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Capitolo IV LE CATEGORIE DEL GIURISTA EUROPEO INDICE: 1. L’educazione del giurista – 2. Indirizzi culturali nella formazione del giurista – 3. Common lawyer e civilian – 4. La concezione normativistica – 5. Formalismo e dottrina pura del diritto – 6. Il diritto naturale e la concezione giusnaturalista – 7. La concezione giusrealista – 8. La concezione antropologica – 9. Dal diritto privato naturale agli interventi sociali – 10. Codici civili – 11. Le iniziative di “ricodificazione” – 12. L’oggettivazione del diritto commerciale 1. L’educazione del giurista In ogni esperienza l’educazione del giurista segue propri percorsi, dettati dalla organizzazione degli studi, dalle esigenze delle professioni giuridiche, dalle prospettive aperte dal mercato. In ambito comunitario si è cercato di uniformare l’uso delle qualifiche professionali, e dei titoli di cui si avvale il giurista. Sul piano della formazione culturale, i modelli nazionali sono ancora distanti tra loro, ma alla base di essi – quanto meno nell’ Europa continentale – si può registrare un humus comune. Secondo la definizione di Massimo Severo Giannini “giurista in senso lato” è l’esperto di diritto, privo di una professionalità determinata. Egli conosce gli istituti del diritto per determinate finalità, quali l’amministrazione della cosa pubblica (il burocrate), la gestione di 1

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Capitolo IVLE CATEGORIE DEL GIURISTA EUROPEO

 INDICE: 1. L’educazione del giurista – 2. Indirizzi culturali nella formazione del giurista – 3. Common lawyer e civilian – 4. La concezione normativistica – 5. Formalismo e dottrina pura del diritto – 6. Il diritto naturale e la concezione giusnaturalista – 7. La concezione giusrealista – 8. La concezione antropologica – 9. Dal diritto privato naturale agli interventi sociali – 10. Codici civili – 11. Le iniziative di “ricodificazione” – 12. L’oggettivazione del diritto commerciale  

1. L’educazione del giurista 

In ogni esperienza l’educazione del giurista segue propri percorsi, dettati dalla organizzazione degli studi, dalle esigenze delle professioni giuridiche, dalle prospettive aperte dal mercato. In ambito comunitario si è cercato di uniformare l’uso delle qualifiche professionali, e dei titoli di cui si avvale il giurista. Sul piano della formazione culturale, i modelli nazionali sono ancora distanti tra loro, ma alla base di essi – quanto meno nell’ Europa continentale – si può registrare un humus comune. Secondo la definizione di Massimo Severo Giannini “giurista in senso lato” è l’esperto di diritto, privo di una professionalità determinata. Egli conosce gli istituti del diritto per determinate finalità, quali l’amministrazione della cosa pubblica (il burocrate), la gestione di un’impresa (giurista d’impresa), l’arte forense (avvocato), l’arte del ius dicendi (il giudice), l’arte della confezione di atti (notaio). Chi si dedica allo studio del diritto è chiamato professore di scienza del diritto: ed è questa l’accezione ristretta di giurista. La differenziazione è

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puramente didascalica, potendosi cumulare arte e scienza e potendo, il giurista, fare anche il politico, o fare la politica come professione, e così via. La formazione del giurista si è venuta modificando nel corso dell’ultimo secolo, e, per molti versi, ha assunto caratteri convergenti nei diversi Paesi europei.Lo scienziato del diritto fino all’Ottocento si occupava di diritto privato (e, residuamente, del diritto criminale): nell’Ottocento nasce il versante del diritto pubblico e si formano così gli amministrativisti, i tributaristi, gli internazionalisti. Ne segue che a seconda della struttura dell’ordinamento (variabile della normazione positiva) le funzioni del giurista cambiano; si tratta perciò di una concezione storicamente relativa (VAN CAENEGEM, 1991).  Una concezione che deve fare ora i conti con la edificazione di un nuovo ordine, l’ordine europeo. Ed è una concezione che deve fronteggiare un nuovo fenomeno, la globalizzazione dei mercati. Di qui un nuovo rischio, come ci avverte Paolo Grossi: «il rischio è la strumentalizzazione della dimensione giuridica al soddisfacimento di interessi economici, spesso concretatisi – in un clima di capitalismo sfrenato – nel raggiungimento con ogni mezzo e ad ogni costo – del maggior profitto possibile» (Grossi, 2002, 163).  2. Indirizzi culturali nella formazione del giurista. Ancor oggi si avvertono le tracce, nella formazione accademica del giurista, dei modelli educativi del secolo scorso: ciò sia dal punto di vista dei contenuti, sia dal punto di vista del

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metodo. Ne sono prova le materie romanistiche, canonistiche, storiche che stanno alla base dei programmi di studio svolti nelle Università, ma anche la dissociazione, che si registra nelle esperienze europee, tra la formazione teorica e la applicazione pratica delle nozioni, delle informazioni, delle tecniche apprese.Quanto al primo aspetto, al di là del persistente influsso idealistico che ancora informa la cultura italiana d’oggi, e determina una scarsa attenzione per le scienze sociali nei corsi della facoltà di Giurisprudenza, si deve registrare la prevalenza dell’indirizzo formalistico nell’interpretazione giuridica, la sottovalutazione dell’insegnamento giusrealista, la stentata affermazione dell’indirizzo storicistico nelle stesse materie che riguardano il diritto romano, il diritto medioevale, il diritto dell’Ancien Régime: dove la considerazione degli istituti, delle regole, dei dogmi imperanti nelle diverse epoche, quasi fossero istituti, regole, dogmi attuali è frutto dell’ipostasi delle attuali credenze, e delle proiezioni delle attuali nozioni ad una realtà lontana nel tempo, difficilmente ricostruibile, e comunque governata da modelli di pensiero, oltre che da una dinamica politica e sociale, affatto differenti da quelli attuali.È, insomma, l’insegnamento storicistico di Riccardo Orestano, piuttosto che non quello attualistico di Emilio Betti (peraltro grande civilista) che mi sembra si dovrebbe privilegiare. In ogni caso: la formazione storica appare indispensabile non solo per apprezzare la tradizione giuridica bimillenaria di cui i giuristi continentali (e, in particolare, quelli italiani) sono portatori, quanto per intendere appieno ruolo e funzioni dei termini e degli istituti ereditati dal passato.

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Questa formazione è integrata da nozioni: ed è appunto al quadro delle nozioni che si riservano le lezioni e i testi dei corsi introduttivi allo studio del diritto e del diritto privato in particolare. Questo diverso livello di formazione appare però viziato da accademismo e da futili astrazioni. Raramente si impara la funzione reale, concreta, degli istituti descritti sicché quella formazione teorica, un tempo riservata ad una omogenea schiera di allievi appartenenti ai ceti borghesi, di media cultura, e di solido patrimonio, che era sufficiente a fornire le basi per l’avvio alle professioni tradizionali (di avvocato, di notaio, di magistrato) appare datata e lacunosa; agevolata in ciò anche dalla scarsa attenzione riservata alla giurisprudenza (considerata l’effetto di una attività pratica, non speculativa), e dalla più semplice consistenza dell’ordinamento giuridico, da cui discendeva la compatta e semplice sua descrizione nei testi di base (AA.VV. 1994). In oggi, frammentatasi la preparazione scolare, accentuatasi la mobilità sociale, moltiplicatesi le utilizzazioni del titolo accademico con il prevalente impiego dei giuristi negli apparati amministrativi, nell’organizzazione d’impresa, nei nuovi settori tecnologici, lo iato tra educazione accademica del giurista e sua formazione professionale si è molto accentuato; ma non sono cambiati con lo stesso ritmo gli strumenti dell’educazione. Tutti sanno che cosa sia un “negozio giuridico”, pochi imparano a scrivere e a interpretare un contratto.  3. Common lawyer e civilian. 

Il vizio delle eccessive teorizzazioni, assente nei paesi di common law ove si è da tempo radicata la prassi dello

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studio della casistica, sia sotto forma di analisi delle sentenze, sia sotto forma di esercizi pratici su casi immaginari, è comune ai paesi latini, ed è un vizio di antica data se è vero che, a partire dal Medioevo per finire a tutto l’Ottocento e giù giù agli anni Trenta, i giuristi incipienti conoscevano perfettamente il diritto romano, il diritto canonico e la teoria generale del diritto, ma non si curavano della legislazione speciale e delle regole locali: un vizio meno accentuato in Germania, pressoché inesistente nei paesi di common law. Ciò perché quelle esperienze si reggono sul precedente, e quindi su regole giurisprudenziali (case law) più che non su leggi (statute law) e perché la loro cultura è da sempre pragmatica. Questo giustifica il fatto che, in Gran Bretagna, fino a qualche tempo fa non vi fosse collegamento funzionale tra formazione al college of law e attività forense, ben potendosi essere ammessi all’esercizio della professione senza aver frequentato l’Università; negli Stati Uniti, l’ancor attuale obbligo di acquisizione di una diversa laurea, quale presupposto per l’iscrizione alla school of law indica che il diritto è considerato una scienza tecnica.Sì che la differenza che passa tra il classico civilian (giurista continentale) e il classico common lawyer (giurista d’oltre Manica o d’oltre oceano) che esamina una questione è argutamente rappresentata dalla vignetta che raffigura il primo al comando di un telescopio e il secondo alle prese con un microscopio: ove scrutare le stelle (magari fisse) significa, allegoricamente, fare uso dei dogmi della tradizione, e ingrandire le macchioline microscopiche significa invece risalire dal singolo caso a una regola generale, ovvero ad una regola applicabile nei casi simili che si presentano all’interprete.Il vizio continentale, essendo commisto spesso alle virtù, presenta però anche aspetti positivi: dà al civilian una capacità metodologica la costruzione dei concetti che appare utile, anzi necessaria per l’apprendimento del ragionamento giuridico ma gli conferisce anche, oggi come nel Medioevo, la possibilità di partecipare alla

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koinè, al linguaggio specifico comune e alla cultura tecnica comune, che si registrava e si registra tuttora nei paesi di civil law (AA.VV., 1991a,507; BESSONE, 1993; VISINTINI, 1994; PINO, 1996; nel metodo e sulle tradizioni giuridiche ALPA, 1996; SACCO E GAMBARO, 1996).

Nonostante la convergenza, nonostante i fattori di avvicinamento di cui si è parlato all’inizio, dobbiamo prendere atto che «ancor oggi, malgrado le osmosi prodotte dal fluire del tempo, common law e civil law costituiscono sistemi radicati su fondazioni diverse e portatori di diverse mentalità: due costumi giuridici, se non opposti, certamente assai diversificati» (GROSSI, 2002, 162; AA.VV., 2004b).   4. La concezione normativistica. Se si deve procedere dal metodo formale come appare opportuno per adeguarsi all’orientamento ancor oggi prevalente in Italia del diritto dobbiamo innanzitutto considerare la definizione di Hans Kelsen, il creatore della “dottrina pura del diritto”: il diritto è un sistema di comandi (o regole) che si differenzia dagli altri sistemi di comandi, religiosi, morali, o etici in quanto le regole giuridiche sono coercibili: la loro violazione è sanzionata con tecniche apposite, di carattere afflittivo (ad es. restrizione della libertà personale), di carattere economico (ad es. risarcimento del danno, multa, ammenda). Secondo questa concezione il diritto è un sistema neutro, di carattere tecnico, autonomo e specifico; la sua creazione e applicazione è effettuata da tecnici (i giuristi) che operano con tecniche apposite sulla base di ragionamenti tecnici e facendo impiego di strumenti tecnici. Di qui la teoria delle fonti, la teoria della completezza del sistema, la teoria

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delle lacune, la teoria dell’interpretazione formale di cui si tratterà più diffusamente a suo luogo.La giurisprudenza, in questa prospettiva, è una sorta di ingegneria tecnica.Non si prende quindi in considerazione il tipo di autorità che produce il diritto, essendo sufficiente che essa sia in grado di creare e far rispettare le regole introdotte, né ci si chiede se il diritto sia giusto, se il contenuto delle sue regole risponda ai valori diffusi nella collettività cui esse sono destinate oppure se quelle regole siano dirette a perseguire il bene comune, a migliorare la posizione dei singoli, ad incontrare il consenso della maggioranza.Questa concezione considera il diritto in quanto ius positum (diritto positivo) e l’autorità che lo impone tende a coincidere con lo Stato; sì che il diritto è essenzialmente diritto statuale. Il singolo comando, formulato in un testo, necessita di interpretazione e in così fare l’interprete esaurisce la sua attività: la sua attività consiste nella interpretazione letterale, sistematica, teleologica, volta a ricostruire i fini della legge. Dal giurispositivismo allo statalismo e al formalismo il passo è dunque breve.  5. Formalismo e dottrina pura del diritto. Questa concezione (normativistica) del diritto offre notevoli garanzie: si esprime con un linguaggio tecnico, richiede un ragionamento tecnico e limita la discrezionalità (o l’arbitrio) dell’interprete il quale non può sostituire la propria volontà, il proprio soggettivo sentire a quello obiettivo del legislatore. Per semplificare il discorso, qui sinteticamente svolto (e rinviando quindi ai corsi di filosofia del diritto, teoria generale del diritto e di interpretazione giuridica), poniamo sullo stesso piano

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la dottrina pura del diritto, il positivismo e il formalismo.Essi sono i connotati del modo usuale di fare e descrivere il diritto, e sommamente il diritto privato. Nella nostra cultura giuridica si ritiene, anche oggi dai più, che da questa concezione e da questo metodo di pensare e studiare il diritto convenga discostarsi solo in casi di eccezione, là dove le regole mostrino una distanza eccessiva dalla realtà delle cose o una attitudine troppo scoperta alla falsificazione della realtà delle cose.Ne “La dottrina pura del diritto” del 1960 (La sua prima formulazione risale al 1910) Hans Kelsen conferisce tuttavia caratteri di relatività alla definizione di diritto; il grande giurista boemo precisa che “diritto” è termine usato in vario modo a seconda delle epoche e dei paesi; lo studio terminologico comparato non dà risultati definitivi; tuttavia è indicativo che gli omologhi stranieri dell’espressione diritto (Recht, right e law, droit, derecho, dereito) indichino tutti, grosso modo, il medesimo fenomeno: un “ordinamento della condotta umana”; un ordinamento è un sistema di norme, che hanno un identico fondamento per la loro validità; tale fondamento è dato dalla norma fondamentale (costituzione); la norma è giuridica in quanto appartiene a un ordinamento giuridico; l’ordinamento è giuridico in quanto è un ordinamento coercitivo, provvisto cioè di reazione (sanzione) per la trasgressione dei suoi comandi. Il diritto è solo il diritto positivo; esso è ordinato in un sistema completo, senza lacune e antinomie; il diritto coincide con lo Stato.Questi semplici e chiari principi di base sono il terreno comune del giuspositivismo, e costituiscono il retroterra culturale con cui i giuristi si apprestano a scrivere le leggi, e ad interpretarle, dovendosi renderle immuni da valori extragiuridici e isolando il diritto dalle altre scienze per preservarne l’autonomia e la specificità.Questa formulazione del positivismo, nella sua assolutezza, ha suscitato critiche e sollecitato varianti anche nell’ambito della stessa cultura giuspositivistica.

