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217 Capitolo II PER UNA CRONISTORIA DEL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO I DATTILOSCRITTI DEL PREMIO NAZIONALE RICCIONE 1947 1. Romanzo e nevrosi: la riconquista delle cose «Caro Marcello, scusa se son stato zitto tanto tempo. Figurati se metto superbia proprio io! A Riccione se partecipavi vincevi anche tu. Il verdetto della giuria fortunatamente i giornali non l’hanno pubblicato: diceva che non c’era nessun romanzo che valesse gran che, e quei due erano appena appena i meno peggio.» 1 Così, in data 26 settembre 1947, quasi a ridosso dell’uscita del Sentiero dei nidi di ragno, l’incipit della lettera al sodale Venturi, l’amico scrittore col quale Calvino intrattiene in questi anni un fitto epistolario. Niente da celebrare, anzi: l’opinione della giuria del Premio Nazionale Riccione, che l’ha premiato ex-aequo con Fabrizio Onofri 2 , si aggiunge come ulte- riore nota dissonante al già contrastato concerto di giudizi espressi sull’ancora inedito scartafac- cio: «I pareri sul romanzo di chi l’ha letto finora sono molto vari: secondo Pavese è bellissimo, secondo Natalia anche, secondo Ferrata è sbagliato, senza fantasia, scritto in gergo, pieno di con- venzioni e non so cosa altro, secondo Vittorini così così, secondo Balbo il primo romanzo marxista, secondo i miei genitori un insieme di sconcezze che non capiscono come il loro figlio abbia potuto scrivere». 3 1 I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit., p. 203. (Le citazioni seguenti dal volume delle Lettere includeranno solo destinatario, data e pagina.) 2 «La giuria del Premio Nazionale Riccione per un romanzo, presieduta da Sibilla Aleramo e presenti i seguenti giudici: Mario Luzi, Guido Piovene, Cesare Zavattini, esaminati i ventotto manoscritti concorrenti non ha potuto riscontrare in nessuno di essi qualità artistiche tali da suscitare il suo deciso consenso. […] la giuria ha però constatato che un terzo delle opere sottoposte al suo esame erano degne di considerazione per la com- mossa partecipazione dimostrata dai concorrenti alle recenti vicende della nostra vita nazionale, e segnala […] tra questi per migliori qualità letterarie i romanzi di Italo Calvino e di Fabrizio Onofri, tra i quali la giuria ha deliberato di dividere ex-aequo il premio.» (Archivio della Fondazione Premio Riccione, Collocazione: b 2 1947, fascicolo 2, Segreteria; citato per intero in A. DINI, Calvino al Premio Riccione 1947 cit.). Curiosamente, Calvino riecheggia le parole che Sibilla Aleramo aveva scritto sul proprio diario il 15 agosto, giorno della premiazione, in merito alla qualità letteraria del Sentiero, «libro che non è neppur esso un capolavoro, ma è indubbiamente assieme a quello di Onofri quanto di meno peggio è stato mandato al concorso» (S. ALERAMO, Diario di una donna. Inediti 1946-1960, cit., p. 152). 3 A Silvio Micheli, 20 giugno 1947, p. 194. D’altro canto, il romanzo era stato apposta concepito come «un bocco- ne un po’ amaro da ingoiare per palati conservatori e benpensanti» e non certo come cosa da «passare sotto silenzio» (A Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, p. 177). Le reazioni discordanti finita la lettura era quasi date per scontato, per questo testo «molto scabroso e difficile» (A Marcello Venturi, 5 gennaio 1947).

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    Capitolo IIPER UNA CRONISTORIA DEL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNOI DATTILOSCRITTI DEL PREMIO NAZIONALE RICCIONE 1947

    1. Romanzo e nevrosi: la riconquista delle cose

    «Caro Marcello, scusa se son stato zitto tanto tempo. Figurati se metto superbia proprio io! ARiccione se partecipavi vincevi anche tu. Il verdetto della giuria fortunatamente i giornali nonl’hanno pubblicato: diceva che non c’era nessun romanzo che valesse gran che, e quei due eranoappena appena i meno peggio.»1 Così, in data 26 settembre 1947, quasi a ridosso dell’uscita delSentiero dei nidi di ragno, l’incipit della lettera al sodale Venturi, l’amico scrittore col quale Calvinointrattiene in questi anni un fitto epistolario. Niente da celebrare, anzi: l’opinione della giuria delPremio Nazionale Riccione, che l’ha premiato ex-aequo con Fabrizio Onofri2, si aggiunge come ulte-riore nota dissonante al già contrastato concerto di giudizi espressi sull’ancora inedito scartafac-cio: «I pareri sul romanzo di chi l’ha letto finora sono molto vari: secondo Pavese è bellissimo,secondo Natalia anche, secondo Ferrata è sbagliato, senza fantasia, scritto in gergo, pieno di con-venzioni e non so cosa altro, secondo Vittorini così così, secondo Balbo il primo romanzo marxista,secondo i miei genitori un insieme di sconcezze che non capiscono come il loro figlio abbia potutoscrivere».3

    1 I. CALVINO, Lettere 1940-1985, cit., p. 203. (Le citazioni seguenti dal volume delle Lettere includeranno solodestinatario, data e pagina.)

    2 «La giuria del Premio Nazionale Riccione per un romanzo, presieduta da Sibilla Aleramo e presenti i seguentigiudici: Mario Luzi, Guido Piovene, Cesare Zavattini, esaminati i ventotto manoscritti concorrenti non hapotuto riscontrare in nessuno di essi qualità artistiche tali da suscitare il suo deciso consenso. […] la giuria haperò constatato che un terzo delle opere sottoposte al suo esame erano degne di considerazione per la com-mossa partecipazione dimostrata dai concorrenti alle recenti vicende della nostra vita nazionale, e segnala […]tra questi per migliori qualità letterarie i romanzi di Italo Calvino e di Fabrizio Onofri, tra i quali la giuria hadeliberato di dividere ex-aequo il premio.» (Archivio della Fondazione Premio Riccione, Collocazione: b 21947, fascicolo 2, Segreteria; citato per intero in A. DINI, Calvino al Premio Riccione 1947 cit.). Curiosamente,Calvino riecheggia le parole che Sibilla Aleramo aveva scritto sul proprio diario il 15 agosto, giorno dellapremiazione, in merito alla qualità letteraria del Sentiero, «libro che non è neppur esso un capolavoro, ma èindubbiamente assieme a quello di Onofri quanto di meno peggio è stato mandato al concorso» (S. ALERAMO,Diario di una donna. Inediti 1946-1960, cit., p. 152).

    3 A Silvio Micheli, 20 giugno 1947, p. 194. D’altro canto, il romanzo era stato apposta concepito come «un bocco-ne un po’ amaro da ingoiare per palati conservatori e benpensanti» e non certo come cosa da «passare sottosilenzio» (A Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, p. 177). Le reazioni discordanti finita la lettura era quasi dateper scontato, per questo testo «molto scabroso e difficile» (A Marcello Venturi, 5 gennaio 1947).

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    Dopo la bocciatura ottenuta nei primi mesi del ’47 al Premio Mondadori4, con il deciso niet diGiansiro Ferrata5, cui aveva fatto invece da pendant l’entusiasmo di Cesare Pavese che, lettore perEinaudi nel gennaio, lo aveva raccomandato per la collana «Narratori contemporanei»6, il Sentierocolleziona poi il tiepido assenso di Elio Vittorini in maggio7, per trovarsi di nuovo sotto mira aRiccione in agosto8, suo malgrado vincitore (ma alla pari). Consolazione postuma, un più veloce

    4 «[…] Pavese lo incoraggia a scrivere un romanzo; lo stesso consiglio egli riceve a Milano da Giansiro Ferratache è nella giuria d’un concorso per un romanzo inedito, indetto dalla casa Mondadori come primo sondaggiodei nuovi scrittori del dopoguerra. Il romanzo che Calvino finisce appena in tempo per la scadenza del 31dicembre 1946 […] non piacerà né a Ferrata né a Vittorini e non entrerà nella rosa dei vincitori (Milena Milani,Oreste Del Buono, Luigi Santucci)» (I. CALVINO, Nota introduttiva a Gli amori difficili, in Romanzi e racconti, t.2,cit., pp. 1282-1299. La citazione è a p. 1283). Un breve profilo della cronistoria del romanzo in merito alla genesisi trova in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t.1, cit., p. 1243-1250 ein F. SERRA, «Gli esordi difficili» cit. (in particolare le pp. 44-48: Serra fa meritoriamente ampio uso dell’episto-lario calviniano, generoso di scambi sui mesi successivi la scrittura, per cui si rimanda anche a I. CALVINO,Lettere 1940-1985, cit., pp. 162-214 passim).

    5 A Marcello Venturi, 23 aprile 1947, p. 188: «Ferrata me l’ha stroncato per M[ondadori]; mi ha scritto una letteracon una completa stroncatura del lavoro, definendolo mancante d’invenzione, troppo «tranche de vie», scrittoin gergo. Tutte ragioni che non mi convincono affatto: posso benissimo capire che il mio romanzo sia da stron-care, ma le ragioni addotte da F[errata] mi sembrano quanto mai peregrine». A pubblicazione ottenuta, Calvi-no riannoderà il dialogo con una lettera del 6 dicembre: «Caro Giansiro, tanto che non ci scriviamo. […] Ilsentiero si vende, c’è chi ne dice bene, chi così così, e chi lo stronca. Nessuno mi convince del tutto. La più fierastroncatura rimane la tua, e non nego che tu possa aver ragione. Ma so anche che non c’intenderemmo mai inun romanzo e che per ora certo non riuscirò a scrivere meglio» (p. 207). Si cfr. anche la lettera a Elsa Morantedel 3 settembre 1948, p. 230: «[Ferrata] incoraggiò e lodò i primi racconti, poi stroncò il romanzo con ragioniche non m’hanno mai persuaso».

    6 «È senz’altro da stampare nei N. C.» (C. PAVESE, in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno», cit., p. 1244). Suquesta collana, ecco quanto indica l’editore stesso: «Realizzata nel 1941 e confluita nel 1947 nei “Coralli’, que-sta iniziativa si proponeva di “raccogliere senza alcun pregiudizio di scuola, narrazioni autentiche e impegna-tive’» (Cinquant’anni di un editore. Le edizioni Einaudi degli anni 1933-1983, Torino, Einaudi, 1983, p. 567). Ilromanzo non si sottrae comunque alle attente cure dello scrittore piemontese: lo spazio dei «Coralli», che loaccoglie, sarà altrettanto «fortemente segnato»dal suo impegno (Ibidem., p. 579).

    7 «Caro Calvino, ho dato a Einaudi parere favorevole per il tuo libro. Però non sono del tutto d’accordo, tu saigià come e perché, ormai ci conosciamo […]» (E. VITTORINI, Gli anni del «Politecnico». Lettere 1945-1951, cit., p.121.) Scelto anche come giudice per il concorso riccionese, Vittorini non partecipa ai lavori, anche se invia daSarzana, il 16 agosto, un telegramma per la giuria in soccorso a Calvino («Voto pro Italo/ Calvino Saluti/Vittorini») che non viene però menzionato dall’Aleramo o in altri documenti a Riccione come decisivo per l’ex-aequo. La riproduzione fotografica del telegramma appare nell’articolo di Pier Vittorio Tondelli, Cabine! Cabi-ne! Immagini letterarie di Riccione e della riviera adriatica, in AA.VV. Ricordando fascinosa Riccione. Personaggi, spet-tacolo, mode e cultura di una capitale balneare, a c. di G. Capitta e R. Duiz, Bologna, Grafis Edizioni, 1990, p. 139,riprodotto ora in AA.VV., Pier Vittorio Tondelli. Riccione e la Riviera vent’anni dopo, a c. di Fulvio Panzeri, Guaral-di, Rimini, 2005, p. 122. Brevi notizie sulla cronaca del Premio si trovano anche in S. PIVATO, Provincia e nonprovincia. Le origini del Premio Riccione e la cultura in Romagna nel secondo dopoguerra, cit., pp. 9-21 (cfr. in partico-lare pp. 15-17).

