stessa città. Anzi nel sopraccitato ra-

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Notizie cheda queste sitraggono intorno allescuole pub-bliche di Milano.

Storia Letteraria di Francia (l. c. p. 108) hanno mostratoche il santo non poteva più apertamente di quel che hafatto combattere gli stessi errori.

VII. Prima di parlare di altri scrittori di que-sta medesima età, ci conviene qui osservarealcune cose appartenenti al nostro argomen-to, che s'incontran nell'Opere di s. Ennodio.E in primo luogo noi vi veggiamo la cele-brità e il fiore in cui erano allora le scuole dibelle lettere in Milano (Veggasi la nota 6 al

numero IV di questo capo). L'uso di condurre ad esse ifanciulli con una cotale solennità, e di recitare nell'offe-rirgli al maestro un'orazione; il costume delle pubblicherecite nelle scuole medesime, come ricaviamo daun'altra orazione dello stesso Ennodio (dict. 10); certigradi di onore, che in esse si conferivano, e che veggia-mo da lui accennati (dict. 12); il ragionamento da lui te-nuto pubblicamente come si è detto, allor quando lascuola fu dall'antico luogo trasportata al foro, ed altresomiglianti riflessioni che ci si fanno innanzi leggendol'opere di questo autore, ci mostrano chiaramente ch'era-no allora in onore gli studj e i pubblici professori. Egli èvero però, che a me par di raccogliere dagli stessi ragio-namenti di s. Ennodio, che un solo, cioè Deuterio era al-lor quegli che teneva scuola in Milano. Io non veggomai nè ch'egli nomini alcun altro professore, nè accennipiù professori nella stessa città. Anzi nel sopraccitato ra-

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Notizie cheda queste sitraggono intorno allescuole pub-bliche di Milano.

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gionamento fatto in dedicatione Auditorii, quando adForum translatio facta est, il qual pure già abbiam mo-strato che appartiene a Milano egli non parla mai che diun sol professore. Ma benchè questi si chiami sempregramatico, noi veggiam nondimeno ch'egli istruiva an-cora nell'eloquenza i suoi discepoli, e che questi nellamentovata scuola si addestravano a trattar le cause nelforo. Tibi ergo debentur, dic'egli al professore nel citatoragionamento, haec beneficia, quod citaturus reum cau-sidicus inter atria jam probata dictionem metuendus in-cipiet. Anzi s. Ennodio celebra con molte lodi la Ligu-ria, col qual nome, come vedremo parlando di Aratore,veniva singolarmente compresa la Lombardia, per gliegregi ingegni che vi nascevano, e che vi s'istruivan pelforo, e quindi ancor pel senato. Non est bonis partibusinfoecunda Liguria; nutrit foro germina, quae libenteramplectatur et curia (l. 4, ep. 2). Quindi nella lettera chevedremo scritta da Atalarico al medesimo Aratore, sìgrandi elogi si fanno delle scuole liguri, e vi si accennacome passato in proverbio il detto che nella Liguria an-cora nascevano i Tullj.

VIII. Alle Opere di s. Ennodio noi dobbiamparimente la notizia che ci è rimasta di alcu-ni ch'erano allora celebri per eloquenza. Fraessi ei loda singolarmente Fausto ed Avieno(opusc. 6 in Rethorica) cui chiama felicitàdel secolo e fiumi di latina eloquenza, ma

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E intorno a Fausto e ad Avieno al-lora celebri per elo-quenza.

gionamento fatto in dedicatione Auditorii, quando adForum translatio facta est, il qual pure già abbiam mo-strato che appartiene a Milano egli non parla mai che diun sol professore. Ma benchè questi si chiami sempregramatico, noi veggiam nondimeno ch'egli istruiva an-cora nell'eloquenza i suoi discepoli, e che questi nellamentovata scuola si addestravano a trattar le cause nelforo. Tibi ergo debentur, dic'egli al professore nel citatoragionamento, haec beneficia, quod citaturus reum cau-sidicus inter atria jam probata dictionem metuendus in-cipiet. Anzi s. Ennodio celebra con molte lodi la Ligu-ria, col qual nome, come vedremo parlando di Aratore,veniva singolarmente compresa la Lombardia, per gliegregi ingegni che vi nascevano, e che vi s'istruivan pelforo, e quindi ancor pel senato. Non est bonis partibusinfoecunda Liguria; nutrit foro germina, quae libenteramplectatur et curia (l. 4, ep. 2). Quindi nella lettera chevedremo scritta da Atalarico al medesimo Aratore, sìgrandi elogi si fanno delle scuole liguri, e vi si accennacome passato in proverbio il detto che nella Liguria an-cora nascevano i Tullj.

VIII. Alle Opere di s. Ennodio noi dobbiamparimente la notizia che ci è rimasta di alcu-ni ch'erano allora celebri per eloquenza. Fraessi ei loda singolarmente Fausto ed Avieno(opusc. 6 in Rethorica) cui chiama felicitàdel secolo e fiumi di latina eloquenza, ma

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E intorno a Fausto e ad Avieno al-lora celebri per elo-quenza.

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de' quali sembra dolersi che essendo onorati d'illustri ca-riche in corte, non potessero perciò essere agli altri digiovamento col loro esempio. In Fausto loda ancor som-mamente il talento poetico (l. 1 epigr. 7), e ne parla inmaniera che se non sapessimo che le lodi a questi tempierano ad assai buon prezzo, per poco nol crederemmoun altro Orazio. Altrove ei loda un encomio della cittàdi Como (l. 1, ep. 6) fatto da Fausto, e acciocchè dalladifficoltà grande dell'argomento si raccolga il grande in-gegno dell'oratore, ei di questa città ci fa la più orribiledipintura che immaginare si possa, e ben diversa daquella che ce ne ha lasciata il cel. Cassiodoro (l. 11, Var.ep. 14), il quale ce la rappresenta qual ella è veramente,pel vicin lago, e pe' lieti colli, e pe' fruttiferi monti chela circondano deliciosa e vaga a vedersi. E perciò iopenso col p. Sirmondo (in not. ad l. c.), che s. Ennodiovolesse in questa lettera scherzare col suo amico; poichètale gli era Fausto, come raccogliesi dalle molte lettere alui scritte, e dalla frequente menzione ch'ei ne suol fare.Egli è probabilmente quel Fausto stesso che fu consolel'an 490. Avieno era figlio di Fausto, e di lui parla spes-so s. Ennodio con grandissime lodi, e in una lettera sin-golarmente ch'egli scrive a Fausto (l. 1, ep. 5), con luirallegrandosi che Avieno fosse stato innalzato alla con-solar dignità, il che avvenne l'an. 501. Egli chiamavasiRufo Magno Fausto Avieno, e per canto di madre eraparente di Ennodio che avea egli pure il nome di Ma-gno. Or in questa lettera ei dice sì grandi cose di Avienoch'era per altro ancora in tenera età, che più non si po-

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de' quali sembra dolersi che essendo onorati d'illustri ca-riche in corte, non potessero perciò essere agli altri digiovamento col loro esempio. In Fausto loda ancor som-mamente il talento poetico (l. 1 epigr. 7), e ne parla inmaniera che se non sapessimo che le lodi a questi tempierano ad assai buon prezzo, per poco nol crederemmoun altro Orazio. Altrove ei loda un encomio della cittàdi Como (l. 1, ep. 6) fatto da Fausto, e acciocchè dalladifficoltà grande dell'argomento si raccolga il grande in-gegno dell'oratore, ei di questa città ci fa la più orribiledipintura che immaginare si possa, e ben diversa daquella che ce ne ha lasciata il cel. Cassiodoro (l. 11, Var.ep. 14), il quale ce la rappresenta qual ella è veramente,pel vicin lago, e pe' lieti colli, e pe' fruttiferi monti chela circondano deliciosa e vaga a vedersi. E perciò iopenso col p. Sirmondo (in not. ad l. c.), che s. Ennodiovolesse in questa lettera scherzare col suo amico; poichètale gli era Fausto, come raccogliesi dalle molte lettere alui scritte, e dalla frequente menzione ch'ei ne suol fare.Egli è probabilmente quel Fausto stesso che fu consolel'an 490. Avieno era figlio di Fausto, e di lui parla spes-so s. Ennodio con grandissime lodi, e in una lettera sin-golarmente ch'egli scrive a Fausto (l. 1, ep. 5), con luirallegrandosi che Avieno fosse stato innalzato alla con-solar dignità, il che avvenne l'an. 501. Egli chiamavasiRufo Magno Fausto Avieno, e per canto di madre eraparente di Ennodio che avea egli pure il nome di Ma-gno. Or in questa lettera ei dice sì grandi cose di Avienoch'era per altro ancora in tenera età, che più non si po-

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trebbe del più perfetto oratore, fino ad affermare ch'eisapeva quanto saper si può della lingua greca e della la-tina, e che avendo attentamente studiato Demostene eCicerone, avea in sè ritratti i pregi tutti di questi due ce-lebri oratori. Ma noi possiamo senza farcene scrupolo,da sì grandi elogi detrarre alquanto, come più volte ab-biamo osservato.

IX. Olibrio ancora ci viene da s. Ennodiodescritto come oratore dalle cui labbra usci-va dolcissimo mele (l. 1, ep. 9), e uomo aduguagliare il quale niuno era mai pervenuto

(ib. ep. 1), la cui eloquenza facevasi desiderar tanto più,quanto più era erudita (l. 1, ep. 9), ed era somigliante aun gonfio e impetuoso fiume che non soffre letto nèsponda (ib. ep. 13). Un'elegia ancora egli scrisse in lodedi questo oratore (l. 1, carm. 8) il quale anche da Cas-siodoro è chiamato col nome di grande (l. 8, Var. ep.14). Con somiglianti encomj s. Ennodio ragiona (opusc.6) ancora di Festo e di Simmaco, quel desso che fu poiucciso poco dopo Boezio, di Probino, di Cetego, di Pro-bo, di Costanzo, di Agapito, di Boezio che debb'essere ilfiglio del cel. filosofo, poichè di lui dice che benchèavesse solo l'età opportuna ad esser discepolo, avea giànondimeno dottrina bastante ad esser maestro. Questieran tutti uomini per nascita e per dignità ragguardevoli,come osserva il p. Sirmondo (in not. ad l. c.) e benchèvogliansi credere esagerati cotali elogi, essi nondimeno

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E ad altrioratori epoeti.

trebbe del più perfetto oratore, fino ad affermare ch'eisapeva quanto saper si può della lingua greca e della la-tina, e che avendo attentamente studiato Demostene eCicerone, avea in sè ritratti i pregi tutti di questi due ce-lebri oratori. Ma noi possiamo senza farcene scrupolo,da sì grandi elogi detrarre alquanto, come più volte ab-biamo osservato.

IX. Olibrio ancora ci viene da s. Ennodiodescritto come oratore dalle cui labbra usci-va dolcissimo mele (l. 1, ep. 9), e uomo aduguagliare il quale niuno era mai pervenuto

(ib. ep. 1), la cui eloquenza facevasi desiderar tanto più,quanto più era erudita (l. 1, ep. 9), ed era somigliante aun gonfio e impetuoso fiume che non soffre letto nèsponda (ib. ep. 13). Un'elegia ancora egli scrisse in lodedi questo oratore (l. 1, carm. 8) il quale anche da Cas-siodoro è chiamato col nome di grande (l. 8, Var. ep.14). Con somiglianti encomj s. Ennodio ragiona (opusc.6) ancora di Festo e di Simmaco, quel desso che fu poiucciso poco dopo Boezio, di Probino, di Cetego, di Pro-bo, di Costanzo, di Agapito, di Boezio che debb'essere ilfiglio del cel. filosofo, poichè di lui dice che benchèavesse solo l'età opportuna ad esser discepolo, avea giànondimeno dottrina bastante ad esser maestro. Questieran tutti uomini per nascita e per dignità ragguardevoli,come osserva il p. Sirmondo (in not. ad l. c.) e benchèvogliansi credere esagerati cotali elogi, essi nondimeno

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E ad altrioratori epoeti.

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ci fan conoscere che l'eloquenza ne' felici tempi di Teo-dorico era in gran pregio, e coltivavasi con fervore an-che da' più illustri e nobili personaggi. E veramente ab-biam già osservato nel primo capo di questo libro, che ilgran Cassiodoro usò di ogni sforzo, e si valse della gra-zia di cui godeva presso i re ostrogoti, per avvivare glistudj, e di quello singolarmente dell'eloquenza egli faspesso nelle sue Lettere grandissimi encomj. Io ram-menterò qui solamente quella in cui Atalarico conferiscea Felice la dignità di questore, e la seguente (l. 8 Var. ep.18, 19) in cui ne ragguaglia il senato. Esse son piene dilodi dell'eloquenza, indirizzate a risvegliare negli animidi tutti un generoso ardore nel coltivarla e vi si fa onore-vol menzione del padre dello stesso Felice di cui si af-ferma che nel foro di Milano era salito a sì grande ono-re, che si era renduto uguale a' più celebri oratori diRoma. Il che io ho voluto qui accennare per confermarevie maggiormente ciò che di sopra si è detto, del fiore incui erano a questa età gli studj della amena letteratura inMilano. Io passo sotto silenzio molti altri che da Cassio-doro e da s. Ennodio veggiam chiamati eloquenti, poi-chè nè abbiamo di essi più minuta contezza, nè saggioalcuno del lor valore ci è rimasto. Convien però confes-sare che se tutti aveano eloquenza e stile pari a quello dis. Ennodio che pur abbiam veduto ch'era a' suoi tempi inaltissimo pregio, noi dobbiam assai poco favorevolmen-te giudicare degli oratori di questi tempi, e ci possiamoconsolar facilmente della perdita che abbiam fattadell'opere loro.

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ci fan conoscere che l'eloquenza ne' felici tempi di Teo-dorico era in gran pregio, e coltivavasi con fervore an-che da' più illustri e nobili personaggi. E veramente ab-biam già osservato nel primo capo di questo libro, che ilgran Cassiodoro usò di ogni sforzo, e si valse della gra-zia di cui godeva presso i re ostrogoti, per avvivare glistudj, e di quello singolarmente dell'eloquenza egli faspesso nelle sue Lettere grandissimi encomj. Io ram-menterò qui solamente quella in cui Atalarico conferiscea Felice la dignità di questore, e la seguente (l. 8 Var. ep.18, 19) in cui ne ragguaglia il senato. Esse son piene dilodi dell'eloquenza, indirizzate a risvegliare negli animidi tutti un generoso ardore nel coltivarla e vi si fa onore-vol menzione del padre dello stesso Felice di cui si af-ferma che nel foro di Milano era salito a sì grande ono-re, che si era renduto uguale a' più celebri oratori diRoma. Il che io ho voluto qui accennare per confermarevie maggiormente ciò che di sopra si è detto, del fiore incui erano a questa età gli studj della amena letteratura inMilano. Io passo sotto silenzio molti altri che da Cassio-doro e da s. Ennodio veggiam chiamati eloquenti, poi-chè nè abbiamo di essi più minuta contezza, nè saggioalcuno del lor valore ci è rimasto. Convien però confes-sare che se tutti aveano eloquenza e stile pari a quello dis. Ennodio che pur abbiam veduto ch'era a' suoi tempi inaltissimo pregio, noi dobbiam assai poco favorevolmen-te giudicare degli oratori di questi tempi, e ci possiamoconsolar facilmente della perdita che abbiam fattadell'opere loro.

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X. Aratore da noi nominato poc'anzi fu coe-taneo di s. Ennodio. Io ne parlerò in breve,poichè coll'usata sua diligenza ne ha già ra-gionato il celebre co. Mazzucchelli (Scritt.ital. t. 1, par. 2, p. 933). Di qual patria egli

fosse, si controverte tra gli scrittori, com'egli stesso os-serva. I più esatti riflettendo alla lettera che Cassiodorogli scrisse in nome di Atalarico (l. 8 Var. ep. 12) in cuisollevandolo alla dignità di conte de' domestici, ne lodail sapere e l'eloquenza, e dice che per lui cominciava giàa correre, come proverbio, il detto che anche la Liguriamandava i suoi Tullj, riflettendo, dico, a questa lettera,ne inferiscono che ligure fu Aratore. Quindi i Genovesiil ripongon tra' loro scrittori. Ma egli è certo che a pro-varlo genovese non basta il provarlo ligure. Chiunque èmediocremente versato negli scrittori di questa età, sache in essa il nome di Liguria comprendeva singolar-mente la Gallia cisalpina. Se ne posson leggere le evi-dentissime pruove presso il Sassi (De stud. mediol. c. 5).Per altra parte abbiamo da s. Ennodio (dict. 9), che es-sendo Aratore rimasto orfano in età giovanile, Lorenzovesc. di Milano il prese in casa, ed allevollo qual figlio.E quindi rendesi assai probabile l'opinione dello stessoSassi (l. c.), e poscia dell'Argelati (Bibl. Script. mediol.)ch'ei fosse di patria milanese. Non è però a spregiarsil'autorità di un codice antico citato dal ch. Mazzucchelli,in cui Aratore è detto due volte bresciano. Checchessiadi ciò, è certo che Aratore attese agli studj sotto Deute-rio, come già abbiamo osservato; e perciò da Atalarico

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Notizie di Aratore e delle sue lettere.

X. Aratore da noi nominato poc'anzi fu coe-taneo di s. Ennodio. Io ne parlerò in breve,poichè coll'usata sua diligenza ne ha già ra-gionato il celebre co. Mazzucchelli (Scritt.ital. t. 1, par. 2, p. 933). Di qual patria egli

fosse, si controverte tra gli scrittori, com'egli stesso os-serva. I più esatti riflettendo alla lettera che Cassiodorogli scrisse in nome di Atalarico (l. 8 Var. ep. 12) in cuisollevandolo alla dignità di conte de' domestici, ne lodail sapere e l'eloquenza, e dice che per lui cominciava giàa correre, come proverbio, il detto che anche la Liguriamandava i suoi Tullj, riflettendo, dico, a questa lettera,ne inferiscono che ligure fu Aratore. Quindi i Genovesiil ripongon tra' loro scrittori. Ma egli è certo che a pro-varlo genovese non basta il provarlo ligure. Chiunque èmediocremente versato negli scrittori di questa età, sache in essa il nome di Liguria comprendeva singolar-mente la Gallia cisalpina. Se ne posson leggere le evi-dentissime pruove presso il Sassi (De stud. mediol. c. 5).Per altra parte abbiamo da s. Ennodio (dict. 9), che es-sendo Aratore rimasto orfano in età giovanile, Lorenzovesc. di Milano il prese in casa, ed allevollo qual figlio.E quindi rendesi assai probabile l'opinione dello stessoSassi (l. c.), e poscia dell'Argelati (Bibl. Script. mediol.)ch'ei fosse di patria milanese. Non è però a spregiarsil'autorità di un codice antico citato dal ch. Mazzucchelli,in cui Aratore è detto due volte bresciano. Checchessiadi ciò, è certo che Aratore attese agli studj sotto Deute-rio, come già abbiamo osservato; e perciò da Atalarico

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Notizie di Aratore e delle sue lettere.

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gli si ascrive a gran lode che anche in paese stranieroabbia appresa l'eloquenza, e la lettura di Tullio lo abbiarenduto facondo, ove non usavasi che la lingua gallica.Nella stessa lettera Atalarico rammenta l'eloquenza e ilsapere di cui era fornito il padre di Aratore, da cui diceche questi avea potuto apprendere molto, finchè vissecon lui. Annovera inoltre gli onorevoli impieghi dalAratore sostenuti, cioè di causidico e di deputato dellaDalmazia a Teodorico, nella qual occasione avea eglispiegata parlando un'ammirabile eloquenza. A premio diquesta sua eloquenza egli ebbe, come si è accennato, lacarica di conte de' domestici, a cui il ch. Mazzucchellicoll'autorità di alcuni codici mss. aggiugne quella diconte delle private donazioni. Ma a queste e ad altreonorevoli cariche, a cui poteva aspirare, ei rinunciò perentrare al servigio della Chiesa romana, di cui fu suddia-cono. Erasi egli fin da' più teneri anni esercitato nel ver-seggiare; ma poichè fu arrolato nel clero, a persuasion diPartenio prese argomento sacro alle sue poesie, e scrissein due libri la Storia apostolica che ancor ci rimane, acui premise un'elegia allo stesso Partenio. Dalle annota-zioni aggiunte a' sopraccennati codici antichi si racco-glie ch'egli offerì questi suoi libri al papa Virgilio, e chefuron letti pubblicamente più volte, e uditi con sommoapplauso nella chiesa di s. Pietro a' Vincoli l'anno terzodopo il consolato di Basilio ossia l'an. 544, e che il papaordinò ch'essi fossero conservati nell'archivio dellaChiesa romana. Questo sì grande applauso ci mostraquanto facilmente si acquistasse allora il nome di valo-

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gli si ascrive a gran lode che anche in paese stranieroabbia appresa l'eloquenza, e la lettura di Tullio lo abbiarenduto facondo, ove non usavasi che la lingua gallica.Nella stessa lettera Atalarico rammenta l'eloquenza e ilsapere di cui era fornito il padre di Aratore, da cui diceche questi avea potuto apprendere molto, finchè vissecon lui. Annovera inoltre gli onorevoli impieghi dalAratore sostenuti, cioè di causidico e di deputato dellaDalmazia a Teodorico, nella qual occasione avea eglispiegata parlando un'ammirabile eloquenza. A premio diquesta sua eloquenza egli ebbe, come si è accennato, lacarica di conte de' domestici, a cui il ch. Mazzucchellicoll'autorità di alcuni codici mss. aggiugne quella diconte delle private donazioni. Ma a queste e ad altreonorevoli cariche, a cui poteva aspirare, ei rinunciò perentrare al servigio della Chiesa romana, di cui fu suddia-cono. Erasi egli fin da' più teneri anni esercitato nel ver-seggiare; ma poichè fu arrolato nel clero, a persuasion diPartenio prese argomento sacro alle sue poesie, e scrissein due libri la Storia apostolica che ancor ci rimane, acui premise un'elegia allo stesso Partenio. Dalle annota-zioni aggiunte a' sopraccennati codici antichi si racco-glie ch'egli offerì questi suoi libri al papa Virgilio, e chefuron letti pubblicamente più volte, e uditi con sommoapplauso nella chiesa di s. Pietro a' Vincoli l'anno terzodopo il consolato di Basilio ossia l'an. 544, e che il papaordinò ch'essi fossero conservati nell'archivio dellaChiesa romana. Questo sì grande applauso ci mostraquanto facilmente si acquistasse allora il nome di valo-

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roso poeta. Non si può negare però che i versi di Aratorenon siano un po' migliori di quelli d'altri poeti di questotempo. Egli morì secondo alcuni l'an. 556, secondo altril'an. 560, la qual quistione non è di sì grande importan-za, che ci dobbiam trattenere a esaminarla.

XI. In somiglianti sacri argomenti si eserci-tò Rustico Elpidio medico di Teodorico, eda lui onorato della dignità di questore, edel titolo d'illustre, di cui abbiamo XXIVEpigrammi su altrettanti fatti dell'Antico e

del Nuovo Testamento, e un componimento in versi esa-metri su' beneficj del Redentore. Il Fabricio però vuole(Bibl. lat. med. et infim. aetat. t. 2, p. 93 ed. patav.) cheil medico Elpidio sia diverso dal poeta. Così pur Godel-berto prete che credesi vissuto a questi tempi medesimi(V. Fabr. t. 3 ib. p. 67), e di cui pure abbiam alcune poe-sie scritturali; Marco monaco casinese che da PietroDiacono si dice (De viris illustr. casinens. c. 6) discepo-lo di s. Benedetto, di cui scrisse in versi una breve Vitach'è una delle migliori poesie di questa età, pubblicatadopo altri dal p. Mabillon (Acta SS. Ord. s. Bened. t. 1,p. 28), oltre alcune altre operette rammentate dal can.Giambattista Mari (in not. ad Petr. Diac. l. c.); ed altri,che si potrebbono aggiugnere, ma de' quali poichè nonfuron poeti da aversi in gran pregio, non giova che cer-chiamo più oltre. Solo ci basti l'accennar brevementequel Massimiano Etrusco che credesi autore delle Elegie

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Altri poetivissuti inquesti tem-pi.

roso poeta. Non si può negare però che i versi di Aratorenon siano un po' migliori di quelli d'altri poeti di questotempo. Egli morì secondo alcuni l'an. 556, secondo altril'an. 560, la qual quistione non è di sì grande importan-za, che ci dobbiam trattenere a esaminarla.

XI. In somiglianti sacri argomenti si eserci-tò Rustico Elpidio medico di Teodorico, eda lui onorato della dignità di questore, edel titolo d'illustre, di cui abbiamo XXIVEpigrammi su altrettanti fatti dell'Antico e

del Nuovo Testamento, e un componimento in versi esa-metri su' beneficj del Redentore. Il Fabricio però vuole(Bibl. lat. med. et infim. aetat. t. 2, p. 93 ed. patav.) cheil medico Elpidio sia diverso dal poeta. Così pur Godel-berto prete che credesi vissuto a questi tempi medesimi(V. Fabr. t. 3 ib. p. 67), e di cui pure abbiam alcune poe-sie scritturali; Marco monaco casinese che da PietroDiacono si dice (De viris illustr. casinens. c. 6) discepo-lo di s. Benedetto, di cui scrisse in versi una breve Vitach'è una delle migliori poesie di questa età, pubblicatadopo altri dal p. Mabillon (Acta SS. Ord. s. Bened. t. 1,p. 28), oltre alcune altre operette rammentate dal can.Giambattista Mari (in not. ad Petr. Diac. l. c.); ed altri,che si potrebbono aggiugnere, ma de' quali poichè nonfuron poeti da aversi in gran pregio, non giova che cer-chiamo più oltre. Solo ci basti l'accennar brevementequel Massimiano Etrusco che credesi autore delle Elegie

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Altri poetivissuti inquesti tem-pi.

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attribuite a Cornelio Gallo; ma non v'ha cosa alcuna cheintorno a lui si possa accertare ed io ne fo qui menzione,solo perchè si dice, benchè forse senza gran fondamen-to, ch'ei visse di questi tempi (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p.98).

XII. In tal maniera, benchè con poco felicesuccesso furono nondimeno sotto i primi regoti con ardor coltivate l'eloquenza e la poe-sia. Ma la storia fu quasi interamente di-menticata. Se se ne tragga l'opera smarrita

di Cassiodoro sulla storia de' Goti, alcune Vite di perso-naggi celebri per santità, e il Compendio della Storia ec-clesiastica fatto da Epifanio, di cui già abbiamo parlato,appena abbiamo a questi tempi tra gli autori italiani cosain questo genere degna di essere rammentata. Io accen-nerò qui solamente Giornande ossia Giornando, il qualper altro fu alano d'origine, come egli stesso afferma(Hist. c. 5), ma sembra che vivesse in Italia, e come pro-babilmente crede il Muratori, verso la metà del VI seco-lo. Il dir ch'egli fa che innanzi alla sua conversione eranotaio, ha fatto credere, e parmi a ragione, allo stessoautore ch'egli abbracciasse la vita monastica. Di lui ab-biamo una Storia de' Goti, che è un compendio di quellaampia fatta da Cassiodoro. Di essa e dell'autor veggasilo stesso ch. Muratori nell'erudita prefazione da lui pre-messa alla nuova edizione ch'egli ne ha fatto (Vol. 1Script. rer. ital.). Giornande fa menzione di un certo

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La storia hapochi e poco felici coltivatori.

attribuite a Cornelio Gallo; ma non v'ha cosa alcuna cheintorno a lui si possa accertare ed io ne fo qui menzione,solo perchè si dice, benchè forse senza gran fondamen-to, ch'ei visse di questi tempi (V. Fabr. Bibl. lat. t. 1, p.98).

XII. In tal maniera, benchè con poco felicesuccesso furono nondimeno sotto i primi regoti con ardor coltivate l'eloquenza e la poe-sia. Ma la storia fu quasi interamente di-menticata. Se se ne tragga l'opera smarrita

di Cassiodoro sulla storia de' Goti, alcune Vite di perso-naggi celebri per santità, e il Compendio della Storia ec-clesiastica fatto da Epifanio, di cui già abbiamo parlato,appena abbiamo a questi tempi tra gli autori italiani cosain questo genere degna di essere rammentata. Io accen-nerò qui solamente Giornande ossia Giornando, il qualper altro fu alano d'origine, come egli stesso afferma(Hist. c. 5), ma sembra che vivesse in Italia, e come pro-babilmente crede il Muratori, verso la metà del VI seco-lo. Il dir ch'egli fa che innanzi alla sua conversione eranotaio, ha fatto credere, e parmi a ragione, allo stessoautore ch'egli abbracciasse la vita monastica. Di lui ab-biamo una Storia de' Goti, che è un compendio di quellaampia fatta da Cassiodoro. Di essa e dell'autor veggasilo stesso ch. Muratori nell'erudita prefazione da lui pre-messa alla nuova edizione ch'egli ne ha fatto (Vol. 1Script. rer. ital.). Giornande fa menzione di un certo

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La storia hapochi e poco felici coltivatori.

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Ablabio (c. 4, 14, ec.) e dice che avea egli pure egregia-mente e sinceramente scritta la Storia de' Goti, di cuinulla ci è pervenuto. I Ravennati il pongono tra' loroscrittori; ma il ch. p. abate Ginanni confessa (Scrittoriravennati t. 1, p. 9) che non ve ne ha alcun certo argo-mento. Sappiamo ancora che s. Massimiano vesc. di Ra-venna, il quale secondo il parere del p. Bacchini fu sol-levato a quella sede l'an. 546, avea scritta una Cronacasul modello di quelle di s. Girolamo e di Orosio. Agnel-lo scrittor delle Vite de' Vescovi di Ravenna ne reca unframmento (l. Pont.), e aggiugne ch'egli avea ancora or-dinati e fatti scrivere con gran diligenza i libri tutti ap-partenenti all'uso della sua chiesa. Di lui veggasi il so-praccitato p. Ginanni (Scritt. rav. t. 1, p. 35). Alcunihanno attribuito a s. Dazio arcivescovo di Milano a que-sti tempi una Cronaca che in qualche codice ne porta ilnome; ma dopo varie contese su quest'argomento il ch.Muratori ha con tai ragioni provato ch'essa non è diver-sa da quella che scritta fu da Landolfo il vecchio nel sec.XI (V. praef. ad Hist. Land. sen.; vol. 4 Script. rer. ital.),che non ha lasciato più luogo ad alcuna questione.

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Ablabio (c. 4, 14, ec.) e dice che avea egli pure egregia-mente e sinceramente scritta la Storia de' Goti, di cuinulla ci è pervenuto. I Ravennati il pongono tra' loroscrittori; ma il ch. p. abate Ginanni confessa (Scrittoriravennati t. 1, p. 9) che non ve ne ha alcun certo argo-mento. Sappiamo ancora che s. Massimiano vesc. di Ra-venna, il quale secondo il parere del p. Bacchini fu sol-levato a quella sede l'an. 546, avea scritta una Cronacasul modello di quelle di s. Girolamo e di Orosio. Agnel-lo scrittor delle Vite de' Vescovi di Ravenna ne reca unframmento (l. Pont.), e aggiugne ch'egli avea ancora or-dinati e fatti scrivere con gran diligenza i libri tutti ap-partenenti all'uso della sua chiesa. Di lui veggasi il so-praccitato p. Ginanni (Scritt. rav. t. 1, p. 35). Alcunihanno attribuito a s. Dazio arcivescovo di Milano a que-sti tempi una Cronaca che in qualche codice ne porta ilnome; ma dopo varie contese su quest'argomento il ch.Muratori ha con tai ragioni provato ch'essa non è diver-sa da quella che scritta fu da Landolfo il vecchio nel sec.XI (V. praef. ad Hist. Land. sen.; vol. 4 Script. rer. ital.),che non ha lasciato più luogo ad alcuna questione.

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CAPO IV. Filosofia e Matematica.

I. Eran già presso a quattro secoli che la fi-losofia giacevasi tra' Romani quasi dimenti-cata; perciocchè dopo la morte di Seneca edi Plinio il vecchio appena vi era stato fraessi, chi avesse preso ad illustrarla scriven-

do libri di tale argomento; e i molti filosofi greci che fu-rono in Roma, ottenner bensì ammirazione ed applauso,ma tra' Romani non ebber molti imitatori e seguaci. Maal tempo de' primi re ostrogoti, che parve destinato al ri-sorgimento di tutte le scienze, un uomo celebre per na-scita e per dignità e fornito di acuto ingegno e di instan-cabile studio si volse con tale ardore allo studio della fi-losofia, che pareva dovesse essa rifiorire, e aver molti evalorosi coltivatori. E forse ciò sarebbe avvenuto, se latranquillità de' tempi di Teodorico e di Atalarico non sifosse poi cambiata sotto a' lor successori in funestissimeturbolenze, che devastando miseramente l'Italia tuttacondussero ancor le scienze a irreparabil rovina. Io par-lo del cel. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio,uno de' più celebri uomini di questa età, di cui oltre tuttigli autori delle Biblioteche sacre e profane han trattatoassai lungamente l'ab. Gervaise nella Vita pubblicatanein Parigi l'an. 1755, e il p. Daniello Papebrochio dellacomp. di Gesù (Acta SS. maji ad d. 27); e molti punti neha con singolar diligenza esaminati il ch. co. Giammaria

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Parve che la filosofia dovesse ri-sorgere sot-to i re goti.

CAPO IV. Filosofia e Matematica.

I. Eran già presso a quattro secoli che la fi-losofia giacevasi tra' Romani quasi dimenti-cata; perciocchè dopo la morte di Seneca edi Plinio il vecchio appena vi era stato fraessi, chi avesse preso ad illustrarla scriven-

do libri di tale argomento; e i molti filosofi greci che fu-rono in Roma, ottenner bensì ammirazione ed applauso,ma tra' Romani non ebber molti imitatori e seguaci. Maal tempo de' primi re ostrogoti, che parve destinato al ri-sorgimento di tutte le scienze, un uomo celebre per na-scita e per dignità e fornito di acuto ingegno e di instan-cabile studio si volse con tale ardore allo studio della fi-losofia, che pareva dovesse essa rifiorire, e aver molti evalorosi coltivatori. E forse ciò sarebbe avvenuto, se latranquillità de' tempi di Teodorico e di Atalarico non sifosse poi cambiata sotto a' lor successori in funestissimeturbolenze, che devastando miseramente l'Italia tuttacondussero ancor le scienze a irreparabil rovina. Io par-lo del cel. Anicio Manlio Torquato Severino Boezio,uno de' più celebri uomini di questa età, di cui oltre tuttigli autori delle Biblioteche sacre e profane han trattatoassai lungamente l'ab. Gervaise nella Vita pubblicatanein Parigi l'an. 1755, e il p. Daniello Papebrochio dellacomp. di Gesù (Acta SS. maji ad d. 27); e molti punti neha con singolar diligenza esaminati il ch. co. Giammaria

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Parve che la filosofia dovesse ri-sorgere sot-to i re goti.

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Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, p. 3). Noi perciò ne ac-cennerem brevemente le cose che son più certe, e sol citratterremo alquanto, ove qualche dubbio ci arresti.

II. I nomi di Anicio e di Manlio Torquato cifan conoscere l'antichità e la nobiltà dellafamiglia da cui discendeva. A qual anno einascesse, nol possiam diffinire precisamen-te. Ei non era ancor vecchio, quando fu uc-

ciso l'ann. 524. Perciocchè ei si duole che la sua sventu-ra gli avesse affrettata un'immatura vecchiezza. Venit enim properata malis inopina senectus,

Et dolor aetatem jussit inesse suam; Intempestivi funduntur vertice cani, ec.

(De Consol. l. 1, metr. 1) Quindi io crederei probabile ch'egli nascesse verso l'an.470. Noi veggiamo ne' Fasti Capitolini tra l'an. 487 el'an. 522 nominato tre volte tra' consoli un Boezio, cioène' detti due anni e nell'an. 510. Ma non veggiamo chedi alcun di essi si accenni che fosse console la secondavolta. Si può dunque affermar con certezza che il Boe-zio console nell'an. 487 fosse il padre del nostro filoso-fo, a cui di fatto troviam dato il nome di Flavio, con cuiil figlio non suol chiamarsi; che il figlio fosse consolel'an. 510, e ch'egli l'an. 522 vedesse non solo il terzoBoezio suo figliuolo, ma Simmaco ancora di lui fratello,sollevati alla medesima dignità. Egli in fatti rammentaquesta onorevol sorte che gli era toccata, di vedere

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Entrasi a parlar di Boezio: di-gnità da lui sostenute.

Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 2, p. 3). Noi perciò ne ac-cennerem brevemente le cose che son più certe, e sol citratterremo alquanto, ove qualche dubbio ci arresti.

II. I nomi di Anicio e di Manlio Torquato cifan conoscere l'antichità e la nobiltà dellafamiglia da cui discendeva. A qual anno einascesse, nol possiam diffinire precisamen-te. Ei non era ancor vecchio, quando fu uc-

ciso l'ann. 524. Perciocchè ei si duole che la sua sventu-ra gli avesse affrettata un'immatura vecchiezza. Venit enim properata malis inopina senectus,

Et dolor aetatem jussit inesse suam; Intempestivi funduntur vertice cani, ec.

(De Consol. l. 1, metr. 1) Quindi io crederei probabile ch'egli nascesse verso l'an.470. Noi veggiamo ne' Fasti Capitolini tra l'an. 487 el'an. 522 nominato tre volte tra' consoli un Boezio, cioène' detti due anni e nell'an. 510. Ma non veggiamo chedi alcun di essi si accenni che fosse console la secondavolta. Si può dunque affermar con certezza che il Boe-zio console nell'an. 487 fosse il padre del nostro filoso-fo, a cui di fatto troviam dato il nome di Flavio, con cuiil figlio non suol chiamarsi; che il figlio fosse consolel'an. 510, e ch'egli l'an. 522 vedesse non solo il terzoBoezio suo figliuolo, ma Simmaco ancora di lui fratello,sollevati alla medesima dignità. Egli in fatti rammentaquesta onorevol sorte che gli era toccata, di vedere

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Entrasi a parlar di Boezio: di-gnità da lui sostenute.

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amendue i suoi figli al medesimo tempo onorati delleconsolari insegne (ib. l. 2, prosa 3). Alcuni hanno pen-sato che i due figliuoli di Boezio fossero Patrizio e Ipa-zio che furon consoli l'an. 500, e fra gli altri così ha af-fermato il ch. proposto Gori (Thes. Diptych. t. 1, p.176); ma egli è certo che que' due nulla appartengono aBoezio il che oltre altre pruove raccogliesi dal sapersich'essi furon consoli in Oriente (Murat. Ann. d'Ital. adan. 500). Nella distinzione de' diversi Boezj non ha usa-ta la consueta sua diligenza, nè è stato abbastanza coe-rente a se stesso il ch. Muratori. Perciocchè egli in unluogo (ib. ad an. 487), dopo avere saggiamente osserva-to che il Boezio console l'an. 487 non potè essere il filo-sofo, dice che questi fu certamente console l'an. 522. Maposcia altrove (ib. ad an. 510) afferma che il filosofo fuconsole l'an. 510, e che (ib. ad an. 522) il Boezio conso-le l'an. 522 fu di lui figlio. I quali piccioli nei di sì erudi-to scrittore io ho creduto di dover rilevare e qui ed altro-ve, quando ne abbia occasione, perchè si vegga che an-che i più dotti uomini son talvolta soggetti a contraddi-zioni e ad errori, e per ottenere a me stesso un cortesecompatimento da chi legge questa mia Storia, ove a meancora tanto ad essi inferior avvenga d'inciampare tal-volta. Ma non sono le dignità di Boezio, ma sì gli studjda lui fatti che debbonsi da noi esaminare con maggiordiligenza.

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amendue i suoi figli al medesimo tempo onorati delleconsolari insegne (ib. l. 2, prosa 3). Alcuni hanno pen-sato che i due figliuoli di Boezio fossero Patrizio e Ipa-zio che furon consoli l'an. 500, e fra gli altri così ha af-fermato il ch. proposto Gori (Thes. Diptych. t. 1, p.176); ma egli è certo che que' due nulla appartengono aBoezio il che oltre altre pruove raccogliesi dal sapersich'essi furon consoli in Oriente (Murat. Ann. d'Ital. adan. 500). Nella distinzione de' diversi Boezj non ha usa-ta la consueta sua diligenza, nè è stato abbastanza coe-rente a se stesso il ch. Muratori. Perciocchè egli in unluogo (ib. ad an. 487), dopo avere saggiamente osserva-to che il Boezio console l'an. 487 non potè essere il filo-sofo, dice che questi fu certamente console l'an. 522. Maposcia altrove (ib. ad an. 510) afferma che il filosofo fuconsole l'an. 510, e che (ib. ad an. 522) il Boezio conso-le l'an. 522 fu di lui figlio. I quali piccioli nei di sì erudi-to scrittore io ho creduto di dover rilevare e qui ed altro-ve, quando ne abbia occasione, perchè si vegga che an-che i più dotti uomini son talvolta soggetti a contraddi-zioni e ad errori, e per ottenere a me stesso un cortesecompatimento da chi legge questa mia Storia, ove a meancora tanto ad essi inferior avvenga d'inciampare tal-volta. Ma non sono le dignità di Boezio, ma sì gli studjda lui fatti che debbonsi da noi esaminare con maggiordiligenza.

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III. Tra le Lettere di s. Ennodio alcune neabbiamo scritte a Boezio; e da una di esseraccogliesi (l. 8, ep. 1) che gli era stretto diparentela. Or in questa egli lo esalta consomme lodi, dicendo che Boezio avea in sè

unita l'eloquenza di Demostene e di Cicerone; che da'migliori autori così greci come latini avea raccolto ciòche in essi era di più pregevole; e che nel voler imitarel'eloquenza degli antichi oratori giungeva a superarla.Ma assai maggiori sono le lodi di cui il veggiamo onora-to, in una lettera scrittagli da Cassiodoro a nome di Teo-dorico (l. 1 Var. ep. 45). Questi era stato richiesto dal redi Borgogna, perchè gli trasmettesse due oriuoli, solarel'uno, l'altro ad acqua, somiglianti a quelli cui già aveaveduti in Roma (ib. ep. 46). Or Boezio era anche in tailavorj perito assai; e a lui perciò ne fu da Teodorico ad-dossato pensiero. In questa occasione entrando nellelodi di questo grand'uomo "e tu, gli dice, per tal manieraanche da lungi hai penetrato nelle scuole degli Ateniesi,e così hai saputo unire il filosofico pallio alla toga, chehai rendute romane le opinioni de' Greci". Le quali pa-role sono state non bene intese da alcuni, ed anche dalMuratori (ad an. 510), come se indicassero che Boeziofosse stato in Atene, mentre Teodorico vuol qui accen-nar soltanto lo studio della greca filosofia, e perciò diceche, benchè stesse lontano, pur avea penetrato nellescuole ateniesi; Atheniensum scholas longe positus in-troisti. Nè altro fondamento vi è a credere ch'ei viag-giasse in Grecia, se non un passo del Libro de Discipli-

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Suoi studj ed elogi fattine da Cassiodoro.

III. Tra le Lettere di s. Ennodio alcune neabbiamo scritte a Boezio; e da una di esseraccogliesi (l. 8, ep. 1) che gli era stretto diparentela. Or in questa egli lo esalta consomme lodi, dicendo che Boezio avea in sè

unita l'eloquenza di Demostene e di Cicerone; che da'migliori autori così greci come latini avea raccolto ciòche in essi era di più pregevole; e che nel voler imitarel'eloquenza degli antichi oratori giungeva a superarla.Ma assai maggiori sono le lodi di cui il veggiamo onora-to, in una lettera scrittagli da Cassiodoro a nome di Teo-dorico (l. 1 Var. ep. 45). Questi era stato richiesto dal redi Borgogna, perchè gli trasmettesse due oriuoli, solarel'uno, l'altro ad acqua, somiglianti a quelli cui già aveaveduti in Roma (ib. ep. 46). Or Boezio era anche in tailavorj perito assai; e a lui perciò ne fu da Teodorico ad-dossato pensiero. In questa occasione entrando nellelodi di questo grand'uomo "e tu, gli dice, per tal manieraanche da lungi hai penetrato nelle scuole degli Ateniesi,e così hai saputo unire il filosofico pallio alla toga, chehai rendute romane le opinioni de' Greci". Le quali pa-role sono state non bene intese da alcuni, ed anche dalMuratori (ad an. 510), come se indicassero che Boeziofosse stato in Atene, mentre Teodorico vuol qui accen-nar soltanto lo studio della greca filosofia, e perciò diceche, benchè stesse lontano, pur avea penetrato nellescuole ateniesi; Atheniensum scholas longe positus in-troisti. Nè altro fondamento vi è a credere ch'ei viag-giasse in Grecia, se non un passo del Libro de Discipli-

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Suoi studj ed elogi fattine da Cassiodoro.

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na scholarium da alcuni a lui già attribuito, ma che datutti si conosce ora per supposto, e che si crede essere diTommaso Cantipratese (Mazzucch. l. c.). Quindi Teodo-rico rammenta le Opere de' filosofi greci, che Boezioavea recate in latino; e "per te, dice, si leggono da' Ro-mani nella natia lor lingua la musica di Pittagora,l'Astronomia di Tolomeo, l'Aritmetica di Nicomaco, laGeometria di Euclide, la Logica di Aristotele, la Mecca-nica di Archimede, e tutto ciò che intorno alle scienzeed all'arti si è scritto da molti Greci, tu solo hai donato aRoma recato in lingua latina; e con tal eleganza e con talproprietà di parole hai tradotti tai libri, che i loro stessiautori, se l'una e l'altra lingua avesser saputo, avrebbonavuto in pregio il tuo lavoro". Così Cassiodoro il qualealtrove fa grandi encomj della scienza che Boezio aveadella musica (l. 2. Var. ep. 40), e a lui commette perciòla scelta di un valente sonator di cetera, che dal re de'Franchi era stato richiesto.

IV. E veramente le Opere di Boezio cel mo-strano uom versatissimo nelle scienze, e ze-

lantissimo insieme del loro coltivamento. Noi vi trovia-mo in gran parte le traduzioni da Cassiodoro accennatenella sopraccitata lettera, perciocchè i libri da lui scrittisull'Aritmetica, sulla Geometria, sulla Musica, sono perlo più tradotti da' soprannomati scrittori greci. La piùparte delle sue Opere sono di argomento logico, cioètraduzioni e comenti delle Opere di Aristotele, di Porfi-

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Sue Opere.

na scholarium da alcuni a lui già attribuito, ma che datutti si conosce ora per supposto, e che si crede essere diTommaso Cantipratese (Mazzucch. l. c.). Quindi Teodo-rico rammenta le Opere de' filosofi greci, che Boezioavea recate in latino; e "per te, dice, si leggono da' Ro-mani nella natia lor lingua la musica di Pittagora,l'Astronomia di Tolomeo, l'Aritmetica di Nicomaco, laGeometria di Euclide, la Logica di Aristotele, la Mecca-nica di Archimede, e tutto ciò che intorno alle scienzeed all'arti si è scritto da molti Greci, tu solo hai donato aRoma recato in lingua latina; e con tal eleganza e con talproprietà di parole hai tradotti tai libri, che i loro stessiautori, se l'una e l'altra lingua avesser saputo, avrebbonavuto in pregio il tuo lavoro". Così Cassiodoro il qualealtrove fa grandi encomj della scienza che Boezio aveadella musica (l. 2. Var. ep. 40), e a lui commette perciòla scelta di un valente sonator di cetera, che dal re de'Franchi era stato richiesto.

IV. E veramente le Opere di Boezio cel mo-strano uom versatissimo nelle scienze, e ze-

lantissimo insieme del loro coltivamento. Noi vi trovia-mo in gran parte le traduzioni da Cassiodoro accennatenella sopraccitata lettera, perciocchè i libri da lui scrittisull'Aritmetica, sulla Geometria, sulla Musica, sono perlo più tradotti da' soprannomati scrittori greci. La piùparte delle sue Opere sono di argomento logico, cioètraduzioni e comenti delle Opere di Aristotele, di Porfi-

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Sue Opere.

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rio e di Cicerone su tali materie. Ed egli fu il primo arender latina, per così dire, la scolastica filosofia; alme-no non abbiamo autor latino più antico che scrivesse diquesto argomento. Anzi egli prima di ogni altro intro-dusse la filosofia scolastica ancor nella teologia, come sivede in alcuni opuscoli teologici da lui composti, e inquello singolarmente contro Nestorio ed Eutiche. Ma lapiù celebre tra tutte l'Opere di Boezio, e di cui più dicento diverse edizioni si rammentano dal co. Mazzuc-chelli, oltre le traduzioni fattene in quasi tutte le lingue,e perfin nell'ebraica, si è la Consolazione della Filoso-fia, opera da lui composta, mentre si stava prigione,come ora diremo, e scritti in prosa mista con versi, incui egli introduce la Filosofia che prende a confortarlonelle sue sciagure. Alcuni l'hanno esaltata di troppo,uguagliandola perfino alle Opere di Cicerone e di Virgi-lio. Ma chiunque non è affatto inesperto di stil latino, eprende a leggerla attentamente, non può a meno di nonvedervi una troppo grande diversità. Nondimeno si puòdir con ragione, che la prosa e molto più i versi di Boe-zio sono i migliori di tutti gli altri scrittori, non solo diquesta età, ma anche del IV e del V secolo. Ma di essa edelle altre Opere di Boezio veggasi il più volte lodatoco. Mazzucchelli. Noi in vece passeremo a esaminareciò che appartiene alla morte di questo illustre scrittore.

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rio e di Cicerone su tali materie. Ed egli fu il primo arender latina, per così dire, la scolastica filosofia; alme-no non abbiamo autor latino più antico che scrivesse diquesto argomento. Anzi egli prima di ogni altro intro-dusse la filosofia scolastica ancor nella teologia, come sivede in alcuni opuscoli teologici da lui composti, e inquello singolarmente contro Nestorio ed Eutiche. Ma lapiù celebre tra tutte l'Opere di Boezio, e di cui più dicento diverse edizioni si rammentano dal co. Mazzuc-chelli, oltre le traduzioni fattene in quasi tutte le lingue,e perfin nell'ebraica, si è la Consolazione della Filoso-fia, opera da lui composta, mentre si stava prigione,come ora diremo, e scritti in prosa mista con versi, incui egli introduce la Filosofia che prende a confortarlonelle sue sciagure. Alcuni l'hanno esaltata di troppo,uguagliandola perfino alle Opere di Cicerone e di Virgi-lio. Ma chiunque non è affatto inesperto di stil latino, eprende a leggerla attentamente, non può a meno di nonvedervi una troppo grande diversità. Nondimeno si puòdir con ragione, che la prosa e molto più i versi di Boe-zio sono i migliori di tutti gli altri scrittori, non solo diquesta età, ma anche del IV e del V secolo. Ma di essa edelle altre Opere di Boezio veggasi il più volte lodatoco. Mazzucchelli. Noi in vece passeremo a esaminareciò che appartiene alla morte di questo illustre scrittore.

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V. Se io volessi qui rammentare le diverseopinioni dei diversi scrittori su di questo ar-gomento, converrebbe impiegarvi, o a me-glio dire gittarvi, non poco tempo. Io terròdunque il metodo a cui mi sono sempre atte-nuto, e che parmi doversi solo seguire da

esatto e diligente scrittore, cioè di esaminare ciò che nenarrano gli antichi autori. Tra questi i più autorevoli, ede' quali soli io varrommi, sono l'Anonimo valesiano,scrittore secondo il comun parere contemporaneo, Pro-copio che scrisse egli pure nel medesimo secolo, e lostesso Boezio. Cominciam da Procopio. Questi così nar-ra la morte di Simmaco e di Boezio (de Bello goth. l. 1c. 1); "Simmaco e Boezio di lui genero, nati di nobilissi-ma stirpe, e amendue consolari, distinguevansi fra tuttiin senato. Niuno vi era più di essi versato nella filosofia,niuno più amante dell'equità. A ciò aggiugnevansi le li-beralità con cui sollevavano i poveri cittadini non menoche gli stranieri. Quindi venuti in gran fama trassero so-pra se stessi l'invidia de' più malvagi, dalle calunnie de'quali indotto Teodorico, accusati amendue di novitàmacchinate, dannolli a morte, e confiscò i lor beni".L'Anonimo valesiano ne fa un più esatto ma non diversoracconto: "D'allora in poi cominciò (ad calc. Amm.Marcell. ed. Vales.) Teodorico a incrudelire, all'occasio-ne che se gli offerse, contro i Romani. Cipriano ch'eraallora referendario, e fu poscia conte delle sacre dona-zioni e maestro degli ufficj, spinto da ambizione accusòil patrizio Albino che contro di Teodorico avesse scritto

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Esame del-le cagionidella pri-gionia edella mortedi Boezio.

V. Se io volessi qui rammentare le diverseopinioni dei diversi scrittori su di questo ar-gomento, converrebbe impiegarvi, o a me-glio dire gittarvi, non poco tempo. Io terròdunque il metodo a cui mi sono sempre atte-nuto, e che parmi doversi solo seguire da

esatto e diligente scrittore, cioè di esaminare ciò che nenarrano gli antichi autori. Tra questi i più autorevoli, ede' quali soli io varrommi, sono l'Anonimo valesiano,scrittore secondo il comun parere contemporaneo, Pro-copio che scrisse egli pure nel medesimo secolo, e lostesso Boezio. Cominciam da Procopio. Questi così nar-ra la morte di Simmaco e di Boezio (de Bello goth. l. 1c. 1); "Simmaco e Boezio di lui genero, nati di nobilissi-ma stirpe, e amendue consolari, distinguevansi fra tuttiin senato. Niuno vi era più di essi versato nella filosofia,niuno più amante dell'equità. A ciò aggiugnevansi le li-beralità con cui sollevavano i poveri cittadini non menoche gli stranieri. Quindi venuti in gran fama trassero so-pra se stessi l'invidia de' più malvagi, dalle calunnie de'quali indotto Teodorico, accusati amendue di novitàmacchinate, dannolli a morte, e confiscò i lor beni".L'Anonimo valesiano ne fa un più esatto ma non diversoracconto: "D'allora in poi cominciò (ad calc. Amm.Marcell. ed. Vales.) Teodorico a incrudelire, all'occasio-ne che se gli offerse, contro i Romani. Cipriano ch'eraallora referendario, e fu poscia conte delle sacre dona-zioni e maestro degli ufficj, spinto da ambizione accusòil patrizio Albino che contro di Teodorico avesse scritto

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Esame del-le cagionidella pri-gionia edella mortedi Boezio.

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lettere all'imp. Giustino; il che negandosi da Albino,Boezio patrizio ch'era allora maestro degli ufficj, dissein presenza del re: è falsa l'accusa di Cipriano; ma seAlbino è reo, il sono io non meno, e tutto il senato, concui abbiamo operato di comune consentimento. AllorCipriano entrando produsse falsi testimonj, non sol con-tro di Albino, ma contro di Boezio ancora che il difen-deva. Ma il re che tendeva insidie ai Romani, e cercavapretesto di ucciderli, ebbe più fede a' falsi testimonj cheai senatori. Allora Albino e Boezio furon condotti pri-gioni presso al battistero della chiesa, e il re, chiamato asè Eusebio prefetto di Pavia, senza udire Boezio il con-dannò. Mandò quindi a Calvenzano, ov'egli era tenutoprigione e li fè uccidere; e Boezio tormentato per lun-ghissimo tempo con una fune strettagli alla fronte per talmaniera, che gli crepavan gli occhi, finalmente dopovarj tormenti con un bastone fu ucciso". Così raccontanla morte di Boezio questi due scrittori i più antichi diquanti si posson allegare, e vissuti l'uno al tempo mede-simo, l'altro assai poco dopo. Se altri posteriori scrittorihan narrata la cosa diversamente, le leggi di buona criti-ca non ci permettono di dar loro fede, se essi non ci pro-ducono qualche autorevole monumento della contrarialoro opinione. Ora essi non ne producono alcuno; anzi letenebre e l'ignoranza de' secoli susseguenti sono a noitroppo forte motivo perchè non dobbiam prestar fede a'loro racconti. E molto più che Boezio stesso così parladell'avversa sua sorte che conferma insieme e rischiaraciò che dagli allegati scrittori abbiam veduto affermarsi.

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lettere all'imp. Giustino; il che negandosi da Albino,Boezio patrizio ch'era allora maestro degli ufficj, dissein presenza del re: è falsa l'accusa di Cipriano; ma seAlbino è reo, il sono io non meno, e tutto il senato, concui abbiamo operato di comune consentimento. AllorCipriano entrando produsse falsi testimonj, non sol con-tro di Albino, ma contro di Boezio ancora che il difen-deva. Ma il re che tendeva insidie ai Romani, e cercavapretesto di ucciderli, ebbe più fede a' falsi testimonj cheai senatori. Allora Albino e Boezio furon condotti pri-gioni presso al battistero della chiesa, e il re, chiamato asè Eusebio prefetto di Pavia, senza udire Boezio il con-dannò. Mandò quindi a Calvenzano, ov'egli era tenutoprigione e li fè uccidere; e Boezio tormentato per lun-ghissimo tempo con una fune strettagli alla fronte per talmaniera, che gli crepavan gli occhi, finalmente dopovarj tormenti con un bastone fu ucciso". Così raccontanla morte di Boezio questi due scrittori i più antichi diquanti si posson allegare, e vissuti l'uno al tempo mede-simo, l'altro assai poco dopo. Se altri posteriori scrittorihan narrata la cosa diversamente, le leggi di buona criti-ca non ci permettono di dar loro fede, se essi non ci pro-ducono qualche autorevole monumento della contrarialoro opinione. Ora essi non ne producono alcuno; anzi letenebre e l'ignoranza de' secoli susseguenti sono a noitroppo forte motivo perchè non dobbiam prestar fede a'loro racconti. E molto più che Boezio stesso così parladell'avversa sua sorte che conferma insieme e rischiaraciò che dagli allegati scrittori abbiam veduto affermarsi.

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Perciocchè dopo aver detto (De Cons. l. 1 par. 4) ch'egliper la difesa dell'equità avea incontrata la inimicizia el'odio de' cittadini malvagi; che si era opposto a un talConigasto, il quale arditamente usurpavasi i beni diquelli che non avean forze a resistergli; che avea impe-dito le violenze meditate da Triguilla soprastante al re-gio palazzo; che colla sua autorità avea protetto i misericontro l'avarizia ed il furore de' Barbari, ed altre somi-glianti cose da sè operate a comune vantaggio "or tipare, dice egli, che io abbia eccitato contro di me abba-stanza d'invidia?... Ma chi sono coloro sull'accusa de'quali io sono stato oppresso? Basilio privo già deglionori di cui godeva alla corte, da' suoi debiti stessi è sta-to indotto ad accusarmi. Opilione e Gaudenzio essendostati pe' molti loro delitti dal re dannati all'esilio, ed es-sendosi essi per non ubbidire ritirati in luogo sacro, il reavvertitone comandò che se entro il prefisso giorno nonfossero usciti di Ravenna, coll'impronto d'infamia infronte ne fosser cacciati... Or accusandomi essi in quelgiorno medesimo, l'accusa fu ricevuta". Quindi prose-gue egli ad esporre di quai delitti venisse accusato, cioèdi aver vietato che un delatore non recasse a Teodorico idocumenti con cui pretendeva di accusare il senato dilesa maestà, e di avere scritte lettere colle quali mostra-va di aver concepita speranza che Roma fosse per torna-re alla antica sua libertà; e finalmente aggiugne parlandocolla Filosofia: "Tu ben ti ricordi, allor quando il re cer-cando la comune rovina volea addossare a tutto il senatoil delitto di lesa maestà opposto ad Albino, con qual

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Perciocchè dopo aver detto (De Cons. l. 1 par. 4) ch'egliper la difesa dell'equità avea incontrata la inimicizia el'odio de' cittadini malvagi; che si era opposto a un talConigasto, il quale arditamente usurpavasi i beni diquelli che non avean forze a resistergli; che avea impe-dito le violenze meditate da Triguilla soprastante al re-gio palazzo; che colla sua autorità avea protetto i misericontro l'avarizia ed il furore de' Barbari, ed altre somi-glianti cose da sè operate a comune vantaggio "or tipare, dice egli, che io abbia eccitato contro di me abba-stanza d'invidia?... Ma chi sono coloro sull'accusa de'quali io sono stato oppresso? Basilio privo già deglionori di cui godeva alla corte, da' suoi debiti stessi è sta-to indotto ad accusarmi. Opilione e Gaudenzio essendostati pe' molti loro delitti dal re dannati all'esilio, ed es-sendosi essi per non ubbidire ritirati in luogo sacro, il reavvertitone comandò che se entro il prefisso giorno nonfossero usciti di Ravenna, coll'impronto d'infamia infronte ne fosser cacciati... Or accusandomi essi in quelgiorno medesimo, l'accusa fu ricevuta". Quindi prose-gue egli ad esporre di quai delitti venisse accusato, cioèdi aver vietato che un delatore non recasse a Teodorico idocumenti con cui pretendeva di accusare il senato dilesa maestà, e di avere scritte lettere colle quali mostra-va di aver concepita speranza che Roma fosse per torna-re alla antica sua libertà; e finalmente aggiugne parlandocolla Filosofia: "Tu ben ti ricordi, allor quando il re cer-cando la comune rovina volea addossare a tutto il senatoil delitto di lesa maestà opposto ad Albino, con qual

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franchezza anche con mio pericolo io difendessi il sena-to medesimo?... Ma tu vedi qual frutto io abbia raccoltodalla mia innocenza: in vece del premio alla vera virtùdovuto io porto la pena di un falso delitto". Ma se Boe-zio si dichiara innocente, e se innocente il dichiaranotutti gli antichi scrittori, vi ha nondimeno chi ad ognipatto il vuol reo. M. de Blainville in un suo Viaggio ma-noscritto, di cui si è dato l'estratto nella Biblioteca bri-tannica (t. 18, p. 172, 303; t. 20, p. 100) ci assicura che"se Teodorico fece morir Boezio, e alcune altre personedistinte, ciò fu per buone ragioni, singolarmente perchèaveano contro di lui congiurato (t. 20, p. 148)". E siegueannoverando i delitti opposti a Boezio, come se egli nefosse stato veramente reo. Non è ella questa una manie-ra di scrivere assai leggiadra? Tutti gli antichi scrittori ciparlano di Boezio come d'uomo ingiustamente dannatoa morte: non ve è uno, che io sappia che il dica reo dicongiura. Dodici secoli dopo m. de Blainville si mette inviaggio e correndo le poste scuopre che Boezio fu vera-mente colpevole di ribellione. Non merita egli che gli sicreda, e che all'asserzione di lui si abbia più fede cheall'autorità di tutti gli antichi? (7) Ma noi torniamo insentiero.

7 All'irragionevole accusa di m. de Blainville risponde anche con molta evi-denza il prelodato p. m. Capsoni nell'indicato t. 3 delle sue Memorie pave-si.

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franchezza anche con mio pericolo io difendessi il sena-to medesimo?... Ma tu vedi qual frutto io abbia raccoltodalla mia innocenza: in vece del premio alla vera virtùdovuto io porto la pena di un falso delitto". Ma se Boe-zio si dichiara innocente, e se innocente il dichiaranotutti gli antichi scrittori, vi ha nondimeno chi ad ognipatto il vuol reo. M. de Blainville in un suo Viaggio ma-noscritto, di cui si è dato l'estratto nella Biblioteca bri-tannica (t. 18, p. 172, 303; t. 20, p. 100) ci assicura che"se Teodorico fece morir Boezio, e alcune altre personedistinte, ciò fu per buone ragioni, singolarmente perchèaveano contro di lui congiurato (t. 20, p. 148)". E siegueannoverando i delitti opposti a Boezio, come se egli nefosse stato veramente reo. Non è ella questa una manie-ra di scrivere assai leggiadra? Tutti gli antichi scrittori ciparlano di Boezio come d'uomo ingiustamente dannatoa morte: non ve è uno, che io sappia che il dica reo dicongiura. Dodici secoli dopo m. de Blainville si mette inviaggio e correndo le poste scuopre che Boezio fu vera-mente colpevole di ribellione. Non merita egli che gli sicreda, e che all'asserzione di lui si abbia più fede cheall'autorità di tutti gli antichi? (7) Ma noi torniamo insentiero.

7 All'irragionevole accusa di m. de Blainville risponde anche con molta evi-denza il prelodato p. m. Capsoni nell'indicato t. 3 delle sue Memorie pave-si.

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VI. Da tutti gli addotti passi attentamenteconsiderati a me par che raccolgasi con talcertezza il motivo per cui Boezio fu condan-nato, e la maniera con cui fu ucciso, che nonrimanga luogo a dubbio di sorte alcuna.Teodorico avea allor cominciato a mostrareverso i Cattolici un animo mal prevenuto e

sdegnoso di cui non avea fin allora dato indicio alcuno;e la vecchiezza, e il timore che Giustiniano imperadorenon concepisse contro di lui qualche disegno, rendealoper avventura più sollecito e più sospettoso. In tai circo-stanze gli viene accusato Albino di macchinar cose nuo-ve; ed egli facilmente si persuade che il senato ancorane possa essere reo. Boezio coraggiosamente intrapren-de la difesa di Albino insieme e del senato. Ma Ciprianoaccusatore di Albino rivolge contro di lui stesso l'accu-sa, e il rende sospetto a Teodorico, fingendo, e subor-nando testimonj che affermano aver lui scritte lettereche conteneano sentimenti e disegni di ribellione. Piùnon vi volle ad infiammare di sdegno Teodorico. Parnondimeno ch'egli per mostrarsi giusto ne rimettesse ladecisione al senato, e che questo per adular Teodoricocondannasse Boezio, poichè egli nello stesso passo siduole che anche dal senato da lui difeso ei sia stato tra-dito "Abbian pure, dic'egli, cercata la mia rovina coloroche sono assetati del sangue di tutti i buoni e di tutto ilsenato. Ma meritava io un tal trattamento ancor da' pa-dri?" Comunque fosse, Boezio fu condannato non soloall'esilio, come comunemente si dice dagli storici, ma

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Provasi cheBoezio fu stretto in prigione: seciò fosse in Calvenza-no.

VI. Da tutti gli addotti passi attentamenteconsiderati a me par che raccolgasi con talcertezza il motivo per cui Boezio fu condan-nato, e la maniera con cui fu ucciso, che nonrimanga luogo a dubbio di sorte alcuna.Teodorico avea allor cominciato a mostrareverso i Cattolici un animo mal prevenuto e

sdegnoso di cui non avea fin allora dato indicio alcuno;e la vecchiezza, e il timore che Giustiniano imperadorenon concepisse contro di lui qualche disegno, rendealoper avventura più sollecito e più sospettoso. In tai circo-stanze gli viene accusato Albino di macchinar cose nuo-ve; ed egli facilmente si persuade che il senato ancorane possa essere reo. Boezio coraggiosamente intrapren-de la difesa di Albino insieme e del senato. Ma Ciprianoaccusatore di Albino rivolge contro di lui stesso l'accu-sa, e il rende sospetto a Teodorico, fingendo, e subor-nando testimonj che affermano aver lui scritte lettereche conteneano sentimenti e disegni di ribellione. Piùnon vi volle ad infiammare di sdegno Teodorico. Parnondimeno ch'egli per mostrarsi giusto ne rimettesse ladecisione al senato, e che questo per adular Teodoricocondannasse Boezio, poichè egli nello stesso passo siduole che anche dal senato da lui difeso ei sia stato tra-dito "Abbian pure, dic'egli, cercata la mia rovina coloroche sono assetati del sangue di tutti i buoni e di tutto ilsenato. Ma meritava io un tal trattamento ancor da' pa-dri?" Comunque fosse, Boezio fu condannato non soloall'esilio, come comunemente si dice dagli storici, ma

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Provasi cheBoezio fu stretto in prigione: seciò fosse in Calvenza-no.

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alla prigionia. Egli stesso troppo chiaramente lo affer-ma.

Hic quondam coelo liber aperto, Suetus in aethereos ire meatus ... ... ... ... ... ... ... ... ... Nunc jacet effosso lumine mentis. Et pressus gravibus colla catenis, Declivemque gerens pondere vultum, Cogitur heu! stolidam cernere terram (metr. 2).

E parlando colla Filosofia, e mostrandole la squallidezzadel luogo in cui si stava "non ti muove egli punto, dice,l'aspetto di questo luogo? È ella questa la biblioteca incui ti solevi meco trattenere (pr. 4)?" L'anonimo valesia-no ancora troppo chiaramente indica prigionia, e nonesilio. Tunc Albinus et Boethius ducti in custodia. Maquesta prigion di Boezio ove fu ella? Ad baptisteriumecclesiae, dice lo stesso Anonimo. Ma rimane a saperequal chiesa fosse cotesta, presso il cui battistero stavaprigione Boezio. L'Anonimo soggiugne dopo poche pa-role: qui mox in agro Calventiano, ubi in custodia habe-batur, misit rex, et fecit occidi, e con questo par che di-chiari ciò che sopra avea oscuramente accennato, cioèche Boezio stava prigione nella terra di Calvenzano,ch'è luogo nel territorio milanese tra Marignano e Pavia;e perciò a tal fine si valse Teodorico di Eusebio prefettodi Pavia, dalla cui giurisdizione dipendeva per avventu-ra la terra di Calvenzano. Rex vero vocavit Eusebiumpraefectum urbis Ticini, et inaudito Boethio protulit in

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alla prigionia. Egli stesso troppo chiaramente lo affer-ma.

Hic quondam coelo liber aperto, Suetus in aethereos ire meatus ... ... ... ... ... ... ... ... ... Nunc jacet effosso lumine mentis. Et pressus gravibus colla catenis, Declivemque gerens pondere vultum, Cogitur heu! stolidam cernere terram (metr. 2).

E parlando colla Filosofia, e mostrandole la squallidezzadel luogo in cui si stava "non ti muove egli punto, dice,l'aspetto di questo luogo? È ella questa la biblioteca incui ti solevi meco trattenere (pr. 4)?" L'anonimo valesia-no ancora troppo chiaramente indica prigionia, e nonesilio. Tunc Albinus et Boethius ducti in custodia. Maquesta prigion di Boezio ove fu ella? Ad baptisteriumecclesiae, dice lo stesso Anonimo. Ma rimane a saperequal chiesa fosse cotesta, presso il cui battistero stavaprigione Boezio. L'Anonimo soggiugne dopo poche pa-role: qui mox in agro Calventiano, ubi in custodia habe-batur, misit rex, et fecit occidi, e con questo par che di-chiari ciò che sopra avea oscuramente accennato, cioèche Boezio stava prigione nella terra di Calvenzano,ch'è luogo nel territorio milanese tra Marignano e Pavia;e perciò a tal fine si valse Teodorico di Eusebio prefettodi Pavia, dalla cui giurisdizione dipendeva per avventu-ra la terra di Calvenzano. Rex vero vocavit Eusebiumpraefectum urbis Ticini, et inaudito Boethio protulit in

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eum sententiam. Sembra dunque che si possa stabilircon certezza che Boezio fu tenuto prigione nella suddet-ta terra, ed ivi fu ucciso. Ma a ciò si oppone la tradizionde' Pavesi, i quali mostravano ancora negli scorsi secolila torre in cui Boezio era stato prigione, e della quale,essendosi essa dovuta atterrare l'an. 1584 (Spelta, Vitede' Vesc. di Pav. p. 106), han voluto serbar memoria fa-cendone incidere la figura in rame, come osservò il ch.p. Guido Ferrari della comp. di Gesù in una sua eruditadissertazione su questo argomento (Diss. pertinentes adInsubr. Antiq. diss. 16). Il Muratori non fa gran conto dicotal tradizione (Ann. d'Ital. ad an. 524). Anche in Chia-venna, dice l'ab. Quadrio (Diss. sulla Valtellina t. 3,diss. 1, § 24), vedesi una corte ove gli abitanti dicono,ch'era la prigion di Boezio, e perciò egli si è fatto lecitodi sostenere che ivi appunto egli fu imprigionato ed uc-ciso, e di assicurarci che Clavennano dee leggersi, e nonCalventiano nel testo dell'Anonimo. Egli crede che ar-gomento invincibile a favore della sua nuova opinionesia ciò che Boezio afferma, cioè ch'egli era prigioniero500 miglia lungi da Roma (pr. 4), perciocchè, dic'egli,Pavia non n'è distante che 400 sole. Nè io gliel nego; masolo vorrei ch'egli avesse osservato che a quei tempi oper error di misure, o perchè le miglia e i passi fosserpiù brevi, o per qualunque altra ragione siasi che traRoma e Milano fossero oltre a 500 miglia di strada. Neabbiamo la pruova nell'Itinerario di Antonino: Iter abUrbe Mediolano M. P. DXXVIII (Itin. Anton. p. 123 ed.Wesseling. Amst. 1735); e benchè in altri Itinerarj vi ab-

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eum sententiam. Sembra dunque che si possa stabilircon certezza che Boezio fu tenuto prigione nella suddet-ta terra, ed ivi fu ucciso. Ma a ciò si oppone la tradizionde' Pavesi, i quali mostravano ancora negli scorsi secolila torre in cui Boezio era stato prigione, e della quale,essendosi essa dovuta atterrare l'an. 1584 (Spelta, Vitede' Vesc. di Pav. p. 106), han voluto serbar memoria fa-cendone incidere la figura in rame, come osservò il ch.p. Guido Ferrari della comp. di Gesù in una sua eruditadissertazione su questo argomento (Diss. pertinentes adInsubr. Antiq. diss. 16). Il Muratori non fa gran conto dicotal tradizione (Ann. d'Ital. ad an. 524). Anche in Chia-venna, dice l'ab. Quadrio (Diss. sulla Valtellina t. 3,diss. 1, § 24), vedesi una corte ove gli abitanti dicono,ch'era la prigion di Boezio, e perciò egli si è fatto lecitodi sostenere che ivi appunto egli fu imprigionato ed uc-ciso, e di assicurarci che Clavennano dee leggersi, e nonCalventiano nel testo dell'Anonimo. Egli crede che ar-gomento invincibile a favore della sua nuova opinionesia ciò che Boezio afferma, cioè ch'egli era prigioniero500 miglia lungi da Roma (pr. 4), perciocchè, dic'egli,Pavia non n'è distante che 400 sole. Nè io gliel nego; masolo vorrei ch'egli avesse osservato che a quei tempi oper error di misure, o perchè le miglia e i passi fosserpiù brevi, o per qualunque altra ragione siasi che traRoma e Milano fossero oltre a 500 miglia di strada. Neabbiamo la pruova nell'Itinerario di Antonino: Iter abUrbe Mediolano M. P. DXXVIII (Itin. Anton. p. 123 ed.Wesseling. Amst. 1735); e benchè in altri Itinerarj vi ab-

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bia notabile diversità, tutti nondimeno sono sì poco esat-ti, che in ciò ch'è misura di distanza, non è a farne alcunconto. Oltre ciò Mario Aventicese scrittore dello stessosecolo chiaramente afferma che Boezio fu ucciso nelterritorio di Milano (in Chron.). La tradizion dunque diChiavenna non può difendersi. Quella di Pavia è ellameglio fondata? Di coteste tradizioni popolari che nonreggono alle pruove, ve ne ha tanti esempj, che un buoncritico non s'induce così facilmente a dare lor fede. Ionon voglio ostinarmi a negare che Boezio non sia statoprigione in Pavia; forse ci fu prima di essere condottoalla terra di Calvenzano. Ma ne vedrei volentieri qual-che monumento che avesse più forza di una semplicetradizion popolare. Un argomento opportuno a provareche Boezio fu prigione in Pavia prima di essere traspor-tato a Calvenzano, sarebbono quelle parole: ad baptiste-rium ecclesiae, quando si potesse accertare che a questotempo le sole cattedrali avessero battistero; poichè allo-ra non altro battistero potrebbe intendersi che quellodella cattedral di Pavia. Ma da' trattatori della disciplinaecclesiastica non parmi che si possa raccogliere argo-mento bastante a negare assolutamente che in Calvenza-no ancora vi potess'essere battistero. Ciò non ostantequesta non lascia di essere forte assai ragione in favoredella tradizion de' Pavesi (8).8 Il poc'anzi lodato p. m. Capsoni dell'Ord. de' Pred. nell'indicato t. 3 delle

sue Memorie pavesi (parag. XXXI, ec.) di questo argomento singolarmen-te, che a me pure sembrò avere gran forza, si vale per confermare la tradi-zion de' Pavesi, che Boezio fosse prigione in Pavia. E certo non abbiamoindicio di sorta alcuna a provare che Calvenzano fosse allora tal luogo che

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bia notabile diversità, tutti nondimeno sono sì poco esat-ti, che in ciò ch'è misura di distanza, non è a farne alcunconto. Oltre ciò Mario Aventicese scrittore dello stessosecolo chiaramente afferma che Boezio fu ucciso nelterritorio di Milano (in Chron.). La tradizion dunque diChiavenna non può difendersi. Quella di Pavia è ellameglio fondata? Di coteste tradizioni popolari che nonreggono alle pruove, ve ne ha tanti esempj, che un buoncritico non s'induce così facilmente a dare lor fede. Ionon voglio ostinarmi a negare che Boezio non sia statoprigione in Pavia; forse ci fu prima di essere condottoalla terra di Calvenzano. Ma ne vedrei volentieri qual-che monumento che avesse più forza di una semplicetradizion popolare. Un argomento opportuno a provareche Boezio fu prigione in Pavia prima di essere traspor-tato a Calvenzano, sarebbono quelle parole: ad baptiste-rium ecclesiae, quando si potesse accertare che a questotempo le sole cattedrali avessero battistero; poichè allo-ra non altro battistero potrebbe intendersi che quellodella cattedral di Pavia. Ma da' trattatori della disciplinaecclesiastica non parmi che si possa raccogliere argo-mento bastante a negare assolutamente che in Calvenza-no ancora vi potess'essere battistero. Ciò non ostantequesta non lascia di essere forte assai ragione in favoredella tradizion de' Pavesi (8).8 Il poc'anzi lodato p. m. Capsoni dell'Ord. de' Pred. nell'indicato t. 3 delle

sue Memorie pavesi (parag. XXXI, ec.) di questo argomento singolarmen-te, che a me pure sembrò avere gran forza, si vale per confermare la tradi-zion de' Pavesi, che Boezio fosse prigione in Pavia. E certo non abbiamoindicio di sorta alcuna a provare che Calvenzano fosse allora tal luogo che

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VII. Dallo stesso racconto dell'Anonimo va-lesiano noi raccogliamo il crudel genere dimorte, che Boezio sostenne: qui acceptachorda in fronte diutissime tortus, ita utoculi ejus creparent, sic sub tormenta ad ul-

timum cum fuste occiditur. A lui dunque deesi fede piùche a tutti i posteriori scrittori che raccontano lui esserestato decapitato, attribuendo anche a Boezio ciò che sinarra solo di Simmaco di lui suocero decapitato in Ra-venna. Di altre prodigiose circostanze che da alcuni sinarrano avvenute nella morte di Boezio, io stimo che siamiglior consiglio il non favellare, perchè gli stranierinon pensino per avventura che siavi ancora tra gl'Italianichi troppo buonamente le creda. Boezio fu ucciso l'an.524 come afferma il sopraccitato Mario; l'anno dopo fuucciso Simmaco; e nel seguente poscia morì Teodorico.Boezio fu sepolto in Pavia nella chiesa di s. Pietro in

in un tempo, in cui le chiese battesimali erano troppo più rare che non alpresente, dovesse esso pur averla. Osserva egli ancora, come io pure aveaosservato, che avendo Teodorico per far uccider Boezio usato dell'operadel prefetto di Pavia come afferma l'Anonimo, convien dire ch'ei fosse uc-ciso in un luogo a quella prefettura soggetto. Forse si può la quistione de-cidere in questo modo, che Boezio fosse prima per qualche tempo prigionein Pavia, e che poscia trasportato a un luogo, qualunque e ovunque essofosse, nel territorio pavese detto Calvenzano ivi fosse ucciso. Certo nonpar che debba seguirsi Mario Aventicese, ove scrive che fu ucciso nel terri-torio di Milano. E uno scrittore lontano di luogo, com'egli era, potè facil-mente essere indotto in errore dalla vicinanza delle due città, e dal essereforse Calvenzano nè confini tra l'una e l'altra. L'epitafio di Boezio da me inparte riferito, e che comincia: Hoc in sarcophago è stato interamente e piùcorrettamente pubblicato dal m. p. Allegranza dello stesso ordine de' Pre-dicatori (De Sepulchris p. 48).

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Sua morte esuo sepol-cro in Pa-via.

VII. Dallo stesso racconto dell'Anonimo va-lesiano noi raccogliamo il crudel genere dimorte, che Boezio sostenne: qui acceptachorda in fronte diutissime tortus, ita utoculi ejus creparent, sic sub tormenta ad ul-

timum cum fuste occiditur. A lui dunque deesi fede piùche a tutti i posteriori scrittori che raccontano lui esserestato decapitato, attribuendo anche a Boezio ciò che sinarra solo di Simmaco di lui suocero decapitato in Ra-venna. Di altre prodigiose circostanze che da alcuni sinarrano avvenute nella morte di Boezio, io stimo che siamiglior consiglio il non favellare, perchè gli stranierinon pensino per avventura che siavi ancora tra gl'Italianichi troppo buonamente le creda. Boezio fu ucciso l'an.524 come afferma il sopraccitato Mario; l'anno dopo fuucciso Simmaco; e nel seguente poscia morì Teodorico.Boezio fu sepolto in Pavia nella chiesa di s. Pietro in

in un tempo, in cui le chiese battesimali erano troppo più rare che non alpresente, dovesse esso pur averla. Osserva egli ancora, come io pure aveaosservato, che avendo Teodorico per far uccider Boezio usato dell'operadel prefetto di Pavia come afferma l'Anonimo, convien dire ch'ei fosse uc-ciso in un luogo a quella prefettura soggetto. Forse si può la quistione de-cidere in questo modo, che Boezio fosse prima per qualche tempo prigionein Pavia, e che poscia trasportato a un luogo, qualunque e ovunque essofosse, nel territorio pavese detto Calvenzano ivi fosse ucciso. Certo nonpar che debba seguirsi Mario Aventicese, ove scrive che fu ucciso nel terri-torio di Milano. E uno scrittore lontano di luogo, com'egli era, potè facil-mente essere indotto in errore dalla vicinanza delle due città, e dal essereforse Calvenzano nè confini tra l'una e l'altra. L'epitafio di Boezio da me inparte riferito, e che comincia: Hoc in sarcophago è stato interamente e piùcorrettamente pubblicato dal m. p. Allegranza dello stesso ordine de' Pre-dicatori (De Sepulchris p. 48).

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Sua morte esuo sepol-cro in Pa-via.

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Ciel d'oro, e al principio del sec. XIV leggevansi al se-polcro di esso i seguenti versi. Hoc in sarcophago jacet ecce Boethius arcto

Magnus et omnimodo mirificandus homo; Qui Theodorico regi delatus iniquo

Papiae senium duxit in exilium; In qua se moestum solans dedit Urbe libellum.

Post ictus gladio exiit e medio (Desc. Urb. Tic. ap.Murat. Scr. rer. Ital. t. II).

Ma ora quest'altro men barbaro vi si vede scritto di fian-co al sepolcro. Moenia et Latia lingua clarissimus, et qui

Consul eram, hic perii missus in exilium. Ecquid mors rapuit? Pietas me vexit ad auras;

Et nunc fama viget maxima, vivit opus.

In amendue questi elogi si fa menzione di esilio e dimorte in Pavia, ma il secondo è un po' moderno, e il pri-mo non è abbastanza antico, perchè possan combatterel'autorità degli allegati scrittori. Questo sepolcro era inaddietro vicino al presbitero; ma l'an. 1745 per formarele scale che conducono al sotterraneo sepolcro di s.Agostino, fu quindi rimosso, e trasportato all'estremitàdella medesima chiesa. Molti scrittori ragionano di unsepolcro magnifico che da Ottone imperadore gli venneinnalzato (V. Mazz. Scr. Ital. in elog. Boet.); ma questoagli eruditi Pavesi è affatto incognito; e qual esso è alpresente fatto di quadrella sostenute da una semplicepiastra di marmo, e da quattro piccole colonne, non

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Ciel d'oro, e al principio del sec. XIV leggevansi al se-polcro di esso i seguenti versi. Hoc in sarcophago jacet ecce Boethius arcto

Magnus et omnimodo mirificandus homo; Qui Theodorico regi delatus iniquo

Papiae senium duxit in exilium; In qua se moestum solans dedit Urbe libellum.

Post ictus gladio exiit e medio (Desc. Urb. Tic. ap.Murat. Scr. rer. Ital. t. II).

Ma ora quest'altro men barbaro vi si vede scritto di fian-co al sepolcro. Moenia et Latia lingua clarissimus, et qui

Consul eram, hic perii missus in exilium. Ecquid mors rapuit? Pietas me vexit ad auras;

Et nunc fama viget maxima, vivit opus.

In amendue questi elogi si fa menzione di esilio e dimorte in Pavia, ma il secondo è un po' moderno, e il pri-mo non è abbastanza antico, perchè possan combatterel'autorità degli allegati scrittori. Questo sepolcro era inaddietro vicino al presbitero; ma l'an. 1745 per formarele scale che conducono al sotterraneo sepolcro di s.Agostino, fu quindi rimosso, e trasportato all'estremitàdella medesima chiesa. Molti scrittori ragionano di unsepolcro magnifico che da Ottone imperadore gli venneinnalzato (V. Mazz. Scr. Ital. in elog. Boet.); ma questoagli eruditi Pavesi è affatto incognito; e qual esso è alpresente fatto di quadrella sostenute da una semplicepiastra di marmo, e da quattro piccole colonne, non

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sembra certo quel grandioso sepolcro che dicesi operadel suddetto imperadore. Boezio è dalla chiesa pavesericonosciuto qual santo martire, perchè non senza fonda-mento si crede che lo sdegno conceputo negli ultimianni dall'ariano Teodorico contro i Cattolici contribuissemolto a fargli ordinare la morte di un uomo che del suosapere erasi servito ancora a difender la gloria del Fi-gliuolo di Dio. Quindi nella suddetta chiesa vedesi inonor di Boezio eretto un altare, e a' 23 di ottobre dal cle-ro pavese se ne celebra ogni anno la festa come di mar-tire con rito doppio. Del celebre Dittico di Boezio, checonservasi in Brescia, e su cui tanto si è scritto neglianni addietro, non è di quest'opera il ragionare. Il ch.proposto Gori, oltre il favellarne egli stesso, ha unito in-sieme, e pubblicato ciò che di molti valentuomini n'èstato detto (Thes. vet. Diptych. t. 1, p. 154).

VIII. Prima di lasciare Boezio, vuolsi ac-cennare qualche cosa ancor della moglie diquesto illustre filosofo, di cui alcuni han fat-to una valorosa poetessa. Molti scrittori mo-derni, e i siciliani singolarmente, ci narrano

ch'essa fu Elpide siciliana di patria, che fu donna di sa-pere e di erudizione non ordinaria, e celebre singolar-mente per le bellissime poesie da lei composte, di cuiperò non ci rimangono che alcuni degl'Inni su' SS. Apo-stoli Pietro e Paolo, che ancor si leggono, ma corretti,nel Breviario Romano (V. Mongit. Bibl. Sic. t. 1, p.

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Se Boezio avesse in moglie El-pide.

sembra certo quel grandioso sepolcro che dicesi operadel suddetto imperadore. Boezio è dalla chiesa pavesericonosciuto qual santo martire, perchè non senza fonda-mento si crede che lo sdegno conceputo negli ultimianni dall'ariano Teodorico contro i Cattolici contribuissemolto a fargli ordinare la morte di un uomo che del suosapere erasi servito ancora a difender la gloria del Fi-gliuolo di Dio. Quindi nella suddetta chiesa vedesi inonor di Boezio eretto un altare, e a' 23 di ottobre dal cle-ro pavese se ne celebra ogni anno la festa come di mar-tire con rito doppio. Del celebre Dittico di Boezio, checonservasi in Brescia, e su cui tanto si è scritto neglianni addietro, non è di quest'opera il ragionare. Il ch.proposto Gori, oltre il favellarne egli stesso, ha unito in-sieme, e pubblicato ciò che di molti valentuomini n'èstato detto (Thes. vet. Diptych. t. 1, p. 154).

VIII. Prima di lasciare Boezio, vuolsi ac-cennare qualche cosa ancor della moglie diquesto illustre filosofo, di cui alcuni han fat-to una valorosa poetessa. Molti scrittori mo-derni, e i siciliani singolarmente, ci narrano

ch'essa fu Elpide siciliana di patria, che fu donna di sa-pere e di erudizione non ordinaria, e celebre singolar-mente per le bellissime poesie da lei composte, di cuiperò non ci rimangono che alcuni degl'Inni su' SS. Apo-stoli Pietro e Paolo, che ancor si leggono, ma corretti,nel Breviario Romano (V. Mongit. Bibl. Sic. t. 1, p.

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Se Boezio avesse in moglie El-pide.

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171). Ma con quali testimonianze affermasi tutto ciò?Gli scrittori che ci parlan di Elpide, son tutti posterioridi circa mille anni a Boezio, e son tutti scrittori che se-condo il costume usato a quei tempi son persuasi che,perchè loro si creda, basta che l'affermino essi. Ma noimoderni facciamo alquanto i ritrosi, e non vogliam cre-dere in ciò ch'è fatto antico, se non a scrittori e a monu-menti antichi. Or io non veggo nè monumento nè scrit-tore alcuno antico che di Elpide faccia un sol motto.L'epitaffio di lei, che secondo alcuni (V. Mongit. l. c.)era prima in Roma, ed ora, se crediamo al p. Romualdodi s. Maria (Papia Sacra p. 99), vedesi nella stessa chie-sa di S. Agostino in Pavia dirimpetto al sepolcro di Boe-zio, è il solo monumento che di lei ci rimanga. Esso è ilseguente. Elpis dicta fui Siculae regionis alumna,

Quam procul a patria conjugis egit amor. Quo sine moesta dies, nox anxia, flebilis hora;

Cumque viro solum spiritus unus erat. Lux mea non clausa est tali remanente marito,

Majorique, animae parte superstes ero. Porticibus sacris jam nunc peregrina quiesco,

Judicis aeterni testificata thronum. Neve manus bustum violet, ne forte jugalis

Haec iterum cupiat jungere membra suis. La qual iscrizione con qualche notabile diversità è ripor-tata dal Mongitore. Ma in primo luogo questa iscrizionemedesima, per quante diligenze si siano fatte a miaistanza nella mentovata chiesa di s. Agostino per ritro-

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171). Ma con quali testimonianze affermasi tutto ciò?Gli scrittori che ci parlan di Elpide, son tutti posterioridi circa mille anni a Boezio, e son tutti scrittori che se-condo il costume usato a quei tempi son persuasi che,perchè loro si creda, basta che l'affermino essi. Ma noimoderni facciamo alquanto i ritrosi, e non vogliam cre-dere in ciò ch'è fatto antico, se non a scrittori e a monu-menti antichi. Or io non veggo nè monumento nè scrit-tore alcuno antico che di Elpide faccia un sol motto.L'epitaffio di lei, che secondo alcuni (V. Mongit. l. c.)era prima in Roma, ed ora, se crediamo al p. Romualdodi s. Maria (Papia Sacra p. 99), vedesi nella stessa chie-sa di S. Agostino in Pavia dirimpetto al sepolcro di Boe-zio, è il solo monumento che di lei ci rimanga. Esso è ilseguente. Elpis dicta fui Siculae regionis alumna,

Quam procul a patria conjugis egit amor. Quo sine moesta dies, nox anxia, flebilis hora;

Cumque viro solum spiritus unus erat. Lux mea non clausa est tali remanente marito,

Majorique, animae parte superstes ero. Porticibus sacris jam nunc peregrina quiesco,

Judicis aeterni testificata thronum. Neve manus bustum violet, ne forte jugalis

Haec iterum cupiat jungere membra suis. La qual iscrizione con qualche notabile diversità è ripor-tata dal Mongitore. Ma in primo luogo questa iscrizionemedesima, per quante diligenze si siano fatte a miaistanza nella mentovata chiesa di s. Agostino per ritro-

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varla, mi viene assicurato ch'essa al presente non vi sivede. E innoltre in essa non si accenna ch'ella fosse mo-glie di Boezio. Anzi da questa iscrizion si raccoglie cheessa morì innanzi al marito, e perciò ella non può esserequella Rusticiana di lui moglie, di cui parleremo frappo-co, e che più anni gli sopravvisse. Alcuni quindi hannopensato che Boezio avesse una dopo l'altra due mogli,prima Elpide, e poi, lei morta, Rusticiana. A confermarequesto lor sentimento arrecano le parole dello stessoBoezio, in cui egli sembra accennare di aver più d'unsuocero: Quis non te felicissimum cum tanto splendoresocerorum (Consol. l. 2, pr. 3), ec? Ma ognun vede fa-cilmente che con quella parola può Boezio spiegare ilpadre e la madre della sua moglie. Infatti altrove ei famenzione di un solo suocero: penetral innocens domus,honestissimorumque coetus amicorum, socer etiamsanctus, ec. (ib. l. 1, pr. 4). Non vi è dunque nè nelleOpere di Boezio, nè in alcun altro scrittore, o in verunmonumento antico, indicio alcuno a provare che Elpidefosse moglie di Boezio (9). Su qual fondamento poi si af-fermi che da Elpide fosser composti gl'Inni che abbiammentovati poc'anzi, io nol saprei indicare. Egli è veroperò, che poichè anche il celebre card. Tommasi diligen-te ricercatore di tali cose a lei alcuni ne attribuisce (in

9 Anche l'esattiss. Apostolo Zeno era persuaso che Elpide non fosse mai sta-ta moglie di Boezio. Quell'Elpide, scrive egli al p. d. Pier Caterino suo fra-tello (Lettere t. 3, p. 269 sec. ed.), di cui si trovano o si credono gl'Inni,che portano il suo nome, non fu mai moglie di Boezio; ed io ne ho, con ri-spetto di quanti l'hanno asserito, riscontri così sicuri, che sarebbe pazziail dubitarne, o 'l contenderlo.

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varla, mi viene assicurato ch'essa al presente non vi sivede. E innoltre in essa non si accenna ch'ella fosse mo-glie di Boezio. Anzi da questa iscrizion si raccoglie cheessa morì innanzi al marito, e perciò ella non può esserequella Rusticiana di lui moglie, di cui parleremo frappo-co, e che più anni gli sopravvisse. Alcuni quindi hannopensato che Boezio avesse una dopo l'altra due mogli,prima Elpide, e poi, lei morta, Rusticiana. A confermarequesto lor sentimento arrecano le parole dello stessoBoezio, in cui egli sembra accennare di aver più d'unsuocero: Quis non te felicissimum cum tanto splendoresocerorum (Consol. l. 2, pr. 3), ec? Ma ognun vede fa-cilmente che con quella parola può Boezio spiegare ilpadre e la madre della sua moglie. Infatti altrove ei famenzione di un solo suocero: penetral innocens domus,honestissimorumque coetus amicorum, socer etiamsanctus, ec. (ib. l. 1, pr. 4). Non vi è dunque nè nelleOpere di Boezio, nè in alcun altro scrittore, o in verunmonumento antico, indicio alcuno a provare che Elpidefosse moglie di Boezio (9). Su qual fondamento poi si af-fermi che da Elpide fosser composti gl'Inni che abbiammentovati poc'anzi, io nol saprei indicare. Egli è veroperò, che poichè anche il celebre card. Tommasi diligen-te ricercatore di tali cose a lei alcuni ne attribuisce (in

9 Anche l'esattiss. Apostolo Zeno era persuaso che Elpide non fosse mai sta-ta moglie di Boezio. Quell'Elpide, scrive egli al p. d. Pier Caterino suo fra-tello (Lettere t. 3, p. 269 sec. ed.), di cui si trovano o si credono gl'Inni,che portano il suo nome, non fu mai moglie di Boezio; ed io ne ho, con ri-spetto di quanti l'hanno asserito, riscontri così sicuri, che sarebbe pazziail dubitarne, o 'l contenderlo.

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Hymnario), vuolsi credere ch'ei non l'abbia fatto senzaprobabil ragione.

IX. Quella che certamente fu moglie diBoezio, e che più anni gli sopravvisse, fuRusticiana figliuola di quel Simmaco stessoche dopo Boezio fu ucciso. Amalasuntaquando fu salita sul trono, ben conoscendo

quanto ingiusta fosse stata la morte di questi due celebriuomini, ai lor figliuoli avea renduti i beni paterni confi-scati già da Teodorico (Procop. de Bell. goth. l. 1, c. 2).Quindi anche Rusticiana potè dopo la morte del maritovivere agiatamente. Ma ella fece tal uso di sue ricchez-ze, che la rendette eternamente memorabile a' posteri.Ella insieme con altri senatori romani all'occasion dellaguerra che così furiosa si accese tra' Goti e' Greci, e chefu tanto funesta all'Italia, con cristiana generosità si die-de a sollevar l'estreme miserie a cui molti eran condotti;ed ella ed essi ne venner perciò a tal povertà che, allorquando Roma fu ripresa da' Goti si videro questa nobilmatrona e que' nobilissimi senatori costretti ad andarse-ne in veste logora e servile accattando di porta in portada' lor nemici il pane e per loro stessi e per altri, nè essidi ciò vergognavansi; che troppo bella cagione gli aveaa tale stato condotti. E nondimeno que' Barbari senzapunto commuoversi a tale oggetto faceano istanza a To-tila loro re, perchè condannasse a morte Rusticiana, ac-cusandola di aver con donativi indotti i Romani ad atter-

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Notizie diRusticianavera mogliedi Boezio.

Hymnario), vuolsi credere ch'ei non l'abbia fatto senzaprobabil ragione.

IX. Quella che certamente fu moglie diBoezio, e che più anni gli sopravvisse, fuRusticiana figliuola di quel Simmaco stessoche dopo Boezio fu ucciso. Amalasuntaquando fu salita sul trono, ben conoscendo

quanto ingiusta fosse stata la morte di questi due celebriuomini, ai lor figliuoli avea renduti i beni paterni confi-scati già da Teodorico (Procop. de Bell. goth. l. 1, c. 2).Quindi anche Rusticiana potè dopo la morte del maritovivere agiatamente. Ma ella fece tal uso di sue ricchez-ze, che la rendette eternamente memorabile a' posteri.Ella insieme con altri senatori romani all'occasion dellaguerra che così furiosa si accese tra' Goti e' Greci, e chefu tanto funesta all'Italia, con cristiana generosità si die-de a sollevar l'estreme miserie a cui molti eran condotti;ed ella ed essi ne venner perciò a tal povertà che, allorquando Roma fu ripresa da' Goti si videro questa nobilmatrona e que' nobilissimi senatori costretti ad andarse-ne in veste logora e servile accattando di porta in portada' lor nemici il pane e per loro stessi e per altri, nè essidi ciò vergognavansi; che troppo bella cagione gli aveaa tale stato condotti. E nondimeno que' Barbari senzapunto commuoversi a tale oggetto faceano istanza a To-tila loro re, perchè condannasse a morte Rusticiana, ac-cusandola di aver con donativi indotti i Romani ad atter-

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Notizie diRusticianavera mogliedi Boezio.

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rar le statue di Teodorico, per far in tal modo vendettadella morte data al suo marito. Ma il saggio principenon si lasciò piegare ad accondiscendere al barbaro lorfurore; anzi vietò che alcuna ingiuria si recasse a questaincomparabil matrona. Tutto ciò da Procopio (ib. l. 3, c.20). Non sappiamo però se ella prolungasse ancor dimolto i suoi giorni.

X. Simmaco suocero di Boezio, ucciso eglipure l'anno seguente 525 sotto falsi pretestiper ordine di Teodorico, era coltivator dili-gente de' filosofici studj; e perciò abbiam disopra veduto che l'Anonimo valesiano par-

lando di amendue questi celebri uomini, dice che niunoera più di essi versato nella filosofia. Discendeva eglidal celebre Simmaco prefetto di Roma, di cui abbiamparlato nell'epoca precedente. Boezio ne parla con lodea lui dedicando i suoi libri del Sillogismo Ipotetico, eque' della SS. Trinità. Così pure veggiam nominato daBoezio con molta lode un cotal Patrizio retore a cui eglidedicò i suoi Comenti su' Topici di Cicerone, e ch'è pro-babilmente lo stesso a cui egli dedicò parimenti i suoi li-bri geometrici, chiamandolo l'uomo il più esercitato a'suoi tempi nella geometria. Nè dell'uno nè dell'altroperò non sappiamo che lasciassero, monumento alcunodel lor sapere. Anzi ci convien confessare che niun'altracosa ci rimane qui ad aggiugnere de' filosofi e de' mate-matici di questo tempo. Se Cassiodoro e Boezio fusser

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Elogio di Simmaco suocero di Boezio.

rar le statue di Teodorico, per far in tal modo vendettadella morte data al suo marito. Ma il saggio principenon si lasciò piegare ad accondiscendere al barbaro lorfurore; anzi vietò che alcuna ingiuria si recasse a questaincomparabil matrona. Tutto ciò da Procopio (ib. l. 3, c.20). Non sappiamo però se ella prolungasse ancor dimolto i suoi giorni.

X. Simmaco suocero di Boezio, ucciso eglipure l'anno seguente 525 sotto falsi pretestiper ordine di Teodorico, era coltivator dili-gente de' filosofici studj; e perciò abbiam disopra veduto che l'Anonimo valesiano par-

lando di amendue questi celebri uomini, dice che niunoera più di essi versato nella filosofia. Discendeva eglidal celebre Simmaco prefetto di Roma, di cui abbiamparlato nell'epoca precedente. Boezio ne parla con lodea lui dedicando i suoi libri del Sillogismo Ipotetico, eque' della SS. Trinità. Così pure veggiam nominato daBoezio con molta lode un cotal Patrizio retore a cui eglidedicò i suoi Comenti su' Topici di Cicerone, e ch'è pro-babilmente lo stesso a cui egli dedicò parimenti i suoi li-bri geometrici, chiamandolo l'uomo il più esercitato a'suoi tempi nella geometria. Nè dell'uno nè dell'altroperò non sappiamo che lasciassero, monumento alcunodel lor sapere. Anzi ci convien confessare che niun'altracosa ci rimane qui ad aggiugnere de' filosofi e de' mate-matici di questo tempo. Se Cassiodoro e Boezio fusser

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Elogio di Simmaco suocero di Boezio.

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vissuti a più lieti e più pacifici tempi, sembra certo pro-babile che i loro sforzi nel risvegliare gli animi al colti-vamento de' buoni studj avrebbero avuto felice succes-so. Ma le guerre, le desolazioni e le stragi che soprav-vennero, randerono affatto inutili i loro desiderj; e l'Ita-lia tornò ad esser sommersa, e più profondamente di pri-ma, nella barbarie e nell'ignoranza da cui questi duegrandi uomini cercato aveano di liberarla.

CAPO V. Medicina.

I. Appena abbiamo cosa alcuna che degnasia di memoria intorno a questa scienza ne'tempi di cui trattiamo. Io non trovo nè scrit-tore alcuno latino che colle sue opere la illu-strasse, nè medico alcuno che coll'esercitar-la si rendesse celebre in Italia. E ve ne sa-

ranno stati per avventura non pochi, de' quali si sarà fat-to gran conto come di medici valorosi; ma se gli scrittoridi questa età non ce ne han lasciata memoria alcuna,come possiam noi favellarne? Il solo medico celebre chefiorisse a quest'epoca, fu Alessandro di Tralle, il quale,come pruova il Fabricio (Bibl. gr. t. 12, p. 593), visse a'tempi di Giustiniano. I moderni scrivono comunementeche venne dopo più viaggi a fissare la sua dimora inRoma: ma io non so se ciò si possa bastantemente pro-vare. Ben veggiamo dalla sua opera che ancor ci rimane,

172

Il solo me-dico cono-sciuto di quest'età è Alessandro da Tralle.

vissuti a più lieti e più pacifici tempi, sembra certo pro-babile che i loro sforzi nel risvegliare gli animi al colti-vamento de' buoni studj avrebbero avuto felice succes-so. Ma le guerre, le desolazioni e le stragi che soprav-vennero, randerono affatto inutili i loro desiderj; e l'Ita-lia tornò ad esser sommersa, e più profondamente di pri-ma, nella barbarie e nell'ignoranza da cui questi duegrandi uomini cercato aveano di liberarla.

CAPO V. Medicina.

I. Appena abbiamo cosa alcuna che degnasia di memoria intorno a questa scienza ne'tempi di cui trattiamo. Io non trovo nè scrit-tore alcuno latino che colle sue opere la illu-strasse, nè medico alcuno che coll'esercitar-la si rendesse celebre in Italia. E ve ne sa-

ranno stati per avventura non pochi, de' quali si sarà fat-to gran conto come di medici valorosi; ma se gli scrittoridi questa età non ce ne han lasciata memoria alcuna,come possiam noi favellarne? Il solo medico celebre chefiorisse a quest'epoca, fu Alessandro di Tralle, il quale,come pruova il Fabricio (Bibl. gr. t. 12, p. 593), visse a'tempi di Giustiniano. I moderni scrivono comunementeche venne dopo più viaggi a fissare la sua dimora inRoma: ma io non so se ciò si possa bastantemente pro-vare. Ben veggiamo dalla sua opera che ancor ci rimane,

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Il solo me-dico cono-sciuto di quest'età è Alessandro da Tralle.

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che tra le provincie ch'egli corse viaggiando, e nellequali ebbe ancora stanza per qualche tempo, fu la Tosca-na (Therapeut. l. 1). Perciò ho pensato di doverne quiaccennare il nome. Altre notizie intorno a lui si potranleggere, da chi le brami, presso l'altre volte lodato m.Portal. Alcuni fanno un medico anche dello storico Pro-copio; ma non mi par che ne adducano ragioni bastanti aprovarlo. E oltre ciò ei fu straniero, cioè natio di Cesa-rea, e solo in occasion delle guerra tra' Greci e' Goti fuper qualche tempo in Italia. E perciò ancor ch'egli fossestato medico, noi non dovremmo qui nominarlo, per lastessa ragione per cui trattando degli storici non abbiamdi lui fatto motto.

II. Quest'arte però non fu da' re ostrogoti di-menticata, ed essi a' tempi singolarmentedel gran Cassiodoro la onorarono della lorprotezione. Sembra che da Teodorico si sta-bilisse la dignità di conte degli archiatri os-sia di presidente generale de' medici e della

medicina. Noi veggiam tra le formole, per così dire,d'investitura distese da Cassiodoro, con cui conferivasiqualche dignità ad alcuno, quella ancora della comitivadegli archiatri (l. 6 Var. form. 119); e in essa dopo averdette gran cose in lode della medicina, si stabilisce chechi è sollevato a tal carica, abbiasi in conto di primo fratutti i medici, che decida le liti fra loro insorte, e che ab-bia libero accesso alla corte. Ma non ci è giunta notizia

173

Leggi dei re Ostrogotiin vantag-gio de' pro-fessori di medicina.

che tra le provincie ch'egli corse viaggiando, e nellequali ebbe ancora stanza per qualche tempo, fu la Tosca-na (Therapeut. l. 1). Perciò ho pensato di doverne quiaccennare il nome. Altre notizie intorno a lui si potranleggere, da chi le brami, presso l'altre volte lodato m.Portal. Alcuni fanno un medico anche dello storico Pro-copio; ma non mi par che ne adducano ragioni bastanti aprovarlo. E oltre ciò ei fu straniero, cioè natio di Cesa-rea, e solo in occasion delle guerra tra' Greci e' Goti fuper qualche tempo in Italia. E perciò ancor ch'egli fossestato medico, noi non dovremmo qui nominarlo, per lastessa ragione per cui trattando degli storici non abbiamdi lui fatto motto.

II. Quest'arte però non fu da' re ostrogoti di-menticata, ed essi a' tempi singolarmentedel gran Cassiodoro la onorarono della lorprotezione. Sembra che da Teodorico si sta-bilisse la dignità di conte degli archiatri os-sia di presidente generale de' medici e della

medicina. Noi veggiam tra le formole, per così dire,d'investitura distese da Cassiodoro, con cui conferivasiqualche dignità ad alcuno, quella ancora della comitivadegli archiatri (l. 6 Var. form. 119); e in essa dopo averdette gran cose in lode della medicina, si stabilisce chechi è sollevato a tal carica, abbiasi in conto di primo fratutti i medici, che decida le liti fra loro insorte, e che ab-bia libero accesso alla corte. Ma non ci è giunta notizia

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Leggi dei re Ostrogotiin vantag-gio de' pro-fessori di medicina.

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del nome di alcuno che fosse a tal dignità sollevato.

III. Una cosa per ultimo non vuol passarsisotto silenzio, che può giovare a conoscerecome quest'arte fosse anche a que' tempiavuta in conto di onesta ed onorevole, cioèche si videro ancora due diaconi esercitar-

la. Il primo di essi è Elpidio che, come abbiamo osser-vato, credesi da molti che fosse quell'Elpidio Rusticostesso di cui abbiamo alcune sacre poesie. Questi eradiacono e medico, come raccogliesi da una lettera scrit-tagli da s. Ennodio (l. 8, ep. 13), il quale e in questa e inpiù altre lettere fa grandi encomj della erudizione di cuiegli era fornito (l. 7, ep. 7; l. 9, ep. 14, 15). Convien direch'ei fosse avuto in conto di medico assai valoroso, poi-chè di lui valeasi Teodorico, come afferma Procopio (deBello goth. l. 1, c. 1). Ch'ei fosse milanese di patria, locongettura, e parmi a ragione, il p. Sirmondo (in not. adEnnod. ep. 8, l. 8), da una delle citate lettere di s. Enno-dio, e perciò tra gli scrittori milanesi è stato annoveratodall'Argelati. Ciò nonostante i dotti Maurini autori dellaStoria Letteraria di Francia sostengono ch'ei fosse fran-cese, senza però addurne altra pruova che il vederglidato da alcuni antichi il titolo di diacono della chiesa diLione (t. 3, p. 165), il che non parmi argomento bastantea determinarne la patria. Ma quanto ei sapesse di medi-cina, nol possiamo in alcun modo conoscere; poichè nègrandi elogi ne fanno in questa parte gli antichi scrittori,

174

Questa siesercitaspesso anchedagli eccle-siastici.

del nome di alcuno che fosse a tal dignità sollevato.

III. Una cosa per ultimo non vuol passarsisotto silenzio, che può giovare a conoscerecome quest'arte fosse anche a que' tempiavuta in conto di onesta ed onorevole, cioèche si videro ancora due diaconi esercitar-

la. Il primo di essi è Elpidio che, come abbiamo osser-vato, credesi da molti che fosse quell'Elpidio Rusticostesso di cui abbiamo alcune sacre poesie. Questi eradiacono e medico, come raccogliesi da una lettera scrit-tagli da s. Ennodio (l. 8, ep. 13), il quale e in questa e inpiù altre lettere fa grandi encomj della erudizione di cuiegli era fornito (l. 7, ep. 7; l. 9, ep. 14, 15). Convien direch'ei fosse avuto in conto di medico assai valoroso, poi-chè di lui valeasi Teodorico, come afferma Procopio (deBello goth. l. 1, c. 1). Ch'ei fosse milanese di patria, locongettura, e parmi a ragione, il p. Sirmondo (in not. adEnnod. ep. 8, l. 8), da una delle citate lettere di s. Enno-dio, e perciò tra gli scrittori milanesi è stato annoveratodall'Argelati. Ciò nonostante i dotti Maurini autori dellaStoria Letteraria di Francia sostengono ch'ei fosse fran-cese, senza però addurne altra pruova che il vederglidato da alcuni antichi il titolo di diacono della chiesa diLione (t. 3, p. 165), il che non parmi argomento bastantea determinarne la patria. Ma quanto ei sapesse di medi-cina, nol possiamo in alcun modo conoscere; poichè nègrandi elogi ne fanno in questa parte gli antichi scrittori,

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Questa siesercitaspesso anchedagli eccle-siastici.

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nè egli ce ne ha lasciato alcun monumento. L'altro medi-co diacono è Dionigi di cui dice, non so su qual fonda-mento, il p. Sirmondo (l. c.), che vivea allor quandoRoma fu espugnata da' Goti; e di cui egli ha pubblicatoil seguente breve epitafio:

Hic Levita jacet Dionysius artis honestae Functus et officio, quod medicina dedit (10).

Ma di lui ancora non sappiamo qual fama si acquistassenella sua professione.

CAPO VI.Giurisprudenza.

I. L'invasione de' Barbari, e il dominioch'essi occuparono dell'Italia, non fu adessa cagione di quel totale sconvolgi-mento della romana giurisprudenza, chesembrava doverne probabilmente avve-

nire. Parea verisimile che i novelli conquistatori costrin-ger volessero i vinti a soggettarsi alle leggi dei lor vinci-

10 Il ch. sig. ab. Gaetano Marino ha poi avvertito (Degli Archiatri Pontifici t.1, p. 3, ec.) che il Sirmondo non ha pubblicato che i primi due versidell'epitafio del medico e diacono Dionigi, e che esso è stato tradotto inte-ro dal Baronio (ad an. 410, n. 41), e da altri scrittori; e che da esso racco-gliesi veramente che ei viveva allor quando Roma fu da Alarico espugnata.Egli ha ancora prodotto più altri medici ecclesiastici ne' primi secoli dellaChiesa, e più altri che poscia dalla professione di medico salirono alla di-gnità di vescovo (l. c. e p. 13).

175

I Goti lasciano in vigore la ro-mana giurispru-denza.

nè egli ce ne ha lasciato alcun monumento. L'altro medi-co diacono è Dionigi di cui dice, non so su qual fonda-mento, il p. Sirmondo (l. c.), che vivea allor quandoRoma fu espugnata da' Goti; e di cui egli ha pubblicatoil seguente breve epitafio:

Hic Levita jacet Dionysius artis honestae Functus et officio, quod medicina dedit (10).

Ma di lui ancora non sappiamo qual fama si acquistassenella sua professione.

CAPO VI.Giurisprudenza.

I. L'invasione de' Barbari, e il dominioch'essi occuparono dell'Italia, non fu adessa cagione di quel totale sconvolgi-mento della romana giurisprudenza, chesembrava doverne probabilmente avve-

nire. Parea verisimile che i novelli conquistatori costrin-ger volessero i vinti a soggettarsi alle leggi dei lor vinci-

10 Il ch. sig. ab. Gaetano Marino ha poi avvertito (Degli Archiatri Pontifici t.1, p. 3, ec.) che il Sirmondo non ha pubblicato che i primi due versidell'epitafio del medico e diacono Dionigi, e che esso è stato tradotto inte-ro dal Baronio (ad an. 410, n. 41), e da altri scrittori; e che da esso racco-gliesi veramente che ei viveva allor quando Roma fu da Alarico espugnata.Egli ha ancora prodotto più altri medici ecclesiastici ne' primi secoli dellaChiesa, e più altri che poscia dalla professione di medico salirono alla di-gnità di vescovo (l. c. e p. 13).

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I Goti lasciano in vigore la ro-mana giurispru-denza.

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tori. Ma nè Odoacre, nè Teodorico, nè gli altri re ostro-goti che lor succederono, non fecero in essa cambia-mento di sorta alcuna. Essi ben conoscevano che a re-gnare tranquillamente su' popoli soggiogati coll'armiconveniva recare ad essi la minor molestia che si potes-se, e lasciarli vivere, per quanto fosse possibile, secondole antiche lor costumanze. Perciò non solo essi ritennerol'esterior forma nell'amministrazion dell'impero, che sot-to i romani imperadori era stata in uso, ma permiseroancora a' popoli lor soggetti di regolarsi secondo le pro-prie loro leggi, e di avere i lor giudici nazionali. I Gotinondimeno vollero ritenere essi pure le leggi colle qualine' lor paesi eransi regolati; e convenne perciò a Teodo-rico di ordinare che i Goti fosser giudicati da' Goti, e da'Romani i Romani; e che nelle cause in cui aveasi a deci-dere tra' Romani e' Goti, si scegliessero giudici di amen-due le nazioni. E perchè ciò non ostante sorgevano spes-so difficoltà e contese si pubblicò un editto composto di154 articoli, tratti per lo più dalle leggi romane, che do-vessero osservarsi ugualmente da' Romani e da' Goti inquelle contese che fosser loro comuni. Esso è stato pub-blicato dal Lindenbrogio (Cod. Legum antiq. ec.).

