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DISPENSA di DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA Prof.ssa Alessandra Lo Piccolo Parte I 1. L’educazione personalizzata Negli ultimi anni, nell’ambito della ricerca educativa, si è assistito ad un crescente mutamento di prospettiva nella riflessione sul processo di insegnamento-apprendimento, con ricadute anche sul versante metodologico. Dall’uso obsoleto del termine “individualizzazione” ritenuto particolarmente efficace per esprimere l’iter didattico riguardante per lo più la persona disabile, ci si è posti il problema che l’individualizzazione così considerata creasse piuttosto una separazione dei confini contestuali riguardanti il disabile e il gruppo classe di appartenenza. Veniva a costituirsi così un duplice intervento didattico: uno rivolto al gruppo, l’altro rivolto al singolo. Questo concetto è stato superato nell’ottica dell’integrazione del disabile cercando di programmare sempre più interventi rivolti a tutti i membri del contesto educativo cui andava rivolta l’azione didattica. Recentemente ci si è spinti oltre. Il problema di creare percorsi educativi formativi per ogni componente del gruppo classe ha messo in luce due aspetti fondamentali: l’unicità di ogni persona appartenente al gruppo, indipendentemente dalla presenza di uno stato specifico di disabilità, e la globalità della persona stessa interessata in un processo di interazione e di scambio continuo con gli altri e con il contesto sociale e ambientale. Tenendo conto di ciò si è cominciato a parlare di “educazione personalizzata”, ossia rivolta alla “persona” nel suo significato più autentico, unico ed irripetibile. Rivedendo alcuni concetti consueti in Pedagogia, si condivide pienamente quanto afferma García Hoz (2005) secondo cui l’educazione personalizzata risponde sostanzialmente all'esigenza educativa di stimolare il soggetto affinché vada perfezionando la capacità di governare se stesso e la propria vita e, di

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Capitolo II La competenza espressiva

DISPENSA di

DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof.ssa Alessandra Lo Piccolo

Parte I1. L’educazione personalizzata

Negli ultimi anni, nell’ambito della ricerca educativa, si è assistito ad un crescente mutamento di prospettiva nella riflessione sul processo di insegnamento-apprendimento, con ricadute anche sul versante metodologico.

Dall’uso obsoleto del termine “individualizzazione” ritenuto particolarmente efficace per esprimere l’iter didattico riguardante per lo più la persona disabile, ci si è posti il problema che l’individualizzazione così considerata creasse piuttosto una separazione dei confini contestuali riguardanti il disabile e il gruppo classe di appartenenza. Veniva a costituirsi così un duplice intervento didattico: uno rivolto al gruppo, l’altro rivolto al singolo. Questo concetto è stato superato nell’ottica dell’integrazione del disabile cercando di programmare sempre più interventi rivolti a tutti i membri del contesto educativo cui andava rivolta l’azione didattica.

Recentemente ci si è spinti oltre. Il problema di creare percorsi educativi formativi per ogni componente del gruppo classe ha messo in luce due aspetti fondamentali: l’unicità di ogni persona appartenente al gruppo, indipendentemente dalla presenza di uno stato specifico di disabilità, e la globalità della persona stessa interessata in un processo di interazione e di scambio continuo con gli altri e con il contesto sociale e ambientale.

Tenendo conto di ciò si è cominciato a parlare di “educazione personalizzata”, ossia rivolta alla “persona” nel suo significato più autentico, unico ed irripetibile.

Rivedendo alcuni concetti consueti in Pedagogia, si condivide pienamente quanto afferma García Hoz (2005) secondo cui l’educazione personalizzata risponde sostanzialmente all'esigenza educativa di stimolare il soggetto affinché vada perfezionando la capacità di governare se stesso e la propria vita e, di conseguenza, di attuare la propria libertà personale, partecipando con le sue caratteristiche peculiari alla vita comunitaria.

Gli studi più recenti sulle differenze nella personalità hanno condotto a due tipi di interventi in campo educativo. Se le caratteristiche di una persona sono tali da renderla incapace di compiere determinate azioni, che per altri soggetti della stessa età cronologica sono perfettamente adeguate, sembra evidente che questa persona non possa seguire il processo di apprendimento ordinario, pertanto necessita di un trattamento pedagogico adeguato, ossia di un’educazione “speciale”. Ma, anche quando le differenze di personalità non sono così evidenti, comunque ne esistono sempre tra diversi soggetti posti a confronto, in quanto ogni soggetto è diverso per natura da un altro. In questo caso, seppure l'educando sia considerato un soggetto idoneo a ricevere un’azione educativa ordinaria, comunque necessita di un’attenzione “personalizzata”. Ciò si distingue dal creare un percorso educativo per il singolo. «Quando l'educazione si realizza in modo tale che un maestro stimola e dirige il processo educativo di un solo alunno, ci troviamo dì fronte all’educazione individuale» (García Hoz, 2005, p.25).

Storicamente, come lo stesso autore ricorda, l’educazione individuale si è realizzata in certe situazioni aristocratiche, cioè quando essa era rivolta a un solo alunno, generalmente un principe o un nobile che si avvaleva dell'opera di un maestro. Nel momento in cui l’azione educativa è stata rivolta ad un utenza sempre più vasta, in quanto per necessità e per diritto rivolta alla popolazione di un determinato territorio, ha cessato di avere la caratteristica dell’esclusività ed è divenuta un'attività di tipo sociale.

Dall’educazione individuale si è passati di fatto a un’educazione collettiva, propria delle istituzioni scolastiche. Ad ogni modo sia l’educazione collettiva che l’educazione individuale sono comunque forme parziali, incomplete del processo educativo. Sempre García Hoz (2005, p.25) fa notare che: «L’educazione individuale, isolando il soggetto da coloro che possono stabilire con lui delle relazioni sociali di parità, annulla la principale fonte di fecondità della vita umana. D’altra parte, l’attenzione esclusiva di un maestro verso un solo alunno suole comportare, di conseguenza, che questi confidi troppo nell'intervento dell'educatore.» In tal modo, infatti, non si consente all’educando di mettere in azione le proprie risorse autoeducative e ciò comporta l’insorgere di notevoli difficoltà per lo sviluppo delle sue capacità personali. L’educazione comune, propone García Hoz, rende materialmente possibile la relazione tra simili; però, egli afferma «nemmeno nelle forme classiche di insegnamento collettivo era favorito il contatto realmente personale tra i mèmbri di una stessa scuola. Le sollecitazioni educative erano uguali per tutti, uguale era la spiegazione del maestro, uguali i libri da utilizzare; però la risposta alle sollecitazioni e il lavoro di ogni alunno si realizzavano in modo individuale, separati gli uni dagli altri. Pertanto, in una apparente comunità, vi era solo una aggregazione di vite individuali, senza altro contatto che quello puramente esteriore» García Hoz, (2005, p.25).

Ne risulta che se l’insegnamento collettivo implica per l’insegnante l’utilizzo di uguali stimoli per tutti gli alunni, lasciando che questi reagiscano individualmente, mentre l’insegnamento individuale offre la possibilità di una costante attenzione alle particolari difficoltà e/o attitudini e interessi che l'alunno può incontrare nel processo educativo.

In termini più recenti, l’insegnamento individualizzato risulta un tentativo di armonizzare gli aspetti dell’insegnamento individuale e di quello collettivo: da una parte vi è un’offerta di attenzione e di aiuto alle esigenze specifiche della persona, dall’altro si offre l’opportunità di confronto e di socializzazione.

L’aspetto distintivo dell’'insegnamento individualizzato sta nel fatto che non si va a valutare nello specifico il risultato o il rendimento dell'alunno, piuttosto il processo del suo apprendimento, in modo tale che ogni alunno possa usufruire dell’aiuto per lui maggiormente necessario, possa trovare ciò di cui ha veramente bisogno, affinché il processo di apprendimento e di sviluppo della sua persona si realizzi nella maniera efficace.

Oggi l’idea di “educazione individualizzata” si è ulteriormente trasformata; l’attenzione è posta sul soggetto, non più come un’unità le cui caratteristiche tendono ad isolarlo dal contesto collettivo; piuttosto si vuol trovare la via per rafforzare la peculiarità della sua personalità, affinché sia resa integrata e maggiormente efficiente per la società.

Con tali premesse, risulta inevitabile e obbligatorio parlare di educazione personalizzata. Il più profondo significato dell’educazione personalizzata, afferma García Hoz, (2005, p. 27), «consiste non nell’essere un modo o un metodo nuovo e più efficace di insegnamento, ma nel convertire il lavoro di apprendimento in un elemento di formazione personale attraverso la scelta di compiti e l'accettazione di responsabilità da parte dell'alunno stesso».

1.1 La persona al centro del processo educativo

La personalizzazione dell’educazione, come evidenziato precedentemente, si distingue dall’insegnamento individualizzato, ma accoglie l’istanza dell’individualizzazione e delle differenziazioni didattiche, reinterpretandole secondo l’approccio sapienziale - umanistico (Chiosso, 2004), mirando alla “totalità del processo educativo”, all’integralità della persona e della sua vita.

L’educazione personalizzata si fonda, infatti, sulla considerazione dell'essere umano come “persona”, intesa non semplicemente come un organismo che reagisce a determinati stimoli dell'ambiente, piuttosto come un essere attivo che osserva e modifica il mondo che lo circonda.

Personalizzare significa dunque riferirsi a una persona non isolata, bensì appartenente ad una comunità ed interagente con essa.

L'educazione personalizzata è tale pertanto se si realizza in un soggetto che ha caratteristiche proprie e che coltiva tali caratteristiche affinché, attraverso le proprie capacità personali, offre se stesso e il proprio vivere operando in un contesto sociale per il bene proprio e per quello altrui.

La persona è la ragione più profonda dell'educazione personalizzata in quanto è l’essere creato di dignità superiore ad ogni altro, e assume tale importanza poiché è autentica, irripetibile e quindi assolutamente preziosa.

L’aspetto più elevato di essa, su cui l’azione educativa interviene, è l’esercizio della propria libertà e questo riconduce alla capacità di scelta in un contesto così variegato e, spesso, confuso che la società odierna propone.

In questa prospettiva «la relazione educativa deve essere impegnata a sostenere il soggetto nello sforzo, nelle difficoltà, nell’esercizio delle sue capacità di scelta, nell’assunzione delle responsabilità» (Macchietti, 1996, p.63-74) e il suo impiego deve rivolgersi soprattutto alla promozione dell’educazione morale e di quella religiosa.