    8 Oltre al giudizio dell’Aleramo, riportato sul diario edito nel 1978 (cfr. qui n.2), l’unico altro parere scritto delPremio Riccione 1947 è un telegrafico appunto di Mario Luzi: «Italo Calvino / Il sentiero dei ragni [sic] /Segn[alato] da Aleramo. Abbastanza abil[mente] approfitta della tecnica oggi diffusa da Vitt[orini] a Pratolini.Non manca qualcosa di buono, di vivace. Ma il racconto risulta un po’ immobile» (in A. DINI, Calvino al PremioRiccione 1947 cit., p. 47)

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    approdo tipografico: «Il romanzo uscirà tra pochissimo. Il premio ha accellerato la pubblicazione.Sarà un “corallo”, collana che io odio, per come si presenta. Avrà un brutto disegno di Morlottiappiccicato sopra»9. Numero 11 della serie, il libro di Calvino è preceduto da Pavese con Il compa-gno e da Natalia Ginzburg di È stato così – che inaugura la serie; tra gli stranieri, al n. 9 da La disfattadi Fadeev, cioè dall’archetipo russo corrispettivo del Sentiero10 e da calibri come Hemingway (Ave-re e non avere) e Sartre del Muro (cui farà seguito al n. 13, nel 1948, La nausea). Il vincitore del PremioViareggio 1946 Silvio Micheli 11 e Pier Quarantotti Gambini fanno anche parte del catalogo 1947,rispettivamente con Un figlio ella disse e L’onda dell’incrociatore.

    La collocazione di un esordiente in questa galleria di talenti, complice il (relativo) chiasso delPremio attribuitogli12, è una intuizione editoriale che il mercato non smentisce. Quanto la stradaper arrivare alla pubblicazione è stata costellata da brusche frenate, tentennamenti e piccole ama-rezze, tanto la ricompensa giunge repentina.

    Accompagnato dalla laudatio pubblica di Pavese che lo colloca in evidenza nel panorama lette-rario («il più bel racconto che abbiamo sinora sull’esperienza partigiana», scrive l’amico-maestro),13

    9 A Marcello Venturi, 26 settembre 1947, p. 203. L’antipatia per la collana era già stata ribadita nella lettera aMicheli del 27 luglio (p. 197): «Siamo tutti bravi, noi “coralli’. Però più me lo ripeto questo nome, meno mi vagiù. Io non riesco a sentirmi “corallo’». Le 105 carte del dattiloscritto riccionese si convertono in 209 pagine dicm. 13x19.5, rilegate con una copertina rigida cartonata, senza corredi paratestuali. Da un riquadro della co-pertina spicca il temuto disegno a colori di Ennio Morlotti, pensato sulla falsariga di un dipinto infantile: inprimo piano, due volti appena abbozzati, e case alte e strette sullo sfondo, separate da una ripida strada agradini. Si anticipa l’ambientazione del romanzo nei carrugi liguri, e fors’anche il tema dell’infanzia, convo-gliatovi obliquamente tramite lo stile raffigurativo.

    10 A La disfatta Calvino dedicherà un’importante recensione su «L’Unità» del 2 novembre 1947 (opportunamenteintitolata L’Uomo Nuovo nel romanzo sovietico, ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t. 1, cit., pp. 1309-1311), in cuisembra quasi riflettere sul suo stesso romanzo, in cui «lungi dall’esser rappresentati come modelli di discipli-na e di virtù, i partigiani sono studiati nella loro colorata vivezza, nei loro risentimenti ancora sordi e informi»(p. 1310). Torneremo in seguito su quest’interpretazione, specialmente per il linguaggio usato nella recensione,che riecheggia lettere, articoli e persino il Sentiero (col capitolo IX, cuore ideologico del testo) nella sua valuta-zione dei compiti dello scrittore alla prese col romanzo dell’“uomo nuovo’.

    11 Con Pane duro (Torino, Einaudi, 1946) al quale Calvino aveva dedicato una entusiasta recensione su «L’Unità»il 12 maggio, prima dell’assegnazione del Premio (Adesso viene Micheli, l’uomo di massa –ora in I. CALVINO, Saggi1945-1985, t.1, cit., p. 1170-1175). da cui aveva poi preso avvio il rapporto epistolare (al 22 maggio, si cfr. I.CALVINO, Lettere 1940-1985, cit., p. 158-159) e di collaborazione alla rivista viareggina di Micheli, «DarsenaNuova».

    12 «[…] questo è proprio un caso che Einaudi “s’impegnò” con un lancio pubblicitario-per il Sentiero- forse addi-rittura esagerato» (lettera a Geno Pampaloni, 2 novembre 1949, p. 257): Calvino smentisce qui le interferenzedell’editore sui premi letterari («noi non abbiamo mai avuto bisogno di dar spinte “prima”: ci siamo semprelimitati, come è usanza, a “sfruttare” pubblicitariamente i premi “dopo”» ivi, p. 256). Il diretto coinvolgimentodi Vittorini nel Premio Riccione (colla raccomandazione a votare per Calvino) potrebbe, però, dar la corda acerte insinuazioni di Pampaloni.

    13 C. PAVESE, «Il sentiero dei nidi di ragno», «L’Unità», Roma, a. IV, N.S., 26 ottobre 1947, p. 3 (ora in La letteraturaamericana e altri saggi, a c. di I. Calvino, Torino, Einaudi, 1951, pp. 273-276). La recensione riechieggia la notaeditoriale enaudiana del 23 gennaio («È senza dubbio il primo racconto che a mio parere faccia poesia del-l’esperienza partigiana», in B. FALCETTO, «Il sentiero dei nidi di ragno» cit., p. 1243), giudizio che Calvino,

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    il libro riceve l’attenzione critica immediata del difficile Enrico Emanuelli, di Franco Fortini (chel’appaia a Quarantotti Gambini nella sua recensione) e di Arrigo Cajumi (conquistandosi, con que-st’ultimo, addirittura una colonna sulla prima pagina della «Stampa»assieme a Se questo è un uomodi Primo Levi), cui fa da contrasto la sola (ma sonora, e illuminante) stroncatura di Enzo Giachi-no14. Le recensioni tutto sommato benevoli si accrescono di numero nei mesi successivi, già neldicembre con Ferrata15, seguìto, nel nuovo anno, da Giuseppe De Robertis, Goffredo Bellonci, Clau-dio Varese e, quasi riscontro obbligato per il soggetto del romanzo, dai giornalisti che scrivono peri fogli della sinistra (Caprara, Ronfani, Mazzocchi)16.

    A promuovere il libro contribuisce «Rinascita» (dello stesso agosto)17 e, dopo le congratulazioniin diretta a seguito del Premio Riccione il 17 agosto, «L’Unità» il 20 novembre, che ne pubblica il

    ancora «sulle spine» per le decisioni relative al Mondadori, aveva comunicato al fido Venturi (il 7 febbraio, p.181).

    14 E. EMANUELLI, Il figlio dei botanici comincia a scrivere romanzi, «L’Europeo», Milano, a. III, n. 45, 9 novembre 1947(Emanuelli tornerà su Calvino col suo pseudonimo IL PESCATORE, in un articolo intitolato «Il “recitativosecco”», «L’Umanità», Milano, a.I, n. 236, 4 dicembre 1947); F. FORTINI, Due storie di ragazzi, «Avanti!», Milano,a. III (N.S.), 16 novembre 1947 (cfr. la lettera di Calvino del 3 dicembre 1947, p. 206); A. CAJUMI, Immaginiindimenticabili, «La Nuova Stampa» [già «La Stampa»], Torino, a.III, N.S., n. 277, 26 novembre, p. 1 (che Calvi-no ringrazia per lettera il 23 dicembre 1947, p. 211) Di E. GIACHINO, Il primo della classe, «Mondo nuovo»,Torino, a.I, n.247, 20 novembre 1947, p. 3. Si cfr. S. PERRELLA, Calvino, cit., pp. 220-222, che trascrive in parte larecensione e la discute. (Si cfr. anche l’appendice di questo saggio, per le recensioni coeve al Sentiero.) Calvinostesso tornò su Giachino nel 1956, in risposta a una domanda sulla ricezione critica della propria opera: «Tuttisono stati fin troppo favorevoli verso i miei libri, fin dal principio […]. I pochissimi critici sfavorevoli sonoquelli che m’intrigano di più, quelli da cui mi aspetto di più: ma una critica negativa che sia seria e approfon-dita, che m’insegni cose utili, ancora non sono riuscito a averla. Ebbi un articolo di Enzo Giachino, quando uscìIl sentiero dei nidi di ragno, una stroncatura assoluta, totale, da togliere la pelle, spiritosissima, che è forse unodei più begli articoli che siano stati mai scritti su miei libri, uno dei pochi che ogni tanto mi prendo il gusto dirileggere, ma servire non mi serviva a niente neanche quello: colpiva solo gli aspetti esteriori del libro, cheavrei superato anche da solo» (in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t.2, cit., pp. 2710-2711, che riproduce un’inchie-sta originalmente apparsa su «Il Caffè», a.IV, n.1, gennaio 1956). Sarà necessario ritornare in seguito su questaimportante recensione.

    15 G. FERRATA, La Resistenza dà i primi frutti alla letteratura, «L’Unità», Milano, 16 dicembre 1947: assai tiepida,piena di riserve e di distinguo, non è totalmente negativa come gli scambi privati con Calvino e la bocciature alMondadori (cfr. qui dietro, n. 5) lascerebbero presagire. Si tratta forse di un gesto (parziale) di riparazione,adesso che il volume è stato pubblicato? Si cfr, anche G. FERRATA, in «Libera Stampa» (Lugano), 9 gennaio1948.

    16 G. DE ROBERTIS, Le ragnatele di Calvino, «Tempo», Milano, a.X, n.4, 24-31 gennaio 1948, p. 15 (ora in Altro Nove-cento, Firenze, Le Monnier, 1962, pp. 567-569; si cfr. la lettera di Calvino in data 6 febbraio 1948, p. 214); G.BELLONCI, Italo Calvino tra i contemporanei, «Mercurio», Roma, a.V, n. 35, febbraio 1948, pp. 103-108; M. CA-PRARA, [«Il sentiero dei nidi di ragno»] «Rinascita», Roma, a.V, n. 2, febbraio 1948, p. 86; U. RONFANI, [ItaloCalvino: «Il sentiero dei nidi di ragno», Einaudi], «Socialismo», Milano, a.IV, n.3-4, marzo-aprile 1948; M.MAZZOCCHI, Ancora un neorealista, «L’Italia socialista», Roma, a.VI, N.S., n.94, 22 aprile 1948; C. VARESE, Scrit-tori d’oggi, «Nuova Antologia», Roma, a.LXXXIII, n.2, maggio-agosto, 1948, pp. 102-104, cui si aggiunga anchela recensione più regionale di M. MAGNI, Sentiero dei nidi di ragno, «Giornale del Popolo», Bergamo, a.IV, n.16,19 gennaio 1948 e infine L. ANDERLINI, in «Quarto Stato», 30 gennaio 1949.

    17 Due ragazzi in prigione [da Il sentiero dei nidi di ragno], in «Rinascita», a.IV, n.8, agosto 1947, p. 4.

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    sesto capitolo sulla terza pagina dell’edizione torinese di cui Calvino è collaboratore, sotto il titoloSe non ci credete datemi un’arma (il cui occhiello recita, appena fuori tiro, «Da un romanzo di guerrapartigiana»). La discreta accoglienza di mercato fa assurgere il libro a piccolo cult resistenziale,tanto da rendere necessaria una ristampa fulminea per assicurarne copie per l’anno 194818.

