CARATTERIZZAZIONE BIO-MOLECOLARE DEL CARCINOMA … · Menarca anticipato e menopausa ritardata...

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CANDIDATO RELATORE Dr. Michele Menicagli Chiar.mo Prof. Antonio Giuseppe Naccarato Anno accademico 2011-2012 CARATTERIZZAZIONE BIO-MOLECOLARE DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA TESI DI SPECIALIZZAZIONE IN PATOLOGIA CLINICA

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CANDIDATO RELATORE

Dr. Michele Menicagli Chiar.mo Prof. Antonio Giuseppe Naccarato

Anno accademico 2011-2012

CARATTERIZZAZIONE BIO-MOLECOLARE DEL CARCINOMA

DELLA MAMMELLA

TESI DI SPECIALIZZAZIONE IN PATOLOGIA CLINICA

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INDICE

INDICE Pag. 2

1. INTRODUZIONE Pag. 3

2. EPIDEMIOLOGIA Pag. 4

2.1 FATTORI DI RISCHIO Pag. 5

3. MALATTIE BENIGNE DELLA MAMMELLA Pag. 7

4. CARCINOGENESI E PROGRESSIONE TUMORALE Pag. 8

5. FATTORI PROGNOSTICI E PREDITTIVI Pag. 10

6. FATTORI GENETICI E FAMILIARI Pag. 13

6.1 GENI DI SUSCETTIBILITA’ PER IL TUMORE MAMMARIO Pag. 14

6.2 IL CANCRO DELLA MAMMELLA FAMILIARE: BRCA1/BRCA2 Pag. 15

6.3 TP53 Pag. 16

6.4 7.4 ORMONI ENDOGENI Pag. 17

6.5 HER-2 Pag. 20

6.6 TOPOISOMERASI IIα Pag. 22

6.7 EGFR Pag. 23

6.8 VEGF Pag. 23

7. CLASSIFICAZIONE MOLECOLARE DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA Pag. 25

8. ANEUPLOIDIE E CARCINOMA DELLA MAMMELLA Pag. 28

9. CELLULE STAMINALI Pag. 29

10. DETERMINAZIONE DELLO STATO DI HER2 Pag. 34

10.1 TECNICA FISH Pag. 34

10.2 TECNICHE INNOVATIVE DI IBRIDAZIONE IN SITU: CISH E SISH Pag. 40

11. POLISOMIA DEL CROMOSOMA 17 Pag. 44

12. ETEROGENEITA’ TUMORALE Pag. 45

13. TRATTAMENTO DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA Pag. 47

13.1 TARGET THERAPY E BERSAGLI MOLECOLARI Pag. 47

13.2 ANTICORPI MONOCLONALI UMANIZZATI Pag. 48

13.3 TRASTUZUMAB E MECCANISMO D’AZIONE Pag. 49

13.4 TRASTUZUMAB: MECCANSIMI DI RESISTENZA Pag. 53

13.5 STRATEGIE TERAPEUTICHE PER SUPERARE LA RESISTENZA

A TRASTUZUMAB Pag. 61

14. MICRORNA (miRNA) Pag. 65

15. DNA REPAIR COME BERSAGLIO FARMACOLOGICO: SYNTHETIC LETHALITY

STRATEGY Pag. 69

16. CONCLUSIONI Pag. 72

BIBLIOGRAFIA Pag. 73

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1.0 INTRODUZIONE

Il carcinoma della mammella, rappresenta la neoplasia più frequente nel sesso femminile e la

seconda causa di morte dopo il tumore del polmone. Miglioramenti in termini di sopravvivenza

sono stati ottenuti grazie a vari programmi di screening. Il National Cancer Institute (NCI)

Surveillance, Epidemiology and End Results (SEER) program tra il 1977 e il 1982, ha evidenziato

per neoplasie di dimensioni inferiori ad 1 cm, una frequenza del 5,4%, mentre fra il 1983 e il 1987,

raggiungeva il 14,4% (Gloecker-Ries LA et al., 1994). Anche il tasso di carcinomi in situ è

progressivamente aumentato rispettivamente di 7,2 volte per le forme duttali e di 2,6 volte per le

forme lobulari, nel periodo tra il 1980 e il 2001 (Li CI et al., 2005). Ogni anno in Italia si registrano

circa 35000 nuovi casi e 11000 decessi; in Toscana sono state stimate nel 2010 circa 4100 nuove

diagnosi di tumore della mammella e 850 decessi. L’incidenza della malattia presenta un netto

gradiente tra Nord, Centro e Sud con rischi superiori del 40% al Nord. Nel recente quinquennio,

l’incidenza ha mostrato un aumento variabile dal 2 al 17% (Linee guida AIOM) a fronte di una

netta diminuzione in mortalità grazie agli avanzamenti ottenuti nella diagnosi precoce e nella

strategia terapeutica adiuvante. Tuttavia circa il 20-30% delle pazienti con linfonodi negativi e il

50% di quelle con linfonodi positivi alla diagnosi svilupperà metastasi a distanza, mentre il 7-10%

presenta uno stadio avanzato già al momento della diagnosi. Ad eccezione di casi sporadici (2-3%)

in cui è stata osservata una sopravvivenza di lunga durata, il tumore mammario metastatico rimane

ad oggi una malattia non guaribile, con una sopravvivenza mediana nelle pazienti non

precedentemente trattate di 18-24 mesi, variabile in base all’aggressività biologica, alla sede e

all’estensione della malattia (Cnossen JA et al., 2008). Studi recenti descrivono comunque un

guadagno in termini di sopravvivenza globale pari a 12,5 mesi, grazie all’introduzione di nuovi

agenti terapeutici (Mauri D et al., 2008).

Accanto alle strategie terapeutiche convenzionali, basate sulla chirurgia, linfonodo sentinella,

chemioterapia sistemica ed endocrino-terapia, recentemente sono state introdotte le “terapie target”

basate sull’impiego di anticorpi monoclonali diretti esclusivamente contro le cellule che esprimono

determinati recettori di membrana, bloccando in questo modo la cascata di eventi molecolari che

porta all’attivazione dei fattori di trascrizione e quindi alla crescita incontrollata della neoplasia.

L’amplificazione di determinati geni, è stata particolarmente studiata, in quanto si è dimostrata

avere un significato ai fini prognostici e predittivi di risposta ad alcune terapie. In particolare il 25-

30% dei carcinomi della mammella mostra amplificazione del gene HER-2/neu che codifica per un

recettore coinvolto nella regolazione della crescita cellulare (Seth RM et al., 2006).

Nei carcinomi della mammella in fase avanzata, è indicata la terapia neo-adiuvante, che consiste

nell’uso della chemioterapia in fase pre-operatoria, con l’obiettivo di ridurre la massa del tumore

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primitivo (riduzione dello stadio T), al fine di rendere operabile, con intento radicale, una neoplasia

localmente avanzata. L’approccio secondario, consiste nella valutazione in vivo della responsività

ai trattamenti e l’eradicazione di eventuali micrometastasi responsabili della ripresa della malattia

(Ruco L et al. 2007).

Per l’individuazione dei fattori predittivi di risposta alle terapie convenzionali (endocrino-terapia) e

target (trastuzumab) in fase pre-operatoria, è possibile ricorrere all’uso dell’ago-biopsia che espone

la paziente ad inconvenienti come l’anestesia locale e il rischio di disseminazione in circolo delle

cellule tumorali. Il prelievo del tessuto permette un’analisi di tipo istologico della lesione, la

conoscenza della sua eventuale invasività e dei parametri biologici. Ai fini della corretta

pianificazione terapeutica si deve tener presente che nel 10-30% dei casi con diagnosi

microistologica di carcinoma in situ, la successiva exeresi chirurgica, rivela la presenza di un

carcinoma invasivo (Estratto Linee Guida F.O.N.Ca.M. 2008).

2.0 EPIDEMIOLOGIA

Il carcinoma della mammella è la neoplasia più frequente nelle donne nei paesi industrializzati, ed è

la maggiore causa di morbilità e mortalità oncologiche. L’incidenza del cancro della mammella

presenta un’ampia variabilità geografica. È quasi 10 volte più frequente nelle popolazioni ricche

dell’occidente rispetto alle aree del terzo mondo. In Italia l’incidenza è di circa 40000 nuovi casi

l’anno, in media con i valori europei (Jemal A et al., 2008) (Fig 1).

I tassi di incidenza aumentano esponenzialmente con l’età, ma intorno ai 50-55 anni, a differenza di

altri tumori epiteliali non dipendenti da fattori ormonali e riproduttivi, l’incremento cessa per poi

riprendere meno pronunciato dopo i 60 anni (Key TJ et al., 2001; Jemal A et al., 2008). In realtà la

tendenza all’incremento dell’incidenza in Italia nelle ultime decadi è riconducibile anche alla

tempestività delle diagnosi in relazione a campagne di screening di prevenzione secondaria.

La mortalità per carcinoma della mammella è rimasta sostanzialmente invariata dal 1930 al 1990

per poi mostrare una leggere riduzione grazie probabilmente alla diagnosi precoce e all’utilizzo di

terapie mirate su base ormonale e genetica. Ad eccezione di casi sporadici (2-3%) in cui si è

osservata una sopravvivenza di lunga durata, il tumore mammario metastatico rimane ad oggi una

malattia non guaribile, con una sopravvivenza mediana nelle pazienti non precedentemente trattate

di 18-24 mesi, variabile in base all’aggressività biologica, alla sede e all’estensione della malattia.

Studi recenti descrivono un guadagno crescente, in termini di sopravvivenza globale pari a 12,5

mesi per l’introduzione di nuovi agenti terapeutici (Mauri D et al., 2008).

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Fig 1: tassi di incidenza e mortalità

2.1 FATTORI DI RISCHIO

Il rischio di sviluppare il carcinoma della mammella è associato a fattori di ordine genetico e

familiare, endocrino, dietetico, ambientale, ad abitudini di vita e pregresse malattie mammarie,

anche se più della metà dei casi non è tuttavia riconducibile ad alcun fattore di rischio noto (Willet

WC, 1993).

Età. L’età rappresenta un fattore di rischio in rapporto ai meccanismi che possono coinvolgere il

prolungato stimolo endocrino alla proliferazione, l’accumulo di danni al DNA a livello di ocnogeni

e geni oncosoppressori, l’espressione patologica di geni correlati al ciclo cellulare e all’apoptosi.

Circa l’80% dei carcinomi mammari sporadici insorge sopra i 50 anni con un’età media alla

diagnosi intorno ai 65 anni (Howlader N et al., 2011).

Lunghezza periodo riproduttivo. Menarca anticipato e menopausa ritardata aumentano il rischio di

carcinoma della mammella (Hulka BS et al., 2001). Per tutto il periodo riproduttivo ogni mese, i

lobuli scompaiono e ricompaiono, con un elevato ritmo proliferativo delle cellule delle unità

terminali dotto-lobulo (TDLU). Qualsiasi agente cancerogeno esercita meglio la sua azione ai danni

del DNA durante il processo di mitosi. Un’intesa proliferazione è inoltre indispensabile sia per la

trasformazione neoplastica che per la progressione della malattia (Kelsey JL et al., 1993).

Età della priva gravidanza a termine. Avere il primo figlio in giovane età, ha un effetto protettivo;

un parto prima dei venti anni di età, dimezza il rischio in rapporto a quello di un parto dopo i 35

anni. Si ipotizza che la situazione ormonale determinata dalla gravidanza possa avere un effetto

differenziativo sulle cellule epiteliali della ghiandola mammaria, rendendole in questo modo più

resistenti, come capacità metaboliche e di riparazione del DNA, ai cancerogeni (Kelsey JL et al.,

1993; Singletary SE, 2003).

Tasso di incidenza Tasso di mortalità

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Precedenti biopsie mammarie con diagnosi di iperplasia epiteliale atipica e carcinoma in situ. Una

spiegazione plausibile si basa sul concetto di “field cancerogenesis” o cancerogenesi a campo;

l’intera popolazione cellulare di un tessuto o di un organo sarebbe esposta all’agente cancerogeno

con possibilità di insorgenza della neoplasia in più zone dello stesso albero ghiandolare. Quindi

sviluppare un’iperplasia tipica o un carcinoma in situ, rappresenta un allarme, per la possibilità di

sviluppare neoplasie infiltranti. Infatti queste lesioni rappresentano le fasi iniziali del processo

neoplastico (Singletary SE, 2003).

Estrogeni endogeni ed esogeni. L’aumentata esposizione ad estrogeni può aumentare il rischio di

carcinoma della mammella. L’obesità è un fattore di rischio nelle donne in post-menopausa, in

quanto nei depositi di grasso si ha produzione endogena di estrogeni (Eliassen AH et al., 2006;

Nichols HB et al., 2009). Il rischio conferito dalla terapia ormonale sostitutiva sembra essere

modesto (Rosemberg LU et al., 2006). Il rischio ambientale (fitoestrogeni, pesticidi) è ancora

oggetto di studio (Rice S et al., 2006).

Esposizione a radiazioni. Il rischio sembra essere importante nelle donne giovani (non oltre i 30

anni) sottoposte a terapia radiante per neoplasia tipo la malattia di Hodgkin (Preston DL et al.,

2002).

Allattamento al seno. Un prolungato allattamento riduce il rischio di carcinoma; durante questo non

si hanno cambiamenti nella struttura della mammella (Singletary SE, 2003).

Dieta. Per quanto riguarda il ruolo della dieta non vi sono ancora studi scientifici certi; un fattore di

rischio su cui sembra esservi consenso è il consumo di alcool (Singletary KW et al., 2001; Baan R

et al., 2007).

Influenza geografica. L’incidenza di carcinoma della mammella negli Stati Uniti e in Europa e 4-7

volte maggiore rispetto ad altri paesi; questo potrebbe essere dovuto all’esposizione a cancerogeni

ambientali e a diverse abitudini come allattamento e dieta (Newman LA et al., 2006).

Familiarità. La presenza di un parente di primo grado (madre o sorella) con carcinoma mammario

rende doppio il rischio di sviluppare un carcinoma della mammella rispetto alla popolazione

generale. Solitamente nei soggetti con predisposizione familiare, il carcinoma compare in età

giovanile (prima dei 40 anni) ed è più frequentemente bilaterale (Lakhani SR et al., 2000;

Singletary SE, 2003). Lo studio genetico di una famiglia basato sulla ricostruzione dell’albero

genealogico, corredato da tutti gli eventi patologici, permette di stabilire se una patologia è del tipo

eredo-familiare. La presenza di una mutazione germinale può essere determinata attraverso un test

genetico che consiste nell’esaminare il DNA di un individuo estratto da cellule di un campione di

sangue o da altri liquidi o tessuti corporei, nella ricerca di alterazioni correlata alla malattia. Le

alterazioni del DNA possono essere numerose, come aberrazioni cromosomiche rilevabili

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dall’esame del cariotipo, o alterazioni di singoli geni attraverso delezioni, mutazioni puntiformi,

mutazioni frame-shift (inserimento o delezione di singole basi in un esone), amplificazione genica. I

soggetti sani a rischio eredo-familiare possono essere avviati a specifici programmi di sorveglianza

al fine di una diagnosi precoce (Jaffrey SS et al., 2005).

Predisposizione genetica. È stato dimostrato che pazienti affetti da mutazioni a livello dei geni

BRCA1 (17q) e BRCA2 (12q), hanno un aumentato rischio di sviluppare un carcinoma della

mammella entro i 70 anni, di circa il 56% (Allain DC et al., 2007). Le mutazioni a livello di questi

geni, sono responsabili di circa 1/3 dei casi familiari e complessivamente del 10% dei casi di

carcinoma mammario (Walsh T et al., 2006). Le mutazioni del gene BRCA1 sono inoltre coinvolte

nella predisposizione allo sviluppo di carcinomi all’apparato riproduttivo femminile (ovaio e tube).

3.0 MALATTIE BENIGNE DELLA MAMMELLA

Le malattie benigne della mammella, costituiscono un gruppo vasto ed eterogeneo di lesioni la cui

frequenza è maggiore rispetto alle lesioni maligne. La loro importanza deriva dal fatto che alcune

possono simulare clinicamente il cancro della mammella, mentre altre rappresentano fattori di

rischio per lo sviluppo del successivo carcinoma. Solo una minima parte rientra in quest’ultima

categoria, trattandosi di poche lesioni che fanno parte del gruppo delle malattie benigne a carattere

proliferativo. A carico della mammella possono riscontarsi vari tumori benigni fra cui lipomi,

adenomi ed emangiomi; l’asportazione completa di queste lesioni rappresenta un trattamento

adeguato e definitivo. Una delle più note lesioni proliferative della mammella è rappresentata dal

fibroadenoma che si riscontra più frequentemente fra i 25 ed i 35 anni di età, aumenta di dimensioni

durante la gravidanza e tende a regredire con l’avanzare dell’età. Generalmente è una lesione

singola, ma nel 20% dei casi può essere multipla o bilaterale. Microscopicamente sono costituti da

tessuto connettivo e ghiandolare; una loro trasformazione maligna è riportata solo raramente (0,1%

dei casi) per la componente epiteliale in genere sottoforma di carcinoma in situ. Il rischio di

trasformazione è aumentato se è presente iperplasia duttale o una storia familiare di carcinoma

mammario. Altra lesione benigna della mammella è il papilloma intraduttale che nel 90% dei casi è

solitario e costituito da una lesione polipoide all’interno dei dotti che può essere causa di secrezione

ematica del capezzolo. L’escissione chirurgica guarisce il tumore e non c’è in queste condizioni un

aumentato rischio di cancro mammario a lungo termine. Il rischio aumenta in caso di pipillomi

multipli microscopicamente evidenti.

La malattia fibrocistica è la condizione benigna più comune; si riscontra nel 50-90% delle donne in

un’età compresa fra i 25 ed i 45 anni. Generalmente è bilaterale. È rappresentata da un insieme di

alterazioni mammarie tra cui, cisti, fibrosi, infiammazione cronica, iperplasia epiteliale. Questo tipo

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di patologia di per se non aumenta il rischio di cancro che è invece correlato alla presenza di

iperplasia duttale o lobulare soprattutto se atipica ed associata a storia familiare di carcinoma della

mammella (Bonadonna G et al., 2007).

4.0 CARCINOGENESI E PROGRESSIONE TUMORALE

Il carcinoma mammario si sviluppa dalle cellule epiteliali dell’albero ghiandolare e può originare

diversi istotipi fra i quali i più frequenti sono il carcinoma duttale e lobulare. I due termini sono stati

introdotti ritenendo che la prima forma derivasse dai dotti principali e la seconda dai lobuli.

Fig 2: struttura normale della mammella Tuttavia la maggior parte dei carcinomi insorge a livello delle unità terminali dotto lobulari (TDLU)

e successivamente per meccanismi non del tutto ancora conosciuti da luogo a tumori diversi sia dal

punto di vista morfologico che per il comportamento biologico come ad esempio l’espressione o

meno della proteina di adesione intracellulare E-caderina (Lumachi F et al., 1997) (Fig 2).

Per entrambi i tipi si riconoscono una forma in situ ed una forma infiltrante. Il tipo duttale

rappresenta il 75% dei tumori infiltranti, mentre il lobulare solo il 5%; istotipi infiltranti meno

frequenti sono il carcinoma midollare (15%), il colloide o mucinoso (2%), il tubulare (1-2%) ai

quali si aggiungono altre forme rare. Alle volte le cellule di un carcinoma in situ dei dotti principali

possono migrare fino a raggiungere l’epidermide del capezzolo o dell’areola causando una flogosi

della cute. Tale quadro clinico è noto come malattia di Paget ed è importante per il fatto che con il

tempo il tumore può divenire invasivo.

Il passaggio dalle strutture normali al carcinoma in situ avviene mediante la formazione di lesioni

intermedie, diverse per i due tipi principali di tumore e indicate come lesioni preneoplastiche (Fig

3). Analisi di genetica molecolare e citogenetica hanno infatti dimostrato come il carcinoma della

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mammella in modo simile ad altre neoplasie derivi da un processo multistep caratterizzato

dall’accumulo di varie alterazioni genetiche (Bombonati A et al., 2011). Uno dei modelli più

accettati è quello di Wellings e Jansen per il quale a partire dall’epitelio normale si può avere lo

sviluppo di un’iperplasia che successivamente può diventare una lesione pre-maligna, carcinoma in

situ ed infine carcinoma invasivo capace di metastatizzare (Wellings GR et al., 1973; Welling GR et

al., 1975) . Determinate alterazioni genetiche si mantengono durante l’evoluzione della lesione ed

esiste una forte correlazione tra il rischio di sviluppare un carcinoma invasivo e la tipologia della

lesione precursore. Pertanto tutti i carcinomi invasivi originano inizialmente da lesioni in situ che

hanno subito alterazioni genetiche ed epigenetiche che influenzano la morfologia e le funzioni

cellulari.

Fig 3: progressione del carcinoma della mammella Il carcinoma in situ, generalmente intraduttale (DCIS), per definizione non supera la membrana

basale del dotto ed è formato da cellule dell’epitelio ghiandolare proliferanti e con caratteristiche di

malignità. In era pre-mammografiica, il carcinoma intraduttale clinicamente evidente non era

frequentemente riscontrabile, essendo meno del 5% di tutti i tumori palpabili. La diffusione dello

screening mammografico ha modificato sensibilmente la sua incidenza, permettendo

l’identificazione di tali lesioni allo stadio preclinico. L’incidenza attuale dei DCIS è circa il 15-30%

di tutti i carcinomi della mammella. Quando il tumore supera la membrana basale diventa micro

infiltrante ed invasivo acquistando la capacità di diffondersi attraverso il sistema emolinfatico ad

altri organi (Fig 4).