Non è possibile vivere senza saper esercitare un criterio personale nel valutare le persone, le situazioni, le scelte più opportune; e ciò vuol dire vivere con libertà. «Il concetto di libertà che dà vita all'educazione personalizzata si fonda principalmente sulla considerazione che la libertà costituisce la base dell'attività umana, nei suoi atti specifici prima indicati: la scelta, l'accettazione e l'iniziativa» (García Hoz, 2005).

Se l’educazione personalizzata vuole preparare la persona a reagire a tutte le possibili situazioni che la vita possa offrire, nel modo opportuno, deve tenere conto sia dell'atto di scelta che di quello di accettazione.

Quando in una istituzione scolastica è offerta l’opportunità di scelta e di iniziativa, sicuramente si contribuisce alla formazione del pensiero creativo nella costruzione del proprio percorso di vita.

L’alunno che partecipa attivamente alla formulazione dei progetti di lavoro che lo riguardano può, infatti, apportare il suo contributo personale e, quindi, contribuire al proprio successo e a quello altrui. La comprensione degli obiettivi, la scelta dei mezzi e il confronto costante tra il progetto e la sua realizzazione creano, a poco a poco, nel soggetto la capacità di proiettarsi nel futuro e di progettare quindi il futuro della propria vita.

Da questo punto di vista, l'educazione personalizzata ha una dimensione prospettica, poiché cerca di realizzare l'educazione in funzione della società che i bambini, gli studenti di oggi creeranno domani. Essa si pone, pertanto, come stimolo e aiuto per la formulazione personale di un progetto di vita e per la sua realizzazione e, affinché ciò sia possibile realmente, occorre educare innanzitutto alla scelta e all’esercizio della libertà personale.

Investire sulla capacità di scelta e sull’esercizio della libertà personale esige, però, orientare anche l’educazione affettiva dell’educando, la quale è indispensabile per la maturazione dell’identità, che si realizza attraverso la graduale conquista di atteggiamenti di sicurezza, di stima di sé, di fiducia nelle proprie capacità e di motivazione ad apprendere. Questi traguardi non possono essere considerati fini a se stessi; «l’educazione della persona suppone la formazione del carattere nel rapporto proattivo con la realtà sociale, mentre l’auto-realizzazione della personalità, lasciata a se stessa, rischia di escludere l’alterità» (Perucca, 2002, p.15).

Tutto l’essere “persona”, dunque, è pienamente coinvolto nel processo educativo; porre al centro dell’azione scolastica la persona, essendo la scuola per sua natura un’istituzione educativa dove si educa alla cultura e ai valori, significa che tutti gli operatori interagenti, a diversi livelli, nella scuola devono impegnarsi per uno scopo comune: garantire ad ogni alunno di essere in grado di coltivare il proprio potenziale di umanità e così di essere protagonista attivo della costruzione della propria personalità.

Perché ciò avvenga la scuola è chiamata a “comprendere” e a custodire tutte le manifestazioni della persona e della sua vita integrale e a far convergere tutti gli atti educativi verso il medesimo fine.

Il traguardo cui tende l’educazione personalizzata è quello di far sì che ogni persona sia in grado di «scoprire fra le molteplici possibilità che la vita offre, quali sono quelle maggiormente in accordo con le proprie disposizioni e di disegnare la trama che dà loro unità» cioè di «formulare il progetto personale di vita, tanto nel suo versante interiore, intimo, quanto nella sua manifestazione esterna, di relazione con la realtà, e specialmente con i nostri simili, gli uomini” e con il “mondo del lavoro». (Macchietti, 2005, in La Marca, 2005, p. 26).

A sostegno di questa tesi offre un determinante contributo Piaget (1974), il quale già sosteneva che impegnarsi per la soddisfazione del diritto all’educazione significa garantire a ciascun uomo l’intero sviluppo delle sue funzioni mentali, l’acquisizione delle conoscenze, come pure dei valori morali, che corrispondono all’esercizio di dette funzioni, fino all’adattamento alla vita sociale. Di conseguenza, significa soprattutto assumere l’impegno, tenendo conto delle attitudini personali, che distinguono ciascun individuo, di non distruggere o sciupare nessuna possibilità che porta in sé e di cui la società è chiamata ad avvantaggiarsi per prima.

Ma affinché ciascuno offra alla società il proprio contributo, deve prima conoscersi, scoprire il proprio potenziale umano, le proprie risorse, le proprie specifiche peculiarità: le proprie “eccellenze”.

Il compito più delicato della progettazione educativa consiste proprio nello scoprire questa peculiare eccellenza in campi personali, nei quali un alunno può scegliere i propri obiettivi individuali: discipline scolastiche, temi culturali e di attualità, attività produttive, divertimenti e hobby, attività artistiche (García Hoz, 2005).

L’intero percorso di apprendimento deve essere progettato per valorizzare le caratteristiche individuali e promuovere l’eccellenza personale.

Un apprendimento è personalizzato, infatti, quando non si realizza attraverso l’adattamento dei contenuti disciplinari alle capacità degli alunni, ma quando viene articolato in obiettivi adeguati ai reali bisogni di ciascun alunno. «Personalizzare significa insieme riconoscere e potenziare le singolari differenze, promuovere il fondamentale bisogno di ogni persona di comunicazione e condivisione» (García Hoz, 2005, p.28).

Nelle Indicazioni Nazionali (2004) si legge che gli insegnanti definiscono gli obiettivi formativi che devono essere adatti e significativi per i tutti i loro alunni e, attraverso la progettazione delle Unità di Apprendimento, li aiutano a raggiungerli e a trasformarli in reali competenze. Anche nel testo delle Ultime Indicazioni per il Curricolo (2007) è dato all’insegnante della scuola dell’infanzia il compito di definire gli obiettivi di apprendimento relativi ai campi di esperienza, definendoli sulla base dei traguardi delle competenze.

Affinché tali obiettivi siano veramente “personali”, infatti, devono tener conto delle potenziali capacità degli alunni, devono promuoverle, valorizzarle e portarle a compimento. Poiché non tutti gli allievi hanno le stesse risorse di base, né gli stessi interessi, né si trovano nelle stesse condizioni di vita, occorre stabilire degli obiettivi che permettano di sviluppare al massimo le capacità di ogni persona, nonché offrire diversi percorsi in base alla varietà di interessi di ogni studente.

Secondo Bernal Guerrero (2002) un percorso educativo personalizzato è efficace quando tende alla valorizzazione della diversità e alla scoperta dell’“eccellenza personale”; quando oltre a garantire la promozione della capacità di conoscere e di trasformare il mondo rafforzi le relazioni e sociali, potenzi la capacità di comunicazione, di espressione, di comprensione attraverso le diverse forme di linguaggio. L’educazione raggiunge la sua massima qualità quando riesce a scoprire e a sviluppare ciò che, con un'espressione classica, si può definire “eccellenza personale”.

Ogni uomo si distingue dagli altri per una particolare abilità; ogni uomo è, potenzialmente, superiore agli altri in qualche aspetto della vita. Questa superiorità non gli è data in senso assoluto: nessuno è eccellente in tutto, né lo è per sempre né in ogni circostanza della vita.

La superiorità o l'eccellenza di cui si parla è quella particolare attitudine o quell’accentuato interesse che una persona possiede rispetto ad un qualcosa di specifico; il compito più delicato dell’educazione consiste proprio nel far scoprire ad ognuno la propria peculiare eccellenza.

Nelle istituzioni scolastiche, quando si progetta un intervento educativo – didattico si è sempre chiamati a indicare gli obiettivi comuni, cioè quelli che devono essere perseguiti e raggiunti da tutti i soggetti a cui l’azione didattica è indirizzata e gli obiettivi individuali, ossia quelli propri di ogni studente tenendo presente la singolarità propria di ogni persona e la propria peculiare eccellenza.

Va da sé che l'identificazione di una determinata eccellenza, da parte dell’educando, può generare un atteggiamento compiacimento, di vanità, e, possibilmente, di disprezzo verso gli altri.

Per scongiurare questo rischio è bene tenere presente che ogni alunno possiede una determinata caratteristica che lo porta a raggiungere una determinata eccellenza; non esistono persone prive di attitudini o di interessi particolari, quindi non esistono persone prive di una propria eccellenza.

Perché una eccellenza abbia valore educativo, deve essere fruttuosa per sé e per gli altri. Inoltre, poiché al centro del processo educativo stanno l’apprendimento e la persona, ciò dà forza alla valorizzazione dei soggetti che apprendono nella loro unicità e originalità, secondo i loro ritmi di apprendimento, cognitivi, affettivi, nel rispetto e nel riconoscimento dei vari contesti ambientali.

1.2 Le espressioni dell’educazione personalizzata

Il quadro dell'educazione contemporanea oggi si confronta con una realtà particolarmente complessa e incerta. Tuttavia, l’attenzione negli ultimi anni si è orientata, con sempre maggior incidenza, sulla valutazione in termini di “ripresa” dei valori dell’uomo che, come si può notare anche dagli ultimi documenti ministeriali, «continuano ad essere proposti come nuclei di senso ispiratori della costruzione dell'identità personale e del sistema sociale nel suo complesso» (Perla, 2005, in La Marca, 2005, p.95).

L’impegno del sistema educativo di istruzione e di formazione, come si diceva precedentemente, è totalmente orientato “per la persona” dell'allievo della quale vanno salvaguardate e valorizzare le proprie eccezionalità.

Assumendo tale presupposto al nostro discorso, emerge un aspetto di rilevante significato: se l'educazione esige uno sviluppo armonico, integrale e integrato della persona, il percorso scolastico deve essere orientato a coinvolgere tutti gli aspetti della persona nella sua integrità, tenendo quindi presente le sue caratteristiche culturali, sociali, di genere, di età, ma anche riconoscendole e valorizzandole tutte le potenzialità che possiede sotto il profilo cognitivo, espressivo, caratteriale. Nei documenti nazionali della Riforma ministeriale del 2004, così come nelle ultime indicazioni per il curricolo del 2007, non viene assolutamente negata l’importanza delle discipline, ma si evidenzia che qualunque sapere disciplinare assume valore se contribuisce realmente e significativamente alla promozione della persona nella sua interezza.

La riflessione fatta sulle connotazioni peculiari della “persona”, cui il fatto educativo mira a custodire e potenziare, ci portano ad analizzare tre aspetti dell’azione educativa ad essa rivolta; quelli che García Hoz, (2005) definisce gli orientamenti fondamentali dell'educazione personalizzata, ossia: la singolarità, l’autonomia, l’apertura.

La singolarità

A fondamento dell’essenza della persona c’è la singolarità, che implica, come ricorda García Hoz (2005) una differenziazione qualitativa in virtù della quale ogni uomo è quello che è, quindi diverso dagli altri.