    A causa dell’impiego nella casa editrice Einaudi19 i mesi dell’uscita del Sentiero sono per Calvi-no un periodo di assestamento e di ridefinizione dei propri obiettivi. Corrispondono ad un rallen-tamento nella produzione giornalistica20 e a una svolta nella narrativa (contagiato adesso, com’èlui, dal “mal di romanzo”).21 La “malattia” creativa, vis-a-vis alle discrepanze di giudizio sulla suaproduzione, non è solo uno stato di febbrile attività, con cui saggiare i propri mezzi e possibilità;riguarda bensì anche una crisi compositiva interna da imbrigliare, causata da una possibile manie-rizzazione da lui stesso sentita alternativamente nella scrittura dei racconti o del romanzo, lo sca-dere cioè in modi ripetitivi di stilizzazione, in una temuta “cifra” di temi, stilemi e sintagmi auto-matici22, pericoli da lui stesso spiattellati in pubblico con la consueta baldanza autocritica23.

    18 Il finito di stampare del volume, a Torino presso la tipografia Francesco Toso per l’editore Einaudi, è del 10ottobre 1947. È già del mese successivo, il 10 novembre, il finito di stampare per la «seconda edizione» indicatasul foglio di guardia con il copyright 1948 (e l’indicazione «seconda edizione» è riportata in copertina). Il fattoè ricordato direttamente anche nella recensione di M. MAGNI sul «Giornale del Popolo» (Bergamo, a.IV, n.16,19 gennaio 1948): «Non è difficile dissentire dal parere di una giuria, ma non si può restare indifferenti al fattoche un libro, appena premiato, esaurisca l’edizione». Nella prefezione anonima dell’edizione per la «PiccolaBiblioteca Scientifico-Letteraria» (PBSL) Einaudi, in cui riappare nel 1954, Calvino indica come il libro «ebbeun largo successo di pubblico, esaurendo in breve volger di tempo due edizioni» (I. CALVINO, Il sentiero dei nididi ragno, Torino, Einaudi, 1954, p. 8). Secondo quanto ricorda pubblicamente Calvino, del Sentiero «se ne ven-dono seimila copie: un discreto successo, per quell’epoca» (I. CALVINO, Nota introduttiva cit., p. VI). Ma si cfr. F.SERRA, Calvino cit., p. 359, che sulle stime di Roberto Cerami fa scendere però il numero a tremila. Nella letteradel 25 luglio 1948, spedita al padre, Calvino indica il numero di copie vendute nel giro di dieci mesi: «Del librosono state vendute 3832 copie: non molto» (p. 226). Verificato oggi, cifre alla mano, il successo sembra piùdecisamente stabilirsi sul versante critico che per numeri di lettori, a fronte di tirature editoriali tutto sommatoprudenti

    19 A Marcello Venturi, 26 settembre 1947, p. 203: «Adesso io lavoro da Einaudi. Rivedo bozze e manoscritti, leggolibri stranieri, compilo bollettini tutto il giorno. È brutto lavorare. Non resta più tempo di lavorare per sè».

    20 A Giansiro Ferrata, 6 dicembre 1947, p. 207: «[…] Con “l’Unità” di qui ho litigato. Da un po’ di tempo pubblicomolto poco sulle terze pagine».

    21 Si cfr. la lettera all’amico sanremese Enrico Ardù dell’11 dicembre 1947, p. 208: «ormai non trovo più il tempodi terzapaginizzare: faccio il travet tutto il giorno e il “mal del romanzo” ormai non mi lascia più e mi ruba imomenti liberi».

    22 Si veda la lettera a Elsa Morante, del 2 marzo 1950, che sebbene assai posteriore al nostro periodo in esame sirivolge all’aborto di Bianco veliero (il romanzo dolorosamente sfumato tra il 1947 e il 1949) , punto di una crisicompositiva e gnoseologica: «Il fatto è che io mi sento già prigioniero d’una maniera e bisogna che ne esca adogni costo: sto cercando di scrivere un libro totalmente diverso, ma è maledettamente difficile; cerco di rompe-re le cadenze, gli echi in cui sento che le frasi che scrivo vanno a colare come in stampi preesistenti […]» (p.272).

    23 «[…]prima abitudine d’un comunista dev’essere quella dell’autocritica, senza puntigli d’ambizione o flasemodestie, e poi perchè sono contrario al mito dello scrittore “ispirato” che non sa il perchè di come scrive, ma

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    L’epistolario edito rintraccia le contraddizioni e gli interrogativi che Calvino si pone (e pone aipropri interlocutori) sul mestiere di scrivere in questa contingenza post-pubblicazione, e lascia in-travedere il serio riesame, quasi ossessivo, col quale l’autore misura le proprie forze chiarendo a sestesso, progressivamente, i temi e i soggetti che più lo appassionano, che lo spingono a affabulare.All’apertura del 1947, nell’«abbozzare un giudizio critico» (e pubblico) su se stesso, scriveva:

    Io […] faccio racconti di partigiani, di contadini, di contrabbandieri, in cui partigiani, contadini, con-trabbandieri non sono che pretesti a storie piene di colore, d’accorgimenti narrativi e d’acutezze psi-cologiche: in fondo non studio che me stesso, non cerco che di esprimere me stesso, non cerco dirappresentare che dei simboli di me stesso nei personaggi e nelle immagini e nella lingua e nellatecnica narrativa24.

    Dovremo tornare su questo problema dell’“io” che scrive, e del suo camuffamento, anche per-chè, del resto, non poche recensioni avevano sottolineato delle riserve legate a un certo suo mondopoetico o al sistema dei personaggi da lui proposti e al suo linguaggio, legate, sembrerebbe, aesperienze autobiografiche e non affatto d’invenzione: «[…] al di là delle esperienze vissute, questiromanzieri sapranno fare altri romanzi?». Calvino esclusivo scrittore-partigiano? Uno per tutti,questo, il pesante interrogativo di Emmanuelli25. Se l’esperimento romanzesco era stato intrapresocon riluttanza («io la necessità di fare un romanzo non la sento: io scrivere racconti per tutta lavita», sottolinea nel novembre 1946, puntando le sue carte migliori sulla misura breve)26, tra ilgennaio e il febbraio del ’47, a apertura dell’anno, già invoca una tregua sul racconto partigianoche l’ha laureato scrittore («è bene che smettiamo di scrivere di partigia, se no cadiamo nella cifra.E cosa scriviamo poi?)27 fermamente (o quasi) limitando la natura del suo impegno col romanzo

    intendo la letteratura come un impiego di mezzi tecnici al massimo cosciente e razionale» (Abbiamo vinto inmolti, ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, t.1, cit., p. 1477). Fondamentale dichiarazione di poetica per questoperiodo storico, l’articolo fu pubblicato su «L’Unità» il 5 gennaio 1947 a seguito della vittoria ex-aequo al Pre-mio Genova de «L’Unità» col racconto Campo di mine. Per questo episodio si veda il puntuale studio di L.SURDICH, Italo Calvino e il «Premio de “L’Unità”», cit., pp. 164-174). Inoltre, dallo stesso intervento: «Pericolimiei: diventare uno scrittore dal mestiere scaltrito», «individualista e analitico», «sentirmi spegnere a poco apoco assieme all’entusiasmo che accomuna sempre scrittori e popolo nei momenti rivoluzionari, il mordentedello stile e la necessità storica dell’invenzione di un nuovo linguaggio» (Ibidem, pp. 1478-1479).

    24 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit., p. 1478. 25 E. EMANUELLI, Il figlio dei botanici comincia a scrivere romanzi, cit. 26 A Silvio Micheli, 8 novembre 1946, p. 167. 27 A Marcello Venturi, 7 febbraio 1947, p. 181. Si cfr. però tutta la lettera a Venturi del 5 gennaio, p. 174-177.La

    lettera a Venturi si sofferma sul pericolo dell’«andatocomandite» – del racconto «col solito processo di statid’animo […] che va a finire con uno sparo, uno scoppio di mina e qualcosa di simile» (p. 175), col proponimen-to invocato «di liberarci da quello che ormai non è più che uno schema» mentre l’articolo punta tra l’altro ildito ai pericoli insiti di una “maniera”, al possibile venir meno del «mordente dello stile e [del]la necessitàstorica d’invenzione d’un nuovo linguaggio» (adesso in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., t. 1, p. 1479). Per lo

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    («io col romanzo ho dato fondo all’esperienza partigiana. Tutto quello che avevo da dire l’ho detto.Ma non tornerò a batterci ancora con un altro romanzo?»)28 per confessare invece, nel dicembre1947, al severo Ferrata, come «i racconti non lo soddisfino più», come si trovi intrappolato da unproblema di linguaggio e di misura: «mi sembra d’aver detto tutto quello che coi racconti si puòdire. Col romanzo invece non riesco ancora a dire tutto quello che vorrei», in cui l’enfasi non ètanto sui soggetti da raccontare (problema comunque non secondario, date alcune ipoteche dellacritica), bensì, pienamente, sulla “maniera”,sullo stile di essi 29.

    Comincia adesso uno dei periodi più convulsi, e delicati, della sua storia di scrittore, durante ilquale gioca su più tavoli incrociati: il giornalismo (quale attività pragmatica, di riscontro immedia-to, con articoli di cronaca, inchieste, cronache letterarie, recensioni), l’attività editoriale all’Einaudie la scrittura narrativa. Tuttavia, l’incipit vita nova tracciato per il compagno Scalfari il 3 gennaio1947, alla conclusione del «Grande Anno» 1946 («un anno enorme»)30 si scontra dodici mesi piùtardi con la realtà di una nevrosi scrittoria di crescita, fomentata dai fedeli consiglieri einaudiani(Pavese, Ginzburg, Balbo e Vittorini) che per tutto il biennio 1946-1947 lo hanno tirato da più parti(sia sui racconti che sul romanzo):

    Vittorini m’ha scritto tutto contento d’un mio racconto In ultimo venne il corvo […]. È un racconto chestimavo dei miei più secondari: ma Vittorini s’entusiasma perchè è «tutto narrato». Siamo in polemicaepistolare, io e V., perchè mi è preso il pallino del racconto-saggio, (mi sono stancato del solito raccontinocon lo sparo finale) e V. dice che non ci sono tagliato31.

    Il contrasto con Vittorini era emerso a proposito di un racconto paradigmatico (e infine scartato)quale Vento in una città32, del quale Vittorini scrive a Calvino l’11 dicembre 1946: «lo hai […] sciupa-

    stilema «partigia» – e per appunto il pericolo insito della cristallizzazione del linguaggio e dei soggetti raccon-tati, si cfr. anche il racconto Amore lontano da casa (che porta in calce la data “gennaio 1947”) di cui il curatoreMario Barenghi trascrive, nelle notizie sul testo, un brano scartato in cui l’io narrante, alla ricerca della solida-rietà perduta tra “cose” e “parole”, insiste a raccontare «di quand’era nei partigia» che causa nell’interlocutorela domanda «Perchè mi racconti sempre storie di partigia?», con la subita risposta: «Perchè non ho fatto altroche il partigia, in vita mia […] Ci sono molti che non hanno fatto altro, d’importante, e continueranno a parlar-ne per tutta la vita. […] Guaio per noi, personalmente, il mondo ha ancora bisogno di partigia» (I. CALVINO,Romanzi e racconti t.3, cit., p. 1335). Torneremo in seguito su questo racconto.

    28 A Marcello Venturi, 7 febbraio 1947, p. 181. 29 A Giansiro Ferrata, 6 dicembre 1947, p. 207. 30 A Eugenio Scalfari, 3 gennaio 1947, p. 172. 31 A Marcello Venturi, 19 gennaio 1947, p. 178. Sottolineatura nostra. Come ben sappiamo, il racconto qui consi-

    derato “minore” finirà poi per dare il titolo (leggermente modificato) alla raccolta Ultimo viene il corvo (Torino,Einaudi, 1949).

    32 Adesso in I. CALVINO, Romanzi e racconti, , t. 3, cit., pp. 952-959. Si cfr. anche B. FALCETTO «Racconti esclusi da “Iracconti”», p. 1334. Il racconto risalirebbe al maggio 1946.