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Fig 4: carcinoma duttale in situ ed infiltrante La cellula da cui originano i carcinomi della mammella è importante per le sue implicazioni

nell’eziologia e nel trattamento. L’ipotesi delle cellule staminali neoplastiche, suggerisce che le

modificazioni maligne avvengano in una popolazione di cellule staminali con proprietà uniche che

le distinguono dalle cellule differenziate (Campbell LL et al., 2007); solo queste contribuirebbero

alla progressione o recidiva tumorale. Il tipo di cellula che più probabilmente è all’origine della

maggior parte dei carcinomi è la cellula luminale che esprime ER; la maggioranza dei carcinomi è

infatti ER positiva e le lesioni pre-cancerogene come le iperplasie atipiche sono simili a questo tipo

di cellule. I carcinomi ER negativi, potrebbero invece derivare da cellule mioepiteliali ER-negative

(Shipitisin M et al., 2007); questo spiegherebbe il fatto di come molte proteine presenti nelle cellule

mioepiteliali siano comuni nei tumori tripli negativi o basiloidi. L’ultima fase nella progressione del

tumore della mammella è la transizione da carcinoma in situ a carcinoma invasivo e rappresenta

purtroppo la fase meno conosciuta.

5.0 FATTORI PROGNOSTICI E PREDITTIVI I criteri prognostici di maggiore importanza sono il grado istologico e lo stadio della neoplasia. La

variabilità prognostica registrata all’interno di categorie di pazienti omogenee per stadio anatomo-

clinico, ha indotto ad una più estesa caratterizzazione del tumore dal punto di vista morfologico e

biofunzionale (Andreopoulou E et al., 2008).

Il sistema di attribuzione del grado più usato considera il pleomorfismo nucleare, la formazione di

tubuli e l’indice mitotico per classificare i carcinomi invasivi in tre gruppi che sono strettamente

correlati alla sopravvivenza. La sopravvivenza a 10 anni dall’85% del grado I scende al 60% nel

grado II e al 15% nel grado III. La riproducibilità del grado è alquanto bassa risentendo della

soggettività dell’osservatore (Kumar V, 2005; Rakha EA et al., 2010) (Fig 5)

Carcinoma duttale in situ Carcinoma duttale infiltrante

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GRADO I GRADO II GRADO III

Fig 5: grado tumorale

La determinazione dello stadio raggiunto dalla neoplasia alla presentazione è importante per

importare i programmi terapeutici sia chirurgici che radio e/o chemioterapici. La stadiazione viene

eseguita seguendo protocolli che tengono conto delle più recenti acquisizioni scientifiche.

Attualmente si fa riferimento al sistema TNM adottato dall’American Joint Committe on Cancer

(AJCC) nel 2002 e tale sistema si basa su:

• dimensioni della neoplasia (T)

• presenza ed estensione di metastasi ai linfonodi regionali (N)

• presenza di eventuali metastasi a distanza (M)

Dimensioni della neoplasia. Le dimensioni del tumore costituiscono un fattore prognostico

indipendente molto importante. Il vantaggio dello screening mammografico consiste nella

possibilità di riconoscere ed identificare lesioni di dimensioni inferiori a quelli diagnosticati con la

sola clinica. Un aspetto che esemplifica l’importanza delle dimensioni del tumore è il dato,

confermato dalla letteratura, secondo il quale la sopravvivenza a 20 anni per carcinomi di

dimensioni inferiori ad 1 cm e linfonodi negativi è del 90%, mentre per neoplasie di dimensioni

inferiori a 2 cm, la sopravvivenza scende a 2 cm. Alle dimensioni della neoplasia è correlata anche

l’incidenza di metastasi linfonodali.

Metastasi linfonodali. Lo stato dei linfonodi ascellari rappresenta il più importante fattore

prognostico per il carcinoma invasivo della mammella in assenza di metastasi a distanza. La

valutazione clinica del coinvolgimento linfonodale è inaccurata sia per i falsi positivi che per i falsi

negativi, pertanto la biopsia si rende necessaria per una valutazione accurata. In assenza di

interessamento dei linfonodi, la sopravvivenza libera da malattia a 10 anni è vicina al 70-80%, con

un numero di linfonodi interessati da 1 a 3 la percentuale scende al 35-40%, mentre in presenza di

più di 10 linfonodi positivi, la percentuale di sopravvivenza è del 10-15%. Nella stadiazione e

terapia chirurgica del tumore mammario la tecnica del “linfonodo sentinella” sta acquisendo un

ruolo sempre più importante. Si tratta di una tecnica messa a punto nel 1996 da studiosi del National

Cancer Institute of Bethesda, rapidamente diffusasi a livello internazionale e ormai considerata un

cardine della terapia chirurgica conservativa senologica. La tecnica trova la sua giustificazione

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fisiopatologica nell’osservazione che la diffusione metastatica delle cellule neoplastiche, dal

focolaio tumorale primitivo ai linfonodi ascellari, avviene in modo regolare e progressivo senza

salti di livello. La negatività istologica del primo linfonodo di drenaggio, che riceve il flusso

linfatico proveniente dall’area di mammella interessata dalla neoplasia (linfonodo sentinella

identificato con tecniche radioisotopiche), permette di escludere con ragionevole sicurezza

l’interessamento metastatico dell’intera catena linfonodale ascellare, evitando in questo modo

l’inutile dissezione ascellare completa (valore predittivo negativo maggiore al 96%) (Cserni G,

2002; Cserni G et al., 2003; Cserni G et al., 2004; Turner RR et al., 2008). La positività istologica

del linfonodo sentinella, indica la diffusione regionale della neoplasia con linfoadectomia ascellare

totale. Con l’introduzione di metodologie più sensibili come sezioni seriali dei linfonodi,

immunoistochimica per le cheratine, rilevazione dell’mRNA carcinoma specifico tramite RT-PCR è

stata possibile l’individuazione di micrometastasi (dimensioni inferiori a 0,2 cm), in un numero

maggiore di pazienti. Il 10-20% di pazienti prive di metastasi linfonodali ascellari, presenta tuttavia

recidiva extramammaria e circa lo stesso numero muore per carcinoma della mammella. In queste

pazienti il processo metastatico avviene tramite linfonodi mammari interni o per via ematica

(Fenaroli P et al., 2000; Mabri H et al., 2007). Le procedure per l’allestimento dei preparati del

linfonodo sentinella mancano di standardizzazione e variano in riferimento alle modalità di taglio e

preparazione macroscopica, al numero di sezioni istologiche da allestire ed esaminare e all’uso di

colorazione immunoistochimiche ancillari. Recentemente sono stati pubblicati studi per l’analsi del

linfonodo sentinella con la procedura “One Step Nucleic Acid Amplification” (OSNA), che prevede

l’uso di uno strumento dedicato per RT-PCR e di kit specifici per l’analisi quantitativa di RNA per

la citocheratina 19 (CK19), marcatore di cellule di carcinoma mammario. Questi studi hanno

dimostrato come la procedura OSNA abbia una sensibilità del 95,3% ed una specificità del 94-97%

rispetto alla procedura classica istologica (Pietrabiasi F et al., 2006; Tsujimoto M et al., 2007;

Tamaki Y et al., 2009).

Metastasi a distanza. Le sedi preferenziali di metastasi a distanza sono i segmenti ossei (70-80%),

soprattutto vertebrali, costali, pelvici e della volta cranica. Le metastasi polmonari rappresentano il

60-65%; una volta raggiunto il polmone, attraverso la circolazione arteriosa produce metastasi

epatiche (60%) e cerebrali (25%).

I fattori prognostici indicati nel TNM sono utili per prevedere la prognosi delle singole neoplasie.

Accanto a questi vengono utilizzati altri fattori utili come indicatori di risposta alla terapia.

Sottotipo istologico. La sopravvivenza a 30 anni nelle donne con carcinomi invasivi di tipo speciale

(tubulare, mucinoso, lobulare, papillare) è maggiore del 60%, rispetto a meno del 20% in pazienti

con carcinomi invasivi di tipo non speciale.

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Invasione vascolare. Le cellule tumorali si trovano all’interno degli spazi vascolari in circa metà dei

carcinomi invasivi; tale reperto è fortemente associato con la presenza di metastasi linfonodali ed è

quindi indice di prognosi sfavorevole (Kumar V 2005).

Indice proliferativo. La proliferazione cellulare può essere misurata sia mediante conta mitotica sia

mediante la rilevazione immunoistochimica di proteine cellulari prodotte durante il ciclo (Ki67) o

mediante citometria a flusso (frazione di cellule in fase S). Numerose evidenze sembrano suggerire

come livelli di espressione di Ki67, compresi fra il 10 e 14% sia in grado di definire gruppi di

pazienti ad alto rischio in termini di prognosi peggiore (de Azambura E et al., 2007). Alti livelli di

proliferazione cellulare sono inoltre stati trovati essere correlati con la negatività per ER e la

positività per HER2 (Viale G et al., 2008). Ki67 avrebbe anche un ruolo predittivo; carcinomi con

alto indice di proliferazione cellulare possono rispondere meglio alla chemioterapia (Paik S et al.,

2004; Yerushalmi R et al., 2010).

Ploidia. La quantità di DNA per cellula tumorale può essere determinata mediante citometria a

flusso; la presenza di cellule aneuploidi, con contenuto anomalo di DNA, è indicativa di precoce

ripresa di malattia (Munteanu D et al., 2004).

Risposta alla terapia neoadiuvante: dopo intervento chirurgico, la maggior parte delle pazienti

riceve un trattamento sistemico o “terapia adiuvante”. La terapia neoadiuvante è un approccio

alternativo in cui il paziente è trattato prima dell’intervento. Tale approccio non aumenta la

sopravvivenza, ma il grado di risposta alla chemioterapia rappresenta un forte fattore prognostico.

Le neoplasie con maggiore probabilità di rispondere meglio sono quelle poco differenziate, ER-

negative ed associate ad aree di necrosi (Gralow JR et al., 2008).

Di recente introduzione è la ricerca di cellule neoplastiche nel midollo osseo o nel sangue con

tecniche di biologia molecolare; la loro presenza è un indice affidabile di diffusione della malattia.

6.0 FATTORI GENETICI E FAMILIARI

Geni e cancro

Il cancro è una malattia genetica dovuta all’alterazione di più geni. Sono interessati geni la cui

funzione è quella di controllare che la moltiplicazione delle cellule avvenga in modo ordinato. Se è

presente un’alterazione, le cellule possono riprodursi in modo disordinato, infiltrare i tessuti vicini e

diffondersi in tutto il corpo. I geni più frequentemente coinvolti sono gli oncogeni che normalmente

stimolano la proliferazione cellulare, i geni oncosoppressori i quali normalmente frenano la

moltiplicazione delle cellule ed i geni riparatori del danno del DNA che favoriscono l’insorgenza

del cancro non correggendo gli errori che si verificano quando il DNA viene duplicato e

consentendo pertanto, l’accumulo di mutazioni. Particolare interesse hanno assunto i test genetici

14

predittivi in grado di individuare soggetti a rischio di sviluppare una neoplasia per il fatto di avere

ereditato un gene mutato, prima della comparsa di segni o sintomi. Un test genetico predittivo dirà

se è presente o meno una mutazione correlata ad una determinata neoplasia. se la mutazione è

presente, lo sviluppo successivo della neoplasia dipende dalla penetranza del gene (Jeffrey SS et al.,

2005).

6.1 GENI DI SUSCETTIBILITA’ PER IL TUMORE MAMMARIO

I geni ad elevata penetranza predisponenti al tumore mammario finora identificati sono: BRCA1 e

BRCA2 (Breast cancer susceptibility gene 1 o 2) (Walsh T et al., 2006), p53 (sindrome di Li-

Fraumeni), la fosfatasi PTEN (malattia di Cowden) (Steck PA et al., 1997), la serin treonin chinasi

STK11/LKB1 (sindrome di Peutz-Jeghers) (Thull DL et al., 2004; Cuatrecasas M et al., 2006;

Sabate JM et al., 2006) e la chinasi ATM (ataxia-telangiectasia) (Chenevix-Trench G et al., 2002)

(Tab 1).

Tab 1: principali geni predisponenti al tumore della mammella

La frequenza di mutazioni varia da 1/1000 nel caso di BRCA1 a circa 1/10000 nelle sindromi più

rare.

Mutazioni relativamente comuni a livello dei geni a bassa penetranza agiscono assieme a fattori

endogeni e condizioni legate allo stile di vita nell’insorgenza di neoplasie sporadiche, che

rappresentano la maggior parte dei carcinomi mammari.

15

6.2 IL CANCRO DELLA MAMMELLA FAMILIARE: BRCA1/BRCA2

Non esiste una mutazione genetica univocamente associata al rischio. L’anamnesi familiare positiva

per carcinoma della mammella, aumenta il rischio di sviluppare la malattia; studi epidemiologici

hanno dimostrato che circa il 12% dei pazienti con carcinoma della mammella hanno almeno un

familiare affetto da malattia e come il rischio aumenta con il numero dei familiari affetti (Jeffrey SS

et al., 2005; Jemal A et al., 2008).

La probabilità che sia presente una mutazione genetica aumenta se la storia familiare include la

giovane età alla diagnosi, raggruppamenti di carcinomi mammari ed ovarici (80% BRCA1),

carcinoma della mammella maschile (66% BRCA2) e altre rare neoplasie come sarcomi e tumori

della corticale del surrene (70% p53).

Dal 5-10% dei carcinomi della mammella compaiono come risultato di specifiche mutazioni in geni

ad alta penetranza (Walsh T et al., 2006). Tali mutazioni, trasmesse con ereditarietà autosomica

dominante sono relative ai due geni oncosoppressori BRCA1 (17q21) e BRCA2 (13q12.3); essi

sono responsabili dell’80-90% delle neoplasie geneticamente determinate, codificando per proteine

nucleari coinvolte nei meccanismi biochimici che controllano l’integrità del genoma (Wooster R et

al., 2003; Allain DC et al., 2007). Rappresentano forti predittori di rischio e conferiscono un

aumentato rischio di neoplasia mammaria, ad esordio spesso bilaterale ed in età precoce (Fig 6).

Mutazioni a carico del gene BRCA1 comportano un rischio del 65-85% di sviluppare un cancro

della mammella nel corso della vita ed un rischio del 39-46% di sviluppare un cancro dell’ovaio

(King MC et al., 2003). Nel sesso maschile mutazioni di BRCA1 non comportano un incremento di

rischio di carcinoma mammario, ma probabilmente di cancro della prostata e del colon

Nel caso di mutazioni di BRCA2, il rischio di sviluppare nel corso della vita, un tumore della

mammella è di circa il 7,5% per gli uomini e del 45-85% per le donne, mentre per il tumore

dell’ovaio è del 10-27% (King MC et al., 2003). Nella popolazione generale una mutazione di

BRCA1 è presente in 1 ogni 500-800 individui; mutazioni a carico di BRCA2 sono meno frequenti.

Negli ebrei Askenazi (dell’Europa occidentale e USA), una mutazione di BRCA2 si riscontra in un

individuo ogni 40 (Chen S et al., 2007); in questa popolazione un’alta percentuale di famiglie sono

associate a poche mutazioni nei due geni denotando per quest’ultime un effetto fondatore.

Le neoplasie in pazienti con mutazioni di BRCA2 non hanno un fenotipo distinto dalle neoplasie

sporadiche a differenza dei carcinomi associati a mutazioni di BRCA1 che presentano un fenotipo

duttale, elevato grado istologico, consistente infiltrato linfocitario, negatività per recettori ormonali

e HER2 ed iperespressione di p53 (Lakhani SR et al., 2002; Tutt A et al., 2008).

Di un terzo gene BRCA3 ne è stata ipotizzata solo l’esistenza, sebbene alcuni studi ne hanno

individuato un possibile locus a livello del braccio corto del cromosoma 8 (Rahman N et al., 2000)

16

Recentemente sono stati identificati altri geni responsabili della suscettibilità al cancro della

mammella come FGFR2 , TNRC9, LSP1, MAP3K1 (Easton DF et al., 2007).

Fig 6: geni BRCA1 e BRCA2

6.3 TP53

Il gene p53 definito “guardiano del genoma” è localizzato sul cromosoma 17p14 ed è un gene

regolatore della trascrizione, stabilizzatore genomico, ed inibitore della progressione del ciclo

cellulare; tramite p21 determina l’arresto del ciclo cellulare per permettere al sistema di riparazione

del DNA di intervenire e correggere eventuali lesioni; tramite l’induzione di BAX determina

l’apoptosi delle cellule nel caso di un danno più esteso. Le anormalità del gene oncosoppressore p53

sono quelle di più comune riscontro nelle neoplasie umane in genere e le sue mutazioni, portando

alla perdita della regolazione del ciclo cellulare sono legate ad una prognosi peggiore anche nel

carcinoma della mammella. Per determinare le mutazioni di p53 sono stati condotti studi sia della

proteina (con tecniche immunoistochimiche), sia del gene stesso (mediante sequenziamento del

DNA). Circa il 30-50% dei carcinomi della mammella presenta una mutazione somatica di p53; le

mutazioni variano secondo popolazione e stadio del tumore. Hanno una maggiore incidenza nei casi

con linfonodi positivi e nei tumori di maggiori dimensioni con malattia a distanza. Inoltre la

frequenza di mutazioni di tale gene è maggiore nei casi di recidiva di malattia rispetto al carcinoma

primitivo ed in pazienti giovani (Marchetti P et al., 2003; Ricevuto E et al., 2003). La presenza di

mutazioni si correla inoltre con prognosi e sopravvivenza peggiore rispetto ai casi wild-type.

Pertanto, la caratterizzazione del genotipo p53 (wild-type e mutato) rappresenta, nel carcinoma

della mammella, uno dei principali fattori prognostici e predittivi della sensibilità a farmaci

genotossici. Il genotipo p53 mutato caratterizza un sottogruppo di pazienti con prognosi meno

BRCA1

BRCA2

17

favorevole e meno sensibili all’azione di farmaci genotossici (alchilanti, cisplatino, antracicline)

(Rodier F et al., 2007). Il 50-70% dei tumori della mammella in donne con mutazioni di BRCA1

presentano anche mutazioni in TP53 suggerendo un’interazione di questi due geni nello sviluppo

della malattia (Arizti P et al., 2000). Molte donne con mutazioni di TP53 nella linea germinale

(sindrome di Li-Fraumeni), che sopravvivono a tumori in età giovanile, sviluppano un cancro in età

adulta.

6.4 ORMONI ENDOGENI

Estrogeno e progesterone nel tessuto mammario influenzano la normale proliferazione, la

differenziazione e la fisiologia cellulare ma possiedono un ruolo primario anche nello sviluppo e

progressione della neoplasia. La prima dimostrazione che il carcinoma mammario è dipendente

dalla stimolazione estrogenica risale alla fine del XIX secolo quando Beatson dimostrò che era

possibile indurre la regressione del tumore della mammella in donne in premenopausa con

ooforectomia (Beatson GT, 1896). Gli effetti fisiologici degli estrogeni sono mediati da un fattore di

trascrizione a localizzazione nucleare, ligando-inducibile, conosciuto come recettore estrogenico

(ER) (Jensen EV et al., 1971). Il legame ormone-recettore promuove una cascata di eventi che

culminano nell’attivazione o repressione di geni specifici fra i quali il gene che codifica per il

recettore progestinico (PgR). A sua volta l’attività di ER è modulata da numerosi co-regolatori

nucleari che possono produrre effetti sia positivi che negativi. Il recettore ER può esistere sia in

forma omodimerica che eterodimerica per la presenza di due isoforme ERα e ERβ.

Il gene del recettore α è localizzato sul cromosoma 6q25.1 e codifica per una proteina si 595

aminoacidi organizzati in 6 domini indicati con le lettere A/B, C, D, E, F (Pavao M et al., 2001). Il

dominio A/B costituisce la porzione amino terminale ed è sede dell’attività transattivante. Il

dominio C è deputato al legame con il DNA; la regione D funge da cerniera e consente

modificazioni conformazionali durante l’attivazione; il dominio E, situato vicino all’estremità

carbossiterminale è deputato al legame con l’ormone steroideo.

Il gene del recettore β è localizzato sul cromosoma 14q22-24. Presenta un elevato grado di

omologia con l’isoforma α che raggiunge il 96% a livello del dominio C e lega l’estradiolo con la

stessa affinità di ERα (Mosselman S et al., 1996). La maggiore diversità fra i due recettori risiede

nella porzione trans attivante in grado di innescare processi di trascrizione diversi per i due

recettori. La forma β inoltre possiede multiple isoforme. Poco si conosce circa il significato clinico

di ERβ; l’espressione immunoistochimica di ERβ appare correlata a quella di ERα (Skliris GP et

al., 2001), ma circa la metà dei casi ERα-negativi, sono immunoreattivi per ERβ (Mann S et al.,

2001). Secondo alcuni autori l’espressione di ERβ rappresenterebbe un indice di prognosi migliore

18

(Omoto Y et al., 2001) e di risposta alla terapia con tamoxifene (Mann S et al., 2001). E’ ipotizzato

che una quota di casi attualmente considerati ERα siano ERβ positivi e quindi potenzialmente

responsivi alla terapia ormonale (Swain SM, 2001). Altri studi riportano come casi negativi per ERα

e positivi per ERβ siano associati ad una quota proliferativa più elevata e non suscettibili alla

terapia con antiestrogeni (Jensen EV et al., 2001), in accordo con quanto dimostrato per l’mRNA di

ERβ che appare essere maggiormente espresso nei casi resistenti al tamoxifene (Speirs V et al.