II. Quindi il Codice pubblicato già daTeodosio il giovane ebbe ancora vigoresotto Teodorico; e benchè nelle Letteredi Cassiodoro non se ne trovi espressamenzione spesso nondimeno vi si di-

176

Non trovasi nondimeno noti-zia di alcun ce-lebre giurecon-sulto in Italia a questi tempi.

tori. Ma nè Odoacre, nè Teodorico, nè gli altri re ostro-goti che lor succederono, non fecero in essa cambia-mento di sorta alcuna. Essi ben conoscevano che a re-gnare tranquillamente su' popoli soggiogati coll'armiconveniva recare ad essi la minor molestia che si potes-se, e lasciarli vivere, per quanto fosse possibile, secondole antiche lor costumanze. Perciò non solo essi ritennerol'esterior forma nell'amministrazion dell'impero, che sot-to i romani imperadori era stata in uso, ma permiseroancora a' popoli lor soggetti di regolarsi secondo le pro-prie loro leggi, e di avere i lor giudici nazionali. I Gotinondimeno vollero ritenere essi pure le leggi colle qualine' lor paesi eransi regolati; e convenne perciò a Teodo-rico di ordinare che i Goti fosser giudicati da' Goti, e da'Romani i Romani; e che nelle cause in cui aveasi a deci-dere tra' Romani e' Goti, si scegliessero giudici di amen-due le nazioni. E perchè ciò non ostante sorgevano spes-so difficoltà e contese si pubblicò un editto composto di154 articoli, tratti per lo più dalle leggi romane, che do-vessero osservarsi ugualmente da' Romani e da' Goti inquelle contese che fosser loro comuni. Esso è stato pub-blicato dal Lindenbrogio (Cod. Legum antiq. ec.).

II. Quindi il Codice pubblicato già daTeodosio il giovane ebbe ancora vigoresotto Teodorico; e benchè nelle Letteredi Cassiodoro non se ne trovi espressamenzione spesso nondimeno vi si di-

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Non trovasi nondimeno noti-zia di alcun ce-lebre giurecon-sulto in Italia a questi tempi.

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chiara il volere di Teodorico, che le leggi romane riten-gano l'antica loro autorità. Delectamur, dic'egli (l. 3 Var.ep. 43) a nome del suo sovrano, jure romano vivere,quos armis cupimus vindicare. Egli è perciò verisimileche molti vi avesse in Roma anche di questi tempi chenello studio delle leggi diligentemente si esercitassero; emolto più che, come già abbiamo osservato, tra i profes-sori a' quali i re goti vollero che fosser pagati i dovutistipendj, era espressamente nominato il professor delleleggi. Nondimeno non ci è pervenuta notizia di alcuncelebre giureconsulto che a questi tempi fiorisse inRoma, ove solo, come abbiam dimostrato, poteasi in tut-to l'Occidente tener scuola di leggi; o perchè non viavesse veramente alcuno che in ciò salisse a gran nome,o perchè di quelli che in questa scienza furono illustri,non ci sia rimasta memoria per negligenza degli scrittoridi questa età, o per lo smarrimento avvenuto dell'Opereloro.

III. Frattanto mentre regnava Atalaricol'imp. Giustiniano riformò la romana giu-risprudenza, e la pose in quel sistema me-desimo in cui ella è al presente. Non è

questo un oggetto che appartenga al mio argomento,poichè tutto fu opera di un imperador greco e de' grecigiureconsulti. Io perciò sarò pago di accennarlo breve-mente, rimettendo chi voglia più distintamente saperne,a' molti storici che abbiamo della romana giurispruden-

177

Pubblicazionedel Codice diGiustiniano.

chiara il volere di Teodorico, che le leggi romane riten-gano l'antica loro autorità. Delectamur, dic'egli (l. 3 Var.ep. 43) a nome del suo sovrano, jure romano vivere,quos armis cupimus vindicare. Egli è perciò verisimileche molti vi avesse in Roma anche di questi tempi chenello studio delle leggi diligentemente si esercitassero; emolto più che, come già abbiamo osservato, tra i profes-sori a' quali i re goti vollero che fosser pagati i dovutistipendj, era espressamente nominato il professor delleleggi. Nondimeno non ci è pervenuta notizia di alcuncelebre giureconsulto che a questi tempi fiorisse inRoma, ove solo, come abbiam dimostrato, poteasi in tut-to l'Occidente tener scuola di leggi; o perchè non viavesse veramente alcuno che in ciò salisse a gran nome,o perchè di quelli che in questa scienza furono illustri,non ci sia rimasta memoria per negligenza degli scrittoridi questa età, o per lo smarrimento avvenuto dell'Opereloro.

III. Frattanto mentre regnava Atalaricol'imp. Giustiniano riformò la romana giu-risprudenza, e la pose in quel sistema me-desimo in cui ella è al presente. Non è

questo un oggetto che appartenga al mio argomento,poichè tutto fu opera di un imperador greco e de' grecigiureconsulti. Io perciò sarò pago di accennarlo breve-mente, rimettendo chi voglia più distintamente saperne,a' molti storici che abbiamo della romana giurispruden-

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Pubblicazionedel Codice diGiustiniano.

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za, e singolarmente a' due più volte citati, l'Eineccio(Hist. Jur. l. 1, c. 6) e il Terrasson (Hist. de la Jurispr.part. 3). L'anno dunque 528 ei diè l'incarico a dieci de'più dotti giureconsulti che fossero nel suo impero, fra'quali era il cel. Triboniano, che da tre Codici che perl'innanzi si eran formati, cioè dal gregoriano, dall'ermo-geniano e dal teodosiano, raccogliessero e in migliorforma ordinassero quelle leggi che sembrassero più op-portune, facendovi ancora que' cambiamenti e quellegiunte che si credessero necessarie, e ne formassero unnuovo Codice. Poscia al medesimo Triboniano e ad altridiciassette giureconsulti egli commise che raccogliesse-ro insieme le decisioni e le sentenze de' giureconsultiantichi più illustri, che furon divise in 50 libri, e ciascundi essi in più titoli secondo le diverse materie, ed ebberoil nome di Digesti ossia di Pandette. Per ultimo dallostesso Triboniano e da Teofilo e da Doroteo ei fè com-porre i quattro libri d'Istituzioni ossia di elementi dellascienza del diritto; e in questa maniera compito il corpointero della romana giurisprudenza, ne fece l'an. 533 lasolenne pubblicazione, comandando ch'esso solo servis-se di certa regola in avvenire, e che da' pubblici profes-sori si dichiarasse non solo in Costantinopoli e in Berito,ma in Roma ancora. Ma questo primo Codice di Giusti-niano non ebbe lunga durata. Avea egli già pubblicateverso il medesimo tempo 50 decisioni su molte conteseche tra' discordanti giureconsulti soleano sorgere e aveainnoltre dopo la pubblicazione del Codice promulgate,secondo il bisogno, altre leggi. Or le une e le altre anda-

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za, e singolarmente a' due più volte citati, l'Eineccio(Hist. Jur. l. 1, c. 6) e il Terrasson (Hist. de la Jurispr.part. 3). L'anno dunque 528 ei diè l'incarico a dieci de'più dotti giureconsulti che fossero nel suo impero, fra'quali era il cel. Triboniano, che da tre Codici che perl'innanzi si eran formati, cioè dal gregoriano, dall'ermo-geniano e dal teodosiano, raccogliessero e in migliorforma ordinassero quelle leggi che sembrassero più op-portune, facendovi ancora que' cambiamenti e quellegiunte che si credessero necessarie, e ne formassero unnuovo Codice. Poscia al medesimo Triboniano e ad altridiciassette giureconsulti egli commise che raccogliesse-ro insieme le decisioni e le sentenze de' giureconsultiantichi più illustri, che furon divise in 50 libri, e ciascundi essi in più titoli secondo le diverse materie, ed ebberoil nome di Digesti ossia di Pandette. Per ultimo dallostesso Triboniano e da Teofilo e da Doroteo ei fè com-porre i quattro libri d'Istituzioni ossia di elementi dellascienza del diritto; e in questa maniera compito il corpointero della romana giurisprudenza, ne fece l'an. 533 lasolenne pubblicazione, comandando ch'esso solo servis-se di certa regola in avvenire, e che da' pubblici profes-sori si dichiarasse non solo in Costantinopoli e in Berito,ma in Roma ancora. Ma questo primo Codice di Giusti-niano non ebbe lunga durata. Avea egli già pubblicateverso il medesimo tempo 50 decisioni su molte conteseche tra' discordanti giureconsulti soleano sorgere e aveainnoltre dopo la pubblicazione del Codice promulgate,secondo il bisogno, altre leggi. Or le une e le altre anda-

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vano in certo modo disperse e disgiunte dal corpo dellagiurisprudenza. Perciò per mezzo di Triboniano e di altriquattro giureconsulti ei rivide, ed emendò, ed accrebbein più luoghi il suo Codice, aggiugnendovi così le Deci-sioni come le nuove Costituzioni, e, soppresso l'anticoCodice, pubblicò il nuovo l'an. 534, che perciò fu chia-mato Codex repetitae praelectionis, ed è quel medesimoche noi abbiamo al presente. A questo furon poi aggiun-te le nuove Costituzioni che negli anni seguenti da Giu-stiniano furono pubblicate, e che sembrano essere quelleappunto che abbiamo nel corpo della giurisprudenzasotto il titolo di Novelle Costituzioni divise in nove col-lazioni; ed altre aggiunte ancora vi si fecero ne' tempiavvenire, delle quali non è qui luogo di ragionare. Cosìtutto il corpo della romana giurisprudenza fu diviso intre parti, oltre le istituzioni che ne sono come il proe-mio, cioè nei Digesti, nel Codice, e nelle Nuove Costitu-zioni, dette più brevemente Novelle.

IV. Di questo corpo di leggi si fanno da al-cuni giureconsulti i più grandi elogi, da altrise ne parla col maggior dispregio del mon-do. Io, che non sono giureconsulto, debbo io

entrar di mezzo tra sì grandi uomini, e decidere franca-mente a chi si debba dare e a chi negar fede? Ancorchèio fossi ardito di farlo, altro certamente non otterrei ched'incorrer lo sdegno e il biasimo di coloro a' quali mimostrassi contrario. Ognun dunque ne senta come me-

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Diversità dipareri intor-no ad esso.

vano in certo modo disperse e disgiunte dal corpo dellagiurisprudenza. Perciò per mezzo di Triboniano e di altriquattro giureconsulti ei rivide, ed emendò, ed accrebbein più luoghi il suo Codice, aggiugnendovi così le Deci-sioni come le nuove Costituzioni, e, soppresso l'anticoCodice, pubblicò il nuovo l'an. 534, che perciò fu chia-mato Codex repetitae praelectionis, ed è quel medesimoche noi abbiamo al presente. A questo furon poi aggiun-te le nuove Costituzioni che negli anni seguenti da Giu-stiniano furono pubblicate, e che sembrano essere quelleappunto che abbiamo nel corpo della giurisprudenzasotto il titolo di Novelle Costituzioni divise in nove col-lazioni; ed altre aggiunte ancora vi si fecero ne' tempiavvenire, delle quali non è qui luogo di ragionare. Cosìtutto il corpo della romana giurisprudenza fu diviso intre parti, oltre le istituzioni che ne sono come il proe-mio, cioè nei Digesti, nel Codice, e nelle Nuove Costitu-zioni, dette più brevemente Novelle.

IV. Di questo corpo di leggi si fanno da al-cuni giureconsulti i più grandi elogi, da altrise ne parla col maggior dispregio del mon-do. Io, che non sono giureconsulto, debbo io

entrar di mezzo tra sì grandi uomini, e decidere franca-mente a chi si debba dare e a chi negar fede? Ancorchèio fossi ardito di farlo, altro certamente non otterrei ched'incorrer lo sdegno e il biasimo di coloro a' quali mimostrassi contrario. Ognun dunque ne senta come me-

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Diversità dipareri intor-no ad esso.

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glio gli piace, che io non verrò perciò a contendere conalcuno. Solo per chi sia desideroso di pur sapere ciò chesu questo argomento si dica dall'una e dall'altra parte,accennerò qui una bella dissertazione dell'Eineccio dalui intitolata: Defensio compilationis juris romani (vol. 3Op. ed. Gen. 1748, p. 126), nella quale ei riferisce edesamina a lungo, e poscia rigetta e combatte le accuseche da molti si danno al corpo della romana giurispru-denza; a cui un'altra egli ne ha aggiunta De secta tribo-niano mastigum in difesa del celebre Triboniano autorprincipale della stessa compilazione. Ognuno potrà iviconoscere se le accuse, o le difese sian meglio fondate, eseguir quel parere che gli sembri meglio provato.

V. Ma questa, qualunque ella siasi,compilazione di leggi fu ella in Italiaabbracciata mentre vi regnavano i Goti?

Pare che Giustiniano il volesse, e in alcune delle leggidel suo Codice ei fa menzione ancora dell'antica Roma(l. 1, tit. 17; l. 11, tit. 18); ma egli stesso dovea intendereche non gli era agevole l'ottenerlo, mentre Roma e l'Ita-lia ubbidivano ad altri sovrani. Io osservo in fatti che glieditti da lui premessi al suo Codice, con cui comandache ad esse in avvenir si conformino tutti i popoli a luisoggetti, sono indirizzati al senato di Costantinopoli, oal prefetto del pretorio nella stessa città, niuno al senato,o ad altro magistrato di Roma. Quindi finchè i Goti o re-gnarono tranquillamente in Italia, o vi sostenner la guer-

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Quando fosse ri-cevuto in Italia.

glio gli piace, che io non verrò perciò a contendere conalcuno. Solo per chi sia desideroso di pur sapere ciò chesu questo argomento si dica dall'una e dall'altra parte,accennerò qui una bella dissertazione dell'Eineccio dalui intitolata: Defensio compilationis juris romani (vol. 3Op. ed. Gen. 1748, p. 126), nella quale ei riferisce edesamina a lungo, e poscia rigetta e combatte le accuseche da molti si danno al corpo della romana giurispru-denza; a cui un'altra egli ne ha aggiunta De secta tribo-niano mastigum in difesa del celebre Triboniano autorprincipale della stessa compilazione. Ognuno potrà iviconoscere se le accuse, o le difese sian meglio fondate, eseguir quel parere che gli sembri meglio provato.

V. Ma questa, qualunque ella siasi,compilazione di leggi fu ella in Italiaabbracciata mentre vi regnavano i Goti?

Pare che Giustiniano il volesse, e in alcune delle leggidel suo Codice ei fa menzione ancora dell'antica Roma(l. 1, tit. 17; l. 11, tit. 18); ma egli stesso dovea intendereche non gli era agevole l'ottenerlo, mentre Roma e l'Ita-lia ubbidivano ad altri sovrani. Io osservo in fatti che glieditti da lui premessi al suo Codice, con cui comandache ad esse in avvenir si conformino tutti i popoli a luisoggetti, sono indirizzati al senato di Costantinopoli, oal prefetto del pretorio nella stessa città, niuno al senato,o ad altro magistrato di Roma. Quindi finchè i Goti o re-gnarono tranquillamente in Italia, o vi sostenner la guer-

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Quando fosse ri-cevuto in Italia.

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ra contro de' Greci, la quale ebbe principio poco dopo lapubblicazione del Codice di Giustiniano, io penso chequello di Teodosio continuasse a servir di norma e di re-gola ne' giudizj. Ma dappoichè, distrutto il regno de'Goti, l'Italia ricadde in potere di Giustiniano, questi or-dinò che le sue leggi vi fossero ricevute e pubblicate.Abbiamo ancora l'editto da lui promulgato a tal fine l'an.554 che fu il seguente alla morte di Teia ultimo re de'Goti; editto da lui intitolato Sanzion prammatica, e chevedesi aggiunto al Codice fra gli altri editti di Giustinia-no e de' suoi successori. In esso dopo aver confermati(c. 1) i privilegi tutti che da Atalarico, da Amalasunta eda Teodorico erano stati conceduti a' Romani, ma annul-lati quelli (c. 2) che ottenuti si erano da Totila a cui dà ilnome di tiranno, e dopo aver dati più altri provvedimen-ti, comanda che in avvenire le sue leggi abbian forza evigore in tutta l'Italia. "Jura insuper vel leges Codicibusnostris insertas, quas jam sub edictali programate in Ita-liam dudum misimus, obtinere sancimus, sed et eas,quas postea promulgavimus, constitutiones jubemus subedictali propositione vulgari ex eo tempore, quo subedictali programate fuerint, etiam per partes Italiae obti-nere, ut una Deo volente facta republica legum etiamnostrarum prolatetur auctoritas" (c. II). Era allor Giusti-niano signor di quasi tutta l'Italia, poichè sol poche piaz-ze rimaneano in man de' Goti. E non è da dubitare cheNarsete, il quale per lui governavala, non facesse ese-guirne i comandi. Fu adunque allor ricevuto in Italia ilCodice di Giustiniano, e vedremo poscia che sotto i re

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ra contro de' Greci, la quale ebbe principio poco dopo lapubblicazione del Codice di Giustiniano, io penso chequello di Teodosio continuasse a servir di norma e di re-gola ne' giudizj. Ma dappoichè, distrutto il regno de'Goti, l'Italia ricadde in potere di Giustiniano, questi or-dinò che le sue leggi vi fossero ricevute e pubblicate.Abbiamo ancora l'editto da lui promulgato a tal fine l'an.554 che fu il seguente alla morte di Teia ultimo re de'Goti; editto da lui intitolato Sanzion prammatica, e chevedesi aggiunto al Codice fra gli altri editti di Giustinia-no e de' suoi successori. In esso dopo aver confermati(c. 1) i privilegi tutti che da Atalarico, da Amalasunta eda Teodorico erano stati conceduti a' Romani, ma annul-lati quelli (c. 2) che ottenuti si erano da Totila a cui dà ilnome di tiranno, e dopo aver dati più altri provvedimen-ti, comanda che in avvenire le sue leggi abbian forza evigore in tutta l'Italia. "Jura insuper vel leges Codicibusnostris insertas, quas jam sub edictali programate in Ita-liam dudum misimus, obtinere sancimus, sed et eas,quas postea promulgavimus, constitutiones jubemus subedictali propositione vulgari ex eo tempore, quo subedictali programate fuerint, etiam per partes Italiae obti-nere, ut una Deo volente facta republica legum etiamnostrarum prolatetur auctoritas" (c. II). Era allor Giusti-niano signor di quasi tutta l'Italia, poichè sol poche piaz-ze rimaneano in man de' Goti. E non è da dubitare cheNarsete, il quale per lui governavala, non facesse ese-guirne i comandi. Fu adunque allor ricevuto in Italia ilCodice di Giustiniano, e vedremo poscia che sotto i re

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longobardi ancora fu lecito agl'italiani l'usarne.

VI. Le arrecate parole di Giustiniano, concui afferma di aver mandato in Italia uncorpo delle sue leggi, han fatto credere amolti che il rinomatissimo codice dellePandette pisane, ossia fiorentine, che orconservasi in Firenze (11), sia quel dessoappunto che fu inviato in Italia da Giusti-

niano, e ch'esso sia scritto per mano del medesimo Tri-boniano. Il primo autore di tal opinione fu Angelo Poli-ziano il quale innanzi ad ogni altro esaminò attentamen-te quel codice e ne fece le collazioni delle quali a suoluogo ragioneremo. Il sentimento del Poliziano fu po-scia seguito e difeso da molti altri scrittori i cui nomi siarrecano da Arrigo Brencmanno (Hist. Pand. flor. l. 1, c.2; l. 4, c. 1), e dopo lui da Federico Ottone Menckenio(Vita Ang. Polit. p. 304, ec.) e dal ch. can. Bandini (Rag.sopra la collaz. delle Pand. p. 7, ec.). Ma questi tre me-desimi autori, e altri da essi allegati, han confutata l'opi-nione del Poliziano, e han dimostrato che, benchè ilmentovato codice non debba credersi posteriore di mol-to a' tempi di Giustiniano, e sembri scritto tra il VI e ilVII sec., non si può nondimeno in alcun modo affermareche abbia quel pregio troppo maggiore che il Poliziano

11 Il celebre codice delle Pandette pisane conservavasi una volta nella realguardaroba in Firenze da cui poscia per ordine del regnante Gran Duca èstato trasportato nella Laurenziana.

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Se il codice pi-sano, or fioren-tino, delle Pan-dette sia l'ori-ginale stesso mandato in Ita-lia.

longobardi ancora fu lecito agl'italiani l'usarne.

VI. Le arrecate parole di Giustiniano, concui afferma di aver mandato in Italia uncorpo delle sue leggi, han fatto credere amolti che il rinomatissimo codice dellePandette pisane, ossia fiorentine, che orconservasi in Firenze (11), sia quel dessoappunto che fu inviato in Italia da Giusti-

niano, e ch'esso sia scritto per mano del medesimo Tri-boniano. Il primo autore di tal opinione fu Angelo Poli-ziano il quale innanzi ad ogni altro esaminò attentamen-te quel codice e ne fece le collazioni delle quali a suoluogo ragioneremo. Il sentimento del Poliziano fu po-scia seguito e difeso da molti altri scrittori i cui nomi siarrecano da Arrigo Brencmanno (Hist. Pand. flor. l. 1, c.2; l. 4, c. 1), e dopo lui da Federico Ottone Menckenio(Vita Ang. Polit. p. 304, ec.) e dal ch. can. Bandini (Rag.sopra la collaz. delle Pand. p. 7, ec.). Ma questi tre me-desimi autori, e altri da essi allegati, han confutata l'opi-nione del Poliziano, e han dimostrato che, benchè ilmentovato codice non debba credersi posteriore di mol-to a' tempi di Giustiniano, e sembri scritto tra il VI e ilVII sec., non si può nondimeno in alcun modo affermareche abbia quel pregio troppo maggiore che il Poliziano

11 Il celebre codice delle Pandette pisane conservavasi una volta nella realguardaroba in Firenze da cui poscia per ordine del regnante Gran Duca èstato trasportato nella Laurenziana.

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Se il codice pi-sano, or fioren-tino, delle Pan-dette sia l'ori-ginale stesso mandato in Ita-lia.

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gli ha attribuito. Or questo nuovo corpo di giurispruden-za romana avrebbe dovuto risvegliare in molti impeto edardore non ordinario nel coltivarla. E forse vi furon mol-ti a que' tempi, che in questa sorte di studj ottenner lode.Ma non ce n'è giunta, ch'io sappia, notizia alcuna. Forseancora vi furon più altri, oltre a quei che abbiam nomi-nati, che in qualche genere di letteratura furon famosi inItalia a questa medesima età. Ma le vicende da' tempiche a questi vennero dopo, ce ne han fatto perdere ognimemoria; e qui perciò siam costretti a porre fine a que-sta epoca, in ciò che appartiene agli studj; poichè di ciòche spetta alle scuole e alle biblioteche abbiam già ne'precedenti capi raccolto tutto ciò che dagli storici diquesta età ci è stato tramandato.

CAPO VII. Arti liberali.

I. Quel favore medesimo e quella munifi-cenza di cui fu liberale Teodorico il grandeverso le lettere e le scienze, fu da lui ugual-mente rivolto alle bell'arti ancora e a' lorocoltivatori. Cassiodoro gliene seppe istillaresì saggiamente la stima e l'amore, che fu

questo un degli oggetti, di cui egli principalmente occu-possi nel tranquillo e glorioso suo regno. Non vi ha cosaper avventura, di cui si ragioni sì spesso nelle Letterescritte da Cassiodoro in nome del suo sovrano, come

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Premure diTeodoricoper conser-vare gli an-tichi monu-menti.

gli ha attribuito. Or questo nuovo corpo di giurispruden-za romana avrebbe dovuto risvegliare in molti impeto edardore non ordinario nel coltivarla. E forse vi furon mol-ti a que' tempi, che in questa sorte di studj ottenner lode.Ma non ce n'è giunta, ch'io sappia, notizia alcuna. Forseancora vi furon più altri, oltre a quei che abbiam nomi-nati, che in qualche genere di letteratura furon famosi inItalia a questa medesima età. Ma le vicende da' tempiche a questi vennero dopo, ce ne han fatto perdere ognimemoria; e qui perciò siam costretti a porre fine a que-sta epoca, in ciò che appartiene agli studj; poichè di ciòche spetta alle scuole e alle biblioteche abbiam già ne'precedenti capi raccolto tutto ciò che dagli storici diquesta età ci è stato tramandato.

CAPO VII. Arti liberali.

I. Quel favore medesimo e quella munifi-cenza di cui fu liberale Teodorico il grandeverso le lettere e le scienze, fu da lui ugual-mente rivolto alle bell'arti ancora e a' lorocoltivatori. Cassiodoro gliene seppe istillaresì saggiamente la stima e l'amore, che fu

questo un degli oggetti, di cui egli principalmente occu-possi nel tranquillo e glorioso suo regno. Non vi ha cosaper avventura, di cui si ragioni sì spesso nelle Letterescritte da Cassiodoro in nome del suo sovrano, come

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Premure diTeodoricoper conser-vare gli an-tichi monu-menti.

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della conservazione e della ristorazione delle fabbricheantiche e degli antichi più celebri monumenti. Tra le for-mole distese dal medesimo Cassiodoro con cui dal reconferivansi alcune ragguardevoli cariche, veggiamquella ch'è intitolata Formula Comitivae Romanae (l. 7Var. form. 13), e che corrisponde a quel magistrato, dicui abbiam altrove parlato, il quale dicesi latinamenteComes nitentium rerum. Or in questa formola caldamen-te si raccomanda a chi riceveva un cotale impiego,d'invigilare con somma attenzione di notte tempo, per-chè le statue, di cui le strade e le piazze di Roma eranoin ogni parte adorne non fossero da qualche mano rapa-ce, o brutale rubate o guaste. Abbiam parimenti la for-mola con cui soleasi nominare un pubblico architetto diRoma (ib. form. 15), di cui dovea esser pensiero provve-dere alla conservazione delle fabbriche e delle statue an-tiche, rinnovar quelle che avesser sofferto danno, e ag-giugner quelle che si credessero opportune, o necessa-rie. E in amendue queste formole chiaramente si scuo-pre quanto fosse di tali cose sollecito Teodorico, e quan-to gli stesse a cuore che sotto il suo regno Roma non de-cadesse punto dall'antica maestà e grandezza. E ben sa-peva egli che per tal maniera sarebbesi conciliata la sti-ma e l'amor de' Romani, perciocchè questi, come narraProcopio (de Bello goth. l. 4, c. 22), erano singolarmen-te solleciti di conservare i bei monumenti di cui fino da'più antichi tempi adorna vedevasi la lor città.

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della conservazione e della ristorazione delle fabbricheantiche e degli antichi più celebri monumenti. Tra le for-mole distese dal medesimo Cassiodoro con cui dal reconferivansi alcune ragguardevoli cariche, veggiamquella ch'è intitolata Formula Comitivae Romanae (l. 7Var. form. 13), e che corrisponde a quel magistrato, dicui abbiam altrove parlato, il quale dicesi latinamenteComes nitentium rerum. Or in questa formola caldamen-te si raccomanda a chi riceveva un cotale impiego,d'invigilare con somma attenzione di notte tempo, per-chè le statue, di cui le strade e le piazze di Roma eranoin ogni parte adorne non fossero da qualche mano rapa-ce, o brutale rubate o guaste. Abbiam parimenti la for-mola con cui soleasi nominare un pubblico architetto diRoma (ib. form. 15), di cui dovea esser pensiero provve-dere alla conservazione delle fabbriche e delle statue an-tiche, rinnovar quelle che avesser sofferto danno, e ag-giugner quelle che si credessero opportune, o necessa-rie. E in amendue queste formole chiaramente si scuo-pre quanto fosse di tali cose sollecito Teodorico, e quan-to gli stesse a cuore che sotto il suo regno Roma non de-cadesse punto dall'antica maestà e grandezza. E ben sa-peva egli che per tal maniera sarebbesi conciliata la sti-ma e l'amor de' Romani, perciocchè questi, come narraProcopio (de Bello goth. l. 4, c. 22), erano singolarmen-te solleciti di conservare i bei monumenti di cui fino da'più antichi tempi adorna vedevasi la lor città.

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II. Nè solo provvide generalmentealla conservazione delle fabbriche ede' monumenti di Roma, ma spessoprofuse egli medesimo i suoi tesori a

ripararne or le mura, or altri pubblici edificj (l. 1 Var. ep.25, 28; l. 2, ep. 7, 34; l. 3, ep. 29, 31). I sotterranei cana-li, fabbriche di maraviglioso lavoro, furono per coman-do di lui ristorati (l. 3, ep. 30). Il teatro romano che,benchè fatto di pietre, minacciava nondimeno rovina,volle che a sue proprie spese si rinnovasse (l. 4, ep. 51).Di queste provide cure di Teodorico a vantaggio diRoma frequentissime pruove s'incontrano nelle Letteredi Cassiodoro. E s. Ennodio ancora fra le altre lodi chedà a questo gran principe, annovera quella (Pan.Theod.) di aver fatta risorgere all'antica grandezza nonsolo Roma ma più altre città ancora. Infatti ad altre partid'Italia egli pure rivolse la sua beneficenza. Una statuadi bronzo era stata occultamente rubata in Como; ed eglimandò ordine che si facessero diligenti ricerche a sco-prirne il rubatore, che cento monete d'oro si promettes-sero a chi lo indicasse, perciocchè, dic'egli per mezzo diCassiodoro (l. 2 Var. ep. 35) "ella è cosa amara troppo espiacevole, che mentre noi cerchiamo ogni giorno di ac-crescere gli ornamenti della città, i monumenti antichi a'nostri tempi vengano meno". Erano celebri fin d'allora ibagni d'Abano nel padovano, ma le fabbriche, che lorostavano intorno per comodo di chi ne usava, e un palaz-zo singolarmente che vi era vicino, sembrava che perantichità volessero sfasciarsi e cadere. Egli diè commis-

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E nel riparare in Roma e altrove gli antichi edificj.

II. Nè solo provvide generalmentealla conservazione delle fabbriche ede' monumenti di Roma, ma spessoprofuse egli medesimo i suoi tesori a

ripararne or le mura, or altri pubblici edificj (l. 1 Var. ep.25, 28; l. 2, ep. 7, 34; l. 3, ep. 29, 31). I sotterranei cana-li, fabbriche di maraviglioso lavoro, furono per coman-do di lui ristorati (l. 3, ep. 30). Il teatro romano che,benchè fatto di pietre, minacciava nondimeno rovina,volle che a sue proprie spese si rinnovasse (l. 4, ep. 51).Di queste provide cure di Teodorico a vantaggio diRoma frequentissime pruove s'incontrano nelle Letteredi Cassiodoro. E s. Ennodio ancora fra le altre lodi chedà a questo gran principe, annovera quella (Pan.Theod.) di aver fatta risorgere all'antica grandezza nonsolo Roma ma più altre città ancora. Infatti ad altre partid'Italia egli pure rivolse la sua beneficenza. Una statuadi bronzo era stata occultamente rubata in Como; ed eglimandò ordine che si facessero diligenti ricerche a sco-prirne il rubatore, che cento monete d'oro si promettes-sero a chi lo indicasse, perciocchè, dic'egli per mezzo diCassiodoro (l. 2 Var. ep. 35) "ella è cosa amara troppo espiacevole, che mentre noi cerchiamo ogni giorno di ac-crescere gli ornamenti della città, i monumenti antichi a'nostri tempi vengano meno". Erano celebri fin d'allora ibagni d'Abano nel padovano, ma le fabbriche, che lorostavano intorno per comodo di chi ne usava, e un palaz-zo singolarmente che vi era vicino, sembrava che perantichità volessero sfasciarsi e cadere. Egli diè commis-

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E nel riparare in Roma e altrove gli antichi edificj.

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sione a un architetto, che a spese regie tutti quegli edifi-cj ristorasse con diligenza, e li rendesse sicuri e agiatiper modo, che all'uso lor proprio potessero perfettamen-te servire (ib. ep. 39).

III. Ma al grande e magnifico Teodori-co poco sembrava l'occuparsi soltantoo in impedire, o in riparar le rovine.Egli accrebbe ancora all'Italia nuovi or-

namenti, e fè innalzare in più parti regali edificj. L'auto-re della Storia detta Miscella, che di nuovo è stata pub-blicata dal ch. Muratori (Script. rer. ital. t. 1), accenna inbreve ch'egli nelle più popolose città, si fè innalzare ma-gnifiche reggie (Hist. Misc. l. 15). Ma l'Anonimo vale-siano ce ne ha lasciato più distinta menzione, perciocchèdopo aver detto ch'egli era amator di fabbriche, e risto-ratore delle città (p. 522, ed. Vales.), rammenta singo-larmente il ristorar ch'egli fece l'acquedotto fatto già daTrajano in Ravenna, un palazzo nella stessa città fabbri-cato insieme co' portici che il circondavano; delle qualifabbriche fatte già in Ravenna troviamo anche menzionenelle Lettere di Cassiodoro (l. 1. Var. ep. 6; l. 3, ep. 9); ilpalazzo pure e le terme fatte in Verona, e un lungo porti-co che dalla porta della città conduceva al detto palazzo,e un antico acquedotto ivi ancor rinnovato, e le nuovemura di cui aveala circondata; nuove mura parimenti epalazzo e terme e anfiteatro da lui fabbricati in Pavia: epiù altre città finalmente da lui in somigliante maniera

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Nuove magnifichefabbriche da lui inpiù parti innalzate.

sione a un architetto, che a spese regie tutti quegli edifi-cj ristorasse con diligenza, e li rendesse sicuri e agiatiper modo, che all'uso lor proprio potessero perfettamen-te servire (ib. ep. 39).

III. Ma al grande e magnifico Teodori-co poco sembrava l'occuparsi soltantoo in impedire, o in riparar le rovine.Egli accrebbe ancora all'Italia nuovi or-

namenti, e fè innalzare in più parti regali edificj. L'auto-re della Storia detta Miscella, che di nuovo è stata pub-blicata dal ch. Muratori (Script. rer. ital. t. 1), accenna inbreve ch'egli nelle più popolose città, si fè innalzare ma-gnifiche reggie (Hist. Misc. l. 15). Ma l'Anonimo vale-siano ce ne ha lasciato più distinta menzione, perciocchèdopo aver detto ch'egli era amator di fabbriche, e risto-ratore delle città (p. 522, ed. Vales.), rammenta singo-larmente il ristorar ch'egli fece l'acquedotto fatto già daTrajano in Ravenna, un palazzo nella stessa città fabbri-cato insieme co' portici che il circondavano; delle qualifabbriche fatte già in Ravenna troviamo anche menzionenelle Lettere di Cassiodoro (l. 1. Var. ep. 6; l. 3, ep. 9); ilpalazzo pure e le terme fatte in Verona, e un lungo porti-co che dalla porta della città conduceva al detto palazzo,e un antico acquedotto ivi ancor rinnovato, e le nuovemura di cui aveala circondata; nuove mura parimenti epalazzo e terme e anfiteatro da lui fabbricati in Pavia: epiù altre città finalmente da lui in somigliante maniera

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Nuove magnifichefabbriche da lui inpiù parti innalzate.

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abbellite ed ornate. Paolo diacono aggiugne ancora (Degestis Long. l. 4, c. 22) ch'egli soleva passare il tempo distate nel nobil borgo di Monza presso Milano, allettatodalla salubrità dell'aria non meno che dall'amenità delsito, ed è perciò verisimile che ivi pure ei lasciasse al-cun monumento della regia sua munificenza. Perchè nonebbe l'Italia per più secoli ancora sovrani barbari sì estranieri, ma in questa parte somiglianti al gran Teodori-co! Ella non avrebbe avuto a piangere la rovina e la per-dita di tanti egregi monumenti che dal furore delle guer-re che venner dopo le furon rapiti.

IV. Prima d'innoltrarci nella storiadell'arti di questa età, vuolsi qui accennarqualche cosa de' cambiamenti che soffrìin essa l'architettura. Il ch. Muratori sisdegna contro coloro che rimirano i Goticome nemici dell'arte, e distruttori dei più

bei monumenti (Diss. sopra le Antich. ital. t. 1, diss. 23,24). E certo io non so intendere come il dotto p. ab. An-gelo della Noce potesse scrivere (in not. ad Leon.ostiens. Chron. l. 3, c. 29) che il re Teodorico omnes bo-nas artes eliminavit ex Italia; mentre la storia di questitempi sì chiaramente ci mostra quanto ei fosse sollecitodi mantenerle e di avvivarle. Ma il valoroso apologistadei Goti non è contento di liberarli da questa taccia cheloro ingiustamente si appone. Egli non vuole innoltreche credasi da essi introdotto nell'arti un certo cattivo

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Se a' Goti si possa dare la taccia di aver cagionato il decadimento dell'arti.

abbellite ed ornate. Paolo diacono aggiugne ancora (Degestis Long. l. 4, c. 22) ch'egli soleva passare il tempo distate nel nobil borgo di Monza presso Milano, allettatodalla salubrità dell'aria non meno che dall'amenità delsito, ed è perciò verisimile che ivi pure ei lasciasse al-cun monumento della regia sua munificenza. Perchè nonebbe l'Italia per più secoli ancora sovrani barbari sì estranieri, ma in questa parte somiglianti al gran Teodori-co! Ella non avrebbe avuto a piangere la rovina e la per-dita di tanti egregi monumenti che dal furore delle guer-re che venner dopo le furon rapiti.

IV. Prima d'innoltrarci nella storiadell'arti di questa età, vuolsi qui accennarqualche cosa de' cambiamenti che soffrìin essa l'architettura. Il ch. Muratori sisdegna contro coloro che rimirano i Goticome nemici dell'arte, e distruttori dei più

bei monumenti (Diss. sopra le Antich. ital. t. 1, diss. 23,24). E certo io non so intendere come il dotto p. ab. An-gelo della Noce potesse scrivere (in not. ad Leon.ostiens. Chron. l. 3, c. 29) che il re Teodorico omnes bo-nas artes eliminavit ex Italia; mentre la storia di questitempi sì chiaramente ci mostra quanto ei fosse sollecitodi mantenerle e di avvivarle. Ma il valoroso apologistadei Goti non è contento di liberarli da questa taccia cheloro ingiustamente si appone. Egli non vuole innoltreche credasi da essi introdotto nell'arti un certo cattivo

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Se a' Goti si possa dare la taccia di aver cagionato il decadimento dell'arti.

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gusto che dicesi gotico. "Vediamo, dic'egli, caratteri del-le stampe assai grossolani; li chiamiamo gotici; miriamobasiliche di rozza e sproporzionata architettura: gridiamtosto ch'è fattura gotica. Tutte immaginazioni vane". Eper ciò che appartiene a' caratteri che si chiaman gotici,non può negarsi ch'essi siano inferiori di molto a' tempide' Goti. Ma per riguardo all'architettura penso che siad'uopo di un diligente esame per ben decidere una talquistione. Il Muratori per mostrare quanto irragionevolesia l'accusare i Goti del decadimento dell'archittettura,rammenta e le magnifiche fabbriche di Teodorico, e leLettere di Cassiodoro da noi pure accennate, dalle qualiraccogliesi chiaramente quanto a quest'ottimo principestesse a cuore che i suoi edificj non cedessero in bellez-za e in maestà agli antichi. Ma, a parlare sinceramente,non parmi ch'egli abbia abbastanza distinte due cose chepur sono tra loro diverse assai, magnificenza e gusto.Che Teodorico avesse idee e disegni alla grandezza delsuo animo corrispondenti; ch'egli volesse che le sue fab-briche potessero gareggiare colle più rinomate di Romae di tutta l'Italia; che perciò profondesse con regia libe-ralità i suoi tesori, non può negarsi. Ma ciò non pruovache il gusto allora seguito comunemente non fosse catti-vo. Lucano, Seneca, Tacito ed altri scrittori de' loro tem-pi usarono di ogni sforzo per uguagliare, e per superareancora la fama degli scrittori dell'età precedente, ed essierano uomini d'ingegno nulla inferiore a chiunque. Ma ilpoco buon gusto a cui s'appigliarono, fece ch'essi otte-nessero gloria minore assai di quella de' loro predeces-

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gusto che dicesi gotico. "Vediamo, dic'egli, caratteri del-le stampe assai grossolani; li chiamiamo gotici; miriamobasiliche di rozza e sproporzionata architettura: gridiamtosto ch'è fattura gotica. Tutte immaginazioni vane". Eper ciò che appartiene a' caratteri che si chiaman gotici,non può negarsi ch'essi siano inferiori di molto a' tempide' Goti. Ma per riguardo all'architettura penso che siad'uopo di un diligente esame per ben decidere una talquistione. Il Muratori per mostrare quanto irragionevolesia l'accusare i Goti del decadimento dell'archittettura,rammenta e le magnifiche fabbriche di Teodorico, e leLettere di Cassiodoro da noi pure accennate, dalle qualiraccogliesi chiaramente quanto a quest'ottimo principestesse a cuore che i suoi edificj non cedessero in bellez-za e in maestà agli antichi. Ma, a parlare sinceramente,non parmi ch'egli abbia abbastanza distinte due cose chepur sono tra loro diverse assai, magnificenza e gusto.Che Teodorico avesse idee e disegni alla grandezza delsuo animo corrispondenti; ch'egli volesse che le sue fab-briche potessero gareggiare colle più rinomate di Romae di tutta l'Italia; che perciò profondesse con regia libe-ralità i suoi tesori, non può negarsi. Ma ciò non pruovache il gusto allora seguito comunemente non fosse catti-vo. Lucano, Seneca, Tacito ed altri scrittori de' loro tem-pi usarono di ogni sforzo per uguagliare, e per superareancora la fama degli scrittori dell'età precedente, ed essierano uomini d'ingegno nulla inferiore a chiunque. Ma ilpoco buon gusto a cui s'appigliarono, fece ch'essi otte-nessero gloria minore assai di quella de' loro predeces-

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sori. Non altrimenti può avvenire, e avvien di fattodell'arti, che anche allor quando il favor de' sovrani leonora e le avviva, per l'infelice gusto de' loro coltivatoriesse decadano.

V. Or che a' tempi de' Goti l'architetturavenisse a stato sempre peggiore, io noncredo che da alcuno possa negarsi. Essaavea cominciato già da alcuni secoli ad-dietro a dicadere, come abbiamo osser-

vato, e col proceder del tempo si venne vie maggior-mente guastando. Anzi, benchè il Muratori affermi chequella che suol chiamarsi gotica architettura non fu in-trodotta che ne' secoli susseguenti, io penso nondimenoche una riflession diligente sugli scrittori di questa età cipossa persuader facilmente che a' tempi appunto de'Goti essa ebbe principio. Egli è ben vero, come saggia-mente riflette il march. Maffei (Ver. illustr. par. 1 l. 11),"che ne' bassi tempi per quanto riguarda la perfetta com-positura delle muraglie e la soldità e la magnificenza, siritenne in Italia non solamente dopo la venuta de' Barba-ri, ma sino agli ultimi secoli la stessa maniera de' Roma-ni, grandi e perfetti materiali usando, frammischiandopoca calce, e pulitamente commettendo". In questa ma-gnificenza stessa però de' bassi tempi veggonsi, come ilmedesimo autore confessa, i difetti che chiamansi di ar-chitettura gotica, cioè i sesti acuti degli archi, e l'irrego-larità de' capitelli e delle colonne. Or io osservo che

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Se l'architettura venisse a lor tempo a stato peggiore assai.

sori. Non altrimenti può avvenire, e avvien di fattodell'arti, che anche allor quando il favor de' sovrani leonora e le avviva, per l'infelice gusto de' loro coltivatoriesse decadano.

V. Or che a' tempi de' Goti l'architetturavenisse a stato sempre peggiore, io noncredo che da alcuno possa negarsi. Essaavea cominciato già da alcuni secoli ad-dietro a dicadere, come abbiamo osser-

vato, e col proceder del tempo si venne vie maggior-mente guastando. Anzi, benchè il Muratori affermi chequella che suol chiamarsi gotica architettura non fu in-trodotta che ne' secoli susseguenti, io penso nondimenoche una riflession diligente sugli scrittori di questa età cipossa persuader facilmente che a' tempi appunto de'Goti essa ebbe principio. Egli è ben vero, come saggia-mente riflette il march. Maffei (Ver. illustr. par. 1 l. 11),"che ne' bassi tempi per quanto riguarda la perfetta com-positura delle muraglie e la soldità e la magnificenza, siritenne in Italia non solamente dopo la venuta de' Barba-ri, ma sino agli ultimi secoli la stessa maniera de' Roma-ni, grandi e perfetti materiali usando, frammischiandopoca calce, e pulitamente commettendo". In questa ma-gnificenza stessa però de' bassi tempi veggonsi, come ilmedesimo autore confessa, i difetti che chiamansi di ar-chitettura gotica, cioè i sesti acuti degli archi, e l'irrego-larità de' capitelli e delle colonne. Or io osservo che

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Se l'architettura venisse a lor tempo a stato peggiore assai.

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questi difetti, e quelli singolarmente che sono i più fre-quenti a vedersi nelle architetture che diconsi gotiche,erano in uso fin da' tempi de' Goti. E primieramente, seè vero ciò che il ch. ab. Frisi afferma (Sag. sull'Archit.got.), che uno de' primi esempj di archi continuati soprale colonne isolate invece di congiugnerle, come più anti-camente si usava cogli architravi, sia nella chiesa di s.Vitale in Ravenna cominciata, dic'egli, sotto il regno diAmalasunta, noi veggiamo in ciò un notabile cambia-mento, e un principio di decadenza nell'architettura. Ioguarderommi bene però dall'affermare che tale, o tal al-tra fabbrica ancora esistente sia opera de' Goti. Miesporrei in tal guisa a pericolo di rinnovare una guerraaccesa non ha molt'anni in Italia, per cui si sono vedutiuscire animosamente in campo valorosi guerrieri armatidi assai grossi volumi a provare che un tal edificio fuopera de' Romani, non già de' Goti, ed altri il contrariosostener francamente che fu opera de' Goti, non già de'Romani. Io temo troppo l'espormi a sì calde mischie, eperciò sarò pago di recare un passo di Cassiodoro da cuiparmi che si possa raccogliere che l'architettura ai tempide' Goti venne degenerando. Egli dunque in una sua let-tera lodando le maraviglie dell'arte, fa espressa menzio-ne della strana sottigliezza delle colonne che sostenevanle fabbriche, cui egli perciò paragona alle canne, o alleaste; "Quid dicamus columnarum junceam procerita-tem? Moles illas sublimissimas fabricarum, quasi quibu-sdam erectis hastilibus contineri, et substantiae qualitateconcavis canalibus excavatae, ut magis ipsas aestimes

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questi difetti, e quelli singolarmente che sono i più fre-quenti a vedersi nelle architetture che diconsi gotiche,erano in uso fin da' tempi de' Goti. E primieramente, seè vero ciò che il ch. ab. Frisi afferma (Sag. sull'Archit.got.), che uno de' primi esempj di archi continuati soprale colonne isolate invece di congiugnerle, come più anti-camente si usava cogli architravi, sia nella chiesa di s.Vitale in Ravenna cominciata, dic'egli, sotto il regno diAmalasunta, noi veggiamo in ciò un notabile cambia-mento, e un principio di decadenza nell'architettura. Ioguarderommi bene però dall'affermare che tale, o tal al-tra fabbrica ancora esistente sia opera de' Goti. Miesporrei in tal guisa a pericolo di rinnovare una guerraaccesa non ha molt'anni in Italia, per cui si sono vedutiuscire animosamente in campo valorosi guerrieri armatidi assai grossi volumi a provare che un tal edificio fuopera de' Romani, non già de' Goti, ed altri il contrariosostener francamente che fu opera de' Goti, non già de'Romani. Io temo troppo l'espormi a sì calde mischie, eperciò sarò pago di recare un passo di Cassiodoro da cuiparmi che si possa raccogliere che l'architettura ai tempide' Goti venne degenerando. Egli dunque in una sua let-tera lodando le maraviglie dell'arte, fa espressa menzio-ne della strana sottigliezza delle colonne che sostenevanle fabbriche, cui egli perciò paragona alle canne, o alleaste; "Quid dicamus columnarum junceam procerita-tem? Moles illas sublimissimas fabricarum, quasi quibu-sdam erectis hastilibus contineri, et substantiae qualitateconcavis canalibus excavatae, ut magis ipsas aestimes

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fuisse transfusas, alias seris judices factum, quod metal-lis durissimis videas expolitum" (l. 7 Var. form. 15). Quiabbiam dunque chiaramente spiegata la sottigliezza del-le colonne, e pare ancora che qualche cenno vi si facciade' capricciosi rabeschi che a capitelli soleansi aggiu-gnere. Ma la sottigliezza delle colonne suppone necessa-riamente i sesti acuti; senza de' quali non potrebbe unapesante fabbrica sostenersi su colonne sottili, come a'dotti architetti è abbastanza noto. E perciò parmi, s'ionon m'inganno, che da questo passo raccolgasi ad evi-denza che ai tempi de' Goti prese ad usarsi ciò che è unode' principali caratteri della gotica architettura. Ma pos-siam noi veramente accertare che una tal maniera di fab-bricare non fosse anche ne' precedenti secoli introdotta?Io non so se esista fabbrica alcuna di tal natura, o se vene sia cenno di qualche scrittore innanzi a' tempi de'Goti. Ed io perciò atterrommi alla mia opinione, finchènon mi si mostri che la gotica architettura fu più anticade' Goti. A me basta di avere or dimostrato, per quantosembrami, ch'essa non fu a lor posteriore (12).12 Questa opinione intorno all'architettura gotica, e, alla spiegazione del pas-

so di Cassiodono, in cui io ho creduto di dover ravvisare l'origine del se-stacuto, non più mi sembra ora probabile, avendo ottimamente osservato ilsig. ab. Fea (Winck. Stor. dell'art. t. III, p. 272), che Cassiodoro non parlide' Monumenti a sua tempo innalzati, ma degli antichi romani che tuttorsussistevano, e che perciò, ove egli indica le colonne sottili a foggia digiunchi, non debbasi intendere di quelle che veggonsi nell'architettura det-ta volgarmente gotica, ma che con qualche esagerazione disegni le ordina-rie colonne che sembano sottili riguardo alle gran fabbriche che sostengo-no, quando singolarmente si parli di quelle di ordine corintio che sono diminor diametro delle altre. L'eruditissimo ed esattissimo osservatore dellevicende dell'arte, il cav. d'Agincourt, che prima di tutti ha fatta questa me-

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fuisse transfusas, alias seris judices factum, quod metal-lis durissimis videas expolitum" (l. 7 Var. form. 15). Quiabbiam dunque chiaramente spiegata la sottigliezza del-le colonne, e pare ancora che qualche cenno vi si facciade' capricciosi rabeschi che a capitelli soleansi aggiu-gnere. Ma la sottigliezza delle colonne suppone necessa-riamente i sesti acuti; senza de' quali non potrebbe unapesante fabbrica sostenersi su colonne sottili, come a'dotti architetti è abbastanza noto. E perciò parmi, s'ionon m'inganno, che da questo passo raccolgasi ad evi-denza che ai tempi de' Goti prese ad usarsi ciò che è unode' principali caratteri della gotica architettura. Ma pos-siam noi veramente accertare che una tal maniera di fab-bricare non fosse anche ne' precedenti secoli introdotta?Io non so se esista fabbrica alcuna di tal natura, o se vene sia cenno di qualche scrittore innanzi a' tempi de'Goti. Ed io perciò atterrommi alla mia opinione, finchènon mi si mostri che la gotica architettura fu più anticade' Goti. A me basta di avere or dimostrato, per quantosembrami, ch'essa non fu a lor posteriore (12).12 Questa opinione intorno all'architettura gotica, e, alla spiegazione del pas-

so di Cassiodono, in cui io ho creduto di dover ravvisare l'origine del se-stacuto, non più mi sembra ora probabile, avendo ottimamente osservato ilsig. ab. Fea (Winck. Stor. dell'art. t. III, p. 272), che Cassiodoro non parlide' Monumenti a sua tempo innalzati, ma degli antichi romani che tuttorsussistevano, e che perciò, ove egli indica le colonne sottili a foggia digiunchi, non debbasi intendere di quelle che veggonsi nell'architettura det-ta volgarmente gotica, ma che con qualche esagerazione disegni le ordina-rie colonne che sembano sottili riguardo alle gran fabbriche che sostengo-no, quando singolarmente si parli di quelle di ordine corintio che sono diminor diametro delle altre. L'eruditissimo ed esattissimo osservatore dellevicende dell'arte, il cav. d'Agincourt, che prima di tutti ha fatta questa me-

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VI. Lo stesso march. Maffei, apologistaegli pure de' Goti, prende a difenderli dallaaccusa che loro dassi da molti, di aver gua-sta l'architettura, ma in maniera diversa daquella tenuta dal Muratori. Perciocchè ei

non nega (l. c.) che l'arte venisse sempre più decadendoa' lor tempi; ma dice che non se ne debbono incolpare iGoti. Questi erano dic'egli, soldati, e non architetti, nèmuratori, ed eran nativi di tai paesi, ove appena si sapeache fosse fabbricare di muro. Gl'Italiani non già i Gotifurono i corrompitor di quest'arte. Ma questa ragione èella veramente di quel peso che a prima vista si crede? IGoti eran soldati, ma certo non tutti; poichè, come narraGiornande scrittor di que' tempi, tutta la lor nazione fu

desima riflessione, mi ha su questo argomento scritta una lunga lettera chesarebbe degna di essere pubblicata, s'io non credessi di non dover preveni-re la gran d'opera che sulla Storia dell'Arte, ne' bassi tempi ci si apparec-chia a darci. Mi basti qui l'accennare ch'ei prova chiaramente ciò che da luiavea appreso l'ab. Fea, che Cassiodoro, come sopra si è detto, parla dellefabbriche romane non delle gotiche; che egli osserva che non è ancor bendefinito qual sia quella che sogliam dire gotica architettura; che non è verociò che l'ab. Frisi ha affermato, che la chiesa di s.Vitale di Ravenna sia unadelle prime in cui si veggano gli archi continuati sopra le colonne isolate,perchè abbiamo, per tacer di altri più antichi monumenti, il palazzo di Dio-cleziano nella città di Spalato tanto anteriore a' tempi de' Goti fabbricatoalla stessa maniera; che i difetti che diconsi gotici, sono comunemente piùrecenti del secol de' Goti; e che insomma non deesi abbandonare l'opinionedel Muratori e del Maffei da me qui impugnata. Io ben volentieri mi arren-do alle ragioni da lui prodotte, e avrei cambiato interamente tutto questopasso, se non avessi creduto che non fosse per dispiacere a' lettori il vederecome io abbia pensato in addietro, e come pensi ora. Altro non mi resta abramare, se non che questo eruditissimo cavaliere non indugi più oltre apubblicar la sua opera che rischiarerà felicemente un'argomento involto fi-nora tra dense tenebre.

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Esame dellaapologia delGoti fatta dalmarch. Maf-fei.

VI. Lo stesso march. Maffei, apologistaegli pure de' Goti, prende a difenderli dallaaccusa che loro dassi da molti, di aver gua-sta l'architettura, ma in maniera diversa daquella tenuta dal Muratori. Perciocchè ei

non nega (l. c.) che l'arte venisse sempre più decadendoa' lor tempi; ma dice che non se ne debbono incolpare iGoti. Questi erano dic'egli, soldati, e non architetti, nèmuratori, ed eran nativi di tai paesi, ove appena si sapeache fosse fabbricare di muro. Gl'Italiani non già i Gotifurono i corrompitor di quest'arte. Ma questa ragione èella veramente di quel peso che a prima vista si crede? IGoti eran soldati, ma certo non tutti; poichè, come narraGiornande scrittor di que' tempi, tutta la lor nazione fu

desima riflessione, mi ha su questo argomento scritta una lunga lettera chesarebbe degna di essere pubblicata, s'io non credessi di non dover preveni-re la gran d'opera che sulla Storia dell'Arte, ne' bassi tempi ci si apparec-chia a darci. Mi basti qui l'accennare ch'ei prova chiaramente ciò che da luiavea appreso l'ab. Fea, che Cassiodoro, come sopra si è detto, parla dellefabbriche romane non delle gotiche; che egli osserva che non è ancor bendefinito qual sia quella che sogliam dire gotica architettura; che non è verociò che l'ab. Frisi ha affermato, che la chiesa di s.Vitale di Ravenna sia unadelle prime in cui si veggano gli archi continuati sopra le colonne isolate,perchè abbiamo, per tacer di altri più antichi monumenti, il palazzo di Dio-cleziano nella città di Spalato tanto anteriore a' tempi de' Goti fabbricatoalla stessa maniera; che i difetti che diconsi gotici, sono comunemente piùrecenti del secol de' Goti; e che insomma non deesi abbandonare l'opinionedel Muratori e del Maffei da me qui impugnata. Io ben volentieri mi arren-do alle ragioni da lui prodotte, e avrei cambiato interamente tutto questopasso, se non avessi creduto che non fosse per dispiacere a' lettori il vederecome io abbia pensato in addietro, e come pensi ora. Altro non mi resta abramare, se non che questo eruditissimo cavaliere non indugi più oltre apubblicar la sua opera che rischiarerà felicemente un'argomento involto fi-nora tra dense tenebre.

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Esame dellaapologia delGoti fatta dalmarch. Maf-fei.

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da Teodorico condotta in Italia: Theodoricus ad suos re-vertens gentem Gothorum quae tamen ei praebueratconsensum, assumens Hesperiam tendit (De rebusgoth.). Non i soli soldati adunque ma il minuto popoloancora era venuto con Teodorico e questo, ancorchè siconceda che non avesse mai veduto nel suo paese nèfabbrica nè muro alcuno, poteva nondimeno aver appre-se in Italia alcune di quelle arti che a guadagnarsi il vittoerano opportune. Inoltre Teodorico era stato lungo tem-po alla corte di Costantinopoli, ove avea ricevuta la pri-ma educazione. I suoi Goti aveano scorse varie provin-cie della Grecia; e vi avean potuto osservare i magnificiedifizj di cui erano adorne. Quindi stabiliti in Italia, è fa-cile a intendere come s'invaghissero essi pure di rendercelebre il lor nome con grandi, e maestose fabbriche, maadattate al lor gusto, e alla maniera di pensare lor pro-pria. E ancorchè si supponga che gl'Italiani fossero e idisegnatori e gli esecutori di tali edifizj, questi nondime-no sarannosi conformati probabilmente al genio e al gu-sto de' lor signori; come veggiamo avvenire in un paeseil qual cambi dominio, che tosto vi s'introducono leusanze e le mode di quella nazione che ne diviene pa-drona. Aggiungasi che Teodorico per quella brama chesuole comunemente avere un novello conquistatore, direndersi immortale presso que' popoli stessi ch'egli hasoggiogati, avrà cercato di lasciar tali memorie della suamagnificenza, che potessero gareggiare con quelle deipiù magnifici imperadori: e quindi è verisimile che na-scesse quello sforzato e quel capriccioso che vedesi nel-

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da Teodorico condotta in Italia: Theodoricus ad suos re-vertens gentem Gothorum quae tamen ei praebueratconsensum, assumens Hesperiam tendit (De rebusgoth.). Non i soli soldati adunque ma il minuto popoloancora era venuto con Teodorico e questo, ancorchè siconceda che non avesse mai veduto nel suo paese nèfabbrica nè muro alcuno, poteva nondimeno aver appre-se in Italia alcune di quelle arti che a guadagnarsi il vittoerano opportune. Inoltre Teodorico era stato lungo tem-po alla corte di Costantinopoli, ove avea ricevuta la pri-ma educazione. I suoi Goti aveano scorse varie provin-cie della Grecia; e vi avean potuto osservare i magnificiedifizj di cui erano adorne. Quindi stabiliti in Italia, è fa-cile a intendere come s'invaghissero essi pure di rendercelebre il lor nome con grandi, e maestose fabbriche, maadattate al lor gusto, e alla maniera di pensare lor pro-pria. E ancorchè si supponga che gl'Italiani fossero e idisegnatori e gli esecutori di tali edifizj, questi nondime-no sarannosi conformati probabilmente al genio e al gu-sto de' lor signori; come veggiamo avvenire in un paeseil qual cambi dominio, che tosto vi s'introducono leusanze e le mode di quella nazione che ne diviene pa-drona. Aggiungasi che Teodorico per quella brama chesuole comunemente avere un novello conquistatore, direndersi immortale presso que' popoli stessi ch'egli hasoggiogati, avrà cercato di lasciar tali memorie della suamagnificenza, che potessero gareggiare con quelle deipiù magnifici imperadori: e quindi è verisimile che na-scesse quello sforzato e quel capriccioso che vedesi nel-

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le gotiche architetture. Osservo infatti che Teodorico permezzo di Cassiodoro si vanta in certa maniera di perfe-zionare e di correggere le opere degli antichi. Hoc enimstudio largitas nostra non cedit, ut et facta veterum, ex-clusis defectibus, innovemus, et nova vetustatis gloriavestiamus (l. 7 Var. form. 15). Tutte queste riflessioni misembran bastanti a conchiudere che i Goti furono alme-no in parte cagione dei vizj e de' difetti che s'introdusse-ro nell'architettura; o almeno che essendosi questi a' lortempi singolarmente introdotti, non è irragionevole ilchiamare cotai lavori col nome di architettura gotica.

VII. Atalarico e Teodato ancora non furonotrascurati nel mantenere il decoro degli anti-chi pregevoli monumenti, come veggiamoin alcune lettere a loro nome scritte da Cas-siodoro (l. 8 Var. ep. 29, 30; l. 10, ep. 30), inuna delle quali singolarmente il primo co-manda che si provveda alla conservazione

di due elefanti di bronzo ch'erano nella Via Sacra, e cheminacciavan rovina. Ma la guerra che poscia si accesefra i Goti e i Greci, come alle lettere, così alle arti fusommamente fatale. L'Italia non era il paese natio nè de-gli uni nè degli altri; e quindi nè gli uni nè gli altri noneran punto solleciti di conservarle i suoi più rari orna-menti. Ciò che narra Procopio avvenuto in Roma, men-tre era assediata da' Goti l'an. 537 (de Bello Goth. l. 2, c.22), basta a farci conoscere qual danno nel corso di sì

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Gran dannoche agli an-tichi monu-menti reca-rono le guerre tra i Goti e i Greci.

le gotiche architetture. Osservo infatti che Teodorico permezzo di Cassiodoro si vanta in certa maniera di perfe-zionare e di correggere le opere degli antichi. Hoc enimstudio largitas nostra non cedit, ut et facta veterum, ex-clusis defectibus, innovemus, et nova vetustatis gloriavestiamus (l. 7 Var. form. 15). Tutte queste riflessioni misembran bastanti a conchiudere che i Goti furono alme-no in parte cagione dei vizj e de' difetti che s'introdusse-ro nell'architettura; o almeno che essendosi questi a' lortempi singolarmente introdotti, non è irragionevole ilchiamare cotai lavori col nome di architettura gotica.

VII. Atalarico e Teodato ancora non furonotrascurati nel mantenere il decoro degli anti-chi pregevoli monumenti, come veggiamoin alcune lettere a loro nome scritte da Cas-siodoro (l. 8 Var. ep. 29, 30; l. 10, ep. 30), inuna delle quali singolarmente il primo co-manda che si provveda alla conservazione

di due elefanti di bronzo ch'erano nella Via Sacra, e cheminacciavan rovina. Ma la guerra che poscia si accesefra i Goti e i Greci, come alle lettere, così alle arti fusommamente fatale. L'Italia non era il paese natio nè de-gli uni nè degli altri; e quindi nè gli uni nè gli altri noneran punto solleciti di conservarle i suoi più rari orna-menti. Ciò che narra Procopio avvenuto in Roma, men-tre era assediata da' Goti l'an. 537 (de Bello Goth. l. 2, c.22), basta a farci conoscere qual danno nel corso di sì

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Gran dannoche agli an-tichi monu-menti reca-rono le guerre tra i Goti e i Greci.

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lunga guerra avessero a soffrire le arti. In un assalto chei Goti diedero alla Mole di Adriano, detta ora Castel S.Angelo, i difensori non avendo forse altre armi a difen-dersi, dieder di mano alla maggior parte delle statue cheivi si conservavano, e fattele in pezzi, di esse si valseroa rispingere i nemici. Gli amatori dell'arti, dice leggia-dramente il sig. di Saint-Marc (abr. de l'Hist. d'Ital. adh. an.), avrebbono amato meglio di veder preso il castel-lo, che di soffrir la perdita di sì bei monumenti. Osservail Winckelmann (Hist. de l'Art t. 2, p. 338) che, allorquando sotto Urbano VIII si ripurgò la fossa di quel ca-stello, vi si trovaron due statue, una di un Fauno addor-mentato mancante di gambe e di cosce e del braccio si-nistro, che or conservasi nella Galleria Barberini, l'altradi Settimio Severo, ed è probabile come egli riflette, chea questa occasione vi fosser gittate, e vi rimanesser se-polte (13). Chi può ridire quante altre statue, e quanti altriantichi e bei monumenti andarono a questa occasioneperduti e in Roma e in tutte le altre città d'Italia che tuttafu involta e compresa dall'orribile incendio di questaguerra? In ciò nondimeno che appartiene a' pubblici edi-ficj in Roma, dobbiam confessare a gloria de' Barbari13 Il sig. ab. Fea mi riprende (Winck. Stor. dell'Arti t. III, p. 393) perchè fo

dire al Winckelmann che nelle fosse di castel s. Angelo fu trovata anche lastatua di Settimio Severo. E certo non si legge nell'edizione che diquest'opera egli ci ha data. Ma nella prima edizione francese ch'è quellache è sempre stata da me citata, e che era la sola, oltre la prima tedesca chesi avea, quando io pubblicai la mia Storia, chiaramente si legge: on y trou-va aussi la statue de Septime Sévére et non dans le fosse du Chateau Gan-dolfo hors de Rome, comme Brevalle le dit. Poteva io forse prevedere chenelle seguenti edizioni queste parole si dovessero ommettere?

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lunga guerra avessero a soffrire le arti. In un assalto chei Goti diedero alla Mole di Adriano, detta ora Castel S.Angelo, i difensori non avendo forse altre armi a difen-dersi, dieder di mano alla maggior parte delle statue cheivi si conservavano, e fattele in pezzi, di esse si valseroa rispingere i nemici. Gli amatori dell'arti, dice leggia-dramente il sig. di Saint-Marc (abr. de l'Hist. d'Ital. adh. an.), avrebbono amato meglio di veder preso il castel-lo, che di soffrir la perdita di sì bei monumenti. Osservail Winckelmann (Hist. de l'Art t. 2, p. 338) che, allorquando sotto Urbano VIII si ripurgò la fossa di quel ca-stello, vi si trovaron due statue, una di un Fauno addor-mentato mancante di gambe e di cosce e del braccio si-nistro, che or conservasi nella Galleria Barberini, l'altradi Settimio Severo, ed è probabile come egli riflette, chea questa occasione vi fosser gittate, e vi rimanesser se-polte (13). Chi può ridire quante altre statue, e quanti altriantichi e bei monumenti andarono a questa occasioneperduti e in Roma e in tutte le altre città d'Italia che tuttafu involta e compresa dall'orribile incendio di questaguerra? In ciò nondimeno che appartiene a' pubblici edi-ficj in Roma, dobbiam confessare a gloria de' Barbari13 Il sig. ab. Fea mi riprende (Winck. Stor. dell'Arti t. III, p. 393) perchè fo

dire al Winckelmann che nelle fosse di castel s. Angelo fu trovata anche lastatua di Settimio Severo. E certo non si legge nell'edizione che diquest'opera egli ci ha data. Ma nella prima edizione francese ch'è quellache è sempre stata da me citata, e che era la sola, oltre la prima tedesca chesi avea, quando io pubblicai la mia Storia, chiaramente si legge: on y trou-va aussi la statue de Septime Sévére et non dans le fosse du Chateau Gan-dolfo hors de Rome, comme Brevalle le dit. Poteva io forse prevedere chenelle seguenti edizioni queste parole si dovessero ommettere?

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stessi, che non troviam pruova alcuna che da essi fosse-ro rovinati, o arsi. Io ben so che alcuni moderni scrittoriusano assai sovente di dire che Roma fu arsa, fu distrut-ta, fu quasi atterrata da' Barbari. Ma non credo che essine possano addurre il testimonio di alcun autorevole an-tico scrittore. Di rapine, di rubamenti, talvolta ancora distrage trovasi bensì menzione nelle lor opere; ma di ro-vina e di distruzione non già. Intorno a che degna è divedersi una lettera di Pietro Angelio da Barga, che trattaa lungo di questo argomento (Ep. de Aedificiorum urb.Romae eversoribus t. 4 Thes. Antig. rom. Graev.). Alcu-ni però degli obelischi, degli archi e di altri cotai monu-menti, dirò così, isolati, è probabile che fossero in talioccasioni atterrati, o guasti (14).

VIII. Frattanto l'arte della scultura ancorae della pittura erasi conservata in Italia;ma amendue in quel decadimento ch'eranecessario ad avvenire in questi tempi,nei quali il cattivo gusto già introdotto

nell'età precedenti, e le universali sciagure non permet-tevano alle arti di sorger di nuovo all'antico loro onore.Molte statue furono innalzate a Teodorico e in Roma ein Ravenna e altrove, e abbiam veduto che Rusticianamoglie del famoso Boezio fu accusata di aver fatte atter-14 Assai più ampiamente e più eruditamente ha illustrato questo argomento il

soprallodato sig. ab. Fea nella sua dissertazione sulle Rovine di Roma, in-serita nel tomo III della Storia delle Arti del Winckelmann da lui nuova-mente data in luce (p. 267, ec.)

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La scultura fu esercitata fre-quentemente, ma con poco fe-lice successo.

stessi, che non troviam pruova alcuna che da essi fosse-ro rovinati, o arsi. Io ben so che alcuni moderni scrittoriusano assai sovente di dire che Roma fu arsa, fu distrut-ta, fu quasi atterrata da' Barbari. Ma non credo che essine possano addurre il testimonio di alcun autorevole an-tico scrittore. Di rapine, di rubamenti, talvolta ancora distrage trovasi bensì menzione nelle lor opere; ma di ro-vina e di distruzione non già. Intorno a che degna è divedersi una lettera di Pietro Angelio da Barga, che trattaa lungo di questo argomento (Ep. de Aedificiorum urb.Romae eversoribus t. 4 Thes. Antig. rom. Graev.). Alcu-ni però degli obelischi, degli archi e di altri cotai monu-menti, dirò così, isolati, è probabile che fossero in talioccasioni atterrati, o guasti (14).

VIII. Frattanto l'arte della scultura ancorae della pittura erasi conservata in Italia;ma amendue in quel decadimento ch'eranecessario ad avvenire in questi tempi,nei quali il cattivo gusto già introdotto

nell'età precedenti, e le universali sciagure non permet-tevano alle arti di sorger di nuovo all'antico loro onore.Molte statue furono innalzate a Teodorico e in Roma ein Ravenna e altrove, e abbiam veduto che Rusticianamoglie del famoso Boezio fu accusata di aver fatte atter-14 Assai più ampiamente e più eruditamente ha illustrato questo argomento il

soprallodato sig. ab. Fea nella sua dissertazione sulle Rovine di Roma, in-serita nel tomo III della Storia delle Arti del Winckelmann da lui nuova-mente data in luce (p. 267, ec.)

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La scultura fu esercitata fre-quentemente, ma con poco fe-lice successo.

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rare quelle ch'erano in Roma. Una di nuova invenzioneinnalzata nel foro di Napoli al medesimo Teodoricorammentasi da Procopio (l. 1 de Bello goth. c. 24), tuttacomposta di sassolini minuti, e a varj colori intrecciati euniti insieme, di cui egli dice che erasi scompaginato edisciolto il capo vivente ancora quel principe. Il Winc-kelmann parla di una statua (l. c.) che conservasi nellavilla Giustiniani, la qual credesi da molti esseredell'imp. Giustiniano. Egli si mostra di contrario parere,e aggiugne che questa statua, benchè mediocre, sarebbenondimeno una maraviglia dell'arte in un tempo sì bar-baro. Passo sotto silenzio molte altre statue a questa etàinnalzate; e piacemi solo di accennare un passo dellostorico Procopio, che ci fa intendere essere stato anche aquesti tempi frequente l'uso d'innalzare statue singolar-mente a' principi. Racconta egli dunque (de Bello goth.l. 1, c. 6) che tra gli articoli di pace, cui Teodato l'anno535 propose a Giustiniano, uno fu questo, che a Teodatosolo non mai si ergesse statua o di bronzo, o di altra ma-teria, ma sempre a lui insieme e all'imperadore: Huic(Teodato) numquam statua ex aere aliave materia pone-retur, at utrique semper. Così per tutto il tempo in cui re-gnarono i Goti in Italia, fu la scultura, benchè con pocofelice successo, esercitata.

IX. Crederem noi che i Goti si dilettasseroancor di pittura? Io confesso che di ciò nonmi è avvenuto di trovare notizia alcuna. E

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Pare che i Goti non amassero lapittura.

rare quelle ch'erano in Roma. Una di nuova invenzioneinnalzata nel foro di Napoli al medesimo Teodoricorammentasi da Procopio (l. 1 de Bello goth. c. 24), tuttacomposta di sassolini minuti, e a varj colori intrecciati euniti insieme, di cui egli dice che erasi scompaginato edisciolto il capo vivente ancora quel principe. Il Winc-kelmann parla di una statua (l. c.) che conservasi nellavilla Giustiniani, la qual credesi da molti esseredell'imp. Giustiniano. Egli si mostra di contrario parere,e aggiugne che questa statua, benchè mediocre, sarebbenondimeno una maraviglia dell'arte in un tempo sì bar-baro. Passo sotto silenzio molte altre statue a questa etàinnalzate; e piacemi solo di accennare un passo dellostorico Procopio, che ci fa intendere essere stato anche aquesti tempi frequente l'uso d'innalzare statue singolar-mente a' principi. Racconta egli dunque (de Bello goth.l. 1, c. 6) che tra gli articoli di pace, cui Teodato l'anno535 propose a Giustiniano, uno fu questo, che a Teodatosolo non mai si ergesse statua o di bronzo, o di altra ma-teria, ma sempre a lui insieme e all'imperadore: Huic(Teodato) numquam statua ex aere aliave materia pone-retur, at utrique semper. Così per tutto il tempo in cui re-gnarono i Goti in Italia, fu la scultura, benchè con pocofelice successo, esercitata.

IX. Crederem noi che i Goti si dilettasseroancor di pittura? Io confesso che di ciò nonmi è avvenuto di trovare notizia alcuna. E

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Pare che i Goti non amassero lapittura.

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parmi strano che nelle Lettere di Cassiodoro, nelle qualipure si ragiona sì spesso di fabbriche, di statue, di pala-gi, non si faccia mai, ch'io sappia, menzion di pittura.Sopra tutto mi sembra degno di maraviglia che, essen-dovi tra le formule con cui da' re si conferivan le cari-che, quella ancora con cui si dava la soprantendenza alreale palazzo (l. 7 Var. form. 5), e nominandosi in essatutti coloro ch'erano destinati ad ornarlo, cioè l'addobba-tore delle pareti, lo scultore de' marmi, il fonditore delbronzo, e quegli che formava le volte, e quegli che facealavori di gesso, e perfin quegli che componeva i musai-ci, solo del pittore non si faccia alcun cenno. Eran dun-que i Goti così nimici della pittura, che non volesserousarne ne' lor palagi? L'argomento da me recato non ba-sta ad accertarlo; ma non lascia però di destarne qualchesospetto; molto più che a me non pare di aver trovato inalcun altro scrittore di questa età cosa alcuna che ci di-mostri aver essi ancora fatto uso della pittura, o almenavutala in pregio. De' musaici però veggiamo dal passosopraccitato, ch'essi ancora si compiacevano, onde al-men questo genere di pittura converrà riconoscere chefu da essi coltivato.

X. Ciò non ostante anche di pitture troviammenzione a questi tempi. Del pontef. Sim-maco racconta Anastasio bibliotecario (Vit.Pontif. vol. 3 Script. rer. ital. p. 124), che ol-tre alcuni musaici di cui ornò la basilica di

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Trovasi an-che a quei tempi fre-quente menzione di pitture e di musaici.

parmi strano che nelle Lettere di Cassiodoro, nelle qualipure si ragiona sì spesso di fabbriche, di statue, di pala-gi, non si faccia mai, ch'io sappia, menzion di pittura.Sopra tutto mi sembra degno di maraviglia che, essen-dovi tra le formule con cui da' re si conferivan le cari-che, quella ancora con cui si dava la soprantendenza alreale palazzo (l. 7 Var. form. 5), e nominandosi in essatutti coloro ch'erano destinati ad ornarlo, cioè l'addobba-tore delle pareti, lo scultore de' marmi, il fonditore delbronzo, e quegli che formava le volte, e quegli che facealavori di gesso, e perfin quegli che componeva i musai-ci, solo del pittore non si faccia alcun cenno. Eran dun-que i Goti così nimici della pittura, che non volesserousarne ne' lor palagi? L'argomento da me recato non ba-sta ad accertarlo; ma non lascia però di destarne qualchesospetto; molto più che a me non pare di aver trovato inalcun altro scrittore di questa età cosa alcuna che ci di-mostri aver essi ancora fatto uso della pittura, o almenavutala in pregio. De' musaici però veggiamo dal passosopraccitato, ch'essi ancora si compiacevano, onde al-men questo genere di pittura converrà riconoscere chefu da essi coltivato.

X. Ciò non ostante anche di pitture troviammenzione a questi tempi. Del pontef. Sim-maco racconta Anastasio bibliotecario (Vit.Pontif. vol. 3 Script. rer. ital. p. 124), che ol-tre alcuni musaici di cui ornò la basilica di

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Trovasi an-che a quei tempi fre-quente menzione di pitture e di musaici.

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s. Pietro, abbellì ancor di pitture quella di s. Paolo. DiGiovanni vescovo di Napoli a tempo di Giustiniano rac-conta Giovanni diacono (Chron. Episc. Neap. vol. 1,pars 2, Script. rer. ital. p. 299), che nella basilica dettaStefania, perchè edificata dal vescovo Stefano, ei fe' di-pingere a musaico con maraviglioso lavoro la Trasfigu-razione del Redentore; e di Vincenzo che in quella sedesuccedette a Giovanni, narra il medesimo storico (ib.),che avendo nelle stanze del suo vescovado fabbricato unampio cenacolo, il fe' ornar di pitture. Aggiungansi imusaici de' quali Massimiano vescovo di Ravenna, giàda noi mentovato, ornò la basilica di s. Stefano, comenarra Agnello nella Vita di questo vescovo; ed altri mol-ti somiglianti lavori, intorno a' quali si può vedere ciòche nelle loro opere su tali argomenti han ragionatomonsig. Ciampini e il card. Furietti. Eranvi dunque an-che di questi tempi pittori in Italia che certo non ci la-sciarono opere onde ottenere gran nome; ma pure fecerper modo, che fra tante calamità non perisse interamentequest'arte.

LIBRO II. Storia della Letteratura Italiana sotto il re-

gno de' Longobardi.

Nell'innoltrarmi ch'io fo nella storia dell'italiana lettera-

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s. Pietro, abbellì ancor di pitture quella di s. Paolo. DiGiovanni vescovo di Napoli a tempo di Giustiniano rac-conta Giovanni diacono (Chron. Episc. Neap. vol. 1,pars 2, Script. rer. ital. p. 299), che nella basilica dettaStefania, perchè edificata dal vescovo Stefano, ei fe' di-pingere a musaico con maraviglioso lavoro la Trasfigu-razione del Redentore; e di Vincenzo che in quella sedesuccedette a Giovanni, narra il medesimo storico (ib.),che avendo nelle stanze del suo vescovado fabbricato unampio cenacolo, il fe' ornar di pitture. Aggiungansi imusaici de' quali Massimiano vescovo di Ravenna, giàda noi mentovato, ornò la basilica di s. Stefano, comenarra Agnello nella Vita di questo vescovo; ed altri mol-ti somiglianti lavori, intorno a' quali si può vedere ciòche nelle loro opere su tali argomenti han ragionatomonsig. Ciampini e il card. Furietti. Eranvi dunque an-che di questi tempi pittori in Italia che certo non ci la-sciarono opere onde ottenere gran nome; ma pure fecerper modo, che fra tante calamità non perisse interamentequest'arte.

LIBRO II. Storia della Letteratura Italiana sotto il re-

gno de' Longobardi.

Nell'innoltrarmi ch'io fo nella storia dell'italiana lettera-

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tura, e nell'entrare ne' tempi del regno de' Longobardi, ame sembra di essere qual viaggiatore che dopo aver cor-se per lungo tempo colte e popolose provincie nelle qua-li, benchè siagli avvenuto talvolta d'incontrar sulla viaqualche tratto di sterile e abbandonato terreno, spessonondimeno ha avuto il piacer di aggirarsi per maestosecittà, e per fertili ed ubertose campagne, vedesi final-mente in mezzo a un vastissimo incolto deserto in cui,comunque rivolga l'occhio per ogni parte, appena è maiche gli si offra allo sguardo o un fresco erboso cespu-glio, o un fiorellino odoroso, o altro ridente oggetto chefra la noia di sì penoso cammino, e fra l'orrore e il silen-zio di quella vastissima solitudine, gli possa recar con-forto. I secoli dei quali abbiam finora parlato, benchètalvolta sconvolti dalle pubbliche calamità, e perciòpoco felici all'italiana letteratura, non sono stati peròoscuri e tenebrosi per modo, che qualche lume non sivedesse risplendere a quando a quando, e qualche og-getto non ci si offerisse, su cui fosse piacevole trattener-ci. Ma i tempi de' quali ora dobbiam ragionare, son tem-pi di squallore e di universale desolazione. I nomi diorator, di filosofo, di astronomo, di matematico sonnomi, direi quasi, barbari e sconosciuti. Un uomo chesappia scriver latino con qualche eleganza, un uomo chesappia alcuna cosa di greco, un uom che faccia de' versi,è un uom prodigioso. È ella questa quell'Italia medesimain cui ne' secoli trapassati abbiam vedute sì felicementefiorire le scienze d'ogni maniera? Ecco l'infelice argo-mento su cui debbo or trattenermi. Mi sforzerà nondi-

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tura, e nell'entrare ne' tempi del regno de' Longobardi, ame sembra di essere qual viaggiatore che dopo aver cor-se per lungo tempo colte e popolose provincie nelle qua-li, benchè siagli avvenuto talvolta d'incontrar sulla viaqualche tratto di sterile e abbandonato terreno, spessonondimeno ha avuto il piacer di aggirarsi per maestosecittà, e per fertili ed ubertose campagne, vedesi final-mente in mezzo a un vastissimo incolto deserto in cui,comunque rivolga l'occhio per ogni parte, appena è maiche gli si offra allo sguardo o un fresco erboso cespu-glio, o un fiorellino odoroso, o altro ridente oggetto chefra la noia di sì penoso cammino, e fra l'orrore e il silen-zio di quella vastissima solitudine, gli possa recar con-forto. I secoli dei quali abbiam finora parlato, benchètalvolta sconvolti dalle pubbliche calamità, e perciòpoco felici all'italiana letteratura, non sono stati peròoscuri e tenebrosi per modo, che qualche lume non sivedesse risplendere a quando a quando, e qualche og-getto non ci si offerisse, su cui fosse piacevole trattener-ci. Ma i tempi de' quali ora dobbiam ragionare, son tem-pi di squallore e di universale desolazione. I nomi diorator, di filosofo, di astronomo, di matematico sonnomi, direi quasi, barbari e sconosciuti. Un uomo chesappia scriver latino con qualche eleganza, un uomo chesappia alcuna cosa di greco, un uom che faccia de' versi,è un uom prodigioso. È ella questa quell'Italia medesimain cui ne' secoli trapassati abbiam vedute sì felicementefiorire le scienze d'ogni maniera? Ecco l'infelice argo-mento su cui debbo or trattenermi. Mi sforzerà nondi-

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meno di fare in modo, che la noia che necessariamentemi convien sostenere nel ragionarne, ricada, quanto mensia possibile, su chi leggerà questa Storia; e alla diligen-za nel raccogliere tutto ciò che appartiene alla letteraturaitaliana di questo tempo, unirò ancora la riflessione ditoglierne, se mi verrà fatto, al racconto ciò che possaaver di spiacevole e di noioso.

CAPO I.Idea generale dello stato civile e letterario d'Italia in

quest'epoca.

I. Avea appena l'Italia cominciato a spe-rare di non esser più in avvenire preda de'Barbari, quando ella si vide di bel nuovosommersa in un abisso ancor più profon-do di quello da cui era di fresco uscita.

Morto, come dicemmo, l'an. 567 il valoroso Narsete, esuccedutogli nel governare l'Italia a nome dell'imp. gre-co Giustino II, il patrizio Flavio Longino, questi venne afissar sua dimora in Ravenna, e prese il primo il nome diesarco. Quand'ecco l'anno 568 una nuova nazione scen-dere impetuosamente dalla Pannonia ad occupare la mi-sera e già troppo desolata Italia. Erano questi i Longo-bardi condotti dal loro re Alboino pronipote del celebreTeodorico, perchè nato da Rodelinda figlia di Amalafre-da sorella del detto re. La comune opinione appoggiataall'autorità di Paolo diacono e di qualche altro antico

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Alboino re de' Longobardi in-vade e conqui-sta gran parte d'Italia.

meno di fare in modo, che la noia che necessariamentemi convien sostenere nel ragionarne, ricada, quanto mensia possibile, su chi leggerà questa Storia; e alla diligen-za nel raccogliere tutto ciò che appartiene alla letteraturaitaliana di questo tempo, unirò ancora la riflessione ditoglierne, se mi verrà fatto, al racconto ciò che possaaver di spiacevole e di noioso.

CAPO I.Idea generale dello stato civile e letterario d'Italia in

quest'epoca.

I. Avea appena l'Italia cominciato a spe-rare di non esser più in avvenire preda de'Barbari, quando ella si vide di bel nuovosommersa in un abisso ancor più profon-do di quello da cui era di fresco uscita.

Morto, come dicemmo, l'an. 567 il valoroso Narsete, esuccedutogli nel governare l'Italia a nome dell'imp. gre-co Giustino II, il patrizio Flavio Longino, questi venne afissar sua dimora in Ravenna, e prese il primo il nome diesarco. Quand'ecco l'anno 568 una nuova nazione scen-dere impetuosamente dalla Pannonia ad occupare la mi-sera e già troppo desolata Italia. Erano questi i Longo-bardi condotti dal loro re Alboino pronipote del celebreTeodorico, perchè nato da Rodelinda figlia di Amalafre-da sorella del detto re. La comune opinione appoggiataall'autorità di Paolo diacono e di qualche altro antico

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Alboino re de' Longobardi in-vade e conqui-sta gran parte d'Italia.

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scrittore è che Narsete, sdegnato al vedersi ingiustamen-te tolto il governo d'Italia, invitasse i Longobardi a im-padronirsene. Ma, a dir vero, l'onesto e virtuoso caratte-re di Narsete, ed altre ragioni che si posson vedere pres-so il card. Baronio (Ann. eccl. ad an. 568), il Muratori(Ann. d'Ital. ad an. 567), e il Saint-Marc (Abr. de l'Hist.d'Ital. ad an. 568), ci fan dubitare della verità di un taleracconto. Checchessia di ciò, Alboino seco traendo tuttala sua nazione co' vecchi ancora e i fanciulli e le donne,entrato in Italia per la provincia della Venezia, e conqui-statene tutte le piazze a riserva di Padova e di Monseli-ce, quindi espugnata Mantova, e tutta quella che or dallor nome dicesi Lombardia, dalle alpi Cozzie fino a Mo-dena, e occupata quasi tutta ancor la Toscana, e granparte dell'Umbria, e il ducato di Benevento, e finalmentedopo tre anni di ostinato assedio divenuto signor di Pa-via, ivi fissò la sede del nuovo suo regno, nel che fu poiseguito da' suoi successori. Ma poco tempo egli ebbe agodere del frutto di sue vittorie, ucciso l'an. 573 in Vero-na per opera della sua moglie Rosmonda; delle cui tragi-che avventure forse più opportuno al teatro che non allastoria a me non appartiene il parlare. Alboino ci vien di-pinto come principe, benchè allevato fra' Barbari, cle-mente e magnanimo. Ma ancorchè così fosse, egli è ma-nifesto che una tal invasione non potè non essere ac-compagnata da stragi, e da rovine grandissime.

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scrittore è che Narsete, sdegnato al vedersi ingiustamen-te tolto il governo d'Italia, invitasse i Longobardi a im-padronirsene. Ma, a dir vero, l'onesto e virtuoso caratte-re di Narsete, ed altre ragioni che si posson vedere pres-so il card. Baronio (Ann. eccl. ad an. 568), il Muratori(Ann. d'Ital. ad an. 567), e il Saint-Marc (Abr. de l'Hist.d'Ital. ad an. 568), ci fan dubitare della verità di un taleracconto. Checchessia di ciò, Alboino seco traendo tuttala sua nazione co' vecchi ancora e i fanciulli e le donne,entrato in Italia per la provincia della Venezia, e conqui-statene tutte le piazze a riserva di Padova e di Monseli-ce, quindi espugnata Mantova, e tutta quella che or dallor nome dicesi Lombardia, dalle alpi Cozzie fino a Mo-dena, e occupata quasi tutta ancor la Toscana, e granparte dell'Umbria, e il ducato di Benevento, e finalmentedopo tre anni di ostinato assedio divenuto signor di Pa-via, ivi fissò la sede del nuovo suo regno, nel che fu poiseguito da' suoi successori. Ma poco tempo egli ebbe agodere del frutto di sue vittorie, ucciso l'an. 573 in Vero-na per opera della sua moglie Rosmonda; delle cui tragi-che avventure forse più opportuno al teatro che non allastoria a me non appartiene il parlare. Alboino ci vien di-pinto come principe, benchè allevato fra' Barbari, cle-mente e magnanimo. Ma ancorchè così fosse, egli è ma-nifesto che una tal invasione non potè non essere ac-compagnata da stragi, e da rovine grandissime.

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II. Clefo che gli succedette, trattò gl'Italianinon altrimenti che schiavi, molti ne uccise,ne esiliò molti; e colla sua crudeltà si ren-dette così esecrabile a' suoi medesimi, chedopo un anno e sei mesi di regno fu uccisoda un suo domestico. E allora fu che un

nuovo genere di governo, di cui non erasi finallora ve-duto esempio, s'introdusse in Italia. Trentasei de' princi-pali fra' Longobardi diviser fra lor quelle provincied'Italia, che aveano conquistate, e benchè formasserocome una sola repubblica, ciaschedun di essi però rimi-ravasi qual sovrano nel suo distretto. A questi tempi at-tribuiscono molti la prima origine de' feudi; quistioneche non è punto propria del mio argomento, e intorno acui si potran consultare, oltre tutti gli autori che trattanodel diritto feudale, il ch. Muratori nelle sue Antichitàitaliane (t. 2, diss. 11), il sig. Carlo Denina nella bella ederudita sua Storia delle Rivoluzioni d'Italia (t. 1, p. 306),e il sig. Robertson nella Introduzione alla Storia di CarloV. Ma ben io debbo osservare, perchè ciò più d'appressoappartiene al mio intento, che questo interregno fu trop-po fatale all'Italia per le crudeltà con cui i signori longo-bardi trattarono gli abitanti de' lor dominj, come confes-sa lo stesso Paolo diacono (Hist. Long. l. 2, c. 32), scrit-tor peraltro parziale delle cose della sua nazione. Diecianni durò questo interregno; dopo i quali la necessità didifendersi contro i Francesi che apparecchiavansi ascendere con formidabile esercito in Italia, costrinse iLongobardi a eleggere un re, cioè Autari figliuol di Cle-

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Regno diClefo: divi-siondell'Italiadopo la suamorte.

II. Clefo che gli succedette, trattò gl'Italianinon altrimenti che schiavi, molti ne uccise,ne esiliò molti; e colla sua crudeltà si ren-dette così esecrabile a' suoi medesimi, chedopo un anno e sei mesi di regno fu uccisoda un suo domestico. E allora fu che un

nuovo genere di governo, di cui non erasi finallora ve-duto esempio, s'introdusse in Italia. Trentasei de' princi-pali fra' Longobardi diviser fra lor quelle provincied'Italia, che aveano conquistate, e benchè formasserocome una sola repubblica, ciaschedun di essi però rimi-ravasi qual sovrano nel suo distretto. A questi tempi at-tribuiscono molti la prima origine de' feudi; quistioneche non è punto propria del mio argomento, e intorno acui si potran consultare, oltre tutti gli autori che trattanodel diritto feudale, il ch. Muratori nelle sue Antichitàitaliane (t. 2, diss. 11), il sig. Carlo Denina nella bella ederudita sua Storia delle Rivoluzioni d'Italia (t. 1, p. 306),e il sig. Robertson nella Introduzione alla Storia di CarloV. Ma ben io debbo osservare, perchè ciò più d'appressoappartiene al mio intento, che questo interregno fu trop-po fatale all'Italia per le crudeltà con cui i signori longo-bardi trattarono gli abitanti de' lor dominj, come confes-sa lo stesso Paolo diacono (Hist. Long. l. 2, c. 32), scrit-tor peraltro parziale delle cose della sua nazione. Diecianni durò questo interregno; dopo i quali la necessità didifendersi contro i Francesi che apparecchiavansi ascendere con formidabile esercito in Italia, costrinse iLongobardi a eleggere un re, cioè Autari figliuol di Cle-

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Regno diClefo: divi-siondell'Italiadopo la suamorte.

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fo, che salì sul trono l'an. 584.

III. Io non mi tratterrò a narrare le diversevicende; le guerre interne ed esterne, e le al-tre circostanze del regno de' re longobardi.Non vi ha alcuno di essi, che abbia il meno-mo diritto ad aver qualche nome ne' fasti

della letteratura, ed io non farò che indicarne precisa-mente poco più che i semplici nomi, e la durata del lororegno, nel che io atterrommi alla cronologia del ch. Mu-ratori, benchè egli stesso confessi che molto vi ha didubbioso ed incerto; ma non debb'esser mio pensierol'esaminarla: poscia più attentamente prenderò a ricerca-re lo stato in cui fu a quei tempi l'Italia, e quanto e perqual ragione ne soffrisser le scienze. Autari morì l'anno590, e i Longobardi permisero alla celebre Teodelindafigliuola di Garibaldo duca di Baviera, e vedova del de-funto re, che si scegliesse un marito degno del trono.Agilolfo duca di Torino fu da lei prescelto, e questi iltenne fino all'anno 615, in cui morendo lasciollo adAdaloaldo suo figlio giovinetto di 13 anni sotto la tuteladella saggia e virtuosa Teodelinda. Poichè ella finì di vi-vere l'an. 625, Arioaldo che avea per moglie Gondeber-ga sorella di Adoloaldo, ribellatosi contro il re lo co-strinse a fuggire, e a ritirarsi a Ravenna, ove fra nonmolto morì. Circa 11 anni resse Arioaldo il regno de'Longobardi; ed essendo egli morto senza figliuoli l'an.636, Gondeberga a imitazione di Teodelinda ebbe la li-

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Serie degli altri re lon-gobardi, e fine del loro regno.

fo, che salì sul trono l'an. 584.

III. Io non mi tratterrò a narrare le diversevicende; le guerre interne ed esterne, e le al-tre circostanze del regno de' re longobardi.Non vi ha alcuno di essi, che abbia il meno-mo diritto ad aver qualche nome ne' fasti

della letteratura, ed io non farò che indicarne precisa-mente poco più che i semplici nomi, e la durata del lororegno, nel che io atterrommi alla cronologia del ch. Mu-ratori, benchè egli stesso confessi che molto vi ha didubbioso ed incerto; ma non debb'esser mio pensierol'esaminarla: poscia più attentamente prenderò a ricerca-re lo stato in cui fu a quei tempi l'Italia, e quanto e perqual ragione ne soffrisser le scienze. Autari morì l'anno590, e i Longobardi permisero alla celebre Teodelindafigliuola di Garibaldo duca di Baviera, e vedova del de-funto re, che si scegliesse un marito degno del trono.Agilolfo duca di Torino fu da lei prescelto, e questi iltenne fino all'anno 615, in cui morendo lasciollo adAdaloaldo suo figlio giovinetto di 13 anni sotto la tuteladella saggia e virtuosa Teodelinda. Poichè ella finì di vi-vere l'an. 625, Arioaldo che avea per moglie Gondeber-ga sorella di Adoloaldo, ribellatosi contro il re lo co-strinse a fuggire, e a ritirarsi a Ravenna, ove fra nonmolto morì. Circa 11 anni resse Arioaldo il regno de'Longobardi; ed essendo egli morto senza figliuoli l'an.636, Gondeberga a imitazione di Teodelinda ebbe la li-

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Serie degli altri re lon-gobardi, e fine del loro regno.

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bertà di scegliere a sè un marito, e un re alla nazione.Scelse ella Rotari duca di Brescia, degno di memoriasingolarmente perchè egli fu il primo che pei suoi Lon-gobardi formasse un Codice di leggi delle quali a suoluogo ragioneremo. L'an. 652 fu l'ultimo della vita diRotari; a cui dopo sei soli mesi di regno tenne dietro ilsuo figliuolo e successor Rodoaldo ucciso da un Longo-bardo alla cui moglie avea egli recato oltraggio. Ariper-to figliuolo di un fratello della regina Teodelinda dettoGondoaldo fu da' Longobardi levato al trono; e il tennefino all'an. 661. Un nuovo esempio videsi allora tra'Longobardi dopo la morte di Ariperto; due suoi figliuoliBertarido e Gondeberto assidervisi insieme, divise peròtra loro le parti, e facendo lor residenza uno in Milano,l'altro in Pavia. Ma presto si mise tra essi discordia eguerra; di cui valendosi Grimoaldo duca di Benevento,che da Gondeberto era stato chiamato in aiuto, venuto aPavia, lo uccise di sua propria mano; di che spaventatoBertarido, fuggissene fino nella Pannonia, abbandonan-do nelle mani del vincitore Rodelinda sua moglie e Cu-niberto suo figliuolo ancor fanciullo. Grimoaldo godèdel trono usurpato fino all'anno 671 in cui morendo la-sciollo a Garibaldo suo figlio. Ma Bertarido avvisatone,e tornato in Italia, vi fu ricevuto con plauso, e deposto ilgiovinetto Garibaldo, fu rimesso sul soglio; in cui po-scia egli si associò l'an. 678 il suo figliuol Cuniberto, dalui insieme colla moglie richiamato già da Ravenna:principi ottimi amendue, e per la loro pietà, per l'incor-rotta giustizia, per la liberalità verso de' poveri degni di

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bertà di scegliere a sè un marito, e un re alla nazione.Scelse ella Rotari duca di Brescia, degno di memoriasingolarmente perchè egli fu il primo che pei suoi Lon-gobardi formasse un Codice di leggi delle quali a suoluogo ragioneremo. L'an. 652 fu l'ultimo della vita diRotari; a cui dopo sei soli mesi di regno tenne dietro ilsuo figliuolo e successor Rodoaldo ucciso da un Longo-bardo alla cui moglie avea egli recato oltraggio. Ariper-to figliuolo di un fratello della regina Teodelinda dettoGondoaldo fu da' Longobardi levato al trono; e il tennefino all'an. 661. Un nuovo esempio videsi allora tra'Longobardi dopo la morte di Ariperto; due suoi figliuoliBertarido e Gondeberto assidervisi insieme, divise peròtra loro le parti, e facendo lor residenza uno in Milano,l'altro in Pavia. Ma presto si mise tra essi discordia eguerra; di cui valendosi Grimoaldo duca di Benevento,che da Gondeberto era stato chiamato in aiuto, venuto aPavia, lo uccise di sua propria mano; di che spaventatoBertarido, fuggissene fino nella Pannonia, abbandonan-do nelle mani del vincitore Rodelinda sua moglie e Cu-niberto suo figliuolo ancor fanciullo. Grimoaldo godèdel trono usurpato fino all'anno 671 in cui morendo la-sciollo a Garibaldo suo figlio. Ma Bertarido avvisatone,e tornato in Italia, vi fu ricevuto con plauso, e deposto ilgiovinetto Garibaldo, fu rimesso sul soglio; in cui po-scia egli si associò l'an. 678 il suo figliuol Cuniberto, dalui insieme colla moglie richiamato già da Ravenna:principi ottimi amendue, e per la loro pietà, per l'incor-rotta giustizia, per la liberalità verso de' poveri degni di

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eterna memoria. Bertarido morì verso l'an. 688, e pocoappresso Cuniberto si vide a grande pericolo di perdereil trono per la ribellione di Alachi duca di Trento; mavenuto con lui a battaglia in un'aperta pianura presso aun villaggio del milanese vicino all'Adda detto allor Co-ronata, e ora volgarmente Cornate, Alachi vi perdette lavita, e fu dissipata la minacciosa procella. Cunibertofece in memoria del fatto fabbricare nel luogo della bat-taglia un monastero in onor di s. Giorgio, di cui ho iostesso vedute più volte alcune antiche vestigia che ancorrimangono. Finì egli di vivere l'an. 700; e lasciò il tronoal suo figliuolo Liutberto ancor giovinetto sotto la tuteladi Ansprando uom nobile e saggio fra' Longobardi. MaRagimberto figliuolo del re Gondeberto, che salvato,quando ne fu ucciso il padre, era poi stato fatto duca diTorino, venutogli contro con poderoso esercito, il vinsee gli rapì la corona, cui però non potè egli portare chepochi mesi, e ne lasciò morendo erede il suo figliuoloAriberto. Questi dopo un'arrabbiata guerra, ucciso final-mente Liutberto, e costretto a fuggire Ansprando, tenneil regno fino all'anno 712, in cui Ansprando tornato connumeroso esercito in Italia, e venuto di nuovo a guerracon Ariberto, essendosi questi annegato nel Tesino, furiconosciuto a re da' suoi Longobardi. Ma egli ancoradopo tre soli mesi lasciò morendo il regno al suo figliuolLiutprando. Niuno il tenne più lungamente di lui, per-ciocchè visse fino all'an. 744. Ildebrando di lui figliuolo,e da lui alcuni anni prima associato al trono, ne fu dopopochi mesi deposto pe' suoi vizj, e vi fu sollevato Rachis

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eterna memoria. Bertarido morì verso l'an. 688, e pocoappresso Cuniberto si vide a grande pericolo di perdereil trono per la ribellione di Alachi duca di Trento; mavenuto con lui a battaglia in un'aperta pianura presso aun villaggio del milanese vicino all'Adda detto allor Co-ronata, e ora volgarmente Cornate, Alachi vi perdette lavita, e fu dissipata la minacciosa procella. Cunibertofece in memoria del fatto fabbricare nel luogo della bat-taglia un monastero in onor di s. Giorgio, di cui ho iostesso vedute più volte alcune antiche vestigia che ancorrimangono. Finì egli di vivere l'an. 700; e lasciò il tronoal suo figliuolo Liutberto ancor giovinetto sotto la tuteladi Ansprando uom nobile e saggio fra' Longobardi. MaRagimberto figliuolo del re Gondeberto, che salvato,quando ne fu ucciso il padre, era poi stato fatto duca diTorino, venutogli contro con poderoso esercito, il vinsee gli rapì la corona, cui però non potè egli portare chepochi mesi, e ne lasciò morendo erede il suo figliuoloAriberto. Questi dopo un'arrabbiata guerra, ucciso final-mente Liutberto, e costretto a fuggire Ansprando, tenneil regno fino all'anno 712, in cui Ansprando tornato connumeroso esercito in Italia, e venuto di nuovo a guerracon Ariberto, essendosi questi annegato nel Tesino, furiconosciuto a re da' suoi Longobardi. Ma egli ancoradopo tre soli mesi lasciò morendo il regno al suo figliuolLiutprando. Niuno il tenne più lungamente di lui, per-ciocchè visse fino all'an. 744. Ildebrando di lui figliuolo,e da lui alcuni anni prima associato al trono, ne fu dopopochi mesi deposto pe' suoi vizj, e vi fu sollevato Rachis

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duca del Friuli. Questi dopo 5 anni di regno, abbandona-to spontaneamente il trono, si consacrò a Dio tra i mo-naci di Monte Casino. Astolfo di lui fratello e successo-re stese più ampiamente di tutti l'impero de' Longobardi,perciocchè egli giunse ad avere in sua mano Ravenna ela Pentapoli tutta, che finallora era stata sotto il dominiodei Greci. Ma queste sue conquiste, e il minacciare cheegli faceva ancor Roma, trassero in Italia le armi primadi Pipino, e poscia di Carlo Magno di lui figliuolo.Astolfo, e Desiderio, che verso l'an. 756 gli era succedu-to nel trono, non ebber forza di resistere a tali truppe.Quest'ultimo infelice re, dopo aver perduta tutta l'Italia,costretto finalmente l'an. 774 a render Pavia, e a darsinelle mani di Carlo Magno, fu da lui mandato in Fran-cia; e per tal modo ebbe fine la serie de' re longobardi,che era durata lo spazio di 106 anni.

IV. Io son finora accennando i nomi e l'etàdei re Longobardi, senza parlare minuta-mente delle imprese loro e delle loro vicen-de, perchè esse, non appartengono punto almio argomento. Ma ora mi convien fare unariflessione diligente sullo stato in cui tro-vossi l'Italia a questi tempi; non già pe' di-

versi dominj che si venner formando, essendo essa allo-ra divisa in più Stati, e soggetta a diversi signori che ap-pellavansi duchi, ma pur dipendevano in qualche mododal re di tutta la nazione, che risedeva in Pavia, nè pel

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Se il regno dei Longo-bardi fosse così felice edolce, come da al-cuni è de-scritto.

duca del Friuli. Questi dopo 5 anni di regno, abbandona-to spontaneamente il trono, si consacrò a Dio tra i mo-naci di Monte Casino. Astolfo di lui fratello e successo-re stese più ampiamente di tutti l'impero de' Longobardi,perciocchè egli giunse ad avere in sua mano Ravenna ela Pentapoli tutta, che finallora era stata sotto il dominiodei Greci. Ma queste sue conquiste, e il minacciare cheegli faceva ancor Roma, trassero in Italia le armi primadi Pipino, e poscia di Carlo Magno di lui figliuolo.Astolfo, e Desiderio, che verso l'an. 756 gli era succedu-to nel trono, non ebber forza di resistere a tali truppe.Quest'ultimo infelice re, dopo aver perduta tutta l'Italia,costretto finalmente l'an. 774 a render Pavia, e a darsinelle mani di Carlo Magno, fu da lui mandato in Fran-cia; e per tal modo ebbe fine la serie de' re longobardi,che era durata lo spazio di 106 anni.

IV. Io son finora accennando i nomi e l'etàdei re Longobardi, senza parlare minuta-mente delle imprese loro e delle loro vicen-de, perchè esse, non appartengono punto almio argomento. Ma ora mi convien fare unariflessione diligente sullo stato in cui tro-vossi l'Italia a questi tempi; non già pe' di-

versi dominj che si venner formando, essendo essa allo-ra divisa in più Stati, e soggetta a diversi signori che ap-pellavansi duchi, ma pur dipendevano in qualche mododal re di tutta la nazione, che risedeva in Pavia, nè pel

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Se il regno dei Longo-bardi fosse così felice edolce, come da al-cuni è de-scritto.

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diritto feudale che probabilmente cominciò allora adusarsi, come già abbiamo osservato; le quali cose nonpoterono avere alcuna influenza sulla letteratura; mabensì per le funeste vicende di guerre, d'incendj, di stra-gi a cui l'Italia soggiacque, pe' costumi e per l'inclina-zioni de' re longobardi a cui essa in gran parte ubbidiva.Sembra che il dottiss. Muratori avesse una singolarepredilezione per questi Barbari. Egli abbraccia ne' suoiAnnali ogni occasione che gli si offra a mostrare ch'essinon eran poi nè così barbari nè così crudeli, come co-munemente si crede; e che quella parte d'Italia, che loroubbidiva, viveva in una dolce tranquillità e sicurezza.Apologista non men valoroso de' Longobardi è il ch.sig. Denina, il quale dopo aver ingegnosamente esami-nato la lor giurisprudenza, per poco non chiama felicel'ignoranza in cui essi vissero, poichè da essa ne venneun sì saggio ed ordinato governo (Rivoluz. d'Ital. t. 1, p.321). Io non entrerò in contesa con sì valorosi scrittori, eper me pensi ognuno de' Longobardi, come meglio glipare. Io esamino lo stato della letteratura di questi tem-pi, e veggo che in essi appunto ella decadde per modo,che fu quasi interamente abbandonata e negletta, il cheda niuno si nega, e noi il vedrem chiaramente nel decor-so di questo studio. Io esamino innoltre le ragioni diquesto decadimento, e altra non ne ritrovo fuorchè la fu-nestissima situazione in cui trovossi l'Italia, prima per leguerre continue sanguinosissime che sotto il regno de'Longobardi la travagliarono; e innoltre per l'indole stes-sa e pe' costumi de' suoi nuovi ospiti e signori. Prendia-

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diritto feudale che probabilmente cominciò allora adusarsi, come già abbiamo osservato; le quali cose nonpoterono avere alcuna influenza sulla letteratura; mabensì per le funeste vicende di guerre, d'incendj, di stra-gi a cui l'Italia soggiacque, pe' costumi e per l'inclina-zioni de' re longobardi a cui essa in gran parte ubbidiva.Sembra che il dottiss. Muratori avesse una singolarepredilezione per questi Barbari. Egli abbraccia ne' suoiAnnali ogni occasione che gli si offra a mostrare ch'essinon eran poi nè così barbari nè così crudeli, come co-munemente si crede; e che quella parte d'Italia, che loroubbidiva, viveva in una dolce tranquillità e sicurezza.Apologista non men valoroso de' Longobardi è il ch.sig. Denina, il quale dopo aver ingegnosamente esami-nato la lor giurisprudenza, per poco non chiama felicel'ignoranza in cui essi vissero, poichè da essa ne venneun sì saggio ed ordinato governo (Rivoluz. d'Ital. t. 1, p.321). Io non entrerò in contesa con sì valorosi scrittori, eper me pensi ognuno de' Longobardi, come meglio glipare. Io esamino lo stato della letteratura di questi tem-pi, e veggo che in essi appunto ella decadde per modo,che fu quasi interamente abbandonata e negletta, il cheda niuno si nega, e noi il vedrem chiaramente nel decor-so di questo studio. Io esamino innoltre le ragioni diquesto decadimento, e altra non ne ritrovo fuorchè la fu-nestissima situazione in cui trovossi l'Italia, prima per leguerre continue sanguinosissime che sotto il regno de'Longobardi la travagliarono; e innoltre per l'indole stes-sa e pe' costumi de' suoi nuovi ospiti e signori. Prendia-

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mo a svolgere l'una e l'altra ragione, e a mostrare quantoesse dovessero influire a spargere una generale ignoran-za in tutta l'Italia. I fatti ch'io ne recherò in pruova nonsaran se non quelli che oltre l'esser narrati da autori anti-chi, sono anche riconosciuti per veri, e adottati da dot-tissimi sopraccitati scrittori.

V. La lunga guerra tra i Goti e i Greci aveagià desolata miseramente l'infelice Italia.L'invasione de' Longobardi finì di gittarlanell'estrerna rovina. Alboino ci si rappresen-ta come pacifico e clemente conquistatore;ma ciò non ostante egli è facile immaginareche una nazione feroce e barbara scesa in

Italia, dirò così, per satollare la fame, dovette seco reca-re, ovunque andasse, rovine e stragi. Di fatti tal fu il ter-rore che di essi si ebbe in Milano, che l'arcivesc. Onora-to rifugiossi a Genova, ove egli e molti de' suoi succes-sori insieme con numerosa schiera di nobili e di eccle-siastici milanesi si fermarono per lungo tempo (Murat.ad. an. 769); il che non sarebbe avvenuto, se essi aves-sero avuta de' Longobardi quella favorevole opinioneche altri mostran di averne. È certo ancora che i Longo-bardi corsero allor saccheggiando non piccola parted'Italia (ib.); mentre frattanto la carestia e la peste insie-me menavano strage grandissima di coloro, a cui il furordella guerra avea perdonato. Il breve regno di Clefo, emolto più l'interregno di dieci anni, che venne dopo, fu

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Si mostra che quasi tutto il tem-po di que-sto regno futempo di desolazioni e di stragi.

mo a svolgere l'una e l'altra ragione, e a mostrare quantoesse dovessero influire a spargere una generale ignoran-za in tutta l'Italia. I fatti ch'io ne recherò in pruova nonsaran se non quelli che oltre l'esser narrati da autori anti-chi, sono anche riconosciuti per veri, e adottati da dot-tissimi sopraccitati scrittori.

V. La lunga guerra tra i Goti e i Greci aveagià desolata miseramente l'infelice Italia.L'invasione de' Longobardi finì di gittarlanell'estrerna rovina. Alboino ci si rappresen-ta come pacifico e clemente conquistatore;ma ciò non ostante egli è facile immaginareche una nazione feroce e barbara scesa in

Italia, dirò così, per satollare la fame, dovette seco reca-re, ovunque andasse, rovine e stragi. Di fatti tal fu il ter-rore che di essi si ebbe in Milano, che l'arcivesc. Onora-to rifugiossi a Genova, ove egli e molti de' suoi succes-sori insieme con numerosa schiera di nobili e di eccle-siastici milanesi si fermarono per lungo tempo (Murat.ad. an. 769); il che non sarebbe avvenuto, se essi aves-sero avuta de' Longobardi quella favorevole opinioneche altri mostran di averne. È certo ancora che i Longo-bardi corsero allor saccheggiando non piccola parted'Italia (ib.); mentre frattanto la carestia e la peste insie-me menavano strage grandissima di coloro, a cui il furordella guerra avea perdonato. Il breve regno di Clefo, emolto più l'interregno di dieci anni, che venne dopo, fu

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Si mostra che quasi tutto il tem-po di que-sto regno futempo di desolazioni e di stragi.