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    to, anzi, sconciato, in un senso che lo mette sul piano giornalistico. Cioè la polemica che vi introducinon riesce a diventare scritta (tanto meno narrata)», cui fa seguito la missiva a proposito del Corvodel 15 gennaio 1947, che riapre la polemica sui limiti di Vento in una città. Scrive Vittorini:

    […] La mia riserva non riguarda affatto la possibilità in generale di scrivere cose che siano ad untempo racconto e saggio. Riguardava la possibilità tua di scriverle. Cioé mi sembra che per te, inquesto momento, non esista la possibilità di realizzare contemporaneamente in senso di racconto e insenso di saggio. Ogni volta che passi dalla chiave di saggio alla chiave di racconto e viceversa non seipiù padrone della materia. E infatti ti accade di tentare la realizzazione degli elementi saggistici conuna finzione ancora narrativa»33.

    Di fronte all’impegno giornalistico e di critica di cui Calvino sente l’urgente complementarietàsul piano della scrittura («due attività parallele»)34, e di cui il proprio recìt dovrebbe giovarsi schia-rendosi le idee nella teorizzazione («Narrativa come canto, narrativa come simbolo o narrativa comeindagine?»si chiede nel luglio 1946)35

    ciò che ancora restava per lui più incerta era la vocazione letteraria: dopo il primo romanzo pubblicato,tentò per anni di scriverne altri sulla stessa linea realistico-social-picaresca, che venivano stroncati ecestinati senza misericordia dai suoi maestri e consiglieri. Stanco di quei faticati fallimenti, s’abban-donò alla sua vena più spontanea d’affabulatore e scrisse di getto Il visconte dimezzato […],36

    33 E. VITTORINI, Gli anni del «Politecnico cit., rispettivamente p. 93 (con sottolineatura nostra) e 121. Si cfr. la letteraa Marcello Venturi, 22 marzo 1947, p. 186: «Sono stato anche a trovare Vittorini che mi ha stroncato l’ennesimoracconto che gli avevo mandato. Lo sai che da quando m’han pubblicato Andato al comando non son più riuscitoa farmi pubblicare un racconto su «Politecnico»? È più d’un anno che continuo a mandar racconti e a farmelirespingere. Il buon Elio ha gusti maledettamente difficili e strani e io mi ci litigo ogni volta, ma dopo un po’riconosco sempre che ha ragione». In un certo senso Calvino ammette quest’influenza giornalistico-saggista:«Vittorini in un’intervista […] dice di noi giovani che studiamo poco, che leggiamo solo traduzioni di romanziamericani e che abbiamo solo un valore giornalistico. E ha ragione! E se non ci diamo dentro saremo fregati» (AMarcello Venturi, 27 luglio 1947, p. 198.) Nella ricerca di un linguaggio proprio, adesso che il mal di romanzol’ha colpito, la crisi arriva al pettine nel maggio-giugno 1948: «Io ho scritto tre quarti d’un romanzo, ci hoperduto mesi e mesi, ma non lo finirò perchè non ci credo. Ho bisogno di stare qualche anno senza scrivereperchè sono in un momento che non so bene come scrivere. […] Schifoso mestiere». (A Graziana Pentich, 11 giugno1948, p. 224.)

    34 A Marcello Venturi, 5 gennaio 1947, p. 175: «[…] io ho il pallino di fare anche il critico, Micheli ci s’arrabbia edice che o faccio una cosa o faccio l’altra, ma per me la critica mi spinge al lavoro creativo e il lav. creativo allacritica, sono due attività parallele, per me». Si cfr., a questo proposito, la recensione a Un figlio ella disse (del 17agosto 1947, ora in I. CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., t.1, pp. 1176-1178): «[Micheli] dice che io devo fare o loscrittore o il critico e non tutt’e due».

    35 A Silvio Micheli, 29 luglio 1946 (p. 162 –in corsivo nel testo), per un progetto di «articolo […] il [cui] titolospiega già di cosa si tratta» da scrivere per la rivista «Darsena Nuova», da Micheli diretta. Ma si veda anchetutto l’articolo Abbiamo vinto in molti (cfr. qui dietro, n.21), su cui torneremo anche in seguito.

    36 I. CALVINO, Nota introduttiva cit., p. VII.

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    volume sul quale storce il naso Carlo Salinari (critico letterario, compagno di partito, e vestale diun certo tipo di realismo letterario)37, ma che si guadagna compattamente la stima e il plauso di chi già,fin dagli esordi, gli aveva additato la via della “fiaba” inorridendo non tanto per i «temi drammatici» oil «ritmo narrativo intenso e accelerato»38 da lui prediletto, ma per la «lingua dura e nuda, fatta divocaboli chiusi e di ruvidi nessi sintattici»39 con cui le storie «di partigiani, di contadini, di contrabban-dieri»40 venivano raccontate. Insomma, che lo scrittore s’allontanasse, per bene suo (e del suo stilenarrativo), da quel «terreno di cronaca e d’umanità» che egli stesso però sentiva «più che mai necessa-rio»41.

    Al riscontro con l’epistolario del dopoguerra, questa ricostruzione degli anni ’70 appare alquantotendenziosa: qual è infatti, in quegli anni d’esordio, la «sua vena più spontanea d’affabulatore»? Sitratta veramente di una componente fiabesca innata (e quindi, si dedurrebbe, repressa per motivi con-tingenti, tale da fargli dubitare della vocazione stessa), o invece risulta progressivamente “costruita” ecercata come via d’uscita dal vicolo cieco imboccato del racconto-saggio, del racconto “sociale” o co-munque del racconto che prende di petto e non di sguincio, nella narrazione, «l’interesse morale, laricerca d’una completa integrazione dell’uomo nel mondo»42 che, sebbene tema caro allo scrittore, perla modalità stilistica da lui stesso scelta, nell’acerbità della propria tecnica, non piace ai suoi maestri?L’interrogativo è legittimo. Già alla scrittura del Sentiero (come dei racconti coevi, primi tra tutti Vento inuna città o Amore lontano da casa) divergenti modus operandi narrativi s’accampavano sulla pagina, pro-venienti da un tirocinio scrittorio fatto prima sui fogli partigiani come «La nostra lotta» o «La voce dellademocrazia» nel 1945, poi sulle terze pagine di quotidiani o sulle riviste («Il Politecnico», «L’Unità»,«Aretusa», «Darsena Nuova», «Agorà») tra l’autunno del ’45 e il ’47 con anche reportage giornalistici sutemi scottanti del giorno difficili da dimenticare all’atto pratico di prendere la penna per la composizio-ne romanzesca, il cui nucleo ideologico proponeva un’istanza polemica, una definizione della guerrapartigiana in una congiuntura storica in cui il valore di essa era sotto attacco.

    Fin dagli inediti apologhi e raccontini43 – imbevuti d’istanze esistenziali o moralistiche, scritti in unperiodo cruciale della dittatura fascista e all’inizio del secondo conflitto mondiale –, ai più compiuti

    37 Che viene “giustificato” a Salinari come «una vacanza fantastica», rispetto «agli altri [libri, ndr.], quelli “veri”»,i libri realistici, non “antistorici”, sebbene subito si rimarchi come l’«ideale sarebbe di riuscire a scrivere in parimisura […] cose “utili” e cose “divertenti”. E possibilmente “utili” e “divertenti” insieme» (A Carlo Salinari, 7agosto 1952, pp. 354-355).

    38 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit., p. 1477. 39 Ibidem. 40 Ibidem, p. 1478. 41 Ibidem, p. 1477. 42 Nota introduttiva non firmata, I. CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1954, p. 10. 43 Pubblicati in parte prima in I. CALVINO, Prima che tu dica pronto, Milano, Mondadori, 1991e adesso, integral-

    mente, nelle sezioni «Racconti giovanili», in I. CALVINO, Racconti e romanzi, t.3, cit., pp. 767-830. Sono 26 raccon-

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    esperimenti pre-(e post-) romanzo comunque scartati dalle raccolte successive, o anch’essi tenuti sottochiave come il dramma del 1943 I fratelli di Capo Nero (di cui non si possono sottacere i fitti rapportitestuali col Sentiero, per le teorizzazioni saggistiche sul valore positivo del “fare”, della responsabilitàdell’agire)44, il linguaggio calviniano dimostra un cospicuo interesse verso una forma di narrativa ibri-da, certo pseudo-saggistica, o cronachistica e memoriale di cui i pezzi per il volume L’epopea dell’esercitoscalzo, dedicati a Le battaglie del comandante Erven o a Castelvittorio, paese delle nostre montagne, ne sono unesempio45. Altrimenti, sviluppata è una vena lirico-epica en travesti (come il notevole pezzo Ricordo deipartigiani vivi e morti attesta)46 fino al “racconto” vero e proprio Angoscia47 che, come altri testi del peri-odo, presenta peculiari strutture ritmico-sintattiche, vere clausole da poemetto in prosa). Non ultimaviene l’“indagine” troppo esplicita (come Vittorini cerca di fargli capire respingendo Vento in una città,e come anche parti di Amore lontano da casa segnalano), in quanto l’invariabile, scoperta “polemica”politico-sociale introdotta non riesce, secondo l’amico scrittore, a farsi “scritta”, rimane troppo sul ver-sante astratto e non fa presa. Niente vieta, comunque, che questi tre filoni non appaiano anche contem-poraneamente all’interno di uno stesso testo, contendenosene il nucleo duro48. Insomma, Calvino nonrimane affatto sul territorio piatto del racconto con sparo o esplosione finale (Andato al comando, Campodi mine, Ultimo viene il corvo) tutto oggettivo e tutto fatti, ma si assiste a un tentativo a angolo giro di

    ti, di cui è necessario sottolineare almeno titoli come Passatempi (p. 767-768), Dieci soldi di plastilina (pp. 769-771), Il lampo (pp. 777-778), Un dio sul pero (pp. 789-792), L’uomo delle palafitte (pp. 795-796), Fiume asciutto (pp.797-801), Come non fui Noè (Buon a nulla) (pp. 826-830), dove ricorrono i motivi narrativi principali di alcuniracconti editi e in primo luogo del Sentiero (e dove si notano persistenti modi di caratterizzazione o di ricor-renza di sintagmi). Ancora relativamente trascurati dalle ricostruzioni critiche su Calvino, sono stati tuttaviainclusi con risultati persuasivi (che ne accrescono l’importanza) da A.M. JEANNET, Under the radiant sun and thecrescent moon. Italo Calvino’s storytelling, Toronto, University of Toronto Press, 2000; F. PIERANGELI, Italo Calvino.La metamorfosi e l’idea del nulla, Soveria Mannelli, Rubettino, 1997 (si cfr. in particolare pp. 127-132) e M. MCLAU-GHLIN, Italo Calvino cit. (che li utilizza collettivamente per una complessa e puntuale ricostruzione degli inizi).

    44 Adesso in I. CALVINO, Racconti e romanzi, t.3, cit., pp. 443-496, cui si aggiunga la nota informativa di B. Falcetto,pp. 1262-1263, che li identifica in «un dattiloscritto di 44 pagine datato agosto-ottobre 1943». Scritti dunquedopo la caduta del regime fascista (25 luglio 1943) e durante le giornate dell’armistizio dell’8 settembre (e delcaos ad esso seguito), I fratelli di Capo Nero sono un testo che, come vedremo, sarà “riletto” e tenuto presentedalla memoria lavorativa di Calvino alle prese col Sentiero.

    45 I. CALVINO, Castelvittorio paese delle nostre montagne e Le battaglie del comandante Erven, in AA.VV., L’epopea del-l’esercito scalzo, cit., pp. 49-50 e 235-244. (Piero Ferrua, nel suo Italo Calvino a San Remo, Famija Sanremasca,Sanremo, 1991, attribuisce anche il racconto Vittò, a pp. 207-208). I due racconti sono citati –e sostanzialmenteridimensionati quanto a valore letterario intrinseco- da C. MILANINI, Calvino e la Resistenza: l’identità in gioco,cit., pp. 173-191.