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Ad esempio, Herbert L.A. Hart ha dimostrato come, per esprimere compiutamente l’essenza del diritto, si debba andare al di là della concezione kelseniana che intende il diritto come la norma primaria che stabilisce la sanzione, senza tuttavia arrivare e quindi rimanendo al di qua della concezione fattuale di Karl Llewellyn (il diritto è ciò che i giudici decidono in relazione alle controversie) o di Oliver W. Holmes (il diritto è costituito dalle predizioni di ciò che i tribunali decideranno). Ciò perché: le norme giuridiche hanno vario contenuto; la norma penale si applica a tutti, e quindi anche a coloro che l’hanno emanata, quindi “sta sopra” di essi; i poteri di giudicare e legiferare non sono sottoponibili a ordini coercitivi; vi sono norme sprovviste di sanzione (HART 1961). Di qui la concezione del diritto come complesso di norme primarie (regolatrici di comportamenti) e norme secondarie (distributrici di poteri). Nell’affinamento del dibattito, si è ulteriormente precisato (da parte di Norberto Bobbio ) che il positivismo giuridico è un modo di avvicinarsi allo studio del diritto; è una teoria o concezione del diritto; è in fin dei conti una ideologia della giustizia (BOBBIO, 1965). Ancora. Il diritto non è solo diritto statuale, né solo il complesso delle norme emanate dal legislatore; non si può quindi equiparare il diritto alla legge; inoltre, il diritto positivo, oggetto della filosofia giurispositivistica, differisce dal diritto inteso come il complesso dei valori insiti nella natura umana (diritto naturale) ma può anche non contrapporsi ad esso.Diritto naturale nel senso moderno e più noto difeso dai teorici del giusnaturalismo è un insieme di principi etici da cui il legislatore trae ispirazione per le sue leggi; è l’insieme dei valori razionali; è per i suoi estimatori il fondamento dell’ordinamento positivo. 

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 6. Il diritto naturale e la concezione giusnaturalista. 

Come si diceva citando Stroemholm, accreditandosi l’idea che all’individuo si debbano riconoscere posizioni giuridiche fondamentali, il diritto contemporaneo si richiama alla tradizione del diritto naturale. Ed in effetti, anche la Costituzione europea pone, nel suo preambolo e poi nella Parte Seconda, i pilastri che limitano il legislatore (comunitario e nazionale), costituiti dai diritti fondamentali della persona. Questo fenomeno può essere anche descritto in altri termini, con altre formule, per es. in termini di cittadinanza europea (MOCCIA, 2004, 291).

L’intero diritto comunitario e il diritto privato europeo in formazione possono essere considerati fenomeni leggibili dal punto di vista dei diritti individuali, dei diritti dei gruppi e delle collettività: la Costituzione europea si propone di rispettare le “diversità”, non solo nazionali ma anche infranazionali, non solo legate alla cittadinanza, ma anche legate ai modi di essere e di pensare della persona.

Certamente, tra le radici dell’ Unione europea e tra le radici del diritto pubblico e del diritto privato europeo troviamo questo fattore, storicamente determinato, ideologicamente connotato, non sopprimibile dunque, purché letto con gli occhi della modernità. Il quadro dei diritti fondamentali che l’Europa ha assunto come proprio vessillo ne costituisce la cifra, che la distingue da tanti altri Paesi, occidentali e non occidentali (FERRAJOLI, 2001; DONATI, 2002; per una ricostruzione storica v. OESTREICH, 2001).

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Occorre dunque riflettere su questo fattore per poter intendere di che ingredienti sia composto il diritto privato europeo. (i) Concezione classica.Nei corsi di filosofia e di sociologia del diritto si illustra la storia dell’idea di diritto naturale. Essa nasce, secondo la tradizione, dall’insegnamento di Platone e di Aristotele, che distinguono il diritto “secondo natura”, proprio di ogni aggregato sociale, diretto ad organizzare la vita elementare seguendo le aspirazioni e le esigenze dettate agli uomini dalla loro natura, dal diritto costituito dalle leggi introdotte da chi detiene il potere. Il diritto naturale si scopre nel momento in cui si scopre la “natura”, perché precedentemente il diritto era associato alla divinità, cioè alle regole dettate agli uomini dagli dei. I pensatori cristiani arricchiscono questa concezione, perché rinvenendo nelle Sacre Scritture le regole impartite agli uomini da Dio, distinguono tra diritto divino e diritto umano; e quest’ultimo tra diritto naturale e diritto civile (STRAUSS, 1990). (ii) Concezione moderna.Il diritto naturale moderno ha inizio con Hobbes (1640, ma non pubblicato; De Cive, 1642; Leviathan, 1651) e con Locke (LOCKE, 1690): questi filosofi distinguono il diritto naturale dai diritti naturali, che spettano a ciascun individuo in quanto “uomo”. Grozio (1625) individua alcuni diritti che nessuna autorità può infrangere: il diritto alla vita, il diritto di professare la religione prescelta, il diritto di proprietà, il diritto di resistenza (all’ordine ingiusto). Pufendorf (1672) accentua la correlazione tra diritto naturale e ragione, cui già aveva posto mano Locke: i principi base di ogni convivenza debbono riflettere il carattere fondamentale dell’uomo, la ragione; il diritto naturale è dunque laico. Ma anche i pensatori cattolici sviluppano il diritto naturale in senso moderno: de Vitoria e Suarez, pur richiamandosi alle Sacre Scritture, edificano un diritto umano che concerne

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tutti gli individui, in quanto “uomini”, ed è retto dalle leggi di natura. Ad ogni individuo si debbono garantire alcune libertà fondamentali, strettamente connesse con la sua esistenza terrena. Esse compongono i diritti “innati”, perché consustanziali con la stessa identità umana. (iii) Le rivoluzioni del Settecento. I diritti del cittadino.Con la rivoluzione americana del 1776 e la rivoluzione francese del 1789 si accentua la laicità del diritto; il diritto naturale è alla base delle prime Dichiarazioni dei diritti e delle prime Costituzioni. Il ruolo dell’ordinamento giuridico consiste nella garanzia da parte dello Stato di alcune libertà fondamentali ai suoi cittadini, di protezione dai pericoli esterni e di mantenimento dell’ordine interno, che consente lo svolgimento delle attività economiche. Nell’Ottocento si codifica la separazione tra diritto pubblico, che regola i rapporti dell’individuo con lo Stato, e diritto privato, che regola i rapporti della società civile. Il processo di secolarizzazione è compiuto, e il diritto è ormai solo diritto positivo. (iv) Il diritto naturale contemporaneo.Oggi si distinguono diverse accezioni di diritto naturale. Innanzitutto, occorre relativizzare e storicizzare la locuzione, essendo ormai chiaro che vi sono diverse accezioni, e diverse storie della nozione. Per i cattolici il diritto naturale è ancora diritto secondo natura, e quindi secondo le regole che Dio ha impresso alla sua Creazione. Esso costituisce il fondamento dei diritti positivi e il metro della loro qualità. In più costituisce il fondamento dei diritti umani (COMPAGNONI, 1995). Per i laici, diritto naturale è: un modello ideale, a cui ogni ordinamento deve tendere, per poter garantire il massimo rispetto della persona; oppure, un modello ideale, che rivive nelle Dichiarazioni e nelle Costituzioni che proteggono la persona (ad es., art. 2 della Legge fondamentale tedesca); oppure, un modello immaginario, metafisico, che appartiene alla storia delle idee. In questo senso, i

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diritti “naturali” non esistono, in quanto sono sostituiti dai diritti riconosciuti e garantiti dal diritto positivo. 

 7. La concezione giusrealista. Altre tecniche di lettura dei fenomeni giuridici appaiono ricche di suggestioni e di utili indicazioni per meglio comprendere la realtà del fenomeno “diritto”.La concezione formalista non può circoscrivere l’orizzonte del sapere giuridico. Vi sono altre dimensioni da considerare.Il diritto è, in primis, un fatto politico: se ordinamento significa complesso di regole di comportamento, ciò presuppone l’esistenza di una aggregazione sociale e l’esigenza, per tale aggregazione, di darsi delle regole. Per lungo tempo si è ritenuto indiscutibile che questa esigenza fosse connaturale alla stessa esistenza di una società, secondo l’antico broccardo ubi societas, ibi ius. La storia di Robinson Crusoe è emblematica al riguardo.Il diritto quindi è un fenomeno sociale, che si esprime nella realtà e deve essere apprezzato con metodi realistici.La concezione giusrealista del diritto nasce all’inizio di questo secolo e deve essere distinta nella versione scandinava e in quella nord-americana. (i) La versione scandinava.La prima risale a diversi autori, tra i quali, Axel Hägerström, Karl Olivecrona, Alf Ross. Il primo muove dalla distinzione tra diritto e magia (fenomeni indistinti nei primordi delle società occidentali). Nella psiche umana, nei comportamenti collettivi, diritto e magia

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continuano ad influenzarsi reciprocamente: il diritto è ciò che l’immaginario collettivo qualifica come complesso di regole di comportamento; i singoli osservano tali regole convinti che il diritto sia qualcosa di reale, oggettivo, esterno da sé. Il contenuto delle norme viene definito da Olivecrona come un insieme di rappresentazioni di azioni immaginarie da parte di persone determinate, come i giudici, che si rappresentano situazioni immaginarie; applicare il diritto significa quindi riguardare quelle situazioni immaginarie come modelli di condotta per valutare i comportamenti reali; la funzione delle norme è di contribuire alla rappresentazione delle situazioni in cui le azioni desiderate devono essere compiute. Pertanto, le norme non sono comandi e non esprimono la volontà di un mitico legislatore, ma sono imperativi che per convenzione si ritengono vincolanti. Allo stesso modo, i diritti delle persone esistono soltanto nella immaginazione delle persone, nel tempo e nello spazio, in quanto nozioni elaborate dalla mente umana.Secondo Ross un sistema giuridico razionale è un insieme di regole che determinano le condizioni alle quali la forza fisica sarà esercitata nei confronti di una persona; esso predispone l’autorità cui spetta fare uso della forza; insomma è l’insieme delle regole per l’organizzazione ed il funzionamento dell’apparato coercitivo dello Stato. (ii) La versione nord-americana.Un po’ più distanti dai modelli concettuali con cui siamo abituati a riflettere sono i giusrealisti nord-americani, che non si possono neppure considerare appartenenti ad una scuola vera e propria. Tuttavia essi presentano alcuni punti in comune, che, muovendo dalla concezione del diritto tipica dei paesi di common law come diritto fondato sui precedenti giurisprudenziali, si possono identificare (a detta di Karl Llewellyn) nella concezione del diritto come: processo in continuo movimento inteso non come un fine in sé ma come un mezzo per realizzare scopi sociali; come un sistema meno veloce di quello che domina una società, cosicché è necessario verificare ad

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ogni momento la corrispondenza del secondo al primo sistema. Jerome N. Frank definisce perciò il diritto come l’insieme delle concrete e specifiche decisioni passate e delle congetture su concrete e specifiche decisioni future: come un sistema di cui è necessario valutare gli effetti. (iii) La versione italiana.La scienza del diritto diviene in tal modo una scienza sociale. È palese in ciò la concezione sociologica del diritto propria di Max Weber e di Eugen Ehrlich.Dal punto di vista funzionale, il diritto può essere descritto, secondo Giovanni Tarello, come: l’insieme delle regole che disciplinano in ciascuna società individuata la repressione dei comportamenti socialmente pericolosi; la istituzione e la assegnazione dei poteri pubblici; la allocazione a individui e collettività di beni e servizi. La prima delle funzioni corrisponde esattamente alla concezione giuspositivistica; la seconda alla concezione giusrealistica; la terza è propria delle letture sociologiche del diritto, e, in quanto si ricollega anche ai meccanismi economici, è propria della analisi economica del diritto (TARELLO, 1962; CASTIGNONE, 1996) . (iv) Diritto e sistemi di allocazione del potere e delle risorse.In questo senso si possono distinguere sistemi di allocazione generali e sistemi di allocazione non generali. Questi ultimi interessano di meno perché riguardano il caso, il bisogno, il desiderio.Tra i primi troviamo il sistema di allocazione fondato sugli status, tipicamente feudale e tramandatosi fino all’Ancien Régime; successivamente, in epoca liberista, il sistema di allocazione è identificato con il mercato: il mercato riflette la libertà economica individuale, l’incremento di produzione di beni, la concorrenza leale quali meccanismi motori di sussistenza e sviluppo del benessere collettivo.I sistemi di allocazione richiamano la problematica della “giusta” distribuzione e quindi il rapporto tra diritto e giustizia: tema oggi particolarmente vivo, come risulta

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dall’interesse suscitato dalle opere di Rawls, Nozick, Dworkin, Walzer, Ackerman, Sen.Dovendosi considerare il diritto fatto per l’uomo e non l’uomo per il diritto, occorre menzionare due altre funzioni: la tutela della persona (intesa nel senso di tutela dei diritti fondamentali) e la promozione sociale. A questi valori si ispira il moderno diritto privato. 

8. La concezione antropologica. La moderna antropologia giuridica contesta la connessione tra ordinamento giuridico e Stato, così come l’unitarietà del sistema giuridico e la coercibilità della regola giuridica. Ciò perché essendo ogni società, soprattutto se moderna e quindi nel suo complesso disomogenea, connotata dal pluralismo sociale, ne consegue che la sua dimensione giuridica è connotata dal pluralismo giuridico. Gli antropologi parlano non di diritto, ma di diritti presenti all’interno di uno stesso campo sociale; l’unità e la statalità dell’ordinamento sono proprie di uno Stato assoluto (quale poteva essere la Francia del sec. XVIII, ove tuttavia fiorivano le consuetudini) ovvero di uno Stato totalitario (come la Francia sotto Napoleone, l’Italia sotto Mussolini, la Germania sotto Hitler). Quando il dittatore non fa in tempo a sostituire interamente l’ordinamento preesistente, procura di realizzarne uno sottostante (il c.d. doppio Stato) ottenendolo attraverso l’impiego adeguato delle clausole generali e dei principi generali già presenti nell’ordinamento preesistente.La concezione antropologica stigmatizza l’uso degli strumenti formali: l’uso del linguaggio giuridico serve a rafforzare l’efficacia vincolante delle regole: esso appare neutrale e quindi imparziale; esso è formulato in modo universale; in più è consolidato dalle norme e dai riti, e acquista un’aura mistica e perfetta. In tutte le società il diritto è applicato dall’autorità, che detiene il potere di costrizione; fa sì che la medesima regola si applichi nel