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pur fatale all'Italia. Continue furon le guerre or de' Grecico' Longobardi, or de' duchi medesimi longobardi fraloro; il che pure avvenne per quasi tutto il tempo in cui iLongobardi regnarono in Italia. Nè queste erano guerredi cui i combattenti soltanto sentissero il disagio e ildanno. L'avanzarsi de' Longobardi ne' conquistati paesi,e il recarvi incendj e rovine, era non rare volte una me-desima cosa. Le descrizioni e i racconti che ce ne hanlasciati gli scrittori di questi tempi, ne sono una troppoevidente ripruova. "La feroce nazione de' Longobardi,dice s. Gregorio il grande che allor vivea (Dial. l. 3, c.8) tratta come spada dal fodero da' lor paesi, contro ilnostro capo si volse, e recò sterminio all'uman genere,che a guisa di folta messe era popoloso e frequente: sac-cheggiate furono le città, spianati i castelli, arse le chie-se, distrutti i monasteri d'uomini e di donne, desolate lecampagne: giacesi abbandonato il terreno senza coltiva-tore e senza padrone; e le fiere passeggiano or per que'luoghi che prima erano stanza degli uomini". E di verose allora quando alcune schiere de' Longobardi furonchiamate da Narsete in suo aiuto contro de' Goti, si mo-straron esse sì barbare coll'incendiare qualunque fabbri-ca in cui s'avvenissero, e con mille altre orribili violenzed'ogni maniera, che convenne, come narra Procopio (deBello goth. l. 3), rimandarle con gran denaro alle lorcose, che crederem noi che avvenisse, quando sceser dinuovo per occupare l'Italia tutta? Lo stesso Paolo diaco-no ch'era pure della lor nazione, non potè dissimular nètacere le pruove ch'essi in ogni parte diedero della loro

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pur fatale all'Italia. Continue furon le guerre or de' Grecico' Longobardi, or de' duchi medesimi longobardi fraloro; il che pure avvenne per quasi tutto il tempo in cui iLongobardi regnarono in Italia. Nè queste erano guerredi cui i combattenti soltanto sentissero il disagio e ildanno. L'avanzarsi de' Longobardi ne' conquistati paesi,e il recarvi incendj e rovine, era non rare volte una me-desima cosa. Le descrizioni e i racconti che ce ne hanlasciati gli scrittori di questi tempi, ne sono una troppoevidente ripruova. "La feroce nazione de' Longobardi,dice s. Gregorio il grande che allor vivea (Dial. l. 3, c.8) tratta come spada dal fodero da' lor paesi, contro ilnostro capo si volse, e recò sterminio all'uman genere,che a guisa di folta messe era popoloso e frequente: sac-cheggiate furono le città, spianati i castelli, arse le chie-se, distrutti i monasteri d'uomini e di donne, desolate lecampagne: giacesi abbandonato il terreno senza coltiva-tore e senza padrone; e le fiere passeggiano or per que'luoghi che prima erano stanza degli uomini". E di verose allora quando alcune schiere de' Longobardi furonchiamate da Narsete in suo aiuto contro de' Goti, si mo-straron esse sì barbare coll'incendiare qualunque fabbri-ca in cui s'avvenissero, e con mille altre orribili violenzed'ogni maniera, che convenne, come narra Procopio (deBello goth. l. 3), rimandarle con gran denaro alle lorcose, che crederem noi che avvenisse, quando sceser dinuovo per occupare l'Italia tutta? Lo stesso Paolo diaco-no ch'era pure della lor nazione, non potè dissimular nètacere le pruove ch'essi in ogni parte diedero della loro

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crudeltà. E singolarmente parlando de' tempi del mento-vato interregno (De gestis Lang. l. 2, c. 32) egli usa qua-si le espressioni medesime che abbiam veduto usarsi das. Gregorio. È vero ch'egli da questa devastazione eccet-tua i paesi che da Alboino erano stati conquistati: excep-tis his regionibus quas Albuin ceperat. E infatti a questisoli restringe il ch. Muratori l'invidiabile felicità del re-gno de' Longobardi. Per ciò che appartiene alle provin-cie vicine a Roma, a Ravenna e ad altre città che si tene-vano ancor fedeli a' greci imperadori, confessa egli stes-so che le guerre continue tra' Longobardi e i Greci lecondussero a infelicissimo stato. Ma anche il centro, percosì dire, del loro regno non andò esente da sconvolgi-menti, da rovine, da stragi. Comunque bella e piacevolesia la pittura che del regno de' Longobardi ci fa Paolodiacono, dicendo (l. 3, c. 16) che, "non vi si commetteanè violenza nè insidia di sorte alcuna, che niuno era daaltri angustiato e spogliato, che non vi eran nè rapine nèfurti, e che ognuno andava liberamente ove parevaglimeglio"; comunque concedasi che in quest'elogio nonavesse alcuna parte l'adulazione, egli è però troppo evi-dente che se non per la malvagità de' nuovi padroni, al-meno per le vicende dei tempi furon questi paesi ancoramalmenati ed oppressi. I Francesi venner più volte adassaltare i Longobardi nelle loro provincie (V. Murat.Ann. d'It. ad an. 577, 583, 585, 588, 590); e singolar-mente l'an. 590 giunsero non solo a Trento, ma a Pia-cenza ancora e a Verona. Innoltre i Greci non sol posse-devano Ravenna e le altre città dell'esarcato e Roma, ed

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crudeltà. E singolarmente parlando de' tempi del mento-vato interregno (De gestis Lang. l. 2, c. 32) egli usa qua-si le espressioni medesime che abbiam veduto usarsi das. Gregorio. È vero ch'egli da questa devastazione eccet-tua i paesi che da Alboino erano stati conquistati: excep-tis his regionibus quas Albuin ceperat. E infatti a questisoli restringe il ch. Muratori l'invidiabile felicità del re-gno de' Longobardi. Per ciò che appartiene alle provin-cie vicine a Roma, a Ravenna e ad altre città che si tene-vano ancor fedeli a' greci imperadori, confessa egli stes-so che le guerre continue tra' Longobardi e i Greci lecondussero a infelicissimo stato. Ma anche il centro, percosì dire, del loro regno non andò esente da sconvolgi-menti, da rovine, da stragi. Comunque bella e piacevolesia la pittura che del regno de' Longobardi ci fa Paolodiacono, dicendo (l. 3, c. 16) che, "non vi si commetteanè violenza nè insidia di sorte alcuna, che niuno era daaltri angustiato e spogliato, che non vi eran nè rapine nèfurti, e che ognuno andava liberamente ove parevaglimeglio"; comunque concedasi che in quest'elogio nonavesse alcuna parte l'adulazione, egli è però troppo evi-dente che se non per la malvagità de' nuovi padroni, al-meno per le vicende dei tempi furon questi paesi ancoramalmenati ed oppressi. I Francesi venner più volte adassaltare i Longobardi nelle loro provincie (V. Murat.Ann. d'It. ad an. 577, 583, 585, 588, 590); e singolar-mente l'an. 590 giunsero non solo a Trento, ma a Pia-cenza ancora e a Verona. Innoltre i Greci non sol posse-devano Ravenna e le altre città dell'esarcato e Roma, ed

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altre provincie di que' contorni, ma alcune città avevanoancora nel centro medesimo della Lombardia, e quindiin esso ancora eran frequenti le guerre. Così Brescellocittà allor vescovile l'an. 585 fu espugnata da Drottulfocapitano svevo al soldo de' Greci, e poscia ripresa daAutari che spianar ne fece interamente le mura (Murat.ad. h. an.). Così un'isola posta nel lago di Como, e per-cìò detta Comacina, mantennesi fedele a' Greci finoall'anno 588, nel quale dopo sei mesi d'assedio fu presada' Longobardi (ib.). Anzi l'an. 590 espugnate furon da'Greci Modena, Altino e Mantova, e poscia loro sponta-neamente si arrenderono Reggio, Parma e Piacenza(ib.), Padova solo l'an. 601, e solo l'an. 603 cadde nellelor mani Cremona (ib.). Abbiam dunque presso a qua-rant'anni di continue guerre tra i Longobardi e i Greci.

VI. Nè queste eran già guerre somiglianti aquelle dei nostri giorni, di cui il maggiordanno ricade su' combattenti, mentre i citta-dini non rare volte ne divengon più ricchi.Le città e le castella davansi spesso allefiamme, e spianavansi da' fondamenti, come

avvenne a molte castella del trentino e del veronese ealle mentovate città di Cremona e di Padova; e gli abi-tanti erano non rare volte condotti schiavi; il che accad-de singolarmente nella invasion de' Francesi l'an. 590.Quindi in una lettera scritta dall'esarco Romano al lorore Childeberto egli il prega a comandare a' suoi, che non

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Quanto sanguinose e crudeli fossero al-lora le guerre.

altre provincie di que' contorni, ma alcune città avevanoancora nel centro medesimo della Lombardia, e quindiin esso ancora eran frequenti le guerre. Così Brescellocittà allor vescovile l'an. 585 fu espugnata da Drottulfocapitano svevo al soldo de' Greci, e poscia ripresa daAutari che spianar ne fece interamente le mura (Murat.ad. h. an.). Così un'isola posta nel lago di Como, e per-cìò detta Comacina, mantennesi fedele a' Greci finoall'anno 588, nel quale dopo sei mesi d'assedio fu presada' Longobardi (ib.). Anzi l'an. 590 espugnate furon da'Greci Modena, Altino e Mantova, e poscia loro sponta-neamente si arrenderono Reggio, Parma e Piacenza(ib.), Padova solo l'an. 601, e solo l'an. 603 cadde nellelor mani Cremona (ib.). Abbiam dunque presso a qua-rant'anni di continue guerre tra i Longobardi e i Greci.

VI. Nè queste eran già guerre somiglianti aquelle dei nostri giorni, di cui il maggiordanno ricade su' combattenti, mentre i citta-dini non rare volte ne divengon più ricchi.Le città e le castella davansi spesso allefiamme, e spianavansi da' fondamenti, come

avvenne a molte castella del trentino e del veronese ealle mentovate città di Cremona e di Padova; e gli abi-tanti erano non rare volte condotti schiavi; il che accad-de singolarmente nella invasion de' Francesi l'an. 590.Quindi in una lettera scritta dall'esarco Romano al lorore Childeberto egli il prega a comandare a' suoi, che non

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Quanto sanguinose e crudeli fossero al-lora le guerre.

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saccheggino, nè diano alle fiamme, le case degl'Italiani,che non li conducano schiavi, e che anzi lascino liberique' che già avean seco condotti (ib. ad an. 590). E talcostume era ancora de' Longobardi, perchè troviamo cheFortunato vesc. di Fano riscattò molti schiavi che aquella città erano stati condotti da' Longobardi, e cheperciò il pontef. s. Gregorio gli permise di vendere i vasisacri (id. ad an. 592). Ma quali fosser gli effetti di que-ste guerre, e con qual crudeltà in esse operassero i Lon-gobardi, raccogliesi singolarmente dalle Opere di S.Gregorio il grande che vivea ne' principj del loro regno,e che tenne il pontificato dall'an. 590 fino al 604. Egliparlava e scriveva di cose ch'eran sotto gli occhi d'ognu-no; e quindi, lasciando ancora da parte la santità di que-sto grand'uomo, che non ci permette di sospettare in luiesagerazion maliziosa, egli è tal testimonio a cui secon-do le leggi della critica più rigorosa si dee ogni fede.Spiegava egli al popolo le profezie di Ezechiele, quandoAgilolfo circa l'an. 593 mosse col suo esercito contro diRoma. Egli stesso lo accenna nella prefazione al secon-do libro delle sue Omelie su questo profeta: "Sappiamoche il re Agilolfo, passato il Po, velocemente sen vieneall'assedio di questa città". Quai tracce egli lasciasse perogni parte di crudeltà e di furore, udiamolo dallo stessosanto pontefice. "In ogni luogo, egli dice (Hom. 18 inEzech.) veggiam dolore, in ogni luogo udiam pianti. Di-strutte le città, spianati i castelli, devastate le campagne,la terra è divenuta un solitario deserto. Non vi ha colti-vatori ne' campi, non vi ha quasi abitanti nelle città; e

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saccheggino, nè diano alle fiamme, le case degl'Italiani,che non li conducano schiavi, e che anzi lascino liberique' che già avean seco condotti (ib. ad an. 590). E talcostume era ancora de' Longobardi, perchè troviamo cheFortunato vesc. di Fano riscattò molti schiavi che aquella città erano stati condotti da' Longobardi, e cheperciò il pontef. s. Gregorio gli permise di vendere i vasisacri (id. ad an. 592). Ma quali fosser gli effetti di que-ste guerre, e con qual crudeltà in esse operassero i Lon-gobardi, raccogliesi singolarmente dalle Opere di S.Gregorio il grande che vivea ne' principj del loro regno,e che tenne il pontificato dall'an. 590 fino al 604. Egliparlava e scriveva di cose ch'eran sotto gli occhi d'ognu-no; e quindi, lasciando ancora da parte la santità di que-sto grand'uomo, che non ci permette di sospettare in luiesagerazion maliziosa, egli è tal testimonio a cui secon-do le leggi della critica più rigorosa si dee ogni fede.Spiegava egli al popolo le profezie di Ezechiele, quandoAgilolfo circa l'an. 593 mosse col suo esercito contro diRoma. Egli stesso lo accenna nella prefazione al secon-do libro delle sue Omelie su questo profeta: "Sappiamoche il re Agilolfo, passato il Po, velocemente sen vieneall'assedio di questa città". Quai tracce egli lasciasse perogni parte di crudeltà e di furore, udiamolo dallo stessosanto pontefice. "In ogni luogo, egli dice (Hom. 18 inEzech.) veggiam dolore, in ogni luogo udiam pianti. Di-strutte le città, spianati i castelli, devastate le campagne,la terra è divenuta un solitario deserto. Non vi ha colti-vatori ne' campi, non vi ha quasi abitanti nelle città; e

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nondimeno ancor su questi piccoli avanzi dell'uman ge-nere continuamente e senza riposo alcuno si scaglianonuovi colpi: e i flagelli del celeste sdegno non cessano,perchè ancor tra' flagelli non cessan le colpe. Altri neveggiamo condursi schiavi, ad altri esser troncate lemembra, altri essere uccisi. Qual cosa vi ha mai, mieifratelli, che in questa vita ancor ci possa piacere?" Quin-di ei passa a descrivere il funesto stato a cui era condot-ta Roma. "Roma stessa, egli dice, quella Roma medesi-ma che già sembrava signora del mondo tutto, noi veg-giamo qual sia rimasta. Abbattuta da diverse e immensecalamità, dalla desolazione de' cittadini, dall'impeto de'nemici, dalle frequenti rovine... Ove è ora il senato?Ove è il popolo?... l'ordine delle dignità secolari tutto èperito... E noi che in sì poco numero siam rimasti, purnondimeno dalle spade nemiche e da innumerabili tribo-lazioni ogni giorno veniamo oppressi... Ma a che parlardegli uomini, se moltiplicandosi le rovine veggiam di-struggersi gli edificj medesimi?... I fanciulli, i giovani,figli del secolo da ogni parte ad essa accorrevano perl'addietro per avanzarsi nel mondo. Ma ora oimè! ch'ellaè desolata e deserta, oppressa da' gemiti. Non vi ha alcu-no che ad essa ne venga per ingrandirsi" ec. Così ragio-nava il santo, mentre l'esercito di Agilolfo accostavasi aRoma. Ma quando il turbine fu più vicino, tal fu lo spa-vento e la costernazione comune, che il santo ponteficedovette sospendere il corso delle sue omelie; "Niun miriprenda, egli dice (Hom. ult. in Ezech.), se dopo questosermone io farò fine, perciocchè, come tutti vedete,

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nondimeno ancor su questi piccoli avanzi dell'uman ge-nere continuamente e senza riposo alcuno si scaglianonuovi colpi: e i flagelli del celeste sdegno non cessano,perchè ancor tra' flagelli non cessan le colpe. Altri neveggiamo condursi schiavi, ad altri esser troncate lemembra, altri essere uccisi. Qual cosa vi ha mai, mieifratelli, che in questa vita ancor ci possa piacere?" Quin-di ei passa a descrivere il funesto stato a cui era condot-ta Roma. "Roma stessa, egli dice, quella Roma medesi-ma che già sembrava signora del mondo tutto, noi veg-giamo qual sia rimasta. Abbattuta da diverse e immensecalamità, dalla desolazione de' cittadini, dall'impeto de'nemici, dalle frequenti rovine... Ove è ora il senato?Ove è il popolo?... l'ordine delle dignità secolari tutto èperito... E noi che in sì poco numero siam rimasti, purnondimeno dalle spade nemiche e da innumerabili tribo-lazioni ogni giorno veniamo oppressi... Ma a che parlardegli uomini, se moltiplicandosi le rovine veggiam di-struggersi gli edificj medesimi?... I fanciulli, i giovani,figli del secolo da ogni parte ad essa accorrevano perl'addietro per avanzarsi nel mondo. Ma ora oimè! ch'ellaè desolata e deserta, oppressa da' gemiti. Non vi ha alcu-no che ad essa ne venga per ingrandirsi" ec. Così ragio-nava il santo, mentre l'esercito di Agilolfo accostavasi aRoma. Ma quando il turbine fu più vicino, tal fu lo spa-vento e la costernazione comune, che il santo ponteficedovette sospendere il corso delle sue omelie; "Niun miriprenda, egli dice (Hom. ult. in Ezech.), se dopo questosermone io farò fine, perciocchè, come tutti vedete,

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troppo sono cresciute le nostre tribolazioni. Da ogni par-te siam circondati da spade, da ogni parte ci soprasta pe-ricol di morte. Altri a noi sen ritornano colle mani tron-cate, di altri udiamo che sono stati o condotti schiavi, ouccisi. Io son costretto a sospendere la sposizione dellaDivina Scrittura, perchè omai la vita stessa mi è noia".Di queste funeste calamità duolsi ancora sovente nellesue Lettere, e in una singolarmente da lui scritta all'imp.Maurizio l'an. 595 (l. 3, ep. 32) in cui con una eroicaumiltà congiunta a una magnanima sacerdotale fermez-za si discolpa dalle accuse dategli di soverchia semplici-tà nel trattar della pace co' Longobardi; lettera ch'io vo-lentieri recherei a questo luogo, se la lunghezza e la niu-na attenenza di essa al mio argomento non mel vietasse.Mi basterà dunque accennare ciò ch'egli dice dell'acco-starsi che fè a Roma Agilolfo. "Piaga assai grave, eglidice, fu l'accostarsi del re Agilolfo a Roma, perciocchèio vedeva co' miei proprj occhi i Romani con funi legateal collo a guisa di cani condursi in Francia per esservivenduti schiavi". Tal dunque era la maniera di guerreg-giare de' Longobardi; e come la guerra loro co' Greci,secondo che si è già dimostrato, si stese ancor fino alcentro del loro regno, così tutta l'Italia fu involta nelleorribili calamità che ne furon l'effetto.

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troppo sono cresciute le nostre tribolazioni. Da ogni par-te siam circondati da spade, da ogni parte ci soprasta pe-ricol di morte. Altri a noi sen ritornano colle mani tron-cate, di altri udiamo che sono stati o condotti schiavi, ouccisi. Io son costretto a sospendere la sposizione dellaDivina Scrittura, perchè omai la vita stessa mi è noia".Di queste funeste calamità duolsi ancora sovente nellesue Lettere, e in una singolarmente da lui scritta all'imp.Maurizio l'an. 595 (l. 3, ep. 32) in cui con una eroicaumiltà congiunta a una magnanima sacerdotale fermez-za si discolpa dalle accuse dategli di soverchia semplici-tà nel trattar della pace co' Longobardi; lettera ch'io vo-lentieri recherei a questo luogo, se la lunghezza e la niu-na attenenza di essa al mio argomento non mel vietasse.Mi basterà dunque accennare ciò ch'egli dice dell'acco-starsi che fè a Roma Agilolfo. "Piaga assai grave, eglidice, fu l'accostarsi del re Agilolfo a Roma, perciocchèio vedeva co' miei proprj occhi i Romani con funi legateal collo a guisa di cani condursi in Francia per esservivenduti schiavi". Tal dunque era la maniera di guerreg-giare de' Longobardi; e come la guerra loro co' Greci,secondo che si è già dimostrato, si stese ancor fino alcentro del loro regno, così tutta l'Italia fu involta nelleorribili calamità che ne furon l'effetto.

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VII. Questo crudel furore era in gran partefrutto della feroce loro indole, della incoltae barbara educazione, e delle lor maniereselvagge ed aspre. Ma in gran parte era an-cora effetto della diversità di religionech'era tra essi e gli Italiani. Molti de' Longo-

bardi erano idolatri, e di una sì grossolana idolatria, cheadoravano una testa di capra, come abbiamo da s. Gre-gorio, il quale racconta (l. 3 Dial. c. 17, 18) che 40 agri-coltori una volta, e una volta 40 schiavi furon da essi permotivo di religione uccisi. Io so che i Dialoghi di s. Gre-gorio, ne' quali egli narra un tal fatto, si hanno da alcuniin conto di favolosi. Ma io spero ch'essi almeno gli da-ran fede, quando ei narra cose avvenute a suoi giorni ein paesi poco lontani. Que' medesimi Longobardi cheseguivan la legge di Cristo, erano per lo più ariani, ebenchè lo stesso s. Gregorio confessi che per ammirabi-le provvidenza del cielo i lor sacerdoti ariani non mole-stavano i Cattolici (ib. ec. c. 29), egli è però verisimileche questa diversità di religione li rendesse ancor piùcrudeli contro de' lor nemici. Io concederò, s'ei cosìvuole, al ch. Muratori, che i Francesi e i Greci non fos-ser punto migliori de' Longobardi (Ann. d'Ital. ad an.584, 595), e certo de' Greci lagnasi s. Gregorio, "che lalor nequizia superasse le spade de' Longobardi; sicchèsembravano più pietosi i nemici che uccidevano i Ro-mani, che i giudici della repubblica, i quali colla loromalvagità, colle frodi, colle rapine gli opprimevano (l.5, ep. 42)". Ma da ciò appunto sempre più si comprende

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La diversitàdi religionerendeva i Longobardiancor più crudeli.

VII. Questo crudel furore era in gran partefrutto della feroce loro indole, della incoltae barbara educazione, e delle lor maniereselvagge ed aspre. Ma in gran parte era an-cora effetto della diversità di religionech'era tra essi e gli Italiani. Molti de' Longo-

bardi erano idolatri, e di una sì grossolana idolatria, cheadoravano una testa di capra, come abbiamo da s. Gre-gorio, il quale racconta (l. 3 Dial. c. 17, 18) che 40 agri-coltori una volta, e una volta 40 schiavi furon da essi permotivo di religione uccisi. Io so che i Dialoghi di s. Gre-gorio, ne' quali egli narra un tal fatto, si hanno da alcuniin conto di favolosi. Ma io spero ch'essi almeno gli da-ran fede, quando ei narra cose avvenute a suoi giorni ein paesi poco lontani. Que' medesimi Longobardi cheseguivan la legge di Cristo, erano per lo più ariani, ebenchè lo stesso s. Gregorio confessi che per ammirabi-le provvidenza del cielo i lor sacerdoti ariani non mole-stavano i Cattolici (ib. ec. c. 29), egli è però verisimileche questa diversità di religione li rendesse ancor piùcrudeli contro de' lor nemici. Io concederò, s'ei cosìvuole, al ch. Muratori, che i Francesi e i Greci non fos-ser punto migliori de' Longobardi (Ann. d'Ital. ad an.584, 595), e certo de' Greci lagnasi s. Gregorio, "che lalor nequizia superasse le spade de' Longobardi; sicchèsembravano più pietosi i nemici che uccidevano i Ro-mani, che i giudici della repubblica, i quali colla loromalvagità, colle frodi, colle rapine gli opprimevano (l.5, ep. 42)". Ma da ciò appunto sempre più si comprende

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La diversitàdi religionerendeva i Longobardiancor più crudeli.

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quanto infelice allor fosse la condizion dell'Italia, controdi cui furiosamente avventandosi due diverse e nimichenazioni, sembravano gareggiare tra loro a chi facessepiù orribile strazio. Quindi a me pare che il sopraccitatodottissimo autore si lasciasse portar troppo oltre dal suoamore pe' Longobardi, quando parlando delle calamità acui allor soggiacque l'Italia, "ma queste, scrisse (ad an.584) son misere pensioni della guerra, che in tutti i se-coli, anche fra i Cattolici, si son provate e si provano".Io penso che i sovrani e i generali d'armata, che or vivo-no, e che son vissuti in questi ultimi tempi, si possano aragione vantare di non avere nè incendiate le intere città,nè rimandati i miseri e pacifici cittadini tronchi nelle lormembra, nè ridottili a barbara schiavitudine e colle cate-ne al collo inviatili come cani al mercato.

VIII. Alle guerre quasi continue fra i Lon-gobardi e i Greci si aggiunsero assai spessoancor le civili fra i Longobardi medesimi,che assai più delle altre sogliono essere co-munemente crudeli e funeste. Gaidolfo o

Gandolfa duca di Bergamo, Ulfari duca di Trivigi, eZangrulfo duca di Verona, si ribellarono contro Agilol-fo, e venner con lui alle mani (Murat. ad an. 591, 600).Ma assai più frequenti furono tali guerre civili dopo lamorte di Ariperto avvenuta l'an. 651. I due fratelli Ber-tarido e Godeberto vennero, come abbiam detto, a guer-ra tra loro, e Grimoaldo duca di Benevento se ne preval-

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Guerre ci-vili tra i Longobardimedesimi.

quanto infelice allor fosse la condizion dell'Italia, controdi cui furiosamente avventandosi due diverse e nimichenazioni, sembravano gareggiare tra loro a chi facessepiù orribile strazio. Quindi a me pare che il sopraccitatodottissimo autore si lasciasse portar troppo oltre dal suoamore pe' Longobardi, quando parlando delle calamità acui allor soggiacque l'Italia, "ma queste, scrisse (ad an.584) son misere pensioni della guerra, che in tutti i se-coli, anche fra i Cattolici, si son provate e si provano".Io penso che i sovrani e i generali d'armata, che or vivo-no, e che son vissuti in questi ultimi tempi, si possano aragione vantare di non avere nè incendiate le intere città,nè rimandati i miseri e pacifici cittadini tronchi nelle lormembra, nè ridottili a barbara schiavitudine e colle cate-ne al collo inviatili come cani al mercato.

VIII. Alle guerre quasi continue fra i Lon-gobardi e i Greci si aggiunsero assai spessoancor le civili fra i Longobardi medesimi,che assai più delle altre sogliono essere co-munemente crudeli e funeste. Gaidolfo o

Gandolfa duca di Bergamo, Ulfari duca di Trivigi, eZangrulfo duca di Verona, si ribellarono contro Agilol-fo, e venner con lui alle mani (Murat. ad an. 591, 600).Ma assai più frequenti furono tali guerre civili dopo lamorte di Ariperto avvenuta l'an. 651. I due fratelli Ber-tarido e Godeberto vennero, come abbiam detto, a guer-ra tra loro, e Grimoaldo duca di Benevento se ne preval-

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Guerre ci-vili tra i Longobardimedesimi.

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se per usurparsi il trono tolto ad amendue. Alachi ducadi Trento e poscia di Brescia ribellossi prima l'an. 680contro di Bertarido, poscia contro di Cuniberto l'an. 690.Più altre finalmente ne abbiamo accennate nel compen-dioso racconto che fatto abbiamo della storia de' re lon-gobardi. Quindi, se attentamente riflettasi alla storia me-desima, egli è manifesto che l'Italia fu quasi sempre agi-tata ne' tempi del loro impero da guerre interne che ladovetter condurre all'estrema desolazione.

IX. L'indole ancora e i costumi de' Longo-bardi concorser non poco a sbandire quasiinteramente dall'Italia ogni letteratura. Uo-mini feroci e nati, per così dire, e vissutisempre fra l'armi, appena sapevano che vi

avesse al mondo lettere e scienze. Il ch. Muratori affer-ma che "a poco a poco s'andavan distruggendo i barbariLongobardi con prendere i costumi e i riti degl'Italiani(Ann. d'ital. ad an. 618)". Il che certamente è verisimile.Ma noi veggiamo ciò non ostante ai tempi ancora piùtardi del loro regno pruove frequenti che molto essi an-cor ritenevano dell'antica ferocia. Da essi furono intro-dotte in Italia quelle barbare e superstiziose pruovedell'innocenza di alcuno, che diceansi giudizj di Dio, eun esempio singolarmente ne troviamo ch'è forse il pri-mo che s'incontri nelle nostre Storie, cioè di un duellofatto a provare la fedeltà conjugale di Gundeberga mo-glie del re Arioaldo (id. an. 632). Leggasi ciò che lo

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Ferocia de' Longobardie loro totaleignoranza.

se per usurparsi il trono tolto ad amendue. Alachi ducadi Trento e poscia di Brescia ribellossi prima l'an. 680contro di Bertarido, poscia contro di Cuniberto l'an. 690.Più altre finalmente ne abbiamo accennate nel compen-dioso racconto che fatto abbiamo della storia de' re lon-gobardi. Quindi, se attentamente riflettasi alla storia me-desima, egli è manifesto che l'Italia fu quasi sempre agi-tata ne' tempi del loro impero da guerre interne che ladovetter condurre all'estrema desolazione.

IX. L'indole ancora e i costumi de' Longo-bardi concorser non poco a sbandire quasiinteramente dall'Italia ogni letteratura. Uo-mini feroci e nati, per così dire, e vissutisempre fra l'armi, appena sapevano che vi

avesse al mondo lettere e scienze. Il ch. Muratori affer-ma che "a poco a poco s'andavan distruggendo i barbariLongobardi con prendere i costumi e i riti degl'Italiani(Ann. d'ital. ad an. 618)". Il che certamente è verisimile.Ma noi veggiamo ciò non ostante ai tempi ancora piùtardi del loro regno pruove frequenti che molto essi an-cor ritenevano dell'antica ferocia. Da essi furono intro-dotte in Italia quelle barbare e superstiziose pruovedell'innocenza di alcuno, che diceansi giudizj di Dio, eun esempio singolarmente ne troviamo ch'è forse il pri-mo che s'incontri nelle nostre Storie, cioè di un duellofatto a provare la fedeltà conjugale di Gundeberga mo-glie del re Arioaldo (id. an. 632). Leggasi ciò che lo

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Ferocia de' Longobardie loro totaleignoranza.

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stesso Muratori racconta del barbaro trattamento che ilre Grimoaldo fece agl'infelici abitanti di Forlimpopoli(ad an. 667), delle crudeltà commesse dal re Aribertoper assicurarsi il trono (ad an. 704), della condotta tenu-ta dal re Liutprando co' nobili longobardi del Friuli, ecol loro duca Pemmone (ad an. 737), e molti altri fattiparticolari da lui narrati, i quali ci mostrano chiaramenteche benchè essi deponessero in parte l'usata loro rozzez-za, e benchè alcuni tra loro debbano a ragione aversi inconto di ottimi principi, non se ne svestiron per modo,che tratto tratto non ne dessero qualche segno. Ma chec-chessia di ciò, egli è certo che non abbiamo alcun mo-numento, non solo che da veruno tra' re longobardi sicoltivasser le lettere, ma che si accordasse loro da essiprotezione ed onore. In tutte le loro leggi noi non trovia-mo la menoma menzione di studj di sorta alcuna. In tut-ta la storia, se se ne tragga qualche onore renduto da Cu-niberto a un cotal gramarico Felice, di cui poscia ragio-neremo, non veggiamo che alcun di essi pensasse a fo-mentare col regal favore gli studj. Forse, se i re longo-bardi avessero avuto a' fianchi un Cassiodoro, o un Boe-zio avrebbon anch'essi premute le belle tracce di Teodo-rico. Ma in mezzo a tante sventure, troppo era difficilead avvenire che sorgessero valorosi ristoratori della let-teratura italiana. Lo stesso eruditiss. Muratori, difendito-re per altro e discolpatore ingegnoso de' Longobardiconfessa (ad an. 587) che "fra gli altri malanni recatiall'Italia dalla venuta dei Longobardi non fu già il piùpicciolo quello d'essersi andato in disuso lo studio delle

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stesso Muratori racconta del barbaro trattamento che ilre Grimoaldo fece agl'infelici abitanti di Forlimpopoli(ad an. 667), delle crudeltà commesse dal re Aribertoper assicurarsi il trono (ad an. 704), della condotta tenu-ta dal re Liutprando co' nobili longobardi del Friuli, ecol loro duca Pemmone (ad an. 737), e molti altri fattiparticolari da lui narrati, i quali ci mostrano chiaramenteche benchè essi deponessero in parte l'usata loro rozzez-za, e benchè alcuni tra loro debbano a ragione aversi inconto di ottimi principi, non se ne svestiron per modo,che tratto tratto non ne dessero qualche segno. Ma chec-chessia di ciò, egli è certo che non abbiamo alcun mo-numento, non solo che da veruno tra' re longobardi sicoltivasser le lettere, ma che si accordasse loro da essiprotezione ed onore. In tutte le loro leggi noi non trovia-mo la menoma menzione di studj di sorta alcuna. In tut-ta la storia, se se ne tragga qualche onore renduto da Cu-niberto a un cotal gramarico Felice, di cui poscia ragio-neremo, non veggiamo che alcun di essi pensasse a fo-mentare col regal favore gli studj. Forse, se i re longo-bardi avessero avuto a' fianchi un Cassiodoro, o un Boe-zio avrebbon anch'essi premute le belle tracce di Teodo-rico. Ma in mezzo a tante sventure, troppo era difficilead avvenire che sorgessero valorosi ristoratori della let-teratura italiana. Lo stesso eruditiss. Muratori, difendito-re per altro e discolpatore ingegnoso de' Longobardiconfessa (ad an. 587) che "fra gli altri malanni recatiall'Italia dalla venuta dei Longobardi non fu già il piùpicciolo quello d'essersi andato in disuso lo studio delle

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lettere; perchè oltre all'aver que' Barbari prezzate sola-mente le armi, le genti italiane tra i rumori e guai dellecontinuate guerre altra voglia aveano, che di applicarsiagli studj, oltre all'essere loro ancora mancati buonimaestri".

X. Le cose che dette abbiamo finora, e lacondizione infelice in cui abbiam dimostra-to che trovossi allora l'Italia, bastano a farciintendere facilmente a quale stato venisseroa questo tempo le scienze e gli studj. Ma ci

conviene esaminarlo più esattamente, e vedere a qualsegno giugnesse allor l'ignoranza. Di scuole pubbliche edi pubblici professori di eloquenza, di filosofia, di leggee di altre scienze in Roma io non trovo in quest'epocamenzione alcuna. Anzi abbiamo poc'anzi udito il pontef.s. Gregorio fra le altre sciagure di quella infelice cittàannoverar questa ancora, che più non vi era chi da paesistranieri venisse a Roma, come usavasi ne' tempi addie-tro, singolarmente affine di coltivare le scienze. Uno, odue, esempj di stranieri venuti dalla Brettagna a Roma,che reca il p. Caraffa (de Gymn. rom. vol. 1, p. 109), nonbastano perchè ne formiamo un diverso giudizio, moltopiù che non parmi abbastanza provato che da desideriodi letteratura movessero cotali viaggi. E certo la descri-zione che il medesimo s. Gregorio ci fa dello stato in cuiRoma allora trovavasi, di leggeri ci persuade che gli stu-dj vi fossero quasi interamente abbandonati. Che se tale

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Infelice sta-to delle pubbliche scuole.

lettere; perchè oltre all'aver que' Barbari prezzate sola-mente le armi, le genti italiane tra i rumori e guai dellecontinuate guerre altra voglia aveano, che di applicarsiagli studj, oltre all'essere loro ancora mancati buonimaestri".

X. Le cose che dette abbiamo finora, e lacondizione infelice in cui abbiam dimostra-to che trovossi allora l'Italia, bastano a farciintendere facilmente a quale stato venisseroa questo tempo le scienze e gli studj. Ma ci

conviene esaminarlo più esattamente, e vedere a qualsegno giugnesse allor l'ignoranza. Di scuole pubbliche edi pubblici professori di eloquenza, di filosofia, di leggee di altre scienze in Roma io non trovo in quest'epocamenzione alcuna. Anzi abbiamo poc'anzi udito il pontef.s. Gregorio fra le altre sciagure di quella infelice cittàannoverar questa ancora, che più non vi era chi da paesistranieri venisse a Roma, come usavasi ne' tempi addie-tro, singolarmente affine di coltivare le scienze. Uno, odue, esempj di stranieri venuti dalla Brettagna a Roma,che reca il p. Caraffa (de Gymn. rom. vol. 1, p. 109), nonbastano perchè ne formiamo un diverso giudizio, moltopiù che non parmi abbastanza provato che da desideriodi letteratura movessero cotali viaggi. E certo la descri-zione che il medesimo s. Gregorio ci fa dello stato in cuiRoma allora trovavasi, di leggeri ci persuade che gli stu-dj vi fossero quasi interamente abbandonati. Che se tale

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Infelice sta-to delle pubbliche scuole.

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era lo stato di Roma, che direm noi delle altre città d'Ita-lia, nelle quali gli studj non erano mai saliti in quellafama di cui godevano in Roma? Qualche scuola di gra-matica solamente e qualche scuola ecclesiastica sembrache sussistesse in Roma e in alcune altre città, come inPavia, ove vedremo che celebri si rendettero sotto i relongobardi Felice gramatico, Pietro da Pisa, e alcuni al-tri. E le scuole di Roma vengono rammentate da Anasta-sio bibliotecario, ove parlando della venuta di CarloMagno a Roma l'an 774, dice che fra gli altri gli venneroincontro un miglio lungi dalla città i fanciulli che studia-van le lettere: et pueris, qui ad discendas litteras perge-bant (in Hadr. I, vol. 3 script. rer. ital. p. 185). Anzicome racoglie il ch. Muratori da una carta di questo in-signe e copioso archivio capitolare di Modena (Antich.ital. t. 1, p. 487), sembra che fosse dovere de' parrochiancor rurali d'istruire e tenere scuola a' fanciulli, poichèGisone vesc. di questa città concedendo a Vittore arci-prete verso il fine dell'VIII sec., la pieve di s. Pietro inSiculo, gli ingiugne di essere diligente in clericis con-gregandis in schola habenda, et pueris educandis. Matutte queste scuole altro non erano probabilmente chede' primi elementi, e sallo il cielo, se questi ancor s'inse-gnavano a dovere. Certo le opere e le carte scritte diquesti tempi sono comunemente in uno stile sì barbaro,che basta a farci conoscere la non curanza in che avean-si i buoni studj.

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era lo stato di Roma, che direm noi delle altre città d'Ita-lia, nelle quali gli studj non erano mai saliti in quellafama di cui godevano in Roma? Qualche scuola di gra-matica solamente e qualche scuola ecclesiastica sembrache sussistesse in Roma e in alcune altre città, come inPavia, ove vedremo che celebri si rendettero sotto i relongobardi Felice gramatico, Pietro da Pisa, e alcuni al-tri. E le scuole di Roma vengono rammentate da Anasta-sio bibliotecario, ove parlando della venuta di CarloMagno a Roma l'an 774, dice che fra gli altri gli venneroincontro un miglio lungi dalla città i fanciulli che studia-van le lettere: et pueris, qui ad discendas litteras perge-bant (in Hadr. I, vol. 3 script. rer. ital. p. 185). Anzicome racoglie il ch. Muratori da una carta di questo in-signe e copioso archivio capitolare di Modena (Antich.ital. t. 1, p. 487), sembra che fosse dovere de' parrochiancor rurali d'istruire e tenere scuola a' fanciulli, poichèGisone vesc. di questa città concedendo a Vittore arci-prete verso il fine dell'VIII sec., la pieve di s. Pietro inSiculo, gli ingiugne di essere diligente in clericis con-gregandis in schola habenda, et pueris educandis. Matutte queste scuole altro non erano probabilmente chede' primi elementi, e sallo il cielo, se questi ancor s'inse-gnavano a dovere. Certo le opere e le carte scritte diquesti tempi sono comunemente in uno stile sì barbaro,che basta a farci conoscere la non curanza in che avean-si i buoni studj.

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XI. Per ciò che appartiene alle scuole ec-clesiastiche, dalle soprallegate parole diGisone vesc. di Modena raccogliesi chia-ramente ch'erano esse frequenti, e nonsolo nella città, ma nella campagna anco-ra. In fatti il pontef. s. Gregorio tra le cose

che ricerca in un chierico, annovera ancora le lettere (l.1, ep. 25). Vero è nondimeno, come già abbiamo osser-vato, che sotto un tal nome intendevasi il saper leggere,che a questi tempi dovea forse sembrar cosa di non pic-cola lode. Ma ne' sacerdoti e ne' vescovi richiedevasiancor qualche scienza della Sacra Scrittura e dei SacriCanoni, come eruditamente dimostra l'erudito p. Tho-massin (Eccl. Discipl. pars 2, l. 1, c. 89). In fatti noi ve-dremo nel capo seguente, che molti vi ebbe in Italia mo-naci, sacerdoti e vescovi di questi tempi nelle sacrescienze versati, e parlando singolarmente di s. Gregoriovedremo che molti uomini dotti soleva egli aver di con-tinuo al fianco, e trattenersi con loro. E quindi egli èprobabile che scuole ancora vi fossero, in cui le scienzesacre s'insegnassero da coloro che aveano in esse fattostudio più diligente ed assiduo. Ma queste ancora do-veano essere scuole tali in cui altro pensiero non si aves-se comunemente che di tramandare incorrotto il deposi-to della fede, di difenderla contro gli assalti che sosteneadagli Eretici, di animare con pie esortazioni i Fedeli auna vita degna della lor religione; ma tutto ciò che ap-parteneva a ornamento di stile, a forza di eloquenza, aesattezza di critica, a corredo di erudizione, o intera-

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Era alquanto migliore lo stato delle scuole eccle-siastiche.

XI. Per ciò che appartiene alle scuole ec-clesiastiche, dalle soprallegate parole diGisone vesc. di Modena raccogliesi chia-ramente ch'erano esse frequenti, e nonsolo nella città, ma nella campagna anco-ra. In fatti il pontef. s. Gregorio tra le cose

che ricerca in un chierico, annovera ancora le lettere (l.1, ep. 25). Vero è nondimeno, come già abbiamo osser-vato, che sotto un tal nome intendevasi il saper leggere,che a questi tempi dovea forse sembrar cosa di non pic-cola lode. Ma ne' sacerdoti e ne' vescovi richiedevasiancor qualche scienza della Sacra Scrittura e dei SacriCanoni, come eruditamente dimostra l'erudito p. Tho-massin (Eccl. Discipl. pars 2, l. 1, c. 89). In fatti noi ve-dremo nel capo seguente, che molti vi ebbe in Italia mo-naci, sacerdoti e vescovi di questi tempi nelle sacrescienze versati, e parlando singolarmente di s. Gregoriovedremo che molti uomini dotti soleva egli aver di con-tinuo al fianco, e trattenersi con loro. E quindi egli èprobabile che scuole ancora vi fossero, in cui le scienzesacre s'insegnassero da coloro che aveano in esse fattostudio più diligente ed assiduo. Ma queste ancora do-veano essere scuole tali in cui altro pensiero non si aves-se comunemente che di tramandare incorrotto il deposi-to della fede, di difenderla contro gli assalti che sosteneadagli Eretici, di animare con pie esortazioni i Fedeli auna vita degna della lor religione; ma tutto ciò che ap-parteneva a ornamento di stile, a forza di eloquenza, aesattezza di critica, a corredo di erudizione, o intera-

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Era alquanto migliore lo stato delle scuole eccle-siastiche.

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mente si trascurasse o si toccasse assai di leggeri.

XII. A questa ignoranza molto ancor dovet-te concorrere la scarsezza che allor si avevade' libri. Le guerre e le diverse calamità dacui le guerre sogliono essere accompagnate,dovettero esser fatali alle private e alle pub-

bliche biblioteche. Molte di esse rimasero probabilmen-te preda del fuoco; molte perirono fra le ruine delle cittàe delle case, e gli uomini oppressi da ogni parte da infi-nite sciagure a tutt'altro dovean pensare che a copiar li-bri. Quindi perdendosi gli antichi, e non aggiugnendose-ne di nuovi, il loro numero dovea farsi sempre minore. Imonaci stessi che, come abbiamo altrove osservato, as-sai frequentemente si esercitavano nel far copie de' libri,furono spesso involti nel turbine delle guerre, e alcunimonasteri furon da' Barbari rovinati interamente; fra'quali è celebre quello di Monte Casino pel guasto orribi-le che ne fecero i Longobardi. Aggiungasi finalmenteche molti ancor di que' libri ch'erano stati sottratti al fu-ror della guerra, furono dagli stranieri portati a' lor pae-si, e in tal maniera cominciò allora ad accadere ciò cheposcia vedremo nel corso di questa Storia rinnovarsi piùvolte, cioè che gli stranieri si arricchissero delle spoglietolte all'Italia, e che poscia superbi delle usurpate ric-chezze ardissero ancor d'insultarla nella povertà a cuiessi l'avean condotta. Così troviamo presso il Mabillon(Ann. bened. t. 1, l. 17, n. 72), che Benedetto abate del

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Scarsezza di libri e di-struzione delle bi-blioteche.

mente si trascurasse o si toccasse assai di leggeri.

XII. A questa ignoranza molto ancor dovet-te concorrere la scarsezza che allor si avevade' libri. Le guerre e le diverse calamità dacui le guerre sogliono essere accompagnate,dovettero esser fatali alle private e alle pub-

bliche biblioteche. Molte di esse rimasero probabilmen-te preda del fuoco; molte perirono fra le ruine delle cittàe delle case, e gli uomini oppressi da ogni parte da infi-nite sciagure a tutt'altro dovean pensare che a copiar li-bri. Quindi perdendosi gli antichi, e non aggiugnendose-ne di nuovi, il loro numero dovea farsi sempre minore. Imonaci stessi che, come abbiamo altrove osservato, as-sai frequentemente si esercitavano nel far copie de' libri,furono spesso involti nel turbine delle guerre, e alcunimonasteri furon da' Barbari rovinati interamente; fra'quali è celebre quello di Monte Casino pel guasto orribi-le che ne fecero i Longobardi. Aggiungasi finalmenteche molti ancor di que' libri ch'erano stati sottratti al fu-ror della guerra, furono dagli stranieri portati a' lor pae-si, e in tal maniera cominciò allora ad accadere ciò cheposcia vedremo nel corso di questa Storia rinnovarsi piùvolte, cioè che gli stranieri si arricchissero delle spoglietolte all'Italia, e che poscia superbi delle usurpate ric-chezze ardissero ancor d'insultarla nella povertà a cuiessi l'avean condotta. Così troviamo presso il Mabillon(Ann. bened. t. 1, l. 17, n. 72), che Benedetto abate del

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Scarsezza di libri e di-struzione delle bi-blioteche.

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monastero di Wirmuth in Inghilterra morendo l'an. 689raccomandò a' suoi monaci, che avessero grande curadella copiosissima e sceltissima biblioteca che seco aveaportata da Roma, talchè i libri nè s'imbrattassero per ne-gligenza, nè si dissipassero. Alcuni tra le cagioni dellosmarrimento de' libri annoverano ancora il soverchio eincauto zelo, com'essi dicono, del pontef. s. Gregorio,da cui pretendono che un gran numero di essi fosse datoalle fiamme; ma noi ci riserbiamo a parlarne nel caposeguente, ove esamineremo tutto ciò che appartiene aquesto santo pontefice.

XIII. Non è dunque a stupire se grandescarsezza di libri si avesse in Roma e in tut-ta l'Italia. Egli è vero che i papi aveano co-minciato a raccoglier libri ad uso della lorchiesa, imitando, e forse ancor dandol'esempio ad altre chiese, delle quali pure

abbiamo altrove veduto che avean la loro biblioteca; egià abbiamo altrove osservato che Ilaro papa negli ulti-mi anni dell'impero occidentale due biblioteche avea po-ste nella basilica lateranense. A' tempi di s. Gregorio an-cora eravi la biblioteca della chiesa romana, benchè,come sembra, assai sfornita di libri. Eterio vescovo nelleGallie aveagli richiesta una copia delle Opere e dellaVita di s. Ireneo. Ma il santo pontefice gli risponde (l. 9,ep. 1) che, comunque egli avesse usata una gran diligen-za, non eragli venuto fatto di ritrovarle. Parimente Eulo-

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In quale stato fosse allora la bi-blioteca della chiesaromana.

monastero di Wirmuth in Inghilterra morendo l'an. 689raccomandò a' suoi monaci, che avessero grande curadella copiosissima e sceltissima biblioteca che seco aveaportata da Roma, talchè i libri nè s'imbrattassero per ne-gligenza, nè si dissipassero. Alcuni tra le cagioni dellosmarrimento de' libri annoverano ancora il soverchio eincauto zelo, com'essi dicono, del pontef. s. Gregorio,da cui pretendono che un gran numero di essi fosse datoalle fiamme; ma noi ci riserbiamo a parlarne nel caposeguente, ove esamineremo tutto ciò che appartiene aquesto santo pontefice.

XIII. Non è dunque a stupire se grandescarsezza di libri si avesse in Roma e in tut-ta l'Italia. Egli è vero che i papi aveano co-minciato a raccoglier libri ad uso della lorchiesa, imitando, e forse ancor dandol'esempio ad altre chiese, delle quali pure

abbiamo altrove veduto che avean la loro biblioteca; egià abbiamo altrove osservato che Ilaro papa negli ulti-mi anni dell'impero occidentale due biblioteche avea po-ste nella basilica lateranense. A' tempi di s. Gregorio an-cora eravi la biblioteca della chiesa romana, benchè,come sembra, assai sfornita di libri. Eterio vescovo nelleGallie aveagli richiesta una copia delle Opere e dellaVita di s. Ireneo. Ma il santo pontefice gli risponde (l. 9,ep. 1) che, comunque egli avesse usata una gran diligen-za, non eragli venuto fatto di ritrovarle. Parimente Eulo-

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In quale stato fosse allora la bi-blioteca della chiesaromana.

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gio d'Alessandria aveagli scritto, perchè gli inviasse unacopia degli Atti de' Martiri raccolti da Eusebio di Cesa-rea. A cui il santo risponde (l. 8, ep. 29) ch'ei non sapevache da Eusebio si fosse fatta tale raccolta e che, trattoneciò che delle geste de' Martiri avea quegli scritto in altresue Opere, null'altro vi avea nell'archivio della chiesaromana e nelle biblioteche di Roma, se non qualche pic-cola cosa raccolta in un sol volume. Dal qual passo noiraccogliamo che col nome di archivio chiamavasi allorala biblioteca della chiesa; e che oltre essa altre bibliote-che ancora erano in Roma, benchè non possiamo accer-tare quali esse fossero. Della biblioteca della chiesa ro-mana trovasi pur menzione due volte all'an. 649 pressoil card. Baronio, ma in tal maniera che ciò che in un luo-go si dice difficilmente si può conciliare con ciò che sidice nell'altro. Reca egli primieramente una lettera delpontef. s. Martino I, scritta a s. Amando vescovo di Tun-gres, nella quale si fa menzione di essa, ma insiem ci simostra ch'ella era allora assai mal provveduta (Ann.eccl. ad h. an.). Alcuni libri gli avea chiesti quel santovescovo, ma il papa gli scrive che la biblioteca erane al-lora quasi sfornita, nè gli era stato possibile il trovarnecopia per inviarglieli. Poscia sotto l'anno medesimo eiproduce un'antica e, quanto allo stile, del tutto barbararelazione del modo con cui eransi scoperti alcuni libride' Morali di s. Gregorio, che da Chindasvindo re delleSpagne allo stesso papa s. Martino erano stati richiesti.Si narra in essa che il papa scusavasi dall'inviarglieli, di-cendo che per la gran copia de' libri non era possibile di

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gio d'Alessandria aveagli scritto, perchè gli inviasse unacopia degli Atti de' Martiri raccolti da Eusebio di Cesa-rea. A cui il santo risponde (l. 8, ep. 29) ch'ei non sapevache da Eusebio si fosse fatta tale raccolta e che, trattoneciò che delle geste de' Martiri avea quegli scritto in altresue Opere, null'altro vi avea nell'archivio della chiesaromana e nelle biblioteche di Roma, se non qualche pic-cola cosa raccolta in un sol volume. Dal qual passo noiraccogliamo che col nome di archivio chiamavasi allorala biblioteca della chiesa; e che oltre essa altre bibliote-che ancora erano in Roma, benchè non possiamo accer-tare quali esse fossero. Della biblioteca della chiesa ro-mana trovasi pur menzione due volte all'an. 649 pressoil card. Baronio, ma in tal maniera che ciò che in un luo-go si dice difficilmente si può conciliare con ciò che sidice nell'altro. Reca egli primieramente una lettera delpontef. s. Martino I, scritta a s. Amando vescovo di Tun-gres, nella quale si fa menzione di essa, ma insiem ci simostra ch'ella era allora assai mal provveduta (Ann.eccl. ad h. an.). Alcuni libri gli avea chiesti quel santovescovo, ma il papa gli scrive che la biblioteca erane al-lora quasi sfornita, nè gli era stato possibile il trovarnecopia per inviarglieli. Poscia sotto l'anno medesimo eiproduce un'antica e, quanto allo stile, del tutto barbararelazione del modo con cui eransi scoperti alcuni libride' Morali di s. Gregorio, che da Chindasvindo re delleSpagne allo stesso papa s. Martino erano stati richiesti.Si narra in essa che il papa scusavasi dall'inviarglieli, di-cendo che per la gran copia de' libri non era possibile di

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ritrovarli; ma che Iddio con meravigliosa maniera gliscoprì ove essi fosser riposti. Abbiamo dunque nel me-desimo anno una lettera di s. Martino, in cui afferma cheassai pochi erano i libri della biblioteca romana, e unarelazione in cui si dice che il papa medesimo assicuravache essi eran moltissimi. Se questi due testimonj nonpossono conciliarsi insieme, io penso che ognuno crede-rà anzi alla lettera dello stesso santo pontefice, della cuisincerità niuno ha mai dubitato, che ad una relazione dicui non si sa nè l'autore nè il tempo. Assai più scarso an-cora dovea essere in Roma il numero de' libri nel secolosusseguente. Abbiamo una lettera di Paolo I al re Pipi-no, scritta l'an. 757 (Cenni Cod. Carolin. vol. 1, p. 148),in cui gli dà avviso che gli manda quanti libri ha potutoraccogliere: Direximus etiam Excellentiae vestrae etc.libros, quantos reperire potuimus. Chi non crederebbedi veder qui un ampio catalogo di libri che fossero undono degno di un papa che inviavalo, e di un re di Fran-cia a cui si mandava? E nondimeno ecco qual era sì grantesoro: Antiphonale et Responsale, insimul gramaticamAristotelis (libro non più veduto, ma forse invece diGramaticam dee leggersi Logicam, o Dialecticam),Dionysii Areopagitae libros, Geometriam, Orthogra-phiam, gramaticam, omnes graeco eloquio Scriptores. Atanto solo potè estendersi la pontificia munificenza. Co-munque sia, ne' passi soprallegati abbiamo un monu-mento sicuro di Pontificia biblioteca in questi tempi.Anzi troviamo ancora verso il fine del VI sec. nominatala carica di bibliotecario della chiesa romana; percioc-

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ritrovarli; ma che Iddio con meravigliosa maniera gliscoprì ove essi fosser riposti. Abbiamo dunque nel me-desimo anno una lettera di s. Martino, in cui afferma cheassai pochi erano i libri della biblioteca romana, e unarelazione in cui si dice che il papa medesimo assicuravache essi eran moltissimi. Se questi due testimonj nonpossono conciliarsi insieme, io penso che ognuno crede-rà anzi alla lettera dello stesso santo pontefice, della cuisincerità niuno ha mai dubitato, che ad una relazione dicui non si sa nè l'autore nè il tempo. Assai più scarso an-cora dovea essere in Roma il numero de' libri nel secolosusseguente. Abbiamo una lettera di Paolo I al re Pipi-no, scritta l'an. 757 (Cenni Cod. Carolin. vol. 1, p. 148),in cui gli dà avviso che gli manda quanti libri ha potutoraccogliere: Direximus etiam Excellentiae vestrae etc.libros, quantos reperire potuimus. Chi non crederebbedi veder qui un ampio catalogo di libri che fossero undono degno di un papa che inviavalo, e di un re di Fran-cia a cui si mandava? E nondimeno ecco qual era sì grantesoro: Antiphonale et Responsale, insimul gramaticamAristotelis (libro non più veduto, ma forse invece diGramaticam dee leggersi Logicam, o Dialecticam),Dionysii Areopagitae libros, Geometriam, Orthogra-phiam, gramaticam, omnes graeco eloquio Scriptores. Atanto solo potè estendersi la pontificia munificenza. Co-munque sia, ne' passi soprallegati abbiamo un monu-mento sicuro di Pontificia biblioteca in questi tempi.Anzi troviamo ancora verso il fine del VI sec. nominatala carica di bibliotecario della chiesa romana; percioc-

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chè nella diligentissima serie di que' che l'ottennero for-mata dagli eruditi prelati Stefano Evodio e GiuseppeAssemani, veggiam nominati con questo titolo, secondoil testimonio di antiche autentiche carte, Lorenzo pretecardinale l'an. 581, Giovanni Levita l'an. 595, ch'è forselo stesso che Giovanni vescovo d'Albano, il quale si no-mina all'an. 596, Pietro romano diacono cardinale, eAmando Vescovo (praef. ad Cat. Bibl. vatic. c. 4). Inol-tre Anastasio bibliotecario nella Vita di Gregorio II, ilquale salì al pontifcato l'an 715, e il tenne fino al 731,dice che a' tempi di papa Sergio, cioè dall'an. 687 fino al701 fu a lui affidata la cura della biblioteca: Sub Sergiopapa... bibliothecae illi est cura commissa (Script. rer.ital. t. 3, pars 1, p. 154). Finalmente nella sopraccitataserie veggiam onorati col medesimo titolo Giovannil'an. 698, e Benedetto vescovo di Salva Candida l'an.742. A me sembra probabile che questa biblioteca fosseallora contigua alla basilica vaticana, ove forse se n'erafatto il trasporto dalla lateranense in cui il pontef. Ilarol'avea riposta; perciocchè lo stesso Anastasio raccontache il pontef. Zaccheria che tenne il soglio pontificaledall'an. 741 fino al 752, fece nella suddetta basilica tra-sportare e disporre tutti i codici appartenenti a' DiviniUfficj, ch'egli avea nella paterna sua casa. Hic in Eccle-sia praedicti principis Apostolorum omnes codices do-mus suae proprios, qui in circulo anni leguntur ad ma-tutinos, in armarii opere ordinavit (ib. p. 136). E parmiperciò verisimile che questa basilica fosse da lui pre-scelta, perchè ivi già fosser raccolti anche gli altri libri

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chè nella diligentissima serie di que' che l'ottennero for-mata dagli eruditi prelati Stefano Evodio e GiuseppeAssemani, veggiam nominati con questo titolo, secondoil testimonio di antiche autentiche carte, Lorenzo pretecardinale l'an. 581, Giovanni Levita l'an. 595, ch'è forselo stesso che Giovanni vescovo d'Albano, il quale si no-mina all'an. 596, Pietro romano diacono cardinale, eAmando Vescovo (praef. ad Cat. Bibl. vatic. c. 4). Inol-tre Anastasio bibliotecario nella Vita di Gregorio II, ilquale salì al pontifcato l'an 715, e il tenne fino al 731,dice che a' tempi di papa Sergio, cioè dall'an. 687 fino al701 fu a lui affidata la cura della biblioteca: Sub Sergiopapa... bibliothecae illi est cura commissa (Script. rer.ital. t. 3, pars 1, p. 154). Finalmente nella sopraccitataserie veggiam onorati col medesimo titolo Giovannil'an. 698, e Benedetto vescovo di Salva Candida l'an.742. A me sembra probabile che questa biblioteca fosseallora contigua alla basilica vaticana, ove forse se n'erafatto il trasporto dalla lateranense in cui il pontef. Ilarol'avea riposta; perciocchè lo stesso Anastasio raccontache il pontef. Zaccheria che tenne il soglio pontificaledall'an. 741 fino al 752, fece nella suddetta basilica tra-sportare e disporre tutti i codici appartenenti a' DiviniUfficj, ch'egli avea nella paterna sua casa. Hic in Eccle-sia praedicti principis Apostolorum omnes codices do-mus suae proprios, qui in circulo anni leguntur ad ma-tutinos, in armarii opere ordinavit (ib. p. 136). E parmiperciò verisimile che questa basilica fosse da lui pre-scelta, perchè ivi già fosser raccolti anche gli altri libri

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che formavano la biblioteca della chiesa romana. Diquesta biblioteca fa pur menzione Anastasio nella Vitadi Adriano I, dicendo ch'egli comandò che gli Atti delsecondo Concilio Niceno fossero dall'original greco tra-slatati in latino, e riposti nella sacra biblioteca (ib. p.194). Altre donazioni di libri sacri veggiam fatte ancoraad altre chiese, come da Gregorio cardinale del titolo dis. Clemente, che a' tempi dello stesso pontef. Zaccheriadonò alla sua chiesa alcuni libri della S. Scrittura, di chesi fa menzione in una lapida antica pubblicata dal Mura-tori (Antiq. ital. t. 3, diss. 43, p. 839), ed altre a tempipiù tardi, di cui nelle seguenti epoche avremo a parlare.

XIV. Tutte queste biblioteche però doveanesser proporzionate alle circostanze de' tem-pi, cioè assai mal fornite di libri, e il sol ve-dere una lapida innalzata, come a splendidobenefattore, ad uno che altro finalmente non

avea donato che qualche codice della Sacra Scrittura, cidà a vedere qual fosse allor la penuria de' buoni libri. Laquale scarsezza congiunta alla mancanza delle pubbli-che scuole, ed alle altre calamità delle quali abbiam ra-gionato, condusse l'Italia a quella funesta ignoranza incui ella si giacque per lunghissimo tempo. Qual ella fos-se, si vedrà troppo chiaramente da ciò che dovrem direne' capi seguenti. Io chiuderò questo capo coll'accennaredue lettere scritte l'an. 680 all'imperadori greci Costanti-no, Eraclio e Tiberio, una dal pontef. Agatone, l'altra dal

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Generale ignoranza sparsa per tutta l'Italia.

che formavano la biblioteca della chiesa romana. Diquesta biblioteca fa pur menzione Anastasio nella Vitadi Adriano I, dicendo ch'egli comandò che gli Atti delsecondo Concilio Niceno fossero dall'original greco tra-slatati in latino, e riposti nella sacra biblioteca (ib. p.194). Altre donazioni di libri sacri veggiam fatte ancoraad altre chiese, come da Gregorio cardinale del titolo dis. Clemente, che a' tempi dello stesso pontef. Zaccheriadonò alla sua chiesa alcuni libri della S. Scrittura, di chesi fa menzione in una lapida antica pubblicata dal Mura-tori (Antiq. ital. t. 3, diss. 43, p. 839), ed altre a tempipiù tardi, di cui nelle seguenti epoche avremo a parlare.

XIV. Tutte queste biblioteche però doveanesser proporzionate alle circostanze de' tem-pi, cioè assai mal fornite di libri, e il sol ve-dere una lapida innalzata, come a splendidobenefattore, ad uno che altro finalmente non

avea donato che qualche codice della Sacra Scrittura, cidà a vedere qual fosse allor la penuria de' buoni libri. Laquale scarsezza congiunta alla mancanza delle pubbli-che scuole, ed alle altre calamità delle quali abbiam ra-gionato, condusse l'Italia a quella funesta ignoranza incui ella si giacque per lunghissimo tempo. Qual ella fos-se, si vedrà troppo chiaramente da ciò che dovrem direne' capi seguenti. Io chiuderò questo capo coll'accennaredue lettere scritte l'an. 680 all'imperadori greci Costanti-no, Eraclio e Tiberio, una dal pontef. Agatone, l'altra dal

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Generale ignoranza sparsa per tutta l'Italia.

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Concilio romano in occasione del sesto generale Conci-lio che in quell'anno medesimo fu celebrato. Nella pri-ma il pontefice scrive agli imperadori, ch'egli mandavaal Concilio i suoi Legati, uomini di probità e di zelo, eche alla mediocrità della loro scienza supplivano colconservare intatta e pura la tradizion de' maggiori: "per-ciocchè, dice egli, come mai è possibile che presso uo-mini circondati da ogni parte da' Barbari e che sono co-stretti a procacciarsi ogni giorno stentatamente il vitto,si trovi una perfetta cognizione della Sacra Scrittura, senon serbansi fedelmente le tradizioni de' Padri, e le dot-trine tramandateci dai nostri apostolici predecessori, eda' generali Concilj?" Più patetica ancor è la descrizioneche dell'infelice stato dell'Italia fanno nella lor lettera iPadri del Concilio romano: "Se vogliamo, dicono essi,aver riguardo alla profana eloquenza, noi crediamo che niu-no a' nostri tempi si possa vantare di essere in essa eccellen -te. Perciocchè il furore di più barbare nazioni agita e scon-volge di continuo queste provincie, or combattendole, orcorrendole e saccheggiandole. Quindi noi circondati da' Bar-bari meniamo una vita piena di sollecitudine e di stento, ecolla fatica delle nostre mani dobbiamo procacciarci il vitto,perciocchè i beni, co' quali si sosteneva la Chiesa, per lemolte calamità sono a poco a poco periti: la nostra fede è alpresente tutta la nostra sostanza, con cui ci è somma gloria ilvivere, e per cui ci è eterno guadagno il morire". Amenduequeste lettere si posson vedere presso il card. Baronio(Ann. eccl. ad an. 680.); e esse ci confermano semprepiù ciò che sopra abbiamo affermato della misera condi-

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Concilio romano in occasione del sesto generale Conci-lio che in quell'anno medesimo fu celebrato. Nella pri-ma il pontefice scrive agli imperadori, ch'egli mandavaal Concilio i suoi Legati, uomini di probità e di zelo, eche alla mediocrità della loro scienza supplivano colconservare intatta e pura la tradizion de' maggiori: "per-ciocchè, dice egli, come mai è possibile che presso uo-mini circondati da ogni parte da' Barbari e che sono co-stretti a procacciarsi ogni giorno stentatamente il vitto,si trovi una perfetta cognizione della Sacra Scrittura, senon serbansi fedelmente le tradizioni de' Padri, e le dot-trine tramandateci dai nostri apostolici predecessori, eda' generali Concilj?" Più patetica ancor è la descrizioneche dell'infelice stato dell'Italia fanno nella lor lettera iPadri del Concilio romano: "Se vogliamo, dicono essi,aver riguardo alla profana eloquenza, noi crediamo che niu-no a' nostri tempi si possa vantare di essere in essa eccellen -te. Perciocchè il furore di più barbare nazioni agita e scon-volge di continuo queste provincie, or combattendole, orcorrendole e saccheggiandole. Quindi noi circondati da' Bar-bari meniamo una vita piena di sollecitudine e di stento, ecolla fatica delle nostre mani dobbiamo procacciarci il vitto,perciocchè i beni, co' quali si sosteneva la Chiesa, per lemolte calamità sono a poco a poco periti: la nostra fede è alpresente tutta la nostra sostanza, con cui ci è somma gloria ilvivere, e per cui ci è eterno guadagno il morire". Amenduequeste lettere si posson vedere presso il card. Baronio(Ann. eccl. ad an. 680.); e esse ci confermano semprepiù ciò che sopra abbiamo affermato della misera condi-

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zione in cui trovavasi di questi giorni l'Italia, e del gra-vissimo danno che ne soffriron le lettere.

CAPO II.Studj sacri.

I. Le scuole destinate a istruire coloro chevolean essere arrolati nel clero, alcune, ben-chè rare e mal fornite, biblioteche che incerte chiese si conservavano, e singolar-mente la pietà e il zelo di molti vescovi nel

conservare intatta la Fede e le tradizioni da' maggiori ri-cevute, furon cagione che gli studj sacri non venisseroin questi infelicissimi tempi interamente dimenticati.Non più vedevansi, a dir vero, un Eusebio, un Ambro-gio, un Leone, uomini profondamente versati nellescienze d'ogni maniera, che a una vasta dottrina con-giungendo una grave e feconda eloquenza, fosser l'ora-colo de' Fedeli, e il terror degli Eretici. Ma eranvi ciònon ostante custodi incorrotti del sacro deposito dellareligione, che colla lettura de' santi libri e dell'opere de'primi Padri si fornivano di quelle armi che a combatterel'eresie erano necessarie, e di que' lumi che ad istruire ipopoli alla lor cura commessi erano più opportuni. Diquesti abbiam ora a ragionare partitamente. E innanzi atutti di quello che fu il solo, di questa età, il quale, quan-to il permettevan le circostanze de' tempi, potesse andardel paro co' Padri de' secoli trapassati, dico del pontef. s.

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Stato degli studj sacri; si entra a parlare di s. Gregorio.

zione in cui trovavasi di questi giorni l'Italia, e del gra-vissimo danno che ne soffriron le lettere.

CAPO II.Studj sacri.

I. Le scuole destinate a istruire coloro chevolean essere arrolati nel clero, alcune, ben-chè rare e mal fornite, biblioteche che incerte chiese si conservavano, e singolar-mente la pietà e il zelo di molti vescovi nel

conservare intatta la Fede e le tradizioni da' maggiori ri-cevute, furon cagione che gli studj sacri non venisseroin questi infelicissimi tempi interamente dimenticati.Non più vedevansi, a dir vero, un Eusebio, un Ambro-gio, un Leone, uomini profondamente versati nellescienze d'ogni maniera, che a una vasta dottrina con-giungendo una grave e feconda eloquenza, fosser l'ora-colo de' Fedeli, e il terror degli Eretici. Ma eranvi ciònon ostante custodi incorrotti del sacro deposito dellareligione, che colla lettura de' santi libri e dell'opere de'primi Padri si fornivano di quelle armi che a combatterel'eresie erano necessarie, e di que' lumi che ad istruire ipopoli alla lor cura commessi erano più opportuni. Diquesti abbiam ora a ragionare partitamente. E innanzi atutti di quello che fu il solo, di questa età, il quale, quan-to il permettevan le circostanze de' tempi, potesse andardel paro co' Padri de' secoli trapassati, dico del pontef. s.

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Stato degli studj sacri; si entra a parlare di s. Gregorio.

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Gregorio primo di questo nome, a cui alcuni vorrebbontogliere ora il soprannome di grande, che il consenso ditutte l'età gli ha conceduto. Gli scrittori della Storia Ec-clesiastica, e quelli da' quali particolarmente è statascritta la Vita, come il Maimbourg, e d. Dionigi di Sain-te Marthe, han già illustrato tutto ciò che appartiene allegloriose azioni di questo santo pontefice, e io però saròpago di accennarle, assai brevemente, anche perchè essenon appartengeno all'argomento di questa mia opera.Quindi più a lungo mi tratterrò sugli studi e sul sapere dilui, e sulla condotta da lui tenuta riguardo alle lettere,nel che alcuni per poco non cel dipingon peggiore de'medesimi Longobardi.

II. S. Gregorio nacque in Roma verso l'an.540 d'illustre e senatoria famiglia, ed ebbe apadre Gordiano. Giovanni diacono della chie-sa romana, che dopo la meta del sec. IX ne

scrisse la vita, in cui però ci assicura di "non aver narra-ta cosa che non si possa difendere coll'autorità di antichiscrittori", (in praef. ad Vit. Greg.), Giovanni, dico, rac-conta ch'egli in età giovanile attese agli studi con sì feli-ce successo, che sembrava uom maturo e provetto. Se-guì per alcun tempo la via de' pubblici onori, e l'an 571fu o prefetto, o, come sembra più probabile, pretor diRoma intorno a che veggasi il dottiss. p. Corsini (depraefectis Urb. p. 374). Mortogli poscia il padre, degliampj poderi ch'egli avea in Sicilia, fondò ivi sei mona-

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Epoche della suavita.

Gregorio primo di questo nome, a cui alcuni vorrebbontogliere ora il soprannome di grande, che il consenso ditutte l'età gli ha conceduto. Gli scrittori della Storia Ec-clesiastica, e quelli da' quali particolarmente è statascritta la Vita, come il Maimbourg, e d. Dionigi di Sain-te Marthe, han già illustrato tutto ciò che appartiene allegloriose azioni di questo santo pontefice, e io però saròpago di accennarle, assai brevemente, anche perchè essenon appartengeno all'argomento di questa mia opera.Quindi più a lungo mi tratterrò sugli studi e sul sapere dilui, e sulla condotta da lui tenuta riguardo alle lettere,nel che alcuni per poco non cel dipingon peggiore de'medesimi Longobardi.

II. S. Gregorio nacque in Roma verso l'an.540 d'illustre e senatoria famiglia, ed ebbe apadre Gordiano. Giovanni diacono della chie-sa romana, che dopo la meta del sec. IX ne

scrisse la vita, in cui però ci assicura di "non aver narra-ta cosa che non si possa difendere coll'autorità di antichiscrittori", (in praef. ad Vit. Greg.), Giovanni, dico, rac-conta ch'egli in età giovanile attese agli studi con sì feli-ce successo, che sembrava uom maturo e provetto. Se-guì per alcun tempo la via de' pubblici onori, e l'an 571fu o prefetto, o, come sembra più probabile, pretor diRoma intorno a che veggasi il dottiss. p. Corsini (depraefectis Urb. p. 374). Mortogli poscia il padre, degliampj poderi ch'egli avea in Sicilia, fondò ivi sei mona-

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Epoche della suavita.

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steri, e un altro fondonne in Roma nella paterna suacasa, in cui poscia entrò egli stesso l'an. 575. Ch'egli se-guisse e seguir facesse a' suoi monaci la Regola di s. Be-nedetto, parmi che il Mabillon l'abbia provato con sìchiari argomenti (Append. ad vol. 1 Ann. bened.), chenon rimanga più luogo a dubbio. Tratto dal suo mona-stero l'an. 582, e fatto diacono della chiesa romana, fumandato da Pelagio papa col titolo di apocrisiario ossiadi nuncio apostolico all'imp. Tiberio di Costantinopoli,ove abboccatosi col patriarca Eutichio il convinse, e ilfece ravveder dell'errore in cui egli era intorno alla ri-surrezion della carne. Quindi tornato a Roma e all'amatosuo monastero, mentre più dolcemente godeva del suotranquillo ritiro, ne fu tratto di nuovo, e non ostante lalunga e ferma sua resistenza sollevato alla sede romanadopo la morte del pontefice Pelagio l'an. 590. La carità,la dolcezza, la liberalità verso i poveri sembrarono assi-dersi con lui sul trono, e con lui divider le cure del vastoe faticoso governo. Basta legger le Lettere scritte dalsanto pontefice per ravvisare in lui un amabil pastore,anzi un tenero padre che di altra cosa non è sollecito chede' vantaggi degli amati suoi figli. Queste sono il più beltestimonio delle virtù di questo santo, che in esse senzavolerlo ci ha dipinto se stesso per tal maniera, che non cifa d'uopo di storici per riconoscere qual egli fosse. Lasollecitudine nel provveder le chiese di saggi e vigilantipastori; le premure per l'amministrazion de' beni dellasua chiesa, cui egli diceva perciò essergli conceduti per-chè li nascondesse nel sen de' poveri; le sagge leggi da

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steri, e un altro fondonne in Roma nella paterna suacasa, in cui poscia entrò egli stesso l'an. 575. Ch'egli se-guisse e seguir facesse a' suoi monaci la Regola di s. Be-nedetto, parmi che il Mabillon l'abbia provato con sìchiari argomenti (Append. ad vol. 1 Ann. bened.), chenon rimanga più luogo a dubbio. Tratto dal suo mona-stero l'an. 582, e fatto diacono della chiesa romana, fumandato da Pelagio papa col titolo di apocrisiario ossiadi nuncio apostolico all'imp. Tiberio di Costantinopoli,ove abboccatosi col patriarca Eutichio il convinse, e ilfece ravveder dell'errore in cui egli era intorno alla ri-surrezion della carne. Quindi tornato a Roma e all'amatosuo monastero, mentre più dolcemente godeva del suotranquillo ritiro, ne fu tratto di nuovo, e non ostante lalunga e ferma sua resistenza sollevato alla sede romanadopo la morte del pontefice Pelagio l'an. 590. La carità,la dolcezza, la liberalità verso i poveri sembrarono assi-dersi con lui sul trono, e con lui divider le cure del vastoe faticoso governo. Basta legger le Lettere scritte dalsanto pontefice per ravvisare in lui un amabil pastore,anzi un tenero padre che di altra cosa non è sollecito chede' vantaggi degli amati suoi figli. Queste sono il più beltestimonio delle virtù di questo santo, che in esse senzavolerlo ci ha dipinto se stesso per tal maniera, che non cifa d'uopo di storici per riconoscere qual egli fosse. Lasollecitudine nel provveder le chiese di saggi e vigilantipastori; le premure per l'amministrazion de' beni dellasua chiesa, cui egli diceva perciò essergli conceduti per-chè li nascondesse nel sen de' poveri; le sagge leggi da

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lui promulgate per la riformazion de' costumi; la spedi-zione di ministri apostolici nell'Inghilterra, e in altre an-cor infedeli provincie; la fermezza apostolica con cui sioppose così alle leggi dell'imp. Maurizio, quando ei cre-dette che contrarie fossero alla religione, come all'ambi-zione di Giovanni patriarca di Costantinopoli che usur-pavasi il titolo di patriarca universale; le fatiche e i tra-vagli da lui sostenuti per sollevare l'Italia dalle luttuosecalamità in cui trovavasi involta, e per calmare il furorede' Longobardi che la devastavano; il nuovo splendore elustro da lui aggiunto alla celebrazione de' Sacri Misteri,e la riforma del Canto Ecclesiastico da lui felicementeeseguita, le quali cose, checchè ne dicano i Protestanti,ci mostrano ch'egli era uom colto, e di animo grande, edi non ordinaria penetrazione; queste, io dico, e tante al-tre gloriose imprese del suo pontificato, ne han rendutoil nome immortale, e sempre ne renderan la memoriavenerabile e cara a tutti coloro che del vero merito sonsaggi ed imparziali conoscitori. Egli finì di vivere a' 12di marzo l'an. 604.

III. Le Opere che di lui ci sono rimaste,forman esse sole un grande elogio di que-sto santo pontefice. I libri morali sopraGiobbe furono il primo lavoro a cui si ac-cingesse, perciocchè egli li cominciò nel

suo soggiorno in Costantinopoli, e recolli poscia a com-pimento dividendoli in 35 libri; opera che sempre è stata

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Sue opere: apologia di esse, e singo-larmente dei Dialogi.

lui promulgate per la riformazion de' costumi; la spedi-zione di ministri apostolici nell'Inghilterra, e in altre an-cor infedeli provincie; la fermezza apostolica con cui sioppose così alle leggi dell'imp. Maurizio, quando ei cre-dette che contrarie fossero alla religione, come all'ambi-zione di Giovanni patriarca di Costantinopoli che usur-pavasi il titolo di patriarca universale; le fatiche e i tra-vagli da lui sostenuti per sollevare l'Italia dalle luttuosecalamità in cui trovavasi involta, e per calmare il furorede' Longobardi che la devastavano; il nuovo splendore elustro da lui aggiunto alla celebrazione de' Sacri Misteri,e la riforma del Canto Ecclesiastico da lui felicementeeseguita, le quali cose, checchè ne dicano i Protestanti,ci mostrano ch'egli era uom colto, e di animo grande, edi non ordinaria penetrazione; queste, io dico, e tante al-tre gloriose imprese del suo pontificato, ne han rendutoil nome immortale, e sempre ne renderan la memoriavenerabile e cara a tutti coloro che del vero merito sonsaggi ed imparziali conoscitori. Egli finì di vivere a' 12di marzo l'an. 604.

III. Le Opere che di lui ci sono rimaste,forman esse sole un grande elogio di que-sto santo pontefice. I libri morali sopraGiobbe furono il primo lavoro a cui si ac-cingesse, perciocchè egli li cominciò nel

suo soggiorno in Costantinopoli, e recolli poscia a com-pimento dividendoli in 35 libri; opera che sempre è stata

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Sue opere: apologia di esse, e singo-larmente dei Dialogi.

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considerata come una delle più utili e delle più istrutti-ve, in ciò che appartiene al costume, che di tutta l'anti-chità sacra ci sian rimaste. Appena fatto pontefice scris-se il Pastorale diviso in quattro libri, in cui ragiona de'doveri di un sacro pastore, e propone utilissimi avverti-menti, pe' quali fu quest'opera avuta in sì grande stima,che l'imp. Maurizio ne volle la copia e s. Anastasio pa-triarca d'Antiochia la traslatò in greco, di che il santopontefice molestamente si dolse (l. 10 ep. 22). Le Ome-lie su diversi passi degli Evangelj e sul profeta Ezechie-le furon da lui dette al popolo nel tempo del suo pontifi-cato, e così pure in quel tempo furono scritte le molteLettere che di lui ci sono rimaste divise in 12 libri. Dilui abbiam parimenti i 4 libri de' Dialogi sulla Vita e su'Miracoli di s. Benedetto e di altri santi. I Protestanti, ealcuni ancor tra' Cattolici, ne parlano come di un'operapiena di sogni e di puerili semplicità; nè manca ancorchi pensi di provvedere alla fama di s. Gregorio, negan-do contro il testimonio di tutta l'antichità, ch'egli ne siaautore. Io non entrerò a fare su questo punto una lungadissertazione, e mi basterà l'accennare il sentimento didue scrittori, antico l'uno, l'altro moderno, e tali amen-due che in questa parte ad ogni giusta ragione meritanfede. Fozio che non era certo uno spirito debole, e su-perstizioso, così ne ragiona (Bibl. cod. 252):"Quest'uomo ammirabile scrisse latinamente molti edassai utili libri, come le Omelie con cui spiegò al popoloil Vangelo. Innoltre in quattro Dialogi scrisse le Vite dicoloro che in Italia erano stati celebri per santità, ag-

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considerata come una delle più utili e delle più istrutti-ve, in ciò che appartiene al costume, che di tutta l'anti-chità sacra ci sian rimaste. Appena fatto pontefice scris-se il Pastorale diviso in quattro libri, in cui ragiona de'doveri di un sacro pastore, e propone utilissimi avverti-menti, pe' quali fu quest'opera avuta in sì grande stima,che l'imp. Maurizio ne volle la copia e s. Anastasio pa-triarca d'Antiochia la traslatò in greco, di che il santopontefice molestamente si dolse (l. 10 ep. 22). Le Ome-lie su diversi passi degli Evangelj e sul profeta Ezechie-le furon da lui dette al popolo nel tempo del suo pontifi-cato, e così pure in quel tempo furono scritte le molteLettere che di lui ci sono rimaste divise in 12 libri. Dilui abbiam parimenti i 4 libri de' Dialogi sulla Vita e su'Miracoli di s. Benedetto e di altri santi. I Protestanti, ealcuni ancor tra' Cattolici, ne parlano come di un'operapiena di sogni e di puerili semplicità; nè manca ancorchi pensi di provvedere alla fama di s. Gregorio, negan-do contro il testimonio di tutta l'antichità, ch'egli ne siaautore. Io non entrerò a fare su questo punto una lungadissertazione, e mi basterà l'accennare il sentimento didue scrittori, antico l'uno, l'altro moderno, e tali amen-due che in questa parte ad ogni giusta ragione meritanfede. Fozio che non era certo uno spirito debole, e su-perstizioso, così ne ragiona (Bibl. cod. 252):"Quest'uomo ammirabile scrisse latinamente molti edassai utili libri, come le Omelie con cui spiegò al popoloil Vangelo. Innoltre in quattro Dialogi scrisse le Vite dicoloro che in Italia erano stati celebri per santità, ag-

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giungendovi altre profittevoli narrazioni. Per centoses-santacinque anni furon privi del vantaggio di questi librique' soli che ignoravano la lingua latina. Zaccheria chedopo tale spazio di tempo gli succedette, recandoli inlingua greca stese a tutto il mondo questi utili libri chefinallora non erano usciti d'Italia. Nè solo i Dialogi, maaltri libri ancora degni d'esser letti, ei volle traslatare ingreco". L'altro è il celebre ab. Fleury, il cui testimonio,ove si tratta di lodi date a' romani pontefici, io penso chenon sembrerà sospetto ad alcuno. Egli dunque così parladei Dialogi di s. Gregorio (Hist. eccl. l. 35): "Io so chequest'opera di s. Gregorio è quella che i moderni criticihan ritrovata più degna della lor censura, e alcuni ancoradel loro disprezzo. Ma ciò che ho riferito, e ciò che po-scia riferirò delle azioni e de' sentimenti di questo santopontefice sembra che non ci permetta di sospettare in luinè debolezza di spirito nè artificio. In ogni parte se nevede l'umiltà, il candore, la buona fede, con una fermez-za grande e una consumata prudenza. Egli avea certo ri-volto più il suo talento alle riflessioni morali che allacondotta degli affari; e quindi non è a stupire s'egli haseguito il gusto del suo secolo di raccogliere e di narrarefatti maravigliosi. Per altra parte ei non avea a combat-ter filosofi che con ragioni oppugnasser la Fede. Non re-stavano altri idolatri, che contadini e servi rustici e sol-dati barbari che più facilmente convinceansi con fattimaravigliosi, che co' più forti sillogismi. S. Gregoriodunque ha creduto solo di non dover narrare se non que'fatti che credeva meglio provati, dopo aver prese le pre-

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giungendovi altre profittevoli narrazioni. Per centoses-santacinque anni furon privi del vantaggio di questi librique' soli che ignoravano la lingua latina. Zaccheria chedopo tale spazio di tempo gli succedette, recandoli inlingua greca stese a tutto il mondo questi utili libri chefinallora non erano usciti d'Italia. Nè solo i Dialogi, maaltri libri ancora degni d'esser letti, ei volle traslatare ingreco". L'altro è il celebre ab. Fleury, il cui testimonio,ove si tratta di lodi date a' romani pontefici, io penso chenon sembrerà sospetto ad alcuno. Egli dunque così parladei Dialogi di s. Gregorio (Hist. eccl. l. 35): "Io so chequest'opera di s. Gregorio è quella che i moderni criticihan ritrovata più degna della lor censura, e alcuni ancoradel loro disprezzo. Ma ciò che ho riferito, e ciò che po-scia riferirò delle azioni e de' sentimenti di questo santopontefice sembra che non ci permetta di sospettare in luinè debolezza di spirito nè artificio. In ogni parte se nevede l'umiltà, il candore, la buona fede, con una fermez-za grande e una consumata prudenza. Egli avea certo ri-volto più il suo talento alle riflessioni morali che allacondotta degli affari; e quindi non è a stupire s'egli haseguito il gusto del suo secolo di raccogliere e di narrarefatti maravigliosi. Per altra parte ei non avea a combat-ter filosofi che con ragioni oppugnasser la Fede. Non re-stavano altri idolatri, che contadini e servi rustici e sol-dati barbari che più facilmente convinceansi con fattimaravigliosi, che co' più forti sillogismi. S. Gregoriodunque ha creduto solo di non dover narrare se non que'fatti che credeva meglio provati, dopo aver prese le pre-

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cauzioni possibili per accertarsene; poichè la sua fede ela sua pietà non gli permettevan di dubitare dell'onnipo-tenza divina... Questi Dialogi subito furono ricevuti conapplauso maraviglioso, e sono sempre stati in gran pre-gio per otto, o nove secoli. S. Gregorio li mandò alla re-gina Teodelinda, e credesi ch'ella se ne valesse per laconversione de' Longobardi, i quali potean sapere la ve-rità della maggior parte de' miracoli che vi si narrano;essendo essi avvenuti in uomini della lor nazione chenon erano in Italia se non da trent'anni addietro. Zacche-ria papa tradusse in greco quest'opera circa centocin-quanta anni dopo; e piacque talmente a' Greci, che die-dero a s. Gregorio il soprannome di Dialogo. Verso ilfine dell'VIII sec. furon essi ancora tradotti in arabo".Più altre riflessioni si potrebbon qui fare a discolpar s.Gregorio dalla taccia di credulo e semplice, che moltigli danno. Ma il dott. p. Giangirolamo Gradenigo cher.regol., poi degnissimo arcivescovo di Udine, ha già cosìfelicemente trattato questo argomento nella bella apolo-gia di s. Gregorio contro le imposture e le villaniedell'apostata Casimiro Oudin (S. Greg. M. vindicatus c.4), che nulla ci rimane ad aggiugnere. Noi passeremoancora sotto silenzio le altre men celebri opere di s. Gre-gorio, e quelle che falsamente gli vengono attribuite, ri-mettendo chi brami averne contezza, a ciò che ne hannoscritto i dotti Maurini nella loro edizione delle Opere diquesto santo pontefice, e tutti gli scrittori di Ecclesiasti-che Biblioteche, e singolarmente il p. Ceillier, a' qualiperò vuolsi aggiugnere una dissertazione del sopralloda-

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cauzioni possibili per accertarsene; poichè la sua fede ela sua pietà non gli permettevan di dubitare dell'onnipo-tenza divina... Questi Dialogi subito furono ricevuti conapplauso maraviglioso, e sono sempre stati in gran pre-gio per otto, o nove secoli. S. Gregorio li mandò alla re-gina Teodelinda, e credesi ch'ella se ne valesse per laconversione de' Longobardi, i quali potean sapere la ve-rità della maggior parte de' miracoli che vi si narrano;essendo essi avvenuti in uomini della lor nazione chenon erano in Italia se non da trent'anni addietro. Zacche-ria papa tradusse in greco quest'opera circa centocin-quanta anni dopo; e piacque talmente a' Greci, che die-dero a s. Gregorio il soprannome di Dialogo. Verso ilfine dell'VIII sec. furon essi ancora tradotti in arabo".Più altre riflessioni si potrebbon qui fare a discolpar s.Gregorio dalla taccia di credulo e semplice, che moltigli danno. Ma il dott. p. Giangirolamo Gradenigo cher.regol., poi degnissimo arcivescovo di Udine, ha già cosìfelicemente trattato questo argomento nella bella apolo-gia di s. Gregorio contro le imposture e le villaniedell'apostata Casimiro Oudin (S. Greg. M. vindicatus c.4), che nulla ci rimane ad aggiugnere. Noi passeremoancora sotto silenzio le altre men celebri opere di s. Gre-gorio, e quelle che falsamente gli vengono attribuite, ri-mettendo chi brami averne contezza, a ciò che ne hannoscritto i dotti Maurini nella loro edizione delle Opere diquesto santo pontefice, e tutti gli scrittori di Ecclesiasti-che Biblioteche, e singolarmente il p. Ceillier, a' qualiperò vuolsi aggiugnere una dissertazione del sopralloda-

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to mons. Gradenigo da lui aggiunta alla mentovata apo-logia di s. Gegorio, in cui suggerisce l'idea di una nuovaedizione di queste Opere stesse, la quale, quando sia fe-licemente eseguita, supererà ancora in pregio quella de-gli eruditi Maurini.

IV. Ma la taccia d'uom credulo e semplicenon è la sola nè la più lieve tra quelle che daalcuni si appongono a questo sì rinomatopontefice. Essi cel rappresentano, dirò così,come l'Attila della letteratura, e cel dipingo-no quasi unicamente occupato nel far guerra

a' buoni studj e a' loro coltivatori. Se fosser vere le cosetutte che di lui ci raccontano, noi dovremmo mirarlocome il principale autore dell'ignoranza in cui fu involtal'Italia. Io debbo dunque entrare necessariamente all'esa-me di questo punto, ch'è troppo strettamente connessocolla Storia dell'Italiana Letteratura. E per procedere conbrevità insieme e con chiarezza, a quattro capi si possonridurre i letterarj delitti, per così dire, di cui s. Gregorioviene incolpato. I) di aver cacciati dalla sua corte i ma-tematici; II) di aver incendiata la biblioteca palatina; III)di aver disprezzato e vietato lo studio delle belle lettere;IV) di aver atterrati i più bei monumenti profani di cuiRoma era adorna. Moltissimi tra' moderni sono gli auto-ri che o di questi delitti, o di alcuni almeno il fanno reo,e molti ne ho letti io pure per assicurarmi di non omette-re alcuna delle pruove ch'essi ne adducono. Ma quegli

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Accuse chesi danno al santo pon-tefice ri-guardo alla letteratura.

to mons. Gradenigo da lui aggiunta alla mentovata apo-logia di s. Gegorio, in cui suggerisce l'idea di una nuovaedizione di queste Opere stesse, la quale, quando sia fe-licemente eseguita, supererà ancora in pregio quella de-gli eruditi Maurini.

IV. Ma la taccia d'uom credulo e semplicenon è la sola nè la più lieve tra quelle che daalcuni si appongono a questo sì rinomatopontefice. Essi cel rappresentano, dirò così,come l'Attila della letteratura, e cel dipingo-no quasi unicamente occupato nel far guerra

a' buoni studj e a' loro coltivatori. Se fosser vere le cosetutte che di lui ci raccontano, noi dovremmo mirarlocome il principale autore dell'ignoranza in cui fu involtal'Italia. Io debbo dunque entrare necessariamente all'esa-me di questo punto, ch'è troppo strettamente connessocolla Storia dell'Italiana Letteratura. E per procedere conbrevità insieme e con chiarezza, a quattro capi si possonridurre i letterarj delitti, per così dire, di cui s. Gregorioviene incolpato. I) di aver cacciati dalla sua corte i ma-tematici; II) di aver incendiata la biblioteca palatina; III)di aver disprezzato e vietato lo studio delle belle lettere;IV) di aver atterrati i più bei monumenti profani di cuiRoma era adorna. Moltissimi tra' moderni sono gli auto-ri che o di questi delitti, o di alcuni almeno il fanno reo,e molti ne ho letti io pure per assicurarmi di non omette-re alcuna delle pruove ch'essi ne adducono. Ma quegli

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Accuse chesi danno al santo pon-tefice ri-guardo alla letteratura.

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che più recentemente e più ampiamente di tutti ne hascritto, è il ch. Bruckero, il quale da ogni parte ha dili-gentemente raccolto ciò che a questa quistione appartie-ne, e ne ha trattato con forza e con calore assai maggioredegli altri. Quindi esaminando ciò solo che egli ne hascritto, noi senza fare una stucchevole enumerazion discrittori e di libri, esamineremo ciò che tutti gli altri au-tori ne hanno scritto; e se ci venga fatto di ribatter le ac-cuse ch'egli dà a questo pontefice, noi verremo a ribatterle accuse tutte che gli si danno da tutti gli altri scrittori.Ma prima di entrar nell'esame di ciascheduna delle pro-poste quistioni, ci convien riflettere alquanto sulla ma-niera che il Bruckero ha tenuta nello scrivere di un taleargomento.

V. Questo dottissimo ed esattissimo scrittorea cui siam debitori di una Storia della Filo-sofia la più copiosa, la più compita e la piùprofonda che siasi veduta ancora, fra gli al-tri pregi che lo adornano, ha quello ancoradi una saggia moderazione, per cui non se-gue comunemente il difetto di alcuni tra'

Protestanti, di scagliarsi con velenoso furore contro tuttociò che appartiene a' Cattolici. In questa occasione peròsembra ch'egli abbia dimenticata la lodevole e saggiasua imparzialità. Egli nella mentovata sua Storia aveagià prodotte almeno in parte le accuse contro di s. Gre-gorio, e aveane già parlato in maniera aspra ed ingiurio-

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Maniera poco lode-vole con cui il Bruc-kero ha trattato questa qui-stione.

che più recentemente e più ampiamente di tutti ne hascritto, è il ch. Bruckero, il quale da ogni parte ha dili-gentemente raccolto ciò che a questa quistione appartie-ne, e ne ha trattato con forza e con calore assai maggioredegli altri. Quindi esaminando ciò solo che egli ne hascritto, noi senza fare una stucchevole enumerazion discrittori e di libri, esamineremo ciò che tutti gli altri au-tori ne hanno scritto; e se ci venga fatto di ribatter le ac-cuse ch'egli dà a questo pontefice, noi verremo a ribatterle accuse tutte che gli si danno da tutti gli altri scrittori.Ma prima di entrar nell'esame di ciascheduna delle pro-poste quistioni, ci convien riflettere alquanto sulla ma-niera che il Bruckero ha tenuta nello scrivere di un taleargomento.

V. Questo dottissimo ed esattissimo scrittorea cui siam debitori di una Storia della Filo-sofia la più copiosa, la più compita e la piùprofonda che siasi veduta ancora, fra gli al-tri pregi che lo adornano, ha quello ancoradi una saggia moderazione, per cui non se-gue comunemente il difetto di alcuni tra'

Protestanti, di scagliarsi con velenoso furore contro tuttociò che appartiene a' Cattolici. In questa occasione peròsembra ch'egli abbia dimenticata la lodevole e saggiasua imparzialità. Egli nella mentovata sua Storia aveagià prodotte almeno in parte le accuse contro di s. Gre-gorio, e aveane già parlato in maniera aspra ed ingiurio-

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Maniera poco lode-vole con cui il Bruc-kero ha trattato questa qui-stione.

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sa alquanto, chiamandolo "uom mosso più dalla super-stizione e da un importuno zelo, che da sagge ragioni(Hist. crit. Philos. t. 3, p. 560); uomo che in ogni occa-sione, e ne' Dialogi singolarmente, fa vedere la sua su-perstizione e la povertà del suo giudizio (ib. p. 562);uomo che avea una grande opinione di se medesimo(ib.)"; e parlando de' Morali su Giobbe così ne dice:"Come Gregorio privo affatto de' principj della filosofiaa niuna cosa era meno opportuno che a scrivere insegna-menti morali, così convien confessare che in questi librinulla egli ha scritto, onde la filosofia e la teologia mora-le possa ricevere alcun vantaggio (ib. p. 563)". Questinon son certo i più piacevoli complimenti. E nondimenopotrebbon sembrar tali in confronto di ciò che posciaegli ne ha scritto. Nell'Appendice alla stessa sua Storiaei torna a ribattere il chiodo, e dice che "questo altrobuon vescovo non ebbe dalla natura acutezza, o forza al-cuna d'ingegno, e che non seppe l'arte di ben ragionare(App. p. 558)". Ma mentre egli così scriveva, vennerglialle mani due libri contro di lui pubblicati in difesa di s.Gregorio, uno da un monaco di Frisinga dell'Ordine diS. Benedetto, l'altro dall'anonimo francese autore dellaStoria dell'Ecclettismo, da noi pure in altro luogo men-tovato. Quindi egli pensò di dover nuovamente entrarein battaglia, e con una lunghissima, e, mi sia lecito ildirlo, noiosissima digressione di ben quaranta pagine(ib. a p. 633 ad p. 672), prese a combattere le ragioni daessi allegate, e a svolgere e confermare e cento volte ri-petere le cose che avea già scritte, e il giudicio che della

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sa alquanto, chiamandolo "uom mosso più dalla super-stizione e da un importuno zelo, che da sagge ragioni(Hist. crit. Philos. t. 3, p. 560); uomo che in ogni occa-sione, e ne' Dialogi singolarmente, fa vedere la sua su-perstizione e la povertà del suo giudizio (ib. p. 562);uomo che avea una grande opinione di se medesimo(ib.)"; e parlando de' Morali su Giobbe così ne dice:"Come Gregorio privo affatto de' principj della filosofiaa niuna cosa era meno opportuno che a scrivere insegna-menti morali, così convien confessare che in questi librinulla egli ha scritto, onde la filosofia e la teologia mora-le possa ricevere alcun vantaggio (ib. p. 563)". Questinon son certo i più piacevoli complimenti. E nondimenopotrebbon sembrar tali in confronto di ciò che posciaegli ne ha scritto. Nell'Appendice alla stessa sua Storiaei torna a ribattere il chiodo, e dice che "questo altrobuon vescovo non ebbe dalla natura acutezza, o forza al-cuna d'ingegno, e che non seppe l'arte di ben ragionare(App. p. 558)". Ma mentre egli così scriveva, vennerglialle mani due libri contro di lui pubblicati in difesa di s.Gregorio, uno da un monaco di Frisinga dell'Ordine diS. Benedetto, l'altro dall'anonimo francese autore dellaStoria dell'Ecclettismo, da noi pure in altro luogo men-tovato. Quindi egli pensò di dover nuovamente entrarein battaglia, e con una lunghissima, e, mi sia lecito ildirlo, noiosissima digressione di ben quaranta pagine(ib. a p. 633 ad p. 672), prese a combattere le ragioni daessi allegate, e a svolgere e confermare e cento volte ri-petere le cose che avea già scritte, e il giudicio che della

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superstizione, dell'ignoranza, del poco discernimento diquesto pontefice avea già dato. Io penso che pochi sitroveranno che abbian avuta la sofferenza di leggere tut-to un sì lungo tratto. Io a grande stento ho ottenuto dame medesimo di sostenerne la lettura; ma ben guarde-rommi dall'imitarne l'esempio, e mi lusingo, che in po-che pagine, e senza gran noja de' miei lettori, potrò con-durli a conoscere da qual parte stia la verità e la ragione.

VI. La prima accusa dunque che si dà a s.Gregorio, sì è ch'egli movesse guerra allematematiche scienze. Qual pruova se nearreca? Il detto di Giovanni di Sarisbery,cioè di uno scrittore che visse non cinquesoli, come dice il Bruckero (App. p. 654),ma sei quasi interi secoli dopo s. Grego-rio, perciocchè questi morì l'an. 604, e

Giovanni l'anno 1180. Ma io non voglio ancora rivocarin dubbio l'autorità di questo scrittore. Sia egli pure de-gno di fede. Che ne dice egli mai? Doctor sanctissimusille Gregorius ... mathesin, jussit ab aula recedere (Po-lycr. l. 2, c. 26). Egli afferma che s. Gregorio cacciò dal-la sua corte la matematica. Egli è il solo che lo affermi;niun altro antico scrittore ci ha di ciò lasciato memoria.Al più dunque crederem vero ciò che Giovanni asseri-sce, cioè ch'egli non volle soffrire in corte i matematici.Ch'egli facesse divieto a' Cristiani di coltivar tali scien-ze; ch'egli infamasse e punisse i loro coltivatori, Gio-

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Si esamina se s. Gregorio preservasse la matematica, e si mostra che ciò dee inten-dersi solo dell'astrologiagiudiciaria.

superstizione, dell'ignoranza, del poco discernimento diquesto pontefice avea già dato. Io penso che pochi sitroveranno che abbian avuta la sofferenza di leggere tut-to un sì lungo tratto. Io a grande stento ho ottenuto dame medesimo di sostenerne la lettura; ma ben guarde-rommi dall'imitarne l'esempio, e mi lusingo, che in po-che pagine, e senza gran noja de' miei lettori, potrò con-durli a conoscere da qual parte stia la verità e la ragione.

VI. La prima accusa dunque che si dà a s.Gregorio, sì è ch'egli movesse guerra allematematiche scienze. Qual pruova se nearreca? Il detto di Giovanni di Sarisbery,cioè di uno scrittore che visse non cinquesoli, come dice il Bruckero (App. p. 654),ma sei quasi interi secoli dopo s. Grego-rio, perciocchè questi morì l'an. 604, e

Giovanni l'anno 1180. Ma io non voglio ancora rivocarin dubbio l'autorità di questo scrittore. Sia egli pure de-gno di fede. Che ne dice egli mai? Doctor sanctissimusille Gregorius ... mathesin, jussit ab aula recedere (Po-lycr. l. 2, c. 26). Egli afferma che s. Gregorio cacciò dal-la sua corte la matematica. Egli è il solo che lo affermi;niun altro antico scrittore ci ha di ciò lasciato memoria.Al più dunque crederem vero ciò che Giovanni asseri-sce, cioè ch'egli non volle soffrire in corte i matematici.Ch'egli facesse divieto a' Cristiani di coltivar tali scien-ze; ch'egli infamasse e punisse i loro coltivatori, Gio-

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Si esamina se s. Gregorio preservasse la matematica, e si mostra che ciò dee inten-dersi solo dell'astrologiagiudiciaria.

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vanni nol dice, nè il dice alcun altro scrittore. Solo sidice che gli allontanò dalla corte. E dovrebbesi egli per-ciò rappresentar s. Gregorio, come ha fatto il Bruckero(Hist. crit. t. 3, p. 560, 561, 561), qual implacabil nemi-co della filosofia e della matematica, e che a questescienze imprimesse una macchia d'infamia, per cui i li-bri ad esse appartenenti si gittassero alle fiamme da' Cri-stiani? Ma questo è poco. Qual è mai questa matematicache s. Gregorio prese a perseguitare cotanto? Rechiamtutto il passo sopraccennato, in cui Giovanni di Sarisbe-ry ragiona di questo esilio che fu dato dalla corte delpapa a una tale scienza. Egli parla a questo luogo e con-futa e deride l'astrologia giudiciaria; e dopo aver recateragioni ed autorità a combatterla, così prosiegue: Adhaec doctor sanctissimus ille Gregorius qui melleopraedicationis imbre totam rigavit et inebriavit Ecele-siam, non modo mathesin jussit ab aula recedere, sed,ut traditur a majoribus, incendio dedit probatae lectio-nis,

Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo,

in quibus erant praecipua, quae coelestium mentem etsuperiorum oracula videbantur hominibus revelare. Aprovar dunque illecita l'astrologia giudiciaria reca Gio-vanni il bando che dalla sua corte le diè s. Gregorio, e ildare alle fiamme che ei fece i libri della biblioteca pala-tina (di che ragioneremo fra poco), perciocchè in essicontenevansi oracoli e predizioni di tal natura. Or non èegli evidente che l'astrologia giudiciaria è la sola mate-

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vanni nol dice, nè il dice alcun altro scrittore. Solo sidice che gli allontanò dalla corte. E dovrebbesi egli per-ciò rappresentar s. Gregorio, come ha fatto il Bruckero(Hist. crit. t. 3, p. 560, 561, 561), qual implacabil nemi-co della filosofia e della matematica, e che a questescienze imprimesse una macchia d'infamia, per cui i li-bri ad esse appartenenti si gittassero alle fiamme da' Cri-stiani? Ma questo è poco. Qual è mai questa matematicache s. Gregorio prese a perseguitare cotanto? Rechiamtutto il passo sopraccennato, in cui Giovanni di Sarisbe-ry ragiona di questo esilio che fu dato dalla corte delpapa a una tale scienza. Egli parla a questo luogo e con-futa e deride l'astrologia giudiciaria; e dopo aver recateragioni ed autorità a combatterla, così prosiegue: Adhaec doctor sanctissimus ille Gregorius qui melleopraedicationis imbre totam rigavit et inebriavit Ecele-siam, non modo mathesin jussit ab aula recedere, sed,ut traditur a majoribus, incendio dedit probatae lectio-nis,

Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo,

in quibus erant praecipua, quae coelestium mentem etsuperiorum oracula videbantur hominibus revelare. Aprovar dunque illecita l'astrologia giudiciaria reca Gio-vanni il bando che dalla sua corte le diè s. Gregorio, e ildare alle fiamme che ei fece i libri della biblioteca pala-tina (di che ragioneremo fra poco), perciocchè in essicontenevansi oracoli e predizioni di tal natura. Or non èegli evidente che l'astrologia giudiciaria è la sola mate-

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matica da s. Gregorio perseguitata? E il Bruckero, uomosì dotto nella storia della filosofia, non sapeva egli forseche ne' secoli antichi col nome di matematici chiama-vansi comunemente gli astrologi? Non solo egli il sape-va, ma ove prende a parlare di s. Gregorio (ib. p. 459)pruova egli stesso che tale appunto era a quei tempi ilcostume ordinario. Or qual maniera di argomentare èquesta mai? Il nome di matematici si dava anticamenteagli astrologi: il confessa lo stesso Bruckero. S. Grego-rio cacciò dalla corte i matematici: questo è ciò solo chedi lui si racconta su questo proposito. Dunque, ecco unaconseguenza affatto inaspettata, dunque non sol gliastrologi, ma i veri matematici e i saggi filosofi furon das. Gregorio cacciati e perseguitati. E più leggiadro si èche il Bruckero afferma che dalle parole stesse di Gio-vanni di Sarisbery ciò raccogliesi chiaramente: "Ut haudobscure ex Sarisberiensis verbis colligitur, ad plerasquedisciplinas mathematicas hanc censuram ecclesiasticam,superstitione magis et immaturo adversus eruditionem agentilibus philosophis traditam zelo ductus, quam ratio-nibus prudentibus instigatus, extendit (ib. p. 560)". Qua-li siano le parole di Giovanni di Sarisbery, quale il sensodella parola mathesis, si è di sopra veduto col sentimen-to ancora dello stesso Bruckero. Come dalle stesse paro-le non oscuramente si cavi che il santo pontefice a qua-si tutte le scienze matematiche dichiarasse guerra, noinon abbiamo ingegno sì penetrante a comprenderlo, edesideriamo di avere su questo fatto nuovi lumi chec'istruiscano meglio.

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matica da s. Gregorio perseguitata? E il Bruckero, uomosì dotto nella storia della filosofia, non sapeva egli forseche ne' secoli antichi col nome di matematici chiama-vansi comunemente gli astrologi? Non solo egli il sape-va, ma ove prende a parlare di s. Gregorio (ib. p. 459)pruova egli stesso che tale appunto era a quei tempi ilcostume ordinario. Or qual maniera di argomentare èquesta mai? Il nome di matematici si dava anticamenteagli astrologi: il confessa lo stesso Bruckero. S. Grego-rio cacciò dalla corte i matematici: questo è ciò solo chedi lui si racconta su questo proposito. Dunque, ecco unaconseguenza affatto inaspettata, dunque non sol gliastrologi, ma i veri matematici e i saggi filosofi furon das. Gregorio cacciati e perseguitati. E più leggiadro si èche il Bruckero afferma che dalle parole stesse di Gio-vanni di Sarisbery ciò raccogliesi chiaramente: "Ut haudobscure ex Sarisberiensis verbis colligitur, ad plerasquedisciplinas mathematicas hanc censuram ecclesiasticam,superstitione magis et immaturo adversus eruditionem agentilibus philosophis traditam zelo ductus, quam ratio-nibus prudentibus instigatus, extendit (ib. p. 560)". Qua-li siano le parole di Giovanni di Sarisbery, quale il sensodella parola mathesis, si è di sopra veduto col sentimen-to ancora dello stesso Bruckero. Come dalle stesse paro-le non oscuramente si cavi che il santo pontefice a qua-si tutte le scienze matematiche dichiarasse guerra, noinon abbiamo ingegno sì penetrante a comprenderlo, edesideriamo di avere su questo fatto nuovi lumi chec'istruiscano meglio.

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VII. Veggiamo ora se sia meglio fondatala seconda accusa che si dà a s. Gregorio,cioè di avere incendiata la biblioteca pala-tina, ossia quella che abbiam vedutaall'inizio di questa Storia a pubblica utilitàaperta in Roma da Augusto sul colle Pala-tino. Anche di questo fatto l'unico testimo-nio che ci rimanga, si è il mentovato Gio-vanni di Sarisbery. Noi già abbiam di so-

pra recato il passo in cui egli il narra; ut traditur a ma-joribus, incendio dedit probatae lectionis,

Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo,

in quibus erant praecipua, quae coelestium mentem etsuperiorum oracula videbantur hominibus revelare. Ein altro luogo ancora rammenta il medesimo autore untal fatto; perciocchè dopo aver narrato che a' tempidell'imp. Commodo un fulmine caduto sul Campidoglioarse quel tempio e l'annessa biblioteca, così soggiugne(l. 8, c. 9): "Fertur tamen beatus Gregorius bibliothecamcombussisse gentilem, quo divinae paginae gratior essetlocus, et major auctoritas, et diligentia studiosior. Sedhaec sibi nequaquam obviant, cum diversis temporibuspotuerint accidisse". Ecco l'unico fondamento a cui siappoggia questa accusa. Io non risponderò qui come hafatto il dotto autor francese della Storia dell'Ecclettismo(t. 1, p. 305), che la palatina biblioteca era probabilmen-te per le passate calamità già da lungo tempo dispersa eperduta, e che, ancorchè ella si fosse fin allor conserva-

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Si cerca s'eglifacesse incen-diare la bi-blioteca pala-tina, e si mo-stra che non basta a pro-varlo l'autori-tà del Sarisbe-riense.

VII. Veggiamo ora se sia meglio fondatala seconda accusa che si dà a s. Gregorio,cioè di avere incendiata la biblioteca pala-tina, ossia quella che abbiam vedutaall'inizio di questa Storia a pubblica utilitàaperta in Roma da Augusto sul colle Pala-tino. Anche di questo fatto l'unico testimo-nio che ci rimanga, si è il mentovato Gio-vanni di Sarisbery. Noi già abbiam di so-

pra recato il passo in cui egli il narra; ut traditur a ma-joribus, incendio dedit probatae lectionis,

Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo,

in quibus erant praecipua, quae coelestium mentem etsuperiorum oracula videbantur hominibus revelare. Ein altro luogo ancora rammenta il medesimo autore untal fatto; perciocchè dopo aver narrato che a' tempidell'imp. Commodo un fulmine caduto sul Campidoglioarse quel tempio e l'annessa biblioteca, così soggiugne(l. 8, c. 9): "Fertur tamen beatus Gregorius bibliothecamcombussisse gentilem, quo divinae paginae gratior essetlocus, et major auctoritas, et diligentia studiosior. Sedhaec sibi nequaquam obviant, cum diversis temporibuspotuerint accidisse". Ecco l'unico fondamento a cui siappoggia questa accusa. Io non risponderò qui come hafatto il dotto autor francese della Storia dell'Ecclettismo(t. 1, p. 305), che la palatina biblioteca era probabilmen-te per le passate calamità già da lungo tempo dispersa eperduta, e che, ancorchè ella si fosse fin allor conserva-

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Si cerca s'eglifacesse incen-diare la bi-blioteca pala-tina, e si mo-stra che non basta a pro-varlo l'autori-tà del Sarisbe-riense.

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ta, non è probabile un tal racconto, poichè s. Gregorio,non essendo padron di Roma, non aveva autorità baste-vole a comandare un tal incendio. Abbiam veduto chealcune biblioteche erano ancora in Roma: e benchè a meancora sembri improbabile che la palatina ancor sussi-stesse, ch'essa fosse perita nondimeno non si può provarcon certezza. Innoltre s. Gregorio essendo pontefice po-teva credersi autorizzato a togliere dalle mani de' suoifedeli i libri degl'Idolatri, da cui potesse temere dannoalla lor fede. Nemmeno risponderò, come ha fatto l'eru-dito p. Caraffa (Hist. Gymn. rom. t. 1, p. 104), che s.Gregorio desse alle fiamme soltanto i libri superstiziosie astrologici. Le parole allegate troppo chiaramente di-notano tutta la biblioteca e tutti i libri degl'Idolatri:Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo. FerturGregorius bibliothecam combussisse gentilem. Ma qui èluogo opportuno a cercare ciò di che sopra non ho volu-to far quistione, se il testimonio di Giovanni di Sarisbe-ry sia tale che meriti fede. Chi è egli questo scrittore?Egli è in primo luogo lontano sei quasi interi secoli,come si è detto, da s. Gregorio. Or alcuni de' valorosicritici de' nostri giorni tengono una condotta, per verodire, assai leggiadra. Essi vogliono che ogni cosa si pro-vi coll'autorità di scrittori contemporanei, o assai vicinia' tempi di cui si ragiona. E se veggono un fatto anticonarrarsi da un moderno scrittore senza recarne in pruovaalcun autorevole monumento, essi o il rigettano comefalsa, o almeno il ripongono tra' dubbiosi; ed io ancorason dello stesso parere, e mi lusingo di averlo finor se-

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ta, non è probabile un tal racconto, poichè s. Gregorio,non essendo padron di Roma, non aveva autorità baste-vole a comandare un tal incendio. Abbiam veduto chealcune biblioteche erano ancora in Roma: e benchè a meancora sembri improbabile che la palatina ancor sussi-stesse, ch'essa fosse perita nondimeno non si può provarcon certezza. Innoltre s. Gregorio essendo pontefice po-teva credersi autorizzato a togliere dalle mani de' suoifedeli i libri degl'Idolatri, da cui potesse temere dannoalla lor fede. Nemmeno risponderò, come ha fatto l'eru-dito p. Caraffa (Hist. Gymn. rom. t. 1, p. 104), che s.Gregorio desse alle fiamme soltanto i libri superstiziosie astrologici. Le parole allegate troppo chiaramente di-notano tutta la biblioteca e tutti i libri degl'Idolatri:Scripta Palatinus quaecumque tenebat Apollo. FerturGregorius bibliothecam combussisse gentilem. Ma qui èluogo opportuno a cercare ciò di che sopra non ho volu-to far quistione, se il testimonio di Giovanni di Sarisbe-ry sia tale che meriti fede. Chi è egli questo scrittore?Egli è in primo luogo lontano sei quasi interi secoli,come si è detto, da s. Gregorio. Or alcuni de' valorosicritici de' nostri giorni tengono una condotta, per verodire, assai leggiadra. Essi vogliono che ogni cosa si pro-vi coll'autorità di scrittori contemporanei, o assai vicinia' tempi di cui si ragiona. E se veggono un fatto anticonarrarsi da un moderno scrittore senza recarne in pruovaalcun autorevole monumento, essi o il rigettano comefalsa, o almeno il ripongono tra' dubbiosi; ed io ancorason dello stesso parere, e mi lusingo di averlo finor se-

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guito nel corso di questa Storia. Ma perchè non sonoessi coerenti a se medesimi? Perchè ove si tratti di unfatto che per qualche motivo essi bramino persuadere,basta loro qualunque testimonianza di autore benchèlontanissimo? Se Giovanni di Sarisbery ci narrasse talcosa che tornasse in onore di s. Gregorio, ciò bastereb-be, perchè si gridasse ad alta voce ch'ei non merita fede.Ma ei narra tal cosa che giova a mostrarlo fanatico edignorante: dunque egli è uno storico critico e veritiero acui possiamo affidarci. A me piace di esser costante; equindi, come altre volte ho creduto dubbioso alcun fattoche vedesi narrato solo da troppo tardo scrittore, cosìqui ancora io non veggo bastevol motivo a credere veroil racconto di Giovanni di Sarisbery. Giovanni diaconoche ha scritto sì lungamente la Vita di questo pontefice,e che non avrebbe dissimulato un tal fatto, poichè eil'avrebbe creduto degno di lode, non ne fa motto. Niunaltro scrittore per lo spazio di quasi sei secoli ci ha la-sciato alcun cenno di biblioteca incendiata da s. Grego-rio. Dopo si lungo spazio di tempo uno scrittore inglesece lo racconta senza addurcene pruova. Perchè dobbia-mo noi credergli sì facilmente?

VIII. Ma qui appunto ci attendeva il Bruc-kero. No, dice egli, Giovanni non asserisceun tal fatto senza le giuste pruove (App. p.659, ec.). Egli dice che ciò narrasi da' mag-giori: ut traditur a majoribus. Era dunque

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Pruove del-la credulità e mancanzadi critica di questo scrittore.

guito nel corso di questa Storia. Ma perchè non sonoessi coerenti a se medesimi? Perchè ove si tratti di unfatto che per qualche motivo essi bramino persuadere,basta loro qualunque testimonianza di autore benchèlontanissimo? Se Giovanni di Sarisbery ci narrasse talcosa che tornasse in onore di s. Gregorio, ciò bastereb-be, perchè si gridasse ad alta voce ch'ei non merita fede.Ma ei narra tal cosa che giova a mostrarlo fanatico edignorante: dunque egli è uno storico critico e veritiero acui possiamo affidarci. A me piace di esser costante; equindi, come altre volte ho creduto dubbioso alcun fattoche vedesi narrato solo da troppo tardo scrittore, cosìqui ancora io non veggo bastevol motivo a credere veroil racconto di Giovanni di Sarisbery. Giovanni diaconoche ha scritto sì lungamente la Vita di questo pontefice,e che non avrebbe dissimulato un tal fatto, poichè eil'avrebbe creduto degno di lode, non ne fa motto. Niunaltro scrittore per lo spazio di quasi sei secoli ci ha la-sciato alcun cenno di biblioteca incendiata da s. Grego-rio. Dopo si lungo spazio di tempo uno scrittore inglesece lo racconta senza addurcene pruova. Perchè dobbia-mo noi credergli sì facilmente?

VIII. Ma qui appunto ci attendeva il Bruc-kero. No, dice egli, Giovanni non asserisceun tal fatto senza le giuste pruove (App. p.659, ec.). Egli dice che ciò narrasi da' mag-giori: ut traditur a majoribus. Era dunque

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Pruove del-la credulità e mancanzadi critica di questo scrittore.