    46 I. CALVINO, Ricordo di partigiani vivi e morti, cit., apparso assieme all’articolo di fondo Primo maggio vittorioso. 47 I. CALVINO, Angoscia, «Aretusa», a.II, n. 16, dicembre 1945, pp. 58-65 (il cui titolo muterà in seguito in Angoscia

    in caserma, in Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949, pp. 148-155). 48 Descrive bene questa situazione Enrico Falqui, esaminando i caratteri generali del “realismo” letterario nel-

    l’intervista con Carlo Bo per il volume Inchiesta sul neorealismo, cit., pp. 105-107, passim: «Dopo il famoso 25luglio fu subito chiaro che nella narrativa avremmo avuto, specialmente da parte dei giovani ossia dei piùliberi, una forte ripresa di realismo, come conseguenza immediata della fiera polemica sociale alla quale si erapotuto finalmente dare l’avvio. Ma fu anche chiaro che l’eccessiva, ostentata immediatezza avrebbe sottratto la

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    scrittura di temi e linguaggi diversi (tutti che prendono come contenuto la contemporaneità), che confla-gheranno al momento della stesura romanzesca, alla ricerca di un baricentro.

    Il cuore di questo periodo, impegnato nella scrittura del romanzo (dall’estate alla fine d’annodel 1946), torna però invariabilmente lì – allo spunto polemico, all’interrogazione sui compiti esulla responsabilità della scrittura. Coinvolge il recupero di alcuni materiali (e dei relativi temi) sucui ci si era già esercitati, e aggiunge la fitta serie di riflessioni teoriche convogliate nelle recensionimilitanti di letteratura contemporanea o nelle note di «Gente nel tempo» (la rubrica che tiene su«L’Unità»), le quali danno complessivamente l’idea della preoccupazione calviniana rivolta al tipodi narrativa praticabile (e, personalmente, da praticare) rispetto alla “nuova” realtà aperta primadalla guerra civile, continuata dalla lotta partigiana e poi dall’immediata, amara lotta sociale deldopoguerra. Questi scritti mettono anche a nudo le proprie perplessità su cosa può essere veramente

    maggioranza di quelle narrazioni al necessario filtro e decantamento dell’arte. Perchè tanta immediatezza?Per timore che un intervento letterario, risolvendosi in un abbellimento e in un compiacimento estetistico,potesse finire col raggelare il rinfocolato calore dell’«engagement» di quelle narrazioni. […] il cui principale senon unico valore era troppo spesso da limitare al suo contributo documentario […]. Eppoi non si è badato che,volendo attraverso il neorealismo combattere un certo lirismo e poeticismo – in quanto ritenuti colpevoli didegenerare in un accademismo del tutto evasivo e elusivo rispetto alla drammaticità dei sentimenti e degliavvenimenti all;ordine del giorno – si correva il rischio d’incappare in un altro non meno accademico accade-mismo. E in virtù del deciso intenzionalismo politico lasciatovi prevalere, ben si potrebbe aggiungere e preci-sare, che si tratta del conformismo dell’anticonformismo; dato e non concesso che lirismo e poeticismo sianoda riguardare come le manifestazioni di non si sa quale conformismo. […] Nel presente neorealismo narrativoc’è anche un altro aspetto curioso, e deve certo derivare dalla frenetica e disastrosa specie di realtà nella qualeci troviamo ingolfati. Quante delle nostre odierne narrazioni neorealistiche non sono tali da meritar piuttostol’appellativo di irrealistiche? Il bollore e il gonfiore del loro realismo sono tali da farlo diventare un surreali-smo. E ciò si verifica con modi che tengono sempre più e sempre peggio del manierismo. Sicchè non è del tuttosicuro ch codesto neorealismo sia proprio il toccasana invocato contro l’aborrito estetismo. […]a me sembrache, ad onta di tutti i neorealismi, dal fondersi del proseggiar lungo di certa poesia col poeticheggiare intensodi certa prosa, possa scaturire ed anzi stia gi“a scaturendo, in accorta mistura e misura di problemi attuali e dirisonanze antiche, di istanze intime e di esigenze sociali, una nuova sorta di narrativa epico lirica». L’accennoultimo alla narrativa epico-lirica, come si vedrà, non potrà essere taciuto per alcuni scritti di Calvino; inoltre, ècapitale l’accenno al «conformismo dell’anticonformismo», dato che Enzo Giachino, nella famosa stroncaturadel Sentiero, aveva accusato Calvino di machiavellismo, d’aver sostituito una retorica con un’altra (di segnonegativo). Non ultimo, l’accenno falquiano alle caratteristiche “surreali” o manieriste di molta narrativa(neo)realista – in cui entrerebbero a piena cittadinanza, proprio per il tipo di stile scelto, molti dei racconti diCalvino del primo periodo, che si basano su allucinazioni, mali di simboli, esperienze estreme e “gonfie” direalismo. Enzo Giachino, annusando la novità del romanzo e riconoscendovi non solo l’onestà del dettato, lapartecipazione alla vicenda narrata, ma pure l’astuzia di un “ostinato partito preso” avrebbe accusato lo scrit-tore di “inesorabile machiavellismo” – di un piano fatto a tavolino di rovesciamento di un linguaggio corrente,sostituito con una ‘retorica’ (del negativo) finita per diventare “una presa di posizione politica, un tipo dipropaganda, certo ben più abile e a prima vista più efficace di quello abitualmente usato dai suoi compagni,che troppo spesso paion ricalcare gli schemi dei raccontini educativi di Cuore” (E. GIACHINO, Il primo dellaclasse, cit. p. 3). L’osservazione del critico, oggi, sulla “bravura vigile”, sull”astuzia eccessiva” calviniana non cipare peregrina, anche se non scalfisce minimamente il valore della mossa del cavallo operata da Calvino sullascacchiera dei generi letterari, in cui, sostituita la negatività alla positività scontata della raffigurazione parti-giana, si riesce poi a far quadrare i conti e a comunicare comunque un messaggio edificante, di riscatto (teste leparole di Calvino stesse per il libro – del 3 gennaio 1947, nella sua lettera a Scalfari –, visto come “una rischiosaaspirazione di serenità”).

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    fatto da lui come scrittore (non tanto per i mezzi per descriverla, bensì per il modo possibile di“vedere” la realtà). L’interesse verso la forma pseudo-saggistica della narrativa nasce da una forteesigenza pedagogica scaturita dal rifiuto della letteratura come espressione di una «testimonianzainteriore» e di una «confessione individuale49»; è il rigetto di una posizione intrinsicamente astorica,di difesa (dei privilegi dell’intellettualità) e non d’attacco (per una letteratura di denuncia,d’agitazione sociale, di responsabilizzazione). La scrittura diventa il veicolo personale di ricerca ecomprensione del mondo, di una sua razionalizzazione, per dare forma (e quindi ordine) al processoconoscitivo che deve sempre avvenire nella storia, e da cui la letteratura non è esente: la scelta delloscrivere si rivolge alla compromissione con la realtà, non nell’evasione da essa, come nella lottapartigiana che aveva tangibilmente mostrato la possibilità di un cambiamento, di una responsabilitàpersonale e collettiva. La tradizione letteraria italiana del ventennio, che lo aveva nutrito, e su cui siera formato, è identificata con «un bagaglio di cultura sbagliata o sfasata da smaltire»50 in quantoessa è stata cultura di classe e elitaria, per questo impotente di fronte alla società e ai bisogni dell’uomo.L’impegno letterario è chiaramente scelto (come scelto è l’impegno politico e civile, suo retroterraculturale necessario) per il valore eminentemente morale da cui deriva in parte anche l’approccio“dimostrativo”, o pedagogico-deduttivo, se si vuole chiamare così, di parti della sua narrativa.

    «Riaffondare i piedi nella realtà» («alla De Sanctis», come avrebbe chiarito Adriano Seroni nel1950) non è però un obiettivo facilissimo da raggiungere, anche quando si concordi su cosa questa“realtà” veramente sia:

    Non sono stati i nostri narratori a inventare la formula [...]; è stata l’epoca nella quale vivono o sonvissuti a determinare la tendenza. Come a dire: la prosa d’arte s’era venuta isterilendo in un ambitochiuso, senza respiro [...]; bisognava, diremo alla De Sanctis, riaffondare i piedi nella realtà. La realtà checammina, e che porta con sè, con la guerra, il risveglio della vita sociale, fa tornare alla luce del sole la lotta diclasse, rimette in primo piano la questione sociale, torna a legare gli uomini alla vita attiva, alla lotta, alla politica.Per me oggi il realismo in letteratura è l’unica forma possibile; o si dovrebbe ammettere che lo scrittore vivain un cielo tanto alto da non esser toccato dalle lagrime delle cose? Da non vedere la gente che soffre,che lotta, che muore, che vince o perde? [...] Del resto va aggiunto che i vecchi lettori non esistono più,dico i lettori della classe borghese; c’è una nuova classe che produce i consumatori di cultura, la classe operaiae i contadini. È una classe, credi, alla quale le «storie private» non interessano, interessano le storie del loromondo, del mondo di tutti, con le cose dette come stanno [...]51.

    49 Sono entrambe espressioni usate da Calvino intervistato da Carlo Bo per l’Inchiesta sul neorealismo, cit., p. 47. 50 I. CALVINO, Umanesimo e marxismo, «L’Unità», Torino, 22 giugno 1946, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1, cit., p.

    1472 51 A. SERONI, in Inchiesta sul neorealismo, cit., pp. 91-92. Corsivi nostri. 52 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit. Sul populismo del dopoguerra e di quello calviniano del Sentiero, si cfr.

    le pagine di A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura contemporanea, Roma, Samonà e Savelli,1965.

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    Come si narra la realtà, come si dicono le cose «come stanno» per questo nuovo pubblico, perquesta nuova classe? È, questo, un corno non irrilevante del problema. Come farsi scrittore del popoloo per il popolo? Basterà davvero, come sembra indicare Calvino in un suo primo manifesto teorico,l’identificazione col popolo («mi sono riconosciuto nel popolo che lottava e ho deciso di lottare inmezzo ad esso», a causa dell’«entusiasmo che accomuna sempre scrittori e popolo nei momentirivoluzionari»52)? Assieme alla preoccupazione sui modi di narrare, è appaiato spesso l’interrogativorelativo alla possibile identificazione (e quindi, alla possibile comunicazione) con la classe operaia econtadina, di cui non si fa parte, da cui ci si sente esclusi per provenienza sociale e di cui si intravede– grazie all’esperienza resistenziale e all’esempio macroscopico della rivoluzione russa – l’uomo“nuovo”, la “nuova” moralità, fino al riconoscimento necessario «che ancora abbiamo da impararea “andare a scuola dalla classe operaia”»53.

    Militare nel partito è il nostro modo di esistere; ma il posto di combattimento dei letterati, il loro bancodi prova, è sulla carta bianca. Il nostro compito è saper trasformare in poesia la nuova moralità dell’uomocomunista che si va delineando chiaramente in milioni di uomini di tutto il mondo: e ci riusciremonella misura in cui saremo anche noi parte di questi milioni54.

    Calvino scrittore e comunista avverte sempre di più un disagio irriducibile, sempre più viene aporsi fra lui e il “popolo” di cui scrive la differenza originaria di classe, la sua non appartenenza allaclasse operaia, tanto che questa condizione sentita lo porta a riconoscersi come «uno dei vecchi

    53 I. CALVINO, Ingegneri e demolitori, «Rinascita», novembre 1948, p. 400, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1., cit., pp.1480-1482.