,1999). Gli studi su ERβ sono ancora in una fase preliminare ma sono importanti per una migliore

definizione del profilo recettoriale di singoli casi nel modulare in modo selettivo i diversi tipi di

recettore con farmaci appropriati (Barkhem T et a., 1998).

I carcinomi della mammella ERα positivi sono associati con un basso indice di proliferazione, basso

grado istologico, diploidia del DNA e quindi sono associati con una buona prognosi (Ross JS et al.,

2005). Più del 90% dei carcinomi lobulari sono ER-positivi mentre, i carcinomi midollari ed

infiammatori sono più frequentemente ER-negativi. Tumori negativi per entrambi i recettori

ormonali sono spesso associati ad un comportamento più aggressivo e presentano amplificazione

dei geni HER-2/neu, c-myc e mutazioni nel gene p53 (Taneja P et al., 2010).

La determinazione del recettore progestinico PgR, ulteriore proteina regolata dagli estrogeni (Jensen

EV et al., 2003; Fournier A et al., 2008), migliora la discriminazione tra neoplasie mammarie

sensibili e non alla terapia ormonale. Anche per il recettore per il progesterone esistono almeno due

diverse isoforme con perso molecolare diverso A e B, codificate dallo stesso gene (Kraus WL et al.,

1993). Le due proteine sono identiche eccetto che per un’ estensione di 164 aminoacidi in sede N-

terminale presente nel recettore B. nonostante la stessa similarità strutturale, le due isoforme hanno

proprietà funzionali diverse L’espressione di PgR è strettamente dipendente da quella di ER.

Tumori che esprimono PgR ma non ER, rappresentano meno dell’1% di tutti i casi di carcinoma

della mammella (Viale G et al., 2007). Esistono evidenze di come nei carcinomi metastatici della

mammella, la risposta al trattamento con farmaci anti-estrogenici sia migliore in pazienti che co-

esprimono ER e PgR, rispetto a quelli che esprimono solo ER (Elldge RM et al., 2000; Liu S et al.,

2010). PgR ha quindi un valore predittivo di risposta alla terapia ormonale e prognostico nei casi

positivi per il recettore estrogenico (Liu S et al., 2010); alti livelli di PgR risultano correlati

negativamente con le dimensioni del tumore ed il grado (Weigel MT et al., 2010).

ER e PgR modulano l’espressione di diversi geni fra i quali AIB-1, c-myc e ciclina D1; in

particolare la ciclina D1 interagisce con ER-α nel promuovere l’attività trascrizionale di

quest’ultima (Neuman E et al., 1997).

19

Un’ elevata concentrazione di ER e PgR non è solo altamente predittiva della risposta alla terapia

ormonale, ma, dato che in genere la loro presenza si accompagna ad una maggiore differenziazione,

può essere utile anche nella stima della sopravvivenza libera da malattia (Bast RC et al, 2001).

Gli estrogeni possono intervenire in tutte le fasi del processo di cancerogenesi mammaria:

iniziazione/trasformazione, promozione e progressione. I meccanismi possibili sono:

- l’induzione di una proliferazione cellulare abnorme attraverso lo stimolo degli ER: questo può

avvenire sia per aumento della quantità di ormone presente (come in caso di obesità), sia per

alterazioni strutturali dei recettori che diventano sensibili a minime quantità di estrogeni come

quelle della donna in post-menopausa.

- effetto genotossico diretto mediato dal citocromo P450; i complessi del citocromo P450 hanno un

ruolo nel catabolismo ossidativo degli estrogeni che porta alla produzione di radicali liberi, che a

loro volta sono causa di stress ossidativo e di danno genomico;

- azione diretta sul genoma, con induzione di uno stato di aneuploidia.

Interessante è il possibile ruolo degli estrogeni ambientali come i fitoestrogeni, pesticidi organo

clorurati.

La valutazione dell’espressione dei recettori ormonali viene routinariamente condotta mediante

analisi immunoistochimica, indicando il risultato come percentuale di cellule positive (Fig 7). La

risposta terapeutica è migliore quando sono presenti entrambi i recettori. Attualmente viene valutata

la positività nei nuclei, in quanto la localizzazione nucleare dei recettori è ben nota. Tuttavia,

informazioni sempre maggiori sulla presenza di recettori in sede extranucleare suggeriscono di

valutare anche tale parametro.

I farmaci impiegati nella terapia ormonale appartengono a diverse categorie; fra esse i SERM (anti-

estrogeni) e gli inibitori delle aromatasi. Gli anti-estrogeni (tamoxifene) competono con gli

estrogeni stessi per il legame ad ER inducendo un effetto citostatico. Gli inibitori delle aromatasi

(letrozolo, anastrozolo) bloccano la formazione degli estrogeni

Fig 7: positività per recettori estro-progestinici

20

6.5 HER-2

Il valore prognostico di HER-2 neu è stato recentemente considerato rilevante nella definizione del

rischio e pertanto deve essere tenuto in considerazione. Le alterazioni di HER-2 sono associate ad

un maggiore rischio di metastasi linfonodali, all’elevato grado istologico, alla negatività per i

recettori steroidei, alla più giovane età d’insorgenza e, più in generale, ad una peggiore prognosi

nelle pazienti affette da carcinoma della mammella (Allen MG, 2008). HER-2 viene attualmente

studiato soprattutto per il suo valore predittivo, in quanto un aumento dell’espressione di questo

oncogene, quando determinato con metodiche immunoistochimiche o con tecnica FISH, è in grado

di predire la risposta a farmaci basati su anticorpi monoclonali come l’herceptin.

Il proto-oncogene ErbB2 (HER2/neu) è situato sul braccio lungo del cromosoma 17 (17q11.2-q12).

Codifica per un mRNA di 4,6 Kb, tradotto in una proteina di 185 kDa, chiamata p185 la quale ha

funzione recettoriale ad attività tirosin-chinasica (Coussens L et al., 1985).

ErbB2 appartiene ad una famiglia di recettori per fattori di crescita che comprende ErbB1, meglio

conosciuto come EGFR, ErbB3 (HER3) ed ErbB4 (HER4).

La struttura monomerica di questi recettori è formata da un dominio trans membrana di 25-30

aminoacidi, da un dominio extracellulare N-terminale di 620 aminoacidi, che lega i fattori di

crescita e strutturato in quattro sottodomini denominati L1, L2 (leucine-rich), CR1, CR2 (cysteine-

rich) ed infine un dominio intracellulare C-terminale, responsabile dell’attività tirosin-chinasica. La

fosforilazione della tirosina nel recettore produce siti di legame per proteine che contengono domini

SH2 (Src homology 2) e PTB (Phosphotyrosine binding). Fanno parte di questo gruppo di proteine

Grb2, Grb7, Crk e Gab1, proteine e lipidi-chinasi come fosfatidilinositolo-3-chinasi, e fosfolipasi

Cγ e proteine fosfatasi come SHP1 e SHP2 (Hynes NE et al., 2005). Dopo attivazione si innescano

meccanismi di trasduzione del segnale che portano a divisione cellulare. L’integrità del segnale di

ErbB richiede l’unione, indipendente dalla fosforilazione, con proteine che regolano l’attività

recettoriale e la corretta localizzazione in membrana. I fattori di crescita che legano questi recettori

sono conosciuti come “hereguline” o “neureguline” ed il loro legame con ErbB3 ed ErbB4 induce

un’eterodimerizzazione con ErbB2 e successiva trasduzione a valle del segnale (Fig 8).

21

Fig 8: segnali cellulari di ErbB2 (HER2/neu)

ErbB2 non è in grado di legarsi a fattori endogeni, ma forma dimeri con altri recettori della

famiglia, già legati, stabilizzandoli ed innescando la trasduzione del segnale chinasi mediata. Tutte

le combinazioni dei quattro recettori possono essere indotte da 10 specifici ligandi di ErbB,

generando segnali molto diversi fra di loro. Alternativamente, l’iperespressione di recettori, che può

essere osservata in alcuni tumori, incluso quello della mammella, promuove la dimerizzazione

spontanea in assenza di ligando e quindi l’attivazione costitutiva.

L’amplificazione di ErbB2 e l’iperespressione della relativa proteina sono riscontrati nel 15-20%

dei carcinomi della mammella (Owens MA et al., 2004) e sono associati alle metastasi linfonodali,

all’elevato grado istologico, alla negatività per i recettori steroidei, alla più giovane età e più in

generale ad una prognosi peggiore (Slamon DJ et al., 1987; Slamon DJ et al., 1989). Dati recenti

suggeriscono come anche l’iperespressione di ErbB3 contribuisca al fenotipo maligno attraverso

SOPRAVVIVENZA

PROLIFERAZIONE

ONCOGENESI

ANGIOGENESI

TUMORIGENESI

INIBIZIONE APOPTOSI

MOTILITA’ CELLULARE

ESPRESSIONE GENICA

PROGRESSIONE NEL CICLO

TRASFORMAZIONE

DIFFERENZIAZIONE

APOPTOSI

FATTORI DI CRESCITA

EGF, TGFα, AMFIREGULINA

NUCLEO

CITOPLASMA

MEMBRANA CELLULARE

TRASCRIZIONE DI BCL-XL, MYC, CCND1, CDKN1A

DIFFERENZIAZIONE, PROLIFERAZIONE, SOPRAVVIVENZA, ONCOGENESI,

ANGIOGENESI

22

l’aumento della motilità cellulare, con induzione di potenziali metastasi e trasduzione di segnali

anti-apoptotici che prolungherebbero la sopravvivenza cellulare e contribuirebbero all’insorgenza di

instabilità genetica e di resistenza farmacologica. Le hereguline sono importanti fattori migratori

delle cellule neoplastiche nel cancro della mammella, inducendo la riorganizzazione dell’actina e la

formazione di strutture citoscheletriche mobili. Inoltre le hereguline stimolano anche PAK1 (p21-

activate-kinase), chinasi implicata nella promozione della migrazione cellulare. Questo può avere

rilevanza nello sviluppo della malattia metastatica che nel carcinoma della mammella è infatti

associata ad iperespressione di ErbB2. questa può anche essere causa di resistenza farmacologica

per induzione della riparazione delle rotture del DNA determinate da chemioterapici come ad

esempio la doxorubicina. L’iperespressione di recettori tirosin chinasici della famiglia ErbB

contribuisce al prolungamento del ciclo cellulare, permettendo la riparazione del DNA e

sovraregolando membri antiapoptotici della famiglia Bcl2.

L’espressione di ErbB2 risulta associata ad una sottoregolazione di BAX e ad una sovraregolazione

di molecole antiapoptotiche come Bcl2 e Bcl-XL; il segnale apoptotico risulta quindi ridotto,

venendo favorita l’instabilità genomica con comparsa della resistenza ad agenti chemioterapici.

Questo vale per farmaci che agiscono producendo danni al DNA come analoghi nucleosidici (5-

fluorouracile, citarabina, fludarabina), antibiotici intercalanti del DNA (adriamicina), agenti

alchilanti che formano legami tra i due filamenti (ciclofosfmide) (Ross JS et al., 1998).

6.6 TOPOISOMERASI IIα

L’isoforma α della topoisomerasi (TOP2A) rappresenta un enzima chiave nella replicazione e

riparazione del DNA e il bersaglio principale di vari agenti chemioterapici fra i quali le antracicline.

Il gene che codifica per tale proteina è localizzato sul cromosoma 17q21 in prossimità del gene

HER2/neu; l’enzima catalizza la rottura e la riunione del DNA a doppia elica con rilassamento della

superelica del DNA. Le antracicline esercitano il loro effetto stabilizzando i tagli del DNA ed

inibendo la replicazione cellulare bloccando l’attività della TOP2A (Kellner U et al., 2002). Diversi

studi hanno dimostrato come aberrazioni del gene TOP2A, in particolare le amplificazioni, siano

responsabili della maggiore sensibilità delle cellule neoplastiche alle antracicline (Faratian D et al.,

2008). TOP2A è risultato essere frequentemente coamplificato con HER2/neu (Di Leo A et al.,

2002), suggerendo pertanto che la sensibilità alle antracicline dei tumori esprimenti HER2 sia in

realtà dovuta alla coamplificazione di TOP2A (Jarvinen TAH et al., 2003; Beser AR et al., 2007). I

dati riportati in letteratura sullo stato di espressione delle due proteine sono contrastanti; in alcuni

studi è stata descritta un’alta correlazione fra l’espressione delle due proteine, mentre in altri

l’iperespressione della proteina TOP2A è stata riportata in meno del 10% dei casi con

23

amplificazione del rispettivo gene (Durbecq V et al., 2004) e nel 30% dei casi non amplificati per

HER-2/neu (Sotiriou C et al., 2003). Quindi l’amplificazione genica sarebbe solo uno dei possibili

meccanismi determinanti l’iperespressione di TOP2A, essendo quest’ultima regolata a diversi livelli

(Bakshi RP et al., 2001). Recentemente è stato dimostrato come l’RNA di TOP2A, quantificabile

mediante la metodica RT-PCR, rappresenti un più utile marcatore prognostico associato alla

risposta alle antacicline (Brase JC et al., 2010).

6.7 EGFR

EGFR è codificato dal gene ErbB1, localizzato sul cromosoma 7q12. EGFR risulta essere

iperespresso nel 15-60% dei carcinomi della mammella (Nicholson RJ et al., 2001) ed il suo reale

significato prognostico rimane ancora da valutare. Tuttavia sembra certo che la sua presenza sia

associata con una perdita di espressione dei recettori estrogenici e una cattiva prognosi (Chan SK et

al., 2006). È stata inoltra osservata una correlazione positiva fra l’espressione di EGFR e

l’iperespressione di HER2 (Rimawi MF et al., 2010). Studi di espressione genica e

immunoistochimici hanno dimostrato che il 50-70% dei tumori della mammella di tipo basale,

esprimono EGFR (Burness ML et al., 2010). Inoltre risulta essere over-espresso nel 30% dei

carcinomi infiammatori della mammella (Yamauchi H et al., 2010). La coespressione di EGFR ed

HER2 è stata osservata nel 10-36% dei carcinomi della mammella ed è associata ad una peggiore

prognosi rispetto ai casi che iperesprimono uno solo dei due recettori (D’Alessio A et al., 2010;

Rimawi MF et al., 2010).

6.8 VEGF

La famiglia del Vascular Endothelial Growth Factor è composta da 5 isoforme (VEGFA, VEGFB,

VEGFC, VEGFD e PLGF) le quali sono ligandi per recettori ad attività tirosin chinasica (VEGFR).

Dopo il legame al rispettivo recettore (soprattutto VEGFR2), vengono attivate vie di segnale

intracellulari fra le quali MEK-ERK e PI3K-Akt, che mediano il processo di angiogenesi.

L’attivazione dell’angiogenesi sia nel tessuto normale che in quello tumorale dipende dalla

proliferazione ed invasione delle cellule endoteliali, dall’incrementata permeabilità vascolare e dal

reclutamento di cellule di supporto come i periciti. VEGF e l’angiogenesi sono fondamentali per la

crescita del tumore e per il processo metastatico in molti tipi di tumore solido (Sakakibara S et al.,

2009). VEGF ha un ruolo determinate nell’angiogenesi del carcinoma della mammella ed è

associato ad una peggiore prognosi (Relf M et al., 1997). Il più importante fattore che determina la

sopravvivenza dei pazienti affetti da carcinoma della mammella è la disseminazione a distanza delle

cellule neoplastiche; lo studio dell’espressione genica nei tumori primitivi, nelle metastasi regionali

24

e in quelle a distanza ha indicato come il gene per VEGF, sia il solo ad essere iperespresso nelle

sedi metastatiche ed associato ad una prognosi sfavorevole, inoltre in pazienti metastatici sono

osservabili incrementati livelli serici di VEGF, i quali risultano essere direttamente correlati al

grado tumorale (Shivakumar S et al., 2009). In uno studio retrospettivo è stato dimostrato un

significativo incremento dei livelli intratumorali di VEGF in pazienti con carcinoma della

mammella triplo negativo rispetto agli altri fenotipi (Linderholm BK et al., 2009; Toft DJ et al.,

2011). Un maggiore rischio di carcinoma invasivo della mammella sarebbe correlato con due

polimorfismi genici di VEGF (VEGF-2578C e VEGF-1154G) capaci di incrementare l’espressione

della relativa proteina (Jacobs EJ et al., 2006). Un’intensa attività angiogenetica è stata osservata

nel carcinoma infiammatorio della mammella in accordo con l’elevato potenziale metastatico di

questa forma di tumore (van der Auwera I et al., 2004).

VEGF per il ruolo centrale nell’angiogenesi, per la sua specificità e la sua correlazione con la

prognosi, è diventato un attraente bersaglio della terapia antitumorale. Sono stati sviluppati

anticorpi (bevacizumab) ed inibitori tirosin chinasici (TKI) (sunitinib) che legano VEGFR (Hayes

DF et al., 2005; Nielsen DL et al., 2010). L’efficacia dei farmaci antitumorali è spesso ridotta dalla

difficoltà di veicolazione delle sostanze, dalla loro mancanza di specificità e dalla resistenza che il

carcinoma sviluppa verso essi. La crescita tumorale si basa su un adeguato apporto sanguigno e

quindi sviluppo di basi al suo interno. I vasi anomali sono un bersaglio evidente per la terapia

farmacologica, attraverso l’uso di sostanze antiangiogeniche, cercando si superare anche il

problema della resistenza dal momento che le cellule endoteliali sono geneticamente stabili,

omogenee e hanno un basso livello mutazionale (Kerbel RS, 1997; Gasparini G et al., 2005).

L’angiogenesi tumorale può essere inibita da sostanze che hanno un effetto diretto sulle cellule

endoteliali e da sostanze che agiscono su cellule che stimolano l’angiogenesi indirettamente (cellule

tumorali e cellule dello stroma). Questa classe di molecole non solo arresta la proliferazione delle

cellule endoteliali, ma ne aumenta la morte per apoptosi inducendo la regressione dei vasi formatisi

(Filho AL et al., 2010). Bevacizumab sarebbe particolarmente indicato per il trattamento dei tumori

della mammella tripli negativi (Greenberg S et al., 2010).

25

7.0 CLASSIFICAZIONE MOLECOLARE DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA

I carcinomi mammari rappresentano un gruppo molto eterogeneo di neoplasie dal punto di vista

morfologico, prognostico e di risposta alla terapia. Recentemente la spiccata eterogeneità del

carcinoma mammario è stata confermata dallo studio del profilo dell’espressione genica che ha

rivelato come ogni singolo carcinoma mammario abbia un suo preciso ed unico assetto molecolare

(Perou CM et al., 2000; Sorlie T et al., 2006; Marchiò C et al., 2008; Tan BK et al., 2008; Sandhu

R et al., 2010; Schnitt SJ, 2010; Goldhirsch A et al., 2011). Nonostante questa grande variabilità, le

neoplasie della mammella si possono ricondurre a cinque principali categorie (Fig 9):

Fig 9: classificazione molecolare del carcinoma della mamella (Goldhirsch A et al., 2011)

Questi sottotipi riflettono i pattern di espressione genica dei due tipi principali di cellule della

mammella adulta: le cellule luminali disposte in un unico strato verso il lume dei lobuli, e le cellule

mioepiteliali, poste all’esterno a circondare le luminali e che poggiano direttamente sulla membrana

basale (Perou CM, 2011) (Fig 10).

I carcinomi luminali sono così definiti per l’espressione di citochine luminali come CK8 e CK18;

sono ER positivi e rappresentano circa il 70% dei carcinomi invasivi della mammella. I carcinomi

luminali possono essere distinti in due sottogruppi rispettivamente luminali A (alti livelli di

espressione dei recettori estrogenici, bassi livelli di espressione di geni associati alla replicazione e

assenza di espressione di HER-2, basso indice di proliferazione cellulare) e luminali B (bassi livelli

ER +, PR +

LUMINALI A

ER+, PR+, HER2 – KI67 basso (<14%)

ER -, PR -

BASAL LIKE

(duttali) ER-, PR-, HER2-,

HER2 +

LUMINALI B

ER+, PR+, HER2+ KI67 alto/basso

HER2+

(non luminali) ER-, PR-, HER2+

LUMINALI B

ER+, PR+, HER2 – KI67 alto

CARCINOMI DUTTALI INVASIVI

26

di espressione dei recettori estrogenici e alti livelli di espressione di geni coinvolti nella

proliferazione cellulare, iperespressione di HER2) (Perou CM et al., 2000; Sorlie T et al., 2001;

Cheang MCU et al., 2009). Rispondono alla terapia ormonale, mentre la risposta alla chemioterapia

è variabile con il fenotipo B che risponde meglio rispetto a quello A. La prognosi risulta migliore

per il fenotipo A (Schnitt SJ, 2010).

