Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

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ANNO XV-N. 1-3 – GENNAIO-DICEMBRE 2010 – RE DAZIONE: VIA CA LZECCHI, 2 – 20133 MILANO

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Rivista di Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

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CARITÀ POLITICAgià e non ancora

SOMMARIO

LA CADUTA DEL MURO: 1989-2009PROF. ALFREDO LUCIANI 3Mons. WALTER BRANDMÜLLER 3S.E. HANS HENNING HORSTMANN 7Mons. CYRIL VASIL 9S.E. JOZEF DRAVECKY 13S.E.R. Card. JOSÉ SARAIVA MARTINS 17S.E. PEROLS ULLA BRIGITTA GUDMUNDSON 20S.E. LAMIA MEKHEMAR 21S.E. VLADETA JANKOVIC 24S.E. PAVEL VOSALIK 26S.E. MARIUS GABRIEL LAZURCA 28S.E. CARLOS DE LA RIVA GUERRA 30S.E. IVÁN GUILLERMO RINCÓN URDANETA 34S. E. FRANCESCO PAOLO FULCI 45S.E. KOUAMÉ BENJAMIN KONAN 48PADRE JOSEPH JOBLIN S.J. 52S.E.R. CARDINAL PAUL POUPARD 60S.E. STANISLAS DE LABOULAYE 64S.E. LUIZ FELIPE DE SEIXAS CORRÊA 67

DIPLOMAZIA E RELIGIONES.E. STANISLAS DE LABOULAYE 70PROF. ALFREDO LUCIANI 71PROF. JOSEPH MAÏLA 72

LA CRISI ECONOMICA ALLA LUCEDELLA CARITAS IN VERITATE 76

L’IMPORTANZA DELLA TELEFONIA PER LA COMUNIONE ED IL PROGRESSO DELLA SOCIETÀ UMANA 80

TESTIMONIANZA 16

INNOVAZIONE SOCIALE:Presentazione dei risultati parziali didue Progetti del Distretto V.I.T.A.(Veneto Informatica e Tecnologico Avanzato) 84

Anno XV - N. 1-Gennaio-Dicembre 2010Rivista Quadrimestrale dell’Associazione Carità Politica

Direttore Responsabile: Alfredo Luciani

Coordinamento redazionale: Rossella Semplici

Edito da: Associazione Internazionale Missionari della Carità Politica

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esclusivamente per l’invio della rivista.

Questa è l’ora della carità sociale e politicacapace di disegnare le strade

della pace, della giustizia e dell’amicizia tra i popoliGiovanni Paolo II

L’Osservatore Romano - 30 ottobre 2004

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DR. JOST VON TROTT ZU SOLZ I VIII

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a) La divisione della Germania in seguito alla seconda guerra mondiale ha determinato profondi cambiamenti nello

scenario ecclesiastico.

Parti delle diocesi di Paderborn, Würzburg, Fulda e Osnabrück sono state separate di colpo dalle loro sedi vescovili –

dato che erano situate sul territorio della zona un tempo di occupazione sovietica, in seguito passata alla DDR. In par-

ticolare, è apparso eclatante il caso della diocesi di Berlino. Solo la diocesi di Meissen-Bautzen era situata interamente

nel territorio della DDR, come pure residui dell’arcidiocesi di Breslavia, da cui in seguito è sorta la diocesi di Görlitz.

Solo a fatica i vescovi con sedi nella Repubblica federale tedesca hanno potuto mantenere rapporti con i loro fedeli

nella DDR. Come soluzioni d’emergenza era previsto che i vescovi, per le loro comunità situate nella DDR, nomi-

nassero dei rappresentanti dotati di pieni poteri straordinari. In tal modo era possibile salvaguardare l’azione pa-

storale e l’unità ecclesiastica, laddove la costituzione di una conferenza di ordinari tedesco-orientale da parte di

Pio XII teneva conto delle esigenze pratiche.

Ma lo scioglimento delle strutture ecclesiastiche dal loro vincolo con le diocesi tedesco-occidentali avite, allo scopo

di conseguire un’identica copertura di territorio statale e struttura gerarchica, corrispondeva anch’esso alle aspira-

zioni di autonomia statale e di riconoscimento internazionale da parte della dirigenza della DDR.

Mentre le analoghe intenzioni della dirigenza della DDR nei confronti delle Chiese locali protestanti furono coronate

da successo e queste si separarono dalla Chiesa evangelica tedesca (EKD), la conferenza dei vescovi tedeschi e il

governo della Repubblica federale si opposero energicamente.

A entrambi premeva sottolineare l’unità della Germania, anche sotto l’aspetto ecclesiastico, insistendo sullo status quo.

La Santa Sede venne incontro alle concrete esigenze pastorali, creando nel 1973 per le parti delle diocesi tedesco-

occidentali situate nella DDR i cosiddetti Uffici diocesani di Erfurt-Meiningen, Magdeburgo e Schwerin, e nomi-

nando per ciascuno di essi un amministratore apostolico, per cui la giurisdizione restava del vescovo titolare

occidentale, ma non veniva soppressa.

Nel 1976 fu costituita la “Conferenza dei vescovi di Berlino”, che divenne un necessario forum di comunicazione

per gli amministratori apostolici, come pure per i vescovi di Berlino e Meissen-Bautzen.

Un’ulteriore iniziativa auspicata dalla diplomazia della DDR e progettata dal segretario di Stato Casaroli, ossia

quella di innalzare gli Uffici vescovili al rango di Amministrazioni apostoliche, non fu più messa in atto, poiché

Paolo VI morì il 6 agosto 1978 e Giovanni Paolo II inaugurò un nuovo corso.

Se Paolo VI era partito dal presupposto di una durata imprevedibile del sistema sovietico e quindi si era adoperato

per trovare un modus vivendi – o meglio, non moriendi – con Mosca, al fine di garantire la sopravvivenza della

Chiesa nel blocco orientale, Giovanni Paolo II si impegnò invece in un confronto risoluto. Quindi tramontarono

anche le aspirazioni dirette alla costruzione di una struttura gerarchica circoscritta al territorio della DDR.

MONS. WALTER BRANDMÜLLERPresidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche

LA CHIESA CATTOLICA NELLA REPUBBLICA DEMOCRATICATEDESCA (DDR) E LA SVOLTA

A vent’anni della caduta del muro di Berlino, che ha caratterizzato pesantemente la storia contemporanea,

l’Associazione Carità Politica ha promosso un ciclo d’incontri dedicato a quest’evento con riflessioni e testimo-

nianze di Responsabili dei Dicasteri della Curia Romana e di Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede.

La giornata del 9 novembre 1989 riveste un’importanza simbolica per la Germania, per l’Europa, per il mondo.

Se per la Germania segna, con la caduta del muro di Berlino, il momento della sua sospirata riunificazione, per

l’Europa e per il mondo segna la fine della contrapposizione tra i due blocchi che per oltre quarant’anni ha pe-

santemente caratterizzato la storia contemporanea.

Quel giorno si è venuto a delineare una nuova mappa geopolitica e si è inaugurato un nuovo capitolo della

storia. Si sono aperte molte speranze di pace e democrazia. Purtroppo tutte queste aspettative non si sono rea-

lizzate e ancora oggi siamo alla ricerca di un ordine politico-sociale più umano e più giusto.

Così in questo anniversario della caduta del muro ci viene il monito ad impegnarci tutti per abbattere i muri

dell’intolleranza, dell’ignoranza e del pregiudizio e a cercare di costruire ponti di pace, armonia e concordia.

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Solo dopo la caduta del Muro ha potuto configurarsi un nuovo ordinamento ecclesiastico, senza che fosse connesso

ad implicazioni politiche. Nel 1994 furono erette le diocesi di Magdeburgo e Erfurt, per cui si pose fine all’ordina-

mento provvisorio in vigore fino a quel momento.

Passiamo all’organizzazione ecclesiastica.

b) La situazione pastorale, religiosa nella DDR era determinata dalla circostanza che con la Riforma del XVI secolo

erano stati soppressi circa 16 diocesi e numerosi conventi. A eccezione di pochi territori – pensiamo all’Eichsfeld,

Oberlausitz e Ermland, come pure a singoli conventi – fin dalla guerra dei Trent’anni la vita ecclesiastica cattolica

nel territorio di quella che sarebbe diventata la DDR si era estinta.

Una situazione completamente nuova si è profilata solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, a causa della quale

circa un milione e mezzo di fuggiaschi o profughi cattolici affluirono nel territorio della futura DDR. Alcuni hanno

ipotizzato che le potenze vincitrici avessero in programma una mescolanza confessionale connessa questo processo.

In tal modo ha avuto origine una diaspora cattolica negli odierni nuovi Länder federali.

La situazione dei cattolici era quindi molto difficile, perché questi territori già all’epoca della Repubblica di Weimar,

cioè verso la fine del XIX secolo, a causa della propaganda ateistica dei socialisti, erano stati largamente scristia-

nizzati. Durante gli anni del nazismo l’ideologia del sangue e del suolo, cioè della razza, contribuì alla diffusione

della religione neopagana della razza germanica, che accentuò ulteriormente la scristianizzazione. Quindi l’ateismo

connesso al regime della SED (il partito socialista unitario tedesco) ha avuto gioco facile.

Di conseguenza la fede dei cattolici che vivevano in quest’ambiente è stata sottoposta alle prove più ardue. La

Chiesa cattolica, nella DDR, si trovava in una duplice situazione di diaspora. Sul piano confessionale, rispetto alla

popolazione di religione evangelica, rappresentava una quantità insignificante. Protestanti e cattolici, però, comin-

ciarono a considerarsi sempre più, in un certo senso, come piccole oasi in un deserto di ateismo. Un’esperienza

che ha portato ad una forma di solidarietà e ad una vicinanza ecumenica. Nelle questioni di attualità, soprattutto

quelle legate alla politica ecclesiastica, si trovava un accordo – il rapporto con gli organi dello Stato e del partito

era molto diverso. Un parallelo cattolico rispetto al modello protestante di una “Chiesa nel socialismo” non è esistito

in nessuna fase. Piuttosto il contrasto con l’ideologia dominante era univoco. La resistenza cattolica si è diretta

non tanto contro lo Stato di per sé, ma contro l’ideologia che ne era alla base.

Questa differenza affonda le sue radici fin nell’epoca della Riforma. Soprattutto nei territori di Prussia-Brandeburgo,

in conseguenza della Riforma la sovranità sulla Chiesa era stata rivendicata dai signori locali, che si sentivano

Summi episcopi delle loro Chiese territoriali. Questo sistema di governo ecclesiastico su base territoriale da parte

dei signori ebbe naturalmente come conseguenza una particolare prossimità o dipendenza della Chiesa dallo Stato.

Nel mio luogo d’origine, Ansbach – un principato del Brandeburgo – ancora alla fine del XVIII secolo il II Senato

della Camera della guerra e del demanio svolgeva le funzioni di suprema autorità ecclesiastica. Questa dipendenza

si è mantenuta oltre la fine della monarchia.

Ben diversa si presentava la situazione dei cattolici, che in particolare in seguito alle leggi bismarckiane connesse

al Kulturkampf (dopo il 1870) erano stati sottoposti ad una persecuzione che non è cessata nemmeno sotto il regime

nazista. Durante questa fase furono scacciati o incarcerati da nove a dodici vescovi prussiani. Un destino che fu

condiviso da centinaia di sacerdoti.

Queste esperienze vissute nel passato hanno segnato in modo duraturo l’atteggiamento dei cattolici nei confronti

del potere statale. A ciò si è aggiunta l’esperienza del periodo nazista, che “fa capire la strategia difensiva adottata

dai vertici della Chiesa cattolica nella DDR fino agli anni Ottanta, orientata a suddividere la limitata sfera eccle-

siastica interna” (H. Heineke).

Quindi, da parte cattolica, si è mantenuta una distanza nei confronti degli organi statali e partitici, senza tuttavia

provocarli con una resistenza aperta.

I contatti comunque necessari con queste istanze furono affidati dai vescovi a singoli sacerdoti, che dovevano agire

su loro incarico e secondo le loro direttive.

A questo punto è naturale chiedersi se dalle cerchie del clero siano usciti collaboratori o fiancheggiatori della Stasi.

Per quanto è consentito dire allo stato attuale della ricerca, la rigida regolamentazione di questi contatti era in grado

di impedire una simile collaborazione a livello diffuso.

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Se il Ministero per la sicurezza dello Stato ha perseguito l’obiettivo di esercitare pressioni sulla Chiesa cattolica

per pilotarla, attraverso informazioni informali nel senso della politica ecclesiastica condotta dallo Stato-SED, si è

trattato di un tentativo fallito. Di 183 dirigenti che tra il 1950 e il 1989 hanno lavorato per la Caritas, solo tre hanno

avuto contatti cospirativi con la Stasi. Quattro sacerdoti agivano su disposizioni dei vescovi.

L’altro risvolto di questo modello pastorale della distanza nei confronti dello Stato e di una società plasmata dal

materialismo comunista, consisteva nel percepire e criticare la vita ecclesiastica concentrata “intorno al campanile”

come un cristianesimo da sacrestia angusto e segregato. Per un altro verso, per la piccola Chiesa cattolica della

diaspora il legame con Roma era stato importante da sempre. Dopo l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo

II questo legame si è rivelato decisivo per una riorganizzazione della vita ecclesiastica. In questo contesto il papa

non solo ha offerto sostegno ai vescovi, ma si è adoperato per avviare un rapporto con le cerchie evangeliche im-

pegnate “per la giustizia, la pace e la preservazione della creazione”.

Ma con ciò siamo già alle soglie dell’anno 1989.

II. La partecipazione dei cattolici alla svoltaAncora oggi sono vivide le immagini che si sono presentate allo sguardo dello spettatore nella tarda estate del 1989

a Lipsia: erano le famose dimostrazioni del lunedì, la prima delle quali ebbe luogo il 4 settembre. Meta delle di-

mostrazioni era la chiesa di S. Nicola, nella quale si concludevano con la preghiera della pace. Lo stesso accadeva

in numerose città della DDR. Era la Chiesa evangelica che aveva aperto le sue chiese a questo scopo e aveva ap-

poggiato in vari modi le dimostrazioni.

A questo punto è legittimo interrogarsi sull’eventuale impegno cattolico nel processo di svolta. In confronto al ruolo

svolto dalle comunità evangeliche, esso appare più modesto. Ma questa circostanza non deve meravigliare, dato

che i cattolici rappresentavano solo una minoranza declinante. La quota di protestanti sulla popolazione complessiva,

che ammontava all’85% nel 1950, si era ridotta al 25% nel 1989, quella dei cattolici era passata dal 10% al 5%.

Naturalmente i cattolici non possedevano chiese che avrebbero potuto accogliere una moltitudine di persone per la

preghiera della pace – a eccezione delle note enclavi cattoliche di Eichsfeld e Oberlausitz. Tuttavia, non poche co-

munità cattoliche si sono impegnate in misura più modesta anche politicamente.

Così molti cattolici si comportavano da oppositori; insieme con i protestanti si impegnavano per l’ambiente e nei

movimenti pacifisti e si schieravano nelle dimostrazioni del lunedì. Il vescovo di Dresda Reinelt ha riferito, per

esempio, di aver spesso accompagnato coloro che dimostravano contro il regime della DDR insieme con il vescovo

evangelico locale – quest’ultimo a Lipsia, Reinelt a Dresda. Le singole parrocchie offrivano gli spazi dove i membri

democratici della comunità, critici verso il regime, si incontravano e si scambiavano le loro opinioni.

Inoltre, bisogna aggiungere che i cattolici della Germania Est guardavano indubbiamente con attenzione agli eventi

in Polonia, dove dopo l’omelia di Pentecoste quasi profetica pronunciata da Giovanni Paolo II a Varsavia, nel 1979,

si era messo in moto un movimento che alla fine avrebbe portato agli avvenimenti del 1989.

Il papa allora aveva citato il versetto della liturgia di Pentecoste: “Emitte Spiritum tuum … et renovabis faciem ter-

rae.” Poi aveva battuto al suolo energicamente il suo bastone pastorale e aveva proseguito: “Questa terra qui”. In

polacco “terra” significa anche “paese”! Consentitemi di citare, per ricapitolare, cosa scrive nel suo nuovo libro

Urbi et Gorbi – Christen als Wegbereiter der Wende Joachim Jauer, che è stato per anni corrispondente della ZDF

nella DDR e in Europa orientale: “Sono senz’altro più numerosi i protagonisti evangelici rispetto a quelli cattolici,

e questo non stupisce. Ci troviamo qui, nel paese di Lutero, nell’ex DDR. Le piccole comunità cattoliche qui sono

sorte solo dopo la seconda guerra mondiale, dagli insediamenti di profughi della Boemia o della Slesia. Questa è

la prima osservazione. La seconda è che i vescovi cattolici volevano salvaguardare il loro piccolo gregge e hanno

quasi innalzato un baluardo difensivo intorno a loro. Questo ha fatto sì che la piccola Chiesa cattolica, sul territorio

della DDR, abbia potuto preservare i suoi fedeli dalla perdita della fede molto più della grande Chiesa evangelica,

dalla quale i capi della SED... sono riusciti ad allontanare una quantità, addirittura milioni, di persone. Questo tra

i cattolici non è stato possibile... Ma queste notizie non arrivavano all’opinione pubblica. Anche per noi corrispon-

denti era quasi impossibile aver accesso a queste informazioni... Non ho mai... potuto fare un servizio in una chiesa

cattolica... Da questo emerge... un’immagine distorta, come se i cattolici addirittura non fossero esistiti”.

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Ma subito dopo la svolta si è visto che esistevano e non erano rimasti affatto inattivi. Il teologo evangelico Erhard

Neubert, sbalordito ed evidentemente contrariato per il gran numero di cattolici che dopo il 1990 si sono assunti

responsabilità politiche nei nuovi Länder federali, scrisse nel 1991: “Abbiamo esautorato la SED, e ora il potere l’-

hanno preso i cattolici”. La tesi della rivoluzione protestante è falsa quanto quella della presa del potere da parte

dei cattolici dopo il 1990. Che i cattolici, in rapporto alla loro quota nella popolazione complessiva, fossero rap-

presentati politicamente in modo sproporzionato, era dovuto al fatto di essere impegnati prevalentemente nella

CDU. A questo si aggiungeva che il programma della CDU si inseriva nella tradizione della dottrina sociale cattolica,

che non era affatto ignota ai cattolici impegnati della DDR. Inoltre, si è potuto accertare che fin dagli anni Settanta

si è verificata nella DDR un’“ascesa silenziosa” dell’élite cattolica verso posizioni direttive non politiche in ambito

accademico, nella sanità e nelle professioni tecniche.

A differenza dei laici attivi durante la svolta, i vescovi si sono espressi e comportati con discrezione in relazione

alla politica. Questo non esclude che, per esempio, il vescovo di Magdeburgo Braun, già nel settembre 1989, abbia

formulato apertamente delle critiche nei confronti del regime della SED. Il vescovo Reinelt di Dresda, all’inizio

dell’ottobre 1989, ha cercato di impedire personalmente violenti scontri fra dimostranti e servizi di sicurezza nella

piazza della stazione di Dresda; e il 16 ottobre, due giorni dopo l’esautoramento del capo dello Stato della DDR,

Erich Honecker, ha chiamato i cattolici ad impegnarsi nella politica.

Questo appello è stato prontamente raccolto dalle comunità.

Potrebbero essere citati ancora altri esempi. In ogni caso, si può parlare anche di una partecipazione dei cattolici

alla svolta.

Quando è caduto il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, alcuni vescovi tedeschi – fra i quali il vescovo di Berlino

Sterzinsky, che aveva assunto la sua carica solo in settembre – si trovavano a Roma per incontrare papa Giovanni

Paolo II. Quando i vescovi, sorpresi dagli eventi, si sono accomiatati dal papa per affrettarsi a tornare in patria,

Giovanni Paolo II li ha congedati con queste parole: “Fate di tutto, per unirvi anche voi, seppure come un piccolo

gregge, a tutti gli uomini di buona volontà, in particolare ai cristiani evangelici, per rinnovare la faccia della terra

nel vostro paese nella forza dello spirito divino”.

Un’eco significativo della famosa predica di Pentecoste pronunciata a Varsavia nel 1979.

A questo punto è opportuno chiedersi se questo è accaduto, se la faccia della terra sia stata effettivamente rinnovata

nei nuovi Länder federali.

Ora, sul piano organizzativo la risposta può essere affermativa.

In questo arco di tempo nei nuovi Länder federali sono state create le strutture gerarchiche, e le relazioni fra Stato

e Chiesa sono state regolate da concordati.

Dal 1989 sono stati fondati oltre 26 conventi maschili e 24 conventi femminili e numerosi movimenti religiosi –

come per esempio Comunione e liberazione, Cursillo, Mariage Encounter, Emmanuel e altri – hanno intrapreso la

loro attività apostolica. A questo si aggiunge la fondazione di nuove scuole cattoliche.

Tutto ciò conferma anche per la Chiesa della ex DDR la validità del motto di Montecassino: Succisa virescit.

Sono ormai trascorsi vent’anni dalla svolta, dalla liberazione della Chiesa nella Germania orientale. A questo punto,

si è tentati di chiedersi se a questo processo sia connessa anche una corrispondente influenza sulla società dei nuovi

Länder. Fino ad oggi non è possibile dare una risposta positiva a tale proposito, se si considera l’alta percentuale

di voti che ha ottenuto nelle elezioni degli ultimi due decenni il partito succeduto alla SED, la PDS, legata come in

precedenza all’ideologia marxista. Anche lo schieramento estremista di destra ha un seguito tutt’altro che modesto.

Comunque, oggi, non è ancora il momento per interrogarsi su un’eventuale influenza cristiana sulla società della

ex DDR a seguito della svolta. Circa cento anni di scristianizzazione di questi Länder – prima a causa del materia-

lismo volgare del tardo Ottocento e poi delle ideologie irreligiose del Novecento – hanno contribuito al sorgere, in

questi luoghi, di un clima spirituale e sociale che non è affatto favorevole al diffondersi del messaggio cristiano.

Ma questa situazione non deve assolutamente indurre alla rassegnazione, deve piuttosto essere riconosciuta e rac-

colta dalla Chiesa in Germania come una sfida.

Roma, 21 ottobre 2009

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C a r i t à P o l i t i c a 7

Ogni anno si celebrano giornate commemorative sia civili che religiose. In modo particolare nei momenti di crisi e

di insicurezza, si trae conforto interiore richiamando alla memoria la propria storia comune, ricordando la propria

origine per poi capire quale è la propria collocazione odierna, per poter, condividendo gioia o dolore della celebrazione

congiunta, puntare la propria bussola individuale. Nel 2009, ricorre l’ottantesimo anniversario della costituzione dello

Stato della Città del Vaticano. Abbiamo ricordato l’Insurrezione di Varsavia avvenuta 65 anni fa. Molti di noi hanno

rivisto le immagini del primo uomo sulla luna 40 anni or sono e hanno riflettuto, con grande rispetto e stupore, sulle

possibilità della tecnologia spaziale. Nelle giornate della memoria comprendiamo le grandi capacità che Dio ha donato

all’intelletto e alla curiosità dell’uomo. Allo stesso tempo ci rendiamo conto di quanta malvagità l’uomo è capace.

L’anno 1989 non è un anno di portata storica solo per i tedeschi. Gli antefatti sono molteplici e tuttora se ne perce-

piscono le ripercussioni. Possiamo apprezzare il valore dell’anno della caduta del Muro solo se torniamo indietro

nel tempo di 70 anni. Sono trascorsi 70 anni da quando noi tedeschi abbiamo invaso la Polonia l’1 settembre 1939,

data di inizio della seconda guerra mondiale nonché della sistematica persecuzione e dello sterminio dei nostri con-

cittadini ebrei. L’annessione tedesca dell’Austria nel 1938 era stata tollerata dall’opinione pubblica mondiale, con

l’unica eccezione della protesta del Messico. Anche il Patto di Monaco del 29 settembre 1938 era stata una con-

cessione al dittatore che condusse alla dissoluzione della Cecoslovacchia e alla sua invasione da parte delle truppe

tedesche nel marzo 1939. Quello che rimase della ex Cecoslovacchia venne annesso al Reich tedesco. Nell’agosto

del 1939 venne sottoscritto il Trattato di non aggressione fra Germania e Unione Sovietica. L’1 settembre del 1939

si ebbe la vittoria di Hitler e della hybris. La fondazione della Repubblica Federale di Germania 60 anni fa, nel

1949 (solo poche settimane dopo la creazione del Patto Nordatlantico (NATO) di cui la Repubblica Federale di

Germania entrò a far parte nel 1955) segnò l’inizio di una storia di libertà e giustizia per la Germania. I padri della

Legge Fondamentale avevano tratto i loro insegnamenti dalla Repubblica di Weimar e dalla tirannia nazionalso-

cialista e avevano concordato una Costituzione che rendeva giustizia alla classica ripartizione dei poteri: esecutivo,

legislativo e giudiziario e che, all’articolo 1, recitava: “La dignità della persona è intangibile”. Fu proprio grazie

anche ai nostri amici americani che fummo capaci di rimetterci in piedi dopo il 1945. Vorrei menzionare statisti

esemplari come il Presidente Truman, il Ministro degli Esteri George Marshall e il Generale Lucius D. Clay, che

organizzò anche il ponte aereo durante il blocco sovietico di Berlino.

Già nel 1945, il Papa Pio XII elesse l’Arcivescovo Muench a suo diretto legato pontificio in Germania per aiutare,

con la misericordia cristiana, il popolo tedesco devastato, sconfitto e disonorato. I grandi europei de Gasperi, Schu-

man, de Gaulle, Bech, Spaak e Churchill nutrivano fiducia in Konrad Adenauer e nella sua politica dell’integrazione

con l’Occidente. Una politica che non era priva di contestazioni poiché si intravedeva, in questo collegamento ad

ovest, anche il pericolo della perpetuazione della divisione della Germania. In retrospettiva, ciò fu la base per la

“Ostpolitik” di Willy Brandt e Walter Scheel. Nell’agosto del 1970 venne stipulato il cosiddetto Accordo di base

fra la Repubblica Federale di Germania e l’URSS. All’atto della firma dell’Accordo, il Governo federale consegnò

una lettera sull’unità tedesca che, tra l’altro, stabiliva: “Quest’Accordo non è in contrasto con il fine politico della

Repubblica Federale di Germania di adoperarsi per ristabilire una condizione di pace in Europa in cui il popolo te-

desco possa riacquisire la propria unità attraverso la libera autodeterminazione.” Ancora nel mese di novembre del

1970 fu siglato l’Accordo di base con la Repubblica popolare di Polonia con cui venne suggellata politicamente la

S.E. HANS HENNING HORSTMANNAmbasciatore della Germania presso la Santa Sede

1989:ANNO DI TRANSIZIONE IN UN’ERA DI CAMBIAMENTI

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rinuncia agli ex territori tedeschi ad est della linea Oder-Neisse. Seguirono gli Accordi con Cecoslovacchia, Bulgaria

e Ungheria nel 1973 (con la Romania erano state allacciate relazioni diplomatiche già nel 1967).

Nella storia della cooperazione del mio Paese con gli Stati del Patto di Varsavia e del Consiglio per la Mutua As-

sistenza Economica la bandiera aveva seguito il commercio. Questa è un’antica tradizione tedesca: tramite l’eco-

nomia creare fiducia, sviluppare contatti culturali e scientifici, per poi passare ad una concreta collaborazione

politica. La firma dell’Atto finale di Helsinki nel 1975 (la Conferenza per Sicurezza e Cooperazione in Europa)

diede una legittimazione di diritto internazionale all’operato dei coraggiosi attivisti per i diritti dell’uomo provenienti

da ogni ambito sociale, ma soprattutto anche dalla Chiesa e da Solidarnosc in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria

e RDT. Le relazioni si intensificarono. La Germania, saldamente ancorata nell’Unione europea, nelle strutture tran-

satlantiche e quale membro delle Nazioni Unite, è stata capace di realizzare attivamente una politica fedele al-

l’esempio di Giovanni Paolo II, al suo grande coraggio e alla sua fiducia in Dio. Sotto gli occhi del mondo, vent’anni

fa Gyula Horn e Alois Mock hanno tagliato una parte della rete di fino spinato al confine fra Austria ed Ungheria.

Il picnic europeo, svoltosi a Sopron nell’agosto del 1989, e la possibilità concessa ai cittadini della RDT di trasferirsi

in Germania passando per l’Austria e poi l’apertura definitiva di tale confine nel mese di settembre prepararono la

strada al crollo del Muro di Berlino.

Dopo il successo dei negoziati con la RDT, il 30 settembre 1989 i rifugiati nell’Ambasciata di Praga poterono la-

sciare il Paese, i rifugiati di altre Ambasciate ottennero altresì la possibilità di andarsene. Ed il 9 novembre il Muro

di Berlino cadde.

Il 9 novembre è inconcepibile senza il coraggio dei polacchi. Il 6 febbraio a Varsavia venne convocata la Tavola

Rotonda che mise in crisi il predominio del partito comunista come partito unico in Polonia, forse vi pose addirittura

fine. Il 4 giugno si tennero le prime elezioni libere che portarono ad una vittoria strepitosa di Solidarnosc.

In primavera Gorbaciov aveva modificato sostanzialmente i rapporti di forza in seno al Comitato Centrale e, con

le elezioni per il Congresso Popolare, aveva trasferito il poter dal partito al Parlamento. Gorbaciov ed i riformatori

in seno al Comitato Centrale accettarono gli sviluppi in Polonia, Ungheria e nella RDT.

Sin dall’inizio degli anni ‘80 alcuni attivisti per i diritti civili, ricordiamo Friedrich Schorlemmer, assunsero nella

RDT una posizione apertamente critica rispetto al regime. Le preghiere di pace nella RDT e le sempre più insistenti

dimostrazioni pacifiche del lunedì, nell’autunno successivo, furono poi un contributo storico dei tedeschi a questo

processo di liberazione. I tedeschi furono capaci di riunificarsi senza violenza e senza che venisse impartito alcun

ordine di sparare. Il Vescovo Reinelt e il Pastore Führer furono due rappresentanti del clero che contribuirono in-

cessantemente alla felice riuscita della riunificazione.

Se si escludono gli Stati Uniti, la caduta del Muro sorprese quasi tutti. Soprattutto noi tedeschi fummo colti alla

sprovvista. La nostra politica aveva cercato di rendere più umano il disumano regime di confine, rappresentato dalla

cortina di ferro. Aveva mirato ad instaurare più strette relazioni fra i due Stati tedeschi in un’Europa in via di inte-

grazione. Bronislaw Geremek, successivamente Ministro degli Esteri polacco, scrisse nell’agosto del 1989: “La

nuova classe dirigente polacca ritiene che la riunificazione tedesca sia inevitabile”. È stato uno dei grandi meriti dei

consiglieri di Solidarnosc aver considerato che l’unità tedesca fosse nell’interesse polacco. Si opposero ai tentativi

sovietici di strumentalizzare l’atavica paura dei polacchi rispetto ai loro vicini tedeschi. Solidarnosc si rese conto

che con l’unità tedesca non si avvicinava solo la Germania. Anche la Nato e gli Usa diventavano suoi vicini.

I tedeschi reagirono alle affermazioni di Geremek dicendo che i polacchi avevano una propensione al romanticismo

politico. Tuttavia, a novembre questo presunto romanticismo iniziò a divenire realtà. Nella RDT lo slogan che

veniva scandito non era più “Noi siamo il Popolo”, bensì “Noi siamo un unico Popolo”; il 6 novembre a Lipsia la

gente gridava “Germania, patria unita”. Il 28 novembre 1989, Helmut Kohl presentò al Bundestag tedesco il suo

Programma di dieci punti per il superamento della divisione della Germania e dell’Europa. I colloqui di Helmut

Kohl e Hans-Dietrich Genscher con Gorbaciov e Eduard Shervardnadze come pure la forza trainante di George

Bush senior e James Baker plasmarono i colloqui 2+4, cioè i negoziati tra i due Stati tedeschi nonché gli Stati Uniti,

l’URSS, la Francia e la Gran Bretagna.

In Germania tornò la laicità cooperativa fra lo Stato, la Chiesa cattolica e quella protestante che risultò essere una

buona base per questa sfida senza precedenti storici. Fu possibile farcela grazie all’apporto di molti in seno a go-

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C a r i t à P o l i t i c a 9

verno, economia e scienza, ma anche grazie a coraggiose decisioni di singole persone e soprattutto grazie all’operato

di Kohl, Bush e Gorbaciov. Il 3 ottobre 1990 la Germania realizzò la sua unità statale.

Il cammino verso l’unità sociale e umana è irto di ostacoli. Tuttavia proprio in questo tempo di crisi e di sfiducia

globale siamo consapevoli della forza della Germania unita. La mentalità est-ovest è prevalentemente superata. I

tedeschi si sentono a casa propria in ogni parte della Germania e dell’Europa e fronteggiano le nuove sfide, pur

non sapendo sempre come superarle, con la fiducia di farcela.

Assieme ad i nostri partner europei e mondiali portiamo avanti una politica di buone relazioni bilaterali come rete

nonché base per la riuscita di una politica multilaterale. Presupposto essenziale per ogni politica di pace è la cura

quotidiana dei rapporti di buon vicinato. Vorrei citare qui l’esempio dell’ampio partenariato tedesco-polacco. Per

questo partenariato le Chiese hanno un’importanza vitale: lo scambio di lettere dei vescovi cattolici in Polonia e

Germania del 1965 (“Concediamo perdono e chiediamo perdono”) e la cosiddetta “Ostdenkschrift” della Chiesa

Protestante tedesca, cioè il “Promemoria per l’est”, sono delle pietre angolari delle nostre buone relazioni. La

recente dichiarazione congiunta dell’episcopato tedesco e polacco dell’agosto 2009 ha approfondito la comprensione

e la fiducia reciproche. Il grande Papa polacco ha dato ai popoli orientamenti essenziali. Nell’attuale crisi globale

dell’economia e delle finanze, ma in particolare della fiducia, le indicazioni dell’Enciclica sociale del suo successore

Benedetto XVI rappresentano un valido aiuto all’orientamento.

In una visione retrospettiva, le ricorrenze che abbiamo celebrato quest’anno ci dimostrano quanto sia importante

porre le nostre scelte politiche su una base etica per un futuro comune di pace.

Roma, 21 ottobre 2009

Venti anni dopo la caduta del muro vorrei presentare alcune mie testimonianze e riflessioni che si succederanno

come le immagini di un film documentario. Le prime due scene si riferiscono alla visita in Cecoslovacchia di Gio-

vanni Paolo II del 25 aprile 1990. Il Presidente della Repubblica Cecoslovacca si rivolse a Sua Santità con queste

parole : “Forse non so definire un miracolo, ma so che ora stiamo partecipando ad uno” , frase che riassumeva i

sentimenti di tutti quelli che erano presenti all’aeroporto ma anche di tutti quelli che seguivano da casa questa visita

storica. Un secondo scatto coglie il momento dell’ atterraggio del Santo Padre a Bratislava, quando dopo diversi

minuti di imbarazzo e discussioni protocollari il Santo Padre scende finalmente dall’elicottero, uno dei politici pre-

minenti dell’epoca distende il suo mantello nel fango, e il Santo Padre si inginocchia e bacia la terra slovacca.

Molti interpretano questo gesto come un atto di riconoscimento, tra virgolette, del fatto che sta visitando un paese

che ha tutte le prerogative per essere definito come un paese “diverso”.

A partire da questi momenti che datano ad aprile 1990 si può usare il flashback per capire che cosa era cambiato

in quei mesi o in cosa consisteva il miracolo di quel famoso anno 1989. Certo resta sempre una scelta del relatore

decidere quanto indietro si deve tornare per questo viaggio nella memoria. Per quanto mi riguarda, vorrei guidarlo

non soltanto verso delle considerazioni storiche, geo-politiche o sociali, ma anche riferendomi ai miei ricordi per-

sonali e perciò vorrei tornare indietro fino a luglio 1985 a Velehrad, un piccolo paese quasi ignoto, tranne per coloro

che conoscono bene la storia della nostra nazione. Il giorno quando l’intera nazione celebrava 1100 anni dalla morte

del primo arcivescovo, S. Metodio, si era riunita a Velehrad una folla di 150- 200 mila persone in attesa di ricevere

MONS. CYRIL VASILSegretario della Congregazione per le Chiese Orientali

LA CADUTA DEL MURO1989-2009

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10 C a r i t à P o l i t i c a

il legato pontificio, Mons. Casaroli, il quale veniva come rappresentante del Papa visto che all’epoca Sua Santità

non poteva visitare la Cecoslovacchia, ma sapeva farsi sentire sempre presente attraverso certi gesti e messaggi.

Questo pellegrinaggio, e sottolineo qui la parola pellegrinaggio, al quale partecipai da giovane seminarista, può

essere definito come una svolta. Forse negli ultimi 40 anni vissuti sotto il Regime Comunista questa era la prima

volta quando, i fedeli, riuniti in una grande celebrazione sono entrati in un dialogo con quello che all’epoca era il

potere politico. Ricordo benissimo, sull’altare, prima dell’inizio della liturgia, i politici che cercavano di presentare

questo raduno, come un raduno della lotta per la pace, come un omaggio portato ai grandi esponenti della cultura

e come un segno della nostra decisione di aderire completamente a tutte le idee promosse dal blocco socialista che

si voleva presentare come opposto a quello “cattivo”, capitalista. Dopo l’inizio del discorso del ministro della cul-

tura, la folla ha cominciato a farsi sentire: quando lui parlava del meeting per la pace la folla replicava “no, pelle-

grinaggio, pellegrinaggio”, quando diceva “ecco celebriamo Cirillo e Metodio” loro replicavano “Santi Cirillo e

Metodio” e quando nominava la cultura, la scrittura, loro replicavano “la fede, la fede”. Era una cosa che non si era

mai verificata negli ultimi quaranta anni e forse quello era il momento in cui cominciarono ad apparire le prime

crepe di ciò che sembrava fino ad allora un monolitico sistema di controllo perfetto, una struttura in cui non c’era

spazio per la libertà di espressione o per una mentalità diversa da quella “ufficiale”. Certo quando si è in tanti è dif-

ficile individuare singoli agitatori, è difficile decidere chi punire, è difficile cambiar attitudine di fronte alle teleca-

mere del mondo intero, a segretari di Stato e della Santa Sede.

Infatti in quel momento cominciarono ad apparire i segni di quel dissenso che riusciva ad unire anche le due parti

della Repubblica Cecoslovacca, dissenso che nelle terre ceche e boheme aveva un carattere più che altro culturale,

politico, essendo portato avanti da umanisti, mentre in Slovacchia vi era più un dissenso religioso portato dai circoli

religiosi della chiesa clandestina e dai suoi rappresentanti. In questo momento ancora si poteva sentire la grande

unione di due nazioni che vivevano nello stesso Stato, che erano sottoposte allo stesso regime e che spiritualmente

si sentivano vicine per i loro simboli e valori. Difatti, non a caso, nel seguente quinquennio il Santo Padre visita,

oltre alle due capitali, anche questo luogo, Velehrad, dove in qualche modo è nato quello che per noi slovacchi e

cechi è poi sfociato nel 1989, la caduta dei nostri muri interni che dividevano la nostra società e le nostre coscienze.

In questo arco di tempo tra ’85 e ‘89-90 qual era la situazione dal punto di vista della Chiesa? A differenza degli

anni Cinquanta, caratterizzati da persecuzioni violente, dopo il 1968, nel periodo della normalizzazione, la lotta

antireligiosa si era spostata più sul piano ideologico, sulla sottile persuasione e sulla corruzione morale. Anche al-

l’interno della Chiesa vi era una sorta di adattamento alla situazione: c’era chi aveva una vita privata coerente con

la fede e una pubblica di apparente consenso al regime. Questo comportamento però era pericoloso, dannoso, perché

mentre una persecuzione aperta di per sé provoca una reazione, una lenta corruzione può impossessarsi dell’anima

in modo quasi impercettibile . Questo è quanto abbiamo vissuto tra gli anni Settanta e Ottanta: si era costretti a na-

scondersi o ad adattarsi alla situazione attraverso piccoli e grandi compromessi. Vorrei ricordare un episodio per-

sonale: ero al liceo quando un giorno un’insegnante fu incaricata di fare una statistica. Ci chiese quanti di noi

avevano già chiara un’idea circa la religione, cioè quanti di noi erano atei. La professoressa ci chiese se poteva

scrivere che tutti eravamo ancora indecisi. Io mi alzai e chiesi quali erano le alternative. La risposta fu che vi era

la possibilità di essere credenti. Allora espressi l’intenzione di optare per questa scelta. I miei compagni mi dicevano

di lasciar perdere, di non compromettermi: ma è importante che poi, a distanza di anni, si interrogarono sulle ragioni

di quella mia scelta. In quei periodi era molto difficile non scendere a compromessi.

Negli anni Cinquanta vennero fatti molti tentativi da parte del regime per distruggere le Chiese. In un primo mo-

mento, si cercò di corrompere dal di dentro la Chiesa latina, spingendola verso atteggiamenti scismatici. Ma il ten-

tativo non riuscì. Quindi, si provò a fare un’azione contro la Chiesa greco-cattolica, liquidandola direttamente e

mettendola sotto la Chiesa ortodossa. Per 18 anni la nostra Chiesa ufficialmente non è esistita , addirittura venne

cancellato il termine «greco-cattolico» dai dizionari. La Chiesa latina, invece, veniva tenuta continuamente sotto

pressione, avendo come risultato l’incarcerazione dei vescovi e la scelta di certi sacerdoti di collaborare con il

regime alla guida delle parrocchie. Dopo il 1968 la pressione divenne uguale per entrambe le Chiese, solo che per

noi c’era sempre anche la minaccia di finire incorporati nella Chiesa ortodossa, a quell’epoca favorita dal Governo.

Contro le nostre comunità il regime a volte usava forme di ricatto familiare, ma tutto questo si è rivelato uno stru-

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mento poco efficace: erano proprio i familiari a far coraggio ai sacerdoti per affrontare le deportazioni e i lavori

forzati. Durante gli anni dell’unione con la Chiesa ortodossa, moltissimi fedeli cominciarono a frequentare la Chiesa

latina. Molti vi sono rimasti definitivamente e ciò ha fatto sì che i fedeli greco-cattolici diminuissero notevolmente

di numero. Io stesso sono stato battezzato con il rito romano, perché non c’era altra alternativa. Però, appena è

stato possibile, la mia famiglia è tornata nella Chiesa greco-cattolica.

Ci sono degli episodi bellissimi di quel periodo: interi villaggi che hanno tenuto chiuse le porte delle chiese per

tutto il tempo in cui era stata decretata la fine della Chiesa greco-cattolica. I fedeli facevano da soli i battesimi e i

funerali; per i matrimoni andavano in qualche paese vicino, dove c’era un sacerdote latino che benediceva le nozze.

La gente si riuniva per la liturgia e in silenzio ripeteva le parole che avrebbe dovuto dire il sacerdote, poi rispondeva

come se fosse stato presente. Una giornalista comunista scrisse che in quel silenzio era racchiusa la minaccia più

forte per il regime, perché c’era l’unione spirituale del popolo con il sacerdote deportato in prigione. Il ripristino

della libertà per la nostra Chiesa è stato uno dei frutti della primavera di Praga del 1968.

Un altro aspetto della vita ecclesiastica viene rappresentato dai pellegrinaggi. Negli anni ’80, nella seconda metà

degli anni ’80 si assiste ad un incremento enorme della partecipazione ai tradizionali pellegrinaggi nei luoghi di culto

mariano, quindi nella stagione estiva, che comincia a fine di giugno e finisce il 15 settembre, con il grande pellegri-

naggio al Santuario di Šaštin. Questi pellegrinaggi che sono stati sempre frequentati duranti gli anni del regime più

duro, negli anni ’80 diventano un luogo di ritrovo dove si poteva respirare, almeno parzialmente, un senso di libertà

e un senso di appartenenza. Infatti la crescita numerica di partecipazione a questi raduni rappresentava in qualche

modo un dissenso non dichiarato, come la semplice presenza alle celebrazioni liturgiche. Per il regime rappresentava

una minaccia vedere partecipare tanta gente, specialmente giovani che percorrevano a piedi questi pellegrinaggi, no-

nostante tutte le attività e venivano organizzate in quei stessi giorni come contromisure, nonostante tutte le attività

delle scuole che richiamavano gli studenti a scuola, nonostante le interruzioni del traffico pubblico, ecc.

Un altro aspetto della fine degli anni ’80, che poi confluisce in quello che poi oggi chiamiamo la caduta del muro

dell’89, la caduta dei muri, è rappresentato dal semplice fatto tecnico di evoluzione delle strutture informatiche.

Oggi può sembrare strano vedere quanto e cambiato, io non mi sento tanto vecchio, ma se ripenso che da studente

era impossibile avere accesso ad un computer, ad una stampante e ad una fotocopiatrice, che in città come Bratislava,

con mezzo milione di abitanti, vi erano solo due copisterie aperte al pubblico, ovviamente anche quelle controllate

da persone che erano addette a fare le fotocopie. Però, grazie alla disponibilità di alcune persone riuscivamo a fare

fotocopie di materiale religioso, portando qualche dolce alle signore che qualche volta mettevano dei cartelli alla

porta con iscritto “per ragioni tecniche non si lavora” e poi producevano materiale per i seminaristi. Infatti guardando

la vecchia stampa presente qui del giornale austriaco mi viene in mente una cosa su cui ridevamo parecchio da se-

minaristi . C’erano due copisterie vicine alla farmacia Salvator dove portavamo i Canzonali da fotocopiare e poi

c’era il libro, siccome era un negozio socialista, il solito libro delle richieste e dei suggerimenti del cittadino per il

miglioramento del servizio dentro di cui c’era una lettera rabbiosissima di un tizio che diceva “ho portato a foto-

copiare alla copisteria il programma televisivo della rivista del partito comunista austriaco e mi hanno detto che

non si può copiare una pagina dalla stampa estera, che può essere potenzialmente sovversiva, allora, io non sono

d’accordo con questo, compagno tale, firmato con tanto di ossequi”.

Comunque volevo dire che con il progresso delle strutture di comunicazione era sempre più difficile tenere la gente

isolata e quello alla fine degli anni ’80 comincia ad apparire la stampa clandestina, chiamata con la famosa parola

russa che è entrata in tutte le lingue : Samizdat. Samizdat poteva funzionare in diversi modi, bastava entrare di do-

menica pomeriggio nell’aula del seminario per sentire il ticchettio delle macchine da scrivere dei seminaristi. In

fondo gli unici libri religiosi che potevamo possedere erano quelli che ci copiavamo con le macchine da scrivere,

dividendoci tra noi il lavoro, così si poteva avere accesso alla letteratura teologica, era un chiaro clima di Samizdat.