    54 I. CALVINO, Saremo come Omero! in «Rinascita», dicembre 1948, p. 448, ora in ID., Saggi 1945-1985, t.1, pp.1483-1487. L’intervento è una risposta polemica a Emilio Sereni, responsabile della “linea” culturale degli intellettualidi partito. Questo scritto del ’48 si potrebbe esclusivamente leggere come valutazione (e difesa personale) datada CALVINO allo zdanovismo del PCI che, sentendosi assediato dopo la sconfitta del Fronte popolare in Italia ei mutamenti storici in atto in Europa occidentale, marginalizzanti il movimento operaio, si chiude su se stessoe chiede la fedeltà degli scrittori a una linea politica preordinata. Tuttavia, l’enfasi della lettura dovrebbe quiessere diretta all’accenno della «nuova moralità dell’uomo comunista» e alla necessità di “far parte” di quellanuova moralità (divenendo comunisti sul serio), che ricorre in vari scritti del periodo, specialmente, nellarecensione (già citata) a La disfatta, di Alexandr Fadeev e il racconto Cinque dopodomani, guerra finita! (uscitosull’«Unità» del 7 novembre 1946, nel mezzo della composizione del Sentiero, adesso ripubblicato in I. CALVINO,Romanzi e racconti, t. 3, cit. pp. 845-848. Si cfr. anche le importanti notizie sul testo e i brani tagliati, pp.1322-1324), che pone l’accento sul diverso modo di essere uomini (e combattenti) dei bolscevichi partigiani in Italia,nonchè l’articolo Krasavcenko sereno (causato da una protesta di destra contro la delegazione sovietica in visitaa Padova, pubblicato su «L’Unità» il 30 giugno 1946, adesso in I. CALVINO, Romanzi e racconti, t. 3, cit. pp. 2102-2104, con nota a p. 3015) che insiste sull’etica del mondo “nuovo”e sulla “nuova” moralità incarnata daipersonaggi con cui Calvino si è incontrato. Per i due pezzi, si veda in seguito nella seconda parte di questocapitolo lo studio comparatistico col Sentiero (in cui questo articolo e il racconto saranno citati solo con lapagina di riferimento).

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    scrittori individualisti» dalla cui sterile impronta, però, si salva – come aggiunge subito – in quantoall’atto della scrittura egli «s’esteriorizza in “simboli” d’interesse attuale e collettivo»55.

    Il problema della propria collocazione sociale vis-à-vis l’inevitabile visione del mondo che daessa scaturisce (e che gli fornisce il materiale delle sue storie) è però sentito in maniera lancinante.Paragonandosi al sodale Venturi, in quell’esame di coscienza di letterato fatto in pubblico il 5 gennaio1947 con Abbiamo vinto in molti, Calvino descrive da cosa derivi questa sua posizione più “arretrata”,che la sola militanza nel partito del popolo l’aiuta a combattere:

    Ciò deriva in primo luogo dalle nostre diverse situazioni sociali e formazioni culturali: Venturi (aquanto credo) ha conosciuto fin da ragazzo lo stimolo dell’indigenza e l’aspirazione di riscatto delleclassi sfruttate; mentre io ho avuto una solitaria e chiusa fanciullezza di ragazzo borghese e solo piùadulto, spinto da un indeterminato anticonformismo che ha sempre accompagnato la mia formazioneculturale individualistica, mi sono riconosciuto nel popolo che lottava e ho deciso di lottare in mezzoad esso56.

    L’accenno fatto alla supposta indigenza di Venturi e alla sua conseguente aspirazione di riscattoè notevole, perchè è messo in correlazione diretta con l’output narrativo dell’amico. Chi è, infatti, loscrittore Venturi?

    È il narratore che nasce dalla lotta di resistenza e che racconta, spesso con popolaresca ingenuità, leemozioni collettive, incarnate da un eroe impersonale e unico. Anche i suoi racconti non partigiani hannoquesta spinta di patimento collettivo, per cui migliaia d’uomini si possono riconoscere nella sua voce57.

    Calvino rimarrebbe invece fermo a una posizione più “vecchia”, perchè quel che a lui manca èl’esperienza di essere popolo. Per questo, nel raccontare la realtà, il filtro necessario sarà il simbolo,cioè il travestimento; la mancata appartenenza al proletariato impedisce la visione diretta, porta aisimboli della realtà ma non alla realtà stessa. Calvino sente insomma presente la sua nascita borghese,esorcizzata (forse) nell’avventura comunista e, principalmente, nell’avere combattuto fianco fiancocol proletariato in una guerra di liberazione. Esauritasi quella spinta della storia, però, torna ildubbio, tornano gli interrogativi su quello che lui stesso, come individuo, come letterato d’estrazioneborghese, può effettivamente arrivare a realizzare («è stata la presenza della Storia a portarmiavanti,e poi m’ha lasciato lì», ammetterà infatti desolato)58. La ricerca è di un linguaggio che scarichii filtri individualisti con cui la realtà è vista e posseduta dall’irriducibile «io» borghese, affinchè

    55 I. CALVINO, Abbiamo vinto in molti, cit. 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 A Elsa Morante, 9 agosto 1950, p. 290.

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    emerga finalmente un «io» di grado zero, rifatto nuovo dall’esperienza collettiva in cui si è bagnato(la Resistenza). Questa coscienza di una possibile inadeguatezza costitutiva, originaria, però, puòdiventare anche un pericolo insidioso, che lo porti al tarlo dell’auto-riflessione come uno dei modipossibili di narrazione. L’«io» (della confessione individuale) cacciato dalla porta rispunterebbecomunque dalla finestra (dell’esame del ruolo dell’intellettuale hic et nunc), ma certo devierebbedal “racconto”, dall’“incarnare” le emozioni collettive (per riprendere il lemma che Calvino avevausato prima parlando di Venturi).

    Pavese, amico e tutore di Calvino, aveva già infatti indicato quale fosse la strada da non percorrerealla ricerca della verità oggettiva, dando proprio l’altolà a un tipo di narrazione in cui uno scrittore,«invece di narrare», prendesse ad esplicito «argomento del racconto stesso» le proprie «perplessitàe velleità» verso «il reale». Se il «mondo di ieri» – quello della tradizione ermetica e del disimpegno– «tollerava un’equivoca figura d’intellettuale che [...] viveva in sostanza di teorie, giustificazioni eproblemi» in una comoda relazione simbiotica con la scrittura che gli consentiva di stare sano esalvo «mimetizzato sotto il tessuto dello stile e faceva consistere tutta la sua dignità nell’esserequel tessuto, quello stile, quel mascheramento»59, i tempi sono cambiati.

    Oggi va prendendo voga la teoria contraria, naturalmente giusta, che all’intellettuale, e specie alnarratore, tocca rompere l’isolamento, prender parte alla vita attiva, trattare il reale. Ma, appunto, èuna teoria. È un dovere che ci si impone «per necessità storica». E nessuno fa all’amore per teoria o perdovere. Il narratore che una volta, invece di narrare, si aggirava nei meandri del suo io schifiltoso inperpetua rivolta verso i bassi doveri di questo mondo contenutistico, adesso si logora i nervi e perdeil tempo chiedendosi se il contenuto lo interessa quando dovrebbe, se il suo stile e i suoi gusti sonoabbastanza proletari, se il problema o i problemi del tempo lo agitano quando è augurabile. E fin quinon c’è nulla da dire. Non è uno scherzo per nessuno l’impresa di vivere e vivere significa esseregiovani e poi uomini, e anche dibattersi, darsi dei doveri, proporsi un contegno. Il malanno cominciaquando quest’ossessione della fuga dall’io diventa essa stessa argomento del racconto, e il messaggio che ilnarratore ha da comunicare agli altri, al prossimo, al compagno uomo, si riduce a questa magra auscultazionedelle proprie perplessità e velleità. Toccare il cuore delle cose per teoria o per dovere non è possibile. Ci sidibatte e ci si logora, questo sì. Accettare se stessi è difficile.

    Calvino – nonostante le cadute o l’impotenza della sua stessa scrittura ad evitare che l’“io”autobiografico, o fittizio, prenda campo nel suo recit con i propri ragionamenti e le teorizzazioniesplicite – ha chiarissima coscienza del problema contro cui egli stesso combatte, e che analizzeràdi lì a poco, in articolo su «Rinascita» del 1948, dal mezzo del suo stesso guado di scrittore in crisi,mangiato dal “mal di romanzo”:

    59 C. PAVESE, Di una nuova letteratura, in «Rinascita», a.III, n. 5-6, maggio-giugno 1946, pp. 120-121. Lo stesso perla citazione seguente (di cui è nostro il corsivo).

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    Abbiamo ognuno di noi, dietro le spalle, un bagaglio di strumenti e modi per esprimere i nostri«contenuti», per avvicinarci alla realtà: ciò che delle nostre rispettive attività costituisce la tradizione.[...] Bene, tutti d’accordo che è sulla tradizione che dobbiamo lavorare e innovarci e innestare i nuovicontenuti. Ma è il modo «tradizionale» di muoverci su questa tradizione che ci condiziona; la sceltad’un linguaggio è un problema da cui non si può prescindere, perchè in Italia, adesso e sempre, ilinguaggi letterari sono personali come fazzoletti da naso; e, legato a questo ma più pressante eimportante, il problema di come sistemare quest’ingombrantissimo personaggio che per uno scrittoremoderno è l’«io» (e che pure gli è indispensabile per avere esperienza del mondo intorno), seautobiograficamente, o simbolicamente, o trasfigurandolo in senso eroico, o riuscendo a far finta chenon ci sia. Perchè bisogna sempre tener ben presente una cosa: che tra l’io che scrive e la realtà chedev’essere oggetto dei suoi scritti (realtà completa, quindi storica e in divenire, ecc.) c’è l’io che vive evede e si trasforma e migliora a contatto con la storia e gli uomini, e i conti son sempre da fare conquest’ultimo, perchè se ci si limita a disciplinare l’«io che scrive» tutto rimane su un piano volontaristico,velleitario, e o non si riesce più a scrivere o si fanno gli aborti60.

    Il problema dell’«io» e dell’impotenza a narrare la realtà appare sempre più pronunciato nelCalvino di questo primo periodo e, a conti fatti, del Calvino della scrittura del Sentiero. Una forbicesembra aprirsi tra «l’io che vive e vede» e «l’io che scrive», una “intercapedine” (come egli l’avevachiamata già in Vento in una città, del maggio 1946) tra il sentire e vedere le cose e la loro possibileoggettivazione “viva” sulla pagina, priva cioè di un qualsiasi filtro di letteraturizzazione che lascelta di un linguaggio (di un’inevitabile tradizione, cioè) sempre comporta. Il pericolo che si vededietro l’angolo è davvero quello del travestimento dell’«io che scrive», camuffato sì da proletario oda contadino, ma senza potere conquistare di quest’ultimo (e quindi, dire in parole) quella che sivede come la sua “semplicità” e la sua chiarezza dei modi di vedere la realtà, fors’anche la sanitàultima. Al contrario del mondo del letterato, fatto di linguaggi prestabiliti e inquinati dalla tradizione,di schemi filosofici, di simboli, il mondo vissuto e veduto dal popolo non sarebbe filtrato da nessunschermo bensì dalla semplice, unica, sola materialità dell’esistenza, da una aspirazione al riscatto(come veduta in Venturi, dunque) e quindi da una «moralità nuova» da conquistare: il compitosarebbe di ritrovare allora le “cose” e farle coincidere con il loro “linguaggio”.

    Calvino cerca con forza la sistemazione ideale dell’«ingombrantissimo personaggio che diceio»: la materia prima della sua esperienza di scrittore è autobiografica e, nella ricerca di disciplinarel’io “simbolicamente”, ha la coscienza del pericolo indicato da Pavese, di cominciare a fare diventareil problema dell’io e della «fuga» dall’io (condicio preliminare della scrittura oggettiva, distaccata,obiettiva) l’argomento stesso di alcuni dei suoi racconti61.

    60 I. CALVINO, Saremo come Omero!, «Rinascita», a.V, n. 12, dicembre 1948, p. 448. 61 Narrare la crisi dell’«io» intellettuale (di quello formatosi sotto la dittatura fascista, col suo bagaglio d’idee

    sbagliate e con privilegi e pregiudizi di classe) diventa insomma più facile che percorrerne la “costruzione” inuna società libera, ispirata a una moralità nuova (quella comunista). Si veda a questo proposito l’esame fattone

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    Il travaglio di quest’io-scrittore alla ricerca dell’equazione tra cose e linguaggio, sostanza ultimadella realtà e sua immagine letteraturizzata, è al centro di Vento in una città, la cui labilissima storiaè il dialogo tra un personaggio alquanto autobiografico che, appunto, dice io (è scrittore, vive aTorino, proviene dalla riviera, da una famiglia borghese) e l’alter ego popolano Ada Ida, creato perdare spazio agli interrogativi su cosa significhi narrare la realtà, saperla “catturare” e comunicarnequindi il senso ultimo.