I tumori HER2 comprendono circa il 10-15% dei carcinomi invasivi; sono rappresentati da

neoplasie di alto grado, linfonodo positive, caratterizzate dall’espressione di HER2 e di altri geni

come GRB7 e GATA4 (Sorlie T et al., 2001). Rispondono alla terapia con trastuzumab e alla

chemioterapia con antracicline; tuttavia hanno una cattiva prognosi (Hu Z et al., 2006).

I carcinomi basali detti anche basaloidi, basal-like, o carcinomi a fenotipo basale, costituiscono il

10-20% dei carcinomi invasivi della mammella e sono caratterizzati dall’espressione di

citocheratine come CK5, CK14, CK17, presenti nello strato basale/miopeteliale della ghiandola

normale (Maggie CU et al., 2008; Rakha EA et al., 2008; Choo JR et al., 2010). Frequentemente i

carcinomi basali hanno un assetto sovrapponibile ai carcinomi cosidetti “tripli negativi” per la

perdita di espressione dei recettori estrogenici e progestinici e assenza di iper-espressione di HER-2.

Il fenotipo a cellule basali, triplo negativo è caratterizzato da un’alta probabilità di recidive

(metastasi polmonari e cerebrali) e da una sopravvivenza totale e libera da malattia

significativamente bassa. Altri studi tuttavia hanno attribuito una prognosi peggiore ai sottogruppi

HER-2 positivi (Fulford LG et al., 2007). Inoltre il fenotipo a cellule basali si può associare alla

presenza di mutazioni in BRCA1 (Turner NC et al., 2006; Rakha EA et al., 2008), ed è più

frequente nelle giovani donne di colore. Il riconoscimento di questo sottogruppo di neoplasie è

importante sia per le implicazioni prognostiche che per la loro associazione con i carcinomi eredo-

familiari. I carcinomi “basal-like” sono generalmente neoplasie duttali infiltranti di grado 3; sono

altamente cellularizzate, a margini tondeggianti con crescita di tipo espansivo e sclerosi centrale.

Hanno architettura solida, senza formazione di tubuli e scarso stroma intercellulare. Alcuni

presentano caratterisitiche “simil-midollari” con infiltrato linfocitario alla periferia ed aspetti di tipo

sinciziale della popolazione neoplastica; recentemente è stato dimostrato come il 50% dei carcinomi

midollari veri, presenta immunofenotipo basale e/o mioepiteliale (Jacquemier J et al., 2005). In altri

casi si possono osservare strutture nastriformi associate ad aree di necrosi; le cellule neoplastiche

hanno scarso citoplasma, nucleo tondo-ovale con alto rapporto nucleo/citoplasma e nucleoli

evidenti. Spesso è evidenziabile una componente a cellule fusate, a cellule chiare, a cellule basiloidi

e una metaplasia squamo-cellulare. Presentano un’elevata attività mitotica. Dal punto di vista

immunofenotipico i carcinomi basali sono positivi per vimentina, EGFR, c-Kit, p53, possono

esprimere marcatori del mioepitelio come l’actina muscolo liscio, p63, e CD10 (Reis-Filho JS et al.,

27

2006; Kim MJ et al., 2006) e presentano un’alta espressione della via di segnale di PI3K e bassi

livelli di PTEN (Marty B et al., 2008). Si ritiene che il fenotipo miopeteliale rappresenti un

sottogruppo dei basali. Pertanto di fronte ad una neoplasia duttale NOS di grado 3, triplo negativa è

opportuno procedere ad una caratterizzazione immunofenotipica con vimentina, CK5/6, EGFR che

se positive confermano il fenotipo basal-like (Nielsen TO et al., 2004; Cheang MCU et al., 2008).

La cattiva prognosi che caratterizza questo gruppo di tumori può essere associata solo alle neoplasie

duttali NOS, in quanto l’immunofenotipo basale è comune anche ad altre neoplasie con

differenziazione mioepiteliale che invece hanno una migliore prognosi (Rouzier R et al., 2005).

L’evoluzione peggiore si avrebbe per le neoplasie che co-esprimono il fenotipo basale e quello

mioepiteliale (Fadare O et al., 2008, Maggie CU et al., 2008; Hudis CA et al., 2011).

Fig 10: classificazione molecolare del carcinoma della mammella

Altro sottotipo di carcinoma della mammella è rappresentato dai cosidetti “normal breast”, sulla cui

reale esistenza ci sono tuttavia ancora dei dubbi. Comprenderebbero il 5-10% di tutti i carcinomi

della mammella; esprimono geni caratteristici del tessuto adiposo e presentano una prognosi

intermedia fra i luminali ed i basali, non rispondendo alla chemioterapia neo-adiuvante.

Recentemente è stato identificato un nuovo sottotipo di carcinoma della mammella (Herschkowitz

JI et al., 2007; Eroles P et al., 2012). Comprende il 12-14% dei carcinomi mammari ed è

caratterizzato da una bassa espressione di geni coinvolti nelle adesioni intercellulari fra i quali

28

claudina-3, -4, 7, ed E-caderina. Tale istotipo (cludin-low) è sovrapponibile per alcuni aspetti con i

tumori basal-like; istologicamente sono neoplasie di alto grado con differenziazione metaplastica o

midollare e prognosi sfavorevole (Prat A et al., 2010).

La caratterizzazione del fenotipo molecolare comincia ad essere utilizzata per selezionare terapie

mirate contro bersagli molecolari (target therapy) come ad esempio per quanto riguarda le

indicazioni all’ormonoterapia e alla terapia anti-HER2 (Goldhirsch A et al., 2011). In quest’ottica

numerosi inibitori della via di trasduzione del segnale dell’EGFR (TKI, inibitori della

dimerizzazione, inibitori farnesiltransferasi, anti-RAF, inibitori MAPK, inibitori mTOR) sono

attualmente in fase di studio (Crown J et al., 2012; Gelmon K et al., 2012). L’attivazione della via

di trasduzione di HER2 rappresenta, uno dei meccanismi principali che caratterizzano la

proliferazione delle cellule di carcinoma mammario. Il controllo di tale via a livello del passaggio

PI3K/AKT/mTOR, è mediata da una fosfatasi codificata dal gene PTEN che risulta essere inattivato

in molte neoplasie umane fra le quali il carcinoma della mammella (Daniele L et al., 2009).

8.0 ANEUPLOIDIE E CARCINOMA DELLA MAMMELLA

Nel carcinoma della mammella la frequenza di tumori aneuploidi è piuttosto elevata variando dal 45

al 70% dei casi. L’aneuploidia è direttamente correlata alla scarsa differenziazione, alla

proliferazione cellulare e alla perdita di espressione dei recettori steroidei (Silvestrini R, 2000).

Aneusomie cromosoma specifiche sono spesso associate a fattori prognostici e alla progressione

della malattia (Persons DL et al., 1996); ad esempio l’amplificazione genica è un importante e

frequente meccanismo di iperespressione di determinati oncogeni giocando un ruolo fondamentale

nella crescita e sopravvivenza cellulare. Analisi di Comparative Genomic Hybridization (CGH) su

DCIS hanno evidenziato numerose amplificazioni (1q, 5p, 6q, 8q, 17q, 19q, 20p, 20q) e delezioni

(2q, 5q, 6q, 8p, 9p, 11q, 13q, 1q, 17p, 22q) simili a quelli identificati nei carcinomi invasivi a

conferma di come i carcinomi in situ siano la lesione precursore (Reis-Filho JS et al, 2003). Studi

sono stati focalizzati sulle alterazioni strutturali e/o aneuploidie del cromosoma 20, frequentemente

alterato in altri tumori (ovaio, prostata, vescica, colon, pancreas) e associato con i meccanismi di

iniziazione e progressione del tumore della mammella. La polisomia di questo cromosoma è stata

riscontrata in circa il 90% dei carcinomi duttali, mentre la monosomia e disomia solo

29

rispettivamente nel 4% e 6% dei casi (Nakopoulou L et al., 2002). Alti livelli di polisomia sono

inoltre correlati con una minore sopravvivenza rappresentando un buon fattore prognostico.

9.0 CELLULE STAMINALI

Nei tessuti normali il mantenimento della popolazione cellulare si deve ad una piccola frazione di

cellule, le cellule staminali, che si dividono in modo asimmetrico, autorinnovandosi e dando origine

a progenitori cellulari che, dopo un certo numero di divisioni cellulari, producono cellule

differenziate tessuto-specifiche, non più in grado di dividersi. I tumori sono delle entità eterogenee

per quanto riguarda il potenziale proliferativo, fenotipico e tumorigenico e recentemente è stato

dimostrato come all’interno della massa neoplastica, esista una frazione numericamente esigua di

cellule (1-2% della popolazione tumorale) in grado di rigenerare il tumore in vivo, mentre

popolazioni di cellule più differenziate mancano di questa proprietà. Queste cellule dette anche

Cancer Stem Cells/CSCs) sono simili alle cellule staminali per alcune proprietà come

l’autorinnovamento, lo stato indifferenziato e la multi potenzialità. In base a tali evidenze è

possibile ritenere che il tumore origini da una cellula staminale adulta o da una cellula che

riacquista le caratteristiche di staminalità. La dimostrazione della presenza di una frazione esigua di

cellule autorinnovantesi in grado di rigenerare il tumore, si è avuta nella leucemia mieloide acuta,

con l’osservazione che una sottopopolazione di cellule leucemiche a fenotipo CD34+/CD38- era

responsabile dell’insorgenza della leucemia nei topi (Bonnett D et al., 1997). Recentemente sono

state messe a punto condizioni sperimentali per l’isolamento e propagazione di cellule staminali

oltre che nei mielomi anche da neoplasie solide. Mediante tecniche per l’isolamento di cellule

staminali da tessuti normali, si è dimostrata l’esistenza di cellule che presentano alcuni caratteri di

staminalità nei tumori del sistema nervoso centrale, della prostata, del polmone, dell’ovaio, del

colon, del pancreas, negli epatocarcinomi nei melanomi maligni e nei carcinomi della mammella,

dove sono state descritte cellule staminali con fenotipo CD44+/CD24- (rappresentano lo 0,1-1%

dell’intera popolazione tumorale). La componente tumorigenica è stata distinta da quella non

tumorigenica sulla base dell’espressione di CD44 e CD24; inoculando in un topo 100 cellule a

fenotipo CD44+/CD24 low/Lineage si osserva la formazione del tumore mentre molte più cellule

con fenotipo diverso non sono in grado di formare neoplasia (Al-Hajj M et al., 2003; Nakshatri H et

al., 2009).Altro approccio per la caratterizzazione delle cellule staminali sfrutta alcune

caratteristiche funzionali delle cellule come la capacità di colorarsi con coloranti specifici. Questo

metodo è usato, per l’identificazione tramite citometria a flusso, della cosidetta “side population”

(SP) distinta sulla base di queste cellule di estrudere il colorante vitale Hoechst 33342 (Goodell MA

et al., 1996). Queste cellule rappresentano solo una piccola frazione di tutte le cellule e per la loro

30

capacità di estrudere farmaci, rappresentano la frazione chemioresistente all’interno del tumore

(Alvi AJ et al., 2003; Hirschmann-Jax C et al. 2004). Inoltre le SP sembrerebbero rappresentare una

fonte arricchita di cellule staminali (Challen GA et al. 2006). Le cellule staminali tumorali quindi

potrebbero derivare dalle stesse cellule staminali normali in seguito ad una mutazione, mentre altre

linee di ricerca sembrano sostenere come le cellule staminali tumorali abbiano origine da cellule

progenitrici mutate; questi progenitori (transit-amplyfing cells) possiedono una certa attività

replicativa, ma non sarebbero in grado di autorinnovarsi se non in seguito ad una mutazione. Tre

sono le situazioni che possono verificarsi e che riguardano le potenzialità delle cellule staminali

tumorali: 1) le cellule staminali tumorali, in seguito ad una mutazione di una cellula staminale

normale potrebbero dare origine ad altre cellule staminali tumorali e alla formazione del tumore; 2)

potrebbero rappresentare una piccola riserva di cellule resistenti alla terapia e responsabile di

ricadute; 3) potrebbero dare origine a metastasi in siti distanti rispetto al tumore primario (Fig 13).

Fig 13: trasformazione della cellula staminale normale in cellula staminale tumorale

Mentre le cellule staminali normali e tumorali condividono molte caratteristiche molecolari e

funzionali, la regolazione dell’autorinnovamento cellulare attraverso i pathways di Wnt, BMI-1,

Notch, Hedgehog, operativo e strettamente controllato nelle cellule staminali normali, è del tutto

alterata nelle cellule staminali tumorali e la conoscenza delle alterazioni molecolari che la

sostengono è cruciale per l’identificazione dei bersagli molecolari per interventi terapeutici

potenzialmente altamente selettivi (Liu S et al., 2010; Jain P et al., 2011) (Fig 14).

CELLULA STAMINALE

CELLULA STAMINALE

TUMORALE

PROGENITORE

CELLULARE

PROGENITORE

CELLULARE

TUMORALE

CELLULA

DIFFERENZIATA

CELLULA

TUMORALE

31

In particolare Wnt nel carcinoma della mammella sembra essere coinvolto in un cross-talk con i

recettori per gli ormoni steroidei attraverso pathways comuni; è stato anche dimostrato che

l’interferenza della sua funzionalità attraverso antagonisti specifici aumenta l’espressione di

marcatori di differenziamento. Un significato prognostico sembra avere la beta-catenina

(Nakapoulou L et al., 2006), la cui localizzazione intracellulare è differentemente associata con il

decorso della malattia (favorevole per l’espressione citoplasmatica e sfavorevole per quella

nucleare) e SFRP-1 (secreted frizzled-related protein-1) la cui metilazione del promotore è un

fattore sfavorevole (Veeck J et al., 2006).

Alterazioni della via Hedgehog sono implicate nello sviluppo di differenti patologie neoplastiche,

inclusa la patologia mammaria. In particolare Sonic Hedgehog identifica carcinomi della mammella

infiammatori a diversa aggressività biologica (Bièche I, et al, 2004) mentre la ciclopamina,

alcaloide che interferisce in modo specifico con la via di Hedgehog riduce l’espressione di Gli1 e

rallenta la crescita tumorale (Kubo M et al., 2004). Bmi1 è uno dei componenti del complesso

Polycomb indotto attraverso la vaia di segnalazione di hedgehog, responsabile

dell’autorinnovamento di cellule staminali normali e leucemiche, reprime geni che inducono

senescenza e morte cellulare e immortalizza cellule dell’epitelio umano. Un profilo molecolare

basato sull’espressione di 11 geni presenti nel pathway di BMI-1 sembrerebbe essere un potenziale

indicatore prognostico sia in termini di ripresa globale che di metastasi a distanza e di morte sia in

neoplasie epiteliali che non compreso il carcinoma della mammella (Glinsky GV et al., 2005;

Lawson JC et al., 2009). Altra interessante osservazione riguardo le cellule staminali di carcinoma

della mammella, è l’iperespressione di HER2 e la loro sensibilità a farmaci specifici come

trastuzumab e lapatinib (Magnifico A et al., 2009). È stato inoltre dimostrato una correlazione

diretta fra l’espressione di HER2 e la “side popultion”: il numero di cellule di questa popolazione

diminuisce in presenza di inibitori di HER2 (Nakanishi T et al., 2010).

Un terzo dei tumori della mammella si sono dimostrati non responsivi al trattamento con inibitori

specifici di HER2/neu. Evidenze sperimentali indicano come tale resistenza sia associata a

mutazioni del gene oncosoppressore PTEN, a mutazioni di PI3K o a forme tronche del dominio

extracellulare di HER2, con conseguente aberrante attivazione della via di segnale PI3K/AKT

(Nagata Y et al., 2004). Tale via di segnale avrebbe un ruolo importante nella regolazione delle

cellule tumorali staminali di mammella che, come dimostrato da studi in vivo, sarebbero potenziali

bersagli di inibitori selettivi di AKT (Korkaya H et al., 2007).

32

Fig 14: vie di trasduzione del segnale in cellule staminali del carcinoma della mammella

Recenti evidenze sulle cellule staminali della ghiandola mammaria depongono per una sua

negatività per i recettori estrogenici (ER) nei progenitori e nelle cellule più differenziate (Liu S et

al., 2010). Il momento dello stadio differenziativo del lineage cellulare al quale corrisponde la

trasformazione neoplastica è determinante nella storia clinica della malattia. Se la trasformazione

neoplastica insorge nella cellula staminale senza recettori per gli estrogeni, verosimilmente il

tumore sarà di tipo basale, indifferenziato, a prognosi sfavorevole e poco responsivo alle terapie

ormonali. Un tumore generato da cellule ben differenziate apparterrà al fenotipo luminale A,

caratterizzato da una migliore prognosi ed elevata probabilità di risposta al trattamento ormonale.

Al progenitore parzialmente differenziato corrisponderà un tumore con un comportamento clinico e

biologico eterogeneo (Fig 15).

Fig 15: relazione tra stadio di differenziazione e tipo di tumore

33

Esistono evidenze sperimentali che dimostrano l’efficacia di nuovi agenti terapeutici

sull’autorinnovamento di cellule staminali/progenitori normali (Liu S et al., 2006). Tuttavia esistono

difficoltà a livello dell’identificazione sia di marcatori di staminalità che di nuovi bersagli per

farmaci innovativi (Hill RP, 2006).

Gli attuali trattamenti, indirizzati contro le cellule proliferanti hanno come scopo la riduzione

dell’intera massa tumorale e non necessariamente l’uccisione della frazione staminale/tumorigenica,

caratterizzata dall’elevata espressione di proteine appartenenti alla famiglia dei trasportatori di

membrana ABC (favoriscono l’efflusso cellulare di farmaci e sono coinvolti nella resistenza ad

agenti terapeutici come paclitaxel, cisplatino, 5-fluoruracile, antracicline) (Dean M et al., 2005), da

alterazioni nei meccanismi di riparazione del DNA, dalla presenza di fattori citoprotettivi, e da una

relativamente modesta velocità di crescita a fronte di un elevato potenziale proliferativo. La Cancer

stem cell hypothesis, sostiene che all’interno del tumore, non tutte le cellule abbiano la stessa

capacità di auto rinnovarsi e proliferare ma solo una piccola frazione di cellule (Tumor initiating

cells o TICs) siano in grado di rinnovarsi in maniera illimitata, mentre il resto del tumore è

composto da cellule progenitrici con limitata capacità proliferativa o da cellule totalmente

differenziate. Sono diverse le strategie terapeutiche che potrebbero essere applicate nel tentativo di

colpire in modo specifico le TICs: 1) inibire le vie di trasduzione del segnale maggiormente

coinvolte nel mantenimento della popolazione cellulare in particolare le vie Wnt (You L et al.,

2004), Notch (Fan X et al., 2006) e PI3K/Akt/mTOR (Hambardzumyan D et al., 2008); 2)

sensibilizzare le cellule ad agenti chemioterapici usando inibitori delle chinasi che controllano i

punti di ingresso nel ciclo cellulare (Bao S et al., 2006); 3) indurre la differenziazione delle TICs

usando proteine come le BMPs (Bone Morphogenetic proteins) (Piccirillo SG et al., 2006) o

anticorpi monoclonali CD44 specifici (Marangoni E et al., 2009); 4) terapia anti-angiogenetica

privando le cellule staminali dell’ambiente ideale per la loro sopravvivenza (Calabrese C et al.,

2007).

Le cellule staminali cancerose offrono pertanto prospettive per il miglioramento della prognosi e del

trattamento del tumore. La loro caratterizzazione molecolare attraverso l’analisi del profilo genetico

e proteico è importante per la comprensione dei meccanismi biologici alla base della formazione dei

tumori solidi e nell’individuazione di nuovi obiettivi terapeutici e diagnostici.

34

10.0 DETERMINAZIONE DELLO STATO DI HER-2

Nonostante il significato prognostico, è soprattutto per il valore predittivo che HER-2 viene

attualmente studiato. In particolare ci sono diversi farmaci per i quali i dati clinici e sperimentali

indicano un possibile valore predittivo tra i quali tamoxifene, taxani, herceptin e trastuzumab. Nello

specifico l’amplificazione e l’aumentata espressione di HER2 forniscono dati prognostici negativi e

sembrano essere predittivi di una risposta a regimi chemioterapici intensivi.

La rivelazione dell’espressione di HER2 /neu nei tessuti è stata oggetto di un’ampia gamma di

metodologie di analisi. Recentemente la FDA ha approvato sia l’impiego della tecnica FISH, per la

determinazione dell’amplificazione genica sia l’impiego dell’immunoistochimica per la valutazione

dell’espressione proteica per una definizione pratica delle opzioni di trattamento in pazienti con

carcinoma della mammella HER2 positivo.

10.1 TECNICA FISH

Fra le nuove e ormai consolidate tecniche di biologia molecolare la FISH (Fluorescente In Situ

Hybridization) fa parte del gruppo di quelle che si basano sul principio dell’ibridazione degli acidi

nucleici e si è rivelata capace di potenti sinergie con il campo della diagnostica istopatologica

(Anguiano A, 2000). Questa metodica ha ampliato le applicazioni di citogenetica cellulare e

tissutale integrando i dati della citogenetica convenzionale, che ha come oggetto di studio la

morfologia dei cromosomi metafisici, con quelli forniti da sonde marcate, che hanno come

bersaglio il DNA del nucleo interfasico. I settori di maggiore interesse nella diagnostica

istopatologica sono quelli dell’oncoematologia e di alcune neoplasie solide.