Faccio un piccolo parallelo: nel 1987 arrivato qui a Roma dovevo sembrare una persona fuori di testa perché nei

primi giorni andavo nelle librerie Paoline e stavo là e osservavo i libri, mi prendeva un leggero tremolio alle mani

nel vedere tutti quei libri religiosi, teologici e Bibbie, tutti insieme liberamente, si potevano tirare e sfogliare senza

nessun timore, tremore. Per fortuna non avevo soldi per comprare, però andavo là ad osservare tutto quel ben di

Dio che stava lì e mi meravigliavo del fatto che non tutti compravano qualcosa. In Slovacchia Samizdat aveva sem-

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12 C a r i t à P o l i t i c a

pre più che altro un carattere religioso, non era una stampa rivoluzionaria, sovversiva, era un semplice libro di pre-

ghiere, qualche volta includendo riflessioni per il Vangelo domenicale, storie sulle vite dei Santi, comunque tutti

strumenti considerati pericolosissimi per la stabilità del regime dell’epoca. Ecco questi sono alcuni aspetti che po-

tevo percepire alla fine degli anni ’80 come seminarista e giovane sacerdote prima di venire qui a Roma, in quella

parte del mondo che veniva chiamata mondo libero. Infatti, scusate, ma mi sembra giusto qui introdurre una cosa

spirituale, anche in quel momento noi stavamo pregando il Salmo 123 “Se il Signore non fosse stato con noi /…/

il Signore che ha fatto cielo e terra”.

In questa atmosfera così cupa della fine degli anni ‘80 arriva quel momento che nessuno poteva prevedere o pia-

nificare, quando comincia a sgretolarsi quel monolitico edificio che sembrava solido e ben strutturato di vari regimi

di diversi paesi del Blocco orientale, e certamente ci saranno sociologi che spiegheranno gli eventi e i passi per cui

sono stati possibili questi cambiamenti.

Da semplice osservatore esterno, dal punto di vista della chiesa si può subito notare che cosa è successo nei pri-

missimi giorni, settimane, mesi dell’anno 1990. Come particolarmente la Slovacchia e la Chiesa si sono trovate a

dover affrontare questi cambiamenti e quali sono stati i primi risultati. Forse i primi a sentire il vento nuovo siamo

stati noi seminaristi giovani, che così come altri studenti, stavamo in un seminario che era già nello spirito post-

conciliare; del Concilio Vaticano II ne avevamo sentito parlare, ma dei documenti abbiamo avuto solo una lettura

socialista. Era un seminario che viveva nell’ anormalità dell’epoca. I seminaristi cominciano a partecipare alle

prime manifestazioni degli studenti, ai primi meeting a Bratislava. Ciò suscita ovviamente grande fermento tra di-

versi superiori del seminario che non sapevano cosa stesse succedendo. Alcuni di questi cercano di proteggere i se-

minaristi in buona fede, per non farli cadere in qualche tranello, altri cominciano a sentire che sta avvenendo qualche

cambiamento che potrà alla fine sfuggire al controllo. E in effetti, all’inizio di novembre il seminario e chiuso e i

ragazzi vengono mandati a casa a tempo indeterminato.

Tra i primi cambiamenti, dal punto di vista della vita della Chiesa, vi era il fatto che molte sedi episcopali erano

occupate da amministratori apostolici, questa non essendo una situazione nuova e proprio nei primi giorni di di-

cembre e gennaio e stato già possibile accelerare tutte le trattative con la Santa Sede per la nomina di nuovi vescovi.

Il 19 marzo vennero eletti tre vescovi, evento ripreso in televisione e i presenti, essendo numerosi, vennero accolti

in un campo di calcio, anche questo una dimensione non tanto abituale che segnalava l’euforia della situazione e

il reale bisogno della gente che veniva finalmente adempito.

Un altro passo avanti nel miglioramento della vita della Chiesa è avvenuto dopo il crollo dell’articolo 4 della Co-

stituzione cecoslovacca, sul ruolo predominante del Partito comunista, perché insieme a questo articolo viene can-

cellato anche il formale controllo dello Stato sulla Chiesa. Questo articolo comportava fra l’altro la richiesta

necessaria del bene placet del governo per poter esercitare qualsiasi funzione sacerdotale, il controllo completo su

qualsiasi funzione pubblica esercitata fuori della chiesa ecc. ovviamente senza nessun atto formale, e così le strutture

del controllo della Chiesa si sciolsero come neve sotto i primi raggi del sole primaverile.

Comincia il processo della ri-legalizzazione della vita degli ordini religiosi concentrati nei vari campi di raccolta

o di concentramento, se volete, o vivevano in clandestinità completa o sotto strettissimo controllo di una istituzione.

Ovviamente un primo cambiamento visibile è l’uscita dalla clandestinità di questi religiosi ed è stato molto diver-

tente vedere i figli che dichiaravano ai genitori (preoccupati del fatto di non vederli ancora fidanzati), di essere sa-

cerdoti e non soltanto religiosi, o quando molti professionisti, medici e professori universitari lasciarono le loro

cattedre per rivelare la loro vocazione e l’appartenenza a un ordine religioso, lasciando in completo stupore i con-

cittadini che prima non immaginavano nulla di simile. Anche questo quindi è un aspetto molto interessante di questo

crollo dei muri nell’ambito della stessa società e delle stesse famiglie; è anche un fattore esterno che poi portava

ad una riapertura dei rapporti con la Santa Sede attraverso l’instaurazione di normali rapporti diplomatici.

Roma, 4 novembre 2009

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C a r i t à P o l i t i c a 13

La caduta del Muro di Berlino 20 anni fa è un simbolo dei cambiamenti molto profondi anche in altri stati dell’Eu-

ropa Centrale e dell‘Est, tra loro la Repubblica Socialista Cecoslovacca dell’epoca. La Slovacchia ne fu parte, dal

primo gennaio 1969 formalmente come una delle due repubbliche costituenti della federazione ceco-slovacca.

Poiché in Slovacchia l’influenza della religione e della Chiesa cattolica malgrado l’oppressione comunista era più

forte che in Boemia e Moravia che formarono la Repubblica Socialista Ceca, l’ opposizione contro il regime co-

munista negli anni ottanta in Slovacchia era molto più spinta dagli attivisti cattolici, piuttosto che dagli attivisti

civili come lo era in Repubblica Ceca. Dunque cominciamo la presentazione della Slovacchia dopo la caduta del

Muro con una breve introduzione.

Il regime esercitava un controllo quasi totale su tutte le attività religiose, sopratutto quelle della Chiesa cattolica,

la più grande. I sacerdoti per esercitare avevano bisogno di permesso dello stato, che veniva ritirato ai preti un po’

più coraggiosi. Per esempio all’arcivescovo di Košice d’oggi Alojz Tkáč, hanno ritirato il permesso dopo che aveva

chiesto all’organizzazione per i sacerdoti Pacem in Terris (imposta dal regime) di occuparsi anche dei loro bisogni

e doveva poi lavorare come conducente di tram e persino l’editore del giornale locale è stato punito per aver inserito

la foto di questo conduttore in un articolo presentando i migliori donatori del sangue.

Il governo, diretto pienamente dal Partito comunista, non ha per anni permesso di consacrare i vescovi per le sedi

diocesane vacanti. Il 25 marzo 1988 a Bratislava fu organizzata la pacifica dimostrazione pubblica per la libertà

religiosa e per il riempimento delle sedi vacanti nelle diocesi. (dalle sei diocesi di rito romano cinque erano vacanti,

così anche l’unica greco-cattolica). Migliaia di credenti stavano, pregando, nel centro della città con candele accese

nelle mani per una mezzora, bagnati dalle vetture dei vigili del fuoco e molti sono stati arrestati dalla polizia. Ma

i mezzi di comunicazione pubblica dell’Occidente hanno informato di questa “manifestazione di candele”, che

infatti è stata la prima dimostrazione pubblica che apertamente chiedeva qualcosa al regime. Le manifestazioni in

agosto 1988 in occasione del ventesimo della occupazione sono arrivate dopo. La manifestazione delle candele ha

anche portato i risultati: per evitare la mancanza totale dei vescovi in Slovacchia, il governo ha permesso la con-

sacrazione di alcuni nel estate di 1989.

L’impatto della caduta del Muro in Cecoslovacchia è la Rivoluzione di velluto, chiamata più spesso la Rivoluzione

tenera. È scoppiata con la manifestazione studentesca il 17 novembre 1989, ufficialmente approvata dalle autorità

per ricordare la Giornata degli studenti e il cinquantesimo anniversario della chiusura dai nazisti delle università in

Boemia e Moravia. Ma già il giorno prima, giovedì il 16 novembre 1989 a Bratislava si è tenuta la manifestazione

studentesca, dove partecipanti hanno pubblicamente protestato contro il progetto della legge sulle università e per

la libertà accademica. Permettetemi qui un ricordo personale. Ero docente di matematica all’università e il pome-

riggio di quel giorno sono andato con i miei studenti nel centro della città. Gli studenti, tenendosi per mano, hanno

formato una catena viva, muovendosi, cantando e chiamando ad alta voce le sue richieste nel centro storico della

capitale slovacca. Mi ricordo di essere nella catena tra due studentesse e di sentire che questo momento fosse im-

portante. Questa dimostrazione degli studenti a Bratislava non solo era stata permessa dalle autorità, ma esse ave-

vano paura di usare violenza contro gli studenti malgrado l’atmosfera nettamente confrontante contro il regime.

Il giorno dopo, la situazione a Praga è diventata differente. Finito il percorso autorizzato, organizzato dall’Unione

socialista della gioventù, gli studenti continuavano a muoversi nel centro della capitale cecoslovacca. Chiedevano

S.E. JOZEF DRAVECKYAmbasciatore della Slovacchia presso la Santa Sede

LA SLOVACCHIADOPO LA CADUTA DEL MURO

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democrazia, libertà. Questo era inammissibile per il regime comunista che all’epoca era critico di Gorbaciov e di-

ventava amico di Ceausescu. La polizia aspettava gli studenti con violenza. Erano battuti, arrestati, ma l’informa-

zione di un studente morto si è più tardi provata di non essere vera.

Un altro ricordo personale, se mi permettete. Guardando le attualità televisive di tarda sera il venerdì 17 novembre

1989 mi sono reso conto che la TV cecoslovacca non taceva sulla dimostrazione, neanche sull’uso della forza per

“ristabilire l’ordine pubblico”, benché abbia sottolineato che le strade della capitale erano già serene e quasi vuote,

volendo così persuadere il pubblico che non ci sarebbe alcun seguito all’evento isolato. La situazione cioè era

diversa da quella del 25 marzo 1988, quando senza la TV austriaca o le diverse radio occidentali non sarebbe stato

possibile sapere che cosa era successo veramente nella Piazza Hviezdoslav a Bratislava.

Non mi ricordo molto dal sabato 18 novembre. La TV ancora non ci faceva sapere che cosa stava accadendo. Ma

il giornale di TV cecoslovacca al mezzogiorno di domenica 19 novembre parlava già in modo più aperto delle at-

tività degli artisti che avevano dichiarato il loro sostegno agli studenti ed anche dello sciopero che era stato annun-

ciato all’università. Mi aspettavo che forse un giorno dopo lo sciopero a Praga ci sarebbe stato anche lo sciopero a

Bratislava, che mi riguardava visto che ero docente di matematica. Era in questo momento circa che mi sono deciso

di tenere i giornali come un documento del periodo, perché sentivo senza dubbio che quello era un momento storico

e decisivo per il futuro del mio paese. Li ho raccolti, i giornali dal 17 novembre alle fine del 1989 ed ecco lì come

un documento tangibile di ciò di cui vi sto parlando.

Per lo sciopero nella Facoltà di matematica e fisica gli studenti e docenti si sono radunati nell’aula più grande. Tra

le richieste formulate insieme c’erano quelle della dissoluzione dell’organizzazione del partito comunista nella fa-

coltà. Suo capo, un giovane docente, a fatto appello a non fare così e prediceva una dissoluzione generale del partito

comunista della Cecoslovacchia. Io avevo ancora paura che il regime potesse ristabilirsi, ma la causa di ristorare

la democrazia e la libertà sopratutto quella religiosa mi era tanto vicina che mi sono impegnato nelle attività dei

miei colleghi, certo non tutti. Vero, i comunisti non volevano prendere la responsabilità, invece i dissidenti erano

decisi a rischiare.

La televisione e la radio hanno totalmente cambiato il loro volto. Mi sembravano simili alla primavera di 1968

quando io, studente all’università, ero affascinato della possibilità mai vissuta di sentire la verità e le opinioni

diverse nei mezzi pubblici. La “normalizzazione” degli anni 70 e 80 ha di nuovo filtrato tutto secondo l’ideologia

unica permessa. Nel 1989 i cambiamenti sono andati ancora più lontano. I dibattiti televisivi, in cui partecipavano

anche i miei amici fino a questo momento perseguitati, m’attiravano, benché prima non potessi capire, come per

gli Inglesi, per esempio, i dibattiti televisivi potevano essere interessanti, visto che nella nostra TV non si poteva

vedere neanche una piccolissima differenza dalla posizione ufficiale del partito. Dopo la rivoluzione, per mesi, ci

sedevamo la sera davanti ai televisori, affascinati dai dibattiti.

C’era ancora una similitudine tra la primavera del 1968 e il tardo autunno del 1989 in Slovacchia. Insieme con le

voci per la democrazia e libertà c’erano voci per l’uguaglianza tra gli slovacchi ed i cechi. Nel 1968 il risultato fu

la legge costitutiva che introdusse la federazione. C’erano 3 governi, quello ceco, slovacco e federativo cecoslo-

vacco. C’erano perfino 4 corpi legislativi: due camere dell’Assemblea federale, il Consiglio nazionale ceco e il

Consiglio nazionale slovacco. Ma il potere reale, l’aveva solo il partito comunista ed esso è rimasto, quasi fino alla

Rivoluzione tenera, centralizzato. Il Partito comunista slovacco era soltanto un’organizzazione regionale e non esi-

steva una simile organizzazione ceca, allora si trattava di un’asimmetria e non federazione. Questo si è rivelato

molto importante più tardi nel corso dei cambiamenti lanciati dalla rivoluzione. Ma già negli ultimi giorni di no-

vembre 1989 si sentiva che la federazione non estesa sul potere reale non bastava agli slovacchi. Un altro aspetto

dello stesso problema era il problema del trattino tra ceco e slovacco nel nome dello stato. Ovviamente nessuno

voleva più l’aggettivo socialista, ma la repubblica federale si chiamerà cecoslovacca o ceco-slovacca? Due possi-

bilità inconciliabili hanno ceduto al “Repubblica Federativa Ceca e Slovacca”. Se ci domandiamo adesso perché

questo poneva un problema così grande, ricordiamo che mentre i cechi si identificavano con la Cecoslovacchia

come la loro Patria e anche la capitale della federazione Praga era nello stesso tempo la capitale ceca, gli slovacchi

sempre pensavano alla Slovacchia come alla loro patria e solo a malavoglia accettavano che questa facesse parte

di uno stato più grande, Cecoslovacchia o prima Ungheria.

14 C a r i t à P o l i t i c a

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C a r i t à P o l i t i c a 15

Senza leggere e tradurre dallo slovacco tutti i giornali qui esposti possiamo elencare gli eventi più importanti per

la Slovacchia tra il 17 novembre e il 31 dicembre 1989.

Primo : la rivoluzione, centinaia di migliaia di manifestanti nelle città, non solo gli studenti o gli artisti che l’hanno

cominciata. Ogni tre quattro giorni si tenevano manifestazioni di migliaia di persone nel centro di Bratislava. Queste

non erano come prima organizzate o persino comandate dal regime. La gente veniva perché dopo quasi quarant’anni

era possibile esprimere un’opinione diversa da quella ufficiale. Mi ricordo di aver partecipato ad alcune sia con i

miei studenti, sia con i più grandi di miei figli. Le chiavi suonavano la fine del potere di un solo partito. L’atmosfera

era molto entusiasta e idealistica. L’esprimeva la canzone Sľúbili sme si lásku, sľúbili vravieť pravdu len (Ci siamo

promessi l’amore, promessi di dire soltanto la verità).

Secondo: il regime cecoslovacco non è ricorso all’uso della forza per sopprimere la rivoluzione pacifica. Il corpo

paramilitare del partito comunista era preparato per un intervento, ma il regime non aveva più il coraggio di ser-

virsene.

Terzo: il crollo della cortina di ferro. Già una settimana dopo l’inizio della rivoluzione, la cortina di ferro (costruita

letteralmente di ferro, così) sulla frontiera tra la Slovacchia e l’Austria fu smontata e per viaggiare fuori del blocco

sovietico non era più necessario munirsi, in una procedura umiliante di qualche mese, dell’allegato al passaporto.

Nell’entusiasmo di questa nuova possibilità, inedita sin dal 1969, tanti slovacchi hanno viaggiato a Vienna e grazie

alle autorità austriache potevano farlo senza il visto.

Quarto: e questo era differente dal 1968, la gente non chiedeva più un “socialismo con un volto umano”, ma piuttosto

la fine del socialismo come esisteva da noi, basato sul “ruolo guida del partito comunista” ancorato nella Costitu-

zione dal 1960. Il Foro civico, creato dagli opponenti del regime, negoziava con il governo cecoslovacco e si sono

messi d’accordo per eliminare questo articolo dalla Costituzione. Per eliminare anche quello che postulava che

ogni educazione ed istruzione fosse conforme al marxismo-leninismo, era necessario il quorum qualificato nel-

l’Assemblea federale, dunque bisognava cambiare presto la sua composizione. Tanti protagonisti del regime hanno

rinunciato all’essere membri dei governi e parlamenti e i dissidenti più conosciuti o almeno i comunisti aperti ai

cambiamenti erano eletti al posto loro. Il 29 novembre l’Assemblea federale, cambiando la Costituzione ha posto

fine a 40 anni di monopolio del partito comunista.

Quinto: Alexander Dubček, la leggenda del 1968 si è fatto vedere sulle tribune delle manifestazioni ed il suo so-

stegno ha molto contributo al successo della rivoluzione in Slovacchia, dove lui era percepito come un candidato

naturale per diventare il Presidente cecoslovacco. Però ha consentito al patto, offerto dal leader del Foro civico,

Václav Havel ed è stato eletto capo dell’Assemblea federale il 28 dicembre 1989. Václav Havel, invece fu eletto

Presidente della Repubblica Federale il giorno dopo.

Un’altra conseguenza legale molto importante fu la decisione di tenere le elezioni legislative libere nel giugno

1990. La legge ha presto consentito di creare i partiti e promulgato le regole per il sistema elettorale. Si auspicava

che i nuovi parlamenti introdussero i cambiamenti legislativi necessari perché lo stato possa funzionare senza il

ruolo guidante dell’unico partito. Si sentiva anche il bisogno di una distribuzione più precisa dei poteri, o come lo

abbiamo chiamato delle “competenze”, tra il livello federale e quello delle due repubbliche costitutive. Nell’euforia

generale nessuno dubitava che questo compito si potrebbe compiere in due anni, allora le elezioni di 1990 hanno

creato i parlamenti solo per due anni. Ma il compito di definire le competenze si è rivelato molto più difficile.

Nel frattempo, nel marzo 1990 il Consiglio nazionale slovacco ha approvato la bandiera slovacca, bianca-blu-rossa,

ma poi quando la Russia ha scelto la stessa bandiera, in quella slovacca è stato inserito lo stemma. La Slovacchia

ha anche creato il suo governo, in cui per esempio esisteva il ministero delle relazioni internazionali, che non c’era

nel governo ceco.

Dopo le elezioni noi abbiamo vissuto in un paese democratico, ma scoprivamo pian piano quanto era idealistica

l’euforia della fine del 1989. La lotta politica si è concentrata su due temi principali: come escludere gli esponenti

del regime precedente e sopratutto gli agenti e collaboratori della polizia secreta di stato dai posti dove si esercitava

il potere, e come distribuire il potere tra la federazione e le due repubbliche in modo di essere giusti con i slovacchi

senza frustrare i cechi. Nella primavera del 1992 cominciava a essere evidente che introdurre una federazione

giusta, forse non sarebbe possibile.

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Un ricordo personale. Nel febbraio del 1992 in un luogo ricreativo a Milovy, le delegazioni delle due repubbliche

hanno discusso una settimana per scrivere i principi delle competenze. Il tema del primo giorno era la politica

estera, e per discuterlo ero presente in quanto vice-ministro delle relazioni internazionali della Repubblica slovacca.

Questo lunedì fu accettata la nostra formulazione: le relazioni con le organizzazioni internazionali sono sola com-

petenza della federazione, mentre le repubbliche hanno il diritto di mantenere relazioni bilaterali con gli stati. Il

mercoledì ho saputo che dopo la partenza della delegazione slovacca gli editori del testo l’hanno cambiato total-

mente, riservando tutte le competenze estere alla federazione. Si è fatto così anche con gli altri temi e di conseguenza

quando il capo collettivo della Repubblica slovacca ha votato per ratificare il documento di Milovy, dei suoi dieci

membri solo 5 hanno votato pro. Dunque il documento è stato rigettato.

Le elezioni si sono svolte nel giugno 1992. I partiti che hanno vinto erano quelli di Vaclav Klaus (che non era attivo

in Slovacchia) e quello di Vladimir Meciar (che non esisteva in Repubblica ceca). Il potere, dato dal popolo era na-

turalmente concentrato separatamente nelle due repubbliche. Negoziazioni tra i vincitori sono cominciate, ma non

era possibile neanche scrivere il programma del governo federale. Il 17 luglio il parlamento slovacco ha adottato

una dichiarazione di sovranità, Vaclav Havel si è dimesso e il parlamento federale non poteva eleggere un nuovo

presidente con una maggioranza necessaria di tre quinti. Il Consiglio nazionale slovacco ha approvato il 1 settembre

1992 la Costituzione della Repubblica slovacca. Come prevista dalla costituzione federale, però alcuni capitoli di

quella slovacca prevedevano dei poteri riservati agli stati indipendenti, dunque non potevano entrare in vigore al

momento. In autunno era politicamente chiaro che la federazione dovrebbe finire. La separazione si è fatta in modo

pacifico e legale, con una legge costitutiva, approvata con tutte le maggioranze necessarie dall’Assemblea federale.

Il 1 gennaio 1993 è nata l’indipendente Repubblica slovacca, di cui oggi ho l’onore di essere rappresentane presso

la Santa Sede.

Abbiamo vissuto insieme in pochi minuti il periodo più importante dal 25 marzo 1988 al 1 gennaio 1993. Dalla pa-

cifica protesta dei cattolici slovacchi alla nascita dello Stato slovacco nazionale e democratico, per la prima volta

nella storia con ambedue attributi. Ma le cose più importanti sono accadute nei mesi dopo la caduta del Muro, con

il crollo del regime totalitaria e della cortina di ferro di cui esso si limitava lo stesso ancora di più che lo faceva ai

suoi cittadini. Il senso di libertà dietro di loro è conservato anche grazie alla religione e la Chiesa.

Roma, 4 novembre 2009

16 C a r i t à P o l i t i c a

Dopo anni di emarginazione, gli handicappati fisici hanno de-

ciso di camminare con le proprie gambe, di affrancarsi da una

condizione odiosa che li obbliga ad essere eternamente degli

“assistiti”, di lavorare.

Gli stessi handicappati propongono la soluzione: le coope-rative di lavoroL’iniziativa parte dalla Sezione Provinciale Milanese del-

l’ANIEP, associazione nazionale invalidi esiti da poliomielite

e altri invalidi civili.

Gli handicappati fisici si riuniscono in cooperative indipen-

denti, gestite da handicappati, ma aperte a tutti ed eseguono

lavori commissionati da piccole, medie e grandi industrie.

Allo scopo, costruiscono appositi laboratori privi di barriere

architettoniche e organizzano servizi di trasporto idonei.

Dalla Lombardia, gli handicappati fisici si sono dati molto da

fare per sensibilizzare organi governativi, regione, aziende...

I risultati non si sono fatti attendere: Sit- Siemens, Fiat, Pirelli,

Magneti Marelli, Gavis hanno già fornito commesse di lavoro

per circa 300 persone e il Comune di Milano ha messo a di-

sposizione i locali da attrezzare e i servizi di trasporto.

Primo esempio concreto: vis Carbonia 7, MilanoLa prima sezione della nuova cooperativa denominata “Il Pon-

te” ha già cominciato a lavorare per la Sit-Siemens, 25 persone

hanno abbandonato la condizione di “handicappati” per assu-

mere quella di lavoratori, risolvendo i loro problemi, ma an-

che, in minima parte, quelli della nostra economia.

Altre sezioni cominceranno presto a produrre. Sono previsti

centri interni di qualificazione professionale e culturale.

TESTIMONIANZADATE DEL LAVORO A UN HANDICAPPATO FISICO

E LO FARETE FELICE PER TUTTA LA VITA

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C a r i t à P o l i t i c a 17

“Per fare di un uomo un santo occorre solo la Grazia. Chi dubita di questo non sa cosa sia un santo né cosa sia un uo-

mo”, ha osservato con la sua caratteristica lapidarietà Pascal nei “Pensieri”. Prendo questa osservazione per accennare

alle due prospettive del mio intervento: nel santo si coniugano la celebrazione di Dio (della sua Grazia appunto) e la

celebrazione dell’uomo, nella sua potenzialità e nei suoi limiti, nelle sue aspirazioni e nelle sue realizzazioni.

Sono note le tante obiezioni che oggi si muovono al concetto di “santità” e di “santo”. Non poche critiche sono ri-

volte anche alla tradizionale e ininterrotta pratica della Chiesa di riconoscere e proclamare “santi” alcuni suoi figli

più esemplari. Nel grande risalto poi, anche numerico, dato da Giovanni Paolo II alle beatificazioni e canonizzazioni

durante il suo pontificato, qualcuno ha insinuato esservi una strategia espansionistica della Chiesa Cattolica. Per

altri, la proposta di nuovi beati e santi, così diversificati per categorie, nazionalità e culture, sarebbe solo una ope-

razione di marketing della santità, con scopi di leadership del Papato nella società civile. C’è, infine, chi vede nelle

canonizzazioni e nel culto dei santi un residuo anacronistico di trionfalismo religioso, estraneo o persino contrario

allo spirito e al dettato del Concilio Vaticano II che tanto ha evidenziato la vocazione alla santità di tutti i cristiani.

Evidentemente, una lettura esclusivamente sociologica del nostro tema rischia di essere non solo riduttiva ma anche

fuorviante della comprensione di questo fenomeno tanto caratteristico della Chiesa Cattolica, ma anche di quella

ortodossa e, in certa forma diversa, anche delle comunità protestanti.

1.- I santi e la santità oggiNella Lettera Apostolica ‘Novo Millennio Ineunte,” la Lettera che il Papa ha consegnato alla Chiesa a conclusione

del Giubileo dell’anno 2000, si parla con accenti profondi del tema della santità. Nella “grande schiera di santi e

di martiri” che include “Pontefici ben noti alla storia o umili figure di laici e religiosi, da un continente all’altro

del globo” — ha osservato Giovanni Paolo II al n. 7 della Lettera — è apparsa più che mai la dimensione che

meglio esprime il mistero della Chiesa. Messaggio eloquente che non ha bisogno di parole, essa rappresenta al

vivo il volto di Cristo” .

Per capire la Chiesa occorre, dunque, conoscere i santi che ne sono il segno e il frutto più maturo ed eloquente. Per

contemplare il volto di Cristo nelle mutevoli e diversificate situazioni del mondo moderno, occorre guardare ai santi

che “che rappresentano il volto di Cristo”, come ci ricorda il Papa. La Chiesa deve proclamare dei santi, e lo deve

fare in nome di quell’ annuncio della santità che la riempie e la fa essere appunto, strumento di santità nel mondo.

“Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia trasformati nell’immagine di

Cristo (cf 2Cor 3, 18), Dio manifesta vividamente agli uomini la sua presenza e il suo volto. In loro è Egli stesso

che parla e ci mostra il segno del suo regno, verso il quale, avendo davanti a noi un tal nugolo di testimoni (cf Ebr,

12,1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati”(LG, 50). In questo passaggio

della Lumen Gentium troviamo la ragione profonda del culto dei beati e dei santi.

La Chiesa, compie la missione affidatale dal Divino Maestro di essere strumento di santità attraverso le vie dell’evan-

gelizzazione, dei sacramenti e della pratica della carità. Ebbene, tale missione riceve un notevole contributo di con-

tenuti e di stimoli spirituali, anche dalla proclamazione dei beati e santi, perché essi mostrano che la santità à

accessibile alle moltitudini, che la santità è inimitabile. Con la loro concretezza personale e storica fanno sperimentare

che il Vangelo e la vita nuova in Cristo non sono un’utopia o un mero sistema di valori, ma sono “lievito” e “sale”

S.E.R. CARD. JOSÉ SARAIVA MARTINSPrefetto Emerito della Congregazione delle Cause dei Santi

IL SIGNIFICATO DEI SANTIIN UN MONDO CHE CAMBIA

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capaci di far vivere la fede cristiana all’interno e dall’interno delle diverse culture, aree geografiche ed epoche storiche.

“L’avvenire degli uomini — ha osservato il compianto Card. Giuseppe Siri, Arcivescovo di Genova — non è mai

chiaro, perché tutti i loro peccati corrodono tutti i sentieri della storia e inducono una dialettica intricata di cause e

di effetti, di errori e di nemesi, di esplosioni e di interrompimenti. La certezza che i santi continueranno ad accom-

pagnare gli uomini è una delle poche garanzie dell’avvenire” (Il primato della verità, 154).

2. Lo stupore creato dai santiIl fenomeno dei santi e della santità cristiana crea uno stupore che non è mai venuto meno nella vita della Chiesa

e che non può non sorprendere anche un osservatore laico attento, soprattutto oggi, in un mondo che cambia con-

tinuamente e rapidamente, in un mondo frammentato culturalmente sia a livello di valori che di costumi. Dallo stu-

pore nasce la domanda: cosa fa sì che la fede si incarni in tutte le latitudini, nei diversi contesti storici, tra le più

svariate categorie e stati di vita? Come è possibile che senza dinamismi di potere, impostivi o persuasivi, ci siano

tanti santi, anche oggi, così diversi e così consonanti con Cristo e con la Chiesa? Cosa spinge alla libera assunzione

del nucleo germinativo cristiano che poi sviluppa tanta diversità e bellezza nell’unità della santità? Quanto è diversa

la globalizzazione, di cui oggi tanto si parla, dalla cattolicità o universalità della fede cristiana e della Chiesa che

quella fede vive, custodisce e diffonde!

Questo internazionalismo del Cattolicesimo, che non è ricercato per mire di potere ma di servizio e di salvezza,

viene confermato dai santi e dalle sante che appartengono ai più diversi quadri di riferimento storico, ma hanno

vissuto la stessa fede. Tale internazionalismo conferma che la santità non ha confini e che essa non è morta nella

Chiesa; anzi, essa continua ad essere della più viva e scottante attualità. Il mondo cambia, ma i santi, pur cambiando

essi stessi con il mondo che cambia, ripresentano sempre il medesimo volto vivo di Cristo. Non vi è in questo un

indizio inconfondibile della vitalità unica, meta culturale e meta storica — “soprannaturale”è per noi cattolici la

parola giusta — dell’annuncio e della Grazia cristiana?

3. I santi di Giovanni Paolo IIÈ noto che il Papa Giovanni Paolo II ha fatto della proclamazione di nuovi beati e santi un autentica e costante

forma di evangelizzazione e di magistero. Ha voluto accompagnare la predicazione delle verità e dei valori evan-

gelici con la presentazione di santi che hanno vissuto quelle verità e quei valori in modo esemplare. Nel corso del

suo pontificato il Papa polacco ha beatificato 1353 persone e canonizzato 482. In totale: 1845.(mentre i suoi pre-

decessori tutti insieme - dal 1588, anno in cui è stato eretto il Dicastero della Cause dei santi, sino al inizio del suo

pontificato, 1978, ne avevano elevato agli onori degli altari 1.104 (tra santi e beati)

Per quanto riguarda l’elevato numero dei Santi fatti da lui, Giovanni Paolo II non ignora il parere di chi ritiene che

essi siano troppi. Anzi, ne parla esplicitamente. Ecco la risposta del Papa in proposito: “Si dice talora che oggi ci

sono troppe beatificazioni. Ma a queste ,oltre a rispecchiare la realtà, che per grazia di Dio è quella che è, corri-

sponde anche il desiderio espresso dal Concilio. Il Vangelo si è talmente diffuso nel mondo e il suo messaggio ha

messo così profonde radici, che proprio il grande numero di beatificazioni rispecchia vividamente l’azione dello

Spirito Santo e la vitalità che da Lui scaturisce nel campo più essenziale per la Chiesa, quello della santità. È.

stato, infatti, il Concilio a mettere in particolare rilievo la chiamata universale alla santità (13.VI.1994, in apertura

del Concistoro straordinario in preparazione al Giubileo del 2000).

Parimenti, nella “Tertio Millennio Adveniente”, Giovanni Paolo II scrive: “In questi anni si sono moltiplicate le cano-

nizzazioni e le beatificazioni. Esse manifestano la vivacità delle Chiese locali, molto più numerose oggi che nei primi

secoli e nel primo millennio. Il più grande omaggio, che tutte le Chiese renderanno a Cristo alla soglia del terzo mil-

lennio, sarà la dimostrazione dell’onnipotente presenza del Redentore mediante gli Erutti di fede, di speranza e di carità

in uomini e donne di tante lingue e razze,che hanno seguito Cristo nelle varie forme della vocazione cristiana”(T 37).

Infine, nella Lettera Apostolica “Novo Millennio Ineunte”, il Papa osserva inoltre: “Le vie della santità sono mol-

teplici e adatte alla vocazione di ciascuno. Ringrazio il Signore che mi ha concesso di beatificare e canonizzare, in

questi anni, tanti cristiani, e tra loro molti laici che si sono santificati nelle condizioni ordinarie della vita” (NMI

31). Di fatto, tra le persone elevate agli onori degli altari da Giovanni Paolo II, ben 523 sono fedeli laici appartenenti

alle più diverse classi sociali.

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4. I santi nell’odierna societàI beati e i santi non sono personaggi “di sagrestia”. Essi vengono studiati, oggi più che mai, come personaggi sto-

ricamente significativi nell’ambito della loro Chiesa , della loro società, del loro tempo. Così essi non interessano

solo alla Comunità ecclesiale e ai credenti, ma a tutti quanti si occupano di storia, di cultura, di vita civile, di

politica, di pedagogia, ecc. In tale modo, la missione di questi straordinari uomini di Dio continua in modo diverso,

ma comunque efficace per il bene di tutta la società. È quanto mai significativo, al riguardo, il fatto che l’Archivio

della Congregazione per le Cause dei Santi non è frequentato soltanto da “addetti agli studi ecclesiastici”, ma anche

da sempre più numerosi studiosi laici, che vi attingono per tesi di laurea concernenti la storia e i vari settori della

vita sociale, perché vi trovano materiale copioso e storicamente prezioso.

La santità tocca, dunque, con una sua valenza particolare, la storia e la cultura dei popoli a cui appartengono. Essi

hanno permesso, lungo i secoli, che si creassero dei nuovi modelli culturali, si dessero nuove risposte ai problemi

e alle grandi sfide sociali, si desse origine a nuovi sviluppi di umanità nel cammino della storia. Quella dei santi è,

quindi, un’eredità da non disperdere — ha più volte ripetuto il Santo Padre Giovanni Paolo II — ma da consegnare

a un perenne dovere di gratitudine e a un rinnovato proposito di imitazione” (Novo Millennio Ineunte, 7) .

I santi sono come dei fari; essi hanno indicato agli uomini le possibilità di cui l’essere umano dispone. Per questo

sono quanto mai interessanti per la vita di un popolo, indipendentemente dall’approccio, religioso, culturale, ecc.,

con cui li si avvicina. Un grande filosofo francese del XX secolo, Henry Bergson, ha osservato che “i più grandi

personaggi della storia non sono i conquistatori, ma i santi” . Mentre Jean Delumeau, uno storico del Cattolicesimo

del Cinquecento, ha invitato a non dimenticare che i grandi risvegli nella storia della cristianità sono stati caratterizzati

da un ritorno alle fonti, cioè alla santità del Vangelo, provocata dai santi e dai movimenti di santità nella Chiesa.

In tempi più recenti il Card. Joseph Ratzinger ha giustamente affermato che “Non sono le maggioranze occasionali

che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e nostro camino. Essi, i Santi, sono la vera, determinante

maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo. Essi traducono il divino nell’umano,

l’eterno nel tempo”.

Riguardo al grande influsso dei santi nella vita dei loro popoli, mi piace ricordare due santi in particolare: Agnese

di Boemia e Alberto Adamo Chmielowski, canonizzati da Giovarmi Paolo II il 12 novembre 1989. Molti secoli li

separano l’una dall’altro: dal XIII al XX secolo. Ma li accomuna la vicinanza delle nazioni da qui provengono: la

Boemia e la Polonia.

Agnese di Boemia, ha detto il Papa nell’Omelia della canonizzazione, “ha avuto un notevole ruolo nello sviluppo

civile e culturale della sua Nazione e resta nostra contemporanea per la sua fede cristiana e per la sua carità... è sti-

molo alla carità,esercitata con totale dedizione verso tutti, superando ogni barriera di razza, di popolo e di mentalità;

e celeste protettrice del nostro faticoso cammino quotidiano” (Canonizzazione di Agnese e di Alberto Chmielowski„

Omelia di Giovanni Paolo II, pp..2 e 3)..

Anche Fratel Alberto “è un personaggio che la lasciato un’orma profonda, nella storia di Cracovia e del popolo po-

lacco, come nella storia della salvezza... Cercò il significato della sua vocazione attraverso l’attività artistica, la-

sciando opere che ancora oggi impressionano per una loro particolare capacità espressiva”(Ibid.. pp. 3 e 4).

ConclusioneIn un mondo che cambia, i santi non solo non restano spiazzati storicamente o culturalmente, ma — mi pare di poter

concludere — stanno diventando un soggetto sempre più interessante e attendibile. In un’epoca di caduta delle utopie

collettive, in un tempo di diffidenza e di inappetenza di quanto è teorico e ideologico, sta sorgendo una nuova atten-

zione verso i santi, figure singolari nelle quali si incontra non una teoria e neanche semplicemente una morale, ma

un disegno di vita da narrare, da scoprire con lo studio, da amare con la devozione, da attuare con l’imitazione.

Di questo risveglio di attenzione verso i santi non c’è da rallegrarsi, perché i santi sono di tutti, sono un patrimonio

dell’umanità che si sporge oltre se stessa in uno sviluppo che, mentre onora l’uomo, rende anche gloria a Dio,

perché “gloria di Dio è l’uomo vivente”.

Roma, 11 novembre 2009

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Il denominatore comune del progetto (dell’unificazione dell’Europa) di cui stiamo parlando è la speranza. Dobbiamo

capire che la speranza, una grande speranza, ha determinato l’agire dell’umanità negli eventi del 1989.

È molto importante per me in questa sede rappresentare il Paese della attuale presidenza dell’Unione. Anche per

noi in qualche modo è stato possibile

la concretizzazione di una speranza. Noi volevamo entrare a far parte da prima dell’Ue, ma un’Europa divisa era

un ostacolo perché noi volevamo mantenere la nostra posizione di stato non alleato. Non volevamo entrare in un’

Europa solo dell’Occidente. Una delle cose che noi aspettavamo da prima era entrare nell’Ue.

Molti fattori allora davano i segni di ciò che sarebbe successo in Germania, ma in quegli anni nessuno si sarebbe

aspettato quello che poi sarebbe successo. Non potevamo prevedere quel cambiamento epocale che avrebbe cam-

biato completamente tutta l’Europa. Nessuno poteva prevedere quello che sarebbe successo. Una lezione che noi

dobbiamo trarre, a mio avviso, da questa vicenda è che dobbiamo essere estremamente attenti quando analizziamo

la politica e facciamo previsioni, perché esistono delle cose che possiamo prevedere, ma ci sono anche dei mo-

menti in cui veniamo colti di sorpresa. Noi in quel novembre dell’89 vedevamo una sorpresa dopo l’altra. Io ero

molto interessata della politica estera e di sicurezza in Europa. Io ero completamente stupita di quello che vedevo

e sentivo.

Oggi stiamo celebrando l’anniversario del Ventennale, ma per capire l’anima degli eventi del 1989 dobbiamo ri-

cordare un’altra data: il 1939, quando scoppiò la seconda guerra mondiale. La caduta del muro ha insegnato che

dopo quel disastro, quando tutto sembrava perso, le cose si possono completamente ricostruire, ed è ciò che è ac-

caduto all’Europa. La Caduta del Muro ha concretizzato la speranza di ricostruire da capo l’Europa.

Un libro che è un classico delle relazioni internazionali, “La crisi di 20 anni”, parla di utopismo e realismo. Io

penso che la tensione tra questi due filoni della visione della politica sul mondo 20 anni fa ha dato forma all’Europa

di oggi. In pochi anni avevamo avuto la prima e la seconda guerra mondiale, poi 40 anni circa di guerra fredda.

Possiamo dire 2 periodi di 20 anni di crisi come dice il libro.

Le idee del modernismo hanno influenzato gli eventi del 1989. Ma molti eventi importanti hanno potuto creare

l’occasione per quello che è successo. I tedeschi potevano vedere quello che succedeva in Occidente dalle televi-

sioni, già questo era molto importante come cambiamento. Il desiderio delle popolazioni degli ex stati comunisti

di fare ingresso nell’Europa e nella Nato ha voluto dire molto. C’erano ragioni psicologiche dietro un desiderio

così forte: entrare nei nostri circoli per sentire di aver definitivamente chiuso con la fase marxista.

La missione della Nato è molto legata agli eventi del 1989. L’Europa allora aveva bisogno della Nato perché non

aveva una visione chiara di quello che accadeva all’Est. Il processo di integrazione è stato un processo difficile da

molti punti di vista. Il 1992 è di solito chiamato il periodo euforico dell’Europa. Noi dicevamo “questa è la nostra

Europa, adesso noi non abbiamo più bisogno dell’aiuto degli Usa, con l’Ue possiamo risolvere i nostri problemi

autonomamente”.

La guerra fredda era stata il collante che aveva tenuto unite Europa e Usa. Poi tutto ad un tratto l’Europa si è uni-

ficata, e cosa è successo ai rapporti con gli Usa? Nel 1992 con il Trattato di Maastricht si è parlato per la prima

volta di una possibile difesa europea. Perché, prima l’Europa dal punto di vista della sicurezza, come poteva parlare

per tutta l’Europa se era fatta solo da Paesi occidentali? All’epoca negli Usa circolavano libri che temevano la crisi

S.E. PEROLS ULLA BIRGITTA GUDMUNDSONAmbasciatore di Svezia presso la Santa Sede

TRA UTOPISMO E REALISMO

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C a r i t à P o l i t i c a 21

delle relazioni con l’Europa. Poi si è visto che comunque l’Europa e gli Usa potevano continuare ad agire insieme

avendo gli stessi scopi. Allora la Nato e l’Ue si potevano allargare.

Si parla tanto di questo periodo degli anni 90, gli anni dopo il Muro di Berlino e il Trattato di Maastricht, come pe-

riodo euforico dell’Europa. Io credo, però, che questi anni non sono stati solo un periodo di euforia, ma di una co-

struzione positiva, canalizzata e concentrata, delle basi dell’Europa di oggi e dei suoi rapporti con gli Stati Uniti.

Terreno che si è riusciti a fertilizzare tramite le istituzioni dell’UE e della Nato.

Adesso, dopo gli attacchi alle Torri gemelle, siamo entrati in una nuova era geopolitica fortemente marcata dalla

polarità tra mondo musulmano e occidentale. Tuttavia in seguito agli avvenimenti dell’11 settembre molte persone

hanno ribadito dopo gli avvenimenti che non corre un confine tra religioni e civilizzazioni, piuttosto il seme della

barbarie esiste in ogni società e cultura. Ed é importante che non sostituiamo il muro di Berlino con un nuovo muro

artificioso tra il mondo Occidentale e quello musulmano.

Roma, 11 novembre 2009

Mi onora la responsabilità conferitami di aprire questo nostro incontrocon le mie personali riflessioni,

in quanto egiziana e Ambasciatore del mio paese

Permettetemi innanzi tutto di ringraziare il Professor Luciani e l’Associazione Carità Politica per la significativa e

lodevole iniziativa che ci vede qui riuniti a ricordare, ognuno con il proprio contributo, un evento che ha cambiato

il corso della storia.

Il 9 novembre 1989 è una data che ha significato una svolta non solo per la Germania, ma per il mondo intero. La

caduta del muro di Berlino, seppur in ambiti e in misure diverse, ha avuto effetti e ripercussioni a livello globale.

Con essa si è chiuso il Novecento e, a distanza di vent’anni, il mondo contemporaneo appare ormai completamente

mutato: si è venuta a delineare una nuova mappa geopolitica e si è inaugurato un nuovo capitolo della storia.

Quel giorno è stato abbattuto il simbolo della Guerra Fredda, il simbolo della divisione dei popoli per antonomasia.

Tramontano le ideologie totalitarie del ‘900, la divisione tra blocchi contrapposti viene cancellata, per lasciare il passo

all’economia, al progresso tecnologico ed alla comunicazione, in grado di travalicare i confini territoriali e nazionali.

Si spalancano così le porte alla Globalizzazione, il risultato più diretto ed anche più significativo scaturito dalla

caduta del muro. Due maggiori aspetti sono stati particolarmente influenzati da questo fenomeno: quello economicoe quello culturale.

Per quanto concerne il primo aspetto, possiamo dire che nell’era globale, anche lo spazio dell’economia si è am-

pliato: con l’apertura di nuovi mercati, la libera circolazione di capitali e merci, nonché con il supporto delle nuove

tecnologie nell’ambito delle telecomunicazioni, hanno preso piede significative rivoluzioni nelle modalità di lavoro,

di organizzazione e comunicazione. Non vi sono al giorno d’oggi paesi o popolazioni al mondo che non subiscano

direttamente o indirettamente l’influenza del mercato mondiale.

S.E. LAMIA ALY HAMADA MEKHEMARAmbasciatore della Repubblica Araba d’Egitto presso la Santa Sede

LA CADUTA DEL MURO1989-2009

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L’Egitto non fa eccezione. Essendo uno degli stati leader nel Terzo Mondo, l’impatto economico subito è stato

molto importante, anche in considerazione dell’influenza che la filosofia socialista ha esercitato per anni nel mio

paese.

Già nel periodo compreso tra il 1974 e il 1989, l’Egitto aveva cominciato ad intraprendere un importante programma

di riforma, con l’obiettivo di orientare il paese verso un passaggio da un’economia diretta ad una libera economia,

con un conseguente aggiustamento strutturale. La globalizzazione ha contribuito ad accelerare il compimento di

questo processo, fornendogli una spinta determinante.

Le politiche economiche hanno indirizzato le forze di mercato verso i loro massimi potenziali per guidare occupa-

zione e crescita. Uno dei componenti essenziali del programma di riforma del Governo è stato la privatizzazione,

fenomeno che ha trasferito la gestione dei maggiori monopoli statali al settore privato, promuovendo una maggiore

apertura e predisposizione verso l’investimento privato. Questi sforzi hanno aiutato a creare un clima più compe-

titivo e il paese ha cominciato ad attrarre sempre maggiori investimenti esteri diretti (IED).