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futuro a casi analoghi; interviene creando legami tra i soggetti e utilizza una sanzione per far osservare le regole, la sanzione costituendo la ragione della loro osservanza; il diritto può anche formarsi mediante un comportamento spontaneamente osservato (consuetudine).Gli antropologi sottolineano che non vi è connessione necessaria tra diritto e Stato; che le regole giuridiche sono intercambiabili con le regole religiose e le regole morali; il diritto è quindi fenomeno variabile e assolutamente relativo. In questa prospettiva si osserva il diritto ricorrendo a tre diversi livelli: i discorsi (enunciati espliciti, scritti o orali); le pratiche (atti posti in essere dai singoli); le rappresentazioni (credenze e costruzioni simboliche) (In questo senso v. ROULAND, 1992. L’apporto iniziale è stato offerto da MAINE, 1861, sul quale v. CAPOGROSSI COLOGNESI, 1994, 43; e v. anche HOEBEL, 1973).   9. Dal diritto privato naturale agli interventi sociali. Il fatto che in ogni aggregazione sociale si riscontrino regole che riguardano i rapporti familiari, la proprietà dei beni (individuale, di gruppo, collettiva), lo scambio di merci e servizi, la riparazione del danno arrecato a terzi ha conferito un particolare carattere al diritto privato: il carattere della necessità e quello della indefettibilità. Questo carattere, di cui i giuristi non sempre sono consapevoli, o, se lo sono, non sempre esaminano criticamente, si è espresso in vario modo.Nei secoli scorsi, lo si è avvicinato alla società di natura; se gli istituti di cui sopra s’è parlato, la famiglia, la proprietà, il contratto, la responsabilità sono tipici e connaturali ad ogni aggregato sociale, la naturalità

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dell’aggregazione si espande fino a inglobare, o a colorare di sé anche le regole che li governano. Di qui, la concezione del “diritto privato naturale” (Espressione ripresa dal libro “Diritto privato naturale” del nobile austriaco Francesco de Zeiller, tradotto in italiano e pubblicato a Milano nel 1830). Ciò induce a ritenere che agli istituti del diritto privato, e quindi all’intero sistema del diritto privato si possono estendere i caratteri del diritto naturale (così come esso era inteso nel Seicento) cioè l’immutabilità, l’insopprimibilità, la necessarietà e quindi l’intrinseca bontà.Questa idea, una sorta di complesso reificato di norme, serpeggia anche nelle pagine di giuristi di formazione storica acuti e colti che, osservando come da duemila anni a questa parte i giuristi dell’Europa occidentale (sia continentale, sia, per certi aspetti, del common law) si sono affannati nello studio e nell’applicazione di istituti, principi, regole aventi una matrice comune ed una tradizione comune (quella romanistica e canonistica) sono portati a considerare il diritto privato come un corpus autonomo e completo; di qui a considerarlo immodificabile e indefettibile il passo è breve.Ed è però altrettanto agevole osservare, con Ludwig Kaiser (1971, trad. it., Milano, 1990, 222) che questa idea di diritto privato rispondeva alle esigenze liberali di autonomia imprenditoriale, di espansione e di libertà del ceto borghese, così come all’individualismo dei proprietari terrieri e alla concezione patriarcale dell’autorità all’interno della famiglia.Discorso diverso è la considerazione del diritto privato come un continuum cioè un complesso di nozioni tra loro correlate, di definizioni precise, di istituti dalla fisionomia antica. Qui il

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diritto privato, presentato come complesso di tecniche, conserva anche una funzione metodologica; il rischio della reificazione tuttavia affiora là dove, ragionandosi per dogmi, si tenda a considerarne l’immutabilità e l’indiscutibilità. Non sfugge a questa tentazione neppure quella corrente di pensiero (che si denomina fenomenologica) la quale va alla ricerca delle “essenze”, cioè dei fondamenti a priori delle regole, degli istituti e quindi del loro insieme. Ad esempio, Alexandre Kojéve (1943, trad. it., 1989, 135) considera diritto reale in atto l’insieme delle leggi giuridiche applicate dallo Stato, e il diritto privato il complesso delle regole riguardanti “relazioni che si svolgano all’interno di una società non politica” (KOJÉVE, 1943, trad.it. 1989, 429). D’altra parte uno dei precursori dell’interpretazione fenomenologica del diritto, Adolf Reinach, già parlava di “entità giuridiche esistenti indipendentemente dal diritto positivo” (REINACH , 1913, trad. it., 1990, 8).   10. Codici civili  

L’ Europa continentale è portatrice di un fenomeno, al tempo stesso giuridico e politico, che si denomina codificazione. La codificazione è un processo in base al quale si raccolgono regole scritte destinate a disciplinare interi settori dell’ordinamento con un impianto sistematico. Il termine “codice” deriva dal latino codex, e allude ad un libro legato sul dorso. La storia moderna registra questo fenomeno alla fine del Settecento. Ogni codice aveva le sue caratteristiche linguistiche, concettuali e politiche. Ma la fase storica delle codificazioni diventa significativa solo con l’ Ottocento. In questo secolo si stagliano alcuni modelli a cui di

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solito di fa riferimento non solo negli studi di storia del diritto e della comparazione, ma anche nella discussione attuale sulla opportunità di raccogliere in complessi normativi organizzati le regole del “diritto privato europeo”.

Tra questi modelli si segnalano , in particolare, i codici civili e i codici di commercio. Tuttavia, quando si parla di codificazioni, e di diritto privato, si tende a privilegiare i modelli di codice civile.

I modelli culturalmente e storicamente più importanti sono il Code civil napoleonico(1804), il codice austriaco (ABGB, del 1811), il codice tedesco (BGB, 1900). (i) Il Code civil.Sorto come atto politico necessario ad esprimere la frattura con l’Ancien Règime, e come complesso normativo destinato a unificare e razionalizzare le regole che governavano i rapporti tra privati, il Code civil reca le stimmate dell’Illuminismo, ma, come si è detto, non è l’espressione fedele degli ideali della Rivoluzione francese; anzi essendosi arrestato il processo politico-sociale rivoluzionario con l’avvento di Napoleone al potere, il Code esprime piuttosto le esigenze del ceto borghese che aveva acquisito il potere e con un codice voleva rinsaldarlo. In ogni caso, è un capolavoro di chiarezza, di sintesi e di acume tecnico. La caduta di Napoleone non comporta, automaticamente, l’abrogazione del suo codice, né in Francia, né nei territori conquistati. Ad esempio, nel Regno di Sardegna si riscontra una situazione complessa: mentre in Piemonte tornano in auge le costituzioni prerivoluzionarie, in Sardegna si dà piglio alla introduzione di nuove leggi, e in Liguria resta in vigore il Codice civile napoleonico. Questo pluralismo di legge scritta sarà superato solo dal nuovo Codice promulgato da Carlo Alberto nel 1837.

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Il Code civil è il testo normativo sul quale in tutto il mondo si sono raccolte più analisi. Dal nostro punto di vista, orientato a ricostruire un profilo storico del diritto privato italiano, è al tempo stesso il punto di partenza e il metro con il quale misurare l’originalità della nostra esperienza. Il discorso sul Code deve essere perciò più articolato.Le diverse redazioni del codice (le prime tre dovute a Cambacérès, e l’ultima all’impegno di Portalis) tendono a contemperare le regole della tradizione romanistica, la loro sistemazione ad opera di Domat e Pothier, con le consuetudini e le discipline locali particolari. Il Code civil si compone di un titolo preliminare, e di tre libri (secondo lo schema delle Istituzioni di Gaio, personae, res, actiones); i titoli dei libri sono: le persone, i beni, i modi di acquisto della proprietà. La disciplina del contratto e della responsabilità civile, così come quella delle successioni, coniugata con la proprietà è perciò contenuta nel III libro (HALPÉRIN, 1992, 109 ss ).Lungi dall'essere il frutto di travisati principi del diritto romano e di pericolose istanze rivoluzionarie, come gli avrebbe rimproverato Federico von Savigny (SAVIGNY, 1814; il testo è stato tradotto in italiano per una edizione veronese del 1857, da cui sono tratte le citazioni (v. in particolare p. 132); è stato ritradotto a cura di MARINI, nel volume A.F. THIBAUT - F.C. SAVIGNY, 1982), il Code civil è il risultato di una sapiente tessitura compromissoria di tradizione e modernità. La sua redazione si deve a giuristi di grande vaglia, esperti conoscitori delle fonti romane, delle consuetudini e delle opere dei giusnaturalisti, oltre che, naturalmente, di Domat e di Pothier, ma anche esperti giocolieri delle formule giuridiche.Tra le molteplici scelte che essi compiono, anche sotto l'impulso dello stesso Napoleone (BOURDON, 1963, 328), conviene ricordare quelle destinate a migrare nei codici italiani e lasciar traccia nel codice civile vigente: si pensi al principio di irretroattività della legge (Tit.prél., art. 1); all'esercizio dei diritti civili non dipendente dalla cittadinanza (art. 7), al principio di reciprocità dei diritti

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riconosciuti allo straniero (art. 11); al sistema degli atti dello stato civile (art. 34 ss.); alla disciplina del domicilio e dell'assenza (art. 102 ss.), al regime dei rapporti tra coniugi (art. 212 ss.). E soprattutto alla disciplina della proprietà, che, dalla definizione (art. 544) ai singoli diritti reali presenta una struttura ancor oggi intatta nelle formule lessicali, salva qualche variante; per i contratti rileva la codificazione del principio consensualistico (art. 1101), la disciplina dei vizi, la disciplina delle obbligazioni (per quanto più confusa di quella che entrerà nel codice vigente), la disciplina dei singoli contratti, oltre che della responsabilità civile, che, informata al principio - oggi diremmo - di atipicità dell'illecito (art. 1382 ss.) costituirà uno dei capisaldi dei sistemi continentali e da questi esportato in tutto il mondo.Proprietà, contratto, responsabilità sono gli istituti fondamentali sui quali si regge la struttura del Code civil e dai quali trae alimento tutta la sua disciplina. E' una struttura fondata sulla libertà: di obbligarsi, di esercitare i poteri proprietari, entro i limiti stabiliti dall'ordine pubblico, dal buon costume, dai diritti altrui di agire, salvo l'obbligo di rispondere per i danni arrecati intenzionalmente o colpevolmente ai terzi. Le formule icastiche con cui le regole sono compitate - con una eleganza stilistica che avrebbe fatto invidia a grandi letterati, come Stendhal - rimangono scolpite nella memoria. Sono un distillato di saggezza al pari delle formule onuste di storia come le regulae iuris del Digesto giustinianeo. Si pensi alla definizione di proprietà (“la propriété est le droit de jouir et disposer des choses de la maniere la plus absolue, pourvu qu'on n'en fasse pas un usage prohibé par les lois ou par les réglements”) (sulla quale anche in Italia si è raccolta una immensa letteratura: per tutti v. RODOTÀ, 1980), o alla definizione di contratto (“le contrat est une convention par laquelle une ou plusieures personnes s'obligent, envers une ou plusieurs autres, à donner, à faire ou à ne pas faire quelque chose”) o agli effetti delle obbligazioni (“les conventions légalement formées tiennent lieu de loi à

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ceux qui les ont faites”) (SACCO, 1975) o alla regola generale di responsabilità (“tour fait quelconque de l'homme, qui cause à autrui un dommage, oblige celui par la faute duquel il est arrivé, à le réparer”) (ALPA, 1999a, cap. I ). (ii) Letture del Code CivilCome tutti i testi che assumono una funzione simbolica, anche il Code civil si espone a letture diverse, declinate secondo la direzione imposta dalla ideologia dei suoi interpreti; e come tutti i testi, letterari, religiosi, morali, giuridici, la sua analisi risente perciò del contesto nel quale è effettuata. Il contesto, infatti, può essere storico, giuridico, politico, sociologico, antropologico, strutturale, etc. Ma l’analisi risente pure delle circostanze in base alle quali essa è stata promossa, si tratti di celebrazioni, di anniversari, o di altre occasioni ancora.I grandi monumenti dell’esperienza giuridica hanno ripetuti appuntamenti con la storia: la loro nascita, la loro evoluzione, la loro estinzione, spesso cruenta, altre volte pacifica.Gli appuntamenti ai quali il Code civil non ha potuto sottrarsi sono numerosi; alcuni di essi a loro volta hanno assunto i caratteri dell’evento storico. Basti pensare alle celebrazioni del primo centenario organizzate a Parigi nel 1904, alle celebrazioni del centocinquantenario, organizzate a New York nel 1954, e al secondo centenario della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, salutato con entusiasmo in Francia e poi in gran parte del mondo occidentale all’inizio degli anni Novanta. Proprio nel 2004 si è celebrato il secondo centenario del Code civil, ed i giuristi si sono chiesti se questo modello di codice possa fronteggiare la sfida del nuovo millennio.Le letture sono dunque molteplici, scadenzate nel tempo, variegate per prospettive e per contenuti.Il risultato di queste ricerche e di queste discussioni è oltremodo interessante. Sotto l’aspetto interdisciplinare lascia emergere un testo che presenta funzioni polivalenti, anche simboliche; dal punto di vista storico la

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sua rilettura dispiega novità che consentono di penetrare più a fondo il suo significato, oltre a rendere più evidenti le caratteristiche proprie delle prospettive di osservazione, cioè le categorie alla luce delle quali gli studiosi compiono la loro analisi. Si tratta dunque di appuntamenti di grande momento, che conviene tenere in conto, oltre alle indagini occasionali che compongono la letteratura pressoché sterminata dedicata a questo testo.  La celebrazione del centenario tenutasi a Parigi tra il 27 e il 30 di ottobre del 1904 fu promossa per iniziativa della Société d’Etudes legislatives e della Académie des Sciences morales et politiques, in collaborazione con gli organi rappresentativi più importanti degli avvocati, dei notai e dei cancellieri di Francia. Il congresso organizzato dal Law Center di New York dal 13 al 15 dicembre 1954 nacque invece per iniziativa di accademici statunitensi, francesi e tedeschi. Le iniziative di celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese, avviate alla fine degli anni Ottanta dalla comunità scientifica di lingua francese, dedicate alla Rivoluzione, si sono protese fino all’epoca napoleonica, e quindi hanno coinvolto il Code. D’altra parte, Napoleone è ricordato anche come legislatore.Dai saggi via via raccolti si possono estrarre indicazioni e commenti utili per comprendere la rilevanza del codice napoleonico per il diritto italiano; ad altre indagini si possono affidare gli altri profili che riguardano questo modello, considerato in sé e per sé, e il suo influsso negli altri Paesi.La radiografia del Code civil dal punto di vista delle ideologie che esso incorpora - e che a noi interessano per capire fino in fondo se il modello sia stato riprodotto con cognizione di causa nei suoi epigoni, i codici civili preunitari e nel codice civile del 1865 - si deve soprattutto a due autori, l’uno italiano e l’altro francese, Gioele Solari e André-Jean Arnaud diversi per formazione, e per epoca; ormai quasi dimenticato il primo (SOLARI, 1911; ID., 1974a; ALPA, 1999a cap.V.), assai discusso il