    I dialoghi tra i due sono legati dall’apparente tema dell’infelicità (o felicità) esistenziale degliindividui, esaminato con insistenza attraverso il motivo “spaziale” di un luogo che – preso acorrelativo oggettivo – darebbe forma alle tensioni della gente e ne modellerebbe il carattere, ilcesso: «io credo che il carattere della gente derivi anche dal cesso in cui son costretti a chiudersiogni giorno».

    Questo motivo del cesso, tuttavia, per ammissione del narratore stesso, è un pretesto per parlared’altro; viene cioè subito reso “simbolo” di una condizione d’inadeguatezza a raccontare, facendovirare l’oggetto presunto (e concreto) della storia (il cesso come oggettivizzazione delle infelicitàesistenziali) nell’esame metanarrativo dell’incapacità di spiattellare le cose apertis verbis (il “comestanno” cui alludeva Seroni). Usato il simbolo del cesso, costruitovi in parte una storia, l’io narrante,nel suo dialogo con Ada Ida, si rende subito conto come «non sia chiaro quello che ha detto», dicome le sue stesse analogie siano troppo intellettuali: «non è proprio come avevo pensato [..] ma ame i pensieri per convertirsi in parole pronunciate devono attraversare un’intercapedine vuota ene escono falsati». Narrare, raccontare, parlare, comunicare direttamente portano qui a uno scacco,sintomo della più larga inabilità a stabilire relazioni sociali (in quanto il prodotto della scrittura, laparola, fallisce a raggiungere il pubblico che dovrebbe comprenderne il messaggio, cui essa èdestinata). Un’«intercapedine» impedisce il racconto:

    in Ingegneri e demolitori, cit., pp. 140-1482, passim: «Ci inseriamo nella storia solo con la “denuncia”, il “documentodella crisi”; di fatto la subiamo, la storia, quasi per un’antica rassegnazione a non poterla dirigere, che diventaopportunistico rifiuto d’inserirsi creativamente nel processo che la cambia. La “letteratura di denuncia” hadetto ormai abbastanza. Insistervi limitandosi ad essa sarebbe ipocrisia. L’uomo della nuova società si delineaormai con connotati morali così chiari, in tutto il mondo, che non prenderne atto, cioè non riconoscerlo comeprotagonista assoluto, equivale a rinnegarlo. [...] Ci vincola un’incapacità, una paura: costruire il personaggiopositivo. Che il male sia più poeticamente rappresentabile del bene è un pregiudizio che comunemente vienedetto romantico: in effetti deriva da ogni epoca in cui la morale corrente non è condivisa fino in fondo, e unanuova morale s’intravvede con limiti imprecisi. [...] questa la storia che ci ha portati a incontrare, ancora figuramarginale per noi (come il personagio del “compagno cosciente” in quasi tutti i romanzi cosidetti “neorealisti”italiani), il proletariato. E bisognerà portarlo al centro dell’azione, metterlo bene a fuoco, farlo cioè veramentepersonaggio, non termine schematico, non mito moralistico; bisognerà far nascere [...] una gamma di personaggipositivi ma non legnosi e retorici, che sia possibile sempre anche criticare, canzonare e compatire come ammiraree esaltare, se si vuole che veramente siano di paradigma agli uomini nuovi, e che gli uomini nuovi possanocriticarsi e migliorarsi riconoscendosi in loro. [...] E studiare e sforzarsi su questa via [...] (senza cioè nessunodei nostri tradizionali vizi intellettuali, mascherati con linguaggio rivoluzionario) è quello che si può, che sideve fare oggi».

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    [...] storie non posso raccontartene [...] perchè ho l’intercapedine. C’è un precipizio vuoto tra me e tuttigli altri. Ci muovo le braccia dentro ma non afferro niente, getto dei gridi ma nessuno li sente: è ilvuoto assoluto (p. 955).

    L’argomento è dunque, quasi pirandellianamente, la nevrosi della comunicazione – il male, checi portiamo dentro, delle parole – di Così è (se vi pare) o dei Sei personaggi in cerca di autore: il relativismo,o finanche il solipsismo, del contatto umano verbale. L’io narrante scrive perchè non ce la fa aparlare; però, lo scacco del fraintendimento, del non essersi spiegato bene, lo paralizza purenell’oggettivazione nella scrittura:

    Io sono uno di quelli che scrivono perchè non ce la fanno a parlare; scusatemi,cittadini. Una volta ungiornale ha pubblicato una cosa che avevo scritto. È un giornale che esce alla mattina presto; locomprano per di più gli operai andando a lavorare. Quel mattino sono salito per tempo sui tram e hovisto gente che leggeva le cose che avevo scritto, e guardavo le loro facce cercando di capire su qualeriga erano posati i loro occhi. In ogni scritto c’è sempre un punto di cui poi ci si pente, o per paurad’esser fraintesi, o per vergogna. E sui tram quel mattino andavo spiando la faccia degli uomini finchènon giungevano a quel punto, e allora avrei voluto dire: «Guardate, forse non mi sono spiegato bene,è questo che intendevo», ma continuavo a star zitto ed arrossivo (p. 956).

    Ada Ida, di cui si invidia la facilità dell’oggettivarsi in parole, è invece «una di quelle ragazzeche [...] trovano parole [...] parole di tutti i giorni, germogliate senza sforzo, come se i loro pensierinascessero già intessuti completamente di parole». Da una parte, l’intellettuale (che se la mena),dall’altra, la ragazza (del popolo) per cui pane è pane e vino è vino, e la realtà è vita, non astratteteorizzazioni.

    Una delle ragioni possibili dello scacco comunicativo è chiarita da Amore lontano da casa(complementare a Vento in una città: se sostituiamo Mariamirella a Ada Ida, abbiamo una variazionedello stesso racconto). Si recupera qui l’immagine dell’intercapedine, data come metafora principaledell’inettitudine del protagonista a socializzare e a rapportarsi agli altri. Tuttavia qui la forbice traio e altri riporta non solo a un problema esistenziale (e individuale), bensì, più propriamente, diclasse, che richiama da una parte gli accenni al legame di classe e scrittura (di provenienza socialee di prodotto letterario) cui Calvino accennava parlando di Venturi in Abbiamo vinto in molti, edall’altra, alle teorizzazioni del Sentiero, il cui nocciolo, il capitolo IX, propone non a caso la figuradell’intellettuale Kim, il commissario dalla «melanconica infanzia di bambino ricco» (IX 154) chevede la realtà della guerra come «una lotta di simboli» (IX 150) e di cui cerca una visione nonmediata62.

    62 Esattamente come il suo omonimo kipliniano, che a un certo punto, nonostante tutti gli interrogativi che gliaffollano la mente, riesce a inserirsi nell’ordine dell’universo – per Calvino, la Storia –, cosicchè ogni cosa

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    Come Kim, anche il narratore di Amore lontano da casa incarna la sua angst in simboli perchè nonpuò fare diversamente:

    [...] io ho l’intercapedine. L’intercapedine è un residuo di antiche paure dell’infanzia, o di ataviciisolamenti di classe, è uno spazio vuoto che mi tiene separato dal resto del mondo, una scorza chem’impedisce di comunicare con la vita degli altri, mi fa dire agli uomini: – bene, voi la pensate allavostra maniera e io alla mia –, mentre sarei pronto a discutere fino all’indomani mattina per convincerli,che mi fa dire alle donne: – Cosa danno al cinema quest’oggi? – mentre vorrei chiedere loro se sonvergini o con quanti uomini sono state (p. 1334).

    Il problema è che «le cose pensate sono diverse dalle cose» (reali) e che è necessaria la riconquistadiretta delle cose stesse. Amore lontano da casa recupera più esplicitamente, dunque, la teorizzazioneche s’accamperà al centro del Sentiero: il coraggio del “fare”, e dell’agire, di conquistarsi la Storia,lasciando da parte i pensieri e i discorsi astratti, pensando “da operai”, come cioè chi vede la Storiaper quello che essa è, non mondo (privato, solipsistico) di simboli, ma materiale lotta di classe, concondizioni e determinazioni economiche che si riversano sulle coscienze individuali, per cui ènecessario partire dalla concretezza del singolo, dell’uomo, dall’infelicità individuale che è tangibile,nata dalle cose e nelle cose materiali:

    Bisogna che la nostra generazione riconquisti le cose, Mariamirella, – dico. Che pensiamo e facciamonello stesso momento. Non che facciamo senza pensare, però. Bisogna che tra le cose pensate e le cosenon ci sia più differenza. Allora saremo felici.Perchè è così? – mi chiedeVedi, non per tutti è così, – dico. Io da bambino vivevo in una grande villa, tra balaustre alte come volidi mare. E io passavo i giorni dietro a queste balaustre, bambino solitario, e ogni cosa per me era unostrano simbolo, gli intervalli dei datteri appesi ai ciuffi dei gambi, le braccia deformi dei cereus, stranisegni nella ghiaia dei viali. Poi c’erano i grandi, che avevano il compito di trattare le cose, con le verecose. Io non dovevo far altro che scoprire nuovi simboli, nuovi significati. Così sono rimasto tutta la vita, mi

    diventa chiara, “clicca” al suo posto, sparisce dallo stato di simbolo e s’identifica come unica realtà: «[...] thebigness of the world, seen between the forecourt gates, swept linked thought aside. Then he looked upon thetrees and the broad fields, with the thatched huts hidden among crops – looked with strange eyes unable totake up the size and proportion and the use of things – stared for a still half hour. All that while he felt, thoughhe could not put into words, that his soul was out of gear with its surroundings – a cog-wheel unconnectedwith any machinery, just like the idle cog-wheel of a cheap Beheea sugar crusher laid by in a corner. Thebreeezes fanned over him, the parrot shrieked at him, the noises of the populated house behind – squabbles,orders, and reproofs – hit on dead ears. “I am Kim. I am Kim. And what is Kim?” His soul repeated it again andagain. He did not want to cry – had never felt less like crying in his life – but of a sudden easy, stupid tearstrickled down his nose, and with an almost inaudible click he felt the wheels of his being lock up anew on the worldwithout. Things that rode meaningless on the eyeball an instant before slid into proper proportion. Roads were meant tobe walked upon, houses to be lived in, cattle to be driven, fields to be tilled, and men and women to be talkedto. They were all real and true – solidly planted upon the feet – perfectly comprehensible¡ – clay of his clay, neither moreor less» (R. KIPLING, Kim, New York, Penguin, 1987, p.331).

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    muovo ancora in un castello di significati, non di cose, dipendo sempre dagli altri, dai «grandi», da quelliche manovrano le cose. Invece c’è chi fin da bambino ha lavorato a un tornio. A un arnese per faredelle cose. Che non può avere un significato diverso dalle cose che fa. Io quando vedo una macchinala guardo come se fosse un castello magico, immagino omini piccolissimi che girano tra le ruote dentro.Un tornio. Chissa cos’e un tornio. [...] Dev’essere importantissimo, un tornio. Dovrebbero insegnare atutti a usare un tornio, invece d’insegnare a usare un fucile, che è sempre un oggetto simbolico, senzaun vero scopo. [...] Tu hai pochi miti di cui ti devi liberare; per me tutte le cose sono simboli. Ma questoè certo: dobbiamo riconquistare le cose (pp. 966-967).