Come primi esperimenti di ibridazione in situ sono state eseguite metodiche che sfruttavano

marcatori radioattivi (Gall JC et al., 1969). L’impiego della FISH per la marcatura dei geni, quindi

per la mappatura dei cromosomi risale ai primi anni ’90 (Ferguson-Smith, 1991).

L’ibridazione in situ in fluorescenza (FISH) è una tecnica che permette la localizzazione di una

specifica sequenza di DNA su preparati fissati di cromosomi in metafase, nuclei interfasici e sezioni

di tessuto ottenute da qualsiasi tipo di materiale biologico (sangue, biopsie, liquido amniotico,

gameti), sia esso fresco, conservato o paraffinato. Come primi esperimenti di ibridazione in situ

sono state eseguite metodiche che sfruttavano marcatori radioattivi (Gall JC et al., 1969).

L’impiego della FISH per la marcatura dei geni e quindi la mappatura dei cromosomi risale agli

anni ’90 (Ferguson-Smith, 1991). La tecnica prevede l’utilizzo di sonde di DNA in grado di

ibridare con l’intero cromosoma o con singole sequenze e costituisce un potente strumento in

aggiunta alle tecniche citogenetiche classiche. Generalmente la morfologia del cromosoma, delle

cellule o del tessuto viene conservata per permettere una precisa ed inequivocabile interpretazione

35

del target (Bentz et al., 1993). La FISH si basa sulla proprietà del DNA di fondersi in modo

reversibile e prevede il legame tra una sonda molecolare (frammento di DNA specifico per la

regione di interesse marcato con composti fluorescenti) e la sequenza di DNA complementare del

preparato che è stato fissato e montato su un vetrino portaoggetti. Il DNA bersaglio dopo fissazione

viene sottoposto a denaturazione al calore in presenza di formamide. In questo modo il DNA

bersaglio diventa disponibili per l’annealing con una sonda di DNA a singola elica e sequenza

complementare marcata con una sostanza fluorescente. Terminata l’ibridazione, la sonda di DNA

non legata o legata in modo aspecifico è rimossa per mezzo di lavaggi di stringenza e il DNA viene

in seguito colorato con un colorante di contrasto come il DAPI (4,6-diamidino-2-fenilindole).

L’ibridazione della sonda viene quindi analizzata con un microscopio a fluorescenza (Fig 16).

Fig 16: tecnica FISH La sonda o probe può essere rappresentato da un frammento di DNA o RNA che viene marcato; è

rappresentata da sequenze di DNA clonato, prodotti di PCR ed oligonucleotidi sintetici; la sua

lunghezza ideale varia dalle 50 alle 150 paia di basi.

I principali tipi di sonda utilizzate nella FISH sono (Fig 17):

CEP (Chromosome Enumeration Probe): sequenze di DNA ripetute in tandem (DNA satellite)

cromosoma specifiche. Sono sonde che individuano la regione centromerica del cromosoma e

consentono di valutare la ploidia (esempio CEP17);

TEL (Telomeric Probe): sonde telomeriche utili per individuare delezioni e riarrangiamenti

cromosomici (Fig 17B)

LSI (Locus Specific Identifier): sonde a DNA date da sequenze specifiche omologhe di regioni di

DNA o loci e direttamente marcate con fluorocromi;

WCP (Whole Chromosome Painting): sonde utili per l’identificazione di traslocazioni,

riarrangiamenti ed ibridi umani/animali;

36

Sequenze genomiche in YAC (Yeast Artificial Chromosome), BAC (Bacterial Artificial

Chromosome) e PAC (Plasmid Artificial Chromosome) per l’analisi di regioni specifiche.

Le sonde possono essere utilizzate sia singolarmente che in co-ibridazione.

Fig 17: tipi di sonde Le sonde possono essere caratterizzate da un frammento di DNA conosciuto marcato inserendo

direttamente nella catena un gruppo fluorescente (FITC, Phicoeritrina…) od un gruppo chimico che

sarà successivamente riconosciuto da un sistema di rivelazione antigene anticorpo fluorescente

(biotina, digossigenina…). Lunghezza e composizione delle sonde sono variabili a seconda del

bersaglio (Fig 18).

Fig 18: marcatura sonda

Le condizioni che possono destabilizzare la doppia elica provocando la separazione delle due catene

sono: le alte temperature, un pH alcalino estremo (maggiore di 13); la bassa forza ionica

(concentrazione di ioni sodio); presenza in soluzione di sostanze che rompono i ponti ad idrogeno

(urea, formamide). La denaturatone della doppia elica si accompagna a grosse variazioni delle

proprietà fisiche di soluzioni di DNA come la diminuzione della viscosità e l’aumento

MARCATURA TELOMERO

MARCATURA TELOMERO

MARCATURA CENTROMERO

GENE

MARCATURA DEL GENE

E AMPLIFICAZIONE DEL

SEGNALE

WHOLE CHROMOSOME

PAINTING

BERSAGLIO

SONDA MARCATA

CON BIOTINA

Ab LINK: FITC LABELED ANTI-

BIOTINA

AMPLIFICATION-Ab: FITC-LABELED

ANTI-MOUSE-IgG

SONDA DIRETTA SONDA INDIRETTA

37

dell’assorbanza a 260 nm. La denaturazione del DNA non è un processo irreversibile in quanto se

dopo la separazione delle due eliche la temperatura viene fatta scendere in modo graduale, le

singole eliche complementari si possono riappaiare con riformazione della doppia elica

(ibridazione). La discesa graduale della temperatura e la permanenza delle molecole per un certo

tempo pochi gradi sotto la temperatura di denaturazione, sono condizioni fondamentali affinché si

possa avere ibridazione, processo dipendente dai moti di agitazione termica. La temperatura di

melting (Tm) definita come temperatura alla quale metà del DNA si presenta sottoforma denaturata

caratterizza la stabilità dell’ibrido che di forma tra la sonda ed il suo filamento complementare; è

critica nel determinare la temperatura ottimale per usare sonde oliginucleotidiche. La Tm dipende

dalla lunghezza della sonda, dalla composizione in basi G+G e A+T, dal grado di omologia, dalla

concentrazione della sonda e del bersaglio e dall’ambiente chimico (i cationi monovalenti come il

sodio stabilizzano la doppia elica mentre i denaturanti chimici come l’urea e la formamide la

destabilizzano). Il buon esito di una reazione di ibridazione dipende anche dalla stringenza che è

definita come la specificità con cui una sonda si lega ad una determinata sequenza bersaglio. In

condizioni di alta stringenza la sonda può ibridare solo una sequenza esattamente complementare ad

essa, mentre in condizioni di bassa stringenza l’ibridazione può avvenire anche tra la sonda e

sequenze solo parzialmente complementari. Condizioni di ibridazione ad alta stringenza che

richiedono un’alta percentuale di omologia tra sonda e bersaglio prevedono alta temperatura, bassa

concentrazione salina e presenza di denaturanti chimici (formamide). Condizioni di bassa stringenza

che richiedono di una minore omologia fra sonda e bersaglio prevedono una bassa temperatura,

un’alta concentrazione salina e l’assenza di denaturanti chimici (Wang S et al., 2000).

La FISH permette la localizzazione di geni e il rilevamento morfologico diretto di difetti o anomalie

genetiche in patologie ereditarie, l’analisi pre- e post-natale sia su campioni ematologici che su

tumori solidi, la verifica di aneuploidie importanti in nuclei interfasici (trisomia 21, neoplasie), lo

studio della metafase tramite la colorazione di cromosomi (cariotipizzazione). Amplificazioni,

traslocazioni e delezioni sono le principali alterazioni che possono essere studiate mediante FISH.

La FISH è in grado di valutare il numero di copie del proto-oncogene c-erbB-2 (sonda LSI-

HER2/neu), in relazione al numero di copie del cromosoma 17 (sonda CEP17) per distinguere

l’amplificazione genica dall’aneuploidia cromosomica. Esiste amplificazione genica se il rapporto

fra il numero di segnali c-erbB2 (rosso)/CEP17 (verde) risulta essere maggiore di due (Fig 19).

38

Fig 19: sonda LSI HER-2/neu

L’algoritmo proposto nella valutazione dello status di HER-2 nel carcinoma della mammella

prevede una prima fase di screening con la tecnica immunoistochimica (IHC), metodo pratico e

affidabile, a basso costo e di facile esecuzione. I risultati dell’immunoistochimica vengono espressi

attraverso uno schema di classificazione standard basato su tre parametri: percentuale delle cellule

colorate, completezza o meno della colorazione di membrana ed intensità di colorazione. Il

punteggio ottenibile varia da 0 a 3+; punteggio 0 (nessuna colorazione), punteggio 1+ (debole

parziale colorazione di membrana in più del 10% delle cellule tumorali), punteggio 2+ (moderata

colorazione di tutta la membrana tra il 10 ed il 30% delle cellule tumorali), 3+ (intensa colorazione

di tutta la membrana in più del 30% delle cellule tumorali. I risultati 0 ed 1+ sono considerati

negativi, mentre 2+ e 3+ sono considerati positivi. I pazienti con risultato positivo è un buon

candidato alla terapia con trastuzumab in grado di bloccare i recettori ed inibendo la replicazione e

la crescita del tumore (Wolf AC et al., 2007; Sauter G et al., 2009) (Fig 20).

Fig 20: espressione immunoistochimica di HER2

La FISH ed immunoistochimica sono due tecniche complementari fondamentali nel trattamento del

carcinoma della mammella (Hicks DG etal., 2008). Recentemente è stata dimostrata la tendenza

0 1+ 2+ 3+

39

dell’immunoistochimica a dare risultati falsi positivi; la concordanza fra le due metodiche è

dell’88% e tale correlazione aumenta per i casi 3+. Spesso i casi negativi alla FISH risultano

erroneamente positivi all’immunoistochimica soprattutto quelli con score +2. quindi lo score +2 non

dovrebbe mai essere utilizzato come criterio per la terapia senza la conferma per mezzo della FISH

(Tubbs RR et al., 2001). La FISH viene considerata principalmente come metodica di valutazione di

secondo livello, in accordo con le linee guida internazionali e nazionali (Sauter G et al., 2009), da

usare dopo l’immunoistochimica per dirimere quei casi in cui la determinazione

immunoistochimica abbia fornito risultati equivoci (2+) o per contribuire a risolvere casi clinici

specifici (Fig 21). Tuttavia l’impiego di tecniche di ibridazione in situ è comunque possibile anche

per la valutazione di primo livello dello stato di HER2 nel carcinoma della mammella. Deve essere

privilegiata l’adozione di tecniche dual color che utilizzano due fluorocromi diversi per visualizzare

sullo stesso preparato istologico o citologico la regione centromerica del cromosoma 17 (sonda

CEP17) ed il numero di copie del gene HER2 (sonda locus specifica).

La valutazione deve essere fatta su almeno 20 cellule neoplastiche e in almeno due campi diversi

della componente invasiva per rendere ragione dell’eterogeneità tumorale. Deve comprendere il

rapporto tra i segnali del gene HER2 e i segnali centromerici; se questo è maggiore di 2,2 si ha

amplificazione; un rapporto compreso fra 1,8 e 2,2 è considerato equivoco o bordeline dalle linee

guida ASCO/CAP e in questo caso si deve ripetere la reazione o la lettura; se il rapporto

HER2/CEP17 è inferiore di 1,8 allora il caso sarà non amplificato. È necessario segnalare la

percentuale di cellule neoplastiche in cui il gene HER2 risulta amplificato, il valore di cut-off

applicato per lo score finale e la media dei segnali CEP17 per fornire indicazioni sulla polisomia.

La FISH pur rimanendo la metodica di riferimento per la predittività di risposta al trattamento con

trastuzumab, presenta alcune criticità: la necessità di attrezzature costose, specifiche e dedicate,

impossibilità di conservare a lungo i preparati per decadimento del segnale fluorescente e la

mancanza del dettaglio morfologico che non permette un confronto con l’immunoistochimica.

40

Fig 21: Iter diagnostico per la valutazione dello stato di amplificazione del gene

10.2 TECNICHE INNOVATIVE DI IBRIDAZIONE IN SITU: CISH e SISH

Recentemente sono stati sviluppati nuovi metodi di ibridazione in situ in campo chiaro (ISH cromo

genica o CISH) (Shah S et al., 2010). Studi preliminari hanno inoltre proposto un’ulteriore tecnica

di ISH, molto sensibile basata sulla metallografia enzimatica e conseguente deposizione di argento

metallico (SISH) usata per la tipizzazione di HER2 nel carcinoma della mammella. I risultati di uno

studio multicentrico in Italia (Carbone A et al., 2008), hanno dimostrato un’alta riproducibilità

interlaboratorio e fra i diversi osservatori per quanto riguarda la SISH applicato allo studio di HER2

nel carcinoma della mammella. Inoltre è stata dimostrata una forte concordanza fra FISH, CISH e

SISH. Discordanze fra FISH e SISH sono state risportate nei casi di polisomia del cromosoma 17,

casi in cui la valutazione dei preparati allestiti con la SISH indicava un’amplificazione di basso

Analisi IHC

HER2

Carcinoma mammella

(componente invasiva)

IHC

3+

(Overespressione di

HER2positivo)

IHC

2+

(borderline)

IHC

0/+1

(negativo)

Analisi FISH

HER2

FISH (+) per

amplificazione di HER2

FISH (–) per

amplificazione di HER2

FISH

(borderline)

41

livello/equivoco mentre i risultati corrispondenti in FISH non indicavano amplificazione (Carbone

A et al., 2008). È auspicabile che i metodi di ISH in campo chiaro siano implementati nei laboratori

di anatomia patologica. Queste metodiche offrono alcuni vantaggi come la stabilità del segnale, la

preservazione della morfologia cellulare e tissutale, la possibilità di archiviare in modo permanente

i preparati.

La CISH (Chromogenic In Situ Hibridization) è una metodica che permette l’osservazione in campo

chiaro di specifiche sequenze geniche mediante una reazione perossidasica. A differenza della

FISH, i preparati allestiti con la metodica CISH possono essere osservati con un microscopio ottico

tradizionale, la valutazione può avvalersi del correlato morfologico ed il segnale è permanente. Le

amplificazioni vengono evidenziate mediante sonde marcate con digossigenina che vengono

rivelate mediante applicazione sequenziale di un anticorpo mouse anti-digossigenina, di un

anticorpo rabbit anti-mouse, un polimero anti-rabbit ed evidenziate mediante precipitazione del

cromogeno DAB (Tanner et al., 2000) (Fig 22).

Fig 22: principio della CISH

Lo stato di HER2 viene valutato secondo il seguente score: alti livelli di amplificazione se sono

presenti più di 10 segnali per nucleo in più di 50 cellule neoplastiche; bassi livelli di espressione se

il numero di segnali varia da 6 a 10 per nucleo in più di 50 cellule neoplastiche; nessuna

amplificazione se il numero di segnali varia da 1 a 5 per nucleo. È stata riportata una concordanza

fra FISH e CISH variabile dall’85 al 100% (Arnould L et al., 2003; Gupta D et al., 2003; Isola A et

al., 2004; Gong Y et al., 2005; Penault-Llorca F et al., 2009) (Fig 23)

42

Fig 23: visualizzazione del segnale con tecnica CISH

Oltre alla CISH standard esiste anche la CISH dual-color (dc-CISH) in cui si usano due sonde: una

sonda HER2 marcata con digossigenina (segnale verde) ed una sonda centromerica marcata con

biotina (segnale rosso) (Laakso M et al., 2006) (Fig 20). Un valore ≥2 del rapporto HER2/CEP17 è

indicativo di amplificazione (Caballero-Garcia T et al., 2010). La doppia ISH in campo chiaro ha

mostrato una concordanza del 98,9% con la FISH tradizionale (Nitta H et al., 2008; Hoff K et al.,

2010; Mollerup J et al., 2012) (Fig 24).

Fig 24: CISH dual color

La SISH (Silver In Situ Hybridization) sfrutta il principio della metallografia enzimatica mediante

la quale un enzima, la perossidasi, catalizza la riduzione di ioni argento in argento metallico con

deposizione di particelle metalliche nella sede del target ibridizzato al probe (Tubbs R et al., 2004).

I metodi di marcatura con oro colloidale di anticorpi e altre proteine è stata introdotta a partire dagli

anni ’70 in metodi di immunoelettronmicroscopia. Successivamente è stato dimostrato come

microparticelle d’oro siano in grado di catalizzare la deposizione di argento da una miscela di sali di

argento e agenti riducenti (autometallografia o silver enhancement). Risultati migliori sono stati

ottenuti con particelle d’oro ancora più piccole (1,4 nm) o Nanogold che possono essere legate ad

anticorpi, proteine o peptidi. Infine sono state sviluppate tecniche di ISH che abbinano l’uso di

sonde marcate con Nanogold con l’autometallografia. La metallografia enzimatica è stata descritta

da Hainfeld nel 2002; la perossidasi catalizza la riduzione di ioni argento ad argento metallico con

NO AMPLIFICATO AMPLIFICATO

43

le nanoparticelle che si depositano nella sede in cui il target si è ibridizzato con il probe. La SISH,

messa a punto per lo studio dello stato del gene HER2 e per la verifica della ploidia del cromosoma

17, opera in automatismo in un sistema chiuso; il precipitato d’argento è depositato sui nuclei ed

una singola copia del gene HER-2 o del cromosoma 17 è visualizzata come punti grigio-neri che

risaltano nettamente sull’ematossilina usata come controcolorante (Tubbs R et al., 2002; Carbone A

et al., 2008) (Fig 25).

Fig 25: principio tecnica SISH

Affinché il preparato possa essere considerato adeguato i segnali devono essere netti e facilmente

visibili anche con un obiettivo di 20x. Si deve controllare che le cellule normali (linfociti, cellule

endoteliali) abbiano da uno a due segnali. L’osservazione dei segnali sulle cellule normali è

fondamentale, in quanto la dimensione dei segnali è il riferimento per il conteggio dei segnali sulle

cellule neoplastiche. Un punto discreto viene considerato come copia singola di HER-2 o del

cromosoma 17 (Fig 26).

Fig 26: copia singola di HER2

Un grande cluster è costituito da segnali multipli aggregati non contabili; il grande cluster viene

conteggiato, per definizione, come costituito da 12 copie, mentre un piccolo cluster viene

conteggiato come costituito da 6 copie (Fig 27)

44

Fig 27: Cluster di segnali

Il segnale non amplificato è rappresentato da uno, due dot per cellula. Con l’amplificazione è

possibile osservare due tipi di pattern: due grandi cluster indicano la presenza di copie ripetute di

HER2 su un singolo cromosoma (regioni cromosomiche espanse); un pattern più distribuito

permette il conteggio dei singoli granuli ed è indicativo di un’amplificazione tipo double minutes

chromosomes (strutture cromosomiche circolari privi di centromero) (Tab 3).

Tab 3: algoritmo SISH

Numerosi studi hanno dimostrato una forte concordanza fra i risultati ottenuti mediante FISH e

SISH nella determinazione dello stato di HER2 nel carcinoma della mammella (Papouchado BG et

al., 2010).

11.0 POLISOMIA DEL CROMOSOMA 17

Sulla base delle linee guida FDA e più recentemente delle raccomandazioni ASCO/CAP,

l’amplificazione del gene HER2, quando si utilizzino tecniche dual color, viene indicata come

rapporto >2 o >2,2 tra numero di copie del gene HER2 ed i segnali del centromero 17. Tumori con

aumento del numero di segnali sia per il gene HER2 sia per CEP17, ma con un rapporto <2 (1,8 per

ASCO/CAP) sono considerati polisomici (Hyun CL et al., 2008; Vanden Bempt I et al., 2008). La

polisomia, definita come presenza di 3 o più copie del centromero 17, in assenza di amplificazione

genica può essere associata ad un’intensità di colorazione all’immunoistochimica 2+ e più

raramente 3+; solo i casi polisomici con iperespressione della proteina (3+) sono eleggibili al

GRANDI CLUSTER PICCOLI CLUSTER

45

trattamento terapeutico. Quindi diventa importante verificare la reale incidenza della polisomia 17

in assenza di amplificazione genica e il meccanismo biologico responsabile dell’aumento dei

segnali centromerici (Fig 28). L’incidenza dei casi polisomici è ancora oggetto di discussione; i dati

in letteratura oscillano tra il 4 ed il 30% in funzione dei criteri usati per la diagnosi. Un recente

studio, attraverso l’utilizzo della tecnica CGH (microarray based comparative genomic

hybridization) ha suggerito come la polisomia possa essere considerata un evento molto raro; infatti

solo il 5% delle polisomie individuate con la FISH sono state confermate dalla CGH; ciò che

inizialmente era stato definito polisomico con la FISH si è dimostrato un aumento (gain) o

amplificazione della sola zona del centromero e non un aumento del numero di cromosomi 17; il

20% delle pazienti, considerate polisomiche alla FISH e con un rapporto HER2/CEP17 <2,

mostravano con la tecnica CGH amplificazione del gene HER2 e quindi erano eleggibili alla terapia

con trastuzumab. I casi di carcinoma della mammella con vera polisomia del cromosoma 17

sarebbero rari e dovrebbero essere considerati amplificati tutti quei casi con più di 6 segnali di

HER2 per cellula indipendentemente dal numero dei segnali CEP17 (Marchiò C et al., 2009; Yeh IT

et al., 2009; Gunn S et al., 2010; Oakman C et al, 2010).