L’educazione personalizzata che si presenta come educazione integrale e quindi di arricchimento e di unificazione dell'essere e della vita umana, non può prescindere dal considerare l’aspetto della “singolarità” della persona. «Dal punto di vista della singolarità personale, la finalità dell'educazione consiste nel rendere il soggetto cosciente delle sue capacità e dei suoi limiti personali, considerati sia qualitativamente che quantitativamente. E poiché la vita dell'uomo si realizza non solo nella sua intimità, ma anche in relazione con il mondo che lo circonda, è necessario un ulteriore ricorso al mondo affinché la conoscenza di sé sia suscettibile di una utilizzazione pratica esercitando la virtù della prudenza. L’orientamento educativo ha qui il suo fondamento più evidente» (García Hoz, 2005, p.29).

La manifestazione esterna della singolarità della persona è l'originalità. Essere originale è come essere creatore, infatti, il significato di originalità è pressoché identico al concetto espresso dal termine creatività.

L’uomo è per natura un essere originale e creativo, infatti, sa trovare soluzioni diverse a situazioni problematiche ed è per questo capace di progredire.

In ambito educativo coltivare la creatività è l’attività più propria e più completa dell'educazione personalizzata, poiché lo sviluppo dell’originalità o della capacità creativa è proprio un principio unificatore dell’intero processo educativo: intelligenza e fantasia, realtà e capacità, infatti, si unificano nell’atto della creazione.

Questa dimensione educativa, si costruisce sulla base delle differenze personali e per ciò riduce il rischio che l’educazione collettiva comportava: un insegnamento omologato rivolto ai tanti indistintamente.

Tenendo presente quanto detto e la tesi di Guilford (1950), secondo la quale esistono dei caratteri primari di creatività che sono in relazione principalmente con la fluidità e l'originalità della risposta, la flessibilità del pensiero, la capacità di inventare nuove idee e di elaborarle, possiamo asserire che intelligenza e creatività sono realtà differenti, benché molto legate tra loro. Nonostante ciò non esiste un concetto chiaro di creatività. Si tratta, infatti, di un’attività così complessa che è stato difficile darne una definizione. Tutti gli studiosi però concordano nel dire che la creatività è una proprietà che appartiene, in quantità maggiore o minore, ad ogni uomo e, come ricorda García Hoz (2005), si manifesta in tre maniere differenti: come ritrovamento o scoperta (archeologo), come una improvvisa illuminazione (artista o ricercatore), come parte integrante del processo produttivo; in quest’ultimo caso non si è di fronte né a un caso né ad una scoperta ma semplicemente al lavoro dell’uomo.

In riferimento a quest’ultimo concetto, oggi si manifesta con forza la necessità di educare e di coltivare la creatività di ogni persona in quanto elemento distintivo della stessa che le consente di apportare un significativo contributo alla comunità di appartenenza.

Libertà, creatività, autenticità, se esasperate, possono diventano egocentrismo, individualismo e narcisismo ma se aperte alla reciprocità sociale, creano rispetto, produttività e solidarietà e promuovono una convivenza operosa, collaborativa e pacifica. «Il fatto che, al naturale divenire della persona, l’educazione debba lasciare spazi di autenticità creativa non significa che non la debba condurre a misurare il proprio crescere con la presenza di altri, a coniugare, cioè, la propria identità e la propria cultura con quella degli altri» (Perucca, 2002, in Cuccurullo, 2002).

Purtroppo, coltivare la creatività nelle scuole oggi, significa per molti creare soltanto attività laboratoriali o progetti extracurricolari, specialmente con riferimento all’esercizio di abilità espressive di tipo artistico. Ma in realtà non è così: la creatività, proprio perché è il tratto distintivo di ogni uomo, caratterizza l’azione umana di per sé e quindi essa trova posto in tutte le forme espressive e in tutte le aree della conoscenza.

Nei primi livelli dell'educazione istituzionale (scuola dell’infanzia e scuola primaria) esiste un gran numero di possibilità, che vanno dalla scrittura creativa fino all'ideazione di problemi matematici, passando per tutta la gamma dell’espressione plastica e dinamica (García Hoz. 2005).

Successivamente presenteremo le metodologie ritenute da noi maggiormente efficaci per lo sviluppo e il potenziamento delle abilità espressive nel bambino.

L’ autonomia

L’autonomia conferisce all’uomo una dignità superiore agli altri esseri che lo circondano, in quanto lo pone come soggetto. Nella relazione soggetto-oggetto, infatti, il soggetto si trova sempre in una posizione dominante rispetto all’oggetto.

L’uomo dimostra la sua superiorità rispetto al mondo attraverso la conoscenza e l’azione: la prima in quanto l’uomo è in grado di possedere qualcosa della realtà che conosce, la seconda perché soltanto l'uomo può accostarsi alle cose ed essere capace di modificarle in base a certe idee concepite in precedenza.

Il mondo della cultura (il sapere) e il mondo della tecnica (il fare) hanno origine da queste due possibilità di dominio che l’uomo, per sua natura, possiede.

Ogni uomo, essendo soggetto, ha potere sugli oggetti conosciuti e può agire su essi “in autonomia” ma proprio questa caratteristica, che pone l’uomo al di sopra di ogni altro essere, può diventare una seria minaccia per il suo benessere e per quello della comunità, se la sua azione non viene finalizzata al bene del singolo e del collettivo.

La massima espressione dell'autonomia, ricorda García Hoz (2005) è la capacità di autogoverno, la capacità di essere legge a sé stessi, il possesso e l'uso effettivo della libertà. Nel suo significato più ampio la libertà indica l’assenza di costrizioni: infatti, libertà equivale a indipendenza; in questo senso essa potrebbe essere intesa come “libertà da”. Essa ha però anche il senso positivo di scelta, come capacità di autodeterminare le proprie azioni, quindi di poter scegliere in ogni momento della vita l’azione che si vuol compiere, che si considera migliore tra le diverse possibilità che la situazione offre; in questo senso la liberta può essere intesa come principio di attività e si esprime come “libertà per”.

È proprio questa la superiorità dell’uomo rispetto gli altri esseri: poter scegliere come agire, e se ciò è fatto con maturità e autogoverno allora la libertà diventa feconda.

Quando la libertà si realizza scegliendo tra possibilità ancora da scoprire si può parlare di iniziativa personale che rappresenta un obiettivo dell'educazione della libertà.

L’educazione della libertà trova la sua autentica espressione nello sviluppo della capacità di scelta ed educare a scegliere bene è un preciso obiettivo dell'educazione personalizzata.

L’uomo è comunque un essere creato, per tanto ha nella sua natura un limite invalicabile. Egli non può creare dal nulla, può soltanto conoscere e agire su quanto è gia stato creato da Dio, inoltre a volte l’intervento dell’uomo viene ostacolato da contesti ostili, o situazioni difficili; quando avviene ciò occorre saper “misurare” le proprie forze e accettare di non poter superare quel dato problema o di non saper affrontare quella certa situazione o ancora di avere sbagliato nel fare o nel dire qualcosa. Anche l’accettazione è comunque una scelta e l’uomo va educato ad essa.

Ogni persona compie le proprie scelte e prende le proprie decisioni liberamente, sulla base dei propri valori etici e delle proprie convinzioni personali. In questa prospettiva si pone a fondamento l’importanza di “saper scegliere”, ossia di saper orientare le proprie scelte al bene personale e comunitario. La cultura e i suoi valori devono essere fruiti non come strumenti di omologazione, bensì come mediatori di un impegno comune e responsabile finalizzato a costruire nell’oggi il futuro dell’uomo (Perucca, 2002, in Cucccurullo, 2002). Educare oggi alla “libertà”, nelle sue accezioni più autentiche, significa quindi educare la persona ad “essere” persona, integrandosi nell’ambiente mantenendo la propria specificità, grazie alla quale poter intervenire in esso apportando un continuo e fruttuoso contributo.

Tenendo presente quanto detto, possiamo asserire che la libertà di iniziativa, la libertà di scelta e la libertà di accettazione sono gli obiettivi dell’educazione personalizzata in funzione all'autonomia dell'uomo.

L’apertura

L’uomo tende, per sua natura, a creare relazioni con l’altro; tali relazioni potremmo definirle spontanee. Ma egli vive all’interno di istituzioni sociali, pertanto è chiamato a vivere relazioni, che potremmo definire, di “dovere”, e se consideriamo che egli nasce in un contesto già costituito, che non sceglie, possiamo ricavare che anche i legami, le relazioni parentali sono di fatto imposte. Da qui la necessità di educare l'uomo a questo tipo di relazioni sociali.

Le relazioni familiari sono una prima tipologia di relazioni sociali; esse sono, inizialmente, imposte ma in esse prendono vita tutta una serie di relazioni affettive speciali che non si trovano in nessun altro tipo di comunità; d’altra parte, poiché la famiglia è una comunità data all’uomo quando nasce, man mano che questi cresce è capace di tendere a una famiglia costituita sulla base di proprie decisioni. Le relazioni familiari manifestano più di ogni altro tipo di relazione, la necessità di una libertà di accettazione e, successivamente, di una libertà di scelta.

Esistono altre relazioni sociali, invece, che rispondono pienamente alla spontaneità dell'uomo, rispetto alle quali egli si mantiene costantemente libero: sono tutte le relazioni la cui finalità è lo stare insieme: si tratta delle relazioni di amicizia.

Infine, occorre ricordare la necessità, insita nell’uomo, di cercare la risposta ai tanti interrogativi da sempre irrisolti. In questo caso siamo di fronte alla vocazione umana verso la trascendenza che può essere soddisfatta solo quando l’uomo stabilisce relazioni con Dio.

Si evince pertanto l’esigenza di preparare l'uomo alle relazioni di collaborazione nella vita sociale, in ambito lavorativo, familiare, di amicizia e di vita religiosa; obiettivi, questi, che l’educazione personalizzata mira a promuovere, perseguire, raggiungere.

2. Creatività e personalizzazione

Usualmente con il termine “creatività” si intende la capacità di creare, cioè produrre qualcosa di nuovo e originale, o di inventare.

L’atto del creare è stato percepito per lunghissimo tempo come attributo esclusivo della divinità, mentre all’uomo è stato dato l’attributo di inventore e/o innovatore. Soltanto negli anni ’50 la parola creatività entra a far parte del lessico italiano e viene attribuita all’atto umano.

L’idea di creatività, infatti, nel corso del tempo, ha subito dei cambiamenti, ma soprattutto è stata affiancata a determinate e specifiche discipline, come la matematica, l’arte, la musica, la letteratura, la psicologia e, per ognuna, sembra assumere significato diverso e allo stesso tempo complementare l’uno all’altro.