Di pari passo con l’evolversi dell’economia, sono state introdotte e modificate leggi e normative in armonia con il

clima socio-economico venutosi a creare. Tengo a sottolineare che si é molto lavorato per attuare e facilitare questo

passaggio, ottenendo un risultato davvero molto importante: la stessa mentalità del popolo egiziano è andata len-

tamente ma imperativamente modificandosi, laddove lo stato non viene più considerato, come in passato, l’unica

fonte di sostentamento e di occupazione.

Io sono fiera di annunciare che l’Egitto oggi ha realizzato un tasso di crescita che tocca quasi l’8%.

Certamente, tutti questi cambiamenti sono dovuti avvenire in maniera graduale e ragionata, sia per evitare squilibri

nel tessuto sociale, che per preservare la dimensione umana e sociale delle leggi e delle politiche condotte dal go-

verno, tenuto conto che nel paese una vasta fetta di popolazione purtroppo soffre ancora a causa della povertà.

Quest’ultimo aspetto mi consente di prendere in considerazione con voi l’altro lato della medaglia, ossia gli effetti

negativi che il processo di ristrutturazione ha portato con sé. Tra questi, il più evidente è senza dubbio l’accentua-

zione del gap tra ricchi e poveri. Contrariamente a quanto teorizzato nel concetto dell’ effetto a cascata (trickle

down effect), secondo il quale, la crescita economica, gestita da un gruppo ristretto, porterà automaticamente benefici

anche alle masse, i fatti ci dimostrano che non esiste alcun meccanismo che porti spontaneamente i profitti anche

ai più bisognosi. Si viene così a delineare un serio problema di ridistribuzione, per cui non tutta la popolazione può

approfittare della prosperità che il paese sta vivendo.

Di conseguenza, la sfida che il governo egiziano sta vigorosamente affrontando, consiste proprio nel riuscire a fare

in modo che questo progresso possa raggiungere in modo uniforme anche le fette più svantaggiate della popolazione,

certamente creando nuove e maggiori opportunità di lavoro e investendo sempre più nell’istruzione e nella forma-

zione.

Altrettanto significativo, è il secondo aspetto che il fenomeno della globalizzazione ha fortemente plasmato, ossia

la dimensione culturale.

Con l’apertura dei confini, la maggiore mobilità degli individui, gli inarrestabili passi avanti nell’ambito delle te-

lecomunicazioni e della diffusione dell’informazione, le distanze nel mondo si sono ridotte e vi è stata una crescita

progressiva degli scambi e delle relazioni tra i popoli. La conseguenza naturale scaturitane è l’universalizzazione

di valori -quali il rispetto dei diritti dell’uomo, il pluralismo e la democrazia.

Tuttavia, questa faccia della globalizzazione è risultata in una situazione di tensione. Da un lato vi sono infatti

quanti interpretano questo fenomeno come l’imposizione sul mondo intero di un sistema di valori occidentalizzati;

dall’altro, hanno preso piede lo stereotipo, l’intolleranza e il pregiudizio verso l’altro.

In relazione a questo aspetto, bisogna ricordare che l’Egitto, per la sua posizione geo-politica e per il suo secolare

percorso storico, riveste diversi ruoli legati alle sue varie identità: leader tra le nazioni del mondo arabo-islamico,

esso è al tempo stesso un paese del Terzo Mondo, ed è ugualmente inserito ed integrato nella culla del Mediterraneo.

Questo fa sì che sorregga sulle proprie spalle un’importante –se non addirittura pesante– eredità culturale dalle

molteplici facce. Questa si manifesta nella sua pluralità in tutti gli ambiti, da quello religioso a quello sociale a

quello politico, per citarne solo alcuni.

Ciò ha fatto nascere in taluni il timore che, con la globalizzazione, il radicato sistema di valori del paese, che per

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C a r i t à P o l i t i c a 23

millenni ha plasmato e formato il carattere egiziano, potesse essere messo in questione o addirittura minacciato.

Questa tendenza a chiudersi in sè stessi al giorno d’oggi viene sempre piu’ alimentata dal ignoranza e dall’incom-

prensione. Così, sebbene il Muro che divideva Berlino sia stato demolito, altri muri, ideali, resistono ancora inab-

battuti a separare i popoli, le culture, le religioni. Sarà quindi necessario che tutti noi – dalla società civile, alle

istituzioni di stato, ai governi – ci attiviamo con impegno e volontà per far sí che la cultura del pregiudizio e degli

stereotipi venga sostituita da quella mirante a promuovere la comprensione dell’altro, la tolleranza, il reciproco ri-

spetto e la cooperazione in vista del bene comune.

L’universalità dei diritti umani deve restare il nostro obiettivo finale, preservando le particolarità e le caratteristiche

peculiari della singola cultura, e cercando di trovare una base di valori in comune nei quali riconoscerci e dai quali

procedere alla costruzione di una nuova sinergia tra popoli.

E questo dovrebbe essere in realtà un compito meno arduo di quello che sembra. Abbiamo di fatti davanti ai

nostri occhi l’esempio del lavoro dell’ONU, che da anni testimonia come sia concretamente possibile realizzare

questo scopo.

In questo senso, oltre all’ONU, vanno senza dubbio elogiati e supportati tutti i programmi che operano concreta-

mente nell’ambito del dialogo interculturale e interreligioso, i quali contribuiscono a promuovere l’intesa e l’in-

contro tra popoli. Mi vengono subito in mente gli sforzi fatti in questa direzione dalla Santa Sede, attraverso la

collaborazione tra il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e l’Università di Al Azhar, nonché il Forum

Musulmano-Cristiano tenutosi qui a Roma lo scorso Novembre e tutte le altre iniziative in cui il ruolo della società

civile viene esaltato.

C’è infine un terzo importante aspetto influenzato dalla globalizzazione che, seppur molto brevemente, terrei a

mettere in evidenza, ossia quello politico.

Con la globalizzazione alcuni dei conflitti che affliggevano la nostra regione si sono conclusi, ma altri sono ancora

in atto. Pensiamo alla guerra in Iraq e soprattutto al conflitto israelo-palestinese, sulle cui dinamiche la globalizza-

zione ha avuto un enorme impatto, pur oscillando tra alti e bassi. In questa atmosfera di cambiamenti dobbiamo

cogliere l’opportunità per dare una svolta in positivo anche a queste dolorose situazioni rimaste ancora irrisolte.

Infine, I tempi sono maturi per un salto di qualità nell’ambito del dialogo tra popoli e della cooperazione interna-

zionale. Dobbiamo appoggiare e supportare quanti si attivano per promuovere e consolidare la costruttiva integra-

zione tra popoli e nazioni, portando nuovi stimoli e investendo grande energia.

Raccogliamo la sfida postaci dalla globalizzazione, cercando di mitigarne gli aspetti negativi, e dandole invece un

volto umano. Se sapremo coglierne i lati positivi, tutti gli ambiti delle nostre vite, strettamente interconnessi tra

loro, ne saranno beneficamente influenzati: una florida economia porterà una situazione socio-politica stabile e

una popolazione culturalmente arricchita, e quindi anche più predisposta all’incontro con l’altro.

In questo anniversario del crollo del Muro di Berlino, impegniamoci tutti dunque ad abbattere i muri dell’intolle-

ranza, dell’ignoranza e del pregiudizio e cerchiamo invece di costruire ponti di pace, armonia e concordia. Inse-

gniamo ai nostri figli che la differenza é ricchezza, e che il successo risiede nel rispetto reciproco, e che queste

sono le ricette per plasmare un mondo migliore. Mettiamoci al servizio dell’umanità e della pace.

Dal mio punto di vista, abbiamo ancora molta strada nell’ambito del dialogo interculturale interreligioso. Sarà ne-

cessario modificare i programmi in modo tale che non vedano solo il coinvolgimento degli intellettuali, come è

stato finora, ma che raggiungano e stimolino anche le fondamenta, ossia la gente comune, di cui, come detto sopra,

ci servirà la partecipazione attiva. Attualmente il dialogo avviene a porte chiuse, in un esercizio piuttosto accademico

che pratico.

Ecco perché la gente non lo sente in prima persona e non è entrato nel loro modo di pensare.

Se riusciremo a coinvolgere la gente, cambierà la forma mentis e si otterranno risultati più concreti.

Roma, 18 novembre 2009

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Quando per una condizione, un evento o per una personalità si dice che siano ‘sui generis’, in verità vogliamo dire

che si tratta di qualcosa fuori o contrario alle regole. Inoltre questa espressione latina è, alla base, un eufemismo

per esprimere l’insuccesso in qualunque senso, ma in particolare nel tentativo di raggiungere uno scopo o sviluppare

qualcosa in un modo legittimo. (Se mi è concesso, a titolo d’esempio, richiamo alla mente che la stessa formula si

usa per la dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo.)

Dopo il periodo del cosiddetto “socialismo reale”, dopo la II guerra mondiale, la Jugoslavia è stata considerata

come un modello di “comunismo moderato”, soprattutto grazie alla buona riuscita di Tito ad allontanarsi dalla zona

d’influenza di Stalin nel 1948. Grazie al sostegno delle potenze occidentali, in primo luogo degli Stati Uniti, -en-

tusiasti dell’idea di spostare, anche se di poco, la cortina di ferro, l’aiuto militare e finanziario fu molto generoso.

Secondo alcune stime, il valore totale degli aiuti dell’Occidente alla Jugoslavia durante gli anni ‘50 e ‘60 era circa

di centinaia di miliardi di dollari. Tale somma era sufficiente per sanare gli enormi danni subiti durante la guerra,

ma anche per porre le fondamenta per uno sviluppo economico sostanziale e strutturato.

È importante sottolineare che Tito, come un leader incontestabile — difatti, un dittatore - per più di 35 anni, era

piuttosto disponibile ad aprire i confini verso l’Occidente, permettendo agli operai di cercare lavoro fuori dal paese,

dove erano richiesti (innanzitutto in Germania, Svizzera, Francia e nei paesi scandinavi). Le rimesse dall’estero

sono arrivate in maniera costante per decenni, contribuendo alla relativa stabilità della vanta interna.

La Jugoslavia di Tito rappresentava un raro esempio di combinazione tra socialismo e capitalismo: i poteri con-

trapposti tra Est ed Ovest hanno consentito l’esistenza di un paese quasi democratico, basato su un delicato equilibrio

tra le forze politiche.

Per capire questo, è necessario richiamare alla mente che la Jugoslavia costituiva una mescolanza di sei repubbliche,

cinque nazioni e quattro religioni. Non bisogna inoltre dimenticare l’esistenza di conflitti, risentimenti e tensioni

del passato: il regime comunista ha procurato di ignorarli o farli passare del tutto inosservati.

Per semplificare si può dire che il comunismo — vale a dire il potere di un solo partito — era l’unica forza coesiva

della Jugoslavia.

Naturalmente, -tutto questo va insieme al controllo della forza militare e dell’esercito: ma soprattutto dei servizi

segreti che, come in ogni paese comunista, hanno di fatto “avvelenato” la vita dei singoli cittadini ed, in un certo

senso, anche la mente della nazione stessa. Detto semplicemente, la ex Jugoslavia ha avuto vita soltanto grazie alla

forza coesiva del partito comunista, armatura dell’organizzazione interna dello stato.

[È necessario essere consapevoli che anche nella cosiddetta prima Jugoslavia, tra le due guerre

mondiali, c’erano i separatisti, in maggioranza croati e sloveni, che hanno usato l’espressione

“la prigione dei popoli”, ripetendo la stessa formula adottata per l’ex Impero Austro-Ungarico.

Tale espressione manifestava un’animosità, in gran parte giustificabile, nei riguardi della pre-

dominanza serba nelle istituzioni dello stato.]

Permettetemi un paradosso: in un certo senso, il concetto reale della Jugoslavia era una contraddizione in se con la

nozione propria di democrazia; nel momento in cui la struttura portante ha cessato di esistere ed è arrivata la de-

mocrazia, grazie alla quale ogni nazione ed ogni individuo possono esprimere la propria volontà, la Jugoslavia è

stata condannata a morte. C’era una differenza fondamentale tra i paesi del cosiddetto socialismo reale, che, dopo

S.E. VLADETA JANKOVICAmbasciatore della Repubblica di Serbia presso la Santa Sede

LA DISSOLUZIONE DELLA JUGOSLAVIA DOPO LA CADUTA DELMURO DI BERLINO – UN CASO “SUI GENERIS”

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la caduta del muro di Berlino, ha avuto delle conseguenze dirette ed immediate: i paesi con un’omogeneità di ca-

rattere etnico e religioso sono sopravvissuti al cambiamento in una forma molto meno drammatica. A titolo d’esem-

pio vorrei ricordare la Polonia, la Bulgaria e l’Ungheria.

D’altra parte i paesi federali e multi-etnici, come l’Unione Sovietica, la Cecoslovacchia e la Jugoslavia si sono dis-

solti in alcuni casi, come è risaputo, con maggiore difficoltà. È proprio in questa circostanza che la Jugoslavia è ri-

sultata tragicamente come un caso sui generis: dove gli altri paesi sono stati capaci di trovare un compromesso

ragionevole a tavolino, la Jugoslavia è invece sprofondata nell’inferno della guerra civile.

Riguardo la situazione dell’ex Jugoslavia sussiste anche una diagnosi fosca, che vorrei esporvi.

Durante il regime comunista la popolazione della ex Jugoslavia ha, in senso metaforico, venduto la sua anima: ha

barattato le libertà fondamentali di pensiero, di espressione, di confessione e di radunarsi in cambio di una sola li-

bertà — quella di movimento, in altre parole di avere il privilegio di lavorare all’estero.

Tale circostanza era fondamentalmente erronea, poiché i valori spirituali e umani in senso stretto erano convertiti

a favore dei valori materiali e dei beni non durevoli. Innanzitutto la popolazione jugoslava ha rinunciato al suo

diritto più importante, il diritto di esprimere la propria volontà politica con libere elezioni: parlando figurativamente,

possedere una Fiat 600 per un jugoslavo medio era più importante che decidere sul proprio futuro e il futuro dei

propri figli. Naturalmente, tutto questo ha rappresentato un prezzo altissimo da pagare.

Grazie alla personalità di Tito, grazie al sistema mono-partitico e poliziesco all’interno del paese e grazie ad una con-

cordanza di eventi e poteri opposti all’estero, la Jugoslavia è stata preservata come un’isola felice tra i due blocchi.

In verità questo quadro generale risulta più oscuro: nella vita quotidiana tutto ciò era più difficile da percepire. Ma

nonostante tutto, possiamo dire che obiettivamente la situazione generale dell’ex Jugoslavia nel periodo del crollo

del muro di Berlino era senz’altro più positiva che negli altri paesi socialisti. Sono convinto che questo fosse inne-

gabile sia per la situazione economica, sia per lo standard di vita della popolazione.

Anche in senso ideologico la versione jugoslava dal comunismo era in modo significativo meno rigida, tanto è

vero che in Occidente fu creata l’espressione “il comunismo dal volto umano”. Detto questo, una delle differenze

fondamentali tra la Jugoslavia e gli altri paesi dell’Europa dell’Est, riguardo le conseguenze della caduta del muro,

era costituita dal fatto che tutti gli altri paesi avevano un unico obiettivo comune in grado di abbattere tutte le altre

discordanze. In parole povere tutti, senza alcuna eccezione, hanno voluto liberarsi della presenza militare sovietica.

Questo obiettivo comune era così significativo che quasi tutte le differenze interne risultavano irrilevanti. Al con-

trario, in assenza di tale elemento coesivo, nella ex Jugoslavia le differenze interne sono diventate ancora più dan-

nose dopo il crollo del muro di Berlino. Le potenzialità negative si sono acuite e ha preso forma una confusione

generale dei valori: il senso di orientamento è venuto a mancare e in un attimo il delicato equilibrio esistito per 40

anni si è spezzato, insieme con le illusioni dei popoli jugoslavi e una parte della comunità internazionale. Vi invito

adesso a fare uno sforzo di immaginazione e di considerare per un attimo le opportunità offerte alla Jugoslavia nel

1989. Paese economicamente stabile — in parte grazie alle riserve di valuta straniera pari a 16 miliardi di dollari —

possedeva un polo industriale e un sistema di trasporti molto sviluppati, oltre ad una manodopera altamente quali-

ficata. Per la Jugoslavia di far parte dell’Unione Europea (15 anni prima degli altri paesi dell’ Europa dell’Est!) la

sola condizione sarebbe dovuta essere la sostituzione del sistema mono-partitico comunista con il sistema multipar-

titico basato su libere elezioni. Questo sarebbe stato possibile solo senza l’apparizione dei leader nazionalisti in

alcune repubbliche — in primo luogo Milosevic in Serbia, ma anche Tudjman in Croazia ed Izetbegovic in Bosnia.

Senza di loro, la Jugoslavia avrebbe potuto continuare ad esistere sia come una confederazione sul modello elvetico,

sia come uno stato con province autonome sul modello spagnolo. In tale scenario, una conferenza internazionale

sotto il controllo delle Nazioni Unite avrebbe potuto trovare a tavolino una soluzione soddisfacente per tutti. Prima

di concludere, vorrei dare un rapido sguardo alla posizione della chiesa durante il periodo precedente e successivo

alla caduta del muro. Nei primi anni dopo la II Guerra mondiale la situazione della chiesa era molto difficile e

questo vale per tutte le confessioni. Sebbene la pratica religiosa non fosse ufficialmente vietata, la frequentazione

della chiesa era sistematicamente scoraggiata e l’insegnamento della religione nelle scuole era stato sospeso.

La proprietà della chiesa era in maggior parte nazionalizzata, mentre i preti non erano retribuiti dallo stato e non

beneficiavano di alcun sostegno sociale. A causa della mancanza di aiuti finanziari, le chiese erano in grande dif-

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ficoltà: gli edifici erano in stato di abbandono, ma ciò nonostante il popolo non aveva perso la fede. Con l’allenta-

mento del controllo del regime, la posizione della chiesa migliorava gradualmente durante gli anni ‘60 e ‘70.

A titolo d’esempio, negli anni ‘60 le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e la Jugoslavia furono ristabilite, ed

anche in questo senso ecclesiastico la situazione generale era senz’altro più positiva rispetto ad altri paesi, come

l’Unione Sovietica. È però un dato di fatto che la chiesa in Jugoslavia non sia mai stata il centro di opposizione al

comunismo, come è accaduto in Polonia. Questo si può spiegare con l’esistenza di diverse confessioni il cui risultato

era l’incapacità di opporsi al regime. Naturalmente, dopo la caduta del muro di Berlino e dopo la fine del regime

comunista, in tutte le repubbliche della ex Jugoslavia le chiese sono state un fattore sociale di primaria importanza.

Devo ammettere con rammarico che i politici nazionalisti sono riusciti ad abusare della religione e dell’influenza

della chiesa nel momento in cui è cominciata la violenta dissoluzione del paese.

È mia convinzione che tutto questo non sarebbe accaduto — sicuramente non in un modo cosi brutale e tragico -

se ci fosse stata una certa continuità nell’istruzione religiosa nelle scuole. Le generazioni non erano a conoscenza

del vero significato della fede e le differenze religiose sono, state utilizzate per alimentare l’odio tra le comunità

etniche. Pertanto, invece di giungere e pacificare, le religioni — cristiana e musulmana, senza differenza - nella

Jugoslavia comunista sono state sfruttate da politici irresponsabili per dividere i popoli e per istigare alla violenza.

Roma, 18 novembre 2009

It seems that we focus too much on events that happened 20 years ago and not enough on the reasons for those

events. We definitely are not focused on what has happened in the last 20 years, after these changes; what we have

done, what we have tried to do, what we have achieved. I watched yesterday the ceremonies organized in Prague

for this occasion and I was slightly confused when I saw how much we all remember what we did during those days,

those hours, what we said, what we talked about, but not one word about the 20 years since. We hesitate to talk

about where we are now in November 2009. I think that maybe when we would start to do that we could find answers

on why just 60% of the population in the Czech Republic, Slovakia, and Poland are satisfied with the situation in

our countries today, in Hungary even less than 50%. That means that almost half of the population is somehow

sentimental about the communist regime and the life they were living 20 years ago. Allow me to quote His Holiness

Benedict XVI who, in September of this year, on the occasion of His visit to the Czech Republic, mentioned that

´Europe needs to find new reasons for faith´. I think this could be the answer to the current situation in our countries.

When in 1987, the former archbishop of Prague Cardinal František Tomášek launched a decade of spiritual revival

in Czechoslovakia, looking for a new spiritual enlightenment of our nation, he did not expect to see that the obstacles

created by the communist regime could be seen insignificant compared to those created after the fall of communism,

obstacles linked to the newly arriving so-called liberty and democracy. I remember the canonization of Czech

Princess Agnes of Bohemia by His Holiness John Paul II on November 12 1989. It was a real national holiday.

The whole nation identified with this new Saint of Czech origin. The nation celebrated having the Czech princess

elevated into the family of Catholic Saints. I am talking about the days when the communist party was still in its

full power. Communist authorities were afraid that the ceremony could become a great celebration of the

Czechoslovak exile. That is why they allowed Czech and Slovak pilgrims to travel to the Vatican. Imagine the at-

mosphere when we watched a communist television live broadcast from the Vatican, a place communist propaganda

S.E. PAVEL VOSALIKAmbasciatore della Repubblica CECA presso la Santa Sede

LA CADUTA DEL MURO 1989-2009

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C a r i t à P o l i t i c a 27

called the center of evil: Saint Peter’s Basilica. A communist journalist was commenting on what was happening

in the Church, a holy mass celebrated by the Pope in honor of a Czech Princess. Imagine the feelings of these jour-

nalists when until this moment they were used to commenting mostly on meetings of the communist party. It was

quite strange to listen to an interview with the communist minister of culture, the leader of the official delegation

to the Vatican on this occasion. He spoke about some kind of connection between Saint Agnes and the working

class. I felt pity for him imagining what he had to go through in order to organize such an event, creating something

completely deprived of sense for him. In 1990 Pope John Paul II arrived in Czechoslovakia for the first time and

the whole nation celebrated His visit. As the people welcomed Him it seemed that for that moment there was no

country more catholic than Czechoslovakia. Then something happened. Somewhere on the way to democracy and

freedom we started losing our faith and our sense of spiritual values. We were no longer flooded with communist

terminology, not by some new proclamations of the central committee of the communist party but instead started to

listen to a new ideology, the ideology of the free market and economic transformation. We found out that economic

success was the only value that mattered. At that time president Havel talked about “truth and love which will win

over hatred and lies” He was seen quite naive and out of place and many “experts” tried to explain that it was nice

to think this way but first we had to go through the economic transition and transformation. Even the national rep-

resentation of the Catholic Church, (and I am sorry for having to say this) followed trends of the society. In that

time we heard words about the need of “a transformation of hearts” and about “a renewal of spiritual life” from

the Archbishop of Prague. He was absolutely right and fully compatible with Mr. Havel’s thoughts, but unfortunately

even when at that particular moment the Church was talking about the spiritual revival, in a very short time she

joined the rest of the society following economic interests. They stopped talking about spiritual revival and started

talking about restitutions of ecclesiastic properties. Understand me, please, I don’t say that the Church shouldn’t

claim her rights. I am just pointing out that unfortunately the very important voice that advocated a need of our

moral revival and a need of protection and promotion of essential spiritual values got suddenly inaudible. John

Paul II visited our country for the last time in 1997 when he arrived to celebrate with us the end of the above men-

tioned decade of spiritual revival launched by Cardinal Tomášek 10 years earlier. Very few people remembered,

or were aware, that we had had a spiritual revival decade. We were all too busy building our new free market econ-

omy. During His last visit His Holiness also canonized two other saints in the Czech Republic - Saint Zdislava of

Lemberk and Saint John Sarkander. It would seem that more attention was paid by communist newspapers to can-

onization of Saint Agnes of Bohemia eight years earlier than to these two new canonizations by a now free and

democratic media. Why was it so? It seems to me that in the very turbulent time of the 90’s we have lost the ability

to see the real power of symbols. When at the beginning of 1989 French president Francois Mitterrand visited

communist Czechoslovakia and decided not to go to see the communist representatives without being first granted

the possibility of having breakfast with the representation of dissidents at the French Embassy people were ap-

plauding to his position. Until today this gesture is acknowledged as the best proof of support of our democratic

ambitions under the communist oppression. It was a very powerful symbol of solidarity. The same could be said

about the contribution of Pope John Paul II towards supporting the freedom of faith in communist countries. We

were literally hungry to listen to Him. We wanted to hear His every word about liberty, freedom, responsibility. In

the 80´s we interpreted His words in the way we wanted to make them sound. When He was talking about freedom

we understood he was talking about our freedom from the communists. When He was talking about responsibility

we were sure He was talking about the responsibility of politicians towards the population and we wished we were

able to say to them: “Can you hear Him? Listen to Him, He was talking about you”

But afterwards in the 90´s while His Holiness was still talking about morality and responsibility we didn’t have

anyone around us to point a finger and say: Look He is talking about you! Because that was what He was talking

about, about the morality and responsibility of every single one out of us. Suddenly the Hero we were admiring in

the 80´s was not so comfortable for us to listen to. Because he wanted us to be responsible, he wanted us to be

moral, to respect the others to be respected. Suddenly we didn’t want to hear this anymore.

Roma 18 novembre 2009

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28 C a r i t à P o l i t i c a

Il Professor Alfredo Luciani, Presidente dell’Associazione “Carità Politicà”, mi ha cortesemente chiesto di riflettere

davanti a Loro al momento della caduta del comunismo in Romania, nonchè alle conseguenze politiche di un tale

evento storico. Lo farò con rinnovata commozione, ma soprattutto con doverosa riconoscenza nei riguardi del Pre-

sidente Luciani e dei suoi fedeli collaboratori per la Loro iniziativa. La mia relazione sarà inoltre un cenno di gra-

titudine nei confronti di tutti quelli che hanno accompagnato il mio Paese sulla strada del rinnovamento democratico.

A questo punto, mi preme citare le parole, direi profetiche, pronunciate dal Papa Giovani Paolo II, di beata memoria,

al suo arrivo a Bucarest: “Romania…Con l’aiuto di Cristo sarai protagonista di una rinnovata stagione di entusiasmo

e di coraggio. Sarai nazione prospera, terra feconda di bene, popolo solidale e costruttore di pace.”

Con il Loro consenso, comincerei questo intervento prendendo spunto da un ricordo personale. Nel 1989 avevo 18

anni e stavo per cominciare gli studi all’Università di Timisoara. A quei tempi, l’entrata all’Università era preceduta

da un periodo di qualche mese nel servizio militare. In dicembre 1989, ero perciò una giovane recluta, confuso e

piuttosto infelice, certamente impreparato ad affrontare l’inclemenza della vita in una caserma, nella solitudine

resa insopportabile proprio dal sentirsi costantemente immerso in un’anonima folla. I primi giorni della Rivoluzione,

a partire dal 15 dicembre, sono stati supremamente caotici: i semplici coscritti, come me, non sapevano nulla per

via del loro completo isolamento dal mondo reale, una segregazione abilmente mantenuta dai dirigenti militari.

C’erano rumori di guerra, si parlava a mezza voce di un attacco alla frontiera occidentale e di sollevamenti coordinati

all’interno del Paese. I responsabili politici erano costantemente in mezzo alle reclute, sempre in agguato per

cogliere al volo ogni parola d’indocilità. Dopo una settimana d’ansie e di perplessità, passata in uno stato d’allarme

continuo, venne l’istante del tutto imprevisto della verità.

Mi ricordo ogni particolare di quel momento. Era una giornata insolitamente luminosa e mi trovavo in uno dei

posti di guardia della caserma. Ad un certo punto, gli altoparlanti onnipresenti, rimasti finora muti, diedero voce

ad un programma davvero stravagante. La prima impressione fu quella di una farsa, come se qualcuno si fosse

scherzosamente impossessato dal microfono per diffondere parole mai udite, quasi senza senso: “Siamo liberi!”,

diceva quella voce ovviamente alterata dalla commozione. “La dittatura è caduta. Viva la Romania!”. A questo

punto, credei di cominciare a capire: non era la buffonata alquanto rischiosa di un commilitone, ma forse uno di

quei componimenti teatrali sulla seconda guerra mondiale, adattati per la radiodiffusione e utilizzati dal regime a

fini ideologici. Poi, anche questa ipotesi venne prontamente smentita quando la voce sempre eccitata cominciò a

fare nomi, quando iniziò a parlare di Ceausescu, di Timisoara e di Bucarest. Ebbi bisogno di qualche minuto per

ammettere a me stesso che quello non era un divertimento qualsiasi, neppure una diversione. Per una volta, la radio

non esprimeva l’apparenza politicamente utile dei fatti, ma proprio l’accaduto nella sua nuda realtà.

Secondo me, la lentezza della mia presa di coscienza mette in luce quanto la verità mi fosse aliena, incognita, come

una stranezza che s’incontra raramente e, in ogni caso, mai in pubblico. La verità la conoscevo, senz’altro, pero faceva

parte della tessitura della mia persona privata, della trama dei miei rapporti familiari. In questo senso, il crollo del

comunismo fu per me sinonimo di una sorprendente scoperta: che la verità interessava anche la cosa pubblica, che

essa non era soltanto l’ingrediente prezioso della vita privata, ma anche l’elemento insostituibile del mondo esterno.

Mi ricordo poi il sollievo. Una sensazione mai vissuta, perché non semplicemente psicologica. Non una mera tregua

della pesantezza che ci stava continuamente addosso al punto di non sentirla più, al punto di includerla nella sostanza

S.E. MARIUS GABRIEL LAZURCAAmbasciatore di Romania presso la Santa Sede

ROMANIA, 20 ANNI DOPO LA CADUTA DEL COMUNISMOLA QUESTIONE DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA

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nel nostro essere. Non, era qualcosa d’infinitamente più fondamentale, come un primo sguardo al mondo per un

cieco dalla nascita. Era una sensazione difficilmente trasferibile in parole povere, faticosamente compressibile da

qualcuno per cui la libertà è cosa scontata. Dopo cinquant’ anni di dittatura comunista, dopo l’annientamento del-

l’intera élite pubblica, dopo più generazioni nate e cresciute sotto la pietra tombale di una società chiusa, le pro-

spettive aperte dal disfarsi di un regime immaginato incrollabile sembravano a dir poco inebrianti. Era, senz’altro,

il sapore, ancora sconosciuto, della libertà questo sollievo infinito che noi tutti risentiamo.

Verità e libertà, queste sono le prime cose di cui mi ricordo, gli elementi che la mia memoria unisce al quel giorno

insolitamente luminoso. Non è un caso: personalmente sono convinto che nessuna società costruita a misura del-

l’uomo può farne a meno. La verità e la libertà non sono semplici valori, ma formano l’essenza stessa della dignitànaturale della persona, compresa quale punto di focalizzazione di ogni società interamente umana.

A parer mio, la libertà religiosa rinchiude ed esprime in una maniera sostanziale l’esigenza della dignità umana,

compresa quale scopo imprescindibile dello Stato. Non a caso, il mio Paese si è impegnato fin dall’inizio del suo

ripristino democratico nel creare il quadro di una sana partecipazione delle Chiese, dei culti e delle religioni al-

l’edificazione del bene pubblico.

Mi sia concesso a questo punto del mio intervento di elencare brevemente i principali provvedimenti della Legge

“Sulla libertà di coscienza e il regime generale dei culti” (Legge 489/2006). La legge si fonda su una definizione

complessiva della libertà di religione – quale diritto di avere, adottare ed esprimere, in privato oppure pubblicamente,

una religione particolare. Le disposizioni generali della Legge definiscono inoltre i diritti dei genitori riguardo all’

educazione religiosa dei figli, la libertà di ogni culto di trattenere rapporti al livello nazionale ed internazionale, il

diritto di ogni persona di manifestare pubblicamente la sua fede e la tutela dei dati personali relativi alle convinzioni

religiose oppure all’appartenenza confessionale di un cittadino.

Senz’alcun dubbio, il capitolo più importante della Legge è quello attinente ai rapporti tra lo Stato ed i culti. L’articolo

7 prevede, cito: “Lo Stato Romeno riconosce ai culti il loro ruolo spirituale, educativo, assistenziale, culturale e di

partner sociale, nonché la loro funzione di contributori alla pace sociale.” Si afferma in questa maniera che il rapporto

tra le autorità pubbliche e i culti si fonda sul principio della loro legittima e necessaria cooperazione, nel rispetto

della loro reciproca autonomia. L’articolo 9 mette in risalto questa collaborazione e parla esplicitamente di partenariati

tra lo Stato e i culti “nei campi di comune interesse”. In verità, tali accordi sono stati già conclusi, in un primo tempo

proprio con l’Arcivescovato Romano-Cattolico di Bucarest, subito dopo con il Patriarcato Ortodosso.

Un altro provvedimento importante della legge è quello riguardo al finanziamento pubblico delle attività dei culti:

lo Stato, si legge all’articolo 10, “sostiene, a richiesta, in rapporto al numero dei fedeli cittadini romeni ed ai bisogni

reali per il funzionamento e le attività, la remunerazione del personale clericale e laico dei culti riconosciuti.” Tra

l’altro, lo stesso articolo stipula lo stanziamento di fondi per “ le attività correnti dei culti, il restauro e l’edificazione

dei luoghi di culto”.

Mi sembra, in fine, rilevante dare spazio agli articoli attinenti all’educazione religiosa. In questo merito, la Legge

afferma la libertà dei culti di creare e di amministrare autonomamente istituti teologici per la preparazione del pro-

prio clero e degli insegnanti di religione; inoltre riconosce il diritto degli istituti scolastici creati e gestiti dai culti

di accedere ai finanziamenti dello Stato e di far parte, a tutti gli effetti e preservando la loro autonomia, del sistema

pubblico d’educazione.

Dopo mezzo secolo di socialismo reale e di ateismo pubblico, che hanno quasi compromesso l’atteggiamento ca-

ritativo e l’iniziativa assistenziale, la Romania si è impegnata nella creazione di un quadro legislativo complesso

che incoraggi la partecipazione delle Chiese e dei culti all’edificazione di una società a misura dell’uomo. Rag-

giungere questo obbiettivo non è pero possibile senza il coinvolgimento delle religioni, un coinvolgimento fondato

sulla piena libertà di coscienza e della fede.

Lo Stato romeno favorisce ed appoggia il contributo delle Chiese e dei culti alla soluzione di alcuni problemi comunitari,

in Romania, ma anche nella nostra cospicua diaspora. Per le nostre autorità è essenziale che anche le parrocchie romene

della diaspora possano adempire, in piena libertà, la loro vocazione religiosa, assistenziale, educativa e culturale.

Oggi, la maggior parte delle nostre parrocchie della diaspora fa uso di spazi di culto messi a disposizione dalla

Chiesa Cattolica. In questo modo, la Chiesa di Roma da il Suo contributo più significativo all’integrazione comu-

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nitaria dei romeni in Italia, Spagna, Francia ed in altri paesi di tradizione cattolica. La Romania è interessata che le

parrocchie romene della diaspora ottengano gradualmente una maggiore stabilità, per attuare pienamente il loro im-

portante potenziale, la loro capacità di servizio comunitario rimasta in parte ancora virtuale. Una collaborazione a

lungo termine tra le parrocchie romene, le diocesi cattoliche e le autorità locali sarà certamente in grado di far crescere

le competenze delle nostre comunità religiose e di renderle più capaci di contribuire all’interesse generale.

Alla fine del mio intervento, vorrei ritornare all’argomento iniziale. Non mi sembra esagerato affermare che la Ri-

voluzione romena del 1989 è nata da una spinta religiosa. Prima di diventare politica, la Rivoluzione è stata una ri-

vendicazione spirituale. “Dio esiste” gridavano i giovani di Timisoara e Bucarest, con l’esaltazione di

un’elettrizzante scoperta: quella della propria dignità improvvisamente ritrovata, una dignità per la quale si poteva

affrontare i carri armati. Era la dignità di una vita per la quale valeva la pena morire.

Roma, 18 novembre 2009

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1. Unas premisas☞ Una primera impresión podría decir que el hecho del Muro de Berlín no tiene nada que ver con la realidad la-

tinoamericana, que fue algo ajeno a nuestra experiencia. Y no es así. Tuvo una incidencia muy fuerte en nuestra

historia y es lo que intentaré mostrar. Permítanme una prueba previa, en mi país se han escrito varios artículos

en la prensa sobre el tema con motivo de los 20 años.

☞ Puse en el título de esta presentación América Latina, lo encuentro algo pretencioso. He decidido mantenerlo

porque, si bien la realidad latinoamericana es diversa y existen indicadores que no se compartieron necesa-

riamente en todos los pueblos, ésta tiene elementos de evidente coincidencia, como nos lo ha demostrado Eduar-

do Galeano, o como nos lo ha demostrado la Iglesia Católica en sus documentos de Puebla, Medellín, Santo

Domingo y Aparecida. Aun así, prefiero adelantarme a decir que esta visión que compartiré con quienes oigan

o lean estos apuntes, está marcada por la vivencia personal, por tanto, en el contexto boliviano. No quiero

dejar de decir que mi aproximación a realidades latinoamericanas vía lecturas, visitas, conversaciones e incluso

haber vivido en alguna de ellas, en algo me permite extender mi comprensión de América Latina.

☞ Escribiré tres o cuatro páginas, no tanto por la exigencia de tiempo de esta conferencia, sino porque deseo ser

lo más puntual posible para obligarme a expresar concisamente lo que pienso y siento. La finalidad de esta ex-

posición es que se entienda no que yo hable.

2. Hechos y significación históricaMe parece bueno retroceder cuarenta años, no sólo veinte. A finales de la década de los sesenta, 1967, en

Bolivia se vive política e ideológicamente un ambiente de esperanza, de cambio, de revolución, quizá esta

última palabra es la que más se escuchó entonces. Mucha gente, especialmente de clase media, logró estructurar

un discurso marxista que le permitía ofrecer al país propuestas de cambio a favor de las mayorías; se conso-

lidaron partidos políticos de izquierda de diferente corte marxista, unos de línea soviética (leninistas y troskis-

S.E. CARLOS DE LA RIVA GUERRAAmbasciatore della Bolivia presso la Santa Sede

EL MURO DE BERLIN ENTENDIDO DESDEAMERICA LATINA

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tas), otros de línea maoista, otros más social demócratas pero todos con discurso marxista. El marxismo en

Bolivia estaba en su mejor momento. El Che Guevara estaba en Bolivia¡ por tanto, se preparaba la guerrilla

que traería la liberación del pueblo Pocos años más tarde, en Teoponte suena la aparición de una nueva gue-

rrilla, esta vez, con más presencia de bolivianos, personas que habiendo visto el fracaso del Che, asumen la

iniciativa de continuar con el proceso de revolución. Es en este contexto que llega la noticia de la construcción

de un muro en Alemania, muro que lo entendíamos como el símbolo de la fuerza del comunismo en el contexto

internacional. Recuerdo la frase de un compañero que después murió en Teoponte: si en Alemania han cons-

truido un muro que divide una ciudad tan importante de Europa, es porque el proceso de transformación es

irreversible. No así, el orden establecido opinaba que el muro era la vergüenza de la humanidad, el haber co-

artado la libertad. Junto a ello , también en Bolivia se percibió la división del mundo en dos partes. Como era

de esperar la reacción frente a esta efervescente realidad fue el instaurar gobiernos militares de facto, cuya

negra, larga y triste historia conocemos.

Esa clase media de la que hablé en el anterior párrafo estaba compuesta, principalmente, por gente más bien

joven formada con criterios marxistas en las universidades, en los partidos políticos y en grupos cristianos. Es

primordial, a juico mío, tener en cuenta que la Iglesia Católica , contaba en sus manos con los documentos del

Concilio Vaticano II, contaba con la encíclica Rerum Novarum, que si bien criticaba los postulados comunistas,

especialmente por su ateísmo, mostraba las injusticias del capitalismo. A dónde voy, a decir que la doctrina social

de la Iglesia Católica contribuyó sólidamente a concretar una visión de esperanza y transformación. Muchos de

los que murieron, fueron perseguidos, torturados, encarcelados, eran cristianos, católicos, incluso sacerdotes y

religiosas. Obras de la Iglesia Católica fueron torpemente destrozadas por los diferentes gobiernos de facto.

La construcción del Muro de Berlín fue una señal contradictoria, para unos la confirmación de contar con el

medio correcto para la revolución y para otros la confirmación de que el otro sistema quitaba toda libertad.

Ahora retrocedamos veinte años ubicándonos a finales de la década de los ochenta. Estos veinte años que se-

paran la construcción del muro y su caída, han significado la consolidación del orden establecido por el capi-

talismo y la pérdida de un horizonte más humano. Cómo se ve Bolivia en este momento. Después del largo

periodo de dictaduras, gracias a la participación y lucha del pueblo se consolida la democracia, no sin antes

haber derramado bastante sangre. Pero no es el impulso marxista o comunista quien toma la iniciativa sino

los tradicionales partidos políticos. Estos veinte años han deteriorado las bases conceptuales, o si quieren ide-

ológicas, que sustentaban la posibilidad de la transformación. El muro se ha encargado de eliminar, al menos

en parte, la ilusión por la transformación. Junto al muro se cae la expresión real del socialismo, la Unión So-

viética. Los partidos políticos marxistas o de izquierda en mi país, tienen una presencia bastante marginal y la

prueba es que Bolivia será gobernada hasta el 2006 por tradicionales partidos de derecha, incluso por quien

antes fuera dictador.

Esta vez, la caída del Muro de Berlín se celebró en Bolivia con algarabía, se celebró positivamente la caída

del socialismo real del Este. Lo que se sentía hace veinte años, en el momento de la caída, era que se había re-

cuperado la libertad, que terminaba el susto del comunismo, del ateísmo, incluso se festejaba el hecho de la

unificación de Alemania, expresamente. Y por si fuera poco, se celebraba la muerte del marxismo como ins-

trumento de interpretación de la realidad, como método. Miren cómo incidió en la visión de la realidad. Fue

un periodo de desideologización, no tanto por las virtudes de unos sino por los tremendos errores de los otros.

Resumiendo, se festejaba el fracaso de un sistema económico y político, de una antropología cerrada, mate-

rialista y atea.

Esta exultación al ver caer el Muro de Berlín tuvo un grado elevado de ingenuidad. Muy pocos fueron los que

percibieron el tema de fondo, que desde entonces el capitalismo ya no tiene adversarios y ha podido campar a

sus anchas hasta llegar a la actual crisis económica fruto de su falta de ética. Hoy vemos con desilusión que

el sistema capitalista ha permitido como tal que el número de pobres en el mundo aumente, que el número de

hambrientos aumente, que el número de desempleados aumente, que la corrupción aumente, que el costo de su

viabilidad pasa por la destrucción del planeta necesariamente. Cayó el Muro de Berlín pero objetivamente ha

aumentado el muro entre el Primer Mundo y el Tercer Mundo, ha aumentado el muro entre los ricos y los

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pobres, entre el mundo occidental y el islámico. Solo por citar algo, la encíclica de Benedictus XVI, Carita in

Veritate, aborda los graves problemas sociales de hoy.

En un momento de la exposición hablaba de la desideologización a la que fuimos arrastrados. Este tema, al

menos en Bolivia, permitió poner sobre la mesa la cuestión indígena. Ningún partido o agrupación política, ni

de izquierda ni de derecha, había incorporado de forma adecuada esta cuestión en su discurso; hubieron mo-

vimientos políticos que sí tomaban en cuenta lo indígena pero sin atribuirle relevancia suficiente. Al haber

constatado que ni el marxismo los tomaba en cuenta, el movimiento indígena recobra los postulados indigenistas

y los estructura en un discurso sencillo pero claro: nosotros somos los eternos marginados, esos que Galeano

los llama “los nadies” , somos resultado de los colonialismo siendo dueños ancestrales de estos territorios;

por tanto, tenemos derecho a aspirar al poder. Y es más, se animan a diseñar un mundo posible que incorpore

a todos en el “buen vivir”.

No quiero dejar de decir algo sobre la Iglesia en este momento. Junto a los aspectos que cité que fueron motivo

de festejo, la caída del muro también festejó el fin de la Teología de la Liberación, bajo el siguiente razona-

miento: dado que ésta se apoya en el marxismo y el marxismo ha muerto, también muere esta teología. Se creyó

que toda la etapa que vivió América Latina desde Medellín había pasado de moda, en otras palabras, deberí-

amos olvidarnos de los pobres, los excluidos, los hambrientos. Pero en realidad ni la Teología de la Liberación

se apoya en el marxismo, sino en la Palabra de Dios, aunque partiese de la realidad social, ni Medellín ha pa-

sado de moda. La Teología de la Liberación no nació para los problemas de Europa, para el caso que nos

ocupa, para los problemas del este de Europa; ésta nace para la pobreza de América Latina, que sigue y se

agrava. Sus propuestas de opción por los pobres, que hoy, ya forman parte de la Iglesia Universal (Aparecida

393) son más actuales que nunca.

Esta caída también tuvo que ver con lo cultural. Se cayó el muro y se cayeron las barreras de lo ético, lo moral,

de lo trascendente, de la participación, de la solidaridad. Se hizo patente el pasarlo bien, vivir el instante pre-

sente sin un horizonte de ilusión o utopía. Alguien se atrevió a decir, que con la caída del muro se quebró la

cultura, es decir, se quebró al alma de las personas.

3. El Magisterio de la Iglesia y la caída del muroLa primera reacción que tuve al recibir la invitación del Prof. Luciani para exponer este tema, fue pensar en

la encíclica de Juan Pablo II, Centesimus Annus. Si bien el Papa la escribió conmemorando los cien años de

la Rerum Novarum del Papa León XIII, pienso que en realidad fue escrita aprovechando el acontecimiento de

la caída del muro de Berlín. El momento era propicio.

Espero no estar simplificando. La Centesimus Annus tiene la finalidad de abordar ampliamente el tema de

fondo que hay con la caída del muro. En el último párrafo de la introducción, Juan Pable II indica que también

le ha movido a proponer el análisis de algunos acontecimientos de la historia reciente. Han pasado menos de

dos años entre la encíclica y la caída.

Juan Pablo II identifica el tema de fondo cual es la precariedad de los sistemas capitalista y marxista, y a

ambos les dedica la mayor parte de la encíclica. Es más que evidente que la encíclica no toma una postura por

uno u otro sistema sino los critica severamente, quizá con mayor vehemencia al marxista dado que está de ba-

jada, más bien, que ha mostrado su inviabilidad. Juan Pablo II no deja del marxismo, nada rescatable. La

crítica puntual que hace afecta a cuestiones como el asunto del ateísmo, la antropología materialista que sus-

tenta al sistema, la lucha de clases, la negación de la propiedad privada, el totalitarismo, la no asociación, el

partido único, etc. De todo esto mucho se ha dicho y escrito. No interesa para el caso ahondar en esto.

Lo que deseo resaltar es lo que Juan Pablo dice del capitalismo, que está vigente, campeante, vivo. Y quiero

resaltarlo porque de esto muy poco se ha dicho y seguramente el capitalismo sólo ha leído las partes dirigidas

al socialismo y no aquéllas que van dirigidas hacia él.

