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1.1. Dimensioni e caratteristiche qualitative dell’emi- grazione italiana Da quando esiste l’Homo sapiens esiste anche l’Homo migrans 1 , infatti le migrazioni fanno parte della conditio umana come la nascita, la procreazione, la malattia e la morte. La tendenza a spostarsi sul territorio ha sempre fatto parte integrante delle abitudini di vita della specie umana e ha costituito una delle com- ponenti fondamentali del rapporto uomo-territorio. Il popolamento della terra è il risultato di lunghe e progressive correnti migratorie preistoriche. In seguito a spostamento delle popolazioni si sono affermati caratteri regionali su vasta scala: le lingue, le religioni, l’agricol- tura, le innovazioni tecnologiche, la cultura europea nell’età coloniale. Non sempre però la mobilità umana ha prodotto effetti positivi, non bisogna dimenticare la tratta degli schiavi (12 - 30 milioni di neri tra il XVI e XVII sec.), la scomparsa di alcune civiltà (civiltà indigena del- l’America e dell’Australia), le diaspore (ebrea, curda e palestinese), lo spopolamento e il degrado di alcune aree rurali o della montagna, gli squilibri nella struttura della popolazione di alcune regioni di partenza o il sovraffollamento tipico delle aree d’arrivo. La mobilità è uno dei caratteri più costanti del rapporto uomo–terri- torio, una strategia per ottenere migliori condizioni di vita. La gente si spostava alla ricerca di un lavoro e del minimo necessario per vivere, mentre motivi ideologico-religiosi o bellici erano alla base di movimenti tra Stato e Stato. 15 CAPITOLO I L’emigrazione italiana. Numeri e generi del fenomeno 1 Klaus J. Bade, L’ Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Laterza, Bari – Roma 2001, pag. 4.

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1.1. Dimensioni e caratteristiche qualitative dell’emi-grazione italiana

Da quando esiste l’Homo sapiens esiste anche l’Homo migrans1, infatti le migrazioni fanno parte della conditio umana come la nascita, la procreazione, la malattia e la morte.

La tendenza a spostarsi sul territorio ha sempre fatto parte integrante delle abitudini di vita della specie umana e ha costituito una delle com-ponenti fondamentali del rapporto uomo-territorio.

Il popolamento della terra è il risultato di lunghe e progressive correnti migratorie preistoriche. In seguito a spostamento delle popolazioni si sono affermati caratteri regionali su vasta scala: le lingue, le religioni, l’agricol-tura, le innovazioni tecnologiche, la cultura europea nell’età coloniale.

Non sempre però la mobilità umana ha prodotto effetti positivi, non bisogna dimenticare la tratta degli schiavi (12 - 30 milioni di neri tra il XVI e XVII sec.), la scomparsa di alcune civiltà (civiltà indigena del-l’America e dell’Australia), le diaspore (ebrea, curda e palestinese), lo spopolamento e il degrado di alcune aree rurali o della montagna, gli squilibri nella struttura della popolazione di alcune regioni di partenza o il sovraffollamento tipico delle aree d’arrivo.

La mobilità è uno dei caratteri più costanti del rapporto uomo–terri-torio, una strategia per ottenere migliori condizioni di vita. La gente si spostava alla ricerca di un lavoro e del minimo necessario per vivere, mentre motivi ideologico-religiosi o bellici erano alla base di movimenti tra Stato e Stato.

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CAPITOLO I

L’emigrazione italiana.Numeri e generi del fenomeno

1 Klaus J. Bade, L’ Europa in movimento. Le migrazioni dal Settecento a oggi, Laterza, Bari – Roma 2001, pag. 4.

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Queste tipologie di migrazione, che si possono definire “tradizionali”, hanno però una fisionomia ed una finalità diversa dalla “grande migra-zione” otto/novecentesca. Sono periodiche, temporanee, quasi sempre interne al continente, interessano più singoli individui che gruppi fami-liari e sono finalizzate ad integrare il bilancio domestico di quel tanto da consentire la permanenza della famiglia nel territorio di origine.

Aspetti diversi hanno, invece, le migrazioni verificatesi a partire dal XIX secolo: un imponente flusso migratorio che costituisce il maggior movimento di popoli che sia mai stato registrato in tutta la storia umana e che si caratterizza, infatti, per essere migrazione di rottura.

Tra la metà dell’Ottocento e il 1930 circa 50 milioni di persone lascia-rono il continente europeo: questo imponente flusso migratorio si rivolge in larghissima maggioranza al di là dell’Atlantico.

Le risorse di lavoro presenti in Europa si trasferiscono in massa a seguito del manifestarsi, nel corso dell’Ottocento, di fattori demografici ed economici. Il prerequisito fondamentale del fenomeno va in primo luogo individuato nella situazione demografica. Tra il 1800 e il 1900 si producono in Europa rivolgimenti mai riscontati fino ad allora. La popolazione del continente passa da 188 a 401 milioni di individui, si ha una crescita di 213 milioni di persone, pari a quasi tre volte l’incremento dei cento anni precedenti. Aumenta anche il rapporto percentuale tra la popolazione europea e quella mondiale; si sale, infatti dal 20,7% a quasi il 25% (vedi tabella 1).