Il termine “creatività” dà, inoltre, l’idea di “libere espressioni”, cioè di produzioni personali libere da vincoli o condizionamenti. In realtà non è esatto pensare all’atto creativo come atto libero; almeno per quanto attiene il concetto di creatività umana.

La creatività nell’espressione dell’uomo mette in gioco aspetti profondi della sua personalità e si lega fortemente alle pregresse esperienze, per questo motivo, non può essere definita libera espressione essendo, inevitabilmente, condizionata dalla storia individuale della persona; essa non nasce dal nulla. Inoltre, poiché l’uomo vive in un contesto sociale che lo determina in un dato modo ed entra con esso in continuo rapporto, non è neppure possibile attribuire l’aggettivo “libero” ad un’espressione, quella creativa appunto, che una volta esternata fa anch’essa parte del sistema sociale di riferimento.

“Creare” significa propriamente produrre qualcosa di nuovo che soddisfi un determinato bisogno. Solo ciò che risponde efficacemente ad un bisogno ottiene il riconoscimento sociale di prodotto creativo, innovativo. La creatività, dunque, come ambito dell’agire umano fa riferimento a fattori individuali e a fattori sociali: al primo si riferiscono le caratteristiche dell’individuo creativo, alle seconde il riconoscimento da parte di terzi. Non bisogna trascurare però che esiste una componente culturale che tramanda, all’interno di una determinata cultura, ciò che è “creativo” da ciò che non lo è. Detto ciò, come possiamo definire la creatività? Dal punto di vista socio – biologico la creatività è una delle funzioni cognitive che contribuiscono all’adattamento evolutivo: l’uomo, infatti, è un animale capace di “creare” il proprio mondo, di adattarlo e trasformarlo secondo le proprie esigenze. L’aspetto individuale della creatività non è l’unico da considerare: la creatività si manifesta, infatti, non soltanto nella capacità personale di risolvere problemi dati ma attraverso una serie di capacità proprie dell’uomo, prima fra tutte quella relazionale. La persona creativa deve sapersi relazionare e affermare se vuole proporre il suo prodotto innovativo, infatti, alcuni studiosi, a seguito di studi di ricerca su diversi soggetti, hanno rilevato che le persone più creative si connotavano tutte per socievolezza, perseveranza, indipendenza dal giudizio, autorevolezza, assertività, leadership e doti comunicative. Ma le qualità in sé non servono a determinare l’essere creativo, infatti, ciò che attribuisce l’appellativo in realtà è il giudizio della società.

È la comunità che riconosce o meno e valorizza le eccellenze. Diverse società e diverse culture danno una definizione differente alla creatività e al “fare” creativo. In alcune culture il creativo, la persona originale, si ritiene eccentrica rispetto alle norme sociali condivise dalla comunità, in altre è considerato un genio, una persona da valorizzare per la sua eccellenza personale. Lo studio della creatività va al di là della semplice e superficiale individuazioni dei fattori che ne favoriscono l’espressione, essa coinvolge molteplici aspetti della vita dell’uomo: aspetti sociali, culturali, psichici e biogenetici.

La maggioranza degli studiosi (Guilford, 1950; Bruner, 1968; Gardner, 1991;) definisce la creatività” come la facoltà di “creare” qualche cosa di nuovo, che prima non c’era, attingendo contemporaneamente a dati reali e al frutto dell’immaginazione, alle attività dell’emisfero sinistro e a quelle dell’emisfero destro del cervello”. Infatti, come è noto, il cervello dell’uomo è costituito essenzialmente da due emisferi: il sinistro, sede del pensiero, della logica, del ragionamento matematico e dell’uso della parola che controlla la parte destra del corpo e l’emisfero destro che, oltre a controllare la parte sinistra del corpo, elabora l’immaginazione, il linguaggio analogico e il simbolo.

Oliverio e Oliverio Ferraris (1978) nella loro definizione di cervello creativo, partono da ben note evidenze empiriche che hanno evidenziato come gli emisferi cerebrali abbiano caratteristiche e competenze diverse. In particolare, l’emisfero sinistro è più analitico, razionale e logico, usa simboli e concetti astratti, e soprattutto, è la sede delle aree del linguaggio. L’emisfero destro, ha una natura non verbale e non razionale; è più sintetico e concreto e si caratterizza per la sua capacità analogica, cioè per la possibilità di portare ciò che è ignoto nel dominio del noto tramite associazioni e metafore. Mentre la parte sinistra del cervello sembra percepire gli stimoli in modo analitico, l’emisfero destro li percepisce nella loro globalità. Nell’emisfero destro quindi è facile rintracciarvi le caratteristiche della creatività.

Da recenti studi si è notato come nella nostra società tutte le attività dell’emisfero sinistro siano maggiormente sviluppate e valorizzate nel corso del tempo. La scarsa valorizzazione delle facoltà non razionali, quindi, potrebbe essere la principale causa della mancanza di creatività, notata da diverso tempo, ormai, nella nostra cultura. C’è da dire però che la creatività si esercita sviluppando e potenziando l’interazione tra i due emisferi del cervello, ciò significa che ragione e fantasia devono lavorare insieme per sfociare in creatività.

Nella scuola non è possibile prediligere un genere di attività, di tipo logico-razionale, da un altro genere di tipo pratico e fantasioso; si farebbe un enorme torto alla crescente personalità degli alunni che, già nell’apprendere in modo “personale” danno vita alla propria capacità creativa.

La componente creativa dell’alunno non deve essere pertanto inibita, perché spesso ritenuta inconsueta, né deve essere indirizzata dall’espressione del docente. Si pensi all’Emilio di J. J. Rousseau[footnoteRef:1] (1712-1778): questi è l’esempio di educando che segue pedissequamente il progetto educativo del suo educatore; ma cosa accadrebbe se l’alunno proponesse un proprio stile elaborando proprie idee, regole? Nel caso in cui ciò avvenisse, è compito del docente accogliere l’atto propositivo, oserei dire “creativo”, dell’alunno e, nelle norme di rispetto interpersonale, entrare in dialogo con lui per cogliere quanto di “personale” vi è nella sua proposta. [1: Jean Jacques Rousseau, uno dei padri della pedagogia moderna, nel romanzo “Emilio”, ha narrato il percorso educativo di un giovane educando, descrivendo i processi propri dell’educazione alla libertà.]

Questo atteggiamento, non inibendo la personalità dell’educando, né mortificandola in alcun modo, offre opportunità di confronto, di apertura, di crescita e di stimolo non indifferenti.

La componente creativa, a scuola, quindi, deve essere utilizzata per fare emergere gli stili cognitivi degli alunni e favorire le procedure di didattica differenziata, consentendo all’insegnante di conoscere davvero il proprio alunno e allo studente di avere valorizzate le proprie capacità.

La possibilità di “essere”, per mezzo dell’espressione creativa, favorisce negli alunni la motivazione allo studio e la partecipazione di tutti.

2.1 Creatività e intelligenza

La creatività è considerata, in ambito psicologico, come la capacità o l’insieme di capacità che favorisce l’adattamento; più generalmente ad essa viene riferito quell’insieme di capacità mentali indicate semplicemente con il termine “intelligenza”; fa riferimento a questo concetto la capacità di risolvere i problemi e trovare soluzioni (problem solving).

Le capacità creative, infatti, contribuiscono alla risoluzione dei problemi e, solitamente, le persone più dotate di questa capacità, sono ritenute “creative” e, comunque, notevolmente dotate sul piano dell’intelligenza. Il “creativo”, più che colui che risolve i problemi dovrebbe essere colui che ne scopre dei nuovi e si attiva per trovarne la soluzione. Chiunque, infatti, memore di un’esperienza personale o generalizzando le informazioni acquisite, può trovare la risoluzione a determinati problemi. In questo caso, la persona è sicuramente dotata di intelligenza, ma la si può definire “creativa”?

Il soggetto intelligente, per la risoluzione dei problemi, fa riferimento a quelle regole conosciute e, per quanto complesso possa essere applicarle alla realtà, trova il modo di farlo.

Il creativo, invece, piuttosto che applicare quanto già scoperto da altri, dovrebbe essere capace di riformulare il problema da risolvere, secondo il proprio punto di vista, quindi fornire nuove soluzioni, cioè delle risposte innovative e utili.

Secondo Guilford (1950) la creatività non è una funzione unitaria o uniforme ma si compone di molteplici fattori o capacità mentali primarie. In particolare, essa risiede nel “pensiero divergente” le cui caratteristiche principali sono la flessibilità, l’originalità, la fluidità o la capacità di produrre rapidamente una successione di idee che soddisfa determinate richieste. La flessibilità è intesa come la capacità di abbandonare i vecchi modi di pensiero e avviarsi lungo nuove direzioni. L’originalità è la capacità di produrre risposte non comuni o associazioni non convenzionali. La fluidità del pensiero, a sua volta, si divide in quattro sotto componenti quali: la fluidità verbale o capacità di produrre delle parole; la fluidità associativa o capacità di produrre il maggior numero di sinonimi, fluidità espressiva o capacità di combinare parole per soddisfare le esigenze della struttura della frase e la fluidità ideativi, ovvero al capacità di problem solving.

Nella prospettiva psicoanalitica proposta da Freud (1985), successivamente sviluppata da altri studiosi, la creatività è interpretata come la capacità di far ricorso a contenuti inconsci o preconsci particolarmente vivaci e produttivi. Wallas (1926) ha scomposto il pensiero creativo in quattro stadi che passano per le fasi di preparazione, incubazione, illuminazione e verifica. La fase di preparazione vede il soggetto creativo impegnato nelle operazioni preliminari volte alla raccolta, alla ricerca delle idee creative. La seguente fase di incubazione fa riferimento a quell’arco temporale nel quale l’idea creativa si sedimenta all’interno della mente del soggetto e il materiale raccolto subisce un processo inconscio di elaborazione. L’illuminazione fa riferimento alla soluzione del problema da parte del soggetto creativo e, in fine la verifica che è il riscontro dell’idea sul piano della realtà.

Wertheimer (1880-1943), nell’ambito della psicologia della Gestalt, fa coincidere la creatività con il pensiero produttivo o insight (o illuminazione). Per tale studioso il processo creativo consiste, infatti, nel passaggio da una situazione strutturalmente instabile o insoddisfacente ad una situazione che offre una soluzione o, in altri termini, ad una Gestalt migliore.

Bruner (1968) partendo dalla definizione di atto creativo, contraddistinto dalla presenza di una sorpresa produttiva, afferma che il segno distintivo di un’azione creativa è che essa genera una sorpresa produttiva. Il concetto di sorpresa produttiva si riferisce ad un atto inatteso che colpisce l’osservatore, provocando in lui stupore o meraviglia.