No es la oportunidad para hacer un análisis extenso pero pongo a disposición un punteo de asuntos que el ca-

pitalismo no ha querido oírlos y menos asumirlos porque posiblemente generan contradicciones profundas que

si se las corrige ponen en riesgo su viabilidad. Son aspectos que salen de la lectura de la encíclica.

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☞ no será que el actual capitalismo ha adquirido en la práctica un tinte ateo

☞ la antropología que sustenta su vigencia no será que también es inhumana y materialista

☞ no se está generando cada vez mayor conflicto entre capital y trabajo, tema fundamental de la cuestión obrera

☞ la dignidad del trabajador, se la está respetando

☞ la dignidad del trabajo no ha pasado a ser un medio más del proceso de producción

☞ la propiedad privada es lícita pero no es un valor absoluto, por tanto, tiene unos límites que tienen que ver con

el interés y la seguridad de los demás

☞ el salario justo se está entendiendo como algo que el trabajador tiene por derecho para cubrir sus necesidades

o más bien responde al mayor beneficio de la empresa

☞ las horas de trabajo responden a una humana distribución del tiempo o se han generado condiciones que exigen

trabajar más allá de lo razonable

☞ el derecho al descanso no está siendo afectado por el afán de producir más

☞ no se está promoviendo un consumo desproporcionado y haciendo de este un bien cultural

☞ os grandes capitales no están opacando la labor de los Estados e incluso éstos terminan subordinados o con-

dicionados

☞ la no generación de más y mejores empleos es resultado de su crecimiento

☞ es correcto que se delegue al Estado toda la carga social deslindando responsabilidades que se deberían asumir

☞ el capitalismo tiene alguna responsabilidad con el medio ambiente

Esta encíclica en América Latina fue una llamada de atención, quizá por ello, sé que no es sólo por ello, hoy nos

encontramos en la búsqueda y creación de nuevas formas que permitan el acceso de todos a una vida con dignidad.

No valió la pena haber construido el Muro de Berlín.

Roma, 25 novembre 2009

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«…la Unión Soviética se desvió desde temprano y nunca hubo socialismo en la Unión Soviética, ¡en verdad nunca hubo socialismo en la Unión Soviética!»

Intervención de Hugo Rafael Chávez Frías

Presidente de la República Bolivariana de Venezuela

en la 64ª Asamblea General de las Naciones Unidas

24 de septiembre de 2009

Un sentimiento común

La separación existente entre Venezuela y los países de la Europa oriental y Asia es sólo geográfica. A pesar de la

distancia impuesta por las aguas del Atlántico y por toda Europa Occidental, a nuestro país y a estos países los

unió en 1989 la experiencia histórica de la destrucción de un muro. Venezuela, hoy más que nunca, repudia todo

tipo de muro, sobre todo los que tienen como sustento sistemas de organización socio-políticos, fundados exclusi-

vamente en el comunismo o en el capitalismo, cuyo eje fundamental sea el libre mercado o el poder económico,

sin importar el hombre y el desarrollo integral de sus múltiples dimensiones. En tal sentido, el actual gobierno de

la República Bolivariana de Venezuela se siente cercano a todas las naciones europeas y asiáticas, cuyos pueblos

estuvieron divididos por esa pared de la sinrazón.

En 1989, en Europa oriental y parte de Asia se vivía el derrumbe de ese Muro de Berlín. Los ojos del mundo entero

se concentraron en ese episodio histórico. Mientras tanto, en Venezuela se vivía lo que hoy se conoce como “El

Caracazo”, la explosión social de un pueblo soberano que bajó desde los cerros de Caracas para gritar desespe-

radamente contra el orden establecido y recordarle al gobierno de turno (fundado sobre un concepto de falsa de-

mocracia que en el fondo es un muro impuesto por economías neoliberales), en quién reside originariamente la

soberanía de una nación; un acontecimiento que marcó la historia contemporánea de nuestro país y de nuestro

continente americano.

En 1989, Caracas también tenía su “muro”. Cuando en ese año “los cerros” bajaron para decir “basta”, Caracas

presenció el inicio de la destrucción del muro que había dividido en dos partes la geografía, la demografía y la

urbanística de nuestra capital: el “este” y “oeste” de Caracas, como aún hoy se recuerda y se siente. No obstante,

las consecuencias continúen a padecerse todavía hoy, este muro día tras día se desmorona; un muro que no es de

concreto, sino de desigualdades sociales; se trata de un muro que refleja la historia de los pueblos latinoamerica-

nos, cuyas causas recuerdan incluso los tiempos en los cuales nuestros pueblos habían sido colonizados. ¿Y quién

ignora que los cambios profundos en democracia requieren el tiempo de generaciones y no el de la vida de una

sola persona? En Venezuela este camino ya se inició.

“El Caracazo” signó nuestra historia nacional, la cual podía recogerse para ese entonces en dos tomos: pobreza

y opulencia. Hoy, a 20 años de la caída del Muro de Berlín, el pueblo de Venezuela reafirma y reitera su solidaridad

con todos esos pueblos europeos y asiáticos que sufrieron divisiones, injusticias y tuvieron sus libertades presas.

Igualmente, se siente unido por la alegría que da experimentar la sensación de libertad de vivir en un territorio

S.E. IVÁN GUILLERMO RINCÓN URDANETAAmbasciatore della Repubblica Bolivariana del Venezuela presso la Santa Sede

LA CADUTA DEL MURO 1989-2009

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unido por la libertad, en el cual pueda existir un solo gobierno, donde ese territorio sea de todos sus ciudadanos

y en el cual cada vez existan menos desigualdades sociales por razones ideológicas, económicas y políticas. Asi-

mismo exhorta a los gobiernos de esos países a continuar la lucha incansable en derrumbar los otros muros que

todavía hoy afligen este mundo que recién se asoma al siglo XXI. ¿Acaso el embargo económico contra Cuba no

es un muro? ¿Y qué decir del muro construido por Israel en Palestina? ¿Y el otro muro erigido en la frontera que

divide Estados Unidos de México, el cual impide el paso de ciudadanos mexicanos hacia suelo estadounidense?

¿Acaso las 7 bases militares implantadas por el gobierno de los Estados Unidos en suelo colombiano, de un total

de 18 en todo el continente, no son el muro sin precedentes en la historia latinoamericana que impide la paz en

toda la región? ¿Cómo no decir lo mismo, acerca de las medidas económicas impuestas por los países ricos y las

organizaciones internacionales en el comercio internacional, que aplastan las economías de los países menos ricos

o en vía de desarrollo? ¿No es un muro que impide el desarrollo humano la muerte de 17 mil niños al día por ham-

bre, tal y como lo dijera Ban Ki- Moon, Secretario General de las Naciones Unidas, hace pocos días en la última

Cumbre de la FAO? ¿No es acaso un muro que impide resolver los horrores del hambre, la no presencia de los lí-

deres de los países más ricos del planeta en esta la última Cumbre de la FAO?

El líder de la Revolución Bolivariana, pacífica y democrática, y actual presidente de la República Bolivariana de

Venezuela, Hugo Rafael Chávez Frías, en la última Asamblea General de las Naciones Unidas, celebrada en New

York en septiembre de este año, mencionó efusivamente las siguientes palabras: «…la Unión Soviética se desvió

desde temprano y nunca hubo socialismo en la Unión Soviética, ¡en verdad nunca hubo socialismo en la Unión

Soviética!». Sin duda, la “maestra historia” del siglo XX nos enseñó que todos los pueblos del mundo están obli-

gados a combatir el origen de estos muros y cualquier forma de dominio político extremista fundado en el libre

mercado, dominando los pueblos por la fuerza, oprimiendo libertades, generando horrores en nuestras sociedades

y colocando la economía mundial en pocas manos para generar hambre y dominio en las mayorías. Por lo tanto,

el gobierno revolucionario, pacífico y democrático de la República Bolivariana de Venezuela, movido por la fuerza

de la historia y de las ideas, puja y apuesta por la construcción del “Socialismo del siglo XXI”, el cual, contraria-

mente a lo que pretenden hacer creer en el mundo, rechaza todo nexo con ese mal llamado “socialismo”, con el

cual nacieron dictaduras de izquierda en nombre de la libertad del proletariado, y generando sobre todo sufri-

mientos humanos; y, al mismo tiempo, se desmarca de la izquierda burguesa que se desvió igualmente del camino

cuando escuchó el canto de sirenas del capitalismo.

Fundamentos teórico-prácticos del Socialismo del siglo XXIPío XI en la Quadragesimo anno, el 15 de mayo de 1931, en los números 112 y 113, hace la distinción entre comu-

nismo y socialismo, cuando afirma: «aun cuando estimamos superfluo prevenir a los hijos buenos y fieles de la

Iglesia acerca del carácter impío e inicuo del comunismo»1, y luego contrapone al socialismo diciendo que: «Más

moderado es, indudablemente, el otro bloque, que ha conservado el nombre de “socialismo”. No sólo profesa éste

la abstención de toda violencia, sino que, aun no rechazando la lucha de clases ni la extinción de la propiedad

privada, en cierto modo la mitiga y la modera» 2.

Asimismo, Pío XI sostiene que «el socialismo parece inclinarse y hasta acercarse a las verdades que la tradicióncristiana ha mantenido siempre inviolables: no se puede negar, en efecto, que sus postulados se aproximan a

veces mucho a aquellos que los reformadores cristianos de la sociedad con justa razón reclaman»3.

En tal sentido, es menester recordar que, después de la II Guerra Mundial puede constatarse una clara división

en comunismo y socialismo. El comunismo se dividió en el modelo soviético, en el modelo chino y en el modelo yu-

goslavo. En cambio, el socialismo se desarrolló en dos modelos totalmente distintos de los comunistas: el modelo

laborista y el socialdemócrata. Así, por ejemplo, Suecia, España, Inglaterra (Laboristas) y Chile, son socialistas

y son países prósperos. ¿Son países comunistas? Por lo tanto, lo que se ha conocido como socialismo en el siglo

1 Quadragesimo anno, n. 112.2 Ibid, n. 113.3 Ibid.

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XX ha sido la línea de la izquierda internacional más moderada, no extremista, la cual incluso se confundió en

muchos casos con la misma burguesía. La otra línea, la extremista, la que negó libertades se llamaba comunismo.

¿Podría pensarse en la posibilidad de construir otro socialismo en el Siglo XXI?

El socialismo es un concepto equívoco, no unívoco, y la experiencia que se tiene de éste nos lleva a deducir varias

divisiones del mismo en la historia. Además, por su propia naturaleza, el socialismo no puede ser construido por

una sola persona o por un grupo; el socialismo es un modelo de organización socio-política que supone una cons-

trucción colectiva del mismo.

A partir de la experiencia del Muro, signo de un mundo dominado por la existencia de un comunismo soviético y

un capitalismo encabezado por los países más ricos de occidente; teniendo en consideración las palabras de Lenin,

quien afirmaba que “la fase superior del capitalismo es el imperialismo”, en Venezuela se está no sólo pensando,

sino también ensayando y construyendo, un socialismo a la venezolana, o la vía venezolana al socialismo, de cuya

contribución nos sentimos orgullosos y esperanzados.

El Socialismo del siglo XXI que empuja Venezuela parte desde sus propias raíces. Y ¿qué mejor que el mundo abo-

rigen? Por ello, el Socialismo del siglo XXI tiene que ser antes que todo indo-americano, con matices de nuestros

indígenas venezolanos. Nuestros aborígenes vivieron en socialismo y vivieron un socialismo. Por supuesto, no fue

la era del socialismo, ni siquiera la etapa del conocido socialismo utópico. Se trata de un modo de vida socialista

con raíces en la experiencia de las comunidades wayú, yukpa y barí, el cual aún hoy conservan, a pesar de la con-

vivencia con la llamada civilización occidental.

Antes de la llegada de los conquistadores españoles en el siglo XV, la forma de vida de nuestras comunidades in-

dígenas del Caribe no conocían, incluso, la propiedad privada. Tal es el caso, por ejemplo, de los indígenas yaruru,

para quienes la concepción de propiedad es colectiva; eran socialistas porque tenían instrumentos para facilitar

la socialización, es decir, la integración del que nacía en ese grupo para el grupo. Entonces, podía ser un socialismo

que socializaba. En fin, el modo de vida de los incas, de los aimara, de los aztecas, de los mayas, de los caribe, de

los yukpas, de los bari, de los wayú, es un modo de vida fundamentalmente socialista, si tenemos los anteojos de

la historia de siglo XXI como filtro para detectar los posibles orígenes de un socialismo autóctono, que nazca de

nuestro continente.

En esta línea, la experiencia indo-americana puede dar muchas claves válidas para la construcción del Socialismo

del siglo XXI en el caso venezolano, el cual, sin ánimos de abolir la propiedad privada, la cual está claramente ga-

rantizada y protegida en la Constitución de la República Bolivariana de Venezuela y las leyes, más bien pretende

impulsar al mismo tiempo la propiedad colectiva, con lo cual se amplía el concepto de propiedad y se impulsa un

modelo mixto, en el cual la propiedad privada y la propiedad colectiva coexisten para el beneficio social. Se trata,

por lo tanto, de un socialismo donde exista el Estado y la propiedad privada, pública, mixta y colectiva, cuyos pro-

cesos económicos, de consecuencia, se construyan con los brazos de la economía social y la economía popular.

En segundo lugar, el Socialismo del siglo XXI es bolivariano. Para 1783, la América vio nacer quien fuera su gran

prodigio: Simón Bolívar. Para ese entonces las ideas iluministas que originaron la Revolución Francesa casi se

encarnaban en las nuevas repúblicas europeas, ideas que permearon por entero el pensamiento y la acción del

gran héroe de las Américas. Era la época pre-socialista, incluso estaba comenzando el socialismo utópico, esa

etapa que duró hasta 1817. Cuando Simón Bolívar murió, en 1830, faltaban sólo 18 años para que Karl Marx pu-

blicara su Manifiesto Comunista en 1848. Muchos de sus coetáneos sí pudieron vivir y leer estas páginas; incluso

su gran obra, El Capital, en 1964. Simón Rodríguez, por ejemplo, el gran maestro de Bolívar, quien lo sobrevivió

24 años, terminó siendo socialista utópico; así lo demuestra su pensamiento y obra. La justicia, la igualdad y la

libertad mueven el ideario bolivariano. Estas mismas ideas que inspiraron la revolución francesa se encarnaron

también en la historia, según la forma americana y bolivariana, en el nacimiento de las nuevas repúblicas libres

e independientes de ultramar, lejanas desde sus orígenes de toda pretensión hegemónica e imperialista.

En tercer lugar, nuestro Socialismo del siglo XXI reconoce la dimensión religiosa del hombre. De hecho, la Cons-

titución Bolivariana de la República Bolivariana de Venezuela, la cual signó una nueva etapa en la historia cons-

titucional de nuestro país y a la vez dio origen a la V República, es signo de ello, al darle rango constitucional al

principio de libertad religiosa. Su artículo número 59 dice así:

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“El Estado garantizará la libertad de religión y de culto. Toda persona tiene derecho a profesar su fe

religiosa y cultos y a manifestar sus creencias en privado o en público, mediante la enseñanza u otras

prácticas, siempre que no se opongan a la moral, a las buenas costumbres y al orden público. Se ga-

rantiza, así mismo, la independencia y la autonomía de las iglesias y confesiones religiosas, sin más

limitaciones que las derivadas de esta Constitución y de la ley. El padre y la madre tienen derecho a

que sus hijos o hijas reciban la educación religiosa que esté de acuerdo con sus convicciones”.

Por lo cual queda excluida la posibilidad de fundar un Socialismo sustentado en alguna aversión hacia cualquiera

de las religiones presentes o no en nuestro territorio, en particular modo la religión cristiana por ser la religión

mayoritaria del pueblo venezolano. Aunado a esto, camina la ética socialista fundada en el respeto a la persona

humana, la promoción del bien común, los valores humanos y la igualdad entre todos los seres humanos.

En definitiva, el Socialismo del siglo XXI que propone Venezuela, es la llamada “globalización de la solidaridad”

predicada por Juan Pablo II en la Exhortación Apostólica La Iglesia en América. De hecho, el Socialismo del siglo

XXI está en sintonía con los valores que la tradición cristiana enseña, los cuales se encuentran contenidos en la

doctrina social de la Iglesia, y se relacionan con la igualdad, la justicia, la libertad, la inclusión social, la solida-

ridad, en fin, los principios de los derechos de la persona humana; es más, tales principios corresponden al núcleo

de la ética social bolivariana, y ésta los promueve para su plena realización en la comunidad humana.

Ya Juan Pablo II, el Grande, en 1987, refiriéndose al tema conocido como la «cuestión social», insistía en que

«el ejercicio de la solidaridad dentro de cada sociedad es válido sólo cuando sus miembros se reconocen unos a

otros como personas. Los que cuentan más, al disponer de una porción mayor de bienes y servicios comunes,

han de sentirse responsables de los más débiles, dispuestos a compartir con ellos lo que poseen». En pocas pa-

labras, hace mención a la tan anhelada «globalización de la solidaridad» expuesta en su Exhortación Apostólica

Ecclesia in América, en la cual nos alerta que «la economía globalizada debe ser analizada a la luz de los prin-

cipios de la justicia social, respetando la opción preferencial por los pobres, que han de ser capacitados para

protegerse en una economía globalizada, y ante las exigencias del bien común internacional…». En tal sentido

se encaminan las Misiones sociales que impulsa nuestro Gobierno Bolivariano. Las mismas nacieron para aten-

der a todos los estratos de la sociedad, sin excluir a ninguno, e inclusive, yendo más allá de nuestras propias

fronteras.

1999-2009: una década de los logros alcanzados por el Socialismo del siglo XXI en Venezuela, en materia deeducación, salud y seguridad alimentariaLos resultados aquí expuestos tienen como fuente el Instituto Nacional de Estadísticas de Venezuela, y coinciden

con los datos arrojados por los distintos organismos y programas de las Naciones Unidas. Tales resultados son el

fruto de la novedosa estrategia política de las Misiones sociales, que se resumen en un nuevo modo de gestión po-

lítica, a corto, mediano y largo plazo, el cual supone la participación ciudadana, el desarrollo endógeno y la con-

cepción de un Estado fundado en los principios del Socialismo del siglo XXI. Con las mismas se busca la inclusión,

la justicia y la igualdad social, así como el respeto y el cumplimiento de los derechos humanos.

A continuación, se presentan brevemente los principales logros positivos de sus Misiones y programas sociales,

especialmente en materia de educación.

1. Educación privada católica

En el año 2007, el Gobierno Bolivariano subsidió la Asociación Venezolana de Educación Católicas (AVEC)

erogándole 470.000.000.000,00 bolívares (equivalentes hoy a 470 millones de Bolívares Fuertes, según el nuevo

Sistema Nacional de Conversión Monetaria), con lo cual atendieron cerca de 400 mil estudiantes. En el presu-

puesto nacional del 2008 se le asignaron 570 millones de BsF (570.000.000.000,00 bolívares), lo cual representó

4 Sollicitudo rei socialis, n. 39.5 Ecclesia in America, n. 55.

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el 96,97% de los subsidios educacionales que erogó el Gobierno ese año al sector privado de la educación;

esto último sin considerar los créditos adicionales que fueron aprobados por la Asamblea Nacional, los demás

subsidios educacionales y donaciones, por parte de otros Organismos del Estado y Entes Descentralizados, ni

tampoco las asignaciones realizadas al resto de las instituciones privadas de educación católica venezolanas,

monto que superó los 10.800.000 BsF (10.800.000.000 de bolívares). Y en febrero del 2009, el Ministerio del

Poder Popular para la Educación de la República Bolivariana de Venezuela suscribió un convenio con esa mis-

ma Asociación, en relación con el presupuesto del 2009, mediante el cual el Gobierno Bolivariano está subsi-

diando la educación privada católica venezolana con 928 millones 953 mil BsF (928.953.000.000,00 bolívares),

destinados a gastos de funcionamiento y cumplimiento de compromisos laborales de la red de escuelas católicas

(incluido el aumento salarial del 30% aprobado este año para todos los docentes del país). A través de este

subsidio se beneficiarán más de 517 mil 410 estudiantes distribuidos en más de 632 escuelas católicas en todo

el territorio nacional.

Además, luego de largas luchas desde el 1980, los maestros de la Asociación Venezolana de Educación Católica(AVEC) comenzaron a recibir la jubilación a partir del 2002, gracias a la decisión del presidente Hugo Rafael

Chávez Frías; igualmente, todos los sacerdotes diocesanos de Venezuela mayores de 60 años reciben por víade gracias la pensión de vejez desde agosto de 2006 con exacta puntualidad, aun cuando éstos no hayan cotizado

al Instituto Venezolano de los Seguros Sociales. Antes de la llegada al gobierno del presidente Hugo Rafael

Chávez Frías, tanto los profesores y maestros de la educación privada católica como los sacerdotes ancianos,

después de muchas décadas de servicio, en el caso de los sacerdotes hasta más de medio siglo, terminaban con-

vertidos en limosneros, pues no gozaban de ningún tipo de beneficio por concepto de prestaciones sociales, ni

por ancianidad. En cambio, a partir del Gobierno del Presidente Hugo Rafael Chávez Frías, y por expresa vo-

luntad presidencial, todos los profesores y maestros de la educación privada católica del país han sido homo-logados en salarios y prestaciones sociales, respecto a los profesores y maestros del sector público; lo cual

responde al principio de inclusión, justicia e igualdad social de todos los sectores del país, sin distingos de nin-

gún tipo.

2. Analfabetismo Cero

En el 2005, la Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la Ciencia y la Cultura (Unesco) declaró

a Venezuela “Territorio libre de analfabetismo”. Con más de 80.000 puntos de alfabetización y 136.041 ambientes

educativos, se alfabetizaron niños, hombres, mujeres, ancianos y ancianas; la cifra alcanzó 1.482.543 alfabeti-

zados, de los cuales el 61,7 % fueron mujeres. Para el 2008, el número de alfabetizados alcanzó 1.534.267 de

venezolanos y venezolanas. De hecho, el índice de analfabetismo en el país se ubica muy por debajo del 1 %, loque supera la meta exigida por la Unesco de 4 % para la declaración de un territorio libre de analfabetismo.

En relación a las edades, los resultados son los siguientes: de 15 a 25 años se alfabetizaron 243.000 ciudadanos,

es decir, el 16,3%; de 26 a 40 años 388.400, es decir, el 26,2%; de 41 a 59 años se alfabetizaron 615.256 com-

patriotas, es decir, el 41,6%; y de 60 años en adelante se alfabetizaron 235.724 compatriotas, es decir, el 15,9%.

Además, se alfabetizaron 76.369 indígenas, en 26 idiomas aborígenes, constituyendo el 5,15% del total de al-

fabetizados; 2.725 reclusos en los centros penitenciarios; y 7.154 compatriotas con necesidades educativas es-

peciales, problemas o deficiencias auditivas o de la vista.

3. Matrícula escolar

Del año 1999 al 2006, la tasa de escolaridad pre-escolar aumentó del 44,7% al 60,6%; la de educación básica,de un 89,7% a un 99,5%; la de educación media diversificada y profesional, de un 27,3% a un 41,0%; la deeducación superior, del 20,9% al 30,2%; la población beneficiaria del Programa de Alimentación Escolar se

incrementó de 252.284 a 1.815.977 estudiantes beneficiados. Sólo en el año 2007, esta cifra se duplicó alcan-

zando los 3.996.427 estudiantes beneficiados.

De 1999 al 2008, el Gobierno ha construido más de 5.641 Escuelas Bolivarianas; su matrícula alcanza1.132.041 estudiantes; igualmente, ha construido numerosas Escuelas Técnicas Robinsonianas, cuya matrí-

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cula alcanza a 203.894 estudiantes. La matrícula total en Educación Superior (incluyendo el sector privadoy el público) de 668.109 registrado en 1999 pasó en el 2005 a 1.074.350 estudiantes.

4. Educación universitaria

Actualmente en Venezuela se construyen 29 nuevas universidades como inicio del proyecto educativo “Alma

Mater”. Su clasificación es la siguiente: 14 nuevas universidades llamadas territoriales, 10 nuevas universidades

especializadas, 1 Universidad del Sur y 4 Institutos Universitarios de Tecnología. Las 10 nuevas universidades

especializadas van a constituir redes especiales para las artes, idiomas, ciencias básicas, ciencias agrícolas,

ciencias fiscales y de la economía, ciencias telemáticas, hidrocarburos, seguridad y turismo. La meta hasta el

2012 será transformar además 29 institutos y colegios universitarios que ya existen en universidades politécni-

cas. Por lo tanto, el total asciende a 58 nuevas instituciones, en ejecución, para el período entre 2007 y 2012.Hace 11 años cuando llegó la Revolución Bolivariana al Gobierno había en Venezuela 668 mil estudiantesuniversitarios matriculados; en cambio, para el 2008, se cuenta con 2 millones 260 mil estudiantes universi-

tarios, lo que significa casi el 400% de crecimiento de la matrícula estudiantil universitaria. En relación a los

egresados anuales, para 1998 se totalizaban 60 mil estudiantes; en cambio, durante este gobierno bolivarianoegresan por año 177 mil, es decir, un 300% de crecimiento. Antes de 1999 en Venezuela se otorgaban tan sólo

50 mil becas; por el contrario, desde la llegada del Presidente Hugo Rafael Chávez Frías, se han otorgado350 mil becas, o lo que es lo mismo, 700% de crecimiento en este renglón. La inversión de nuestro Gobiernoen educación es 10 veces mayor que la que existía hace 11 años; en realidad, en Venezuela prácticamente no

había presupuesto para la educación primaria, media ni universitaria.

Con la Misión Sucre (Programa nacional que atiende las necesidades sociales de la educación superior), sehan inscrito 571 mil 917 alumnos; hay 101 mil 400 becados y 34 mil 968 en voluntariado; para el 2008 fueroncreadas 1.515 aldeas universitarias y se preinscribieron 108 mil 708 nuevos alumnos de la Misión Sucre; en el

mismo año, se graduaron 30 mil 680 alumnos en este programa social.

Además, sólo en el año 2008, se registró la creación de 583 centros informáticos en las escuelas, con acceso a

Internet. En total la Revolución Bolivariana, pacífica y democrática ha ya instalado 2 mil 127 centros infor-máticos en todo el país.

5. Educación especial

A través de la Misión José Gregorio Hernández (Programa nacional que atiende las necesidades sociales de

los venezolanos con problemas físicos o mentales), se inició el pasado mes de octubre en toda Venezuela la

construcción de 383 súper-aulas, que permitirán escolarizar a casi 4000 niños, niñas y adolescentes que pa-decen problemas físicos o mentales.

6. Salario de educadores

En el 2009, el presidente de la República Bolivariana de Venezuela, Hugo Rafael Chávez Frías, incrementó elsalario en un 40% a todos los educadores del país (tanto del sector público como del privado, que incluye edu-cación privada católica). Gracias a este aumento salarial los educadores del sector educativo venezolano, público

y privado (también católico), se ubica actualmente como el más alto de toda América Latina. Además, los edu-

cadores que ejercen sus funciones en medios rurales, en zonas insulares y en centros penitenciarios, quienes

siempre habían sido maltratados en la administración pública antes de llegada del actual presidente de la Repú-

blica, ahora gozarán de una prima adicional del 20% sobre su sueldo base. Con este aumento un docente vene-zolano a partir del 2009 devenga un salario 7,30 veces más, respecto al salario que percibía en el año 1998.

7. Lo que dicen los Organismos Internacionales

Además de haber declarado la Unesco, en el 2005, a Venezuela como “Territorio libre de analfabetismo”, en

el 2008, el Instituto de Estadística de la Unesco aseguró que Venezuela es el segundo país de América Latinacon la matrícula de educación superior más alta, con un 83%, precediendo Cuba, quien ocupa el primer escaño

con 88% de matriculación; además, este Instituto incluyó las tasas brutas de algunos otros países, y concluyó

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que en la matrícula de la educación superior en Finlandia tiene el 92%, Grecia el 90% y Venezuela el 83%,

mientras el promedio de América Latina es de 29,6%, según ese mismo organismo. Venezuela, con 83%, puedecompararse por ejemplo con Francia, 56% y Japón con 55%.En la reciente 35 Conferencia general de la Organización de las Naciones Unidas para la Educación, la Ciencia

y la Cultura (Unesco), las más de 200 delegaciones de todo el mundo mostraron su interés por la reciente apro-bada Ley Orgánica de Educación, que incluye en los programas de estudio el tema del medio ambiente, laeducación para la liberación, el énfasis en la igualdad, la inclusión y la tolerancia.

Por otra parte, se presentan en breve los logros alcanzados en materia de salud, así como algunas resumidas ano-

taciones sobre seguridad alimentaria en Venezuela.

1. Misión Barrio Adentro

Esta Misión, cuya función primordial es brindar atención primaria en salud, prestando un servicio durante las

24 horas totalmente gratuito, garantiza el acceso a los servicios de salud de la población excluida, mediante un

modelo de gestión de salud integral orientado al logro de una mejor calidad de vida; mediante la creación de

Consultorios y Clínicas Populares, además de los hospitales del pueblo, dentro de las comunidades de poco ac-

ceso a los ya existentes. La Misión Barrio Adentro ha contribuido a garantizar al pueblo su derecho a la salud.

Comprende la asistencia médica, la prevención, la promoción, curación y rehabilitación de la salud, con la par-

ticipación de la comunidad.

Misión Barrio Adentro cubre a más de 15 millones de habitantes. Gracias a las políticas sociales incluyentes

en salud del Presidente Hugo Rafael Chávez Frías, los venezolanos cuentan hoy con 95% de cobertura médicasegura, permanente y gratuita; en cambio, antes de nuestro Gobierno Bolivariano se cubría sólo el 21% dela población nacional. De hecho, hace 10 años había 20 médicos por cada 100 mil habitantes; hoy, gracias a

las iniciativas de nuestro Gobierno, y a la solidaridad del gobierno de Cuba, en Venezuela hay 71 médicos porcada 100 mil habitantes.Esta misión cubre los distintos niveles de atención a través de Barrio Adentro I, II, III y IV. Actualmente, se cuenta

con más de 3 mil 606 consultorios populares de Barrio Adentro I; 499 Centros de Diagnóstico Integral (CDI);

545 Salas de Rehabilitación Integral (SRI); y 23 Centros de Alta Tecnología (CAT), para un total de 4 mil 565centros asistenciales nuevos, desde la llegada a la presidencia de la república de Hugo Rafael Chávez Frías.

Misión Barrio Adentro I

Esta fase está dirigida a los módulos de atención médica primaria. Han prestado 373 millones 600 consultas

desde el año 2003 y su importancia se evidencia en que sólo en esta fase se han salvado 226 mil 324 vidas en

ese período; además, en esos módulos se han prestado 17 millones 538 mil 900 consultas oftalmológicas, con

más de 5 millones de lentes entregados gratuitamente y 49,9 millones de consultas odontológicas, también to-

talmente gratuitas.

La atención médica primaria ha impactado en los índices de mortalidad infantil en Venezuela. De hecho, hace

11 años, antes de la llegada del Gobierno Bolivariano, de cada mil niños nacidos vivos 23,4 morían antes decumplir un año, mientras que para 2007 esta cifra se ubicó en 16,7. El nuevo Sistema Público Nacional de

Salud ya cuenta con 1.641 médicos venezolanos trabajando sólo en Barrio Adentro I, quienes trabajan conjun-

tamente con los 6.323 médicos cubanos que prestan sus servicios de atención primaria en Venezuela.

Misión Barrio Adentro II

El pasado mes de octubre se inauguró en Venezuela el Centro de Diagnóstico Integral (CDI) número 499, el cual

fortalecerá el sistema de atención de Barrio Adentro II, compuesto además por las Salas de Rehabilitación Integral

(SRI) y los Centros de Alta Tecnología (CAT). Dentro de dos meses, es decir en enero del 2010, unos 8.000 estu-diantes de Medicina Integral Comunitaria, promovidos al quinto año de la carrera, pasarán a ocupar plazasvacantes en distintos hospitales del país, para cubrir la demanda de galenos del Sistema de Salud Nacional.

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Misión Barrio Adentro III

Está dirigida a la red de hospitales públicos del país. Actualmente, se avanza en la construcción de 6 hospitales

generales, los cuales se ubicarán en Mérida, Guárico, Distrito Capital, Miranda, Barinas y Apure. Estos hospi-

tales serán generales y además tendrán una especialidad como urología, maternidad, oncología, gastroentero-

logía, toxicología y cardiología. Estos 6 hospitales son los primeros que se encuentran en construcción, de untotal de 15 hospitales nuevos que se instalarán a nivel nacional. Igualmente, en este momento un total de 175hospitales y centros asistenciales están equipándose y reestructurándose en el marco de Barrio Adentro III.

Misión Barrio Adentro IV

Esta Misión brilla, además, gracias a la Fundación Hospital Cardiológico Infantil Latinoamericano, Dr.Gilberto Rodríguez Ochoa. El Cardiológico Infantil está destinado a tratar los problemas cardiovasculares

de los niños y niñas de América Latina. Forma parte de la Misión Barrio Adentro IV y es un centro de la Red

de Referencia Nacional e Internacional, gracias al cual cada día se realizan convenios con los hospitales del

país, a objeto de cubrir la demanda de pacientes entre 0 a 18 años de edad con malformaciones cardíacas, se-

ñalada como la segunda causa de muerte infantil; además, posee una residencia con 79 habitaciones para ma-

dres y padres que tengan un infante en preparatorio y postoperatorio.

Para el 2009, y en sólo 3 años, la Fundación Hospital Cardiológico Infantil Latinoamericano, Dr. Gilberto Ro-

dríguez Ochoa ha intervenido a 5 mil 700 niños, niñas y adolescentes, por concepto de cirugía y hemodinamia,

atención que hubiese demorado más de 40 años si se considera que en Venezuela se intervenían 141 pacientesal año en todo el sistema público nacional de salud; ahora, gracias a este Hospital se ha superado la cifra de

5 mil 700 pacientes intervenidos en estos tres años. En el ámbito de la cardiopatía congénita, más o menos 70%

de los pacientes han tenido un cambio radical en su calidad de vida. Finalmente, ha prestado sus servicios a 40pacientes internacionales, quienes fueron intervenidos quirúrgicamente, provenientes de las repúblicas del

Ecuador, Nicaragua, El Salvador, Perú y Bolivia. Y en este año se contó con siete pacientes provenientes de

Gambia, de los cuales seis fueron ya intervenidos.

El Cardiológico tiene equipos de alta tecnología. En el mundo son menos de diez los hospitales que hacenmás de 650 cirugías de cardiopatías congénitas al año. La Fundación Hospital Cardiológico Infantil Latino-americano, Dr. Gilberto Rodríguez Ochoa, está por encima de las 1.000 intervenciones al año y es el primeroen América Latina. Es también un hospital-escuela; médicos de distintos países del continente se están capa-

citando en este momento.

Actualmente, se lleva adelante la construcción del Hospital Cardiológico para Adulto, el cual estará ubicado

en Montalbán a unos 500 metros del Cardiológico Infantil Latinoamericano, Dr. Gilberto Rodríguez Ochoa.

Este hospital atenderá todo tipo de cardiopatías en adultos, tendrá una capacidad de 200 camas y el 100%del hospital estará listo en pocos meses. Asimismo, Venezuela cuenta con dos escáneres médicos de alta tecnología, de los tres que existen en AméricaLatina; además, el Ministerio de Salud del Gobierno Bolivariano ha adquirido cinco. El moderno equipo de

escáner, en el cual se puede ver completo el sistema óseo del paciente, posee además posee una pantalla adi-

cional en el área de tomografía, lo cual permite que el médico, en tan sólo 11 segundos, tenga información ge-

neral del cuerpo del paciente.

2. Misión Milagro

Misión Milagro nace en el 2004, tienen como objetivo fundamental brindarle una atención de calidad al pueblo

venezolano, para que los pacientes sean intervenidos quirúrgicamente de acuerdo al caso que presente; en caso

de necesitar lentes correctivos se les entregan inmediatamente, y de manera totalmente gratuita. Gracias a la

iniciativa de los Gobiernos de Venezuela y Cuba, miles de venezolanos y latinoamericanos de bajos recursos

han podido y pueden realizarse una intervención quirúrgica oftalmológica sin costo alguno. Durante este año

2009, Misión Milagro ha atendido, además, extranjeros procedentes de Ecuador, El Salvador, Chile, Honduras

y Guatemala, que han sido operados quirúrgicamente de la vista en hospitales nacionales.

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Desde el inicio de la Misión Milagro se han realizado 733 mil intervenciones quirúrgicas a pacientes venezo-lanos y procedentes de naciones hermanas. Gracias a esta Misión, fruto de la solidaridad entre los pueblos,

han sido miles los niños, jóvenes y adultos que han recuperado la visión. La meta es operar en un lapso de 10años a más de 6 millones de pacientes con problemas oftalmológicos en América Latina.

3. Misión Dr. José Gregorio Hernández

Esta Misión tiene como objetivos fundamentales: la realización de diagnósticos de la población con algún tipo

de discapacidad, la determinación de las necesidades fundamentales de la persona y su núcleo familiar, el diseño

de programas de atención inmediata y el trabajo social; a través de este último se incorporan programas cul-

turales y artísticos, así como la capacitación para el trabajo de personas con algún tipo de discapacidad. Res-

pecto al aspecto artístico y cultural, se propicia la creación de grupos para el arte, corales, entre otros. Luego

del diagnóstico se determina el lugar donde el discapacitado prestará su servicio social, según las destrezas,

habilidades y condiciones físicas de cada uno; se les otorgan créditos para la realización de cooperativas; y en

el caso de aquellos que no puedan participar en ninguna de las áreas de rehabilitación, se les otorga una pensión

mensual.

Para la fecha la misión ha atendido 873 mil 300 casos de personas con discapacidad en todo el territorio na-

cional. Además, a través de la Misión José Gregorio Hernández se inició el pasado mes de octubre en toda Ve-nezuela la construcción de 383 súper-aulas, que permitirán escolarizar a casi 4000 niños, niñas y adolescentesque padecen problemas físicos o mentales.

Por otra parte, y en relación al sector de la seguridad alimentaria, los avances del Gobierno Bolivariano en estos

últimos 10 años de gobierno han sido también contundentes:

1. Mercal

Mercal es uno de los programas sociales incentivados por el gobierno venezolano con el firme propósito de ga-

rantizar el acceso a una cesta alimentaria balanceada para los sectores de menores recursos, así como la compra

de productos básicos a precios preferenciales, muy por debajo del costo ofrecido por el sector de la industria

privada. Su fundación se remonta al año 2003 y desde sus inicios hace ya cinco años, los resultados de ese

quinquenio de exhaustivo trabajo y acercamiento a las comunidades históricamente excluidas, lo muestran en

la actualidad como una red estatal garante de productos alimenticios.�

La red cuenta ya con 16.529 establecimientos alimentares de múltiples modalidades: 210 establecimientos de

Mercal Tipo I; 1.030 centros Mercal Tipo II; 14.032 Mercalitos; 35 Supermercales; 379 Mercalitos Móviles;

729 Mercalitos Comunales; y 114 Centros de Acopio. Igualmente, existe la red PDVAL, cuyos productos son fi-

nanciados directamente con los ingresos petroleros, y hoy se cuenta con 353 establecimientos en todo el terri-torio nacional.Mercal mantiene una estructura de establecimientos de ventas, dotándolos y facilitando la distribución.�La venta

de estos productos produce una ganancia, que es depositada en un Banco Comunal. Dicho monto sirve sucesi-

vamente para financiar obras del sector, así como proyectos socio productivos.

2. Otros logros en el sector salud

Para 1998 el 80% de la población venezolana tenía acceso al agua potable; para en el año 2007 la poblaciónvenezolana llegó al 92% de acceso al agua potable, lo cual significa que más de 24 millones de habitantesdisfrutan de este beneficio en todo el país. En este sentido, se alcanzó la Meta del Milenio, propuesta por lasNaciones Unidas de reducir a la mitad para el año 2015 el porcentaje de personas sin acceso sostenible alagua potable. Para el año 2007 hay una cobertura del 95% en zonas urbanas y 79% en el área rural, es decir,

un 92% de cobertura en agua potable, teniendo como meta el 100% de capacidad para el 2010.Antes de la llegada del presidente Hugo Rafael Chávez Frías, nuestros gobiernos apostaron más a la importación

alimentaria que al fomento de la producción agropecuaria. Esto último representa el norte del Gobierno Boli-

variano, pero con un profundo sentido social que tiene como objetivo darle participación real al pueblo en esta

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producción. En 1998, la producción agrícola vegetal fue de 16,3 millones de toneladas,� mientras que en el2008 se cerró en 20,2 millones de toneladas. Un� incremento de 4 millones en estos años, que�representa�el

24% de incremento. En estos nueve años se han aplicado medidas como: promoción de cooperativas y núcleos

de desarrollo endógeno; facilidades para la adquisición de maquinarias e implementos agrícolas; capacitación

y asistencia técnica; dotación de material genético de mayor calidad; insumos agrícolas a bajo costo; recupe-

ración de tierras y financiamiento.

Además, la�producción�de los principales cereales para el consumo humano en Venezuela, se ha venido incre-

mentando en forma importante en los�últimos�años, con un�crecimiento de 96%. En tal sentido, se destacó elarroz con un�crecimiento�del 71%��y el maíz con un crecimiento del 132%. Tanto en el rubro arroz como en el

maíz se ha logrado la total�soberanía�alimentaria, mediante el autoabastecimiento del 100%.

Igualmente, la�producción�de leche en el�país�ha alcanzado 1,96 Millones de Toneladas, con lo cual el Go-bierno Bolivariano se acerca a la meta de cubrir el déficit de este rubro en el país alcanzando un 55% de au-toabastecimiento. Por tanto, el objetivo del� Gobierno Bolivariano es lograr el 100% de este

rubro,�cumpliendo�con el�estándar�estipulado por la FAO que es de 120 Litros al año por persona. En este sen-

tido, en los últimos años se ha incrementado la producción por persona, alcanzando 72,42 litros de leche y con

una clara tendencia a incrementarse en el futuro inmediato.

Asimismo, la producción de carne de bovino, cuya capacidad proteica es�invaluable desde el punto de vista nu-

tricional, ha venido incrementándose de forma sostenida durante el�Gobierno�Bolivariano. Es�así�como desdeel año 1998 al 2008 la�producción�ha aumentando en un 25,49% y se ha�fortalecido�el autoabastecimiento enun 70%. En el caso de los pollos, se ha presentado una clara tendencia al alza en los�últimos�años, producto de

las�políticas dirigidas en este importante sector. De esta forma, el incremento de este rubro ha alcanzado el

81% desde el año 1998, cubriendo de esta manera el 85% del consumo nacional.

De la misma manera, el caso de la carne de porcino es�emblemático�para la Revolución Bolivariana, ya que no

sólo se ha abastecido la demanda�nacional, si no que existen excedentes suficientes para la exportación de este

tipo de rubro. La producción se ha incrementado desde el año 1998 en un 76,84% y se ha alcanzado un 113%de�abastecimiento�de este rubro.

Todas estas y otras Misiones sociales han contribuido con el desarrollo de nuestro país, la disminución de la po-

breza y del desempleo, al mismo tiempo que han permitido que se concrete la justicia, la igualdad y la inclusión

social hacia los sectores más desfavorecidos del país. Particular atención merece en este caso Misión Música.

Consciente del rol del arte en el proceso del desarrollo humano, y de la importancia de la cultura para el des-

arrollo integral de los jóvenes, el Gobierno de la República Bolivariana de Venezuela ha hecho suyo el estandarte

de la música venezolana, promoviéndola y facilitando su producción artística para enlazar los valores culturales

de nuestro folklore y tradiciones. En este sentido, el Gobierno Bolivariano ha impulsado a la Fundación delEstado para el Sistema Nacional de las Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela (FESNOJIV), la cualfue creada por el maestro José Antonio Abreu para la sistematización de la instrucción y la práctica colectiva

de la música a través de la orquesta sinfónica y el coro como instrumentos de organización social y desarrollo

comunitario.

Esta iniciativa del Gobierno Bolivariano persigue construir un verdadero Sistema Nacional de Orquestas, que

involucre a toda la población del país; generar y expandir el talento cultural de los niños, niñas, adolescentes

y jóvenes venezolanos dentro y fuera de nuestras fronteras; garantizar la participación de la población infantil

y juvenil de nuestro país en la construcción de una nueva sociedad, mediante la participación protagónica; y

sobre todo crear una herramienta más de inclusión social que evite la degeneración humana de nuestra pobla-

ción infantil y juvenil.

El sistema de orquestas tiene como principio fundamental romper el círculo vicioso de la pobreza y llevar al

joven ejecutante a la cumbre de la profesionalización artística y de la dignidad humana. En septiembre de 2007,

el Presidente Hugo Rafael Chávez Frías decidió darle a esta organización todo el apoyo económico, moral e

institucional necesario para hacer de una institución un Sistema de Orquestas Juveniles e Infantiles nacional,

que pueda elevar los valores del espíritu y contribuya a erradicar la pobreza material de nuestra gente.

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44 C a r i t à P o l i t i c a

Hoy se trata de todo un Sistema de Orquestas difundido en todo el país. El programa consta de tres frentes: el

artístico, el pedagógico y el social; actualmente el Sistema de Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela

cuenta con 120 orquestas juveniles y 60 infantiles. La organización incluye también talleres para niños y jó-

venes, en los que aprenden a construir y reparar instrumentos y programas especiales para chicos con disca-

pacidades o dificultades de aprendizaje, como el Coro de Manos Blancas, compuesto por niños sordos. La

FESNOJIV presta asistencia técnica y organizativa a todas las escuelas públicas que solicitan su integración

en el sistema musical y se apoya en las asociaciones de vecinos, de padres, ayuntamientos y representantes ins-

titucionales para facilitarles los locales de ensayo o los instrumentos musicales necesarios.

Para el 2007, el número de niños, niñas, adolescentes y jóvenes beneficiarios del Sistema se ubicaba en 285mil; para inicios de 2008, la población beneficiada alcanzó 359.935 alumnos. De acuerdo a un estudio de es-

tratificación social perteneciente al grupo familiar de los niños, niñas, adolescentes y jóvenes beneficiarios del

Sistema de Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela, el 11% proviene de la clase media, el 36% pertenecea grupos en situación de pobreza y el 53% a núcleos en situación de pobreza crítica.Desde 1982, con el apoyo de la Organización de Estados Americanos (OEA) y de los gobiernos receptores, se

han creado y desarrollado sistemas de orquestas juveniles e infantiles en más de 20 países de América que

siguen el modelo de Venezuela. Entre ellos:� Argentina, Bolivia, Brasil, Colombia, Costa Rica, Cuba, Chile,

Ecuador, El Salvador, Guatemala, Honduras, Jamaica, México, Nicaragua, Panamá, Paraguay, Perú, Puerto

Rico, República Dominicana, Trinidad y Tobago, y Uruguay.