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questa una perpetua tradizione di cui niun dubitava; eraprobabilmente scritta in più libri che or non abbiamo.Un uom sì saggio e sì dotto, come era Giovanni di Sari-sbery, non avrebbela senza fondamento asserita. Cosìcontinua assai lungamente il Bruckero a dimostrare,come ei si lusinga, che il racconto di questo scrittore èdegnissimo d'ogni fede. Ma che sarebbe s'io costringessilo stesso erudito Bruckero a recarne un ben diverso giu-dizio? Se io a lui stesso chiedessi s'ei creda vero che s.Gregorio liberasse dall'inferno l'anima di Traiano, eicerto si riderebbe di tal dimanda, e forse si sdegnerebbemeco, perchè ardissi pure di fargliela. E se io soggiu-gnessi che ciò si narra da un autore del XII secolo, eglireplicherebbe che appunto in que' secoli d'ignoranzanacquero cotali favole; che uno scrittore il quale seria-mente racconti tal cosa, non può essere che un uomo dispirito debole, superstizioso, ignorante che basta avereun poco di senno per conoscere la sciocchezza di sì fa-voloso racconto. Tutto ciò ei direbbe, come di fatto sidice da ogni saggio e giudizioso scrittore. Or bene. Ilsuo Giovanni di Sarisbery, quell'uomo, come egli dice"dotto sopra il genio del suo secolo (ib.), quello scrittorfamosissimo che ottenne sì grande stima e nella chiesa enell'università di Parigi (ib. p. 660), quell'uomo ne' cuiscritti non manca una critica giudiziosa, e che da dottis-simi uomini è celebrato con grandissime lodi, e antipo-sto a tutti gli altri scrittori dell'età sua (ib. p. 664),quell'uomo che ben istruito nella dialettica non fu già dicosì incolto ingegno che volesse piuttosto a imitazion di

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questa una perpetua tradizione di cui niun dubitava; eraprobabilmente scritta in più libri che or non abbiamo.Un uom sì saggio e sì dotto, come era Giovanni di Sari-sbery, non avrebbela senza fondamento asserita. Cosìcontinua assai lungamente il Bruckero a dimostrare,come ei si lusinga, che il racconto di questo scrittore èdegnissimo d'ogni fede. Ma che sarebbe s'io costringessilo stesso erudito Bruckero a recarne un ben diverso giu-dizio? Se io a lui stesso chiedessi s'ei creda vero che s.Gregorio liberasse dall'inferno l'anima di Traiano, eicerto si riderebbe di tal dimanda, e forse si sdegnerebbemeco, perchè ardissi pure di fargliela. E se io soggiu-gnessi che ciò si narra da un autore del XII secolo, eglireplicherebbe che appunto in que' secoli d'ignoranzanacquero cotali favole; che uno scrittore il quale seria-mente racconti tal cosa, non può essere che un uomo dispirito debole, superstizioso, ignorante che basta avereun poco di senno per conoscere la sciocchezza di sì fa-voloso racconto. Tutto ciò ei direbbe, come di fatto sidice da ogni saggio e giudizioso scrittore. Or bene. Ilsuo Giovanni di Sarisbery, quell'uomo, come egli dice"dotto sopra il genio del suo secolo (ib.), quello scrittorfamosissimo che ottenne sì grande stima e nella chiesa enell'università di Parigi (ib. p. 660), quell'uomo ne' cuiscritti non manca una critica giudiziosa, e che da dottis-simi uomini è celebrato con grandissime lodi, e antipo-sto a tutti gli altri scrittori dell'età sua (ib. p. 664),quell'uomo che ben istruito nella dialettica non fu già dicosì incolto ingegno che volesse piuttosto a imitazion di

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Gregorio esser tacciato di semplice, che apprender l'artedi ben ragionare, quell'uomo che sotto il famosissimoprofessor di logica Guglielmo di Soissons apprendendoi primi elementi di quella scienza entrò nel diritto cam-mino della vera erudizione (ib. p. 665)" quest'uomo, iodico, di cui egli ci fa encomj sì grandi, perchè non glidiam fede allor quando racconta che s. Gregorio diè allefiamme la palatina biblioteca, quest'uomo medesimocon ammirabile serietà ci racconta un tal fatto. Ecconele precise parole (Polycr. l. 5, c. 8): "Ut vero in laudeTraiani facilius acquiescant, qui alios ei praeferendosopinantur, virtutes ejus legitur commendasse sanctissi-mus papa Gregorius, et fusis pro eo lacrimis inferorumcompescuisse incendia ... ". Quindi narrata la virtuosaazion di Traiano, che gli meritò ricompensa sì grande,prosiegue: "Fertur autem beatissimus Gregorius papa ta-mdiu pro eo fudisse lacrymas, donec ei revelatione nun-tiatum sit, Traianum a poenis inferni liberatum, sub eatamen conditione, ne ulterius pro quo infideli Deum sol-licitare praesumeret". Crede egli dunque il Bruckero untal fatto? E perchè nol crederà egli? Rilegga di graziatutto il lungo passo con cui egli si sforza di mostrarcidegno di fede il racconto dell'incendiata biblioteca, e ve-drà che gli stessi argomenti valgono ancora a favore del-la liberazion di Traiano. Qui ancor si può dire che "Gio-vanni accenna scrittori e libri antichi da cui avea trattatal cosa: legitur, fertur; ch'ei non gli nomina, perchè inuna cosa certissima e nota a tutti bastava accennare lacomun fama ch'egli scrisse tal cosa in faccia alla chiesa

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Gregorio esser tacciato di semplice, che apprender l'artedi ben ragionare, quell'uomo che sotto il famosissimoprofessor di logica Guglielmo di Soissons apprendendoi primi elementi di quella scienza entrò nel diritto cam-mino della vera erudizione (ib. p. 665)" quest'uomo, iodico, di cui egli ci fa encomj sì grandi, perchè non glidiam fede allor quando racconta che s. Gregorio diè allefiamme la palatina biblioteca, quest'uomo medesimocon ammirabile serietà ci racconta un tal fatto. Ecconele precise parole (Polycr. l. 5, c. 8): "Ut vero in laudeTraiani facilius acquiescant, qui alios ei praeferendosopinantur, virtutes ejus legitur commendasse sanctissi-mus papa Gregorius, et fusis pro eo lacrimis inferorumcompescuisse incendia ... ". Quindi narrata la virtuosaazion di Traiano, che gli meritò ricompensa sì grande,prosiegue: "Fertur autem beatissimus Gregorius papa ta-mdiu pro eo fudisse lacrymas, donec ei revelatione nun-tiatum sit, Traianum a poenis inferni liberatum, sub eatamen conditione, ne ulterius pro quo infideli Deum sol-licitare praesumeret". Crede egli dunque il Bruckero untal fatto? E perchè nol crederà egli? Rilegga di graziatutto il lungo passo con cui egli si sforza di mostrarcidegno di fede il racconto dell'incendiata biblioteca, e ve-drà che gli stessi argomenti valgono ancora a favore del-la liberazion di Traiano. Qui ancor si può dire che "Gio-vanni accenna scrittori e libri antichi da cui avea trattatal cosa: legitur, fertur; ch'ei non gli nomina, perchè inuna cosa certissima e nota a tutti bastava accennare lacomun fama ch'egli scrisse tal cosa in faccia alla chiesa

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e alla università di Parigi, e niuno vi ebbe che l'accusas-se o di menzogna, o di errore, e che anzi tutti col lor si-lenzio approvarono un tal racconto, come cosa al mondonotissima, e gloriosa al santo pontefice (App. 659,660)". Ma ciò non ostante il Bruckero non vorrà crederecertamente che s. Gregorio liberasse dall'inferno l'animadi Traiano. Dunque ei dovrà confessare che il suo Gio-vanni di Sarisbery non è poi uno scrittor così critico,come egli il vanta; ch'esso ci racconta come certe taicose che il solo buon senso ci mostra impossibili (e s'ionon volessi non estendermi troppo, potrei arrecarne piùaltri esempj, giacchè tutta ho voluto scorrere l'opera diquesto scrittore per formarne il vero carattere); che isuoi fertur, dicitur, legitur non c'indicano che tradizionipopolari non appoggiate, ad alcun buon fondamento;che non è in somma scrittore a' cui detti possiamo cosìfacilmente affidarci. Or a un autore che ci narra che s.Gregorio liberò dall'inferno l'anima di Traiano, dovremnoi credere quando egli solo, sei secoli dopo, senza ad-durne pruova di sorta alcuna, con un semplice fertur,traditur a majoribus, ci racconta che s. Gregorio pose ilfuoco alla biblioteca palatina? Io ne vorrei giudice lostesso Bruckero. Egli era uom troppo saggio per non co-noscere che a questo luogo ci si è lasciato prevenir trop-po da' pregiudizj della sua setta la quale a s. Gregoriosingolarmente ha dichiarata un'aspra ed implacabileguerra.

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e alla università di Parigi, e niuno vi ebbe che l'accusas-se o di menzogna, o di errore, e che anzi tutti col lor si-lenzio approvarono un tal racconto, come cosa al mondonotissima, e gloriosa al santo pontefice (App. 659,660)". Ma ciò non ostante il Bruckero non vorrà crederecertamente che s. Gregorio liberasse dall'inferno l'animadi Traiano. Dunque ei dovrà confessare che il suo Gio-vanni di Sarisbery non è poi uno scrittor così critico,come egli il vanta; ch'esso ci racconta come certe taicose che il solo buon senso ci mostra impossibili (e s'ionon volessi non estendermi troppo, potrei arrecarne piùaltri esempj, giacchè tutta ho voluto scorrere l'opera diquesto scrittore per formarne il vero carattere); che isuoi fertur, dicitur, legitur non c'indicano che tradizionipopolari non appoggiate, ad alcun buon fondamento;che non è in somma scrittore a' cui detti possiamo cosìfacilmente affidarci. Or a un autore che ci narra che s.Gregorio liberò dall'inferno l'anima di Traiano, dovremnoi credere quando egli solo, sei secoli dopo, senza ad-durne pruova di sorta alcuna, con un semplice fertur,traditur a majoribus, ci racconta che s. Gregorio pose ilfuoco alla biblioteca palatina? Io ne vorrei giudice lostesso Bruckero. Egli era uom troppo saggio per non co-noscere che a questo luogo ci si è lasciato prevenir trop-po da' pregiudizj della sua setta la quale a s. Gregoriosingolarmente ha dichiarata un'aspra ed implacabileguerra.

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IX. E in vero riflettiamo con attenzione. Aqual fine sì può egli credere che s. Gregoriodesse alle fiamme questa pubblica bibliote-ca? Forse perchè i libri degl'idolatri nonmantenessero ancor vivo il gentilesimo? Maegli è certo che a que' tempi altri idolatrinon vi avea in Roma e in tutta l'Italia, che

alcuni o schiavi, o barbari, o bifolchi, uomini in somma,che certamente nulla si curavan di libri. Era egli a teme-re che i Cristiani per la lettura de' libri ricadesseronell'idolatria? Ovvero volea s. Gregorio per avventurabandire tutti gli studj profani, e permettere e fomentare isoli sacri? S'egli avesse un tal disegno, il cercheremo frapoco. Ma ancorchè egli così avesse veramente pensato,che otteneva ei finalmente coll'incendiare una bibliote-ca? Quella di cui parla Giovanni di Sarisbery, e di cuidice che fu data alle fiamme da s. Gregorio, era forse lasola che fosse in Roma? Già abbiam veduto che ve neavea ancora più altre. Perchè dunque incendiar questa, elasciar intatte le altre tutte? E quante altre copie de' librimedesimi dovean essere sparse per tutta Italia e per tuttele Gallie? Qual frutto dunque poteva sperare il santopontefice da un tal fatto? Egli avrebbe piuttosto dovutocomandare a' Fedeli, che non usassero di tali libri, chenon ne facessero copie, che dessero anzi alle fiammequelli che aveansi in casa. Ma di ciò non ritroviamo al-cun cenno. Finalmente Giovanni di Sarisbery ne' duepassi in cui parla di tale incendio, contraddice a se stes-so; perciocchè in un luogo dice che la biblioteca data

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Nè alcun motivo po-teva deter-minar s. Gregorio a tale risolu-zione.

IX. E in vero riflettiamo con attenzione. Aqual fine sì può egli credere che s. Gregoriodesse alle fiamme questa pubblica bibliote-ca? Forse perchè i libri degl'idolatri nonmantenessero ancor vivo il gentilesimo? Maegli è certo che a que' tempi altri idolatrinon vi avea in Roma e in tutta l'Italia, che

alcuni o schiavi, o barbari, o bifolchi, uomini in somma,che certamente nulla si curavan di libri. Era egli a teme-re che i Cristiani per la lettura de' libri ricadesseronell'idolatria? Ovvero volea s. Gregorio per avventurabandire tutti gli studj profani, e permettere e fomentare isoli sacri? S'egli avesse un tal disegno, il cercheremo frapoco. Ma ancorchè egli così avesse veramente pensato,che otteneva ei finalmente coll'incendiare una bibliote-ca? Quella di cui parla Giovanni di Sarisbery, e di cuidice che fu data alle fiamme da s. Gregorio, era forse lasola che fosse in Roma? Già abbiam veduto che ve neavea ancora più altre. Perchè dunque incendiar questa, elasciar intatte le altre tutte? E quante altre copie de' librimedesimi dovean essere sparse per tutta Italia e per tuttele Gallie? Qual frutto dunque poteva sperare il santopontefice da un tal fatto? Egli avrebbe piuttosto dovutocomandare a' Fedeli, che non usassero di tali libri, chenon ne facessero copie, che dessero anzi alle fiammequelli che aveansi in casa. Ma di ciò non ritroviamo al-cun cenno. Finalmente Giovanni di Sarisbery ne' duepassi in cui parla di tale incendio, contraddice a se stes-so; perciocchè in un luogo dice che la biblioteca data

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Nè alcun motivo po-teva deter-minar s. Gregorio a tale risolu-zione.

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alle fiamme fu quella del Campidoglio, nell'altro diceche fu quella del tempio di Apolline Palatino. Il Brucke-ro inutilmente si sforza di conciliare una tale contraddi-zione. Dalle cose che altrove abbiamo osservato, è indu-bitabile che queste eran due diverse biblioteche, e l'unadall'altra distanti assai; e che perciò il nome di una nonpoteva in alcun modo adattarsi all'altra. Da tutte le qualicose a me par dimostrato che questo incendio si asseri-sce senza alcun probabile fondamento, e ch'è troppo ve-risimile che sia esso pure uno di que' favolosi raccontiche, nei secoli d'ignoranza furon coniati a capriccio, eche da Giovanni di Sarisbery furono troppo semplice-mente adottati.

X. Sciolto in tal maniera il principal nododella quistione, più facilmente convincesi difalsità ciò che di due autori in particolaredati alle fiamme dallo stesso santo ponteficesi asserisce da alcuni. In un editto pubblica-to dal re di Francia Luigi XI l'an. 1473 con-tro la setta de' Nominali ci si dà questa im-

portante notizia, che s. Gregorio soppresse, quanto gli fupossibile, le Opere di Cicerone. Eccone le parole riferitedal dotto p. Lyron (Singular. Hist. t. 1, p. 167), il qualeperò è ben lungi dal prestar fede a tali racconti: "Grego-rius ille magnus olim pontifex maximus, sacrarum lite-rarum doctissimus interpres, M. Tullii Ciceronis librosmiro dicendi lepore refertos, quoniam juvenes ejusdem

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Si mostra ch'ei non fece gittare alle fiammeneppure le Opere di Cicerone e di Livio.

alle fiamme fu quella del Campidoglio, nell'altro diceche fu quella del tempio di Apolline Palatino. Il Brucke-ro inutilmente si sforza di conciliare una tale contraddi-zione. Dalle cose che altrove abbiamo osservato, è indu-bitabile che queste eran due diverse biblioteche, e l'unadall'altra distanti assai; e che perciò il nome di una nonpoteva in alcun modo adattarsi all'altra. Da tutte le qualicose a me par dimostrato che questo incendio si asseri-sce senza alcun probabile fondamento, e ch'è troppo ve-risimile che sia esso pure uno di que' favolosi raccontiche, nei secoli d'ignoranza furon coniati a capriccio, eche da Giovanni di Sarisbery furono troppo semplice-mente adottati.

X. Sciolto in tal maniera il principal nododella quistione, più facilmente convincesi difalsità ciò che di due autori in particolaredati alle fiamme dallo stesso santo ponteficesi asserisce da alcuni. In un editto pubblica-to dal re di Francia Luigi XI l'an. 1473 con-tro la setta de' Nominali ci si dà questa im-

portante notizia, che s. Gregorio soppresse, quanto gli fupossibile, le Opere di Cicerone. Eccone le parole riferitedal dotto p. Lyron (Singular. Hist. t. 1, p. 167), il qualeperò è ben lungi dal prestar fede a tali racconti: "Grego-rius ille magnus olim pontifex maximus, sacrarum lite-rarum doctissimus interpres, M. Tullii Ciceronis librosmiro dicendi lepore refertos, quoniam juvenes ejusdem

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Si mostra ch'ei non fece gittare alle fiammeneppure le Opere di Cicerone e di Livio.

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auctoris mira suavitate sermons illecti sacrarum litera-rum studium omittentes majorem aetatis suae florem ineloquentiae tullianae studio consumebant, quoad potuit,diligentissime suppressit". L'altro autore che da s. Gre-gorio si dice dannato alle fiamme, è lo storico Livio. S.Antonino è quegli che ce ne ha lasciata memoria: "DeGregorio magno, dic'egli (Summa theol. pars 4, tit. 11,l. 4), dicit praedictus dominus Johannes Dominici cardi-nalis, quod omnes libros quos potuerit habere Titi Livii,comburi fecit, quia ibi multa narrantur de superstitioni-bus Idolorum". Un editto dunque di Luigi XI, il card.Giovanni di Domenico, e s. Antonino sono i più antichimonumenti e le più certe pruove che abbiam di un talfatto; monumenti e pruove del sec. XV, e tutti di forzaper vero dire grandissima de' quali s'io volessi far uso inqualche quistione storica contro il Bruckero, son certoch'egli si riderebbe della mia semplicità. E qual vi è maistato critico di buon senno, che abbia data fede a un rac-conto di cosa accaduta otto, o nove secoli innanzi, nar-rata da uno scrittore recente che non ne rechi alcun fon-damento? E di vero se s. Gregorio non diè alle fiammele intere biblioteche, come abbiam di sopra mostrato,per qual ragione dovea egli essere cotanto sdegnato con-tro questi due autori? Tanti osceni e superstiziosi poetinon erano essi più pericolosi di assai che non Livio eCicerone? Perchè dunque esser così clemente verso diloro, e verso questi due soltanto men rei degli altri mo-strarsi così crudele? Ma checchessia di ciò, ci si rechinoautori antichi, e che abbian fama di saggi discernitori in

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auctoris mira suavitate sermons illecti sacrarum litera-rum studium omittentes majorem aetatis suae florem ineloquentiae tullianae studio consumebant, quoad potuit,diligentissime suppressit". L'altro autore che da s. Gre-gorio si dice dannato alle fiamme, è lo storico Livio. S.Antonino è quegli che ce ne ha lasciata memoria: "DeGregorio magno, dic'egli (Summa theol. pars 4, tit. 11,l. 4), dicit praedictus dominus Johannes Dominici cardi-nalis, quod omnes libros quos potuerit habere Titi Livii,comburi fecit, quia ibi multa narrantur de superstitioni-bus Idolorum". Un editto dunque di Luigi XI, il card.Giovanni di Domenico, e s. Antonino sono i più antichimonumenti e le più certe pruove che abbiam di un talfatto; monumenti e pruove del sec. XV, e tutti di forzaper vero dire grandissima de' quali s'io volessi far uso inqualche quistione storica contro il Bruckero, son certoch'egli si riderebbe della mia semplicità. E qual vi è maistato critico di buon senno, che abbia data fede a un rac-conto di cosa accaduta otto, o nove secoli innanzi, nar-rata da uno scrittore recente che non ne rechi alcun fon-damento? E di vero se s. Gregorio non diè alle fiammele intere biblioteche, come abbiam di sopra mostrato,per qual ragione dovea egli essere cotanto sdegnato con-tro questi due autori? Tanti osceni e superstiziosi poetinon erano essi più pericolosi di assai che non Livio eCicerone? Perchè dunque esser così clemente verso diloro, e verso questi due soltanto men rei degli altri mo-strarsi così crudele? Ma checchessia di ciò, ci si rechinoautori antichi, e che abbian fama di saggi discernitori in

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ciò, che appartiene alla storia, e allora noi crederemoche Livio e Cicerone abbian trovato in s. Gregorio uncapitale nimico. Ma finchè non veggiamo prodursi altretestimonianze di un fatto sì antico, che quelle di autoricosì moderni, e di altri più moderni che gli han ricopiati,noi ci terrem alle leggi da tutti i migliori critici stabilite,e riputeremo tai fatti o falsi, o certamente troppo dub-biosi.

XI. A questa seconda accusa è simile ecoerente la terza, cioè che s. Gregorioodiasse e vietasse il coltivare le belle lette-re. Convien però confessare che di questasi adducono fondamenti meno improbabili,che delle altre. Quai sono essi? In primoluogo la lettera di s. Gregorio a s. Leandro

da lui premessa a' suoi Morali su Giobbe. In essa parlan-do egli del metodo che tenuto avea in que' libri, e venen-do a ragionar dello stile, così dice: "Unde et ipsam ar-tem loquendi, quam magisteria disciplinae exterioris in-sinuant, servare despexi. Nam sicut hujus quoque epi-stolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem effu-gio, non barbarismi confusionem devito: situs motusquepraepositionum casusque servare contemno, quia indi-gnum vehementer existimo, ut verba coelestis oraculirestringam sub regulis Donati". Non sembra egli questiun giurato nimico di tutte le leggi gramaticali, e un di-fensore zelantissimo della più rozza barbarie? Ma ci

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Si pruova falsa l'accusach'ei vietassel'amena let-teratura: spiegazione di un suo passo.

ciò, che appartiene alla storia, e allora noi crederemoche Livio e Cicerone abbian trovato in s. Gregorio uncapitale nimico. Ma finchè non veggiamo prodursi altretestimonianze di un fatto sì antico, che quelle di autoricosì moderni, e di altri più moderni che gli han ricopiati,noi ci terrem alle leggi da tutti i migliori critici stabilite,e riputeremo tai fatti o falsi, o certamente troppo dub-biosi.

XI. A questa seconda accusa è simile ecoerente la terza, cioè che s. Gregorioodiasse e vietasse il coltivare le belle lette-re. Convien però confessare che di questasi adducono fondamenti meno improbabili,che delle altre. Quai sono essi? In primoluogo la lettera di s. Gregorio a s. Leandro

da lui premessa a' suoi Morali su Giobbe. In essa parlan-do egli del metodo che tenuto avea in que' libri, e venen-do a ragionar dello stile, così dice: "Unde et ipsam ar-tem loquendi, quam magisteria disciplinae exterioris in-sinuant, servare despexi. Nam sicut hujus quoque epi-stolae tenor enuntiat, non metacismi collisionem effu-gio, non barbarismi confusionem devito: situs motusquepraepositionum casusque servare contemno, quia indi-gnum vehementer existimo, ut verba coelestis oraculirestringam sub regulis Donati". Non sembra egli questiun giurato nimico di tutte le leggi gramaticali, e un di-fensore zelantissimo della più rozza barbarie? Ma ci

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Si pruova falsa l'accusach'ei vietassel'amena let-teratura: spiegazione di un suo passo.

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dica di grazia il Bruckero, il quale trionfa su questo pas-so (Hist. crit. t. 3, p. 653). Ha egli lette le Opere di s.Gregorio? E se le ha lette, le trova egli di uno stil cosìbarbaro, come pare che dopo un tal passo debba aspet-tarsi? Io non dirò certo che ei sia un nuovo Tullio; madirò francamente che lo stile di cui egli usa, non è puntopiù incolto di quel degli altri anche profani scrittori diquesta età, che osserva al par di loro le leggi gramatica-li, che a tratto a tratto ancora egli ha una maestà eun'eloquenza di favellare degna di miglior secolo, e ipassi che noi ne abbiamo nel precedente capo recati, cene fan certa pruova. Io non asserisco cosa di cui non sipossa accertare ognuno co' suoi propj occhi. Che vuoldunque egli dire colle arrecate parole in cui sembra par-lare con sì grande disprezzo del colto stile? Se il Bruc-kero avesse lette, o non avesse dissimulate le parole cheil santo soggiugne, avrebbe conosciuto per avventurache non dovea poi risentirsi cotanto. Ei dunque aggiu-gne: "Neque enim haec ab ullis interpretibus in Scriptu-rae Sacrae auctoritate servata sunt". Colle quali parole eivuol farci conoscere che intende di usare di quella roz-zezza medesima di cui gli altri interpreti della Scrittura,un Ilario, un Girolamo, un Agostino hanno usato. Oregli è certo che questi, benchè abbiano nello scrivere idifetti del loro tempo, non sono però stati consideratigiammai come arditi disprezzatori delle leggi gramatica-li. Essi, e così pur s. Gregorio, hanno bensì creduto chenell'esporre la s. Scrittura si dovesse aver più riguardoalla purità del dogma e della morale che all'eleganza

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dica di grazia il Bruckero, il quale trionfa su questo pas-so (Hist. crit. t. 3, p. 653). Ha egli lette le Opere di s.Gregorio? E se le ha lette, le trova egli di uno stil cosìbarbaro, come pare che dopo un tal passo debba aspet-tarsi? Io non dirò certo che ei sia un nuovo Tullio; madirò francamente che lo stile di cui egli usa, non è puntopiù incolto di quel degli altri anche profani scrittori diquesta età, che osserva al par di loro le leggi gramatica-li, che a tratto a tratto ancora egli ha una maestà eun'eloquenza di favellare degna di miglior secolo, e ipassi che noi ne abbiamo nel precedente capo recati, cene fan certa pruova. Io non asserisco cosa di cui non sipossa accertare ognuno co' suoi propj occhi. Che vuoldunque egli dire colle arrecate parole in cui sembra par-lare con sì grande disprezzo del colto stile? Se il Bruc-kero avesse lette, o non avesse dissimulate le parole cheil santo soggiugne, avrebbe conosciuto per avventurache non dovea poi risentirsi cotanto. Ei dunque aggiu-gne: "Neque enim haec ab ullis interpretibus in Scriptu-rae Sacrae auctoritate servata sunt". Colle quali parole eivuol farci conoscere che intende di usare di quella roz-zezza medesima di cui gli altri interpreti della Scrittura,un Ilario, un Girolamo, un Agostino hanno usato. Oregli è certo che questi, benchè abbiano nello scrivere idifetti del loro tempo, non sono però stati consideratigiammai come arditi disprezzatori delle leggi gramatica-li. Essi, e così pur s. Gregorio, hanno bensì creduto chenell'esporre la s. Scrittura si dovesse aver più riguardoalla purità del dogma e della morale che all'eleganza

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dello stile; ma non hanno mai condotta la scrupolosaloro esattezza a tal segno, che a bella posta, e quasi peruna specie d'insulto, volesser parlare barbaramente. Chese s. Gregorio parla di se medesimo come di uno scrittorbarbaro e rozzo, convien ricordarci che gli uomini vera-mente modesti sentono e parlano di loro stessi assai piùbassamente di quel che al lor merito si convenga. Insomma s. Gregorio non altro ha voluto dire se non ciòche dice di se medesimo lo stesso Bruckero. Udiamocom'egli ragiona, e vedrem con piacere com'egli imitimodestamente i sentimenti di questo pontefice: "Veniama lectore benevolo exoramus, si in iis philosophiae ge-neribus, quae barbaras nobis doctrinas tradiderunt, aureslatinas interdum vocibus minus puris, et subsellia philo-sophorum magis redolentibus, quata oratorum, violave-rimus: maluimus enim cum aliquo elegantiae latinae de-trimento intelligi, esseque in narrando fideles, quamsectando dicendi ornatum obscuros, et non satis veterummentes exponentes (praef. ad vol. 2 Hist. Crit. Phil.)".Chi l'avrebbe pensato, che il Bruckero si fervido accusa-tore di s. Gregorio dovesse egli stesso col suo esempiosomministrarcene una sì bella apologia?

XII. L'altro fondamento a cui quest'accusasi appoggia, è una lettera di s. Gregorio aDesiderio vesc. di Vienna nelle Gallie (l. 11,ep. 54). Avea il santo pontefice udito chequesto vescovo teneva ad alcuni scuola di

254

Nuovi ar-gomenti aprovarne lafalsità.

dello stile; ma non hanno mai condotta la scrupolosaloro esattezza a tal segno, che a bella posta, e quasi peruna specie d'insulto, volesser parlare barbaramente. Chese s. Gregorio parla di se medesimo come di uno scrittorbarbaro e rozzo, convien ricordarci che gli uomini vera-mente modesti sentono e parlano di loro stessi assai piùbassamente di quel che al lor merito si convenga. Insomma s. Gregorio non altro ha voluto dire se non ciòche dice di se medesimo lo stesso Bruckero. Udiamocom'egli ragiona, e vedrem con piacere com'egli imitimodestamente i sentimenti di questo pontefice: "Veniama lectore benevolo exoramus, si in iis philosophiae ge-neribus, quae barbaras nobis doctrinas tradiderunt, aureslatinas interdum vocibus minus puris, et subsellia philo-sophorum magis redolentibus, quata oratorum, violave-rimus: maluimus enim cum aliquo elegantiae latinae de-trimento intelligi, esseque in narrando fideles, quamsectando dicendi ornatum obscuros, et non satis veterummentes exponentes (praef. ad vol. 2 Hist. Crit. Phil.)".Chi l'avrebbe pensato, che il Bruckero si fervido accusa-tore di s. Gregorio dovesse egli stesso col suo esempiosomministrarcene una sì bella apologia?

XII. L'altro fondamento a cui quest'accusasi appoggia, è una lettera di s. Gregorio aDesiderio vesc. di Vienna nelle Gallie (l. 11,ep. 54). Avea il santo pontefice udito chequesto vescovo teneva ad alcuni scuola di

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Nuovi ar-gomenti aprovarne lafalsità.

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gramatica. Or egli di ciò lo riprende con molta forza; nelche niun certamente troverà di che biasimar s. Gregorio,poichè un tal esercizio a un vescovo troppo mal si con-viene, benchè nei secoli susseguenti s'introducesse suciò una diversa maniera di pensare. Ma le ragioni che ilsanto ne arreca, sembra che provin troppo. "Quia in unose ore cum Jovis laudibus Christi laudes non capiunt; etquam grave nefandumque sit episcopis canere, quod neclaico religioso conveniat, ipse considera". Qui par vera-mente che il santo ne' secolari stessi cristiani soffrir nonvoglia la profana letteratura, e io non nego ch'egli nonsiasi qui lasciato trasportare forse tropp'oltre dallo zelo.Ma che se ne può raccogliere finalmente? Troviam noimonumento di alcun divieto che il santo pontefice abbiafatto a' Cristiani, o anche a' soli ecclesiastici, di coltivarele belle lettere? No certamente. Vi ebbe pur de' poeti,come vedremo nel capo seguente, anche a' tempi di s.Gregorio; e un vescovo fra gli altri, cioè Venanzio For-tunato di Poitiers, moltissimi versi compose, anchementr'era vescovo. Sappiam noi forse che o egli, o alcunaltro perciò fosse da s. Gregorio ripreso? Lo stesso santopontefice non avea forse coltivati egli pure con tal dili-genza cotali studj? L'impiego di pretore urbano, che glifu confidato, le cariche di suo nuncio e di suo segretario,a cui fu sollevato da Pelagio II, l'eloquenza ancora e laforza che in molti passi delle sue Opere s'incontra, ci fanconoscere ch'egli era non sol nelle sacre, ma ancora nel-le profane scienze versato e colto. Odasi finalmente ciòche di lui già pontefice ne racconta Giovanni diacono:

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gramatica. Or egli di ciò lo riprende con molta forza; nelche niun certamente troverà di che biasimar s. Gregorio,poichè un tal esercizio a un vescovo troppo mal si con-viene, benchè nei secoli susseguenti s'introducesse suciò una diversa maniera di pensare. Ma le ragioni che ilsanto ne arreca, sembra che provin troppo. "Quia in unose ore cum Jovis laudibus Christi laudes non capiunt; etquam grave nefandumque sit episcopis canere, quod neclaico religioso conveniat, ipse considera". Qui par vera-mente che il santo ne' secolari stessi cristiani soffrir nonvoglia la profana letteratura, e io non nego ch'egli nonsiasi qui lasciato trasportare forse tropp'oltre dallo zelo.Ma che se ne può raccogliere finalmente? Troviam noimonumento di alcun divieto che il santo pontefice abbiafatto a' Cristiani, o anche a' soli ecclesiastici, di coltivarele belle lettere? No certamente. Vi ebbe pur de' poeti,come vedremo nel capo seguente, anche a' tempi di s.Gregorio; e un vescovo fra gli altri, cioè Venanzio For-tunato di Poitiers, moltissimi versi compose, anchementr'era vescovo. Sappiam noi forse che o egli, o alcunaltro perciò fosse da s. Gregorio ripreso? Lo stesso santopontefice non avea forse coltivati egli pure con tal dili-genza cotali studj? L'impiego di pretore urbano, che glifu confidato, le cariche di suo nuncio e di suo segretario,a cui fu sollevato da Pelagio II, l'eloquenza ancora e laforza che in molti passi delle sue Opere s'incontra, ci fanconoscere ch'egli era non sol nelle sacre, ma ancora nel-le profane scienze versato e colto. Odasi finalmente ciòche di lui già pontefice ne racconta Giovanni diacono:

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"videbantur, dic'egli (Vita s. Greg. l. 2, c. 12, 13) passimcum eruditissimis clericis adhaerere pontifici religiosis-simi monachi ... Tutic rerum sapientia Romae sibi tem-plum visibiliter quodammodo fabricarat, et septemplici-bus artibus veluti columnis nobilissimorum totidem la-pidum apostolicae sedis atrium fulciebat. Nullus pontifi-ci famulantium a minimo usque ad maximum barbarumquod libet in sermone vel habitu praeseferebat, sed toga-ta. Quiritum more seu trabeata latinitas suum Latium inipso latiali palatio singulariter obtinebat. Refloruerantibi diversarum artium studia, ec.". Qui veggiam dunquedescriversi la corte di s. Gregorio, come tutta compostadi colte e dotte persone, e come felice seggio, per quan-to il permettevano i tempi, di tutte le belle arti. A questasì aperta testimonianza che risponde il Bruckero? Nonaltro che ciò che da pulito scrittore non dovrebbesi usargiammai. Ei chiama Giovanni diacono scrittor menzo-gnero e bugiardo: "Joanni diacono panegyristae dominisui fidem abrogamus, et nos splendido cum mendaciodecepisse, audacter pronuntiamus (App. p. 560)". Io nonchiederò qui al Bruckero come ei possa chiamare Gio-vanni diacono panegirista del suo signore, cioè di s.Gregorio vissuto due secoli prima di Giovanni; ma benchiederogli con qual fondamento ei dia a uno scrittoreche si protesta di aver tratta ogni cosa da autorevoli do-cumenti, una sì solenne mentita. Se io così avessi rispo-sto all'autorità del suo Giovanni di Sarisbery, che ne di-rebbe egli? Ma il Bruckero pensa di aver fondamentobastevole a screditar per tal modo Giovanni diacono; e

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"videbantur, dic'egli (Vita s. Greg. l. 2, c. 12, 13) passimcum eruditissimis clericis adhaerere pontifici religiosis-simi monachi ... Tutic rerum sapientia Romae sibi tem-plum visibiliter quodammodo fabricarat, et septemplici-bus artibus veluti columnis nobilissimorum totidem la-pidum apostolicae sedis atrium fulciebat. Nullus pontifi-ci famulantium a minimo usque ad maximum barbarumquod libet in sermone vel habitu praeseferebat, sed toga-ta. Quiritum more seu trabeata latinitas suum Latium inipso latiali palatio singulariter obtinebat. Refloruerantibi diversarum artium studia, ec.". Qui veggiam dunquedescriversi la corte di s. Gregorio, come tutta compostadi colte e dotte persone, e come felice seggio, per quan-to il permettevano i tempi, di tutte le belle arti. A questasì aperta testimonianza che risponde il Bruckero? Nonaltro che ciò che da pulito scrittore non dovrebbesi usargiammai. Ei chiama Giovanni diacono scrittor menzo-gnero e bugiardo: "Joanni diacono panegyristae dominisui fidem abrogamus, et nos splendido cum mendaciodecepisse, audacter pronuntiamus (App. p. 560)". Io nonchiederò qui al Bruckero come ei possa chiamare Gio-vanni diacono panegirista del suo signore, cioè di s.Gregorio vissuto due secoli prima di Giovanni; ma benchiederogli con qual fondamento ei dia a uno scrittoreche si protesta di aver tratta ogni cosa da autorevoli do-cumenti, una sì solenne mentita. Se io così avessi rispo-sto all'autorità del suo Giovanni di Sarisbery, che ne di-rebbe egli? Ma il Bruckero pensa di aver fondamentobastevole a screditar per tal modo Giovanni diacono; e

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un tal fondamento non è altro che il passo della letteradi s. Gregorio a s. Leandro da noi soprarecato, in cui eisi protesta di non volersi nell'interpretar la Scrittura sog-gettar troppo alle leggi gramaticali. Noi abbiamo giàmostrato qual sia il vero e unico senso di tai parole. Orcome da esso si pruova che s. Gregorio non volesse coltie dotti i suoi famigliari? Che ha che far questo collo sti-le da usarsi nella spiegazione della sacra Scrittura? Se iodicessi, a cagion d'esempio, che Leon X fu uomo nullacurante delle lettere umane, e ne recassi in pruova alcu-ne Bolle pubblicate nel tempo del suo pontificato, piene,secondo il costume, de' barbari termini della curia e delforo, non mi esporrei io con ciò alle beffe degli eruditi?Io crederò bensì che Giovanni diacono possa avere esa-gerato alquanto, e che a lui sembrasse un prodigioso sa-pere quello che or forse non ci sembrerebbe che una as-sai mediocre letteratura. Ma basta egli ciò a chiamar bu-giardo un qualunque sia scrittore? E il Bruckero soffri-rebbe egli così di leggeri che io, o altri gli dessimo uncotal nome?

XIII. Che direm poi dell'altro argomentoche dal Bruckero si arreca a provar s. Gre-gorio nimico della colta e profana lettera-tura? Egli lo accusa di aver sostituito a' li-bri degli antichi scrittori i suoi Morali, de'

quali dopo avere parlato con gran disprezzo, così ironi-camente conchiude: "Hos thesauros carbonibus, ut puta-

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Si mostra ches. Gregorio non sostituì i suoi Morali a'libri profani.

un tal fondamento non è altro che il passo della letteradi s. Gregorio a s. Leandro da noi soprarecato, in cui eisi protesta di non volersi nell'interpretar la Scrittura sog-gettar troppo alle leggi gramaticali. Noi abbiamo giàmostrato qual sia il vero e unico senso di tai parole. Orcome da esso si pruova che s. Gregorio non volesse coltie dotti i suoi famigliari? Che ha che far questo collo sti-le da usarsi nella spiegazione della sacra Scrittura? Se iodicessi, a cagion d'esempio, che Leon X fu uomo nullacurante delle lettere umane, e ne recassi in pruova alcu-ne Bolle pubblicate nel tempo del suo pontificato, piene,secondo il costume, de' barbari termini della curia e delforo, non mi esporrei io con ciò alle beffe degli eruditi?Io crederò bensì che Giovanni diacono possa avere esa-gerato alquanto, e che a lui sembrasse un prodigioso sa-pere quello che or forse non ci sembrerebbe che una as-sai mediocre letteratura. Ma basta egli ciò a chiamar bu-giardo un qualunque sia scrittore? E il Bruckero soffri-rebbe egli così di leggeri che io, o altri gli dessimo uncotal nome?

XIII. Che direm poi dell'altro argomentoche dal Bruckero si arreca a provar s. Gre-gorio nimico della colta e profana lettera-tura? Egli lo accusa di aver sostituito a' li-bri degli antichi scrittori i suoi Morali, de'

quali dopo avere parlato con gran disprezzo, così ironi-camente conchiude: "Hos thesauros carbonibus, ut puta-

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Si mostra ches. Gregorio non sostituì i suoi Morali a'libri profani.

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bat, Episcopus Romanus surrogavit (Hist. crit. t. 3, p.564)". Il Monaco di Frisinga e l'autor francese della Sto-ria dell'Ecclettismo risposero al Bruckero esser questauna calunnia ingiuriosamente apposta a s. Gregorio; luianzi aver fatta doglianza coll'arcivescovo di Ravenna,perchè facea legger pubblicamente ne' Divini Ufficj que'suoi libri, lui essersi protestato che non godeva di vederfatte pubbliche al mondo le cose ch'egli diceva (V. Hist.de l'Ecclect. l. 1, p. 311). Or a tale risposta che replica fail Bruckero? Egli ha certamente vedute le ragioni oppo-stegli da' suoi avversarj; poichè egli stesso le accenna(App. p. 638, 651). Ma qual risposta egli renda, io nonho avuto il piacere di trovarlo in tutta la lunghissima di-gressione ch'ei fa su questo argomento. Solo in una notasembra accennare che il santo scrivesse solo i suoi Mo-rali pe' vescovi e pe' dotti (App. p. 677), e che credessela plebe non esser capace d'intenderne il senso. Ma nonè ciò di che si tratta. Il Bruckero, se non vuol esporsi apericolo che qualche scrittore più caldo e più risentito dime il tratti, com'egli ha trattato Giovanni diacono, deeprovare che s. Gregorio comandasse che i suoi libri Mo-rali fossero sostituiti a' libri profani. Or si dica in quallettera, in qual passo delle sue Opere egli abbia fatto diciò o comando, o anche semplice insinuazione. Noi sta-remo aspettando qual risposta egli, o altri per lui, ci fac-cia, giacchè finora non si è degnato di darcene alcuna.

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bat, Episcopus Romanus surrogavit (Hist. crit. t. 3, p.564)". Il Monaco di Frisinga e l'autor francese della Sto-ria dell'Ecclettismo risposero al Bruckero esser questauna calunnia ingiuriosamente apposta a s. Gregorio; luianzi aver fatta doglianza coll'arcivescovo di Ravenna,perchè facea legger pubblicamente ne' Divini Ufficj que'suoi libri, lui essersi protestato che non godeva di vederfatte pubbliche al mondo le cose ch'egli diceva (V. Hist.de l'Ecclect. l. 1, p. 311). Or a tale risposta che replica fail Bruckero? Egli ha certamente vedute le ragioni oppo-stegli da' suoi avversarj; poichè egli stesso le accenna(App. p. 638, 651). Ma qual risposta egli renda, io nonho avuto il piacere di trovarlo in tutta la lunghissima di-gressione ch'ei fa su questo argomento. Solo in una notasembra accennare che il santo scrivesse solo i suoi Mo-rali pe' vescovi e pe' dotti (App. p. 677), e che credessela plebe non esser capace d'intenderne il senso. Ma nonè ciò di che si tratta. Il Bruckero, se non vuol esporsi apericolo che qualche scrittore più caldo e più risentito dime il tratti, com'egli ha trattato Giovanni diacono, deeprovare che s. Gregorio comandasse che i suoi libri Mo-rali fossero sostituiti a' libri profani. Or si dica in quallettera, in qual passo delle sue Opere egli abbia fatto diciò o comando, o anche semplice insinuazione. Noi sta-remo aspettando qual risposta egli, o altri per lui, ci fac-cia, giacchè finora non si è degnato di darcene alcuna.

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XIV. Rimane per ultimo a vedere la quartaaccusa che si dà a S. Gregorio, cioè di averatterrati i profani antichi edificj di Roma, eguaste e tronche le antiche statue del genti-lesimo. Questa dal Bruckero medesimo nonci si dà per certa (ib. p. 669, 670); e ciò po-

trebbe bastare ad intendere quanto ella sia insussistente.Veggiam nondimeno quai ne siano i fondamenti. Il Pla-tina nelle Vite de' Papi parlando di s. Gregorio dice chealcuni falsamente accusavano questo pontefice di avereatterrate le antiche fabbriche di Roma, acciocchè glistranieri non rivolgessero ad esse quell'attenzione chesolo a' luogi sacri ei voleva rivolta; e aggiugne che siscrive da alcuni che Sabiniano successore di s. Grego-rio, ma da lui troppo diverso, pensò di dare al fuoco leOpere del suo predecessore; sdegnato contro di lui, per-chè avesse troncate e rovinate le antiche statue che ve-deansi in Roma; a' quali racconti però il Platina ci av-verte di non dar fede. A questo aggiugne il Bruckero latestimonianza di f. Leone d'Orvieto domenicano scrittordel sec. XIV, il quale in una Cronaca de' Romani Ponte-fici pubblicata dal ch. Lami esalta fino alle stelle s. Gre-gorio per ciò appunto che egli alle statue degl'idoli aveamossa guerra, facendo loro troncare il capo e le mem-bra. Io lascio che ognun veda per se medesimo se tali te-stimonianze bastino a render probabile un fatto ch'è deltutto inverisimile. Qual autorità avea s. Gregorio su'pubblici edificj in Roma, che era ancor soggettaagl'imperadori d'Oriente? Sugli antichi monumenti an-

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E ch'è falsopure che fa-cesse atter-rare gli an-tichi monu-menti.

XIV. Rimane per ultimo a vedere la quartaaccusa che si dà a S. Gregorio, cioè di averatterrati i profani antichi edificj di Roma, eguaste e tronche le antiche statue del genti-lesimo. Questa dal Bruckero medesimo nonci si dà per certa (ib. p. 669, 670); e ciò po-

trebbe bastare ad intendere quanto ella sia insussistente.Veggiam nondimeno quai ne siano i fondamenti. Il Pla-tina nelle Vite de' Papi parlando di s. Gregorio dice chealcuni falsamente accusavano questo pontefice di avereatterrate le antiche fabbriche di Roma, acciocchè glistranieri non rivolgessero ad esse quell'attenzione chesolo a' luogi sacri ei voleva rivolta; e aggiugne che siscrive da alcuni che Sabiniano successore di s. Grego-rio, ma da lui troppo diverso, pensò di dare al fuoco leOpere del suo predecessore; sdegnato contro di lui, per-chè avesse troncate e rovinate le antiche statue che ve-deansi in Roma; a' quali racconti però il Platina ci av-verte di non dar fede. A questo aggiugne il Bruckero latestimonianza di f. Leone d'Orvieto domenicano scrittordel sec. XIV, il quale in una Cronaca de' Romani Ponte-fici pubblicata dal ch. Lami esalta fino alle stelle s. Gre-gorio per ciò appunto che egli alle statue degl'idoli aveamossa guerra, facendo loro troncare il capo e le mem-bra. Io lascio che ognun veda per se medesimo se tali te-stimonianze bastino a render probabile un fatto ch'è deltutto inverisimile. Qual autorità avea s. Gregorio su'pubblici edificj in Roma, che era ancor soggettaagl'imperadori d'Oriente? Sugli antichi monumenti an-

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E ch'è falsopure che fa-cesse atter-rare gli an-tichi monu-menti.

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cora, di cui gl'imperadori dovean esser gelosi e solleciti,avrebbe egli potuto stender la mano, senza che essi alta-mente se ne sdegnassero? Noi vedremo in fatti che circasessant'anni dopo la morte di s. Gregorio l'imp. Costantevenuto a Roma ne portò seco gran copia. Non vi ha dun-que nè verisomiglianza nè fondamento alcuno di tale ac-cusa. Io so che Pietro Angelio da Barga sostiene eglipure la verità di tal fatto, cui egli anzi reputa lodevole eglorioso (Ep. de Aedificior. urb. Romae eversoribus t. 4Thes. rom. Antiq. Graev.); ma l'affermare non basta senon si recano autorità e pruove; e queste io non veggoche nè da lui nè da alcun altro scrittore si siano giammairecate.

XV. A me pare di aver finora con qualcheevidenza sciolte le accuse tutte con cuialcuni moderni scrittori, singolarmenteprotestanti, han voluto render odioso ilnome di s. Gregorio il grande, in ciò che

appartiene alle belle arti e agli studj. Delle altre calunnieche gli vengono apposte, non è di quest'opera il ragiona-re. Si possono intorno ad esse vedere gli scrittori delleStoria Ecclesiastica e della Vita di questo santo pontefi-ce, e la bella apologia che ne ha scritta il già da noimentovato dottiss. monsig. Giangirolamo Gradenigo. Ioconchiuderò questa mia digressione col recare il senti-mento di uno scrittore che, comunque non sia panegiri-sta de' papi, trattando nondimeno delle accuse di cui fi-

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Testimonianza del Bayle in di-fesa di s. Gre-gorio.

cora, di cui gl'imperadori dovean esser gelosi e solleciti,avrebbe egli potuto stender la mano, senza che essi alta-mente se ne sdegnassero? Noi vedremo in fatti che circasessant'anni dopo la morte di s. Gregorio l'imp. Costantevenuto a Roma ne portò seco gran copia. Non vi ha dun-que nè verisomiglianza nè fondamento alcuno di tale ac-cusa. Io so che Pietro Angelio da Barga sostiene eglipure la verità di tal fatto, cui egli anzi reputa lodevole eglorioso (Ep. de Aedificior. urb. Romae eversoribus t. 4Thes. rom. Antiq. Graev.); ma l'affermare non basta senon si recano autorità e pruove; e queste io non veggoche nè da lui nè da alcun altro scrittore si siano giammairecate.

XV. A me pare di aver finora con qualcheevidenza sciolte le accuse tutte con cuialcuni moderni scrittori, singolarmenteprotestanti, han voluto render odioso ilnome di s. Gregorio il grande, in ciò che

appartiene alle belle arti e agli studj. Delle altre calunnieche gli vengono apposte, non è di quest'opera il ragiona-re. Si possono intorno ad esse vedere gli scrittori delleStoria Ecclesiastica e della Vita di questo santo pontefi-ce, e la bella apologia che ne ha scritta il già da noimentovato dottiss. monsig. Giangirolamo Gradenigo. Ioconchiuderò questa mia digressione col recare il senti-mento di uno scrittore che, comunque non sia panegiri-sta de' papi, trattando nondimeno delle accuse di cui fi-

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Testimonianza del Bayle in di-fesa di s. Gre-gorio.

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nora abbiamo parlato, non le reputa abbastanza fondate.Questi è il cel. Bayle il quale parlando di s. Gregoriocosì dice su questo argomento (Dict. art. Gregoire I)."Non è certo ch'egli abbia fatto distruggere i bei monu-menti dell'antica magnificenza de' Romani, affin d'impe-dire che que' che venivano a Roma non mirassero più at-tentamente gli archi trionfali ec., che le cose sante. Di-ciam lo stesso della accusa che gli si dà, di aver datoalle fiamme infiniti libri degli Idolatri, e singolarmenteTito Livio". E in una nota di questa seconda accusa ag-giugne (Note M): "Si dice che la biblioteca palatina fos-se incendiata da s. Gregorio. Io non ho letta tal cosa chein Giovanni di Sarisbery; perciò io non do gran fede aquesto racconto". Ma basti omai di tai cose, e passiamoagli altri scrittori sacri di questa età.

XVI. Tra gli uomini dotti che furono fami-gliari a s. Gregorio, due ve ne ha singolar-mente, degli studj de' quali ci rimane ancorqualche frutto. E primo è Claudio monacoprima del monastero di s. Andrea in Romafondato dallo stesso pontefice, e da cui or

prende il nome, poscia abate del monastero di Classepresso Ravenna. Di lui racconta Giovanni diacono (Vitas. Greg. l. 2, c. 11) "che da' discorsi ch'udiva farsi da s.Gregorio su' Libri de' Proverbj, della Cantica, de' Profe-ti, de' Re, e dell'Eptateuco, molti libri compose, benchècon sentimenti diversi da que' del santo pontefice". In

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Notizie di due amici di s. Grego-rio, cioè dell'abate Claudio.

nora abbiamo parlato, non le reputa abbastanza fondate.Questi è il cel. Bayle il quale parlando di s. Gregoriocosì dice su questo argomento (Dict. art. Gregoire I)."Non è certo ch'egli abbia fatto distruggere i bei monu-menti dell'antica magnificenza de' Romani, affin d'impe-dire che que' che venivano a Roma non mirassero più at-tentamente gli archi trionfali ec., che le cose sante. Di-ciam lo stesso della accusa che gli si dà, di aver datoalle fiamme infiniti libri degli Idolatri, e singolarmenteTito Livio". E in una nota di questa seconda accusa ag-giugne (Note M): "Si dice che la biblioteca palatina fos-se incendiata da s. Gregorio. Io non ho letta tal cosa chein Giovanni di Sarisbery; perciò io non do gran fede aquesto racconto". Ma basti omai di tai cose, e passiamoagli altri scrittori sacri di questa età.

XVI. Tra gli uomini dotti che furono fami-gliari a s. Gregorio, due ve ne ha singolar-mente, degli studj de' quali ci rimane ancorqualche frutto. E primo è Claudio monacoprima del monastero di s. Andrea in Romafondato dallo stesso pontefice, e da cui or

prende il nome, poscia abate del monastero di Classepresso Ravenna. Di lui racconta Giovanni diacono (Vitas. Greg. l. 2, c. 11) "che da' discorsi ch'udiva farsi da s.Gregorio su' Libri de' Proverbj, della Cantica, de' Profe-ti, de' Re, e dell'Eptateuco, molti libri compose, benchècon sentimenti diversi da que' del santo pontefice". In

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Notizie di due amici di s. Grego-rio, cioè dell'abate Claudio.

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fatti abbiamo una lettera dello stesso pontefice a Gio-vanni suddiacono (l. 12, ep. 24), in cui gli scrive cheClaudio avea raccolti da ciò che a voce egli avea detto,alcuni Comentarj su' mentovati libri, cui egli per le sueinfermità non avea potuto scrivere; che avea poscia in-tenzione di ritoccarli e correggerli; ma che avendoli let-ti, avea conosciuto che in molti luoghi aveane quegliinutilmente cambiato il senso; e quindi comanda a Gio-vanni, che andando al monastero di Classe tutte raccol-ga le carte dell'abate Claudio, e a lui le rechi. Da questalettera di s. Gregorio han presa origine le diverse opinio-ni degli eruditi intorno a' sei libri sul primo de' Re, ch'èciò solo che di tai Comentarj ci è rimasto; perciocchè al-cuni gli dicono opera di s. Gregorio, supponendo ch'egliavute le carte di Claudio vi facesse le correzioni oppor-tune; altri voglion che il santo pontefice non avesse agioa ciò fare, e perciò che que' Comentarj ci sian rimastiquali aveali scritti Claudio, e non manca ancora chi glivoglia opera assai recente. A me sembra più probabile laseconda opinione che da' dotti Maurini editori dell'operedi s. Gregorio è stata abbracciata e difesa (in praef. adhoc Comm.). Si può vedere ancora ciò che intorno adessi hanno scritto il p. Mabillon (Ann. Ord. s. Bened. t.1, p. 606 ed. luc.) e il p. Ceillier (Hist. des Aut. Eccl. t.17, p. 347). Di Claudio parla pur lungamente l'erudito p.abate Ginanni (Scritt. ravenn. t. 1, p. 148, ec.).

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fatti abbiamo una lettera dello stesso pontefice a Gio-vanni suddiacono (l. 12, ep. 24), in cui gli scrive cheClaudio avea raccolti da ciò che a voce egli avea detto,alcuni Comentarj su' mentovati libri, cui egli per le sueinfermità non avea potuto scrivere; che avea poscia in-tenzione di ritoccarli e correggerli; ma che avendoli let-ti, avea conosciuto che in molti luoghi aveane quegliinutilmente cambiato il senso; e quindi comanda a Gio-vanni, che andando al monastero di Classe tutte raccol-ga le carte dell'abate Claudio, e a lui le rechi. Da questalettera di s. Gregorio han presa origine le diverse opinio-ni degli eruditi intorno a' sei libri sul primo de' Re, ch'èciò solo che di tai Comentarj ci è rimasto; perciocchè al-cuni gli dicono opera di s. Gregorio, supponendo ch'egliavute le carte di Claudio vi facesse le correzioni oppor-tune; altri voglion che il santo pontefice non avesse agioa ciò fare, e perciò che que' Comentarj ci sian rimastiquali aveali scritti Claudio, e non manca ancora chi glivoglia opera assai recente. A me sembra più probabile laseconda opinione che da' dotti Maurini editori dell'operedi s. Gregorio è stata abbracciata e difesa (in praef. adhoc Comm.). Si può vedere ancora ciò che intorno adessi hanno scritto il p. Mabillon (Ann. Ord. s. Bened. t.1, p. 606 ed. luc.) e il p. Ceillier (Hist. des Aut. Eccl. t.17, p. 347). Di Claudio parla pur lungamente l'erudito p.abate Ginanni (Scritt. ravenn. t. 1, p. 148, ec.).

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XVII. L'altro antico intimo di s. Gregoriofu s. Paterio. Giovanni diacono dice (l. c.)

che dal santo pontefice fu fatto notaio e secondicerio; eche questi da' libri di lui alcune utilissime cose estrasse.Abbiamo in fatti sotto il nome di s. Paterio un'assai am-pia sposizione di molti passi della Sacra Scrittura da luitratta da diverse opere di s. Gregorio. Essa è divisa in treparti, e ciascheduna parte in più libri. I dotti Maurinieditori dell'Opere di s. Gregorio hanno per la prima vol-ta l'an. 1705 pubblicata la seconda parte di questa opera(t. 4 Op. s. Greg.), ch'era stata finallora inedita. Gli stes-si Maurini pongono in dubbio se s. Paterio fosse vera-mente vescovo di Brescia, come alcuni pensano e ben-chè sia certo che vi fu a questi tempi medesimi un s. Pa-terio vescovo di Brescia, nondimeno anche il ch. mon-sig. Gradenigo riflettendo che in niun de' codici mss.della mentovata opera di Paterio ci vien detto vescovo, eche tal dignità non vien mentovata da alcun di quelli cheparlano dell'autor di essa, crede egli pure che due Paterjsi debban distinguere, uno amico di s. Gregorio e autorede' suddetti libri, l'altro vescovo di Brescia (Brixia Sa-cra p. 89). Del primo veggansi gli Atti de' Santi (t. 3febr. p. 249) e il p. Ceillier (l. 17 p. 356).

XVIII. Benchè s. Gregorio tutti nelle scien-ze ecclesiastiche superasse gli altri romanipontefici di questa età, altri nondimeno ven'ebbe, che pel loro sapere ottener fama tra i

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E di s. Paterio.

Altri ponte-fici di que-sta età rino-mati per sa-pere.

XVII. L'altro antico intimo di s. Gregoriofu s. Paterio. Giovanni diacono dice (l. c.)

che dal santo pontefice fu fatto notaio e secondicerio; eche questi da' libri di lui alcune utilissime cose estrasse.Abbiamo in fatti sotto il nome di s. Paterio un'assai am-pia sposizione di molti passi della Sacra Scrittura da luitratta da diverse opere di s. Gregorio. Essa è divisa in treparti, e ciascheduna parte in più libri. I dotti Maurinieditori dell'Opere di s. Gregorio hanno per la prima vol-ta l'an. 1705 pubblicata la seconda parte di questa opera(t. 4 Op. s. Greg.), ch'era stata finallora inedita. Gli stes-si Maurini pongono in dubbio se s. Paterio fosse vera-mente vescovo di Brescia, come alcuni pensano e ben-chè sia certo che vi fu a questi tempi medesimi un s. Pa-terio vescovo di Brescia, nondimeno anche il ch. mon-sig. Gradenigo riflettendo che in niun de' codici mss.della mentovata opera di Paterio ci vien detto vescovo, eche tal dignità non vien mentovata da alcun di quelli cheparlano dell'autor di essa, crede egli pure che due Paterjsi debban distinguere, uno amico di s. Gregorio e autorede' suddetti libri, l'altro vescovo di Brescia (Brixia Sa-cra p. 89). Del primo veggansi gli Atti de' Santi (t. 3febr. p. 249) e il p. Ceillier (l. 17 p. 356).

XVIII. Benchè s. Gregorio tutti nelle scien-ze ecclesiastiche superasse gli altri romanipontefici di questa età, altri nondimeno ven'ebbe, che pel loro sapere ottener fama tra i

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E di s. Paterio.

Altri ponte-fici di que-sta età rino-mati per sa-pere.

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posteri. Di s. Leone II, siciliano di patria, che sollevatoalla cattedra di s. Pietro l'an. 682 la tenne solo per pochimesi, lasciò scritto Anastasio bibliotecario (Script. rer.ital. t. 3, pars 1, p. 145), che "era uomo eloquentissimo,bastevolmente istruito nelle Divine Scritture, eruditonella lingua greca e nella latina, peritissimo nel canto,colto nel favellare, e ornato di un'assidua lettura". Ma ilbreve tempo del suo pontificato non gli permise di la-sciare alcun durevole monumento di sua dottrina. Somi-glianti lodi veggiamo darsi dallo stesso scrittore a Gre-gorio II, romano di nascita, che salì al pontificato l'an.715, e visse fino al 731, perciocchè di lui pure racconta(ib. p. 154) ch'era uomo versato nelle Divine Scritture,ed eloquente nel ragionare. E certo l'impiego di biblio-tecario della chiesa romana, che abbiam altrove vedutoa lui affidato, ci mostra ch'egli aveasi in conto d'uomodotto. Gregorio III che gli succedette, e che fu ponteficefino all'an. 741, fu egli pure, per testimonio dello stessoAnastasio (ib. p. 158), uom dotto assai così nella grecacome nella latina favella ma noi non possiamo a ragioneannoverarlo tra' nostri; perciocchè egli era natìo dellaSiria. E lo stesso dicasi dal pontef. Zaccheria che dopoGregorio III tenne la cattedra di s. Pietro fino al 752,poichè egli era greco di nascita, e non è perciò a stupirech'egli recasse dalla latina nella greca favella i Dialogidi s. Gregorio (ib. p. 165). Stefano III finalmente che daalcuni si dice IV di questo nome, che, eletto ponteficel'an. 768, morì l'an. 772, ci si rappresenta da lui comeuomo erudito nelle Divine scritture, e assai dotto nelle

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posteri. Di s. Leone II, siciliano di patria, che sollevatoalla cattedra di s. Pietro l'an. 682 la tenne solo per pochimesi, lasciò scritto Anastasio bibliotecario (Script. rer.ital. t. 3, pars 1, p. 145), che "era uomo eloquentissimo,bastevolmente istruito nelle Divine Scritture, eruditonella lingua greca e nella latina, peritissimo nel canto,colto nel favellare, e ornato di un'assidua lettura". Ma ilbreve tempo del suo pontificato non gli permise di la-sciare alcun durevole monumento di sua dottrina. Somi-glianti lodi veggiamo darsi dallo stesso scrittore a Gre-gorio II, romano di nascita, che salì al pontificato l'an.715, e visse fino al 731, perciocchè di lui pure racconta(ib. p. 154) ch'era uomo versato nelle Divine Scritture,ed eloquente nel ragionare. E certo l'impiego di biblio-tecario della chiesa romana, che abbiam altrove vedutoa lui affidato, ci mostra ch'egli aveasi in conto d'uomodotto. Gregorio III che gli succedette, e che fu ponteficefino all'an. 741, fu egli pure, per testimonio dello stessoAnastasio (ib. p. 158), uom dotto assai così nella grecacome nella latina favella ma noi non possiamo a ragioneannoverarlo tra' nostri; perciocchè egli era natìo dellaSiria. E lo stesso dicasi dal pontef. Zaccheria che dopoGregorio III tenne la cattedra di s. Pietro fino al 752,poichè egli era greco di nascita, e non è perciò a stupirech'egli recasse dalla latina nella greca favella i Dialogidi s. Gregorio (ib. p. 165). Stefano III finalmente che daalcuni si dice IV di questo nome, che, eletto ponteficel'an. 768, morì l'an. 772, ci si rappresenta da lui comeuomo erudito nelle Divine scritture, e assai dotto nelle

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ecclesiastiche tradizioni (ib. p. 174). Io so bene che que-sti magnifici encomj con cui alcuno in questa età viendetto assai dotto, assai erudito, e somiglianti, voglionsiintendere con molta moderazione, e comunemente nonci dinotano che una mediocre tintura così nelle sacrecome nelle profane scienze. Ma nelle circostanze infeli-ci in cui trovavasi allora l'Italia, questa mediocrità me-desima era assai a pregiarsi, e ad essa dobbiamo cheogni seme di buona letteratura non venisse interamentesoffocato ed oppresso.

XIX. Anche tra' vescovi delle altre chiesed'Italia si videro alcuni che poteano a questitempi sembrar uomini di prodigioso sapere.Oltre Paterio se pure egli fu vescovo, duevescovi di Ravenna si renderono illustri.

Mauro e Felice che tennero quella sede, il primo dal 648fino all'an. 671, l'altro dall'an. 705 fino al 723 secondola Cronologia del ch. Giuseppe Luigi Amadesi citata dalp. Ginanni (Scritt. ravenn. t. 2, p. 47; t. 1, p. 204, ec.). Ilprimo dovea esser uomo assai dotto ne' dogmi della cat-tolica religione, perciocchè essendo allora insorta l'ere-sia de' monoteliti, e celebrandosi perciò dal pontefice s.Martino I un concilio in Roma l'an. 649, Mauro che nonvi potè intervenire, mandò una sua lettera in cui confuta-va il loro errore; la quale letta nel sinodo fu ritrovata de-gna d'approvazione per modo, che venne inserita negliAtti, ove essa ancora si vede (vol. 2 Concil. p. 98 ed.

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Notizie di Mauro e di Felice arci-vescovi di Ravenna.

ecclesiastiche tradizioni (ib. p. 174). Io so bene che que-sti magnifici encomj con cui alcuno in questa età viendetto assai dotto, assai erudito, e somiglianti, voglionsiintendere con molta moderazione, e comunemente nonci dinotano che una mediocre tintura così nelle sacrecome nelle profane scienze. Ma nelle circostanze infeli-ci in cui trovavasi allora l'Italia, questa mediocrità me-desima era assai a pregiarsi, e ad essa dobbiamo cheogni seme di buona letteratura non venisse interamentesoffocato ed oppresso.

XIX. Anche tra' vescovi delle altre chiesed'Italia si videro alcuni che poteano a questitempi sembrar uomini di prodigioso sapere.Oltre Paterio se pure egli fu vescovo, duevescovi di Ravenna si renderono illustri.

Mauro e Felice che tennero quella sede, il primo dal 648fino all'an. 671, l'altro dall'an. 705 fino al 723 secondola Cronologia del ch. Giuseppe Luigi Amadesi citata dalp. Ginanni (Scritt. ravenn. t. 2, p. 47; t. 1, p. 204, ec.). Ilprimo dovea esser uomo assai dotto ne' dogmi della cat-tolica religione, perciocchè essendo allora insorta l'ere-sia de' monoteliti, e celebrandosi perciò dal pontefice s.Martino I un concilio in Roma l'an. 649, Mauro che nonvi potè intervenire, mandò una sua lettera in cui confuta-va il loro errore; la quale letta nel sinodo fu ritrovata de-gna d'approvazione per modo, che venne inserita negliAtti, ove essa ancora si vede (vol. 2 Concil. p. 98 ed.

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Notizie di Mauro e di Felice arci-vescovi di Ravenna.

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Colet.) (15). Ma il pregio che a lui recava il suo saperevenne troppo oscurato dalla ribellione contro la santasede da cui egli con un fatale scisma si separò, valendo-si a tal fine dell'opera dell'eretico imp. Costante: nel cheegli giunse a tal segno, che ardì di scomunicar Vitalianoche tenea allora la cattedra di s. Pietro. Ma di ciò veg-gansi gli scrittori della Storia Ecclesiastica. Per questaragion medesima fu alquanto oscurata la fama ancor diFelice, il quale però non dichiarossi già indipendente deltutto dal romano pontefice; ma nella sua sommissioneusò restrizioni che da suoi predecessori non si eranousate (V. Ginanni Scritt. ravenn. t. 1, p. 204). Nella spe-dizion funestissima che fece l'an. 709 contro la città diRavenna, l'imp. Giustiniano II, fra gli altri che rimaservittima del furore de' Greci, fu l'arcivesc. Felice il qualecondotto a Costantinopoli, ed acciecato, fu poscia rile-gato nel Ponto, donde richiamato l'an. 712 dall'imp. Fil-lippico, e rimandato a Ravenna, vi passò santamente ilrestante della sua vita a cui diè fine l'an. 723. Di lui ciparla Agnello (Vit. Pontif. Ravenn.), come di egregiopredicatore, e scrittore di molti libri, ed uomo eloquen-te. Quai fossero precisamente i libri da lui scritti noi nolsappiamo. È verisimile che fossero omelie, o comentisulla Divina Scrittura. Ma egli non volle che cosa alcunarimanesse tra' posteri; e innanzi a morte fattisi recare i15 Fra i vescovi che con dottrina e con zelo non ordinario si adoperarono a

combattere l'eresia de' Monoteliti, deesi annoverare s. Gregorio cittadino evescovo di Girgenti che intervenne al concilio contro essi tenuto in Co-stantinopoli, e intorno alla cui vita si può vedere una erudita dissertazionedel sig. d. Giovanni Lanza palermitano (Opusc. d'Aut. sicil. t. 4).

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Colet.) (15). Ma il pregio che a lui recava il suo saperevenne troppo oscurato dalla ribellione contro la santasede da cui egli con un fatale scisma si separò, valendo-si a tal fine dell'opera dell'eretico imp. Costante: nel cheegli giunse a tal segno, che ardì di scomunicar Vitalianoche tenea allora la cattedra di s. Pietro. Ma di ciò veg-gansi gli scrittori della Storia Ecclesiastica. Per questaragion medesima fu alquanto oscurata la fama ancor diFelice, il quale però non dichiarossi già indipendente deltutto dal romano pontefice; ma nella sua sommissioneusò restrizioni che da suoi predecessori non si eranousate (V. Ginanni Scritt. ravenn. t. 1, p. 204). Nella spe-dizion funestissima che fece l'an. 709 contro la città diRavenna, l'imp. Giustiniano II, fra gli altri che rimaservittima del furore de' Greci, fu l'arcivesc. Felice il qualecondotto a Costantinopoli, ed acciecato, fu poscia rile-gato nel Ponto, donde richiamato l'an. 712 dall'imp. Fil-lippico, e rimandato a Ravenna, vi passò santamente ilrestante della sua vita a cui diè fine l'an. 723. Di lui ciparla Agnello (Vit. Pontif. Ravenn.), come di egregiopredicatore, e scrittore di molti libri, ed uomo eloquen-te. Quai fossero precisamente i libri da lui scritti noi nolsappiamo. È verisimile che fossero omelie, o comentisulla Divina Scrittura. Ma egli non volle che cosa alcunarimanesse tra' posteri; e innanzi a morte fattisi recare i15 Fra i vescovi che con dottrina e con zelo non ordinario si adoperarono a

combattere l'eresia de' Monoteliti, deesi annoverare s. Gregorio cittadino evescovo di Girgenti che intervenne al concilio contro essi tenuto in Co-stantinopoli, e intorno alla cui vita si può vedere una erudita dissertazionedel sig. d. Giovanni Lanza palermitano (Opusc. d'Aut. sicil. t. 4).

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suoi libri, tutti li diè alle fiamme, dicendo che poichècieco, com'egli era, non potea rivederli e corregerli, te-meva che vi rimanessero errori, onde altri abusassero.Un solo discorso, prosiegue a dire Agnello, che ancoraabbiamo sull'universale giudizio, fu da' suoi sacerdotiserbato, e sottratto alle fiamme. Più d'ogni cosa però noiabbiamo ad essergli grati perchè a lui dobbiamo i Ser-moni del suo antico predecessore s. Pier Grisologo,ch'egli diligentemente raccolse, e vi premise una suaprefazione che ancora abbiamo. Di altre cose che a Feli-ce appartengono veggasi il soprallodato p. Ginanni (l.c.).

XX. S'io volessi qui annoverare tra gli scrit-tori ecclesiastici tutti que' vescovi italianiche nel famoso affare de' tre Capitoli ebberoparte, potrei accrescer di molto il presente

capo. Ma come di essi non abbiamo comunemente chequalche lettera, o qualche breve trattato su tale argomen-to, io li passerò sotto silenzio, perchè non sembri ch'iovoglia stendere troppo ampiamente il nome e la lode diuom dotto. Quindi io non parlerò nè di Severo patriarcad'Aquilea che credesi natìo di Ravenna (V. Ginanni t. 2,p. 372) e che morì nello scisma l'an. 605, nè di Costanzoarcivesc. di Milano, che scrisse su tale argomento piùlettere al pontef. s. Gregorio di cui assai era amico (V.Argelati Bibl. script. mediol. t. 1, pars 2, p. 459); nè dipiù altri di cui si vede fatta menzione presso gli scrittori

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E di altri diquesti tem-pi.

suoi libri, tutti li diè alle fiamme, dicendo che poichècieco, com'egli era, non potea rivederli e corregerli, te-meva che vi rimanessero errori, onde altri abusassero.Un solo discorso, prosiegue a dire Agnello, che ancoraabbiamo sull'universale giudizio, fu da' suoi sacerdotiserbato, e sottratto alle fiamme. Più d'ogni cosa però noiabbiamo ad essergli grati perchè a lui dobbiamo i Ser-moni del suo antico predecessore s. Pier Grisologo,ch'egli diligentemente raccolse, e vi premise una suaprefazione che ancora abbiamo. Di altre cose che a Feli-ce appartengono veggasi il soprallodato p. Ginanni (l.c.).

XX. S'io volessi qui annoverare tra gli scrit-tori ecclesiastici tutti que' vescovi italianiche nel famoso affare de' tre Capitoli ebberoparte, potrei accrescer di molto il presente

capo. Ma come di essi non abbiamo comunemente chequalche lettera, o qualche breve trattato su tale argomen-to, io li passerò sotto silenzio, perchè non sembri ch'iovoglia stendere troppo ampiamente il nome e la lode diuom dotto. Quindi io non parlerò nè di Severo patriarcad'Aquilea che credesi natìo di Ravenna (V. Ginanni t. 2,p. 372) e che morì nello scisma l'an. 605, nè di Costanzoarcivesc. di Milano, che scrisse su tale argomento piùlettere al pontef. s. Gregorio di cui assai era amico (V.Argelati Bibl. script. mediol. t. 1, pars 2, p. 459); nè dipiù altri di cui si vede fatta menzione presso gli scrittori

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E di altri diquesti tem-pi.

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della Storia Ecclesiastica. Così pure io accennerò ilnome solo di s. Leone vesc. di Catania, di cui parlanogli scrittori siciliani, e i ravennati ancora, poichè egli eranatìo di questa città, di cui si dice che alcuni trattati scri-vesse contro gli Eretici (V. Amico Catana illustr. pars 1,p. 366; Ginanni Scritt. raven. t. 1, p. 444). Essi furonforse dottissimimi uomini, ma non ne abbiam pruovebastevoli a dimostrarlo.

XXI. Paolo diacono ci parla di s. Damianovesc. di Pavia, come d'uomo sufficiente-mente istruito nelle arti liberali (de Gest.Lang. l. 5, c. 38). Di lui aggiugne altrove (l.6, c. 4), che essendo intervenuto al concilioche si tenne in Milano l'an. 679 contro l'ere-sia de' Monoteliti, egli a nome di S. Man-

sueto arcivesc. di Milano scrisse all'imp. Costantino Po-gonato la lettera sinodale, in cui l'eresia medesima veni-va confutata, che tuttora abbiamo nelle Raccolte de'Concilj, e che in parte è stata pubblicata ancor dal Baro-nio (Ann. eccl. ad an. 679). Sembra però, che allora Da-miano fosse semplice prete perchè vescovo di Pavia do-vea in quell'anno esser Anastasio, come si pruova dalConcilio romano che in quest'anno medesimo fu cele-brato. Ma Paolo diacono potè fin da quest'anno chiamar-lo vescovo, onorandolo di quel nome che veramente nongli fu dato che qualche tempo appresso. L'Argelati attri-buisce questa lettera al medesimo s. Mansueto (Bibl.

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S. Damianovescovo diPavia, ss.Mansueto eNatale arci-vescovi diMilano.

della Storia Ecclesiastica. Così pure io accennerò ilnome solo di s. Leone vesc. di Catania, di cui parlanogli scrittori siciliani, e i ravennati ancora, poichè egli eranatìo di questa città, di cui si dice che alcuni trattati scri-vesse contro gli Eretici (V. Amico Catana illustr. pars 1,p. 366; Ginanni Scritt. raven. t. 1, p. 444). Essi furonforse dottissimimi uomini, ma non ne abbiam pruovebastevoli a dimostrarlo.

XXI. Paolo diacono ci parla di s. Damianovesc. di Pavia, come d'uomo sufficiente-mente istruito nelle arti liberali (de Gest.Lang. l. 5, c. 38). Di lui aggiugne altrove (l.6, c. 4), che essendo intervenuto al concilioche si tenne in Milano l'an. 679 contro l'ere-sia de' Monoteliti, egli a nome di S. Man-

sueto arcivesc. di Milano scrisse all'imp. Costantino Po-gonato la lettera sinodale, in cui l'eresia medesima veni-va confutata, che tuttora abbiamo nelle Raccolte de'Concilj, e che in parte è stata pubblicata ancor dal Baro-nio (Ann. eccl. ad an. 679). Sembra però, che allora Da-miano fosse semplice prete perchè vescovo di Pavia do-vea in quell'anno esser Anastasio, come si pruova dalConcilio romano che in quest'anno medesimo fu cele-brato. Ma Paolo diacono potè fin da quest'anno chiamar-lo vescovo, onorandolo di quel nome che veramente nongli fu dato che qualche tempo appresso. L'Argelati attri-buisce questa lettera al medesimo s. Mansueto (Bibl.

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S. Damianovescovo diPavia, ss.Mansueto eNatale arci-vescovi diMilano.

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Scr. Med. t. 7, pars 1 p. 850). Pare ch'egli avrebbe dovu-to accennare il sentimento di Paolo Diacono che chiara-mente l'attribuisce a Damiano, o almeno indicarci suquai fondamenti egli pensasse di doverne far autore ilmedesimo arcivescovo. Così fa pure il ch. Sassi (SeriesArchiep. mediol. t. 1, p. 239) il quale non ne arreca altroargomento, se non quello che abbiam noi pure accenna-to, cioè che Damiano era allor semplice sacerdote. Manon poteva forse Mansueto e il sinodo tutto valersi di unsemplice sacerdote per iscriver in lor nome una lettera?Abbiamo però altre pruove del sapere di s. Mansueto,perciocchè il p. Montfaucon cita alcune sue opere ma-noscritte, ma senza dichiarare su qual argomento essesiano (Bibl. MSS. t. 1, p. 685). Di s. Natale arcivesc. diMilano ci narra il medesimo Argelati (l. c. p. 990), chefu uom dotto nella latina, nella greca e nella ebraica fa-vella, il che a questi tempi era da aversi in conto pocomeno che di prodigio, e aggiugne ch'egli scrisse un librocontro degli Arriani. Ci giova credere che una tal tradi-zione della chiesa milanese a cui esso si appoggia, nonsia priva di buon fondamento, e il Sassi in fatti ne cita inpruova gli antichi catalogi de' vescovi di quella chiesa(l. c. p. 250). Egli tenne quella sede dall'an. 739 fino al764.

XXII. Fra' monaci ancora vi furono alcuniche coltivarono a questi tempi gli studj sa-cri; e un monastero singolarmente si ren-

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S. Colombanoe Giona abatidel monast. diBobbio.

Scr. Med. t. 7, pars 1 p. 850). Pare ch'egli avrebbe dovu-to accennare il sentimento di Paolo Diacono che chiara-mente l'attribuisce a Damiano, o almeno indicarci suquai fondamenti egli pensasse di doverne far autore ilmedesimo arcivescovo. Così fa pure il ch. Sassi (SeriesArchiep. mediol. t. 1, p. 239) il quale non ne arreca altroargomento, se non quello che abbiam noi pure accenna-to, cioè che Damiano era allor semplice sacerdote. Manon poteva forse Mansueto e il sinodo tutto valersi di unsemplice sacerdote per iscriver in lor nome una lettera?Abbiamo però altre pruove del sapere di s. Mansueto,perciocchè il p. Montfaucon cita alcune sue opere ma-noscritte, ma senza dichiarare su qual argomento essesiano (Bibl. MSS. t. 1, p. 685). Di s. Natale arcivesc. diMilano ci narra il medesimo Argelati (l. c. p. 990), chefu uom dotto nella latina, nella greca e nella ebraica fa-vella, il che a questi tempi era da aversi in conto pocomeno che di prodigio, e aggiugne ch'egli scrisse un librocontro degli Arriani. Ci giova credere che una tal tradi-zione della chiesa milanese a cui esso si appoggia, nonsia priva di buon fondamento, e il Sassi in fatti ne cita inpruova gli antichi catalogi de' vescovi di quella chiesa(l. c. p. 250). Egli tenne quella sede dall'an. 739 fino al764.

XXII. Fra' monaci ancora vi furono alcuniche coltivarono a questi tempi gli studj sa-cri; e un monastero singolarmente si ren-

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S. Colombanoe Giona abatidel monast. diBobbio.

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dette sopra gli altri illustre, dico quello di Bobbio fonda-to l'an. 612 da s. Colombano (V. Mabill. Ann. bened. t.1, l. 10, n. 55). Era questi irlandese di nascita, e dopoaver passati i primi anni nella sua patria, e fondati po-scia alcuni monasteri in Francia, venuto in Italia ottenneda Agilolfo re de' Longobardi di poter fondare un mona-stero nella suddetta città, che pel numero e per le virtùde' suoi monaci salì presto in gran fama. Nel libro se-guente avremo occasion di parlare della biblioteca diquesto monastero, che in questi barbari tempi, doveasembrar copiosissima, e ch'è un bel monumento dellaapplicazione di questi monaci agli studi singolarmentesacri. Lo stesso s. Colombano era uomo versato e nellesacre e nelle profane lettere. Alcune Epistole da luiscritte intorno alla celebrazion della Pasqua (ib. l. 9, n.35), e intorno alla famosa contesa de' tre Capitoli (ib. l.11, n. 4), e alcune poesie che di lui ci sono rimaste,scritte nel gusto di questi secoli, ce ne fan pruova; oltrela Regola, il libro detto Penitenziale, e le Istruzioni auso de' suoi monaci, e alcune altre opere ch'egli aveacomposte, ma non ci son pervenute. Io non fo che ac-cennare il nome di questo sant'uomo, perchè ei non funostro, e poco tempo visse fra noi, essendo egli mortol'an. 615 (ib. l. 11, n. 17), tre anni soli dacchè si era sta-bilito in Italia. Si può vedere ciò che ne hanno scrittopiù ampiamente, oltre il lodato p. Mabillon, il p. Ceillier(Hist. des Aut. eccl. t. 17, p. 462), e gli autori della Sto-ria Letteraria di Francia (t. 3, p. 505) Con più ragionedobbiamo annoverare tra' nostri Giona monaco prima

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dette sopra gli altri illustre, dico quello di Bobbio fonda-to l'an. 612 da s. Colombano (V. Mabill. Ann. bened. t.1, l. 10, n. 55). Era questi irlandese di nascita, e dopoaver passati i primi anni nella sua patria, e fondati po-scia alcuni monasteri in Francia, venuto in Italia ottenneda Agilolfo re de' Longobardi di poter fondare un mona-stero nella suddetta città, che pel numero e per le virtùde' suoi monaci salì presto in gran fama. Nel libro se-guente avremo occasion di parlare della biblioteca diquesto monastero, che in questi barbari tempi, doveasembrar copiosissima, e ch'è un bel monumento dellaapplicazione di questi monaci agli studi singolarmentesacri. Lo stesso s. Colombano era uomo versato e nellesacre e nelle profane lettere. Alcune Epistole da luiscritte intorno alla celebrazion della Pasqua (ib. l. 9, n.35), e intorno alla famosa contesa de' tre Capitoli (ib. l.11, n. 4), e alcune poesie che di lui ci sono rimaste,scritte nel gusto di questi secoli, ce ne fan pruova; oltrela Regola, il libro detto Penitenziale, e le Istruzioni auso de' suoi monaci, e alcune altre opere ch'egli aveacomposte, ma non ci son pervenute. Io non fo che ac-cennare il nome di questo sant'uomo, perchè ei non funostro, e poco tempo visse fra noi, essendo egli mortol'an. 615 (ib. l. 11, n. 17), tre anni soli dacchè si era sta-bilito in Italia. Si può vedere ciò che ne hanno scrittopiù ampiamente, oltre il lodato p. Mabillon, il p. Ceillier(Hist. des Aut. eccl. t. 17, p. 462), e gli autori della Sto-ria Letteraria di Francia (t. 3, p. 505) Con più ragionedobbiamo annoverare tra' nostri Giona monaco prima

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del monastero di s. Colombano, e quindi passato nelleGallie ed eletto abate del monastero di Enona pressoMastricht. Ei visse in grande stima non solo tra i suoi,ma alla corte ancora di Francia, ove dalla reina Batildefu in più affari adoperato, mentre ella reggeva il regnonella minorità del suo figlio Clotario III. Era egli natiodi Susa in Piemonte, come pruova il Mabillon (Ann. be-ned. t. 1, l. 11, n. 17). A lui siam debitori delle notizieche ci sono rimaste intorno a s. Colombano e a' suoi pri-mi discepoli; perciocchè egli scrisse la Vita di questofondatore, e di Attala, e di Bertulfo, che gli succederononel governo di quel monastero, e di Eustasio abate diLuxeuil; a cui pure aggiunse la Relazione delle maravi-glie avvenute nel monastero di Evoraco, ossia di Fare-moutier nella diocesi di Meaux, mentre ne era abadessas. Fara detta ancor Burgondofara. Credesi ancora ch'eglistesso sia l'autor della Vita di s. Giovanni abate del mo-nastero di Reomè, che or dicesi Moutier S. Giovanni.Tutte le quali Vite, oltre altre edizioni, sono state pubbli-cate dal p. Mabillon (Acta SS. Ord. s. Bened. t. 1). Eglifinì di vivere verso l'an. 670, e di lui pure si posson ve-dere i sopra mentovati scrittori (Ceillier t. 13, p. 657.Hist. letter. de la France t. 3, p. 603).

XXIII. Il celebre monastero di Monte Casi-no ci darà nei tempi avvenire copioso argo-mento di lode nel coltivamento de' sacri stu-dj. Ma ne' primi anni dell'epoca di cui scri-

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Fausto mo-naco diMonte Ca-sino.

del monastero di s. Colombano, e quindi passato nelleGallie ed eletto abate del monastero di Enona pressoMastricht. Ei visse in grande stima non solo tra i suoi,ma alla corte ancora di Francia, ove dalla reina Batildefu in più affari adoperato, mentre ella reggeva il regnonella minorità del suo figlio Clotario III. Era egli natiodi Susa in Piemonte, come pruova il Mabillon (Ann. be-ned. t. 1, l. 11, n. 17). A lui siam debitori delle notizieche ci sono rimaste intorno a s. Colombano e a' suoi pri-mi discepoli; perciocchè egli scrisse la Vita di questofondatore, e di Attala, e di Bertulfo, che gli succederononel governo di quel monastero, e di Eustasio abate diLuxeuil; a cui pure aggiunse la Relazione delle maravi-glie avvenute nel monastero di Evoraco, ossia di Fare-moutier nella diocesi di Meaux, mentre ne era abadessas. Fara detta ancor Burgondofara. Credesi ancora ch'eglistesso sia l'autor della Vita di s. Giovanni abate del mo-nastero di Reomè, che or dicesi Moutier S. Giovanni.Tutte le quali Vite, oltre altre edizioni, sono state pubbli-cate dal p. Mabillon (Acta SS. Ord. s. Bened. t. 1). Eglifinì di vivere verso l'an. 670, e di lui pure si posson ve-dere i sopra mentovati scrittori (Ceillier t. 13, p. 657.Hist. letter. de la France t. 3, p. 603).

XXIII. Il celebre monastero di Monte Casi-no ci darà nei tempi avvenire copioso argo-mento di lode nel coltivamento de' sacri stu-dj. Ma ne' primi anni dell'epoca di cui scri-

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Fausto mo-naco diMonte Ca-sino.

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viamo, sorsero per que' monaci tempi troppo funesti,perchè potessero in essi occuparsi. L'an. 580 fu il lormonastero interamente rovinato da' Longobardi, e i mo-naci vennero trasferiti a Roma, e posti nella basilica la-teranese (V. Mabill. Ann. t. 1, l. 7, n. 1 ec.); finchè versol'an. 718 Petronace nobil bresciano venuto a Roma adistanza del pontef. Gregorio II passò a Monte Casino, evi rifabbricò il monastero che si rendette poscia sì illu-stre (ib. t. 2, l. 20, n. 32). In questo frattempo noi dob-biam quì far menzione di Fausto, uno de' discepoli di s.Benedetto, e da lui inviato nelle Gallie insiem con s.Mauro l'an. 542. Di lui racconta Leon marsicano(Chron. Casin. l. 1, c. 3) che a' tempi di Bonifacio III,cioè l'an. 606, tornato a Roma, e riunitosi co' suoi Casi-nesi nella basilica lateranese, alle preghiere dell'abateTeodoro scrisse la Vita di s. Mauro, che vedesi pubblica-ta dopo altri dal p. Mabillon (Acta SS. Ord. s. Bened. t.1). Ma a me sembra che questo dottiss. autore non abbiasu questo punto usata la consueta sua ammirabile esat-tezza. Egli in un luogo (Ann. l. 1, l. 7, n. 25) sembra in-dicare che Fausto tornasse in Italia due anni dopo lamorte di s. Mauro, che avvenne l'an. 584. Poscia altroveracconta esser ciò avvenuto a' tempi di Bonifacio IIIl'an. 606 (ib. l. 10, n. 37). A quale di queste due sentenzeci appiglieremo noi? Forse ei tornò in Italia l'an. 584 eposcia l'an. 606 scrisse la mentovata Vita. Certo lo stes-so Fausto nella prefazione postale innanzi racconta diaverla mostrata al pontef. Bonifacio, e di averne da luiavuta favorevole approvazione; e l'autorità di Leon mar-

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viamo, sorsero per que' monaci tempi troppo funesti,perchè potessero in essi occuparsi. L'an. 580 fu il lormonastero interamente rovinato da' Longobardi, e i mo-naci vennero trasferiti a Roma, e posti nella basilica la-teranese (V. Mabill. Ann. t. 1, l. 7, n. 1 ec.); finchè versol'an. 718 Petronace nobil bresciano venuto a Roma adistanza del pontef. Gregorio II passò a Monte Casino, evi rifabbricò il monastero che si rendette poscia sì illu-stre (ib. t. 2, l. 20, n. 32). In questo frattempo noi dob-biam quì far menzione di Fausto, uno de' discepoli di s.Benedetto, e da lui inviato nelle Gallie insiem con s.Mauro l'an. 542. Di lui racconta Leon marsicano(Chron. Casin. l. 1, c. 3) che a' tempi di Bonifacio III,cioè l'an. 606, tornato a Roma, e riunitosi co' suoi Casi-nesi nella basilica lateranese, alle preghiere dell'abateTeodoro scrisse la Vita di s. Mauro, che vedesi pubblica-ta dopo altri dal p. Mabillon (Acta SS. Ord. s. Bened. t.1). Ma a me sembra che questo dottiss. autore non abbiasu questo punto usata la consueta sua ammirabile esat-tezza. Egli in un luogo (Ann. l. 1, l. 7, n. 25) sembra in-dicare che Fausto tornasse in Italia due anni dopo lamorte di s. Mauro, che avvenne l'an. 584. Poscia altroveracconta esser ciò avvenuto a' tempi di Bonifacio IIIl'an. 606 (ib. l. 10, n. 37). A quale di queste due sentenzeci appiglieremo noi? Forse ei tornò in Italia l'an. 584 eposcia l'an. 606 scrisse la mentovata Vita. Certo lo stes-so Fausto nella prefazione postale innanzi racconta diaverla mostrata al pontef. Bonifacio, e di averne da luiavuta favorevole approvazione; e l'autorità di Leon mar-

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sicano non ci permette di dubitare che non debbasi ciòintendere di Bonifacio III. Intorno a Fausto si veggan lonote dell'erudito can. Giambattista Mari al libro di Pie-tro diacono degli Illustri Monaci Casinesi pubblicatodopo altri dal Muratori (Script. rer. ital. vol. 6, p. 11).

XXIV. Al monastero medesimo di MonteCasino dovrebbe appartenere un altro scrit-tore di questo secolo, se potessimo affer-mar con certezza ch'egli sia mai stato almondo. Il ch. Muratori ha pubblicato pri-

ma di ogni altro un opuscolo intitolato: Epitome Chroni-corum Casinensium (Script. rer. ital. t. 2, pars 1, p.351), di cui ne' codici manoscritti si dice che sia autoreun Anastasio monaco di Monte Casino, e poscia cardi-nale e bibliotecario della chiesa romana a' tempi di Ste-fano II, detto da altri III, cioè dall'anno 752 fino al 757,il quale Anastasio a distinzione dell'altro posteriore epiù celebre Anastasio scrittor delle Vite de' Pontefici sidice il vecchio. Questa Epitome sembra indirizzata sin-golarmente a provare che le ceneri di s. Benedetto e di s.Scolastica dopo essere state trasportate in Francia, il cheda questo autor si concede, furon poscia di nuovo recatea Monte Casino a' tempi del mentovato pontefice. Quin-di non è maraviglia che i benedettini francesi rigettinocome supposto un tale scrittore, che troppo è contrarioalla persuasione fermissima in cui sono, di possederetuttora quel venerabil tesoro; e si posson vedere le lor

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Anastasio bi-bliotecario il vecchio sem-bra autor supposto.

sicano non ci permette di dubitare che non debbasi ciòintendere di Bonifacio III. Intorno a Fausto si veggan lonote dell'erudito can. Giambattista Mari al libro di Pie-tro diacono degli Illustri Monaci Casinesi pubblicatodopo altri dal Muratori (Script. rer. ital. vol. 6, p. 11).

XXIV. Al monastero medesimo di MonteCasino dovrebbe appartenere un altro scrit-tore di questo secolo, se potessimo affer-mar con certezza ch'egli sia mai stato almondo. Il ch. Muratori ha pubblicato pri-

ma di ogni altro un opuscolo intitolato: Epitome Chroni-corum Casinensium (Script. rer. ital. t. 2, pars 1, p.351), di cui ne' codici manoscritti si dice che sia autoreun Anastasio monaco di Monte Casino, e poscia cardi-nale e bibliotecario della chiesa romana a' tempi di Ste-fano II, detto da altri III, cioè dall'anno 752 fino al 757,il quale Anastasio a distinzione dell'altro posteriore epiù celebre Anastasio scrittor delle Vite de' Pontefici sidice il vecchio. Questa Epitome sembra indirizzata sin-golarmente a provare che le ceneri di s. Benedetto e di s.Scolastica dopo essere state trasportate in Francia, il cheda questo autor si concede, furon poscia di nuovo recatea Monte Casino a' tempi del mentovato pontefice. Quin-di non è maraviglia che i benedettini francesi rigettinocome supposto un tale scrittore, che troppo è contrarioalla persuasione fermissima in cui sono, di possederetuttora quel venerabil tesoro; e si posson vedere le lor

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Anastasio bi-bliotecario il vecchio sem-bra autor supposto.

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ragioni presso il più dotto loro sostenitore cioè il p. Ma-billon (Acta SS. Ord. s. Bened. saec. 2). Ma anche il ch.Muratori assai favorevol si mostra a creder suppostoquesto scrittore, sì perchè questa Epitome stendesi finoa un secolo dopo il tempo in cui si vuol che vivesse que-sto Anastasio, sì perchè Pietro diacono che nel sec. XIIha scritto un libro degli Uomini illustri di Monte Casino,di lui non fa motto, e di lui parimenti non trovasi men-zione alcuna presso verun antico scrittore. Quindi a meancora sembra più verisimile che sia stata questa operascritta assai più tardi, e attribuita, per darle credito, a unAnastasio bibliotecario.

XXV. Aggiugniam qui finalmente un altrocelebre monaco di un altro pur celebre mo-nastero, cioè Ambrogio Autperto. Noi noncontrasteremo a' Francesi la gloria di anno-verarlo tra' loro, poichè è certo ch'ei fu natio

delle Gallie; ma il soggiorno di molti anni di lui fattonel monastero di S. Vincenzo presso il fiume Volturnonon lungi da Benevento, ci dà qualche diritto a farnemenzione ancora tra' nostri; e molto più che tutte le sueopere egli scrisse in questo medesimo monastero. Paolodiacono lo dice dottissimo uomo (de Gest. Lang. l. 6,40), e rammenta un'opera da lui composta intorno allafondazione e a' fondatori di quel monastero. Essa ancorci rimane, ed è stata inserita dal p. Mabillon negli Attide' Santi del suo Ordine. Giovanni Monaco nella Storia

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Notizie delmonacoAmbrogioAutperto.

ragioni presso il più dotto loro sostenitore cioè il p. Ma-billon (Acta SS. Ord. s. Bened. saec. 2). Ma anche il ch.Muratori assai favorevol si mostra a creder suppostoquesto scrittore, sì perchè questa Epitome stendesi finoa un secolo dopo il tempo in cui si vuol che vivesse que-sto Anastasio, sì perchè Pietro diacono che nel sec. XIIha scritto un libro degli Uomini illustri di Monte Casino,di lui non fa motto, e di lui parimenti non trovasi men-zione alcuna presso verun antico scrittore. Quindi a meancora sembra più verisimile che sia stata questa operascritta assai più tardi, e attribuita, per darle credito, a unAnastasio bibliotecario.

XXV. Aggiugniam qui finalmente un altrocelebre monaco di un altro pur celebre mo-nastero, cioè Ambrogio Autperto. Noi noncontrasteremo a' Francesi la gloria di anno-verarlo tra' loro, poichè è certo ch'ei fu natio

delle Gallie; ma il soggiorno di molti anni di lui fattonel monastero di S. Vincenzo presso il fiume Volturnonon lungi da Benevento, ci dà qualche diritto a farnemenzione ancora tra' nostri; e molto più che tutte le sueopere egli scrisse in questo medesimo monastero. Paolodiacono lo dice dottissimo uomo (de Gest. Lang. l. 6,40), e rammenta un'opera da lui composta intorno allafondazione e a' fondatori di quel monastero. Essa ancorci rimane, ed è stata inserita dal p. Mabillon negli Attide' Santi del suo Ordine. Giovanni Monaco nella Storia

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Notizie delmonacoAmbrogioAutperto.

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del Monastero di S. Vincenzo inserita nella gran Raccol-ta Muratoriana (Script. rer. ital. t. 1 pars 2) parlando diAmbrogio Autperto, oltre il detto libro fa ancor menzio-ne (p. 360) di molti libri della Scrittura, ch'egli aveaesposti, cioè il Levitico, la Cantica de' Cantici, i Salmi,di molte Omelie sui Vangeli, e del libro intitolato DeConflictu vitiorum et virtutum. De' Comenti sulla Scrit-tura altro non ci è rimasto, che quello assai stesosull'Apocalissi, che vedesi nella Biblioteca de' PP. da luidedicato al papa Stefano III. Abbiamo pure il mentovatolibro Del Contrasto delle virtù e dei vizj, che è stato at-tribuito senza ragione da alcuni a s. Ambrogio, da altri as. Agostino, tra le cui Opere supposte è stato pubblicatoanche da' dotti Maurini (App. ad vol. 6). Ma una diffi-coltà incontrasi nel fare autore di questo trattato Ambro-gio Autperto. Egli dopo aver parlato di altri monaci anti-chi vissuti in Egitto e in altre straniere provincie, cosìdice (c. 33): "Ecce ut ad vicinos nostros veniamus, Pro-tasius et Gervasius in propria hac Mediolanensi Civitate,ec.". Come mai chi abitava presso Benevento potea direin questa città di Milano? Alcuni pretendono che questocapo sia stato aggiunto da altri al libro di AmbrogioAutperto. Ma gli autori della Storia Letteraria di Fran-cia, i quali a lungo hanno scritto di questo celebre mo-naco (t. 4, p. 141), sostengono che egli anche di questocapo dee credersi autore; e tanto sono essi lungidall'atterrirsi per tai parole, che anzi affermano che lavicinanza di Milano, che qui si accenna dallo scrittoredel libro, è una pruova ch'egli è appunto Ambrogio Aut-

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del Monastero di S. Vincenzo inserita nella gran Raccol-ta Muratoriana (Script. rer. ital. t. 1 pars 2) parlando diAmbrogio Autperto, oltre il detto libro fa ancor menzio-ne (p. 360) di molti libri della Scrittura, ch'egli aveaesposti, cioè il Levitico, la Cantica de' Cantici, i Salmi,di molte Omelie sui Vangeli, e del libro intitolato DeConflictu vitiorum et virtutum. De' Comenti sulla Scrit-tura altro non ci è rimasto, che quello assai stesosull'Apocalissi, che vedesi nella Biblioteca de' PP. da luidedicato al papa Stefano III. Abbiamo pure il mentovatolibro Del Contrasto delle virtù e dei vizj, che è stato at-tribuito senza ragione da alcuni a s. Ambrogio, da altri as. Agostino, tra le cui Opere supposte è stato pubblicatoanche da' dotti Maurini (App. ad vol. 6). Ma una diffi-coltà incontrasi nel fare autore di questo trattato Ambro-gio Autperto. Egli dopo aver parlato di altri monaci anti-chi vissuti in Egitto e in altre straniere provincie, cosìdice (c. 33): "Ecce ut ad vicinos nostros veniamus, Pro-tasius et Gervasius in propria hac Mediolanensi Civitate,ec.". Come mai chi abitava presso Benevento potea direin questa città di Milano? Alcuni pretendono che questocapo sia stato aggiunto da altri al libro di AmbrogioAutperto. Ma gli autori della Storia Letteraria di Fran-cia, i quali a lungo hanno scritto di questo celebre mo-naco (t. 4, p. 141), sostengono che egli anche di questocapo dee credersi autore; e tanto sono essi lungidall'atterrirsi per tai parole, che anzi affermano che lavicinanza di Milano, che qui si accenna dallo scrittoredel libro, è una pruova ch'egli è appunto Ambrogio Aut-

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perto. È egli possibile che questi dotti scrittori non ab-biano osservata la distanza di oltre a 500 miglia, chepassa tra Benevento e Milano? Come dunque chi viveapresso Benevento potea nominar Milano città vicina, emolto più dire: in questa città di Milano? I Maurini edi-tori delle Opere di s. Agostino, con maggior riflessioneavvertono che Milano poteasi chiamar vicino in con-fronto delle altre città poc'anzi nominate. Ma ancorchèciò si conceda, potea forse questo bastare per dire inquesta città? Meglio dunque o negar che quel passo siadi Ambrogio Autperto, o almen asserire che quelle paro-le in propria hac vi siano state aggiunte per man d'alcu-no, che credendone autor s. Ambrogio, pensò ch'egli do-vesse scriver così. Ambrogio Autperto morì l'an. 779mentre andava a Roma, perchè dal pontef. Adriano sidicidesse la contesa ch'era insorta per la sua elezionealla dignità di abate di quel monastero. Di che e delle al-tre cose che a lui appartengono veggansi, oltre i citatiautori, il p. Mabillon (Ann. Bened. t. 2, l. 24, n. 71, 93) eil p. Ceillier (Hist. des Aut. eccl. t. 18, p. 119).

CAPO III.Belle Lettere.

I. La necessità di mantener tra' Cattolici edi difender contro gli Eretici i dogmi dellaReligione, anche fra questi tempi di bar-barie e di sconvolgimento condusse alcu-

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Stato infelicedell'amena let-teratura, e ori-gine di esso.

perto. È egli possibile che questi dotti scrittori non ab-biano osservata la distanza di oltre a 500 miglia, chepassa tra Benevento e Milano? Come dunque chi viveapresso Benevento potea nominar Milano città vicina, emolto più dire: in questa città di Milano? I Maurini edi-tori delle Opere di s. Agostino, con maggior riflessioneavvertono che Milano poteasi chiamar vicino in con-fronto delle altre città poc'anzi nominate. Ma ancorchèciò si conceda, potea forse questo bastare per dire inquesta città? Meglio dunque o negar che quel passo siadi Ambrogio Autperto, o almen asserire che quelle paro-le in propria hac vi siano state aggiunte per man d'alcu-no, che credendone autor s. Ambrogio, pensò ch'egli do-vesse scriver così. Ambrogio Autperto morì l'an. 779mentre andava a Roma, perchè dal pontef. Adriano sidicidesse la contesa ch'era insorta per la sua elezionealla dignità di abate di quel monastero. Di che e delle al-tre cose che a lui appartengono veggansi, oltre i citatiautori, il p. Mabillon (Ann. Bened. t. 2, l. 24, n. 71, 93) eil p. Ceillier (Hist. des Aut. eccl. t. 18, p. 119).

CAPO III.Belle Lettere.

I. La necessità di mantener tra' Cattolici edi difender contro gli Eretici i dogmi dellaReligione, anche fra questi tempi di bar-barie e di sconvolgimento condusse alcu-

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Stato infelicedell'amena let-teratura, e ori-gine di esso.

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ni, come abbiam dimostrato, a coltivare gli studj sacri.Ma l'amena letteratura non era da stimolo, o da motivoalcuno avvivata. I Longobardi che signoreggiavano unagran parte d'Italia, appena ne conoscevano il nome. IGreci ch'eran padroni dell'altra, giaceansi essi ancora diquesti tempi in una profonda ignoranza. Gl'Italiani ge-mevano fra le comuni sciagure; e ancor negli anni mentorbidi a chi potevan essi sperar di piacere co' loro studj,e qual premio e da chi potevano aspettarsene? Privi discuole, di maestri, di libri come potevano divenire ora-tori, poeti, storici valorosi ancorchè a dispetto, per cosìdire, delle pubbliche calamità avesser cercato di rendersieccellenti in quese arti? La descrizion dello stato in cuitrovossi l'Italia nel VII e nell'VIII secolo, che abbiamfatta nel primo capo di questo libro, dee già aver preve-nuti bastevolmente i lettori, sicchè essi non si maravigli-no al vedere sì pochi e sì infelici coltivatori dell'amenaletteratura. La Grecia stessa, che pure non fu soggettaalle funeste vicende a cui soggiacque l'Italia, eraanch'essa in un deplorabile stato; e basti riflettere a ciòche narra lo stesso s. Gregorio il grande, cioè che in Co-stantinopoli non trovavasi chi sapesse felicemente reca-re una qualche si fosse scrittura di greco in latino, o dilatino in greco (l. 7, ep. 30). Nè dissomigliante era lacondizion della Francia, come han dimostrato gli eruditiMaurini da noi più volte citati. Noi verrem dunque dili-gentemente cercando, quanto ci sarà possibile, que' po-chi frutti di amena letteratura, che produsse di questitempi l'Italia, e ci anderem confortando sulla speranza,

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ni, come abbiam dimostrato, a coltivare gli studj sacri.Ma l'amena letteratura non era da stimolo, o da motivoalcuno avvivata. I Longobardi che signoreggiavano unagran parte d'Italia, appena ne conoscevano il nome. IGreci ch'eran padroni dell'altra, giaceansi essi ancora diquesti tempi in una profonda ignoranza. Gl'Italiani ge-mevano fra le comuni sciagure; e ancor negli anni mentorbidi a chi potevan essi sperar di piacere co' loro studj,e qual premio e da chi potevano aspettarsene? Privi discuole, di maestri, di libri come potevano divenire ora-tori, poeti, storici valorosi ancorchè a dispetto, per cosìdire, delle pubbliche calamità avesser cercato di rendersieccellenti in quese arti? La descrizion dello stato in cuitrovossi l'Italia nel VII e nell'VIII secolo, che abbiamfatta nel primo capo di questo libro, dee già aver preve-nuti bastevolmente i lettori, sicchè essi non si maravigli-no al vedere sì pochi e sì infelici coltivatori dell'amenaletteratura. La Grecia stessa, che pure non fu soggettaalle funeste vicende a cui soggiacque l'Italia, eraanch'essa in un deplorabile stato; e basti riflettere a ciòche narra lo stesso s. Gregorio il grande, cioè che in Co-stantinopoli non trovavasi chi sapesse felicemente reca-re una qualche si fosse scrittura di greco in latino, o dilatino in greco (l. 7, ep. 30). Nè dissomigliante era lacondizion della Francia, come han dimostrato gli eruditiMaurini da noi più volte citati. Noi verrem dunque dili-gentemente cercando, quanto ci sarà possibile, que' po-chi frutti di amena letteratura, che produsse di questitempi l'Italia, e ci anderem confortando sulla speranza,

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benchè ancora lontana, di più lieta messe.

II. E primieramente vuolsi avvertire che lostudio della lingua greca, che prima era sìfamigliare in Italia, e che poscia dopol'invasione de' Barbari venne quasi dimen-ticato, non cadde però per modo, che inogni tempo non vi fossero alcuni in essa

versati. Il dominio che i Greci tennero al tempo de' Lon-gobardi in una non picciola parte di Italia, dovette con-tribuire assai a serbar vivo lo studio della lor lingua. "Inalcune chiese del regno di Napoli mantennesi costante-mente la Liturgia Greca, e quella della stessa città di Na-poli, che insieme alla Campania essendo immediata-mente soggetta al romano pontefice, avea perciò adotta-to il Rito Latino, dopo i tempi di s. Gregorio per operadel patriarca di Costantinopoli tornò in parte a divenirgreca, e più chiese vi erano di rito greco; il che doveanon poco giovare a mantener vivo lo studio di quellalingua. Belle notizie ci ha date su questo argomento ilsig. Napoli Signorelli, non solo riguardo a' tempi di cuiparliamo (Vicende della Coltura nelle due Sicilie t. 2, p.103) ma anche riguardo a' secoli susseguenti (ivi p.184); ed egli osserva fra le altre cose che dal XII fino alXVI secolo non mai cessarono le Scuole greche diOtranto e di Nardò da noi pure mentovate altrove, cheanche a' tempi de' Normanni e degli Svevi fu talmentein uso la lingua greca, che moltissime pergamene si tro-

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Lo studio però della lingua greca non fu intera-mente di-menticato.

benchè ancora lontana, di più lieta messe.

II. E primieramente vuolsi avvertire che lostudio della lingua greca, che prima era sìfamigliare in Italia, e che poscia dopol'invasione de' Barbari venne quasi dimen-ticato, non cadde però per modo, che inogni tempo non vi fossero alcuni in essa

versati. Il dominio che i Greci tennero al tempo de' Lon-gobardi in una non picciola parte di Italia, dovette con-tribuire assai a serbar vivo lo studio della lor lingua. "Inalcune chiese del regno di Napoli mantennesi costante-mente la Liturgia Greca, e quella della stessa città di Na-poli, che insieme alla Campania essendo immediata-mente soggetta al romano pontefice, avea perciò adotta-to il Rito Latino, dopo i tempi di s. Gregorio per operadel patriarca di Costantinopoli tornò in parte a divenirgreca, e più chiese vi erano di rito greco; il che doveanon poco giovare a mantener vivo lo studio di quellalingua. Belle notizie ci ha date su questo argomento ilsig. Napoli Signorelli, non solo riguardo a' tempi di cuiparliamo (Vicende della Coltura nelle due Sicilie t. 2, p.103) ma anche riguardo a' secoli susseguenti (ivi p.184); ed egli osserva fra le altre cose che dal XII fino alXVI secolo non mai cessarono le Scuole greche diOtranto e di Nardò da noi pure mentovate altrove, cheanche a' tempi de' Normanni e degli Svevi fu talmentein uso la lingua greca, che moltissime pergamene si tro-

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Lo studio però della lingua greca non fu intera-mente di-menticato.

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vano in essa scritte, e che Federigo II credette necessa-rio che le sue Costituzioni pel regno di Sicilia non solosi pubblicassero in latino, ma anche in greco (ivi p.273); e che lo stesso accadde sotto i re francesi (ivi t. 3,p. 41), e che anche al presente in vari paesi calabresi epugliesi si parla il moderno greco volgare presso chenella medesima guisa che nella Grecia (ivi p. 42)". Noidovremo fra poco parlar del celebre Giovanni di Raven-na, che in questa lingua ancora parlava con facilità edeleganza maravigliosa. In Roma oltre la ragione medesi-ma del dominio de' Greci, a cui essa ubbidiva, si aggiun-se ancora a mantenere in qualche fiore lo studio dellalingua greca la necessità in cui erano i romani pontefici,di aver frequente commercio cogl'imperadori e co' ve-scovi greci; perciocchè non intendendosi da essi comu-nemente la lingua latina, ed altro idioma non sapendousare che il greco, conveniva loro aver uomini che po-tessero interpretare le lettere che venivan di Grecia, e farloro le opportune risposte. E questo io penso che fosseun dei motivi per cui il pontef. Paolo I verso l'anno 760avendo fondato nella paterna sua casa un monastero inonore dei santi Stefano e Silvestro, volle come raccontaAnastasio (Script. rer. ital. t. 3, pars 1, p. 173), che imonaci usassero ne' Divini Uffici la lingua greca. Il qualconsiglio fu poscia da altri pontefici ne' tempi seguentiimitato, come a suo luogo vedremo. Così i papi poteva-no aver facilmente uomini di cui valersi a intendere lelettere e i libri che si scrivean da' Grecj, e a scrivere an-cora, ove fosse d'uopo, in tal lingua. Abbiamo inoltre

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vano in essa scritte, e che Federigo II credette necessa-rio che le sue Costituzioni pel regno di Sicilia non solosi pubblicassero in latino, ma anche in greco (ivi p.273); e che lo stesso accadde sotto i re francesi (ivi t. 3,p. 41), e che anche al presente in vari paesi calabresi epugliesi si parla il moderno greco volgare presso chenella medesima guisa che nella Grecia (ivi p. 42)". Noidovremo fra poco parlar del celebre Giovanni di Raven-na, che in questa lingua ancora parlava con facilità edeleganza maravigliosa. In Roma oltre la ragione medesi-ma del dominio de' Greci, a cui essa ubbidiva, si aggiun-se ancora a mantenere in qualche fiore lo studio dellalingua greca la necessità in cui erano i romani pontefici,di aver frequente commercio cogl'imperadori e co' ve-scovi greci; perciocchè non intendendosi da essi comu-nemente la lingua latina, ed altro idioma non sapendousare che il greco, conveniva loro aver uomini che po-tessero interpretare le lettere che venivan di Grecia, e farloro le opportune risposte. E questo io penso che fosseun dei motivi per cui il pontef. Paolo I verso l'anno 760avendo fondato nella paterna sua casa un monastero inonore dei santi Stefano e Silvestro, volle come raccontaAnastasio (Script. rer. ital. t. 3, pars 1, p. 173), che imonaci usassero ne' Divini Uffici la lingua greca. Il qualconsiglio fu poscia da altri pontefici ne' tempi seguentiimitato, come a suo luogo vedremo. Così i papi poteva-no aver facilmente uomini di cui valersi a intendere lelettere e i libri che si scrivean da' Grecj, e a scrivere an-cora, ove fosse d'uopo, in tal lingua. Abbiamo inoltre

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veduto che s. Leone II era in amendue le lingue erudito.E in Milano ancora, benchè non avesse questa città co-municazione alcuna co' Greci, vi ebbe nondimeno, comegià si è detto, l'arcivesc. Natale che possedeva non sol lagreca, ma anche l'ebraica favella. Il ch. monsig. Grade-nigo da noi altre volte mentovato con lode ha pubblicatoun erudito Ragionamento intorno alla letteratura greco-italiana (Brescia, 1759, in 8); in cui egli dimostra cheanche ne' bassi secoli non son mancati all'Italia i coltiva-tori della lingua greca. Egli però ha ristrette le sue ricer-che al sec. XI e a' seguenti fino al XIV, perciocchè diceche "pei secoli che l'undecimo precedettero, sì scarse erare ne abbiam le memorie, che si può dire affatto per-duto per quel corso di tempo presso de' nostri alle gre-che lettere l'amore, (p. 18)". E certo non può negarsi chepochissimi in questi tempi fossero, singolarmente ne'paesi de' Longobardi, coloro che sapesser di greco. Non-dimeno ciò che ora abbiam detto, e ciò che dovrem direne' due secoli susseguenti, ci mostra che qualche studiodi detta lingua si fece in Italia anche in que' tempi chead essa furono i più infelici.