Lo sviluppo delle neuroscienze e delle discipline cognitive ha messo in relazione il concetto di creatività con il “tipo” di intelligenza posseduta dai soggetti; questi studi, infatti, abbracciano il modello di intelligenza dal carattere multi-dimensionale[footnoteRef:2], che valorizza le singole abilità possedute dall’uomo e che, insieme, determinano l’intelligenza della persona. L’uomo, infatti, non possiede un solo tipo di intelligenza ed è privo degli atri tipi e non è la diversa tipologia di intelligenza a distinguerlo da altri uomini. [2: Il modello di intelligenza a cui ci si riferisce è quello descrittivo sviluppato dal ricercatore Howard Gardner. Lo psicologo (1985) ha proposto una teoria, definita “teoria delle intelligenze multiple”, secondo la quale esistono 7 tipi di abilità (linguistica, logico-matematica, spaziale, musicale, corporeo – cinestesica, interpersonale, intrapersonale), ciascuna delle quali è identificata, dallo studioso, come un tipo distinto di intelligenza che implica l’attività di meccanismi cerebrali complessi. Successivamente Gardner ha individuato un’ottava intelligenza, quella naturalistica e ha ipotizzato la presenza di una nona intelligenza, ossia quella esistenziale.]

Nel corso del tempo, numerosi studi, effettuati al riguardo, hanno riconosciuto che l’intelligenza non è altro che un insieme di abilità che dipendono dal funzionamento del cervello; essa, cioè dipende da come il cervello umano mette in relazione le capacità percettive, mestiche e di comparazione degli stimoli. Tutto ciò, inoltre, è governato dal patrimonio genetico che, chiaramente si diversifica da persona a persona. Nonostante il carattere di ereditarietà appare condiviso da più gruppi di ricerca che uno dei fattori che maggiormente determina lo sviluppo dell’intelligenza è l’esercizio delle abilità che la costituiscono: la memoria si può esercitare e così pure la capacità di percepire e di mettere a confronto più stimoli. Per molti studiosi, quindi, la creatività non è semplicemente espressione di intelligenze, piuttosto è parte integrale delle capacità e delle abilità che la determinano.

Altri autori, invece, sono propensi a considerare una rilevante autonomia delle capacità creative rispetto a quelle dell’intelligenza. Barron (1958), uno dei maggiori esponenti nel campo della ricerca sulla creatività, sostiene che l’intelligenza sia sostanzialmente un costrutto i cui confini sono dati dagli strumenti di misurazione, utilizzati durante ricerche empiriche. Secondo l’autore, se l’intelligenza è misurata come l’insieme delle capacità che consentono al soggetto di dare risposte corrette a quesiti di natura verbale o logico-matematica, la creatività non può, in alcun modo, essere accomunata ad essa. Fornire risposte corrette facendo riferimento a informazioni già possedute non è sufficiente per definire quel determinato soggetto, un creativo.

Sulla base del suo approccio empirico, Barron ha esaminato gli studi effettuati che hanno indagato sulla relazione tra creatività e intelligenza e ha notato che dagli studi condotti emergeva costantemente un dato: le persone giudicate particolarmente creative in campo artistico, scientifico, letterario, ecc., avevano punteggi elevati ai test di intelligenza generale; però comparando tali misurazioni di intelligenza con gli indici di creatività, basati sul giudizio di terzi, la proporzione non reggeva più: creatività e intelligenza si dimostravano scarsamente correlate tra loro.

Da questa ricerca Barron generalizzò una sua ipotesi, secondo la quale essere creativi implica un fare innovativo, un produrre qualcosa di nuovo e utile, o comunque che sia corrispondente a bisogni reali e condivisi dalla comunità, tale da poter essere giudicato originale, innovativo e funzionale.

Un problema che ancor oggi la ricerca sulla creatività deve affrontare riguarda la mancanza di test adeguati per la misurazione delle abilità creative; molti test, costruiti in forma di risposta aperta o a scelta multipla, utilizzati su diversi soggetti e in diverse occasioni, hanno dimostrato una scarsa specificità. Il criterio era, infatti, quello di rilevare le risposte inusuali, rispetto alla media delle risposte offerte, ma questo non ha consentito di rintracciare la personalità creativa; anche soggetti chiaramente disturbati, infatti, fornivano risposte inusuali, da essere giudicate creative, pur non essendolo.

A differenza della misurazione dell’intelligenza, caratterizzata dall’elemento di predittività delle risposte, quella della creatività è una misurazione ben più difficile da svolgere: non si sa ancora, infatti, se i test finora utilizzati siano in grado di prevedere la riuscita reale del soggetto in campo creativo. La scarsa predittività dell’intelligenza ai fini del successo creativo sembra confermare la tesi di Barron e altri ricercatori sulla scarsa correlazione tra intelligenza e creatività. Essere intelligenti è probabilmente un prerequisito per l’espressione della creatività ma essere creativi comporta il possesso di qualità distinte da quelle che determinano l’intelligenza.

Alcuni studiosi, tra i quali Arieti (1976), hanno sostenuto che, in certi casi, l’intelligenza possa costituire un freno all’espressione della creatività. Il ricercatore, analizzando la relazione tra creatività e malattie mentali, ha notato che soggetti in cui erano presenti forme di inibizione, di rigidezza ed eccessiva autocritica possedevano un quoziente intellettivo molto elevato.

Intelligenza e creatività appaiono quindi dei costrutti distinti sebbene interrelati. Molti ricercatori concordano nel ritenere possibile che le capacità cognitive atte all’espressione dell’intelligenza contribuiscono sicuramente anche alla riuscita in ambito creativo ma una elevata intelligenza non è sufficiente a garantire il successo in campo creativo.

Vygotskij (1973) assimila la creatività all’attività creativa o combinatrice del pensiero umano. Quest’ultima, riferendosi alla creazione di immagini, o azioni nuove, si differenzia dall’attività riproduttrice del pensiero che si limita solo a riprodurre o ripetere comportamenti acquisiti in precedenza dall’individuo. L’attività creativa o combinatrice del pensiero origina dalla capacità combinatoria del cervello che non si limita solo a conservare e riprodurre l’esperienza antecedente del soggetto, ma anche a rielaborare creativamente e combinare tra loro i diversi elementi dell’esperienza, generando situazioni e comportamenti nuovi.

Di certo la creatività riveste un ruolo centrale tanto nella ricerca di soluzioni originali ed innovative (problem solving) quanto nell’analisi, e relativa ottimizzazione di situazioni e processi complessi (problem making). Più che una dote del carattere essa rappresenta una forma mentis dell’individuo, un modo di rapportarsi alla realtà, di concepire e vivere la vita. Tale habitus mentale, attraverso un’opportuna formazione, può essere appreso ed incrementato da ogni persona.

2.2 Creatività tra realtà e fantasia

I processi che stanno alla base dell’immaginazione sono stati messi in luce da Vygotskij (1973) che li spiega descrivendo un ciclo che passa attraverso specifici passaggi.

Inizialmente gli elementi della realtà che hanno innescato l’immaginazione, sono sottoposti ad un iniziale processo di dissociazione. Tale meccanismo consiste nel fatto che gli elementi della realtà sono suddivisi nelle loro singolari parti: alcune di queste acquistano un particolare risalto, mentre altre cadono completamente nell’oblio.

Il processo di dissociazione è fondamentale per la fantasia perché contribuisce a spezzare il legame naturale esistente tra gli elementi della realtà; esso rappresenta, quindi, il presupposto per la creazione di nuovi legami. In seguito, gli elementi della realtà sono sottoposti ad un processo di alterazione e mutamento che è fondato sulla alterazione e rielaborazione degli elementi che compongono la realtà. Infine, gli elementi della realtà sono sottoposti ad un processo di associazione basato sulla riunione degli elementi in precedenza dissociati e trasfigurati. Esso, quindi, rappresenta il momento conclusivo dell’immaginazione poiché combina tra loro immagini isolate costruendo un vero e proprio quadro di insieme.

Osservando il comportamento dell’uomo è possibile individuare, nella complessità della sua attività, due aspetti differenti: alcune azioni sono orientate alla riproduzione di comportamenti già conosciuti o elaborati da altri, altre azioni hanno delle caratteristiche più singolari.

Nel primo caso si tratta di attività che si possono definire “riproduttrici” e sono strettamente legate alla memoria. In esse non si crea nulla di nuovo; l’azione si riduce a una, più o meno esatta, ripetizione di ciò che già esiste.

Nel secondo caso si mette in atto un’attività combinatrice o “creativa”. Ciò avviene, ad esempio, quando si immagina il futuro; in tal caso, infatti, non avviene un recupero di informazioni bensì si dà sfogo alla fantasia. In attività di questo tipo l’elemento fondante è proprio il creare immagini o azioni nuove.

A questa attività creativa, che si fonda sulla facoltà combinatoria del cervello umano, la psicologia ha dato il nome di “fantasia” o “immaginazione”; con questi termini si intende comunemente tutto ciò che è irreale, fuori dalla realtà delle cose. In verità, riporta Vygotskij (1972, p.6) «l’immaginazione, in quanto fondamento di ogni attività creativa, si manifesta in tutti – senza eccezione – gli aspetti della vita culturale, rendendo possibile la creatività artistica, scientifica e tecnica».

Solitamente si ritiene che la creatività sia una peculiarità di pochi individui, perlopiù di chi ha prodotto delle grandi opere d’arte o ha realizzato grandi scoperte scientifiche, e così via, ma non è scientificamente corretto affermare ciò. «La creatività sussiste di fatto non solo dove realizza insigni, storiche creazioni, ma dovunque c’è un uomo che immagina, combina, modifica e realizza qualcosa di nuovo, anche se questo qualcosa di nuovo possa apparire un granello minuscolo in confronto alle creazioni dei geni. […] La creatività è una condizione indispensabile dell’esistenza, e tutto ciò che travalica i limiti della routine, tutto ciò che ha in sé foss’anche uno iota di nuovo, deve la sua origine al processo della creatività umana» (Vygotskij, 1973, p.22).

Esiste un forte legame tra immaginazione e realtà: ogni creazione immaginaria è composta da elementi colti dalla realtà di cui l’individuo ha già avuto modo di far esperienza. L’immaginazione, quindi, utilizza sempre materiale esistente nella realtà e, anche se essa può raggiungere, nel suo processo combinatorio, sempre più nuovi livelli, gli elementi di partenza sono sempre quelli primari della realtà. «L’attività creatrice dell’immaginazione è in diretta dipendenza dalla ricchezza e varietà della precedente esperienza dell’individuo, per il fatto che questa esperienza è quella che fornisce il materiale di cui si compongono le costruzioni della fantasia. Quanto più ricca sarà l’esperienza dell’individuo, tanto più abbondante sarà il materiale di cui la sua immaginazione potrà disporre» (Vygotskij, 1973, pp.29-30).