Si ha una rilevante progressione dovuta a una modificazione dei mec-canismi demografici che regolano l’andamento della popolazione.

Tab. 1: Popolazione europea (milioni) e in % sulla popolazione mondiale (1800-1900)2

Anno Europa Popolazione mondiale %

1800 188 906 20,7%1850 266 1171 22,7%1900 401 1608 24,9%

2E. Sonnino, A. Nobile, Questione demografica e grandi migrazioni nell’Europa dell’Ottocento,

Utet, Torino 1988, pag. 22.

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Si ha cioè un costante declino della mortalità e un inevitabile e inten-so sviluppo demografico, ascrivibile al miglioramento delle condizioni alimentari e ai progressi dell’igiene e della medicina.

Per quanto riguarda l’Italia tra il 1861 e 1940 il numero complessi-vo degli espatri fu di 20 milioni circa, in un paese che contava circa 33

Tab. 2: Emigrazione netta, espatri, incremento naturale e alcuni rapporti caratteri-stici in Italia, 1861-1940 (popolazione residente confini dell’epoca).3

AnniEmigrazioneNetta (000)

(1)

Espatri(000)(2)

(1)__ x 100(2)

IncrementoNaturale

(000)(3)

(1)__ x 100(3)

(2)__ x 100(3)

1861 1870 227 1210 18,8 1658 13,7 73,0

1871 1880 334 1180 28,3 1946 17,2 60,6

1881 1890 1041 1880 55,4 3124 35,2 60,2

1891 1900 1433 2830 50,6 3439 41,7 82,3

1901 1910 1021 6030 16,9 3778 27,7 159,6

1911 1920 992 3830 25,9 1847 52,9 204,4

1921 1930 1540 2580 58,9 4680 32,5 55,1

1931 1940 1115 700 159,3 4118 27,1 17,0

Totale 1861 1940

7683 20240 38,8 25617 30,2 79,0

3 E. Sori, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Il Mulino, Bologna 1979, pag. 20.

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milioni di abitanti (vedi tabella 2), ma la perdita definitiva di popolazio-ne fu in realtà molto minore. Infatti, se ci basiamo sulla popolazione resi-dente, l’emigrazione netta nel 1861-1940 fu di 7,7 milioni (il 38% degli espatri). L’incremento naturale della popolazione fu assorbito per il 30% dall’emigrazione netta, mentre per il 70% fu coperto dal volume com-plessivo degli espatri.

Se analizziamo i dati che vanno dal 1861 al 1940 osserviamo che essi possono essere rappresentati graficamente da una parabola. Infatti, gli espatri medi annui salirono progressivamente dai 121.000 del 1861-70 ai 603.000 del 1901-10, per discendere progressivamente ai 70.000 del 1931-40.

In base alla popolazione residente, le quote massime di espulsione definitiva di popolazione attraverso l’emigrazione si hanno negli anni ’80 (e, probabilmente, anche nella prima metà del XIX) e negli anni ’30 del Novecento.

Le cause dell’espulsione definitiva sono legate alla grande emigrazio-ne agricola diretta verso le agricolture dell’America Latina (si tratta di un esodo che si sviluppa tra la “crisi agraria” e i primi “neri” anni ‘90); il secondo è dovuto a un nuovo animus emigrandi, che pervase i nuovi emigrati del periodo tra le due guerre e gli italiani che si trovavano già all’estero, in seguito alla progressiva chiusura degli sbocchi emigratori internazionali negli anni ‘20 e ‘30.

L’emigrazione nel periodo di massimo esodo (tra il 1901 e il 1920) fu in larghissima parte non definitiva, anche tenuto conto dello sconvolgi-mento bellico.

Sulla emigrazione netta agirono due fenomeni: l’aumento della nata-lità che consentì un incremento massimo del 41,7% nel 1891-1900; l’in-cremento della mortalità a seguito della prima guerra mondiale.

Nei ‘40 anni che vanno dal 1876 allo scoppio della prima guerra mon-diale si registra l’espatrio di oltre 14 milioni di italiani ad un media di 350.000 unità l’anno; il 55% degli espatri avverrà nel 1915.

L’andamento degli espatri fu irregolare e per comprenderlo meglio bisogna suddividere l’analisi in due sottoperiodi, il primo che va dal 1876 al 1900 e il secondo che va dal 1900 al 1915. Nel primo periodo si registra un espatrio globale di circa 210.000 unità all’anno, la popolazio-ne residente in Italia cresce di 757.000 unità, il tasso di emigrazione con l’estero passa dal 3,83% nel 1876 al 10,64% nel 1900.

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Il 48,5% degli espatri è assorbito dall’Europa; si ha quindi un sostan-ziale equilibrio tra le destinazioni europee ed extra europee.