En este sentido, el Presidente de la República Bolivariana de Venezuela, Hugo Rafael Chávez Frías, creó en sep-

tiembre de 2007 la Misión Música, la cual tiene como una de sus principales metas aumentar a un millón laplantilla de niños y adolescentes participantes en el Sistema de Orquestas Juveniles e Infantiles de Venezuela. En definitiva, estos logros innegables del último decenio venezolano, y ratificados según el más reciente Informe

sobre Desarrollo Humano 2009, del� Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo (PNUD), han hecho

que aumentara la esperanza de vida en Venezuela: para 1998 el promedio era de 72,8 años; para el 2009 la es-peranza de vida se elevó a 73,9, es decir, más de un punto en sólo 10 años de Gobierno; además, Venezuela

ha pasado de un desarrollo humano medio de menos de 0,80 (0,77 en 1998) a un desarrollo humano alto de

0,80 a 1 (0,84 en el 2009). De los 182 países, 51 presentaron retroceso en el ranking mundial, 83 mantuvieron

su posición y 48 mejoraron su clasificación. Venezuela se encuentra al lado de otros tres países en un subgrupo

que logró mejorar su posición en cuatro o más puestos. En tal sentido, para el 2009 Venezuela avanzó�cuatro

puestos, ubicándose en el número 58 de un total de 182 países, según el Informe sobre Desarrollo Humano

2009, del Programa de las Naciones Unidas para el Desarrollo (PNUD).

Todas estas cifras positivas aquí reportadas continúan en ascenso, y han permitido la reducción de la pobrezageneral del 49% en 1998 al 26,4% en 2009; la reducción de la pobreza extrema del 21% en 1998 al 7% en2009, superando la Meta del Milenio de las Organización de las Naciones Unidas que se propuso reducir lapobreza a la mitad para el año 2015; al mismo tiempo han permitido la disminución del índice de desempleodel 14,4% en 1999, al 7% en 2009. A pesar de la crisis mundial, la decisión de nuestro Gobierno de seguir el

camino de la inclusión, la justicia y la igualdad social, es firme; sus programas para combatir la pobreza y las

desigualdades sociales son contundentes. Por lo tanto, la inversión en el sector social por parte del Gobierno

seguirá siempre creciendo hasta conseguir construir un país sin pobreza, ni desigualdades sociales, y una Amé-

rica Latina unida por los lazos de la solidaridad.

Venezuela empuja la propuesta de la construcción del “Socialismo del siglo XXI”. El compromiso es colectivo.

Queda de los actores y protagonistas el desarrollo histórico del mismo. Y en estas últimas páginas se ha querido

plasmar grosso modo algunos de sus resultados históricos concretos ya alcanzados, con el único espíritu de

alzar la voz en aras a construir y profundizar la solidaridad entre los seres humanos, a partir de una propuesta

que pueda dar respuestas a los grandes flagelos que atentan contra la dignidad de la persona humana, su co-

munidad, así como de la comunidad internacional.

Roma, 25 novembre 2009

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C a r i t à P o l i t i c a 45

Ho accolto con piacere l’invito del Prof. Alfredo Luciani di “Carità Politica” di tenere questa breve conversazione

stasera per due motivi.

Anzitutto perché avrei incontrato alcuni eccellenti Ambasciatori dell’America Latina, continente

verso il quale nutro grande ammirazione e rispetto, avendo io tra l’altro felicemente sposato, quasi cinquant’anni

fa, una loro compatriota peruviana.

In secondo luogo perché l’argomento – La caduta del muro di Berlino – esattamente vent’anni fa, mi

offre il destro di far riaffiorare ricordi di un periodo particolarmente intenso della mia vita diplomatica. Si dà il

caso infatti, che proprio in quello storico momento io fossi il decano dei Rappresentanti Permanenti presso il Con-

siglio Atlantico a Bruxelles: e in tale veste toccò a me pronunciare, il 3 Ottobre 1990, il discorso di benvenuto alla

Germania Orientale sotto l’ombrello protettivo della NATO, ancorché sul suo territorio continuassero a stazionare

300.000 soldati sovietici.

Due episodi in particolare, mi sono rimasti impressi nella mente. Ve li vorrei raccontare, perché testimoniano da

un lato l’assolutamente inattesa ed imprevista velocità con cui maturarono la caduta del muro e la riunificazione

tedesca, e le incertezze ed i dubbi che l’improvvisa accelerazione della riunificazione tedesca ed il radicale muta-

mento dello scenario europeo causarono negli altri leaders europei dell’epoca. In un piovoso pomeriggio brussellese,

i sedici Ambasciatori dei Paesi alleati, eravamo riuniti in un Consiglio ristretto. Dovevamo decidere se il Segretario

Generale del tempo, Lord Carrington, potesse ricevere o meno l’Ambasciatore dell’Ungheria accreditato presso il

Re dei Belgi, che si dichiarava latore di un messaggio dei Ministri degli Esteri dei Paesi del Patto di Varsavia per

i loro omologhi della NATO. A prima vista l’argomento non era tra i più esaltanti.

Eppure fu discusso a lungo ed anche in modo piuttosto accanito.

Da un lato, coloro che erano contrari argomentavano come Mosca disponesse già di numerosi canali bilaterali per

dialogare con le Capitali dei Paesi dell’Alleanza, e come non fosse quindi necessario che Carrington ricevesse

l’Ambasciatore ungherese. Aggiungevano che se il Segretario Generale invece l’avesse accolto nel suo ufficio, in

quanto portatore di un messaggio a nome e per conto dei 7 del Patto di Varsavia, riconoscimento cui la NATO si

era sempre inflessibilmente opposta. L’Alleanza Atlantica era infatti il frutto di un Trattato di mutua difesa cui ave-

vano aderito 16 Nazioni sovrane, pienamente libere di entrarne a far parte ed altrettanto libere di uscirne; mentre

il Patto di Varsavia altro non era che un “diktat”, imposto da Mosca ai suoi satelliti dell’Europa Centrale ed Orien-

tale, che si sostanziava in una permanente e totale dipendenza degli Stati Maggiori della Difesa degli altri 6 Paesi

da Mosca. Per questi motivi – sostenevano – Carrington doveva

rigorosamente astenersi da alcun contatto con l’inviato sovietico a Bruxelles.

Dal lato opposto, si schieravano invece coloro – e tra questi chi vi parla – i quali ritenevano che, al

contrario, Carrington dovesse accogliere la richiesta di visita dell’Ambasciatore ungherese. Ciò non solo per motivi

di cortesia internazionale, perché non è educato chiudere la porta in faccia a chi chiede di dialogare; ma anche

perché appariva nell’interesse dell’Alleanza nel suo insieme cominciare a raccogliere, e capire meglio, i primi se-

gnali di disgelo che arrivavano dall’Est, dopo il lungo inverno brezneviano.

Alla NATO vigeva, e vige ancora, la regola dell’unanimità. Poiché ci eravamo divisi letteralmente a

metà, otto da una parte ed otto dall’altra, non se ne fece nulla. Unica concessione:l’Ambasciatore ungherese avrebbe

S. E. FRANCESCO PAOLO FULCIAmbasciatore d’Italia

LA CADUTA DEL MURO 1989-2009

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46 C a r i t à P o l i t i c a

potuto affidare il messaggio del Patto di Varsavia ad un Suo Segretario che l’avrebbe consegnato ad una funzionario

della NATO, ma attraverso le sbarre senza varcare i cancelli del nostro Quartier Generale. Era il 31 Marzo 1987:

nessuno, quel giorno, avrebbe mai

potuto immaginare che, solo due anni dopo, nel 1989, il Muro di Berlino sarebbe stato abbattuto. Dando inizio, in

rapidissima sequenza, al crollo del comunismo ed alla disintegrazione prima di quello che George Kennen definiva

“l’impero esterno” sovietico, composto cioè dai suoi satelliti dell’Europa Centrale, poi, addirittura, dall’impero

“interno”, vale a dire l’implosione della stessa Unione Sovietica, tranne il suo nucleo storico, la Federazione Russa.

Nessuno, quel giorno, neppure esercitando al massimo la propria fantasia, avrebbe mai potuto pensare che, alla vi-

gilia di due Natali dopo, il Ministro degli Affari Esteri dell’Unione Sovietica in persona, Shevarnadze, sarebbe

stato ricevuto dallo stesso Carrington e dall’intero Consiglio Atlantico, con tutti gli onori, al Quartier Generale del-

l’Alleanza.

Nessuno, quel giorno avrebbe potuto anticipare che, nel successivo Luglio 1990, alla Lancaster House di Londra,

i Capi di Stato e di Governo alleati avrebbero concordato rapidamente di tendere agli antagonisti ed avversari di

mezzo secolo la “mano dell’amicizia”, -come recitava testualmente il comunicato conclusivo della riunione – non-

ché proponendo l’immediata istituzione di collegamenti stabili tra la NATO e le missioni diplomatiche dell’Est

nella capitale belga.

Nessuno quel giorno avrebbe potuto neppure lontanamente immaginare che tutti i Paesi satelliti di

Mosca e delle Repubbliche baltiche ex sovietiche, sarebbero addirittura divenute membri della NATO.

Altro episodio che vorrei ricordare fu la seduta del Consiglio Atlantico, in cui venne affrontata la questione della

riunificazione tedesca. I “Grandi” del mondo occidentale erano tutti lì, in quella sala: da George Bush senior a Hel-

mut Kohl, da François Mitterrand a Margaret Thatcher. Per l’Italia c’era Giulio Andreotti, in quanto Rappresentante

Permanente avevo il privilegio di sedergli a fianco, al grande tavolo del Consiglio. L’elettricità e la tensione erano

palpabili. Prese la parola Kohl per spiegare che il Governo della Germania Occidentale, tenuto conto di quanto ve-

rificatosi ai vertici della Germania

Occidentale, aveva deciso di prendere la palla al balzo e di ammettere “tout court” l’altra Germania, ricomponendo

così l’unità della patria tedesca. Silenzio glaciale nella sala, quando prende la parola Giulio Andreotti. Dopo i pre-

amboli di prammatica, và dritto al cuore del problema e dice: “Ma non avevamo sempre detto che prima doveva

avvenire l’unione politica dell’Europa e solo a seguire quella della Germania? Ricordo ancora il volto rosso di col-

lera di Kohl, che si sbracciava a ripetere che l’Alleanza non poteva bloccare uno sviluppo storico così naturale e

fondamentale anche per il futuro della stessa Europa.

Finiti i discorsi, Margareth Thatcher si precipitò letteralmente da Andreotti per stringergli calorosamente le mani,

dicendogli: “Bravo Giulio. Hai avuto il coraggio di dire la verità, di dire ciò che molti di noi pensano ma che non

abbiamo potuto dire”.

E, in effetti, come hanno svelato documenti pubblicati solo ora sul Foreign Office, i leaders francesi ed inglesi nu-

trivano non poche preoccupazioni sull’improvvisa piega degli eventi, al punto che Mitterrand aveva bisbigliato al-

l’orecchio della Thatcher: “Ma ti rendi conto che così avranno più territorio che ai tempi di Hitler?”

Ma il treno della storia era già lanciato verso nuove mete, e non aveva più senso fermarlo, anche perché Kohl poté

contare dal primo momento sulla comprensione e sull’aiuto di George Bush Senior, e del suo bravissimo e leale

Segretario di Stato James Baker.

Sappiamo tutti ciò che accadde dopo. Sembrava che dal crollo del muro di Berlino, e del sistema bipolare, la pace

nel Mondo sarebbe finalmente scaturita. Invece non è stato così. I primi cinquant’anni del secolo scorso possono

essere considerati come i più sanguinari della storia del mondo, con la morte violenta di 65 milioni ci persone, la

maggior parte dei quali inermi e pacifici cittadini. Nella seconda metà del secolo, per nostra fortuna, non c’è stata

quella Terza Guerra Mondiale, che non pochi ritenevano inevitabile. Ma c’è stata pur sempre una miriade di conflitti

locali. La verità è che finché vivevamo in un mondo bipolare, questi conflitti, fatta eccezione per la Guerra di

Corea, quella del Vietnam e qualche altra, nonché l’endemica crisi mediorientale – erano relativamente minori e

sotto controllo. Perché? Proprio perché il Mondo era diviso in due blocchi: esistevano due superpotenze, due poli.

I due giganti si scrutavano perennemente a vicenda, mantenendo peraltro sempre sotto stretto controllo ciò che av-

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C a r i t à P o l i t i c a 47

veniva all’interno dei rispettivi poli. Un grande diplomatico italiano, Pietro Quaroni, usava evocare l’immagine

suggestiva di due cani di Faenza, posti ai lati di un caminetto, inerti, immobili: sapevano bene che se l’uno si fosse

mosso, l’altro avrebbe subito reagito, determinando imprevedibili conseguenze. Oggi, vi sono numerosi conflitti

regionali o locali, come quello ormai perenne, endemico del Medio Oriente, o la

guerra in Afganistan.

La seconda grande sfida che oggi si pone per l’intera umanità è il terrorismo internazionale. L’attacco aereo dell’11

settembre 2001 contro le Torri Gemelle di New York e contro il Pentagono a Washington, ed i successivi attentati

a Madrid, Londra, ed altrove da un lato; gli eccessi sanguinari dei terroristi in Cecenia, con l’assalto ad un grande

teatro moscovita e l’orrendo massacro di 340 bambini nella città di Beslan, hanno finito con il provocare sia a Wa-

shington, come a Mosca ed in tutte le capitali alleate, una determinazione ferrea a prestarsi reciproco sostegno nella

lotta ad oltranza per cercare di sradicare la mala pianta del terrorismo.

Passano gli anni, ma il traguardo resta sempre lo stesso: mettere tutti i terroristi ed in modo particolare l’organiz-

zazione di Al Quaeda in condizioni di non nuocere più.

La terza grande sfida è il pericolo di un’ulteriore proliferazione nucleare. Com’è noto, la nuova “leadership” del-

l’Iran sembra decisa a non tener più conto del “Trattato di non proliferazione” a suo tempo sottoscritto da Teheran.

In particolare il nuovo Presidente ha dichiarato di voler proseguire nella costruzione del nuovo reattore nucleare a

Busheba. Non solo. Ma anche di voler dotarsi degli

impianti necessari all’arricchimento dell’uranio nella misura maggiore necessaria per trasformarli in ordigni nu-

cleari. Sicché, dopo l’India ed il Pakistan, e le ripetute sfide della Corea del Nord, anche l’Iran potrebbe entrare in

possesso dell’arma nucleare. I temi della vicenda sono cronaca di questi giorni: Teheran ha affidato a Mosca una

commessa per un miliardo di dollari per aiutarla a costruire

la centrale: l’Iran è, d’altro canto, un rilevante importatore di armi dalla Russia. Per cercare di attenuare i timori

dell’occidente, Mosca ha proposto di arricchire sul proprio territorio l’uranio destinato al reattore iraniano, impe-

dendo in tal modo che sia impegnato per fini militari. Ma è una formula che non soddisfa.

Le conversazioni a sette -i cinque membri permanenti del C.d.S. dell’ONU, più la Germania da una lato -e l’Iran

dall’altro non hanno approdato ad alcun risultato concreto. Ed anche se Teheran ha dovuto confessare “ob torto

collo”, di aver realizzato un impianto nascosto per l’arricchimento nucleare destinato all’armamento ed abbia dovuto

aprirlo agli ispettori dell’AIEA di Vienna, non

sembra affatto disposta a rinunciare all’ambizione di dotarsi dell’ arma nucleare.

Salvo improbabili colpi di scena delle prossime settimane, la questione tornerà per l’ennesima volta dinanzi al Con-

siglio di Sicurezza al Palazzo di Vetro a New York. Personalmente penso che non saranno nuove sanzioni a piegare

la volontà di Teheran: il rischio è che dobbiamo prepararci al peggio! Ma come soleva dire il grande scienziato Ga-

lileo Galilei, Bisogna continuare a ”provare e riprovare”, senza mai stancarci, per ottenere quella pace giusta cui

tutti gli esseri umani profondamente aspirano e di cui abbiamo, oggi come ieri, più bisogno che mai.

Mi fermo qui, anche perché, come ammoniva Churchill, “un oratore deve cercare di esaurire l’argomento, non gli

ascoltatori”!

Roma, 25 novembre 2009

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48 C a r i t à P o l i t i c a

Introduction

La guerre froide, état de tension qui a opposé, de 1945 à 1990, les Etats-Unis, l’Urss et leurs alliés respectifs, a

comme symbole le mur de Berlin. Celui-ci est une ligne fortifiée érigée en 1961 par la République démocratique

allemande (RDA) pour isoler Berlin-Est de Berlin-Ouest et enrayer l’exode de ses citoyens vers la République fé-

dérale d’Allemagne (RFA).

Désigné sous le vocable de «barrière de protection antifasciste» par la RDA et l’Union soviétique, appelé « le mur

de la honte » par la RFA et l’Occident, le mur de Berlin a divisé pendant vingt-huit ans l’Allemagne, l’Europe et

le monde en deux blocs: le communisme à l’Est et le capitalisme à l’Ouest.

Symbole de clivage idéologique de la guerre froide, le mur de Berlin a fait de nombreuses victimes avant de s’ef-

fondrer, le 9 novembre 1989. Sa chute a fait souffler un véritable vent de changements sur le monde entier.

Face à la reconfiguration idéologique et stratégique de la planète, il convient de s’interroger sur la situation du

continent africain, lieu d’affrontement privilégié des deux blocs.

Aussi, parler de «L‘Afrique et la chute du mur de Berlin» impose-t-il, à notre avis, d’examiner d’abord, la situation

du continent dans le contexte du mur de Berlin (1°/), ensuite les effets de l’effondrement du mur (2°/) et enfin les

défis de l’Afrique dans un inonde «sans mur» (3°/).

1°/ Quelques traits de l’Afrique dans le contexte du mur de Berlin

a) Des pays non-alignés dans un monde bipolarisé

Au sortir de la 2ème Guerre mondiale, alors que le monde est divisé en deux blocs antagonistes conduits, a

l’Est, par l’Union soviétique et, à l’Ouest, par les Etats-Unis d’Amérique, certains pays africains ont choisi la

neutralité décidée à la conférence afro-asiatique de Bandoeng, en avril 1955.

Cette position pourrait s’expliquer par la faiblesse tant politique qu’économique de ces jeunes Etats devant la

présence et la mainmise des grandes puissances sur les ex-colonies.

Toutefois, la mesure de prudence doublée de méfiance n’a pas empêché des pays comme l’Angola et le Mozam-

bique de subir de longues années de guerres civiles entretenues par l’opposition entre puissances capitalistes

et communistes.

En outre, cette période est marquée par le système d’apartheid pratiqué en Afrique du Sud qui l’étend à la Na-

mibie (ex Sud-ouest africain).

b) Une démocratie de façade dans des régimes de partis uniques

Aux lendemains des indépendances, les Etats africains sont dirigés par des anciens leaders de la lutte antico-

loniale. La plupart d’entre eux ont adopté le pluralisme politique dans leurs Constitutions, mais, dans les faits,

les partis formés par ces leaders sont les seuls reconnus.

Ainsi, la notion de démocratie déjà en vogue en Occident et dans les instances internationales est-elle vite dé-

voyée en Afrique où l’on tente de procéder à des adaptations aux traditions locales. Des dictatures se forment

et la liberté d’expression est parfois même inexistante.

En face, des oppositions clandestines voient le jour, notamment dans les Etats francophones, et s’exilent en Oc-

S.E. KOUAMÉ BENJAMIN KONANAmbasciatore della Costa d’Avorio presso la Santa Sede

L’AFRIQUE ET LACHUTE DU MUR DE BERLIN

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C a r i t à P o l i t i c a 49

cident en cas de fortes menaces. Dans ces conditions, aucune élection garantissant l’alternance au pouvoir

n’est organisée: c’est l’ère des plébiscites qui voient les candidats-présidents réélus avec 99% de voix.

Plusieurs pays ont alors vécu une instabilité politique, avec des coups d’Etat à répétition et des rébellions sou-

tenues par l’un ou l’autre des deux blocs. Cela a eu pour conséquence de contrecarrer les efforts de développe-

ment engagés par le pouvoir colonial et les pouvoirs post- coloniaux.

c) Une prospérité contrastant avec la pauvreté

La période 1960-1989 se caractérise, dans la plupart des pays africains, par deux principales phases : l’une

d’essor économique et l’autre de récession.

Jusqu’en 1980, certains pays comme la Côte d’Ivoire ont réalisé un véritable « miracle » économique dû à leur

stabilité politique et au soutien des anciennes puissances coloniales en faveur des gouvernements hérités de la

lutte pour l’indépendance. Ainsi, des infrastructures se créent-elles très vite et une certaine prospérité naît chez

les populations africaines.

Mais tout bascule quand, à partir de 1980, du fait non seulement de la crise mondiale, mais aussi et surtout de

la mévente des produits d’exportation, les économies nationales africaines enregistrent un fort recul. Des ajus-

tements structurels et sectoriels assortis de conditionnalités sont alors imposés aux gouvernements par les ins-

titutions financières internationales et les pays riches, ce qui a été une amère expérience dans de nombreux pays

africains. En effet, les entreprises nationales tombent en faillite, le chômage s’accroît, l’Etat providence s’es-

souffle et la pauvreté gagne du terrain.

C’est dans ce contexte qu’est advenue la chute du mur de Berlin dont les conséquences sur l’Afrique sont nom-

breuses.

2°/ Les effets de la chute du mur de Berlin sur l’AfriqueOutre la réunification des deux Allemagnes en 1990, l’implosion de l’Union soviétique en 1991, créant un monde

unipolaire, et la transformation de la vie des populations de la ville de Berlin vivant autrefois séparées, les réper-

cutions de la chute du mur de Berlin sur le continent africain sont aussi importantes. Les changements à ce niveau

sont essentiellement d’ordre politique et social.

a) La chute des systèmes de partis uniques

Dès le début de l’année 1990, le vent de la démocratisation venu de l’Est souffle sur l’Afrique et une ère de plu-

ralisme politique s’ouvre, notamment en Afrique noire francophone.

Selon le Professeur Kum’a Ndumbe de l’Université de Yaoundé I, ce sont les anciennes puissances coloniales

elles-mêmes qui ont favorisé l’action des opposants qu’ils voyaient jusque-là comme des agents du commu-

nisme.

Ainsi, les systèmes de partis uniques disparaissent et naît dans chaque pays une opposition politique sortie de

plusieurs décennies de clandestinité. Les langues se délient et la presse se libéralise avec la naissance de plu-

sieurs journaux.

La nouvelle donne liée à la chute du mur de Berlin en 1989

encourage aussi les populations à crier leur ras-le-bol, à demander à haute voix la démission des chefs d’Etat

ainsi que l’organisation d’élections ouvertes, libres et transparentes.

Lors du 16ème sommet des chefs d’Etat et de gouvernement d’Afrique et de France tenu en juin 1990, à La

Baule (France), le président français François Mitterrand enfonce justement le clou en annonçant sa volonté

de conditionner désormais l’aide française à la démocratisation des pays du continent.

Ainsi, sous la pression de la rue, une ère de transition s’ouvre ; certains chefs d’Etat acceptent le partage du

pouvoir, soit en nommant directement un gouvernement d’union nationale, soit en organisant une conférence

nationale, avec dans l’un ou l’autre cas, la désignation d’un Premier ministre pour assurer la transition.

Malheureusement, dans la majorité des cas, il ce début de démocratie ne sera que balbutiement, pour ne pas

parler de simulacre.

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50 C a r i t à P o l i t i c a

b) La fin de l’apartheid et autres actions dans la région

L’aimée 1989 marque la fin de la guerre froide dont le monde a eu besoin pour fermer les yeux sur les atrocités

du régime de l’apartheid en Afrique du Sud. De même, la chute du mur de Berlin a été l’un des facteurs décisifs

de la légalisation de l’African National Congress (ANC) en Afrique du Sud, de l’indépendance de la Namibie et

du retrait des Cubains de l’Angola et du Mozambique.

c) De l’OUA à l’Union africaine

Le monde étant devenu unipolaire, les pays africains se sont vite rendus à l’évidence que l’Organisation de

l’Unité africaine (OUA), qui réunissait que les chefs d’Etat, ne pouvait pas être compétitive face aux défis de la

planète. En effet, elle n’était dotée d’aucune structure technique véritable et ne disposait d’aucun moyen pour

réaliser ses nobles ambitions.

D’où l’idée de créer l’Union africaine, en 2002, sur le modèle de l’Union européenne, en vue de réglementer et

d’accompagner les Etats membres dans le nouveau contexte de cohabitation, d’entraide et d’interdépendance

des peuples du monde. Mais en plus de l’épineuse question financière qui inhibe souvent ses actions, l’Union

africaine reste toujours confrontée au problème de souveraineté nationale, notamment en matière de prévention

des conflits, de maintien de la paix et de sécurité collective.

d) L’Afrique «mondialisée»

L’effondrement du mur de Berlin étant le symbole d’un monde sans frontière, l’Afrique autrefois marginalisée

s’insère progressivement dans le système commercial international. En effet, l’avènement, en 1994, de l’Orga-

nisation mondiale du Commerce (OMC) est une opportunité pour le continent.

Toutefois, cette insertion n’est pas toujours aisée du fait de l’inégalité des chances entre cette région et les

autres. En effet, la mondialisation a ses exigences que l’Afrique peine encore à satisfaire et qui constituent pour

elle des défis à relever.

3°/ Les défis du continent africain après la chute du mur de BerlinPour trouver sa place dans ce monde globalisé, l’Afrique doit poursuivre ses efforts dans divers domaines qui

conditionnent de nos jours la bonne cohabitation et la coopération entre les Etats.

a) La paix et la sécurité

Marquant la fin de la guerre froide, la chute du mur de Berlin est avant tout un facteur de paix et de sécurité

entre l’Est et l’Ouest. Ainsi, afin de mieux jouir de ses retombées, la communauté internationale veille-t-elle

aujourd’hui à garantir planète une certaine sécurité.

L’Afrique s’inscrit dans cette logique en vue d’offrir un environnement propice aux personnes, aux biens et aux

affaires. En cela, la prévention des conflits et l’extinction de ses propres foyers de tension devraient être une

priorité.

b) La lutte contre la pauvreté

La crise de la fin des années 80 avait affecté le système de production des Etats, mais la pauvreté s’est fortement

accrue dans la plupart des pays africains au lendemain de la chute du mur de Berlin.

Selon certains analystes, cette situation est imputable à une consolidation du capitalisme et à une répartition

inéquitable des ressources nationales.

De plus en plus, les indicateurs de pauvreté atteignent des niveaux élevés, précisément dans les domaines de:

• la santé (accès aux soins primaires, sida, paludisme, mortalité infantile et maternelle...);

• l’éducation (infrastructures socio-éducatives, analphabétisme, scolarisation des jeunes filles);

• l’emploi (chômage);

• des infrastructures de base.

Cela nécessite de la part du continent une rigueur dans la gestion des biens publics.

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C a r i t à P o l i t i c a 51

c) La bonne gouvernance

Pour jouir de leur place sur l’échiquier international et surtout mériter la confiance de leurs pairs, les pays

africains doivent respecter scrupuleusement les règles de bonne gouvernance auxquelles ils ont volontairement

adhéré sur le plan international et qu’ils ont parfois consignées dans leurs législations nationales. Il s’agit,

entre autres:

• De l’instauration d’une justice indépendante afin de lutter contre l’impunité;

• Du respect des droits de l’homme et des libertés fondamentales;

• De l’instauration d’une vraie démocratie ainsi qu’un mécanisme d’alternance au pouvoir;

• D’une répartition équitable des biens publics par la rémunération de la force de travail de la population et

par la réalisation d’investissements publics en sa faveur;

• D’une gestion saine et contrôlée des ressources de l’Etat en vue de lutter contre la gabegie;

• De favoriser l’émergence d’une société civile forte.

Conclusion

La chute du mur de Berlin et la fin de la guerre froide ont permis à un vent de liberté et de démocratie de souffler

sur l’Afrique. Or les attributs de la démocratie véritable, à savoir respect des droits de l’homme, reconnaissance

de la dignité intrinsèque de tous les humains, liés à un minimum de conditions de vie décente et donc de dévelop-

pement continuent de faire défaut à ce continent.

Certes, la fin du communisme a pu faire penser à un monde avec une seule puissance dominante. On assiste ce-

pendant à une certaine évolution avec l’émergence de puissances régionales, telles la Chine, le Brésil et l’Inde.

L’Afrique doit, quant à elle, se défaire de ses tares pour jouer pleinement sa partition dans la mondialisation afin

de ne plus être considérée comme un continent dont la seule utilité demeure ses richesses naturelles.

Rome, 2 décembre 2009

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52 C a r i t à P o l i t i c a

Les contacts entre les peuples ont été limités pendant des millénaires à ce que nous appelons des relations entre

Etats; les princes décidaient entre eux de la paix ou de la guerre, délimitaient les frontières et se partageaient les

territoires sans consulter les populations. Si celles-ci se soulevaient au nom d’un idéal de justice elles étaient vite

ramenées à l’obéissance par la force; il n’était pas jusqu’à la religion du peuple qui ne fût déterminée par celle du

prince: cujus regio, ejus religio6.

Un changement a eu lieu avec l’avènement de la démocratie; la généralisation de ce système de gouvernement de-

vait avoir rapidement une incidence sur l’exercice du pouvoir au plan national avant de faire sentir ses effets au

plan international. Les «forces d’idéal», ces mouvements de masse qui inscrivent des valeurs dans la politique,

tendent désormais «à proclamer à nouveau leur foi dans les droits fondamentaux de l’homme… et à créer les condi-

tions nécessaires au maintien de la justice»7 comme à imposer leurs vues à ceux qui les gouvernent. La chute du

mur de Berlin offre la possibilité d’observer le processus par lequel la pression des populations a conduit à ce ré-

sultat. Le but de cette intervention est d’attirer l’attention sur la part prise par l’Eglise dans la mobilisation de

l’opinion pour se libérer du carcan politique dans lequel elle était maintenue.

La situation au sortir de la guerre de 1939.

Un changement radical a eu lieu sur la scène internationale avec le déclanchement de la deuxième guerre mondiale.

Les dirigeants du monde libre ont alors été convaincus de ce que la paix à venir devrait reposer sur d’autres bases

que celles qui avaient été données à la S.D.N. Celle-ci n’avait pas été l’organisation mondiale dont on attendait

qu’elle maintînt la paix dans le monde du fait, entre autres, de son manque d’universalité; les Etats-Unis s’étaient

tenus en dehors; par ailleurs, le Japon, l’Allemagne, l’Italie et l’URSS l’avaient quittée pour des motifs divers. De

plus, L’Organisation internationale du Travail à laquelle la partie XIII du Traité de Versailles avait donné mission

d’assurer la paix dans le monde par la justice sociale avait manqué, elle aussi, de l’universalité requise et avait

été privée, en fait, de toute possibilité d’influencer directement les politiques gouvernementales; elle avait toutefois

maintenu vivante l’idée de justice sociale dans une partie de l’opinion et son premier directeur Albert Thomas

avait été un promoteur ardent de l’union des forces d’idéal: «Vous avez votre foi, j’ai la mienne» devait-il dire aux

syndicats chrétiens réunis en congrès à Münich en 1928 affirmant que des objectifs concrets pouvaient être pour-

suivis ensemble.

Deux hommes d’Etat se sont souciés dès le début de la guerre de 1939 de la construction d’un nouvel ordre mondial

lorsque la paix serait revenue ainsi qu’en témoigne l’échange de lettres entre Roosevelt et Pie XII à l’occasion des

fêtes de Noël de 1939; ils ont pu ainsi exprimer leur souci commun et se réjouir de ce que la voix qui «monte du

cœur des masses… montre le chemin à suivre pour la reconstruction du monde»8. L’un et l’autre ne se doutaient pas

alors du problème devant lequel ils allaient se trouver après 1945, celui d’une scission idéologique et politique entre

les pays occidentaux et l’URSS, scission qui serait aggravée par la mainmise de cette dernière sur ce que l’on ap-

pellerait les pays de l’Est. En fait cette annexion concourrait à sa perte; il s’agissait en effet de pays dont les popu-

PADRE JOSEPH JOBLIN S.J.Pontificia Università Gregoriana

LE LENT GRIGNOTAGE DE L’EMPIRE COMMUNISTE PAR LES«FORCES D’IDÉAL: LE CAS DU SAINT-SIÈGE»

6 J. LECLER, Histoire de la tolérance au siècle de la Réforme Aubier Paris 1955 vol. pp. 402 et 452.7 CHARTE DES NATIONS UNIES, Préambule.8 P. BLET et alii, Actes et documents du Saint-Siège Vaticano t.I 1965 documents 233 et 240.

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C a r i t à P o l i t i c a 53

lations avaient une tradition démocratique; sans doute serait-elle étouffée�dans un premier temps; il s’agirait alors

de voir comment elle serait réanimée. Le Saint-Siège a pris part à ce réveil tant sur le plan théorique que pratique.

Elaboration d’une stratégie par le Saint-Siège.

La dissociation des sentiments profonds des populations des valeurs que voulait leur imposer le régime communiste

a été au cœur de la stratégie du Saint-Siège. Un des tout premiers indices de l’importance à accorder à la survivance

de la culture des peuples et l’impuissance de leurs gouvernants à la détruire se trouve dans le Radio Message aupeuples portugais du 31 octobre 1942: «Mais de uma vez» à l’occasion des solennités célébrées en l’honneur de

Notre Dame de Fatima. L’occasion en était le témoignage de reconnaissance du peuple portugais attribuant à la

Vierge de Fatima d’avoir été protégé de «l’immense malheur actuel». Le message dont le contenu est d’un style

circonstanciel et religieux se termine par une prière de Pie XII; or celle-ci contient une phrase qui mérite de retenir

l’attention. Après avoir évoqué «la paix dans la vérité, dans la justice, dans la charité du Christ» et demandé à la

Vierge d’obtenir «la paix et la liberté complète à la Sainte Eglise de Dieu» et de «(contenir) le déluge matérialiste

du néo-paganisme) le Pape a cette phrase étonnante:

Aux peuples séparés par l’erreur et la discorde, spécialement à ceux qui vous ont voué une particulière dévotion,

tellement qu’il n’était chez eux aucun foyer où ne brillât votre véritable icône (maintenant parfois cachée et ré-

servée pour des jours meilleurs) donnez la paix et reconduisez les à l’unique troupeau du Christ, sous l’unique et

vrai Pasteur.

La Russie de l’histoire est ici opposée à l’URSS. Ce conflit peut être lu à deux niveaux; tout d’abord il pourrait ne

s’agir que d’une formule oratoire évoquant la résistance du peuple russe aux tentatives du régime de détruire la

religion; mais la suite des événements, notamment les Radio�messages de Noël 1954 et 1956, montre l’importance

donnée par Pie XII à cette opposition de la foi et de l’idéologie; il fait de leur dissociation le point de départ d’une

réflexion sur la chute à venir du communisme en Russie. Les Radio messages de Noël de 1954 et de 1956 conduisent

à cette interprétation car ils évoquent la force qui peut résulter de la conjonction par-dessus le Rideau de fer de

mouvements populaires voulant construire la «coexistence dans la vérité».

Radio Message de Noël 1954On ne peut construire dans la vérité un pont entre ces deux mondes séparés si ce n’est en s’appuyant sur

les hommes qui vivent de part et d’autre, et non pas sur les régimes et systèmes sociaux. … en attendant

avec confiance en la divine clémence que le pont spirituel et chrétien, déjà existant en quelque mesure entre

les deux rives, acquière une stabilité plus grande et plus efficace.

S’appuyer sur des hommes qui, de part et d’autre, ont conservé d’une manière plus ou moins vive l’empreinte

du Christ.

Radio Message de Noël 19569

Nous sommes persuadés qu’aujourd’hui encore, en face d’un ennemi résolu à imposer à tous les peuples,

d’une manière ou d’une autre, une forme de vie particulière et intolérable, seule une attitude unanime et

forte de la part de tous ceux qui aiment la vérité et le bien peut sauver la paix et la sauvera.

La situation actuelle qui n’a pas d’équivalent dans le passé, devrait cependant être claire pour tout le monde.

Il n’y a plus lieu désormais de douter des buts et des méthodes qui existent derrière les tanks, quand ceux-

ci font irruption avec fracas pour semer la mort au-delà des frontières, pour contraindre des peuples civilisés

à une forme de vie qu’ils abhorrent nettement.

A quelle fin, du reste raisonner quand on n’a pas de langage commun, ou comment est-il possible de se ren-

contrer si les voies divergent, si d’un côté on repousse et on nie obstinément les valeurs communes absolues,

rendant ainsi irréalisable toute «coexistence dans la vérité»?

9 Ce message se situe immédiatement après l’occupation de la Hongrie par les troupes communistes et l’opération franco-anglaise à Suez; ilfait une longue référence explicite à ces deux évènements.

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54 C a r i t à P o l i t i c a

Pour Pie XII, «bien que la guerre froide… maintienne le monde dans une nuisible scission, elle n’empêche pourtant

pas jusqu’à présent que ne batte en lui un intense rythme de vie». Cette sentence tirée du message de 1954 permet

de comprendre toute la philosophie qui anime le Pape. Le monde, les individus, les sociétés qu’ils forment ne peu-

vent être équilibrés, en paix, que si leurs comportements respectent les structures fondamentales qui leur ont été

données par Celui qui les a créés. L’une de celles-ci se trouve être la liberté pour chercher la vérité et y adhérer;

elle peut être combattue par les institutions politiques; elle peut se trouver comme endormie mais elle ne peut être

anéantie. La construction de la paix se fera donc dans et par la reconnaissance de cette vérité. Adhérant par la foi

à cette anthropologie, il en conclut que la résistance «unanime et forte» de tous ceux qui reconnaissent la vérité

«peut sauver la paix» et, ajoute-t-il, «la sauvera». Un théologien10 commentant ce futur se demandera si on ne

peut y voir comme l’annonce d’une prophétie, celle de la disparition des blocs et il ajoute ce qui va directement à

notre propos11:

Cette «attitude unanime et forte», le chef de la chrétienté l’attend non pas des «nations» dont il parlera en-

suite, mais «de tous ceux qui aiment la vérité et le bien»… Son armée pacifique, capable d’unir deux mondes

et de sauver la paix, «existe déjà en quelque mesure» et il attend avec confiance l’avenir. (Il s’agit de ce)

«pont spirituel et chrétien, déjà existant en quelque mesure entre les deux rives».

Il est intéressant de rapprocher l’attitude de Pie XII appelant à défendre les valeurs fondamentales de l’existence

comme condition préalable à l’établissement d’une «paix universelle et durable»12 avec celle de David Morse,

alors Directeur général du Bureau international du Travail et aux prises lui aussi avec le problème de la coexis-

tence. Il est vrai qu’une différence fondamentale les sépare car leur rôle sur l’échiquier politique n’est pas le même;

si l’un et l’autre veulent assurer au monde entier le bénéfice de la liberté l’un dénonce les erreurs qui ne peuvent

qu’aggraver les fractures entre les blocs tandis que l’autre poursuit son but en exploitant les possibilités de détente

qui lui restent au paroxysme de la guerre froide.

Les Soviétiques avaient cessé de participer aux activités de l’OIT (Organisation internationale du Travail) dans

les années qui précédèrent la guerre13; ils décidèrent d’y reprendre leur place durant la guerre froide. Ils firent

alors une déclaration en ce sens au Directeur Général du BIT (Bureau international du Travail, secrétariat de

l’Organisation) du fait du droit de tout membre de l’ONU d’être membre de ses Institutions spécialisées. Une note

verbale fut présentée en ce sens par l’ambassadeur soviétique à Berne en 195314; mais elle comprenait une réserve

à l’égard de la compétence de la Cour internationale de justice. Devant le refus qui leur fut opposé étant donné

qu’il s’agissait d’un principe constitutionnel de l’Organisation les Soviétiques s’inclinèrent et participèrent aux

activités de l’OIT à partir de 1954; ils envoyèrent une délégation tripartite c’est-à-dire de délégués ayant droit de

vote dans les trois collèges que constituent les représentants des gouvernements, des travailleurs et des employeurs.

Mais ces deux derniers protestèrent; les travailleurs et les employeurs soviétiques furent accusés d’être des délégués

gouvernementaux camouflés puisqu’ils votaient toujours avec les représentants du ministère du travail. On ne pou-

vait échapper au dilemme ou de maintenir l’institution telle qu’elle avait été créée par le Traité de Versailles pour

guider l’évolution du système capitaliste ou de modifier les règles en vigueur. Les partisans de la première solution

parlaient d’un «club» dont les règles avaient été établies et dans lequel on pouvait entrer seulement en les acceptant.

Le Directeur Général réussit à faire prévaloir l’idée de l’universalisme en persuadant les deux parties qu’elles

10 G. FESSARD, Libre méditation sur un message de Pie XII, Noël 1956 Paris Plon 1957 p. 230�; R. GRAHAM, «Pius XII and the “greatdebate” in the United States» in The Vatican and communism during World War II Ignatius press San Francisco 1960 pp. 34-40.

11 Op.cit. pp. 112-113.12 Constitution de l’O.I.T.�Préambule: «Attendu qu’une paix universelle et durable ne peut être fondée que sur la base de la justice sociale»13 L’URSS participa aux activités de l’OIT de 1934 à 1937�et le président du groupe travailleur (Léon Jouhaux France) s’y félicita de la présence

des représentants des syndicats soviétiques; exclue de la SDN en 1939 «elle cessait d’avoir droit automatiquement à la qualité de membrede l’Organisation internationale du Travail» cf. P. DIMITRIJEVIC, L’Organisation internationale du Travail. Histoire de la représentationpatronale Georg Genève 1972 pp. 404-413.

14 L’Ukraine et la Biélorussie firent alors la même démarche étant également membres de l’ONU.

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C a r i t à P o l i t i c a 55

avaient à réexaminer les principes sur lesquels ils s’appuyaient pour le bien de la paix15. On pouvait relever là des

éléments de convergence entre les pratiques de Morse et de Pie XII d’autant que celui-ci avait consacré un passage

de son Message de Noël 1956 à ce qu’il appelait «une prudente réévaluation des valeurs en cause» pour dégager

les principes d’action qui en avaient été tirés de ce qui ne leur était pas essentiel mais tenait à des circonstances

historiques particulières; après avoir dénoncé «l’homme moderne» qui aborde la réalité sociale «avec le geste du

technicien» et son «désir de créer des choses entièrement nouvelles». Pie XII déclarait:

C’est seulement en appuyant les nouvelles fondations sur ces couches solides (que sont les contributions

positives fournies par les générations précédentes) qu’il est possible de construire encore quelque chose de

nouveau. La domination de l’histoire sur les réalités sociales du présent et de l’avenir est donc incontestable;

et ne peut être négligée de quiconque veut y mettre la main pour les améliorer et les adopter aux temps nou-

veaux.

Bien que Pie XII et Morse aient traité de l’attitude vis-à-vis du communisme en partant de préoccupations tout à

fait éloignées ils se sont rencontrés sur nombre d’affirmations: le rassemblement de tous les Etats en une commu-

nauté mondiale est le but de toute politique; les initiatives et mesures qui renforcent les divisions doivent être écar-

tées; la paix est une valeur supérieure; celle-ci n’est pas seulement l’absence de guerre mais elle suppose une

communion des esprits; un lien existe entre justice et paix et les divergences sur le contenu de la justice à un moment

donné doivent être résolues pacifiquement. Une telle recherche est possible car l’un et l’autre affirment l’existence

d’une norme supérieure autour de laquelle peut s’opérer le dialogue; mais c’est seulement avec Jean XXIII et Paul

VI que celui-ci pourra s’engager.

Une convergence existait entre les deux lignes suivies par Pie XII et David Morse; il est vrai que leur point de vue

était différent puisque l’un mettait en garde contre la contagion communiste dans les pays où les populations bé-

néficiaient d’une liberté et que l’autre cherchait à maintenir des relations avec un régime que les années passées

avaient montré «résolu à imposer à tous les peuples, d’une manière ou d’une autre, une forme de vie particulière

et intolérable»(Pie XII) . Mais tous deux étaient d’accord qu’il appartenait aux populations jouissant de la liberté

d’empêcher qu’un tel évènement ne se produisît; ils se retrouvaient alors sur la stratégie à adopter et sur le terrain

tactique. Sur la stratégie, il s’agissait d’introduire les principes d’une «saine démocratie» dans les pays de l’Est

pour que cessât la menace qui pesait sur le monde libre16; sur la tactique, un tel résultat serait acquis dans la

mesure où se réveillerait l’opinion publique dans les pays privés de liberté et à cette fin il convenait de se livrer à

un harcèlement des autorités communistes portant sur la distance existante entre leur pratique et les libertés aux-

quelles ils avaient souscrit par leurs engagements internationaux. L’application de la convention sur la liberté

syndicale fut l’un des thèmes favoris de cette contestation. Cette convergence des préoccupations de l’Eglise et

des pays de l’Ouest n’était pas sans risque; il s’agissait pour l’Eglise d’empêcher que son opposition au commu-

nisme ne devienne une «croisade» qui risquerait de «dégrader les valeurs religieuses et de profaner le sacré en

les asservissant à des buts charnels et temporels»17; d’où le rappel du Pape que le jugement qu’elle porte sur les

questions d’actualité sont fonction de ce qu’elle croit devoir être la fin de l’histoire�et qu’elle «anticipe» dans le

présent ce qui sera; elle éveille les consciences à cette perspective quel que soit le régime politique en place; elle

s’adresse aussi bien aux populations tant de l’Ouest que de l’Est pour leur rappeler que toute politique digne de

l’homme demande de respecter sa dignité et que celle-ci exige de créer les conditions nécessaires à l’exercice d’un

jugement libre; telle est la conviction commune qui seule peut permettre la construction d’un «pont spirituel» entre

les deux rives séparées de l’Europe.; elle se rencontre ici avec les Institutions internationales dont la vocation est

de tenter surmonter les divisions du monde; certes ces dernières agissent d’une manière empirique et conduisent

15 Notamment dans les Réponses du Directeur Général à la discussion de son rapport à la Conférence internationale du Travail des années1955 à 1960.

16 PIE XII, Radio message Noël 1954.17 G. FESSARD, op.cit. p. 94.

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56 C a r i t à P o l i t i c a

leur action en s’abstenant de toute référence à un système philosophique; mais le fait qu’elles fassent admettre le

principe de l’existence de valeurs communes comme la liberté, la paix ou la solidarité même si les uns et les autres

leur donnent des applications concrètes différentes montre que les gouvernants des blocs, quelque soit leur entê-

tement idéologique, ont le pressentiment de pouvoir se rencontrer au nom d’une vérité supérieure, même s’ils ne

savent pas l’identifier. Il n’y a qu’à citer David Morse18:

Nous traitons ici des valeurs humaines. Nos débats et nos discussions traduisent ici l’idée que se font les hommes

et la forme qu’ils voudraient donner au monde où ils vivent. Et cette idée n’est point partout la même. La hiérarchie

des valeurs diffère avec les personnes, et je ne parle pas uniquement ici des valeurs matérielles, mais encore des

valeurs sociales, morales et spirituelles. Les hommes s’efforcent d’atteindre leurs objectifs dans des mouvements

sociaux et politiques qui comportent parfois des heurts et des conflits. C’est peut-être l’évidence même, mais c’est

là, à mes yeux, le point de départ de toute action internationale.