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secondo (ARNAUD, 1969; su Arnaud v. TARELLO, 1988a, 122 ss..).Le due letture sono sfasate nel tempo. Quella di Gioele Solari è di qualche anno successiva al Libro del Centenario, quella di Arnaud risale a qualche decennio fa ed è completata dalla analisi strutturale del codice napoleonico (ARNAUD, 1969 ). a) La lettura filosofico - normativa. Gioele Solari tratta del Code civil, insieme con il Codice prussiano e il Codice austriaco in una delle sue opere più famose, L’idea individuale e l’idea sociale nel diritto privato. Parte I. L’idea (SOLARI, 1911, 170 ss.). Anche per Solari il Code civil è simbolo dell’individualismo borghese e delle libertà politiche post-assolutiste. Quanto all’idea “sociale”, Solari ne tratterà in seguito, ma l’opera non vedrà la luce prima della morte dell’autore (SOLARI, 1906b, nell’edizione curata da UNGARI, 1980).Solari vede rappresentati nel Code i due valori fondamentali che sono l’esplicazione della concezione giusnaturalista di Locke (SOLARI, 1911, 171), la libertà e la proprietà. Ed infatti nei discorsi di Portalis e negli articoli di base del Code la natura di questo diritto assoluto e individuale si esprime in modo chiaro, quasi icastico. Solari nota come questa concezione della proprietà rispecchi fedelmente la concezione romana, anche se “le forme classiche della proprietà romana rivivono qui con uno spirito nuovo”(SOLARI, 1911, 173). A differenza del modo di pensare dei Romani, però, nel Code la proprietà è un diritto riconosciuto in capo all’uomo come tale, è un istituto “naturale”, è una “esigenza etica della personalità” (SOLARI, 1911, 173).Con questi asserti Solari intende dimostrare che i redattori non impressero al Code civil una matrice individualista perché imbevuti dalla cultura romanistica; piuttosto, essi si servirono del linguaggio e dei concetti del diritto romano per affermare il principio di autonomia della persona (SOLARI, 1911, 174). Ciò si evincerebbe dalle disposizioni che erigono la volontà delle parti alla

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sovranità quasi assoluta dell’individuo: i riferimenti testuali sono l’art. 1387, in materia di convenzioni matrimoniali, l’art. 1138, sul trasferimento della proprietà e l’art.1134 sulla formazione e risoluzione del vincolo obbligatorio. Sempre Solari ci avverte però che nelle diverse versioni dei progetti del codice (sui quali è illuminante la ricerca di HALPERIN, 1992) l’afflato liberale era assai più marcato di quanto non si volle poi esprimere nella versione definitiva; i progetti avevano abolito l’arresto personale per debiti, la prova per giuramento e la rescissione per lesione enorme, e avevano abbreviato la prescrizione acquisitiva (usucapione) a vent’anni.Quanto alla disciplina della famiglia - a cui assiduamente aveva collaborato Napoleone (v. ALPA, BESSONE, D’ANGELO, FERRANDO, SPALLAROSSA, 1998) - Solari ritiene che il modello seguito dalla Convenzione e dal Consolato sia quello più vicino al diritto romano, mentre la legislazione rivoluzionaria si ispira al diritto germanico: lo testimonierebbe la prevalenza dell’unità sull’autonomia dei singoli, dell’autorità rispetto all’eguaglianza; così per il trattamento deteriore della donna maritata, dei figli minorenni, dei figli naturali. Pure il sistema successorio è fondato sul diritto romano, anche se “Napoleone era preoccupato di conservare a questo proposito i risultati della rivoluzione favorevoli alle classi medie”(FENET, t. XII, 1836, 318). Per combinare le due esigenze si sarebbe perciò realizzato un compromesso: nella successione ab intestato si afferma il principio egalitario; nella successione testamentaria si riserva una porzione ai legittimari ed una alla libera disposizione del testatore. Si realizza in tal modo il significato unitario del Code che riposa sulla unità del concetto di individuo, fondendosi così tutte le fonti, politico-filosofiche e giuridiche, da cui il Code è scaturito (SOLARI, 1911, 183). Questa concezione del diritto civile si esprime anche nella massima libertà della proprietà mobiliare, di cui quasi non si occupano i redattori, incentrando la loro attenzione sulla proprietà immobiliare. La proprietà mobiliare è frutto del lavoro e

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del risparmio, ma agli albori dell’Ottocento l’economia francese è ancora fondata sul sistema manifatturiero e il rapporto di lavoro è concepito in una prospettiva esclusivamente individuale (SOLARI, 1911, 194); l’operaio è visto con sospetto, le associazioni come antagoniste allo Stato o come organi corporativi da sopprimere. Insomma, il “Codice appare quello che era veramente, un codice cioè borghese, fatto per individui che disponevano o amministravano un patrimonio” (SOLARI, 1911, 198). Solari ci dà una lezione di analisi storica e filologica: il Codice deve essere letto per quello che è, cioè il frutto di esigenze concrete, sociali e politiche proprie del tempo in cui è redatto e promulgato, e non deve essere letto come un documento di tenore universale e astratto (SOLARI, 1911, 199). Di qui l’impossibilità di perpetuare l’identificazione del diritto civile con il codice civile e l’esigenza di “allargare la base del diritto privato” quando le istanze sociali si fanno più pressanti e denunciano l’obsolescenza dei vecchi codici. b) La lettura filosofico-ideale.Il codice napoleonico ormai assimilabile ad un libro biblico “sacro” sì ma “aperto”, si può leggere anche in altro modo.L’applicazione delle teorie ermeneutiche che consentono di vedere il codice in filigrana, come espressione della cultura giuridica dei suoi redattori, è la trama della ricerca di Arnaud, apprezzata anche in Italia (GROSSI, 1998a, 428). Nell’albero genealogico degli indirizzi filosofici sottostanti alla codificazione, Arnaud pone tre radici: il giansenismo di Pascal, il razionalismo di Cartesio e il giusnaturalismo moderno. Questi indirizzi evolvono fino a investire alla fine del Seicento Jean Domat e i suoi eredi, Claude Brossette e Barrigue de Montvalon, coinvolgono Montesquieu, e finalmente Bourjon, Daguesseau (o d’Aguesseau) e Pothier (ARNAUD, 1969, 96 ss; 103 ss ). Bourjon riesce in un intento quasi impossibile, perché trasforma il diritto consuetudinario in una serie di principi razionali ordinati in modo

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geometrico; sicché il diritto civile è articolato in una prima sezione dedicata alle persone, in una seconda dedicata ai beni, e in una terza dedicata ai modi di acquisto dei beni; disposizione che sarà puntualmente seguita dal Code civil. E’ una disposizione non originale, ovviamente, perché tratta dalle Istituzioni di Gaio (p. 160 ss ). D’Aguesseau trasforma la concezione cristiana di Domat in una concezione laica dei rapporti che si instaurano tra gli individui (p.149). Pothier riassesta le Pandette di Giustiniano (in un’opera ciclopica tradotta anche in italiano) e con la sua ispirazione individualista divide la materia in un ordine simile a quello delle Istituzioni, ammodernandola, però. Si ha quindi una parte generale sul diritto naturale assimilato al diritto civile, una parte relativa alle persone, una alle cose, un’altra alle azioni (p.165). Arnaud dimostra che l’ascendenza del diritto romano è scontata, ma la sua coniugazione con la filosofia razionalista e giusnaturalista inscrive la tripartizione di Gaio in una dimensione nuova. La trattazione delle persone riguarda infatti il loro stato e la loro capacità, quella delle cose riguarda i diritti che le persone esercitano su di esse, i modi di acquisto della proprietà riguardano le obbligazioni e i contratti speciali, oltre che le successioni (TARELLO, 1988a, 122 ss.). In modo avvincente, anche se non da tutti ritenuto persuasivo (TARELLO,1988a, 125 ss.) Arnaud dimostra che sotto una forma giuridica apparentemente simile al diritto tradizionale di matrice romana e consuetudinaria si svolge nel Code una “sostanza nuova” fondata su due pilastri: una nuova concezione della proprietà, di tipo soggettivo, e una nuova concezione della autonomia della volontà, fondata sul puro (o nudo) consenso. Questi pilastri distaccano il Code dalla tradizione romana. La sua posizione è netta e si contrappongono a quella condivisa dalla maggior parte dei commentatori: non solo esalta l’originalità della sostanza del Code, rispetto alla forma lessicale o concettuale, ma ne contesta l’origine, cioè la crasi di diritto romano e diritto consuetudinario, di diritto scritto e diritto comportamentale; per Arnaud il codice è

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il frutto dello scontro del diritto antico e del diritto nuovo, del diritto come concepito dai giansenisti, scettici e antirazionalisti, e del diritto come concepito dai giusnaturalisti moderni, razionalista e sistematico. Arnaud vuole anche sfatare (ma non credo che vi riesca) la derivazione diretta del Code civil dalle opere di Domat e di Pothier, i due “juristes vulgarisateurs”, come li chiamava Crome (CROME, 1906, p.605, ID., trad. con note di A. Ascoli e F. Cammeo, 1906a, 6).Ma l’analisi dei testi di Domat e Pothier porta a constatare coincidenze sorprendenti (sul vinculum juris v. ALPA, 1997b, p.792). Lo “strappo” rispetto alla tradizione non è così grande come Arnaud vorrebbe farci credere. E così pure per la struttura del codice che Arnaud deriva dalle correnti razionaliste, soggettiviste e sistematizzatrici della dottrina giuridica del XVIII secolo (ARNAUD, 1969, 218 ss ). In ogni caso l’originalità del Code civil è al tempo stesso la sua forza e la sua debolezza: la forza, perché si porrà come modello, sarà recepito quasi letteralmente, ma sarà sovrastato dalle elaborazioni teoriche proprie delle esperienze nelle quali sarà trapiantato; la sua forza, ancora, perché riuscirà a rimanere indenne attraverso due secoli di rivolgimenti politici, sociali, economici ed anche culturali; la sua debolezza, perché fungendo da specchio della società post-rivoluzionaria è divenuto un monumento di cui appare sempre più difficile sbarazzarsi.Accanto a queste letture, oggi si affiancano sia l’analisi tecnica del Code, sia quella neo-giusnaturalistica. c) La lettura tecnica.Considerare il codice napoleonico, e i codici suoi “figli”, come esempio di tecnica legislativa, significa prendere posizione sulla natura delle fonti del diritto: un codice, in quanto tale, si presenta come una fonte scritta, quale “la disciplina positiva che governa gli uomini aggregati nella società” (GÉNY, 1904, 991).Non nel momento in cui apparve, ma all’appuntamento del suo primo secolo di vita, il Code civil era inteso come

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una delle fonti, non la fonte del diritto civile, insieme con la consuetudine, la dottrina e la giurisprudenza (GÉNY, 1904, 941), tema caro ai cultori dell’ermeneutica (come BETTI, ad esempio del quale v. ora i saggi raccolti da CRIFÒ 1991); sulle sue teorie ermeneutiche v. GRIFFERO, 1988), del realismo giuridico (come TARELLO 1962) e del diritto post-moderno (gli autori sono molteplici, ma Sacco li rappresenta egregiamente (SACCO, 1998a, vol. 2); confr. inoltre ZACCARIA, 1990; VIOLA E ZACCARIA, 1999). In altri termini, la codificazione - anzi ogni codificazione – è un processo complesso nel quale confluiscono le diverse redazioni dei testi scritti, la terminologia impiegata, il bagaglio culturale dei redattori, la formazione in termini icastici di singole regole, la loro disposizione in un ordine entro una determinata struttura, e poi l’interpretazione (con le sue diverse tecniche) e l’applicazione delle singole regole.“Unità, ordine, precisione, chiarezza” sono le caratteristiche ideali di un codice (GÉNY, 1904, 996) concretate per l’appunto nel Code civil; sono gli stessi caratteri che lo rendono non solo un’opera letteraria, ma addirittura un genere letterario nella cultura giuridica.La originalità di questo codice sta, secondo Astuti, che ripete la tesi di Esmein, nello stesso valore giuridico formale della codificazione, che determina una radicale trasformazione del sistema delle fonti del diritto (ASTUTI, 1984, I, 728).Dal punto di vista tecnico, un codice “alla francese” (il Code e i suoi epigoni) presenta: (i) caratteri di generalità; (ii) disposizioni considerate intrinsecamente vincolanti; (iii) una terminologia e uno stile (GÉNY,1904, 998). Il primo aspetto richiama il problema della completezza, il secondo il problema del rapporto tra libertà e autorità, essendo le disposizioni distinguibili in imperative, proibitive, suppletive, permissive (GÉNY,1904, 999).Un codice è lo specchio della società, e il Code civil in particolare lo specchio della società civile (NICOLÒ, 1960, 240 ss.; RODOTÀ, 1980; IRTI, 1995; TARELLO, 1976). Il Code civil rispecchia la società ad esso coeva; così pure i codici

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pre-unitari; si può dire altrettanto del codice del 1865, o i ritardi culturali tipici della cultura giuridica, la paura della innovazione, la fretta di redigere un testo buono per tutti i territori, hanno avuto la meglio sulle esigenze di ammodernamento e di originalità? A sentire gli storici, all’epoca nessuna esigenza di ammodernamento e originalità fu accolta nel nostro Paese: il codice del 1865 calzava come un guanto le esigenze di un paese ancora agli albori dell’industrializzazione (l’analisi del dibattito nelle diverse epoche in cui esso è insorto si deve a GHISALBERTI, 1978.).Il Code doveva essere “completo”? Sulla completezza si interrogava già Portalis, con eleganza e acume (PORTALIS, 1804 .13). Anche questo è un interrogativo al tempo stesso politico e tecnico. Politico, perché più generali sono le formule e meno articolate le materie, più spazi si lasciano all’interprete; tecnico, perché la redazione delle formule, l’uso nel rinvio, l’uso delle definizioni, servono per l’appunto a raggiungere una parvenza di completezza. La questione della completezza si lega all’idea di codice da cui si muove: nell’Ottocento l’idea era quella di un corpus in sé concluso “capace di comprendere tutti i possibili casi giuridici trasformandoli in propri costrutti teorici” (MENGONI, 1994, II, 752). Era un’idea sovrapposta a quella dei redattori del Code civil, che erano stati invece spinti dalla necessità di riunire in formule semplici le regole di tutte le materie rilevanti, per assicurare l’uniformità della loro regolamentazione in tutto il Paese (PETRONIO, 1998, n.27, 96 ss. Nello stesso senso si erano già espressi GÉNY, 1904, 1002 ss, ove ampi riferimenti alle coutûmes, alle leggi rivoluzionarie, ai progetti di “codici” e TUNC, 1956, , a cura di SCHWARZ, 19). Il codice napoleonico però non è pensato come un corpus completo e autonomo, ma dapprima come una semplice raccolta di leggi; tanto è vero che solo

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con l’art. 7 della l. del 21.3.1804 (30 ventoso dell’anno XII) si prevede la abrogazione di tutte le norme fino ad allora in vigore. Si trattava di un universo composito, in cui si accostavano le leggi romane alle ordinanze reali, le consuetudini agli statuti, e così via. L’abrogazione avviene in blocco solo nel 1804, mentre durante gli anni rivoluzionari, le vecchie disposizioni convivono con le nuove in quanto compatibili (PETRONIO, 1998, 108). Anche nel commento degli esegeti e della dottrina successiva, il problema della sopravvivenza delle regole antiche è discusso e rimane aperto, giustificando da un lato l’opinione che il codice nei contenuti non abbia innovato gran che il diritto in allora vigente, e dall’altro che abbia rappresentato un elemento di continuità con il mondo giuridico pre-rivoluzionario, come peraltro si poteva capire dalla continuità dell’interesse portato dai giuristi per gli autori anteriori alla codificazione (PETRONIO, 1998, 104 ss).Lo stile è quello elaborato, illustrato, professato da Montesquieu nell’Esprit des Loix (cap. XVI del libro XXIX). La legge “comanda”, non deve “né istruire né convincere”, sostiene l’Hospital (In FENET, 1836, t. IV, p.36).Le regole sono ripartite in libri, titoli, capitoli, sezioni, paragrafi; le generalizzazioni sono rare, “i fatti tengono il posto delle idee” (GÉNY, 1904, 1012). Le ipotesi considerate sono le più frequenti, senza preoccupazione di completezza. Numerose sono le definizioni (v. gli esempi in GÉNY, 1904, 1013); poche le clausole generali (ad es. artt. 1119, 1121, 1165); molteplici le espressioni non definite ma tratte dalla tradizione quali: assenza presunta, tutore, curatore, erede legittimo, surrogazione, interruzione e sospensione della prescrizione.