Fig 28: polisomia del cromosoma 17

12.0 ETEROGENEITA TUMORALE

Alcuni tumori mammari appaiono eterogenei sia per quanto riguarda la morfologia che le

caratteristiche genetiche e si possono avere discordanze tra le metodiche di FISH ed

immunoistochimica. L’eterogeneità genetica, rilevata all’immunoistochimica, viene definita focale

quando localizzata in cloni definiti di cellule HER2 positive, o diffusa quando ci sono aree 3+

frammiste ad aree 2+ o negative. Secondo le raccomandazioni ASCO/CAP, viene definito

eterogeneo, un tumore che, mediante tecnica FISH, presenta amplificazione genica in più del 5%

ma in meno del 50% delle cellule neoplastiche infiltranti, con un rapporto HER2/CEP17 ≥ 2. In

46

base a questa definizione, l’incidenza di eterogeneità intratumorale varia dal 5 al 30% (Fig 29). Tale

eterogeneità potrebbe essere responsabile della diversità nell’amplificazione del gene o

iperespressione di HER2 tra carcinoma primario e metastasi, evidente in circa il 14% dei casi

(Tapia C et al. 2007). L’impatto dell’eterogeneità genetica sulla storia naturale della neoplasia e

sulle scelte terapeutiche è ancora oggetto di studio. Recentemente è emerso il beneficio della terapia

con trastuzumab in casi eterogenei con amplificazione focale. Inoltre prima di escludere pazienti

con tumori eterogenei dal possibile beneficio del trattamento, è raccomandabile una rivalutazione

dello stato di HER2 con ulteriori analisi immunoistochimiche e/o tecniche di ibridazione in situ da

eseguirsi su ulteriori inclusioni della neoplasia primitiva o sulle eventuali metastasi linfonodali

(Lewis JT et al., 2005; Hanna W et al., 2007; Chivukula M et al., 2008; Brunelli M et al., 2009

Vance GH et al., 2009; Oakman C et al., 2010, Lee S et al. 2011).

Fig 29: esempio di eterogeneità tumorale

IHC FISH

47

13.0 TRATTAMENTO DEL CARCINOMA DELLA MAMMELLA

I tipi di trattamento per il carcinoma della mammella possono essere sistemici o locali. Le terapie

locali mirano ad asportare, distruggere o controllare le cellule neoplastiche di una determinata zona.

Le terapie sistemiche distruggono e controllano le cellule tumorali diffuse in tutto l’organismo.

L’intervento chirurgico rappresenta il trattamento più diffuso nel caso di tumore della mammella.

Altro tipo di trattamento è rappresentato dalla terapia radiante che consiste nell’uso di radiazioni ad

alta energia per distruggere le cellule neoplastiche ed impedirne la crescita. La chemioterapia

consiste nella somministrazione di una combinazione di farmaci anti-tumorali in cicli. L’endocrino

terapia è mirata a bloccare l’azione degli ormoni sulle cellule neoplastiche. Può prevedere l’uso di

farmaci che modificano il funzionamento ormonale oppure l’asportazione chirurgica delle ovaie,

produttrici degli ormoni femminili.

Altra terapia è la chemioterapia adiuvante che ha lo scopo di eliminare o ridurre la massa tumorale;

si tratta di un trattamento che precede l’intervento chirurgico in pazienti affetti da carcinoma al fine

di ridurre lo stadio T della neoplasia in modo da consentirne l’asportazione chirurgica. La terapia

pre-chirurgica è in genere meglio tollerata dal paziente rispetto alla sua somministrazione dopo

chirurgia e riduce la probabilità di diffusione delle cellule neoplastiche in corso di intervento

chirurgico.

13.1 TARGET THERAPY E BERSAGLI MOLECOLARI

Negli ultimi anni sono stati condotti progressi importanti nella scoperta di lesioni genetiche alla

base delle neoplasie. Queste scoperte hanno aperto nuovi scenari per lo sviluppo di tageted therapy,

terapie molecolari indirizzate selettivamente contro le proteine responsabili della formazione di

tumori. Le cellule tumorali dipendono in maniera assoluta da specifiche vie di trasduzione del

segnale e l’inibizione di queste può portare ad un arresto irreversibile della crescita o a morte delle

cellule neoplastiche stesse. L’uso di targeted therapy richiede di una corretta definizione del target.

Un bersaglio terapeutico ideale deve:

essere esclusivo del tumore;

essere assente o irrilevante nel tessuto sano;

rivestire un ruolo patogenetico importante nella progressione del tumore;

poter essere bersagliabile farmacologicamente;

poter essere misurabile clinicamente;

Le proteine codificate da oncogeni e geni oncosoppressori rappresentano dei bersagli elettivi per la

messa a punto di terapie molecolari; colpire bersagli molecolari specifici rappresenta un approccio

potenzialmente più efficace e meno tossico rispetto alle terapie tradizionali.

48

Bersagli molto promettenti sono le proteine RAS; esse rappresentano le oncoproteine più spesso

coinvolte nei tumori dell’uomo. Per poter funzionare le proteine RAS devono essere coniugate a

catene lipidiche di enzimi (farnesiltransferasi o geraniltransferasi). Inibitori di questi enzimi

possono avere un’efficacia terapeutica grazie al blocco di RAS o di proteine della stessa famiglia

(Baselga J et al., 2005; Carlomagno F et al., 2005)

Altri bersagli terapeutici promettenti sono le oncoproteine con funzione anti-apoptotica. La loro

inibizione potrebbe favorire la morte delle cellule tumorali. Sono in sperimentazione molecole in

grado di inibire le proteine IAP (Inhibitor of Apoptosis) o Bcl2, altra proteina con funzione

antiapoptotica. Esistono strategie terapeutiche che hanno come obiettivo l’attivazione di

oncosoppressori. La proteina p53 ha potenti effetti antitumorali, in gran parte mediati dalla capacità

di indurre apoptosi o arresto del ciclo cellulare. Recentemente sono stati identificati composti che

hanno la capacità di bloccare la degradazione di p53, aumentandone i livelli intracellulari (Baselga

J et al., 2005; Carlomagno F et al., 2005). Altra classe di composti antitumorali sono gli inibitori

delle istonedeacetilasi (HDAC), enzimi che favoriscono l’acetilazione degli istoni ed il loro distacco

dalla cromatina. Questi composti sono in grado di indurre la trascrizione genica ed il loro effetto

terapeutico è legato alla capacità di riattivare l’espressione di proteine con funzione di soppressione

tumorale (Minucci S et al., 2006).

13.2 ANTICORPI MONOCLONALI UMANIZZATI

La terapia con anticorpi monoclonali (mAb) è basata sulla scoperta che mAb specifici per un

antigene possono essere ottenuti fondendo una cellula B che produce anticorpi con una cellula

immortalizzata di mieloma. Provocando la fusione cellulare di linfociti B provenienti da un topo

con una linea cellulare proveniente da un mieloma, si ottiene un ibridoma; facendo crescere i singoli

ibridomi si ottengono cloni cellulari ognuno dei quali sintetizza uno specifico anticorpo

monoclonale con struttura chimica definita e con la capacità di riconoscere un singolo epitopo

(Köhler G et al., 1975). Nel 1975 sono stati prodotti i primi anticorpi murini mediante la tecnica

degli ibridomi; tuttavia questi anticorpi sono immunogeni per l’uomo inducendo risposte anticorpali

anti-immunoglobulina di topo. Grazie allo sviluppo di tecniche di ingegneria genetica è stato

possibile produrre anticorpi più simili a quelli umani e quindi meno immunogeni (Orlandi R et al.,

1989). Gli anticorpi chimerici sono stati prodotti da geni ibridi derivanti dalla fusione di geni

codificanti per le regioni variabili (VH e VL) delle Ig di un mAb di topo con corrispondenti regioni

H e L di anticorpi umani. Questi geni ibridi devono essere inseriti mediante trasfezione genica in

una cellula (trasfettoma) che diventerà in questo modo produttrice di anticorpi chimerici. Questi

anticorpi pur mantenendo la specificità di riconoscimento dell’anticorpo originale murino, sono

49

meno immunogenici rispetto alle Ig murine ed inducono meno anticorpi umani anti-topo (human

anti-mouse antibody, HAMA) (Brüggemann M et al., 1989). Dal momento che la regione variabile

che riconosce l’antigene è ancora murina, possono essere ancora prodotti anticorpi neutralizzanti.

Gli anticorpi primatizzati, hanno la regione variabile codificata da geni di primati; la loro

immunogenicità è ridotta ma tuttavia sono ancora possibili reazioni da parte dell’ospite. Negli

anticorpi umanizzati, tutte le porzioni che sono coinvolte nel legame con l’antigene, escluse le

regioni ipervariabili, sono ottenute da sequenze geniche umane. Questi anticorpi sono ottenuti

mediante la tecnica del CDR-grafting, attraverso l’isolamento di cDNA delle catene L e H da

ibridomi prodotti in topi transgenici in cui vengono inseriti geni umani. Con la PCR vengono

amplificate le regioni variabili VH e VL degli anticorpi murini (CDR). Attraverso cicli di

mutagenesi sono sostituiti i frammenti CDR. I geni ricombinanti vengono clonati in vettori di

espressione e si introducono in cellule ospiti idonee (E coli o mammifero) per la produzione di

anticorpi. Meno del 10% dell’anticorpo monoclonale umanizzato ha sequenze geniche murine.

Gli anticorpi monoclonali possono essere utilizzati a scopo terapeutico come mAb modificati o

mAb coniugati. Gli anticorpi non coniugati di classe IgG1 possono agire direttamente a livello

cellulare provocando apoptosi, citotossicità complemento-mediata (CDC) o citotossicità cellulare

anticorpo-mediata (ADCC). Gli anticorpi possono anche agire tramite blocco dei recettori per

fattori di crescita con inibizione della crescita ed alterazioni del ciclo cellulare.

Gli anticorpi coniugati non sfruttano l’attività immunologica intrinseca, ma servono a dirigere in

modo specifico il composto tossico a cui sono coniugati, come agenti chemioterapici, tossine o

radioisotopi (Slamon DJ et al., 2001).

13.3 TRASTUZUMAB E MECCANISMO DI AZIONE

Herceptin (trastuzumab) è un anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante (mAb) diretto contro

il dominio extracellulare della proteina HER2; è costituito da una regione complementare

determinante di un anticorpo murino (clone 4B5) integrata nella struttura di una IgG1 umana

(Carter P et al., 1992).

Il razionale per iniziare lo studio di trastuzumab nel trattamento del carcinoma mammario operabile

si è basato su diversi fattori:

• la malattia HER2 positiva è associata a prognosi sfavorevole; è una malattia aggressiva con

alto rischio di recidive e metastasi

• la positività di HER2 è un evento precoce nello sviluppo del carcinoma della mammella

• trastuzumab è diretto in modo specifico contro il carcinoma mammario positivo per HER2 e

nella malattia metastatica è associato ad un beneficio clinico significativo

50

• trastuzumab ha dimostrato di indurre scarsi effetti collaterali e di essere dotato di un profilo

di tossicità favorevole.

Sebbene il meccanismo attraverso il quale herceptin induca una regressione dei tumori con

iperespressione di HER-2 non sia completamente conosciuto, diversi effetti molecolari e cellulari

sono stati osservati in sperimentazioni con modelli in vivo e vitro (Valabrega G et al., 2007;

Daniele L et al., 2009) (Tab 4).

HER2 attiva molteplici vie di segnale intracellulari comprese quelle che coinvolgono fosfatidil-

inositolo 3,4,5 trifosfato chinasi (PI3K), e MAP chinasi (MAPK). Herceptin riduce la trasmissione

del segnale attraverso queste vie, promuovendo l’arresto del ciclo cellulare e l’apoptosi. La

riduzione del segnale attivato dal recettore può condurre ad un'internalizzazione dello stesso

mediata da herceptin e ad una sua successiva degradazione (Sliwkowsky MX et al., 1999; Baselga J

et al., 2001; Gabriel N et al., 2005). Non è tuttavia chiaro se herceptin determini una riduzione

dell’espressione di HER2 sulla superficie cellulare in quanto è stato dimostrato che i livelli del

recettore non si modificano in risposta al trattamento con l’anticorpo monoclonale (Le XF et al.,

2003). Un meccanismo attraverso il quale il farmaco può bloccare la via di segnale di PI3K è stato

recentemente descritto da Nagata et al. (Nagata Y et al., 2004); PTEN (MMAC1/TEP), è una

fosfatasi che de fosforila in posizione D3 di membrana il PI3 sito di ancoraggio del dominio

plecstrina-omologo di AKT alla membrana cellulare (Parson R et al., 2003). Dal momento che

PI3K catalizza la produzione di PI3, PTEN antagonizza l’azione di PI3K e regola negativamente

l’attività di AKT. Herceptin attiva la fosfatasi PTEN con rapida defosforilazione di AKT e

conseguente inibizione del ciclo cellulare (Nagata Y et al., 2004). Le cellule trattate con herceptin,

vanno quindi incontro all’arresto del ciclo cellulare in G1 con riduzione della proliferazione.

L’arresto del ciclo è accompagnato dalla riduzione dell’espressione di proteine coinvolte nel

sequestro dell’inibitore delle chinasi ciclino-dipendenti (cdk), p27kip1, inclusa la ciclina D1; questo

comporta il rilascio di p27kip1 permettendo a questa di legare ed inibire il complesso ciclina E/cdk2

(Lane HA et al., 2000). Il trattamento determina inoltre un accumulo intracellulare di p27kip1 per

ridotto sequestro da parte del proteo soma (Lane HA et al., 2001). Come singolo agente, herceptin

può ridurre drasticamente le dimensioni del tumore in pazienti con carcinoma della mammella

metastatico che iperesprime HER2. Rimane da chiarire se questo sia dovuto ad un effetto

citotossico diretto sulle cellule tumorali o ad un meccanismo indiretto (attività anti-angiogenetica o

stimolazione della risposta immunitaria). Studi in vivo hanno dimostrato come herceptin possa

indurre apoptosi in cellule di carcinoma della mammella (Chang JC et al., 2003).

L’iperespressione di HER2 è associata ad un incremento nel processo di angiogenesi e

dell’espressione di VEGF (Laughner E et al., 2001); il trattamento di tumori mammari HER2+

51

comporta la riduzione delle dimensioni del tumore, della densità dei piccoli vasi in vivo (Izumi Y et

al., 2002) e la migrazione di cellule neoplastiche in vitro (Klos KS et al., 2003). È stata inoltre

dimostrata una riduzione nella sintesi di fattori pro-angiogenici e un aumento nella produzione di

fattori anti-angiogenici (Izumi Y et al., 2002; Klos KS et al., 2003). La combinazione di herceptin e

paclitaxel avrebbe la capacità di inibire gli effetti correlati all’angiogenesi in modo più efficace

rispetto al solo anticorpo monoclonale (Klos KS et al., 2003; Gutierrez C et al., 2011) (Fig 30).

Tab 4: meccanismi di azione di trastuzumab

Fig 30: vie di segnale di HER2 e target therapy

Modelli in vivo e studi clinici hanno dimostrato per trastuzumab un effetto citotossico in parte

correlato alla stimolazione della risposta immunitaria. Herceptin ha la capacità di attivare la

citotossicità cellulo-mediata anticorpo dipendente (ADCC) in diverse linee cellulari di carcinoma

della mammella (Cooley S et al., 1999; Slamon DJ et al., 2001). Le cellule NK, coinvolte

CITOTOSSICITA CELLULARE ANTICORPO MEDIATA (ADCC)

INIBIZIONE DEL TAGLIO PROTEOLITICO DI HER2

INTERNALIZZAZIONE E DEGRADAZIONE DI HER-2

ATTENUAZIONE DEI SEGNALI CELLULARI; ARRESTO IN FASE G1

INIBIZIONE DELLA VIA DI SEGNALE PI3K-AKT

INIBIZIONE DELL’ANGIOGENESI TUMORALE

INIBIZIONE DELLA RIAPARAZIONE DEL DNA

INDUZIONE DI p27Kip1 E DELL’INTERAZIONE p27Kip1- CDK2

Dominio di legame

per il ligando

Dominio tirosin

chinasico

Trascrizione

• Proliferazione

• Motilità

• Invasione

• Resistenza all’apoptosi

52

nell’ADCC esprimono il recettore Fcγ attraverso il quale si legano alla componente Fc del farmaco

con conseguente lisi cellulare.

Studi in vitro hanno dimostrato una sinergia fra herceptin e diversi farmaci chemioterapici (Pegram

M.D et al., 2004). Esisterebbe una correlazione fra il danno causato al DNA dai farmaci

chemioterapici e il blocco della riparazione da parte di trastuzumab; inoltre l’anticorpo monoclonale

sarebbe in grado di promuovere la rottura del legamento di DNA nelle cellule che iperesprimono

HER2 (Mayfield S et al., 2001) e di modulare la trascrizione di geni i cui prodotti sono coinvolti

nella riparazione del DNA (Kauraniemi P et al., 2004). Attualmente herceptin viene somministrato

in associazione a chemioterapici come paclitaxel e docetaxel che migliorano la risposta alla terapia,

il tempo alla progressione e la sopravvivenza globale rispetto alla ionoterapia con solo trastuzumab

(Esteva FJ et al., 2002; Baselga J et al., 2004; Gabriel N et al., 2005; Romond EH et al., 2005;

Jackisch C, 2006).

Esisterebbe un’interazione tra i segnali di trasduzione di HER2 e quelli di ER. HER2 è in grado di

attivare la via Ras/MAPK che a sua volta determina la fosforilazione e attivazione del recettore

degli estrogeni. Nei tumori con iperespressione di HER2, la fosforilazione e attivazione della

proteina AIB1 determinano un potenziamento dell’attività trascrizionale di ER ed un aumento

dell’attività agonista del tamoxifene. Attraverso MAPK vengono fosforilati sia il recettore che i

coattivatori, promuovendo la proliferazione, mentre da parte del recettore viene favorita la

produzione di fattori di crescita che potenziano ulteriormente la via MAPK. Queste vie possono

essere inibite somministrando farmaci come il trastuzumab, in grado di bloccare la via Ras e di

evitare la fosforilazione del coattivatore a livello di ER. Gli inibitori dell’aromatasi, riducendo la

sintesi degli estrogeni, riducono l’attivazione di ER; in questo modo ER non è più un target per la

cascata delle MAPK indotta da HER2 e viene bloccato il meccanismo di resistenza ipotizzato per il

tamoxifene (Baselga J et al., 1998; Arpino G et al., 2008; Giuliano M et al., 2011). Il promotore di

HER2 contiene inoltre un elemento di risposta all’estrogeno che può inibire la trascrizione del gene;

questo è stato dimostrato in linee cellulari di carcinoma della mammella MCF-7 dove l’estrogeno

induce una diminuzione di HER2, mentre la presenza dell’antiestrogeno determina una parziale

inversione dell’effetto (Dati C et al., 1990). Un mediatore del segnale di HER2 stimola la

fosforilazione di ER portando ad un aumento della trascrizione e proliferazione; in questa situazione

l’effetto agonista del tamoxifene supera quello antagonista convertendolo da soppressore a

stimolatore delle cellule di tumore mammario. Questo fenomeno spiegherebbe in parte la relativa

resistenza che tumori ER e HER2 positivi mostrano al trattamento con tamoxifene (Dati C et al.,

1990) (Fig 31). Una strategia promettente nel superare o prevenire la resistenza alla terapia

53

endocrina potrebbe essere la combinazione di agenti ormonali e farmaci diretti contro effettori a

valle dei recettori tirosin-chinasici quali m-TOR (Giuliano M et al., 2011; Baselga J et al., 2012).

Fig 31: interazione di HER2 con ER

13.4 TRASTUZUMAB: MECCANSIMI DI RESISTENZA

Sebbene il trastuzumab venga considerato il trattamento standard di prima linea in pazienti con

diagnosi di carcinoma della mammella HER-2 positivo, un numero significativo di pazienti (circa il

40%) con diagnosi di tumore mammario HER-2 positivo non beneficia di questa terapia in quanto

ha sviluppato una resistenza primaria o secondaria al farmaco (Scaltriti M et al., 2007) (Fig 32).

I meccanismi di resistenza al trastuzumab maggiormente studiati sono (Nahta R et al., 2006;

Pohlmann PR et al., 2009; Fiszman GGL et al., 2011):

• accumulo della forma tronca del recettore (p95HER2);

• perdita di espressione della proteina PTEN;

• ostacolo al legame dell’anticorpo monoclonale al recettore;

• la sovra regolazione delle vie di segnale a valle di HER2;

• vie di segnale alternative (IGF-1R);

• incapacità di determinare la citotossicità cellulare anticorpo mediata.

CRESCITA

CRESCITA

54

Fig 32: meccanismi di resistenza a trastuzumab

Mutazioni somatiche nella regione del gene egfr codificante per il dominio TK, correlano con la

risposta all’inibitore tirosin-chinasico gefitinib in pazienti affetti da neoplasia polmonare (Paez JG

et al., 2004). In modo similare, mutazioni nella regione codificante per il dominio extracellulare

(ECD) possono essere presenti nel gene HER2 impedendo il legame di trastuzumab al recettore.