Da quanto espresso finora, l’immaginazione appare, quindi, il fondamento di ogni attività umana, sia essa di natura artistica, scientifica e tecnica. Ogni prodotto della fantasia (quadro, storia, fiaba) è composto da elementi della realtà, trasfigurati e rielaborati. Di conseguenza, l’immaginazione diviene un mezzo di dilatazione dell’esperienza del soggetto che grazie ad essa ha la possibilità di immaginare anche ciò che non ha mai visto. I prodotti finali della fantasia, una volta creati, cominciano, infatti, a sussistere come oggetti reali. La fantasia e la razionalità sono due competenze che vivono un rapporto di complementarietà. Entrambe le funzioni (razionalità e fantasia) cominciano a comparire nel corso del secondo anno di vita del bambino. In età prescolare i bambini incominciano a sviluppare la competenza rappresentativa, che consente loro di immaginare oggetti e situazioni assenti alla sua vista e di giocare simbolicamente con gli oggetti stessi.

Secondo la prospettiva dell’autore esistono fattori interni ed esterni alla persona che condizionano e favoriscono lo sviluppo dell’immaginazione: il primo fattore psichico alla base dell’immaginazione è il bisogno, inteso come la necessità avvertita dal soggetto di realizzare impulsivamente qualcosa. Parimenti, perché emerga l’immaginazione è necessaria la spontanea insorgenza nella mente del soggetto degli elementi che costituiscono il fondamento della sua stessa creazione. Accanto a tali fattori interni, un grande peso perché si manifesti la creatività in un soggetto, è esercitato dall’ambiente. Solo, infatti, se ci sono le adeguate condizioni ambientali, l’immaginazione soggettiva può emergere.

Dal punto di vista pedagogico, se si vuole formare una persona capace di svolgere una buona attività creativa, quanto detto evidenzia l’importanza di estendere sempre più le esperienze del bambino. Infatti, quanto più il bambino avrà visto, udito, toccato, conosciuto, sperimentato e assimilato, quanto più sarà la sua capacità di mettere in relazione gli elementi della realtà e dare loro significato, tanto più significativa e produttiva sarà la sua attività immaginativa.

Il legame tra fantasia e realtà è più complesso rispetto a quanto detto finora. Abbiamo detto che la fantasia si appoggia alla memoria per creare sempre nuove combinazioni fantastiche, ma avviene anche che gli elementi della combinazione fantastica non siano elementi della realtà piuttosto è il prodotto già pronto della fantasia che si lega ad un qualche complesso fenomeno della realtà. Vygotskij (1973) cita l’esempio di chi si compone un quadro di un avvenimento storico appreso. Non si conoscono gli elementi reali e il quadro, dice l’autore, appare il risultato dell’attività creativa dell’immaginazione. Esso non riproduce, infatti, cose recepite precedentemente, ma crea dall’esperienza stessa delle combinazioni nuove.

Esiste ancora un altro legame tra attività immaginativa e realtà ed è quello “emozionale”. Questo è un legame, dice Vygotskij (1973) di cui si possono distinguere due aspetti: da un lato «ogni sentimento ed ogni emozione tendono a prender corpo in determinate immagini ad essi corrispondenti. L’emozione, quindi, è dotata in parte di una capacità di selezionare certe impressioni, pensieri e immagini, affini allo stato d’animo che ci domina in quel dato momento» (Vygotskij, 1973, p.33), dall’altro le immagini della fantasia forniscono un linguaggio interiore al nostro sentimento. «Quest’ultimo seleziona elementi isolati della realtà e li combina insieme in un legame, che viene condizionato interiormente dal nostro stato d’animo, anziché dall’esterno e dalla logica delle immagini in se stesse» (Vygotskij, 1973, p.34).

Questa influenza che il fattore emozionale ha sull’attività combinatrice della fantasia è detta: legge del segno emozionale comune. C’è, infine, un altro tipo di legame tra fantasia e creatività, il cui fenomeno viene definito legge della realtà dell’immaginazione; ciò avviene quando l’immaginazione influisce sui sentimenti. Il sentimento, infatti, non meno del pensiero, stimola la creatività dell’uomo, anzi, dice Vygotskij (1973, p.38), «ogni sentimento (o emozione) dominante, ha bisogno di concentrarsi in un’idea o in un’immagine che gli dia corpo, che lo sistemi, senza di che rimarrebbe allo stato fluido…».

Gli studi della psicologia dello sviluppo e della pedagogia hanno approfondito, negli anni, il tema della creatività infantile e del suo sviluppo. Sin dalla prima infanzia, infatti, si riscontra che i bambini hanno una fervida immaginazione e attivano processi creativi soprattutto attraverso il gioco e il disegno. In realtà, afferma Vygotskij (1973), non è il gioco o il disegno ad esprimere creatività quanto piuttosto la rielaborazione combinatrice di esperienze personali che consentono al bambino di costruire una nuova realtà, cui dare vita attraverso il gioco o il disegno.

È interessante considerare, a tal proposito, come l’attività immaginativa lavori in modo peculiare e singolare non solo a livello soggettivo ma anche in relazione all’età della persona. Abbiamo più volte detto che l’immaginazione dipende dall’esperienza; nel caso del bambino piccolo, va da sé che l’esperienza si organizza in modo graduale ma la sua immaginazione,rispetto quella dell’adulto ha una maggiore originalità.

Molti studiosi ritengono che nel bambino l’immaginazione sia più ricca che nell’adulto e che l’infanzia sia il periodo della vita in cui la fantasia dell’uomo avrebbe il suo massimo sviluppo; ma ciò non si accorda con quanto mettono in evidenza altre tipologie di studi sull’immaginazione infantile. Vygotskij (1973) evidenzia come l’esperienza dei bambini sia, invece, molto più povera rispetto a quella degli adulti e come gli interessi dei primi siano, senza alcun dubbio, più semplici ed elementari. Egli sostiene che «il bambino è in grado d’immaginare assai meno dell’adulto, ma crede di più ai prodotti della sua immaginazione, e ne ha minor controllo: cosicché, se si intende l’immaginazione nel senso improprio della parola, cioè come qualcosa d’irreale, d’inventato, indubbiamente egli ne possiede di più che l’adulto. Tuttavia, non solo il materiale indispensabile all’immaginazione per le sue costruzioni è più povero nel bambino che nell’adulto, ma anche il carattere delle combinazioni che a tale materiale si applicano, e la loro qualità, e la loro varietà, sono molto inferiori alle combinazioni dell’adulto» (Vygotskij, 1973, p.54). A conferma di ciò avviene naturalmente e spontaneamente nella crescita di ogni uomo una sorta di decadimento della fantasia infantile quando il ragazzo abbandona le manifestazioni immaginative del gioco e del disegno, tipiche dell’infanzia, e guarda a se stesso e al mondo con occhio più critico.

2.3 Creatività ed espressione

Il mondo odierno, nelle sue innumerevoli e a volte contraddittorie caratteristiche e manifestazioni, sia di tipo sociali che naturali, offre un ricco contenuto che agevola e incrementa fortemente l’apprendimento nell’età infantile.

Anche nella scuola, infatti, si attua, da tempo ormai, un nuovo modo di impostare l'insegnamento; ciò che viene particolarmente curato è l’approccio alla persona. In esso un posto di riguardo spetta alla capacità espressiva, nel senso di manifestazione esterna di ciò che si è e di ciò che si sa. A tal riguardo appare essenziale curare tutti gli aspetti dell’espressione personale, verbale e non. Il contenuto culturale dell'educazione si enuncia nella espressione verbale, in quella numerica, in quella plastica e dinamica della realtà naturale. Come è facilmente deducibile da quanto detto è che l’espressione costituisce l’essenza di ogni attività educativa. Nessuna realtà può essere compresa, infatti, se non la si esprime in qualche modo.

Volendo utilizzare un’espressione di García Hoz (2005), l’espressione ha soprattutto un valore transitivo: uno si esprime e un altro raccoglie il significato dell’espressione. Pertanto con questo temine si include sia l’attività di colui che “esprime”, ossia manifesta qualcosa, sia quella di colui che riceve tale manifestazione.

Ciò che differenzia l’espressione umana, inoltre, da qualunque altra forma espressiva, è che può essere considerata una fase dell’attività psichica dell’uomo, quando include il processo di riflessione.

Al sostantivo espressione seguono, come evidenzia, García Hoz (2005,) quattro aggettivi, i quali vengono assunti per definire le possibili forme di espressione e danno origine ad altrettanti tipi di attività espressiva; essi sono: l’attività linguistica in funzione dell'espressione verbale; l’attività matematica in funzione dell'espressione numerica; l’attività tecnica e artistica in funzione dell’espressione plastica; l’attività musicale, drammatica e, in generale, ritmica in funzione dell’espressione dinamica.

Le attività citate costituiscono praticamente lo schema formale e tecnico-operativo del lavoro scolastico, infatti, agli aggettivi menzionati vengono incluse le tradizionali materie d’insegnamento che, più che essere concepite come “materie” oggi sono intese quali “nuclei di esperienza”, intorno ai quali si progettano tutti i mezzi di espressione.

Da ciò si evince il nesso rapporto tra espressione e apprendimento: infatti il valore educativo dell'espressione sta proprio sul fatto che esso è il culmine di un complesso processo intellettuale che sfocia in una conoscenza o in una abilità e che, essendo personale, quindi unico e originale, caratterizza e condiziona l’espressione.

L’espressione sintetizza il processo di apprendimento in quanto è la manifestazione esterna di ciò che il soggetto ha appreso, e pertanto soltanto essa può rivelare l’andamento del processo educativo.

Si potrebbe dire, in altri termini, che l’espressione sia il risultato finale di un lavoro ed effettivamente un qualsiasi lavoro efficace si manifesta in una espressione corretta e sufficiente; ma, è anche vero che una espressione accettabile ha bisogno prima di un lavoro efficace. Infatti, sebbene l’espressione sintetizzi il lavoro, non è necessario la completa realizzazione di un’attività per definirla; anche le realizzazioni parziali del lavoro sono di fatto testimonianza dello stesso. Dunque è possibile parlare di “successioni di espressioni” che si realizzano compiutamente nell’espressione totale; a parimenti la successione di certe attività sfocia nel risultato del lavoro.