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Numerosissimi sono i termini indeterminati, come quelli di azioni, eccezioni, terzi, aventi causa, beni, cose, dolo, frode, lesione, nullo, nullità, etc. (GÉNY, 1904, 1016). La conclusione cui perviene Gény, acuto e avvincente come sempre, è che il Code non solo non era stato concepito come corpus completo, ma anzi, come opera aperta, che necessitava dell’essenziale apporto dell’interprete, cioè del giudice (GÉNY, 1904, 1021).La definizione di libro presuntivamente completo non calza quindi al Code civil, ma si ritrova nei commentatori coevi del Codice civile tedesco (GÉNY, 1904, 1023 ss. n.6 ove si riferisce l’opinione di VON GIERKE, 1896, 13-14).Anche lo stile è diverso, perché, considerando la disposizione come il paradigma in cui il fatto viene sussunto nel precetto, la gran parte delle disposizioni sono espresse con un fatto a cui segue la regola di diritto; le espressioni sono tecnicamente più precise (v. MÜLLER, 1904, 627 ss.; GÉNY, 1904, 1025.), e ciascuna di esse è riferibile a tutte e sole le accezioni che le corrispondono, mentre cambiano le espressioni se cambiano le nozioni corrispondenti. d) La lettura neo-giusnaturalistica.Oggi la codificazione napoleonica viene anche intesa come lo strumento che consente la “statizzazione” del diritto e la sua nazionalizzazione (GHESTIN, con la collaborazione di GOUBEAUX e FABRE-MAGNAN, 1994, 5), a cui si aggiunge la saldatura tra apparato statale e società civile mediante la codificazione delle regole dello Stato e dei rapporti tra Stato e cittadini nelle costituzioni e la fissazione (costituzionale) delle regole dei rapporti tra cittadini nei codici civili (GHESTIN, 1994, t. xii ).Il Code civil può anche intendersi come lo specchio del moderno diritto naturale secondo questa scansione: (i) identificazione del diritto con la legge, (ii) soggezione del giudice alla legge; (iii) divieto di interpretazione della legge - nel senso di deviazione dal suo significato

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autentico - e (iv) indefettibilità della cosa giudicata; (v) responsabilità del giudice che deroghi ai principi.Nell’ambito di questa piramide si identificano i valori seguenti (DONATI, 2002, 34 ss.): (i) autonomia della ragione o principio di laicità; (ii) autonomia della consuetudine; (iii) eguaglianza degli uomini; (iv) certezza del diritto.In materia contrattuale, la volontà dei contraenti è fondata sui principi di: (i) libertà, (ii) pacta sunt servanda, (iii) equivalenza materiale delle prestazioni (DONATI, 2002, 43 ss.). (iii) Il Codice civile austriaco.Il Codice civile austriaco (ABGB) del 1811, esteso ai dominii italiani nel 1816, benché più tardo del Code civil, ha un impianto e una concezione assai meno moderna, è illuministico e giusnaturalistico, assai farraginoso, prolisso e dottrinale in alcune parti (ad es., nelle sezioni della responsabilità civile) e lacunoso per altri aspetti. Esso, tuttavia, oltre a restituire il fascino della cultura settecentesca, presenta alcuni caratteri che sono da considerarsi rimarchevoli.Il progetto si deve a due grandi giuristi, docenti dell’Università di Vienna, Martini e Zeiller, entrambi di indirizzo giusnaturalista e rivolti a introdurre regole dettate dalla ragione (ZEILLER trad. it., 1830).Anche questo Codice nasce dunque dal compromesso: l’esigenza di superare i particolarismi, senza tuttavia completamente ignorare le tradizioni locali, e l’esigenza di elaborare regole chiare, semplici, intelligibili a tutti, rispondenti al senso comune e alla ragione, anche al fine di unificare il diritto praticato nelle province dell’Impero. Il suo impianto e i suoi contenuti stridono con la realtà politica e sociale del tempo, essendo essa governata da una aristocrazia terriera assai miope e arroccata nei propri privilegi.Ai principi di diritto naturale (par. 7) il Codice riconosce il ruolo di vere e proprie regole destinate a colmare la legge e ad ispirarne l’interpretazione; perciò proclama

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l’eguaglianza dei cittadini (par. 10), anche se per alcuni decenni sopravviverà la servitù della gleba.L’impianto dell’ABGB è tradizionale: dopo l’introduzione, si colloca una parte dedicata alle persone (I), una ai beni (II), ed una comune ai beni e alle persone (III); il contratto e gli atti obbligatori sono disciplinati nella parte seconda, concernente i diritti personali sulle cose. Non vi si trova una disciplina generale del negozio giuridico (categoria dogmatica che solo in quel periodo cominciava ad essere costruita dalla Pandettistica tedesca); la responsabilità civile, a differenza del sistema tipico romanistico, è disciplinata da una clausola generale, il 1295 (“ciascuno ha diritto di pretendere dal danneggiante il risarcimento dei danni che questi gli ha con colpa provocato”). L’unico caso di responsabilità senza colpa concerne il danno arrecato dagli ausiliari (1315).E’ interessante notare che l’ ABGB ha lasciato tracce anche in Italia, nonostante le provincie austroungariche siano state poi unite al resto del Paese a seguito delle guerre di indipendenza e della prima guerra mondiale.Della legislazione austriaca è rimasta in vigore la c.d. disciplina tavolare nelle ex-province dell’Impero; essa si contrappone al sistema della pubblicità organizzato mediante la trascrizione degli atti sui registri immobiliari; si tratta infatti di un sistema oggettivo, che funziona avendo riguardo al bene immobile di cui si registrano i successivi trasferimenti. (iv) Il Codice civile tedesco.Il Codice civile tedesco (BGB) entrato in vigore nel 1900 è stato applicato in Italia solo per pochi mesi, nelle province annesse al Terzo Reich, a seguito dell’occupazione nazista. Esso doveva essere sostituito da un nuovo Codice espressione del regime, ma il crollo della Germania nella guerra mondiale ne impedì il compimento.Di stampo borghese conservatore, specchio della Germania bismarckiana della fine del secolo, il BGB è frutto della potente ed acuta elaborazione giuridica prodotta dalla scuola Pandettistica, in particolare da

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Windscheid, che ne curò la prima stesura, e dai giuristi della fine del secolo che lo resero un po’ meno teorico (sulla recezione del diritto giustinianeo in Germania, sulla elaborazione dogmatica ottocentesca, e sulla compilazione del Codice v. WIEACKER, 1980; LARENZ, 1966).Non è rivolto al cittadino, come si studiavano di fare il Codice francese, il Codice austriaco e faranno, meglio di tutti, il Codice civile e il Codice delle obbligazioni svizzeri del 1907-1912, ma è rivolto al giurista di professione, usando un linguaggio colto e tecnico e formule sintetiche ed eleganti. Esso si compone di cinque parti: una parte generale, in cui si condensa l’insegnamento pandettistico, si disciplinano gli strumenti tecnici usuali (ma non si indicano le fonti, né le regole dell’interpretazione), cui seguono il libro delle obbligazioni, quello sui beni, quello sulla famiglia e quello sulle successioni. Nella parte generale si disciplinano la persona fisica e la persona giuridica, e si danno alcune regole generali sui negozi giuridici. Il BGB codifica il principio di libertà contrattuale, e introduce controlli giudiziali (sui boni mores, sull’approfittamento dello stato di bisogno, sulla penale eccessiva, sulla buona fede nell’adempimento dell’obbligazione, che saranno ripresi nel Codice italiano del 1942). La responsabilità civile è articolata in un sistema tipico, in cui si prevede la lesione di singoli interessi rilevanti (la vita, la salute, ecc.); è fondata sulla colpa (salvo il caso della responsabilità per il danno dei dipendenti) (Sull’aggiornamento del BGB v. ora LARENZ, 1994a, 297, trad. it. a cura di ADEZATI; SOMMA, 1993, I, 1116.).Il BGB fu utilizzato dalle commissioni incaricate di redigere l’attuale cod. civ. italiano non tanto per l’influenza politica che la Germania aveva in quel momento (facendo parte dell’Asse), quanto perché i giuristi italiani già dalla fine del secolo scorso erano imbevuti di cultura giuridica tedesca, Pandettistica e post-Pandettistica. 

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Questo lungo excursus sui modelli di codificazione dell’ Ottocento, a cui si dovrebbero poi aggiungere i modelli che si sono introdotti nel Novecento, dal codice civile italiano (1942), la cui originalità consiste nell’aver coniugato felicemente le origini napoleoniche, la prima normazione unitaria, e l’influsso della cultura tedesca di fine Ottocento e dei primi del Novecento, al più recente codice civile olandese (1992), che ha ripudiato il modello napoleonico per avvicinarsi al modello tedesco , ci serve per comprendere molte cose: innanzitutto, per delineare meglio i caratteri dell’Europa continentale, che tuttavia non è codificata completamente, dal momento che anche i Paesi scandinavi (con eccezione della Finlandia) non si sono dotati di un codice civile; poi per interrogarci sulla stessa idea di “codice” in un’Europa del terzo millennio; inoltre, per seguire i processi di ricodificazione in atto in alcuni Paesi (come la Germania, la Francia e l’Italia); infine, per affrontare il problema della possibilità di concepire un “codice civile europeo” e di interrogarci, sciolto il primo corno del dilemma, sui caratteri e suoi contenuti di una “codificazione” che possa interessare l’intera Unione.

Ma si è accennato che la codificazione nasce nell’Ottocento tenendo ben separati diritto civile e diritto commerciale. L’unificazione è il portato del Novecento, e ne sono appunto esempio il codice civile italiano e il codice civile olandese.

Tuttavia, la gran parte dei Paesi europei codificati mantengono la separazione dei due codici. Come interpretare storicamente questo fenomeno?   

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11. Le iniziative di “ricodificazione” a)      Dalla “decodificazione” alla “ricodificazione”.Ventincique anni fa un illustre giurista, Natalino Irti, aveva indagato il fenomeno del progressivo scorporo di interi corpi di regole dal codice civile alle leggi speciali (IRTI, 1979a,I, 141 ss.). In altri termini, la codificazione del 1942, oltre ad unificare il codice civile del 1865 e il codice di commercio del 1882, aveva inteso riportare nell’alveo del codice unico i principi portanti di tutte le normative concernenti il diritto dei rapporti economici, oltre che le regole di base concernenti la disciplina della proprietà. Il codice civile si presentava come un “collante”, una sorta di tessuto connettivo in cui si istituivano i capisaldi dell’ordinamento privatistico. Ma già dalla sua introduce il codice civile aveva cominciato a subire una sorta di emorragia: la particolarità delle discipline concernenti categorie di interessi incisi dalle norme, la tecnicità delle regole, la minuziosità del loro dettato, aveva indotto il legislatore a tradire il suo intento codificatore, e ad affidare a singole leggi, aventi anche portata generale, il compito di normare interi settori del diritto. Questo fenomeno finiva per indebolire il significato del codice civile e a creare tanti micro-sistemi in cui i rapporti dei privati trovavano una (anche se talvolta incompleta) regolamentazione.

Nella prassi, tuttavia, il codice civile ha resistito, ha continuato ad assolvere la sua funzione portante, e ad essere il tessuto connettivo per colmare le lacune, per contemperare i conflitti, per assicurare, attraverso l’interpretazione adeguatrice e

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creativa dei giudici, modelli di comportamento ai privati.

Dagli anni Sessanta il codice civile ha cominciato a subire l’impatto della Costituzione: l’applicazione diretta di norme costituzionali ai rapporti tra privati, la declaratoria di incostituzionalità delle disposizioni codicistiche in contrasto con le regole costituzionali, l’interpretazione delle sue disposizioni alla luce dei valori costituzionali. Il diritto giurisprudenziale, sostenuto da un controllo dottrinale e da una elaborazione scientifica possenti, è riuscito a correggere i testi vetusti, e, avvalendosi delle norme elastiche contenute nel codice, ad adattare le forme giuridiche alle nuove esigenze economiche e sociali.

Nello stesso torno d’anni, con l’ingresso del diritto comunitario nell’ordinamento interno, interi settori del codice sono stati assoggettati ai principi derivanti da quell’ordinamento, quanto meno per le materie di competenza della Comunità europea. Il diritto comunitario è stato uno dei motori del cambiamento e dell’adeguamento. La gran parte delle direttive è stata attuata con leggi speciali, ma due direttive, in particolare, sono state recepite nel corpo del codice civile: la direttiva n.13 del 1993, sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatori che si riflette ora negli artt. 1469 bis e ss., e la direttiva n.44 del 1999 sulle garanzie nelle vendite ai consumatori , che si riflette ora negli artt. 1517 bis e ss.

I progetti di nuova codificazione che si erano affacciati dapprima alla caduta dell’ordinamento corporativo e di poi all’inizio degli anni Sessanta non hanno avuto alcun esito.

Alla fine del Novecento si è tuttavia prepotentemente imposta l’esigenza di rinnovare il testo del codice, non potendo essere

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considerata più sufficiente l’interpretazione correttiva, adeguatrice e creativa dei giudici.

Si è avviato così un processo di ricodificazione anche nel nostro Paese. Questo processo muove da alcuni presupposti: (i) che l’idea di “codice” non debba essere universalizzata, ma piuttosto relativizzata, storicamente e ideologicamente; (ii) che un “codice” possa essere ancora utile nelle società del nuovo millennio, se non ha pretese universalistiche e se contiene in sé i meccanismi di adeguamento ad una realtà in rapida evoluzione; (iii) che il “codice” non abbia neppure la pretesa di disciplinare nel dettaglio tutti i rapporti, ma piuttosto quella di dettare i principi generali a cui si possano ricondurre i singoli settori speciali.

Nella nostra esperienza, nella quale l’unità del Paese è stata sofferta, e, per certi aspetti, un’opera incompiuta, il “codice” non può che derivare dal legislatore nazionale; non possono quindi avere ingresso istanze regionalistiche (tanto è vero che la riforma degli artt. 117 e 118 della Costituzione ha mantenuto allo Stato la riserva legislativa in materia di “ordinamento civile”). Per dirla con le parole di un illustre storico del diritto, Paolo Grossi, «è chiaro che lo Stato non può abdicare alla fissazione di fondamentali linee portanti, ma è altrettanto chiaro che una delegificazione si impone abbandonando l’illuministica sfiducia verso il sociale e realizzando un autentico pluralismo giuridico con i privati protagonisti attivi della organizzazione giuridica così come lo sono del mutamento sociale» (GROSSI, 2002b, 599).

Nella nostra esperienza l’opera di ricodificazione è iniziata nel 1975, con la riforma del diritto di famiglia, ed è proseguita nel 2001 con la riforma della disciplina delle

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società, che ha innovato gran parte del libro V del codice; è in corso la riformulazione del libro I, per adeguarne la disciplina alla multiforme varietà delle aggregazioni sociali non lucrative.