III. Sì pochi coltivatori ebbe ancora lapoesia, che l'unico di questa età, cui ilnome di poeta possa in qualche modoconcedersi, è Venanzio Fortunato vesc.di Poitiers. Io non so su qual fondamen-

to l'ab. Longchamps abbia voluto sparger de' dubbj sulla

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Venanzio Fortu-nato quasi il solopoeta di questa età: sua patria, suoi studj.

veduto che s. Leone II era in amendue le lingue erudito.E in Milano ancora, benchè non avesse questa città co-municazione alcuna co' Greci, vi ebbe nondimeno, comegià si è detto, l'arcivesc. Natale che possedeva non sol lagreca, ma anche l'ebraica favella. Il ch. monsig. Grade-nigo da noi altre volte mentovato con lode ha pubblicatoun erudito Ragionamento intorno alla letteratura greco-italiana (Brescia, 1759, in 8); in cui egli dimostra cheanche ne' bassi secoli non son mancati all'Italia i coltiva-tori della lingua greca. Egli però ha ristrette le sue ricer-che al sec. XI e a' seguenti fino al XIV, perciocchè diceche "pei secoli che l'undecimo precedettero, sì scarse erare ne abbiam le memorie, che si può dire affatto per-duto per quel corso di tempo presso de' nostri alle gre-che lettere l'amore, (p. 18)". E certo non può negarsi chepochissimi in questi tempi fossero, singolarmente ne'paesi de' Longobardi, coloro che sapesser di greco. Non-dimeno ciò che ora abbiam detto, e ciò che dovrem direne' due secoli susseguenti, ci mostra che qualche studiodi detta lingua si fece in Italia anche in que' tempi chead essa furono i più infelici.

III. Sì pochi coltivatori ebbe ancora lapoesia, che l'unico di questa età, cui ilnome di poeta possa in qualche modoconcedersi, è Venanzio Fortunato vesc.di Poitiers. Io non so su qual fondamen-

to l'ab. Longchamps abbia voluto sparger de' dubbj sulla

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Venanzio Fortu-nato quasi il solopoeta di questa età: sua patria, suoi studj.

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patria di questo scrittore, dicendo che di ciò non vi sonoche oscure notizie, che alcuni il fanno nascere a Poitiers,ma ch'è probabile ch'ei nascesse in Ceneda (Tabl. hist.,ec. t. 3 p. 84, ec.). Non vi è scrittore di cui sia più certala patria, che di Venanzio Fortunato. Non solo Paolodiacono chiaramente la segna, dicendo di lui: "natusquidem in loco, qui Duplavilis dicitur, fuit, qui locushaud longe a Cenetense Castro vel Tarvisina distat civi-tate (de Gest Lang. l. 2, c. 13)"; ma egli stesso ce ne par-la in modo che non lascia dubbio, o oscurità alcuna. Per Cenetam gradiens, et amicos Duplavilenses, Quae natale solum est mihi (De Vita s. Martini l. 4).

Poteva egli nominare più espressamente la sua patria?Ella fu dunque la terra detta anticamente Duplavilis, oDuplavenis, che è quella che or dicesi Valdebiadene (16),ovvero, come pensa il sig. Liruti (Notizie de' Letter. delFriuli t. 1, p. 134), la terra di s. Salvadore, terre amen-due poste non molto lungi da Ceneda e da Trivigi, laqual seconda città ancora è da lui per tal motivo chiama-

16 La terra di Valdebiadene patria di Venanzio Fortunato vesc. di Poitiers ap-partiene al territorio trivigiano, come mi ha avvertito l'eruditiss. co. Ram-baldo degli Azzoni Avogaro can. di Trevigi; il quale ancora mi ha indicatol'antico costume della chiesa di Poitiers, che dura anche al presente, di ce-lebrare la festa di questo suo vescovo a' 14 di dic. con ufficio proprio dirito doppio. Con ugual diritto poi che tra' poeti latini poteasi da noi anno-verare Venanzio tra gli scrittori sacri, poichè oltre alcune opere da noi ac-cennate, ne abbiamo ancora le Omelie e la Sposizione dell'Orazione Do-menicale e del Simbolo Apostolico, e alcune lettere, e innoltre la spiega-zione del Simbolo Quicumque pubblicata ne' suoi Aneddoti latini dal Mu-ratori, il quale anche arreca più congetture a provare che di quel Simboloattribuito comunemente a s. Anastasio sia autore lo stesso Venanzio.

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patria di questo scrittore, dicendo che di ciò non vi sonoche oscure notizie, che alcuni il fanno nascere a Poitiers,ma ch'è probabile ch'ei nascesse in Ceneda (Tabl. hist.,ec. t. 3 p. 84, ec.). Non vi è scrittore di cui sia più certala patria, che di Venanzio Fortunato. Non solo Paolodiacono chiaramente la segna, dicendo di lui: "natusquidem in loco, qui Duplavilis dicitur, fuit, qui locushaud longe a Cenetense Castro vel Tarvisina distat civi-tate (de Gest Lang. l. 2, c. 13)"; ma egli stesso ce ne par-la in modo che non lascia dubbio, o oscurità alcuna. Per Cenetam gradiens, et amicos Duplavilenses, Quae natale solum est mihi (De Vita s. Martini l. 4).

Poteva egli nominare più espressamente la sua patria?Ella fu dunque la terra detta anticamente Duplavilis, oDuplavenis, che è quella che or dicesi Valdebiadene (16),ovvero, come pensa il sig. Liruti (Notizie de' Letter. delFriuli t. 1, p. 134), la terra di s. Salvadore, terre amen-due poste non molto lungi da Ceneda e da Trivigi, laqual seconda città ancora è da lui per tal motivo chiama-

16 La terra di Valdebiadene patria di Venanzio Fortunato vesc. di Poitiers ap-partiene al territorio trivigiano, come mi ha avvertito l'eruditiss. co. Ram-baldo degli Azzoni Avogaro can. di Trevigi; il quale ancora mi ha indicatol'antico costume della chiesa di Poitiers, che dura anche al presente, di ce-lebrare la festa di questo suo vescovo a' 14 di dic. con ufficio proprio dirito doppio. Con ugual diritto poi che tra' poeti latini poteasi da noi anno-verare Venanzio tra gli scrittori sacri, poichè oltre alcune opere da noi ac-cennate, ne abbiamo ancora le Omelie e la Sposizione dell'Orazione Do-menicale e del Simbolo Apostolico, e alcune lettere, e innoltre la spiega-zione del Simbolo Quicumque pubblicata ne' suoi Aneddoti latini dal Mu-ratori, il quale anche arreca più congetture a provare che di quel Simboloattribuito comunemente a s. Anastasio sia autore lo stesso Venanzio.

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ta sua: Qua mea Tarvisus residet (l. c.). Paolo diaconosiegue poscia a narrare che Venanzio Fortunato atteseagli studj in Ravenna, e coltivando la gramatica, la ret-torica, la poesia, vi si rendette famoso. A que' tempi erafacile il divenirlo; e Venanzio che ora appena si annove-ra tra' poeti, dovea allora sembrare un nuovo Virgilio.Egli parla di se stesso più modestamente assai, e ragio-nando de' giovanili suoi studj, così ne dice: Ast ego sensus inops, Italae quota portio linguae, Faece gravis, sermone levis, ratione pigrescens, Mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers, Parvula gramaticae lambens refluamina guttae, Rhetoricae exiguum praelibans gurgitis haustum, Cote ex juridica cui vix rubigo recessit; Quae prius addidici dediscens, et cui tantum Artibus ex illis odor est in naribus istis

(de Vita s. Martini l. 1).

Questi versi medesimi ci fan vedere che non era certoVenanzio un gran poeta, e benchè egli parli in essi di semedesimo con sentimenti troppo modesti, ci persuadeperò facilmente ch'ei non fosse nella gramatica e nellapoesia versato molto.

IV. Mentre ei trattenevasi in Ravenna insie-me con Felice che fu poi vesc. di Trivigi,furono presi amendue da un mal gravissimodi occhi, a cui non trovando altronde rime-

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Altre epo-che della sua vita: sue Opere.

ta sua: Qua mea Tarvisus residet (l. c.). Paolo diaconosiegue poscia a narrare che Venanzio Fortunato atteseagli studj in Ravenna, e coltivando la gramatica, la ret-torica, la poesia, vi si rendette famoso. A que' tempi erafacile il divenirlo; e Venanzio che ora appena si annove-ra tra' poeti, dovea allora sembrare un nuovo Virgilio.Egli parla di se stesso più modestamente assai, e ragio-nando de' giovanili suoi studj, così ne dice: Ast ego sensus inops, Italae quota portio linguae, Faece gravis, sermone levis, ratione pigrescens, Mente hebes, arte carens, usu rudis, ore nec expers, Parvula gramaticae lambens refluamina guttae, Rhetoricae exiguum praelibans gurgitis haustum, Cote ex juridica cui vix rubigo recessit; Quae prius addidici dediscens, et cui tantum Artibus ex illis odor est in naribus istis

(de Vita s. Martini l. 1).

Questi versi medesimi ci fan vedere che non era certoVenanzio un gran poeta, e benchè egli parli in essi di semedesimo con sentimenti troppo modesti, ci persuadeperò facilmente ch'ei non fosse nella gramatica e nellapoesia versato molto.

IV. Mentre ei trattenevasi in Ravenna insie-me con Felice che fu poi vesc. di Trivigi,furono presi amendue da un mal gravissimodi occhi, a cui non trovando altronde rime-

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Altre epo-che della sua vita: sue Opere.

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dio alcuno, ebber ricorso all'intercessione di s. Martino,e in tal modo ottennero la guarigione, così ci narra eglistesso, e dopo lui Paolo diacono (l. c.) il quale aggiugneche Venanzio mosso da gratitudine verso il santo suo li-beratore, abbandonata la patria poco innanzi all'invasio-ne de' Longobardi, andossene a Tours in Francia a visi-tarne il sepolcro, e quindi passato a Poitiers, dopo alcunianni fatto prete di quella chiesa, ne fu poscia ordinatovecovo. Ei fu assai caro alla reina s. Radegonda, e a Si-geberto re d'Austrasia, e a' più celebri vescovi che allorafossero in Francia, e singolarmente a Gregorio di Tours.Credesi comunemente ch'egli morisse circa il principiodel VII secolo. Paolo Diacono che ne vide il sepolcro,onorollo con un poetico epitafio ch'egli ha inserito nellasua Storia (ib.), ed è il seguente. Ingenio clarus, senso celer, ore suavis,

Cujus dolce melos pagina multa canit, Fortunatus apex vatum, venerabilis actu,

Ausonia natus, hac tumulatur humo. Cujus ab ore sacro Sanctorum gesta priorum

Discimus haec monstrant carpere lucis iter. Felix, quae tanti decoraris Gallia gemmis,

Lumine de quarum nox tibi tetra fugit! Hos modicos feci plebejo carmine versus,

Ne tuus in populis, sancte, lateret honor. Redde vicem misero, ne judice spernar ab aequo,

Eximiis meritis posce, beate, precor.

Gli undici libri di poesie, e altri quattro della Vita di s.

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dio alcuno, ebber ricorso all'intercessione di s. Martino,e in tal modo ottennero la guarigione, così ci narra eglistesso, e dopo lui Paolo diacono (l. c.) il quale aggiugneche Venanzio mosso da gratitudine verso il santo suo li-beratore, abbandonata la patria poco innanzi all'invasio-ne de' Longobardi, andossene a Tours in Francia a visi-tarne il sepolcro, e quindi passato a Poitiers, dopo alcunianni fatto prete di quella chiesa, ne fu poscia ordinatovecovo. Ei fu assai caro alla reina s. Radegonda, e a Si-geberto re d'Austrasia, e a' più celebri vescovi che allorafossero in Francia, e singolarmente a Gregorio di Tours.Credesi comunemente ch'egli morisse circa il principiodel VII secolo. Paolo Diacono che ne vide il sepolcro,onorollo con un poetico epitafio ch'egli ha inserito nellasua Storia (ib.), ed è il seguente. Ingenio clarus, senso celer, ore suavis,

Cujus dolce melos pagina multa canit, Fortunatus apex vatum, venerabilis actu,

Ausonia natus, hac tumulatur humo. Cujus ab ore sacro Sanctorum gesta priorum

Discimus haec monstrant carpere lucis iter. Felix, quae tanti decoraris Gallia gemmis,

Lumine de quarum nox tibi tetra fugit! Hos modicos feci plebejo carmine versus,

Ne tuus in populis, sancte, lateret honor. Redde vicem misero, ne judice spernar ab aequo,

Eximiis meritis posce, beate, precor.

Gli undici libri di poesie, e altri quattro della Vita di s.

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Martino, e alcune Vite de' Santi scritte in prosa, che sonle Opere a noi pervenute di Venanzio Fortunato, e tro-vansi inserite ancora, parte, cioè le poesie, nella Biblio-teca de' Padri, e parte, cioè le Vite de' Santi, presso iBollandisti, il p. Mabillon, e altri raccoglitori de' loroAtti, ci pruovano che questo elogio vuolsi intendere conuna giusta moderazione, e che noi abbiamo a lodarne lapietà più che l'eleganza. Io non mi tratterrò a parlarnecon più minutezza, poichè penso che nella Storia dellaLetteratura non sia cosa di grande importanza. Si puòvedere ciò che di lui e delle opere da lui composte, alcu-ne delle quali si sono smarrite, hanno scritto gli autoridelle Biblioteche Ecclesiastiche, singolarmente il p.Ceillier (t. 17, p. 84), e i Maurini autori della Storia Let-teraria di Francia, che assai lungamente ne hanno tratta-to (t. 3, p. 464). Essi delle poesie e dello stile di Fortu-nato parlano con assai più lode, ch'io non abbia fatto; evi conoscono dolcezza, grazia, facilità ed altre doti che,a parlarne sinceramente, a me non pare di ravvisarvi.Qual sia il più fondato giudizio, io ne rimetto la decisio-ne a' leggitori delle stesse opere di Venanzio. Ma più di-ligentemente e più eruditamente di tutti ha ricercato ciòche a Venanzio appartiene il ch. sig. Giangiuseppe Liru-ti, presso il quale si potran vedere raccolte ed esaminatetutte le più esatte notizie intorno alla Vita e all'Opere diquesto celebre vescovo (Notiz. de' Letter. del Friuli t. 1,p. 132, ec.), "Veggasi ancora la recente edizione delleOpere di Venanzio fatta in Roma, e da me finor non ve-duta". Se gli convenga il titol di santo, si è lungamente e

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Martino, e alcune Vite de' Santi scritte in prosa, che sonle Opere a noi pervenute di Venanzio Fortunato, e tro-vansi inserite ancora, parte, cioè le poesie, nella Biblio-teca de' Padri, e parte, cioè le Vite de' Santi, presso iBollandisti, il p. Mabillon, e altri raccoglitori de' loroAtti, ci pruovano che questo elogio vuolsi intendere conuna giusta moderazione, e che noi abbiamo a lodarne lapietà più che l'eleganza. Io non mi tratterrò a parlarnecon più minutezza, poichè penso che nella Storia dellaLetteratura non sia cosa di grande importanza. Si puòvedere ciò che di lui e delle opere da lui composte, alcu-ne delle quali si sono smarrite, hanno scritto gli autoridelle Biblioteche Ecclesiastiche, singolarmente il p.Ceillier (t. 17, p. 84), e i Maurini autori della Storia Let-teraria di Francia, che assai lungamente ne hanno tratta-to (t. 3, p. 464). Essi delle poesie e dello stile di Fortu-nato parlano con assai più lode, ch'io non abbia fatto; evi conoscono dolcezza, grazia, facilità ed altre doti che,a parlarne sinceramente, a me non pare di ravvisarvi.Qual sia il più fondato giudizio, io ne rimetto la decisio-ne a' leggitori delle stesse opere di Venanzio. Ma più di-ligentemente e più eruditamente di tutti ha ricercato ciòche a Venanzio appartiene il ch. sig. Giangiuseppe Liru-ti, presso il quale si potran vedere raccolte ed esaminatetutte le più esatte notizie intorno alla Vita e all'Opere diquesto celebre vescovo (Notiz. de' Letter. del Friuli t. 1,p. 132, ec.), "Veggasi ancora la recente edizione delleOpere di Venanzio fatta in Roma, e da me finor non ve-duta". Se gli convenga il titol di santo, si è lungamente e

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con calor disputato non son molti anni tra il sig. Bernar-dino Zannetti e il sig. Michele Lazzari (V. Confutaz. dialcuni errori del dott. d. Bernard. Zannetti, ec., Rover.1756). Nè io credo che alcuno da me si aspetti ch'entrigiudice in tal contesa.

V. Or questi, come abbiam detto, è il solopoeta che ne' due secoli da noi compresi inquest'epoca possiam rammentare, percioc-chè il poema delle lodi di Bergamo pubbli-cato dopo altri dal Muratori (Script. rer. ital.vol. 5), e che da alcuni credesi scritto

nell'VIII secolo, vedremo a suo luogo che appartiene alsec. XII. A un altro veggiam dato il titolo di facondopoeta, ma non sappiamo con quali opere ei l'ottenesse.Questi è il cel. Giovannicio di Ravenna, di cui parla as-sai a lungo lo storico Agnello (l. Pontif. in Felice, ec.).Era questi uomo di segnalata pietà, e insieme assai ver-sato nella greca non meno che nella latina favella.Quando verso l'an. 679 avendo l'esarco Teodoro perdutoper morte il suo segretario, nè sapendo egli a cui confi-dare tal carica (sì grande era allor la scarsezza di chi sa-pesse scrivere con qualche eleganza) vennegli favellatodi Giovannicio di cui molto gli fu lodato il sapere e laprobità. Fattosel dunque venire innanzi, poichè il videpicciolo di statura, e spregevole della persona, gli parvepoco opportuno a sostener la carica che gli destinava.Nondimeno a farne pur qualche pruova, fattasi recare

285

Notizie di Givannicio da Ravennalodato an-che come poeta.

con calor disputato non son molti anni tra il sig. Bernar-dino Zannetti e il sig. Michele Lazzari (V. Confutaz. dialcuni errori del dott. d. Bernard. Zannetti, ec., Rover.1756). Nè io credo che alcuno da me si aspetti ch'entrigiudice in tal contesa.

V. Or questi, come abbiam detto, è il solopoeta che ne' due secoli da noi compresi inquest'epoca possiam rammentare, percioc-chè il poema delle lodi di Bergamo pubbli-cato dopo altri dal Muratori (Script. rer. ital.vol. 5), e che da alcuni credesi scritto

nell'VIII secolo, vedremo a suo luogo che appartiene alsec. XII. A un altro veggiam dato il titolo di facondopoeta, ma non sappiamo con quali opere ei l'ottenesse.Questi è il cel. Giovannicio di Ravenna, di cui parla as-sai a lungo lo storico Agnello (l. Pontif. in Felice, ec.).Era questi uomo di segnalata pietà, e insieme assai ver-sato nella greca non meno che nella latina favella.Quando verso l'an. 679 avendo l'esarco Teodoro perdutoper morte il suo segretario, nè sapendo egli a cui confi-dare tal carica (sì grande era allor la scarsezza di chi sa-pesse scrivere con qualche eleganza) vennegli favellatodi Giovannicio di cui molto gli fu lodato il sapere e laprobità. Fattosel dunque venire innanzi, poichè il videpicciolo di statura, e spregevole della persona, gli parvepoco opportuno a sostener la carica che gli destinava.Nondimeno a farne pur qualche pruova, fattasi recare

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Notizie di Givannicio da Ravennalodato an-che come poeta.

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una lettera scrittagli in greco dall'imp. Costantino Pogo-nato, gliela diè tra le mani perchè la leggesse; a cui Gio-vannicio modestamente: debbo io leggerla, disse, in gre-co, ovver in latino? Questa interrogazione ricolmò dimaraviglia l'esarco che ad accertarsi meglio del fatto,datagli una lettera latina, ordinogli che la leggesse ingreco. Il che avendo fatto Giovannicio con singolare fe-licità; l'esarco il ritenne a suo segretario. Le letterech'egli scrisse in nome del suo signore, piacquer talmen-te alla corte, che dopo tre anni l'esarco ebbe ordine dimandare il suo segretario a Costantinopoli. GiuntoviGiovannicio vi fè conoscere ed ammirare i suoi talentiper modo, che salì alle prime cariche nel ministero: fin-chè circa l'an. 691 da Giustiniano II ottenne di far ritor-no alla sua patria, ove, dice Agnello, ch'ei si rendette sìcelebre, che in tutta l'Italia se ne esaltava il sapere. Inquesto frattempo attese Giovannicio agli amati suoi stu-dj, e ne fece uso a vantaggio della sua chiesa; percioc-chè, come dice lo stesso Agnello, essendo egli valentis-simo oratore nella greca e nella latina lingua, nell'una enell'altra espose le antifone, e le preci sacre che nellachiesa di Ravenna si usavano. Ma l'an. 709 nella funestaspedizione che per ordine di Giustiniano II si fece con-tro Ravenna, fra molti prigionieri che condotti vennero aCostantinopoli, fu ancor Giovannicio. Sembra però cheGiustiniano avesse rispetto a un uom sì illustre; percioc-chè uccisi, o acciecati gli altri, egli solo fu intatto. Mal'an. 711 contro di lui ancora infierì Giustiniano, e co-mandonne la morte volendo insieme che, mentre era

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una lettera scrittagli in greco dall'imp. Costantino Pogo-nato, gliela diè tra le mani perchè la leggesse; a cui Gio-vannicio modestamente: debbo io leggerla, disse, in gre-co, ovver in latino? Questa interrogazione ricolmò dimaraviglia l'esarco che ad accertarsi meglio del fatto,datagli una lettera latina, ordinogli che la leggesse ingreco. Il che avendo fatto Giovannicio con singolare fe-licità; l'esarco il ritenne a suo segretario. Le letterech'egli scrisse in nome del suo signore, piacquer talmen-te alla corte, che dopo tre anni l'esarco ebbe ordine dimandare il suo segretario a Costantinopoli. GiuntoviGiovannicio vi fè conoscere ed ammirare i suoi talentiper modo, che salì alle prime cariche nel ministero: fin-chè circa l'an. 691 da Giustiniano II ottenne di far ritor-no alla sua patria, ove, dice Agnello, ch'ei si rendette sìcelebre, che in tutta l'Italia se ne esaltava il sapere. Inquesto frattempo attese Giovannicio agli amati suoi stu-dj, e ne fece uso a vantaggio della sua chiesa; percioc-chè, come dice lo stesso Agnello, essendo egli valentis-simo oratore nella greca e nella latina lingua, nell'una enell'altra espose le antifone, e le preci sacre che nellachiesa di Ravenna si usavano. Ma l'an. 709 nella funestaspedizione che per ordine di Giustiniano II si fece con-tro Ravenna, fra molti prigionieri che condotti vennero aCostantinopoli, fu ancor Giovannicio. Sembra però cheGiustiniano avesse rispetto a un uom sì illustre; percioc-chè uccisi, o acciecati gli altri, egli solo fu intatto. Mal'an. 711 contro di lui ancora infierì Giustiniano, e co-mandonne la morte volendo insieme che, mentre era

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condotto al supplicio, cioè ad esser chiuso tra due mura-glie, un banditore ad alta voce gridasse: "Giovannicio diRavenna, quell'eloquente poeta, perchè è stato contrarioall'invitto Augusto, a guisa di un sorcio rinchiuso fradue muraglie, muoia". Il nuovo sdegno di Giustinianocontro di Giovannicio sembra che nascesse dalla solle-vazione che in quell'anno medesimo seguì in Ravenna,di cui fu eletto capo Giorgio figliuolo del medesimoGiovannicio. Dicesi che innanzi morte ei predicesse cheil dì vegnente Giustiniano ancora sarebbe stato ucciso, eche così di fatto avvenisse. Certo ei morì in quest'annomedesimo 711. Le cose che finora abbiam dette di Gio-vannicio, cel mostrano uomo assai dotto pei tempi suoi.Come nondimeno l'unico testimonio di sì grandi pregi,lo storico Agnello pronipote di Agnese figliuola di Gio-vannicio, può nascere qualche sospetto che egli abbiaper avventura esagerate alquanto le lodi di questo suoantenato.

VI. A questi tempi medesimi, cioè verso lafine del VII secolo, fu celebre in Pavia ungramatico detto per nome Felice. Altroperò di lui non sappiamo se non ciò che neracconta Paolo diacono (Hist. Lang. l. 6, c.

7) cioè che a que' tempi "fu illustre nell'arte gramaticaFelice zio di Flaviano maestro dello stesso Paolo, e cheil re Cuniberto lo amò per modo, che fra altri magnificidoni gli fè presente di un bastone ornato d'argento e

287

Felice gra-matico in Pa-via onorato dal re Cuni-berto.

condotto al supplicio, cioè ad esser chiuso tra due mura-glie, un banditore ad alta voce gridasse: "Giovannicio diRavenna, quell'eloquente poeta, perchè è stato contrarioall'invitto Augusto, a guisa di un sorcio rinchiuso fradue muraglie, muoia". Il nuovo sdegno di Giustinianocontro di Giovannicio sembra che nascesse dalla solle-vazione che in quell'anno medesimo seguì in Ravenna,di cui fu eletto capo Giorgio figliuolo del medesimoGiovannicio. Dicesi che innanzi morte ei predicesse cheil dì vegnente Giustiniano ancora sarebbe stato ucciso, eche così di fatto avvenisse. Certo ei morì in quest'annomedesimo 711. Le cose che finora abbiam dette di Gio-vannicio, cel mostrano uomo assai dotto pei tempi suoi.Come nondimeno l'unico testimonio di sì grandi pregi,lo storico Agnello pronipote di Agnese figliuola di Gio-vannicio, può nascere qualche sospetto che egli abbiaper avventura esagerate alquanto le lodi di questo suoantenato.

VI. A questi tempi medesimi, cioè verso lafine del VII secolo, fu celebre in Pavia ungramatico detto per nome Felice. Altroperò di lui non sappiamo se non ciò che neracconta Paolo diacono (Hist. Lang. l. 6, c.

7) cioè che a que' tempi "fu illustre nell'arte gramaticaFelice zio di Flaviano maestro dello stesso Paolo, e cheil re Cuniberto lo amò per modo, che fra altri magnificidoni gli fè presente di un bastone ornato d'argento e

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Felice gra-matico in Pa-via onorato dal re Cuni-berto.

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d'oro". Ed ecco il sol monumento che della liberalità de're longobardi verso gli uomini dotti ci sia rimasto; unbel bastone donato ad un valoroso gramatico; ed eccoinsieme il sol monumento che abbiamo degli studj chefiorivano in Pavia capitale del regno de' Longobardi:due gramatici, Felice e Flaviano; de' quali, ancor nonsappiamo quanto fosser valenti nella lor arte; perciocchèil vedere a questi tempi un uomo divenuto celebre persapere non basta, come per più esempi abbiamo osser-vato, a conchiudere ch'ei fosse veramente uom dotto edelegante scrittore.

VII. Che direm noi della storia? Se se netraggan quei pochi che scrissero o le Vite dialcuni Santi, o la Cronaca di qualche mona-stero, de' quali abbiamo parlato nel prece-dente capo, non ne troviamo a quest'epoca

scrittore alcuno. E al più possiamo, se pur cel permette-ranno i Tedeschi, far menzion di Secondo abate di unmonastero in Trento, morto l'an. 612, il quale oltre qual-che operetta composta in difesa de' tre Capitoli, avea an-che scritta una breve Storia de' Longobardi che vienmentovata da Paolo diacono (Hist. Long. l. 3, c. 29, l. 4,c. 42) ma che ora è smarrita. Egli era assai caro alla re-gina Teodolinda, e fu da lei scelto pel solenne battesimodel suo figliuolo Adaloaldo, che da lui gli fu dato inMonza l'an. 603 (id. l. 4, c. 28), Alcuni fissano aquest'età l'Anonimo di Ravenna, scrittore di una assai

288

La storia fuquasi affat-to trascura-ta.

d'oro". Ed ecco il sol monumento che della liberalità de're longobardi verso gli uomini dotti ci sia rimasto; unbel bastone donato ad un valoroso gramatico; ed eccoinsieme il sol monumento che abbiamo degli studj chefiorivano in Pavia capitale del regno de' Longobardi:due gramatici, Felice e Flaviano; de' quali, ancor nonsappiamo quanto fosser valenti nella lor arte; perciocchèil vedere a questi tempi un uomo divenuto celebre persapere non basta, come per più esempi abbiamo osser-vato, a conchiudere ch'ei fosse veramente uom dotto edelegante scrittore.

VII. Che direm noi della storia? Se se netraggan quei pochi che scrissero o le Vite dialcuni Santi, o la Cronaca di qualche mona-stero, de' quali abbiamo parlato nel prece-dente capo, non ne troviamo a quest'epoca

scrittore alcuno. E al più possiamo, se pur cel permette-ranno i Tedeschi, far menzion di Secondo abate di unmonastero in Trento, morto l'an. 612, il quale oltre qual-che operetta composta in difesa de' tre Capitoli, avea an-che scritta una breve Storia de' Longobardi che vienmentovata da Paolo diacono (Hist. Long. l. 3, c. 29, l. 4,c. 42) ma che ora è smarrita. Egli era assai caro alla re-gina Teodolinda, e fu da lei scelto pel solenne battesimodel suo figliuolo Adaloaldo, che da lui gli fu dato inMonza l'an. 603 (id. l. 4, c. 28), Alcuni fissano aquest'età l'Anonimo di Ravenna, scrittore di una assai

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La storia fuquasi affat-to trascura-ta.

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barbara Geografia. Ma come le ragioni di quelli che ilpongono nei secoli posteriori mi sembrano assai proba-bili, riserverommi a trattarne nel libro seguente. Cosìtutti gli ameni studj erano non solo in un misero decadi-mento, ma in un totale abbandono. Ma più infelice eraancora la sorte de' gravi studj, come da ciò che dirassinel capo seguente, sarà manifesto.

CAPO IV.Filosofia, Matematica, Medicina.

I. Benchè l'eloquenza, la poesia, la storia,nel regno de' Longobardi giacesser quasi di-menticate, ebbero nondimeno alcuni, co-munque pochi e mediocri, coltivatori. Madella filosofia pare che fosse perito in Italiaperfino il nome. Io certo, per quanto abbia

in ogni parte diligentemente fiutato, per così dire, ricer-cando di alcun filosofo di questi tempi, non ho potutoscoprire il menomo vestigio di un solo. Lo stesso con-fessa il Bruckero (Hist. Phil. t. 3, p. 569), il quale osser-va che l'unico ricovero che alla filosofia da ogni partesbandita rimase, furono i monasteri. Nè è già che da essisia a quest'epoca uscito alcun libro pregevole di tale ar-gomento; ma il conservarsi e il moltiplicarsi delle copiedegli antichi autori, che in essi facevasi, contribuì nonpoco a fare che le filosofiche cognizioni, se vennero tra-scurate, non perissero interamente; e che quando sorsero

289

Non trovasia questi tempi pur uno celebreper saper filosofico.

barbara Geografia. Ma come le ragioni di quelli che ilpongono nei secoli posteriori mi sembrano assai proba-bili, riserverommi a trattarne nel libro seguente. Cosìtutti gli ameni studj erano non solo in un misero decadi-mento, ma in un totale abbandono. Ma più infelice eraancora la sorte de' gravi studj, come da ciò che dirassinel capo seguente, sarà manifesto.

CAPO IV.Filosofia, Matematica, Medicina.

I. Benchè l'eloquenza, la poesia, la storia,nel regno de' Longobardi giacesser quasi di-menticate, ebbero nondimeno alcuni, co-munque pochi e mediocri, coltivatori. Madella filosofia pare che fosse perito in Italiaperfino il nome. Io certo, per quanto abbia

in ogni parte diligentemente fiutato, per così dire, ricer-cando di alcun filosofo di questi tempi, non ho potutoscoprire il menomo vestigio di un solo. Lo stesso con-fessa il Bruckero (Hist. Phil. t. 3, p. 569), il quale osser-va che l'unico ricovero che alla filosofia da ogni partesbandita rimase, furono i monasteri. Nè è già che da essisia a quest'epoca uscito alcun libro pregevole di tale ar-gomento; ma il conservarsi e il moltiplicarsi delle copiedegli antichi autori, che in essi facevasi, contribuì nonpoco a fare che le filosofiche cognizioni, se vennero tra-scurate, non perissero interamente; e che quando sorsero

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Non trovasia questi tempi pur uno celebreper saper filosofico.

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all'Italia tempi più lieti, potessero gli amatori dellescienze aver fonti a cui attingere, e monumenti cui con-sultare. Io so che trovasi presso alcuni menzione di unFortunato di Vercelli, che dicesi il filosofo dei Longo-bardi (Martyrol. Usuardi editum a Jo. Munerato an.1490 ad d. 18 jun.). Ma, oltrechè di questo filosofo altronon abbiamo che una Vita di s. Marcello vescovo di Pa-rigi, di cui non è ancora ben certo s'ei sia veramente au-tore, egli nulla ebbe che fare co' Longobardi, percioc-chè, per quanto si può cavare dalle antiche memorie, eivisse in Italia, prima che i Longobardi se ne facesser si-gnori, e quindi passato in Francia vi finì i suoi giorni (V.Acta SS. Antuerp. ad d. 18 jun.; Hist. Littér. de la Fran-ce t. 3, p. 298). Così in poche parole io ho detto quantoera a dirsi della filosofia de' tempi di cui ragiono; e iosarò ben lieto, se alcuno potrà convincermi di non esserestato abbastanza attento ricercatore, e mostrarmi valoro-si filosofi in Italia anche a questi tempi.

II. Una invenzione appartenente ameccanica sembra che potrebbe attri-buirsi a qualche valoroso Italiano diquesti tempi. In una lettera scritta l'an.757 da Paolo I, papa, a Pipino re di

Francia si fa menzione di un orologio notturno che egliinsieme con alcuni libri mandavagli in dono. "Direxi-mus etiam Excellentiae vestrae et libros... nec non et ho-rologium nocturnum (Cenni Cod. Carolin. t. 1, p. 148)".

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Che cosa fossel'orologio notturnomandato da PaoloI al re Pipino.

all'Italia tempi più lieti, potessero gli amatori dellescienze aver fonti a cui attingere, e monumenti cui con-sultare. Io so che trovasi presso alcuni menzione di unFortunato di Vercelli, che dicesi il filosofo dei Longo-bardi (Martyrol. Usuardi editum a Jo. Munerato an.1490 ad d. 18 jun.). Ma, oltrechè di questo filosofo altronon abbiamo che una Vita di s. Marcello vescovo di Pa-rigi, di cui non è ancora ben certo s'ei sia veramente au-tore, egli nulla ebbe che fare co' Longobardi, percioc-chè, per quanto si può cavare dalle antiche memorie, eivisse in Italia, prima che i Longobardi se ne facesser si-gnori, e quindi passato in Francia vi finì i suoi giorni (V.Acta SS. Antuerp. ad d. 18 jun.; Hist. Littér. de la Fran-ce t. 3, p. 298). Così in poche parole io ho detto quantoera a dirsi della filosofia de' tempi di cui ragiono; e iosarò ben lieto, se alcuno potrà convincermi di non esserestato abbastanza attento ricercatore, e mostrarmi valoro-si filosofi in Italia anche a questi tempi.

II. Una invenzione appartenente ameccanica sembra che potrebbe attri-buirsi a qualche valoroso Italiano diquesti tempi. In una lettera scritta l'an.757 da Paolo I, papa, a Pipino re di

Francia si fa menzione di un orologio notturno che egliinsieme con alcuni libri mandavagli in dono. "Direxi-mus etiam Excellentiae vestrae et libros... nec non et ho-rologium nocturnum (Cenni Cod. Carolin. t. 1, p. 148)".

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Che cosa fossel'orologio notturnomandato da PaoloI al re Pipino.

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Ma questo orologio notturno che era mai? e chi eranel'inventore? Non abbiamo alcun lume a deciderlo. Ab-biam veduti fino a quest'ora in uso gli orologi solari, egli orologi ad acqua. I primi non erano che pel giorno, isecondi coll'aiuto di un lume potevano essere opportunipel giorno insieme e per la notte. Di un orologio fattosol per la notte non abbiamo idea. Il du Cange congettu-ra (Gloss. med. et inf. Latin. ad voc. Horol.) che fosseun oriuolo a ruote e a campana, come quelli che usiamoal presente. Ma io non veggo perchè dovesse chiamarsinotturno. Il Cenni crede (l. c.) che possa intendersi peravventura di un oriuolo che per mezzo di un lume inesso racchiuso facesse veder le ore dalla sfera segnate.Ma se l'oriuolo non era in altra cosa diverso dagli usati,se non per un lume aggiuntovi, non parmi che dovesseciò aversi in conto di cosa rara, e degna di offrirsi a sìgran principe. Lo stesso Du Cange parla di un altrooriuolo ad acqua, che l'anno 807 da Aronne re di Persiafu mandato a Carlo Magno, in cui erano racchiuse 12pallottole di bronzo, che successivamente al fine di cia-scun'ora cadevano, facendo risonare un cembalo sotto-posto; e inoltre 12 statue in atteggiamento di cavalieriche uscendo al compiersi delle ore da altrettante finestreche prima erano aperte, le socchiudevano. Ma questoancora pare che fosse opportuno al giorno non meno chealla notte. In somma anche le congetture ci mancano perconoscere che cosa fosse questo orologio; e solo sembraprobabile che fosse qualche ingegnoso ordigno a segnarle ore di notte tempo, trovato verisimilmente da qualche

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Ma questo orologio notturno che era mai? e chi eranel'inventore? Non abbiamo alcun lume a deciderlo. Ab-biam veduti fino a quest'ora in uso gli orologi solari, egli orologi ad acqua. I primi non erano che pel giorno, isecondi coll'aiuto di un lume potevano essere opportunipel giorno insieme e per la notte. Di un orologio fattosol per la notte non abbiamo idea. Il du Cange congettu-ra (Gloss. med. et inf. Latin. ad voc. Horol.) che fosseun oriuolo a ruote e a campana, come quelli che usiamoal presente. Ma io non veggo perchè dovesse chiamarsinotturno. Il Cenni crede (l. c.) che possa intendersi peravventura di un oriuolo che per mezzo di un lume inesso racchiuso facesse veder le ore dalla sfera segnate.Ma se l'oriuolo non era in altra cosa diverso dagli usati,se non per un lume aggiuntovi, non parmi che dovesseciò aversi in conto di cosa rara, e degna di offrirsi a sìgran principe. Lo stesso Du Cange parla di un altrooriuolo ad acqua, che l'anno 807 da Aronne re di Persiafu mandato a Carlo Magno, in cui erano racchiuse 12pallottole di bronzo, che successivamente al fine di cia-scun'ora cadevano, facendo risonare un cembalo sotto-posto; e inoltre 12 statue in atteggiamento di cavalieriche uscendo al compiersi delle ore da altrettante finestreche prima erano aperte, le socchiudevano. Ma questoancora pare che fosse opportuno al giorno non meno chealla notte. In somma anche le congetture ci mancano perconoscere che cosa fosse questo orologio; e solo sembraprobabile che fosse qualche ingegnoso ordigno a segnarle ore di notte tempo, trovato verisimilmente da qualche

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Italiano, e dal pontefice creduto degno di essere inviatoin dono a Pipino. Nel corso di cotal studio vedremo chePacifico arcidiacono di Verona trovò egli pure un orolo-gio notturno di cui egli fu creduto il primo inventore, eallora pure ci troveremo nella medesima incertezza in-torno alla natura e alla proprietà di un tale strumento.

III. Sarebbe qui a dire per ultimo della me-dicina. Ma questa non ci offre nè ci offriràper alcuni altri secoli argomento veruno atrattarne. Medici vi saranno stati anche aquesta età, e avranno anch'essi curate le ma-lattie quai più quai meno felicemente. Ma

non solo non abbiamo alcun libro di medicina, che siasipubblicato in Italia sotto il regno de' Longobardi, manon abbiam notizia di alcuno che in quest'arte si rendes-se sopra gli altri illustre e famoso; e siamo perciò co-stretti a por qui fine a questo brevissimo capo in cui ab-biamo avuta la sventura di non poter dire altra cosa, senon che nulla avevamo a dire.

CAPO V.Giurisprudenza.

I. Se la storia della giurisprudenza altrocontener non dovesse che le notizie diquelli che nello studio di essa furono illu-

292

Anche lamedicinanon ebbealcun illu-stre coltiva-tore.

Non trovasi a questa età al-cun celebre giureconsulto.

Italiano, e dal pontefice creduto degno di essere inviatoin dono a Pipino. Nel corso di cotal studio vedremo chePacifico arcidiacono di Verona trovò egli pure un orolo-gio notturno di cui egli fu creduto il primo inventore, eallora pure ci troveremo nella medesima incertezza in-torno alla natura e alla proprietà di un tale strumento.

III. Sarebbe qui a dire per ultimo della me-dicina. Ma questa non ci offre nè ci offriràper alcuni altri secoli argomento veruno atrattarne. Medici vi saranno stati anche aquesta età, e avranno anch'essi curate le ma-lattie quai più quai meno felicemente. Ma

non solo non abbiamo alcun libro di medicina, che siasipubblicato in Italia sotto il regno de' Longobardi, manon abbiam notizia di alcuno che in quest'arte si rendes-se sopra gli altri illustre e famoso; e siamo perciò co-stretti a por qui fine a questo brevissimo capo in cui ab-biamo avuta la sventura di non poter dire altra cosa, senon che nulla avevamo a dire.

CAPO V.Giurisprudenza.

I. Se la storia della giurisprudenza altrocontener non dovesse che le notizie diquelli che nello studio di essa furono illu-

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Anche lamedicinanon ebbealcun illu-stre coltiva-tore.

Non trovasi a questa età al-cun celebre giureconsulto.

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stri, anche da questo capo noi potremmo spedirci in as-sai poche parole; poichè, a dir vero, non sappiamo di al-cuno che in ciò s'acquistasse gran lode. Ma noi dobbia-mo ancora osservare quali fosser le nuove leggi che aquesto tempo s'introdussero in Italia, e in qual vigoreesse vi si mantenessero; e intorno a ciò la storia di que-sti tempi ci somministra cambiamenti e vicende degnedi essere esaminate. Questo stesso argomento però è giàstato sì esattamente trattato da due dotti moderni scritto-ri, cioè dal sig. Muratori (praef. ad t. 1, part. 2 Script.rer. ital. et Antiq. ital. vol. 2, diss. 22) e dal sig. CarloDenina (Delle Rivoluz. d'Ital. t. 1, l. 7 c. 8), che poco cirimane ad aggiugnere alle erudite loro ricerche.

II. Poichè l'Italia, distrutto il regno de'Goti, ricadde in potere dell'imp. Giusti-niano, questi, come nello studio prece-dente si è detto, comandò che il nuovosuo Codice vi fosse ricevuto; ed egli eraallora in istato di ottener facilmente ubbi-dienza. Quando dunque i Longobardi po-

ser piede in Italia, la trovaron soggetta alla romana giu-risprudenza. Essi ne conquistaron gran parte, ma non nefuron mai interamente padroni, poichè, come si è detto,alcune città e alcune provincie rimaser sempre in manode' Greci. Quindi in tre classi poteansi allora dividere gliabitanti dell'Italia; cioè in que' che ubbidivano agl'impe-radori di Costantinopoli, in que' ch'erano sudditi de'

293

Leggi che allo-ra avean forza in Italia; i Grecie gli Italiani lorsudditi seguiva-no le leggi im-periali.

stri, anche da questo capo noi potremmo spedirci in as-sai poche parole; poichè, a dir vero, non sappiamo di al-cuno che in ciò s'acquistasse gran lode. Ma noi dobbia-mo ancora osservare quali fosser le nuove leggi che aquesto tempo s'introdussero in Italia, e in qual vigoreesse vi si mantenessero; e intorno a ciò la storia di que-sti tempi ci somministra cambiamenti e vicende degnedi essere esaminate. Questo stesso argomento però è giàstato sì esattamente trattato da due dotti moderni scritto-ri, cioè dal sig. Muratori (praef. ad t. 1, part. 2 Script.rer. ital. et Antiq. ital. vol. 2, diss. 22) e dal sig. CarloDenina (Delle Rivoluz. d'Ital. t. 1, l. 7 c. 8), che poco cirimane ad aggiugnere alle erudite loro ricerche.

II. Poichè l'Italia, distrutto il regno de'Goti, ricadde in potere dell'imp. Giusti-niano, questi, come nello studio prece-dente si è detto, comandò che il nuovosuo Codice vi fosse ricevuto; ed egli eraallora in istato di ottener facilmente ubbi-dienza. Quando dunque i Longobardi po-

ser piede in Italia, la trovaron soggetta alla romana giu-risprudenza. Essi ne conquistaron gran parte, ma non nefuron mai interamente padroni, poichè, come si è detto,alcune città e alcune provincie rimaser sempre in manode' Greci. Quindi in tre classi poteansi allora dividere gliabitanti dell'Italia; cioè in que' che ubbidivano agl'impe-radori di Costantinopoli, in que' ch'erano sudditi de'

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Leggi che allo-ra avean forza in Italia; i Grecie gli Italiani lorsudditi seguiva-no le leggi im-periali.

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Longobardi, e ne' Longobardi medesimi. Di tutte e trequeste classi convien vedere partitamente quai leggi se-guissero. E quanto a primi, cioè a que' ch'eran soggettiagli imperadori greci, non può nascere alcun dubbioch'essi non si regolassero colle leggi greche, cioè colCodice e colle altre leggi di Giustiniano; e che gli esar-chi che a nome de' lor sovrani risedevano in Ravenna, egovernavan quella parte d'Italia, che loro ubbidiva, sutal norma formassero i lor giudizj, e insieme pubblicas-sero le nuove leggi che successivamente si promulgava-no dagl'imperadori. Quindi, per tralasciare più altriesempj veggiamo che l'imp. Maurizio avendo fatta leggeche niun soldato, prima di compiere il tempo della mili-zia, potesse farsi monaco, per mezzo dell'esarco Longi-no inviolla al pontef. s. Gregorio il grande (V. Baron.Ann. eccl. ad an. 591), acciocchè ella in Italia ancoravesse vigore; benchè poi alle istanze del pontef. stessola moderasse alquanto.

III. Gl'Italiani sudditi de' Longobardi, fin-chè questi non ebbero pubblicate le loro leg-gi, altre non poterono averne che quelledegl'imperadori greci. E dappoichè ancoraRotari, e poscia altri re longobardi promul-garono il loro Codice, come fra poco vedre-

mo, gl'italiani non furon costretti a fare alcun cambia-mento. Non solo noi non troviamo che alcun re longo-bardo volesse sottomettere gli Italiani alle leggi della

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I sudditi de'Longobardipotevan se-guir le loro leggi, o le imperiali.

Longobardi, e ne' Longobardi medesimi. Di tutte e trequeste classi convien vedere partitamente quai leggi se-guissero. E quanto a primi, cioè a que' ch'eran soggettiagli imperadori greci, non può nascere alcun dubbioch'essi non si regolassero colle leggi greche, cioè colCodice e colle altre leggi di Giustiniano; e che gli esar-chi che a nome de' lor sovrani risedevano in Ravenna, egovernavan quella parte d'Italia, che loro ubbidiva, sutal norma formassero i lor giudizj, e insieme pubblicas-sero le nuove leggi che successivamente si promulgava-no dagl'imperadori. Quindi, per tralasciare più altriesempj veggiamo che l'imp. Maurizio avendo fatta leggeche niun soldato, prima di compiere il tempo della mili-zia, potesse farsi monaco, per mezzo dell'esarco Longi-no inviolla al pontef. s. Gregorio il grande (V. Baron.Ann. eccl. ad an. 591), acciocchè ella in Italia ancoravesse vigore; benchè poi alle istanze del pontef. stessola moderasse alquanto.

III. Gl'Italiani sudditi de' Longobardi, fin-chè questi non ebbero pubblicate le loro leg-gi, altre non poterono averne che quelledegl'imperadori greci. E dappoichè ancoraRotari, e poscia altri re longobardi promul-garono il loro Codice, come fra poco vedre-

mo, gl'italiani non furon costretti a fare alcun cambia-mento. Non solo noi non troviamo che alcun re longo-bardo volesse sottomettere gli Italiani alle leggi della

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I sudditi de'Longobardipotevan se-guir le loro leggi, o le imperiali.

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sua nazione, ma veggiam chiaramente ch'essi, a imita-zione de' re ostrogoti, permiser loro di viver secondo leantiche leggi. Ne abbiamo un'evidente testimonianzanelle leggi del re Liutprando, dalle quali raccogliesi chenei contratti i notai doveano formar gli stromenti secon-do la legge che i contrattanti seguivano (l. 6, c. 37): "Describis, dic'egli, hoc prospeximus, ut qui chartam scrip-serint sive ad legem Longobardorum... sive ad legemRomanorum, non aliter faciant, nisi quomodo in illis le-gibus continetur ec.". Doveanvi dunque essere e tribuna-li e giudici italiani, che agl'Italiani rendesser giustizianelle cause che si offerivano a esaminare; e quindi alcu-ni pochi almeno doveano essere anche a questi tempi inItalia uomini versati nello studio della giurisprudenza.Ma gli scrittori di questa età sono e sì scarsi di numero,e sì mancanti di opportune notizie, che non solo di essinon ci han lasciata memoria ma anche de' fatti più im-portanti non ci han tramandata che una confusa e disor-dinata contezza.

IV. I Longobardi, come si è detto, visserolungamente a somiglianza di altri popolibarbari, senza leggi scritte di sorte alcuna.Rotari fu il primo tra' loro re, che col con-senso de' grandi del regno, de' giudici, e

dell'esercito, come egli stesso nella prefazion si dichia-ra, fece raccogliere, ordinare e correggere quelle leggiche da lungo tempo per tradizion de' maggiori si osser-

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Leggi pub-blicate da' re longo-bardi.

sua nazione, ma veggiam chiaramente ch'essi, a imita-zione de' re ostrogoti, permiser loro di viver secondo leantiche leggi. Ne abbiamo un'evidente testimonianzanelle leggi del re Liutprando, dalle quali raccogliesi chenei contratti i notai doveano formar gli stromenti secon-do la legge che i contrattanti seguivano (l. 6, c. 37): "Describis, dic'egli, hoc prospeximus, ut qui chartam scrip-serint sive ad legem Longobardorum... sive ad legemRomanorum, non aliter faciant, nisi quomodo in illis le-gibus continetur ec.". Doveanvi dunque essere e tribuna-li e giudici italiani, che agl'Italiani rendesser giustizianelle cause che si offerivano a esaminare; e quindi alcu-ni pochi almeno doveano essere anche a questi tempi inItalia uomini versati nello studio della giurisprudenza.Ma gli scrittori di questa età sono e sì scarsi di numero,e sì mancanti di opportune notizie, che non solo di essinon ci han lasciata memoria ma anche de' fatti più im-portanti non ci han tramandata che una confusa e disor-dinata contezza.

IV. I Longobardi, come si è detto, visserolungamente a somiglianza di altri popolibarbari, senza leggi scritte di sorte alcuna.Rotari fu il primo tra' loro re, che col con-senso de' grandi del regno, de' giudici, e

dell'esercito, come egli stesso nella prefazion si dichia-ra, fece raccogliere, ordinare e correggere quelle leggiche da lungo tempo per tradizion de' maggiori si osser-

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Leggi pub-blicate da' re longo-bardi.

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vavan tra suoi, e formatone un codice, cui diede il nomedi Editto, pubblicollo solennemente in Pavia l'anno 643(V. Murat. Ann. d'Ital. ad h. an.). A queste altre ne ag-giunsero poscia i successori di Rotari, come Grimoaldol'an. 668; Liutprando l'an. 714, in altri anni del suo Re-gno; Rachis l'an. 746, e Astolfo l'an. 754; tutte le qualileggi raccolte insieme sono state, dopo altri autori, piùcorrettamente pubblicate dal chiariss. Muratori (Script.rer. ital. t. 1, pars 2). In queste leggi si trovan massime eprincipj eccellenti pel felice governo di una nazione; e ilmentovato sig. Denina ne ha egregiamente mostrato ilbuon ordine e i molti vantaggi che ne venivano (l. c.);ma insieme non può negarsi che vi si veggono alcunevestigia dell'antica loro barbarie; di cui benchè poco apoco si andassero essi spogliando, non poterono però ameno di non serbarne ancor per più secoli qualche avan-zo. Ma l'esaminare l'indole e la natura di tali leggi ella èopera di un giureconsulto, non di uno storico.

CAPO VI.Arti liberali.

I. Ciò che finora abbiam detto dell'abban-dono in cui si giacquer gli studj d'ogni ma-niera, ci fa vedere senz'altro, a quale statodovettero ridursi le belle arti che hanno,

come per lunga esperienza abbiam osservato, un ugualdestino con essi. La rozzezza de' Longobardi che non

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Infelice statodelle arti in quest'epoca.

vavan tra suoi, e formatone un codice, cui diede il nomedi Editto, pubblicollo solennemente in Pavia l'anno 643(V. Murat. Ann. d'Ital. ad h. an.). A queste altre ne ag-giunsero poscia i successori di Rotari, come Grimoaldol'an. 668; Liutprando l'an. 714, in altri anni del suo Re-gno; Rachis l'an. 746, e Astolfo l'an. 754; tutte le qualileggi raccolte insieme sono state, dopo altri autori, piùcorrettamente pubblicate dal chiariss. Muratori (Script.rer. ital. t. 1, pars 2). In queste leggi si trovan massime eprincipj eccellenti pel felice governo di una nazione; e ilmentovato sig. Denina ne ha egregiamente mostrato ilbuon ordine e i molti vantaggi che ne venivano (l. c.);ma insieme non può negarsi che vi si veggono alcunevestigia dell'antica loro barbarie; di cui benchè poco apoco si andassero essi spogliando, non poterono però ameno di non serbarne ancor per più secoli qualche avan-zo. Ma l'esaminare l'indole e la natura di tali leggi ella èopera di un giureconsulto, non di uno storico.

CAPO VI.Arti liberali.

I. Ciò che finora abbiam detto dell'abban-dono in cui si giacquer gli studj d'ogni ma-niera, ci fa vedere senz'altro, a quale statodovettero ridursi le belle arti che hanno,

come per lunga esperienza abbiam osservato, un ugualdestino con essi. La rozzezza de' Longobardi che non

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Infelice statodelle arti in quest'epoca.

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dovean certamente avere pe' lavori dell'arte nè amore nègusto, e le continue asprissime guerre che desolaronl'Italia, due funesti effetti produssero al tempo stesso;perciocchè e si smarrì gran copia degli antichi lavori checolla lor bellezza risvegliavano l'ammirazione non menoche l'emulazione, o pochi furon gli artefici che dalla ma-gnificenza de' principi, dalla speranza di onori e di pre-mj, e da una bella vicendevole rivalità si animassero aintraprendere grandi cose; e que' medesimi che pur leintrapresero, dovendo soddisfare al gusto de' lor sovraniche, come dalle lor fabbriche si raccoglie, non era trop-po fino, si adattarono alle loro idee e a' capricciosi lorpensamenti. E quanto alla perdita de' monumenti antichile rovine e gl'incendj che, come si è dimostrato, furonoassai frequenti in quest'epoca, molti ne dovetter distrug-gere e consumare; come era avvenuto a' tempi ancordella guerra tra' Goti e i Greci. Ma convien confessarlo:l'ingordigia de' Greci non fu men dannosa all'Italia chela rozzezza de' Longobardi. E memorabile singolarmen-te è nelle storie il nome dell'imp. Costante che l'an. 663venuto a Roma, e fermatovisi dodici giorni, nel partirneseco ne portò tutti gli antichi lavori di bronzo, che ador-navano la città, fino a scoprire il celebre Pantheon pertoglierne tutte le tegole ch'esse pure eran di bronzo, econdurle a Costantinopoli, come raccontano Paolo dia-cono (Hist. Lang. l. 5, c. 11) e Anastasio bibliotecario(in Vita s. Vitaliani; Script. rer. Ital. t. 3, pars I, p. 141).Lo stesso spoglio fece egli in Siracusa, ove poscia l'an.668 fu ucciso; e non molto dopo entrati i Saracini in

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dovean certamente avere pe' lavori dell'arte nè amore nègusto, e le continue asprissime guerre che desolaronl'Italia, due funesti effetti produssero al tempo stesso;perciocchè e si smarrì gran copia degli antichi lavori checolla lor bellezza risvegliavano l'ammirazione non menoche l'emulazione, o pochi furon gli artefici che dalla ma-gnificenza de' principi, dalla speranza di onori e di pre-mj, e da una bella vicendevole rivalità si animassero aintraprendere grandi cose; e que' medesimi che pur leintrapresero, dovendo soddisfare al gusto de' lor sovraniche, come dalle lor fabbriche si raccoglie, non era trop-po fino, si adattarono alle loro idee e a' capricciosi lorpensamenti. E quanto alla perdita de' monumenti antichile rovine e gl'incendj che, come si è dimostrato, furonoassai frequenti in quest'epoca, molti ne dovetter distrug-gere e consumare; come era avvenuto a' tempi ancordella guerra tra' Goti e i Greci. Ma convien confessarlo:l'ingordigia de' Greci non fu men dannosa all'Italia chela rozzezza de' Longobardi. E memorabile singolarmen-te è nelle storie il nome dell'imp. Costante che l'an. 663venuto a Roma, e fermatovisi dodici giorni, nel partirneseco ne portò tutti gli antichi lavori di bronzo, che ador-navano la città, fino a scoprire il celebre Pantheon pertoglierne tutte le tegole ch'esse pure eran di bronzo, econdurle a Costantinopoli, come raccontano Paolo dia-cono (Hist. Lang. l. 5, c. 11) e Anastasio bibliotecario(in Vita s. Vitaliani; Script. rer. Ital. t. 3, pars I, p. 141).Lo stesso spoglio fece egli in Siracusa, ove poscia l'an.668 fu ucciso; e non molto dopo entrati i Saracini in

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quest'isola, e trovativi i bronzi e gli altri ornamenti cheda Costante non erano stati mandati ancora a Costanti-nopoli, se ne fecer padroni, e ogni cosa portarono inAlessandria (Paul. diac. ib. c. 13).

II. Non può nondimeno negarsi che i re lon-gobardi non avvivassero in qualche modo lostudio delle belle arti, e dell'architettura sin-golarmente. Non vi ha quasi alcuno tra essi,di cui non si rammenti qualche edificio perlor comando innalzato. Pavia ricorda in ogni

sua parte monasteri e chiese, opere della pietà e dellamagnificenza de' suoi sovrani, singolarmente dacchèessi ebbero abbracciata la cattolica religione. La chiesadi s. Salvadore fatta innalzare da Ariberto I (Murat.Ann. d'Ital. ad an. 660), il monastero di s. Agata a Mon-te da Bettarido (id. ad an. 675), quello di s. Maria diTeodata ossia della Pusterla da Cuniberto (id. ad an.700), quel di s. Pietro in Ciel d'oro da Liutprando (id. adan. 722), il magnifico tempio di s. Michele maggiore,che a un di essi pure dee la sua fondazione (id. ad an.650), la basilica in onore di s. Giambattista e il suo pa-lazzo fabbricato in Monza dalla regina Teodolinda(Paul. diac. l. 4, c. 20) ci fan vedere ch'essi amavano lamagnificenza degli edificj (17). Quindi nelle leggi de'17 Veggansi su questo punto le Memorie della chiesa Monzese nella disserta-

zione seconda, ove il ch. sig. canonico Antonfrancesco Frisi con moltaesattezza ed erudizione esamina tutto ciò che alla munificenza della reinaTeodolinda appartiene.

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I re Longo-bardi non-dimeno in-nalzano molte fab-briche.

quest'isola, e trovativi i bronzi e gli altri ornamenti cheda Costante non erano stati mandati ancora a Costanti-nopoli, se ne fecer padroni, e ogni cosa portarono inAlessandria (Paul. diac. ib. c. 13).

II. Non può nondimeno negarsi che i re lon-gobardi non avvivassero in qualche modo lostudio delle belle arti, e dell'architettura sin-golarmente. Non vi ha quasi alcuno tra essi,di cui non si rammenti qualche edificio perlor comando innalzato. Pavia ricorda in ogni

sua parte monasteri e chiese, opere della pietà e dellamagnificenza de' suoi sovrani, singolarmente dacchèessi ebbero abbracciata la cattolica religione. La chiesadi s. Salvadore fatta innalzare da Ariberto I (Murat.Ann. d'Ital. ad an. 660), il monastero di s. Agata a Mon-te da Bettarido (id. ad an. 675), quello di s. Maria diTeodata ossia della Pusterla da Cuniberto (id. ad an.700), quel di s. Pietro in Ciel d'oro da Liutprando (id. adan. 722), il magnifico tempio di s. Michele maggiore,che a un di essi pure dee la sua fondazione (id. ad an.650), la basilica in onore di s. Giambattista e il suo pa-lazzo fabbricato in Monza dalla regina Teodolinda(Paul. diac. l. 4, c. 20) ci fan vedere ch'essi amavano lamagnificenza degli edificj (17). Quindi nelle leggi de'17 Veggansi su questo punto le Memorie della chiesa Monzese nella disserta-

zione seconda, ove il ch. sig. canonico Antonfrancesco Frisi con moltaesattezza ed erudizione esamina tutto ciò che alla munificenza della reinaTeodolinda appartiene.

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I re Longo-bardi non-dimeno in-nalzano molte fab-briche.

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Longobardi troviam talvolta fatta menzione di fabbrichee di muratori; e parmi degno d'osservazione che quelloche noi or diciam capomastro, ivi si appella col nome dimagister comacinus (Leg. Lang. lex 144, 145; t. 1, pars2 Script. rer. ital.); il che ci mostra che sin da que' tempicotal sorta di operai venivano comunemente dal contadodi Como e dal vicin lago, onde prendevano il nome. Mal'architettura che a' tempi de' Goti era già decaduta dimolto dall'antica sua maestosa semplicità, venne a statosempre peggiore sotto de' Longobardi e la mancanza diproporzione l'irregolarità del disegno il capriccio degliornamenti, ci mostrano che il buon gusto era totalmenteperduto.

III. Lo stesso dee dirsi della scultura. Que-sta ancora ebbe tra' Longobardi alcunisplendidi protettori; ma ciò nonostante qualdifferenza fra i lavori dell'arte di questi tem-pi, e, quelli dell'età trapassate? In Monzaconservasi ancora parte del ricco tesoro de'

donativi che al tempio di s. Giambattista fece la reginaTeodolinda; veggonsi tuttora in Pavia le antiche sculturedella chiesa di s. Michele, ed altri simili monumenti nonmancano e in questa e in altre città d'Italia. Ma in essivedesi comunemente una rozzezza così nel disegnocome nell'esecuzione, che or ci muove alle risa; e allornondimeno miravansi tali cose come prodigj dell'arte.Anastasio bibliotecario nelle Vite de' romani Pontefici

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Non man-cano a que-sti tempi sculture, ma rozze ed informe.

Longobardi troviam talvolta fatta menzione di fabbrichee di muratori; e parmi degno d'osservazione che quelloche noi or diciam capomastro, ivi si appella col nome dimagister comacinus (Leg. Lang. lex 144, 145; t. 1, pars2 Script. rer. ital.); il che ci mostra che sin da que' tempicotal sorta di operai venivano comunemente dal contadodi Como e dal vicin lago, onde prendevano il nome. Mal'architettura che a' tempi de' Goti era già decaduta dimolto dall'antica sua maestosa semplicità, venne a statosempre peggiore sotto de' Longobardi e la mancanza diproporzione l'irregolarità del disegno il capriccio degliornamenti, ci mostrano che il buon gusto era totalmenteperduto.

III. Lo stesso dee dirsi della scultura. Que-sta ancora ebbe tra' Longobardi alcunisplendidi protettori; ma ciò nonostante qualdifferenza fra i lavori dell'arte di questi tem-pi, e, quelli dell'età trapassate? In Monzaconservasi ancora parte del ricco tesoro de'

donativi che al tempio di s. Giambattista fece la reginaTeodolinda; veggonsi tuttora in Pavia le antiche sculturedella chiesa di s. Michele, ed altri simili monumenti nonmancano e in questa e in altre città d'Italia. Ma in essivedesi comunemente una rozzezza così nel disegnocome nell'esecuzione, che or ci muove alle risa; e allornondimeno miravansi tali cose come prodigj dell'arte.Anastasio bibliotecario nelle Vite de' romani Pontefici

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Non man-cano a que-sti tempi sculture, ma rozze ed informe.

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che vissero a questi tempi, si stende assai lungamentenell'annoverare e descrivere con esattezza le fabbrichesacre da essi intraprese, e i vasi sacri, e gli altri somi-glianti ornamenti di cui le arricchirono; ed egli pur ce neparla come di cose di maraviglioso lavoro. Tutti questiencomi però voglionsi intendere in quel senso medesi-mo in cui abbiam veduto che si debbon intender gli en-comj fatti agli uomini dotti di questa età. In mezzoall'universale ignoranza sembrava somigliante a porten-to il sapere pure scrivere alcuna cosa, e il sapere in qua-lunque modo scolpire. Perciò chi era da tanto, venivaesaltato con somme lodi; e i lavori dell'arte, invece diaver giudici saggi e intendenti, non trovavan che ciechie attoniti ammiratori.

IV. Somigliante per ultimo fu la sorte dellapittura. Se noi vogliam credere a un'opinio-ne ricevuta comunemente e per una cotaltradizione de' nostri maggiori, e per la testi-monianza di quasi tutti i moderni autori chesu ciò hanno scritto, ci converrebbe qui con-fessare che la pittura dopo l'invasion de'

Barbari perì interamente in Italia, e che solo nel XIIIsec. incominciasse a sorgere dalle sue rovine per operadel celebre Cimabue. Due illustri scrittori a' quali la no-stra Italia dovrà un'eterna riconoscenza per la gloria chein mille guise le hanno colle opere loro accresciuta, dicoil march. Maffei e il Muratori, han cominciato a combat-

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Si mostra che la pittu-ra non fu mai del tut-to dimenti-cata in Ita-lia.

che vissero a questi tempi, si stende assai lungamentenell'annoverare e descrivere con esattezza le fabbrichesacre da essi intraprese, e i vasi sacri, e gli altri somi-glianti ornamenti di cui le arricchirono; ed egli pur ce neparla come di cose di maraviglioso lavoro. Tutti questiencomi però voglionsi intendere in quel senso medesi-mo in cui abbiam veduto che si debbon intender gli en-comj fatti agli uomini dotti di questa età. In mezzoall'universale ignoranza sembrava somigliante a porten-to il sapere pure scrivere alcuna cosa, e il sapere in qua-lunque modo scolpire. Perciò chi era da tanto, venivaesaltato con somme lodi; e i lavori dell'arte, invece diaver giudici saggi e intendenti, non trovavan che ciechie attoniti ammiratori.

IV. Somigliante per ultimo fu la sorte dellapittura. Se noi vogliam credere a un'opinio-ne ricevuta comunemente e per una cotaltradizione de' nostri maggiori, e per la testi-monianza di quasi tutti i moderni autori chesu ciò hanno scritto, ci converrebbe qui con-fessare che la pittura dopo l'invasion de'

Barbari perì interamente in Italia, e che solo nel XIIIsec. incominciasse a sorgere dalle sue rovine per operadel celebre Cimabue. Due illustri scrittori a' quali la no-stra Italia dovrà un'eterna riconoscenza per la gloria chein mille guise le hanno colle opere loro accresciuta, dicoil march. Maffei e il Muratori, han cominciato a combat-

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Si mostra che la pittu-ra non fu mai del tut-to dimenti-cata in Ita-lia.

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tere questo universal pregiudizio e a mostrare che tranoi non cadde mai la pittura per modo ch'ella, anche ne'più rozzi secoli non fosse usata. Ma il primo nelle sueerudite ricerche si è ristretto alla sua patria, di cui scri-vea, e in cui ha mostrato trovarsi pitture assai più anti-che di Cimabue (Ver. illustr. par. 3, c. 6). Il secondo al-cuni pochi esempj ha addotti di pitture fatte ne' tempibarbari (Antiq. Ital. t. 2, diss. 24). L'idea della mia operarichiede necessariamente ch'io esamini colla maggior di-ligenza che mi sia possibile questo punto. L'Italia sareb-be stata difesa e onorata assai meglio, se quei valentuo-mini avesser preso a trattarne distesamente. Io mi lusin-go ciò non ostante di poterne dir tanto, che basti ad assi-curarle la gloria di aver sempre avuti coltivatori dellapittura.

V. Già abbiam mostrato che pittura e mu-saici eransi fatti in Italia a tempi de' Goti.Veggiamone ora il seguito ai tempi deiLongobardi. Molti in primo luogo sono imusaici di cui Anastasio bibliotecario ci

narra che per comando de' papi furono ornati e tempj edaltri sagri edificj in Roma, come la chiesa di s. Agnesenella via Nomentana da Onorio I (Script. rer. ital. t. 3,pars 1, p. 136), la basilica vaticana da Severino (ib. p.137), e quella del Salvadore da Sergio (ib. p. 150). Dipitture ancora troviam più volte espressa menzione. DiGiovanni VII che salì al pontificato l'an. 705, dice lo

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Si annoverano molte pitture in Italia fatte aquesti tempi.

tere questo universal pregiudizio e a mostrare che tranoi non cadde mai la pittura per modo ch'ella, anche ne'più rozzi secoli non fosse usata. Ma il primo nelle sueerudite ricerche si è ristretto alla sua patria, di cui scri-vea, e in cui ha mostrato trovarsi pitture assai più anti-che di Cimabue (Ver. illustr. par. 3, c. 6). Il secondo al-cuni pochi esempj ha addotti di pitture fatte ne' tempibarbari (Antiq. Ital. t. 2, diss. 24). L'idea della mia operarichiede necessariamente ch'io esamini colla maggior di-ligenza che mi sia possibile questo punto. L'Italia sareb-be stata difesa e onorata assai meglio, se quei valentuo-mini avesser preso a trattarne distesamente. Io mi lusin-go ciò non ostante di poterne dir tanto, che basti ad assi-curarle la gloria di aver sempre avuti coltivatori dellapittura.

V. Già abbiam mostrato che pittura e mu-saici eransi fatti in Italia a tempi de' Goti.Veggiamone ora il seguito ai tempi deiLongobardi. Molti in primo luogo sono imusaici di cui Anastasio bibliotecario ci

narra che per comando de' papi furono ornati e tempj edaltri sagri edificj in Roma, come la chiesa di s. Agnesenella via Nomentana da Onorio I (Script. rer. ital. t. 3,pars 1, p. 136), la basilica vaticana da Severino (ib. p.137), e quella del Salvadore da Sergio (ib. p. 150). Dipitture ancora troviam più volte espressa menzione. DiGiovanni VII che salì al pontificato l'an. 705, dice lo

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Si annoverano molte pitture in Italia fatte aquesti tempi.

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stesso Anastasio (ib. p. 152), che molte immagini fecedipingere nelle chiese di Roma, e che di pitture ornò labasilica che diceasi antica, della Madre di Dio. E moltepitture ancora ei rammenta, di cui Gregorio III ornò lechiese di s. Grisogono, di s. Callisto, della B. Verginedetta in Aquiro, ed altre (ib. p. 159, ec.). Pitture innoltree musaici veggiam nominati assai spesso dallo stessoscrittore nella Vita del pontefice Zaccheria (ib. p. 163,164), di cui aggiugne che nel palazzo lateranese fece an-cor dipingere la descrizione del mondo, o, come noi di-ciamo, una carta geografica, a cui pure aggiunse alcunisuoi versi; e lo stesso troviam nelle Vite di Paolo I (ib.p. 137) e di Adriano I (ib. p. 189), di modo che possiamdire a ragione che ai romani pontefici singolarmente noisiam debitori che questa arte non sia interamente perita.Essi però non furono i soli che la sostenessero. Giovannidiacono nelle Vite de' Vescovi di Napoli fa menzion dipitture di cui il vesc. Giovanni al principio del VII sec.ornò il Consegnatorio, ossia la stanza ove i neofiti bat-tezzati si ritiravano per ricevervi la confermazione(Script. rel. ital. t. 1, pars 2, p. 301). Nel medesimo se-colo Reparato vesc. di Ravenna, per testimonio dellostorico Agnello (in Vit. Pontif. ravenn.), fece dipingerele immagini de' vescovi suoi antecessori, e la sua anco-ra, aggiugnendo a ciascuna immagine due versi. E nelseguente secolo Potone undecimo abate di Monte Casi-no, come narra Leon marsicano (Chron. Monast. Casin.l. 1, c. 10), avendo fabbricato un tempio in onore di s.Michele, ornollo d'insigni pitture, e di versi da sè com-

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stesso Anastasio (ib. p. 152), che molte immagini fecedipingere nelle chiese di Roma, e che di pitture ornò labasilica che diceasi antica, della Madre di Dio. E moltepitture ancora ei rammenta, di cui Gregorio III ornò lechiese di s. Grisogono, di s. Callisto, della B. Verginedetta in Aquiro, ed altre (ib. p. 159, ec.). Pitture innoltree musaici veggiam nominati assai spesso dallo stessoscrittore nella Vita del pontefice Zaccheria (ib. p. 163,164), di cui aggiugne che nel palazzo lateranese fece an-cor dipingere la descrizione del mondo, o, come noi di-ciamo, una carta geografica, a cui pure aggiunse alcunisuoi versi; e lo stesso troviam nelle Vite di Paolo I (ib.p. 137) e di Adriano I (ib. p. 189), di modo che possiamdire a ragione che ai romani pontefici singolarmente noisiam debitori che questa arte non sia interamente perita.Essi però non furono i soli che la sostenessero. Giovannidiacono nelle Vite de' Vescovi di Napoli fa menzion dipitture di cui il vesc. Giovanni al principio del VII sec.ornò il Consegnatorio, ossia la stanza ove i neofiti bat-tezzati si ritiravano per ricevervi la confermazione(Script. rel. ital. t. 1, pars 2, p. 301). Nel medesimo se-colo Reparato vesc. di Ravenna, per testimonio dellostorico Agnello (in Vit. Pontif. ravenn.), fece dipingerele immagini de' vescovi suoi antecessori, e la sua anco-ra, aggiugnendo a ciascuna immagine due versi. E nelseguente secolo Potone undecimo abate di Monte Casi-no, come narra Leon marsicano (Chron. Monast. Casin.l. 1, c. 10), avendo fabbricato un tempio in onore di s.Michele, ornollo d'insigni pitture, e di versi da sè com-

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posti, de' quali alcuni ne riferisce lo stesso autore. Final-mente nell'antica Cronaca del monastero di Subiaco sinarra (Script. rer. ital. vol. 24, p. 930) che l'abate Stefa-no a' tempi di Giovanni VII, cioè verso l'an. 706, fè di-pinger la chiesa del monastero medesimo.

VI. Io ben veggio ciò che da alcuno po-trà per avventura opporsi a questa conti-nuata serie di dipinture, ch'io ho qui ar-recata cioè che tutte furon fatte in paesiche ubbidivano a' Greci, e che perciò

furon forse opera di greci pittori. Ma su qual fondamen-to si può tal cosa asserire? Come si pruova che grecifossero, e non italiani i pittori? Vi è forse alcuno tra gliantichi scrittori, che lo affermi? Vi è forse tra essi chidica che gl'Italiani aveano dimenticata parte della pittu-ra? A me non è finora avvenuto di trovare testimonianzaalcuna di tal natura. Un passo di Leon marsicano, che sisuole addurre a pruova di un tal sentimento, ch'è l'unicosu cui possa esso appoggiarsi, io mi lusingo di potermostrare ad evidenza, ove dovrò trattare dell'XI secolo,che non ha forza alcuna. Noi in somma veggiam pitturein Italia: non abbiamo chi ci assicuri che esse furon la-voro de' Greci, dunque, finchè non ci si pruovi il contra-rio, possiam credere opere di dipintori italiani. Io credobensì che alcuni pittori greci potesser venire in Italia al-lor quando destossi nell'Oriente la persecuzione controle sacre immagini; ma questa non ebbe principio che

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Non si può affer-mare che fosser tutte opere di pit-tori greci.

posti, de' quali alcuni ne riferisce lo stesso autore. Final-mente nell'antica Cronaca del monastero di Subiaco sinarra (Script. rer. ital. vol. 24, p. 930) che l'abate Stefa-no a' tempi di Giovanni VII, cioè verso l'an. 706, fè di-pinger la chiesa del monastero medesimo.

VI. Io ben veggio ciò che da alcuno po-trà per avventura opporsi a questa conti-nuata serie di dipinture, ch'io ho qui ar-recata cioè che tutte furon fatte in paesiche ubbidivano a' Greci, e che perciò

furon forse opera di greci pittori. Ma su qual fondamen-to si può tal cosa asserire? Come si pruova che grecifossero, e non italiani i pittori? Vi è forse alcuno tra gliantichi scrittori, che lo affermi? Vi è forse tra essi chidica che gl'Italiani aveano dimenticata parte della pittu-ra? A me non è finora avvenuto di trovare testimonianzaalcuna di tal natura. Un passo di Leon marsicano, che sisuole addurre a pruova di un tal sentimento, ch'è l'unicosu cui possa esso appoggiarsi, io mi lusingo di potermostrare ad evidenza, ove dovrò trattare dell'XI secolo,che non ha forza alcuna. Noi in somma veggiam pitturein Italia: non abbiamo chi ci assicuri che esse furon la-voro de' Greci, dunque, finchè non ci si pruovi il contra-rio, possiam credere opere di dipintori italiani. Io credobensì che alcuni pittori greci potesser venire in Italia al-lor quando destossi nell'Oriente la persecuzione controle sacre immagini; ma questa non ebbe principio che

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Non si può affer-mare che fosser tutte opere di pit-tori greci.

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l'an. 725, e noi abbiamo veduto che anche ne' due secoliprecedenti erasi in Italia esercitata l'arte della pittura.Poteron dunque i Greci accrescere per avventura il nu-mero de' pittori in Italia; ma non vi era bisogno di essiper far risorger quest'arte che senza essi ancora erasicoltivata in addietro, e si coltivava tuttora.

VII. Ma senza ciò noi veggiamo eserci-tata ancor la pittura nelle provincie sog-gette a' Longobardi. Della regina Teodo-linda racconta Paolo diacono (Hist.Lang. l. 4, c. 20), che nel palazzo ch'ellasi fece innalzare in Monza volle che fos-

ser dipinte alcune delle imprese de' suoi Longobardi;dalle quali pitture che a' tempi di questo autore ancoraesistevano, egli raccolse quali fossero allora le vesti egli ornamenti de' medesimi Longobardi. L'Anonimo sa-lernitano parla di un'immagine di Arigiso duca di Bene-vento (Cron. c. 11), che vedevasi dipinta in una chiesadi Capova, e che fu mostrato l'an. 787 a Carlo Magno.Io so che questi è uno scrittor favoloso e poco degno difede; ma essendo egli pure scrittore antico, cioè del Xsecolo, o vero, o falso sia il fatto ch'ei racconta, esso ba-sta a mostrarci che la pittura non era sconosciuta a' si-gnori Longobardi, e che si credeva che essi usassero difar formare i loro ritratti. Veggasi ancora ciò che l'erudi-tiss. co. Giorgio Giulini osserva su una antica pittura chevedeasi già nel coro della imperial basilica di s. Ambro-

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E molto meno il poterono esser quelle che furo-no fatte ne' paesisoggetti a' Lon-gobardi.

l'an. 725, e noi abbiamo veduto che anche ne' due secoliprecedenti erasi in Italia esercitata l'arte della pittura.Poteron dunque i Greci accrescere per avventura il nu-mero de' pittori in Italia; ma non vi era bisogno di essiper far risorger quest'arte che senza essi ancora erasicoltivata in addietro, e si coltivava tuttora.

VII. Ma senza ciò noi veggiamo eserci-tata ancor la pittura nelle provincie sog-gette a' Longobardi. Della regina Teodo-linda racconta Paolo diacono (Hist.Lang. l. 4, c. 20), che nel palazzo ch'ellasi fece innalzare in Monza volle che fos-

ser dipinte alcune delle imprese de' suoi Longobardi;dalle quali pitture che a' tempi di questo autore ancoraesistevano, egli raccolse quali fossero allora le vesti egli ornamenti de' medesimi Longobardi. L'Anonimo sa-lernitano parla di un'immagine di Arigiso duca di Bene-vento (Cron. c. 11), che vedevasi dipinta in una chiesadi Capova, e che fu mostrato l'an. 787 a Carlo Magno.Io so che questi è uno scrittor favoloso e poco degno difede; ma essendo egli pure scrittore antico, cioè del Xsecolo, o vero, o falso sia il fatto ch'ei racconta, esso ba-sta a mostrarci che la pittura non era sconosciuta a' si-gnori Longobardi, e che si credeva che essi usassero difar formare i loro ritratti. Veggasi ancora ciò che l'erudi-tiss. co. Giorgio Giulini osserva su una antica pittura chevedeasi già nel coro della imperial basilica di s. Ambro-

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E molto meno il poterono esser quelle che furo-no fatte ne' paesisoggetti a' Lon-gobardi.

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gio in Milano, in cui eran dipinti i vescovi suffraganei diquella chiesa, e l'ordine con cui essi sedeano ne' conciljprovinciali; pittura ch'egli con ottime ragioni dimostra(Mem. di Mil. t. 1, p. 223) che fu fatta verso il fine delVII secolo. Or tutte queste pitture chi mai potrà credereche fosser lavoro di pittori greci, co' quali aveano i Lon-gobardi guerre continue, e guerre che non lasciavan giàquasi interamente libero il vicendevol commercio tra lecontrarie nazioni, ma che esercitavansi da una parte edall'altra con quell'implacabile odio ch'era proprio diquelle rozze e barbare età? Egli è dunque a mio parereevidente che sotto il regno de' Longobardi non mancò lapittura in Italia, benchè essa pure, come tutte le altrearti, fosse esercitata assai infelicemente; e lo stesso purepotrem mostrare de' secoli susseguenti a' quali ora dob-biam fare passaggio.

LIBRO III.Storia della Letteratura Italiana da' tempi diCarlo Magno fino alla morte di Ottone III.

I. Eran già corsi oltre a due secoli, dacchè l'Italia nonavea avuto sovrano che si prendesse pensiero alcunodelle lettere e delle belle arti; e una tal noncuranza con-giunta alle funeste sciagure da cui essa fu travagliata,avea condotti gli studj tutti a quell'universale dicadi-

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gio in Milano, in cui eran dipinti i vescovi suffraganei diquella chiesa, e l'ordine con cui essi sedeano ne' conciljprovinciali; pittura ch'egli con ottime ragioni dimostra(Mem. di Mil. t. 1, p. 223) che fu fatta verso il fine delVII secolo. Or tutte queste pitture chi mai potrà credereche fosser lavoro di pittori greci, co' quali aveano i Lon-gobardi guerre continue, e guerre che non lasciavan giàquasi interamente libero il vicendevol commercio tra lecontrarie nazioni, ma che esercitavansi da una parte edall'altra con quell'implacabile odio ch'era proprio diquelle rozze e barbare età? Egli è dunque a mio parereevidente che sotto il regno de' Longobardi non mancò lapittura in Italia, benchè essa pure, come tutte le altrearti, fosse esercitata assai infelicemente; e lo stesso purepotrem mostrare de' secoli susseguenti a' quali ora dob-biam fare passaggio.

LIBRO III.Storia della Letteratura Italiana da' tempi diCarlo Magno fino alla morte di Ottone III.

I. Eran già corsi oltre a due secoli, dacchè l'Italia nonavea avuto sovrano che si prendesse pensiero alcunodelle lettere e delle belle arti; e una tal noncuranza con-giunta alle funeste sciagure da cui essa fu travagliata,avea condotti gli studj tutti a quell'universale dicadi-

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mento che nel precedente libro abbiamo osservato. Mafinalmente ella vide rinascere un nuovo ordin di cose, ecominciò a sperare di risorgere un giorno al suo anticosplendore. A' principi longobardi alcuni de' quali eranostati per equità, per senno e per pietà ragguardevoli, maniuno che onorasse generalmente le scienze della suaprotezione, succedette un possente monarca che parvedal ciel mandato a ristorare una gran parte d'Europa da'gravi danni ch'ella avea sostenuti e che nell'onorare lescienze e i loro coltivatori rinnovò, per quanto era possi-bile, i lieti tempi d'Augusto. Io parlo, come ognuno giàintende, di Carlo Magno, principe per le gloriose sueimprese di guerra al par che di pace degno d'immortalememoria. Egli si vide signore non solo della sua Fran-cia, ma di una gran parte della Italia, della Germania, edella Spagna, e ornato inoltre dell'imperial diadema chedopo l'invasione de' Barbari sembrava tolto interamentedall'Occidente. L'ampiezza degli Stati, il valore dellesue truppe, e più di ogni altra cosa il suo senno e la suaprudenza, lo renderono uno de' più possenti sovrani chefossero al mondo. Ma del suo potere ei non si valse chea vantaggio de' popoli. Propagare in ogni parte la reli-gione, abbattere le nascenti eresie, togliere gl'inveteratiabusi, e pubblicare secondo il bisogno nuove utilissimeleggi, furono i pensieri di cui egli più occupossi. Le lodicon cui il veggiam celebrato non solo dagli scrittori con-temporanei, i quali pur ne conoscevano anche i difetti,ma da tutti quegli ancora che venner dopo, ci fan cono-scere la fama a cui era per ciò salito; e formano un sì fa-

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mento che nel precedente libro abbiamo osservato. Mafinalmente ella vide rinascere un nuovo ordin di cose, ecominciò a sperare di risorgere un giorno al suo anticosplendore. A' principi longobardi alcuni de' quali eranostati per equità, per senno e per pietà ragguardevoli, maniuno che onorasse generalmente le scienze della suaprotezione, succedette un possente monarca che parvedal ciel mandato a ristorare una gran parte d'Europa da'gravi danni ch'ella avea sostenuti e che nell'onorare lescienze e i loro coltivatori rinnovò, per quanto era possi-bile, i lieti tempi d'Augusto. Io parlo, come ognuno giàintende, di Carlo Magno, principe per le gloriose sueimprese di guerra al par che di pace degno d'immortalememoria. Egli si vide signore non solo della sua Fran-cia, ma di una gran parte della Italia, della Germania, edella Spagna, e ornato inoltre dell'imperial diadema chedopo l'invasione de' Barbari sembrava tolto interamentedall'Occidente. L'ampiezza degli Stati, il valore dellesue truppe, e più di ogni altra cosa il suo senno e la suaprudenza, lo renderono uno de' più possenti sovrani chefossero al mondo. Ma del suo potere ei non si valse chea vantaggio de' popoli. Propagare in ogni parte la reli-gione, abbattere le nascenti eresie, togliere gl'inveteratiabusi, e pubblicare secondo il bisogno nuove utilissimeleggi, furono i pensieri di cui egli più occupossi. Le lodicon cui il veggiam celebrato non solo dagli scrittori con-temporanei, i quali pur ne conoscevano anche i difetti,ma da tutti quegli ancora che venner dopo, ci fan cono-scere la fama a cui era per ciò salito; e formano un sì fa-

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vorevole pregiudizio per la memoria di questo monarca,che il livore di qualche moderno scrittore ha cercato in-van di combatterlo. Ma in Carlo Magno io non debboosservare che il ristorator delle scienze, e per ciò soloancora ei sarebbe degno di eterna memoria. L'impegnocon cui egli prese a coltivarle, i mezzi con cui adoperos-si a farle risorgere, e il frutto che ei ne raccolse, sono unoggetto su cui mi conviene arrestarmi per qualche tem-po, affine di esaminare qual parte vi avesse l'Italia. Nèio intendo di qui favellare distesamente di Carlo Magno.Ei nè fu italiano di nascita, nè ebbe stabil soggiorno franoi. Gli autori della Storia letteraria di Francia hanno diciò trattato ampiamente non meno che eruditamente(Hist. littér. de la France t. 5). Io mi ristringo a ciò sola-mente che di giusta ragion ci appartiene, e non invidioagli altri le loro glorie. Queste ricerche formeran l'argo-mento del primo capo di questo libro; e io mi lusingoche agli amatori della gloria d'Italia non mi saprannomal grado, che con qualche particolar diligenza io abbiapreso a trattarne.

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vorevole pregiudizio per la memoria di questo monarca,che il livore di qualche moderno scrittore ha cercato in-van di combatterlo. Ma in Carlo Magno io non debboosservare che il ristorator delle scienze, e per ciò soloancora ei sarebbe degno di eterna memoria. L'impegnocon cui egli prese a coltivarle, i mezzi con cui adoperos-si a farle risorgere, e il frutto che ei ne raccolse, sono unoggetto su cui mi conviene arrestarmi per qualche tem-po, affine di esaminare qual parte vi avesse l'Italia. Nèio intendo di qui favellare distesamente di Carlo Magno.Ei nè fu italiano di nascita, nè ebbe stabil soggiorno franoi. Gli autori della Storia letteraria di Francia hanno diciò trattato ampiamente non meno che eruditamente(Hist. littér. de la France t. 5). Io mi ristringo a ciò sola-mente che di giusta ragion ci appartiene, e non invidioagli altri le loro glorie. Queste ricerche formeran l'argo-mento del primo capo di questo libro; e io mi lusingoche agli amatori della gloria d'Italia non mi saprannomal grado, che con qualche particolar diligenza io abbiapreso a trattarne.

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CAPO I.Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, eidea dello stato civile e letterario d'Italia in quest'epo-

ca.

I. Il nome di Carlo Magno è uno de' più pre-gevoli ornamenti della storia letteraria diFrancia. Egli ne fu natio, sovrano, legislato-re, e vi fece rifiorire le scienze; egli in certomodo gittò i primi fondamenti della celebreuniversità di Parigi. E se l'Italia ebbe allorala sorte di avere un principe che si adope-

rasse a farvi risorger gli studj, ella dee confessare since-ramente che n'è debitrice alla Francia. Ma parmi ciò nonostante che l'Italia possa con qualche buon diritto glo-riarsi della memoria e del nome di un tal monarca. Io soche la comune opinione ci rappresenta Carlo Magno aguisa di un principe che istruito già nelle scienze vennedalla sua Francia in Italia; e mosso a pietà della profon-da ignoranza in cui essa giaceasi, vi trasse da' paesi stra-nieri uomini dotti che la dirozzasero. E confesso chenon senza dispiacere ho veduto uno de' più accreditatiscrittori che abbia ora l'Italia, cioè il ch. sig. Denina, ab-bracciare egli pure questa opinione. "Ma ben maggiormaraviglia, dice egli (Rivol. d'Ital. t. 1, p. 400, ec.), cidovrà parere che l'Italia non solamente allora abbia do-vuto conoscere da' Barbari boreali il rinnovamento dellamilizia, ma abbia da loro dovuto apprendere in quello

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Si prende a esaminare qual parte avesse l'Ita-lia nelle let-terarie cure di Carlo Magno.

CAPO I.Risorgimento degli studi per opera di Carlo Magno, eidea dello stato civile e letterario d'Italia in quest'epo-

ca.

I. Il nome di Carlo Magno è uno de' più pre-gevoli ornamenti della storia letteraria diFrancia. Egli ne fu natio, sovrano, legislato-re, e vi fece rifiorire le scienze; egli in certomodo gittò i primi fondamenti della celebreuniversità di Parigi. E se l'Italia ebbe allorala sorte di avere un principe che si adope-

rasse a farvi risorger gli studj, ella dee confessare since-ramente che n'è debitrice alla Francia. Ma parmi ciò nonostante che l'Italia possa con qualche buon diritto glo-riarsi della memoria e del nome di un tal monarca. Io soche la comune opinione ci rappresenta Carlo Magno aguisa di un principe che istruito già nelle scienze vennedalla sua Francia in Italia; e mosso a pietà della profon-da ignoranza in cui essa giaceasi, vi trasse da' paesi stra-nieri uomini dotti che la dirozzasero. E confesso chenon senza dispiacere ho veduto uno de' più accreditatiscrittori che abbia ora l'Italia, cioè il ch. sig. Denina, ab-bracciare egli pure questa opinione. "Ma ben maggiormaraviglia, dice egli (Rivol. d'Ital. t. 1, p. 400, ec.), cidovrà parere che l'Italia non solamente allora abbia do-vuto conoscere da' Barbari boreali il rinnovamento dellamilizia, ma abbia da loro dovuto apprendere in quello

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Si prende a esaminare qual parte avesse l'Ita-lia nelle let-terarie cure di Carlo Magno.

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stesso tempo le scienze più necessarie, e che bisognassedagli ultimi confini d'Occidente e del Nord far venire inItalia i maestri ad insegnarci, non che altro, la lingua la-tina. Carlo Magno l'an. 781 avea preposto alle scuoled'Italia e di Francia due monaci irlandesi ec.". Io pensoche questo valoroso autore, poichè si era prefisso di nontrattare nella sua opera, se non per incidenza, della ita-liana letteratura, non abbia creduto di dovere esaminareun tal punto, e che abbia perciò troppo facilmente segui-to l'altrui parere (18). L'idea di questa mia Storia mi hacondotto necessariamente a consultare e a confrontaretra loro gli antichi scrittori della Vita di Carlo Magno, egli altri autori che gli furono contemporanei, de' quali,non ostante l'insofferibil barbarie del loro stile, ho volu-to leggere quanto ho potuto aver tra le mani; e dopo undiligente esame fatto sopra essi, parmi di poter afferma-re con sicurezza di non andare errato, tre cose assai glo-riose all'Italia, cioè in primo luogo che Carlo Magno aun Italiano fu debitore del primo volgersi ch'ei fece aglistudj; in secondo luogo che Carlo Magno non mandòstraniero alcuno in Italia a tenervi scuola; in terzo luogoper ultimo che da Carlo Magno molti Italiani inviati fu-rono in Francia a farvi risorger gli studj. Prendiamo asvolgere e a provare partitamente ciascheduna di questetre proposizioni, e primieramente la prima.

18 Il ch. sig. Denina ha poi modestamente ritrattata, o almeno moderata que-sta sua proposizione nella seconda più ampia edizione del suo ingegnosoed erudito Discorso sopra le Vicende della Letteratura fatta in Basilea nel1783 (tom. 1, pag. 100).

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stesso tempo le scienze più necessarie, e che bisognassedagli ultimi confini d'Occidente e del Nord far venire inItalia i maestri ad insegnarci, non che altro, la lingua la-tina. Carlo Magno l'an. 781 avea preposto alle scuoled'Italia e di Francia due monaci irlandesi ec.". Io pensoche questo valoroso autore, poichè si era prefisso di nontrattare nella sua opera, se non per incidenza, della ita-liana letteratura, non abbia creduto di dovere esaminareun tal punto, e che abbia perciò troppo facilmente segui-to l'altrui parere (18). L'idea di questa mia Storia mi hacondotto necessariamente a consultare e a confrontaretra loro gli antichi scrittori della Vita di Carlo Magno, egli altri autori che gli furono contemporanei, de' quali,non ostante l'insofferibil barbarie del loro stile, ho volu-to leggere quanto ho potuto aver tra le mani; e dopo undiligente esame fatto sopra essi, parmi di poter afferma-re con sicurezza di non andare errato, tre cose assai glo-riose all'Italia, cioè in primo luogo che Carlo Magno aun Italiano fu debitore del primo volgersi ch'ei fece aglistudj; in secondo luogo che Carlo Magno non mandòstraniero alcuno in Italia a tenervi scuola; in terzo luogoper ultimo che da Carlo Magno molti Italiani inviati fu-rono in Francia a farvi risorger gli studj. Prendiamo asvolgere e a provare partitamente ciascheduna di questetre proposizioni, e primieramente la prima.

18 Il ch. sig. Denina ha poi modestamente ritrattata, o almeno moderata que-sta sua proposizione nella seconda più ampia edizione del suo ingegnosoed erudito Discorso sopra le Vicende della Letteratura fatta in Basilea nel1783 (tom. 1, pag. 100).

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II. Niuno, io credo, vorrà rivocare indubbio che il primo degli studj, a cuiCarlo Magno si rivolgesse, non fossequello della gramatica, senza cui inutil-mente avrebbe egli tentato di coltivarele scienze. Or in questo studio egli ebbecertamente a suo maestro un Italiano,

cioè Pietro diacono da Pisa. Eginardo ch'è il migliore tragli scrittori della Vita di Carlo Magno, di cui fu cancel-liere, chiaramente lo afferma: In discenda gramaticaPetrum pisanum diaconum senem audivit (c. 25). Lostesso confermasi dall'antico scrittore degli Annali diMetz pubblicati dal Du Chesne (Script. Hist. Franc. t.3). E similmente l'Anonimo poeta sassone (de Vita Car.M. l. 5), A sene levita quodam cognomine Petro

Curavit primo discere grammaticam.

Questo diacono Pietro soggiornava in Pavia, e il celebreAlcuino, di cui fra poco ragioneremo, scrive (ep. 15 adCar. M.) di averlo ivi veduto, mentre andando a Romaerasi per alcuni giorni fermato in quella città, e che inque' giorni medesimi Pietro avea tenuta una disputa direligione con un Giudeo detto Giulio, che poscia era sta-ta messa in iscritto; "e questi, soggiugne Alcuino scri-vendo a Carlo Magno, egli è quel Pietro medesimo cheposcia si rendette famoso insegnando la gramatica nelvostro palazzo". Egli è dunque certissimo che Pietro daPisa fu il primo maestro di Carlo Magno, il quale, parti-

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Questo principe dovette le prime istruzioni a Pie-tro da Pisa a Paolo diacono e a Paolino di Aquileja.

II. Niuno, io credo, vorrà rivocare indubbio che il primo degli studj, a cuiCarlo Magno si rivolgesse, non fossequello della gramatica, senza cui inutil-mente avrebbe egli tentato di coltivarele scienze. Or in questo studio egli ebbecertamente a suo maestro un Italiano,

cioè Pietro diacono da Pisa. Eginardo ch'è il migliore tragli scrittori della Vita di Carlo Magno, di cui fu cancel-liere, chiaramente lo afferma: In discenda gramaticaPetrum pisanum diaconum senem audivit (c. 25). Lostesso confermasi dall'antico scrittore degli Annali diMetz pubblicati dal Du Chesne (Script. Hist. Franc. t.3). E similmente l'Anonimo poeta sassone (de Vita Car.M. l. 5), A sene levita quodam cognomine Petro

Curavit primo discere grammaticam.

Questo diacono Pietro soggiornava in Pavia, e il celebreAlcuino, di cui fra poco ragioneremo, scrive (ep. 15 adCar. M.) di averlo ivi veduto, mentre andando a Romaerasi per alcuni giorni fermato in quella città, e che inque' giorni medesimi Pietro avea tenuta una disputa direligione con un Giudeo detto Giulio, che poscia era sta-ta messa in iscritto; "e questi, soggiugne Alcuino scri-vendo a Carlo Magno, egli è quel Pietro medesimo cheposcia si rendette famoso insegnando la gramatica nelvostro palazzo". Egli è dunque certissimo che Pietro daPisa fu il primo maestro di Carlo Magno, il quale, parti-

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Questo principe dovette le prime istruzioni a Pie-tro da Pisa a Paolo diacono e a Paolino di Aquileja.

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to di Francia l'an. 773 in età di 30 anni, rozzo perfinonegli stessi rudimenti gramaticali, ebbe in Pavia l'occa-sion di conoscere un uomo che cominciò a destarglinell'animo qualche amor delle lettere (19). Ciò accaddeprobabilmente l'an. 774 in cui Carlo si rendè padron diPavia. Nè fu già solo il diacono Pietro che avesse talvanto. Carlo conobbe pure in Italia il celebre Paolo dia-cono ch'era stato alla corte de' re longobardi; e comeegli era uno de' più dotti uomini de' suoi tempi, fu avutoda Carlo in gran pregio, come a suo luogo vedremo.Inoltre allor quando l'an. 776 Carlo Magno conquistò ilFriuli, e ne uccise il duca Rodgauso, ebbe notizia diPaolino prete allora gramatico, e poi patriarca di Aqui-leia; e nell'anno medesimo egli fe' dono con suo diplo-

19 Il sig. ab. Gio. Pietro della Stua nella recente sua Vita di s. Paolino, cherammenteremo tra poco, combatte la mia opinione, che Carlo M. partissedalla Francia ancor rozzo negli stessi elementi gramaticali (p. 81 nota 6), eafferma che per voler di Pipino suo padre ei fu istruito da Ambrogio Aut-perto, il quale poscia entrò nell'Ord. di s. Benedetto. Così di fatto affermalo scrittor della Vita di Autperto, che leggesi presso il Mabillon (Acta SS.Ord. S. Bened. saec. 3, pars 2, p. 259); ed anzi lo stesso scrittore aggiugneche Autperto fu anche arcicancelliere della corte imperiale. Ma il p. Ceil-lier osserva (Hist. des Aut. eccl. t. 18, p. 200) che questo autore si mostramal informato delle azioni di Autperto, perciocchè questi era monaco pri-ma che Carlo Magno salisse il trono di Francia, ed è un grossolano anacro-nismo il dire ch'egli morto l'an. 769 fosse arcicancelliere imperiale, mentreCarlo M. non fu coronato imperadore che l'an. 800. Non ha dunque autori-tà alcuna il detto di questo scrittore a combattere un'opinione fondata sullatestimonianza di tanti altri più accreditati autori. In fatti, come osserva an-che il Mabillon, la Vita di Autperto è tratta da una Cronaca del monasterodel Volturno scritta nel sec. XI, cioè oltre a 200 anni dopo la morte di esso,e perciò non può avere autorità alcuna in confronto degli scrittori contem-poranei che senza far menzione di Autperto danno altri maestri a CarloMagno.

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to di Francia l'an. 773 in età di 30 anni, rozzo perfinonegli stessi rudimenti gramaticali, ebbe in Pavia l'occa-sion di conoscere un uomo che cominciò a destarglinell'animo qualche amor delle lettere (19). Ciò accaddeprobabilmente l'an. 774 in cui Carlo si rendè padron diPavia. Nè fu già solo il diacono Pietro che avesse talvanto. Carlo conobbe pure in Italia il celebre Paolo dia-cono ch'era stato alla corte de' re longobardi; e comeegli era uno de' più dotti uomini de' suoi tempi, fu avutoda Carlo in gran pregio, come a suo luogo vedremo.Inoltre allor quando l'an. 776 Carlo Magno conquistò ilFriuli, e ne uccise il duca Rodgauso, ebbe notizia diPaolino prete allora gramatico, e poi patriarca di Aqui-leia; e nell'anno medesimo egli fe' dono con suo diplo-

19 Il sig. ab. Gio. Pietro della Stua nella recente sua Vita di s. Paolino, cherammenteremo tra poco, combatte la mia opinione, che Carlo M. partissedalla Francia ancor rozzo negli stessi elementi gramaticali (p. 81 nota 6), eafferma che per voler di Pipino suo padre ei fu istruito da Ambrogio Aut-perto, il quale poscia entrò nell'Ord. di s. Benedetto. Così di fatto affermalo scrittor della Vita di Autperto, che leggesi presso il Mabillon (Acta SS.Ord. S. Bened. saec. 3, pars 2, p. 259); ed anzi lo stesso scrittore aggiugneche Autperto fu anche arcicancelliere della corte imperiale. Ma il p. Ceil-lier osserva (Hist. des Aut. eccl. t. 18, p. 200) che questo autore si mostramal informato delle azioni di Autperto, perciocchè questi era monaco pri-ma che Carlo Magno salisse il trono di Francia, ed è un grossolano anacro-nismo il dire ch'egli morto l'an. 769 fosse arcicancelliere imperiale, mentreCarlo M. non fu coronato imperadore che l'an. 800. Non ha dunque autori-tà alcuna il detto di questo scrittore a combattere un'opinione fondata sullatestimonianza di tanti altri più accreditati autori. In fatti, come osserva an-che il Mabillon, la Vita di Autperto è tratta da una Cronaca del monasterodel Volturno scritta nel sec. XI, cioè oltre a 200 anni dopo la morte di esso,e perciò non può avere autorità alcuna in confronto degli scrittori contem-poranei che senza far menzione di Autperto danno altri maestri a CarloMagno.

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ma di alcuni beni confiscati ad uno de' seguaci di Rod-gauso con lui caduto in battaglia, chiamandolo nel di-ploma perciò indirizzatogli, venerabili Paulino artisgramaticae magistro. Il Muratori sostiene che questo di-ploma appartenga all'an. 781 (Ann. d'Ital. ad h. an.); maio mi lusingo di poter dimostrare, quando avrò a trattarenominatamente del patriarca Paolino, ch'esso deesi cer-tamente fissare al detto an. 776. Io so che i Francesi vo-gliono annoverar Paolino tra' loro scrittori; ma con qualragione il facciano, sarà ciò ancora oggetto a suo tempodelle nostre ricerche. Frattanto per non confondere ilpunto di cui ora si tratta, con altre più lontane quistioni,mi si permetta per ora il supporre ciò che spero di poterevidentemente provare. Che se le mie pruove non sem-breranno allor convincenti, potrà ognuno, come megliogli piaccia, cambiar sentimento.

III. Non solo dunque Pietro pisano fu il pri-mo che avesse la sorte di avere a suo disce-polo Carlo Magno, ma questo principe co-nobbe ancora in Italia, ed onorò del suo fa-vore Paolo diacono, e il gramatico Paolino;ed essendo questi due de' più dotti uomini

che allora vivessero, molto certamente giovossi de' lordiscorsi e del loro sapere. Egli è vero che la gloria diaver istruito nelle più nobili scienze Carlo Magno si deead Alcuino monaco inglese, di cui racconta Eginardo(Vita Car. M. c. 25) che fu maestro di questo principe

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E solo più tardi fu istruito da Alcuino nelle scien-ze.

ma di alcuni beni confiscati ad uno de' seguaci di Rod-gauso con lui caduto in battaglia, chiamandolo nel di-ploma perciò indirizzatogli, venerabili Paulino artisgramaticae magistro. Il Muratori sostiene che questo di-ploma appartenga all'an. 781 (Ann. d'Ital. ad h. an.); maio mi lusingo di poter dimostrare, quando avrò a trattarenominatamente del patriarca Paolino, ch'esso deesi cer-tamente fissare al detto an. 776. Io so che i Francesi vo-gliono annoverar Paolino tra' loro scrittori; ma con qualragione il facciano, sarà ciò ancora oggetto a suo tempodelle nostre ricerche. Frattanto per non confondere ilpunto di cui ora si tratta, con altre più lontane quistioni,mi si permetta per ora il supporre ciò che spero di poterevidentemente provare. Che se le mie pruove non sem-breranno allor convincenti, potrà ognuno, come megliogli piaccia, cambiar sentimento.

III. Non solo dunque Pietro pisano fu il pri-mo che avesse la sorte di avere a suo disce-polo Carlo Magno, ma questo principe co-nobbe ancora in Italia, ed onorò del suo fa-vore Paolo diacono, e il gramatico Paolino;ed essendo questi due de' più dotti uomini

che allora vivessero, molto certamente giovossi de' lordiscorsi e del loro sapere. Egli è vero che la gloria diaver istruito nelle più nobili scienze Carlo Magno si deead Alcuino monaco inglese, di cui racconta Eginardo(Vita Car. M. c. 25) che fu maestro di questo principe

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E solo più tardi fu istruito da Alcuino nelle scien-ze.

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negli altri studj, dappoichè ebbe appresa la gramatica daPietro diacono, e che questo sì gran monarca da Alcuinofu ammaestrato nella rettorica, nella dialettica, nell'arit-metica, e singolarmente nell'astronomia di cui era Carlosì avido, ch'egli stesso faceasi ad osservare con sommaesattezza il corso delle stelle. Nè io negherò ad Alcuinotal lode. Ma si rifletta. Alcuino non fu conosciuto daCarlo Magno che l'an. 780, perciocchè l'antico monacoanonimo che ne ha scritta la Vita pubblicata dal p. Ma-billon (Acta SS. Ord. s. Bened. saec. 4, pars 1), raccontache Alcuino fu mandato a Roma da Eanbaldo arcivesc.di Yorck, perchè dal romano pontefice gli ottenesse ilpallio: che essendosi egli per via avvenuto in Carlo Ma-gno nella città di Parma, questi con gran preghiere lostrinse, perchè dopo aver soddisfatto all'incarico ingiun-togli, passasse in Francia. Or ciò non potè avvenire chel'an 780, come dimostra il medesimo Mabillon, percioc-chè l'an. 779 morì l'arcivesc. Elberto antecessor di Ean-baldo, il quale l'anno seguente gli fu surrogato, e appun-to al fine dell'an. 780 trovossi Carlo in Italia. Erano dun-que già alcuni anni che Carlo Magno avea stretta amici-zia con Pietro da Pisa, con Paolo diacono, con Paolinod'Aquileia, e che per mezzo di loro avea cominciato aconoscere, ad amare, e a coltivare gli studj. E quindi sead Alcuino dovette Carlo i progressi ch'ei fece nelle piùardue scienze, a' tre mentovati Italiani dovette il rivol-gersi primieramente ad esse, e lo spogliar l'ignoranza incui, finchè si restò in Francia, egli visse.

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negli altri studj, dappoichè ebbe appresa la gramatica daPietro diacono, e che questo sì gran monarca da Alcuinofu ammaestrato nella rettorica, nella dialettica, nell'arit-metica, e singolarmente nell'astronomia di cui era Carlosì avido, ch'egli stesso faceasi ad osservare con sommaesattezza il corso delle stelle. Nè io negherò ad Alcuinotal lode. Ma si rifletta. Alcuino non fu conosciuto daCarlo Magno che l'an. 780, perciocchè l'antico monacoanonimo che ne ha scritta la Vita pubblicata dal p. Ma-billon (Acta SS. Ord. s. Bened. saec. 4, pars 1), raccontache Alcuino fu mandato a Roma da Eanbaldo arcivesc.di Yorck, perchè dal romano pontefice gli ottenesse ilpallio: che essendosi egli per via avvenuto in Carlo Ma-gno nella città di Parma, questi con gran preghiere lostrinse, perchè dopo aver soddisfatto all'incarico ingiun-togli, passasse in Francia. Or ciò non potè avvenire chel'an 780, come dimostra il medesimo Mabillon, percioc-chè l'an. 779 morì l'arcivesc. Elberto antecessor di Ean-baldo, il quale l'anno seguente gli fu surrogato, e appun-to al fine dell'an. 780 trovossi Carlo in Italia. Erano dun-que già alcuni anni che Carlo Magno avea stretta amici-zia con Pietro da Pisa, con Paolo diacono, con Paolinod'Aquileia, e che per mezzo di loro avea cominciato aconoscere, ad amare, e a coltivare gli studj. E quindi sead Alcuino dovette Carlo i progressi ch'ei fece nelle piùardue scienze, a' tre mentovati Italiani dovette il rivol-gersi primieramente ad esse, e lo spogliar l'ignoranza incui, finchè si restò in Francia, egli visse.

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IV. Posso io avanzarmi ancora più oltre,e dire che Alcuino medesimo dovetteforse in gran parte alla nostra Italia ilsuo sapere, e che giovinetto venne aRoma a coltivarvi le scienze? Io non ar-

disco di affermare una cosa che non trovo asserita nè daantichi nè da moderni scrittori, e che sembra contraria aciò che narra di se medesimo lo stesso Alcuino, cioèch'egli era stato istruito fin dai più teneri anni nella chie-sa di Yorck (ep. 98). Ma ciò non ostante me ne creaqualche sospetto un'altra lettera dello stesso Alcuino,cioè quella da noi citata poc'anzi, in cui egli ragiona del-la disputa da Pietro diacono tenuta con un Ebreo (ep.15): "Dum ego adolescens, dic'egli, Romam perrexi, etaliquantos dies in Papiae regali civitate demorarer ec."afferma qui Alcuino, che in età giovanile egli era andatoa Roma. Or questo non potè certo essere il viaggio dalui intrapreso l'an. 780 di cui si è detto di sopra. Alcuinomorì, secondo il mentovato scrittor della sua Vita, l'an.804, come confessa lo stesso p. Mabillon (Ann. Ord. be-ned. t. 2, l. 27, n. 29), benchè altre volte avesse pensatoche ciò fosse avvenuto alcuni anni più tardi; e morì,come nella sua Vita si legge, dierum plenus. Dunquel'an. 780 ei certamente non era giovane. In fatti osservail Mabillon (ib. l. 23, n. 37), che fin dall'an. 758 egli te-neva scuola in Yorck, ed era perciò di una età sufficien-temente matura. Quindi parmi evidente che il viaggiofatto a Roma da Alcuino giovane non potè essere quelloch'egli vi fece l'an. 780, e che conviene perciò ammette-

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Lo stesso Alcuinoprobabilmente dovette in parte all'Italia il suo sa-pere.

IV. Posso io avanzarmi ancora più oltre,e dire che Alcuino medesimo dovetteforse in gran parte alla nostra Italia ilsuo sapere, e che giovinetto venne aRoma a coltivarvi le scienze? Io non ar-

disco di affermare una cosa che non trovo asserita nè daantichi nè da moderni scrittori, e che sembra contraria aciò che narra di se medesimo lo stesso Alcuino, cioèch'egli era stato istruito fin dai più teneri anni nella chie-sa di Yorck (ep. 98). Ma ciò non ostante me ne creaqualche sospetto un'altra lettera dello stesso Alcuino,cioè quella da noi citata poc'anzi, in cui egli ragiona del-la disputa da Pietro diacono tenuta con un Ebreo (ep.15): "Dum ego adolescens, dic'egli, Romam perrexi, etaliquantos dies in Papiae regali civitate demorarer ec."afferma qui Alcuino, che in età giovanile egli era andatoa Roma. Or questo non potè certo essere il viaggio dalui intrapreso l'an. 780 di cui si è detto di sopra. Alcuinomorì, secondo il mentovato scrittor della sua Vita, l'an.804, come confessa lo stesso p. Mabillon (Ann. Ord. be-ned. t. 2, l. 27, n. 29), benchè altre volte avesse pensatoche ciò fosse avvenuto alcuni anni più tardi; e morì,come nella sua Vita si legge, dierum plenus. Dunquel'an. 780 ei certamente non era giovane. In fatti osservail Mabillon (ib. l. 23, n. 37), che fin dall'an. 758 egli te-neva scuola in Yorck, ed era perciò di una età sufficien-temente matura. Quindi parmi evidente che il viaggiofatto a Roma da Alcuino giovane non potè essere quelloch'egli vi fece l'an. 780, e che conviene perciò ammette-

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Lo stesso Alcuinoprobabilmente dovette in parte all'Italia il suo sa-pere.

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re che due volte fece egli un tal viaggio, la prima in etàgiovanile, e allor fu che trovò in Pavia il diacono Pietroche di que' giorni disputò col Giudeo; l'altra l'an. 780per chiedere il pallio al suo arcivescovo, quando Pietroprobabilmente era già passato in Francia con Carlo (20).Or un viaggio fatto da Alcuino a Roma in età giovanilenon è egli probabile che fosse fatto per motivo d'appren-dervi quelle scienze, singolarmente sacre, che in Romaeransi sempre in qualche modo coltivate? Io non vo piùoltre; perchè parmi che questo argomento non abbia al-tra forza, se non di rendere alquanto verisimile questaopinione. Essa sarà gloriosa all'Italia, quando si possaprovare con più certezza. Ma di essa non ci fa d'uopoper dimostrare come già abbiam fatto, che Carlo Magnodovesse all'Italia il primo rivolgersi ch'egli fece a colti-vare gli studj. Or passiamo a provare ciò che in secondoluogo ci siam prefissi, che niun dotto straniero fu daCarlo Magno mandato in Italia per toglierne la comuneignoranza.

20 Il ch. p. abate Frobenio benedettino, da cui l'an. 1777 abbiamo avuta lanuova e bella edizione di Alcuino fatta in Ratisbona in due grossi volumi,nella Vita del medesimo Alcuino postale innanzi confessa (Alc. Op. t. 1, p.27) che Pietro pisano e Paolo diacono furono i primi ad istruir Carlo Ma-gno; ed osserva egli pure che Alcuino in età giovanile era stato a Roma, ilche egli crede che avvenisse quando insieme con Elberto il quale poi l'an.762 fu eletto arcivesc. di Yorck, andò viaggiando in diversi paesi; e non èinverisimile che qualche tempo si trattenesse in Roma, e ne prendesse oc-casione di sempre meglio istruirsi negli studj sacri.

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re che due volte fece egli un tal viaggio, la prima in etàgiovanile, e allor fu che trovò in Pavia il diacono Pietroche di que' giorni disputò col Giudeo; l'altra l'an. 780per chiedere il pallio al suo arcivescovo, quando Pietroprobabilmente era già passato in Francia con Carlo (20).Or un viaggio fatto da Alcuino a Roma in età giovanilenon è egli probabile che fosse fatto per motivo d'appren-dervi quelle scienze, singolarmente sacre, che in Romaeransi sempre in qualche modo coltivate? Io non vo piùoltre; perchè parmi che questo argomento non abbia al-tra forza, se non di rendere alquanto verisimile questaopinione. Essa sarà gloriosa all'Italia, quando si possaprovare con più certezza. Ma di essa non ci fa d'uopoper dimostrare come già abbiam fatto, che Carlo Magnodovesse all'Italia il primo rivolgersi ch'egli fece a colti-vare gli studj. Or passiamo a provare ciò che in secondoluogo ci siam prefissi, che niun dotto straniero fu daCarlo Magno mandato in Italia per toglierne la comuneignoranza.