Quanto detto finora non deve limitarci alla considerazione dell’espressione, intesa come lavoro materiale; essa riflette anche e, soprattutto, ciò che potremmo definire “lavoro intellettuale”. Espressione e lavoro intellettuale costituiscono proprio il nucleo della formazione culturale dell’uomo di oggi, ossia di quel tipo di uomo che sa utilizzare, trasformare, personalizzare tutte le possibilità che gli si offrono, obiettivo, anch’esso, fondamentale dell’educazione personalizzata.

L’atto espressivo, riconducibile alla singolarità ed originalità personale, è per sua natura un atto “creativo”, in quanto la persona, con i suoi tratti di originalità e di irripetibilità, di unicità e di diversità esige di essere considerata il centro e l’elemento principale di ogni progettazione didattica e di ogni intervento educativo. Ciò perché educare la persona significa consentirle di “coltivare” tutto il proprio potenziale, in termini di: umanità, affettività, sensibilità, percezione, espressione, socialità, intelligenza, ossia tutte le funzioni che interagiscono nella personalità individuale, in modo che il potere di ognuna di esse onori il potere delle altre, per consentire una piena costruzione e una integrale manifestazione dell’io individuale (Macchietti, 1996). Come la stessa autrice riporta, in un altro contributo, il processo educativo deve mirare a coltivare l’umanità di ciascun uomo per consentirgli di divenire ed essere capace di definire e di attuare il proprio e personale progetto di vita (Macchietti, 1996).

La persona, pertanto, deve essere messa nelle condizioni di sviluppare la sua inclinazione fondamentale, le sue attitudini, le ricchezze di cui è depositaria per metterle a servizio di sé e degli altri ma per poterlo fare deve sviluppare una personale capacità di esternare quanto possiede.

A tal fine, nella scuola, attraverso l’acquisizione di conoscenze disciplinari e l’esercizio di abilità, si vuole sviluppare e consolidare tutti quegli aspetti fondamentali della personalità e del carattere di ogni alunno che riguardano il piano cognitivo, quello affettivo, sociale, morale e religioso.

La scuola ha anche il compito di orientare gli studenti verso scelte di vita sane e fruttuose per sé e per il sociale e quindi a vivere attivamente. Per raggiungere tale fine, si è dell’avviso che non può più bastare l’accumulo di saperi, ma occorre sviluppare in ciascun alunno un’attitudine generale nel porre e trattare i problemi e nell’utilizzare i saperi già conosciuti e le esperienze vissute, per la soluzione di situazioni problematiche in atto.

L’incontro che ogni bambino ha con i sistemi simbolico-culturali, sin dalla scuola dell’infanzia, gli consente di dare “forma” e “struttura” ai suoi modi di conoscere, poiché offre oggetti, parole, idee, immagini alla sua disponibilità ad apprendere. La scuola ha il compito di organizzare questi incontri, creando un ambiente favorevole e predisponendo un vasto campo di esperienze che possano contribuire allo sviluppo di ogni bambino. Questi diversi contesti di incontro e di crescita culturale servono, così come recenti studi di psicologia affermano, a produrre nei bambini diversi interessi e differenti stili di pensiero, quindi diverse intelligenze.

Volendo fare una sintesi possiamo dire che l’espressione, intesa quale competenza della persona, è tale quando si fonda su tre prerequisiti fondamentali: la percezione che la persona ha di sé, l’esperienza che fa di sé e l’ideale di sé cui tende. Questi tre elementi concorrono alla costruzione dell’identità personale che si manifesta attraverso la scelta di valori esistenziali, la scelta degli obiettivi che ci si prefigge di raggiungere, la scelta di un progetto di vita cui tendere.

Intendendo quindi competente la persona che “esprime” se stessa, nell’accezione di cui sopra, non possiamo intendere l’acquisizione della competenza espressiva il semplice risultato del connubio “saperi-abilità”; essa va ben oltre e si pone ad un livello massimo di “competenza personale”, manifestando, tra l’altro anche l’aspetto metacognitivo dell’esperienza personale, in quanto forma esterna del processo di costruzione e decostruzione della conoscenza finalizzato alla risoluzione di un determinato problema o bisogno interno o esterno alla persona.

3. La competenza espressiva

Nello scenario educativo odierno appare sempre con maggiore convinzione, la necessità di far convergere tutte le energie e le risorse umane e materiali verso un obiettivo di fondo corrispondente alla promozione e allo sviluppo delle potenzialità del soggetto che apprende, affinché questi acquisti un’autonoma capacità di affrontare le diverse esperienze, imparando a riconoscere e ad utilizzare gli strumenti necessari per meglio vivere tali esperienze.

Guardare alle potenzialità della persona non significa soltanto educare alla conoscenza di sé e allo sviluppo di competenze di ruolo, che permettono di assolvere a compiti sociali, ma soprattutto educare alla capacità di investire su di sé, di progettare la propria vita e per questo occorre consentire lo sviluppo di competenze umane che consentono di poter vivere la propria vita in modo dignitoso e umanamente realizzato (Nanni, 2003).

La logica per competenze richiede un cambiamento di prospettiva: la scuola non più intesa nella sua tradizionale forma di contenitore del sapere “ricettivo – riproduttivo”, bensì come ambiente in cui il sapere si organizza di continuo in termini di produttività attraverso i contenuti disciplinari che, in forma aggregata, offrono nuove chiavi di lettura del reale. Per Frabboni (1999), l’affermazione di una didattica delle competenze richiede la ricerca di un rapporto fecondo tra le diverse discipline, in modo tale che al centro della didattica ci sia l’acquisizione di competenze di diverso livello che man, mano si integrano tra loro organizzando un sapere che va oltre il disciplinare.

Nelle Indicazioni Nazionali (2004), si parla di Unità di Apprendimento come occasioni di sviluppo, di maturazione e di trasformazione delle capacità della persona in competenze, attraverso l’acquisizione di conoscenze e di abilità. Esse, infatti, non hanno una funzione informativa di contenuti e nozioni, ma una funzione formativa perché sono progettate come occasioni per lo sviluppo globale della persona dell’alunno: si strutturano quali percorsi atti a sviluppare, in maniera armonica e integrale, le capacità intellettuali, motorie, linguistiche, espressive, estetiche, affettive, sociali, morali e religiose di ciascuno, affinché possa conoscersi e possa utilizzare strategie personali per comprendere la realtà, capirla e trasformarla. Ogni alunno quindi deve essere messo nelle condizioni di vivere esperienze significative per la costruzione di tutte le dimensioni della propria personalità e di sentirsi protagonista di un fare che sollecita sempre il sapere. Anche se nelle Ultime Indicazioni per il curricolo (2007) non si parla nello specifico di Unità di Apprendimento, permane l’orientamento di progettazione di un “percorso di apprendimento” il cui traguardo resta l’acquisizione di competenze da parte degli alunni. Per quanto concerne il concetto di competenza, inoltre, prima di entrare nello specifico della didattica, sembra importante evidenziare la nascita del concetto stesso al fine di coglierne l’importanza in ambito educativo-didattico.

L’affermazione del concetto di competenza in ambito educativo sembra, infatti, derivare da significati diversi che tale termine ha definito in diversi ambiti linguistici, psicologici e sociali. «La nozione di competenza in ambito linguistico e psicologico rinvia alla distinzione fra le strutture e le operazioni mentali che spiegano l’azione individuale e i comportamenti osservabili che ne derivano» (Maccario, 2006, p.35).

In ambito linguistico, il concetto di competenza acquista una certa rilevanza grazie a Chomsky (1970), che conferisce significato distinto alla nozione di performance e di competenza. Secondo il linguista la competenza è costituita da tutto ciò che un determinato soggetto è in grado, seppure idealmente, di realizzare grazie al proprio materiale biologico; al contrario la performance è data dal comportamento osservabile, quindi è riflesso della prima.[footnoteRef:3] Secondo l’interpretazione data da Chomsky (1970) il concetto di competenza si lega fortemente al concetto di intelligenza che, a sua volte, richiama in causa le componenti biologiche. Alcuni studiosi hanno sviluppato una nozione di competenza che richiama funzioni psicologiche come la memoria, la percezione, l’attenzione, che sono disposizioni di per sé innate ma che si sviluppano e potenziano mediante stimoli esterni relativi al contesto ambientale e culturale di riferimento. Da tali contributi, nell’ambito della psicologia dello sviluppo cognitivo, si è giunti a ritenere che tra competenza e performence esista una distinzione netta secondo la quale la prima avrebbe un carattere innato preesistente, mentre la seconda sarebbe piuttosto l’attualizzazione della competenza in una determinata situazione. [3: Noam Chomsky formula il concetto di competenza linguistica per contrastare l’approccio comportamentista che spiegava lo sviluppo del linguaggio sulla base di meccanismi “stimolo-risposta”, quindi a condizionamenti esterni alla persona parlante. L’autore fece notare come, partendo da tale assunto, fosse impossibile dare una spiegazione alla rapidità con cui un bambino acquisisce le principali strutture linguistiche. Al fine di dare una spiegazione a ciò, egli ipotizza l’esistenza di una sorta di predisposizione innata, comune a tutti gli uomini che definisce “organo mentale” che conferisce a ciascun soggetto una disposizione ideale e intrinseca alla produzione e alla comprensione del linguaggio. In tal senso la competenza risulta essere interna alla persona. Le performance linguistiche, invece, essendo manifestazioni concrete della competenza possono anche allontanarsi dalla competenza ideale inscritta nelle potenzialità del soggetto, in quanto sono soggette e condizionate da fattori di ordine organico, comportamentale o socio-contestuale.]

In ambito scolastico, la distinzione tra competenza e performance, posta da linguisti e psicologi, tende ad essere superata. La risposta dell’allievo è di fatto legata non soltanto al proprio potenziale ma anche alle caratteristiche del gruppo classe, degli insegnanti e del contesto scolastico. Riferisce Maccario (2006, p.37): «per sua stessa natura, la situazione educativa rende difficile l’utilizzo, in campo educativo, del tandem competenza /performance così come è definito dai linguisti e dagli psicologi. Per esempio, nel momento in cui un futuro insegnante svolge un’attività di stage in una classe, il suo modo effettivo di gestire la classe (la sua performance) dipende tanto dalle relazioni che vi si sviluppano con gli allievi (una delle caratteristiche della situazione educativa) che dalla preparazione della sua attività, registrata a priori su una scheda. […] Come potrà essere analizzata tale attività se non prendendo in considerazione incessantemente l’insieme delle variabili che l’hanno determinata? Esse dipendono tanto dalla situazione educativa che dalle competenze dello studente e dalla sua performance».