Accanto a queste iniziative si devono poi segnalare le nuove tecniche di normazione, che prevedono la redazione di testi unici settoriali, organicamente costruiti, anche per adeguare l’ordinamento interno al diritto comunitario (si pensi al t.u. sulle assicurazioni, sul diritto dei consumatori, sui beni culturali, etc.).

Ma il processo di ricodificazione ha interessato anche latri Paesi, che hanno tenuto conto dei risultati raggiunti, soprattutto nel campo delle obbligazioni, dalla redazione di principi generali, quali i Principi dell’ Unidroit sul diritto contrattuale internazionale e i Principi predisposti dalla Commissione coordinata da O.Lando e H.Beale sul diritto contrattuale europeo (v. PATTI, , 2004, I, 521 ss.).

Tra le esperienze più rilevanti nel panorama europeo si debbono allora considerare quella tedesca, in cui la ricodificazione si è avviata con il libro II del B.G.B. in materia di obbligazioni e l’esperienza francese, in cui si è costituita una commissione di studio per la riforma del codice civile, e si è aperto il dibattito sull’abbandono del Code civil o sul suo sostanziale ammodernamento.

Per completezza, si deve almeno accennare ad alcune iniziative che emergono da altri modelli ordinamentali: si pensi alla codificazione di un codice civile catalano e alla codificazione di un codice civile scozzese, fenomeni che si proiettano in realtà diverse dalla nostra, in cui l’esigenza di identificazione di nazioni interne a Stati plurinazionali si evidenzia anche attraverso la dotazione di un

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codice, che diviene un vero e proprio simbolo di larghe minoranze linguistiche o culturali. (i) La ricodificazione in Germania

Proprio negli anni in cui si celebrava il primo centenario della codificazione tedesca (AA.VV., a cura di CIAN, 2002c) il legislatore tedesco, dopo aver proceduto alla estensione di quel codice alla Germania orientale, divenuta parte integrante della Repubblica federale a seguito della riunificazione, e quindi dopo aver soppresso il codice civile della Repubblica democratica tedesca introdotto negli anni Settanta, si accingeva a riprendere i lavori della ricodificazione che erano iniziati all’inizio degli anni Ottanta.

Nel 2002 è entrata in vigore la novella del B.G.B. con cui si è riformato il Libro II e una sezione del Libro I (Gesetz zur Modernisierung des Schuldrechts del 26.11.2001). L’innovazione era stata preceduta dalla inserzione nel Libro I delle definizioni generali concernenti il “consumatore” e il “professionista”. La riforma ha ridisciplinato il rapporto obbligatorio, ha introdotto nel codice le regole sulle condizioni generali di contratto, sulla multiproprietà, sui contratti conclusi “porta a porta” e mediante il commercio elettronico, il mutuo e i contratti di finanziamento ai consumatori, ma ha anche introdotto figure che erano emerse nella creatività giurisprudenziale, come la presupposizione, la responsabilità precontrattuale e gli obblighi verso i terzi. Non ritratta di un codice di meri principi generali, ma un codice che «continua ad essere regolamentazione compiuta e dettagliata dei settori della vita sociale» (CIAN, 2003, I, 5). Di più, l’intero diritto dei consumatori – derivante in parte dalla legislazione speciale preesistente e in parte dalla attuazione di direttive comunitarie – ha integrato il diritto civile. Viene rimodellata la disciplina della impossibilità della prestazione, del risarcimento del danno, dello scioglimento del rapporto (nel senso della non alternatività tra recesso e risoluzione). Si è mantenuta in vita la figura generale e astratta

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dell’obbligazione, «la più antica degli ordinamenti giuridici di derivazione romana, e la cui perdurante validità ed efficacia – secondo Cian – sono difficilmente rinunciabili per un legislatore moderno della nostra tradizione giuridica» (CIAN, 2003, I, 18; ID., 2002a, I, 421 ss.).

Con la l.25.7.2002 si è proseguita l’opera di ricodificazione introducendosi nel B.G.B. regole sul risarcimento del danno non patrimoniale e sulla capacità in tema di responsabilità extracontrattuale. Si è inoltre introdotta una nuova figura di responsabilità riguardante la redazione di perizie giudiziali con dolo o colpa grave (CIAN, 2003b, II, 125 ss.).

In Germania si è aperto il dibattito sulla codificazione europea del diritto delle obbligazioni e ci si è chiesti se la ricodificazione tedesca possa essere un modello da seguire. A parte le adesioni alle iniziative di elaborare un codice civile europeo (v. SCHULTE-NOELKE, 2001, 917 ss.) che sono state molteplici, si sono sollevati timori sulla conoscenza e quindi sulla certezza del diritto, sul possibile negativo impatto sui rapporti commerciali, sulla salvaguardia arrischiata del principio di autonomia contrattuale, tutti temi che hanno costituito anche oggetto di critiche alla riforma tedesca (DAUBNER-LIEB, 2004,559 ss.). (ii) Il dibattito sulla ricodificazione in Francia

Anche in Francia, si è anticipato, si sta formando un movimento che propugna l’ammodernamento del Code civil. Ciò in contemporaneità con la celebrazione del secondo centenario della sua introduzione. Si è riportato sopra il dibattito svoltosi in occasione della celebrazione del primo centenario e dei 150 anni di vigore di questo codice. Non si tratta di una singolare coincidenza, né di arditi parallelismi con l’esperienza tedesca, ma piuttosto di una riflessione naturale che vien fatto di concepire nella mente dell’interprete che si accinge a fare un bilancio di un codice: se il testo debba essere

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conservato oppure se si debba procedere al suo accantonamento o alla sua sostanziale modificazione.

Questa celebrazione era stata preceduta dalla celebrazione del bicentenario della Dichiarazione dei diritti del 1789, e già in quella occasione i giuristi avevano avuto modo di riflettere sulla portata innovativa della Rivoluzione francese nel mondo del diritto, anche del diritto privato. I due secoli di vita del Code Napoléon sono stati inaugurati innanzitutto la ristampa del testo originale (AA.VV. ,a cura di BREDIN, 2004d). Sì perché il testo originario, nel corso del tempo, ha subito importanti innovazioni e adattamenti: anche in Francia si è introdotta, con qualche anno di anticipo rispetto all’esperienza italiana, un’ampia riforma del diritto di famiglia, si è codificato il diritto alla “vita privata”, e si sono collegati al codice molti “testi unici”, cioè complessi articolati normativi in cui sono state organizzate le regole di attuazione delle direttive comunitarie. Non si è registrato invece in Francia il fenomeno della applicazione diretta della normativa costituzionale al diritto privato, e neppure la discussione sui principi generali: entrambe queste dimensioni, pur presenti nella cultura giuridica, non hanno avuto fortuna. La prima, per la persistente separazione – assai netta – tra diritto pubblico (costituzionale) e diritto privato; la seconda per la naturale avversione della cultura giuridica francese verso le categorie astratte e ordinanti.

La riflessione sul passato e sul presente del Code civil ha quindi imposto una riflessione sull’avvenire, e anche in questa occasione si è imposta la discussione sulla opportunità di introdurre una “codificazione” a livello europeo.

Nella letteratura amplissima che ha invaso il mercato, con riviste, fascicoli monografici, ricostruzioni storiche delle figure dei protagonisti della codificazione, si segnalano per la loro levatura due pubblicazioni: Le Code civil, 1804-2004. Livre du Bicentenaire, (2004) curato dalla Corte di Cassazione, dall’ Ordine degli Avvocati al Conseil d’Etat e dall’Associazione Henri Capitant, e

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1804-2004. Le Code civil.Un passé, un présent, un avenir (Parigi, 2004), organizzato dalla Università Panthéon-Assas(Paris II).

Entrambi i libri offrono una rivisitazione del Code anche in prospettiva storica, ma si preoccupano soprattutto di delinearne il futuro.

Il primo, in particolare, è proiettato negli anni a venire, perché già colloca la ricodificazione tra i “problemi generali”, esamina poi partitamente i singoli Libri e gli istituti fondamentali del Codice (persone, famiglia, teoria generale del contratto, contratti speciali, responsabilità civile, successioni e liberalità, beni, garanzie personali) e i rapporti tra queste materie e il diritto internazionale privato e il diritto amministrativo, proprio alla luce delle difficoltà di una ricodificazione, e chiude la panoramica con l’analisi di alcune esperienze nazionali che hanno assunto il Codice francese come modello di codificazione civile. Si riflettono in queste pagine i fenomeni sopra accennati, come l’esplosione delle regole speciali al di fuori del Codice, la riformulazione delle fonti interne, la proliferazione delle fonti internazionali. Si avvertono poi le gravi lacune del Codice, ad es., nella disciplina delle persone, ormai obsoleta, le inserzioni un po’ forzate, come i “patti di solidarietà familiare” e i rapporti di fatto, mentre si tende a pensare che il Codice non debba essere abrogato interamente, ma piuttosto riformato sostanzialmente. Insomma, una revisione generale è apparsa ai più assolutamente necessaria, senza tuttavia avere la pretesa di raccogliere nel Codice tutte le materie che riguardano il diritto civile. Non si è neppure sfiorata l’idea di unificare il Code civil e il Code de commerci, mentre si è apprezzata l’opera creativa della giurisprudenza, che, anche in questa esperienza è stata poderosa. Il programma di ammodernamento del Codice passa dunque attraverso la eliminazione delle disposizioni obsolete, come molte regole concernenti i beni, per una riscrittura di disposizioni che erano già all’origine di dubbia interpretazione, l’integrazione con disposizioni

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che riflettono le esigenze di una società moderna. Il diritto dei beni e il diritto delle obbligazioni dovrebbero essere i primi settori a subire l’intervento del ricodificatore.

Anche la seconda opera ci offre una analisi storica del Codice, la sua riformulazione nel corso dei due secoli di vita, sottolineandone la funzione “costituzionale” (GAUDEMET, 2004, 297 ss.), ripercorre la storia intrecciata della interpretazione creativa del Codice e dell’evoluzione del diritto civile, analizza i rapporti tra il Codice e il diritto commerciale e il diritto pubblico, descrive l’influenza del Codice nei Paesi del mondo in cui il suo modello codificatorio è stato adottato, e poi dedica ampio spazio al suo futuro. E’ questa la parte più intrigante, perché vi si avverte la tensione tra il giusto orgoglio di chi è portatore della sua storia (TERRÉ, 2004, . 899 ss.; CARBONNIER, 2004, 1045 ss.), essendo il Code civil, come si è espresso Carbonnier, un monumento storico, il ricettacolo della memoria delle divisioni storiche, il risultato di un compromesso storico (CARBONNIER, 2004, 1046) e la consapevolezza che questo testo non possa essere conservato così com’è, dal momento che è costretto a subire le sfide della globalizzazione, del diritto comunitario, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Tre sono in particolare gli influssi che appaiono più pervasivi: il diritto comunitario, la possibile costituzionalizzazione del diritto privato, i progetti di codificazione europea. (i) L’incidenza del diritto comunitario è duplice: non solo essa modifica la disciplina esistente o introduce nuove regole, a seguito della perdita di sovranità del legislatore nazionale a favore del legislatore comunitario, ma , nel caso di inserzione nel Codice delle regole di attuazione delle direttive, finisce per alterarne la struttura e l’equilibrio (LEVENEUR, 2004, 925 ss.). E’ un problema comune a tutte le codificazioni dell’ Europa continentale, ben presente nella letteratura tedesca come nella letteratura italiana; a ciò si potrebbe aggiungere

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l’influenza indiretta, per così dire “espansiva” nel diritto civile da parte del diritto comunitario anche al di là delle materie ad esso riservate.

(ii)La “costituzionalizzazione del diritto civile”, pur auspicata da qualche autore (FAVOREU, 1996, 25 ss.), e se si eccettua l’opera del Conseil d’Etat, non potrà avere grande fortuna finché si penserà, come Carbonnier, che «il Codice è la vera costituzione del Paese». Ma ciò che sorprende non è tanto il fatto che l’applicazione diretta delle norme costituzionali ai rapporti tra privati non sia terreno comune dei giuristi francesi, come lo è tra i giuristi italiani e i giuristi tedeschi (e finanche, con riguardo ai diritti fondamentali, anche dei giuristi inglesi), ma piuttosto che in Francia si rovesci la situazione e si pensi che le nozioni fondamentali del diritto privato possano essere elevate a valori costituzionali. E’ un “sogno” che qualche giurista ancora coltiva, ma viene radicalmente criticato da quanti hanno presente l’esperienza della Drittwirkung (ZOLLER,2004, 988 ss.).(iii) All’orizzonte si profilano i progetti di codificazione europea, tema anch’esso oggetto di amplissima letteratura e di grandi discussioni in Francia. Autorevoli giuristi dubitano che il Code , divenuto “l’ombra di se stesso” , senza perdere la sua figura di “monumento del pensiero giuridico mondiale”, possa essere assoggettato ad un semplice ammodernamento (TALLON, 2004, 1002). Piuttosto propongono di verificare se non sia opportuno pensare davvero ad una codificazione europea, tale da superare «il pregiudizio secondo il quale il diritto patrio è necessariamente superiore alle soluzioni straniere» e che sia opportuno tener conto di quanto accade in altre esperienze, là dove la ricodificazione ha tenuto conto dei progetti di uniformazione legislativa a livello internazionale o addirittura dei progetti di codificazione europea in corso di elaborazione. Insomma, ci si chiede se il gioco (la riformulazione di un vecchio testo come quello del Code) valga la candela, e non sia opportuno attendere una codificazione europea, piuttosto che accingersi ad

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un’opera di complessità straordinaria destinata ad avere una breve durata (TALLON,2004, 1008). La Revue des contrats (2004, n.4, p. 1145-1195) ha pubblicato gli interventi di prestigiosi giuristi sulla opportunità e/o fattibilità della riforma del Libro III, tit.III, del Code civil, che tratta “De contrats contrats ou des obligations en général”. La constatazione iniziale del giurista che procede all’esame di questo titolo è che nel corso di questi due secoli nulla è cambiato o quasi nella materia dei contratti e delle obbligazioni, perché sono stati modificati solo 31 articoli dei 238 di cui esso è composto. Questa longevità è dovuta – secondo Catala (2004, 1148) - a due ragioni concorrenti: la prima è che il nuovo diritto dei contratti è proliferato al di fuori del Codice; la seconda è che il Codice contiene poche norme imperative, riferite per lo più ai rapporti familiari, mentre il resto è costituito da norme dispositive che salvaguardano l’autonomia dei contraenti. Rémy ne aggiunge una terza: «l’antica geometria dei contratti e delle obbligazioni convenzionali è così astratta che ben poteva attraversare le fasi temporali più diverse» (2004, 1170). Si è venuta poi modificando la politica del diritto contrattuale: dal dirigismo che faceva rientrare il diritto contrattuale nel c.d. “ordre public économique” si è tornati al liberismo. La redazione di testi normativi estranei al corpo del Codice era giustificata dalla posizione ineguale delle parti e dall’esigenza di protezione della parte più debole. Di qui la nascita del diritto dei consumatori. Ma proprio questi eventi non possono – a detta di Catala – lasciare indifferente il Codice. E secondo Ghestin (1994, 1158), gli effetti del

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diritto comunitario e del diritto internazionale hanno finito per alterare l’architettura sistematica del codice creando duplicità di regimi, come accade in materia di vendita.