20 Il ch. p. abate Frobenio benedettino, da cui l'an. 1777 abbiamo avuta lanuova e bella edizione di Alcuino fatta in Ratisbona in due grossi volumi,nella Vita del medesimo Alcuino postale innanzi confessa (Alc. Op. t. 1, p.27) che Pietro pisano e Paolo diacono furono i primi ad istruir Carlo Ma-gno; ed osserva egli pure che Alcuino in età giovanile era stato a Roma, ilche egli crede che avvenisse quando insieme con Elberto il quale poi l'an.762 fu eletto arcivesc. di Yorck, andò viaggiando in diversi paesi; e non èinverisimile che qualche tempo si trattenesse in Roma, e ne prendesse oc-casione di sempre meglio istruirsi negli studj sacri.

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V. Se a render certa, o almen proba-bile un'opinione bastasse una lungaserie di autori che la sostengano, noinon potremmo ardire di rivocare indubbio se Carlo M. inviasse in Italia

uomini eruditi, perchè vi tenessero scuola; perciocchèappena vi ha tra' moderni scrittori chi non ce n'assicuri.Ma la buona critica ha omai sbandita questa maniera diargomentare presso i nostri maggiori troppo frequente,ai quali pareva di aver fatta, per così dire, una matemati-ca dimostrazione, quando aveano schierato un numerosoesercito di scrittori, chiunque essi fossero, da' quali uncotal fatto fosse affermato. Ove si tratta di storia antica,si esige al presente, e a ragione, l'autorità di storici, o dimonumenti antichi, la quale ove manchi, inutilmente siarreca quella degli autori moderni che non sono soventeche semplici copiatori l'uno dell'altro, e le cui diverseopere hanno perciò peso poco maggior di quello cheavrebbon molti esemplari di un'opera sola. Anzi si vo-gliono esaminare i detti ancor degli antichi perciocchèove in alcun di essi si trova inverosimiglianza, contrad-dizione, o altro somigliante difetto, di esso ancora riget-tasi, o si rivoca in dubbio l'autorità e la testimonianza.Or ciò presupposto, si leggan di grazia tutti gli antichiautori che hanno scritta la storia di Carlo Magno, de'quali ve n'ha sì gran numero nelle raccolte che abbiamodegli Storici di Francia, di Germania, e Italia. Io non netrovo che un solo a cui si possa appoggiare la comuneopinione, che Carlo Magno mandasse in Italia eruditi

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Esame del racconto del monaco di s. Gal-lo intorno allo Scoz-zese mandato in Pa-via.

V. Se a render certa, o almen proba-bile un'opinione bastasse una lungaserie di autori che la sostengano, noinon potremmo ardire di rivocare indubbio se Carlo M. inviasse in Italia

uomini eruditi, perchè vi tenessero scuola; perciocchèappena vi ha tra' moderni scrittori chi non ce n'assicuri.Ma la buona critica ha omai sbandita questa maniera diargomentare presso i nostri maggiori troppo frequente,ai quali pareva di aver fatta, per così dire, una matemati-ca dimostrazione, quando aveano schierato un numerosoesercito di scrittori, chiunque essi fossero, da' quali uncotal fatto fosse affermato. Ove si tratta di storia antica,si esige al presente, e a ragione, l'autorità di storici, o dimonumenti antichi, la quale ove manchi, inutilmente siarreca quella degli autori moderni che non sono soventeche semplici copiatori l'uno dell'altro, e le cui diverseopere hanno perciò peso poco maggior di quello cheavrebbon molti esemplari di un'opera sola. Anzi si vo-gliono esaminare i detti ancor degli antichi perciocchèove in alcun di essi si trova inverosimiglianza, contrad-dizione, o altro somigliante difetto, di esso ancora riget-tasi, o si rivoca in dubbio l'autorità e la testimonianza.Or ciò presupposto, si leggan di grazia tutti gli antichiautori che hanno scritta la storia di Carlo Magno, de'quali ve n'ha sì gran numero nelle raccolte che abbiamodegli Storici di Francia, di Germania, e Italia. Io non netrovo che un solo a cui si possa appoggiare la comuneopinione, che Carlo Magno mandasse in Italia eruditi

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Esame del racconto del monaco di s. Gal-lo intorno allo Scoz-zese mandato in Pa-via.

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stranieri. Questi è l'anonimo monaco di s. Gallo, scritto-re non molto lontano da' tempi di Carlo, perciocchè vis-suto al fine del IX secolo, e al principio del X. Ma veg-giamo ciò ch'ei ne racconta. Dic'egli sul incominciaredella sua Storia, che mentre Carlo regnava, e mentre glistudj erano quasi dimenticati, avvenne che due Scozze-si, uomini nelle sacre e nelle profane scienze maravi-gliosimente eruditi, approdarono con alcuni mercatantidella Bretragna alle spiagge francesi, e che a coloro cheverso de' mercatanti venivano per comperare le loromerci, essi ad alta voce gridavano: "Se v'ha tra voi chibrami d'ottener la sapienza venga a noi, ed avralla; per-ciocchè noi la vendiamo". Così essi gridavano, riflettel'accorto monaco, per invogliar meglio i circostanti colrisvegliare in essi curiosità e maraviglia. Ne giunse lafama al re Carlo, il quale fattili a sè venire, richiese lorose veramente avessero, come correva voce, recata secolor la sapienza; e rispostogli che sì certo, e ch'eran pron-ti a comunicarla a coloro che la cercassero degnamente,il re interrogolli qual prezzo ne richiedessero; a cui essi:"null'altro, sire, che luogo opportuno, uditori ingegnosi,e per noi i necessarj alimenti e le vesti di cui coprirci".Di che rallegratosi sommamente Carlo, poichè gli ebbeper poco tempo presso di sè ritenuti, costretto a andarse-ne alla guerre, un di essi detto Clemente ritenne in Fran-cia, raccomandogli l'istruzione di molti giovani, altri no-bilissimi, altri di mediocre, ed altri ancora di vil condi-zione, e assegnogli il giusto suo sostentamento. L'altrofu da lui mandato in Italia, e gli fu assegnato il monaste-

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stranieri. Questi è l'anonimo monaco di s. Gallo, scritto-re non molto lontano da' tempi di Carlo, perciocchè vis-suto al fine del IX secolo, e al principio del X. Ma veg-giamo ciò ch'ei ne racconta. Dic'egli sul incominciaredella sua Storia, che mentre Carlo regnava, e mentre glistudj erano quasi dimenticati, avvenne che due Scozze-si, uomini nelle sacre e nelle profane scienze maravi-gliosimente eruditi, approdarono con alcuni mercatantidella Bretragna alle spiagge francesi, e che a coloro cheverso de' mercatanti venivano per comperare le loromerci, essi ad alta voce gridavano: "Se v'ha tra voi chibrami d'ottener la sapienza venga a noi, ed avralla; per-ciocchè noi la vendiamo". Così essi gridavano, riflettel'accorto monaco, per invogliar meglio i circostanti colrisvegliare in essi curiosità e maraviglia. Ne giunse lafama al re Carlo, il quale fattili a sè venire, richiese lorose veramente avessero, come correva voce, recata secolor la sapienza; e rispostogli che sì certo, e ch'eran pron-ti a comunicarla a coloro che la cercassero degnamente,il re interrogolli qual prezzo ne richiedessero; a cui essi:"null'altro, sire, che luogo opportuno, uditori ingegnosi,e per noi i necessarj alimenti e le vesti di cui coprirci".Di che rallegratosi sommamente Carlo, poichè gli ebbeper poco tempo presso di sè ritenuti, costretto a andarse-ne alla guerre, un di essi detto Clemente ritenne in Fran-cia, raccomandogli l'istruzione di molti giovani, altri no-bilissimi, altri di mediocre, ed altri ancora di vil condi-zione, e assegnogli il giusto suo sostentamento. L'altrofu da lui mandato in Italia, e gli fu assegnato il monaste-

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ro di s. Agostino presso Pavia, acciocchè chiunque fossebramoso, potesse esser da lui istruito. Ecco il gran rac-conto del monaco di s. Gallo, su cui è fondata l'accenna-ta comune opinione. Ancorchè esso si ammettesse pervero, altro finalmente non potremmo raccoglierne senon che uno Scozzese fu mandato da Carlo Magno a Pa-via per tenervi scuola, nè ciò basterebbe a provare chevi fosse tale scarsezza d'uomini dotti in Italia, che con-venisse inviarvi stranieri.

VI. Ma a parlare sinceramente io nonposso a meno di non maravigliarmi cheun tal racconto sia stato sì facilmenteadottato da uomini allora di erudizione,

e di critica non ordinaria, e singolarmente dal Muratori(Ann. d'Ital. ad an. 781; Antiq. Ital. diss. 43). A me pardi scorgere in esso una cotal aria di favoloso e di roman-zesco, che non saprei a qual fatto si possa mai negarfede, se si dà a questo. Comunque infelici fossero i tem-pi di cui trattiamo, non mancavano però alcuni che allo-ra poteano esser chiamati dotti. Chi eran dunque costoroche colla lor erudizione da saltimbanco commossero amaraviglia la Francia tutta; sicchè all'udire ch'essi ven-devano la dottrina, come se questa fosse una merce nonpiù veduta, e di cui s'ignorasse perfino il nome, tutti sirimanesser estatici per istupore? Qual nuova manierad'ispirare amor per le scienze fu mai cotesta? Ad uominiche vengono per comprar mercanzie, esibire la erudizio-

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Si mostra l'inveri-simiglianza di questo fatto.

ro di s. Agostino presso Pavia, acciocchè chiunque fossebramoso, potesse esser da lui istruito. Ecco il gran rac-conto del monaco di s. Gallo, su cui è fondata l'accenna-ta comune opinione. Ancorchè esso si ammettesse pervero, altro finalmente non potremmo raccoglierne senon che uno Scozzese fu mandato da Carlo Magno a Pa-via per tenervi scuola, nè ciò basterebbe a provare chevi fosse tale scarsezza d'uomini dotti in Italia, che con-venisse inviarvi stranieri.

VI. Ma a parlare sinceramente io nonposso a meno di non maravigliarmi cheun tal racconto sia stato sì facilmenteadottato da uomini allora di erudizione,

e di critica non ordinaria, e singolarmente dal Muratori(Ann. d'Ital. ad an. 781; Antiq. Ital. diss. 43). A me pardi scorgere in esso una cotal aria di favoloso e di roman-zesco, che non saprei a qual fatto si possa mai negarfede, se si dà a questo. Comunque infelici fossero i tem-pi di cui trattiamo, non mancavano però alcuni che allo-ra poteano esser chiamati dotti. Chi eran dunque costoroche colla lor erudizione da saltimbanco commossero amaraviglia la Francia tutta; sicchè all'udire ch'essi ven-devano la dottrina, come se questa fosse una merce nonpiù veduta, e di cui s'ignorasse perfino il nome, tutti sirimanesser estatici per istupore? Qual nuova manierad'ispirare amor per le scienze fu mai cotesta? Ad uominiche vengono per comprar mercanzie, esibire la erudizio-

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Si mostra l'inveri-simiglianza di questo fatto.

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ne? Cotal sorte di gente era certo molto disposta a udirele cicalate di questi dottissimi cerretani. Inoltre è eglipossibile che di un fatto che secondo il monaco di s.Gallo mise la Francia tutta a rumore, niun altro di tantistorici che scrissero di que' tempi, avesse contezza? Ioposso affermare sinceramente di aver voluti leggerquanti ho potuto aver fra le mani antichi storici francesi,inglesi e tedeschi, per vedere se questo, o altro somi-gliante fatto confermato fosse da altri, e non ne ho tro-vato alcun cenno, trattone nella Cronaca di GiovanniBromton inserita nella Raccolta degli Scrittori di Storiainglese stampata in Londra l'an. 1652. In essa si raccon-ta il fatto medesimo dei due Scozzesi, e si arreca l'auto-rità di una Cronaca di Arles; ma come la cosa è narratapresso che colle stesse parole del monaco di s. Gallo,egli è evidente che questo è il fonte a cui GiovanniBromton ha attinto, onde niuna autorità si aggiugnequindi al racconto. Di tutti gli altri non v'è alcuno che diciò faccia motto. Inoltre ci si dica di grazia: chi fu egliquel Clemente che approdò co' mercanti scozzesi allespiaggie di Francia? Chi fu l'altro compagno di cui ilmonaco di s. Gallo non ci ha lasciato il nome? Ella ècosa leggiadra a vedere come i moderni scrittori per nonaver voluto esaminare attentamente le cose, si avvilup-pano, si confondono, si contraddicono. Il monaco di s.Gallo nomina un Clemente. Essi cercano chi egli sia:non ne trovan contezza; poichè veramente, per quanto ioabbia cercato, non veggo alcun Clemente che di questitempi insegnasse in Francia. Trovano che ad Alcuino

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ne? Cotal sorte di gente era certo molto disposta a udirele cicalate di questi dottissimi cerretani. Inoltre è eglipossibile che di un fatto che secondo il monaco di s.Gallo mise la Francia tutta a rumore, niun altro di tantistorici che scrissero di que' tempi, avesse contezza? Ioposso affermare sinceramente di aver voluti leggerquanti ho potuto aver fra le mani antichi storici francesi,inglesi e tedeschi, per vedere se questo, o altro somi-gliante fatto confermato fosse da altri, e non ne ho tro-vato alcun cenno, trattone nella Cronaca di GiovanniBromton inserita nella Raccolta degli Scrittori di Storiainglese stampata in Londra l'an. 1652. In essa si raccon-ta il fatto medesimo dei due Scozzesi, e si arreca l'auto-rità di una Cronaca di Arles; ma come la cosa è narratapresso che colle stesse parole del monaco di s. Gallo,egli è evidente che questo è il fonte a cui GiovanniBromton ha attinto, onde niuna autorità si aggiugnequindi al racconto. Di tutti gli altri non v'è alcuno che diciò faccia motto. Inoltre ci si dica di grazia: chi fu egliquel Clemente che approdò co' mercanti scozzesi allespiaggie di Francia? Chi fu l'altro compagno di cui ilmonaco di s. Gallo non ci ha lasciato il nome? Ella ècosa leggiadra a vedere come i moderni scrittori per nonaver voluto esaminare attentamente le cose, si avvilup-pano, si confondono, si contraddicono. Il monaco di s.Gallo nomina un Clemente. Essi cercano chi egli sia:non ne trovan contezza; poichè veramente, per quanto ioabbia cercato, non veggo alcun Clemente che di questitempi insegnasse in Francia. Trovano che ad Alcuino

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nel reggimento delle scuole del real palazzo di CarloMagno sottentrò Claudio: quindi di Claudio e di Cle-mente fanno un uom solo; e non avvertono che questoClaudio, come poscia vedremo, è lo stesso che fu poivescovo di Torino, e che ei non fu scozzese di nascita,ma spagnuolo. Vogliono inoltre trovare il nomedell'altro erudito Scozzese che si dice mandato a Pavia.Osservano che Teodolfo fa menzione di uno Scotoch'era di que' tempi alla corte di Carlo Magno (l. 3,carm. 1, 3), e che verso il tempo medesimo fu in Franciaun certo Giovanni Scoto. Ecco dunque felicemente sco-perto il nome dell'altro Scozzese venuto in Francia, epoi mandato a Pavia. Ei fu Giovanni. Ma non riflettonoche Teodolfo non dice qual fosse il nome del suo Scoz-zese, di cui anche parla con molto disprezzo; e che Gio-vanni Scoto non venne in Francia che a' tempi di CarloCalvo, cioè circa la metà del IX secolo (Sim. DunelmensHist. de gestis Reg. angl. ad an. 884) e che l'an. 884 ri-tornossene in Inghilterra.

VII. Nè qui finiscono le contraddizionidegli scrittori su questo fatto. Alcuni, acui sembra improbabile la venuta de'due dotti Scozzesi insiem co' mercanti,ci narrano che essi vi vennero insieme

cogli ambasciadori spediti da un dei re della Gran Bret-tagna per far lega con Carlo Magno. Ma qui ancora qua-li inviluppi! In una antica Vita di Offa re de' Mercii,

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Contraddizioni ed errori di moltinel volerlo soste-nere.

nel reggimento delle scuole del real palazzo di CarloMagno sottentrò Claudio: quindi di Claudio e di Cle-mente fanno un uom solo; e non avvertono che questoClaudio, come poscia vedremo, è lo stesso che fu poivescovo di Torino, e che ei non fu scozzese di nascita,ma spagnuolo. Vogliono inoltre trovare il nomedell'altro erudito Scozzese che si dice mandato a Pavia.Osservano che Teodolfo fa menzione di uno Scotoch'era di que' tempi alla corte di Carlo Magno (l. 3,carm. 1, 3), e che verso il tempo medesimo fu in Franciaun certo Giovanni Scoto. Ecco dunque felicemente sco-perto il nome dell'altro Scozzese venuto in Francia, epoi mandato a Pavia. Ei fu Giovanni. Ma non riflettonoche Teodolfo non dice qual fosse il nome del suo Scoz-zese, di cui anche parla con molto disprezzo; e che Gio-vanni Scoto non venne in Francia che a' tempi di CarloCalvo, cioè circa la metà del IX secolo (Sim. DunelmensHist. de gestis Reg. angl. ad an. 884) e che l'an. 884 ri-tornossene in Inghilterra.

VII. Nè qui finiscono le contraddizionidegli scrittori su questo fatto. Alcuni, acui sembra improbabile la venuta de'due dotti Scozzesi insiem co' mercanti,ci narrano che essi vi vennero insieme

cogli ambasciadori spediti da un dei re della Gran Bret-tagna per far lega con Carlo Magno. Ma qui ancora qua-li inviluppi! In una antica Vita di Offa re de' Mercii,

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Contraddizioni ed errori di moltinel volerlo soste-nere.

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pubblicata insiem colla Storia di Matteo Paris si dicech'egli mandò ambasciadori a Carlo Magno, dappoichèudì le conquiste da lui fatte in Italia ed in Alemagna, evi si recano ancora le lettere che vicendevolmente furo-no scritte; ma in esse non si fa motto di alcun uomo eru-dito che con essi venisse. Guglielmo di Malmesburyscrittore antico egli pure, cioè del XII secolo, dice che atal effetto fu spedito Alcuino. Polidoro Virgilio narra diAlcuino la stessa cosa; e poi soggiugne il fatto narratodal monaco di s. Gallo, e dice che allora si crede da al-cuni che venissero in Francia Alcuino, Rabano, Claudioe Giovanni (Hist. Anglor. l. 5). E prima avea egli scrittoche Clemente e Giovanni dottissimi uomini erano statiinviati da Acaio re di Scozia a Carlo Magno, mentrequesti facea venir da ogni parte i personaggi più celebriper dottrina (ib. l. 4 sub fin.). Gli scrittori poi più recentici narran le più leggiadre cose del mondo. Leggansi leStorie del Larrey, e del Lesley, di Rapin Thoiras, delMezeray, e si vedrà se v'è un solo che si accordi in ciòcon un altro. E piacevole singolarmente è il racconto delLarrey che fa venir deputati dal detto Acaio a Carlo Ma-gno Alcuino insieme con Rabano, il qual secondo, eglidice, fondò poi l'università di Pavia (Hist. d'Anglet.);mentre è pur certo ch'ei non nacque che l'an. 788, e ch'einon fu in Italia se non per qualche divoto pellegrinag-gio. Così non è possibile l'accertar cosa alcuna, e sicommettono errori ancora non piccioli, quando non sivogliono esaminare attentamente i detti de' più antichiscrittori, e, ove essi ancora si contraddicano, esaminare

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pubblicata insiem colla Storia di Matteo Paris si dicech'egli mandò ambasciadori a Carlo Magno, dappoichèudì le conquiste da lui fatte in Italia ed in Alemagna, evi si recano ancora le lettere che vicendevolmente furo-no scritte; ma in esse non si fa motto di alcun uomo eru-dito che con essi venisse. Guglielmo di Malmesburyscrittore antico egli pure, cioè del XII secolo, dice che atal effetto fu spedito Alcuino. Polidoro Virgilio narra diAlcuino la stessa cosa; e poi soggiugne il fatto narratodal monaco di s. Gallo, e dice che allora si crede da al-cuni che venissero in Francia Alcuino, Rabano, Claudioe Giovanni (Hist. Anglor. l. 5). E prima avea egli scrittoche Clemente e Giovanni dottissimi uomini erano statiinviati da Acaio re di Scozia a Carlo Magno, mentrequesti facea venir da ogni parte i personaggi più celebriper dottrina (ib. l. 4 sub fin.). Gli scrittori poi più recentici narran le più leggiadre cose del mondo. Leggansi leStorie del Larrey, e del Lesley, di Rapin Thoiras, delMezeray, e si vedrà se v'è un solo che si accordi in ciòcon un altro. E piacevole singolarmente è il racconto delLarrey che fa venir deputati dal detto Acaio a Carlo Ma-gno Alcuino insieme con Rabano, il qual secondo, eglidice, fondò poi l'università di Pavia (Hist. d'Anglet.);mentre è pur certo ch'ei non nacque che l'an. 788, e ch'einon fu in Italia se non per qualche divoto pellegrinag-gio. Così non è possibile l'accertar cosa alcuna, e sicommettono errori ancora non piccioli, quando non sivogliono esaminare attentamente i detti de' più antichiscrittori, e, ove essi ancora si contraddicano, esaminare

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a cui debbasi maggior fede. Ma io riprendo in altri undifetto in cui forse sarò caduto io stesso non rare volte, eda cui appena è possibile che sempre guardisi un uomo,anche per questa sola ragione ch'egli è uomo.

VIII. Or da tutto il detto fin qui a mepar di potere con qualche sicurezza af-fermare che la venuta in Francia deidue dottissimi saltimbanchi scozzesi è

una pura invenzione, non dirò già ritrovata, ma troppofacilmente adottata dal monaco di s. Gallo; che non si sachi sia quel Clemente, e molto men quel Giovanni, chesi voglion venuti alla corte di Carlo Magno in tal occa-sione; che fu veramente spedita un'ambasciata da unode' re d'Inghilterra a Carlo Magno; ma che non è proba-bile che vi avesse parte Alcuino, perciocchè lo scrittoredella sua Vita, che in ciò è più degno di fede, affermach'egli si avvenne a caso con Carlo Magno in Parma;che non vi è alcun argomento a provare che in una talambasciata vi fosser uomini dotti de' quali si valesse poiCarlo Magno; il che si rende ancor più certo dalle letterestesse di Offa e di Carlo, nelle quali non vedesi fattamenzione alcuna di tali uomini; la qual cosa, singolar-mente da Carlo Magno, non sarebbesi ommessa; e cheperciò essendo questo l'unico fondamento a cui si possaappoggiare la spedizione fatta da Carlo Magno a Paviadi un dotto Scozzese a tenervi scuola, questo fatto cadeinteramente, nè si può provare che alcuno straniero fos-

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Conchiudesi chequesto fatto si deecredere favoloso.

a cui debbasi maggior fede. Ma io riprendo in altri undifetto in cui forse sarò caduto io stesso non rare volte, eda cui appena è possibile che sempre guardisi un uomo,anche per questa sola ragione ch'egli è uomo.

VIII. Or da tutto il detto fin qui a mepar di potere con qualche sicurezza af-fermare che la venuta in Francia deidue dottissimi saltimbanchi scozzesi è

una pura invenzione, non dirò già ritrovata, ma troppofacilmente adottata dal monaco di s. Gallo; che non si sachi sia quel Clemente, e molto men quel Giovanni, chesi voglion venuti alla corte di Carlo Magno in tal occa-sione; che fu veramente spedita un'ambasciata da unode' re d'Inghilterra a Carlo Magno; ma che non è proba-bile che vi avesse parte Alcuino, perciocchè lo scrittoredella sua Vita, che in ciò è più degno di fede, affermach'egli si avvenne a caso con Carlo Magno in Parma;che non vi è alcun argomento a provare che in una talambasciata vi fosser uomini dotti de' quali si valesse poiCarlo Magno; il che si rende ancor più certo dalle letterestesse di Offa e di Carlo, nelle quali non vedesi fattamenzione alcuna di tali uomini; la qual cosa, singolar-mente da Carlo Magno, non sarebbesi ommessa; e cheperciò essendo questo l'unico fondamento a cui si possaappoggiare la spedizione fatta da Carlo Magno a Paviadi un dotto Scozzese a tenervi scuola, questo fatto cadeinteramente, nè si può provare che alcuno straniero fos-

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Conchiudesi chequesto fatto si deecredere favoloso.

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se a tal fine mandato in Italia da Carlo Magno.

IX. Io non ho fatta finor menzione dell'eru-dito storico dell'Università di Pavia, Anto-nio Gatti, il quale più lungamente di tutti siè steso su questo argomento per dimostrareche la detta università fu da Carlo Magnofondata (Hist. Univ. Tic. c. 5, 6, 7, 8, 9, 10),

ma ho voluto prima mettere in chiaro, quanto più erapossibile, la quistione, perchè in tal modo si vedesse piùfacilmente il poco peso delle ragioni ch'egli arreca in di-fesa del suo parere. Ei sostiene in primo luogo come ve-rissimo il racconto del monaco di s. Gallo, e a confer-marlo in modo che non ne possiam dubitare, reca il te-stimonio di molti ch'egli chiama scrittori antichi. Ma chisono essi? Il più antico di tutti è Vincenzo bellovacese,autore del XII secolo, e a cui qual fede si debba in ciòch'è storia più antica de' suoi tempi, è noto ad ognuno. Emolto più che egli rapporta il fatto quasi colle istesse pa-role del monaco di s. Gallo, da cui si vede che tutti l'hanricavato. Gli altri scrittori son tutti de' secoli posteriori,e perciò molto men degni di fede, ove si tratta di cosaantica di cui essi non adducano certe pruove. Passa poiil Gatti a ricercare chi fosse il monaco spedito a Pavia; equi ancora gli avviene ciò che suole avvenire a chi vuolfondare i suoi racconti sugli autori più recenti, invece diconsultare gli antichi. Vede in essi imbarazzi e contrad-dizioni infinite; da alcuni egli è chiamato Giovanni, da

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Esame del modo tenu-to dal Gatti per difen-derne la ve-rità.

se a tal fine mandato in Italia da Carlo Magno.

IX. Io non ho fatta finor menzione dell'eru-dito storico dell'Università di Pavia, Anto-nio Gatti, il quale più lungamente di tutti siè steso su questo argomento per dimostrareche la detta università fu da Carlo Magnofondata (Hist. Univ. Tic. c. 5, 6, 7, 8, 9, 10),

ma ho voluto prima mettere in chiaro, quanto più erapossibile, la quistione, perchè in tal modo si vedesse piùfacilmente il poco peso delle ragioni ch'egli arreca in di-fesa del suo parere. Ei sostiene in primo luogo come ve-rissimo il racconto del monaco di s. Gallo, e a confer-marlo in modo che non ne possiam dubitare, reca il te-stimonio di molti ch'egli chiama scrittori antichi. Ma chisono essi? Il più antico di tutti è Vincenzo bellovacese,autore del XII secolo, e a cui qual fede si debba in ciòch'è storia più antica de' suoi tempi, è noto ad ognuno. Emolto più che egli rapporta il fatto quasi colle istesse pa-role del monaco di s. Gallo, da cui si vede che tutti l'hanricavato. Gli altri scrittori son tutti de' secoli posteriori,e perciò molto men degni di fede, ove si tratta di cosaantica di cui essi non adducano certe pruove. Passa poiil Gatti a ricercare chi fosse il monaco spedito a Pavia; equi ancora gli avviene ciò che suole avvenire a chi vuolfondare i suoi racconti sugli autori più recenti, invece diconsultare gli antichi. Vede in essi imbarazzi e contrad-dizioni infinite; da alcuni egli è chiamato Giovanni, da

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Esame del modo tenu-to dal Gatti per difen-derne la ve-rità.

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altri Albino, ed egli unisce in pace tutti i discordantiscrittori affermando ch'egli chiamavasi Giovanni Albinoscozzese avvertendoci però ch'egli fu diverso daquell'altro Giovanni Albino scozzese soprannominatoErigena, che noi pure abbiam poc'anzi accennato e di-verso pure probabilmente da quel Giovanni che dicesi,come abbiam osservato, venuto di Francia con Alcuino,con Rabano e con Claudio, e che il Giovanni venuto aPavia fu Giovanni Mailros, uomo di cui non v'ha alcuntra gli antichi, che faccia menzione, e molto meno chi ildica venuto in Italia. Così conviene immaginare, o a dirmeglio, sognare personaggi e fatti che non hanno alcunfondamento, quando si vuole abbandonare la scorta de-gli scrittori più antichi e più degni di fede. Niuno di que-sti, come si è dimostrato ci parla di alcuno straniero spe-dito da Carlo Magno a Pavia; e questo fatto perciò deesiavere in conto di favoloso, benchè narrato da moltissimiautori, ma tutti appoggiati all'autorità del solo monacodi s. Gallo. Così di fatto ha giudicato il Launoy (deScholis celebrior. a Car. M. institut. c. 1, 2), il Crevier(Hist. de l'Univ. de Paris l. 1) ed altri che più attenta-mente han preso ad esaminarlo.

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altri Albino, ed egli unisce in pace tutti i discordantiscrittori affermando ch'egli chiamavasi Giovanni Albinoscozzese avvertendoci però ch'egli fu diverso daquell'altro Giovanni Albino scozzese soprannominatoErigena, che noi pure abbiam poc'anzi accennato e di-verso pure probabilmente da quel Giovanni che dicesi,come abbiam osservato, venuto di Francia con Alcuino,con Rabano e con Claudio, e che il Giovanni venuto aPavia fu Giovanni Mailros, uomo di cui non v'ha alcuntra gli antichi, che faccia menzione, e molto meno chi ildica venuto in Italia. Così conviene immaginare, o a dirmeglio, sognare personaggi e fatti che non hanno alcunfondamento, quando si vuole abbandonare la scorta de-gli scrittori più antichi e più degni di fede. Niuno di que-sti, come si è dimostrato ci parla di alcuno straniero spe-dito da Carlo Magno a Pavia; e questo fatto perciò deesiavere in conto di favoloso, benchè narrato da moltissimiautori, ma tutti appoggiati all'autorità del solo monacodi s. Gallo. Così di fatto ha giudicato il Launoy (deScholis celebrior. a Car. M. institut. c. 1, 2), il Crevier(Hist. de l'Univ. de Paris l. 1) ed altri che più attenta-mente han preso ad esaminarlo.

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X. Ma negheremo noi dunque che l'univer-sità di Pavia fosse fondata da Carlo Magno?Se col nome di università altro non s'intendache qualche pubblica scuola, io anzi ne diròpiù antica la fondazione, poichè abbiamoveduto fin da' tempi de' re longobardi tener-vi scuola di gramatici Felice e Flavianomaestro di Paolo diacono e tale era ancorprobabilmente l'impiego di Pietro da Pisa. Eperchè i gramatici allora non insegnavano i

soli elementi della lingua latina, ma tutto ciò che alloraapprendevasi di belle lettere, veniva da essi, io concede-rò volentieri, che scuola pubblica di tali studj, e verisi-milmente ancor di aritmetica fosse in Pavia anche assaiprima de' tempi di Carlo Magno. Ma se col nome di uni-versità s'intenda un corpo di professori, che di tutte, oalmeno delle principali scienze tengano scuola, e cheabbiano le loro leggi e i lor privilegi muniti di autoritàsovrana, io nol negherò ostinatamente ma riserberommia crederlo quando o si producano gl'imperiali diplomicon cui questa università fu fondata, o almeno ci si mo-strino scrittori antichi che di ciò ne assicurino. Or l'eru-dito Gatti, benchè sostenga la fondazione dell'universitàdi Pavia fatta da Carlo Magno, nè ha trovato finora al-cun autentico monumento, nè ha potuto citarne in pruo-va che autori vissuti sei, o sette secoli dopo, alla sempli-ce asserzione de' quali i buoni critici negano di prestarfede. Io credo certo che, se questo dotto scrittore vivesseal presente, si atterrebbe egli ancora a questo mio senti-

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Quindi non può ammet-tersi che Carlo M. fondasse l'università di Pavia, ove però erano pub-bliche scuole.

X. Ma negheremo noi dunque che l'univer-sità di Pavia fosse fondata da Carlo Magno?Se col nome di università altro non s'intendache qualche pubblica scuola, io anzi ne diròpiù antica la fondazione, poichè abbiamoveduto fin da' tempi de' re longobardi tener-vi scuola di gramatici Felice e Flavianomaestro di Paolo diacono e tale era ancorprobabilmente l'impiego di Pietro da Pisa. Eperchè i gramatici allora non insegnavano i

soli elementi della lingua latina, ma tutto ciò che alloraapprendevasi di belle lettere, veniva da essi, io concede-rò volentieri, che scuola pubblica di tali studj, e verisi-milmente ancor di aritmetica fosse in Pavia anche assaiprima de' tempi di Carlo Magno. Ma se col nome di uni-versità s'intenda un corpo di professori, che di tutte, oalmeno delle principali scienze tengano scuola, e cheabbiano le loro leggi e i lor privilegi muniti di autoritàsovrana, io nol negherò ostinatamente ma riserberommia crederlo quando o si producano gl'imperiali diplomicon cui questa università fu fondata, o almeno ci si mo-strino scrittori antichi che di ciò ne assicurino. Or l'eru-dito Gatti, benchè sostenga la fondazione dell'universitàdi Pavia fatta da Carlo Magno, nè ha trovato finora al-cun autentico monumento, nè ha potuto citarne in pruo-va che autori vissuti sei, o sette secoli dopo, alla sempli-ce asserzione de' quali i buoni critici negano di prestarfede. Io credo certo che, se questo dotto scrittore vivesseal presente, si atterrebbe egli ancora a questo mio senti-

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Quindi non può ammet-tersi che Carlo M. fondasse l'università di Pavia, ove però erano pub-bliche scuole.

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mento. I pregiudizj volgari facilmente ricevuti, e soste-nuti sì caldamente negli scorsi secoli, quando ogni città,ogni università, ogni pubblico corpo pensava di non es-ser celebre abbastanza, se non traeva la sua origine daisecoli più rimoti, sono omai interamente svaniti; e si èfinalmente conosciuto che non è già l'antichità dell'ori-gine, ma il valore e il merito de' suoi professori, che ren-dano le università celebri ed immortali. E quella di Pa-via è stata sempre, ed è ancora al presente in questa par-te sì illustre, che dee sdegnare il procacciarsi ogni altragloria fondata su monumenti troppo incerti e dubbiosi(21). So che alcune altre città ancora pretendono che Car-21 Su questo argomento medesimo si può vedere l'elegante operetta del sig.

ab. Angelo Teodoro Villa stampata in Pavia nel 1782, e intitolata: De Stu-diis literariis Ticinensium ante Galeatium II, Vicecomitem, nella quale so-stiene egli ancora la mia opinione, e quasi colle stesse ragioni da me arre-cate la vien confermando. Ma un valoroso avversario si è poscia contro meinnalzato, cioè il sig. Sirio Comi, il quale nel suo libro pubblicato ivi purel'anno seguente e intitolato: Franciscus Philelphus Archigymnasio ticinen-si vindicatus, ha combattuto a lungo questa sentenza sempre però conquella urbanità e modestia che degli uomini onesti ed eruditi è propria; e siè ingegnosamente sforzato di sostenere la verità del racconto del monacodi s. Gallo, e della venuta de' due Scozzesi, e della fondazione di pubblichescuole a foggia di università fatta in Pavia da Carlo Magno. Io confessosinceramente che ho letto il libro con desiderio d'esser convinto d'errore, ecostretto perciò a cambiar sentimento; ma che non mi sembra che le ragio-ni dal valoroso scrittore allegate sian tali che mi possano persuadere, e cheanzi parmi di averle già in questo passo della mia Storia ribattute. Io perònon voglio qui rientrare in contesa; e rimetto i lettori al giudizio che lorpiacerà di recare, quando abbiano lette ed esaminate le ragioni dell'una edell'altra parte. Che qualche scuola fosse in Pavia, non può negarsi, e iostesso l'ho affermato. Ma che prima della fondazione di quella universitàfatta nel 1361 vi fossero scuole di quasi tutte le scienze, io non credo chesia finora stato provato, nè che sia per provarsi giammai, e che il sig. Comiabbia bensì usato un lodevole sforzo d'ingegno per dimostrarlo, ma che

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mento. I pregiudizj volgari facilmente ricevuti, e soste-nuti sì caldamente negli scorsi secoli, quando ogni città,ogni università, ogni pubblico corpo pensava di non es-ser celebre abbastanza, se non traeva la sua origine daisecoli più rimoti, sono omai interamente svaniti; e si èfinalmente conosciuto che non è già l'antichità dell'ori-gine, ma il valore e il merito de' suoi professori, che ren-dano le università celebri ed immortali. E quella di Pa-via è stata sempre, ed è ancora al presente in questa par-te sì illustre, che dee sdegnare il procacciarsi ogni altragloria fondata su monumenti troppo incerti e dubbiosi(21). So che alcune altre città ancora pretendono che Car-21 Su questo argomento medesimo si può vedere l'elegante operetta del sig.

ab. Angelo Teodoro Villa stampata in Pavia nel 1782, e intitolata: De Stu-diis literariis Ticinensium ante Galeatium II, Vicecomitem, nella quale so-stiene egli ancora la mia opinione, e quasi colle stesse ragioni da me arre-cate la vien confermando. Ma un valoroso avversario si è poscia contro meinnalzato, cioè il sig. Sirio Comi, il quale nel suo libro pubblicato ivi purel'anno seguente e intitolato: Franciscus Philelphus Archigymnasio ticinen-si vindicatus, ha combattuto a lungo questa sentenza sempre però conquella urbanità e modestia che degli uomini onesti ed eruditi è propria; e siè ingegnosamente sforzato di sostenere la verità del racconto del monacodi s. Gallo, e della venuta de' due Scozzesi, e della fondazione di pubblichescuole a foggia di università fatta in Pavia da Carlo Magno. Io confessosinceramente che ho letto il libro con desiderio d'esser convinto d'errore, ecostretto perciò a cambiar sentimento; ma che non mi sembra che le ragio-ni dal valoroso scrittore allegate sian tali che mi possano persuadere, e cheanzi parmi di averle già in questo passo della mia Storia ribattute. Io perònon voglio qui rientrare in contesa; e rimetto i lettori al giudizio che lorpiacerà di recare, quando abbiano lette ed esaminate le ragioni dell'una edell'altra parte. Che qualche scuola fosse in Pavia, non può negarsi, e iostesso l'ho affermato. Ma che prima della fondazione di quella universitàfatta nel 1361 vi fossero scuole di quasi tutte le scienze, io non credo chesia finora stato provato, nè che sia per provarsi giammai, e che il sig. Comiabbia bensì usato un lodevole sforzo d'ingegno per dimostrarlo, ma che

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lo Magno fondasse in esso pubbliche scuole. Ma ciò chesi è detto finor di Pavia, vale a più forte ragione per qua-lunque altra città e per qualunque scuola italiana.

XI. Rimane ora a vedere ciò che in terzoluogo mi son proposto di dimostrare, cioèche Carlo Magno degli Italiani singolar-mente si valse a far risorger le lettere nellaFrancia. Ciò che ne abbiam letto finora, ba-star potrebbe a provarlo; ma conviene esa-

minare e svolger meglio un tal punto che alla nostra Ita-lia è troppo glorioso. Tra gli antichi scrittori della Vitadi Carlo Magno pubblicati dal du Chesne (Script. Hist.Franc.) non deesi l'ultimo luogo all'anonimo monacoengolismese ossia d'Angoulemme, che visse non moltodopo il tempo di cui scriveva. Or questi parlando dellavenuta di Carlo Magno a Roma l'an. 787 (Vita Car. M.c. 8), dopo aver narrata una contesa che ebber tra loro icantori romani e i francesi sull'eccellenza del loro canto,contesa che fu decisa da Carlo Magno in favor de' roma-ni, due de' quali furon da lui condotti in Francia, perchèv'insegnassero il loro canto; dopo ciò, dico, soggiugne:Similiter erudierunt romani cantores supradicti canto-res Francorum in arte organandi (22). Colle quali parole

non abbia potuto produrre che deboli congetture, e autorità non troppo va-levoli ad assicurarcene.

22 Il sig ab. Arteaga afferma (Rivol. del Teatro music. ital. t. 3, p. 103 ed.ven.), che l'uso dell'organo introdotto in Roma assai prima, e obbliato perqualche secolo, fu poi rinnovato verso la fine del secolo nono: e che ove si

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Anzi Carlo M. dall'Italiachiama in Francia mae-stri del can-to.

lo Magno fondasse in esso pubbliche scuole. Ma ciò chesi è detto finor di Pavia, vale a più forte ragione per qua-lunque altra città e per qualunque scuola italiana.

XI. Rimane ora a vedere ciò che in terzoluogo mi son proposto di dimostrare, cioèche Carlo Magno degli Italiani singolar-mente si valse a far risorger le lettere nellaFrancia. Ciò che ne abbiam letto finora, ba-star potrebbe a provarlo; ma conviene esa-

minare e svolger meglio un tal punto che alla nostra Ita-lia è troppo glorioso. Tra gli antichi scrittori della Vitadi Carlo Magno pubblicati dal du Chesne (Script. Hist.Franc.) non deesi l'ultimo luogo all'anonimo monacoengolismese ossia d'Angoulemme, che visse non moltodopo il tempo di cui scriveva. Or questi parlando dellavenuta di Carlo Magno a Roma l'an. 787 (Vita Car. M.c. 8), dopo aver narrata una contesa che ebber tra loro icantori romani e i francesi sull'eccellenza del loro canto,contesa che fu decisa da Carlo Magno in favor de' roma-ni, due de' quali furon da lui condotti in Francia, perchèv'insegnassero il loro canto; dopo ciò, dico, soggiugne:Similiter erudierunt romani cantores supradicti canto-res Francorum in arte organandi (22). Colle quali parole

non abbia potuto produrre che deboli congetture, e autorità non troppo va-levoli ad assicurarcene.

22 Il sig ab. Arteaga afferma (Rivol. del Teatro music. ital. t. 3, p. 103 ed.ven.), che l'uso dell'organo introdotto in Roma assai prima, e obbliato perqualche secolo, fu poi rinnovato verso la fine del secolo nono: e che ove si

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Anzi Carlo M. dall'Italiachiama in Francia mae-stri del can-to.

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non è ben chiaro se il monaco ci voglia dire che i Roma-ni ammaestrarono i Francesi a lavorare gli organi, o adusarne sonando. Forse vuol dire l'uno e l'altro. L'uso de-gli organi era certo assai antico in Italia, perciocchè, ol-tre altre pruove, ne abbiamo una chiarissima descrizionein Cassiodoro: "Organum itaque est, dic'egli (in psal.150), quasi turris diversis fistulis fabbricata, quibus flatufolliuna vox copiosissima destinatur, et, ut eam modula-tio decora componat, linguis quibusdam ligneis ab inte-riore parte construitur, quas disciplinabiliter magistro-rum digiti reprimentes grandisonam efficiunt et suavis-simam cantilenam". Al contrario io non ne trovo esem-pio in Francia prima de' tempi di Pipino padre di CarloMagno; perciocchè veggiamo che Costantino Coproni-mo mandogli in dono un organo (Ann. Franc. ad an.757) che dovea perciò aversi in conto di cosa assai rara.

dice che Adriano papa mandò in Francia maestri in arte organandi, nondeesi già intendere di maestri di lavorare, o di sonar l'organo; perciocchè laparola organari non significa già tal cosa, ma significa inserire alcune ter-ze nel progresso del canto fermo cantato all'unisono, e che in ciò il Mura-tori, il Bettinelli, ed io ci siam tutti ingannati. Se io avessi a quel solo pas-so appoggiata la mia asserzione, ove ho stabilito che al tempo di CarloMagno si usavan gli organi in Italia, avrebbe l'erudito autore giusta occa-sione di oppormi i diversi sensi ne' quali quella voce può essere intesa. Maio l'ho appoggiata anche agli altri passi da me riportati nei quali si fa men-zione di organo, e perciò, se ei voleva ribattere, la mia opinione, convenivache dimostrasse che da que' passi ancor non si pruova l'esistenza degli or-gani. Concedasi dunque all'ab. Arteaga ciò di che altro potrebbe quistio-narsi, che la voce organari abbia il senso ch'egli le dà, benchè pure ne ab-bia altri, e forse ancor quello da me indicato. Ma egli non ha provato, nèproverà forse mai che l'uso degli organi fosse dimenticato in Italia dopo itempi di Cassiodoro; giacchè abbiam se non altro l'organo del prete Gior-gio non alla fine, ma al principio del nono secolo.

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non è ben chiaro se il monaco ci voglia dire che i Roma-ni ammaestrarono i Francesi a lavorare gli organi, o adusarne sonando. Forse vuol dire l'uno e l'altro. L'uso de-gli organi era certo assai antico in Italia, perciocchè, ol-tre altre pruove, ne abbiamo una chiarissima descrizionein Cassiodoro: "Organum itaque est, dic'egli (in psal.150), quasi turris diversis fistulis fabbricata, quibus flatufolliuna vox copiosissima destinatur, et, ut eam modula-tio decora componat, linguis quibusdam ligneis ab inte-riore parte construitur, quas disciplinabiliter magistro-rum digiti reprimentes grandisonam efficiunt et suavis-simam cantilenam". Al contrario io non ne trovo esem-pio in Francia prima de' tempi di Pipino padre di CarloMagno; perciocchè veggiamo che Costantino Coproni-mo mandogli in dono un organo (Ann. Franc. ad an.757) che dovea perciò aversi in conto di cosa assai rara.

dice che Adriano papa mandò in Francia maestri in arte organandi, nondeesi già intendere di maestri di lavorare, o di sonar l'organo; perciocchè laparola organari non significa già tal cosa, ma significa inserire alcune ter-ze nel progresso del canto fermo cantato all'unisono, e che in ciò il Mura-tori, il Bettinelli, ed io ci siam tutti ingannati. Se io avessi a quel solo pas-so appoggiata la mia asserzione, ove ho stabilito che al tempo di CarloMagno si usavan gli organi in Italia, avrebbe l'erudito autore giusta occa-sione di oppormi i diversi sensi ne' quali quella voce può essere intesa. Maio l'ho appoggiata anche agli altri passi da me riportati nei quali si fa men-zione di organo, e perciò, se ei voleva ribattere, la mia opinione, convenivache dimostrasse che da que' passi ancor non si pruova l'esistenza degli or-gani. Concedasi dunque all'ab. Arteaga ciò di che altro potrebbe quistio-narsi, che la voce organari abbia il senso ch'egli le dà, benchè pure ne ab-bia altri, e forse ancor quello da me indicato. Ma egli non ha provato, nèproverà forse mai che l'uso degli organi fosse dimenticato in Italia dopo itempi di Cassiodoro; giacchè abbiam se non altro l'organo del prete Gior-gio non alla fine, ma al principio del nono secolo.

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Un altro organo, se crediamo al monaco di s. Gallo (VitaCar. M. l. 1, c. 10), dall'imp. Costantino Porfirogenito fumandato a Carlo Magno, il che, dovette accadere versol'an. 781, quando l'imperadrice Irene gli mandò amba-sciadori, chiedendogli Rotruda di lui figliuola per mo-glie del detto Costantino suo figlio. Ma non bastava chein Francia vi fosser organi, se non sapeasi la maniera diusarne, e insieme di farne de' somiglianti. Di ciò dunqueistruiti furono i Francesi da' cantori romani condotti daCarlo in Francia l'an. 787. E anche più anni dopo, cioè,l'anno 826, un prete veneziano, detto per nome Giorgio,venuto in Aquisgrana innanzi all'imp. Lodovico Pio, vifabbricò un organo che destò gran maraviglie nella corteimperiale, come coll'autorità di più antichi scrittori di-mostra il Du Cange (Gloss. med. et inf. Latin. art. Org.).Ma degli organi basti il detto fin qui; che parrà forse adalcuno che io stenda troppo oltre il regno della letteratu-ra, se anche l'invenzion degli organi vi debbe aver parte.

XII. Insiem co' detti cantori, prosiegue adire il citato monaco d'Angoulemme, il reCarlo condusse seco da Roma in Franciamaestri di gramatica e di aritmetica, e co-mandò loro che propagassero in ogni parte

cotali studj, perciocchè, dic'egli, prima di lui niuno stu-dio delle belle arti era in Francia: "Et domnus rex Caro-lus iterum a Roma artis gramaticae et computatoriaemagistros secum adduxit in Franciam, et ubique studium

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E altri mae-stri di grama-tica e di arit-metica.

Un altro organo, se crediamo al monaco di s. Gallo (VitaCar. M. l. 1, c. 10), dall'imp. Costantino Porfirogenito fumandato a Carlo Magno, il che, dovette accadere versol'an. 781, quando l'imperadrice Irene gli mandò amba-sciadori, chiedendogli Rotruda di lui figliuola per mo-glie del detto Costantino suo figlio. Ma non bastava chein Francia vi fosser organi, se non sapeasi la maniera diusarne, e insieme di farne de' somiglianti. Di ciò dunqueistruiti furono i Francesi da' cantori romani condotti daCarlo in Francia l'an. 787. E anche più anni dopo, cioè,l'anno 826, un prete veneziano, detto per nome Giorgio,venuto in Aquisgrana innanzi all'imp. Lodovico Pio, vifabbricò un organo che destò gran maraviglie nella corteimperiale, come coll'autorità di più antichi scrittori di-mostra il Du Cange (Gloss. med. et inf. Latin. art. Org.).Ma degli organi basti il detto fin qui; che parrà forse adalcuno che io stenda troppo oltre il regno della letteratu-ra, se anche l'invenzion degli organi vi debbe aver parte.

XII. Insiem co' detti cantori, prosiegue adire il citato monaco d'Angoulemme, il reCarlo condusse seco da Roma in Franciamaestri di gramatica e di aritmetica, e co-mandò loro che propagassero in ogni parte

cotali studj, perciocchè, dic'egli, prima di lui niuno stu-dio delle belle arti era in Francia: "Et domnus rex Caro-lus iterum a Roma artis gramaticae et computatoriaemagistros secum adduxit in Franciam, et ubique studium

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E altri mae-stri di grama-tica e di arit-metica.

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litterarum expandere jussit. Ante ipsum enim domnumregem Carolum in Gallia nullum studium fuerat libera-lium artium". Le quali ultime parole non debbonsi peròintendere per tal maniera, che la Francia fosse fin allorarimasta sommersa in una profonda ignoranza, ma soloche già da molto tempo eranvi interamente caduti glistudj, talchè convenne a Carlo di far venir dall'Italia al-cuni che dirozzassero i suoi popoli nella gramatica al-meno e nell'aritmetica, ch'erano allora comunemente ilpiù alto scopo a cui si cercasse di giugnere collo studio.Eccardo, detto da altri Eneccardo, monaco egli pur di s.Gallo, e che essendo vissuto nell'XI sec. si suol chiama-re il giovane monaco di s. Gallo, esprime i nomi di dueche da Roma a tal fine passarono in Francia. Mittuntursecundum regis petitionem Petrus, et Romanus can-tuum, et septem liberalium artium magistri. Può essereche così fosse; ma a meglio accertarsene, sarebbe a bra-mare che se ne potesse addurre qualche più antico e au-torevole testimonio. Ma se non è abbastanza certo ilnome de' maestri che Carlo Magno condusse in Francia,non può negarsi ch'egli alcuni non ne conducesse daRoma. Anzi quella parola iterum usata dal monacod'Angoulemme ha fatto sospettare a taluno che primaancora dell'an. 797 altri maestri avesse egli da Romachiamati in Francia. Ma gli scrittori di questi tempi nondobbiam creder che fosser così scrupolosi nella sceltadelle loro espressioni, che le parole da essi usate si ab-biano a prender sempre nel proprio e rigoroso lor senso,e forse la voce iterum qui è adoperata a spiegar pari-

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litterarum expandere jussit. Ante ipsum enim domnumregem Carolum in Gallia nullum studium fuerat libera-lium artium". Le quali ultime parole non debbonsi peròintendere per tal maniera, che la Francia fosse fin allorarimasta sommersa in una profonda ignoranza, ma soloche già da molto tempo eranvi interamente caduti glistudj, talchè convenne a Carlo di far venir dall'Italia al-cuni che dirozzassero i suoi popoli nella gramatica al-meno e nell'aritmetica, ch'erano allora comunemente ilpiù alto scopo a cui si cercasse di giugnere collo studio.Eccardo, detto da altri Eneccardo, monaco egli pur di s.Gallo, e che essendo vissuto nell'XI sec. si suol chiama-re il giovane monaco di s. Gallo, esprime i nomi di dueche da Roma a tal fine passarono in Francia. Mittuntursecundum regis petitionem Petrus, et Romanus can-tuum, et septem liberalium artium magistri. Può essereche così fosse; ma a meglio accertarsene, sarebbe a bra-mare che se ne potesse addurre qualche più antico e au-torevole testimonio. Ma se non è abbastanza certo ilnome de' maestri che Carlo Magno condusse in Francia,non può negarsi ch'egli alcuni non ne conducesse daRoma. Anzi quella parola iterum usata dal monacod'Angoulemme ha fatto sospettare a taluno che primaancora dell'an. 797 altri maestri avesse egli da Romachiamati in Francia. Ma gli scrittori di questi tempi nondobbiam creder che fosser così scrupolosi nella sceltadelle loro espressioni, che le parole da essi usate si ab-biano a prender sempre nel proprio e rigoroso lor senso,e forse la voce iterum qui è adoperata a spiegar pari-

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menti, o ancora.

XIII. Egli è certo però, che non furon questinè i soli ne i primi Italiani che Carlo chia-masse in Francia a farvi fiorir le scienze.Pietro da Pisa, come di sopra ho accennato,fu a mio parere il primo che a tal fine pas-sasse in Francia, e nel palazzo di Carlo te-nesse scuola di gramatica, come colla testi-

monianza del cel. Alcuino abbiam dimostrato. Quindi ilDu Boulay giustamente afferma che questi debb'essererimirato come il primo fondatore delle regie scuole inFrancia. Itaque Petrus ille merito dici potest primusscholae palatinae et regiae institutor (Hist. Univ. Paris.t. 1, p. 626). Paolo diacono venne egli pure in Franciaverso questo tempo medesimo, come congettura il p.Mabillon (Ann. bened. t. 2, l. 24, n. 73), e come mi lu-singo di poter a suo luogo provare chiaramente. E ben-chè il breve tempo ch'egli vi si trattenne, non gli permet-tesse di recar gran vantaggio a quelle provincie, nondi-meno, uomo colto com'egli era per quella età, dovetteconcorrer non poco a ravvivarvi l'amore de' buoni studi.Teodolfo che pur fu italiano, come a suo luogo dimo-streremo, non solo fu da Carlo Magno condotto in Fran-cia, ma fu anche eletto vescovo d'Orleans. Alla qualchiesa ei si rendette sommamente giovevole, come conaltre opere di pietà e di zelo, così per singolar manieracol procurare che vi si coltivasser le scienze. Perciocchè

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E di più al-tri Italiani si vale a farrisorgere inFrancia le scienze e lelettere.

menti, o ancora.

XIII. Egli è certo però, che non furon questinè i soli ne i primi Italiani che Carlo chia-masse in Francia a farvi fiorir le scienze.Pietro da Pisa, come di sopra ho accennato,fu a mio parere il primo che a tal fine pas-sasse in Francia, e nel palazzo di Carlo te-nesse scuola di gramatica, come colla testi-

monianza del cel. Alcuino abbiam dimostrato. Quindi ilDu Boulay giustamente afferma che questi debb'essererimirato come il primo fondatore delle regie scuole inFrancia. Itaque Petrus ille merito dici potest primusscholae palatinae et regiae institutor (Hist. Univ. Paris.t. 1, p. 626). Paolo diacono venne egli pure in Franciaverso questo tempo medesimo, come congettura il p.Mabillon (Ann. bened. t. 2, l. 24, n. 73), e come mi lu-singo di poter a suo luogo provare chiaramente. E ben-chè il breve tempo ch'egli vi si trattenne, non gli permet-tesse di recar gran vantaggio a quelle provincie, nondi-meno, uomo colto com'egli era per quella età, dovetteconcorrer non poco a ravvivarvi l'amore de' buoni studi.Teodolfo che pur fu italiano, come a suo luogo dimo-streremo, non solo fu da Carlo Magno condotto in Fran-cia, ma fu anche eletto vescovo d'Orleans. Alla qualchiesa ei si rendette sommamente giovevole, come conaltre opere di pietà e di zelo, così per singolar manieracol procurare che vi si coltivasser le scienze. Perciocchè

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E di più al-tri Italiani si vale a farrisorgere inFrancia le scienze e lelettere.

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nelle leggi da lui prescritte al clero della sua diocesi duene veggiamo a tal fine indirizzate; nella prima delle qua-li egli comanda che se alcun prete vorrà mandare allascuola qualche suo nipote, o parente, possa mandarlo adalcuno de' monasteri ch'egli nomina, ove convien direche fosser pubbliche scuole (Theodul. Capitular. n. 19ap. P. Sirmond. Op. t. 2); nell'altra ordina che i parrochidelle ville tengano scuola, e che debbano istruir nellelettere i figliuoli di chiunque voglia ad esse mandarli, eciò senza esigerne mercede alcuna, ricevendo solo ciòche spontaneamente lor venga offerto (ib. n. 20). Final-mente Paolino patriarca d'Aquileia, quantunque non maisoggiornasse in Francia, come fu nondimeno accetto persingolar modo a Carlo Magno che di lui si valse, comeavremo a vedere, in molte occasioni, così non è a dubi-tare che non si adoperasse egli pure perchè questo granprincipe fomentasse il coltivamento degli studj. Noi ab-biamo infatti una lettera scrittagli da Paolino, in cui aciò singolarmente lo esorta. "Expedit tibi, gli dic'egli(Baluz. Miscell. t. 2, pars 2 ed. luc.), venerande prin-ceps, ut exerceas praesules ad Sanctarum Scripturarumindagationem, et sanam sobriamque doctrinam, omnemclerum ad disciplinam, philosophos ad rerum divinarumhumanarumque cognitionem". Così, benchè non voglia-si negare ad Alcuino la lode di aver grandemente contri-buito al risorgimento degli studj in Francia, deesi peròconcedere ancora che non piccola parte in ciò ebbero gliItaliani, e che non solo non furono da Carlo Magnomandati stranieri in Italia, perchè vi tenessero scuola,

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nelle leggi da lui prescritte al clero della sua diocesi duene veggiamo a tal fine indirizzate; nella prima delle qua-li egli comanda che se alcun prete vorrà mandare allascuola qualche suo nipote, o parente, possa mandarlo adalcuno de' monasteri ch'egli nomina, ove convien direche fosser pubbliche scuole (Theodul. Capitular. n. 19ap. P. Sirmond. Op. t. 2); nell'altra ordina che i parrochidelle ville tengano scuola, e che debbano istruir nellelettere i figliuoli di chiunque voglia ad esse mandarli, eciò senza esigerne mercede alcuna, ricevendo solo ciòche spontaneamente lor venga offerto (ib. n. 20). Final-mente Paolino patriarca d'Aquileia, quantunque non maisoggiornasse in Francia, come fu nondimeno accetto persingolar modo a Carlo Magno che di lui si valse, comeavremo a vedere, in molte occasioni, così non è a dubi-tare che non si adoperasse egli pure perchè questo granprincipe fomentasse il coltivamento degli studj. Noi ab-biamo infatti una lettera scrittagli da Paolino, in cui aciò singolarmente lo esorta. "Expedit tibi, gli dic'egli(Baluz. Miscell. t. 2, pars 2 ed. luc.), venerande prin-ceps, ut exerceas praesules ad Sanctarum Scripturarumindagationem, et sanam sobriamque doctrinam, omnemclerum ad disciplinam, philosophos ad rerum divinarumhumanarumque cognitionem". Così, benchè non voglia-si negare ad Alcuino la lode di aver grandemente contri-buito al risorgimento degli studj in Francia, deesi peròconcedere ancora che non piccola parte in ciò ebbero gliItaliani, e che non solo non furono da Carlo Magnomandati stranieri in Italia, perchè vi tenessero scuola,

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ma anzi più Italiani furono da lui chiamati in Francia, eche di essi si valse a farvi risorger le scienze.

XIV. Nè io voglio perciò affermare chel'Italia non debba molto essa pure aquesto gran principe. Benchè il trarnech'ei fece molti uomini dotti per con-durgli in Francia, potesse riuscirle di

qualche danno, ciò non ostante in altre maniere l'imperodi Carlo Magno le fu così vantaggioso per riguardo an-cora agli studj, ch'ella dee serbarne eterna e grata me-moria. La protezione di cui egli onorò tutte le scienze, eil favore di cui fu liberale agli uomini dotti, dovette cer-to aver gran forza a risvegliar nell'animo di coloro chene eran capaci, un nobile ardore per coltivare le bellearti che vedevano essere in sì gran pregio presso il lorosovrano. E se Carlo Magno avesse avuta in Italia piùstabil dimora, più lieti effetti si sarebbon veduti dellasua regia munificenza nel fomentare gli studj. Ma eglicostretto a dividere i suoi pensieri fra le tante diverseprovincie di cui era signore, non potè rivolgersi all'Italiacon quella particolar vigilanza che convenuto sarebbe ariparare interamente i gravissimi danni de' secoli trapas-sati. Se egli facesse aprire nuove scuole in Italia, non neabbiamo notizia alcuna, come sopra si è dimostrato, anzida ciò che dovremo dir fra non molto dell'imp. Lottario,sembra che si possa raccogliere che anche di questi tem-pi rare dovean essere cotai pubbliche scuole; e che

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Nell'Italia ancora procurò Carlo M. di far rifiorire la letteratura.

ma anzi più Italiani furono da lui chiamati in Francia, eche di essi si valse a farvi risorger le scienze.

XIV. Nè io voglio perciò affermare chel'Italia non debba molto essa pure aquesto gran principe. Benchè il trarnech'ei fece molti uomini dotti per con-durgli in Francia, potesse riuscirle di

qualche danno, ciò non ostante in altre maniere l'imperodi Carlo Magno le fu così vantaggioso per riguardo an-cora agli studj, ch'ella dee serbarne eterna e grata me-moria. La protezione di cui egli onorò tutte le scienze, eil favore di cui fu liberale agli uomini dotti, dovette cer-to aver gran forza a risvegliar nell'animo di coloro chene eran capaci, un nobile ardore per coltivare le bellearti che vedevano essere in sì gran pregio presso il lorosovrano. E se Carlo Magno avesse avuta in Italia piùstabil dimora, più lieti effetti si sarebbon veduti dellasua regia munificenza nel fomentare gli studj. Ma eglicostretto a dividere i suoi pensieri fra le tante diverseprovincie di cui era signore, non potè rivolgersi all'Italiacon quella particolar vigilanza che convenuto sarebbe ariparare interamente i gravissimi danni de' secoli trapas-sati. Se egli facesse aprire nuove scuole in Italia, non neabbiamo notizia alcuna, come sopra si è dimostrato, anzida ciò che dovremo dir fra non molto dell'imp. Lottario,sembra che si possa raccogliere che anche di questi tem-pi rare dovean essere cotai pubbliche scuole; e che

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Nell'Italia ancora procurò Carlo M. di far rifiorire la letteratura.

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l'impegno di Carlo Magno nel fomentare le scienze,benchè conducesse probabilmente non pochi a coltivarlenon fece però che l'Italia, e molto più qualunque altraprovincia, non fosse comunemente involta in una pro-fonda ignoranza, funesto effetto delle pubbliche calami-tà della mancanza di libri, e di più secoli di barbarie, cheaveanla miseramente travagliata ed oppressa. "A questeragioni per le quali l'impegno di Carlo Magno nel rinno-vare gli studj non ebbe quel lieto effetto che sembravadoversene sperare, un'altra giustamente ne aggiugne ilvaloroso ab. Andres, cioè che gli uomini da lui trasceltia tal fine eran bensì i migliori che allor vivessero, matroppo eran lontani da quel buon gusto senza cui le lette-re non posson risorgere, e che altro essi non si prefisse-ro, che di dirozzare ne' primi elementi della letteratura edel canto quelli singolarmente che al servigio della chie-sa erano destinati; ma che niun pensiero si diedero dirintracciare le opere degli antichi scrittori greci e latini,e di eccitare i giovani a conoscerli e ad imitarli(Dell'Origine e Progressi d'ogni Letterat. t. 1, p. 106ec.)".

XV. Prima di passar oltre, ci conviene quidare un'idea generale dello stato in cui eral'Italia di questi tempi. Carlo Magno ne pos-

sedeva la maggior parte, e a ragione ne aveva il titolo disovrano. I papi avean cominciato ad avere il lor propriostato per le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, con-

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Stato civiledell'Italia.

l'impegno di Carlo Magno nel fomentare le scienze,benchè conducesse probabilmente non pochi a coltivarlenon fece però che l'Italia, e molto più qualunque altraprovincia, non fosse comunemente involta in una pro-fonda ignoranza, funesto effetto delle pubbliche calami-tà della mancanza di libri, e di più secoli di barbarie, cheaveanla miseramente travagliata ed oppressa. "A questeragioni per le quali l'impegno di Carlo Magno nel rinno-vare gli studj non ebbe quel lieto effetto che sembravadoversene sperare, un'altra giustamente ne aggiugne ilvaloroso ab. Andres, cioè che gli uomini da lui trasceltia tal fine eran bensì i migliori che allor vivessero, matroppo eran lontani da quel buon gusto senza cui le lette-re non posson risorgere, e che altro essi non si prefisse-ro, che di dirozzare ne' primi elementi della letteratura edel canto quelli singolarmente che al servigio della chie-sa erano destinati; ma che niun pensiero si diedero dirintracciare le opere degli antichi scrittori greci e latini,e di eccitare i giovani a conoscerli e ad imitarli(Dell'Origine e Progressi d'ogni Letterat. t. 1, p. 106ec.)".

XV. Prima di passar oltre, ci conviene quidare un'idea generale dello stato in cui eral'Italia di questi tempi. Carlo Magno ne pos-

sedeva la maggior parte, e a ragione ne aveva il titolo disovrano. I papi avean cominciato ad avere il lor propriostato per le donazioni di Pipino e di Carlo Magno, con-

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Stato civiledell'Italia.

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fermate poi ed accresciute da altri imperadori che ven-ner dopo. Venezia e le isole adiacenti si mantennero essepure indipendenti da Carlo Magno e dai suoi successori,come eransi mantenute a' tempi ancora de' Longobardi.Il ducato di Benevento, che comprendeva a que' tempiuna gran parte del regno di Napoli, era rimasto in manode' principi longobardi, perciocchè Arigiso II che n'eraduca, quando Carlo conquistò l'Italia, e poscia Grimoal-do di lui figliuolo, seppero or coll'armi, or co' trattati so-stenersi sì destramente, che continuarono a godere dellor dominio, dal quale poi l'an. 840 furono staccate dueparti, cioè il principato di Salerno, e la contea di Capo-va, che formarono due altri separati dominj di due altriprincipi longobardi. I Greci non aveano mai abbandona-ta interamente l'Italia. Napoli, Gaeta, e gran parte dellaCalabria erano o ad essi soggette, o almen tributarie. ISaracini per ultimo dopo aver corse e saccheggiate alcu-ne delle isole adiacenti all'Italia, e dopo aver occupataverso l'an. 722, la Sardegna, scesi in Sicilia l'an. 828 sirenderono successivamente padroni di tutta quell'isolache finallora avea ubbidito a' Greci, e quindi l'an. 842,gittatisi nella vicina Calabria, cominciarono a occuparnealcune piazze, e a molestare e a travagliare l'Italia tutta.Questo era lo stato dell'Italia ne' tempi di cui scriviamostato che dovea naturalmente, come in fatto avvenne,dar frequente occasione a discordie e a guerre fra' diver-si principi confinanti, avidi di stendere il lor dorminio, edi togliersi, se venisse lor fatto, da' fianchi i troppo mo-lesti vicini. Ma io non debbo trattenermi su ciò che nulla

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fermate poi ed accresciute da altri imperadori che ven-ner dopo. Venezia e le isole adiacenti si mantennero essepure indipendenti da Carlo Magno e dai suoi successori,come eransi mantenute a' tempi ancora de' Longobardi.Il ducato di Benevento, che comprendeva a que' tempiuna gran parte del regno di Napoli, era rimasto in manode' principi longobardi, perciocchè Arigiso II che n'eraduca, quando Carlo conquistò l'Italia, e poscia Grimoal-do di lui figliuolo, seppero or coll'armi, or co' trattati so-stenersi sì destramente, che continuarono a godere dellor dominio, dal quale poi l'an. 840 furono staccate dueparti, cioè il principato di Salerno, e la contea di Capo-va, che formarono due altri separati dominj di due altriprincipi longobardi. I Greci non aveano mai abbandona-ta interamente l'Italia. Napoli, Gaeta, e gran parte dellaCalabria erano o ad essi soggette, o almen tributarie. ISaracini per ultimo dopo aver corse e saccheggiate alcu-ne delle isole adiacenti all'Italia, e dopo aver occupataverso l'an. 722, la Sardegna, scesi in Sicilia l'an. 828 sirenderono successivamente padroni di tutta quell'isolache finallora avea ubbidito a' Greci, e quindi l'an. 842,gittatisi nella vicina Calabria, cominciarono a occuparnealcune piazze, e a molestare e a travagliare l'Italia tutta.Questo era lo stato dell'Italia ne' tempi di cui scriviamostato che dovea naturalmente, come in fatto avvenne,dar frequente occasione a discordie e a guerre fra' diver-si principi confinanti, avidi di stendere il lor dorminio, edi togliersi, se venisse lor fatto, da' fianchi i troppo mo-lesti vicini. Ma io non debbo trattenermi su ciò che nulla

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appartiene all'italiana letteratura; e solo mi basterà il ve-nire annoverando quelli che essendo signori della mag-gior parte d'Italia, ne ebbero ancora il titolo di sovrani, equalche cosa vi operarono a pro delle lettere.

XVI. Erano già 7 anni che Carlo Ma-gno avea preso il titolo di re de' Lon-gobardi, quando l'an. 781 venuto aRoma, e fattovi battezzare suo figliuo-lo Pipino, diegli ancora il nome di re

d'Italia. Egli è evidente che questi non era re che dinome; e che Carlo Magno proseguiva a governare eglistesso il nuovo suo regno, e perciò le leggi che sottonome di Pipino veggiam pubblicate, debbonsi rimirareanch'esse come leggi del padre. Poichè nondimeno co-minciò Pipino a poter maneggiare le armi, diede in essepruove di gran valore per modo, che già se ne concepi-vano le più liete speranze. Ma esse furon troncate dauna morte immatura l'an. 810, essendo egli in età di soli33 anni incirca. Carlo Magno che fin dall'an. 800 aveadal pontef. Leone III ricevuta la corona imperiale, nondiegli per allora alcun successore. Ma poscia l'an. 812nominò re d'Italia Bernardo figliuol naturale del defuntoPipino, giovinetto egli ancora di pochi anni. Questi,morto l'an. 814 Carlo Magno, e succedutogli nell'imperoLodovico soprannomato il Pio di lui figliuolo, lasciatosiciecamente trasportare da sdegno contro del medesimoLodovico, perchè avea dichiarato suo collega nell'impe-

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Regno d'Italia diPipino, e poi diBernardo: imperodi Lodovico il Pioe di Lottario I.

appartiene all'italiana letteratura; e solo mi basterà il ve-nire annoverando quelli che essendo signori della mag-gior parte d'Italia, ne ebbero ancora il titolo di sovrani, equalche cosa vi operarono a pro delle lettere.

XVI. Erano già 7 anni che Carlo Ma-gno avea preso il titolo di re de' Lon-gobardi, quando l'an. 781 venuto aRoma, e fattovi battezzare suo figliuo-lo Pipino, diegli ancora il nome di re

d'Italia. Egli è evidente che questi non era re che dinome; e che Carlo Magno proseguiva a governare eglistesso il nuovo suo regno, e perciò le leggi che sottonome di Pipino veggiam pubblicate, debbonsi rimirareanch'esse come leggi del padre. Poichè nondimeno co-minciò Pipino a poter maneggiare le armi, diede in essepruove di gran valore per modo, che già se ne concepi-vano le più liete speranze. Ma esse furon troncate dauna morte immatura l'an. 810, essendo egli in età di soli33 anni incirca. Carlo Magno che fin dall'an. 800 aveadal pontef. Leone III ricevuta la corona imperiale, nondiegli per allora alcun successore. Ma poscia l'an. 812nominò re d'Italia Bernardo figliuol naturale del defuntoPipino, giovinetto egli ancora di pochi anni. Questi,morto l'an. 814 Carlo Magno, e succedutogli nell'imperoLodovico soprannomato il Pio di lui figliuolo, lasciatosiciecamente trasportare da sdegno contro del medesimoLodovico, perchè avea dichiarato suo collega nell'impe-

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Regno d'Italia diPipino, e poi diBernardo: imperodi Lodovico il Pioe di Lottario I.

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ro il suo primogenito Lottario, ebbe ardire di ribellargli-si. Ma presto avvedutosi della sua imprudenza, e gittato-si con nuovo errore tra le mani de' suoi nimici, ne fucondannato ad essere acciecato, il che fu eseguito contal crudeltà, ch'ei ne morì fra tre giorni l'an. 818. Lotta-rio già dichiarato imperadore, fu due anni appresso daLodovico il Pio suo padre dichiarato ancor re d'Italia; equesti è veramente a cui dobbiamo la prima origine del-le pubbliche scuole in molte delle nostre città.

XVII. Fra le leggi pubblicate da' re d'Ita-lia successori de' re longobardi, e detteperciò longobardiche, alcune ne abbiamodi questo principe l'anno 823 in cui ebbein Roma la corona imperiale, da lui pro-

mulgate in Cortelona, luogo a que' tempi celebre nel ter-ritorio di Pavia presso il fiume Olona, da cui traeva ilnome, e ove aveano gli imperadori palazzo e villa, dacui spesso si veggon datate le loro leggi. Ad esseun'altra se ne aggiugne dello stesso Lottario, in cui de-termina le città nelle quali deesi pubblicamente insegna-re. Rechiamola prima nel suo originale linguaggio, qualè stata pubblicata dal ch. Muratori (Script. rer. ital. t. 1,pars 2, p. 151), tratta da un codice dell'insigne archiviodi questo Capitolo di Modena; e poscia prenderemo afar sopra essa le riflessioni opportune: "De doctrinavero, quae ob nimiam incuriam atque ignaviam quorum-que praepositorum cunctis in locis est funditus extincta,

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Legge pubbli-cata da Lottarioper le scuole d'Italia.

ro il suo primogenito Lottario, ebbe ardire di ribellargli-si. Ma presto avvedutosi della sua imprudenza, e gittato-si con nuovo errore tra le mani de' suoi nimici, ne fucondannato ad essere acciecato, il che fu eseguito contal crudeltà, ch'ei ne morì fra tre giorni l'an. 818. Lotta-rio già dichiarato imperadore, fu due anni appresso daLodovico il Pio suo padre dichiarato ancor re d'Italia; equesti è veramente a cui dobbiamo la prima origine del-le pubbliche scuole in molte delle nostre città.

XVII. Fra le leggi pubblicate da' re d'Ita-lia successori de' re longobardi, e detteperciò longobardiche, alcune ne abbiamodi questo principe l'anno 823 in cui ebbein Roma la corona imperiale, da lui pro-

mulgate in Cortelona, luogo a que' tempi celebre nel ter-ritorio di Pavia presso il fiume Olona, da cui traeva ilnome, e ove aveano gli imperadori palazzo e villa, dacui spesso si veggon datate le loro leggi. Ad esseun'altra se ne aggiugne dello stesso Lottario, in cui de-termina le città nelle quali deesi pubblicamente insegna-re. Rechiamola prima nel suo originale linguaggio, qualè stata pubblicata dal ch. Muratori (Script. rer. ital. t. 1,pars 2, p. 151), tratta da un codice dell'insigne archiviodi questo Capitolo di Modena; e poscia prenderemo afar sopra essa le riflessioni opportune: "De doctrinavero, quae ob nimiam incuriam atque ignaviam quorum-que praepositorum cunctis in locis est funditus extincta,

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Legge pubbli-cata da Lottarioper le scuole d'Italia.

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placuit, ut sicut a nobis constitutum est, ita ab omnibusobservetur. Videlicet ut ab his qui nostra dispositione ar-tem docentes alios per loca denominata sunt costituti,maximum dent studium, qualiter sibi commissi schola-stici ita proficiant, atque doctrinae insistant, sicut prae-sens exposcit necessitas. Propter opportunitatem tamenomnium apra loca distincte ad hoc exercitium providi-mus, ut difficultas locorum longe positorum, ac pauper-tas nulli fieret excusatio". Questa è l'introduzione, percosì dire, all'Editto che poscia segue, annoverando lecittà destinate alle pubbliche scuole. Ma prima d'innol-trarci, vuolsi far riflessione sull'anno in cui questa leggefu pubblicata, e su queste prime parole che ne abbiamqui recate. Il Muratori nel darla alla luce ha credutoch'essa appartenesse allo stesso an. 823 a cui certamenteappartengono le altre leggi che ad essa precedono (inNot. ad l. c.) e lo stesso ha affermato nelle sue AntichitàItaliane (t. 3, p. 815). Ma negli Annali d'Italia dice esse-re incerto l'anno di questa legge (ad an. 829). E vera-mente così ne pare a me ancora; perciocchè egli è bencerto che l'anno 823 promulgò Lottario le prime leggiche si veggon nel codice modenese, ma quelle che ven-gon dopo, non vi è pruova che ci dimostri che siano del-lo stesso anno, o non piuttosto di alcun degli anni se-guenti. Checchessia di ciò, Lottario dice primieramenteche in ogni parte d'Italia erasi intieramente perduta lascienza: cunctis in locis est funditus extincta; e che egliperciò avea dati opportuni provvedimenti e nominate lecittà in cui dovean essere maestri: sicut a nobis constitu-

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placuit, ut sicut a nobis constitutum est, ita ab omnibusobservetur. Videlicet ut ab his qui nostra dispositione ar-tem docentes alios per loca denominata sunt costituti,maximum dent studium, qualiter sibi commissi schola-stici ita proficiant, atque doctrinae insistant, sicut prae-sens exposcit necessitas. Propter opportunitatem tamenomnium apra loca distincte ad hoc exercitium providi-mus, ut difficultas locorum longe positorum, ac pauper-tas nulli fieret excusatio". Questa è l'introduzione, percosì dire, all'Editto che poscia segue, annoverando lecittà destinate alle pubbliche scuole. Ma prima d'innol-trarci, vuolsi far riflessione sull'anno in cui questa leggefu pubblicata, e su queste prime parole che ne abbiamqui recate. Il Muratori nel darla alla luce ha credutoch'essa appartenesse allo stesso an. 823 a cui certamenteappartengono le altre leggi che ad essa precedono (inNot. ad l. c.) e lo stesso ha affermato nelle sue AntichitàItaliane (t. 3, p. 815). Ma negli Annali d'Italia dice esse-re incerto l'anno di questa legge (ad an. 829). E vera-mente così ne pare a me ancora; perciocchè egli è bencerto che l'anno 823 promulgò Lottario le prime leggiche si veggon nel codice modenese, ma quelle che ven-gon dopo, non vi è pruova che ci dimostri che siano del-lo stesso anno, o non piuttosto di alcun degli anni se-guenti. Checchessia di ciò, Lottario dice primieramenteche in ogni parte d'Italia erasi intieramente perduta lascienza: cunctis in locis est funditus extincta; e che egliperciò avea dati opportuni provvedimenti e nominate lecittà in cui dovean essere maestri: sicut a nobis constitu-

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tum est... his qui nostra dispositione artem docentes, ec.Di scuole che prima esistessero, di leggi a tal fine pub-blicate da Carlo Magno, qui non vi è cenno; e l'asserirsil'universale ignoranza, ci fa intendere chiaramente, nondirò già che niuna scuola vi avesse in Italia, perciocchèabbiam dimostrato che alcune ve n'avea certamente, mache esse eran sì rare, che non bastavano al fin prefisso.Gli studj qui vengon chiamati col nome di arte: artemdocentes: colla qual parola non vi ha dubbio che qui nonintendasi la gramatica, presa però in quell'ampio sensoin cui abbiamo altrove mostrato che di questi tempiprendevasi, cioè di lettere umane, e forse ancor di arit-metica. E di vero non troviamo alcun monumento discuola che si tenesse di altre più gravi scienze, come difilosofia, di matematica, di giurisprudenza; nelle qualiognuno potea saper ciò solamente che col privato suostudio gli veniva fatto d'intendere. Per ultimo se questimaestri che da Lottario si stabilirono, avessero stipendiodal regio erario; o solo da' lor discepoli, qui non si dice;ma il recarsi per un de' motivi delle disposizioni di Lot-tario il desiderio di toglier l'ostacolo che la povertà reca-va al coltivamento degli studj, ci fa credere che non siobbligassero i discepoli a comperare l'erudizione; per-ciocchè in tal caso mal sarebbesi provveduto a quei chenon aveano a tal fine sufficienti ricchezze. Or veggiamoquai furono le città da Lottario prescelte, il che giovaancora a farci conoscere qual fosse allor l'estensione, equali i confini dei regno d'Italia.

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tum est... his qui nostra dispositione artem docentes, ec.Di scuole che prima esistessero, di leggi a tal fine pub-blicate da Carlo Magno, qui non vi è cenno; e l'asserirsil'universale ignoranza, ci fa intendere chiaramente, nondirò già che niuna scuola vi avesse in Italia, perciocchèabbiam dimostrato che alcune ve n'avea certamente, mache esse eran sì rare, che non bastavano al fin prefisso.Gli studj qui vengon chiamati col nome di arte: artemdocentes: colla qual parola non vi ha dubbio che qui nonintendasi la gramatica, presa però in quell'ampio sensoin cui abbiamo altrove mostrato che di questi tempiprendevasi, cioè di lettere umane, e forse ancor di arit-metica. E di vero non troviamo alcun monumento discuola che si tenesse di altre più gravi scienze, come difilosofia, di matematica, di giurisprudenza; nelle qualiognuno potea saper ciò solamente che col privato suostudio gli veniva fatto d'intendere. Per ultimo se questimaestri che da Lottario si stabilirono, avessero stipendiodal regio erario; o solo da' lor discepoli, qui non si dice;ma il recarsi per un de' motivi delle disposizioni di Lot-tario il desiderio di toglier l'ostacolo che la povertà reca-va al coltivamento degli studj, ci fa credere che non siobbligassero i discepoli a comperare l'erudizione; per-ciocchè in tal caso mal sarebbesi provveduto a quei chenon aveano a tal fine sufficienti ricchezze. Or veggiamoquai furono le città da Lottario prescelte, il che giovaancora a farci conoscere qual fosse allor l'estensione, equali i confini dei regno d'Italia.

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XVIII. "Primum, siegue a dire Lottario,in Papia conveniant ad Dungalum, deMediolano, de Brixia, de Laude, de Ber-gamo, de Novaria, de Vercellis, de Ar-thona (leg. Derthona), de Aquis, de Ge-

nua, de Haste, de Cuma. In Eboreja ipse episcopus hocper se faciat. In Taurinis conveniant de Vighintimilio, deAlbegano, de Vadis, de Alba. In Cremona discant de Re-gio, de Placentia, de Parma, de Mutina. In Florentia deThuscia resipiscant (forte respiciant). In Firmo de Spo-letinis civitatibus conveniant. In Verona de Mantua, deTridento. In Vicentia de Patavi, de Tarvisio, de Feltris,de Ceneta, de Asilo. Reliquae civitates Forum Julii adscholam concurrant". Ecco dunque le nove città da cuidoveasi per tutto il regno d'Italia diffonder la scienza:Pavia, Ivrea, Torino, Cremona, Firenze, Fermo, Verona,Vicenza e Cividal del Friuli. L'esser nominata Pavia pri-ma d'ogni altra, e l'assegnarsi ad essa numero di città su-balterne quanto allo studio maggiore assai che ad ognialtra, ci mostra ch'essa fin d'allora distinguevasi in ciòsopra tutte; il che probabilmente nasceva dall'essersi ivitenuta scuola fin da' tempi de' Longobardi, come abbiamdimostrato. A Pavia dunque dovean concorrere i giovanibramosi d'istruirsi da Milano, da Brescia, da Lodi, daBergamo, da Novara, da Vercelli, da Tortona, da Acqui,da Genova, da Asti, da Como. Chi fosse il Dungalo quinominato, il vedremo frappoco. Ma che è ciò che sog-giugne d'Ivrea? In Eboreja ipse episcopus hoc faciat.Per qual ragione uno studio particolare in Ivrea, e ad uso

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Riflessioni sullecittà nelle quali in esse si ordinadi aprire pubbli-ca scuola.

XVIII. "Primum, siegue a dire Lottario,in Papia conveniant ad Dungalum, deMediolano, de Brixia, de Laude, de Ber-gamo, de Novaria, de Vercellis, de Ar-thona (leg. Derthona), de Aquis, de Ge-

nua, de Haste, de Cuma. In Eboreja ipse episcopus hocper se faciat. In Taurinis conveniant de Vighintimilio, deAlbegano, de Vadis, de Alba. In Cremona discant de Re-gio, de Placentia, de Parma, de Mutina. In Florentia deThuscia resipiscant (forte respiciant). In Firmo de Spo-letinis civitatibus conveniant. In Verona de Mantua, deTridento. In Vicentia de Patavi, de Tarvisio, de Feltris,de Ceneta, de Asilo. Reliquae civitates Forum Julii adscholam concurrant". Ecco dunque le nove città da cuidoveasi per tutto il regno d'Italia diffonder la scienza:Pavia, Ivrea, Torino, Cremona, Firenze, Fermo, Verona,Vicenza e Cividal del Friuli. L'esser nominata Pavia pri-ma d'ogni altra, e l'assegnarsi ad essa numero di città su-balterne quanto allo studio maggiore assai che ad ognialtra, ci mostra ch'essa fin d'allora distinguevasi in ciòsopra tutte; il che probabilmente nasceva dall'essersi ivitenuta scuola fin da' tempi de' Longobardi, come abbiamdimostrato. A Pavia dunque dovean concorrere i giovanibramosi d'istruirsi da Milano, da Brescia, da Lodi, daBergamo, da Novara, da Vercelli, da Tortona, da Acqui,da Genova, da Asti, da Como. Chi fosse il Dungalo quinominato, il vedremo frappoco. Ma che è ciò che sog-giugne d'Ivrea? In Eboreja ipse episcopus hoc faciat.Per qual ragione uno studio particolare in Ivrea, e ad uso

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Riflessioni sullecittà nelle quali in esse si ordinadi aprire pubbli-ca scuola.

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solo della stessa città, invece di assoggettarla, comesembrava naturale, a Torino? Per qual ragione ordinareche lo stesso vescovo vi tenga scuola? Io prenderei vo-lentieri a rischiare tai dubbj, se potessi aver fondamentia cui appoggiarmi. Ma per quanto io abbia cercato divenirne in chiaro, confesso che non mi è stato possibilelo scoprire anche una semplice congettura di un tal ordi-ne di Lottario. Non sappiamo nemmeno di certo chi diquesti tempi fosse vescovo in Ivrea, poichè nella seriedell'Ughelli (Ital. Sacra t. 4) vedesi una gran votodall'an. 743, all'an. 844 in cui vescovo d'Ivrea era unGiuseppe, il quale vivea ancora l'an. 853, e non si puòperciò accertare ch'ei fosse il medesimo ch'era vescovoai tempi di cui parliamo. Oltre che di lui ancora appenaaltro sappiamo che il puro nome. Non è dunque possibi-le il far congettura di sorta alcuna su questo punto chepur meriterebbe d'essere diligentemente illustrato. Il ri-manente di questa legge non soffre difficoltà. A Torinodovean andare i giovani da Ventimiglia, da Albenga, daVado, luogo una volta illustre nella riviera occidentaledi Genova, e da Alba; a Cremona da Reggio, da Piacen-za, da Parma, da Modena. In Firenze eravi scuola per lealtre città di Toscana; in Fermo per le città del ducato diSpoleti. A Verona dovean raccogliersi que' di Mantova edi Trento; a Vicenza que' di Padova, di Treviso, di Fel-tre, di Ceneda, di Asolo. Le altre città finalmente, cioèquelle del Friuli, dell'Istria, e delle vicine provincie sog-gette all'impero di Lottario dovean radunarsi in Cividaldel Friuli. Delle città soggette al romano pontefice, e di

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solo della stessa città, invece di assoggettarla, comesembrava naturale, a Torino? Per qual ragione ordinareche lo stesso vescovo vi tenga scuola? Io prenderei vo-lentieri a rischiare tai dubbj, se potessi aver fondamentia cui appoggiarmi. Ma per quanto io abbia cercato divenirne in chiaro, confesso che non mi è stato possibilelo scoprire anche una semplice congettura di un tal ordi-ne di Lottario. Non sappiamo nemmeno di certo chi diquesti tempi fosse vescovo in Ivrea, poichè nella seriedell'Ughelli (Ital. Sacra t. 4) vedesi una gran votodall'an. 743, all'an. 844 in cui vescovo d'Ivrea era unGiuseppe, il quale vivea ancora l'an. 853, e non si puòperciò accertare ch'ei fosse il medesimo ch'era vescovoai tempi di cui parliamo. Oltre che di lui ancora appenaaltro sappiamo che il puro nome. Non è dunque possibi-le il far congettura di sorta alcuna su questo punto chepur meriterebbe d'essere diligentemente illustrato. Il ri-manente di questa legge non soffre difficoltà. A Torinodovean andare i giovani da Ventimiglia, da Albenga, daVado, luogo una volta illustre nella riviera occidentaledi Genova, e da Alba; a Cremona da Reggio, da Piacen-za, da Parma, da Modena. In Firenze eravi scuola per lealtre città di Toscana; in Fermo per le città del ducato diSpoleti. A Verona dovean raccogliersi que' di Mantova edi Trento; a Vicenza que' di Padova, di Treviso, di Fel-tre, di Ceneda, di Asolo. Le altre città finalmente, cioèquelle del Friuli, dell'Istria, e delle vicine provincie sog-gette all'impero di Lottario dovean radunarsi in Cividaldel Friuli. Delle città soggette al romano pontefice, e di

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quelle che componeano il ducato di Benevento, qui nonragionasi, essendo formato il decreto solo per le cittàcomprese nel regno d'Italia.

XIX. Chi fossero i professori nelle altre cit-tà, non ce n'è rimasta memoria. Solo quel diPavia si nomina in questa legge, cioè Dun-galo, di cui perciò ci convien dare qualchepiù distinta contezza. E Muratori ha pubbli-

cato un Catalogo de' libri che anticamente conservavan-si nel celebre monastero di Bobbio, scritto, com'eglipensa, nel X secolo (Antiq. Ital. t. 3, diss. 43, p. 817). Inesso non sol si registrano i libri, ma si nominano quelliancora da cui eransi ricevuti in dono, e tra questi veg-giam nominato Dungalo in questa maniera: Item de li-bris quos Dungalus praecipuus Scotorum obtulit beatis-simo Columbano, cioè a quel monastero fondato da s.Colombano. Or questi perchè non crederem noi che fos-se quel Dungalo stesso che teneva scuola in Pavia?L'identità del nome, il tempo in cui fu scritto il Catalo-go, la non molta distanza tra Pavia e Bobbio, ci rendonoquesta opinione probabile assai. Era dunque scozzese ilprofessor di Pavia, e quindi alcuni hanno pensato ch'eifosse uno di que' venditori della sapienza, che, secondoil racconto del monaco di s. Gallo venuto innanzi a Car-lo Magno fu da lui inviato a Pavia. Ma oltre ciò che noiabbiam di sopra recato a confutare un tal fatto, osservail Muratori (l. c.), che la venuta del dotto Scozzese, che

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Chi fosseDungalonominatoprofessorein Pavia.

quelle che componeano il ducato di Benevento, qui nonragionasi, essendo formato il decreto solo per le cittàcomprese nel regno d'Italia.

XIX. Chi fossero i professori nelle altre cit-tà, non ce n'è rimasta memoria. Solo quel diPavia si nomina in questa legge, cioè Dun-galo, di cui perciò ci convien dare qualchepiù distinta contezza. E Muratori ha pubbli-

cato un Catalogo de' libri che anticamente conservavan-si nel celebre monastero di Bobbio, scritto, com'eglipensa, nel X secolo (Antiq. Ital. t. 3, diss. 43, p. 817). Inesso non sol si registrano i libri, ma si nominano quelliancora da cui eransi ricevuti in dono, e tra questi veg-giam nominato Dungalo in questa maniera: Item de li-bris quos Dungalus praecipuus Scotorum obtulit beatis-simo Columbano, cioè a quel monastero fondato da s.Colombano. Or questi perchè non crederem noi che fos-se quel Dungalo stesso che teneva scuola in Pavia?L'identità del nome, il tempo in cui fu scritto il Catalo-go, la non molta distanza tra Pavia e Bobbio, ci rendonoquesta opinione probabile assai. Era dunque scozzese ilprofessor di Pavia, e quindi alcuni hanno pensato ch'eifosse uno di que' venditori della sapienza, che, secondoil racconto del monaco di s. Gallo venuto innanzi a Car-lo Magno fu da lui inviato a Pavia. Ma oltre ciò che noiabbiam di sopra recato a confutare un tal fatto, osservail Muratori (l. c.), che la venuta del dotto Scozzese, che

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Chi fosseDungalonominatoprofessorein Pavia.

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si suppone mandato a Pavia da Carlo, non potè accaderedopo l'an. 780, e che non sembra probabile che questifosse quel Dungalo medesimo che teneva scuola in Pa-via dopo l'an. 823, e inoltre nella legge mentovata diLottario si parla di Dungalo, e degli aitri professori,come d'uomini a tal impiego destinati dallo stesso Lotta-rio: qui nostra dispositione artem docentes alios... suntconstituti. Dungalo dunque fu probabilmente mandatoin Italia verso il tempo medesimo in cui fu pubblicata ladetta legge.

XX. Due altre quistioni ci si offrono a esa-minare intorno a questo professor di Pavia;cioè s'ei sia quello stesso Dungalo a cuiveggiam attribuite alcune opere; e s'ei fossemonaco. Abbiamo in primo luogo una lungalettera scritta l'an. 811 da Dungalo a CarloMagno, il quale per mezzo di Valdone abate

di s. Dionigi presso Parigi aveal richiesto della ragionedi due ecclissi solari che dicevansi nel precedente annoseguite (Dacher. Spicil. t. 3, p. 324, sec. ed.), nella quallettera ei mostra di avere un assai mediocre notizia diastronomia, qual era quella che allor n'aveano anche ipiù dotti. Il p. Mabillon riflettendo che in essa Dungaloprende il titolo di Rinchiuso, ne, congettura (Ann. be-ned. t. 2, l. 30 n. 3) ch'ei fosse o monaco dello stessomonastero di s. Dionigi, o ritirato a più solitaria vitapresso il medesimo monastero e detto perciò Rinchiuso.

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S'ei sia lo stesso di cui si ha una lettera a Carlo Magno so-pra le ec-clissi.

si suppone mandato a Pavia da Carlo, non potè accaderedopo l'an. 780, e che non sembra probabile che questifosse quel Dungalo medesimo che teneva scuola in Pa-via dopo l'an. 823, e inoltre nella legge mentovata diLottario si parla di Dungalo, e degli aitri professori,come d'uomini a tal impiego destinati dallo stesso Lotta-rio: qui nostra dispositione artem docentes alios... suntconstituti. Dungalo dunque fu probabilmente mandatoin Italia verso il tempo medesimo in cui fu pubblicata ladetta legge.

XX. Due altre quistioni ci si offrono a esa-minare intorno a questo professor di Pavia;cioè s'ei sia quello stesso Dungalo a cuiveggiam attribuite alcune opere; e s'ei fossemonaco. Abbiamo in primo luogo una lungalettera scritta l'an. 811 da Dungalo a CarloMagno, il quale per mezzo di Valdone abate

di s. Dionigi presso Parigi aveal richiesto della ragionedi due ecclissi solari che dicevansi nel precedente annoseguite (Dacher. Spicil. t. 3, p. 324, sec. ed.), nella quallettera ei mostra di avere un assai mediocre notizia diastronomia, qual era quella che allor n'aveano anche ipiù dotti. Il p. Mabillon riflettendo che in essa Dungaloprende il titolo di Rinchiuso, ne, congettura (Ann. be-ned. t. 2, l. 30 n. 3) ch'ei fosse o monaco dello stessomonastero di s. Dionigi, o ritirato a più solitaria vitapresso il medesimo monastero e detto perciò Rinchiuso.

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S'ei sia lo stesso di cui si ha una lettera a Carlo Magno so-pra le ec-clissi.

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Il Muratori pensa al contrario, che questa lettera nondalla Francia, ma dall'Italia fosse scritta a Carlo Magno(l. c. p. 818), e s'appoggia singolarmente a queste paro-le: "in ista terram qua nunc Deo donante Franci domi-nantur, ab initio mundi talis rex et talis princeps nun-quam visus est... sicut noster dominus Augustus Caro-lus"; parole che sembrano dinotare che il paese in cuiegli scriveva, fosse non molto prima passato sotto il do-minio da' re francesi. Ma a dir vero non parmi questo ar-gomento abbastanza forte a provarlo. La Francia dalprincipio del mondo sino a questi tempi avea avuti moltialtri padroni prima de' re francesi, e potea perciò direDungalo, che allor i monarchi francesi ne aveano la si-gnoria; e inoltre negli scrittori di questi tempi non con-vien supporre una sì scrupolosa esattezza nello scrivere,che da una sola paroletta, qual è la voce nunc, si possain cosa dubbiosa accertare un senso a preferenza di unaltro. E certo non mi sembra probabile che Carlo Magnovolesse a uno che soggiornava in Italia, chiedere lo scio-glimento di tal quistioni per mezzo dell'abate di s. Dio-nigi. Quindi se il Dungalo autore di questa lettera è lostesso che il professor di Pavia, di che poscia ragionere-mo, deesi credere verisimilmente ch'ei fosse allora inFrancia, e che vi menasse quella vita solitaria che pro-pria era de' monaci detti Rinchiusi, e che ne fosse poitratto da Lottario per mandarlo in Italia.

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Il Muratori pensa al contrario, che questa lettera nondalla Francia, ma dall'Italia fosse scritta a Carlo Magno(l. c. p. 818), e s'appoggia singolarmente a queste paro-le: "in ista terram qua nunc Deo donante Franci domi-nantur, ab initio mundi talis rex et talis princeps nun-quam visus est... sicut noster dominus Augustus Caro-lus"; parole che sembrano dinotare che il paese in cuiegli scriveva, fosse non molto prima passato sotto il do-minio da' re francesi. Ma a dir vero non parmi questo ar-gomento abbastanza forte a provarlo. La Francia dalprincipio del mondo sino a questi tempi avea avuti moltialtri padroni prima de' re francesi, e potea perciò direDungalo, che allor i monarchi francesi ne aveano la si-gnoria; e inoltre negli scrittori di questi tempi non con-vien supporre una sì scrupolosa esattezza nello scrivere,che da una sola paroletta, qual è la voce nunc, si possain cosa dubbiosa accertare un senso a preferenza di unaltro. E certo non mi sembra probabile che Carlo Magnovolesse a uno che soggiornava in Italia, chiedere lo scio-glimento di tal quistioni per mezzo dell'abate di s. Dio-nigi. Quindi se il Dungalo autore di questa lettera è lostesso che il professor di Pavia, di che poscia ragionere-mo, deesi credere verisimilmente ch'ei fosse allora inFrancia, e che vi menasse quella vita solitaria che pro-pria era de' monaci detti Rinchiusi, e che ne fosse poitratto da Lottario per mandarlo in Italia.

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XXI. L'altra opera che ha per autore Dunga-lo, è un libro in difesa delle sacre immaginicontro Claudio vesc. di Torino (Bibl. PP.lugd. t. 14). Il p. Mabillon osserva che Dun-galo vi fa menzione di un sinodo tenuto su

questo argomento due anni innanzi: "De hac igitur ima-ginum pictarum ratione.... inquisitio diligentius ante, utreor, biennium apud gloriosissimos et religiosissimosprincipes habita est in palatio": e crede perciò, che qui siragioni del sinodo tenuto in Parigi l'an. 825 sul cultodelle immagini (l. c.). Ma io temo che questo dottiss. au-tore non abbia posta mente a una riflessione che ci of-frono le stesse parole. Il sinodo o la conferenza di cuiparla Dungalo, fu tenuto in presenza degl'imperadoriLodovico e Lottario: apud gloriosissimos et religiosissi-mos principes. Or questi non sembra che intervenisseroal sinodo di Parigi, perciocchè i vescovi che l'aveancomposto, scrivendo loro per darne ad essi ragguaglio,mostrano chiaramente che i due principi non vi eranostati presenti. "Nos servi ac fidelissimi oratores vestriqualiter proximis kalendis novembris apud Parisiorumurbem juxta praeceptum vestrae magnitudinis in unumconvenimus, ec." (Collect. Conc. t. 14, p. 421 ed. ven.1769). E quindi sieguono a dire che hanno incaricatodue de' lor confratelli Aligario e Amalario di recareagl'imperadori medesimi gli Atti di quel concilio. Sedunque il sinodo di cui parla Dungalo, fu celebrato inpresenza de' principi, esso non fu il sinodo dell'an. 825,a cui niun di loro intervenne. Ma ciò poco monta al no-

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Sua opera in difesa delle sacre immagini.

XXI. L'altra opera che ha per autore Dunga-lo, è un libro in difesa delle sacre immaginicontro Claudio vesc. di Torino (Bibl. PP.lugd. t. 14). Il p. Mabillon osserva che Dun-galo vi fa menzione di un sinodo tenuto su

questo argomento due anni innanzi: "De hac igitur ima-ginum pictarum ratione.... inquisitio diligentius ante, utreor, biennium apud gloriosissimos et religiosissimosprincipes habita est in palatio": e crede perciò, che qui siragioni del sinodo tenuto in Parigi l'an. 825 sul cultodelle immagini (l. c.). Ma io temo che questo dottiss. au-tore non abbia posta mente a una riflessione che ci of-frono le stesse parole. Il sinodo o la conferenza di cuiparla Dungalo, fu tenuto in presenza degl'imperadoriLodovico e Lottario: apud gloriosissimos et religiosissi-mos principes. Or questi non sembra che intervenisseroal sinodo di Parigi, perciocchè i vescovi che l'aveancomposto, scrivendo loro per darne ad essi ragguaglio,mostrano chiaramente che i due principi non vi eranostati presenti. "Nos servi ac fidelissimi oratores vestriqualiter proximis kalendis novembris apud Parisiorumurbem juxta praeceptum vestrae magnitudinis in unumconvenimus, ec." (Collect. Conc. t. 14, p. 421 ed. ven.1769). E quindi sieguono a dire che hanno incaricatodue de' lor confratelli Aligario e Amalario di recareagl'imperadori medesimi gli Atti di quel concilio. Sedunque il sinodo di cui parla Dungalo, fu celebrato inpresenza de' principi, esso non fu il sinodo dell'an. 825,a cui niun di loro intervenne. Ma ciò poco monta al no-

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Sua opera in difesa delle sacre immagini.

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stro argomento. Certo che questo libro fu scritto nonmolto dopo l'an. 820, perciocchè Dungalo, favellandodella novità dell'opinione di Claudio, dice essere cosastrana che si prenda a combattere ciò che nella Chiesa siè usato per annos ferme DCCCXX, aut eo amplius.Quindi se il Dungalo autor di questo libro è lo stessoche il professor di Pavia, a me par probabile ch'ei loscrivesse prima di passare in Italia. In fatti benchè Clau-dio fosse vescovo di Torino, noi non veggiamo che i li-bri da lui pubblicati contro le sacre immagini eccitasseroalcun rumore in Italia, ove nè si tenne per lui concilio,nè vi fu chi prendesse a confutarne gli errori. Ben l'ecci-tarono in Francia, dove contro di lui impugnaron la pen-na l'abate Teodomiro, e Giona vescovo d'Orleans e,come io penso, lo stesso Dungalo. Della Francia dunquepiù verisimilmente che dell'Italia si debbon intenderequelle parole di questo scrittore: ante jam dudum ex quoin hanc terram adveneram, ed esse sono, perciò un nonispregevole argomento a pensare che questi fosse ap-punto quello stesso Dungalo scozzese che passò posciaa Pavia, e che al monastero di Bobbio fece la donazionedella sua biblioteca.

XXII. Abbiam finalmente un componi-mento in versi in lode di Carlo Magno,nel quale l'autore, di cui, non si esprime ilnome, si dà il titolo di esule dall'Ibernia:

Hos Carolo regi versus Hibernicus, exul, ec.

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Probabilmentesi debban di-stinguere due Dungali.

stro argomento. Certo che questo libro fu scritto nonmolto dopo l'an. 820, perciocchè Dungalo, favellandodella novità dell'opinione di Claudio, dice essere cosastrana che si prenda a combattere ciò che nella Chiesa siè usato per annos ferme DCCCXX, aut eo amplius.Quindi se il Dungalo autor di questo libro è lo stessoche il professor di Pavia, a me par probabile ch'ei loscrivesse prima di passare in Italia. In fatti benchè Clau-dio fosse vescovo di Torino, noi non veggiamo che i li-bri da lui pubblicati contro le sacre immagini eccitasseroalcun rumore in Italia, ove nè si tenne per lui concilio,nè vi fu chi prendesse a confutarne gli errori. Ben l'ecci-tarono in Francia, dove contro di lui impugnaron la pen-na l'abate Teodomiro, e Giona vescovo d'Orleans e,come io penso, lo stesso Dungalo. Della Francia dunquepiù verisimilmente che dell'Italia si debbon intenderequelle parole di questo scrittore: ante jam dudum ex quoin hanc terram adveneram, ed esse sono, perciò un nonispregevole argomento a pensare che questi fosse ap-punto quello stesso Dungalo scozzese che passò posciaa Pavia, e che al monastero di Bobbio fece la donazionedella sua biblioteca.

XXII. Abbiam finalmente un componi-mento in versi in lode di Carlo Magno,nel quale l'autore, di cui, non si esprime ilnome, si dà il titolo di esule dall'Ibernia:

Hos Carolo regi versus Hibernicus, exul, ec.

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Probabilmentesi debban di-stinguere due Dungali.

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(Martene Collect. ampliss. t. 6, p. 811)

e di cui perciò congetturarono i Maurini autori dellaStoria letteraria di Francia (t. 4, p. 497), che sia autorelo stesso Dungalo, come pure di alcune delle altre poe-sie che ad esso veggonsi aggiunte. Tra essi vi son elogidi alcuni abati del monastero di s. Dionigi, e quello an-cora dello stesso Dungalo, e sembra perciò, che nel mo-nastero medesimo fosser composti que' versi, e che ivinon sol vivesse, ma morisse ancor quel Dungalo di cuiveggiamo farsi l'elogio. Da tutte queste osservazionirendesi così difficile l'accertare ciò che appartiene aquesto celebre uomo, che appena si può sperar di for-marne qualche probabile congettura. Se debbo dire ciòch'io ne sento, a me pare che due Dungali si debbanoammettere vissuti al tempo medesimo. Il Dungalo ch'erain Pavia, e passò poscia al monastero di Bobbio, era cer-tamente scozzese, come è evidente dalle già recate paro-le: Dungalus Scotorum praecipuus: e questi è probabil-mente quel Dungalo medesimo che venuto prima inFrancia vi scrisse il libro contro Claudio vescovo di To-rino, come abbiam dimostrato, poscia passò in Italia, etenne per qualche tempo scuola in Pavia; e finalmenteritirossi al monastero di Bobbio, come ricavasi non solodalle parole sopraccitate, ma più chiaramente ancora daalcuni versi che veggonsi in un antichissimo codice cheprima era del detto monastero di Bobbio, ed ora conser-vasi nella celebre biblioteca ambrosiana in Milano. Inessi Dungalo facendo dono a s. Colombano (che allor

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(Martene Collect. ampliss. t. 6, p. 811)

e di cui perciò congetturarono i Maurini autori dellaStoria letteraria di Francia (t. 4, p. 497), che sia autorelo stesso Dungalo, come pure di alcune delle altre poe-sie che ad esso veggonsi aggiunte. Tra essi vi son elogidi alcuni abati del monastero di s. Dionigi, e quello an-cora dello stesso Dungalo, e sembra perciò, che nel mo-nastero medesimo fosser composti que' versi, e che ivinon sol vivesse, ma morisse ancor quel Dungalo di cuiveggiamo farsi l'elogio. Da tutte queste osservazionirendesi così difficile l'accertare ciò che appartiene aquesto celebre uomo, che appena si può sperar di for-marne qualche probabile congettura. Se debbo dire ciòch'io ne sento, a me pare che due Dungali si debbanoammettere vissuti al tempo medesimo. Il Dungalo ch'erain Pavia, e passò poscia al monastero di Bobbio, era cer-tamente scozzese, come è evidente dalle già recate paro-le: Dungalus Scotorum praecipuus: e questi è probabil-mente quel Dungalo medesimo che venuto prima inFrancia vi scrisse il libro contro Claudio vescovo di To-rino, come abbiam dimostrato, poscia passò in Italia, etenne per qualche tempo scuola in Pavia; e finalmenteritirossi al monastero di Bobbio, come ricavasi non solodalle parole sopraccitate, ma più chiaramente ancora daalcuni versi che veggonsi in un antichissimo codice cheprima era del detto monastero di Bobbio, ed ora conser-vasi nella celebre biblioteca ambrosiana in Milano. Inessi Dungalo facendo dono a s. Colombano (che allor

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chiamavasi anche Colomba) di quel suo codice cosìdice: Sancte Columba tibi Scotto tuus incola Dungal Tradidit hunc librum, quo fratrum corda beentur (Murat. Antiq. Ital. t. 3, p. 826).

E che questi appunto fosse l'oppugnatore di Claudio,rendesi ancora più verisimile dal vedere che tra' libri dalui donati a quel monastero avvi quello ancor di Dunga-lo contro di Claudio: Liber Dungali contra perversasClaudii sententias. L'altro Dungalo è il monaco rinchiu-so presso s. Dionigi, autore della Lettera sull'Ecclissi aCarlo Magno. A lui appartiene probabilmente l'elogiopubblicato dal p. Martene (l. c.): e se un Dungalo è vera-mente l'autore de' versi mentovati di sopra in lode diCarlo Magno, è verisimile, ch'ei fosse il monaco di s.Dionigi; e in tal caso converrà dire che ei fosse ibernese,chiamandosi egli stesso Hibernicus exsul. Ove avvertasiche queste parole non solo non provano che ei fosse lostesso Dungalo scozzese che visse poi in Italia, ma anzici convincono ch'egli era da lui diverso; perciocchè es-sendo allora la Gran Bretragna divisa in molti piccoli re-gni, non potevano l'Ibernia e la Scozia considerarsicome un sol regno, e chiamarsi perciò promiscuamente iloro abitatori ora Ibernesi, ora Scozzesi. Ma di Dungalobasti aver detto fin qui, di cui sarebbe a bramare che cifosser rimaste più copiose notizie per meglio conoscereun uomo di cui molta dovea a que' tempi esser la fama,sicchè se ne facesse menzione espressa nella arrecata

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chiamavasi anche Colomba) di quel suo codice cosìdice: Sancte Columba tibi Scotto tuus incola Dungal Tradidit hunc librum, quo fratrum corda beentur (Murat. Antiq. Ital. t. 3, p. 826).

E che questi appunto fosse l'oppugnatore di Claudio,rendesi ancora più verisimile dal vedere che tra' libri dalui donati a quel monastero avvi quello ancor di Dunga-lo contro di Claudio: Liber Dungali contra perversasClaudii sententias. L'altro Dungalo è il monaco rinchiu-so presso s. Dionigi, autore della Lettera sull'Ecclissi aCarlo Magno. A lui appartiene probabilmente l'elogiopubblicato dal p. Martene (l. c.): e se un Dungalo è vera-mente l'autore de' versi mentovati di sopra in lode diCarlo Magno, è verisimile, ch'ei fosse il monaco di s.Dionigi; e in tal caso converrà dire che ei fosse ibernese,chiamandosi egli stesso Hibernicus exsul. Ove avvertasiche queste parole non solo non provano che ei fosse lostesso Dungalo scozzese che visse poi in Italia, ma anzici convincono ch'egli era da lui diverso; perciocchè es-sendo allora la Gran Bretragna divisa in molti piccoli re-gni, non potevano l'Ibernia e la Scozia considerarsicome un sol regno, e chiamarsi perciò promiscuamente iloro abitatori ora Ibernesi, ora Scozzesi. Ma di Dungalobasti aver detto fin qui, di cui sarebbe a bramare che cifosser rimaste più copiose notizie per meglio conoscereun uomo di cui molta dovea a que' tempi esser la fama,sicchè se ne facesse menzione espressa nella arrecata

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legge dell'imp. Lottario.

XXIII. Questa legge, su cui ci siamo finortrattenuti pubblicata da Lottario, diede for-se occasione a un canone del Concilio ro-mano raccolto da Eugenio II l'an. 816, incui que' Padri, dopo aver detto che in mol-

ti luoghi non vi eran maestri, e che le lettere erano tra-scurate, comandano che in ciaschedun vescovado, eovunque faccia bisogno, si stabiliscano professori cheistruiscano i giovani nelle belle arti: "De quibusdam lo-cis ad nos refertur, non magistros, neque curam inveniripro studio literarum. Idcirco in universis episcopiis sub-jectisque plebibus et aliis locis in quibus necessitas oc-currerit, omnino cura et diligentia habeatur, ut magistriet doctores constituantur, qui studia literarum libera-liumque artium, ac sancta habentes dogmata, assiduedoceant, quia in his maxime divina manifestantur atquedeclarantur mandata" (V. Baron. Ann. eccl. ad an. 816;et Collect. Conc. t. 14, p. 1008 ed. ven. 1769). In tal ma-niera l'ecclesiastica e la civile autorità si univano insie-me a procurare il dirozzamento de' popoli; e i tempi po-tean sembrare a ciò favorevoli; poichè l'Italia godevacomunemente allora di una tranquilla pace opportuna acoltivare gli studj. Ma la barbarie, l'ignoranza, e il di-sprezzo della letteratura avean talmente già da più secolioccupato l'animo della maggior parte degl'Italiani, e lascarsezza de' libri, e quindi quella ancor maggiore degli

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Leggi eccle-siastiche per le scuole dei chierici.

legge dell'imp. Lottario.

XXIII. Questa legge, su cui ci siamo finortrattenuti pubblicata da Lottario, diede for-se occasione a un canone del Concilio ro-mano raccolto da Eugenio II l'an. 816, incui que' Padri, dopo aver detto che in mol-

ti luoghi non vi eran maestri, e che le lettere erano tra-scurate, comandano che in ciaschedun vescovado, eovunque faccia bisogno, si stabiliscano professori cheistruiscano i giovani nelle belle arti: "De quibusdam lo-cis ad nos refertur, non magistros, neque curam inveniripro studio literarum. Idcirco in universis episcopiis sub-jectisque plebibus et aliis locis in quibus necessitas oc-currerit, omnino cura et diligentia habeatur, ut magistriet doctores constituantur, qui studia literarum libera-liumque artium, ac sancta habentes dogmata, assiduedoceant, quia in his maxime divina manifestantur atquedeclarantur mandata" (V. Baron. Ann. eccl. ad an. 816;et Collect. Conc. t. 14, p. 1008 ed. ven. 1769). In tal ma-niera l'ecclesiastica e la civile autorità si univano insie-me a procurare il dirozzamento de' popoli; e i tempi po-tean sembrare a ciò favorevoli; poichè l'Italia godevacomunemente allora di una tranquilla pace opportuna acoltivare gli studj. Ma la barbarie, l'ignoranza, e il di-sprezzo della letteratura avean talmente già da più secolioccupato l'animo della maggior parte degl'Italiani, e lascarsezza de' libri, e quindi quella ancor maggiore degli

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Leggi eccle-siastiche per le scuole dei chierici.

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uomini dotti rendea sì difficile il far cambiare, dirò così,sistema e modo di pensare a tutta la nazione, che appenasi vide alcun effetto di sì lodevoli e sì efficaci premure.In fatti in un altro concilio tenuto in Roma dal pontef.Leone IV l'an. 853, in cui confermati furono i decreti delsinodo precedente, e aggiuntavi qualche dichiarazione,al decreto da noi riferito furono aggiunte le seguenti pa-role: "Etsi liberalium artium praeceptores in plebibus, utassolet, raro inveniantur, tamen Divinae Scripturae ma-gistri et institutores ecclesiastici officii nullatenus de-sint, ec." (Collect. Conc. ib. p. 1014); dal che veggiamoche difficile era il trovar maestri per ciascheduna par-rocchia, e che perciò la sollecitudine de' Padri si ristrin-geva a fare che non mancassero almeno alcuni cheistruissero i giovani ecclesiastici nello studio della SacraScrittura e nella celebrazione de' Divini Ufficj. In Romaperò dovean essere in qualche migliore stato le scuoledestinate all'istruzion di coloro che doveansi arrolare nelclero. Veggiamo in fatti che Anastasio bibliotecario faspesso menzione delle scuole della basilica lateranense,e che in esse egli dice che furon ammaestrati nellescienze sacre molti di que' romani pontefici di questaetà, del quali egli scrive la Vita (in Vit. Leon. III, Pasch.I, Steph. IV); e di Leone IV racconta che fu istruito nellelettere nel monastero di s. Martino, ch'era fuor dellemura presso la basilica di s. Pietro. Ed è ancor verisimi-le che secondo il costume di questi tempi in altri mona-steri ancora fossero cotali scuole.