Inoltre l’interazione fra anticorpo e recettore può venir meno se i livelli di HER2 si riducono nel

tempo. Studi immunoistochimici hanno tuttavia dimostrato come l’iperespressione del recettore sia

mantenuta in cellule neoplastiche mammarie ottenute da pazienti recidivati dopo completa risposta

al trattamento con trastuzumab (Gennari R et al., 2004). Recenti studi hanno dimostrato come

l’amplificazione del segnale mediato da PI3K contribuisce ad indurre resistenza alla terapia. PTEN

(Phosphatase and TENsin homologue deleted on chromosome 10) agisce come antagonista della

funzione di PI3K, inibisce l’attività di AKT e la crescita tumorale (Lu Y et al., 1999). La riduzione

dell’espressione di PTEN blocca l’inibizione della proliferazione cellulare mediata da herceptin in

cellule di carcinoma della mammella (Nagata Y et al., 2004; Pandolfi PP, 2004) che iperesprimono

HER2, con aumento del segnale attivato da PI3K. Recenti studi, condotti su una serie di carcinomi

della mammella HER-2 positivi, hanno dimostrato come il trastuzumab possa bloccare la via PI3K

incrementando l’attività fosfatasica di PTEN e la sua localizzazione a livello di membrana

(Valabrega G et al., 2007; Nagata Y et al., 2004) e come la perdita di PTEN sia responsabile della

resistenza al trattamento (Pandolfi PP, 2004). La perdita di funzione di PTEN può essere

determinata nel 5-10% dei tumori della mammella da mutazioni. L’aploinsuffucuenza di PTEN, per

perdita di eterozigosi a livello del locus genico è stata osservata nel 50% dei tumori della mammella

(Li J et al., 1997); inoltre è stata descritta una mutazione epigenetica di PTEN (Mutter GL et al.,

2000). In pazienti resistenti al trastuzumab, per una ridotta espressione di PTEN, potrebbe essere

vantaggioso l’impiego di farmaci in grado di inibire PI3K.

55

Mutazioni attive a livello del gene codificante la sub unità catalitica della chinasi PI3K sono state

identificate in circa io 25% dei carcinomi primitivi della mammella, principalmente a livello

dell’esone 9 e 20, determinando un aumento costitutivo della trasmissione intracellulare del segnale

mediato dalla stessa chinasi (Isakoff SJ et al., 2005). È stato pertanto valutato il ruolo della perdita

di espressione di PTEN e della presenza di mutazioni attivanti di PI3K in pazienti affette da

carcinoma della mammella HER2 positivo e trattate con trastuzumb in monoterapia o in

associazione con chemioterapici. Né la perdita di espressione di PTEN, né mutazioni di PI3K

considerate singolarmente risultavano essere correlate con una peggiore prognosi. Valutando

simultaneamente il ruolo prognostico della perdita di espressione di PTEN e delle mutazioni

attivanti di PI3K, è stata osservata una differenza significativa in termini di progressione tra la

popolazione definita con “pathway PI3K attivo” (perdita di espressione di PTEN/PI3K mutato) e la

popolazione definita con “pathway PI3K non attivo” (alta espressione di PTEN/PI3K non mutato).

Recentemente uno studio pubblicato da Esteva e coll (Esteva FJ et al., 2010) su pazienti affette da

carcinoma della mammella metastatico HER2 positivo trattate con trastuzumab da solo o associato

a regimi chemioterapici, ha valutato la correlazione fra la perdita di espressione di PTEN, lo stato

mutazionale di PI3K e l’iperespressione di pAKT e p-p70S6K, con la risposta al trattamento e

l’autcome clinico. I risultati hanno evidenziato come non esista nessuna correlazione tra lo stato dei

4 determinati e la risposta al trattamento o l’outcome clinico quando ciascun determinate è stato

valutato singolarmente. La valutazione dello stato di attivazione del pathway PI3K come perdita di

espressione di PTEN/presenza di mutazioni a livello di PI3K, veniva osservata una correlazione

statisticamente significativa sia per la risposta al trattamento che per la sopravvivenza globale.

Herceptin aumenta l’emività di p27kip1 riducendone la fosforilazione mediata dal complesso ciclina

E/cdk2 e bloccando di conseguenza la sua degradazione ubiquitino-dipendente (Le XF et al., 2003).

Il farmaco inoltre aumenta l’associazione di p27kip1 e cdk2 con arresto del ciclo cellulare in G1

(Lane HA et al., 2000). Linee cellulari SKBR3 resistenti ad herceptin, dopo esposizione continua al

farmaco esprimono livelli ridotti di p27kip1 con elevata attività di cdk2; la trasfezione di p27kip1

comporta di nuovo la sensibilità cellulare al trastuzumab confermando come la proteina sia un

mediatore critico nella risposta ad herceptin (Natha R et al., 2003), potendo servire come marcatore

di risposta al trastuzumab o come target terapeutico nei sottogruppi di pazienti affetti da tumore

della mammella progrediti durante la terapia con l’anticorpo monoclonale.

La via di trasduzione del segnale PI3K/AKT/mTOR ha una funzione critica nella proliferazione

cellulare, nella progressione del ciclo cellulare, nell’apoptosi e nel metabolismo cellulare. AKT è la

serin treonin chinasi che viene direttamente attivata in risposta a PI3K e rappresenta il suo più

importante effettore (Engelman JA et al., 2006; Gonzales-Angulo AM et al., 2011). Nonostante

56

AKT sia l’effettore di PI3K maggiormente coinvolto nell’insorgenza e sviluppo di neoplasie, vi

sono altre vie indipendenti da AKT, ma che vengono attivate da PI3K, implicate nella polarità e

nella migrazione cellulare (Cain RJ et al., 2009). Il principale effettore a valle di AKT è il

complesso mTORC1: esso è capace di integrare segnali provenienti dall’esterno ed interno della

cellula come ad esempio segnali legati allo stato energetico, alla presenza di nutrienti e di fattori di

crescita. Allo stato attuale vi è uno sviluppo clinico di molti farmaci che hanno come bersaglio

l’asse di sopravvivenza PI3K/AKT/mTOR; in particolare sono state sviluppate molecole che vanno

ad inibire PI3K, AKT ed inibitori di mTOR sia allosterici che del sito catalitico. Importante è la

complessa regolazione di mTORC1 che gioca un ruolo fondamentale dal punto di vista terapeutico;

infatti si stanno attualmente sviluppando farmaci doppi inibitori di PI3K e mTOR. I doppi inibitori

potrebbero offrire un vantaggio terapeutico in quanto come noto PI3K non è l’unico regolatore di

mTOR (Engelman JA et al., 2009). La via principale attraverso la quale l’asse PI3K/AKT/mTOR

viene inattivato è la defosforilazione dei prodotti delle PI3K che fungono da secondi messaggeri per

l’attivazione di AKT. Le molecole di PtdIns(3,4,5)P3, non sono il substrato di nessuna delle

fosfolipasi C conosciute ma sono defosforilate dalle fosfatasi PTEN e SHIP (SH domain-containing

Inositol Phosphatases). PTEN è una fosfatasi dotata di doppia specificità in quanto capace di

defosforilare sia proteine che lipidi ed è in grado di rimuovere il gruppo fosfato in posizione 3

(Stambolic V et al., 1998). SHP1 e SHP2 defosforilano PtdIns(3,4,5)P3 rimuovendo il gruppo

fosfato in posizione 5 (Choi Y et al., 2002). Quindi PTEN agisce come antagonista della funzione di

PI3K inibisce l’attività di AKT e la crescita tumorale (Lu Y et al., 1999; Gori S et al., 2009) (Fig

33).

Fig 33: iperegolazione delle vie di segnale a valle di HER2

Altro potenziale meccanismo di resistenza al trastuzumab è l’accumulo a livello cellulare della

forma tronca di HER2, conosciuta come p95HER2 o frammento C-terminale. Questi frammenti

sono frequentemente ritrovati in carcinomi della mammella esprimenti HER2 (Molina, MA et al.,

57

2002) ed originano dalla proteolisi, ad opera di una metalloproteinasi non ancora ben definita, del

dominio extracellulare di HER2 (Christianson TA et al., 1998; Codony-Servat J et al., 1999) o da

un inizio alternativo di traduzione a partire da due residui di metionina (611 e 687) che sono

localizzati rispettivamente prima e dopo il dominio transmembrana (Anido J et al., 2006). La

funzione biologica di p95HER2 non è completamente conosciuta, nonostante sia stato dimostrato

come la sua iperespressione determini la crescita di tumori trapiantati in topi nudi (Anido J et al.,

2006). Il frammento C-terminale possiede attività TK richiesta per la crescita tumorale. Il fatto che

la forma tronca del recettore possieda attività tirosin-chinasica in assenza del legame tra

trastuzumab e il dominio extracellulare, ha portato ad ipotizzare come i tumori esprimenti p95HER2

siano resistenti ad herceptin ma sensibili ad altre molecole in grado di inibire l’attività tirosin-

chinasica di HER2 come il lapatinib, inibitore tirosin-chinasico (TKI) a basso peso molecolare

(Wood ER et al., 2004). Il potenziale ruolo predittivo di resistenza al trattamento con trastuzumab è

stato studiato in primis da Scaltriti e coll, sia in vitro che in vivo. Linee cellulari di carcinoma della

mammella (MCF-7 e T47D), precedentemente transfettate con vettori contenenti la forma integra o

quella tronca di HER2, sono state studiate sia prima che dopo esposizione a trastuzumab e lapatinib.

I risultati hanno evidenziato come il trattamento con lapatinib inibisce la fosforilazione di entrambe

le forme di HER2 e delle chinasi a valle (AKT e MPAKs); contrariamente trastuzumab non ha

dimostrato avere nessun effetto sulle cellule che esprimevano p95HER2. Per confermare tali

risultati in vivo, la linea cellulare MCF7, transfettata con le due forme del recettore HER2, è stata

inoculata in cavie atimiche, successivamente suddivise in tre gruppi ed esposti a trastuzumab,

lapatinib o placebo rispettivamente. Le cavie il cui tumore esprimeva la full-lenght HER2 hanno

risposto a trastuzumab e lapatinib, mentre quelle che esprimevano p95HER2 sono risultate

resistenti a trastuzumab e sensibili a lapatinib (Scaltriti M et al., 2007) (Fig 34).

Fig 34: Forma tronca di HER2

58

Il mascheramento dell’epitopo riconosciuto da trastuzumab è stato investigato come possibile

meccanismo di resistenza al farmaco. In un modello preclinico con linee cellulari umane JIMT-1

HER2 positive, resistenti al trastuzumab, è stato osservato come la resistenza sia associata alla

presenza di mucina 4 (MUC-4), glicoproteina associata alla membrana, in grado di impedire il

legame dell’anticorpo monoclonale allo specifico epitopo di HER2 (Nagy P et al., 2005).

CD44 e l’acido ialuronico possono ridurre il legame di trastuzumab allo specifico epitopo di HER2.

CD44 è un recettore transmebrana specifico per l’acido ialuronico; è stato osservato come il legame

ligando-recettore, in cellule di carcinoma ovarico, attiva segnali di trasduzione fra i quali RAS e

PI3K (Bourguignon LY et al., 2001). Linee cellulari di carcinoma della mammella JIMT-1 trattate

con inibitori della sintesi di acido ialuronico, hanno mostrato una riduzione nei livelli di acido

ialuronico sia in vivo che in vitro, con un incremento del legame di trastuzumab ad HER2 e

conseguente effetto antitumorale (Palyi-Krekk Z et al., 2007). È stato dimostrato come il legame di

polimeri di acido ialuronico a CD44 possa contribuire all’attivazione della via di segnale

PI3K/AKT; il blocco di questo legame attraverso anticorpi anti-CD44 potrebbe sopprimere questa

via di segnale con inibizione della crescita cellulare indipendente dall’ancoraggio sia in vitro che in

vivo (Ghatak S et al., 2002) (Fig 35).

Fig 35: Mascheramento epitopo

Il fattore di crescita insulino simile (IGF) ed il suo recettore (IGF-IR) risultano essere

frequentemente iperespressi e coinvolti nella proliferazione cellulare, trasformazione e

metastatizzazione (Pandini G et al., 1999; Yee D, 2002). Alti livelli di IGF prevengono l’apoptosi

indotta da chemioterapici e radiazioni. L’iperattivazione della via di segnale coordinata da IGF-IR è

associata a resistenza a trastuzumab in cellule neoplastiche HER2+. E’ stato dimostrato come

l’arresto della crescita cellulare mediato da herceptin, è perso in cellule che iperesprimono IGF-IR e

tale effetto può essere annullato se al mezzo di coltura viene aggiunta la proteina 3 in grado di

59

inibire IGF (Lu YH et al., 2001). Pertanto IGF-IR potrebbe rappresentare un possibile mediatore

target terapeutico in pazienti con carcinoma della mammella resistente al trastuzumab (Nahta R et

al., 2005; Valabrega G et al., 2007) (Fig 36).

Dei quattro membri della famiglia EGFR, HER2 è l’unico a non avere un ligando naturale. Tuttavia,

l’eterodimerizzazione di HER-2 con altri membri della famiglia può essere indotta dai ligandi di

HER1, HER3 e HER4. In presenza di un eccesso di ligando, HER2 o di entrambi, i risultanti

eterodimeri possono indurre la proliferazione cellulare e bloccare l’apoptosi, quindi interferire con

trastuzumab (Diermeier S et al. 2005). Fra tutti i ligandi TGF-α sembra avere un ruolo potenziale

nel meccanismo di resistenza (Valabrega G et al., 2005).

Il recettore c-Met ed il suo ligando HGF sono frequentemente overespressi nel carcinoma della

mammella e correlati con un decremento dell’intervallo libero da malattia e della sopravvivenza

totale (Kang JY et al., 2003). c-Met è risultato essere frequentemente co-espresso con HER2 in linee

cellulari e questo potrebbe contribuire alla resistenza al trastuzumab, garantendo l’attivazione di

Akt. Cellule che iperesprimono HER2 rispondono alla terapia con trastuzumab con una rapida

sovraregolazione dell’espressione di c-Met; tuttavia l’attivazione di c-Met avrebbe l’effetto di

rendere le cellule resistenti al trattamento con trastuzumab (Shattuck DL et al. 2008) (Fig 35).

Fig 36: vie recettoriali alternative

Un polimorfismo genetico con espressione di una valina (V) o fenilalanina (F) in posizione 158 di

FcγRIIIa influenza in modo significativo la sua affinità per IgG1 (Koene HR et al., 1997). Cellule

dell’immunità che esprimono la variante recettoriale FcγRIIIa V/V mediano l’azione ADCC di

trastuzumab in modo più efficace rispetto alla variante allelica FcγRIIIa V/F (Koene HR et al.,

1997; Shields RL et al., 2001). Ulteriori evidenze hanno confermato l’importanza del meccanismo

di ADCC nel trattamento di tumori che iperesprimono HER2; in linee cellulari di carcinoma della

mammella MCF7 e SKBR3 trattate con lapatinib da solo o in combinazione con trastuzumab si

osservava inibizione della fosforilazione di HER2 con prevenzione della sua ubiquitinazione e

60

conseguente accumulo della forma inattiva del recettore sulla superficie cellulare. Trastuzumab da

solo causava invece una degradazione di HER2. L’accumulo di HER2 indotto da lapatinib

amplificherebbe l’effetto citotossico immuno-mediato di trastuzumab (Scaltriti M et al., 2009) (Fig

37).

Fig 37: effetto ADCC di trastuzumab

61

13.5 STRATEGIE TERAPEUTICHE PER SUPERARE LA RESISTENZA A

TRASTUZUMAB

La resistenza al trastuzumab, rappresenta uno dei maggiori problemi clinici che ha indirizzato

l’attenzione verso nuovi farmaci che hanno come bersaglio HER2 o vie di segnale alternative.

Poiché EGFR ed HER-2 risultano essere co-espressi in circa il 30% dei carcinomi della mammella

il blocco di entrambi potrebbe rappresentare una strategia terapeutica per superare la resistenza al

trastuzumab (Normanno N et al., 2009; Tsang RY et al., 2012).

Lapatinib (GW572016)

Lapatinib è un inibitore tirosin chinasico diretto verso EGFR ed HER2. A differenza di altri inibitori

tirosin chinasici, l’interazione di lapatinib con EGFR ed HER2 è reversibile ma la dissociazione da

essi è più lenta. Lapatinib si lega al dominio citoplasmatico che lega ATP bloccando la

fosforilazione ed attivazione del recettore prevenendo l’innesco di vie di segnalazione a valle come

ERK1/2 e PI3K/Akt (Amundadottir LT et al., 1998; Wood ER et al., 2004; Gutierrez C et al.,

2011). Studi in vitro hanno dimostrato coma la combinazione di lapatinib con anticorpi anti-HER2

sia in grado di amplificare il segnale apoptotico in cellule di carcinoma della mammella che

iperesprimono HER2 e come tale effetto sia mediato dalla down-regolazione della survivina (Xia W

et al., 2005). Interessante è stata l’osservazione di come la resistenza a lapatinib possa essere

mediata da un incremento del segnale mediato da ER in tumori della mammella positivi per ER e

con aumentati livelli di espressione di HER2 (Xia W et al., 2006). Lapatinib avrebbe l’effetto di

indurre un significativo segnale apoptotico in cellule resistenti a trastuzumab ed effetti inibitori sul

segnale che deriva dall’interazione IGF-I/IGF-IR (Nahta R et al, 2006) (Fig 38).

Fig 38: meccanismo d’azione di lapatin

Cascata di segnali

62

Teoricamente, piccole molecole in grado di inibire l’attività tirosin chinasica di EGFR e HER2

hanno diversi vantaggi rispetto ad anticorpi monoclonali diretti contro HER2. L’inibitore di un solo

recettore può non essere efficace verso eterodimeri contenenti sia ErbB1 che ErbB2 (Rusnak DW et

al., 2001; Zhou Y et al., 2006). Altro vantaggio di lapatinib rispetto a trastuzumab è rappresentato

dalla sua capacità di inibire le forme tronche dei recettori ErbB1 ed ErbB2, che mancano del

dominio extracellulare (Xia W et al., 2004; Saez R et al., 2006; Scaltriti M et al., 2010).

Trastuzumab e lapatinib hanno meccanimi di azione complementari e attività antitumorale sinergica

in modelli si tumore della mammella con aumentata espressione di HER2. La doppia inibizione del

recettore potrebbe pertanto rappresentare un valido approccio al trattamento del tumore della

mammella positivo per HER2 nel contesto neoadiuvante (Baselga J et al., 2012).

Pertuzumab (2C4)

L’anticorpo monoclonale umanizzato ricombinante pertuzumab rappresenta una nuova classe di

farmaci denominati inibitori della dimerizzazione. Questi farmaci hanno la capacità di bloccare il

segnale derivante da latri membri della famiglia HER e inibire segnali in cellule che esprimono

normali livelli di HER2; in particolare pertuzumab blocca la dimerizzazione di HER2 con EGFR e

HER3 inibendo in questo modo la cascata di segnali che derivano dalla formazione degli

eterodimeri HER2/EGFR e HER2/HER3 (Agus DB et al., 2002). Pertuzumab possiede inoltre la

capacità di inibire l’interazione fra IGF-IR ed HER2 in cellule resistenti al trastuzumab (Nahta R et

al., 2005). Trastuzumab e pertuzumab, si legano ad epitopi differenti del dominio extracellulare di

HER2; trastuzumab si lega al dominio IV mentre pertuzumab si lega vicino ai domini I, II e III

(Franklin MC et al., 2004) Pertanto, teoricamente pertuzumab potrebbe essere efficace in tumori

resistenti al trastuzumab. Tuttavia mentre la combinazione trastuzumab-pertuzumab produce un

effetto apoptotico sinergico su cellule di carcinoma della mammella responsive ad herceptin, non si

osservano evidenze significative sulla vitalità delle cellule trastuzumab-resistenti (Tanner M et al.,

2004; Nahta R et al., 2005). Questo comportamento potrebbe riflettere aberrazioni nelle vie di

segnale a valle che conferiscono resistenza ad una varietà di farmaci che hanno come bersaglio

HER2 (Fig 39).

63

Fig 39: meccanismo di azione di pertuzumab Inibizione di IGF-IR

In base ad evidenze precliniche che suggeriscono un ruolo di IGF-IR nello sviluppo della resistenza

al trastuzumab (Lu Y et al., 2001; Nahta R et al., 2005), agenti diretti contro tale recettore sono stati

testati in modelli sperimentali. In modelli cellulari tumorali umani di carcinoma della mammella

con elevati livelli di espressione di EGF-IR e bassi livelli di HER2 (linee cellulari MCF7) o

viceversa con bassi livelli di IGF-IR ed alti livelli di HER2 (linee cellulari BT474) è stato

dimostrato come il trattamento combinato con farmaci, sia anticorpi monoclonali che piccole

molecole, inibitori di HER2 ed IGF-IR, causa inibizione della proliferazione in modo sinergico

anche in situazioni di scarsa sensibilità al singolo inibitore per mancanza del bersaglio specifico.

Pertanto il trattamento combinato determina una perturbazione del ciclo cellulare con induzione di

apoptosi ed inibizione di trasduttori del segnale a valle inclusi MAPK e AKT (Camirand A et al.,

2002; Di Giovanna MP et al., 2006; Chakraborty AK et al., 2008; Bhargava R et al., 2011). Inoltre

è stato dimostrato come lapatinib in combinazione con l’anticorpo monoclonale α-IR3 diretto

contro IGF-IR, incrementi il segnale apoptotico in cellule resistenti al trastuzumab (Nahta R et al.,

2006).