Le modificazioni più rilevanti del tit.III hanno riguardato la revisione delle clausole penali, il regime degli interessi moratori, il periodo di ripensamento e l’ammissione delle prove mediante l’impiego delle nuove tecnologie.

La rinnovazione del testo è così avvenuta attraverso l’opera creativa della giurisprudenza, che ha toccato la formazione del contratto, le nozioni flessibili di lealtà, buona fede, proporzionalità, la fase precontrattuale, l’ avant-contrat, l’arricchimento senza causa . Seguendo le tesi di Demogue, i giudici hanno consacrato la distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, hanno inventato l’ “obligation de sécurité” e la colpa grave ed hanno scoperto, a partire dal mandato, la nozione di “interesse comune” che governa le obbligazioni a durata indeterminata; prima ancora che fosse introdotta la direttiva n.44 del 1999, i giudici hanno distinto, all’interno della garanzia per i vizi, i contratti tra professionisti e i contratti con i consumatori.

A differenza dell’opinione oggi prevalente in Italia, che assegna alla giurisprudenza il ruolo di fonte del diritto, Catala ritiene che quest’opera encomiabile dei giudici non possa assurgere a regola normativa e quindi non solo sia mutevole ma non dia effettiva certezza giuridica dei rapporti negoziali. Anche Ghestin condivide questa opinione, dal momento che, a suo dire, molte delle sentenze della Corte di Cassazione sono equivoche e dànno luogo a incertezze nell’applicazione del Codice (GHESTIN 1994, 1153).

E veniamo alle lacune del Codice. Nulla si dice a proposito della formazione del contratto, così come a proposito delle trattative e dell’ “avant-contrat”.

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Il regime dei vizi riguarda solo il consenso, e non prende in considerazione l’obbligo di cooperazione tra le parti nello scambio di informazioni anteriori alla conclusione.Anche il regime della causa richiede modificazioni, dal momento che essa dovrebbe sindacare l’utilità dell’operazione economica e l’equilibrio delle prestazioni.Per quanto riguarda l’esecuzione del contratto, Catala suggerisce di ricorrere alla stipulazione nell’interesse del terzo per introdurre l’ azione diretta. Ed occorre risolvere il problema del collegamento negoziale, il problema dell’inadempimento unilaterale nel corso della esecuzione del contratto e il diritto del creditore alla risoluzione anticipata.A questo proposito, Ghestin ritiene che proprio la parte del Codice dedicata alle condizioni e agli effetti della risoluzione del contratto costituisca un esempio sintomatico degli inconvenienti che hanno condotto il sistema francese ad affidarsi, in questo settore, soltanto all’intervento del giudice. Ciò perché – a differenza di quanto dispone il B.G.B. – il Codice non prevede la risoluzione unilaterale del contratto, occorrendo ricorrere alla risoluzione giudiziale. I casi singolari in cui la Corte di Cassazione ha ammesso la risoluzione unilaterale in caso di prestazione inadempiuta nel corso della esecuzione del contratto da parte di uno soltanto dei contraenti sono fondati su ragioni di “urgenza”(Cass. com., 4.2.2004.). L’urgenza, secondo Ghestin, non è sufficiente, occorrendo aggiungere anche un altro requisito, consistente nella “gravità dell’inadempimento”( GHESTIN, 1994, 1155).Anche la disciplina della retroattività della risoluzione, pur creata dalla giurisprudenza, richiederebbe una precisazione, perché tali effetti sono ammessi solo nel caso di contratto unitario. Sussistono in ogni caso contrasti sul termine dal quale far decorrere gli effetti della risoluzione. Persiste poi una vera e propria situazione confusa nella distinzione tra “résiliacion judiciaire” e “résolution judiciaire”, avendo tr a l’altro

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effetti retroattivi solo la prima e non la seconda.Sicché Ghestin (GHESTIN, 1994, 1157) propone di unificare la disciplina dei due istituti.Allo stesso modo, la disciplina generale delle obbligazioni richiederebbe una riformulazione sistematica. I problemi da risolvere sono molti. Ghestin (GHESTIN, 1994, 1163) ne evidenzia uno soltanto, certamente tra i più rilevanti: il problema della causa. Un problema che nei Principi del diritto europeo dei contratti di Lando e Beale (PECL) è stato risolto in modo drastico, sopprimendo l’istituto. Ghestin non condivide questa soluzione, perché la causa consente di controllare la liceità dell’operazione, e d’altra parte la sua inesistenza incide sulla sicurezza dei rapporti. La questione allora si sposta sulla definizione di”causa”, che dovrebbe soddisfare i principi di giustizia dello scambio e di sicurezza del vincolo. La sopravvivenza nel corso di questi due secoli della nozione di causa è la prova – a dire di Ghestin (GHESTIN, 1994, 1164) della sua longevità e necessarietà. Dunque, scartata l’ipotesi della sua soppressione, restano in piedi tre diverse concezioni che ancor oggi si contendono il campo nella dottrina francese. La prima ne tratteggia un significato flessibile, diretto a sindacare la giustizia contrattuale, l’equivalenza delle prestazioni, e la loro proporzionalità.La seconda ne suggerisce una nozione articolata, diversa a seconda dei singoli settori in cui interviene.La terza ne fa uno strumento per cosi dire “nascosto” nelle pieghe delle disposizioni che regolano la formazione dell’accordo e quindi ne giustificano l’esistenza, sanzionano la sua immoralità o illiceità e quindi ne sindacano la funzione, fulminano di nullità la contrarietà dell’accordo all’ordine pubblico o ai buoni costumi e quindi ne impediscono gli effetti.Ghestin propone di scrivere un testo che si avvicini ai PECL, eventualmente facendo uso del termine “but” (scopo) anziché di quello di “causa”; il controllo della

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esistenza della causa potrebbe essere sostituito con quello sull’ oggetto. E così pure per l’inclusione dell’interesse del terzo nel contratto a suo favore, che potrebbe sostituire la causa in quel contesto, anche per l’esiguità (illusorietà o derisorietà ) della controprestazione (GHESTIN, 1994, 1166). L’interrogativo ricorrente esprime un dilemma inquietante: correggere il codice o attendere la codificazione europea?Ghestin si è schierato per una ricodificazione del diritto delle obbligazioni (GHESTIN 1994, 1159 ss.), ma ritiene che la redazione di un codice europeo sia auspicabile, anche se non nell’immediato futuro. In ogni caso, le due opzioni sono – a suo dire – incompatibili. Di qui l’iniziativa di costituire un gruppo di lavoro , inizialmente costituito da “cinque saggi” (Carbonnier, Foyer, Cornu,Malaurie e Ghestin, poi ridottosi a quattro, per la scomparsa di Carbonnier) , per redigere un “avant-propos”da sottoporre al Ministro della Giustizia. Per parte sua Rémy si chiede se la ricodificazione non possa essere per così dire “leggera”, una ricodificazione “tranquilla” come è avvenuto per il passato. Ma apre un altro inquietante interrogativo: la revisione del Codice deve mantenere i caratteri originali oppure deve avvicinarsi ai PECL – i P”Principi del diritto contrattuale europeo” redatti dalla Commissione coordinata da Ole Lando e Hugh Beale - o al progetto di diritto uniforme delle obbligazioni proposto da von Bar, inclusivo quindi delle altre fonti delle obbligazioni, diverse dal contratto? Ragionando sulla sistematica del Code civil Rémy si chiede se si debba conservare la summa divisio tra contratti e obbligazioni convenzionali, da un parte, e vincoli che si formano senza accordo, dall’altra, oppure se si debba scegliere la via tedesca, che distingue gli atti giuridici dai fatti giuridici. Anziché scegliere di costruire

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il nuovo titolo sulla manifestazione unilaterale di volontà, Rémy preferisce conservare la vecchia distinzione, che pone il “patto” in prima fila, cioè l’accordo di due o più parti, a cui poi possono seguire le regole concernenti le altre ipotesi. Ancora, Rémy respinge l’idea di disciplinare le obbligazioni in generale, dovendosi invece conservare la disciplina generale del contratto. E’ la scelta effettuata dalla Commissione di Lando e Beale, dal momento che i PECL non recano una parte dedicata alla disciplina del rapporto obbligatorio né delle obbligazioni in generale. Mentre certamente è concorde nell’abolire dal Codice la categoria dei “quasi contratti” e la distinzione tra delitti e quasi delitti, peraltro già giustiziate dalla prassi giurisprudenziale. Ne deriverebbe una sistematica che è stata fatta propria dal Codice italiano, in cui si disciplinano separatamente la responsabilità civile, l’arricchimento senza causa e l’indebito, ma Rémy non se ne avvede (p. 1178). Esclude peraltro che si debba includere nel Codice la definizione di contratto, mentre è d’accordo sulla inclusione dei principi generali sulla libertà contrattuale con cui si aprono i PECL.Coloro che più apertamente sono schierati per una ricodificazione che si avvicini ai PECL, o comunque sia prognostica di una codificazione europea in cui la cultura francese abbia una partecipazione attiva postulano però che non si tratti solo di una operazione tecnica, occorrendo per una riforma così importante, che siano chiare le motivazioni politiche dell’iniziativa (SÉRIAUX, 1189).In questa prospettiva Tallon (TALLON, 2004, 1192 ss.) confida nella considerazione dei modelli stranieri, perché la ricodificazione francese non conservi le incertezze a cui hanno dato luogo i codici vigenti nei Paesi d’ Oltralpe. In questo senso, mentre si dichiara favorevole alla modifica della disciplina della risoluzione giudiziale, consentendo al debitore di adempiere oppure di risarcire il danno, oppure consentendo al giudice di rimodellare il contratto in presenza di circostanze

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sopravvenute (e critica pertanto la Cassazione che si astiene dal modificare la clausole negoziate dalle parti) è più perplesso per altre scelte contenute nei PECL, quali ad es. le regole sulla mitigazione del danno.La via della ricodificazione è aperta dunque anche in quell’esperienza che più sembrava restia ad abbandonare - sono parole di Rémy – (op.cit., p. 1179) quel «merveilleux conservatoire de fragments de Pothier, de Domat, du Digeste ou des Institutes».  12. L’oggettivazione del diritto commerciale. 

Fin qui per le codificazioni civili e il loro rinnovamento. Ma, come si è detto, in molte esperienze la codificazione civile si accompagna, anche se non si integra, con la codificazione commerciale.

A differenza del diritto civile, il diritto commerciale, fino all’Ottocento affidato alla lex mercatoria, e poi anch’esso codificato, ha subito un processo evolutivo ben diverso dai codici civili. Innanzitutto si è svincolato dalla prospettiva soggettivistica incentrata sui commercianti per arrivare ad una vera e propria oggettivazione. Poi, ha assistito all’emersione di nuove prassi: anch’esse sono codificate, ma con codici predisposti dagli stessi operatori. Come l’oggettivazione del diritto commerciale risponde ad una generale oggettivazione del diritto, le sue origini corporative corrispondono ad una generale differenziazione del diritto secondo le varie categorie sociali. La forza del diritto commerciale è stata appunto quella di elaborare regole oggettivamente applicabili (ciò che non ebbe luogo con gli altri diritti di classe) e perciò di superare in modo sempre più completo l’originaria impronta corporativa. L’oggettivazione del diritto corrisponde alla formazione dello Stato nazionale che afferma la sua sovranità nei confronti dei particolarismi dei cittadini, essendo perciò ostile ad una

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differenziazione di disciplina giuridica secondo qualifiche soggettive.

Si è notata la stretta connessione tra diritto commerciale e attività economica; quale l’aspetto odierno della seconda? Ascarelli osserva che ad una società fondata su un’economia essenzialmente artigianale ed agricola e di un’agricoltura patriarcale, ad un capitalismo ancora prevalentemente commerciale anziché industriale, con prevalente importanza dei redditi di beni di fortuna tra le classi dominanti, e col conseguente rilievo della ricchezza ereditata, quale quella può ancora visualizzarsi dietro il Codice napoleonico e dietro l’elaborazione dogmatica della pandettistica, si è sostituita una società ove prevale la produzione industriale, ove l’agricoltura a sua volta abbandona sempre più il suo carattere patriarcale per industrializzarsi, ove il credito assume una importanza centrale ed investe tutti i rapporti, ove decade l’importanza di redditi di beni di fortuna e il rilievo della ricchezza ereditata; dominano anche nelle classi agiate i redditi di lavoro e di attività con una sempre più uguale partecipazione di uomini e donne nel lavoro e nelle responsabilità; la cultura tende a diffondersi in strati sempre più vasti, si accentua la coscienza dell’eguale dignità di tutti e il progresso tecnico provoca, permette e impone un aumento del livello di vita che può (e deve) essere generale. Alla fine dell’Ottocento e soprattutto dopo la prima guerra mondiale si reclama lo sviluppo industriale e quindi un intervento pubblicistico, vuoi per regolare quello sviluppo nel pubblico interesse, vuoi per supplire alle insufficienze dello spontaneo sviluppo industriale. Ad una ricchezza prevalentemente statica e terriera, si sostituisce una ricchezza dinamica rappresentata dai diversi beni che sono strumento di produzione di reddito.

Specialmente a partire dalla fine del sec. XIX e poi dalla prima guerra mondiale si viene accentuando l’intervento pubblico nell’economia. Esso si traduce in discipline differenziate per i vari beni: alcuni di essi vengono sottoposti ad un regime speciale sì che viene

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differenziandosi la disciplina dei beni di consumo dai beni strumentali, nonché dei vari beni strumentali; alla disciplina generale della proprietà si accompagna una disciplina della “produzione”; si introducono discipline differenziate per le varie attività economiche, ora sottoposte ad una speciale normativa, ora gestite direttamente da enti pubblici; prevale la considerazione delle energie sulle cose.

Assume notevole importanza la produzione di massa che viene ad incidere sugli schemi giuridici del tutto impreparati a riceverla.

In questo ambiente economico e sociale si pone l’unificazione del codice civile italiano 1942, favorita dalla progressiva oggettivazione del diritto commerciale.

L’unificazione (che trae insieme impulso dalla rivoluzione industriale e agricola) risponde ad un generale movimento di superamento di quella dicotomia che contrapponeva agricoltura a industria e commercio, ceti nobiliari a terzo stato mercantile.

Che cosa è oggi il diritto commerciale? Per noi, dopo l’unificazione dei due Codici, civile e di commercio nel codice civile del 1942, è ormai una categoria didascalica, accademica e concorsuale. Non è più un corpo autonomo di regole tra loro coordinate. Nella letteratura giuridica, nell’ordinamento didattico, nei raggruppamenti concorsuali, l’unificazione del diritto civile e del diritto commerciale stenta però ad affermarsi.

La concezione oggettiva conduce alla idea della unità del diritto privato: che senso ha stabilire regole particolari per la vendita, quando una delle parti è un commerciante, e regole diverse quando le parti sono entrambi non-commercianti?