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uomini dotti rendea sì difficile il far cambiare, dirò così,sistema e modo di pensare a tutta la nazione, che appenasi vide alcun effetto di sì lodevoli e sì efficaci premure.In fatti in un altro concilio tenuto in Roma dal pontef.Leone IV l'an. 853, in cui confermati furono i decreti delsinodo precedente, e aggiuntavi qualche dichiarazione,al decreto da noi riferito furono aggiunte le seguenti pa-role: "Etsi liberalium artium praeceptores in plebibus, utassolet, raro inveniantur, tamen Divinae Scripturae ma-gistri et institutores ecclesiastici officii nullatenus de-sint, ec." (Collect. Conc. ib. p. 1014); dal che veggiamoche difficile era il trovar maestri per ciascheduna par-rocchia, e che perciò la sollecitudine de' Padri si ristrin-geva a fare che non mancassero almeno alcuni cheistruissero i giovani ecclesiastici nello studio della SacraScrittura e nella celebrazione de' Divini Ufficj. In Romaperò dovean essere in qualche migliore stato le scuoledestinate all'istruzion di coloro che doveansi arrolare nelclero. Veggiamo in fatti che Anastasio bibliotecario faspesso menzione delle scuole della basilica lateranense,e che in esse egli dice che furon ammaestrati nellescienze sacre molti di que' romani pontefici di questaetà, del quali egli scrive la Vita (in Vit. Leon. III, Pasch.I, Steph. IV); e di Leone IV racconta che fu istruito nellelettere nel monastero di s. Martino, ch'era fuor dellemura presso la basilica di s. Pietro. Ed è ancor verisimi-le che secondo il costume di questi tempi in altri mona-steri ancora fossero cotali scuole.

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XXIV. Dopo Lottario non troviam più mo-numento alcuno in quest'epoca, che ci mo-stri gl'imperadori, o i re d'Italia, che gli suc-cederono, solleciti del rifiorimento deglistudj e delle belle arti. Lottario rimasto solo

imperadore e re d'Italia insieme l'an. 840 in cui morì Lo-dovico il Pio, l'an. 844 diede il regno d'Italia a LodovicoII suo primogenito, il quale l'an. 850 ebbe ancora la co-rona imperiale. L'an. 855 morì Lottario, e l'an. 875 Lo-dovico II. Carlo Calvo altro figliuolo di Lodovico il Piogli succedette nell'impero e nel regno d'Italia; ma duesoli anni vi si mantenne, morto l'an. 877 mentre Carlo-manno di lui nipote rivoltoglisi contro gli toglieva l'Ita-lia. Questi ancora però assai poco tempo godette delconquistato suo regno, morto l'an. 880. Carlo sopranno-minato il Grosso di lui fratello, coronato prima re d'Ita-lia e poscia l'anno seguente imperadore, e quindi ancorre, di Francia l'an. 885, morì l'an. 888, ultimo della ma-schile legittima discendenza di Carlo Magno. Di tutti iprincipi mentovati non v'ebbe alcuno, come abbiam det-to, che pensasse a far risorger l'Italia all'antiche sue glo-rie in ciò che appartiene alle lettere; e le quasi continuedissensioni ch'ebbero co' lor fratelli e co' lor più strettiparenti, appena avrebbon loro permesso il rivolgere aciò il pensiero, quando pure l'avesser voluto. Ciò nonostante, come osserva il ch. Muratori (Ann. d'Ital. an.888), la maggior parte d'Italia avea goduto sotto il lorogoverno di una tranquilla lietissima pace. Ma dopo lamorte di Carlo il Grosso le guerre civili, e la scostuma-

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Scarso frut-to da questieditti rac-colto.

XXIV. Dopo Lottario non troviam più mo-numento alcuno in quest'epoca, che ci mo-stri gl'imperadori, o i re d'Italia, che gli suc-cederono, solleciti del rifiorimento deglistudj e delle belle arti. Lottario rimasto solo

imperadore e re d'Italia insieme l'an. 840 in cui morì Lo-dovico il Pio, l'an. 844 diede il regno d'Italia a LodovicoII suo primogenito, il quale l'an. 850 ebbe ancora la co-rona imperiale. L'an. 855 morì Lottario, e l'an. 875 Lo-dovico II. Carlo Calvo altro figliuolo di Lodovico il Piogli succedette nell'impero e nel regno d'Italia; ma duesoli anni vi si mantenne, morto l'an. 877 mentre Carlo-manno di lui nipote rivoltoglisi contro gli toglieva l'Ita-lia. Questi ancora però assai poco tempo godette delconquistato suo regno, morto l'an. 880. Carlo sopranno-minato il Grosso di lui fratello, coronato prima re d'Ita-lia e poscia l'anno seguente imperadore, e quindi ancorre, di Francia l'an. 885, morì l'an. 888, ultimo della ma-schile legittima discendenza di Carlo Magno. Di tutti iprincipi mentovati non v'ebbe alcuno, come abbiam det-to, che pensasse a far risorger l'Italia all'antiche sue glo-rie in ciò che appartiene alle lettere; e le quasi continuedissensioni ch'ebbero co' lor fratelli e co' lor più strettiparenti, appena avrebbon loro permesso il rivolgere aciò il pensiero, quando pure l'avesser voluto. Ciò nonostante, come osserva il ch. Muratori (Ann. d'Ital. an.888), la maggior parte d'Italia avea goduto sotto il lorogoverno di una tranquilla lietissima pace. Ma dopo lamorte di Carlo il Grosso le guerre civili, e la scostuma-

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Scarso frut-to da questieditti rac-colto.

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tezza, la barbarie, l'ignoranza che ne soglion esser gli ef-fetti, la gittaron di nuovo in quel profondo di calamità edi sciagure d'ogni maniera, da cui ella cominciava omaia sperare di essere uscita. In tal maniera le sollecitudinie le premure di Carlo Magno, di Lottario I, e de' romanipontefici, per far in essa risorger le scienze che per le ra-gioni di sopra arrecate non avean avuto quel felice suc-cesso ch'era a sperarne, furono dalle funeste sventure dacui poscia venne travagliata l'Italia, rese del tutto inutilie infruttuose.

XXV. La prima guerra civile che si ac-cese in Italia, fu tra Berengario duca delFriuli e Guido duca di Spoleti. Amenduepretesero di occuparne il regno; amen-due per ottenerlo cercaron l'aiuto, il pri-

mo di Arnolfo re di Germania, il secondo del pontef.Stefano V; amendue radunarono truppe, e vennero adaperta guerra. Guido ottenne ancora dal papa la coronaimperiale, cui l'an. 892 divise col suo figluiolo Lamber-to che due anni dopo perdette il padre. Arnolfo chiamatoin Italia in suo aiuto da Berengario, fece sempre piùvivo il fuoco della discordia, e riempì ogni parte di rovi-ne e di stragi; ma più intento a' suoi vantaggi che a que'di Berengario, conquistò per se stesso molte città, si fe'coronare imperadore, e tenne ancora, benchè per brevetempo, prigione il medesimo Berengario. La morte diLamberto seguita l'an. 898, e quella di Arnolfo che

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Continuazione degl'imperadori e de' re di Italia fino a Rodolfo diBorgogna.

tezza, la barbarie, l'ignoranza che ne soglion esser gli ef-fetti, la gittaron di nuovo in quel profondo di calamità edi sciagure d'ogni maniera, da cui ella cominciava omaia sperare di essere uscita. In tal maniera le sollecitudinie le premure di Carlo Magno, di Lottario I, e de' romanipontefici, per far in essa risorger le scienze che per le ra-gioni di sopra arrecate non avean avuto quel felice suc-cesso ch'era a sperarne, furono dalle funeste sventure dacui poscia venne travagliata l'Italia, rese del tutto inutilie infruttuose.

XXV. La prima guerra civile che si ac-cese in Italia, fu tra Berengario duca delFriuli e Guido duca di Spoleti. Amenduepretesero di occuparne il regno; amen-due per ottenerlo cercaron l'aiuto, il pri-

mo di Arnolfo re di Germania, il secondo del pontef.Stefano V; amendue radunarono truppe, e vennero adaperta guerra. Guido ottenne ancora dal papa la coronaimperiale, cui l'an. 892 divise col suo figluiolo Lamber-to che due anni dopo perdette il padre. Arnolfo chiamatoin Italia in suo aiuto da Berengario, fece sempre piùvivo il fuoco della discordia, e riempì ogni parte di rovi-ne e di stragi; ma più intento a' suoi vantaggi che a que'di Berengario, conquistò per se stesso molte città, si fe'coronare imperadore, e tenne ancora, benchè per brevetempo, prigione il medesimo Berengario. La morte diLamberto seguita l'an. 898, e quella di Arnolfo che

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Continuazione degl'imperadori e de' re di Italia fino a Rodolfo diBorgogna.

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l'anno seguente gli tenne dietro, pareva che assicurasse-ro a Berengario il pacifico godimento del suo regno. Maun nuovo nemico dovett'egli combattere in Lodovico redi Provenza e poscia anche imperadore, di cui dopo va-rie vicende rimasto pur vincitore l'an. 905 ne tenne tran-quillamente per più anni il dominio, ed ebbe ancora l'an.915 in Roma la corona imperiale. Di questa tregua, percosì dire, si valse egli felicemente insieme col pontef.Giovanni X a combattere i barbari Saracini che già dapiù anni avean cominciato a devastare l'Italia, e vi aveancagionate stragi ed incendj che non si leggono senza or-ror nella storia. Nè qui ebber fine i guai della misera Ita-lia. Oltre i Saracini, gli Ungheri ancora la invasero daaltre parti più volte; e questi respinti prima da Berenga-rio, furon poscia da lui stesso chiamati in aiuto, quandol'an. 921 si vide per congiura de' principali Italiani assa-lito da Rodolfo re della Borgogna Transiurana. I Barbarisceser tosto con possente esercito a invader l'Italia; e ilprimo oggetto della lor crudeltà fu Pavia che presa daessi l'an. 924 fu data alle fiamme con tale strage de' cit-tadini, che per attestato di Frodoardo, scrittore contem-poraneo, dicesi che dugento soli ne campasser la vita.Ma frattanto ucciso nello stesso anno Berengario in Ve-rona, e partiti con ricco bottino gli Ungheri, Rodolfo sivide pacifico possessore del nuovo regno.

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l'anno seguente gli tenne dietro, pareva che assicurasse-ro a Berengario il pacifico godimento del suo regno. Maun nuovo nemico dovett'egli combattere in Lodovico redi Provenza e poscia anche imperadore, di cui dopo va-rie vicende rimasto pur vincitore l'an. 905 ne tenne tran-quillamente per più anni il dominio, ed ebbe ancora l'an.915 in Roma la corona imperiale. Di questa tregua, percosì dire, si valse egli felicemente insieme col pontef.Giovanni X a combattere i barbari Saracini che già dapiù anni avean cominciato a devastare l'Italia, e vi aveancagionate stragi ed incendj che non si leggono senza or-ror nella storia. Nè qui ebber fine i guai della misera Ita-lia. Oltre i Saracini, gli Ungheri ancora la invasero daaltre parti più volte; e questi respinti prima da Berenga-rio, furon poscia da lui stesso chiamati in aiuto, quandol'an. 921 si vide per congiura de' principali Italiani assa-lito da Rodolfo re della Borgogna Transiurana. I Barbarisceser tosto con possente esercito a invader l'Italia; e ilprimo oggetto della lor crudeltà fu Pavia che presa daessi l'an. 924 fu data alle fiamme con tale strage de' cit-tadini, che per attestato di Frodoardo, scrittore contem-poraneo, dicesi che dugento soli ne campasser la vita.Ma frattanto ucciso nello stesso anno Berengario in Ve-rona, e partiti con ricco bottino gli Ungheri, Rodolfo sivide pacifico possessore del nuovo regno.

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XXVI. Egli ancora però appena comin-ciava a goderne, che sel vide tolto daUgo marchese e duca di Provenza, cheinvitato a scendere in Italia contro di Ro-dolfo, il costrinse ad uscirne, e se ne fece

coronare re l'an. 926. Era questi, come narra lo storicoLiutprando (Hist. l. 3, c. 5), di coraggio non meno che disapere assai grande, e amava singolarmente, e in moltemaniere onorava i filosofi. Liutprando, come a suo luo-go vedremo, era stato in età fanciullesca alla corte diquesto principe; e forse egli scrisse così per adulare al-quanto l'antico suo signore. Certo noi non veggiamo cheUgo facesse cosa alcuna a pro delle lettere; e se eglionorava i filosofi, io temo assai ch'ei non trovasse alcu-no in Italia a cui poter compartir cotali onori. L'an. 931ei dichiarò suo collega il suo figliuolo Lottario. Beren-gario marchese d'Ivrea chiamato da molti principi italia-ni si mosse l'an. 945 contro il re Ugo, il quale fu costret-to a cedergli il regno e ad abbandonargli nelle mani ilsuo figliuolo Lottario. Berengario però non prese ilnome di re se non l'an. 950 in cui quel giovane ed otti-mo principe finì di vivere. Berengario II allora fece co-ronar seco il suo figliuolo Adalberto. Ma l'an. 951 do-vette dichiararsi vassallo di Ottone I, re di Germania, dacui poscia fu a lui e al figliuolo tolto il regno d'Italia.Ottone I, coronato imperadore in Roma l'an. 962, innal-zò al regno d'Italia Ottone II, suo figliuolo, il quale purel'an. 967 ebbe la corona imperiale. Il padre, principe cheper le grandi virtù di cui diede luminosissimi esempj,

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Continuazione della medesimaserie fino alla morte di OttoneIII.

XXVI. Egli ancora però appena comin-ciava a goderne, che sel vide tolto daUgo marchese e duca di Provenza, cheinvitato a scendere in Italia contro di Ro-dolfo, il costrinse ad uscirne, e se ne fece

coronare re l'an. 926. Era questi, come narra lo storicoLiutprando (Hist. l. 3, c. 5), di coraggio non meno che disapere assai grande, e amava singolarmente, e in moltemaniere onorava i filosofi. Liutprando, come a suo luo-go vedremo, era stato in età fanciullesca alla corte diquesto principe; e forse egli scrisse così per adulare al-quanto l'antico suo signore. Certo noi non veggiamo cheUgo facesse cosa alcuna a pro delle lettere; e se eglionorava i filosofi, io temo assai ch'ei non trovasse alcu-no in Italia a cui poter compartir cotali onori. L'an. 931ei dichiarò suo collega il suo figliuolo Lottario. Beren-gario marchese d'Ivrea chiamato da molti principi italia-ni si mosse l'an. 945 contro il re Ugo, il quale fu costret-to a cedergli il regno e ad abbandonargli nelle mani ilsuo figliuolo Lottario. Berengario però non prese ilnome di re se non l'an. 950 in cui quel giovane ed otti-mo principe finì di vivere. Berengario II allora fece co-ronar seco il suo figliuolo Adalberto. Ma l'an. 951 do-vette dichiararsi vassallo di Ottone I, re di Germania, dacui poscia fu a lui e al figliuolo tolto il regno d'Italia.Ottone I, coronato imperadore in Roma l'an. 962, innal-zò al regno d'Italia Ottone II, suo figliuolo, il quale purel'an. 967 ebbe la corona imperiale. Il padre, principe cheper le grandi virtù di cui diede luminosissimi esempj,

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Continuazione della medesimaserie fino alla morte di OttoneIII.

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ebbe il soprannome di Grande, morì l'an. 973. Ottone II,mentre seguiva le gloriose tracce del padre, fu rapito daimmatura morte in Roma l'an. 983, e lasciò i regni diGermania e Italia al suo figliuolo Ottone III che l'an.996 ebbe anche la corona imperiale. Ma egli ancora inetà giovanile perdette la vita con universal dolore deisudditi l'an. 1002 (23).23 Parlando de' tre Ottoni che nel X sec. furono imperadori e re d'Italia, io

non ho accennato ch'essi fosser punto solleciti di promuover tra noi lo stu-dio delle scienze e delle arti. Ma il ch. dott. Giovanni Lami ha prodotto unpasso (Hodoeporicon pars 1, p. 229) della Cronaca Hirsaugiense del Trite-mio, in cui così dice: Anno Sigerii Abbatis VIII qui a Christo nato DCCC-CLX venerunt Legati Tuscorum ad Ottonem I Imperatorem petentes sibidari aliquem, qui eos in via veritatis instrueret, quibus misit Adelbertumex monacho, Corbejensi episcopum, virum doctum et sanctum qui vix eva-sit manus eorum. E così infatti si legge nell'edizione di quella Cronaca fat-ta in Basilea nel 1559 (p. 41), ove però mancano quelle parole: qui a Chri-sto nato DCCCCLX. Ma nella nuova edizione fatta nel 1690 nel monasterodi s. Gallo, in cui la Cronaca stessa si è pubblicata assai più ampia e piùcorretta, secondo che aveala riveduta ed emendata, anzi piuttosto rifatta lostesso Tritemio, il fatto così si narra (Vol. 1, p. 102) all'an. 959. Anno prae-notato venerunt Legati gentis Russorum ad Imperatorem magnum Otto-nem, postulantes sibi dari aliquem virum doctum qui eos viam veritatis infide Christi doceret, et praesulatum more Christianorum inter illos susci-peret. Quibus imperator justia petentibus facile consentiens Adelbertumquemdam monachum Coenobii Corbejensis in Saxonia virum doctum etsanctum exhibuit, eumque prius ordinari fecit episcopum, hac deinde cumLegatis in Russiam apostolum destinavit, qui multos in terra Russorum,sive Ruthenorum ad fidem Christi exemplo convertit simul et verbo, a qui-bus tamen postea multas injurias sustinuit, et vix manus non credentiumpaganorum evasit. Egli è evidente che nella prima edizione è corsa per er-rore la voce Tuscorum invece di quella di Russorum, e che qui si parla diun popolo ancor idolatra, il che non si può intendere della Toscana. In fattianche il Mabillon parla (Ann. Ord. s. Bened. t. 3, p. 551 ed. Paris. 1706) diquesta spedizione fatta dal monaco Adelberto in Russia, e cita l'autorità diLamberto scafnaburgese, autore del XII secolo, benchè, accenni insiemeche altri il dicon mandato non nella Russia, ma nella Rugia; ma della To-

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ebbe il soprannome di Grande, morì l'an. 973. Ottone II,mentre seguiva le gloriose tracce del padre, fu rapito daimmatura morte in Roma l'an. 983, e lasciò i regni diGermania e Italia al suo figliuolo Ottone III che l'an.996 ebbe anche la corona imperiale. Ma egli ancora inetà giovanile perdette la vita con universal dolore deisudditi l'an. 1002 (23).23 Parlando de' tre Ottoni che nel X sec. furono imperadori e re d'Italia, io

non ho accennato ch'essi fosser punto solleciti di promuover tra noi lo stu-dio delle scienze e delle arti. Ma il ch. dott. Giovanni Lami ha prodotto unpasso (Hodoeporicon pars 1, p. 229) della Cronaca Hirsaugiense del Trite-mio, in cui così dice: Anno Sigerii Abbatis VIII qui a Christo nato DCCC-CLX venerunt Legati Tuscorum ad Ottonem I Imperatorem petentes sibidari aliquem, qui eos in via veritatis instrueret, quibus misit Adelbertumex monacho, Corbejensi episcopum, virum doctum et sanctum qui vix eva-sit manus eorum. E così infatti si legge nell'edizione di quella Cronaca fat-ta in Basilea nel 1559 (p. 41), ove però mancano quelle parole: qui a Chri-sto nato DCCCCLX. Ma nella nuova edizione fatta nel 1690 nel monasterodi s. Gallo, in cui la Cronaca stessa si è pubblicata assai più ampia e piùcorretta, secondo che aveala riveduta ed emendata, anzi piuttosto rifatta lostesso Tritemio, il fatto così si narra (Vol. 1, p. 102) all'an. 959. Anno prae-notato venerunt Legati gentis Russorum ad Imperatorem magnum Otto-nem, postulantes sibi dari aliquem virum doctum qui eos viam veritatis infide Christi doceret, et praesulatum more Christianorum inter illos susci-peret. Quibus imperator justia petentibus facile consentiens Adelbertumquemdam monachum Coenobii Corbejensis in Saxonia virum doctum etsanctum exhibuit, eumque prius ordinari fecit episcopum, hac deinde cumLegatis in Russiam apostolum destinavit, qui multos in terra Russorum,sive Ruthenorum ad fidem Christi exemplo convertit simul et verbo, a qui-bus tamen postea multas injurias sustinuit, et vix manus non credentiumpaganorum evasit. Egli è evidente che nella prima edizione è corsa per er-rore la voce Tuscorum invece di quella di Russorum, e che qui si parla diun popolo ancor idolatra, il che non si può intendere della Toscana. In fattianche il Mabillon parla (Ann. Ord. s. Bened. t. 3, p. 551 ed. Paris. 1706) diquesta spedizione fatta dal monaco Adelberto in Russia, e cita l'autorità diLamberto scafnaburgese, autore del XII secolo, benchè, accenni insiemeche altri il dicon mandato non nella Russia, ma nella Rugia; ma della To-

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XXVII. Questi furono i sovrani che signo-reggiaron l'Italia nello spazio di poco oltrea due secoli, che in questa epoca abbiamcompreso. Tra essi alcuni ve n'ebbe princi-pi di valore, di senno, di bontà singolare,

che in altri tempi avrebbon fatti felici i popoli a lor sog-

scana ei non fa pure un motto. "E tanto fa lungi che Ottone dalla Germaniamandasse alcuno ad istruir gl'Italiani, che anzi troviamo notizia di un Ita-liano da lui chiamato ad istruir la Germania. Egli è quel Gunzone di cuiabbiamo due Lettere pubblicate una dal p. d'Achery (Spicil. t. 1, p. 437),l'altra da' pp. Martene e Durand (Collectio ampliss. t. 1, p. 294, ec.). Dallaprima di esse raccogliesi ch'egli era diacono della chiesa novarese, per-ciocchè egli si nomina: Gunzo Novariensis Ecclesiae Levitarum extimus, ech'era uomo nelle materie canoniche versato assai; perciocchè il celebreAttone vescovo di Vercelli, di cui in questo studio medesimo facciam men-zione, avealo consultato in una quistione matrimoniale. Dall'altra più lungae più interessante ricavasi ch'egli, uomo italiano, e, come sembra, di rag-guardevole nascita, era stato da Ottone il grande invitato in Allemagna,che questi per ottenerlo erasi adoperato dapprima presso i principi italiani,ma che Gunzone non volendo essere a ciò costretto da alcuno, non erasipiegato ad accettarne l'invito, finchè lo stesso Ottone non avea a lui stessorivolte le sue preghiere, e che allora l'avea seguito nel ritorno che l'impera-dore avea fatto dall'Italia nell'Allemagna. A qual impiego lo destinasse Ot-tone, non può raccogliersi chiaramente da questa lettera; ma da alcuni pas-si di essa, e singolarmente da una contesa gramaticale ch'ei narra di aversostenuta con un monaco di s. Gallo, quando passò per quel monastero,par certo ch'ei fosse prescelto o a professore di belle lettere, o a direttore inqualche pubblica scuola. Certo in questa seconda lettera ei mostrasi moltoversato nella lettura degli autori profani, e in essa egli accenna la sua libre-ria allora molto pregevole di quasi cento volumi che seco avea trasportati,e al fin della lettera ci da anche un saggio de' suoi studj poetici in alcuniesametri che le soggiugne. Intorno a Gunzone abbiamo un opuscolo diGio: Cristoforo Gatterer professore in Norimberga intitolato De GunzoneItalo stampato l'an. 1757, libro da me non veduto, ma di cui, e di tutto ciòche a Gunzone appartiene, mi ha suggerite le opportune notizie il ch. sig.avvocato Camillo Leopoldo Volta prefetto della real biblioteca di Manto-va".

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Sciaguredell'Italia,per le qualigiacque nellaignoranza.

XXVII. Questi furono i sovrani che signo-reggiaron l'Italia nello spazio di poco oltrea due secoli, che in questa epoca abbiamcompreso. Tra essi alcuni ve n'ebbe princi-pi di valore, di senno, di bontà singolare,

che in altri tempi avrebbon fatti felici i popoli a lor sog-

scana ei non fa pure un motto. "E tanto fa lungi che Ottone dalla Germaniamandasse alcuno ad istruir gl'Italiani, che anzi troviamo notizia di un Ita-liano da lui chiamato ad istruir la Germania. Egli è quel Gunzone di cuiabbiamo due Lettere pubblicate una dal p. d'Achery (Spicil. t. 1, p. 437),l'altra da' pp. Martene e Durand (Collectio ampliss. t. 1, p. 294, ec.). Dallaprima di esse raccogliesi ch'egli era diacono della chiesa novarese, per-ciocchè egli si nomina: Gunzo Novariensis Ecclesiae Levitarum extimus, ech'era uomo nelle materie canoniche versato assai; perciocchè il celebreAttone vescovo di Vercelli, di cui in questo studio medesimo facciam men-zione, avealo consultato in una quistione matrimoniale. Dall'altra più lungae più interessante ricavasi ch'egli, uomo italiano, e, come sembra, di rag-guardevole nascita, era stato da Ottone il grande invitato in Allemagna,che questi per ottenerlo erasi adoperato dapprima presso i principi italiani,ma che Gunzone non volendo essere a ciò costretto da alcuno, non erasipiegato ad accettarne l'invito, finchè lo stesso Ottone non avea a lui stessorivolte le sue preghiere, e che allora l'avea seguito nel ritorno che l'impera-dore avea fatto dall'Italia nell'Allemagna. A qual impiego lo destinasse Ot-tone, non può raccogliersi chiaramente da questa lettera; ma da alcuni pas-si di essa, e singolarmente da una contesa gramaticale ch'ei narra di aversostenuta con un monaco di s. Gallo, quando passò per quel monastero,par certo ch'ei fosse prescelto o a professore di belle lettere, o a direttore inqualche pubblica scuola. Certo in questa seconda lettera ei mostrasi moltoversato nella lettura degli autori profani, e in essa egli accenna la sua libre-ria allora molto pregevole di quasi cento volumi che seco avea trasportati,e al fin della lettera ci da anche un saggio de' suoi studj poetici in alcuniesametri che le soggiugne. Intorno a Gunzone abbiamo un opuscolo diGio: Cristoforo Gatterer professore in Norimberga intitolato De GunzoneItalo stampato l'an. 1757, libro da me non veduto, ma di cui, e di tutto ciòche a Gunzone appartiene, mi ha suggerite le opportune notizie il ch. sig.avvocato Camillo Leopoldo Volta prefetto della real biblioteca di Manto-va".

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Sciaguredell'Italia,per le qualigiacque nellaignoranza.

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getti, e da' quali le lettere ancora avrebbon potuto aspet-tare protezione e favore. Ma le guerre civili che desola-ron l'Italia, le discordie co' principi confinanti, la lonta-nanza di molti fra tai sovrani che essendo insieme impe-radori e re di Germania non poteano avere in Italia stabildimora, non permise a queste provincie il godere di que'vantaggi che da sì egregi principi si poteano aspettare. Aciò si aggiunsero altre sciagure che renderon vieppiù in-felice l'Italia. Nel X secolo si vide la sede romana occu-pata spesso da tai pontefici che cogli enormi lor vizj sene mostrarono indegni. L'estrema parte d'Italia fu il tea-tro di continue guerre tra i principi longobardi che vi do-minavano, e i Greci e i Saracini che cercavano di con-quistarla. Questi secondi avean in certo modo chiusa ecircondata l'Italia per esser liberi a scorrerla e depredar-la, quando loro piacesse. Perciocchè da una parte que'che dalla Sicilia si eran gittati nella Calabria e nelle vici-ne provincie, si avanzarono fino a Roma, e vi spogliaro-no la basilica vaticana (Murat. Ann. d'Ital. ad an. 846).Dall'altra parte i Saracini ossia Mori di Spagna si spin-ser fino ad occupar Frassineto, luogo ne' confini tra laProvenza e l'Italia, donde con funestissime scorrerie pre-sero ad infestare la Liguria, il Piemonte, il Monferrato eancor la Toscana (id ad an. 906, ec.). L'antica città diLuni in Toscana fu da essi distrutta (id ad an. 849). Ge-nova fu da lor saccheggiata, messi a fil di spada i citta-dini, e condotte schiave le donne insiem co' fanciulli (id.ad an. 935); e così pure più altre città ne ebber danni erovine. Al medesimo tempo, come se l'Italia non fosse

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getti, e da' quali le lettere ancora avrebbon potuto aspet-tare protezione e favore. Ma le guerre civili che desola-ron l'Italia, le discordie co' principi confinanti, la lonta-nanza di molti fra tai sovrani che essendo insieme impe-radori e re di Germania non poteano avere in Italia stabildimora, non permise a queste provincie il godere di que'vantaggi che da sì egregi principi si poteano aspettare. Aciò si aggiunsero altre sciagure che renderon vieppiù in-felice l'Italia. Nel X secolo si vide la sede romana occu-pata spesso da tai pontefici che cogli enormi lor vizj sene mostrarono indegni. L'estrema parte d'Italia fu il tea-tro di continue guerre tra i principi longobardi che vi do-minavano, e i Greci e i Saracini che cercavano di con-quistarla. Questi secondi avean in certo modo chiusa ecircondata l'Italia per esser liberi a scorrerla e depredar-la, quando loro piacesse. Perciocchè da una parte que'che dalla Sicilia si eran gittati nella Calabria e nelle vici-ne provincie, si avanzarono fino a Roma, e vi spogliaro-no la basilica vaticana (Murat. Ann. d'Ital. ad an. 846).Dall'altra parte i Saracini ossia Mori di Spagna si spin-ser fino ad occupar Frassineto, luogo ne' confini tra laProvenza e l'Italia, donde con funestissime scorrerie pre-sero ad infestare la Liguria, il Piemonte, il Monferrato eancor la Toscana (id ad an. 906, ec.). L'antica città diLuni in Toscana fu da essi distrutta (id ad an. 849). Ge-nova fu da lor saccheggiata, messi a fil di spada i citta-dini, e condotte schiave le donne insiem co' fanciulli (id.ad an. 935); e così pure più altre città ne ebber danni erovine. Al medesimo tempo, come se l'Italia non fosse

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ancor travagliata abbastanza gli Ungheri, come si è det-to, sceser più volte ad invaderla e a devastarla, e giunse-ro colle loro scorrerie fino al celebre monastero di No-nantola nel modonese, ove si videro arsi i libri col mo-nastero medesimo, saccheggiate le case all'intorno, etrucidati barbaramente i monaci tutti (id. ad an. 899). Inmezzo a una sì universale desolazione era egli possibileche venisser coltivati gli studj? Se la pace di cui godeval'Italia a' tempi di Carlo Magno e di Lottario, e i mezziche questi posero in opera a far rifiorire gli studj, nonbastarono a riscuoterla e a farla volger di nuovo allebell'arti già da tanto tempo dimenticate, quale crederemnoi che fosse l'effetto di tali e tante sciagure che avreb-bono sparsa la barbarie e l'ignoranza anche fra le piùcolte provincie?

XXVIII. Nondimeno in mezzo a sì gravicalamità non mancarono all'Italia in questitempi alcuni che e coltivaron essi le lettere,e si sforzarono di agevolarne il coltivamen-to agli altri. De' primi avremo a parlare ne'

capi seguenti. Tra' secondi voglionsi qui ricordare sin-golarmente due vescovi famosi a que' tempi, de' qualinoi pure dovrem poi favellare più stesamente, Raterio diVerona e Attone di Vercelli. Il primo fa menzion dellescuole ch'erano in Verona, e mostra che ve n'avea nonpoche, benchè insieme le stesse parole da lui usate cifaccian vedere che una leggera tintura di lettere era co-

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Trovasi nondimeno menzione di alcune scuole.

ancor travagliata abbastanza gli Ungheri, come si è det-to, sceser più volte ad invaderla e a devastarla, e giunse-ro colle loro scorrerie fino al celebre monastero di No-nantola nel modonese, ove si videro arsi i libri col mo-nastero medesimo, saccheggiate le case all'intorno, etrucidati barbaramente i monaci tutti (id. ad an. 899). Inmezzo a una sì universale desolazione era egli possibileche venisser coltivati gli studj? Se la pace di cui godeval'Italia a' tempi di Carlo Magno e di Lottario, e i mezziche questi posero in opera a far rifiorire gli studj, nonbastarono a riscuoterla e a farla volger di nuovo allebell'arti già da tanto tempo dimenticate, quale crederemnoi che fosse l'effetto di tali e tante sciagure che avreb-bono sparsa la barbarie e l'ignoranza anche fra le piùcolte provincie?

XXVIII. Nondimeno in mezzo a sì gravicalamità non mancarono all'Italia in questitempi alcuni che e coltivaron essi le lettere,e si sforzarono di agevolarne il coltivamen-to agli altri. De' primi avremo a parlare ne'

capi seguenti. Tra' secondi voglionsi qui ricordare sin-golarmente due vescovi famosi a que' tempi, de' qualinoi pure dovrem poi favellare più stesamente, Raterio diVerona e Attone di Vercelli. Il primo fa menzion dellescuole ch'erano in Verona, e mostra che ve n'avea nonpoche, benchè insieme le stesse parole da lui usate cifaccian vedere che una leggera tintura di lettere era co-

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Trovasi nondimeno menzione di alcune scuole.

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munemente ciò solo che vi si apprendeva, e che questagiudicavasi sufficiente per quelli ancora che nel clerodovean essere ammessi. "De ordinandis, dic'egli (Syno-dica n. 13 inter ejus Op. ed. ver. 1765; p. 419), pro certoscitote, quo a nobis nullo modo promovebuntur, nisi autin civitate nostra, aut in aliquo monasterio, vel apudquemlibet sapientem ad tempus conservati fuerint, et li-teris aliquantulum eruditi, ut idonei videantur ecclesia-sticae dignitati". Attone similmente nel suo Capitolareda lui raccolto da' canoni di altri più antichi concilj, in-serì quello che abbiam veduto di sopra pubblicato daTeodolfo vesc. d'Orleans, in cui comandasi che i sacer-doti nelle ville ancora e nei borghi tengano scuola, egratuitamente istruiscano i fanciulli che perciò verrannoda essi mandati (Attonis Capitul. c. 61). In Pisa ancoraerano al principio del X secolo alcuni canonici destinatia insegnare la teologia e i sacri canoni, come da unaBolla di Benedetto IV dell'an. 903 dimostra l'eruditocav. Flaminio dal Borgo (Diss. sull. orig. dell'Univ. pi-sana p. 79). Il qual lodevole zelo è probabile che da altrivescovi ancora fosse imitato, acciocchè le chiese alla lorcura commesse non mancassero dell'opportuna istruzio-ne. In Ravenna verso il fine del X sec. era un cotal Vil-gardo a cui da Glabro Radolfo si dà il nome di gramati-co (Hist. l. 1, c. 12), a denotare probabilmente la scuoladi gramatica ch'egli teneva in quella città; il quale mon-tato in grande superbia, perchè Virgilio, Orazio e Giove-nale comparsigli, com'ei credette, in sogno gli aveanpromessa l'immortalità del nome, prese a insegnare che

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munemente ciò solo che vi si apprendeva, e che questagiudicavasi sufficiente per quelli ancora che nel clerodovean essere ammessi. "De ordinandis, dic'egli (Syno-dica n. 13 inter ejus Op. ed. ver. 1765; p. 419), pro certoscitote, quo a nobis nullo modo promovebuntur, nisi autin civitate nostra, aut in aliquo monasterio, vel apudquemlibet sapientem ad tempus conservati fuerint, et li-teris aliquantulum eruditi, ut idonei videantur ecclesia-sticae dignitati". Attone similmente nel suo Capitolareda lui raccolto da' canoni di altri più antichi concilj, in-serì quello che abbiam veduto di sopra pubblicato daTeodolfo vesc. d'Orleans, in cui comandasi che i sacer-doti nelle ville ancora e nei borghi tengano scuola, egratuitamente istruiscano i fanciulli che perciò verrannoda essi mandati (Attonis Capitul. c. 61). In Pisa ancoraerano al principio del X secolo alcuni canonici destinatia insegnare la teologia e i sacri canoni, come da unaBolla di Benedetto IV dell'an. 903 dimostra l'eruditocav. Flaminio dal Borgo (Diss. sull. orig. dell'Univ. pi-sana p. 79). Il qual lodevole zelo è probabile che da altrivescovi ancora fosse imitato, acciocchè le chiese alla lorcura commesse non mancassero dell'opportuna istruzio-ne. In Ravenna verso il fine del X sec. era un cotal Vil-gardo a cui da Glabro Radolfo si dà il nome di gramati-co (Hist. l. 1, c. 12), a denotare probabilmente la scuoladi gramatica ch'egli teneva in quella città; il quale mon-tato in grande superbia, perchè Virgilio, Orazio e Giove-nale comparsigli, com'ei credette, in sogno gli aveanpromessa l'immortalità del nome, prese a insegnare che

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quanto quelli dicevano era degno di fede, e ne fu perciòcondennato dall'arcivescovo Pietro. Ma il buon tedescoRadolfo dal parlare di questo gramatico prende occasiondi pungere gl'Italiani, dicendo che questi han sempreusato di disprezzar le altre arti, e di far conto della solagramatica: Sicut Italis mos semper fuit, artes negligereceteras, illam sectari. Buon per noi che non è questi nèun accusatore, nè un giudice di cui dobbiam far granconto, checchè gli piaccia di dire intorno a' nostri studj.Altrove ancora è probabile che vi avesse pubblichescuole benchè mi sembri difficile che tutte quelle che daLottario furono istituite, fra tante sciagure ancor sussi-stessero (24).

XXIX. Le stesse rivoluzioni che abbiamoaccennate, dovettero essere ugualmente fa-tali a' libri e alle biblioteche, molte dellequali è verisimile che fossero nell'occasio-ne delle scorrerie de' barbari incendiate, odisperse. Ciò avvenne certamente al mona-

stero di Nonantola, come abbiamo poc'anzi osservato, incui molti libri furon dati alle fiamme (25). Se alcuni24 Oltre le scuole aperte in Italia, troviamo qualch'italiano da essa uscita per

tener scuola in altre provincie. Tale fu quello Stefano che circa l'an. 994era maestro in Erbipoli ossia Wirzburg, come raccogliesi dagli Atti dellaVita di s. Wolfango vescovo di Ratisbona pubblicati dal Mabillon (ActaSS. ord. s. Bened. saec. V, p. 813).

25 Benchè la libreria del monastero di Nonantola fosse data alle fiammenell'an. 899, è certo nondimeno che quel monastero n'ebbe poscia una as-sai copiosa di codici, o perchè non tutti allora perissero, o perchè più pro-

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E di diverse biblioteche, perchè molte di esse peris-sero misera-mente.

quanto quelli dicevano era degno di fede, e ne fu perciòcondennato dall'arcivescovo Pietro. Ma il buon tedescoRadolfo dal parlare di questo gramatico prende occasiondi pungere gl'Italiani, dicendo che questi han sempreusato di disprezzar le altre arti, e di far conto della solagramatica: Sicut Italis mos semper fuit, artes negligereceteras, illam sectari. Buon per noi che non è questi nèun accusatore, nè un giudice di cui dobbiam far granconto, checchè gli piaccia di dire intorno a' nostri studj.Altrove ancora è probabile che vi avesse pubblichescuole benchè mi sembri difficile che tutte quelle che daLottario furono istituite, fra tante sciagure ancor sussi-stessero (24).

XXIX. Le stesse rivoluzioni che abbiamoaccennate, dovettero essere ugualmente fa-tali a' libri e alle biblioteche, molte dellequali è verisimile che fossero nell'occasio-ne delle scorrerie de' barbari incendiate, odisperse. Ciò avvenne certamente al mona-

stero di Nonantola, come abbiamo poc'anzi osservato, incui molti libri furon dati alle fiamme (25). Se alcuni24 Oltre le scuole aperte in Italia, troviamo qualch'italiano da essa uscita per

tener scuola in altre provincie. Tale fu quello Stefano che circa l'an. 994era maestro in Erbipoli ossia Wirzburg, come raccogliesi dagli Atti dellaVita di s. Wolfango vescovo di Ratisbona pubblicati dal Mabillon (ActaSS. ord. s. Bened. saec. V, p. 813).

25 Benchè la libreria del monastero di Nonantola fosse data alle fiammenell'an. 899, è certo nondimeno che quel monastero n'ebbe poscia una as-sai copiosa di codici, o perchè non tutti allora perissero, o perchè più pro-

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E di diverse biblioteche, perchè molte di esse peris-sero misera-mente.

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esemplari pur ci sono rimasti delle opere degli antichiautori, noi il dobbiamo ad alcuni pochi che anche inmezzo a tanta barbarie furono amatori delle scienze sa-cre e profane, e moltiplicarono i codici, e, per meglioassicurarli, ne fecer dono alle chiese. Così il papa Stefa-no V verso l'an. 886 donò alla basilica di s. Paolo alcunilibri, come narra Anastasio bibliotecario (Script. rer.ital. t. 3, pars 1, p. 271); così l'arcidiacono Pacifico, dicui poscia ragioneremo, lasciò nello stesso secolo al Ca-pitolo di Verona dugento diciotto codici; così finalmenteun certo prete Teobaldo al principio del X sec. fe' donodi alcuni suoi codici alla chiesa di s. Valentino in Roma(Murat. Antiq. Ital. t. 3, p. 840). Ma della conservazionede' libri noi siam debitori a' monaci singolarmente, iquali coll'istancabil travaglio delle loro mani, accrescen-done le copie, faceano in modo ch'essi non perissero in-teramente. E un bel monumento fra gli altri ne abbiamopubblicato dal ch. Muratori (ib. p. 187, ec.), cioè il Cata-logo de' libri del monastero di Bobbio, scritto, com'eglipensa, nel X secolo; in cui veggiamo una non piccolacopia di autori non solo sacri, ma ancor profani, storici,

babilmente i monaci che vennero appresso, ne fecero una nuova raccolta.Un breve Catalogo de' codici che ivi esistevano, scritto probabilmente alprincipio del sec. XI conservavasi in Bologna presso il dottissimo p. ab.Trombelli insiem con la copia di un altro posteriore e scritto assai mala-mente, e un altro conservasene ancora nell'archivio di quella Badia scrittonel sec. XV. Ed è tradizione costante che la maggior parte di tali codicipassasse nel secolo precedente a Roma alla libreria di S. Croce Gerusalem-me. "Ma della biblioteca del monastero di Nonantola, degli antichissimicodici che vi si conservano, e delle diverse vicende a cui fu essa soggetta,ho parlato più a lungo nella mia Storia di quell'insigne Badia".

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esemplari pur ci sono rimasti delle opere degli antichiautori, noi il dobbiamo ad alcuni pochi che anche inmezzo a tanta barbarie furono amatori delle scienze sa-cre e profane, e moltiplicarono i codici, e, per meglioassicurarli, ne fecer dono alle chiese. Così il papa Stefa-no V verso l'an. 886 donò alla basilica di s. Paolo alcunilibri, come narra Anastasio bibliotecario (Script. rer.ital. t. 3, pars 1, p. 271); così l'arcidiacono Pacifico, dicui poscia ragioneremo, lasciò nello stesso secolo al Ca-pitolo di Verona dugento diciotto codici; così finalmenteun certo prete Teobaldo al principio del X sec. fe' donodi alcuni suoi codici alla chiesa di s. Valentino in Roma(Murat. Antiq. Ital. t. 3, p. 840). Ma della conservazionede' libri noi siam debitori a' monaci singolarmente, iquali coll'istancabil travaglio delle loro mani, accrescen-done le copie, faceano in modo ch'essi non perissero in-teramente. E un bel monumento fra gli altri ne abbiamopubblicato dal ch. Muratori (ib. p. 187, ec.), cioè il Cata-logo de' libri del monastero di Bobbio, scritto, com'eglipensa, nel X secolo; in cui veggiamo una non piccolacopia di autori non solo sacri, ma ancor profani, storici,

babilmente i monaci che vennero appresso, ne fecero una nuova raccolta.Un breve Catalogo de' codici che ivi esistevano, scritto probabilmente alprincipio del sec. XI conservavasi in Bologna presso il dottissimo p. ab.Trombelli insiem con la copia di un altro posteriore e scritto assai mala-mente, e un altro conservasene ancora nell'archivio di quella Badia scrittonel sec. XV. Ed è tradizione costante che la maggior parte di tali codicipassasse nel secolo precedente a Roma alla libreria di S. Croce Gerusalem-me. "Ma della biblioteca del monastero di Nonantola, degli antichissimicodici che vi si conservano, e delle diverse vicende a cui fu essa soggetta,ho parlato più a lungo nella mia Storia di quell'insigne Badia".

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oratori, poeti, gramatici ed altri di ogni maniera, ch'era-no probabilmente frutto in gran parte delle giornalierefatiche di que' religiosi. "Pregevole dovea essere ancoraprima del X sec. la biblioteca del celebre monastero del-la Novalesa. Narra il Pingonio citando in pruova l'archi-vio di quel monastero (Augusta Taurin. p. 25, 26), cheessendo i monaci fuggiti di colà verso l'an. 906 per ti-more de' Saracini che infestavano quelle contrade, e riti-ratisi perciò a Torino, recaron seco, oltre il lor ricco te-soro, 6666 codici (numero troppo rotondo, perchè pos-siam crederlo esatto); ma che essendo i Saracini giuntianche a Torino fu rubato il tesoro, e la biblioteca incen-diata, trattine 500 libri che Ricolfo allor proposto, poivescovo di Torino, aveane estratti o per compra, o perpegno. Questo racconto, quanto alla sostanza, conferma-si dall'antica Cronaca di quel monastero pubblicata dalMuratori, perciocchè ivi si legge (Script. rer. Ital. vol. 2,pars 2, col. 731) che i monaci fuggiti dalla Novalesa aTorino non avean casa in cui custodire tanti libri e sìgran tesoro; che perciò gli uni e l'altro raccomandaronoal proposto Ricolfo, il quale ne prese parte, in pegno permantenere di vitto i monaci; e morto poi essendo lo stes-so Ricolfo, la maggior parte del tesoro e de' libri perdet-tesi, nè potè più riaversi". Sembra che i monaci italianisingolarmente in ciò si occupassero; poichè veggiamoche l'Italia era il paese a cui dagli altri si chiedeva copiade' libri che nelle loro provincie non si trovavano. Ab-biamo una lettera del celebre Lupo abate di Ferrieresscritta al pontef. Benedetto III verso l'an. 855, in cui il

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oratori, poeti, gramatici ed altri di ogni maniera, ch'era-no probabilmente frutto in gran parte delle giornalierefatiche di que' religiosi. "Pregevole dovea essere ancoraprima del X sec. la biblioteca del celebre monastero del-la Novalesa. Narra il Pingonio citando in pruova l'archi-vio di quel monastero (Augusta Taurin. p. 25, 26), cheessendo i monaci fuggiti di colà verso l'an. 906 per ti-more de' Saracini che infestavano quelle contrade, e riti-ratisi perciò a Torino, recaron seco, oltre il lor ricco te-soro, 6666 codici (numero troppo rotondo, perchè pos-siam crederlo esatto); ma che essendo i Saracini giuntianche a Torino fu rubato il tesoro, e la biblioteca incen-diata, trattine 500 libri che Ricolfo allor proposto, poivescovo di Torino, aveane estratti o per compra, o perpegno. Questo racconto, quanto alla sostanza, conferma-si dall'antica Cronaca di quel monastero pubblicata dalMuratori, perciocchè ivi si legge (Script. rer. Ital. vol. 2,pars 2, col. 731) che i monaci fuggiti dalla Novalesa aTorino non avean casa in cui custodire tanti libri e sìgran tesoro; che perciò gli uni e l'altro raccomandaronoal proposto Ricolfo, il quale ne prese parte, in pegno permantenere di vitto i monaci; e morto poi essendo lo stes-so Ricolfo, la maggior parte del tesoro e de' libri perdet-tesi, nè potè più riaversi". Sembra che i monaci italianisingolarmente in ciò si occupassero; poichè veggiamoche l'Italia era il paese a cui dagli altri si chiedeva copiade' libri che nelle loro provincie non si trovavano. Ab-biamo una lettera del celebre Lupo abate di Ferrieresscritta al pontef. Benedetto III verso l'an. 855, in cui il

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prega (Lup. Ferr. ep. 103) a mandargli i Comenti di s.Girolamo su Geremia, poichè, egli dice, ne' nostri paesinon è possibile trovarne copia che oltrepassi il sesto li-bro (credevasi allora, come si è creduto da molti ancortra' moderni, che s. Girolamo ne avesse composti ventilibri: opinione, la cui insussistenza si è messa in chiarodal dottiss. Vallarsi (Praef. gener. ad Op. s. Hier. n. 30)che ha mostrato sei soli esserne stati da lui composti);innoltre gli chiede i libri dell'Oratore di Cicerone, e i 12libri delle Istituzioni di Quintiliano, de' quali trovava inFrancia soltanto copie imperfette; e finalmente il Co-mento di Donato sulle Commedie di Terenzio. E al finedel X sec. Gerberto, che fu poi papa col nome di Silve-stro II, scrivendo a un suo amico: "Tu sai, gli dice (ep.47), con quanta premura io raccolga da ogni parte libri;tu sai quanti scrittori e nelle città e nelle ville di Italia inogni luogo s'incontrino". Così l'Italia, benchè lacera econtraffatta, era ancor la sorgente a cui doveano attinge-re le straniere nazioni, per averne quegli aiuti al coltiva-mento degli studj, che non poteano sperare altronde.

XXX. La mentovata lettera scritta da Lupoal pontefice Benedetto ci fa conoscere chela pontificia biblioteca mantennesi ancorafra tante rivoluzioni. Noi veggiamo in fatti

anche ne' monumenti di questa età il nome di biblioteca-rio della santa sede. E nella serie di questi bibliotecarj;di cui abbiam parlato nel precedente libro, premessa al

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Stato della biblioteca pontificia.

prega (Lup. Ferr. ep. 103) a mandargli i Comenti di s.Girolamo su Geremia, poichè, egli dice, ne' nostri paesinon è possibile trovarne copia che oltrepassi il sesto li-bro (credevasi allora, come si è creduto da molti ancortra' moderni, che s. Girolamo ne avesse composti ventilibri: opinione, la cui insussistenza si è messa in chiarodal dottiss. Vallarsi (Praef. gener. ad Op. s. Hier. n. 30)che ha mostrato sei soli esserne stati da lui composti);innoltre gli chiede i libri dell'Oratore di Cicerone, e i 12libri delle Istituzioni di Quintiliano, de' quali trovava inFrancia soltanto copie imperfette; e finalmente il Co-mento di Donato sulle Commedie di Terenzio. E al finedel X sec. Gerberto, che fu poi papa col nome di Silve-stro II, scrivendo a un suo amico: "Tu sai, gli dice (ep.47), con quanta premura io raccolga da ogni parte libri;tu sai quanti scrittori e nelle città e nelle ville di Italia inogni luogo s'incontrino". Così l'Italia, benchè lacera econtraffatta, era ancor la sorgente a cui doveano attinge-re le straniere nazioni, per averne quegli aiuti al coltiva-mento degli studj, che non poteano sperare altronde.

XXX. La mentovata lettera scritta da Lupoal pontefice Benedetto ci fa conoscere chela pontificia biblioteca mantennesi ancorafra tante rivoluzioni. Noi veggiamo in fatti

anche ne' monumenti di questa età il nome di biblioteca-rio della santa sede. E nella serie di questi bibliotecarj;di cui abbiam parlato nel precedente libro, premessa al

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Stato della biblioteca pontificia.

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Catalogo de' manoscritti della medesima bibliotecadall'an. 815 fino all'an. 993 ne veggiam fino al numerodi 13 onorati di cotal nome; ed è probabile che più altriancora avessero la medesima carica, benchè di essi nonci sia rimasta memoria. Ma è probabile ancora che assaiinfelice fosse a questa età lo stato di questa sì antica bi-blioteca, singolarmente negli sconvolgimenti a cuiRoma non meno che le altre città d'Italia fu miseramentesoggetta.

CAPO II.Studj sacri.

I. Benchè l'universale ignoranza in cui gia-ceva sommersa l'Italia di questi tempi, av-volgesse ancora gli ecclesiastici i quali era-no comunemente privi di quel sapere chealla condizion loro è non sol convenevole,ma necessario; non vuolsi creder però, comealcuni troppo facilmente han mostrato di

fare, che privo totalmente d'uomini dotti fosse aquest'epoca il clero. E cominciando dai romani pontefi-ci, i libri dal pontef. Adriano I scritti in risposta a' Caro-lini ossia a' libri per ordine e sotto nome di Carlo Magnodivulgati contro il culto delle immagini, cel mostranuomo per que' tempi erudito, e in forza di ragionamentosuperiore assai al suo avversario. Pontefici ornati discienza si dicono innoltre da Anastasio Eugenio II e

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Molti tra' pontefici del IX se-colo furonouomini dot-ti: non così quei del X.

Catalogo de' manoscritti della medesima bibliotecadall'an. 815 fino all'an. 993 ne veggiam fino al numerodi 13 onorati di cotal nome; ed è probabile che più altriancora avessero la medesima carica, benchè di essi nonci sia rimasta memoria. Ma è probabile ancora che assaiinfelice fosse a questa età lo stato di questa sì antica bi-blioteca, singolarmente negli sconvolgimenti a cuiRoma non meno che le altre città d'Italia fu miseramentesoggetta.

CAPO II.Studj sacri.

I. Benchè l'universale ignoranza in cui gia-ceva sommersa l'Italia di questi tempi, av-volgesse ancora gli ecclesiastici i quali era-no comunemente privi di quel sapere chealla condizion loro è non sol convenevole,ma necessario; non vuolsi creder però, comealcuni troppo facilmente han mostrato di

fare, che privo totalmente d'uomini dotti fosse aquest'epoca il clero. E cominciando dai romani pontefi-ci, i libri dal pontef. Adriano I scritti in risposta a' Caro-lini ossia a' libri per ordine e sotto nome di Carlo Magnodivulgati contro il culto delle immagini, cel mostranuomo per que' tempi erudito, e in forza di ragionamentosuperiore assai al suo avversario. Pontefici ornati discienza si dicono innoltre da Anastasio Eugenio II e

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Molti tra' pontefici del IX se-colo furonouomini dot-ti: non così quei del X.

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Gregorio IV, il primo de' quali tenne la santa sededall'an. 824 fino all'an. 827, e fu quegli che nell'accen-nato Concilio di Roma dell'an. 826 pubblicò il decretointorno le pubbliche scuole; l'altro dall'an. 828 finoall'an. 844 (Script. rer. ital. t. 3, pars 1, p. 219, 221). DiLeone IV ancora creato pontefice l'an. 847 abbiam ve-duto poc'anzi che nelle lettere era stato diligentementeistruito nel monastero di s. Martino, e perciò Anastasiosoggiugne ch'egli era singolarmente versato nello studiodella Divina Scrittura (ib. p. 233). Lo stesso autore cinarra di Niccolò I salito alla cattedra di s. Pietro l'an.858, ch'essendo egli nato di padre che amava assai lebelle arti, fu da lui ammaestrato in tutte le scienze, sin-golarmente sacre, talchè non ve n'avea alcuna tra esse,di cui egli non fosse adorno (ib. p. 252). Stefano V, elet-to pontefice l'an. 885, non solo avea coltivati gli studj,come sopra si è detto, ma era ancora in singolar modosollecito, come narra Guglielmo bibliotecario (ib. p.270) che tutti i suoi domestici e famigliari non solo persantità di costumi, ma per sapere ancora e per eloquenzafossero insigni. Io vorrei poter dire lo stesso di alcuni al-men tra' pontefici che tennero la santa sede nel sec. X.Ma, convien confessarlo, troppo giustamente fu dato ilnome di ferreo a questo secolo veramente infelice, in cuicomunemente la cattedra di s. Pietro si vide occupata dauomini che nella più indegna maniera la profanarono.Tutte le storie son piene de' mostruosi eccessi che allorsi videro in Roma. E io mi compiaccio che l'argomentodi questa mia Storia non mi costringa a rammentar cose

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Gregorio IV, il primo de' quali tenne la santa sededall'an. 824 fino all'an. 827, e fu quegli che nell'accen-nato Concilio di Roma dell'an. 826 pubblicò il decretointorno le pubbliche scuole; l'altro dall'an. 828 finoall'an. 844 (Script. rer. ital. t. 3, pars 1, p. 219, 221). DiLeone IV ancora creato pontefice l'an. 847 abbiam ve-duto poc'anzi che nelle lettere era stato diligentementeistruito nel monastero di s. Martino, e perciò Anastasiosoggiugne ch'egli era singolarmente versato nello studiodella Divina Scrittura (ib. p. 233). Lo stesso autore cinarra di Niccolò I salito alla cattedra di s. Pietro l'an.858, ch'essendo egli nato di padre che amava assai lebelle arti, fu da lui ammaestrato in tutte le scienze, sin-golarmente sacre, talchè non ve n'avea alcuna tra esse,di cui egli non fosse adorno (ib. p. 252). Stefano V, elet-to pontefice l'an. 885, non solo avea coltivati gli studj,come sopra si è detto, ma era ancora in singolar modosollecito, come narra Guglielmo bibliotecario (ib. p.270) che tutti i suoi domestici e famigliari non solo persantità di costumi, ma per sapere ancora e per eloquenzafossero insigni. Io vorrei poter dire lo stesso di alcuni al-men tra' pontefici che tennero la santa sede nel sec. X.Ma, convien confessarlo, troppo giustamente fu dato ilnome di ferreo a questo secolo veramente infelice, in cuicomunemente la cattedra di s. Pietro si vide occupata dauomini che nella più indegna maniera la profanarono.Tutte le storie son piene de' mostruosi eccessi che allorsi videro in Roma. E io mi compiaccio che l'argomentodi questa mia Storia non mi costringa a rammentar cose

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le quali sarebbe a bramare che si fosser giaciute inun'eterna dimenticanza. Il solo Silvestro II che fu l'ulti-mo de' romani pontefici di quest'epoca, fu uomo vera-mente dotto, e forse sopra quanti vissero in questi seco-li. Ma come nella filosofia e nella matematica singolar-mente ci si rendette famoso, di lui ragioneremo nelquarto capo di questo libro.

II. L'eresie che al fin dell'VIII sec. e al prin-cipio del IV o nacquero, o si rinnovarononella Chiesa, diedero occasione a più vesco-vi italiani di dar saggio del loro sapere ne'diversi concilj che perciò si tennero inRoma e altrove. Ma io intendo di ragionarsolo di quelli che ce ne lasciarono monu-

menti durevoli ne' loro scritti. Fra essi un de' più celebrifu s. Paolino patriarca di Aquileja, uomo per dottrinanon meno che per santità illustre a que' tempi, e perciòcarissimo a Carlo Magno, e da lui adoperato in più affaridi non leggera importanza. Di lui hanno scritto i dottiMaurini autori della Storia letteraria di Francia (l. 4, p.284); ma assai più esattamente di essi hanno illustratociò che appartiene a s. Paolino, tre valorosi scrittori ita-liani, il p. Gianfrancesco Madrisio della Congregazionedell'Oratorio, che ne ha scritta e premessa alle Opereche di lui ci sono rimaste, la Vita, il p. Bernardo Mariade Rubeis domenicano (Monum. Eccl. aquil. c. 41. ec.),e dopo tutti il sig. Giangiuseppe Liruti (De' Letter. del

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Notizie di s. Paolino patriarca d'Aquileja: pruovasi ch'ei fu ita-liano.

le quali sarebbe a bramare che si fosser giaciute inun'eterna dimenticanza. Il solo Silvestro II che fu l'ulti-mo de' romani pontefici di quest'epoca, fu uomo vera-mente dotto, e forse sopra quanti vissero in questi seco-li. Ma come nella filosofia e nella matematica singolar-mente ci si rendette famoso, di lui ragioneremo nelquarto capo di questo libro.

II. L'eresie che al fin dell'VIII sec. e al prin-cipio del IV o nacquero, o si rinnovarononella Chiesa, diedero occasione a più vesco-vi italiani di dar saggio del loro sapere ne'diversi concilj che perciò si tennero inRoma e altrove. Ma io intendo di ragionarsolo di quelli che ce ne lasciarono monu-

menti durevoli ne' loro scritti. Fra essi un de' più celebrifu s. Paolino patriarca di Aquileja, uomo per dottrinanon meno che per santità illustre a que' tempi, e perciòcarissimo a Carlo Magno, e da lui adoperato in più affaridi non leggera importanza. Di lui hanno scritto i dottiMaurini autori della Storia letteraria di Francia (l. 4, p.284); ma assai più esattamente di essi hanno illustratociò che appartiene a s. Paolino, tre valorosi scrittori ita-liani, il p. Gianfrancesco Madrisio della Congregazionedell'Oratorio, che ne ha scritta e premessa alle Opereche di lui ci sono rimaste, la Vita, il p. Bernardo Mariade Rubeis domenicano (Monum. Eccl. aquil. c. 41. ec.),e dopo tutti il sig. Giangiuseppe Liruti (De' Letter. del

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Notizie di s. Paolino patriarca d'Aquileja: pruovasi ch'ei fu ita-liano.

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Friuli t. 1, p. 201, ec.). A me dunque basterà l'accennareciò che questi scrittori, e l'ultimo tra essi singolarmente,hanno non solo affermato, ma provato con assai proba-bili argomenti. I Maurini e gli altri scrittori francesi ciassicurano ch'ei nacque nell'Austrasia, provincia sogget-ta al re di Francia. Ma su qual fondamento l'affermanessi? Noi nol sappiamo, poichè non ce ne arrecano alcu-no. Alla stessa maniera, l'Ughelli, troppo facilmente se-guito da altri scrittori italiani, il dice austriaco (Ital. Sa-cra t. 5 in Patriarch. Aquil.), senza recarne pruova disorte alcuna. Che Paolino fosse italiano lo hanno chiara-mente mostrato i sopraccitati italiani scrittori coll'autori-tà di Alcuino, il quale, a lui scrivendo, per mostrargli ildesiderio che avea di riceverne lettere, così gli dice:"Quando mihi Ausoniae nobilitatis pagina optati prospe-ritatem ostendat amici (ep. 62)?" E altrove scrivendo alui stesso:

O lux Ausoniae patriae decus, ec. (carm. 212).

Chi crederebbe che i Maurini, dopo aver detto che Pao-lino nacque nell'Austrasia, soggiugnessero nella stessapagina queste parole: Ben tosto il nuovo prelato divennela luce di tutta l'Italia: lux Ausoniae patriae, come ilchiama Alcuino? Non si sono essi avveduti che con ciòvenivano a distruggere la loro opinione? (26) Ei dunque fu

26 I Maurini hanno riconosciuto e corretto il loro errore riguardo alla patria dis. Paolino patriarca di Aquileja, e han confessato ch'ei fu natio del Friuli(Hist. liter. de France t. 10, p. 38). Una nuova e più esatta vita di esso hapubblicata di fresco in Venezia nel 1782 il sig. ab. Giampietro della Stua,in cui riguardo alle opere di esso si troveranno più distinte notizie. Ed egli

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Friuli t. 1, p. 201, ec.). A me dunque basterà l'accennareciò che questi scrittori, e l'ultimo tra essi singolarmente,hanno non solo affermato, ma provato con assai proba-bili argomenti. I Maurini e gli altri scrittori francesi ciassicurano ch'ei nacque nell'Austrasia, provincia sogget-ta al re di Francia. Ma su qual fondamento l'affermanessi? Noi nol sappiamo, poichè non ce ne arrecano alcu-no. Alla stessa maniera, l'Ughelli, troppo facilmente se-guito da altri scrittori italiani, il dice austriaco (Ital. Sa-cra t. 5 in Patriarch. Aquil.), senza recarne pruova disorte alcuna. Che Paolino fosse italiano lo hanno chiara-mente mostrato i sopraccitati italiani scrittori coll'autori-tà di Alcuino, il quale, a lui scrivendo, per mostrargli ildesiderio che avea di riceverne lettere, così gli dice:"Quando mihi Ausoniae nobilitatis pagina optati prospe-ritatem ostendat amici (ep. 62)?" E altrove scrivendo alui stesso:

O lux Ausoniae patriae decus, ec. (carm. 212).

Chi crederebbe che i Maurini, dopo aver detto che Pao-lino nacque nell'Austrasia, soggiugnessero nella stessapagina queste parole: Ben tosto il nuovo prelato divennela luce di tutta l'Italia: lux Ausoniae patriae, come ilchiama Alcuino? Non si sono essi avveduti che con ciòvenivano a distruggere la loro opinione? (26) Ei dunque fu

26 I Maurini hanno riconosciuto e corretto il loro errore riguardo alla patria dis. Paolino patriarca di Aquileja, e han confessato ch'ei fu natio del Friuli(Hist. liter. de France t. 10, p. 38). Una nuova e più esatta vita di esso hapubblicata di fresco in Venezia nel 1782 il sig. ab. Giampietro della Stua,in cui riguardo alle opere di esso si troveranno più distinte notizie. Ed egli

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italiano, e probabilmente per ciò dicesi austriaco perchènacque nel Friuli, che allor chiamavasi Austria, ossiaparte orientale del regno de' Longobardi, come ha evi-dentemente mostrato l'erudito p. Beretti (Diss. de Tab.Chorog. Ital. medii aevi, sect. 8, vol. 10 Script. rer.ital.).

III. Ei nacque verso l'an 730, e, istruito ne-gli studi, fu per qualche tempo professore dibelle lettere, ed ebbe perciò il nome di gra-matico a que' tempi usato. Carlo Magno,avendo l'an. 776 sconfitto e ucciso il ribelle

Rodgauso duca del Friuli, concedette con suo diplomasegnato in Ivrea a' 17 di giugno dello stesso anno al no-stro Paolino, viro, com'egli dice, valde venerabili artisgramaticae magistro, alcune terre di un certo Gualdan-dio complice della ribellion di Rodgauso. Intorno alqual diploma degne sono da leggersi le belle osservazio-ni del sig. Liruti che scioglie felicemente alcune diffi-coltà che ad esso da qualche scrittore si sono opposte.Fra le altre cose egli riflette che dal titolo di molto vene-rabile che gli dà Carlo Magno, raccogliesi ch'egli eragià sacerdote. E così convien dire che fosse, perchè lostesso anno 776, morto Sigualdo patriarca d'Aquileja,Paolino fu sollevato, per opera probabilmente dello stes-so Carlo, a quella sede. D'allora in poi appena vi ebbe

fra le altre cose ha provato che s. Paolino finì di vivere l'an. 802, e che èsupposto il Concilio d'Altino dell'an. 803.

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Epoche del-la sua vita: in quanta stima egli fosse.

italiano, e probabilmente per ciò dicesi austriaco perchènacque nel Friuli, che allor chiamavasi Austria, ossiaparte orientale del regno de' Longobardi, come ha evi-dentemente mostrato l'erudito p. Beretti (Diss. de Tab.Chorog. Ital. medii aevi, sect. 8, vol. 10 Script. rer.ital.).

III. Ei nacque verso l'an 730, e, istruito ne-gli studi, fu per qualche tempo professore dibelle lettere, ed ebbe perciò il nome di gra-matico a que' tempi usato. Carlo Magno,avendo l'an. 776 sconfitto e ucciso il ribelle

Rodgauso duca del Friuli, concedette con suo diplomasegnato in Ivrea a' 17 di giugno dello stesso anno al no-stro Paolino, viro, com'egli dice, valde venerabili artisgramaticae magistro, alcune terre di un certo Gualdan-dio complice della ribellion di Rodgauso. Intorno alqual diploma degne sono da leggersi le belle osservazio-ni del sig. Liruti che scioglie felicemente alcune diffi-coltà che ad esso da qualche scrittore si sono opposte.Fra le altre cose egli riflette che dal titolo di molto vene-rabile che gli dà Carlo Magno, raccogliesi ch'egli eragià sacerdote. E così convien dire che fosse, perchè lostesso anno 776, morto Sigualdo patriarca d'Aquileja,Paolino fu sollevato, per opera probabilmente dello stes-so Carlo, a quella sede. D'allora in poi appena vi ebbe

fra le altre cose ha provato che s. Paolino finì di vivere l'an. 802, e che èsupposto il Concilio d'Altino dell'an. 803.

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Epoche del-la sua vita: in quanta stima egli fosse.

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sinodo che a difesa della Fede Cattolica si radunasse inFrancia, in Alemagna, in Italia, a cui Paolino non fossechiamato, e appena vi ebbe affare di qualche momentoin cui egli non avesse parte. Egli intervenne col caratteredi legato apostolico al Sinodo di Aquisgrana celebratol'an. 789, e a lui si dovettero singolarmente i decreti chevi si fecero, perchè i beni ecclesiastici usurpati da alcunisi rendessero alle lor chiese. Trovossi pure a' due sinoditenuti il primo a Ratisbona l'an. 792, l'altro in Francfortl'an. 794 contro l'eresie di Felice vescovo di Urgel e diElipando vescovo di Toledo, contro de' quali ancora egliscrisse poscia un'opera, di cui or ora farem menzione.Un sinodo raccolse egli pure l'an. 796 in Cividal delFriuli, ove co' suoi suffraganei pubblicò molti decretialla conservazion della Fede e alla riforma de' costumiassai opportuni; e un altro pure ne tenne in Altino nellastessa provincia del Friuli l'an. 803. Carlo Magno ed Al-cuino aveanlo in sì grande stima, che qualunque rilevan-te dubbio si offrisse, a lui chiedevanne la soluzione. Percomando di Carlo egli scrisse gli accennati libri controgli errori di Felice e di Elipando. A lui pure si rivolseAlcuino, perchè scrivesse intorno a' riti del battesimo,su' quali eran nate parecchie quistioni. L'espressioni cheAlcuino usa scrivendogli, ben ci fanno conoscere inqual concetto ei l'avesse: "Tuum est, dic'egli, o pastorelecte gregis, et custos portarum Civitatis Dei, qui cla-vem scientiae potente dextera tenes, et quinque lapideslimpidissimos laeva recondis, blasphemantes exercitumDei viventis Philistaeos in superbissimo Goliath uno ve-

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sinodo che a difesa della Fede Cattolica si radunasse inFrancia, in Alemagna, in Italia, a cui Paolino non fossechiamato, e appena vi ebbe affare di qualche momentoin cui egli non avesse parte. Egli intervenne col caratteredi legato apostolico al Sinodo di Aquisgrana celebratol'an. 789, e a lui si dovettero singolarmente i decreti chevi si fecero, perchè i beni ecclesiastici usurpati da alcunisi rendessero alle lor chiese. Trovossi pure a' due sinoditenuti il primo a Ratisbona l'an. 792, l'altro in Francfortl'an. 794 contro l'eresie di Felice vescovo di Urgel e diElipando vescovo di Toledo, contro de' quali ancora egliscrisse poscia un'opera, di cui or ora farem menzione.Un sinodo raccolse egli pure l'an. 796 in Cividal delFriuli, ove co' suoi suffraganei pubblicò molti decretialla conservazion della Fede e alla riforma de' costumiassai opportuni; e un altro pure ne tenne in Altino nellastessa provincia del Friuli l'an. 803. Carlo Magno ed Al-cuino aveanlo in sì grande stima, che qualunque rilevan-te dubbio si offrisse, a lui chiedevanne la soluzione. Percomando di Carlo egli scrisse gli accennati libri controgli errori di Felice e di Elipando. A lui pure si rivolseAlcuino, perchè scrivesse intorno a' riti del battesimo,su' quali eran nate parecchie quistioni. L'espressioni cheAlcuino usa scrivendogli, ben ci fanno conoscere inqual concetto ei l'avesse: "Tuum est, dic'egli, o pastorelecte gregis, et custos portarum Civitatis Dei, qui cla-vem scientiae potente dextera tenes, et quinque lapideslimpidissimos laeva recondis, blasphemantes exercitumDei viventis Philistaeos in superbissimo Goliath uno ve-

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ritatis ictu totos conterere... Ad te omnium aspiciuntoculi, aliquid de tuo affluentissimo eloquio coeleste de-siderantes audire, et ferventissimo sapientiae sole frigi-dissimos grandium lapides, qui culmina sapientissimiSalomonis ferire non metuunt, per te citius resolvi ex-pectantes. Tu vero lucerna ardens et lucens, ec. (ep.81)". Di somiglianti sentimenti di stima piene sono lelettere scritte da Alcuino a Paolino, che dal p. Madrisiosono state unite insieme, e aggiunte all'Opere di questosanto patriarca. Nè minore era la stima in che avealoCarlo Magno, come è manifesto e da ciò che detto ab-biamo poc'anzi, e dal veder Paolino chiamato a' sinodiper comando di lui radunati, e da qualche frammentoche ci è rimasto di lettere a lui scritte da Paolino, in cuiquesti gli dà ricordi opportuni a reggere felicementel'impero. Egli morì l'an. 804, come dopo il suddetto p.Madrisio ha provato anche il sig. Liruti, presso i qualiscrittori si potranno vedere più ampiamente svolte, e piùstesamente confermate quelle notizie ch'io per non ripe-tere inutilmente ciò ch'essi han detto, son venuto solbrevemente accennando.

IV. Oltre il Concilio foroiuliese e il Simbolodi Fede, e i Canoni in esso formati, che tutti

furono opera di Paolino, e i Canoni de' Sinodi di Aqui-sgrana e di Ratisbona, ne quali egli ebbe gran parte, ab-biam di lui una lettera sinodale intitolata Sacrosillabo,contro l'eresia di Elipando, ch'egli scrisse in nome del

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Sue opere.

ritatis ictu totos conterere... Ad te omnium aspiciuntoculi, aliquid de tuo affluentissimo eloquio coeleste de-siderantes audire, et ferventissimo sapientiae sole frigi-dissimos grandium lapides, qui culmina sapientissimiSalomonis ferire non metuunt, per te citius resolvi ex-pectantes. Tu vero lucerna ardens et lucens, ec. (ep.81)". Di somiglianti sentimenti di stima piene sono lelettere scritte da Alcuino a Paolino, che dal p. Madrisiosono state unite insieme, e aggiunte all'Opere di questosanto patriarca. Nè minore era la stima in che avealoCarlo Magno, come è manifesto e da ciò che detto ab-biamo poc'anzi, e dal veder Paolino chiamato a' sinodiper comando di lui radunati, e da qualche frammentoche ci è rimasto di lettere a lui scritte da Paolino, in cuiquesti gli dà ricordi opportuni a reggere felicementel'impero. Egli morì l'an. 804, come dopo il suddetto p.Madrisio ha provato anche il sig. Liruti, presso i qualiscrittori si potranno vedere più ampiamente svolte, e piùstesamente confermate quelle notizie ch'io per non ripe-tere inutilmente ciò ch'essi han detto, son venuto solbrevemente accennando.

IV. Oltre il Concilio foroiuliese e il Simbolodi Fede, e i Canoni in esso formati, che tutti

furono opera di Paolino, e i Canoni de' Sinodi di Aqui-sgrana e di Ratisbona, ne quali egli ebbe gran parte, ab-biam di lui una lettera sinodale intitolata Sacrosillabo,contro l'eresia di Elipando, ch'egli scrisse in nome del

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Sue opere.

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Sinodo di Francfort l'an. 794, e che dal Sinodo stesso fumandata a' vescovi delle Spagne. Nello stesso Sinodoessendosi proposta la causa di un cotale Astolfo uccisordella sua moglie, egli per comando de' Padri distese unagrave ammonizione al reo, e a cui insieme ingiunse lapenitenza canonica a tal delitto proporzionata. Contro diFelice ancora ch'era stato primo autore dell'eresia e mae-stro di Elipando, egli scrisse tre libri che ancor ci resta-no, A lui pure appartiene l'esortazione ossia i SalutevoliDocumenti a Enrico duca del Friuli, che prima vedevan-si tra le Opere di s. Agostino; un Simbolo della Fedeesposto in versi con un'apologia del medesimo; alcuniinni e alcune lettere, e tra esse una assai lunga a CarloMagno, in cui lo ragguaglia del Sinodo tenuto in Altinol'an. 803. Queste opere di s. Paolino sono state raccolteinsieme, e con copiose annotazioni e con dissertazioniassai erudite illustrate dal sopraccitato p. Madrisio, estampate in Venezia l'an. 1737. In esse niuno dee lusin-garsi di trovare precisione ed eleganza, pregi che a que-sti tempi non si conoscevano. Ma l'autore vi si mostraversato nella scienza delle Sacre Scritture, de' Santi Pa-dri, e de' Canoni, e degno al concetto di cui egli godeva,di uno de' più dotti uomini della sua età. A queste Operedi s. Paolino pubblicate dal p. Madrisio deesi aggiugne-re ancora un piccol trattato intorno al battesimo, cioèquello di cui egli era stato richiesto, come già si è detto,da Alcuino. Il dottiss. monsig. Mansi che lo ebbe dallabiblioteca del monastero di s. Emmerano in Ratisbona,ne è stato il primo editore (Concil. Collect. t. 13, p. 921

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Sinodo di Francfort l'an. 794, e che dal Sinodo stesso fumandata a' vescovi delle Spagne. Nello stesso Sinodoessendosi proposta la causa di un cotale Astolfo uccisordella sua moglie, egli per comando de' Padri distese unagrave ammonizione al reo, e a cui insieme ingiunse lapenitenza canonica a tal delitto proporzionata. Contro diFelice ancora ch'era stato primo autore dell'eresia e mae-stro di Elipando, egli scrisse tre libri che ancor ci resta-no, A lui pure appartiene l'esortazione ossia i SalutevoliDocumenti a Enrico duca del Friuli, che prima vedevan-si tra le Opere di s. Agostino; un Simbolo della Fedeesposto in versi con un'apologia del medesimo; alcuniinni e alcune lettere, e tra esse una assai lunga a CarloMagno, in cui lo ragguaglia del Sinodo tenuto in Altinol'an. 803. Queste opere di s. Paolino sono state raccolteinsieme, e con copiose annotazioni e con dissertazioniassai erudite illustrate dal sopraccitato p. Madrisio, estampate in Venezia l'an. 1737. In esse niuno dee lusin-garsi di trovare precisione ed eleganza, pregi che a que-sti tempi non si conoscevano. Ma l'autore vi si mostraversato nella scienza delle Sacre Scritture, de' Santi Pa-dri, e de' Canoni, e degno al concetto di cui egli godeva,di uno de' più dotti uomini della sua età. A queste Operedi s. Paolino pubblicate dal p. Madrisio deesi aggiugne-re ancora un piccol trattato intorno al battesimo, cioèquello di cui egli era stato richiesto, come già si è detto,da Alcuino. Il dottiss. monsig. Mansi che lo ebbe dallabiblioteca del monastero di s. Emmerano in Ratisbona,ne è stato il primo editore (Concil. Collect. t. 13, p. 921

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ed. ven. 1767), e degne sono da leggersi le osservazionich'egli vi ha premesse.

V. Visse il medesimo tempo, e fu parimentiaccettissimo a Carlo Magno, Teodolfo ve-scovo d'Orleans. Ch'ei fosse italiano, nol ne-gano gli stessi Maurini autori della Storialetteraria di Francia, il cui sentimento inquesto dee certo avere gran forza. Essi con-fessano che Teodolfo, "era nato di là

dall'Alpi d'una famiglia assai nobile fra i Goti... e chepel suo ingegno e pel suo sapere fu chiamato dall'Italiain Francia da Carlo Magno (t. 41 p. 459)". In fatti in unaCronaca antica pubblicata dal du Chesne ciò chiaramen-te, si afferma: "Theodulphus... propter scientiae praero-gativam, qui pollebat, a memorato imperatore CarloMagno ab Italia in Gallias adductus". Il p. Mabillonnondimeno sospetta ch'ei fosse spagnuolo (Analecta t. I,p. 426), e due argomenti gli sembrano assai forti a pro-varlo. Il primo si è l'epitafio che ne fu posto al sepolcro,in cui fra gli altri leggesi questo verso:

Protulit hunc Speria. Gallia sed nutriit.

L'altro son due versi dello stesso Teodolfo, in cui eglidescrivendo il suo arrivo a Narbona, così dice: Mox sedes, Narbona, tuas, urbemque decoram

Tangimus, occurrit qui mihi laeta cohors; Reliquiae Getici populi, simul Hespera turba

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Si entra a parlare di Teodolfo vesc. d'Orleans, esi pruova ch'ei fu ita-liano.

ed. ven. 1767), e degne sono da leggersi le osservazionich'egli vi ha premesse.

V. Visse il medesimo tempo, e fu parimentiaccettissimo a Carlo Magno, Teodolfo ve-scovo d'Orleans. Ch'ei fosse italiano, nol ne-gano gli stessi Maurini autori della Storialetteraria di Francia, il cui sentimento inquesto dee certo avere gran forza. Essi con-fessano che Teodolfo, "era nato di là

dall'Alpi d'una famiglia assai nobile fra i Goti... e chepel suo ingegno e pel suo sapere fu chiamato dall'Italiain Francia da Carlo Magno (t. 41 p. 459)". In fatti in unaCronaca antica pubblicata dal du Chesne ciò chiaramen-te, si afferma: "Theodulphus... propter scientiae praero-gativam, qui pollebat, a memorato imperatore CarloMagno ab Italia in Gallias adductus". Il p. Mabillonnondimeno sospetta ch'ei fosse spagnuolo (Analecta t. I,p. 426), e due argomenti gli sembrano assai forti a pro-varlo. Il primo si è l'epitafio che ne fu posto al sepolcro,in cui fra gli altri leggesi questo verso:

Protulit hunc Speria. Gallia sed nutriit.

L'altro son due versi dello stesso Teodolfo, in cui eglidescrivendo il suo arrivo a Narbona, così dice: Mox sedes, Narbona, tuas, urbemque decoram

Tangimus, occurrit qui mihi laeta cohors; Reliquiae Getici populi, simul Hespera turba

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Si entra a parlare di Teodolfo vesc. d'Orleans, esi pruova ch'ei fu ita-liano.

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Me consanguineo fit duce laeta sibi (l. 1, carm. 1, v. 137 ec.).

E a questi li si può aggiugnere l'altro più lungo epitafiopubblicato nella Gallia Christiana (vol. 8, p. 1422) incui similmente egli è introdotto a favellare cosi:

Hesperia genitus hac sum tellure sepultus.

Il veder dunque assegnata a Teodolfo per patria l'Espe-ria, e i Goti ch'erano in Narbona venutivi dalla Spagna,detti da lui suoi congiunti, fa creder probabile a questodotto scrittore, ch'egli fosse spagnuolo. Ma in primoluogo il nome di Esperia davasi allora anche all'Italia,come è manifesto da queste parole di Paolino di Aqui-leia: Aquilejensis Sedis Hesperiis oris accinctae (in Sa-crosyllab. c. 2). In secondo luogo, come riflette lo stessop. Mabillon, eran della nazione medesima i Goti di Spa-gna e que' d'Italia, e perciò Teodolfo nato da una fami-glia di Goti Italiani potea chiamar suoi congiunti i Gotida Spagna venuti a Narbona. Non sembra dunque que-sto argomento bastevole ad affermare che Teodolfo fos-se spagnuolo, singolarmente al confronto della anticaCronaca sopraccitata che il dice italiano (27). Questo è ciò

27 La patria di Teodolfo ha somministrata al sig. Lampillas l'occasione di unanon breve dissertazione (t. 2, p. 130). Egli mi rimprovera, poichè io affer-mo che l'antica Cronaca prodotta dal Du Chesne lo dice italiano, mentre adir il vero ella altro non dice se non che ei fu chiamato dall'Italia. E in ciòconfesso che io non sono stato abbastanza esatto. Ciò non ostante, se ladetta Cronaca nol dice espressamente, sembra almeno indicarlo. Percioc-chè si rifletta. Nell'antico epitafio di Teodolfo, da me citato, ove egli è in-trodotto a parlare, si dice che per attaccarsi al servigio di Carlo Magno, eilasciò la patria e la famiglia, ec. Deserui patriam, gentemque, domunque,

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Me consanguineo fit duce laeta sibi (l. 1, carm. 1, v. 137 ec.).

E a questi li si può aggiugnere l'altro più lungo epitafiopubblicato nella Gallia Christiana (vol. 8, p. 1422) incui similmente egli è introdotto a favellare cosi:

Hesperia genitus hac sum tellure sepultus.

Il veder dunque assegnata a Teodolfo per patria l'Espe-ria, e i Goti ch'erano in Narbona venutivi dalla Spagna,detti da lui suoi congiunti, fa creder probabile a questodotto scrittore, ch'egli fosse spagnuolo. Ma in primoluogo il nome di Esperia davasi allora anche all'Italia,come è manifesto da queste parole di Paolino di Aqui-leia: Aquilejensis Sedis Hesperiis oris accinctae (in Sa-crosyllab. c. 2). In secondo luogo, come riflette lo stessop. Mabillon, eran della nazione medesima i Goti di Spa-gna e que' d'Italia, e perciò Teodolfo nato da una fami-glia di Goti Italiani potea chiamar suoi congiunti i Gotida Spagna venuti a Narbona. Non sembra dunque que-sto argomento bastevole ad affermare che Teodolfo fos-se spagnuolo, singolarmente al confronto della anticaCronaca sopraccitata che il dice italiano (27). Questo è ciò

27 La patria di Teodolfo ha somministrata al sig. Lampillas l'occasione di unanon breve dissertazione (t. 2, p. 130). Egli mi rimprovera, poichè io affer-mo che l'antica Cronaca prodotta dal Du Chesne lo dice italiano, mentre adir il vero ella altro non dice se non che ei fu chiamato dall'Italia. E in ciòconfesso che io non sono stato abbastanza esatto. Ciò non ostante, se ladetta Cronaca nol dice espressamente, sembra almeno indicarlo. Percioc-chè si rifletta. Nell'antico epitafio di Teodolfo, da me citato, ove egli è in-trodotto a parlare, si dice che per attaccarsi al servigio di Carlo Magno, eilasciò la patria e la famiglia, ec. Deserui patriam, gentemque, domunque,

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solo che della patria di Teodolfo possiam dire congettu-rando. Ma l'ab. Longchamps a cui piace rallegrare i let-tori con belle immagini e con piacevoli racconti, altreassai più belle notizie ci somministra. Godiamo noi puredi un tal piacere, e veggiamo ciò ch'ei ne narra: "Lospettacolo delle Alpi offerto agli occhi di Teodolfo an-cor fanciullo sviluppò senza dubbio il germe de' poeticisuoi talenti. Ei vide la luce in una piccola città posta allefalde di questi celebri monti. Questa sorprendente scenainfiammò il suo genio; cantò i prodigi della natura, e iprimi accenti della sua maraviglia furon da lui consecra-ti al loro autore (Tabl. hist. t. 3 p. 377)". Non è egli que-sto uno stile veramente poetico? E non vi brilla singo-larmente ciò che tanto solleva la Poesia, cioè l'invenzio-ne? Perchè mai non ha egli dato alla sua opera invecedel titolo di Quadro storico che non le sta troppo bene,quello di Quadro poetico che le conviene perfettamen-te?

laremque. Per conoscere dunque la patria di Teodolfo convien vedere daqual paese passasse egli al servigio di Carlo Magno. Or la detta Cronaca ciassicura che Teodolfo fu dall'Italia chiamato alla corte di Carlo. Dunquel'Italia era la patria di Teodofo. Riguardo agli altri argomenti ch'ei porta aprovare che Teodolfo fu spagnuolo, io lascio che ognun ne esamini la forzae il peso. Ridicola è poi l'accusa che a questo luogo egli mi dà, cioè ch'iomi sforzo quanto più posso di nascondere la povertà de' letterati italiani diquesto secolo. Chiunque ha occhi in fronte, potrà vedere quante volte iodeploro l'universale ignoranza in cui allora giaceva sepolta l'Italia.

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solo che della patria di Teodolfo possiam dire congettu-rando. Ma l'ab. Longchamps a cui piace rallegrare i let-tori con belle immagini e con piacevoli racconti, altreassai più belle notizie ci somministra. Godiamo noi puredi un tal piacere, e veggiamo ciò ch'ei ne narra: "Lospettacolo delle Alpi offerto agli occhi di Teodolfo an-cor fanciullo sviluppò senza dubbio il germe de' poeticisuoi talenti. Ei vide la luce in una piccola città posta allefalde di questi celebri monti. Questa sorprendente scenainfiammò il suo genio; cantò i prodigi della natura, e iprimi accenti della sua maraviglia furon da lui consecra-ti al loro autore (Tabl. hist. t. 3 p. 377)". Non è egli que-sto uno stile veramente poetico? E non vi brilla singo-larmente ciò che tanto solleva la Poesia, cioè l'invenzio-ne? Perchè mai non ha egli dato alla sua opera invecedel titolo di Quadro storico che non le sta troppo bene,quello di Quadro poetico che le conviene perfettamen-te?

laremque. Per conoscere dunque la patria di Teodolfo convien vedere daqual paese passasse egli al servigio di Carlo Magno. Or la detta Cronaca ciassicura che Teodolfo fu dall'Italia chiamato alla corte di Carlo. Dunquel'Italia era la patria di Teodofo. Riguardo agli altri argomenti ch'ei porta aprovare che Teodolfo fu spagnuolo, io lascio che ognun ne esamini la forzae il peso. Ridicola è poi l'accusa che a questo luogo egli mi dà, cioè ch'iomi sforzo quanto più posso di nascondere la povertà de' letterati italiani diquesto secolo. Chiunque ha occhi in fronte, potrà vedere quante volte iodeploro l'universale ignoranza in cui allora giaceva sepolta l'Italia.

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VI. Il p. Sirmondo (in not. ad l. 3, carm. 4Teod. t. 1 ejus Op.) e, dopo lui, molti mo-derni scrittori pensano che Teodolfo primadi arrolarsi nel clero menasse moglie, e neavesse una figlia chiamata Gisla. Il fonda-mento di questa opinione è un'elegia ch'eglile scrive, mandandole in dono un codice del

Salterio, e che incomincia così: Gisla, favente Deo venerabile suscipe donum,

Quod tibi Teodulfus dat pater ecce tuus.

Ma possiam noi assicurare che il nome di padre si abbiaqui a prendere in senso letterale e non metaforico? Enon può egli un vescovo singolarmente dare a se mede-simo questo nome per riguardo a quelli che sono allasua cura commessi? Poichè dunque non vi è altro monu-mento a provare che Teodolfo fosse ammogliato, nonparmi che ciò si possa affermare sicuramente. Checchèsia di ciò, Teodolfo dall'Italia passò in Francia invitatovida Carlo Magno per la stima che aveane concepita,come abbiam udito poc'anzi narrarsi da un antico scrit-tore, ed allettato insieme, come si legge nel soprammen-tovato epitafio pubblicato nella Gallia Christiana, dallesoavi maniere di questo principe: Cujus enim tanta captus dulcedine veni, Deserui patriam, gentemque, domumque, laremque.

Nè Carlo fu pago di averlo seco. Egli il volle innoltreonorare di ragguardevoli cariche, perchè col suo sapere

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Chiamato in Francia da Carlo Magno è fatto vesco-vo d'Orleans.

VI. Il p. Sirmondo (in not. ad l. 3, carm. 4Teod. t. 1 ejus Op.) e, dopo lui, molti mo-derni scrittori pensano che Teodolfo primadi arrolarsi nel clero menasse moglie, e neavesse una figlia chiamata Gisla. Il fonda-mento di questa opinione è un'elegia ch'eglile scrive, mandandole in dono un codice del

Salterio, e che incomincia così: Gisla, favente Deo venerabile suscipe donum,

Quod tibi Teodulfus dat pater ecce tuus.

Ma possiam noi assicurare che il nome di padre si abbiaqui a prendere in senso letterale e non metaforico? Enon può egli un vescovo singolarmente dare a se mede-simo questo nome per riguardo a quelli che sono allasua cura commessi? Poichè dunque non vi è altro monu-mento a provare che Teodolfo fosse ammogliato, nonparmi che ciò si possa affermare sicuramente. Checchèsia di ciò, Teodolfo dall'Italia passò in Francia invitatovida Carlo Magno per la stima che aveane concepita,come abbiam udito poc'anzi narrarsi da un antico scrit-tore, ed allettato insieme, come si legge nel soprammen-tovato epitafio pubblicato nella Gallia Christiana, dallesoavi maniere di questo principe: Cujus enim tanta captus dulcedine veni, Deserui patriam, gentemque, domumque, laremque.

Nè Carlo fu pago di averlo seco. Egli il volle innoltreonorare di ragguardevoli cariche, perchè col suo sapere

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Chiamato in Francia da Carlo Magno è fatto vesco-vo d'Orleans.

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più agevolmente si rendesse utile a molti. Perciò il fe'consecrare vescovo d'Orleans, e dichiarollo abate delmonastero di Fleury. In qual anno ciò accadesse, non èfacile a stabilire, perchè i monumenti ancora più autore-voli sembrano contraddirsi l'un l'altro. Abbiamo una let-tera di Carlo Magno a Manasse abate di Flavigny, in cuigli permette la fabbrica di un monastero, di che Manassel'avea richiesto, "per Theodulphum episcopum aurelia-nensem et abbatem Floriacensis Monasterii (Mabillon.Ann. bened. t. 2, l. 24, n. 85)". E questa lettera in qual-che edizione è datata dell'anno ottavo del regno di Car-lo, che in Francia era l'an. 775, o 776. Ma lo stesso p.Mabillon e gli autori della Gallia Cristiana riflettono(vol. 4, p. 456) che questa data deesi necessariamentecredere falsa, poichè non è possibile il fissare sì presto ilvescovado di Teodolfo. I suddetti autori della Gallia Cri-stiana osservano (ib. et vol. 8, p. 1420) che l'abate Ma-nasse morì l'an. 788, e ne raccolgono che in quest'annoalmeno, secondo l'indicata lettera di Carlo Magno, do-vea Teodolfo essere e vescovo ed abate. Ma è egli certoche Manasse morisse in quest'anno? Essi non ce ne arre-cano sicura pruova, e sol ci dicono: Obiisse legitur anno788. Dall'altra parte il p. Mabillon riflette (ib. l. 27, n.22) che la serie degli abati di Flavigny è assai oscura, edubbiosa, e che non è perciò facile l'accertare in qualanno precisamente morisse Manasse; e quindi l'argo-mento preso dalla morte di questo abate non è abbastan-za sicuro a fissar il tempo in cui Teodolfo avesse la ba-dia di Fleury e il vescovado d'Orleans. Lo stesso p. Ma-

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più agevolmente si rendesse utile a molti. Perciò il fe'consecrare vescovo d'Orleans, e dichiarollo abate delmonastero di Fleury. In qual anno ciò accadesse, non èfacile a stabilire, perchè i monumenti ancora più autore-voli sembrano contraddirsi l'un l'altro. Abbiamo una let-tera di Carlo Magno a Manasse abate di Flavigny, in cuigli permette la fabbrica di un monastero, di che Manassel'avea richiesto, "per Theodulphum episcopum aurelia-nensem et abbatem Floriacensis Monasterii (Mabillon.Ann. bened. t. 2, l. 24, n. 85)". E questa lettera in qual-che edizione è datata dell'anno ottavo del regno di Car-lo, che in Francia era l'an. 775, o 776. Ma lo stesso p.Mabillon e gli autori della Gallia Cristiana riflettono(vol. 4, p. 456) che questa data deesi necessariamentecredere falsa, poichè non è possibile il fissare sì presto ilvescovado di Teodolfo. I suddetti autori della Gallia Cri-stiana osservano (ib. et vol. 8, p. 1420) che l'abate Ma-nasse morì l'an. 788, e ne raccolgono che in quest'annoalmeno, secondo l'indicata lettera di Carlo Magno, do-vea Teodolfo essere e vescovo ed abate. Ma è egli certoche Manasse morisse in quest'anno? Essi non ce ne arre-cano sicura pruova, e sol ci dicono: Obiisse legitur anno788. Dall'altra parte il p. Mabillon riflette (ib. l. 27, n.22) che la serie degli abati di Flavigny è assai oscura, edubbiosa, e che non è perciò facile l'accertare in qualanno precisamente morisse Manasse; e quindi l'argo-mento preso dalla morte di questo abate non è abbastan-za sicuro a fissar il tempo in cui Teodolfo avesse la ba-dia di Fleury e il vescovado d'Orleans. Lo stesso p. Ma-

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billon congettura che invece d'anno octavo debbasi nellamentovata lettera leggere anno vigesimo octavo, checade nell'an. 795, o 796. "In fatti, egli dice (l. 24, n. 85),Teodolfo tenne il governo di quel monastero venti noninteri anni, e ne fu privato l'an. 814, come a suo luogodimostreremo" il che proverebbe appunto che verso l'an.795 ei ne ricevesse il governo. Il p. Mabillon mantienela sua parola, e altrove (l. 28, n. 78) cita un antico Cata-logo degli abati di Fleury, in cui si dice che Teodolfotenne quella badia per diciannove anni e mezzo. Maquesto dottissimo uomo per una di quelle inavvertenzein cui cadon talvolta anche i più esatti scrittori, non ri-cordandosi che avea già stabilita la disgrazia di Teodol-fo, e la perdita della dignità di abate all'an. 814, qui lafissa, come fu veramente, all'an. 817, secondo il qualcomputo, se Teodolfo fu abate diciannove anni e mezzo,convien dire che il monastero di Fleury gli fosse dato areggere circa l'an. 798. E questa parmi che sia la piùprobabile opinione, o tale almeno a cui niuna solida dif-ficoltà si possa opporre. Ma se allor solamente egli ebbela badia di Fleury, convien dire che alcuni anni prima eifosse vescovo d'Orleans; perciocchè noi vedremo frap-poco che Alcuino bramò che Teodolfo vescovo rispon-desse al libro di Felice vescovo di Urgel, in cui questiavea sparso il veleno della sua eresia. Or questo libroche fu poi esaminato nel Sinodo di Francfort l'an. 794dovette circa questo tempo medesimo divolgarsi; e per-ciò dovea già Teodolfo essere stato innalzato alla sedevescovile d'Orleans alcuni anni prima ch'ei ricevesse la

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billon congettura che invece d'anno octavo debbasi nellamentovata lettera leggere anno vigesimo octavo, checade nell'an. 795, o 796. "In fatti, egli dice (l. 24, n. 85),Teodolfo tenne il governo di quel monastero venti noninteri anni, e ne fu privato l'an. 814, come a suo luogodimostreremo" il che proverebbe appunto che verso l'an.795 ei ne ricevesse il governo. Il p. Mabillon mantienela sua parola, e altrove (l. 28, n. 78) cita un antico Cata-logo degli abati di Fleury, in cui si dice che Teodolfotenne quella badia per diciannove anni e mezzo. Maquesto dottissimo uomo per una di quelle inavvertenzein cui cadon talvolta anche i più esatti scrittori, non ri-cordandosi che avea già stabilita la disgrazia di Teodol-fo, e la perdita della dignità di abate all'an. 814, qui lafissa, come fu veramente, all'an. 817, secondo il qualcomputo, se Teodolfo fu abate diciannove anni e mezzo,convien dire che il monastero di Fleury gli fosse dato areggere circa l'an. 798. E questa parmi che sia la piùprobabile opinione, o tale almeno a cui niuna solida dif-ficoltà si possa opporre. Ma se allor solamente egli ebbela badia di Fleury, convien dire che alcuni anni prima eifosse vescovo d'Orleans; perciocchè noi vedremo frap-poco che Alcuino bramò che Teodolfo vescovo rispon-desse al libro di Felice vescovo di Urgel, in cui questiavea sparso il veleno della sua eresia. Or questo libroche fu poi esaminato nel Sinodo di Francfort l'an. 794dovette circa questo tempo medesimo divolgarsi; e per-ciò dovea già Teodolfo essere stato innalzato alla sedevescovile d'Orleans alcuni anni prima ch'ei ricevesse la

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mentovata badia.

VII. Queste dignità non furono le sole pruo-ve di stima ch'ei ricevesse da Carlo Magno.Questi inviollo insieme con Leidrado che fupoi vescovo di Lione, alla visita di alcuneprovincie delle Gallie per rendere in suo

nome giustizia a que' popoli coll'autorità propria diquelli che allor diceansi Missi Dominici; e lo stesso Teo-dolfo ci ha lasciata la descrizione esatta del viaggio chein tal occasione egli fece (l. 1, carm. 1). A' vantaggi del-la sua diocesi pensò saggiamente, e raccolto un sinodoprescrisse opportune leggi che ancor ci rimangono, enelle quali, come abbiamo altrove mostrato, veggiamomentovate le scuole de' maestri, e quelle che nelle lorparrocchie tener doveano i parrochi (Capit. 19, 20). Al-cuni monasteri ancora furono per opera di Teodolfo o ri-storati, o nuovamente fondati. Il sapere di cui egli erafornito, gli conciliò l'amicizia e la stima del celebre Al-cuino il quale ricevuto avendo da Carlo Magno il librodi Felice d'Urgel, perchè il confutasse, risposegli che sa-rebbe stato opportuno il mandarne copia ancora al roma-no pontefice, al patriarca Paolino, e a Ricbono (arcive-scovo di Treviri), e "a Teodolfo vescovi, dottori, e mae-stri, acciocchè ognuno di essi prendesse a confutarlo"(ep. 4, ad Car.). Egli è probabile che Teodolfo scrivessecontro la eresia di Felice ma s'egli il fece, non ce n'è ri-masto pure un frammento. Dopo la morte di Carlo Ma-

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Onori rice-vuti da Car-lo Magno e da Lodovi-co il Pio.

mentovata badia.

VII. Queste dignità non furono le sole pruo-ve di stima ch'ei ricevesse da Carlo Magno.Questi inviollo insieme con Leidrado che fupoi vescovo di Lione, alla visita di alcuneprovincie delle Gallie per rendere in suo

nome giustizia a que' popoli coll'autorità propria diquelli che allor diceansi Missi Dominici; e lo stesso Teo-dolfo ci ha lasciata la descrizione esatta del viaggio chein tal occasione egli fece (l. 1, carm. 1). A' vantaggi del-la sua diocesi pensò saggiamente, e raccolto un sinodoprescrisse opportune leggi che ancor ci rimangono, enelle quali, come abbiamo altrove mostrato, veggiamomentovate le scuole de' maestri, e quelle che nelle lorparrocchie tener doveano i parrochi (Capit. 19, 20). Al-cuni monasteri ancora furono per opera di Teodolfo o ri-storati, o nuovamente fondati. Il sapere di cui egli erafornito, gli conciliò l'amicizia e la stima del celebre Al-cuino il quale ricevuto avendo da Carlo Magno il librodi Felice d'Urgel, perchè il confutasse, risposegli che sa-rebbe stato opportuno il mandarne copia ancora al roma-no pontefice, al patriarca Paolino, e a Ricbono (arcive-scovo di Treviri), e "a Teodolfo vescovi, dottori, e mae-stri, acciocchè ognuno di essi prendesse a confutarlo"(ep. 4, ad Car.). Egli è probabile che Teodolfo scrivessecontro la eresia di Felice ma s'egli il fece, non ce n'è ri-masto pure un frammento. Dopo la morte di Carlo Ma-

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Onori rice-vuti da Car-lo Magno e da Lodovi-co il Pio.

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gno il cui testamento fu egli uno de' vescovi che sotto-scrissero (Eginhard. in Vita Car. M.), Lodovico Pio eb-belo per alcun tempo assai caro e destinollo insieme conGiovanni vesc. d'Arles e alcuni altri ad andare incontroal pontef. Stefano IV quando questi sen venne in Fran-cia l'an. 816 (Astronomus in Vita Lud. ad h. an.), nellaqual occasione egli ebbe dal romano pontefice l'onor delpallio e il titolo d'arcivescovo, come raccogliesi da alcu-ni diplomi allegati dagli autori della Gallia Cristiana(vol. 8, p. 421) (28).

VIII. Ma questi onori furon di troppo brevedurata. Bernardo re d'Italia sollevatosi l'an.817 contro l'imp. Lodovico suo zio, e quindiper pentimento della sconsigliata sua risolu-zione gittatosi nelle mani dello stesso Lodo-

vico insieme co' principali autori di essa, Teodolfo fuavvolto egli pure in questa procella. Il sopraccitato scrit-tore della Vita di Lodovico ci parla di ciò in maniera chenon si può accertare se Teodolfo fosse egli ancora, o nonfosse reo di tal ribellione: "Erant hujus sceleris consciiquamplures clerici seu laici: inter quos aliquos episco-pos hujus tempestatis procella involvit, Anselmum scili-

28 Il p. Frobenio ha prima di ogni altro osservato che una lettera da Alcuinoscritta a Teodolfo l'an. 802 ci mostra che fin da quell'anno avea questi rice-vuto l'onor del pallio, e il titolo di arcivescovo (Alc. Op. t. 1, pars 1, p.258); e ancorchè volesse combattersi l'epoca di quella lettera, è certo cheAlcuino, da cui essa fu scritta, finì di vivere l'an. 804, e che perciò aquest'anno al più tardi potrebbe differirsi.

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Incorre nel-la disgraziadi Lodovi-co il Pio: sua morte.

gno il cui testamento fu egli uno de' vescovi che sotto-scrissero (Eginhard. in Vita Car. M.), Lodovico Pio eb-belo per alcun tempo assai caro e destinollo insieme conGiovanni vesc. d'Arles e alcuni altri ad andare incontroal pontef. Stefano IV quando questi sen venne in Fran-cia l'an. 816 (Astronomus in Vita Lud. ad h. an.), nellaqual occasione egli ebbe dal romano pontefice l'onor delpallio e il titolo d'arcivescovo, come raccogliesi da alcu-ni diplomi allegati dagli autori della Gallia Cristiana(vol. 8, p. 421) (28).

VIII. Ma questi onori furon di troppo brevedurata. Bernardo re d'Italia sollevatosi l'an.817 contro l'imp. Lodovico suo zio, e quindiper pentimento della sconsigliata sua risolu-zione gittatosi nelle mani dello stesso Lodo-

vico insieme co' principali autori di essa, Teodolfo fuavvolto egli pure in questa procella. Il sopraccitato scrit-tore della Vita di Lodovico ci parla di ciò in maniera chenon si può accertare se Teodolfo fosse egli ancora, o nonfosse reo di tal ribellione: "Erant hujus sceleris consciiquamplures clerici seu laici: inter quos aliquos episco-pos hujus tempestatis procella involvit, Anselmum scili-

28 Il p. Frobenio ha prima di ogni altro osservato che una lettera da Alcuinoscritta a Teodolfo l'an. 802 ci mostra che fin da quell'anno avea questi rice-vuto l'onor del pallio, e il titolo di arcivescovo (Alc. Op. t. 1, pars 1, p.258); e ancorchè volesse combattersi l'epoca di quella lettera, è certo cheAlcuino, da cui essa fu scritta, finì di vivere l'an. 804, e che perciò aquest'anno al più tardi potrebbe differirsi.

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Incorre nel-la disgraziadi Lodovi-co il Pio: sua morte.

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cet Mediolanensem, Wulfoldum Cremonensem, sed etTheodulphum Aurelianensem". Ma altri scrittori troppochiaramente ne fanno reo lo stesso Teodolfo. Fra gli altriEginardo scrittor certamente di grandissima autorità cosìne dice: "Erant praeterea alii multa praeclari et nobilesviri qui in eodem scelere deprehensi sunt; inter quos etaliqui episcopi... et Theodulphus Aurelianensis fuere"(De gest. Lud. Pii ad an. 817). Lo stesso afferma l'auto-re di un'antica Cronaca pubblicata dal du Chesne(Script. Hist. Franc. vol. 3, p. 148), e Tegano scrittoreegli pure di questi tempi (De gest. Lud. Pii c. 22), il qua-le aggiugne che i vescovi rei confessarono il lor delitto.Ma in questo numero non vuol certo comprendersi Teo-dolfo, il quale sempre si protestò innocente. Ecco inqual maniera egli scrive al vesc. Agiulfo: Non regi aut proli, non ejus, crede, jugali

Peccavi, ut meritis haec mala tanta veham Crede meis verbis, frater sanctissime, crede,

Me objecti haud quaquam criminis esse reum.

E poco appresso: Haec ego clamavi, clamo, clamabo per aevum,

Haec donec animae membra liquor vegetat. Qui modo non credit, cogetur credere tandem,

Ventum erit ut magni Judicis ante thronum, ec. (l. 4, carm. 4).

In somigliante maniera egli parla al vescovo Modoino(ib. carm. 5), con cui pure si duole d'essere stato con-dennato benchè innocente. Queste sì solenni proteste

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cet Mediolanensem, Wulfoldum Cremonensem, sed etTheodulphum Aurelianensem". Ma altri scrittori troppochiaramente ne fanno reo lo stesso Teodolfo. Fra gli altriEginardo scrittor certamente di grandissima autorità cosìne dice: "Erant praeterea alii multa praeclari et nobilesviri qui in eodem scelere deprehensi sunt; inter quos etaliqui episcopi... et Theodulphus Aurelianensis fuere"(De gest. Lud. Pii ad an. 817). Lo stesso afferma l'auto-re di un'antica Cronaca pubblicata dal du Chesne(Script. Hist. Franc. vol. 3, p. 148), e Tegano scrittoreegli pure di questi tempi (De gest. Lud. Pii c. 22), il qua-le aggiugne che i vescovi rei confessarono il lor delitto.Ma in questo numero non vuol certo comprendersi Teo-dolfo, il quale sempre si protestò innocente. Ecco inqual maniera egli scrive al vesc. Agiulfo: Non regi aut proli, non ejus, crede, jugali

Peccavi, ut meritis haec mala tanta veham Crede meis verbis, frater sanctissime, crede,

Me objecti haud quaquam criminis esse reum.

E poco appresso: Haec ego clamavi, clamo, clamabo per aevum,

Haec donec animae membra liquor vegetat. Qui modo non credit, cogetur credere tandem,

Ventum erit ut magni Judicis ante thronum, ec. (l. 4, carm. 4).

In somigliante maniera egli parla al vescovo Modoino(ib. carm. 5), con cui pure si duole d'essere stato con-dennato benchè innocente. Queste sì solenni proteste

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fatte da Teodolfo ci potrebbon agevolmente far crederech'ei non fosse complice di un tal delitto. Ma pare ch'einon potesse allora persuaderlo ad alcuno, poichè gli sto-rici contemporanei comunemente il dicon reo. Anzi lostesso vescovo Medoino, a cui avea egli scritto prote-standosi innocente, nel rispondergli che fa in versi eglipure, benchè sembri dapprima che riconoscane l'inno-cenza, dicendo:

Exilium innocuus pateris pertriste sacerdos, ec. (inter Carm. Theod. l. 4, carm. 9).

poscia nondimeno lo esorta a confessare il commessodelitto, assicurandolo essere questa l'unica via ad ottene-re il perdono da Lodovico: Commissura scelus omne tibi dimittere mavult,

Si peccasse tamen te memorare velis .. ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... . Sed mihimet melius visum est, ut sponte fatetur,

Quodque negari ullo non valet ingenio. Nullo alio superari modo puto Principis iram

Posse, probes nisi te criminis esse reum.

Comunque fosse, le sue proteste non gli giovarono pun-to. L'anno seguente, come narra Eginardo con gli altristorici, in un sinodo da Lodovico radunato in Aquisgra-na a tal fine, i vescovi rei di questa congiura furon depo-sti, e rilegati in alcuni monasteri. A Teodolfo uno ne fuassegnato per carcere in Angers, dove egli si stette rac-chiuso per lo spazio di tre anni, cioè fino all'an. 821 in

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fatte da Teodolfo ci potrebbon agevolmente far crederech'ei non fosse complice di un tal delitto. Ma pare ch'einon potesse allora persuaderlo ad alcuno, poichè gli sto-rici contemporanei comunemente il dicon reo. Anzi lostesso vescovo Medoino, a cui avea egli scritto prote-standosi innocente, nel rispondergli che fa in versi eglipure, benchè sembri dapprima che riconoscane l'inno-cenza, dicendo:

Exilium innocuus pateris pertriste sacerdos, ec. (inter Carm. Theod. l. 4, carm. 9).

poscia nondimeno lo esorta a confessare il commessodelitto, assicurandolo essere questa l'unica via ad ottene-re il perdono da Lodovico: Commissura scelus omne tibi dimittere mavult,

Si peccasse tamen te memorare velis .. ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... ... . Sed mihimet melius visum est, ut sponte fatetur,

Quodque negari ullo non valet ingenio. Nullo alio superari modo puto Principis iram

Posse, probes nisi te criminis esse reum.

Comunque fosse, le sue proteste non gli giovarono pun-to. L'anno seguente, come narra Eginardo con gli altristorici, in un sinodo da Lodovico radunato in Aquisgra-na a tal fine, i vescovi rei di questa congiura furon depo-sti, e rilegati in alcuni monasteri. A Teodolfo uno ne fuassegnato per carcere in Angers, dove egli si stette rac-chiuso per lo spazio di tre anni, cioè fino all'an. 821 in

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cui Lodovico a tutti coloro che per ragione del re Ber-nardo erano stati esiliati, e fra essi a Teodolfo, diè il per-dono. Ma questi non ebbe tempo a goderne, perciocchèmentre stava per tornarsene alla sua chiesa, finì in An-gers i suoi giorni. Così chiaramente si afferma nel breveepitafio di questo celebre vescovo, pubblicato dal p.Mabillon, e più chiaramente ancora nell'altro più lungoche leggesi nella Gallia Christiana (l. c.) in cui così egliè introdotto a parlare di se medesimo: Is me tum claustris servari jusserat heros, Unde quidam (forte quidem) voluit me revocare satis; Sed suprema dies jussu delata Tonantis, Hac memet voluit ponere corpus humo.

Alle quali testimonianze pare che debbasi maggior fede,che non al racconto di un monaco (Letaldus de Mirac. s.Maximini c. 23), che il fa morto di veleno datogli, men-tre era già in viaggio per tornarsene ad Orleans, da colo-ro che usurpati aveano i beni della sua chiesa.

IX. Oltre i Capitoli da lui scritti a regola-mento del suo clero e della sua diocesi, e ol-

tre la confutazione ch'egli fece probabilmente, come si èdetto, del libro di Felice di Urgel, ma di cui nulla ci è ri-masto, abbiamo di Teodolfo un libro intorno all'Ordinedel Battesimo, ossia alle cirimonie in esso usate. CarloMagno per eccitare i vescovi allo studio delle scienzesacre piacevasi spesso di proporre or agli uni, or agli al-

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Sue opere.

cui Lodovico a tutti coloro che per ragione del re Ber-nardo erano stati esiliati, e fra essi a Teodolfo, diè il per-dono. Ma questi non ebbe tempo a goderne, perciocchèmentre stava per tornarsene alla sua chiesa, finì in An-gers i suoi giorni. Così chiaramente si afferma nel breveepitafio di questo celebre vescovo, pubblicato dal p.Mabillon, e più chiaramente ancora nell'altro più lungoche leggesi nella Gallia Christiana (l. c.) in cui così egliè introdotto a parlare di se medesimo: Is me tum claustris servari jusserat heros, Unde quidam (forte quidem) voluit me revocare satis; Sed suprema dies jussu delata Tonantis, Hac memet voluit ponere corpus humo.

Alle quali testimonianze pare che debbasi maggior fede,che non al racconto di un monaco (Letaldus de Mirac. s.Maximini c. 23), che il fa morto di veleno datogli, men-tre era già in viaggio per tornarsene ad Orleans, da colo-ro che usurpati aveano i beni della sua chiesa.

IX. Oltre i Capitoli da lui scritti a regola-mento del suo clero e della sua diocesi, e ol-

tre la confutazione ch'egli fece probabilmente, come si èdetto, del libro di Felice di Urgel, ma di cui nulla ci è ri-masto, abbiamo di Teodolfo un libro intorno all'Ordinedel Battesimo, ossia alle cirimonie in esso usate. CarloMagno per eccitare i vescovi allo studio delle scienzesacre piacevasi spesso di proporre or agli uni, or agli al-

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Sue opere.