    La riconquista delle cose passa dall’abbandono degli schemi. La disgrazia ultima dell’intellettualesi avverte qui, è questo trasformare le cose in simboli, in continua interrogazione della realtà, e nonvederle come espressione ultima della realtà stessa, delle basi materiali della vita, in unacorrispondenza univoca di significati. La soluzione al dilemma era stata additata, in un certo senso,in Vento in una città, con l’invito a considerare non lo “schema” dell’umanità, ma la “pasta”dell’umanità stessa (kiplinianamente «clay of his clay»):

    La gente sul tram era grigia e rugosa, tutta impastata come della medesima polvere. Ada Ida aveva lamania di fare le osservazioni: – E guarda che tic nervoso ha quell’uomo. E guarda come s’è data lacipria quella vecchia.A me faceva pena tutto e volevo che smettesse. – E ben? E ben? – dicevo. – Tutto ciò che è reale èrazionale –. Ma non ero convinto fino in fondo.Anch’io sono reale e razionale, pensavo, io che non accetto, io che costruisco schemi, io che farò cambiaretutto. Ma per far cambiare tutto bisogna partire di lì, dall’uomo col tic nervoso, dalla vecchia con la cipria, nondagli schemi (p. 957).

    Ada Ida e Mariamirella, che vedono le cose “semplici”, s’appaiano a Ferriera, il commissarioche nel Sentiero discute con Kim dei significati della lotta partigiana, su cui Kim stesso vorrebbemodellarsi («il suo punto d’arrivo è poter ragionare come Ferriera, non aver altra realtà all’infuoridi quella di Ferriera, tutto il resto non serve», IX 153). A differenza di Kim, Ferriera è un «operaionato in montagna», sempre lucido, logico, e, infatti, “chiaro”, limpido come i suoi occhi63. La“limpidezza” dello sguardo come segnale della lucidità interiore, della chiarezza dell’analisi delmondo e della realtà proviene da un altro personaggio di Calvino, il Tito del dramma I fratelli diCapo Nero, che già proponeva nel 1943 il problema dell’interpretazione non intellettualistica delmondo:

    63 Si cfr. il seguito del nostro studio per un’esame più approfondito del rapporto tra i due personaggi alla lucedel raggiungimento della “chiarezza” interiore.

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    TITO [...] Ecco, è il mondo che, a studiarlo, è complicato, molto più complicato di quel che sembra;e noi, in fondo, abbiamo poche idee. È questo che cerco io; di fare tutto semplice, semplice comesiamo, per capirlo, questo mondo che non abbiamo fatto noi, e per rifarlo, come l’avremmofatto noi.

    MIRCO Da’ retta: il mondo conviene guardarlo come è, senza cambiarlo in testa.TITO Certo, a potere. Ma io credo di sì, che si possa. E che la vera sapienza sia nel mio sguardo limpido,

    nella terra su cui posano i miei piedi, nel giudicare le cose come sono e magari riderne, senzarompermi la testa dietro i rapporti dell’una con l’altra64.

    La letteraturizzazione dell’esperienza della realtà riduce l’«io» alla carta, al falso, ne impediscela conoscenza:

    TITO Se guardi le cose e segui il filo dei perchè, sembra che tutto sia a posto, una cosa collegatacon l’altra che non potrebbe andare altrimenti. Ma poi ti senti come offeso dentro, come se la vita stagnassein mezzo alla carta e tu pure, dentro, fossi tutto di carta. Invece alla vita è bello starci in mezzo, senzaintermediari, respirarsela, darle la forma che vuoi, ma sentirtela tra le mani, calda, come una bestia eguai se la stringi troppo che ti muore65.

    Sarà il dramma della storia, con l’8 settembre 1943 e la necessità di decisioni irrevocabili, amandare in frantumi le versioni simboliche del mondo. Sarà infatti l’agire, e non il teorizzare, arendere pieno di significati il mondo, lasciando da parte i suoi significanti.

    All’altezza cronologica della scrittura del romanzo, questi temi e problematiche dei due raccontiancora inediti o del dramma occuperanno larga parte della concezione del romanzo della Resistenza– di cui si tenta di imbrigliare lo spirito liberatore in un linguaggio che porti all’esame della“semplicità” di una visione della vita, di comunicare un’esperienza che effettivamente era statadiretta, immediata, che aveva rivelato a scorza una realtà cruda, in cui l’individuo aveva riscopertole “cose” facendone parte, “standoci in mezzo”, assumendone la responsabilità.

    La realtà del romanzo Il sentiero dei nidi di ragno è impastata da problematiche che riechieggianoconsistentemente nella coeva opera calviniana, e che ne vanno a controllare i modi di scrittura,nella ricerca di una terza via possibile che svincoli la scrittura di un romanzo partigiano dal genereora abusato del racconto di guerra, da convenzioni arcinote che Calvino sente come costrittive eche, con un’intelligente operazione strategica, pensata tutta a freddo, finisce per usare a suovantaggio e a mutarne la natura.

    La nascita del Sentiero si porta dietro le stimmate di una laboriosa ricerca di un linguaggio cheprovochi, inciti al dibattito, “innesti” sulla struttura esternamente avventurosa del libro

    64 I. CALVINO, I fratelli di Capo Nero, in ID., Romanzi e racconti, t.3, cit., p.477-478. 65 Ibidem, p.451.

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    un’indiscutibile vis polemica, «il problema della responsabilità dell’uomo di fronte alla storia, ilproblema che è quello vero di noi oggi [...] e arrivare all’enunciazione d’una moralità nell’impegno,d’una libertà nella responsabilità che [...] sembrano l’unica moralità, l’unica libertà possibili»66.L’amichevole e al contempo severo monito vittoriniano di tenere sotto controllo la «narrativa comeindagine» esplicita, d’impianto saggistico, è veramente capitale per stabilire come le diversesollecitazioni alla scrittura in cui si esaurisce Calvino nella ricerca di un linguaggio “suo” finiscanoper condizionarne gli esiti, tra misura breve e lunga, in questo periodo cruciale.

    Per comprendere questo momento dinamico di sviluppo, è allora necessario portare sul bancodei testimoni tutti quei testi apparentemente periferici che rivelano però, a un secondo sguardo,una centralità strategica di materiali e tematiche abbozzate per il Sentiero. Significa, oggi – grazieall’edizione Mondadori delle opere – riportare in campo taluni scritti che mostrano parentele dirette,come il racconto Cinque dopodomani, guerra finita! o l’articolo Krasavcenko sereno al di là dei citatiVento in una città e Amore lontano da casa; pezzi, questi, illustratori di alcuni argomenti ricorrenti etipizzati come l’exemplum degli “uomini nuovi” sovietici, o dei soldati sovietici ispiratori deipartigiani italiani; o il problema, non secondario, della moralità del fare e dell’agire (dell’impegnodiretto come risoluzione qualificatrice dell’esistenza vs l’intellettualizzazione della vita) che porterà,nel romanzo, allo scontro di personaggi come Lupo Rosso e del cuoco Mancino e, anche assieme alIX, alle discussioni sul comunismo e sul suo significato esistenziale nel capitolo VIII. Non ultimo,il concorso dei pezzi scritti da Calvino nel 1945, che approdano sghembi o in pezzi nel romanzo acondizionarne taluni esiti. Significa anche ripercorrere la storia della ricezione critica del Sentiero edell’opera seconda (ma fatta di moltissimi materiali ante-romanzo), Ultimo viene il corvo (1949), lacui interpretazione certo condizionò per molto tempo l’immagine dell’autore.

    Nel caso del Sentiero abbiamo fortunatamente, ancora oggi, dei materiali che ci mostrano conconcretezza come il recit dello scrittore sia ancora condizionato da un certo tirocinio sui foglipartigiani, e come precise ipoteche ideologiche contribuiscano a orientarne la sua scrittura. In assenzadi sopravviventi stesure manoscritte complete o parziali, l’esame dei dattiloscritti che furono inviatia Riccione, infatti, permettono, grazie a poche ma non secondarie correzioni manoscritte (nonostantel’avanzatissimo stadio redazionale dei testimoni), di cogliere proprio come certe interferenze di«genere» vengano risolte dallo scrittore, come insomma Calvino curi il trapasso tra racconto breve(e giornalistico) e racconto romanzesco, e come considerazioni di volta in volta squisitamentepolitiche o narrative ne muovano la penna verso la riscrittura (di cui il ricorso sistematico allacassatura, come procedimento, è pure legittimo esempio, in quanto muta il recit dell’autore).

    Lo studio seguente, di cui questa è la prolusione, è diviso in quattro segmenti tra loro idealmentelegati e tuttavia abbastanza indipendenti, materiali d’investigazione tutt’ora provvisori. Centrale

    66 A Elio Vittorini, 12 dicembre 1947, in I. CALVINO, I libri degli altri, cit., p.7.

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    rimane la disamina dei dattiloscritti conservati presso l’Archivio del Premio Nazionale Riccione,che prende in considerazione la forma testuale del Sentiero cristallizzata tra il 12 giugno 1947 (terminead quem, l’invio delle due copie) e l’uscita in volume l’ottobre successivo. Dalla descrizione deidattiloscritti (e dalla discussione dei problemi che il loro assemblaggio pone al ricercatore) si passaall’esame delle varianti più cospicue, inevitabilmente incorniciate dall’interno della produzionecoeva calviniana, che portano in campo la discussione dell’ideazione e esecuzione del Sentiero stesso,qui indagato attraverso il sistema dei personaggi e di quelle interferenze che, da altri racconti,condizionano a distanza l’esito di questo testo o ne spiegano la genesi. Preliminarmente all’indaginefilologica, si è resa necessaria l’investigazione della ricezione critica dell’esordio, in quanto a partiredella recensione di Cesare Pavese al libro si era finiti privilegiando le storie con punti di vistainfantili e fanciulleschi e rendendole le uniche degne di cittadinanza nell’immaginario dello scrittore,scartando, nei fatti, i racconti partigiani del 1945 che sono però centrali per la comprensione delSentiero, della scelta del suo punto di vista e dell’operazione tentata col capitolo IX. La storia dellafortuna critica calviniana, alla sua nascita, è istruttiva per comprendere quali grandi e importantiipoteche abbia imposto sulla ricezione dell’autore a scapito, tutto sommato, dei testi stessi67. Sebbenepossa anche considerarsi segmento staccato dal nucleo del discorso sulla cronistoria riccionese deltesto, esso ne prepara in parte la discussione “politica” (si licet), la quale è stata condotta con lalettura della pubblicistica coeva al romanzo. Lo stesso valga per il macro-segmento finale, cheriesamina i racconti delle battaglie tra il 1945 e il 1946, alla luce dei numerosi prestiti intra e inter-testuali che si stabiliscono tra i generi di scrittura praticati dallo scrittore.

    67 Tutte le citazioni dal Sentiero dei nidi di ragno sono tratte dalla princeps (Torino, Einaudi, 1947), e sono seguite, inparentesi tonda, dall’indicazione del capitolo in numero romano e della pagina in cui la citazione ha inizio innumero arabo. A causa dell’indagine storica sul romanzo, il testo-base necessario è stato quello della primaedizione (il volume mondadoriano riporta la terza, come ultima volontà dell’autore). Le citazioni dai dattiloscrittiriccionesi sono date in parentesi tonda, con l’indicazione del capitolo in numero romano seguito dalla paginain numero arabo e, dopo la virgola, dal rigo, in numero arabo, cui fanno riferimento. Si è pertanto evitato,grazie a questa differenza evidente, di ricordare in nota quando il testo di riferimento è la princeps o i dattiloscritti.Le citazioni dei racconti 1945-1947 sono tratte dalla princeps della raccolta in cui essi sono confluiti, Ultimo vieneil corvo (Torino, Einaudi, 1949). Nel caso dei racconti non appartenenti al Corvo, un’apposita nota ne darà voltaper volta gli estremi di citazione.

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    2. Il problema interpretativo degli esordi: il personaggio e il suo ubi consistam.

    Il copione che accolse all’uscita, nel 1949, i racconti di Ultimo viene il corvo (come l’opera secon-da, e quindi la più attesa, di Italo Calvino, dopo uno iato di due anni), quasi ricalcò i passi a suotempo percorsi dall’esordiente Sentiero: poca unanimità di giudizio (anche se di segno più general-mente positivo), molte riserve68. In cerca di risposte sull’autore, i recensori si trovarono di fronte adei testi in spirito e scrittura per molti aspetti analoghi al romanzo del ’47: ma il carattere apparen-temente miscellaneo e squilibrato della raccolta («si restava perplessi, dovendo ogni momen