Les principes généraux… n’ont pas la même valeur pour tous et bien souvent, en vérité, ils n’ont pas le même sens

pour tous. …Il ne faut pas oublier non plus que dans une assemblée comme la nôtre que … (tel) courant historique

n’a de signification que pour une partie du monde.

L’opposition très ferme de Pie XII à la pénétration communiste en Europe a conduit certains à présenter ce pape

comme un esprit fermé à toute évolution. Ce jugement est faux comme nous l’avons vu: d’une part il refusa d’en-

gager l’Eglise dans une croisade politique comme certains le souhaitaient à l’Ouest et d’autre part il fixa sa pensée

sur l’avenir en pressentant que celui-ci résulterait de l’union des hommes de bonne volonté quel que soit le régime

politique dans lequel ils vivaient. Cette attitude fit apparaître l’Eglise comme un interlocuteur incontournable sur

la scène internationale. Gromyko recevant une délégation de communistes italiens à Moscou le 10 janvier 1958

leur déclarant que l’URSS avait des intérêts avec le Vatican pour la paix.

Le pontificat de Jean XXIII

Jean XXIII a été élu pape le 28 octobre 1958. Les relations USA/URSS passaient par des hauts et des bas et étaient

marquées par deux raidissements la construction du mur de Berlin (13 août 1961) et l’affaire des fusées à Cuba

(22-28 octobre 1962); mais par ailleurs, le 20 septembre 1961 les Etats-Unis et l’URSS «se (mettaient) d’accord

sur une déclaration en huit points pour un désarmement général et complet, par étapes successives et sous un

contrôle international constant et systématique»19; de plus furent alors conclus des traités fondamentaux comme

celui de 1963 sur l’interdiction des expériences atomiques dans l’atmosphère, l’espace atmosphérique et sous

l’eau20.

Jean XXIII use alors de� l’autorité morale qu’il a acquise par l’allure débonnaire avec laquelle il exerce sa charge,

le style concret qu’il a donné à sa première encyclique Mater et Magistra, son intervention lors de la crise de Cuba,

la convocation du concile Vatican II destiné à mettre à jour la pratique de l’Eglise et la publication en 1963 de

l’encyclique Pacem in Terris; celle-ci l’a mis en contact direct avec les populations car il leur a dit que la paix dé-

pendait d’elles et qu’il était urgent de développer la collaboration entre tous les hommes de bonne volonté; il rap-

pelait la différence entre les mouvements politiques qui relèvent des idéologies des gouvernements et les courants

sociaux ou «forces d’idéal» dont la vie est assurée par la recherche de la vérité par les populations.

La réflexion de Pie XII sur les pays communistes était avant tout intellectuelle; elle s’appuyait sur des arguments

de raison pour prévoir que la mobilisation des bonnes volontés retirerait au pouvoir soviétique la base populaire

sans laquelle aucun régime ne pourrait durer. Cette méthode d’analyse était traditionnelle en Occident; mais elle

avait une limite. Celle-ci vient de ce qu’elle opère une coupe verticale dans la réalité en soumettant celle-ci à une

doctrine définie comme a priori; elle ne dépasse pas la représentation du monde en blocs rivaux�et n’entrevoit la

fin de leur opposition que par la disparition de l’un d’entre eux. Le génie de Jean XXIII sera de substituer à ce

18 D. MORSE, «Réponse à la discussion du Rapport du Directeur Général» in CONFERENCE INTERNATIONALE DU TRAVAIL 39/1956,Compte-rendu provisoire p. 468.

19 Cardinal CASAROLI, «La Santa Sede e i problemi del disarmo» in Nella Chiesa e nel mondo Rusconi Milano 1987 p. 291.20 D’autres traités seront conclus dans les années suivantes, entre autres: 1967 concernant l’usage pacifique de l’espace extra atmosphérique,

1968 le traité de non prolifération des armes nucléaires, 1972 la prohibition des armes bactériologiques et toxiques, 1972, SALT 1.

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C a r i t à P o l i t i c a 57

type d’analyse une autre qui, au lieu de partir de vérités abstraites au nom desquelles on juge le présent, considère

ce dernier dans son développement historique. Il ne fait aucun exposé doctrinal mais part de l’affirmation fonda-

mentale et première que tout homme a, aujourd’hui plus que jamais, conscience d’être titulaire de droits et qu’il a

la volonté de les faire reconnaître quelque soit le régime politique dans lequel il se trouve vivre. La concrétisation

de cette volonté généralisée implique d’établir un dialogue sur un pied d’égalité entre les systèmes et à l’intérieur

de ceux-ci entre les partenaires sociaux. Une reconnaissance réciproque de la dignité de l’autre permet seule d’éta-

blir des rapports non plus seulement de cohabitation ou de non agression mais de coexistence; elle seule peut

conduire à une véritable coopération. La vie internationale ne se limite plus ici à la recherche d’alliances défensives

et à la conclusion de traités de non agression; elle ne vise pas non plus à un accord de pensée entre des hommes

qui ont des conceptions du monde, de la culture différentes ou opposées21: «L’accord peut se faire spontanément

… sur l’affirmation d’un ensemble de convictions dirigeant l’action. Cela est peu sans doute. C’est le dernier réduit

de l’accord des esprits; c’est assez cependant pour entreprendre une grande œuvre; et ce serait beaucoup de prendre

conscience de cet ensemble de communes convictions pratiques».

Jean XXIII eut le temps quelques semaines avant sa mort de mettre en œuvre cette philosophie politique; en initiant

les rapports avec les gouvernements de l’Est et en en tirant une règle d’action dans son encyclique Pacem in Terris.

C’est en effet sous Jean XXIII qu’a commencé l’Ostpolitik du Vatican. En 1962 quelques évêques de l’Est étaient

venus au concile et en avril 1963 Mgr Casaroli s’était rendu à Budapest et à Prague22 quant à l’encyclique sur la

paix, son retentissement fut immense dans l’opinion; elle ne réduisait plus la réalité internationale à la confrontation

de deux blocs et affirmait que la paix dépendait du droit de chercher la vérité et de vivre selon les impératifs de sa

conscience droite. Pacem in Terris eut un large écho en dehors des milieux ecclésiastiques; la propagande com-

muniste avait en effet alerté l’opinion mondiale sur l’importance qu’il convenait de donner à la paix et sur les dan-

gers que la politique de l’Ouest lui faisait courir; c’est ainsi que l’Appel de Stockholm lancé en 1950 recueillit

500 millions de signatures; ce seront 700 millions d’adhésion qui seront recueillies lorsqu’il sera renouvelé à

Vienne en 1955. Quant à la Conférence chrétienne pour la paix créée en 1958 et dont le siège sera à Prague elle

déclarera dans sa Déclaration de Principes23: «l’état présent de la christianité exige, vu l’urgente nécessité d’ins-

taurer la paix, la création et l’existence de mouvements chrétiens qui ne soient liés ni confessionnellement ni ré-

gionalement».

Le pontificat de Paul VI

Paul VI se trouva confronté avec deux stratégies possibles: ou bien reprendre l’opposition au bloc communiste sur

le plan doctrinal ou bien rechercher à travers des contacts que le cardinal Casaroli qualifierait de «grignotage»

patient l’ouverture à une plus grande liberté et un plus grand respect des droits de l’homme. Il suivit nettement la

politique inaugurée par son prédécesseur s’appliquant avec patience à desserrer les liens qui faisaient obstacle à

l’action de l’Eglise. Il serait erroné de voir dans la politique à l’Est suivie par les cardinaux Casaroli et Silvestrini

la seule conjonction de l’habileté et de la ténacité de deux diplomates sachant tirer profit des circonstances; leur

politique obéissait à la volonté de faire reconnaître, tant par l’Ouest que par l’Est, certains principes, dont celui

de la liberté religieuse, comme fondement d’une coexistence pacifique entre les peuples; telle était l’une des moti-

vations du Saint-Siège lorsqu’il accepta de participer à la Conférence pour la sécurité et la coopération en Europe

(CSCE), appelée aussi le processus d’Helsinki.

Les Soviétiques ont cherché longtemps à obtenir la réunion d’une conférence paneuropéenne dont le principal ré-

sultat eut été de faire reconnaître comme définitive la frontière Oder/Neiss. Une proposition en ce sens fut formulée

par Molotov en 1954 exprimant le souhait que tous les Européens concluent un «Traité général» en vue d’assurer

la sécurité du continent; de même, en 1957, le ministre des Affaires étrangères de Pologne, Rapacki, proposa un

plan pour la dénucléarisation de l’Europe; �mais ces initiatives survenues en pleine guerre froide furent tenues

21 Intervention de Maritain à la deuxième conférence générale de l’UNESCO à Mexico en 1947.22 Cardinal CASAROLI, op.cit. pp. 309-310.23 J. JOBLIN, L’Eglise et la guerre DDB Paris 1988 p. 171.

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pour des tentatives de séparer les pays européens des Etats-Unis24; aussi n’eurent-elles pas de suite. Des signes de

détente se manifestèrent par la suite et les nouvelles initiatives de l’Est à Bucarest (1966), à Budapest (1969) et

Moscou (1969)�souhaitant que soit organisée une réunion générale sur la sécurité en Europe reçurent un écho fa-

vorable. La Finlande remit aux divers Etats européens (dont le Saint-Siège)25 un aide-mémoire pour les informer

de sa disponibilité à accueillir une telle conférence. Paul VI a expliqué aux membres du Sacré Collège en juin

1973 les raison pour lesquelles il avait décidé de s’associer à ce processus�car la «paix se construit d’abord dans

les esprits et dans le cœur de l’homme» :

C’est cette conscience qui a amené le Saint-Siège à accueillir ces jours-ci l’invitation à prendre pat à la

Conférence sur la Sécurité et la Coopération en Europe, qui s’ouvrira à Helsinki au début du prochain mois

de juillet. C’est une initiative qui intéresse non seulement l’Europe, mais la famille entière des nations. La

participation du Saint-Siège, discrète sans doute, veut signifier un encouragement pour cette difficile en-

treprise et souligner l’importance primordiale des facteurs culturels et de droit parmi les conditions qui

peuvent en assurer les résultats.

Les mots «facteurs culturels et de droit» condensent tout ce qui constitue l’essentiel de la politique du Saint-Siège

pour la paix; toutes les interventions de ses représentants lors des réunions qui ont constitué le processus d’Helsinki

(1973-1975-1989) ont rappelé sans cesse que toute politique de paix doit respecter ce qui fait la structure fonda-

mentale de tout être humain, à savoir sa volonté d’agir librement et de façonner la société où il vit selon les valeurs

qu’il a choisi d’y inscrire. Cette conviction est à l’origine des interventions que fit Mgr Zabkar, le représentant du

Saint-Siège, lors dès discussions préparatoires�en 1973; celles-ci portaient sur la manière de «promouvoir des

rapports amicaux entre les peuples», il demanda que la liberté religieuse fût explicitement mentionnée parmi les

droits de l’homme26 et que l’on favorisât «un accroissement des échanges d’informations religieuses et des possi-

bilités de contacts et de rencontres entre les organisations confessionnelles pour des motifs religieux». Ces divers

points furent repris par Mgr Casaroli dans la séance de clôture des la phase préparatoire; il y souligna que le res-

pect des droits de l’homme permettrait à l’avenir d’éviter de graves troubles intérieurs qui, en dépit du principe

de non-intervention, pourraient mettre en péril la tranquillité des autres pays; il ajouta qu’une coexistence solide

devait reposer sur la reconnaissance de la réalité profonde de l’homme27.

Le pontificat de Jean-Paul II

Un changement notable peut être observé dans les relations des deux blocs à la fin du pontificat de Paul VI. Non

seulement il est clair qu’ils ne recourront pas à l’usage de l’arme atomique car leurs réserves de têtes atomiques

et de fusées sont telles que ce serait s’assurer une destruction mutuelle mais il y a surtout recherche par les gou-

vernements des conditions d’une coexistence pacifique fondée sur l’acceptation de valeurs communes. Or ce projet

n’est pas resté au niveau des chancelleries; les populations ont voulu prendre part à la définition de leur contenu.

Tandis que quelques groupes plus ou moins clandestins se constituaient en se réclamant des principes adoptés à

Helsinki, entre autre en Tchécoslovaquie avec Havel, un phénomène d’une autre ampleur allait prendre place en

Pologne. L’Eglise qui a été durant des siècles dans ce pays la gardienne de l’identité nationale allait se trouver

24 Cardinal CASAROLI, Nella Chiesa per il mondo. Omelie e discorsi Rusconi Milano 1987 pp. 359-380; G. BARBERINI, “La partecipazionedella Santa Sede alla Conferenza di Helsinki”. “Un contributo alla tutela dei diritti umani e della libertà religiosa” in S. FERRARI e T. SCO-VAZZI, La tutela della libertà religiosa CEDAM Padova 1988 pp. 149-192; G. BARBERINI (ed.), La politica del dialogo. Le Carte Casarolisull’Ostpolitik vaticana Il Mulino Bologna 2008 p. 881; G. RULLI, Per un Europa senza frontiera. Da Yalta a Helsinki Adkronos Roma1985 p. 374; J. JOBLIN, “La liberté religieuse et l’Acte final d’Helsinki” in Apollinaris LXV (1992) pp. 351-374.

25 La caution apportée par le Saint-Siège à la tenue de cette conférence permettait de faire tomber nombre de préventions dans l’opinion oc-cidentale.

26 Le représentant suédois employa le mot de «bombe» pour qualifier cette intervention�cf. G. BARBERINI, «La partecipazione…» op.cit.p. 174.

27 Intervention du 6 juillet 1973.

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jouer un rôle de catalyseur des aspirations populaires. La couverture qu’elle apporta à la création de Solidarnosc

et le succès rencontré par cette organisation auprès de la population ont fait de ce qui n’aurait été qu’un incident

intérieur dans les années 50 un cas international. Les valeurs professées à ce niveau: négociation collective, indé-

pendance des organisations syndicales, liberté de réunion et d’expression reflétaient tellement les aspirations de

la population que la pression internationale pût obliger le gouvernement à abandonner la politique de répression

qu’il avait cherché à mener en instituant l’état de siège et qui menait à l’abandon de la politique proclamée à Hel-

sinki; une stratégie non-violente tendant à une certaine démocratisation s’imposait28.

Un mot livré dans une conversation par Jerry Turowicz, directeur de l’hebdomadaire catholique publié à Cracovie,

Tygodnik Pochewski, peut résumer le rôle que peuvent jouer les forces d’idéal dans l’évolution des situations po-

litiques. Invité à donner un avis sur la situation à la suite du deuxième voyage de Jean-Paul II en Pologne, il répondit:

tout peut arriver; et comme il était pressé de préciser sa pensée il ajouta: le peuple a pris conscience de sa force.

Un regard prospectif s’impose au terme de cette brève étude. Une question vient en effet à l’esprit: s’il est exact

que les «forces d’idéal» ont eu un rôle essentiel dans la mobilisation des esprits et des volontés dans le demi-siècle

de guerre froide ont-elles encore un rôle à jouer une fois que celle-ci est terminée�? Deux observations peuvent

être faites à ce propos: d’une part, les mouvements d’opinion sont appelés à contrebalancer les pouvoirs écono-

miques et financiers des sociétés mondialisées; ce sont eux qui peuvent donner aux gouvernements nationaux ou

régionaux les raisons de résister aux pressions de ceux qui veulent favoriser la seule croissance économique en

marginalisant les plus faibles; d’autre part, cette opposition idéaliste ou culturelle aux politiques économiques et

financières repose sur une anthropologie; le danger est de ne pas prendre celle-ci en considération et de se laisser

entraîner par des aspirations généreuses, séduisantes certes, mais dangereuses comme le fut le communisme. Le

rappel de vérités fondamentales auquel se consacre l’Eglise offre un point autour duquel peuvent se rassembler

les diverses tendances, mouvements et intérêts pour chercher ce qui garantit dans le moment présent �la croissance

humaine de tous les hommes et de tout l’homme dans la vérité.

Rome, 2 décembre 2009

28 M. THEE, «The Polish drama: Its meaning and international impact» in Journal of Peace Research N° 1, vol. XIX 1982 pp. 1-8; F. BLAN-CHARD, L’Organisation internationale du Travail. De la guerre froide à un nouvel ordre mondial... Seuil Paris 2004 spécialement: La Po-logne pp. 171-210: «A aucun moment la convergence entre la doctrine de l’Eglise et la philosophie de l’OIT n’a pris une expression aussidramatique qu’à l’occasion de la visite de Jean-Paul II à Genève, dans le climat d’extrême tension causée par la lutte des travailleurs polonaisen quête de liberté et de justice» (p.183).

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Excellences,

Mesdames, Messieurs et chers Amis,

C’est toujours un bonheur et un honneur de répondre à votre invitation, cher Professeur Alfredo Luciani, de dialoguer

avec un parterre d’ambassadeurs dans le cadre des rencontres de Carità Politica, honneur et bonheur redoublés, et

même triplés aujourd’hui, d’intervenir avec S. E. Stanislas de Laboulaye, Ambassadeur de France près le Saint-Siège,

et S.E.Luiz Felipe de Seixas Corrèa, Ambassadeur du Brésil; que je salue bien respectueusement et très cordiale-

ment.

Le thème de notre rencontre, «la chute du mur: 1989-2009», est un sujet de grande actualité que vous avez déjà lar-

gement commenté au cours des mois écoulés. Pour ma part, en ces quelques instants, je voudrais revenir avec vous

sur l’évènement lui-même, vu par ses protagonistes, son importance historique, sa perception actuelle à vingt ans de

distance, ses conséquences immédiates et ses répercussions lointaines à l’aube du troisième millénaire.

Tout d’abord, l’évènement, voici vingt ans. Nous avons peine aujourd’hui à nous l’imaginer. Je me rappelle ma pre-

mière venue à Berlin pour participer comme Chef de la Délégation du Saint-Siège à la IVème Conférence des Ministres

européens responsables des affaires culturelles de l’Union Européenne,- nous étions alors, si je me souviens bien, 24

- sur Objectifs culturels et technologies de la communication en Europe, du 22 au 25 mai 1984. Dans mon intervention

(DC, n. 1878, 15 juillet 1984, pp. 760-772), je déclarais: «un discours à Berlin, sur la culture de l’Europe ne peut

omettre une référence obligée à l’ensemble de ce continent». C’était, voici donc un quart de siècle, et je garde très vif

le souvenir de mon retour à Berlin en décembre dernier pour une rencontre, «à 60 ans de la Déclaration des Droits

de l’Homme», j’étais stupéfait, et je le demeure, de découvrir une métropole si changée qu’elle est vraiment devenue

nouvelle.

Tant d’analyses ont commenté et interprété les raisons de la chute du mur. Pour ma part, j’ai retenu de ce grand his-

torien que fut Fernand Braudel la conviction que les grands évènements dont la poussée ébranle le monde ne sont ja-

mais la résultante d’une cause unique, mais la conséquence de multiples données d’ordre divers dont la conjonction

devient, à un moment donné, irrésistible.

1. L’un des principaux protagonistes, Michail Gorbaciov, partage aujourd’hui un mélange de fierté pour avoir été

à l’origine des réformes qui ébranlèrent l’Europe, et en même temps de regrets pour la disparition de l’URSS, qu’il

dut entériner le 25 décembre 1991. À vingt ans de distance, il demeure convaincu, contre toute évidence, que ces deux

objectifs contradictoires étaient compatibles: le rétablissement de la souveraineté des peuples et le maintien de l’URSS.

Un autre protagoniste essentiel, le Pape Jean-Paul II, était plus lucide quand il me disait, au terme d’une conversation

confiante, dans un français lapidaire: «le problème de Gorbaciov, c’est qu’il doit changer de système sans changer

le système».

Mais Gorbaciov n’était pas seul à se tromper; tous les hommes politiques d’alors se sont trompés avec lui, comme

l’avoue Gorbaciov, en évoquant sa visite officielle en Allemagne de l’Ouest, en juin 1989. Le Chancelier Helmut Kohl

était convaincu avec lui que la réunification de l’Allemagne n’était pas d’actualité, mais que c’était plutôt un problème

pour le XXIe siècle (La Stampa, 10 novembre 2009, Analisi di un protagonista «Ora giù il muro con la Russia»).

François Mitterrand, quant à lui, était partisan d’une confédération à deux piliers: la Communauté Européenne à

l’Ouest, et l’Europe de l’Est réformée par la Perestroika. Margaret Thatcher, elle, était agressivement hostile à l’uni-

S.E.R. CARDINAL POUL POUPARDPresidente Emerito del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso Presidente Emerito del Consiglio Pontificio della Cultura

LA CADUTA DEL MURO 1989-2009

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C a r i t à P o l i t i c a 61

fication de l’Allemagne. Quant au Président américain, Bush avait demandé à Gorbaciov:  «Pourquoi avez-vous tel-

lement peur de l’Allemagne?» - Ma réponse, dit-il: «C’était plutôt lui, selon la formule de l’Alliance atlantique: «to

keep the Russians out, the Americans in and the Germans down». Pour Gorbaciov, entre Kohl et Bush, il y avait une

sorte de complicité. Quant au gouvernement est-allemand, Gorbaciov raconte de façon surréaliste le 40e anniversaire

de la RDA. Pendant la parade militaire, dans la tribune officielle, Mieczyslaw Rakovski, Premier Ministre polonais,

avec le Général Jaruzelski, se penche vers mon oreille: «Michail Sergueievitch, vous comprenez l’allemand?» – «Suf-

fisamment pour comprendre ce que scandent les manifestants» – R: «Vous comprenez que c’est la fin!» En revanche,

le chef du parti est-allemand, Heinrich Honecker, chantait à tue-tête et ne comprenait rien». Gorbaciov conclut son

témoignage avec réalisme: «Chacun de nous faisait à sa manière des tentatives pour prédire l’histoire, et nous nous

sommes tous trompés (Le Monde, 6 nov. 2009).

2. Giulio Andreotti, vingt ans après la chute du mur, revient sur le séisme politique qui a ébranlé les pays sous régime

communiste de l’Europe de l’est, le processus de réunification de l’Allemagne et la fin du bipolarisme. Le 9 novembre

1989, il était à la tête du gouvernement italien et l’Italie détenait le Présidence semestrielle de la Communauté euro-

péenne: «Aujourd’hui – confesse-t-il (30giorni, 2009/9) –, tout cela semble clair aux historiens, mais à l’époque c’était

bien différent». Et de citer ce que disait le Président Mitterrand, le 2 octobre 1989, à Jacques Attali, qui l’a enregistré:

«Ceux qui parlent de la réunification de l’Allemagne ne comprennent rien. L’Union Soviétique ne l’acceptera jamais.

Ce serait la mort du Pacte de Varsovie. Qui peut imaginer cela?».

Le 18 novembre suivant, à Paris, soit neuf jours après la chute du mur, les leaders des 12 pays de la Communauté

Européenne, invités par Mitterrand pour discuter de la situation, Kohl se trouve en difficulté, Margaret Thatcher

est farouchement hostile à la réunification, qui est, pour Mitterrand comme pour l’Espagne, «une éventualité his-

torique». Mais Andreotti affirme que l’Europe encourage et souhaite la réunification de l’Allemagne «dans le

contexte d’une accélération du processus d’intégration du géant allemand». Kohl avait déjà dit à Mitterrand, lors

du Sommet bilatéral franco-allemand du deux novembre que, pour être sûr que l’Allemagne ne soit plus un pro-

blème, il fallait faire l’Europe.

3. Comme le souligne Vladimir Fédoroski, ancien diplomate russe (Le roman de l’âme slave, aux éd. Du Rocher,

2009), sans Gorbaciov, cela aurait pu se terminer dans un bain de sang. En 1985, tout en conduisant le deuil au

Kremlin, Gorbaciov avait dit aux chefs des pays membres du Pacte de Varsovie: «Vous savez, camarades, je vous

préviens que la doctrine Brejnev est terminée. Ce qui veut dire que Moscou n’interviendra plus par la force dans les

«pays amis». Fédorovski confie qu’un jour, Gorbaciov lui a dit, en petit comité: «je suis un mauvais tsar. Un bon

tsar, c’est un tsar qui tue». Et il tint parole. Au coup de fil des Polonais qui lui demandent que faire avec Solidarnosc

et la Table ronde, il répond: «il faut continuer».

4. Autre témoignage, celui de Joachim Jauer, alors correspondant de la TV est-allemande, ZDF, qui raconte la

scène incroyable du 2 mai 1989, en Hongrie, à Hegyeshalom, point de passage entre Budapest et Vienne, où il est

convié pour filmer des soldats de l’armée hongroise, sans armes, mais munis de coupe-boulons, qui, au commande-

ment: «en avant», se mirent à couper le rideau de fer, les officiels expliquant que les grillages barbelés barrant la

frontière étaient rongés par la rouille et que l’argent manquait pour le réparer! Le Premier Ministre, Miclos Németh,

n’avait pas demandé l’autorisation à Gorbaciov, mais l’avait simplement informé (Nouvelle Cité, n° 537, novembre

2009, p.8-11).

Pour ma part, j’ai gardé un vif souvenir de mon dîner à Rome avec Imre Poszgay, Ministre sans portefeuille et homme

fort du parti, membre du dernier gouvernement communiste de Miclos Németh, qui a tout déclenché en ouvrant les

frontières de son pays. À partir du moment où les Allemands de l’Est pouvaient passer librement en Hongrie et où,

de la Hongrie, ils pouvaient librement passer en Allemagne de l’Ouest, le mur de Berlin était déjà tombé. Je me rap-

pelle bien notre conversation: les responsables percevaient que la situation ne pouvait plus durer, - à part Honecker

-: la phrase célèbre de Gorbaciov à l’aéroport, au moment de quitter Berlin: «Virez-moi ce vieux stalinien!».

Enfin, la gaffe incroyable du porte-parole duComité central du Parti communiste, Günter Schabowski, qui, à dix-huit

heures, en ce 9 novembre, annonce que de nouvelles modalités vont permettre aux citoyens de la RDA de voyager

plus facilement à l’Ouest, et qui, pris au dépourvu par la question d’un journaliste, lâche alors, en farfouillant dans

ses notes: «Cette disposition prend effet immédiatement». Interrogé, Moscou ne répond pas. L’armée laisse faire. A

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62 C a r i t à P o l i t i c a

19h05, les premières dépêches d’Associated Press, et à minuit Berlin est ville ouverte, le mur tombé sans un coup de

feu, grâce aussi peut-être à l’improbable et impensable surprise.

5. De fait, le chancelier Helmut Kohl s’était envolé, à la mi-journée, à destination de Varsovie, pour une visite offi-

cielle, rien de spécial ne le retenant en Allemagne ce jour-là. Mais l’homme d’Etat se révèle immédiatement, impro-

visant ses choix devant l’inattendu, donnant des marks prestigieux de l’Ouest en échange de la monnaie exsangue de

l’Est, au grand scandale de sa Banque centrale, expliquant à Jean Boissonnat, membre du Conseil de la politique

monétaire de la Banque de France, que, faute de cela, ce sont des millions d’hommes de l’Est qui auraient déferlé sur

l’Ouest, et alors ce n’est plus le communisme qui aurait eu besoin d’un mur pour empêcher ses ressortissants de

sortir, mais le capitalisme qui aurait pu être contraint d’en édifier un pour les empêcher d’entrer (Berlin 1989, j’y

étais, dans Ouest-France, 5 novembre 2009).

6. Autre témoignage, fort différent, d’un autre protagoniste, Lech Walesa, créateur de Solidarnosc le 31 août 1980,

qui affirme: «Le renversement du Mur revient à 50°/° au pape Jean-Paul II, à 30 °/° à Solidarnosc, et seulement à 20

°/° au reste du monde» (Paris-Match n°3156, 12-18 novembre 2009).

7. At last, but not least, le Pape Jean-Paul II a consacré tout le chapitre III de son encyclique Centesimus annus, une

quinzaine de pages, à L’année 1989. Avec un certain recul -l’encyclique est datée du 1er mai 1991-, il revient sur «la

portée inattendue et prometteuse des événements de ces dernières années», avec, comme «point culminant, sans aucun

doute», «les événements survenus en 1989 dans les pays de l’Europe centrale et orientale». Sa première affirmation

(n°22) est que «l’Eglise a fourni une contribution importante, et même décisive, par son engagement en faveur de la

défense et de la promotion des droits de l’homme…, et cela a conduit à rechercher des formes de lutte et des solutions

politiques plus respectueuses de la dignité de la personne», victime «d’une douloureuse série d’injustices et de ran-

coeurs, qui s’ajoutent à une économie désastreuse et à de pénibles conflits sociaux». «Pour Jean-Paul II (n°23), parmi

les principaux facteurs de la chute des régimes oppressifs, certains méritent d’être rappelés d’une façon particulière».

Et il en énumère trois: le premier, qu’il qualifie de «facteur décisif…, est assurément la violation des droits du tra-

vail… Les foules ouvrières elles-mêmes ôtent sa légitimité à l’idéologie qui prétend parler en leur nom». Le second

(n°24) est «bien certainement l’inefficacité du système économique, … conséquence de la violation des droits humains

à l’initiative, à la propriété et à la liberté dans le domaine économique», avec la méconnaissance de «la dimension

culturelle et nationale». «Mais, ajoute-t-il, la cause véritable de ces nouveautés est le vide spirituel provoqué par

l’athéisme… Le marxisme s’était promis d’extirper du c ur de l’homme la soif de Dieu, mais les résultats ont montré

qu’il est impossible de le faire sans bouleverser le c ur de l’homme».

II. Jean-Paul II poursuit sa réflexion, et ce sera la seconde partie de mon exposé, sur les enseignements des «évè-

nements de 1989». Pour lui (n°29), ils constituent «un avertissement pour tous ceux qui, au nom du réalisme politique,

veulent bannir de la politique le droit et la morale» et (n°26) ils ont «une portée universelle, car il en est résulté des

conséquences positives et négatives qui intéressent toute la famille humaine». Et il en énumère quatre: la première

est «dans certains pays, la rencontre de l’Eglise et le mouvement ouvrier… La crise du marxisme n’élimine pas du

monde les situations d’injustice et d’oppression que le marxisme lui-même exploitait et dont il tirait sa force». – La

seconde «concerne les peuples d’Europe», où «bien des injustices… ont été commises…, bien des haines et des ran-

coeurs… accumulées», qui «risquent fort d’exploser avec violence, provoquant de graves conflits et des deuils», ce

qui appelle «des structures internationales capables d’intervenir pour l’arbitrage convenable dans les conflits qui

surgissent entre les nations» marquées par «la réalité de l’interdépendance des peuples». – La troisième est que «pour

certains pays d’Europe, c’est, en un sens, le véritable après-guerre qui commence». Et «la restructuration radicale

des économies jusque-là collectivisées» appelle «l’effort solidaire des autres nations».- «Enfin (n°29), le développe-

ment ne doit pas être compris d’une manière exclusivement économique, mais dans un sens intégralement humain»,

avec la reconnaissance des «droits de la conscience humaine», car «les anciennes formes de totalitarisme et d’auto-

ritarisme ne sont pas encore complètement anéanties»; manquent «la reconnaissance et le respect de la hiérarchie

des vraies valeurs de l’existence», et enfin «dans certains pays, apparaissent de nouvelles formes de fondamentalisme

religieux».

Jean-Paul II se montre ainsi meilleur prophète qu’un américain plutôt myope, Francis Fukuyama, directeur adjoint

de la cellule stratégique du Département d’Etat. Bien loin d’être finie, au lendemain de la chute du mur en 1989,

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C a r i t à P o l i t i c a 63

l’histoire ne cesse de se renouveler, et selon l’Editorial de La France Catholique du 13 novembre dernier, nous

sommes, à 20 ans de distance, devant «un avenir encore plus incertain». C’est plutôt le monde bipolaire qui est fini.

L’Allemagne s’est réunifiée, l’Union européenne a élargi ses frontières de manière inimaginable voici 20 ans, avec

l’entrée des nations qui ont retrouvé la liberté après la chute du Mur. Mais Union plus grande ne veut pas nécessai-

rement dire Union plus forte. L’Europe donne un peu le sentiment d’être inceppata, comme entravée, embarrassée.

Certains observateurs, tels John Bolton (Liberal, 25 novembre 2009), n’hésitent pas à dire que l’Union européenne

a une valeur inférieure à la somme de ses parties, et que les Etats-Unis le savent bien.

Pour le cinéaste polonais Krzyysztof Zanussi (Tempo di morire, Spirali, 2009), l’Europe se meurt d’avoir toujours

des squelettes dans le placard, faute d’avoir le courage de se confronter avec son histoire tragique du XXème siècle,

fascisme, nazisme, communisme, et ainsi de vieilles revanches demeurent prêtes à exploser. Le fait de ne pas avoir

une conscience purifiée empêche de regarder l’avenir avec confiance et enthousiasme.

III. Quelques réflexions et souvenirs personnels, en guise de conclusion. Quand le jeune pape Jean-Paul II, que

j’accompagnais à l’UNESCO le 2 juin 1980, après l’avoir reçu la veille à l’Institut catholique de Paris dont j’étais

Recteur, me demandait, quinze jours après, de revenir à Rome pour prendre la suite du cardinal Franz König à la

présidence du Secrétariat pour les non-croyants, il me demandait aussitôt de créer le Conseil pontifical de la culture,

dans la conviction, exprimée dès les premiers mots de la Lettre autographe de création du Dicastère: «Dès le début

de mon pontificat, j’ai considéré que le dialogue de l’Eglise avec les cultures de notre temps était un domaine vital

dont l’enjeu est le destin du monde en cette fin du XXème siècle». Et d’ajouter: «Là même où des idéologies agnostiques,

hostiles à la tradition chrétienne, ou même franchement athées, inspirent certains maîtres de pensée, l’urgence pour

l’Eglise d’entrer en dialogue avec les cultures n’en est que plus grande pour permettre à l’homme d’aujourd’hui de

découvrir que Dieu, bien loin d’être le rival de l’homme, lui donne de s’accomplir pleinement, à son image et res-

semblance» (Osservatore Romano, 21-22 mai 1982).

En même temps, dans un tête à tête confiant, il me précisait sa pensée: «Pratiquement, me disait-il, le seul dialogue

qui a eu lieu jusqu’ici, c’est le dialogue avec les athées au pouvoir. Ce dialogue a une composante politique, et en

cela il diffère des deux autres sphères de dialogue, l’ cuménisme et l’interreligieux. Mais il ne se réduit pas non plus

à la composante politique». C’est ainsi que j’ai organisé un premier Colloque à Ljublana en mai 1984 sur «Science

et foi», à l’Académie slovène des sciences, qui, tout en étant un organe du pouvoir, était un lieu de débats, et a ainsi

consenti une première brèche dans le système, puisque nous avons conclu d’un commun accord que l’Eglise comme

la science avaient un égal besoin de liberté.

Deux ans plus tard, ce fut à Budapest, en mars 1986, une rencontre à haut risque, où les soviétiques se sont invités

par l’intermédiaire du philosophe Jozsef Lukacs, sous la conduite de Viktor Garadza, pour un débat sur «Société et

valeurs éthiques». Si l’homme de Moscou était le leader incontesté pour la délégation compacte de la Deutsche De-

mokratische Republik, Eva Ancsel, professeur de philosophie à l’Université de Budapest, a créé l’évènement en de-

mandant de réintégrer les réalités importantes du réel, l’amour, la souffrance et la mort, dans le discours

philosophique. Quant à Tadeusz Pluzanski, de l’Académie polonaise des sciences, loin de se confiner aux citations

obligées de Karl Marx, il se référait, et non sans une certaine complaisance, à Jacques Maritain, Emmanuel Mounier

et Gabriel Marcel, et il terminait son brillant exposé par une citation de l’encyclique Laborem exercens de Jean-Paul

II sur le travail humain.

Un coin de plus enfoncé dans le système marxiste-léniniste, le bloc lézardé en 1986 à Budapest se fissurait ouverte-

ment, alors que je présidais du 18 au 21 octobre 1989 à Klingenthal, avec Evgenij Silin, vice-président du Comité so-

viétique pour la sécurité et la coopération en Europe, le Colloque sur «le rôle de la civilisation dans la construction

de la maison commune européenne», pendant que l’Envoyé de Jean-Paul II, Monseigneur Sodano, rencontrait à Mos-

cou Gorbachiov pour préparer sa rencontre historique du 1er décembre suivant avec le pape Jean-Paul II (Athéisme

et dialogue 1989/4).

Je l’avais oublié, mais je m’en suis rappelé en lisant dans le dernier n° de la Revue Histoire du Christianisme (sep-

tembre/novembre 1989, p.4-11), l’article de Bernard Lecomte, Gorbatchev à Rome: La chute du mur de la haine, titre

qu’il reprend de mon interview à Radio-Vatican: «Le cardinal Poupard célèbre sur Radio Vatican, après la chute du

mur de Berlin, la chute du mur de la haine, se réjouissant que désormais nous puissions dialoguer comme des frères

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64 C a r i t à P o l i t i c a

convaincus que Dieu n’est plus l’ennemi de l’homme, et que tous les hommes puissent travailler ensemble pour bâtir

la maison commune». Et Bernard Lecomte conclut son article en écrivant, et ce sera aussi ma conclusion: «Toujours

est-il qu’une page est tournée, ce 1er décembre 1989. Lorsque la Zil de Gorbatchev quitte la Cité du Vatican, le

cardinal Poupard, qui vient de suivre la visite sur son téléviseur, en petit comité, à deux pas de Saint-Pierre, lâche un

long soupir: «Je crois que nous sortons d’un long cauchemar…». Excellences et chers amis, «S’il y a une leçon es-

sentielle à tirer des événements d’il y a vingt ans, c’est que l’Histoire peut basculer. Elle n’est pas forcément soumise

à des mécanismes inflexibles et il y a des moments où l’héroïsme de la volonté peut s’opposer victorieusement à la fa-

talité. Comment oublier que l’un des premiers responsables de ce grand basculement historique s’appelle Jean-Paul

II? C’est lui qui, seul contre tous, s’est dressé contre l’hydre totalitaire un beau jour sur la place de la Victoire à Var-

sovie. C’est lui que le peuple polonais a suivi en fondant Solidarnosc. Et c’est depuis la Pologne que le processus

s’est développé jusqu’à provoquer la chute du mur de Berlin. Grâce soit rendue à ce grand pape!».

Rome 9 décembre 2009

1) Il y a vingt ans la chute du Mur de Berlin a représenté pour les Allemands, les Européens et le monde un évé-

nement capital. Evénement qui était comme le point d’orgue d’une évolution qui affectait principalement ce

qu’on appelait alors le «bloc soviétique» avec des épisodes marquants dès la fin des années 1970: l’élection de

Jean-Paul II et le mouvement Solidarnosc en Pologne mais aussi -moment capital bien évidemment- l’arrivée

à la tête des organes dirigeants de l’URSS de Mikhaïl Gorbatchev en 1985 et la décision prise de ne plus faire

usage de la force, comme cela avait été le cas en 1968 en Tchécoslovaquie, pour maintenir le système en place.

Comme je l’ai dit, la chute du Mur a été le point culminant d’un bouleversement qui affectait toute l’Europe de

l’Est, événement majeur qui mettait un terme à la division de l’Europe, résultat de la guerre et de l’occupation

soviétique, mais également parce qu’elle annonçait la réunification, au cœur de l’Europe, de l’Allemagne.

Pour le plus grand voisin de l’Allemagne, pour le pays qui avait décidé de lier son destin politique et économique

de façon intime pourrait-on dire depuis les années 1950 à l’Allemagne, pour la France, cette évolution, vécue

avec une énorme sympathie par l’opinion, posait un certain nombre de défis majeurs pour son avenir, en rame-

nant à la surface de la mémoire collective des appréhensions anciennes forgées par une histoire douloureuse.

La question en somme était la suivante: la France avait fait un choix délibéré depuis la fin de la Deuxième

guerre en se souvenant des erreurs commises au lendemain de la Première guerre mondiale, de faire de son ad-

versaire, de son ennemi de la veille, son premier partenaire. Les dirigeants français depuis les années 1950

avaient trouvé chez les dirigeants allemands des hommes d’Etat qui partageaient cette vision a bien des égards

utopique, de créer un lien d’interdépendance si étroit qu’aucune guerre ne pouvait plus intervenir entre des

pays qui semblaient jusque là presque condamnés à se combattre. C’est ainsi que Robert Schuman avait jeté les

fondements de la Communauté Européenne du Charbon et de l’Acier en 1950-1951 avec le Chancelier Adenauer

et que s’étaient rassemblés autour de ce projet inédit les pays fondateurs de la communauté européenne en

quatre groupes de pays d’un poids politique et économique à peu près comparable: Allemagne, France, Italie

et Benelux. Cette aventure unique dans l’histoire des nations s’était poursuivie en 1959 avec la signature du

STANISLAS DE LABOULAYEAmbasciatore della Francia presso la Santa Sede

«LA CHUTE DU MUR DE BERLIN -UN DÉFI POUR LA FRANCE»

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C a r i t à P o l i t i c a 65

Traité de Rome entre les sept mêmes partenaires et en 1963 le Traité de l’Elysée signé par le Général de Gaulle

et Adenauer qui solennisait entre la France et l’Allemagne ce lien que l’on voulait indéfectible au cœur du dis-

positif qui se mettait en place en Europe de l’Ouest.

2) En France en 1989, le Président de la République était François Mitterrand élu en 1981. Socialiste, il avait fait

entrer des ministres communistes dans ses premiers gouvernements. Européen convaincu, profondément marqué

par l’histoire tragique de l’Europe et des conflits franco-allemands, il avait forgé avec le Chancelier Kohl un

lien personnel semblable à celui qui avait uni avant lui le Chancelier Schmidt au Président Giscard d’Estaing,

ainsi qu’Adenauer et de Gaulle. C’est dans le contexte de la relation si particulière de la France et de l’Alle-

magne que je voudrais évoquer ce qu’a représenté pour mon pays la chute du Mur de Berlin et la perspective

de l’unité allemande: ce défi politique majeur qu’a affronté le Président Mitterrand pour surmonter les réflexes

qu’auraient pu faire surgir chez un homme de sa génération, malgré son indéniable satisfaction à voir s’effondrer

le glacis soviétique, un «retour de l’histoire» avec toutes ses potentialités de tragédies et de guerres.

On se réfère souvent au Général de Gaulle, sceptique sur la pérennité des idéologies et des systèmes politiques;

il ne croyait pas au caractère durable de l’URSS ou du bloc communiste: de Gaulle ne parlait jamais que de la

«Russie». Mitterrand n’avait peut-être pas la même vision géo-stratégique du monde. Toutefois, lui qui voyait

se désagréger en France un parti communiste qui ne croyait plus en sa propre idéologie, prévoyait comme le

rappelle Hubert Védrine son ancien porte-parole, dès octobre 1981, devant un Helmut Schmidt dubitatif que

d’ici «15 ans» l’URSS serait trop affaiblie pour empêcher la réunification allemande.

Plusieurs sources concordent sur ce point : Mitterrand avait la prémonition de ce qui allait arriver, prémonition

renforcée encore lorsqu’il a pris conscience que Gorbatchev installé en 1985 n’allait pas user de la force pour

empêcher des évolutions qui lui semblaient inéluctables. C’est sans aucun doute cette prémonition, mais égale-

ment la crainte que cette évolution risquait de provoquer des déséquilibres dangereux en Europe, qui expliquent

la détermination, à partir de 1983, du Président Mitterrand à renforcer le lien franco-allemand et la construction

européenne. Il est certain toutefois que la rapidité avec laquelle ces événements sont intervenus a décontenancé

Mitterrand et semblé le mettre parfois sur la défensive au risque de le faire apparaître comme tentant de freiner

un mouvement que pourtant il savait légitime et inéluctable. Mais il était trop conscient de la fragilité européenne

pour ne pas éprouver de crainte. Pour Hubert Védrine, le vieux président «ressent, récapitule, (…) les angoisses

françaises face à une construction européenne qui n’est pas encore irréversible». Il s’en est justifié devant le

Chancelier Kohl dans des termes d’un réalisme que certains pourraient juger trop cru: le 15 février 1990, il dit

ainsi au Chancelier: «on ne peut pas attendre de moi que je parle comme un patriote allemand mais comme un

patriote français. Ce qui m’intéresse c’est comment aborder les conséquences de l’unification». Mitterrand s’est

placé délibérément dans une position qui a étonné beaucoup de ses contemporains, qui a provoqué des tensions

importantes dans la relation franco-allemande, et qui a mis à l’épreuve son amitié avec le Chancelier Kohl.

Certains historiens ont jugé qu’il n’avait pas compris ou accepté l’enjeu de la chute du Mur. Au contraire, j’es-

time que c’est bien plutôt parce qu’il en avait compris l’enjeu mais surtout parce qu’il en mesurait les dangers

si le processus n’était pas contrôlé que Mitterrand a agi comme il l’a fait. En cela son attitude et ses choix di-

vergeaient profondément de ceux de Mme Thatcher dont la culture politique n’était pas fondée sur les mêmes

paramètres. Son ancien conseiller diplomatique de l’époque, Loïc Hennekinne écrit: «S’il avait exprimé trop

fort son soutien à la réunification, il lui aurait été difficile d’en négocier les modalités avec Bonn».

3) Un des soucis essentiels de Mitterrand concernait les frontières et plus spécifiquement la frontières germano-

polonaise, la frontière Oder-Neïsse. Le 10 novembre1989, le chancelier Kohl avait déclaré; «Je reconnais la

frontière avec la Pologne en tant qu’Allemand de l’Ouest, mais je ne suis pas habilité à parler au nom de l’Al-

lemagne tout entière, et l’Histoire a sa dynamique». Certes si le Chancelier Kohl restait délibérément dans le

flou, c’est qu’il ne souhaitait pas s’aliéner le vote de millions d’Allemands réfugiés ou descendants de réfugiés.

Mais le Président Mitterrand considérait que l’ambiguïté de ces propos était dangereuse. Il n’a eu de cesse que

de pousser le Chancelier Kohl à franchir le pas de la reconnaissance. Cette affaire durera plusieurs mois,

jusqu’au 8 mars 1990 date à laquelle le Bundestag reconnaît l’inviolabilité de la frontière Oder-Neïsse à l’una-

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nimité moins cinq abstentions. L’épisode a toutefois été douloureux dans la relation franco-allemande et dans

la relation personnelle entre le Chancelier Kohl et le Président Mitterrand. Un deuxième souci majeur du Pré-

sident Mitterrand était le sort de Mikhaïl Gorbatchev. Le Président était convaincu qu’une réunification trop

rapide des deux Allemagnes conduirait à renverser le numéro un soviétique et de ce fait à provoquer une nouvelle

grave tension Est-Ouest avec le risque fort d’un conflit armé. A Kiev le 6 décembre 1989 Gorbatchev dit à Mit-

terrand: «Aidez-moi à éviter la réunification allemande sinon je serai remplacé par un militaire…». Mitterrand

ne s’engage à rien auprès de Gorbatchev mais, selon Hubert Védrine, il était très frappé par les propos du di-

rigeant soviétique. Il dira à Kohl en janvier 1990: il faut que «l’unité allemande ne soit pas faite de telle sorte

(…) qu’on entende des bruits de bottes en URSS». Il ajoute: «le sort de Gorbatchev dépend en partie de vous».