L’esperienza italiana è assai interessante da questo punto di vista perché, pur essendosi unificata la disciplina, sono rimaste tracce del dualismo quanto ai contratti. Nella gran parte, essi sono applicabili indipendentemente dallo status; tuttavia, vi sono contratti che possono essere stipulati solo se almeno una delle parti è imprenditore (es. appalto, assicurazione; contratto

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di apertura di conto corrente); vi sono procedure applicabili solo al soggetto imprenditore (es. fallimento); vi sono obblighi da osservarsi solo dall’imprenditore (es. tenuta dei libri contabili); vi sono regole che si applicano a chi svolge attività d’impresa (es. responsabilità per rischio di impresa); vi sono regole interpretative del contratto che privilegiano l’impresa (art. 1368).

E’ utile sottolineare che il diritto commerciale, come diritto dei mercanti, come complesso di regole insofferenti ai confini, alle barriere (lex mercatoria) ha una forza che riesce a superare anche i grandi rivolgimenti. La Rivoluzione francese ha soppresso le associazioni (con il decreto Le Chapelier del 14.6.1791) ma ha mantenuto la libertà di commercio, la disciplina preesistente, gli stessi tribunali di commercio verso i quali non si nutriva l’avversione che si aveva per i giudici ordinari (ma v. le osservazioni critiche di BONELL, 1992, 315 ss.).    Il diritto comunitario ha modificato anche se non ha eliminato la distinzione tra diritto civile e diritto commerciale: (i) la normazione comunitaria è trasversale e settoriale; (ii) la normazione comunitaria tende a distinguere i rapporti tra professionisti e tra i professionisti e i consumatori; (iii) e tuttavia molte regole introdotte nel Trattato e nelle altre fonti riguardano tutti i soggetti, pubblici e privati, qualunque sia il loro ruolo; (iv) la Costituzione europea si preoccupa di istituire diritti fondamentali che riguardano sia i privati sia i professionisti; (v) molte regole sono dunque collegate allo status della persona (professionista, consumatore, risparmiatore, organismo pubblico, etc.).Ne è risultata anche una riformulazione della concezione del diritto commerciale, di cui si tratterà infra. 

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Bibliografia

Per i primi riferimenti v. V. van Caenegem, I signori del diritto. Giudici, legislatori e professori nella storia e uropea, Milano, 1991 e Paolo Grossi, Globalizzazione, diritto, scienza giuridica, in Foro it., 2002, V,c.163, nonché i saggi raccolti in Università e professioni giuridiche in Europa nell’età liberale, a cura di Mazzacane e Viano, Napoli, 1994.La costruzione delle linee della formazione del giurista contemporaneo emerge dai contributi offerti dai Materiali per la riforma degli studi di giurisprudenza, in Riv. crit. dir. priv., 1991, pp. 507 ss.; ma v. anche le raccolte di casi organizzate da Bessone, Casi e questioni di diritto privato, Milano, 1993; Visintini, Guida alle esercitazioni di diritto privato, Bologna, 1994; sugli aspetti dottrinali v. Pino, La ricerca giuridica, Padova, 1996; nel metodo e sulle tradizioni giuridiche v. Alpa, Corso di sistemi giuridici comparati, Torino, 1996; Sacco e Gambaro, Sistemi giuridici comparati, Torino, 1996, cui adde Diritto e tradizione. Circolazione, decodificazione e persistenza delle norme giuridiche, a cura di A.Miranda, Palermo, 2004I problemi discussi in questo capitolo hanno alla loro base alcune opere miliari : Hans Kelsen,“La dottrina pura del diritto” del 1960 (La sua prima formulazione risale al 1910); Herbert L.A. Hart Il concetto di diritto, Londra, 1961; Norberto Bobbio Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Milano, 1965.Per la discussione attuale v. Moccia, Du ‘marché’ a la ‘citoyenneté’: a la recherche d’un droit privé européen durable et de sa base juridique, in Rev.int.dr.comp., 2004,p. 291 ss.; Ferrajoli, Diritti fondamentali.Un dibattito teorico, Roma-Bari, 2001; Donati, Giusnaturalismo e diritto europeo.Human Rights e Grundrechte, Milano, 2002; per una ricostruzione storica v. Oestreich, Storia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, Roma-Bari, 2001Sempre attuale è il pensiero di Strauss, Diritto naturale e storia, Genova, 1990, che discute Hobbes (Elements of Law, scritto nel 1640, ma non pubblicato; De Cive, 1642; Leviathan, 1651) ; Locke (Saggio sull’intelletto umano; Due trattati sul governo, 1690, Grozio (De iure belli ac pacis, 1625 e Pufendorf (De iure naturae et gentium, 1672.

Questi sono i temi che accompagnano il giurista nell’era presente: v. Compagnoni, I diritti dell’uomo, Torino, 1995 ;Tarello, Il realismo giuridico americano, Milano, 1963; Castignone, Diritto, linguaggio, realtà, Torino, 1996; v. Rouland, Antropologia giuridica, Milano, 1992. L’apporto iniziale è stato offerto da Henry Sumner Maine, Ancient law, Londra, 1861, sul quale v. Capogrossi Colognesi, Modelli di stato e di famiglia nella storiografia dell’Ottocento, Roma, 1994, pp. 43 ss.; e v. anche Hoebel, Il diritto nelle società primitive, Bologna, 1973L’espressione “Diritto privato naturale” si deve al nobile austriaco Francesco de Zeiller, che pubblica un libro con questo titolo tradotto in italiano a Milano nel 1830.

Ludwig Kaiser (Il futuro del diritto privato, ne I compiti del diritto privato, 1971, trad. it., Milano, 1990, p. 222) riapre il dibattito nella Germania del secondo dopoguerra; il tema era stato già trattato da Alexandre Kojéve (Linee di una fenomenologia del diritto, 1943, trad. it., 1989, p. 135; Adolf Reinach, già parlava di “entità giuridiche esistenti indipendentemente dal diritto positivo” (I fondamenti a priori del diritto privato, 1913, trad. it., 1990, p. 8; Bourbon, Napolèon au Conseil d’Etat, notes et procès-verbaux inèdits de jean-Guillaume locrè, secrètaire génèral du Conseil d’Etat, Paris, 1963, 328 ss.

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Il problema della codificazione è affrontato in modo esauriente da J.L. Halpérin, L’impossibile Code civil, cit, p. 109 ss; il dibattito sui pericoli della codificazione risale a F. v. Savigny, La vocazione del nostro secolo per la legislazione e la giurisprudenza, Heidelberg, 1814; il testo è stato tradotto in italiano per una edizione veronese del 1857, da cui sono tratte le citazioni (v. in particolare p. 132); è stato ritradotto a cura di G. Marini, nel volume A.F. Thibaut - F.C. Savigny, La polemica sulla codificazione, Napoli, 1982),; ma v. anche S. Rodotà, Il terribile diritto, Bologna, 1980Sui modelli codificati v. G. Solari, L’idea individuale e l’idea sociale nel diritto privato. Parte I. L’idea individuale, Torino, 1911; di G. Solari - maestro di N. Bobbio - è invece ancora ristampata La filosofia politica, Roma-Bari, 1974; v. da ultimo G. Alpa, Storia del diritto civile italiano, cit., cap.V.), assai discusso il secondo (A. J. Arnaud, Les origines doctrinales du Code civil français, Parigi, 1969; su Arnaud v. Tarello, A proposito del Code Napoléon, ora in Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna, 1988, p.122 ss..). Gioele Solari tratta del Code civil, insieme con il Codice prussiano e il Codice austriaco in una delle sue opere più famose, L’idea individuale e l’idea sociale nel diritto privato. Parte I. L’idea individuale G. Solari, cit., p.170 ss.Se ne parlerà più oltre (v. il testo postumo con il titolo Socialismo e diritto privato. Influenza delle odierne dottrine socialiste sul diritto privato, 1906, nell’edizione curata da P. Ungari, Milano, 1980). A proposito del diritto di famiglia v. G. Alpa, M. Bessone, A. D’Angelo, G. Ferrando, M.R. Spallarossa, La famiglia nel nuovo diritto, nuova ed., Bologna, 1998 ( e , ovviamente, Fenet, Réueil complet des travaux préparatiores de Code civil, Parigi, t. XII, 1836, p.318), e P. Grossi, Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, 1998, p.428Come è noto, le fonti primarie del codice napoleonico sono date dalla tradizione romanistica, dalle consuetudini e da Domat e Pothier, i due “juristes vulgarisateurs”, come li chiamava Crome (Les Similitudes du Code civil allémand et du Code civil français, nel Livre du Centenaire, cit., p.605, di Crome v. pure Parte generale del diritto privato francese moderno, trad. con note di A. Ascoli e F. Cammeo, Milano, 1906, p.6); sul punto v. Alpa, Istituzioni di diritto privato, 2° ed., Torino, 1997, p.792

I grandi ermeneuti hanno assunto il codice napoleonico come laboratorio principe: v.Gény, La techique législative dans la Codification civil moderne (à propos du Centenaire du Code civil) nel Livre du Centenaire, Parigi, 1904, p.991

Sull’interpretazione della legge v. le opere di Betti, sul quale v. ora i saggi raccolti da G. Crifò con il titolo Diritto, metodo, ermeneutica, Milano, 1991); sulle sue teorie ermeneutiche v. Griffero, Interpretare. La teoria di Emilio Betti e il suo contesto, Torino, 1988), del realismo giuridico (come Tarello del quale v. Il realismo giuridico americano, Milano, 1962

Sacco rappresenta egregiamente l’intera problematica (v. le sue pagine sull’interpretazione nel Trattato di diritto civile, diretto dallo stesso Sacco, vol.2, Torino, 1998); confr. inoltre Zaccaria, L’arte dell’interpretazione. Saggi sull’ermeneutica giuridica contemporanea, Padova, 1990; Viola e Zaccaria, Diritto e interpretazione. Lineamenti di teoria ermeneutica del diritto, Roma-Bari, 1999

Ma costituiscono ancora un punto essenziale nel dibattito le pagine di Astuti, Il “Code Napoléon” in Italia e la sua influenza sui codici degli Stati italiani successivi, in Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli; 1984, I, p.728; Nicolò, Codice civile, voce dell’Enc.dir., vol. VII, Milano, 1960, p.240 ss.; Rodotà, Il terribile diritto, cit.; Irti, Codice civile e società politica, Roma-Bari, 1995; Tarello, Storis della cultura giuridica moderna, Bologna, 1976; Ghisalberti, La codificazione del diritto in Italia, Roma-Bari, 1978.; Mengoni, I cinquant’anni del Codice civile: considerazioni sulla parte generale delle obbligazioni, in Scritti in onore di R.Sacco. La comparazione giuridica alle soglie del terzo millennio, Milano, 1994, II, p. 752; Petronio, La concezione di

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Code civil fra tradizione e innovazione (con un cenno alla sua pretesa “completezza”) in Quad. Fior., 1998, n.27, p.96 ss. Nello stesso senso si erano già espressi Gény, op.cit., p.1002 ss, ove ampi riferimenti alle coutûmes, alle leggi rivoluzionarie, ai progetti di “codici” e Tunc, The Grand Outlines of the Code, in The Code Napoleon and the Common Law World, a cura di B. Schwarz, New York, 1956, p.19).

I lavoro preparatori del codice napoleonico si rinvengono in Fenet, Récueil complet des travaux préparatoires du Code civil, cit., t. IV, p.36).

Per il codice tedesco v.O. von Gierke, Das buergerlicher Gesetzbuch und der deutsche Reichstag, Berlino, 1896, p.13-14).; v. Müller, Le Code civil en Allemagne. Son influence générale sur le Droit du Pays, son adaptation dans les pays rhénans, nel Livre du Centenaire, op. cit., p. 627 ss.; Gény, op. cit, p.1025., ma anche Ghestin, Traité de droit civil. Introduction générale, con la collaborazione di Goubeaux e Fabre-Magnan, Parigi, 1994, p. 5 e già Zeiller v. il Diritto privato naturale, trad. it., Milano, 1830

La storia della codificazione tedesca è magistralmente riassunta in Wieacker, Storia del diritto privato moderno, Milano, 1980; e Larenz, Storia del metodo nella scienza giuridica, Milano, 1966.

Sull’aggiornamento del BGB v. ora Larenz, Introduzione al BGB, ne La riforma del Codice civile, Padova, 1994, p. 297, trad. it. a cura di Adezati; A. Somma, La “purificazione” del sistema giuridico: riflessioni su un percorso tedesco, in Vita not., 1993, I, p.1116.. Il nuovo testo del B.G.B. tradotto in italiano di deve a Patti, Milano, 2005

Il dibattito sulla codificazione è ancora in corso in Italia:v. Natalino Irti Leggi speciali (dal mono-sistema al polisistema), in Riv.dir.civ., 1979,I, p. 141 ss; Paolo Grossi in Codici, a cura di P.Cappellini e B.Sordi, Milano, 2002, p. 599;Patti, Tradizione civilistica e codificazioni europee, in Riv.dir.civ., 2004, I, p. 521 ss.; AA.VV.I cento anni del codice civile tedesco in Germania e nalla cultura giuridica italiana, a cura di G.Cian, 2002; Cian, Significato e lineamenti della riforma dello Schuldrecht tedesco,in Riv.dir.civ., 2003, I,p.5; di Cian v. inoltre La figura generale dell’obbligazione nell’evoluzione giuridica contemporanea fra unitarietà e pluralità di statuti, in Riv.dir.civ., I, 2002, p. 421 ss.).Cian, La riforma del B.G.B. in materia di danno immateriale e di imputabilità dell’atto illecito, in Riv.dir.civ., 2003,II, p. 125 ss.; Schulte-Noelke, Ein Vertragsgesetzbuch fuer Europa?, in JZ, 2001, p. 917 ss; Daubner-Lieb, Vers un droit européen des obligations? Enseignements tirés de la riforme allemande du doirt des obligations, in Rev. int.dr. comp., 2004, p. 559 ss.).

Il bicentenario del codice napoleonico ha riaperto il dibattito sulla sua attualità :Code civil des Français,1804, a cura di J.D.Bredin, Parigi, 2004Le Code civil, 1804-2004.Livre du Bicentenaire, (Parigi, 2004) curato dalla Corte di Cassazione, dall’ Ordine degli Avvocati al Conseil d’Etat e dall’Associazione Henri Capitant, e 1804-2004.Le Code civil.Un passé, un présent, un avenir (Parigi, 2004), organizzato dalla Università Panthéon-Assas(Paris II). Gaudemet, ivi, p.297 ss Malarie, op.cit., p.1 ss.; Terré, ivi, p. 899 ss.; Carbonnier, op.cit., p. 1045 ss Leveneur, ivi, p. 925 ssFavoreu, La constitutionnalisation du droit, in Melanges Drago, Parigi, 1996, p. 25 sZoller, op.cit.,p. 988 ss.).Tallon, op.cit.,p. 1002 ma v. le osservazioni critiche di Bonell, La moderna lex mercatoria tramito e realtà, in Dir.comm.int., 1992, pp.315 ssDa ultimo v. Rodotà, Il codice civile e il processo costituente europeo, in Riv.crit.dir.priv., 2005, n.1; Joerges, Cosa resta della costituzione economica europea?, in Riv.crit.dir.priv., 2005, n.1; Somma, Giustizia sociale nel diritto europeo dei contratti, in Riv.crit.dir.priv., 2005, n.1; AA.VV., Giustizia sociale nel diritto contrattuale europeo: un manifesto, in Riv.crit.dir.priv., 2005, n.1

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