La progettazione didattica che mira all’acquisizione da parte del soggetto delle competenze umane, oltre che di ruolo, deve necessariamente considerare tutti questi aspetti della relazione educativa ed utilizzare l’esperienza e il sapere stesso non come punto di arrivo, bensì come “strumento per…”. Infatti, come riportano le ultime Indicazioni per il curricolo (2007), le conoscenze e le abilità, che pian, piano l’alunno acquisisce, devono essere generalizzate, quindi applicate in campi sempre più vasti, affinché la rete dei collegamenti tra le conoscenze, le abilità e il mondo possa estendersi e quindi l’azione educativa possa dare il suo frutto nella scuola e anche nella vita.

Le capacità di ogni essere umano, il potenziale innato di cui si diceva, sono le risorse di cui egli dispone (capacità di comunicare, di esprimersi, di simbolizzare, di ragionare, di volere, ecc.) e rappresentano una potenzialità, una propensione della persona a fare, a pensare, ad agire in un determinato modo, in modo “creativo”, cioè diverso da quello di altre persone.

La funzione specifica dell’educazione è quella di consentire a ogni persona di sviluppare, esercitare, consolidare le proprie potenzialità maturandole in competenze.

I contenuti, quindi altro non sono che il supporto per il raggiungimento di una competenza, mentre le conoscenze e le abilità risultano essere veri e propri strumenti della persona che, se li assimila e li personalizza, può utilizzarli per tutta la sua vita.

«Le competenze si manifestano nelle prestazioni di chi, in un dato contesto, utilizza le conoscenze e le abilità acquisite, sfrutta opportunamente le risorse e i mezzi presenti, si assume liberamente la responsabilità di modificare una situazione anche infrangendo schemi e regole note, risolve un problema o esegue un compito imprimendovi il suo sigillo personale» (Sacristani Mottinelli, 2004, p.33).

Si è competenti, pertanto, quando «si decidono le azioni buone mentre si compiono, le si valuta e le si corregge nella situazione concreta e particolare, si esplorano gli elementi impliciti nelle azioni stesse per tenerne conto in quelle successive, si ristrutturano significati e fini sulla base dei mezzi impiegati» (Bertagna, 2004, pp.37-38). Il soggetto competente è colui che sa attivare le stesse conoscenze e applicare abilità anche in situazioni differenti da quella originaria e attuale, perché è capace di cogliere le caratteristiche comuni esistenti in contesti tra loro differenti. Le competenze, pertanto, sono esiti che chiamano in causa la totalità della persona e ne mettono in atto conoscenze, abilità, attitudini fisico-percettive, affettive, intellettive, operative, espressive. Esse sono il risultato globale di processi contestuali e soggettivi e l’espressione personale di esse è la manifestazione esterna di ciò che la persona ha assimilato, interiorizzato e rielaborato a livello personale.

2. La competenza espressivo-simbolica

Precedentemente si è fatto riferimento all’espressioni dell’educazione personalizzata individuate da García Hoz (2005), quali: la singolarità, l’autonomia e l’apertura. Si è detto che esse si riconducono al concetto di singolarità e originalità dell’essere persona, alle sue peculiarità in quanto essere “libero” e “sociale”. In ambito relazionale, la forza della comunicazione e, fra tutti i livelli comunicativi, quello linguistico appare, nella nostra cultura, di maggior forza.

L’analisi sulla dimensione linguistica della persona e della relazione dell’uomo con la parola pone l’attenzione sulle possibilità di sviluppo della libertà umana che consente la valorizzazione delle numerose virtù possedute da ciascuno.

La persona libera, infatti, nel rapporto comunicativo con gli altri, esprime la propria creatività linguistica che può risultare di notevole interesse per definire l’educabilità dell’uomo. Essa non è da intendere come una semplice arte o attitudine di alcuni soggetti eccezionali. Chi è in grado di parlare creativamente esprime soprattutto se stesso, la propria volontà di significato. La parola creativa è l’espressione del potere linguistico della persona; il dire creativo esige attenzione affinché quello che viene espresso corrisponda esattamente a quello che si intende dire.

Se da un lato la creatività linguistica comporta la possibilità di prendere le distanze da frasi stereotipate e luoghi comuni, dall’altro è l’espressione del modo di significare in termini di originalità ed intelligenza e coinvolge la responsabilità e la libertà dell’io, pertanto mette in gioco il suo potere di decisione autonoma.

La letteratura sulla linguistica offre, a tal proposito, notevoli contributi che si identificano con la rivendicazione del diritto dell’uomo alla valorizzazione delle proprie potenzialità. De Saussure (1968) sostiene che il mondo della langue è un mondo dentro il quale il soggetto giunge con tutta la sua forza innovativa. Il parlare deve essere inteso come concetto che integra e rende compresenti parole e langue, espressività e convenzionalità, creatività e norma.

Chomsky (1970) adopera il termine “creatività” in senso stretto e indica il carattere inedito che possono avere i segni linguistici in quanto combinazione di monemi. Partendo da un numero finito di unità di base (i monemi) e con un numero finito di regole sintattiche, la lingua serve a produrre e riconoscere un numero potenzialmente infinito di frasi, molte delle quali mai formulate prima e tuttavia dicibili e comprensibili.

Le esperienze di educazione alla creatività espressive-linguistica esigono l’impegno a considerare l’uomo nella sua struttura pluridimensionale e nell’armonia delle sue funzioni, quindi, la scuola, in particolar modo, è chiamata in causa nella promozione e nel sostenimento della parola libera e creativa attraverso l’esercizio di molteplici forme esperienziali di espressione creativa.

La promozione dell’espressione personale è, quindi, una condizione indispensabile per la vita sociale e per l’esercizio della libertà della persona, perché attraverso essa è possibile stabilire relazioni umane. In tali rapporti l’uso della parola si pone in una collocazione determinante in quanto consente l’esternazione del proprio pensiero, degli affetti, delle emozioni.

L’educazione all’espressione risulta di importanza fondamentale nella prospettiva dell’educazione personalizzata in quanto presuppone un’azione educativa continua atta a far convergere una serie di fattori cognitivi e linguistici in direzione del loro sviluppo armonico ed equilibrato. L’espressione linguistica, orale e scritta, infatti, consente all’uomo di manifestare il proprio universo cognitivo e affettivo a sé e agli altri e di entrare in relazione con il mondo circostante. La complessità del fenomeno linguistico-espressivo richiede, per l’appunto, la padronanza di competenze comunicative che devono integrarsi a vari livelli.

Se la comunicazione ha un aspetto intrinsecamente sociale, l’espressione propone una dimensione più personale, infatti, l’espressione e la comunicazione si realizzano attraverso il linguaggio, che manifesta l’interiorità dell’uomo, ma richiamano tutta una serie di specificità della persona che riguardano l’aspetto più intimo e “originale” e allo stesso tempo globale e integro della persona.

Qualsiasi azione didattica che si proponga di stimolare e promuovere lo sviluppo espressivo verbale negli alunni esige di muoversi all’interno di una riflessione che, partendo dalle potenzialità della persona, si orienti alla ricerca del significato autentico della sua espressione.

La persona umana, che per natura, dicevamo, è portata a vivere socialmente si ritrova inconsapevolmente dentro relazioni sociali già dal momento in cui nasce in quanto è inserita di fatto in un contesto sociale comunitario.

Da questa situazione ne deriva la naturale tensione all’interazione con l’altro (primo fra tutti la madre) attraverso meccanismi comunicativi, in primo tempo spontanei e istintivi, via, via sempre più strutturati e articolati. Nel primo caso la comunicazione è esclusivamente di tipo non verbale e si affida in toto alla capacità interattiva del corpo; nel secondo, invece, ci si trova di fronte a una realtà più complessa della comunicazione che riguarda l’espressione orale ossia l’interazione di pensiero, parola, emozioni, desideri, sentimenti, ecc.

L’uomo, infatti, pur iniziando a comunicare attraverso il corpo, man mano cresce comunica e interagisce con i propri simili soprattutto mediante l’espressione verbale, un’espressione del tutto personale seppure fonda le sue radici su codici comuni e condivisi.

Per quanto concerne l’espressione verbale, l’analisi interpretativa dei contributi di ricerca a tal proposito evidenziano il primato della dimensione linguistica della persona e dell’impiego del linguaggio orale nei suoi aspetti creativi, pragmatici e socio-comunicativi, confermando il ruolo che l’espressione linguistica ha nell’educazione della persona e nel processo di sviluppo di essa a livello affettivo-relazionale e cognitivo.

Per comunicare l’essere umano si è sempre servito in modo privilegiato del linguaggio in quanto mezzo che rende la persona capace di esprimere il proprio mondo interiore, esperienziale e cognitivo. Mencarelli (1972) sostiene che il linguaggio è uno strumento di rivelazione della personalità, di determinazione e di possesso di precise forme di “cultura umana” e quindi di comunicazione.

Per la costruzione della personalità il linguaggio verbale ha un ruolo fondamentale in quanto non soltanto potenzia la comunicazione ma favorisce l’interazione e l’integrazione sociale, lo sviluppo del pensiero e l’espressione della vita emotivo-affettiva e relazionale. L’espressione verbale è di fondamentale importanza nella vita sociale e individuale perché grazie alla padronanza sia ricettiva (comprensione) che produttiva di parole e frasi, è possibile intendere gli altri e farsi intendere, catalogare, ordinare, sottoporre ad analisi l’esperienza e trasformarla (De Mauro, 1989).

Attraverso l’uso del linguaggio, inoltre, è possibile organizzare e tramandare la propria cultura e, proprio la lingua rappresenta, come evidenzia Bruner (1967), la forza dinamica della cultura di una determinata società. L’autore evidenzia come il linguaggio costituisca, per l’uomo, uno dei principali strumenti atti alla trasmissione di informazioni, di valori, di tradizioni, di norme. Ogni comunità, infatti, possiede un proprio repertorio linguistico costituito da diverse forme linguistiche che vengono utilizzare nelle più svariate circostanze dai parlanti, modificandosi in base al contesto di riferimento e alle dinamiche di interrelazione che i parlanti mettono in atto nelle diverse azioni sociali: da quelle familiari a quelle pubbliche come dibattiti, conferenze, ecc.

Esiste, inoltre, un altro aspetto proprio del linguaggio, in relazione al suo rapporto con i processi mentali messi in atto per la sua comprensione e per la sua fruizione. Ausubel (1995) osserva che è soprattutto in virtù del linguaggio che gli uomini sono capaci di imparare concetti astratti, di apprendere per ricezione in modo significativo, di risolvere significativamente complessi problemi di relazione senza venire direttamente in contatto con gli oggetti e i