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tri alcune quistioni appartenenti al dogma, o alla disci-plina; e molti singolarmente furon da lui interrogati diquesto argomento; e fra gli altri Magno arcivescovo diSens. Questi commise a Teodolfo di scriver su ciò; e Te-dolfo il fece col mentovato libro, che cel fa conoscereuomo nella Sacra Scrittura e nelle scienze ecclesiasticheversato assai. Un altro libro per comando di Carlo Ma-gno egli scrisse intorno allo Spirito Santo, in cui però al-tro egli non fece che raccogliere semplicemente i passidei Santi Padri, in cui ne ragionano, e tra essi ancora sene veggono alcuni supposti, ed attribuiti ad autori di cuinon sono. Abbiamo ancora i frammenti di due sacri ser-moni, e sei libri di poesie, parte sacre, parte profane, lequali a noi non sembran certo molto eleganti. Ma alloradovean credersi, in confronto di altre, ammirabili e divi-ne. Fra esse vedesi l'Inno, ossia l'Elegia, che dalla Chie-sa è stata adottata per la solenne procession delle Palme;e che comincia: Gloria, laus, et honor tibi sit, Rex Christe Redemptor

(l. 2, carm. 3).

Che questa Elegia fosse da lui composta, non si può du-bitare, veggendosi ella come opera di Teodolfo accenna-ta da Lupo abate di Ferrieres (ep. 20); e che innoltre eila scrivesse, mentre era rilegato in Angers, egli è mani-festo dalle cose stesse che in essa dice, ma ch'egli, comecomunemente si crede, prendesse dalla sua prigione acantarla, mentre l'imp. Lodovico vi passava dappresso, eche perciò ne ottenesse il perdono, non vi è pruova alcu-

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tri alcune quistioni appartenenti al dogma, o alla disci-plina; e molti singolarmente furon da lui interrogati diquesto argomento; e fra gli altri Magno arcivescovo diSens. Questi commise a Teodolfo di scriver su ciò; e Te-dolfo il fece col mentovato libro, che cel fa conoscereuomo nella Sacra Scrittura e nelle scienze ecclesiasticheversato assai. Un altro libro per comando di Carlo Ma-gno egli scrisse intorno allo Spirito Santo, in cui però al-tro egli non fece che raccogliere semplicemente i passidei Santi Padri, in cui ne ragionano, e tra essi ancora sene veggono alcuni supposti, ed attribuiti ad autori di cuinon sono. Abbiamo ancora i frammenti di due sacri ser-moni, e sei libri di poesie, parte sacre, parte profane, lequali a noi non sembran certo molto eleganti. Ma alloradovean credersi, in confronto di altre, ammirabili e divi-ne. Fra esse vedesi l'Inno, ossia l'Elegia, che dalla Chie-sa è stata adottata per la solenne procession delle Palme;e che comincia: Gloria, laus, et honor tibi sit, Rex Christe Redemptor

(l. 2, carm. 3).

Che questa Elegia fosse da lui composta, non si può du-bitare, veggendosi ella come opera di Teodolfo accenna-ta da Lupo abate di Ferrieres (ep. 20); e che innoltre eila scrivesse, mentre era rilegato in Angers, egli è mani-festo dalle cose stesse che in essa dice, ma ch'egli, comecomunemente si crede, prendesse dalla sua prigione acantarla, mentre l'imp. Lodovico vi passava dappresso, eche perciò ne ottenesse il perdono, non vi è pruova alcu-

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na che cel persuada; nè sembra probabile, come osser-vano gli autori della Gallia Cristiana, che Lodovico allo-ra fosse in Angers. Di queste opere e delle diverse edi-zioni che ne abbiamo veggansi singolarmente gli autoridella Storia letteraria di Francia, che assai diligentemen-te ne hanno trattato (t. 4, p. 462). Vuolsi osservare perultimo un non piccolo abbaglio preso dal card. Baronioche di un sol Teodolfo ha fatti due personaggi diversi,uno vescovo di Orleans l'an. 816 (Ann. eccl. ad h. an.),l'altro prima abate del monastero di Fleury, poscia reodella ribellion di Bernardo, ch'egli con altro errore, sta-bilisce all'an. 815, e quindi riconciliato con Lodovico, esollevato egli pure alla vescovil cattedra d'Orleans (ib.ad an. 835). I quali errori, che ora non meriterebbonperdono, non debbono però scemar punto la stima diquesto illustre scrittore, che essendo stato il primo a pe-netrare entro la folta caligine fra cui era involta la civilenon meno che l'ecclesiastica storia, e privo di tanti e sìpregevoli monumenti che si son poscia scoperti, non èmaraviglia che cadesse spesso in tali fatti dai quali nonera quasi possibile ch'ei si potesse guardare.

X. Io ho voluto stendermi alquanto su ciòche appartiene a Teodolfo, perchè parmi chenon debbasi trascurar la memoria di un ita-liano che pel suo sapere fu da Carlo Magnochiamato in Francia, e di cui egli si valse a

richiamare in quel suo regno natio le scienze che si gia-

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Notizie di Claudio ve-scovo di Torino: sua eresia.

na che cel persuada; nè sembra probabile, come osser-vano gli autori della Gallia Cristiana, che Lodovico allo-ra fosse in Angers. Di queste opere e delle diverse edi-zioni che ne abbiamo veggansi singolarmente gli autoridella Storia letteraria di Francia, che assai diligentemen-te ne hanno trattato (t. 4, p. 462). Vuolsi osservare perultimo un non piccolo abbaglio preso dal card. Baronioche di un sol Teodolfo ha fatti due personaggi diversi,uno vescovo di Orleans l'an. 816 (Ann. eccl. ad h. an.),l'altro prima abate del monastero di Fleury, poscia reodella ribellion di Bernardo, ch'egli con altro errore, sta-bilisce all'an. 815, e quindi riconciliato con Lodovico, esollevato egli pure alla vescovil cattedra d'Orleans (ib.ad an. 835). I quali errori, che ora non meriterebbonperdono, non debbono però scemar punto la stima diquesto illustre scrittore, che essendo stato il primo a pe-netrare entro la folta caligine fra cui era involta la civilenon meno che l'ecclesiastica storia, e privo di tanti e sìpregevoli monumenti che si son poscia scoperti, non èmaraviglia che cadesse spesso in tali fatti dai quali nonera quasi possibile ch'ei si potesse guardare.

X. Io ho voluto stendermi alquanto su ciòche appartiene a Teodolfo, perchè parmi chenon debbasi trascurar la memoria di un ita-liano che pel suo sapere fu da Carlo Magnochiamato in Francia, e di cui egli si valse a

richiamare in quel suo regno natio le scienze che si gia-

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Notizie di Claudio ve-scovo di Torino: sua eresia.

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cevan prima abbandonate e neglette. Più brevementeparlerò di uno straniero che a noi fu mandato da Ludovi-co il Pio, come uom dotto, di cui l'Italia abbisognasseper essere dirozzata: ma di essa non gli seppe troppobuon grado. Parlo del celebre Claudio vescovo di Tori-no. Questi, come racconta Giona vescovo di Orleans esuccessore immediato di Teodolfo (praef. ad l. de CultuImag.), nato in Ispagna, e vissuto per qualche tempo allacorte di Ludovico, ove dicesi ancora ch'egli tenessescuola, "sembrando che qualche perizia avesse nellasposizione delle Sacre Scritture, fu per opera dello stes-so imperadore consecrato vescovo di Torino, affinchèpotesse nelle scienze sacre istruire i popoli italiani, chein esse parevano allora assai rozzi". Così Giona. Se taleveramente fosse a que' tempi lo stato della nostra Italia,io lascerò che ognuno il vegga per se medesimo. Lecose che finora abbiam dette, e che ci rimangono a direin questo libro medesimo, ci fan conoscere che, benchèanche in Italia fosse universal l'ignoranza, non ci man-cavan però alcuni che potessero istruire non solo l'Italia,ma la Francia ancora ed altre provincie, come in fattiavvenne. Ma convien dire che Lodovico credesse l'Italiapiù d'ogni altro paese barbara e rozza; e che perciò le fa-cesse dono di un uom sì dotto, qual era Claudio. Egliperò in vece d'esser utile con tal presente, poco mancòche non le fosse sommamente fatale. La contesa che nelsecolo precedente si era accesa tra' Latini e tra' Greci sulculto delle immagini, e il molto disputarne che si erafatto in Francia e in Allemagna, ove il secondo Concilio

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cevan prima abbandonate e neglette. Più brevementeparlerò di uno straniero che a noi fu mandato da Ludovi-co il Pio, come uom dotto, di cui l'Italia abbisognasseper essere dirozzata: ma di essa non gli seppe troppobuon grado. Parlo del celebre Claudio vescovo di Tori-no. Questi, come racconta Giona vescovo di Orleans esuccessore immediato di Teodolfo (praef. ad l. de CultuImag.), nato in Ispagna, e vissuto per qualche tempo allacorte di Ludovico, ove dicesi ancora ch'egli tenessescuola, "sembrando che qualche perizia avesse nellasposizione delle Sacre Scritture, fu per opera dello stes-so imperadore consecrato vescovo di Torino, affinchèpotesse nelle scienze sacre istruire i popoli italiani, chein esse parevano allora assai rozzi". Così Giona. Se taleveramente fosse a que' tempi lo stato della nostra Italia,io lascerò che ognuno il vegga per se medesimo. Lecose che finora abbiam dette, e che ci rimangono a direin questo libro medesimo, ci fan conoscere che, benchèanche in Italia fosse universal l'ignoranza, non ci man-cavan però alcuni che potessero istruire non solo l'Italia,ma la Francia ancora ed altre provincie, come in fattiavvenne. Ma convien dire che Lodovico credesse l'Italiapiù d'ogni altro paese barbara e rozza; e che perciò le fa-cesse dono di un uom sì dotto, qual era Claudio. Egliperò in vece d'esser utile con tal presente, poco mancòche non le fosse sommamente fatale. La contesa che nelsecolo precedente si era accesa tra' Latini e tra' Greci sulculto delle immagini, e il molto disputarne che si erafatto in Francia e in Allemagna, ove il secondo Concilio

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Niceno trovò per lungo tempo contrastatori e nimici, ri-svegliò in Claudio il desiderio di scrivere su tale argo-mento; e lasciatosi abbagliare dalle apparenti ragioniche dai nimici delle immagini si arrecavano in difesa delloro errore, scrisse egli pure contro il culto che ad esserendevasi. Il comento sul Levitico, in cui egli cominciòa spargere il suo veleno, fu da lui indirizzato a Teodemi-ro abate di un monastero detto di Psalmodi in Francia.Questi avendo impugnata l'eresia di Claudio, ei cercò didifendersi, e pubblicò un libro intitolato Apologetico,che diede poi occasione ad altri libri contro di lui pub-blicati dallo stesso Teodemiro, da Dungalo e dal suddet-to Giona. Ciò che in questo vi ha di strano, si è che,come altrove abbiamo osservato, gli errori di Claudionon fecero alcun rumore in Italia. Niun italiano pensò aconfutarlo; niun de' romani pontefici levossi contro dilui, come sarebbe avvenuto se i suoi sentimenti fosserostati palesi; niun sinodo finalmente si tenne per lui inItalia. Noi veggiam solo che il pontef. Pasquale I erasdegnato contro di Claudio (Jonas Aurel. De CultuImag. l. 3 sub fin.); ma da tutto il complesso delle paroledi questo passo da me accennato sembra che ciò nasces-se soltanto dall'impedir che Claudio faceva i divoti pel-legrinaggi a Roma. Certo non vi è memoria che in Italiasi parlasse delle opinioni di Claudio intorno al culto del-le immagini. Il che io penso che avvenisse, perchè gliscritti di Claudio non si divolgarono in Italia, ma solo inFrancia, ove egli li mandò a Teodemiro, e forse anchead altri suoi antichi amici; e perciò ivi solo si sparser gli

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Niceno trovò per lungo tempo contrastatori e nimici, ri-svegliò in Claudio il desiderio di scrivere su tale argo-mento; e lasciatosi abbagliare dalle apparenti ragioniche dai nimici delle immagini si arrecavano in difesa delloro errore, scrisse egli pure contro il culto che ad esserendevasi. Il comento sul Levitico, in cui egli cominciòa spargere il suo veleno, fu da lui indirizzato a Teodemi-ro abate di un monastero detto di Psalmodi in Francia.Questi avendo impugnata l'eresia di Claudio, ei cercò didifendersi, e pubblicò un libro intitolato Apologetico,che diede poi occasione ad altri libri contro di lui pub-blicati dallo stesso Teodemiro, da Dungalo e dal suddet-to Giona. Ciò che in questo vi ha di strano, si è che,come altrove abbiamo osservato, gli errori di Claudionon fecero alcun rumore in Italia. Niun italiano pensò aconfutarlo; niun de' romani pontefici levossi contro dilui, come sarebbe avvenuto se i suoi sentimenti fosserostati palesi; niun sinodo finalmente si tenne per lui inItalia. Noi veggiam solo che il pontef. Pasquale I erasdegnato contro di Claudio (Jonas Aurel. De CultuImag. l. 3 sub fin.); ma da tutto il complesso delle paroledi questo passo da me accennato sembra che ciò nasces-se soltanto dall'impedir che Claudio faceva i divoti pel-legrinaggi a Roma. Certo non vi è memoria che in Italiasi parlasse delle opinioni di Claudio intorno al culto del-le immagini. Il che io penso che avvenisse, perchè gliscritti di Claudio non si divolgarono in Italia, ma solo inFrancia, ove egli li mandò a Teodemiro, e forse anchead altri suoi antichi amici; e perciò ivi solo si sparser gli

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errori di Claudio, ove se ne fecer pubblici i libri. Quinditroppo facilmente a mostrar l'ignoranza de' vescovid'Italia ha il Muratori, seguito poscia da altri, applicataad essi (Antiq. Ital. t. 3, p. 816) l'ingiuriosa espressioneusata da Claudio, il quale, come narra Dungalo (Respon.advers. Claud. taurin.), "renuit ad conventum occurrereEpiscoporum, vocans illorum Synodum congregationemasinorum". Non già in Italia, come si è detto, ma inFrancia si tenne il sinodo contro di Claudio, di cui ab-biamo altrove parlato, e perciò de' vescovi francesi, enon degl'italiani, parlò Claudio, benchè contro ogni ra-gione con sì grande disprezzo. Ma questo disprezzo glifu ben ricambiato. Ecco in qual miniera di lui parlaDungalo (l. c.): "Claudius igitur dum nullam liberaliumdidicerit disciplinarum rationem, literarum significatio-nes proprietatesque ignorans verborum, genera generi-bus, numeros numeris, casus casibus jungere rationabilinescit constructione; et sic maximos, ut fama est, audettractatus conficere, quos sui proprii laboris et industriaeesse mentitur, cum illos glossario opere ex aliorum vo-luminibus transferendo, immo dissipando ac depravandoexcerpit, quosque illorum expositionibus auctorum, equibus eos evellere furarique praesumit, miserrima at-que vanissima praefert elatione, neque praeter illos aliospermittit libros legi in sua civitate, auctoritatem sui no-minis frontibus inscribens singulorum hoc modo: IncipitCommentarium, aut Tractatus, vel Expositio ClaudiiTaurinensis Episcopi. De antiquis autem, ec.". Così pro-siegue Dungalo rimproverando a Claudio l'abbellirsi

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errori di Claudio, ove se ne fecer pubblici i libri. Quinditroppo facilmente a mostrar l'ignoranza de' vescovid'Italia ha il Muratori, seguito poscia da altri, applicataad essi (Antiq. Ital. t. 3, p. 816) l'ingiuriosa espressioneusata da Claudio, il quale, come narra Dungalo (Respon.advers. Claud. taurin.), "renuit ad conventum occurrereEpiscoporum, vocans illorum Synodum congregationemasinorum". Non già in Italia, come si è detto, ma inFrancia si tenne il sinodo contro di Claudio, di cui ab-biamo altrove parlato, e perciò de' vescovi francesi, enon degl'italiani, parlò Claudio, benchè contro ogni ra-gione con sì grande disprezzo. Ma questo disprezzo glifu ben ricambiato. Ecco in qual miniera di lui parlaDungalo (l. c.): "Claudius igitur dum nullam liberaliumdidicerit disciplinarum rationem, literarum significatio-nes proprietatesque ignorans verborum, genera generi-bus, numeros numeris, casus casibus jungere rationabilinescit constructione; et sic maximos, ut fama est, audettractatus conficere, quos sui proprii laboris et industriaeesse mentitur, cum illos glossario opere ex aliorum vo-luminibus transferendo, immo dissipando ac depravandoexcerpit, quosque illorum expositionibus auctorum, equibus eos evellere furarique praesumit, miserrima at-que vanissima praefert elatione, neque praeter illos aliospermittit libros legi in sua civitate, auctoritatem sui no-minis frontibus inscribens singulorum hoc modo: IncipitCommentarium, aut Tractatus, vel Expositio ClaudiiTaurinensis Episcopi. De antiquis autem, ec.". Così pro-siegue Dungalo rimproverando a Claudio l'abbellirsi

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ch'egli facea delle altrui spoglie, e il vantare come operedi suo ingegno ciò che non era che una mal tessuta com-pilazione de' sentimenti altrui. E Giona similmente: "Fa-miliare est tibi, Claudi, ex aliorum opusculis quaedamsurripere, quaedam subtrahere, quaedam immutare,quaedam etiam his de tuo contra fas superaddere, tui-sque dictionibus, ut tua propria, furtim aptare, ec.".Dungalo e Giona sarebbono meritevoli di maggior lodese contro il loro avversario avessero scritto con modera-zione migliore. Ma egli è certo che Claudio era qualeappunto essi il descrivono, non già autore, ma semplicee non sempre esatto compilatore, come raccogliesi daquella parte che abbiamo alle stampe de' molti Comen-tarj da lui scritti sui sacri libri, cioè da quelli su alcunedell'Epistole di s. Paolo pubblicati già fin dall'an. 1542,e poscia inseriti nelle Biblioteche de' Padri, e da quellisu' Libri de' Re dati alla luce dal dottiss. p. abate Trom-belli (Vet. PP. Latin. Opusc. t. 2, pars 2) (29). Ma egli èvero ancora che Claudio stesso talvolta protesta di volerfare ciò appunto, come nella prefazione a' suddetti Co-mentarj su' Libri de' Re, e in quella a' Comentarj al Van-gelo di s. Matteo pubblicata dal p. Mabillon (Ann. Ord.s. Bened. vol. 2 App. n. 41); e quindi non sembra ch'eimeritasse per questo riguardo gli amari rimproveri diDungalo e di Giona, benchè troppo ei fosse meritevol di29 Avea ancor Claudio vescovo di Torino scritti Comenti sull'Esodo, e il ch.

sig. ab. Zaccaria ha pubblicata una lettera ad esso scritta da Teodemiroabate, in cui gli rende grazie, perchè glieli abbia inviati, e gli propone asciogliere alcune quistioni su' Libri de' Re, parlando con sentimenti dimolta stima del sapere di esso (Bilblioth. Pistor. l. 1, p. 60).

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ch'egli facea delle altrui spoglie, e il vantare come operedi suo ingegno ciò che non era che una mal tessuta com-pilazione de' sentimenti altrui. E Giona similmente: "Fa-miliare est tibi, Claudi, ex aliorum opusculis quaedamsurripere, quaedam subtrahere, quaedam immutare,quaedam etiam his de tuo contra fas superaddere, tui-sque dictionibus, ut tua propria, furtim aptare, ec.".Dungalo e Giona sarebbono meritevoli di maggior lodese contro il loro avversario avessero scritto con modera-zione migliore. Ma egli è certo che Claudio era qualeappunto essi il descrivono, non già autore, ma semplicee non sempre esatto compilatore, come raccogliesi daquella parte che abbiamo alle stampe de' molti Comen-tarj da lui scritti sui sacri libri, cioè da quelli su alcunedell'Epistole di s. Paolo pubblicati già fin dall'an. 1542,e poscia inseriti nelle Biblioteche de' Padri, e da quellisu' Libri de' Re dati alla luce dal dottiss. p. abate Trom-belli (Vet. PP. Latin. Opusc. t. 2, pars 2) (29). Ma egli èvero ancora che Claudio stesso talvolta protesta di volerfare ciò appunto, come nella prefazione a' suddetti Co-mentarj su' Libri de' Re, e in quella a' Comentarj al Van-gelo di s. Matteo pubblicata dal p. Mabillon (Ann. Ord.s. Bened. vol. 2 App. n. 41); e quindi non sembra ch'eimeritasse per questo riguardo gli amari rimproveri diDungalo e di Giona, benchè troppo ei fosse meritevol di29 Avea ancor Claudio vescovo di Torino scritti Comenti sull'Esodo, e il ch.

sig. ab. Zaccaria ha pubblicata una lettera ad esso scritta da Teodemiroabate, in cui gli rende grazie, perchè glieli abbia inviati, e gli propone asciogliere alcune quistioni su' Libri de' Re, parlando con sentimenti dimolta stima del sapere di esso (Bilblioth. Pistor. l. 1, p. 60).

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biasimo per gli errori ostinatamente di lui sostenuti, da'quali però fu fortunatamente, come si è detto, preservatal'Italia. A qual anno ei morisse, non si può accertare.Certo egli era ancor vivo l'an. 839, come mostral'Ughelli (Ital. Sacra vol. 4). Dell'opere da lui scritteveggasi fra gli altri il p. Ceillier (Hist. des Aut. eccl.).

XI. Per ultimo tra' personaggi che per lascienza delle cose ecclesiastiche furonoavuti in gran conto da Carlo Magno, deb-bonsi annoverare due arcivescovi di Mila-no, Pietro che tenne quella sede dall'an.784 fino all'an. 801, e Odelberto o Odel-

perto che tennela dall'an. 803 fino all'an. 813 (V. Giul.Mem. di Mil. t. 1, p. 74, ec. 98, ec.); e innoltre Massen-zio patriarca d'Aquileia. Dell'arcivescovo Pietro moltecose si narrano dall'Argelati (Bibl. Scipt. mediol. t. 1, p.1005). Ma sarebbe a bramare che questo scrittore avessenel comporre la Biblioteca degli Scrittori milanesi usatodi miglior critica e di più saggio discernimento; e nonavesse senza distinzione alcuna unite insieme le cosecerte a quelle che son troppo dubbiose, o anche manife-stamente false. Così egli afferma che Pietro fu della fa-miglia degli Oldradi; e non v'ha chi non sappia che l'usode' cognomi fu a questa età posteriore di molto. Eglidice appoggiato all'Ughelli che Pietro prima di esserearcivescovo fu segretario del pontef. Adriano I: ma con-verrebbe averne un testimonio più antico e più autorevo-

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Errori dell'Argelati nel ragionar di Pietro arci-vescovo di Milano.

biasimo per gli errori ostinatamente di lui sostenuti, da'quali però fu fortunatamente, come si è detto, preservatal'Italia. A qual anno ei morisse, non si può accertare.Certo egli era ancor vivo l'an. 839, come mostral'Ughelli (Ital. Sacra vol. 4). Dell'opere da lui scritteveggasi fra gli altri il p. Ceillier (Hist. des Aut. eccl.).

XI. Per ultimo tra' personaggi che per lascienza delle cose ecclesiastiche furonoavuti in gran conto da Carlo Magno, deb-bonsi annoverare due arcivescovi di Mila-no, Pietro che tenne quella sede dall'an.784 fino all'an. 801, e Odelberto o Odel-

perto che tennela dall'an. 803 fino all'an. 813 (V. Giul.Mem. di Mil. t. 1, p. 74, ec. 98, ec.); e innoltre Massen-zio patriarca d'Aquileia. Dell'arcivescovo Pietro moltecose si narrano dall'Argelati (Bibl. Scipt. mediol. t. 1, p.1005). Ma sarebbe a bramare che questo scrittore avessenel comporre la Biblioteca degli Scrittori milanesi usatodi miglior critica e di più saggio discernimento; e nonavesse senza distinzione alcuna unite insieme le cosecerte a quelle che son troppo dubbiose, o anche manife-stamente false. Così egli afferma che Pietro fu della fa-miglia degli Oldradi; e non v'ha chi non sappia che l'usode' cognomi fu a questa età posteriore di molto. Eglidice appoggiato all'Ughelli che Pietro prima di esserearcivescovo fu segretario del pontef. Adriano I: ma con-verrebbe averne un testimonio più antico e più autorevo-

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Errori dell'Argelati nel ragionar di Pietro arci-vescovo di Milano.

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le dell'Ughelli. Ch'ei fosse da Adriano mandato in Fran-cia a Carlo Magno per sollecitarlo alla guerra contro de'Longobardi, è stato scritto ancora dal ch. Sassi (SeriesArchiep. mediol. t. 2, p. 264). Ma il diligentiss. co. Giu-lini osserva assai giustamente (l. c. p. 2) che gli antichiscrittori ci narran bensì che l'inviato di Adriano appella-vasi Pietro, ma ch'ei fosse quel desso che fu poi arcive-scovo di Milano, essi nol dicono, ne vi è argomento chebasti a provarlo. Aggiugne l'Argelati che Pietro pel suosapere e per le dispute cogli Eretici sostenute ebbe daCarlo Magno il glorioso titolo di martello degli Eretici;ch'egli scrisse alcuni libri contro gli Arriani; e che percomando d'Adriano pontefice raccolse le Opere di s.Gregorio il grande. Ma tutto ciò, come osserva il so-praccitato dottiss. Sassi, non si asserisce che sul fonda-mento di troppo recenti autori. E lo stesso dicasi di altrecose che dall'Argelatì ci si danno quai fatti da non dubi-tarne; ma che dal Sassi si mostrano o false, o almenonon abbastanza provate. Tra esse quella che più appar-tiene a quest'opera, è la lettera da Pietro scritta a CarloMagno, in cui il ragguaglia delle traslazioni seguite delcorpo di s. Agostino, e ch'è stata pubblicata anche dalcard. Baronio (Ann. eccl. ad an. 725). Intorno ad essa ilSassi non muove alcun dubbio, e sembra che la ricono-sca legittima. Ma altri ne pensano diversamente, e parmia ragione. Il p. Pagi la crede interamente supposta (Crit.ad Ann. Baron. ad eumd. an.). E tal pure è il parere delsoprallodato co. Giulini (l. c. p. 66). Il dottissimo p. Stil-tingo, uno de' continuatori del Bollando, crede che al-

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le dell'Ughelli. Ch'ei fosse da Adriano mandato in Fran-cia a Carlo Magno per sollecitarlo alla guerra contro de'Longobardi, è stato scritto ancora dal ch. Sassi (SeriesArchiep. mediol. t. 2, p. 264). Ma il diligentiss. co. Giu-lini osserva assai giustamente (l. c. p. 2) che gli antichiscrittori ci narran bensì che l'inviato di Adriano appella-vasi Pietro, ma ch'ei fosse quel desso che fu poi arcive-scovo di Milano, essi nol dicono, ne vi è argomento chebasti a provarlo. Aggiugne l'Argelati che Pietro pel suosapere e per le dispute cogli Eretici sostenute ebbe daCarlo Magno il glorioso titolo di martello degli Eretici;ch'egli scrisse alcuni libri contro gli Arriani; e che percomando d'Adriano pontefice raccolse le Opere di s.Gregorio il grande. Ma tutto ciò, come osserva il so-praccitato dottiss. Sassi, non si asserisce che sul fonda-mento di troppo recenti autori. E lo stesso dicasi di altrecose che dall'Argelatì ci si danno quai fatti da non dubi-tarne; ma che dal Sassi si mostrano o false, o almenonon abbastanza provate. Tra esse quella che più appar-tiene a quest'opera, è la lettera da Pietro scritta a CarloMagno, in cui il ragguaglia delle traslazioni seguite delcorpo di s. Agostino, e ch'è stata pubblicata anche dalcard. Baronio (Ann. eccl. ad an. 725). Intorno ad essa ilSassi non muove alcun dubbio, e sembra che la ricono-sca legittima. Ma altri ne pensano diversamente, e parmia ragione. Il p. Pagi la crede interamente supposta (Crit.ad Ann. Baron. ad eumd. an.). E tal pure è il parere delsoprallodato co. Giulini (l. c. p. 66). Il dottissimo p. Stil-tingo, uno de' continuatori del Bollando, crede che al-

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meno molte cose vi siano state posteriormente intruse,poichè è certo che nè il cognome di Oldrado datoall'arcivescovo Pietro, nè il soprannome di Magno datoa Carlo ancor vivente, nè l'uso dell'era cristiana, che inessa vedesi, nè i varj anacronismi che vi s'incontrano,non ci permetton di crederla scritta a questi tempi, qualealmeno noi l'abbiamo al presente.

XII. Ma ancorchè si rigettin tutte le cose so-praccennate, abbiamo altre più sicure pruo-ve del sapere di Pietro e della stima cheaveane Carlo Magno. Questi volle che Pie-tro fosse un de' vescovi che intervennero al

Concilio di Francfort l'an. 794, ed egli perciò vien nomi-nato così nell'Epistola Sinodica scritta, come abbiamoveduto, da Paolino patriarca d'Aquileia, e in cui proba-bilmente ebbe parte anche l'arcivesc. Pietro, come inquella di Carlo Magno scritta dopo il sinodo ad Elipan-do e agli altri vescovi della Spagna (Collect. Concil.vol. 13, p. 90 ed. ven. 1767). Alla stima che Carlo aveaper questo arcivescovo, si aggiunse quella nulla minoreche per lui avea il celebre Alcuino. Oltre una lettera cheda alcuni credesi da lui scritta a Pietro, perchè ella è in-dirizzata Seniori Transalpino (ep. 4), una ve ne ha certa-mente a lui scritta, che perciò è stata inserita dal ch. Sas-si nella Vita di questo illustre prelato (l. c. p. 269); e inessa ben mostra Alcuino qual tenero sentimento di fi-glial riverenza ei nutrisse verso l'arcivesc. Pietro, quanto

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In quanta stima egli fosse di uom dotto.

meno molte cose vi siano state posteriormente intruse,poichè è certo che nè il cognome di Oldrado datoall'arcivescovo Pietro, nè il soprannome di Magno datoa Carlo ancor vivente, nè l'uso dell'era cristiana, che inessa vedesi, nè i varj anacronismi che vi s'incontrano,non ci permetton di crederla scritta a questi tempi, qualealmeno noi l'abbiamo al presente.

XII. Ma ancorchè si rigettin tutte le cose so-praccennate, abbiamo altre più sicure pruo-ve del sapere di Pietro e della stima cheaveane Carlo Magno. Questi volle che Pie-tro fosse un de' vescovi che intervennero al

Concilio di Francfort l'an. 794, ed egli perciò vien nomi-nato così nell'Epistola Sinodica scritta, come abbiamoveduto, da Paolino patriarca d'Aquileia, e in cui proba-bilmente ebbe parte anche l'arcivesc. Pietro, come inquella di Carlo Magno scritta dopo il sinodo ad Elipan-do e agli altri vescovi della Spagna (Collect. Concil.vol. 13, p. 90 ed. ven. 1767). Alla stima che Carlo aveaper questo arcivescovo, si aggiunse quella nulla minoreche per lui avea il celebre Alcuino. Oltre una lettera cheda alcuni credesi da lui scritta a Pietro, perchè ella è in-dirizzata Seniori Transalpino (ep. 4), una ve ne ha certa-mente a lui scritta, che perciò è stata inserita dal ch. Sas-si nella Vita di questo illustre prelato (l. c. p. 269); e inessa ben mostra Alcuino qual tenero sentimento di fi-glial riverenza ei nutrisse verso l'arcivesc. Pietro, quanto

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In quanta stima egli fosse di uom dotto.

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desiderasse di abboccarsi con lui, e quanto ne pregiasseil sapere: "Tuum est, gli scrive egli fra le altre cose, pa-ter sancte, absentes precibus adjuvare, praesentes verbiserudire, exemplis confortare... Tu vero beatitudinis the-sauros tuis relinque nepotibus, ut per longas ecclesiasti-cae eruditionis series coelestis regni gloria tibi semperaugeatur". Quindi ancorchè non ci sia rimasta opera al-cuna che si possa sicuramente attribuire all'arcivesc.Pietro, egli è certo però, che fu questi uno de' più dottipastori che allora avesse la Chiesa.

XIII. L'altro arcivescovo di Milano, cioèOdelberto, fu egli pure del suo sapere assaiaccetto a Carlo. Questi che, come si è dettoaltrove, scriveva spesso lettere circolari aivescovi de' suoi regni, chiedendo loro loscioglimento or di una, or di altra quistione,per eccitarli in tal modo e coltivare le scien-ze sacre, scrisse tra gli altri a Odelberto,proponendogli alcuni dubbi intorno al batte-

simo (Mabill. Analecta p. 75 ed. paris. 1723), e questirisposegli con un libro diviso in ventidue capi, in cuisoddisfaceva a' quesiti dall'imperadore propostigli. Essoconservasi ancor manoscritto nel monastero di Augiapresso Costanza (Oudin. de Script. eccl. t. 2, p. 1). Il p.Mabillon ha pubblicata la lettera che Odelberto vi aveapremessa a Carlo Magno, e insieme i titoli e i principi diciaschedun capo, da' quali si vede che avea egli seguito

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Odelberto arcivesc. di Milano, e Massenzio patriarca d'Aquileja onorati essipure da Carlo Ma-gno.

desiderasse di abboccarsi con lui, e quanto ne pregiasseil sapere: "Tuum est, gli scrive egli fra le altre cose, pa-ter sancte, absentes precibus adjuvare, praesentes verbiserudire, exemplis confortare... Tu vero beatitudinis the-sauros tuis relinque nepotibus, ut per longas ecclesiasti-cae eruditionis series coelestis regni gloria tibi semperaugeatur". Quindi ancorchè non ci sia rimasta opera al-cuna che si possa sicuramente attribuire all'arcivesc.Pietro, egli è certo però, che fu questi uno de' più dottipastori che allora avesse la Chiesa.

XIII. L'altro arcivescovo di Milano, cioèOdelberto, fu egli pure del suo sapere assaiaccetto a Carlo. Questi che, come si è dettoaltrove, scriveva spesso lettere circolari aivescovi de' suoi regni, chiedendo loro loscioglimento or di una, or di altra quistione,per eccitarli in tal modo e coltivare le scien-ze sacre, scrisse tra gli altri a Odelberto,proponendogli alcuni dubbi intorno al batte-

simo (Mabill. Analecta p. 75 ed. paris. 1723), e questirisposegli con un libro diviso in ventidue capi, in cuisoddisfaceva a' quesiti dall'imperadore propostigli. Essoconservasi ancor manoscritto nel monastero di Augiapresso Costanza (Oudin. de Script. eccl. t. 2, p. 1). Il p.Mabillon ha pubblicata la lettera che Odelberto vi aveapremessa a Carlo Magno, e insieme i titoli e i principi diciaschedun capo, da' quali si vede che avea egli seguito

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Odelberto arcivesc. di Milano, e Massenzio patriarca d'Aquileja onorati essipure da Carlo Ma-gno.

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il metodo allor comune a molti scrittori ecclesiastici, dicomporre i trattati unicamente sull'autorità de' Padri, al-legando ciò che da essi diceasi sugli articoli controversi.Gli stessi quesiti furon da Carlo Magno proposti a Mas-senzio patriarca d'Aquileia, e questi pur gli rispose conuna lunga e dotta lettera, che dal p. Bernardo Pez è statadata alla luce (Thes. noviss. Anecd. t. 2, pars 2, col. 7).Di questo patriarca assai eruditamente ragiona il piùvolte lodato sig. Liruti (De' Letter. del Friuli t. 1, p. 250ec.).

XIV. Noi ci siam finora per lo più trattenutiin quella parte d'Italia, che formava il regnodi questo nome, e che ubbidiva perciò aCarlo Magno, a Lodovico il Pio, e a' lor suc-cessori. Ma le altre provincie ancora non fu-ron in questo secolo prive d'uomini per sa-

per rinomati, in ciò singolarmente che alle scienze sacreappartiene. Il monastero di Monte Casino in ogni età fe-condissimo d'uomini dotti ebbe a suo abate nel IX seco-lo, cioè dall'an. 834 fino all'an. 837, Autperto, che nonsolo gli accrebbe onore col suo sapere, di cui diè pruovacon più omelie da lui scritte, ma recogli ancora vantag-gio col lasciargli in dono un'assai pregevole copia di co-dici ch'egli avea raccolti (Petrus diac. de Ill. Casin. cumnot. J. B. Mari c. 33). Ma ancor più celebre fu in quelmonastero l'abate Bertario, uomo nei sacri non menoche ne' profani studj assai erudito. Noi non negheremo

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Autperto e Bertario abati di Monte Ca-sino, e uo-mini dotti.

il metodo allor comune a molti scrittori ecclesiastici, dicomporre i trattati unicamente sull'autorità de' Padri, al-legando ciò che da essi diceasi sugli articoli controversi.Gli stessi quesiti furon da Carlo Magno proposti a Mas-senzio patriarca d'Aquileia, e questi pur gli rispose conuna lunga e dotta lettera, che dal p. Bernardo Pez è statadata alla luce (Thes. noviss. Anecd. t. 2, pars 2, col. 7).Di questo patriarca assai eruditamente ragiona il piùvolte lodato sig. Liruti (De' Letter. del Friuli t. 1, p. 250ec.).

XIV. Noi ci siam finora per lo più trattenutiin quella parte d'Italia, che formava il regnodi questo nome, e che ubbidiva perciò aCarlo Magno, a Lodovico il Pio, e a' lor suc-cessori. Ma le altre provincie ancora non fu-ron in questo secolo prive d'uomini per sa-

per rinomati, in ciò singolarmente che alle scienze sacreappartiene. Il monastero di Monte Casino in ogni età fe-condissimo d'uomini dotti ebbe a suo abate nel IX seco-lo, cioè dall'an. 834 fino all'an. 837, Autperto, che nonsolo gli accrebbe onore col suo sapere, di cui diè pruovacon più omelie da lui scritte, ma recogli ancora vantag-gio col lasciargli in dono un'assai pregevole copia di co-dici ch'egli avea raccolti (Petrus diac. de Ill. Casin. cumnot. J. B. Mari c. 33). Ma ancor più celebre fu in quelmonastero l'abate Bertario, uomo nei sacri non menoche ne' profani studj assai erudito. Noi non negheremo

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Autperto e Bertario abati di Monte Ca-sino, e uo-mini dotti.

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alla Francia la gloria di avergli data la luce. Ei vi nac-que, come nella Cronaca del suddetto monastero si narra(Chron. Casin. l. 1, c. 33), d'illustre famiglia che discen-deva dalla reale; ma ancor giovinetto, venne a conse-crarsi a Dio in Italia, e scelto a tal fine Monte Casino, viprofessò la vita monastica, e ne fu poscia eletto abatel'an. 856. Le diligenze da lui usate per difendere il suomonastero dalle scorrerie e dalle violenze de' Saraciniche allora travagliavan l'Italia, il solenne ricevimentoche egli vi fece dell'imp. Lodovico II, dell'imperadriceEngelberga, e le altre cose da lui nel suo governo opera-te che non appartengono al mio argomento, si possonvedere presso gli storici benedettini, e singolarmentepresso il p. Mabillon (Ann. ben. vol. 3, l. 36, 37; ActaSS. Ord. s. Bened. vol. 6). Ma i ripari da lui fatti controil furore dei Saracini nol difesero abbastanza. Questil'an. 883 entrati a forza nel monastero vi fecero orribilestrage di quasi tutti i monaci, e fra essi del santo loroabate Bertario, e diedero alle fiamme que' sacri edificj.Era egli, come abbiamo accennato, uomo assai dotto, ecosì Leon marsicano (Chron. Casin. l. 1, c. 33), comePietro diacono (De Ill. Casin. c. 12), ci han tramandatala memoria de' libri che egli avea composti, cioè alcunitrattati e alcuni sermoni in lode de' Santi fra' quali unsolo ne è stato dato alla luce dal p. Mabillon (Acta SS.Ord. s. Bened. vol. 1) in lode di santa Scolastica con al-cuni versi in lode di s. Benedetto, ch'eran già stati pub-blicati con alcuni versi da lui fatti in onore della impera-drice Engelberga; come pure alcuni suoi Inni sopra lo

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alla Francia la gloria di avergli data la luce. Ei vi nac-que, come nella Cronaca del suddetto monastero si narra(Chron. Casin. l. 1, c. 33), d'illustre famiglia che discen-deva dalla reale; ma ancor giovinetto, venne a conse-crarsi a Dio in Italia, e scelto a tal fine Monte Casino, viprofessò la vita monastica, e ne fu poscia eletto abatel'an. 856. Le diligenze da lui usate per difendere il suomonastero dalle scorrerie e dalle violenze de' Saraciniche allora travagliavan l'Italia, il solenne ricevimentoche egli vi fece dell'imp. Lodovico II, dell'imperadriceEngelberga, e le altre cose da lui nel suo governo opera-te che non appartengono al mio argomento, si possonvedere presso gli storici benedettini, e singolarmentepresso il p. Mabillon (Ann. ben. vol. 3, l. 36, 37; ActaSS. Ord. s. Bened. vol. 6). Ma i ripari da lui fatti controil furore dei Saracini nol difesero abbastanza. Questil'an. 883 entrati a forza nel monastero vi fecero orribilestrage di quasi tutti i monaci, e fra essi del santo loroabate Bertario, e diedero alle fiamme que' sacri edificj.Era egli, come abbiamo accennato, uomo assai dotto, ecosì Leon marsicano (Chron. Casin. l. 1, c. 33), comePietro diacono (De Ill. Casin. c. 12), ci han tramandatala memoria de' libri che egli avea composti, cioè alcunitrattati e alcuni sermoni in lode de' Santi fra' quali unsolo ne è stato dato alla luce dal p. Mabillon (Acta SS.Ord. s. Bened. vol. 1) in lode di santa Scolastica con al-cuni versi in lode di s. Benedetto, ch'eran già stati pub-blicati con alcuni versi da lui fatti in onore della impera-drice Engelberga; come pure alcuni suoi Inni sopra lo

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stesso s. Benedetto (V. Ceillier Hist. des Aut. eccl. t. 19,p. 385). Avea egli ancora composto un libro da lui convoce greca detto Anticimenon, ossia conciliazione de'passi che sembrano tra loro contrarj nella Sacra Scrittu-ra, la qual opera, dice il p. Angelo dalla Noce (in not. adChron. Casin. l. c.), che conservasi ancor manoscrittanel monastero di Monte Casino. Ma il p. Mabillon (Iter.Ital. p. 124) osserva che sembra anzi essere un'operanon già da Bertario composta, ma per suo comando co-piata. Finalmente avea egli scritti alcuni libri gramatica-li, e due libri di medicina, ne' quali, dice Leon marsica-no, egli avea da molti volumi diligentemente raccolti in-finiti generi di rimedj.

XV. Io non credo che nel numero di coloroche per dottrina si renderono sopra gli altrifamosi, debba aver luogo Agnello, detto an-cora Andrea, prete di Ravenna e autore del

libro Pontificale, ossia delle Vite de' Vescovi di quella sìcelebre chiesa. Ei non si mostra certo nè uom molto dot-to, nè molto elegante scrittore, come confessano que'due medesimi che più d'ogni altro dovean esser sollecitidi rilevarne il valore, cioè il p. abate Bacchini e il Mura-tori, nelle prefazioni premesse alla Storia di questo auto-re, che dal primo fu data per la prima volta alla luce, edal secondo inserita nella sua gran Raccolta degli Scrit-tori delle cose d'Italia (t. 2, pars 1). Nondimeno, comeessi riflettono, anche di questa sua rozza fatica noi gli

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Notizie diAndreaAgnello.

stesso s. Benedetto (V. Ceillier Hist. des Aut. eccl. t. 19,p. 385). Avea egli ancora composto un libro da lui convoce greca detto Anticimenon, ossia conciliazione de'passi che sembrano tra loro contrarj nella Sacra Scrittu-ra, la qual opera, dice il p. Angelo dalla Noce (in not. adChron. Casin. l. c.), che conservasi ancor manoscrittanel monastero di Monte Casino. Ma il p. Mabillon (Iter.Ital. p. 124) osserva che sembra anzi essere un'operanon già da Bertario composta, ma per suo comando co-piata. Finalmente avea egli scritti alcuni libri gramatica-li, e due libri di medicina, ne' quali, dice Leon marsica-no, egli avea da molti volumi diligentemente raccolti in-finiti generi di rimedj.

XV. Io non credo che nel numero di coloroche per dottrina si renderono sopra gli altrifamosi, debba aver luogo Agnello, detto an-cora Andrea, prete di Ravenna e autore del

libro Pontificale, ossia delle Vite de' Vescovi di quella sìcelebre chiesa. Ei non si mostra certo nè uom molto dot-to, nè molto elegante scrittore, come confessano que'due medesimi che più d'ogni altro dovean esser sollecitidi rilevarne il valore, cioè il p. abate Bacchini e il Mura-tori, nelle prefazioni premesse alla Storia di questo auto-re, che dal primo fu data per la prima volta alla luce, edal secondo inserita nella sua gran Raccolta degli Scrit-tori delle cose d'Italia (t. 2, pars 1). Nondimeno, comeessi riflettono, anche di questa sua rozza fatica noi gli

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Notizie diAndreaAgnello.

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dobbiamo esser tenuti, poichè molte cose appartenentialla sacra e alla profana storia e a' costumi di questi tem-pi egli ci ha conservate, di cui altrimenti saremmo rima-sti privi. Egli era nato, come dimostrano i due allegatiscrittori al principio del IX secolo, e fu abate, ossia cu-stode, o rettore, di due monasteri, cioè di quello di S.Maria ad Blachernas e di quello di s. Bartolommeo, delqual secondo però fu egli privato dall'arcivesc. Giorgio.S'egli fosse o scismatico per la discordia che si lunga-mente divise la chiesa ravennate dalla romana, comecrede il p. Bacchini, o solamente di animo mal prevenu-to contro i romani pontefici, come sostiene l'Amadesi inuna dissertazione accennata dal p. abate Ginanni (Scritt.ravenn. t. 1, p. 20), non è di quest'opera il ricercarlo, e isuddetti autori potranno intorno a ciò e ad altre cose ap-partenenti ad Agnello fornire quelle più copiose notizieche si bramino per avventura da alcuni. Io avvertirò soloche non conviene confondere, come ha fatto il Vossio(De Histor. lat. l. 3, c. 4) con altri, l'Agnello storico,coll'Agnello arcivescovo di Ravenna, che visse più ditre secoli innanzi allo storico (30).

30 Tutto ciò che appartiene ad Agnello, si può ora vedere nell'opera del sud-detto ab. Giuseppe Luigi Amadesi sulla serie degli Arcivescovi di Raven-na pubblicata in Firenze in tre tomi in 4, l'an. 1783.

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dobbiamo esser tenuti, poichè molte cose appartenentialla sacra e alla profana storia e a' costumi di questi tem-pi egli ci ha conservate, di cui altrimenti saremmo rima-sti privi. Egli era nato, come dimostrano i due allegatiscrittori al principio del IX secolo, e fu abate, ossia cu-stode, o rettore, di due monasteri, cioè di quello di S.Maria ad Blachernas e di quello di s. Bartolommeo, delqual secondo però fu egli privato dall'arcivesc. Giorgio.S'egli fosse o scismatico per la discordia che si lunga-mente divise la chiesa ravennate dalla romana, comecrede il p. Bacchini, o solamente di animo mal prevenu-to contro i romani pontefici, come sostiene l'Amadesi inuna dissertazione accennata dal p. abate Ginanni (Scritt.ravenn. t. 1, p. 20), non è di quest'opera il ricercarlo, e isuddetti autori potranno intorno a ciò e ad altre cose ap-partenenti ad Agnello fornire quelle più copiose notizieche si bramino per avventura da alcuni. Io avvertirò soloche non conviene confondere, come ha fatto il Vossio(De Histor. lat. l. 3, c. 4) con altri, l'Agnello storico,coll'Agnello arcivescovo di Ravenna, che visse più ditre secoli innanzi allo storico (30).

30 Tutto ciò che appartiene ad Agnello, si può ora vedere nell'opera del sud-detto ab. Giuseppe Luigi Amadesi sulla serie degli Arcivescovi di Raven-na pubblicata in Firenze in tre tomi in 4, l'an. 1783.

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XVI. Con più ragione tra gli uomini dottidi questi tempi vuolsi annoverare Austasiosoprannomato bibliotecario. Due personag-gi del medesimo nome, celebri amendue;ma per diversi riguardi, fiorirono dopo lametà del IX secolo di cui scriviamo. Un diessi fu Anastasio cardinale del titolo di s.

Marcello, il quale avendo per 5 anni abbandonata la suachiesa, ne venne perciò solennemente privato l'anno853, poscia l'anno 855 turbò e sconvolse la chiesa perintrodursi nella cattedra di s. Pietro, da cui però cacciatofra poco si stette privo della comunione cattolica finoall'anno 868 in cui Adriano II pietosamente vel riammi-se; ma poi per nuovi delitti da lui commessi nel privònuovamente nell'anno stesso. Che questi fosse ancorabibliotecario della santa sede, si asserisce dall'autore de-gli Annali bertiniani pubblicati dopo altri dal Muratori(Script. rer. ital. t. 2, pars 1 ad an. 868), ed è l'unico,ch'io sappia, tra gli antichi scrittori, che gli dia un talnome. Ma a dir vero, temo ch'ei sia caduto in errore;poichè ne' Brevi di Leone IV e di Adriano II, che l'autormedesimo ci ha tramandati, altro titolo non veggiamdato ad Anastasio fuorchè quello di cardinale del titolodi s. Marcello. Ed è probabile che l'autor degli Annali, ilqual sembra francese, confondesse egli pure, cometant'altri hanno fatto, il cardinale Anastasio di cui ab-biam finora parlato, col bibliotecario di cui or dobbiamragionare. Molti son gli scrittori ancor tra' moderni, chehanno confusi insieme questi due personaggi, e fattone

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Notizie di Anastasio bi-bliotecario: da lui deesi distinguere ilcard. Anasta-sio.

XVI. Con più ragione tra gli uomini dottidi questi tempi vuolsi annoverare Austasiosoprannomato bibliotecario. Due personag-gi del medesimo nome, celebri amendue;ma per diversi riguardi, fiorirono dopo lametà del IX secolo di cui scriviamo. Un diessi fu Anastasio cardinale del titolo di s.

Marcello, il quale avendo per 5 anni abbandonata la suachiesa, ne venne perciò solennemente privato l'anno853, poscia l'anno 855 turbò e sconvolse la chiesa perintrodursi nella cattedra di s. Pietro, da cui però cacciatofra poco si stette privo della comunione cattolica finoall'anno 868 in cui Adriano II pietosamente vel riammi-se; ma poi per nuovi delitti da lui commessi nel privònuovamente nell'anno stesso. Che questi fosse ancorabibliotecario della santa sede, si asserisce dall'autore de-gli Annali bertiniani pubblicati dopo altri dal Muratori(Script. rer. ital. t. 2, pars 1 ad an. 868), ed è l'unico,ch'io sappia, tra gli antichi scrittori, che gli dia un talnome. Ma a dir vero, temo ch'ei sia caduto in errore;poichè ne' Brevi di Leone IV e di Adriano II, che l'autormedesimo ci ha tramandati, altro titolo non veggiamdato ad Anastasio fuorchè quello di cardinale del titolodi s. Marcello. Ed è probabile che l'autor degli Annali, ilqual sembra francese, confondesse egli pure, cometant'altri hanno fatto, il cardinale Anastasio di cui ab-biam finora parlato, col bibliotecario di cui or dobbiamragionare. Molti son gli scrittori ancor tra' moderni, chehanno confusi insieme questi due personaggi, e fattone

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Notizie di Anastasio bi-bliotecario: da lui deesi distinguere ilcard. Anasta-sio.

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un solo, come osserva il ch. co. Mazzucchelli (Scritt.Ital. t. 1, par. 2, p. 663). Ma col sol confrontare le sicurenotizie che di ciascheduno di essi ci son rimaste, parmisì evidentemente provata la lor distinzione, che questaquistione non si possa dire ancora indecisa, come purela chiama il suddetto erudito scrittore. Le cose che noiin breve ne accenneremo, lo renderan manifesto.

XVII. Il nostro Anastasio non fu mai car-dinale, e il solo titolo che a lui veggiamdato ne' titoli delle sue opere, si è quello dibibliotecario della sede apostolica. Egli era

prima abate di un monastero di là dal Tevere, dedicatoin onore della Madre di Dio, come egli stesso si chiamanel Prologo ad alcuni miracoli di s. Basilio pubblicatodal p. Mabillon (Museum ital. t. 1, pars 2). L'an. 869 eitrovossi in Costantinopoli inviatovi dall'imp. LodovicoII per trattare il matrimonio tra una sua figliuola e il fi-gliuol di Basilio, com'egli stesso racconta (in Vita Hadr.II). La presenza di Anastasio fu assai utile alla chiesaromana. Tenevasi ivi allora l'VIII Concilio generale incui Fozio fu condennato; e poichè esso in 10 sessioni fufelicemente conchiuso, i legati del papa prima di sotto-scriverne gli atti diedergli a esaminare ad Anastasio,perciocchè egli, dice Guglielmo bibliotecario (in VitaJoan. VIII), era nell'una e nell'altra lingua eloquentissi-mo. Egli in fatti osservò che in una lettera del papaaveano i Greci invidiosamente troncate le lodi ch'egli

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Impieghi edopere del bi-bliotecario.

un solo, come osserva il ch. co. Mazzucchelli (Scritt.Ital. t. 1, par. 2, p. 663). Ma col sol confrontare le sicurenotizie che di ciascheduno di essi ci son rimaste, parmisì evidentemente provata la lor distinzione, che questaquistione non si possa dire ancora indecisa, come purela chiama il suddetto erudito scrittore. Le cose che noiin breve ne accenneremo, lo renderan manifesto.

XVII. Il nostro Anastasio non fu mai car-dinale, e il solo titolo che a lui veggiamdato ne' titoli delle sue opere, si è quello dibibliotecario della sede apostolica. Egli era

prima abate di un monastero di là dal Tevere, dedicatoin onore della Madre di Dio, come egli stesso si chiamanel Prologo ad alcuni miracoli di s. Basilio pubblicatodal p. Mabillon (Museum ital. t. 1, pars 2). L'an. 869 eitrovossi in Costantinopoli inviatovi dall'imp. LodovicoII per trattare il matrimonio tra una sua figliuola e il fi-gliuol di Basilio, com'egli stesso racconta (in Vita Hadr.II). La presenza di Anastasio fu assai utile alla chiesaromana. Tenevasi ivi allora l'VIII Concilio generale incui Fozio fu condennato; e poichè esso in 10 sessioni fufelicemente conchiuso, i legati del papa prima di sotto-scriverne gli atti diedergli a esaminare ad Anastasio,perciocchè egli, dice Guglielmo bibliotecario (in VitaJoan. VIII), era nell'una e nell'altra lingua eloquentissi-mo. Egli in fatti osservò che in una lettera del papaaveano i Greci invidiosamente troncate le lodi ch'egli

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Impieghi edopere del bi-bliotecario.

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rendeva all'imp. Lodovico, di che fece avvertiti i legati,e insieme adoperossi con sommo zelo e con uguale ac-corgimento, perchè non avessero effetto le frodi d'alcuniGreci che render volevano inutile il tenuto concilio. In-torno a ciò, poichè non appartiene al nostro argomentosi posson vedere, oltre la mentovata Vita di Adriano II,tutti gli scrittori della storia ecclesiastica di questi tempi.Lo stesso Guglielmo bibliotecario ci ha lasciata memo-ria di alcune delle opere del suo antico predecessoreAnastasio; perciocchè ci dice (in ejusd. Vita) che per co-mando del pontef. Giovanni VIII ei recò di greco in lati-no il VII universale Concilio: inoltre i libri della Gerar-chia attribuiti a s. Dionigi areopagita; il Martirio di s.Pietro d'Alessandria e di s. Acacio, e la Vita di s. Gio-vanni limosiniere. Ma questo è il minor numero delleopere di Anastasio. Altre assai più ne tradusse egli dalgreco in latino, che sono annoverate dagli autori dellebiblioteche ecclesiastiche, e con diligenza ancor mag-giore dal soprallodato co. Mazzucchelli. In queste ver-sioni Anastasio non si mostra molto elegante scrittore,ma bensì fedele ed esatto interprete ch'è il pregio mag-giore che in tali opere si può bramare.

XVIII. L'opera per cui il nome d'Anastasioè singolarmente famoso, è quella appuntoche forse men gli appartiene, dico il LibroPontificale, ossia le Vite de' romani Ponte-fici. Tre magnifiche edizioni ne abbiam

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Qual parteegli abbianelle Vite de'romani pon-tefici.

rendeva all'imp. Lodovico, di che fece avvertiti i legati,e insieme adoperossi con sommo zelo e con uguale ac-corgimento, perchè non avessero effetto le frodi d'alcuniGreci che render volevano inutile il tenuto concilio. In-torno a ciò, poichè non appartiene al nostro argomentosi posson vedere, oltre la mentovata Vita di Adriano II,tutti gli scrittori della storia ecclesiastica di questi tempi.Lo stesso Guglielmo bibliotecario ci ha lasciata memo-ria di alcune delle opere del suo antico predecessoreAnastasio; perciocchè ci dice (in ejusd. Vita) che per co-mando del pontef. Giovanni VIII ei recò di greco in lati-no il VII universale Concilio: inoltre i libri della Gerar-chia attribuiti a s. Dionigi areopagita; il Martirio di s.Pietro d'Alessandria e di s. Acacio, e la Vita di s. Gio-vanni limosiniere. Ma questo è il minor numero delleopere di Anastasio. Altre assai più ne tradusse egli dalgreco in latino, che sono annoverate dagli autori dellebiblioteche ecclesiastiche, e con diligenza ancor mag-giore dal soprallodato co. Mazzucchelli. In queste ver-sioni Anastasio non si mostra molto elegante scrittore,ma bensì fedele ed esatto interprete ch'è il pregio mag-giore che in tali opere si può bramare.

XVIII. L'opera per cui il nome d'Anastasioè singolarmente famoso, è quella appuntoche forse men gli appartiene, dico il LibroPontificale, ossia le Vite de' romani Ponte-fici. Tre magnifiche edizioni ne abbiam

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Qual parteegli abbianelle Vite de'romani pon-tefici.

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avute in Italia in questo secolo; una da monsig. France-sco Bianchini in 4 volumi in foglio, il primo de' quali fupubblicato nel 1718, l'ultimo l'an. 1755 dal p. GiuseppeBianchini dopo la morte di monsig. Francesco suo zio;la seconda dall'ab. Giovanni Vignoli cominciata nel1724 e finita nel 1755 in 3 tomi in quarto; la terza final-mente dal proposto Muratori inserita nella sua raccoltadegli Scrittori delle cose italiane (t. 3, pars 1). Tutti que-sti eruditi scrittori, e più altri ancora, oltre l'aver illustra-ta quest'opera col confronto de' codici manoscritti ecoll'aggiunta di erudite annotazioni, hanno ancora esa-minata la sì dibattuta quistione, se Anastasio debba rico-noscersi autore di questo libro. Le lunghe e dotte disser-tazioni dell'Olstenio, dello Schelestrate, di monsig.Ciampini e di monsig. Bianchini, che il Muratori ha in-sieme unite e pubblicate innanzi alla sua mentovata edi-zione tutte si rivolgon su essa, e tutte sono uniformi inaffermare e provare che Anastasio non fu propiamenteautore, ma raccoglitore di queste Vite, e che esse sonoestratte dagli antichi Catalogi de' Romani Pontefici, da-gli Atti de' Martiri, che nella chiesa romana diligente-mente si conservavano, e da altre memorie che negli ar-chivj delle chiese di Roma eran riposte; il che non solonon iscema di nulla l'autorità e il pregio di queste Vite,ma il rende assai maggiore, poichè più sicuramente pos-siamo affidarci a cotali antiche memorie scritte per lopiù da autori contemporanei, che non a semplice raccon-to di uno scrittore vissuto più secoli dopo il tempo di cuiragiona. Solo alcune Vite de' Papì che vissero a' suoi

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avute in Italia in questo secolo; una da monsig. France-sco Bianchini in 4 volumi in foglio, il primo de' quali fupubblicato nel 1718, l'ultimo l'an. 1755 dal p. GiuseppeBianchini dopo la morte di monsig. Francesco suo zio;la seconda dall'ab. Giovanni Vignoli cominciata nel1724 e finita nel 1755 in 3 tomi in quarto; la terza final-mente dal proposto Muratori inserita nella sua raccoltadegli Scrittori delle cose italiane (t. 3, pars 1). Tutti que-sti eruditi scrittori, e più altri ancora, oltre l'aver illustra-ta quest'opera col confronto de' codici manoscritti ecoll'aggiunta di erudite annotazioni, hanno ancora esa-minata la sì dibattuta quistione, se Anastasio debba rico-noscersi autore di questo libro. Le lunghe e dotte disser-tazioni dell'Olstenio, dello Schelestrate, di monsig.Ciampini e di monsig. Bianchini, che il Muratori ha in-sieme unite e pubblicate innanzi alla sua mentovata edi-zione tutte si rivolgon su essa, e tutte sono uniformi inaffermare e provare che Anastasio non fu propiamenteautore, ma raccoglitore di queste Vite, e che esse sonoestratte dagli antichi Catalogi de' Romani Pontefici, da-gli Atti de' Martiri, che nella chiesa romana diligente-mente si conservavano, e da altre memorie che negli ar-chivj delle chiese di Roma eran riposte; il che non solonon iscema di nulla l'autorità e il pregio di queste Vite,ma il rende assai maggiore, poichè più sicuramente pos-siamo affidarci a cotali antiche memorie scritte per lopiù da autori contemporanei, che non a semplice raccon-to di uno scrittore vissuto più secoli dopo il tempo di cuiragiona. Solo alcune Vite de' Papì che vissero a' suoi

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tempi, si crede che sieno di Anastasio, benchè nel deter-minarle non sien tra loro concordi i suddetti autori; ed èassai malagevole il diffinire qual sia il parer più proba-bile, poichè troppo siam privi de' monumenti che a pro-vare l'uno a preferenza dell'altro sarebbono necessarj.Basti dunque l'aver accennato di tal quistione quanto èsufficiente a intenderne l'argomento e lo stato; e lascia-mo che chi brama di saperne più addentro, consulti i so-praccennati scrittori. In qual anno seguisse la morte diAnastasio, è ugualmente incerto; nè si può addurre ra-gione che la provi avvenuta in un anno anzi che in un al-tro; e solo si può affermare ch'egli morì verso la fine delIX secolo.

XIX. Vivea presso allo stesso tempo Gio-vanni diacono nella chiesa romana, di cuiabbiamo una Vita di s. Gregorio il grande dalui diligentemente raccolta, come egli stessoprotestasi, dalle più sicure memorie che ne-

gli archivj di Roma si conservavano. Egli la dedicò conuna breve elegia al pontef. Giovanni VIII. Da una letteraa lui scritta da Anastasio bibliotecario, in cui il prega acorreggere e ripulire ciò che trovasse di rozzo ne' suoiscritti che gli mandava, cioè nella Raccolta de' monu-menti appartenenti all'eresia de' Monoteliti da lui tradot-ti dal greco, e pubblicati poscia dal p. Sirmondo (vol. 3Op.), da questa lettera, dico, noi raccogliamo che Gio-vanni avea intenzione di scrivere una Storia ecclesiasti-

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Opere diGiovannidiaconodella chiesaromana.

tempi, si crede che sieno di Anastasio, benchè nel deter-minarle non sien tra loro concordi i suddetti autori; ed èassai malagevole il diffinire qual sia il parer più proba-bile, poichè troppo siam privi de' monumenti che a pro-vare l'uno a preferenza dell'altro sarebbono necessarj.Basti dunque l'aver accennato di tal quistione quanto èsufficiente a intenderne l'argomento e lo stato; e lascia-mo che chi brama di saperne più addentro, consulti i so-praccennati scrittori. In qual anno seguisse la morte diAnastasio, è ugualmente incerto; nè si può addurre ra-gione che la provi avvenuta in un anno anzi che in un al-tro; e solo si può affermare ch'egli morì verso la fine delIX secolo.

XIX. Vivea presso allo stesso tempo Gio-vanni diacono nella chiesa romana, di cuiabbiamo una Vita di s. Gregorio il grande dalui diligentemente raccolta, come egli stessoprotestasi, dalle più sicure memorie che ne-

gli archivj di Roma si conservavano. Egli la dedicò conuna breve elegia al pontef. Giovanni VIII. Da una letteraa lui scritta da Anastasio bibliotecario, in cui il prega acorreggere e ripulire ciò che trovasse di rozzo ne' suoiscritti che gli mandava, cioè nella Raccolta de' monu-menti appartenenti all'eresia de' Monoteliti da lui tradot-ti dal greco, e pubblicati poscia dal p. Sirmondo (vol. 3Op.), da questa lettera, dico, noi raccogliamo che Gio-vanni avea intenzione di scrivere una Storia ecclesiasti-

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Opere diGiovannidiaconodella chiesaromana.

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ca; ma non sappiamo s'ei conducesse il suo disegno adeffetto. Di qualche altra opera di Giovanni, che o rimaneancor manoscritta, o con minor certezza se gli attribui-sce, veggasi fra gli altri il p. Ceillier (Hist. des Aut. eccl.t. 19, p. 424).

XX. Un altro Giovanni diacono troviamo aquesti tempi medesimi, non però della chie-sa romana, ma di quella di s. Gennaro inNapoli, autor delle Vite de' Vescovi di que-sta città dal lor cominciamento fin verso lafine del IX sec. in cui egli scriveva. Essesono state prima d'ogni altro date alla luce

dal ch. Muratori (Script. rer. ital. t. 1 pars 2, p. 287), ilquale colla consueta sua diligenza ed erudizione ha esa-minato ciò che appartiene a questo autore, e ad alcunealtre opere di somigliante argomento da lui composte, egià pubblicate da altri (31). Alla Storia de' Vescovi napo-letani scritta da Giovanni diacono vedesi aggiuntaun'appendice di Pietro suddiacono napoletano, che con-tiene un frammento della Vita di Atanasio II, vescovo diquella chiesa, e successore di s. Anastasio I, suo zio, ma

31 Di questo Giovanni diacono napoletano veggansi più esatte notizie nelleMemorie degli Scrittori napoletani del Soria e in più altri autori da lui cita-ti (t. 1, p. 299). Egli osserva fra le altre cose, che non si può dir che Gio-vanni fiorisse verso la fine del IX secolo, perciocchè egli era nato proba-bilmente l'anno 870. Avrei sperato di trovare presso il medesimo autorequalche notizia anche del suddiacono Pietro nominato qui poco appresso.Ma ei non ne fa menzione.

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E di Gio-vanni dia-cono e di Pietro sud-diacono della chiesadi Napoli.

ca; ma non sappiamo s'ei conducesse il suo disegno adeffetto. Di qualche altra opera di Giovanni, che o rimaneancor manoscritta, o con minor certezza se gli attribui-sce, veggasi fra gli altri il p. Ceillier (Hist. des Aut. eccl.t. 19, p. 424).

XX. Un altro Giovanni diacono troviamo aquesti tempi medesimi, non però della chie-sa romana, ma di quella di s. Gennaro inNapoli, autor delle Vite de' Vescovi di que-sta città dal lor cominciamento fin verso lafine del IX sec. in cui egli scriveva. Essesono state prima d'ogni altro date alla luce

dal ch. Muratori (Script. rer. ital. t. 1 pars 2, p. 287), ilquale colla consueta sua diligenza ed erudizione ha esa-minato ciò che appartiene a questo autore, e ad alcunealtre opere di somigliante argomento da lui composte, egià pubblicate da altri (31). Alla Storia de' Vescovi napo-letani scritta da Giovanni diacono vedesi aggiuntaun'appendice di Pietro suddiacono napoletano, che con-tiene un frammento della Vita di Atanasio II, vescovo diquella chiesa, e successore di s. Anastasio I, suo zio, ma

31 Di questo Giovanni diacono napoletano veggansi più esatte notizie nelleMemorie degli Scrittori napoletani del Soria e in più altri autori da lui cita-ti (t. 1, p. 299). Egli osserva fra le altre cose, che non si può dir che Gio-vanni fiorisse verso la fine del IX secolo, perciocchè egli era nato proba-bilmente l'anno 870. Avrei sperato di trovare presso il medesimo autorequalche notizia anche del suddiacono Pietro nominato qui poco appresso.Ma ei non ne fa menzione.

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E di Gio-vanni dia-cono e di Pietro sud-diacono della chiesadi Napoli.

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di costumi e di vita troppo dal nipote diverso. Di questoPietro medesimo abbiamo una Vita più ampiamentescritta del suddetto vescovo s. Atanasio, che prima dalp. Cupero (Acta SS. jul. t. 4, add. 15) e poscia dal Mura-tori medesimo (Script. rer. ital. t. 2, pars 2, p. 1045) èstata data alle stampe e questi ha chiaramente mostratoesserne autore il suddetto Pietro suddiacono, vissutoesso ancora alla fine del sec. IX. Ma non è mia intenzio-ne, come altre volte ho detto, il trattenermi ad annovera-re distintamente tutti gli scrittori di cotai vite, che sareb-be impresa in cui il frutto non sarebbe alla fatica e allanoja corrispondente.

XXI. Il suddetto s. Atanasio vescovo di Na-poli fu egli ancora uomo per dottrina nonmeno che per santità segnalato, e sembrache il sapere fosse a tutta la sua illustre fa-miglia comune. Perciocchè Sergio di lui pa-

dre era così versato nella greca e nella latina favella, cheprendendo fra le mani un libro scritto in greco, leggeva-lo speditamente in latino, e così pure in greco i libriscritti in latino (Petrus subd. In Vita s. Athan. c. 1, n. 7).E Gregorio ancora di lui figliuolo, e fratello di s. Atana-sio, era in amendue queste lingue assai dotto (ib. n. 8).Da tali esempj stimolato Atanasio coltivò egli pure nellasua fanciullezza gli studj gramaticali e delle belle lette-re; nè da essi si astenne, dappoichè ancora fu eletto ve-scovo, e il fece con sì felice successo, che nel favellare

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Elogio di s.Atanasio vescovo di Napoli.

di costumi e di vita troppo dal nipote diverso. Di questoPietro medesimo abbiamo una Vita più ampiamentescritta del suddetto vescovo s. Atanasio, che prima dalp. Cupero (Acta SS. jul. t. 4, add. 15) e poscia dal Mura-tori medesimo (Script. rer. ital. t. 2, pars 2, p. 1045) èstata data alle stampe e questi ha chiaramente mostratoesserne autore il suddetto Pietro suddiacono, vissutoesso ancora alla fine del sec. IX. Ma non è mia intenzio-ne, come altre volte ho detto, il trattenermi ad annovera-re distintamente tutti gli scrittori di cotai vite, che sareb-be impresa in cui il frutto non sarebbe alla fatica e allanoja corrispondente.

XXI. Il suddetto s. Atanasio vescovo di Na-poli fu egli ancora uomo per dottrina nonmeno che per santità segnalato, e sembrache il sapere fosse a tutta la sua illustre fa-miglia comune. Perciocchè Sergio di lui pa-

dre era così versato nella greca e nella latina favella, cheprendendo fra le mani un libro scritto in greco, leggeva-lo speditamente in latino, e così pure in greco i libriscritti in latino (Petrus subd. In Vita s. Athan. c. 1, n. 7).E Gregorio ancora di lui figliuolo, e fratello di s. Atana-sio, era in amendue queste lingue assai dotto (ib. n. 8).Da tali esempj stimolato Atanasio coltivò egli pure nellasua fanciullezza gli studj gramaticali e delle belle lette-re; nè da essi si astenne, dappoichè ancora fu eletto ve-scovo, e il fece con sì felice successo, che nel favellare

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Elogio di s.Atanasio vescovo di Napoli.

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in latino non era inferiore ad alcuno. Quindi a vantaggiodella sua chiesa ei volle rivolgere il suo sapere; e perchèil suo clero fosse ben istruito negli studj sacri, istituì,come narra Giovanni diacono (Chron. Episc. Neap. in s.Athan.), alcune scuole di lettori e di cantori, comandòche alcuni fossero ammaestrati negli elementi gramati-cali; ed altri volle che si occupassero nello scrivere perrendere in tal maniera fiorente, quanto a que' tempi erapossibile, la sua chiesa.

XXII. Posso io nella Storia dell'ItalianaLetteratura dar luogo al celebre Adonevescovo di Vienna noto pel Martirologioda lui pubblicato? Il soggiorno di 5 annida lui fatto in Roma mi basterebbe forse a

ciò fare, s'io volesse seguire gli esempj altrui. Ma io nonfarò che una breve osservazione, la quale come è glorio-sa all'Italia, così giustifica bastevolmente il mio pensierodi fare, dirò così, una passeggera menzione di questoscrittore. Egli dunque, trovandosi verso l'an. 842 in Ra-venna, raccolse da un antico libro che gli fu dato a leg-gere, quelle memorie di cui si valse a comporre il suoMartirologio, come colla testimonianza di Lupo di Fer-rieres e dello stesso Adone pruova il p. Mabillon (Ann.bened. vol. 2, l. 32, n. 49). Onde possiam vantarci a ra-gione che quest'opera debba la sua origine alla nostraItalia.

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Il Martirologiodi Adone dee la sua origine all'Italia.

in latino non era inferiore ad alcuno. Quindi a vantaggiodella sua chiesa ei volle rivolgere il suo sapere; e perchèil suo clero fosse ben istruito negli studj sacri, istituì,come narra Giovanni diacono (Chron. Episc. Neap. in s.Athan.), alcune scuole di lettori e di cantori, comandòche alcuni fossero ammaestrati negli elementi gramati-cali; ed altri volle che si occupassero nello scrivere perrendere in tal maniera fiorente, quanto a que' tempi erapossibile, la sua chiesa.

XXII. Posso io nella Storia dell'ItalianaLetteratura dar luogo al celebre Adonevescovo di Vienna noto pel Martirologioda lui pubblicato? Il soggiorno di 5 annida lui fatto in Roma mi basterebbe forse a

ciò fare, s'io volesse seguire gli esempj altrui. Ma io nonfarò che una breve osservazione, la quale come è glorio-sa all'Italia, così giustifica bastevolmente il mio pensierodi fare, dirò così, una passeggera menzione di questoscrittore. Egli dunque, trovandosi verso l'an. 842 in Ra-venna, raccolse da un antico libro che gli fu dato a leg-gere, quelle memorie di cui si valse a comporre il suoMartirologio, come colla testimonianza di Lupo di Fer-rieres e dello stesso Adone pruova il p. Mabillon (Ann.bened. vol. 2, l. 32, n. 49). Onde possiam vantarci a ra-gione che quest'opera debba la sua origine alla nostraItalia.

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Il Martirologiodi Adone dee la sua origine all'Italia.

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XXIII. Voglionsi rammentare per ultimo treSiciliani che in questi tempi furono col lorosapere di ornamento alla Chiesa. Il primo èEpifanio diacono della chiesa di Catania,che da Tommaso arcivescovo di Siracusa fu

deputato in suo nome al secondo general Concilio nice-no l'an. 787, e di cui abbiamo ancora negli Atti di questosinodo un lungo discorso in difesa del culto delle sagreimmagini. L'altro è s. Metodio patriarca di Costantino-poli. Egli era natio di Siracusa, e nella sua patria fu edu-cato e istruito negli studi, come a nobile e ricco giovanesi conveniva; quindi passato a Costantinopoli, e abbrac-ciata la vita monastica, molto vi ebbe a soffrire pel cultodelle sagre immagini dagli imperadori Michele il Balboe Teofilo. Fu ancora per qualche tempo a Roma colla ca-rica di apocrisario del patriarca Niceforo; e finalmenteeletto patriarca di Costantinopoli adoperossi felicementea combattere ed atterrare l'eresia degl'Iconoclasti, finchèdopo aver tenuta li sede per circa 5 anni morì l'an. 847.Di lui abbiamo alcune sacre orazioni scritte in greco, ealcuni canoni, delle quali opere e di altre cose che a luiappartengono, veggansi fra gli altri il celebre Leone Al-lacci (Diatr. de Methodior. scriptis) e il p. Ceillier (Hist.des Aut. eccl. t. 18, p. 694, ec.). L'ultimo è Pietro chedalla sua patria ebbe il soprannome di siculo, il qualedall'imp. Basilio mandato l'an. 871 nell'Armenia, aven-do ivi trovati molti infetti dell'eresia de' Manichei, eavendone investigata l'origine e la natura, scrisse unastorica narrazione ch'ancor ci rimane, della nascita, de'

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Notizie di tre scrittori sacri sici-liani.

XXIII. Voglionsi rammentare per ultimo treSiciliani che in questi tempi furono col lorosapere di ornamento alla Chiesa. Il primo èEpifanio diacono della chiesa di Catania,che da Tommaso arcivescovo di Siracusa fu

deputato in suo nome al secondo general Concilio nice-no l'an. 787, e di cui abbiamo ancora negli Atti di questosinodo un lungo discorso in difesa del culto delle sagreimmagini. L'altro è s. Metodio patriarca di Costantino-poli. Egli era natio di Siracusa, e nella sua patria fu edu-cato e istruito negli studi, come a nobile e ricco giovanesi conveniva; quindi passato a Costantinopoli, e abbrac-ciata la vita monastica, molto vi ebbe a soffrire pel cultodelle sagre immagini dagli imperadori Michele il Balboe Teofilo. Fu ancora per qualche tempo a Roma colla ca-rica di apocrisario del patriarca Niceforo; e finalmenteeletto patriarca di Costantinopoli adoperossi felicementea combattere ed atterrare l'eresia degl'Iconoclasti, finchèdopo aver tenuta li sede per circa 5 anni morì l'an. 847.Di lui abbiamo alcune sacre orazioni scritte in greco, ealcuni canoni, delle quali opere e di altre cose che a luiappartengono, veggansi fra gli altri il celebre Leone Al-lacci (Diatr. de Methodior. scriptis) e il p. Ceillier (Hist.des Aut. eccl. t. 18, p. 694, ec.). L'ultimo è Pietro chedalla sua patria ebbe il soprannome di siculo, il qualedall'imp. Basilio mandato l'an. 871 nell'Armenia, aven-do ivi trovati molti infetti dell'eresia de' Manichei, eavendone investigata l'origine e la natura, scrisse unastorica narrazione ch'ancor ci rimane, della nascita, de'

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Notizie di tre scrittori sacri sici-liani.

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progressi e delle vicende della stessa eresia (V. Ceilliert. 19, p. 252 ec.). Così l'Italia anche in questi infelicitempi di barbarie e d'ignoranza continuava ad aver uo-mini dotti che ne uscivano ad illustrare ancora le stra-niere nazioni.

XXIV. Tal fu lo stato dell'italiana letteraturasacra del IX secolo, più felice, a dir vero,che non in alcuno de' secoli precedenti, mapur di molto inferiore ad altri più antichi.Ma il X sec. per le ragioni che nel primocapo si son recate, fu assai più infelice; eforse non ve n'ebbe altro in cui tra noi fossemaggior l'ignoranza. Ovunque noi ci volgia-

mo, altro non ci si offre che scostumatezza e barbarie,anche in molti di quelli che pel sacro loro carattere avr-rebbon dovuto risplender nella Chiesa di Dio. In Romaancora, ove pure gli studj, singolarmente sacri, eransifin allor sostenuti meno infelicemente che altrove, eratal l'ignoranza, che negli Atti di un Concilio tenuto inRheims l'an. 992 si dice che appena vi si trovava chi sa-pesse i primi elementi della letteratura (V. Baron. ad h.an.). Che se ciò era in Roma, che direm noi delle altrecittà? Egli è vero però, che come osserva il card. Baro-nio parlando di questo concilio sembra che l'astio el'invidia contro la chiesa romana suggerisse le arrecateespressioni. E certo Raterio non molto prima scrivevanediversamente, dicendo che non altrove meglio che in

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Ignoranza universale del X seco-lo. Ricer-che sulla patria di Attone vesc. di Vercelli.

progressi e delle vicende della stessa eresia (V. Ceilliert. 19, p. 252 ec.). Così l'Italia anche in questi infelicitempi di barbarie e d'ignoranza continuava ad aver uo-mini dotti che ne uscivano ad illustrare ancora le stra-niere nazioni.

XXIV. Tal fu lo stato dell'italiana letteraturasacra del IX secolo, più felice, a dir vero,che non in alcuno de' secoli precedenti, mapur di molto inferiore ad altri più antichi.Ma il X sec. per le ragioni che nel primocapo si son recate, fu assai più infelice; eforse non ve n'ebbe altro in cui tra noi fossemaggior l'ignoranza. Ovunque noi ci volgia-

mo, altro non ci si offre che scostumatezza e barbarie,anche in molti di quelli che pel sacro loro carattere avr-rebbon dovuto risplender nella Chiesa di Dio. In Romaancora, ove pure gli studj, singolarmente sacri, eransifin allor sostenuti meno infelicemente che altrove, eratal l'ignoranza, che negli Atti di un Concilio tenuto inRheims l'an. 992 si dice che appena vi si trovava chi sa-pesse i primi elementi della letteratura (V. Baron. ad h.an.). Che se ciò era in Roma, che direm noi delle altrecittà? Egli è vero però, che come osserva il card. Baro-nio parlando di questo concilio sembra che l'astio el'invidia contro la chiesa romana suggerisse le arrecateespressioni. E certo Raterio non molto prima scrivevanediversamente, dicendo che non altrove meglio che in

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Ignoranza universale del X seco-lo. Ricer-che sulla patria di Attone vesc. di Vercelli.

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Roma poteva uno essere istruito nelle scienze sacre (inItiner.). Ma è vero ancora che universale e profondaveggiamo comunemente l'ignoranza in questo secolo.Due soli vescovi noi troviam in Italia, a cui il nome didotto non si sconvenisse, e dobbiamo ancor confessareche di uno tra essi non è certo che fosse italiano, l'altrofu certamente straniero dico Attone di Vercelli, e Rate-rio di Verona. Di qual patria fosse Attone, non si puòstabilir con certezza. I moderni scrittori citati dal co.Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 2, p. 1221) il fan fi-gliuolo di un Aldegario visconte; altri il dicon discesoda' marchesi d'Ivrea; ma come saggiamente riflette l'eru-dito can. Carlo del Signore de' conti di Buronzo, ora de-gnissimo vescovo di Acqui, che l'an. 1768 ci ha data unacompita edizione dell'opere di questo vescovo, tuttequeste asserzioni non hanno alcun fondamento su cuisostenersi. Egli riflettendo ad alcune parole di Attone,colle quali accenna di avere abbandonata la nazione e lapatria (Comm. in ep. ad Hebr. sub fin.), ne trae ch'ei fos-se venuto da lontan paese a Vercelli. E certo, ch'egli nonfosse vercellese, sembra che da queste parole raccolgasicon evidenza, ma non già ch'ei non fosse italiano; per-ciocchè uno venuto a cagion d'esempio da Napoli, o daRoma, o anche da men lontano paese, a Vercelli potevadire di avere abbandonata la sua nazione e la sua patria.Se il testamento di Attone, in cui egli lascia al clero del-la metropolitana di Milano la valle Leventina, quella diBlegno ed altri luoghi, fosse sicuramente sincero, essoci proverebbe ch'egli fu di nazion longobardo: Ego in

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Roma poteva uno essere istruito nelle scienze sacre (inItiner.). Ma è vero ancora che universale e profondaveggiamo comunemente l'ignoranza in questo secolo.Due soli vescovi noi troviam in Italia, a cui il nome didotto non si sconvenisse, e dobbiamo ancor confessareche di uno tra essi non è certo che fosse italiano, l'altrofu certamente straniero dico Attone di Vercelli, e Rate-rio di Verona. Di qual patria fosse Attone, non si puòstabilir con certezza. I moderni scrittori citati dal co.Mazzucchelli (Scritt. ital. t. 1, par. 2, p. 1221) il fan fi-gliuolo di un Aldegario visconte; altri il dicon discesoda' marchesi d'Ivrea; ma come saggiamente riflette l'eru-dito can. Carlo del Signore de' conti di Buronzo, ora de-gnissimo vescovo di Acqui, che l'an. 1768 ci ha data unacompita edizione dell'opere di questo vescovo, tuttequeste asserzioni non hanno alcun fondamento su cuisostenersi. Egli riflettendo ad alcune parole di Attone,colle quali accenna di avere abbandonata la nazione e lapatria (Comm. in ep. ad Hebr. sub fin.), ne trae ch'ei fos-se venuto da lontan paese a Vercelli. E certo, ch'egli nonfosse vercellese, sembra che da queste parole raccolgasicon evidenza, ma non già ch'ei non fosse italiano; per-ciocchè uno venuto a cagion d'esempio da Napoli, o daRoma, o anche da men lontano paese, a Vercelli potevadire di avere abbandonata la sua nazione e la sua patria.Se il testamento di Attone, in cui egli lascia al clero del-la metropolitana di Milano la valle Leventina, quella diBlegno ed altri luoghi, fosse sicuramente sincero, essoci proverebbe ch'egli fu di nazion longobardo: Ego in

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Dei nomine Atto episcopus vercellensis ecclesiae, quiprofessus sum ex natione mea lege vivere Longobardo-rum. Ma molti il rimirano come una carta interamentesupposta. A me non appartiene l'entrare all'esame di talquistione ch'è troppo lontana dal mio argomento; e mibasterà l'accennare che il diligentiss. co. Giulini ha chia-ramente mostrato che quelle valli non già da Attone mada Arnolfo secondo arcivescovo di Milano donate furo-no al suo clero verso il principio dell'XI secolo (Mem.di Mil. t. 2, p. 216; t. 3, p. 134; l. 9, p. 28). Non puòdunque un tal testamento recarsi a pruova della patria diAttone. Ma alcune parole di una sua lettera ci possonforse dar su ciò qualche lume: Igitur, dic'egli, Liutpran-dus catholicus rex hujus, in qua degimus, patriae (ep. 1ed. vercell.). Il nome di patria sembra qui indicare gene-ralmente il regno de' Longobardi, e sembra perciò, chein esso fosse nato Attone che il chiama sua patria. Macom'ei poteva ancor chiamare in certo modo col nomedi patria l'ordinaria sua sede, aggiugnendovi singolar-mente quelle parole, in qua degimus, convien confessareche questo non è ancora argomento abbastanza sicuro, eche non possiamo perciò affermar con certezza che At-tone fosse italiano, benchè possiam dire esser ciò assaiverisimile. Ed io vorrei che una somigliante maniera difavellare avesser tenuto i Maurini autori della Storia let-teraria di Francia, i quali troppo facilmente hanno anno-verato Attone tra' loro scrittori (t. 6, p. 281). Ma conquai pruove? Attone, dicono essi, era figliuolo di Alde-gario visconte. Così asserisce l'Ughelli, ma senza alcun

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Dei nomine Atto episcopus vercellensis ecclesiae, quiprofessus sum ex natione mea lege vivere Longobardo-rum. Ma molti il rimirano come una carta interamentesupposta. A me non appartiene l'entrare all'esame di talquistione ch'è troppo lontana dal mio argomento; e mibasterà l'accennare che il diligentiss. co. Giulini ha chia-ramente mostrato che quelle valli non già da Attone mada Arnolfo secondo arcivescovo di Milano donate furo-no al suo clero verso il principio dell'XI secolo (Mem.di Mil. t. 2, p. 216; t. 3, p. 134; l. 9, p. 28). Non puòdunque un tal testamento recarsi a pruova della patria diAttone. Ma alcune parole di una sua lettera ci possonforse dar su ciò qualche lume: Igitur, dic'egli, Liutpran-dus catholicus rex hujus, in qua degimus, patriae (ep. 1ed. vercell.). Il nome di patria sembra qui indicare gene-ralmente il regno de' Longobardi, e sembra perciò, chein esso fosse nato Attone che il chiama sua patria. Macom'ei poteva ancor chiamare in certo modo col nomedi patria l'ordinaria sua sede, aggiugnendovi singolar-mente quelle parole, in qua degimus, convien confessareche questo non è ancora argomento abbastanza sicuro, eche non possiamo perciò affermar con certezza che At-tone fosse italiano, benchè possiam dire esser ciò assaiverisimile. Ed io vorrei che una somigliante maniera difavellare avesser tenuto i Maurini autori della Storia let-teraria di Francia, i quali troppo facilmente hanno anno-verato Attone tra' loro scrittori (t. 6, p. 281). Ma conquai pruove? Attone, dicono essi, era figliuolo di Alde-gario visconte. Così asserisce l'Ughelli, ma senza alcun

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fondamento, e s'io usassi contro di loro l'autorità di que-sto scrittore, essi certo non ne farebbon gran conto. "Iltitolo di visconte, prosieguon essi, non era ancor passatonè in Italia, nè in Germania. Dunque il padre di Attoneera natio delle Gallie". Converrà dunque dire che s. Gre-gorio il grande sia vissuto dopo i tempi di Attone, per-ciocchè egli nomina un Mauro visconte (l. 8, ep. 18)ch'era certo in Italia, poichè dovea dare ajuto in certo af-fare al vescovo di Terracina. "Attone, aggiungono essi,parla di se stesso, come di un regnicolo, e perciò scri-vendo ad Azzone vescovo di Como francese esso pure,gli cita la legge salica che non avea autorità tra gli stra-nieri". Essi alludon qui alla lettera e alle parole sopracci-tate, le quali già abbiam mostrato che non sono abba-stanza chiare a favore di un'opinione più che dell'altra.Che Azzone vescovo di Como fosse francese, si conce-da a' Maurini. Ma come si può loro concedere che ilmentovarsi da Attone la legge salica provi ch'egli fossefrancese? Non fa egli menzione nella stessa lettera delleleggi de' Longobardi? Dunque converrà dire ch'ei fosselongobardo insieme e francese. Sarebbe perciò stato piùopportuno consiglio ch'essi si fosser ristretti a dire chela patria di Attone non è abbastanza certa.

XXV. Egli fu innalzato alla sede vescovil diVercelli l'an. 924, come dimostra l'eruditosopraccitato editore delle Opere di Attone, ela tenne per molti anni, benchè il numero

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Epoche del-la sua vita, e sue opere.

fondamento, e s'io usassi contro di loro l'autorità di que-sto scrittore, essi certo non ne farebbon gran conto. "Iltitolo di visconte, prosieguon essi, non era ancor passatonè in Italia, nè in Germania. Dunque il padre di Attoneera natio delle Gallie". Converrà dunque dire che s. Gre-gorio il grande sia vissuto dopo i tempi di Attone, per-ciocchè egli nomina un Mauro visconte (l. 8, ep. 18)ch'era certo in Italia, poichè dovea dare ajuto in certo af-fare al vescovo di Terracina. "Attone, aggiungono essi,parla di se stesso, come di un regnicolo, e perciò scri-vendo ad Azzone vescovo di Como francese esso pure,gli cita la legge salica che non avea autorità tra gli stra-nieri". Essi alludon qui alla lettera e alle parole sopracci-tate, le quali già abbiam mostrato che non sono abba-stanza chiare a favore di un'opinione più che dell'altra.Che Azzone vescovo di Como fosse francese, si conce-da a' Maurini. Ma come si può loro concedere che ilmentovarsi da Attone la legge salica provi ch'egli fossefrancese? Non fa egli menzione nella stessa lettera delleleggi de' Longobardi? Dunque converrà dire ch'ei fosselongobardo insieme e francese. Sarebbe perciò stato piùopportuno consiglio ch'essi si fosser ristretti a dire chela patria di Attone non è abbastanza certa.

XXV. Egli fu innalzato alla sede vescovil diVercelli l'an. 924, come dimostra l'eruditosopraccitato editore delle Opere di Attone, ela tenne per molti anni, benchè il numero

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Epoche del-la sua vita, e sue opere.

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non se ne possa assegnare precisamente. Certo, comeosserva lo stesso editore, ei più non vivea l'an. 964 incui già era vescovo di Vercelli il suo successore Ingone.Della saggia condotta da lui tenuta ne' torbidi che ai suoidì sconvolser l'Italia, de' contrassegni di stima, che egliebbe da' due re Ugone e Lottario, e di altre cose a lui at-tinenti si può vedere la prefazione premessa alle sueOpere. Ciò che noi dobbiam osservare, si è ch'ei fu unodei più dotti uomini del suo tempo, come le stesse sueOpere ci fan conoscere. Il p. d'Achery aveane già pub-blicate alcune, cioè il Capitolare diviso in cento capi(Spicil. t. I ed. paris. 1723), e scritto ossia raccolto damolti Concilj e da diversi Decreti, a regolamento dellasua diocesi, in cui già abbiamo osservato che singolar-mente ingiunse che vi avesse pubbliche scuole ad istru-zione de' giovani; inoltre un libro diviso in tre parti dellePressure ecclesiastiche ossia delle vessazioni e dellegravezze che soffriva allora la Chiesa, e finalmente 11lettere. Queste opere stesse poi, ma confrontate co' codi-ci della cattedral di Vercelli, e diligentemente corrette,sono state di nuovo date alla luce dal sopraddetto mon-sig. del Signore insieme con un'altra opera di Attone as-sai più ancora pregevole, cioè il Comento su tutte leLettere di s. Paolo, e due Sermoni, uno sull'Ascensionedi Cristo, l'altro in lode del celebre s. Eusebio vescovodi Vercelli. Di qualche altra opera di Attone, che si èsmarrita, veggasi, oltre la prefazione più volte accenna-ta, l'opera del co. Mazzucchelli (l. c.).

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non se ne possa assegnare precisamente. Certo, comeosserva lo stesso editore, ei più non vivea l'an. 964 incui già era vescovo di Vercelli il suo successore Ingone.Della saggia condotta da lui tenuta ne' torbidi che ai suoidì sconvolser l'Italia, de' contrassegni di stima, che egliebbe da' due re Ugone e Lottario, e di altre cose a lui at-tinenti si può vedere la prefazione premessa alle sueOpere. Ciò che noi dobbiam osservare, si è ch'ei fu unodei più dotti uomini del suo tempo, come le stesse sueOpere ci fan conoscere. Il p. d'Achery aveane già pub-blicate alcune, cioè il Capitolare diviso in cento capi(Spicil. t. I ed. paris. 1723), e scritto ossia raccolto damolti Concilj e da diversi Decreti, a regolamento dellasua diocesi, in cui già abbiamo osservato che singolar-mente ingiunse che vi avesse pubbliche scuole ad istru-zione de' giovani; inoltre un libro diviso in tre parti dellePressure ecclesiastiche ossia delle vessazioni e dellegravezze che soffriva allora la Chiesa, e finalmente 11lettere. Queste opere stesse poi, ma confrontate co' codi-ci della cattedral di Vercelli, e diligentemente corrette,sono state di nuovo date alla luce dal sopraddetto mon-sig. del Signore insieme con un'altra opera di Attone as-sai più ancora pregevole, cioè il Comento su tutte leLettere di s. Paolo, e due Sermoni, uno sull'Ascensionedi Cristo, l'altro in lode del celebre s. Eusebio vescovodi Vercelli. Di qualche altra opera di Attone, che si èsmarrita, veggasi, oltre la prefazione più volte accenna-ta, l'opera del co. Mazzucchelli (l. c.).

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XXVI. L'altro vescovo a questi tempi famo-so fu, come si è detto, Raterio di Verona. Einacque nella diocesi di Liegi verso l'an. 896,e consecratosi a Dio ancor giovinetto nelmonastero di Laubes, vi coltivò con grande

ardore gli studj sacri e profani, e colla lettura de' miglio-ri autori greci e latini si venne ornando di quel vasto sa-pere per cui egli si acquistò poi sì gran nome. Io nondebbo qui trattenermi a narrare distesamente le diversevicende della vita di Raterio. Venuto in Italia con Ildui-no eletto vescovo di Liegi, ma costretto a cedere quellasede a Ricario, fermossi con lui in Verona. Ilduino fattoprima vescovo di questa città, fu poscia trasferito allasede arcivescovile di Milano; e allora Raterio ottennedal papa il vescovado abbandonato da Ilduino. Ma eil'ottenne mal grado di Ugo re d'Italia, il quale perciòprese a molestarlo in diverse maniere, e finalmente col-tane l'occasione dell'esser Verona caduta nelle mani diArnolfo suo rivale nel regno d'Italia, avuto in suo potereRaterio il fè condurre a Pavia, e chiuder prigione entrouna torre. Poscia dopo due anni e mezzo tratto di carce-re fu mandato a Como in esilio: e dopo un eguale spaziodi tempo tornatosene in Francia, passò alcuni anni nellaBorgogna, istruendo nelle lettere un nobile e ricco gio-vane detto Roestagno; e quindi per vivere tranquilla-mente fece ritorno all'antico suo monastero l'an. 944.Ma appena eravi egli stato due anni, che invitato daUgo, il quale allora combatteva pel regno d'Italia controBerengario, tornossene in Italia per risalire alla sua cat-

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Vita e vi-cende di Raterio vesc. di Ve-rona.

XXVI. L'altro vescovo a questi tempi famo-so fu, come si è detto, Raterio di Verona. Einacque nella diocesi di Liegi verso l'an. 896,e consecratosi a Dio ancor giovinetto nelmonastero di Laubes, vi coltivò con grande

ardore gli studj sacri e profani, e colla lettura de' miglio-ri autori greci e latini si venne ornando di quel vasto sa-pere per cui egli si acquistò poi sì gran nome. Io nondebbo qui trattenermi a narrare distesamente le diversevicende della vita di Raterio. Venuto in Italia con Ildui-no eletto vescovo di Liegi, ma costretto a cedere quellasede a Ricario, fermossi con lui in Verona. Ilduino fattoprima vescovo di questa città, fu poscia trasferito allasede arcivescovile di Milano; e allora Raterio ottennedal papa il vescovado abbandonato da Ilduino. Ma eil'ottenne mal grado di Ugo re d'Italia, il quale perciòprese a molestarlo in diverse maniere, e finalmente col-tane l'occasione dell'esser Verona caduta nelle mani diArnolfo suo rivale nel regno d'Italia, avuto in suo potereRaterio il fè condurre a Pavia, e chiuder prigione entrouna torre. Poscia dopo due anni e mezzo tratto di carce-re fu mandato a Como in esilio: e dopo un eguale spaziodi tempo tornatosene in Francia, passò alcuni anni nellaBorgogna, istruendo nelle lettere un nobile e ricco gio-vane detto Roestagno; e quindi per vivere tranquilla-mente fece ritorno all'antico suo monastero l'an. 944.Ma appena eravi egli stato due anni, che invitato daUgo, il quale allora combatteva pel regno d'Italia controBerengario, tornossene in Italia per risalire alla sua cat-

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Vita e vi-cende di Raterio vesc. di Ve-rona.

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tedra. Nel viaggio caduto nelle mani di Berengario, e te-nuto di nuovo prigione per qualche mese; ne fu poi trat-to e rimandato alla sua chiesa. Ma dopo due anni ne fucacciato di nuovo per opera del famoso Manasse arcive-scovo d'Arles. Passato in Germania, tornò di nuovo inItalia l'an. 951 coll'imp. Ottone I con isperanza di ricu-perare il suo vescovado. Questa però gli andò per la ter-za volta fallita, e fu costretto a tornarsene in Alemagna;dove fatto vescovo di Liegi, non molto dopo da un parti-to contro di lui formatosi ne fu cacciato. Ritiratosi allorain un monastero, vi stette fino all'an. 961, in cui tornatocol medesimo imperadore in Italia, ricuperò veramentel'antica sua sede ma tali contraddizioni ebbe a soffrirvida parte del suo clero, che l'an. 968, rinunciato final-mente quel vescovado e tornatosene a Liegi, vi ebbe ilgoverno di alcune piccole abadie, e morì in Namur l'an.974. Tutte queste sì varie, sì strane vicende ch'io son ve-nuto brevemente accennando, si posson vedere ampia-mente svolte e spiegate presso diversi autori fra' qualicon maggior diligenza hanno di ciò trattato il p. Mabil-lon (Acta SS. Ord. s. Bened. vol. 7), il p. Ceillier (Hist.des Aut. eccl. t. 19, p. 633), e i Maurini autori della Sto-ria letteraria di Francia (l. 6, p. 339). Ma ciò non ostantela vita di Raterio non era ancora stata esaminata e ri-schiarata abbastanza. Quindi i dottissimi Ballerini che cihan data l'an. 1765 una nuova e compita edizione delleOpere di questo vescovo sì famoso, ne hanno ad essepremessa una nuova Vita scritta con singolare ed ammi-rabile esattezza, talchè confrontando questa colle altre

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tedra. Nel viaggio caduto nelle mani di Berengario, e te-nuto di nuovo prigione per qualche mese; ne fu poi trat-to e rimandato alla sua chiesa. Ma dopo due anni ne fucacciato di nuovo per opera del famoso Manasse arcive-scovo d'Arles. Passato in Germania, tornò di nuovo inItalia l'an. 951 coll'imp. Ottone I con isperanza di ricu-perare il suo vescovado. Questa però gli andò per la ter-za volta fallita, e fu costretto a tornarsene in Alemagna;dove fatto vescovo di Liegi, non molto dopo da un parti-to contro di lui formatosi ne fu cacciato. Ritiratosi allorain un monastero, vi stette fino all'an. 961, in cui tornatocol medesimo imperadore in Italia, ricuperò veramentel'antica sua sede ma tali contraddizioni ebbe a soffrirvida parte del suo clero, che l'an. 968, rinunciato final-mente quel vescovado e tornatosene a Liegi, vi ebbe ilgoverno di alcune piccole abadie, e morì in Namur l'an.974. Tutte queste sì varie, sì strane vicende ch'io son ve-nuto brevemente accennando, si posson vedere ampia-mente svolte e spiegate presso diversi autori fra' qualicon maggior diligenza hanno di ciò trattato il p. Mabil-lon (Acta SS. Ord. s. Bened. vol. 7), il p. Ceillier (Hist.des Aut. eccl. t. 19, p. 633), e i Maurini autori della Sto-ria letteraria di Francia (l. 6, p. 339). Ma ciò non ostantela vita di Raterio non era ancora stata esaminata e ri-schiarata abbastanza. Quindi i dottissimi Ballerini che cihan data l'an. 1765 una nuova e compita edizione delleOpere di questo vescovo sì famoso, ne hanno ad essepremessa una nuova Vita scritta con singolare ed ammi-rabile esattezza, talchè confrontando questa colle altre

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sopraccitate, scorgesi chiaramente quante cose dagli al-tri scrittori fossero state o ommesse, o non ben spiegate,o collocate a' tempi non loro. Essi ancora hanno in alcu-ne cose fatta l'apologia di Raterio, mostrando che co-munque ei fosse certamente ambizioso e incostante, funondimeno da' suoi nimici aggravato assai più che nonconvenisse.

XXVII. Le opere di Raterio dividonsi in treparti. La prima, oltre sei libri intitolati de'

Preloquj in cui tratta dei doveri degli uomini di ogni etàe di ogni condizione, opera da lui composta in Pavia, ol-tre ciò, dico, contiene molti opuscoli di diversi argo-menti, alcuni scritti in apologia della sua condotta, e indiscolpa de' delitti che gli venivano apposti, altri su ma-terie canoniche, nelle quali si vede quanto fosse egliversato e dotto; altri appartenenti a storia sacra; altri disincera ed umile confession de' suoi falli. La secondaparte contiene le lettere da lui scritte, alcune in materiateologica, ma le più in sua difesa. La terza finalmentealcuni sermoni sacri da lui fatti al popolo. Intorno allequali degne sono di essere lette le prefazioni de' sopran-nomati editori che le hanno ancora illustrate con oppor-tune eruditissime annotazioni. In queste opere egli simostra assai esercitato nella lettura de' sacri non menoche de' profani autori, cui spesso vien citando. Egli haancora enfasi e forza non ordinaria, ma lo stile n'è duroed incolto, come nella più parte degli scrittori di questi

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Sue opere.

sopraccitate, scorgesi chiaramente quante cose dagli al-tri scrittori fossero state o ommesse, o non ben spiegate,o collocate a' tempi non loro. Essi ancora hanno in alcu-ne cose fatta l'apologia di Raterio, mostrando che co-munque ei fosse certamente ambizioso e incostante, funondimeno da' suoi nimici aggravato assai più che nonconvenisse.

XXVII. Le opere di Raterio dividonsi in treparti. La prima, oltre sei libri intitolati de'

Preloquj in cui tratta dei doveri degli uomini di ogni etàe di ogni condizione, opera da lui composta in Pavia, ol-tre ciò, dico, contiene molti opuscoli di diversi argo-menti, alcuni scritti in apologia della sua condotta, e indiscolpa de' delitti che gli venivano apposti, altri su ma-terie canoniche, nelle quali si vede quanto fosse egliversato e dotto; altri appartenenti a storia sacra; altri disincera ed umile confession de' suoi falli. La secondaparte contiene le lettere da lui scritte, alcune in materiateologica, ma le più in sua difesa. La terza finalmentealcuni sermoni sacri da lui fatti al popolo. Intorno allequali degne sono di essere lette le prefazioni de' sopran-nomati editori che le hanno ancora illustrate con oppor-tune eruditissime annotazioni. In queste opere egli simostra assai esercitato nella lettura de' sacri non menoche de' profani autori, cui spesso vien citando. Egli haancora enfasi e forza non ordinaria, ma lo stile n'è duroed incolto, come nella più parte degli scrittori di questi

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Sue opere.

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tempi; e ancorchè ei fosse stato uomo a scrivere con ele-ganza, i continui viaggi e le vicende e le traversie chesostenne appena gliel'avrebbon permesso.

XXVIII. Altri vescovi probabilmente avràavuti l'Italia in questo secolo stesso fornitidi quel sapere che a reggere saggiamente leloro chiese era richiesto; ma non ci è rima-sto alcun considerabile monumento della

loro dottrina, giacchè io penso di non dover seguirel'esempio degli scrittori di biblioteche, i quali per ren-derle o più voluminose, o più esatte fanno in esse men-zione di quegli ancora de' quali qualche breve lettera c'èrimasta, o anche sol la memoria che fosse da essi scritta.Io cerco di esporre lo stato della italiana letteratura; e aciò nulla monta che alcuni scrivessero qualche lettera, ofacessero qualche verso, e molto meno che dettassero illor testamento, di che per altro ancora si è fatto conto daalcuni di cotali scrittori. Io lascio ancor di parlare, comealtre volte ho avvertito, della maggior parte di quelli chehanno scritta la vita di qualche uomo illustre per santità,poichè essi appartengono anzi alla storia della religione,che a quella della letteratura, e alcuni di essi ancora han-no a questa recato danno più che vantaggio e onore,scrivendole senza quel giusto discernimento che ad unostorico non dovrebbe mancar giammai. Altri scrittoriche ci abbian lasciati libri appartenenti a scienze sacre,appena ne abbiamo di questi tempi. Io potrei qui far

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Alcuni altriscrittori sa-cri accen-nati.

tempi; e ancorchè ei fosse stato uomo a scrivere con ele-ganza, i continui viaggi e le vicende e le traversie chesostenne appena gliel'avrebbon permesso.

XXVIII. Altri vescovi probabilmente avràavuti l'Italia in questo secolo stesso fornitidi quel sapere che a reggere saggiamente leloro chiese era richiesto; ma non ci è rima-sto alcun considerabile monumento della

loro dottrina, giacchè io penso di non dover seguirel'esempio degli scrittori di biblioteche, i quali per ren-derle o più voluminose, o più esatte fanno in esse men-zione di quegli ancora de' quali qualche breve lettera c'èrimasta, o anche sol la memoria che fosse da essi scritta.Io cerco di esporre lo stato della italiana letteratura; e aciò nulla monta che alcuni scrivessero qualche lettera, ofacessero qualche verso, e molto meno che dettassero illor testamento, di che per altro ancora si è fatto conto daalcuni di cotali scrittori. Io lascio ancor di parlare, comealtre volte ho avvertito, della maggior parte di quelli chehanno scritta la vita di qualche uomo illustre per santità,poichè essi appartengono anzi alla storia della religione,che a quella della letteratura, e alcuni di essi ancora han-no a questa recato danno più che vantaggio e onore,scrivendole senza quel giusto discernimento che ad unostorico non dovrebbe mancar giammai. Altri scrittoriche ci abbian lasciati libri appartenenti a scienze sacre,appena ne abbiamo di questi tempi. Io potrei qui far

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Alcuni altriscrittori sa-cri accen-nati.

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menzione di Erchemperto monaco casinese che scrissequalche opuscolo appartenente al suo monastero, diLiutprando vescovo di Cremona, di Paolo diacono, e dialcuni altri che in qualche maniera potrebbero avere luo-go in questo capo. Ma perciocchè le opere lor principaliappartengono alla storia profana, di essi riserberommi aparlare nel capo seguente. Qui farò solo menzione diGiovanni che fu abate casinese dall'an. 915 fino all'an.934, mentre quei monaci, distrutto da' Saracini il lormonastero, eransi ritirati in Capova. Avea egli scritta laStoria delle sciagure del suddetto suo monastero, la qua-le non è mai stata data alla luce, ma Leon ostiense ne famenzione, e dice di averne usato a comporre la sua Sto-ria (Prol. ad Chron. casin.). Un'altra breve operetta, cioèuna Cronaca degli ultimi conti di Capova, viene conqualche probabilità attribuita a questo scrittore da Ca-millo Pellegrino che l'ha pubblicata. Essa è ancora statainserita dal Muratori nella sua insigne raccolta degliScrittori delle cose d'Italia (t. 1, pars 1, p. 211, ec.), enuovamente dal can. Pratillo nella nuova edizione da luifatta dell'Opere del Pellegrino (Hist. Princip. Longob. t.3). Di Giovanni e della prima operetta da lui compostafan menzione ancor Pietro diacono, e il can. Mari nelleerudite sue annotazioni a questo autore (de Ill. Casi-nens. c. 14).

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menzione di Erchemperto monaco casinese che scrissequalche opuscolo appartenente al suo monastero, diLiutprando vescovo di Cremona, di Paolo diacono, e dialcuni altri che in qualche maniera potrebbero avere luo-go in questo capo. Ma perciocchè le opere lor principaliappartengono alla storia profana, di essi riserberommi aparlare nel capo seguente. Qui farò solo menzione diGiovanni che fu abate casinese dall'an. 915 fino all'an.934, mentre quei monaci, distrutto da' Saracini il lormonastero, eransi ritirati in Capova. Avea egli scritta laStoria delle sciagure del suddetto suo monastero, la qua-le non è mai stata data alla luce, ma Leon ostiense ne famenzione, e dice di averne usato a comporre la sua Sto-ria (Prol. ad Chron. casin.). Un'altra breve operetta, cioèuna Cronaca degli ultimi conti di Capova, viene conqualche probabilità attribuita a questo scrittore da Ca-millo Pellegrino che l'ha pubblicata. Essa è ancora statainserita dal Muratori nella sua insigne raccolta degliScrittori delle cose d'Italia (t. 1, pars 1, p. 211, ec.), enuovamente dal can. Pratillo nella nuova edizione da luifatta dell'Opere del Pellegrino (Hist. Princip. Longob. t.3). Di Giovanni e della prima operetta da lui compostafan menzione ancor Pietro diacono, e il can. Mari nelleerudite sue annotazioni a questo autore (de Ill. Casi-nens. c. 14).

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XXIX. Onorio d'Autun (de Script. eccl. l. 3,c. 13) nomina un "Teodolo italiano chescrisse un'egloga sul Testamento Vecchio, esulle Favole de' Gentili, sostenendo la veritàdella Fede, e distruggendo la falsità dellaperfidia". Sigeberto gemblacense (de Script.

eccl. c. 134) parla egli pure di questo Teodolo, e diceche quest'egloga fu da lui scritta in Atene, ove, mentreegli attendeva agli studj, udì i Gentili disputare co' Cri-stiani. Ne parla ancora il Tritemio (de Script. eccl. c.185), e oltre quest'egloga gli attribuisce ancor un librointitolato de Consonantia Scripturarum. Ma gli scrittoriposteriori al Tritemio osservando che di questa secondaopera il suddetto Onorio fa autore un Teodoro (ib. l. 2,c. 90), han ripreso il Tritemio, come se avesse confusidue scrittori in un solo. Così scrive fra gli altri il p. Ceil-lier (Hist. des Aut. eccl. t. 19, p. 689), il quale dice chelo stesso Tritemio fissa l'età di Teodolo verso l'an. 980,mentre Teodoro vivea nel V secolo. Ma il Tritemio nonha mai detto ciò che gli appone il p. Ceillier, anzi ci dicechiarissimamente di Teodolo: "Claruit anno CCCCLX-XX, sub Zenone Augusto, sub quo ei moritur". Potevaegli parlare più chiaramente? Ma questo Teodolo autordell'egloga mentovata visse egli veramente nel X secolo,come il suddetto p. Ceillier, il Fabricio (Bibl. lat. med.et inf. aetat. l. 6, p. 232) il Leysero (Hist. Poetarum me-dii aevi saec. 10, § 27) ed altri moderni affermano? Ioconfesso che non so intendere come siasi abbracciataquesta opinione. Il soprannominato Onorio ne parla tra

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Se a questi tempi fio-risse un Teodolo scrittor po-lemico.

XXIX. Onorio d'Autun (de Script. eccl. l. 3,c. 13) nomina un "Teodolo italiano chescrisse un'egloga sul Testamento Vecchio, esulle Favole de' Gentili, sostenendo la veritàdella Fede, e distruggendo la falsità dellaperfidia". Sigeberto gemblacense (de Script.

eccl. c. 134) parla egli pure di questo Teodolo, e diceche quest'egloga fu da lui scritta in Atene, ove, mentreegli attendeva agli studj, udì i Gentili disputare co' Cri-stiani. Ne parla ancora il Tritemio (de Script. eccl. c.185), e oltre quest'egloga gli attribuisce ancor un librointitolato de Consonantia Scripturarum. Ma gli scrittoriposteriori al Tritemio osservando che di questa secondaopera il suddetto Onorio fa autore un Teodoro (ib. l. 2,c. 90), han ripreso il Tritemio, come se avesse confusidue scrittori in un solo. Così scrive fra gli altri il p. Ceil-lier (Hist. des Aut. eccl. t. 19, p. 689), il quale dice chelo stesso Tritemio fissa l'età di Teodolo verso l'an. 980,mentre Teodoro vivea nel V secolo. Ma il Tritemio nonha mai detto ciò che gli appone il p. Ceillier, anzi ci dicechiarissimamente di Teodolo: "Claruit anno CCCCLX-XX, sub Zenone Augusto, sub quo ei moritur". Potevaegli parlare più chiaramente? Ma questo Teodolo autordell'egloga mentovata visse egli veramente nel X secolo,come il suddetto p. Ceillier, il Fabricio (Bibl. lat. med.et inf. aetat. l. 6, p. 232) il Leysero (Hist. Poetarum me-dii aevi saec. 10, § 27) ed altri moderni affermano? Ioconfesso che non so intendere come siasi abbracciataquesta opinione. Il soprannominato Onorio ne parla tra

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Se a questi tempi fio-risse un Teodolo scrittor po-lemico.

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gli scrittori del V secolo, ed egli è l'autore tra i citati piùantico, e perciò più degno di fede. Sigeberto l'annoveratra gli scrittori del X, e l'autorità di questo scrittore hatratti gli altri in inganno. In fatti, come è mai possibilech'essi i quali pur ci raccontano che Teodolo scrissequest'egloga in Atene all'occasione delle contese cheudiva ivi farsi fra' Cristiani e Gentili, come è mai possi-bile, dico, ch'essi non abbiano avvertito che nel X sec.nè erano in Atene studj di sorta alcuna, nè vi era piùombra d'idolatria? È dunque assai più probabile che loscrittore di quest'egloga vivesse veramente nel V secolo,come affermano Onorio d'Autun e il Tritemio; benchènon si possa affermar con certezza, come ha fatto il Tri-temio, ch'ei sia ancora l'autore della Consonanza dellaSacra Scrittura: Abbiamo tuttora l'egloga di Teodolo, dicui si son fatte più edizioni, ed anche lo stile di essasembra più conveniente al V che al X secolo. Io nondi-meno ne ho qui favellato, perchè a questi tempi ne par-lano tutti i moderni scrittori.

Fine del Tomo III. Par. I.

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gli scrittori del V secolo, ed egli è l'autore tra i citati piùantico, e perciò più degno di fede. Sigeberto l'annoveratra gli scrittori del X, e l'autorità di questo scrittore hatratti gli altri in inganno. In fatti, come è mai possibilech'essi i quali pur ci raccontano che Teodolo scrissequest'egloga in Atene all'occasione delle contese cheudiva ivi farsi fra' Cristiani e Gentili, come è mai possi-bile, dico, ch'essi non abbiano avvertito che nel X sec.nè erano in Atene studj di sorta alcuna, nè vi era piùombra d'idolatria? È dunque assai più probabile che loscrittore di quest'egloga vivesse veramente nel V secolo,come affermano Onorio d'Autun e il Tritemio; benchènon si possa affermar con certezza, come ha fatto il Tri-temio, ch'ei sia ancora l'autore della Consonanza dellaSacra Scrittura: Abbiamo tuttora l'egloga di Teodolo, dicui si son fatte più edizioni, ed anche lo stile di essasembra più conveniente al V che al X secolo. Io nondi-meno ne ho qui favellato, perchè a questi tempi ne par-lano tutti i moderni scrittori.

Fine del Tomo III. Par. I.

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