Kohl acquiesce. Mais un mois plus tard, ce sera Gorbatchev lui-même qui déclarera accepter l’unité allemande.

4) Toutefois le souci prédominant de Mitterrand concernait la construction européenne. C’est là qu’il retrouvait la

convergence de vues avec son partenaire allemand convaincu que seul un nouvel approfondissement de l’union

européenne pouvait faire accepter l’élargissement allemand et stabiliser les pays de l’Europe de l’Est sortis de

la tutelle soviétique. Dès la fin de novembre 1989 le Chancelier Kohl écrit au Président Mitterrand une lettre

qui va dans ce sens. Il s’agissait, selon les termes du document, de réformer le Traité de Rome pour modifier les

institutions européennes tout en jetant les bases de l’Union économique et monétaire.

Cette approche à la fois politique et économique, qui au départ a décontenancé Mitterrand avant tout focalisé

sur l’Union économique et monétaire et non sur le renforcement des institutions européennes, allait être reprise,

après quelques mois de flottements, dans une lettre commune Kohl-Mitterrand du 19 avril 1990 où les deux di-

rigeants proposaient non seulement un rythme accéléré pour l’union monétaire mais aussi de nouvelles initiatives

en matière d’union politique (plus de pouvoirs au Parlement européen, renforcement de la coopération politique

et de défense). L’ensemble des partenaires de la Communauté Economique Européenne partageaient le sentiment

d’urgence de Kohl et de Mitterrand: si l’on ne passait pas rapidement à un accord sur ce nouveau cadre d’in-

tégration européenne, ce serait sans doute le début de l’effondrement de l’aventure européenne telle qu’elle

avait été initiée en 1950. C’est ce sentiment d’urgence qui explique l’accord intervenu les 9 et 10 décembre

1991 à Maastricht sur le traité sur l’Union européenne qui stipulait entre autres que l’Union monétaire pleine

devait s’achever avant la fin de la décennie. Le traité de Maastricht a été ratifié (non sans mal) puis est entré

en œuvre en novembre 1993. L’Euro de son côté sera enfin mis en œuvre en 2002.

* * *

J’ai tenu à faire ce rappel au moment où l’on célèbre cet anniversaire pour montrer comment en France le Président

de la République de l’époque a fait des choix qui se sont avérés sans aucun doute les meilleurs à terme pour la re-

lation de la France avec l’Allemagne, pour l’Europe dans son ensemble et sans doute aussi pour la relation de

l’Europe avec la Russie. Maastricht a été un choix avant tout politique, une façon de sortir par le haut des appré-

hensions suscitées par l’unité allemande et des risques de désordres européens tout à fait réels. La Yougoslavie se

désagrégeait au même moment dans une série de conflits sanglants, à quelques centaines de kilomètres des capitales

d’Europe occidentale. L’Europe de l’Est aurait pu connaître un destin semblable.

Le Traité de Maastricht allait se montrer un instrument d’intégration essentiel et créer un pôle d’attraction puissant

pour permettre l’entrée en 2004 de dix nouveaux Etats-membres dans la Communauté européenne. Le renforcement

des pouvoirs du Parlement européen, voulu par l’Allemagne, a constitué un élément important de démocratisation

des institutions européennes. Mais c’est bien évidemment la mise en œuvre de l’Union économique et monétaire

avec le lancement de l’Euro en 2002 qui allait représenter le véritable saut qualitatif dans une intégration que l’on

voudrait irréversible. Elle a permis en tout cas à l’Union européenne de faire face à la grave crise économique de

ces deux dernières années. Le Traité de Lisbonne, en train d’être mis en œuvre, devrait permettre, nous l’espérons,

de franchir encore une étape./.

Rome, 9 décembre 2009

66 C a r i t à P o l i t i c a

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C a r i t à P o l i t i c a 67

Quando il muro di Berlino cadde fisicamente, il 9 novembre del 1989, si sono prodotte sensazioni ambivalenti nel

mondo. Da una parte, euforia fra quelli che celebravano l’esaurimento dell’Unione Sovietica ed il trionfo del liberismo

economico sul cosiddetto “socialismo reale”. Dall’altra, una certa apprensione tra coloro che vedevamo nella caduta

del Muro, più che la fine di un’era, l’inizio di un periodo sconosciuto di trasformazioni sulla scena internazionale

dagli esiti, allora, imprevedibili. Queste ambivalenze esistono tuttora, anche se ormai accompagnate da sensazioni di

fatalismo, mancanza di alternative, di una curiosa miscela di idee o di mancanza di idee, che ci accompagna e ci in-

quieta in questo nuovo millennio, aggravate, ultimamente, dalla crisi economica e finanziaria che viviamo. Il concetto

di globalizzazione – onnipresente nelle analisi politiche, economiche e sociali dagli anni novanta in poi – è nato, in

qualche modo, con la caduta del Muro. Traduce, o quanto meno traduceva all’inizio, idee di convergenza, di unità,

visioni condivise, spazi comuni. Si è andata formando l’impressione, nell’immediato “post-muro”, che si era alle

soglie di una nuova epoca di pace e prosperità condivise, riparati da un nuovo ordine guidato da una Superpotenza

“benigna”, gli Stati Uniti. Oggi, tuttavia, queste aspettative positive sono state ridimensionate da una serie di situazioni

ed eventi che si sono succeduti disordinatamente sul piano internazionale. In una conferenza da me tenuta nel 1999,

all’Università di São Paulo, durante le celebrazioni del decennale della caduta del muro, citai: Somalia, genocidio

nella regione dei Grandi Laghi, “effetto tequila”, risultati squilibrati dell’Uruguay Round, Bosnia, crisi economica

asiatica del 1997, stallo del processo di pace in Medio Oriente, competizione nucleare tra India e Pakistan, incertezze

della transizione nei paesi socialisti dell’Europa Orientale, crisi russa dell’agosto del 1998, Angola, Iraq, Kossovo,

crisi economica brasiliana e latinoamericana, nuova sensazione di insicurezza riguardo il futuro del continente, Timor

Est, aumento della distanza tra i paesi ricchi ed il mondo in via di sviluppo, rischi ricorrenti di un neo-isolazionismo

degli USA, e così via. Oggi, dieci anni dopo, aggiungerei: gli attacchi alle Torri di New York, le guerre conseguenti

in Iraq e Afghanistan, la serie di attentati terroristici in grande scala in varie parti del mondo, la minaccia di nuclea-

rizzazione della Corea del Nord e dell’Iran e, più recentemente, la crisi scoppiata nel 2008, e protrattasi nel 2009 con

il crollo di Wall Street e con l’incapacità della comunità internazionale di arrivare ad accordi globali su commercio

e ambiente. Questo, senza tener conto dei gravi problemi sociali, a quelli legati ai fenomeni migratori e alla fame in

diverse parti del mondo. Di fronte all’impatto negativo di queste realtà, non ci meravigliamo se il concetto di “nuovo

ordine internazionale” sia caduto praticamente in disuso. La comunità internazionale ha fatto pochi progressi nello

stabilire un quadro normativo basato sul diritto, sulla ricerca di consensi e sul rafforzamento delle istituzioni multi-

laterali. La riforma dell’ONU e, in modo particolare, per fare un esempio, del Consiglio di Sicurezza rimane bloccata.

L’ordine internazionale viene imposto dalle politiche di potere, dalle convenienze e dai limiti di queste.

Viviamo, oggi, in un’atmosfera di apprensione. Esiste una percezione diffusa che il progresso materiale rimanga

concentrato in nicchie molto ristrette, non siamo stati in grado neppure di intravedere forme innovatrici di supera-

mento dell’esclusione. L’agenda dei problemi mondiali continua a sfidare la capacità di reazione e azione congiunta

della comunità internazionale. L’esempio più recente è dato dalle difficoltà nello stabilire norme consensuali per

affrontare la minaccia globale rappresentata dai cambiamenti climatici.

Diventa lecito, quindi, domandarsi: siamo in una situazione peggiore rispetto a quella di venti anni fa? Il mondodel Muro di Berlino, dell’ordine internazionale bipolare era migliore e più sicuro?Non credo che possiamo dare risposte tassative a queste domande. Il momento sembra più adatto ai mezzi toni,

S.E. LUIZ FELIPE DE SEIXAS CORRÊAAmbasciatore del Brasile presso la Santa Sede

LA CADUTA DEL MURO 1989-2009

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68 C a r i t à P o l i t i c a

alle vaghe impressioni e alle sensazioni ambivalenti. Non possiamo sottostimare la cosiddetta “agenda negativa”.

Tuttavia, così come l’eccesso di ottimismo di venti anni fa era ingiustificato, pare altrettanto eccessivo il pessimismo

odierno. È evidente che lo scenario internazionale continua ad essere fonte di enormi preoccupazioni, ma sarebbe

una dimostrazione di ingenuità immaginare che le cose sarebbero potute andare diversamente, che sarebbe stato

possibile confermare tutte le aspettative ottimiste derivanti dalla caduta del muro.

Indubbiamente vi sono stati miglioramenti nello scenario mondiale dalla Caduta del Muro di Berlino. Mi-glioramenti significativi.Molte volte critichiamo il fatto che le decisioni relative ad alcune questioni internazionali significative, vengano

prese ai margini dell’ONU. Sarebbe però il caso di ricordare che, fino al 1989, le grandi decisioni internazionali

erano ancora prese dalle uniche due Superpotenze di allora, in una rigida logica di confronto Est-Ovest. Dobbiamo

tenere ben presente questa circostanza visto che si ricomincia a parlare della costituzione di un G-2 relativo al

nuovo ordine mondiale, tra gli Stati Uniti e Cina. La comunità internazionale, per la verità, non è riuscita ad avanzare

per quanto riguarda le strutture di un “nuovo ordine mondiale”, anche se, oggi, l’agenda internazionale appare più

flessibile all’inclusione di altri temi rispetto a quelli derivati dalla logica del potere e dalle considerazioni strategiche

delle grandi potenze. La democrazia ha fatto importanti passi avanti – nell’Europa Orientale stessa, in Asia e in

Africa. In America Latina, la fine degli autoritarismi ha aperto la strada a riforme significative. Il MERCOSUL si

è dotato di una “clausola democratica”. Il valore di questo “bene comune della democrazia” è incalcolabile per

l’insieme della nostra regione. In generale, in tutto il mondo, i regimi di forza hanno cominciato a trovare seri osta-

coli, o almeno ad affrontare disagi nel esistere in modo slegato dalla comunità internazionale.

Un crescente numero di paesi ha cominciato ad accettare, e a difendere, il concetto che i diritti umani e l’ambiente

sono tematiche universali, che non possono essere evitate con argomenti quali la sovranità nazionale o la non ingerenza

nelle questioni interne dei paesi terzi. Queste argomentazioni continuano ad essere valide, naturalmente, e a rappre-

sentare i principi base della politica estera di tutti i paesi, nonché di quella brasiliana. Ma, farvi appello per impedire

il dibattito internazionale in situazioni di violazioni interne di diritti umani e rischi per l’ambiente è diventato, fortu-

natamente, anacronistico. Gli spazi di convergenza sono aumentati anche per quanto riguarda la non-proliferazione.

Tutti questi passi avanti, purtroppo, sono caratterizzati, dalla mancanza di progressi simmetrici in camposociale ed economico-commerciale. Il dislivello fra la partecipazione al reddito mondiale tra il 20% dei più ricchi

ed il 20% dei più poveri è sempre molto alto. Per quanto riguarda le tematiche del protezionismo commerciale, si

evidenzia che, nella pratica, le nazioni più ricche non vogliono rinunciare a qualsiasi possibilità di accrescere il

loro già elevato livello di benessere sociale, come contributo per correggere le asimmetrie che inficiano gli sforzi

di sviluppo della maggior parte dell’umanità. I negoziati commerciali globali, la cosiddetta Agenda di Doha per lo

sviluppo restano incompiuti da oltre otto anni. La crescita di una sensazione di frustrazione per questo stato di cose

è percettibile. Oltre alle questioni economico-commerciali, i paesi in via di sviluppo devono anche affrontare le

sfide lanciate dagli squilibri del sistema finanziario internazionale. Le oscillazioni del mercato continuano a rap-

presentare una preoccupazione permanente. Alla crisi asiatica del 1997, Russa del 1998 e brasiliana del 1998/1999,

si è aggiunta di recente una crisi di dimensioni globali, che non ha ancora trovato soluzione.

In questo ventennio trascorso dalla Caduta del Muro di Berlino, l’azione diplomatica brasiliana si è notevolmente

evoluta. Tutta una serie di tematiche politiche, economiche e sociali – che prima erano gestite marginalmente, quan-

do non addirittura assenti dalla agenda internazionale – hanno acquistato rilevanza e ora sono al centro dei dibattiti:

il Mercosul ed il consolidamento della democrazia in America Latina, i negoziati tra Mercosul ed Unione Europea,

le Conferenze Iberoamericane; l’OMC ed i negoziati globali, ancora non conclusi; la maggiore partecipazione del-

l’ONU alle operazioni di pace; il ruolo attivo nella discussione di temi quali l’ambiente, diritti umani e non-proli-

ferazione e così via. In ognuno di questi casi, l’azione diplomatica va incontro a ciò che desidera la società brasiliana

per se stessa in questo mondo post-Guerra Fredda; democrazia, rispetto dei diritti umani, apertura economica e

senso di solidarietà sociale. Lavoriamo con questo spirito nei diversi gruppi che si sono formati negli ultimi anni:

i G7/G8; il G20; l’IBSA (India, Brasile e Sud Africa) e altri. Nessuno sforzo, tuttavia, è più importante della riforma

delle istituzioni multilaterali nel senso di adeguarle alle nuove realtà della distribuzione del potere internazionale.

L’agenda della diplomazia dopo la caduta del muro di Berlino si è alterata ma non sono cambiati i principi fonda-

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C a r i t à P o l i t i c a 69

mentali della politica estera brasiliana, soprattutto quello di preservare il più possibile l’autonomia dei nostri mo-

vimenti. Un’autonomia alla quale non si arriva con il distacco, il rifiuto o il contraddittorio, bensì attraverso l’av-

vicinamento, il dialogo e l’integrazione. Crediamo che, per il nostro peso e anche per le caratteristiche che ci

contraddistinguono – visto che riproduciamo su scala nazionale asimmetrie paragonabili a quelle che caratterizza-

no il sistema internazionale nel suo insieme -, potremmo avere qualcosa di rilevante da aggiungere nella gestione

delle grandi questioni nell’agenda internazionale. Come osservato recentemente dal ex-Ministro Celso Lafer, “la

scena contemporanea, 20 anni dopo la caduta del Muro, rende esplicita una nuova geografia diplomatica, inequi-

vocabilmente diversa dalla guerra fredda. Ha aperto spazi per un maggiore multipolarismo, di cui è espressione il

G-20, con la sua geometria variabile. Ha consacrato la Cina come attore globale. Ha creato nuove opportunità per

l’azione di India e Brasile e sta portando ad una ridefinizione del ruolo internazionale della Russia.”

Concludo: il Muro di Berlino è caduto, fisicamente. Molti altri muri impalpabili, tuttavia, continuano a sfidare lo spi-

rito degli uomini. Muri di esclusivismi, unilateralismi, privilegi, che devono essere buttati giù. Manca ancora la cadu-

ta dei sensi di superiorità, di autosufficienza e di autocompiacimento che portano all’erigere Muri reali e Muri

immaginari che perpetuano la disuguaglianza nel mondo. Vogliamo contribuire affinché al posto di questi Muri, con

i quali conviviamo in Brasile e nel mondo, si costruiscano sempre più spazi crescenti di cooperazione e convergenza.

Roma, 9 dicembre 2009

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20 JAHRE MAUERFALL –DIE BEWÄLTIGUNG DES UNRECHTS VON ZWEI DIKTATUREN

IN DEUTSCHLAND

DR. JOST VON TROTT ZU SOLZ,Rechtsanwalt und Notar

I.

Mit dem Fall der Mauer vor 20 Jahren und der daraus folgenden Wiedervereinigung Deutschlands ergaben sich

die Notwendigkeit aber auch die Möglichkeit, die Folgen des staatlich bewirkten Unrechts von zwei Diktaturen in

Deutschland zu korrigieren.

Es eröffnete sich die Möglichkeit der Aufarbeitung des rechtsstaatswidrigen Handelns des kommunistischen Re-

gimes in der DDR. Dieses war aufgrund der Öffnungspolitik von Gorbatschow (Glasnost) sowie der erfolgrei-

chen Aktivitäten der Solidarnosc in Polen, aber auch durch die „friedliche Revolution“ der DDR-Bevölkerung zu-

sammengebrochen.

Durch den nach dem friedlichen Sturz des kommunistischen Regimes im Jahre 1990 zwischen der im Frühjahr

1990 demokratisch gewählten DDR-Regierung und der Regierung der alten Bundesrepublik Deutschland besch-

lossenen „Einigungsvertrag“ erfolgte der „Beitritt“ der DDR zur Bundesrepublik Deutschland und damit formal

die Wiedervereinigung Deutschlands.

Für den Bereich der früheren DDR galten damit das Grundgesetz der Bundesrepublik Deutschland aus dem Jah-

re 1949 als gemeinsame Verfassung sowie alle allgemeinen Gesetze der Bundesrepublik Deutschland mit zahlrei-

chen Übergangs- und Anpassungsregelungen. Dabei wurden grundsätzlich alle Rechtsakte der DDR bis zur Wie-

dervereinigung als wirksam und bestandskräftig bestätigt, allerdings mit der Ausnahme, dass rechtsstaatswidrige

Willkürakte des kommunistischen Regimes zu überprüfen und im Rahmen der Rechtsordnung des wiedervereinig-

ten Deutschlands zu korrigieren waren.

Mit der Wiedervereinigung Deutschlands eröffnete sich auch die Möglichkeit, die bis dahin in Ost-Deutschland

noch nicht vollständig durchgeführten Korrekturen der Unrechtsakte des nationalsozialistischen Regimes zwi-

schen 1933 und 1945 vorzunehmen. Das kommunistische System definierte sich selbst zwar als „antifaschistisch“,

was es in gewisser Weise auch war, die Beseitigung des NS-Unrechts in diesem Teil Deutschlands wurde nach 1945

aber nicht vollständig durchgeführt. Das gilt insbesondere für die rechtswidrigen Enteignungen jüdischer Perso-

nen und Unternehmen, die vom NS-Regime rassisch verfolgt wurden. Die DDR hatte es vorgezogen, sich die na-

tionalsozialistischen Enteignungen zu Nutze zu machen und die enteigneten jüdischen Vermögenswerte in „Volks-

eigentum“ zu überführen.

Die Korrektur des nationalsozialistischen Unrechts im Bereich der früheren DDR entsprach nicht nur dem auch

im Einigungsvertrag zum Ausdruck gebrachten Willen der beiden deutschen Regierungen und Parlamente, son-

dern war auch ein Gebot der im geteilten Deutschland bis zur Wiedervereinigung immer noch mit Befugnissen für

„Gesamtdeutschland“ ausgestatteten vier Besatzungsmächte. In dem so genannten 2 + 4-Vertrag zwischen den

USA, der UdSSR sowie Großbritannien und Frankreich einerseits und den beiden deutschen Staaten andererseits

zur Wiedervereinigung und zur Wiederherstellung der vollständigen Souveränität Gesamtdeutschlands verpflich-

tete sich die Bundesrepublik Deutschland gegenüber ihren Vertragspartnern, die alliierten Rückerstattungsgrund-

sätze auch für Vermögenswerte auf dem Gebiet der ehemaligen DDR anzuwenden. Damit wurde die Recht-

sgrundlage dafür geschaffen, dass auch für den Bereich der früheren DDR die menschenrechtswidrigen Entei-

gnungen von Verfolgten, insbesondere von jüdischen Eigentümern, rückgängig gemacht werden konnten.

Die Aufarbeitung und Korrektur staatlichen Unrechts ist keine spezifische deutsche Aufgabe, wie z. B. die Kriegs-

verbrecherprozesse vor dem Internationalen Strafgerichtshof für das ehemalige Jugoslawien in Den Haag zeigen.

Die Bewältigung von elementarem Unrecht, das von rechtstaatswidrigen Regimen verursacht wurde, stellt aller-

I

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C a r i t à P o l i t i c a

dings eine besondere Aufgabe Deutschlands dar, da unter der Verantwortung von zwei deutschen Diktaturen

großes Unrecht begangen wurde, welches eine nachfolgende rechtsstaatliche Ordnung grundsätzlich nicht hinneh-

men kann. Bei der Wiedergutmachung von schwerstem Unrecht kann und darf es keinen „Schlussstrich“ geben.

II.

Wie das wiedervereinigte Deutschland dieser Aufgabe und Verpflichtung nachgekommen ist bzw. nachkommt, soll

nachfolgend in einem zusammenfassenden Überblick kurz dargestellt werden.

1. Zunächst einmal ist klarzustellen und hervorzuheben, dass die fortdauernde Verpflichtung zur Aufar-

beitung von NS-Unrecht als gesamtdeutsche Aufgabe nicht auf „unerledigt gebliebene“ Vorfälle im Bereich von

Ostdeutschland beschränkt ist. Dies unterstreichen drei aktuelle Beispiele:

a) Das deutsche Parlament (Bundestag) hat am 8. September diesen Jahres, d. h. 64 Jahre nach Krieg-

sende, ein Gesetz zur Rehabilitierung von „Kriegsverrätern“ beschlossen. Von der NS-Justiz wurden tausende

Personen wegen „Kriegsverrats“ verurteilt – vielfach zum Tode -, weil sie in irgendeiner Form die Kriegsführung

von Hitler und den Nazis in Frage gestellt hatten. Der deutsche Bundestag hat jetzt endlich dokumentiert, dass die

„Kriegsverräter“-Urteile losgelöst vom abgeurteilten Einzelfall allein schon deshalb rechtsstaatwidrig waren,

weil die Ausgestaltung der Strafvorschriften und des gerichtlichen Verfahrens rechtsstaatlichen Anforderungen

nicht entsprach.

Durch ein ähnliches Rehabilitierungsgesetz wurden (erst) im Jahre 2002 die Kriegsgerichtsurteile der

deutschen Wehrmachtsjustiz gegen „Deserteure“ und „Wehrdienstverweigerer“ pauschal aufgehoben.

b) Von einem Strafgericht in München wurde am 1. August dieses Jahres ein früherer deutscher Wehr-

machtsoffizier zu lebenslanger Haft verurteilt, weil er im Jahre 1944 in Italien 14 italienische Bürger als „Geisel“

bzw. als „Partisanen“ ermorden ließ. Er war zuvor bereits im Jahre 2006 durch ein italienisches Militärgericht in

La Spezia in Abwesenheit ebenfalls zu lebenslanger Haft verurteilt worden.

c) Gegen den mutmaßlichen ukrainischen KZ-Wächter Demjanjuk, der im Frühjahr dieses Jahres aus

den USA nach Deutschland ausgeliefert wurde, beginnt im November der Prozess wegen Beihilfe zum Mord an ca.

28.000 Menschen, die im Konzentrationslager Sobibor umgebracht wurden.

2. Die Aufarbeitung von Unrecht im Bereich der früheren DDR, d. h. von dort fortdauerndem NS-Un-

recht und von Unrecht des kommunistischen Regimes, wurde zu einem erheblichen Teil noch in der Zeit zwischen

Mauerfall im November 1989 und der Wiedervereinigung am 3. Oktober 1990 von dem nach der „Wende“ de-

mokratisch gewählten Parlament der DDR in die Wege geleitet. Diese Regelungen wurden bei der Wiedervereini-

gung als fortbestehendes Recht übernommen und vom gesamtdeutschen Parlament bis heute mehrfach novelliert

und ergänzt. Bei der Bearbeitung des spezifischen DDR-Unrechts kommen sowohl allgemeine als auch spezielle

Vorschriften zur Anwendung. Dabei waren und sind die Vorschriften in Bezug auf „Täter“ und „Opfer“ zu unter-

scheiden.

a) Nach der Wiedervereinigung wurde von den zuständigen Justizbehörden geprüft, ob sich die für das

DDR-Unrecht verantwortlichen Personen strafbar gemacht haben. Es wurden insbesondere Strafverfahren wegen

der Tötung von Menschen eingeleitet, die über die Mauer nach Westdeutschland fliehen wollten. In den so ge-

nannten „Mauerschützen-Prozessen“ wurden mehrere Grenzsoldaten und Kommandeure wegen „Totschlags“ zu

mehrjährigen Freiheitsstrafen verurteilt. Strafrechtlich verurteilt wurden auch einige Mitglieder der obersten Staat-

sführung der DDR und der Spitze der kommunistischen Partei der DDR („Politbüro der SED“), weil sie die Be-

fehle zum Waffengebrauch gegen Flüchtlinge gegeben hatten („Schießbefehl“). So wurde z. B. der letzte Präsident

der DDR, Egon Krenz, wegen seiner Mitverantwortung bei Erlass des „Schießbefehls“ zu sechs Jahren Freiheits-

strafe verurteilt.

b) Täterbezogen sind auch die Vorschriften zur Beschäftigung von Personen, die als Haupt- oder freibe-

rufliche Mitarbeiter für den früheren DDR-Staatssicherheitsdienst“ (Stasi) gearbeitet haben. Eine solche frühere

Agententätigkeit schloss grundsätzlich die Übernahme in den Öffentlichen Dienst der Bundesrepublik Deutschland,

II

Page 72: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a

d. h. beim Bund, den Ländern und Kommunen aus, da ihre frühere Tätigkeit Zweifel an ihrer Bereitschaft begrün-

det, sich als öffentlicher Bediensteter an den durch die deutsche Verfassung bestimmten Grundwerten zu orientie-

ren. Ungeachtet dessen wird vermutet, dass einige einhunderttausend ehemalige „Stasi“-Mitarbeiter heute noch im

Öffentlichen Dienst beschäftigt sind.

3. Um personenbezogene Unrechtshandlungen des DDR-Regimes korrigieren zu können, wurden den

Opfern verschiedene Rehabilitierungsmöglichkeiten gesetzlich eröffnet.

a) Nach dem strafrechtlichen Rehabilitierungsgesetz können die Opfer politischer Verfolgung in der

DDR in einem gerichtlichen Verfahren beantragen, dass die Entscheidungen eines DDR-Gerichts für rechtsstaats-

widrig erklärt und aufgehoben werden. Voraussetzung hierfür ist, dass diese Urteile „mit wesentlichen Grundsät-

zen einer freiheitlichen rechtsstaatlichen Ordnung unvereinbar“ sind, insbesondere weil sie der politischen Verfol-

gung gedient haben. Dies wird insbesondere bei Strafvorschriften der DDR angenommen, durch die Personen be-

straft wurden, die sich in bestimmten Formen kritisch gegenüber dem DDR-Regime verhalten haben oder die beim

Fluchtversuch über die Mauer festgenommen worden waren.

b) Nach dem verwaltungsrechtlichen Rehabilitierungsgesetz können Betroffene die Aufhebung von be-

hördlichen Entscheidungen der DDR verlangen, soweit diese Entscheidungen „mit tragenden Grundsätzen eines

Rechtsstaats schlechthin unvereinbar sind.“ Dies wird vom Gesetz,z. B. in den Fällen angenommen, in denen die

Bewohner von Häusern in der Nähe der Grenze zur Bundesrepublik Deutschland gezwungen wurden, ihren dorti-

gen Wohnsitz aufzugeben und sich in einem grenzferneren Gebiet anzusiedeln.

c) In diesem Zusammenhang sei auch darauf hingewiesen, dass auch Personen, die durch die Sowjeti-

sche Besatzungsmacht in Deutschland rechtsstaatswidrig verfolgt und durch ein sowjetisches Militärtribunal-Ur-

teil verurteilt wurden, nach einem Rehabilitierungsgesetz der Russischen Föderation in einem Rehabilitierung-

sverfahren bei der russischen Militärstaatsanwaltschaft in Moskau die Aufhebung eines rechtsstaatwidrigen Mili-

tärtribunal-Urteils verlangen können. Geschieht dies, so können die Betroffenen bzw. die Erben die Rückübertra-

gung der Vermögenswerte verlangen, die aufgrund des Militärtribunal-Urteils in Deutschland enteignet wurden.

4. Eine besondere Form der Korrektur rechtsstaatswidrigen staatlichen Handelns besteht bei der Enteig-

nung von Vermögenswerten, wie z. B. Unternehmen, Grundstücken und beweglichen Gegenständen.

Hierfür wurde bereits im Einigungsvertrag zwischen der DDR und der Bundesrepublik Deutschland vereinbart,

dass rechtsstaatswidrige Enteignungen rückgängig zu machen und den Betroffenen bzw. ihren Erben die entzoge-

nen Vermögensgegenstände zurück zu übertragen sind. Dies gilt nicht nur für Enteignungsmaßnahmen der DDR,

sondern insbesondere auch für Enteignungen von rassisch, religiös oder politisch verfolgten Personen durch das

Nazi-Regime in der Zeit zwischen 1933 und 1945. Hierfür wurde mit dem „Gesetz zur Regelung offener Vermö-

gensfragen“ eine besondere Rechtsgrundlage geschaffen.

Bei den enteigneten Nazi-Opfern übernahm das Gesetz dabei die Grundsätze, die bereits für das westdeutsche Wie-

dergutmachungsrecht galten und die dort von den damaligen westlichen Besatzungsmächten vorgegeben worden

waren. Insbesondere wurde dabei Bezug genommen auf eine Anordnung der Alliierten Kommandantur in Berlin

vom 26. Juli 1949. Nach dieser übernommenen Regelung im Gesetz zur Regelung offener Vermögensfragen können

Personen, die in der Zeit zwischen 1933 und 1945 aufgrund rassischer, religiöser oder politischer Verfolgung Ver-

mögenswerte durch Zwangsverkäufe, Enteignungen oder auf andere Weise verloren haben, die Rückübertragung

verlangen oder wenn dies aus irgend einem Grunde nicht möglich ist, eine Entschädigung nach dem NS-Verfolgte-

nentschädigungsgesetz beanspruchen.

Gestützt auf diese gesetzliche Regelung wurden von den Erben früherer jüdischer Eigentümer überwiegend aus dem

Ausland mehrere einhunderttausend Restitutions- und Entschädigungsanträge gestellt. Hiervon konnten durch die

neu gebildeten zuständigen deutschen Behörden bisher etwa erst die Hälfte abgearbeitet werden.

Nach dem Gesetz zur Regelung offener Vermögensfragen kann von Betroffenen auch die Rückgängigmachung von

Enteignungen verlangt werden, die in der Zeit zwischen 1949 und 1990 in der DDR erfolgten. Voraussetzung hier-

für ist, dass die Enteignung entweder entschädigungslos oder gegen eine geringere Entschädigung erfolgte, als sie

III

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C a r i t à P o l i t i c a

Bürgern der früheren DDR zustand. Ein Anspruch besteht auch dann, wenn die Eigentümer in dieser Zeit ihr Ei-

gentum aufgrund von „unlauteren Machenschaften“ des DDR-Regimes verloren haben.

Von einem Restitutionsanspruch sind hingegen die früheren Eigentümer ausgeschlossen, die in der Zeit zwischen

1945 und 1949, d.h. vor Gründung der DDR, in der damaligen sowjetischen Besatzungszone unter der Verantwor-

tung der damaligen sowjetischen Besatzungsmacht enteignet wurden. Diese Enteignungen sollen deshalb von einer

Korrektur ausgeschlossen werden, weil angeblich die sowjetische Regierung unter Gorbatschow in den Verhand-

lungen über die Wiedervereinigung Deutschlands darauf bestanden haben soll, dass die von der früheren Sowjetu-

nion zu verantwortenden Enteignungen nicht rückgängig gemacht werden. Dies betrifft insbesondere die Eigentü-

mer von land- und forstwirtschaftlichen Betrieben, aber auch von Industriebetrieben. Diese wurden damals ohne

Einzelfallwürdigung pauschal als „Kriegsverbrecher- und Naziaktivisten“ enteignet. Dies entsprach der damaligen

kommunistischen Ideologie, wonach „Kapitalisten“ grundsätzlich auch „Kriegsverbrecher“ waren bzw. sind.

5. Eine besondere Regelung zur Korrektur von NS-Unrecht besteht auch in Bezug auf die Enteignung

von Kunstgegenständen, die in der Zeit zwischen 1933 und 1945 unter der Herrschaft des nationalsozialistischen

Regimes in Deutschland oder in den von Deutschland während des Krieges besetzten Gebieten enteignet wurden.

Für diese Fälle findet für das Territorium der DDR grundsätzlich zwar auch das Gesetz zur Regelung offener Ver-

mögensfragen Anwendung, da dieses Gesetz allerdings als Anspruchsvoraussetzung eine Anmeldung von Ansprü-

chen bis zum 30. Juni 1993 verlangte, hat es für jüdische Kunstsammlungen bzw. jüdische Kunstgegenstände kaum

praktische Bedeutung, weil den meisten Betroffenen bis zu diesem Zeitpunkt nicht bekannt war, dass Objekte aus

Familienbesitz in einem Museum der DDR oder in Privatbesitz in der DDR war. Für NS-verfolgungsbedingt ab-

handen gekommene Kunstgegenstände greifen vielmehr die Absprachen, die die Bundesrepublik Deutschland im

Jahre 1998 auf einer Konferenz in Washington mit mehr als 40 weiteren Staaten (wie beispielsweise auch Italien)

beschlossen hat. Auf dieser Konferenz haben sich die Teilnehmerstaaten dazu verpflichtet, für ihren Bereich zu

überprüfen, welche Kunstgegenstände aus jüdischem Eigentum, die den Eigentümern verfolgungsbedingt abhan-

den gekommen sind, sich heute im Eigentum dieser Staaten bzw. im Eigentum staatlicher Organisationen und Mu-

seen befinden. Wenn solche Gegenstände festgestellt werden, so werden die Staaten entsprechend ihrer gemein-

sam eingegangenen Verpflichtung versuchen, Kontakt mit den Erben aufzunehmen und den Vorgang mit dem Ziel

zu überprüfen, eine faire und gerechte Lösung zu finden, was in der Regel die Rückgabe des Objektes an die Er-

ben bedeutet. Aufgrund dieser Regelungen wurden in Deutschland in den letzten Jahren einige Fälle erfolgreich

abgeschlossen. Verglichen mit der großen Anzahl der bekannten Verluste können die bisher gefundenen Regelun-

gen allerdings noch nicht befriedigen. Es wird sicherlich noch mehrere Jahre dauern bis auch dieses Thema ab-

gearbeitet ist.

Im Ergebnis lässt sich feststellen, dass das wiedervereinigte Deutschland sich seiner Verpflichtung bewusst war und

ist, die Unrechtsakte des Nazi-Regimes und der früheren DDR im Interesse der Betroffenen zu korrigieren und dass

die dafür geschaffenen Rechtsvorschriften geeignet sind, diese Verpflichtung im Wesentlichen zu erfüllen.

IV

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C a r i t à P o l i t i c a

20 YEARS AFTER THE FALL OF THE WALL –THE OVERCOMING OF TWO DICTATORSHIPS INJUSTICES

IN GERMANY

DR. JOST VON TROTT ZU SOLZ,Rechtsanwalt und Notar

I.

Not only did the fall of the Wall 20 years ago and the following reunification of Germany awake the need, for a

reparation of the consequences of the injustices caused by the State during the two past dictatorships in Germany,

but it also created the opportunity for it.

The opportunity arose, for a reassessment of the communist regime actions against the constitutional state founded

on the rule of law in the GDR. The regime collapsed thanks to Gorbatschow’s opening policy (Glasnost) as well as

the successful activities of Solidarnosc in Poland, but also to the “peaceful revolution” of the people of GDR.

Through the “Unification Treaty”, agreed by the GDR government – elected in spring 1990- and the government

of the old FGR in 1990 after the peaceful falling of the communist regime, the “joining” of the GDR into FGR

followed and therefore the formal reunification of Germany.

For the territory of the early GDR the FGR Basic Law of 1949 was now in force as common Constitution, as well

as all the FGR general Laws with many transition and adaptation rules. At the same time all the acts of the GDR

up to the reunification were acknowledged as effective, valid and unchanging, though with the exception of the

communist regime arbitrary acts against the constitutional state which were to be reviewed and corrected in the

frame of the law of the unified Germany.

The reunification of Germany also created the opportunity to carry on the reparations of the acts of injustice

made by the National Socialist (NS) regime between 1933 and 1945 that had not been completed yet in East Ger-

many. The communist system defined itself as “antifascist”- and it was, in a certain way – but the elimination of

the NS injustices in this part of Germany after 1945 was not completely carried out. This particularly concerns

the unlawful expropriations of Jewish people and enterprises, that were racially persecuted by the NS regime. The

GDR preferred to gain some benefit out of the National Socialist expropriations and to transfer the expropriated

Jewish property into the so called “property of the people”.

Not only does the reparation of the National Socialist injustices in the territory of the early GDR correspond to

the will expressed by both German governments and parliaments in the Unification Treaty, but it also was a re-

gulation wanted by the four occupying forces in the divided Germany, that were authoritative for the “Gesamt-

deutschland” (the “Whole Germany”) up to the reunification. In the so called Two Plus Four Treaty for the reu-

nification and the reestablishment of the complete sovereignty of whole Germany, signed between the USA, the

USSR as well as Great Britain and France on the one side and both German States on the other side, the GDR

promised to the other parties to use the ally repayment principles also for the property in the territory of the early

GDR, thus creating the legal basis for cancelling the expropriations of people – particularly Jewish owners - per-

secuted against the human rights also in the territory of the early GDR.

The reassessment and reparation of State injustices is not a specific German task, as shown for instance by the

war criminal processes in front of the International Court of Justice for the ex-Yugoslavia in The Hague. The over-

V

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C a r i t à P o l i t i c a

coming of elementary injustice, caused by regimes against the constitutional state, though, represents a particu-

lar task for Germany, because under the responsibility of two German dictatorships great injustice was commit-

ted, which cannot be accepted by a succeeding constitutional establishment. In the making up for grave injustices

there’s no place for a “bottom line”.

II

The following section gives a short summarizing overview of how the reunified Germany fulfilled and/or fulfils

this task and this obligation.

1. First it is to clarify and to stress that the continuous obligation to the reassessment of NS injustices as

task of the Whole Germany is not limited to “unsolved” occurrences in the territory of the early GDR. This is un-

derlined by three current examples:

a) This year, 64 years after the end of the war, on the 8th September, the German parliament (Bundestag)

passed a law on the rehabilitation of “war traitors”. Thousands of people were sentenced for “war betrayal” by

the NS judiciary – many times to death – because in some way they had contested Hitler and the Nazis’ war lea-

ding. The German parliament has finally documented that “war traitors” sentences detached from the single jud-

ged case were against the constitutional state for that reason alone, because the organisation of the punishment

orders and of the judicial proceeding did not meet the requirements of the constitutional state.

Through a similar rehabilitation law the War Court sentences of the German Military Justice against “deserters”

and “conscientious objectors” were indiscriminately cancelled out (not until) 2002.

b) On the 1st August this year an earlier German military officer was sentenced to life-imprisonment by a

criminal court in Munich, because in 1944 he allowed the murder of 14 Italian citizens as “hostages” and/or

“partisans”. In 2006 he had already been sentenced in absence to life-imprisonment by an Italian military court

in La Spezia .

c) In November will begin a process for help in the murder of round 28’000 people, killed in the concen-

tration camp Sobibor, against the suspected concentration camp Ukrainian guard Demjanjuk, who was extradi-

ted from the USA to Germany in spring.

2. For a considerable part, in the time between the fall of the wall in November 1989 and the reunification

on the 3rd October 1990, the reassessment of injustices in the territory of the early GDR, that is of the there con-

tinuous NS injustices and of the injustices of the communist regime, was got under way by the GDR parliament,

democratically elected after “die Wende” (“The Turning Point”). These regulations were adopted as continuous

law and up to today repeatedly renewed and amended by the unified German parliament.

In the reparation of specific GDR injustices, general and special regulations are applied. Among these, the regu-

lations regarding “culprits” and “victims” need to be distinguished.

a) After the reunification, relevant justice authorities checked if the people responsible for the GDR injusti-

ces had made themselves punishable. In particular, punishment procedures for the killing of people willing to flee

to Western Germany crossing the border marked by the wall were introduced. In the so called “Mauerschützen-

prozessen” (“wall private processes”), many border soldiers and commanding officers were sentenced to several

years imprisonment for “manslaughter”.

VI

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C a r i t à P o l i t i c a

Some members of the Highest State leadership of the GDR and the heads of the communist party of the GDR (“Po-

litbüro der SED”) were also sentenced under criminal law because they gave the order to use weapons against

the fugitives (“Schießbefehl”). In this way for instance, the last GDR president, Egon Krenz, was sentenced to six-

year-imprisonment for his share of responsibility in the decree of the “shooting order”.

b) Related to “culprits” are also the regulation for the activity of people who worked as employees or free-

lance collaborators for the earlier GDR “State safety service” (“Stasi”). This kind of previous agent activity ru-

led out the hiring in the public service of the German Federal Republic, that is in the confederation, in the fede-

ral counties and in the local governments, because it gives reason for doubts on the readiness to be geared to-

wards the essential values established through the German constitution. This notwithstanding, it is supposed that

round one hundred thousand “Stasi” collaborators are employed in the public service.

3. In order to repair GDR injustices to people, different rehabilitation opportunities were legally offered to

the victims.

a) According to the criminal rehabilitation law, the victims of political persecution in the GDR can demand

in a judicial process that the decisions of a GDR court should be proclaimed against the constitutional state and

therefore be cancelled. The prerequisite for this is that these sentences should be “incompatible with the essential

principles of a liberal constitutional government”, particularly because they served the political persecution. This

is adopted in particular for punishment regulations of the GDR, through which people who in certain ways criti-

cally behaved against the GDR regime or who were captured while trying to flee over the wall were punished.

b) According to the administrative rehabilitation law, the dismayed can demand the cancellation of official

decisions of the GDR, as far as these decisions “are absolutely incompatible with supporting principles of a con-

stitutional state”. This is accepted by the law in those cases for instance, in which the occupants of houses near

the frontier to the FGR were forced to leave their place of residence and to move to a frontier distant area.

c) Moreover, in this context it is pointed out that also those people who were illegally persecuted by the So-

viet occupying power in Germany and who were also sentenced by a Soviet military tribunal can demand to the

Russian military State lawyers in Moscow the cancelling of a military court sentence according to a rehabilita-

tion law of the Russian Federation in rehabilitation proceeding. If this happens, the dismayed and/or their heirs

can demand the restitution of the patrimony that was expropriated because of the military court sentence in Ger-

many.

4. A particular form of reparation of actions against the constitutional state founded on the rule of law con-

sists in the expropriation of patrimony as for instance enterprises, plots of land and movables.

In relation to this matter, it was already agreed in the “Unification Treaty” between the GDR and the Federal Ger-

man Republic that unlawful expropriations should be cancelled and the dismayed and/or their heirs should be gi-

ven back the withdrawn property. This is valid not only for the expropriation measures of the GDR but also par-

ticularly for expropriations to racially, religiously or politically by the National Socialist regime persecuted peo-

ple in the years between 1933 and 1945. All this lead to the creation of a special legal basis with the “Act for Re-

gulation of Open Property Questions”.

For the victims of National Socialist expropriations, the law adopted the principles already in force for the We-

stern German Reparation Law and that had there been demanded by the at that time western occupying powers.

In particular, they referred to an order of the ally leadership in Berlin dated July 26, 1949. According to this, in

regulations adopted in the Act for Regulation of Open Property Questions, people who have lost their patrimony

VII

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C a r i t à P o l i t i c a

through compulsory sales, expropriations or in any other way, because of racial, religious or political persecu-

tion, can demand the restitution or, be this impossible for any reason, they can claim for a compensation accor-

ding to the NS Persecuted Compensation Law.

Supported by this legal regulation, hundreds of thousands restitution and compensation applications were made

by the heirs of early Jewish owners, mainly from abroad. Until now, only just roughly half of these could have

been worked off by the new formed relevant German authorities.

According to the Act for Regulation of Open Property Questions the restitution of expropriations occurred in the

GDR between 1949 and 1990 can also be demanded by the dismayed. The prerequisite is that the expropriation

had either no compensation or a smaller compensation than the condition of the citizens of the early GDR. A de-

mand exists also when in this time the owners lose their property because of the GDR regime “dishonest whee-

ling and dealing”.

However, the early owners who were expropriated under the responsibility of the Soviet occupying power in the

area under Soviet control, in the years between 1945 and 1949 – that is before the foundation of the GDR – have

no right to claim for restitution. These expropriations should therefore be excluded from a reparation, because du-

ring the negotiations about the reunification of Germany, Gorbatschow’s government supposedly insisted that the

expropriations made by the previous Soviet Union shouldn’t be cancelled. This particularly regards the owners of

farms and forestry business but also industries. At that time they were indiscriminately expropriated as “war cri-

minals and Nazi activists” and isolated cases were not considered. This reflected the communist ideology of the

time, according to which “capitalists” were (or are) “war criminals”.

5. A peculiar regulation about the reparation of the NS injustices regards also the expropriation of art ob-

jects, expropriated in the years between 1933 and 1945 under the National Socialist regime rule in Germany or

in the territories occupied by Germany during the war. In these cases, the Act for Regulation of Open Property

Questions is employed, but as it required the presentation of an application of demand before June 30, 1990, it

scarcely is of practical significance for Jewish art collections and art objects, because up to now most dismayed

didn’t know that objects of family property were in a GDR museum or in private possession in the GDR. For art

objects which got lost because of NS persecution, the arrangements made by the German Federal Republic in

1998 during a conference with more than 40 other nations (such as Italy for instance) in Washington are much

more effective. In this conference the participant States committed to control in their territories, which art objects

from the Jewish patrimony, which were expropriated from their owner because of persecution, are today posses-

sed by these nations or by State organisations and museums. When such objects should be identified, the nations

should try, in accordance with their common accepted commitment, to get in contact with the heirs and to exami-

ne the occurrence, with the goal of finding a fair and just solution, which means as a rule the restitution of the ob-

ject to the heirs. Thanks to these regulations, in recent years several cases were successfully solved in Germany.

In spite of this, compared with the great number of known losses the up to know found regulations cannot yet be

satisfying. Surely, it will still take many years for this theme to be worked off.

As a result can be affirmed that the reunified Germany was and is aware of its commitment to the reparation of

the acts of injustice of the Nazi regime and of the early GDR in the interest of the dismayed and that the regula-

tions created for this purpose are essentially suitable for the fulfilment of this commitment.