T-DM1

Un trattamento nuovo, attualmente in fase di sviluppo per il carcinoma della mammella HER2

positivo in stadio avanzato è rappresentato dall’utilizzo di farmaci anticorpo-coniugati (ADC) o

“anticorpi armati”. Gli ADC per la loro natura di farmaci mirati, permettono la somministrazione di

alte dosi di chemioterapici altrimenti intollerabili. T-DM1 (trastuzumab-emtansine) è stato

concepito per combinare i benefici clinici di trastuzumab con la chemioterapia a base di DM1

(potente inibitore dei microtubuli); DM1 si lega al trastuzumab mediante un legame stabile che

mantiene intatto il coniugato T-DM1 fino a quando questo non raggiunge le cellule tumorali HER2-

positive (Burris HA, 2011) (Fig 40). Trasruzumab, si lega alle cellule tumorali positive per HER2 e

blocca i segnali che contribuiscono alla crescita e sopravvivenza del tumore, attivando nello stesso

Nessun segnale

Arresto della crescita

Nessun segnale

Arresto della crescita

Segale di crescita

64

tempo il sistema immunitario dell’organismo contro queste cellule. DM1 viene internalizzato nelle

cellule tumorali e rilasciato (Lewis Phillips GD et al., 2008; Junttila TT et al., 2010).

Fig 40: meccanismo di azione del coniugato T-DM1

Stategie future

Terapie innovative per by-passare la resistenza a trastuzumab sono rappresentate dall’inibizione di

PI3K/AKT (Van Ummersen L et al., 2004; Leighl N et al., 2008), e mTOR (Chan S et al., 2005;

O’Regan R et al., 2009; Pohlmann PR et al, 2009; Jones KL et al., 2010), critici per la crescita

cellulare, la proliferazione e l’angiogenesi ed implicati in diversi tipi di tumore (Fig 41). Fra i

pazienti con carcinoma della mammella positivo per HER2, quelli con alti livelli di AKT

fosforilato, mutazioni attivanti di PI3CKA e perdita di PTEN, presentano una peggiore prognosi

dopo terapia con trastuzumab, rispetto ai pazienti senza tali alterazioni (Wang L et al., 2011). Negli

ultimi anni sono stati sviluppati composti in grado di colpire molteplici recettori

contemporaneamente (targeted multitherapy). Questi composti multifunzionali sono stati progettati

al fine di sfruttare interazioni tra vari target terapeutici e per essere più resistenti ai meccanismi

compensativi (Faive S et al., 2006; Le Tourneau C et al., 2008; Mohd Sharial MSN et al., 2012).

Fig 41: Inibizione di PI3K e mTOR

65

14.0 MicroRNA (miRNA)

Negli ultimi anni la lista delle classi di geni classicamente considerati come oncogeni e

oncosoppressori è stata rivisitata, essendosi resa necessaria l’espansione di quest’ultima per

includere anche la famiglia di miRNA. I miRNA sono piccole molecole di RNA non codificanti, in

grado di regolare l’espressione genica agendo a livello post-trascrizionale (He L et al., 2004). La

loro funzione è quella di legare molecole di RNA bersaglio, inducendo l’inibizione della traduzione

o la degradazione dell’mRNA, modulando in tal modo un ampio spettro di processi fisiologici,

quali il controllo del ciclo cellulare, il differenziamento e l’apoptosi. L’espressione dei miRNA è in

genere tessuto specifica e dipendente dai livelli di differenziazione della cellula per cui la presenza

di significative alterazioni nei livelli di espressione dei miRNA in un tessuto tumorale potrebbe

essere secondaria ai processi più direttamente implicati nella tumorigenesi piuttosto che un

elemento causale direttamente associato alla trasformazione neoplastica. Un significativo numero di

geni di miRNA sono localizzati in regioni genomiche frequentemente riarrangiate nei tumori come i

siti fragili, regioni delete (minimal region of loss of heterozigosity, LOH) o amplificate (minimal

amplicons) e regioni comuni di break-point, fornendo un’evidenza del loro ruolo nella patogenesi

del cancro (Gaur A et al., 2007). Alterazioni nei livelli di espressione dei miRNA sono state

documentate in diversi tipi di tumori e fra questi i miRNA che hanno come target geni regolatori

dello sviluppo tumorale come E2F e RAS (Gaur A et al., 2007). A seconda del tipo di funzione

biologica del miRNA, determinata dalle proteine che regola, si possono distinguere miRNA

oncogeni (oncomiRNA) e miRNA oncosoppressori (Croce CM, 2009) (Fig 11). I primi si trovano

in regioni amplificate o sovra espresse nel tumore, con aumento della proliferazione cellulare,

dell’angiogenesi, dell’invasività e riduzione dell’apoptosi. I secondi si trovano in regioni delete o

silenziate nel tumore ed hanno un effetto biologico opposto. Esempi di oncomiRNA sono il miR-

155 amplificato in molti tumori ematologici, nel tumore del polmone e della mammella e il cluster

miR-17-92, che comprende 6 geni diversi per miRNA sovra espressi in tumori solidi e nel linfoma

diffuso a grandi cellule B. Tra i miRNA oncosoppressori troviamo miR-15a e miR-16-1 deleti nella

leucemia linfatica cronica e che ha come bersaglio la proteina antiapoptotica Bcl-2 e la famiglia let-

7 che reprime l’espressione dell’oncogene RAS (Heneghan HM et al., 2009; Findlay VJ, 2010).

66

Fig 11: miRNA oncogeni e oncosoppressori

Tra i miRNA potenzialmente rilevanti nel carcinoma della mammella, è stato identificato il miR-

205 che ha come bersaglio il recettore tirosin chinasico HER3 (Tab 2). HER3, esercita un ruolo

importante nella tumorigenesi mediata dall’oncogene HER2; la co-espressione dei due membri

della stessa famiglia recettoriale, rappresenta un fattore prognostico negativo essendo responsabile

dell’attivazione del meccanismo di sopravvivenza mediato dalle chinasi PI3K ed AKT. In vitro è

stato dimostrato come miR-205 regola negativamente l’espressione di HER3; l’espressione ectopica

di questo miRNA in una linea cellulare di carcinoma della mammella caratterizzata da bassi livelli

di espressione di miR-205, causa una riduzione dell’espressione di HER3. La capacità di questo

miRNA di inibire la proliferazione, è stata confermata in un modello cellulare di carcinoma

mammario; l’espressione ectopica di miR-205, determina una riduzione dei livelli della forma attiva

(fosforilata) del mediatore AKT suggerendo un suo possibile ruolo nel modulare la responsività ad

inibitori tirosin chinasici come Gefitinib e Lapatinib. Pertanto l’introduzione di miR-205 in cellule

di carcinoma mammario, modulando l’espressione di HER3 e spegnendo di conseguenza la via

mediata da AKT è capace di contrastare i meccanismi di resistenza al trattamento mediati dal

recettore, ristabilendo l’effetto pro-apoptotico dei farmaci utilizzati (Iorio MV et al., 2009). Il ruolo

oncosoppressivo di miR-205 è stato inoltre dimostrato in un modello di carcinoma della mammella

triplo negativo, sottogruppo caratterizzato da un fenotipo estremamente indifferenziato e

clinicamente molto aggressivo. Non essendo stati ancora identificati specifici marcatori non esiste,

per tali tumori una specifica e mirata terapia. I miRNA potrebbero fornire informazioni biologiche

aggiuntive necessarie per spiegare il comportamento di tale sottogruppo e rappresentare un possibile

strumento o bersaglio per una terapia specifica. È stato dimostrato come miR-205 sia in grado di

inibire sia la proliferazione che la migrazione in modelli in vitro di tumori tripli negativi, sia la

crescita in vivo in modelli murini, attraverso la modulazione di molecole coinvolte nei processi di

proliferazione, adesione, migrazione ed invasione (Piovan C et al., 2012).

67

Tab 2: alterata espressione dei miRNA nel carcinoma della mammella

Interessante è il possibile ruolo dei miRNA nella regolazione della transizione da carcinoma duttale

in situ a carcinoma invasivo; la possibilità di inibire i miRNA associati con l’invasività del tumore,

potrebbe arrestare la progressione allo stadio pre-invasivo (Volinia S et al., 2012) (Fig 12).

Fig 12: alterata espressione di miRNA durante la progressione tumorale

Ad oggi si sta valutando ed investigando il possibile utilizzo di queste piccole molecole ad RNA

come terapia innovativa, nel tentativo di modulare la loro espressione nei tumori. In particolare si

Mammell

a normale

Carcinoma

duttale in

situ

Carcinoma

duttale

invasivo

Espressione e ruolo miRNA Target

68

stanno elaborando approcci per reintrodurre microRNA la cui espressione è persa nel tumore, o

viceversa inibire microRNA oncogenici utilizzando specifiche molecole antisenso (antagomiR)

(Hota J et al., 2009; Iorio MV et al., 2011).

I miRNA potrebbero pertanto essere anche considerati buoni target per la terapia antitumorale.

L’introduzione di miRNA o antagomiR in tumori in cui questo è stato perso o risulta essere

sovraespresso può portare all’arresto del ciclo cellulare e/o apoptosi (Kota J et al., 2009). Per

tumori in cui si assiste ad un silenziamento epigenetico di geni oncosoppressori si potrebbe

procedere con una terapia basata sull’introduzione di miRNA che controllano la DNA metil-

transferasi (DNMT), come i membri della famiglia del miR-29 (Fabbri M et al., 2007). Da studi di

profiling su pazienti tumorali si è evidenziato come specifici set di miRNA sono associati al tessuto

di origine (Rosenfeld N et al., 2007) o a determinate caratteristiche istopatologiche e di aggressività

(Blenkiron C et al., 2007). Pertanto alcuni miRNA potrebbero considerarsi marcatori importanti

nella stratificazione di pazienti sia in fase diagnostica che prognostica.

Tre sono le metodologie che permettono di analizzare i livelli di espressione di miRNA; un classico

northern blot con una sonda diretta verso il miRNA di interesse, l’uso di microarray o l’analisi

mediante la tecnica MIRMasa. Quest’ultima tecnica consiste nell’incubare l’RNA estratto con due

sonde di cui una complementare ad una metà del miRNA di interesse marcata con un fluoroforo

(capture oligo), l’altra complementare all’altra metà di miRNA e marcata con biotina (detection

oligo). Dopo incubazione si esegue una purificazione con sfere ricoperte di streptavidina e si

catturano i detection oligo. Se nell’estratto non sono presenti i miRNA di interesse si purificano

solo i detection oligo e pertanto la frazione purificata non emette luce se stimolata con lunghezze

d’onda appropriate. Se i miRNA sono presenti, questi ibrideranno contemporaneamente le due

sonde e la purificazione con le biglie selezionerà sia i detection oligo, sia i miRNA che i capture

oligo per cui il purificato sarà fluorescente e l’intensità del segnale è direttamente proporzionale alla

quantità di miRNA presente nell’estratto totale.

Recentemente è stata osservata la presenza di miRNA nel siero e nel plasma umano in diversi tipi di

tumore come quelli del colon, della mammella, della prostata, del polmone e dell’ovaio (Chen X et

al., 2008). Questi possono essere utilizzati come marcatori descriminanti non invasivi per la

diagnosi del fenotipo tumorale. I livelli di miRNA nel siero sono molto stabili (Xi Y et al., 2007) e

possono essere individuati mediante semplici prelievi di sangue. È stato dimostrato per alcuni

tumori, come i miRNA nel siero hanno un’origine tumore-specifica (Lu J et al., 2005) e come

possono essere usati nella diagnosi precoce del cancro (Mitchell PS et al., 2008).

69

15.0 DNA REPAIR COME BERSAGLIO FARMACOLOGICO: SYNTHETIC LETHALITY

STRATEGY

La “synthetic lethality” si riferisce a quella condizione in cui due o più mutazioni non alleliche e

non essenziali, quindi di per se non letali, lo diventano se presenti all’interno di una stessa cellula.

Un esempio tipico di farmaci che possono funzionare in questo modo è rappresentato dagli inibitori

di PARP-1 (Ashworth A, 2008). Gli enzimi PARP (PolyAdenosine diphosphate-Ribose Polymerase)

costituiscono una famiglia di 17 enzimi nucleari coinvolta in una serie di processi cellulari quali la

riparazione del DNA e l’apoptosi (Schreiber V et al., 2006). PARP-1 in particolare interviene nel

riparo di danni al DNA (basi alchilate) che possono essere indotti dal trattamento con agenti

chemioterapici alchilanti. L’attivazione di PARP è alla base del fenomeno della resistenza dei

tumori alla chemioterapia. Inibendo PARP, si attenua nei tumori la capacità di resistere agli agenti

alchilanti e si ripristina la loro sensibilità alla chemioterapia. Inattivando PARP in cellule con

deficit di riparo come quelle BRCA-mutate, nel nucleo si accumulano frammenti danneggiati di

DNA a singolo e doppio filamento, con arresto della crescita cellulare, della sua divisione fino alla

morte delle cellule tumorali (Bryant et al. 2005; Farmer et al. 2005; Aly A et al., 2011) (Fig 42).

Studi preclinici e clinici hanno dimostrato come la combinazione di inibitori di PARP-1 (olaparib)

con agenti chemioterapici derivati dal platino, che inducono danni al DNA attraverso addotti e

cross-linking, potenzia la loro citotossicità (Annunziata CM et al., 2010; Hastak K et al., 2010;

Underhill C et al., 2011).

Di particolare interesse sono alcune evidenze precliniche che suggeriscono un potenziale più ampio

di utilizzo degli inibitori PARP. È stato infatti osservato che oltre BRCA1/2, la perdita di funzione

di varie proteine coinvolte nei meccanismi di riparo del DNA, generi sinteticamente un fenotipo

letale quando PARP viene inibito. Ad esempio cellule con geni PTEN difettosi, sono più sensibili ai

PARP inibitori rispetto alle cellule normali (Mendes-Pereira AM et al., 2009; Dededs KJ et al.,

2011). Recenti studi hanno dimostrato come PTEN avrebbe un ruolo importante nel mantenimento

dell’integrità cromosomica e nella riparazione dei danni al DNA (Meyn RE, 2009). L’inattivazione

di questi geni è stata riportata in un gruppo di tumori umani e potrebbe quindi costituire un

biomarker predittivo per selezionare pazienti da trattare con inibitori di PARP. Interessante è la

possibile applicazione di inibitori di PARP in tumori tripli negativi della mammella (TNBC). Questi

tumori non sono spesso mutati in BRCA1 (15-20%) ma presentano delle caratteristiche fenotipiche

e cliniche che ricordano i tumori BRCA1 mutati; tale fenotipo viene definito BRCAness (Turner N

et al., 2004; Anders CK et al., 2010; Kruse V et al., 2011). Questi tumori sono frequentemente di

alto grado, mutati in p53, esprimono EGFR e sono sensibili alla chemioterapia. I possibili

meccanismi responsabili del fenotipo BRCAness includono: la metilazione del promotore del gene

70

per BRCA1 (Turner N et al., 2004), la ridotta espressione dell’mRNA di BRCA1 (Natrajan R et al.,

2010), l’iper-regolazione di soppressori trascrizionali di BRCA1 come ID4 (Turner NC et al., 2007)

e HMG1 (Baldassarre G et al., 2003), l’iper-regolazione di miR-182 (Moskwa P et al., 2011),

mutazioni in geni che codificano per proteine che interagiscono con BRCA1/2 o che agiscono nella

stessa via di riparazione del DNA come CHK2 (checkpoint homolog kinase 2), PALB2 (Partner and

localizer of BRCA2), BRIP1 (BRCA1 interacting protein C-terminal helicase), RAD50 e RAD51 e

BARD1 (BRCA1-associated RING domain protein 1) (Kuusito KM et al., 2011; Wang XZ et

al.,2011). Quindi la migliore comprensione della rete biologica e molecolare delle proteine del

pathway di BRCA nella risposta al danno al DNA potrebbe aiutare nella identificazione di pazienti

con TNBC da indirizzare a terapie non convenzionali maggiormente mirate a colpire cellule con

deficit di riparo del DNA (Pal Sk et al., 2009; Carey LA et al., 2010; O'Shaughnessy J, et al., 2011;

Weill MK et al., 2011).

Fig 42: inibizione di PARP

71

16. CONCLUSIONI

Il carcinoma della mammella rimane ad oggi la principale causa di morte per cancro nelle donne

nonostante i notevoli progressi ottenuti sia nella diagnosi che nella terapia. Nonostante lo studio dei

profili di espressione genica, che ha contribuito ad identificare le alterazioni molecolari

caratteristiche dei tumori umani, abbia fornito la maggior parte dei nuovi bio-marcatori con

possibili applicazioni nell’ambito diagnostico, di sviluppo di nuovi farmaci e di nuove terapie

mirate, non ha ancora elucidato in modo esaustivo tutti i meccanismi all’origine dei tumori, incluso

il tumore della mammella. Questo suggerisce come il processo di tumorigenesi possa avvenire

attraverso meccanismi nuovi non ancora del tutto caratterizzati.

Il tumore della mammella è una malattia eterogenea caratterizzata da un ampio spettro di variabilità

cliniche, patologiche e molecolari che può rendere conto delle diverse risposte alle terapie. Per

molti anni la pratica clinica è stata guidata dai risultati delle metanalisi e da una classificazione

esclusivamente morfologica del carcinoma della mammella.

Le pazienti affette da carcinoma mammario HER2 positivo hanno in genere una peggiore prognosi

e un andamento della malattia maggiormente aggressivo rispetto alle pazienti i cui tumori non

esprimono la proteina di membrana. Attualmente il trattamento con trastuzumab, in associazione

con la chemioterapia, rappresenta il trattamento standard di prima linea nelle pazienti con

carcinoma mammario metastatico che iperesprime HER2. Tuttavia il 40% delle pazienti con

diagnosi di tumore metastatico HER2 positivo, trattate con trastuzumab, non presenta alcun

beneficio per lo sviluppo di una resistenza primaria o secondaria al farmaco. Lapatinib in

associazione alla capecitabina rappresenterebbe una valida opzione terapeutica nel caso di

resistenza a trastuzumab. Ad oggi sono stati individuati diversi determinanti molecolari che

sembrano essere implicati nei meccanismi di resistenza al trastuzumab, sebbene nessuno sia stato

ancora validato nella pratica clinica. Analisi precliniche e retrospettive hanno dimostrato come la

forma recettoriale tronca di HER2, la perdita di espressione di PTEN e lo stato mutazionale di

PI3K/AKT risultino essere associate ad una resistenza al trastuzumab.

Ricerche di “gene espression profiling” hanno permesso di individuare alcuni sottogruppi

molecolari di carcinoma della mammella con implicazioni clinico-prognostiche e terapeutiche. In

particolari i tumori tripli negativi rappresentano un tipo particolarmente aggressivo di carcinoma

della mammella, tipicamente caratterizzato da una prognosi infausta. Queste neoplasie

rappresentano il 15-20% di tutti i tumori della mammella e si distinguono in quanto a differenza

delle forme più comuni non esprimono il recettore per gli estrogeni, per il progesterone e non

presentano amplificazione del gene codificante per il fattore di crescita epidermico. La loro crescita

è pertanto guidata da meccanismi molecolari distinti e per questo sono resistenti ai trattamenti

72

standard. Questi tumori sono caratterizzati da un’estrema variabilità genotipica e presentano un

carattere fortemente evolutivo legato principalmente ad una forte instabilità del loro genoma.

L’unica arma oggi a disposizione per questo tipo di tumori rimane la chemioterapia. Numerosi

target terapeutici stanno emergendo come potenziali opzioni nel trattamento di questo gruppo di

neoplasie fra cui inibitori di EGFFR, PARP-inibitori, inibitori di c-KIT ed inibitori della via di

segnale PI3K/AKT.

Recentemente una nuova classe di molecole di RNA non codificanti, noti come microRNA

(miRNA), capaci di regolare l’espressione genica attraverso il legame con sequenze regolatorie

(3’UTR) su mRNA, è stata associata a diverse malattie umane incluso il tumore della mammella.

Un crescente numero di evidenze sperimentali ha mostrato come i miRNA abbiano un ruolo causale

nel processo di tumorigenesi, agendo come una nuova classe di oncogeni od oncosoppressori. Dopo

le iniziali osservazioni dell’associazione fra miRNA e tumori umani, questo campo di ricerca sta

crescendo incredibilmente. Attualmente si sta cercando di elucidare i meccanismi molecolari in cui i

miRNA sono coinvolti e di validare il loro potenziale ruolo sia come biomarcatori che come

strumenti o bersagli di terapie innovative. Tra i miRNA potenzialmente rilevanti nel carcinoma

della mammella è stato identificato miR-205 capace di interferire con la proliferazione cellulare

mediata dai recettori della famiglia HER ed in grado di aumentare la responsività al trattamento con

inibitori tirosin-chinasici (TKI). I miRNA potrebbero fornire informazioni biologiche necessarie per

spiegare il comportamento dei tumori triplo negativi e rappresentare un possibile strumento o

bersaglio per la terapia specifica.

Pertanto la caratterizzazione genotipica dei tumori della mammella è indispensabile per

comprendere i meccanismi biologici che ne guidano la crescita e che determinano la risposta ai

trattamenti. Tale procedura si rende ancora più necessaria per i tumori tipli negativi per i quali gli

approcci terapeutici standard si rivelano spesso inefficaci e altre strategie devono essere sviluppate

e sperimentate.

73

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