(Translated by Erica Guerini)

VIII

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70 C a r i t à P o l i t i c a

«RELIGIONS ET DIPLOMATIE»Ambassade de France près le Saint Siège

mercredi 27 janvier 2010

S.E. MONSIEUR STANISLAS DE LABOULAYEAmbassadeur de France près le Saint-Siège

Je souhaite tout d’abord remercier le Professeur Luciani et son organisation «Carità Politica», dont le rôle est pré-

cisément de porter un regard religieux sur l’action diplomatique, d’avoir pris l’initiative d’inviter le Professeur Maïla.

Je remercie le Professeur Luciani de m’avoir associé à lui pour permettre à cette rencontre de se dérouler ici, à la

Villa Bonaparte, que mes prédécesseurs et moi-même essayons obstinément de faire avec le Centre Saint-Louis, le

lieu de rencontre de la pensée religieuse française et de l’univers politique international.

Aujourd’hui nous avons le plaisir d’accueillir Joseph Maïla dont le parcours académique et professionnel est im-

pressionnant: diplômé de sciences politiques, spécialiste de droit international, docteur en philosophie de Paris X,

il dispose d’un spectre universitaire très large.

Au cours de ces années, il a été vice-doyen de la Faculté des Lettres et des Sciences humaines de la fameuse uni-

versité Saint-Joseph de Beyrouth de 1977 à 1984. Joseph Maïla a aussi été doyen de la Faculté des Sciences

Sociales et Economiques de l’Institut catholique de Paris de 1997 à 2004 puis recteur de cet Institut en 2004.

Mais aujourd’hui c’est dans une autre capacité qu’intervient devant nous le Professeur Joseph Maïla puisqu’il a

été nommé en 2009 dans la nouvelle Direction de la Prospective du Ministère français des Affaires Etrangères à

la tête du «Pôle religion».

Je laisserai Joseph Maïla, soit dans le cours de son exposé, soit en répondant à vos questions, vous expliquer ce à

quoi correspond ce poste qu’il occupe et le rôle que le Ministre, qui a veillé à la création de ce poste, souhaite

qu’il joue. Il me suffit de dire que le pôle religion au sein du Ministère des Affaires Etrangères correspond à une

prise de conscience non tant du fait religieux dans la politique internationale –je pense que tous les diplomates en

sont naturellement conscients et en tiennent compte dans leurs analyses et leur action- mais de ce qu’un pays

comme la France, en raison de son histoire intellectuelle et sociale, est souvent maladroite dans sa façon de com-

prendre le phénomène et ne dispose pas réellement des outils pour le prendre en compte. Ce sera à Joseph Maïla

au sein de notre ministère de les développer. Autre observation relative à la formation des diplomates. Une des

raisons pour laquelle le phénomène religieux est si difficile à appréhender pour les jeunes générations de diplo-

mates, du moins en France, c’est qu’ils sont issus d’une société très sécularisée : nos jeunes collègues n’ont pour

beaucoup d’entre eux, aucune réelle culture religieuse, ce qui rend leur vision de cet aspect de la problématique

des relations internationales très abstraite et en tout cas très éloignée de leur mode de pensée. Le pôle religion

devra avoir à l’égard de nos collègues une véritable mission pédagogique pour éduquer les nouvelles générations

à la réalité religieuse du monde. Mais j’ai déjà trop parlé: je cède donc la parole sans plus tarder au Professeur

Luciani qui introduira l’exposé du Professeur Maïla.

Rome, 27 janvier 2010

Page 79: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a 71

Votre Excellence,

Mesdames et Messieurs,

Un des devoirs de notre Association Carità Politica est de relier les ambassadeurs accrédités près le Saint Siège

entre eux, en organisant des rencontres pour approfondir des thématiques de caractère international. Cela consent

de sensibiliser les diplomates accrédités près le Saint Siège aux questions religieuses et d’apporter une réflexion

sur les grands mouvements religieux du monde et leurs éventuelles implications politiques. Ces finalités sont com-

munes au «pôle religions» constitué en France le premier juin 2009 au sein du Ministère des Affaires étrangères

et européennes. Le responsable de ce nouveau bureau est le Professeur Joesph Maïla que nous remercions vivement

d’avoir accepté notre invitation à être parmi nous ce soir, nous remercions également l’Ambassadeur Stanislas de

Laboulaye pour nous avoir accueillis dans ce splendide salon.

Si on y pense, les religions ont de plus en plus un rôle-clé dans l’effrayant «choc des civilisations», dans les pro-

cessus de paix en cours dans les nations martyrisées par les guerres et les conflits.

Un rôle que l’Association Carità Politica a décelé depuis longtemps en instituant le Bureau «Religions et Diplo-

matie», pour le dialogue entre les religions et le monde politico diplomatique. Un des devoirs du Bureau «Religion

et diplomatie» est d’organiser les rencontres du mercredi, qui permettent aux ambassadeurs accrédités près le

Saint Siège d’approfondir des thèmes qui font partie de l’enseignement de l’Église catholique et des autres religions

qui sont au centre de l’action des Gouvernements dans le camp international. Lors de ses rencontres, les ambas-

sadeurs se soumettent à un intense travail d’information collective, de reconnaissance des expériences des autres,

d’approfondissement diplomatique sur les questions religieuses. Ainsi, de ces rencontres découle une significative

contribution au dialogue et de la collaboration entre les peuples, entre les cultures et les religions.

En effet, il n’est pas de paix entre les Nations sans paix entre les religions. En outre, on ne peut pratiquer au

niveau des Nations que ce qui a déjà été vécu au niveau des relations personnelles.

Dans les limites de ses compétences, le Bureau Religions et diplomatie est à disposition de tous les organismes in-

téressés afin de les informer et de les aider au moyen d’un échange de programmes et d’expériences pour une

coordination plus efficace de la réflexion sur les grands mouvements religieux du monde.

Un projet ouvert à toutes les fois religieuses

Au début du 21ème siècle, la terrible expérience du 11 septembre nous a rappelé l’énorme danger qui menace l’hu-

manité à cause d’un réveil du fanatisme religieux. Depuis, l’Association Carità Politica, a ressenti plus intensément

le devoir de s’engager pour entreprendre un dialogue interreligieux fécond et pour opérer efficacement avec les

disciples de toutes les religions pour renforcer la compréhension réciproque et la paix dans le monde. Ce dialogue

implique des échanges culturels, des actions communes visant au développement humain intégral et à la défense

des valeurs humaines et religieuses.

Dans un tel contexte est né «un projet ouvert à toutes les fois» pour une réflexion éthique et politique de dimension uni-

verselle. Et nous sommes maintenant engagés sur le chemin qui mène au Congrès International, programmé à Rome

en 2011, qui aura pour thème: «La règle d’or», comme éthique universelle. En vue d’un tel rendez-vous international,

à partir de ce soir, nous entendons entreprendre ensemble un parcours formatif, en réfléchissant sur le patrimoine de

valeurs morales fondamentales qui animent toutes les conceptions religieuses. Certes la «Règle d’or» («ne pas faire

aux autres ce que tu ne voudrais pas qu’ils te fassent»), peut fondamentalement être équivalente à la charité politique,

et peut être considérée point émergeant de l’universalité éthique, dont le besoin est devenu lui aussi universel.

Je crois que sur un tel terrain nous pourrons trouver de nombreuses personnes de bonne volonté disposées à collaborer

avec nous pour rallumer la lumière de la loi morale universelle dans la pensée et dans l’action des Gouvernements.

PROFESSEUR ALFREDO LUCIANIPrésident de l’Association Carità Politica

Page 80: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

72 C a r i t à P o l i t i c a

BUREAU DE COORDINATION “CENTRES DE RELIGIONS ET DIPLOMATIE”

L’Association Carità Politica a constitué un Bureau de Coordination des Centres de «Religions et Diplomatie».

Ce bureau a parmi ses devoirs de suivre l’activité des Centres de «Religions et Diplomatie» des divers pays et de

favoriser, entre eux, d’avantageuses relations au moyen d’un échange réciproque de programmes et d’expériences

pour une coordination plus efficace des réflexions sur les grands mouvements religieux dans le monde et sur leurs

éventuelles implications politiques.

Le Bureau de Coordination favorise, en particulier, la collaboration avec tous les organismes et les associations qui

se dédient, même en dehors des religions, à la promotion de la justice et de la paix et à la tutelle des droits de l’homme.

Rome, 27 janvier 2010

Le pôle Religions a été créé le 1er juin 2009 au sein de la direction de la Prospective. Il a été voulu par Bernard

Kouchner, soucieux de voir prises en compte et analysées les diverses manifestations de la religion dans l’ordre

international et la dimension religieuse de certains conflits. Le pôle travaille en coordination avec le Conseiller

des Affaires religieuses (CAR), poste établi en 1921, qui conserve ses fonctions de représentation auprès des au-

torités religieuses. Le pôle assure trois missions essentielles.

Les évolutions du fait religieux dans un espace mondialisé

La première s’articule autour de l’observation des grandes évolutions religieuses du monde contemporain. On sait

que la scène mondiale a été bouleversée depuis la fin des idéologies messianiques. On sait aussi les désillusions

qu’a entraînées l’idée d’un progrès qui se suffit à lui-même, sans finalité, et n’assigne à l’homme d’autres valeurs

que celles attachées à une économie de consommation et de gaspillage. On sait aussi de manière plus prosaïque,

et moins assignable à un besoin de spiritualité et de transcendance, l’utilisation de la religion dans la légitimation

des violences, la sanctification de la terreur et la mobilisation des foules. Pour toutes ces raisons et d’autres encore,

dues à des phénomènes de déplacement du religieux dans un espace mondialisé traversé par les médias interna-

tionaux et Internet, les religions connaissent une mobilité de parcours croissante. Le mimétisme des formes, sym-

bolisé par exemple par les prêches télévisés, l’articulation de l’économique et du religieux dans nombre de

mouvements religieux en développement, le retour du prosélytisme sont des figures visibles, palpables, d’un regain

du religieux dans l’espace public mondialisé.

Plus profondément, la modernité sous ses diverses formes ne cesse de poser des questions aux religions. Celles-ci

répondent et s’adaptent de façon différenciée à ce qu’elles perçoivent comme des défis nouveaux, des possibilités ou

parfois des menaces ou des périls. Quoi qu’il en soit, les religions connaissent toutes des changements divers. Que

l’on songe à l’expansion soutenue des mouvements évangéliques en Amérique latine mais aussi en Afrique subsaha-

rienne et en Europe, aux multiples expressions de l’islam, aux débats qui traversent le catholicisme contemporain,

ou à ceux que connaît le judaïsme, au développement du bouddhisme et de sa spiritualité, en Occident notamment,

mais aussi à son articulation sur nombre de phénomènes de résilience nationaliste en Asie, à l’hindouisme et à la

force de mobilisation qu’il constitue dans l’esprit de certains partis qui l’utilisent pour alimenter le nationalisme in-

dien, aux interrogations de l’Eglise orthodoxe de Russie face à la sécularisation rapide de la société et à la relative

percée des sectes: de vastes changements sont à l’uvre. Ils se conjuguent avec des frontières qui bougent. La terri-

JOSEPH MAÏLAResponsable du Pôle Religions Direction de la ProspectiveMinistère des Affaires étrangères et européennes

Page 81: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a 73

torialité du religieux éclate. Les religions sortent de leur aire d’origine ou d’implantation. On assiste à des phéno-

mènes d’extension territoriale qui voient des religions s’installer dans des espaces où elles n’avaient pas cours.

La dimension religieuse des crises

Si nous avons vocation à observer les évolutions du fait religieux dans un but de prospective politique, nous avons

pour mission – et c’est la deuxième - de venir en appoint et en appui à tous les dossiers d’actualité traités par le

ministère. Nombre d’entre eux comportent une dimension religieuse qui mérite éclairage. Ainsi, dans la crise mal-

gache, nous avons souligné le rôle que jouent les religions dans les crises et les sorties de crise mais, également,

les médiations qu’elles ont traditionnellement tentées. Nous avons très vite réagi aussi au discours du Président

Barak Obama au Caire qui s’adressait «aux musulmans», «aux communautés musulmanes». Dans cet exercice de

«diplomatie réparatrice», impossible dans notre cadre laïque, on pouvait déceler toute la charge émotionnelle

d’un discours de convergence des valeurs entre Occident et islam à travers lequel le président des Etats-Unis

tentait de surmonter le «choc des civilisations».

Ainsi en va-t-il aussi dans la crise politique iranienne dont nul ne peut contester les aspects religieux. Dans cette

crise, quelque chose d’essentiel a été ébranlé, qui était consigné dans l’article 5 de la Constitution iranienne: la

place et le rôle du faqih, le jurisconsulte, que l’on appelle le Guide de la révolution et qui est la pierre de fondation

de l’édifice constitutionnel. La crise iranienne, de ce point de vue, fut plus qu’une contestation par la société civile

et les partis réformateurs du résultat des élections: elle a également donné lieu à un débat interne entre religieux

du haut clergé iranien, entre ayatollahs. En l’occurrence, les voix venues du «cercle intérieur» laissaient percevoir

une critique des positions prises par le Guide, certains ayatollahs contestant même le principe du velayet-è faqih,

du «gouvernement du docteur de la loi». La question était de savoir quel pouvait être l’avenir de la théocratie ira-

nienne alors que la discussion à laquelle je fais allusion avait émergé au sein du clergé chiite. En d’autres termes:

au nom de quel droit, de quel point de vue théologique,�pouvait-on annuler les résultats d’un scrutin à la procédure

démocratique? En observant et en analysant les réactions d’une quinzaine de grands ayatollahs, ainsi que celles

d’autres dignitaires, nous avons constaté que la plupart d’entre eux ne partageaient pas les mêmes vues sur une

institution essentielle de la République islamique. Mais nous avons constaté aussi que, dans le clergé intermédiaire

et dans le bas clergé, les mollahs étaient plutôt favorables aux positions d’Ali Khamenei, le Guide. Ces derniers

avaient suivi une formation plus rapide que la formation classique et devaient leur position à leur intégration dans

les réseaux du pouvoir, ce qui expliquait leur plus grande loyauté au Guide.

Autre thème d’intérêt majeur, à mettre au compte des grandes évolutions religieuses de notre temps, est le courant

des églises évangéliques. Leur progression spectaculaire en Amérique du Sud mais également en Afrique subsaha-

rienne bouleverse les frontières classiques des religions.

Gérer des médiations dans un contexte religieux

Troisième mission du pôle religions: contribuer au perfectionnement des connaissances des agents diplomatiques

en matière de questions religieuses et une sensibilisation à l’impact des religions sur les grandes thématiques des

relations internationales. Et parallèlement, proposer une formation à la négociation dans un contexte de pluralisme

communautaire. Quand un conflit qui oppose des communautés religieuses éclate, comment gérer une médiation�?

Comment faire droit à des revendications qui, souvent, déconcertent parce qu’elles s’attachent à des éléments sym-

boliques de représentation et de croyance, importants dans la hiérarchie des valeurs de ces sociétés�?�Notre fami-

liarité - en plus de notre attachement – avec le modèle républicain, laïc et jacobin français ne nous est pas toujours

d’un grand secours dans des contextes de décentralisation régionale poussée, voire de fédéralisme. Et il est vrai

que les diplomates de pays comme le Canada, la Belgique ou la Suisse ont une écoute et une intelligibilité de ces

situations que nous n’avons pas. En effet, la sortie de crise repose souvent sur l’invention de solutions de partage

du pouvoir passant par des compromis politiques et une répartition des charges publiques au prorata des commu-

nautés que nous maîtrisons moins bien. Dès lors, connaître les sensibilités culturelles et religieuses, les visons du

monde, les aspirations et les interdits des communautés en conflit est nécessaire pour mener une médiation, tenter

des rapprochements et bien gérer des projets de règlement.

Page 82: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

Par ailleurs, nous nous proposons d’engager une réflexion de longe haleine sur des points prioritaires pour la

France. En direction du Sud, nous privilégierons le bassin méditerranéen en mettant l’accent sur les aspects cul-

turels et religieux des sociétés de la mer commune. Notre réflexion accompagnera la construction de l’Union pour

la Méditerranée. Vers le Nord, la laïcité et le débat au sein de l’Union européenne sur les croyances, le rapport

avec les religions au sein de l’espace public européen et la question des nouveaux mouvements religieux seront

nos thèmes de travail. A cet égard, il est frappant de constater l’unité des problèmes européens. La question du

niqab ou maintenant de la burqa qui a défrayé la chronique en France est la même qui s’est emparée de la société

britannique il y a quelques années ou qui se pose aujourd’hui en Belgique ou en Allemagne. Elle soulève aussi un

problème international au vu de certaines réactions que cette question suscite. A l’évidence, en Europe, pour ne

pas parler de sociétés non occidentales, nous n’avons pas la même représentation de l’espace public. A la concep-

tion française font face des logiques de multiculturalisme plus enclines à accepter des différences qui, chez nous,

seraient interprétées comme des signes de défaut d’intégration ou de ségrégation sexuelle. Il est important qu’une

concertation européenne puisse s’instaurer autour de ces questions. L’objectif est de faire valoir les qualités et les

singularités de notre modèle, tout en restant réceptif aux idées défendues par nos partenaires.

Vers l’Est, nous serons plus attentifs aux mutations des sociétés musulmanes du Moyen-Orient, à la question des

chrétiens d’Orient et aux perspectives qui se présentent en Irak, en Iran, dans le Golfe, en Afghanistan et au Pa-

kistan. Mais les trajectoires du bouddhisme, de l’hindouisme seront essentielles à envisager dans le cadre des mo-

bilisations sociales dont la religion peut parfois être l’élément moteur. Enfin, vers l’Ouest, avec le modèle

nord-américain de société, il faudra que nous pointions la question du multiculturalisme et la comparaison avec

notre modèle républicain. On n’oubliera pas d’accorder une attention particulière à la nouvelle approche mise en

œuvre par le Patriarche de toutes les Russies dans la tentative que mène l’Eglise orthodoxe russe de regagner le

terrain perdu sous le régime soviétique et, aujourd’hui, après l’offensive des mouvements évangéliques et la mul-

tiplication de sectes

Un espace intellectuel nouveau, celui de la compréhension du monde des religions au sein des relations interna-

tionales, s’ouvre devant nous. Notre objectif reste de servir la diplomatie de la France en renforçant sa perception

du fait religieux sur la scène internationale et en assurant sa prise en compte dans notre vision du monde.

Rome 27 janvier 2010

74 C a r i t à P o l i t i c a

Page 83: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a 75

Progetto DomusCarità Politica

Per promuovere gli ideali di convivenzadi comprensione e di amicizia tra i popoli

NEL CUORE DI ROMA LA CASA DEL DIALOGO E DELLA COLLABORAZIONE TRAI POPOLI, TRA LE CULTURE E LE RELIGIONI

IN THE HEART OF ROME THE HOUSE OF DIALOGUE AND COLLABORATIONBETWEEN ALL THE PEOPLE, BETWEEN CULTURES AND RELIGIONS

UN CENTROINTELLETTUALE

UN CENTROMORALE

UN PONTE

UN SIMBOLOE UNA REALTÁ

UN’AUTORITAMORALE

capace di creare quella cultura politica che operasempre e comunque per il bene comune ela salvaguardia dei valori.

per promuovere la ricerca di relazioni armoniosetra le persone e i popoli.

tra la storia che viene da lontano e la cultura dellacomprensione che guarda al futuro.

d’un cammino di convivenza tra ipopoli nel nome della Pace.

sempre più rispettata dalla comunità internazionale.

Page 84: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

76 C a r i t à P o l i t i c a

LA CRISI ECONOMICA ALLA LUCEDELLA CARITAS IN VERITATE

Il ciclo di conferenze di riflessioni sull’Enciclica “Ca-

ritas in veritate” di Benedetto XVI, rappresenta un

aspetto delle iniziative culturali dell’Associazione In-

ternazionale Carità Politica, di diritto pontificio.

Di tali incontri offre una importante testimonianza il

convegno su “La crisi economica alla luce della Caritas

in veritate” tenuto mercoledì 6 ottobre in Vaticano.

Al convegno sono intervenuti in qualità di relatori:

– S.E. Mons. Giuseppe Molinari,

Arcivescovo Metropolita de L’Aquila

– Mons. Domenico Calcagno,

Segretario dell’Amministrazione del Patrimonio

della Santa Sede Apostolica,

– Prof. Ettore Gotti Tedeschi,

Presidente del Consiglio di Sovrintendenza

dell’Istituto per le Opere di Religione,

– Dott. Giuseppe Mussari,

Presidente dell’ABI

Page 85: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a 77

– Dott Carlo Fratta Pasini,

Presidente della Banca Popolare di Verona,

– Dott. Fabrizio Palenzona,

Vice-Presidente del Gruppo Unicredit,

ha coordinato i lavori il

– Prof. Alfredo Luciani,

Presidente dell’Associazione Internazionale Carità

Politica.

Ettore Gotti Tedeschi, stimato economista ora Presiden-

te dell’Istituto per le Opere di Religione alla Santa Sede,

parlando delle sfide affrontate dalla società contempo-

ranea ha ricordato che senza etica il mercato non fun-

ziona.

La sfera economica non va demonizzata, ma neppure la-

sciata a se stessa perché deve essere vincolata a bene co-

mune, e cioè governata dal punto di vista etico. Per limitarsi

all’aspetto economico, ecco alcuni punti essenziali della

“Caritas in veritate” messi in luce dal convegno.

L’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e sen-

za il bene comune come fine ultimo, rischia di distrug-

gere ricchezza e creare povertà.

L’attività economica non può risolvere tutti i problemi

sociali mediante la semplice estensione della logica

mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del

bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto

la comunità politica.

Nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica

del dono come espressione della fraternità possono e de-

vono trovare posto entro la normale attività economica.

Ogni decisione economica ha una conseguenza di carat-

tere morale.

L’economia ha bisogno dell’etica per il suo corretto fun-

zionamento; non di un’etica qualsiasi, bensì di un’etica

amica della persona.

Si sviluppa una “finanza etica”, soprattutto mediante il

microcredito e, più in generale, la microfinanza: questi

processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio

sostegno.

In conclusione, la crisi attuale mostra che uno sviluppo

di lungo periodo non è possibile senza l’etica. Questo

sembra essere il messaggio centrale della lettera papale,

un messaggio di cui tutti noi possiamo farci portatori.

Page 86: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

Non possiamo disconoscere, inoltre, che l’applicazionedi questo modello economico ha comportato l’offerta diprodotti migliori e più economici, uno sviluppo vertigi-noso della tecnologia e la diffusione di mezzi straordinaridi informazione, di comunicazione e di trasporto semprepiù alla portata di tutti. Sono risultati molto importantiche non possiamo in alcun modo disconoscere.Ma ad essi innegabilmente è imputabile l’aggravamentodelle clamorose disuguaglianze economiche e sociali esi-stenti nel mondo tra Paese e Paese e anche all’interno deisingoli Paesi.Il processo in atto si è dunque dimostrato incapace di pro-muovere una più equa ripartizione della ricchezza.Il modello capitalistico ha altri aspetti critici:1. la finalizzazione dell’attività economica all’obbiettivo

esclusivo e assorbente del profitto da conseguire intempi sempre più brevi.

2. l’asservimento del fattore lavoro alle esigenze strin-genti del profitto con tutti i sacrifici e i costi umani chederivano dalle condizioni di instabilità, insicurezza eprecarietà del lavoro. In molti casi il ruolo dell’uomoè assimilato a quello del computer.

3. la crescita quantitativa della ricchezza sta avvenendoal prezzo dell’alterazione dell’ambiente naturale e diuna compromissione delle sue risorse. Ciò può metterein pericolo la sopravvivenza stessa del pianeta.

4. il controllo che i poteri economici possono esercitaresui gangli più delicati della formazione della volontàpolitica. È caduto il mito della simbiosi tra capitalismoe democrazia.

Si sostiene che una crisi finanziaria così profonda comequella che stiamo vivendo non poteva essere prevista. Maquanto detto fin qui dimostra che ciò non è affatto vero.Il Magistero della Chiesa Cattolica prima del crollo delsistema sovietico aveva richiamato con continuità alcuniprincipi fondamentali: la tutela del lavoro, il primato dellapersona umana, il dovere di ridurre le disuguaglianze eco-nomiche e sociali. Ne era derivata una presa di distanzasia dal sistema capitalistico, sia da quello collettivistico.Con l’Enciclica “Centesimus annus”, caduto il sistemacomunista, veniva riconosciuta l’efficienza dell’economiadi mercato e ricevevano pertanto piena legittimazione, ol-tre alla libertà d’iniziativa economica individuale, il ruolodel mercato e della concorrenza. Ora con la nuova Enci-clica di Benedetto XVI “Caritas in veritate” vengono pun-

78 C a r i t à P o l i t i c a

È indubbio che la scintilla occa-sionale, che ha causato la crisifinanziaria ed economica cheancora stiamo vivendo, sia statainnescata da alcuni fattori con-tingenti: deregulation, lacunenormative, conflitto di interessitra analisti e gestori all’internodelle banche di investimento etra aziende e società di rating;l’uso spregiudicato della leva fi-nanziaria, modalità di retribu-zione dei top manager, chespiegano condotte gestionaliconcentrate sui risultati talvoltadi brevissimo periodo. Senza di-menticare il fenomeno tuttoamericano dell’elevatissimo in-

debitamento privato, che non è soggetto alle regole sta-bilite per l’indebitamento pubblico.Ma le ragioni di questa crisi sono strutturali, insite nellostesso sviluppo del capitalismo contemporaneo, che si ètrasformato in una “gabbia d’acciaio”.Dopo la caduta del muro di Berlino e l’implosione del si-stema sovietico ha preso avvio la cosiddetta “globalizza-zione”, è iniziato il turbocapitalismo, il “capitalismoallegramente selvaggio”(Magris), che si è imposto ten-denzialmente come modello universale senza limiti epressoché privo di regole. Esso nelle intenzioni avrebbedovuto conseguire non solo la diffusione della prosperitàeconomica, ma anche una più equa distribuzione dellaricchezza tra i diversi Paesi.Tutti, pur non considerandolo fondato sulla stessa naturaumana come quel famoso personaggio della FamigliaMoskat di Singer, riconosciamo, tuttavia, con chiarezzae oggettività gli aspetti positivi del modo di produzionecapitalistico non solo di ordine economico, ma anche diordine politico e sociale: l’elevazione delle condizionidi vita delle popolazioni in molti Paesi e non solo inquelli ricchi, il sensibile aumento della durata media del-la vita nelle varie regioni del Terzo Mondo, la diminui-zione drastica del tasso di analfabetismo, l’incrementonotevole del reddito prò capite in Paesi popolosi, mentrein Cina e India si è realizzata una crescita economicasenza precedenti.

LA CRISI ATTUALE NELL’OTTICADELL’ENCICLICA “CARITAS IN VERITATE”

DOTT. ANTONIO FALLICO“Chairman of the Board” – Banca Intesa – Mosca

Page 87: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a 79

tualmente individuate le insufficienze e le criticità del mo-dello di sviluppo economico adottato negli ultimi decen-ni. La nuova Enciclica richiama a distanza la “Populorumprogressio” e riprende l’approccio storico-umano dell’in-segnamento sociale di Paolo VI che anticipava una visio-ne globale del processo economico.I punti salienti della “Caritas in veritate” a mio avviso so-no i seguenti:a) denuncia dei limiti di un’economia globale totalmente

asservita all’imperativo dell’incremento del profitto.“Sostenibilità dell’impresa a lungo termine” e “pun-tuale servizio all’economia reale”.

b) l’affermazione che l’impresa deve soddisfare gli inte-ressi non solo degli azionisti e dei manager, ma di tuttigli stakeholder, e anche della comunità in cui opera.“Ilavoratori, i clienti, i fornitori dei vari fattori di produ-zione, la comunità di riferimento”.

c) la dichiarazione che la giustizia deve essere rispettatadurante lo svolgimento del processo economico e nonsolo dopo o lateralmente. Ogni decisione economicain tal modo ha una conseguenza di carattere morale.Si tratta di dar vita a una “ forma concreta e profondadi democrazia economica”.

d) l’enunciazione del principio dello sviluppo sostenibile,dove la sostenibilità è esplicitamente intesa come do-vere di rispetto dell’ambiente naturale.

e) la richiesta di una nuova riflessione sulla connessioneinscindibile tra diritti e doveri. I doveri delimitano i di-ritti perché rimandano al quadro antropologico ed eticoentro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono.

Infine il Pontefice invita a “ una nuova e approfondita ri-flessione sul senso dell’economia e delle sue finalità, non-ché a una revisione profonda e lungimirante del modellodi sviluppo capitalistico” per correggerne le disfunzionie le distorsioni. Lo esige la salute ecologica del pianeta esoprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo.Quale seguito potrà avere l’invito del Papa?Alcuni ritengono che questa crisi è fisiologica di naturaciclica, destinata come altre nel passato a risolversi da so-la. Altri, pur riconoscendone la gravità eccezionale, pen-sano di farvi fronte intervenendo con un drasticoampliamento e rafforzamento delle regole.Sono persuaso, invece, che nessun intervento sulle regolerappresenterà un rimedio adeguato, se non accompagna-to- come appunto suggerisce l’Enciclica- da un ripensa-mento profondo sul ruolo e sulle finalità dell’economiadi mercato: ovvero sul modo di dar vita a una vera demo-crazia economica.La concezione liberale dominante distingue la fase dellacreazione della ricchezza da quella successiva della suadistribuzione. All’economia spetterebbe il compito di pro-durre la ricchezza, alla politica il compito di riequilibrarela società con misure fiscali, assistenziali, ecc. secondo

principi di equità e solidarietà. All’homo oeconomicus,investitore e consumatore, si giustappone nella stessa per-sona l’homo politicus, il cittadino. In tal modo c’è il ri-schio che la politica e la democrazia vengano sacrificatealle ragioni dell’economia.Il cardine di ogni sistema democratico è il principio del-l’uguaglianza da intendere come scopo da perseguire enon come punto di partenza. L’uguaglianza è un punto diarrivo, è un dovere da compiere.È il momento di chiedersi:Il compito di perseguire l’uguaglianza spetta esclusiva-mente alla politica o anche alla sfera economica? Le re-gole riguardanti l’attività economica debbono servire soload assicurare la libertà, la concorrenza e l’efficienza o an-che a soddisfare le ragioni dell’equità e della giustizia?È intorno a questo quesito che si impone un ripensamentoprofondo del sistema economico di mercato.È ovvio che l’economia abbia indubbiamente come fineprimario quello della creazione della ricchezza e del mi-glioramento delle condizioni di vita degli uomini. Ma altempo stesso deve farsi carico anche delle ragioni del-l’equità e dell’uguaglianza. Questo è il Rubicone da at-traversare, direbbe Giovanni Bazoli.È l’esatta richiesta dell’Enciclica “Caritas in veritate”, cheha contribuito a rimettere “in moto il pensiero”.Lo svolgimento dell’attività economica deve garantire ivalori da cui dipende la vita democratica: la libertà el’uguaglianza.La libertà di iniziativa economica, come il diritto di pro-prietà, appartiene alla sfera dei diritti inviolabili della per-sona umana. Ma il primato della libertà sull’uguaglianzanon può essere assoluto, neppure nell’ambito economico.Il grande problema che le regole dell’economia devonorisolvere è dunque quello di contemperare la tutela dellalibertà con quella dell’uguaglianza. Si tratta di una con-dizione imprescindibile perché si instauri una “democra-zia economica”. Sono, quindi, necessarie nuove regolecon nuovi modelli di governance globale e permeate dauna nuova antropologia. Occorre procedere a formare unacoscienza degli uomini d’impresa e dei manager, a co-struire delle coscienze in sintonia con lo sviluppo dell’an-tropologia. Bisogna superare la supposta neutralitàdell’economia e la dicotomia tra homo oeconomicus ehomo politicus per riaffermare l’integrità dell’uomo, cherappresenta il nucleo primario sul quale deve fondarsi unanuova concezione del rapporto tra economia e società.Sotto questo profilo è decisiva la “responsabilità sociale”dell’imprenditore. Il “bene comune” deve essere semprel’orizzonte in cui si collocano le scelte che gli uominid’impresa compiono anche nella sfera di libertà indivi-duale che è loro riconosciuta.Ma ciò presuppone una rivoluzione culturale e morale.

Città del Vaticano, 6 ottobre 2010

Page 88: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

– Dott. Antongiulio Lombardi,

Direttore Affari Istituzionali e Regolamenti H3G

– Philipp Merlitz,

ICT Management Consultant

T-Systems International GmbH

Ha coordinato i lavori il

– Prof. Alfredo Luciani

L’etica della responsabilità, la tutela dei valori della liber-

tà e della democrazia da parte degli operatori della comu-

nicazione, sono stati gli elementi di fondo del convegno.

Il Presidente del Pontificio Consiglio della Comunica-

zione, l’Arcivescovo Claudio Maria Celli in riferimento

alla libertà responsabile ha detto : “Solo una risposta

consapevole e decisa dell’essere umano, può ottenere i

migliori frutti dalle creazioni tecnologiche”.

Nella prima parte del convegno si è riflettuto su l’uso

degli strumenti di comunicazione sociale, sulla loro im-

portanza e sull’utilità in ordine al progresso dell’Uma-

80 C a r i t à P o l i t i c a

Organizzato dall’Associazione Internazionale Carità Po-

litica, giovedì 4 novembre si è tenuto in Vaticano un con-

vegno su: “L’importanza dei mass media per la comunione

ed il progresso della società umana” con riferimento al-

l’Enciclica “Caritas in veritate” di Benedetto XVI

Sono intervenuti:

– Mons. Claudio Maria Celli,

Presidente del Pontificio Consiglio delle

Comunicazioni sociali.

– Dott.ssa Bianca Maria Martinelli

Direttore Affari Pubblici e Legali Vodafone

DIBATTITO SULL’USODEI TELEFONINI

nità. Successivamente, con gli interventi dei rap- pre-

sentanti della aziende leader del settore telefonia, si è

parlato di un’adeguata formazione teorica e pratica per

il retto uso degli apparecchi telefonici che ormai accom-

pagnano quotidianamente la nostra vita. Strumenti che

bisogna conoscere nei loro ingredienti, nei loro mecca-

nismi, nella loro finalità, per non esserne sopraffatti, ma

anzi per poterli meglio usare, al servizio dell’accresci-

mento culturale dell’uomo e della comunità civile.

Tra gli aspetti più significativi del convegno l’accento,

posto a più riprese sul modo in cui i mass-media entrano

spesso nella vita dei più giovani senza quella necessaria

mediazione orientatrice da parte dei genitori, che po-

trebbero valorizzare convenientemente i non piccoli ap-

porti positivi, capaci di servire allo sviluppo armonioso

del processo educativo. In breve, è compito dei genitori

educare se stessi, e con se i figli, a capire il valore della

comunicazione.

Page 89: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

C a r i t à P o l i t i c a 81

L’Associazione Internazionale Carità Politica guarda

con estrema attenzione al mondo della telefonia, per

l’importanza che esso ha assunto e assumerà sempre di

più nella vita dell’uomo e della collettività.

Questa attenzione, dunque, in primo luogo si rivolge alle

aziende leader nel settore della telefonia: nella consape-

volezza del loro potere per aiutare gli utenti ad usare

sempre meglio i telefonini.

Per questo scopo è stato creato un Forum tecnologico a

tutti campo sull’etica della comunicazione con partico-

lare attenzione alla telefonia, quale strumento si speran-

FORUM SOCIO-ETICODELLA TELEFONIA

za e di servizio per un mondo più giusto e solidale.

Un forum per offrire quei principi etico-formatici che

dovrebbero intervenire nella complessità di un fenome-

no sempre più coinvolgente

Il modo di vivere e di pensare della gente subisce profon-

damente l’influenza degli strumenti di comunicazione. Chi

opera nel mondo della telefonia ha una speciale respon-

sabilità nell’aiutare i giovani ad usare correttamente i te-

lefonini. Tale aiuto deve comprendere non solo l’apertura

nel dare le necessarie informazioni e consigli tecnici, ma

la sensibilità ai valori morali e spirituali.

Se è vero che la riflessione etica e formativa è in ritardo

rispetto allo sviluppo tecnologico degli strumenti di co-

municazione, si rende urgente una “illuminazione qua-

lificata” quale è contenuta nel Forum sempre vivo e

attuale di Carità Politica.

Page 90: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

82 C a r i t à P o l i t i c a

Page 91: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

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Page 92: Carita' Politica 2010 nr.1-3 Dicembre Gennaio

84 C a r i t à P o l i t i c a

Nell’ambito della manifestazione “Home and Building” che si è svolta a Verona il 13 ottobre 2010, il Distretto Veneto dell’Informatica e del Tecnologico Avanzato ha presentato in un convegno i risultati parziali dei due progetti “Sicurezza Integrata e “Safe Home” volti a rispondere alle più urgenti domande socio-ambientali, secondo una filosofia, non più basata unicamente su competitività e business, ma che tiene conto anche del ritorno sociale, tematica che il Distretto V.I.T.A. intende perseguire strategicamente nei prossimi anni. Tali progetti intendono migliorare la qualità della vita per tutti e consentire una maggiore autonomia ai soggetti cosiddetti "deboli", attraverso l’integrazione e lo sviluppo di nuove soluzioni tecnologiche, che ridurranno i rischi negli ambienti domestici, aumenteranno la sicurezza nei quartieri, ridaranno ai disabili la fruibilità delle loro abitazioni e permetteranno di svolgere varie attività anche al di fuori delle stesse. Per le persone malate o anziane saranno inoltre disponibili efficienti servizi di teleassistenza e telemedicina, che attraverso il telemonitoraggio domiciliare presidiato da una Centrale Operativa H24 diminuiranno lo stato di solitudine che spesso favorisce l'ansietà. Si potrà così evitare, in alcuni casi, l'ospedalizzazione o se ne ridurrà la durata. Tale processo migliorerà il servizio ai cittadini riducendo nel contempo i

costi sociali sempre più insostenibili.

Domenico Galia - Rappresentante deI Distretto V.I.T.A. e Presidente nazionale della categoria Unimatica associata a CONFAPI – ha presentato il Distretto e le scelte fin qui operate che hanno consentito la realizzazione di 22 progetti presentati, tutti approvati dalla Regione, ottenendo 4.040.053 euro di finanziamento a fondo perduto, registrando una controtendenza rispetto all'attuale crisi con l’assunzione di 14 nuovi addetti nelle recenti ATI, costituite nell'ambito dei Distretto. Ha infine evidenziato come il Distretto, con i due progetti "Sicurezza Integrata" e “Safe Home", abbia intrapreso un percorso virtuoso verso l'Innovazione Sociale, che oltre a migliorare la qualità della vita per tutti, contribuirà a ridurre i costi per l’assistenza sanitaria e sociale, aggiungendo infine che, per evitare i disastri causati da un’economia “finanziarizzata” è necessario porre al centro il valore delle Persone. Michele Marzola - Per Innovare S.p.A. - ha introdotto il contesto nel quale sono stati ideati i due progetti "Sicurezza Integrata" e Safe Home" evidenziando come in questi ultimi anni ci si è trovati di fronte a un'emergenza nuova dovuta all'aumento di azioni criminali, peraltro orientate anche verso target inediti, e che tuttora la protezione è demandata a sistemi di prevenzione

sporadica e non sistemica senza che vi sia alcuna progettualità di sistemi organici fruibili dall'utenza. Ha specificato inoltre che la maggior parte delle applicazioni implementate sono eterogenee, non integrate tra loro e quindi poco efficienti, da qui l'esigenza, di un controllo razionale ed efficace, che richiede pertanto l'urgente integrazione tra sistemi per il controllo degli accessi, sistemi antifurto, antincendio, dedicati alla logistica, sistemi di controllo di processo, sistemi informatici, e sistemi di gestione dell'energia.

Fulvio Leonardi - T-Systems Italia S.p.A. – ha presentato il risultato parziale del progetto "Sicurezza Integrata", ed elencando i grandi temi del nostro tempo (urbanizzazione, anzianità, immigrazione, ambiente), ha ricordato come nei prossimi anni la percentuale di persone anziane sarà sempre più elevata, e di conseguenza quanto sarà cruciale il tema della sicurezza. Entrando nel merito del progetto, ha evidenziato come siano necessari per le tecnologie un “linguaggio” ed una sintassi comune e come l’integrazione dei sistemi di prevenzione dissuasiva ed il controllo mediante dispositivi e sistemi automatici di monitoraggio a livello di quartiere (urbotica), possano ottenere

l'aumento dell'efficacia e la diminuzione dei costi.

Silvano Giuliani - HiT Internet Technologies S.p.A - ha presentato il risultato parziale del progetto "Safe Home", che oltre ad implementare alcune tecnologie del progetto "Sicurezza Integrata", intende migliorare la qualità della vita in particolare dei soggetti cosiddetti "deboli" attraverso lo sviluppo di nuove soluzioni tecnologiche, che permetteranno di diminuire i rischi negli ambienti domestici e che ridaranno ai disabili la fruibilità della loro abitazione. Per le persone malate o anziane saranno inoltre disponibili efficienti servizi di teleassistenza e telemedicina, che attraverso il telemonitoraggio domiciliare, ridurranno lo stato di solitudine che spesso favorisce l'ansietà. Si potrà così evitare, in alcuni casi, l'ospedalizzazione o se ne ridurrà la durata. Tale processo migliorerà il servizio ai cittadini riducendo nel contempo i costi per la collettività.

Enrico Olioso - Istituto "San Zeno" - ha presentato l'Istituto e l’accordo di collaborazione con il Distretto V.I.T.A. che oltre ad individuare percorsi formativi ad hoc per le aziende, fruibili "on center” presso l’Istituto e “on line” su specifica piattaforma didattica, prevede anche l’installazione presso la scuola delle tecnologie e servizi relativi al progetto “Sicurezza Integrata”, in modo da poterli testare e dimostrare in un contesto reale, nonché la messa a disposizione di sale demo e workshop per i progetti del Distretto.

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Maurizio Bernardi - Sindaco del Comune di Castelnuovo del Garda (VR) – ha illustrato i termini della collaborazione con il Distretto V.I.T.A., che prevede l’installazione presso un appartamento del Comune delle tecnologie e servizi relativi al progetto “Safe Home”, appartamento che sarà abitato da una persona disabile. Ha inoltre presentato un nuovo progetto che prevede lo stesso tipo di applicazione in una palazzina con più appartamenti, che sarà costruita ex-novo nella frazione di Castelnuovo del Comune di San Pio delle Camere (AQ) colpito dal terremoto del 2009, e che vedrà la collaborazione tra il Distretto e l’Associazione dei Comuni “I Castelnuovo d’Italia”.

Enrico Gervasoni - Presidente H&D Consortium – I due Progetti Sicurezza Integrata e Safe Home dimostrano quanto l’impresa, sviluppando la ricerca con etica e competenza, possa migliorare la sicurezza e la qualità della vita delle persone più deboli e

vulnerabili, diventando soggetto responsabile nell’ambito sociale. Con il progressivo invecchiamento della società, che va di pari passo con una maggiore solitudine ed insicurezza delle persone, ciò che oggi viene presentato come sperimentazione è destinato a divenire prassi. Da qui la necessità di favorire l’innovazione sociale senza che ciò comporti ulteriori costi aggiuntivi per l’utente, in un primo tempo mediante incentivi come già avviene in altri Paesi e successivamente riducendo l’influenza di sovrap-

gravanti su ll’accesso a lla casa, che mortificano una giusta compensazione dell’impegno umano e dell’investimento aziendale per l’innovazione tecnologica socialmente utile.

������������ intende promuovere appieno tali iniziative progettuali in

ogni ambito sia pubblico che privato, incoraggiando le aziende che partecipano ai relativi programmi abitativi e di sviluppo.

Andrea Stella - Lo Spirito di Stella O.n.l.us. – accennando alla sua vicenda personale, ha dimostrato come alcune soluzioni ideate per i disabili, come il POS/Bancomat, il telecomando TV, nonché tutte le soluzioni realizzate per il suo catamarano, si sono nella pratica dimostrate altrettanto valide per tutti. Ha illustrato inoltre il progetto “La casa per tutti”, che sarà realizzato in collaborazione con l’Unità Spinale dell’Ospedale di Vicenza e con il Distretto, che prevede l’allestimento di tre appartamenti con le tecnologie di “Safe Home”, i quali saranno messi a disposizione dei pazienti dimessi dall’ospedale, in modo che possano provare per un certo periodo di tempo le varie soluzioni, al fine di poter meglio individuare quelle che riterranno più funzionali alle loro condizioni personali.

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ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALECARITÀ POLITICA

INTERNATIONAL ASSOCIATION CARITÀ POLITICA

L’Associazione Internazionale Carità Politica è un movimento dilaici fondato da Alfredo Luciani.

Nel 1996 l’Associazione èriconosciuta dalla Santa Sede e

diviene, pertanto, di dirittopontificio. In Italia è stata eretta

in ente morale con decretoministeriale del 27 luglio 2000.

The International Association“Carità Politica” is a movement of

lay people founded by AlfredoLuciani. In 1996 the associationwas acknowledged by the HolySee and acquired legal statusaccording to canon law.

In Italy it was established as acharitable association by

ministerial decree of 27 July 2000.

COMPITIa) Estendere il raggio d’azione della giustizia edell’amore all’interno di ciascuna nazione e neirapporti delle nazioni tra di loro;b) Promuovere la coscienza della fraternità e uni-versalità della famiglia umana;c) Realizzare tra le diverse religioni il dialogo del-le opere, tra cui si devono evidenziare l’educazio-ne alla pace e al rispetto per l’ambiente; la solida-rietà verso il mondo della sofferenza, la promo-zione della giustizia sociale e dello sviluppo inte-grale dei popoli;d) Suscitare una presenza dinamica e responsabilenella vita sociale e politica della propria comunità

MISSIONa) to extend actions to establish justice and love wi-thin every nation and in relations among nations; b) to promote an awarness of the brotherhood anduniversality of the human family;c) to achive co-ordination among the different reli-gions in their actions, emphasising education forpeace and respect for the environment; solidaritytowards people around the world who are suffering,the promotion of social justice and the integral de-velopment or peoples;d) to be dynamic and responsible presence in thesocial and political life of its own community.

ATTIVITÀUno dei primi compiti dell’associazione è collega-re gli Ambasciatori accreditati presso la SantaSede, fomentando la collaborazione tra di loro, eorganizzando incontri per l’approfondimento ditematiche di carattere internazionale.Organizza a Roma e nelle diverse regioni del mon-do, Congressi e Colloqui internazionali.Collabora inoltre con altri organismi e istituzionioperanti nel campo della cultura, per contribuireall’elaborazione di un nuovo umanesimo.

ACTIVITIESOne of the principal tasks of the Association is tocollaborate with the Ambassador accredited to theHoly See and organise meetings to discuss interna-tional issues.Its organise international Congresses and Confe-rences in Rome and in various other areas of theworld. It co-operate with other agencies and instituitionsworking in the cultural field to contribute to theformation of a new humanism.

STAMPAL’Associazione pubblica la rivista “Carità Politica”e la “Biblioteca di Carità Politica”.

PRESSThe Association publishes the magazine “CaritàPolitica” and the “Biblioteca di Carità Politica”.

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www.hdconsortium.org - [email protected]

Habitat Développement&

Housing Development&

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