Vi sarà però un rapido incremento degli espatri verso paesi extraeu-ropei, dovuto essenzialmente al progressivo aumentare d’importanza

Tab.3: Espatri verso le aree geografiche - Il sottoperiodo 1876-19004

1876-1900 Totale % Media

Inghilterra 16.027 0,5 641Benelux 7.338 - 293Francia 817.633 15,5 32.705Germania 353,897 7 14.155CEE 1.948.800 23 47.795Svizzera 326.647 6 13.065Europa 2.543.990 49 101.759Canada 12.326 - 493USA 772.792 15 30.911Nord America 785.118 15 31.404Brasile 814.362 15 32.575Argentina 801.365 15 32.098Venezuela 10.284 - 411Sud America 1.829.530 35 73.181Tot. America 2.614.620 50 104.584Oceania 5.487 - 219Africa 91.046 1,5 3.641Asia 2.623 - 104Extra Europa 2.713.790 51 108

Tot. Espatri 5.257.830 100 210.3134 L. Favero, G. Tassella, Cent’anni di emigrazione italiana, in Rosoli G. (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana dal 1876 al 1976, Centro Studi emigrazione, Roma 1978, pag. 22.

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delle destinazioni americane: il conti-nente americano da solo assorbe il 50% degli espatri del periodo e al suo interno l’America Latina è la principale destina-taria di questo movimento (vedi tabella 3).

Possiamo così riassumere brevemente le caratteristiche dell’emigrazione italiana di questo primo quarto di secolo conside-rato: un’emigrazione in rapido sviluppo, che scopre progressivamente gli sbocchi oltre oceano in particolar modo quel-li latino americani; un’emigrazione di forza lavoro in cui le professioni agricole acquistano un’importanza sempre più notevole, trascinando con sé una consi-stente percentuale di espatri femminili, con un andamento soggetto a forti oscil-lazioni annuali.

Le donne emigravano in proporzioni diverse dalle varie regioni italiane, (vedi tabella 4), spinte sia dalla lunga assen-za degli uomini sia dalle opportunità di lavoro createsi all’estero.

Dall’analisi dei dati si ricava che le donne del nord emigravano più spesso se erano giovani nubili in cerca di lavoro, mentre le donne del sud partivano come mogli e figlie in famiglie che emigravano.5 Comunque quando le donne italiane lasciavano la patria, seguivano comunque la stessa direzione degli uomini della loro famiglia o provenienti dallo stesso paese.

Il secondo periodo vede l’esodo dall’Italia trasformarsi quasi in una fuga di massa, raggiungendo proporzioni notevolissime negli anni imme-

Tab. 4: Emigrazione femminile per regione dal 1876-19256

Regione % donnePiemonte 22Liguria 29Lombardia 17Veneto 16Emilia 19Toscana 21Marche 21Umbria 18Lazio 14Abruzzi-Molise 19Campania 27Puglia 21Basilicata 30Calabria 19Sicilia 29Sardegna 15

6 ISTAT, Annuario statistico della emigrazione italiana, Roma 1972

5 Donna R. Gabaccia, Emigranti. Le diaspore degli italiani dal Medioevo a oggi, Einaudi, Torino 2003, pag. 91.

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diatamente precedenti la prima guerra mondiale. Il flusso si fermerà improvvisamente a causa della guerra e, anche se avrà una rapida ripresa subito dopo il conflitto, il suo andamento rappresenterà ormai la parte discendente di una curva.

Più di 1/3 degli espatri di cento anni si è avuto nel quindicennio 1901-1915: 8.769.680 emigranti, più di mezzo milione l’anno, una media più che doppia rispetto al periodo precedente.

Tab.5: Espatri verso le aree geografiche - Il sottoperiodo 1901-19157

1901-1915 Totale % MediaInghilterra 53.456 0,5 3.563Benelux 30.151 0,5 2.010Francia 897.333 10 59.865Germania 871.950 10 58.130CEE 1.853.450 21 123.563Svizzera 1.013.640 11 67.576Europa 3.593.280 41 239.552Canada 136.239 1 9.092USA 3.384.120 38,5 225.608Nord America 3.520.350 40 234.690Brasile 410.783 4,5 27.385Argentina 994.554 11,5 66.303Venezuela 9.426 - 628Sud America 1.487.690 17 99.179Tot.America 5.008.040 57 33.689Oceania 12.950 - 863Africa 146.920 2 9.794Asia 12.671 - 844Extraeuropea 5.180.590 59 345.372Tot. Espatri 8.769.680 100 584.645

7 L. Favero, G. Tassella, Cent’anni di …, cit., pag. 26

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Il tasso migratorio globale con l’estero passa dal 10 al 20% tra il 1900 e il 1905, arrivando al 24% nel 1913 (come si può vedere nella tabella 3).

Gli Stati Uniti diventano il grande destinatario dell’emigrazione italia-na: gli espatri verso gli Usa, che rappresentano il 20% del flusso globale alla fine dell’Ottocento, diventano più del 36% nel 1901-1905 e il 41% nel 1906-1910.

L’anno 1913 vede la punta massima di espatri in Nord America con 400 mila unità, infatti dopo questa data inizierà la fase discendente e nel 1915 saranno meno di tre/quarti dell’intero periodo.

In conclusione per quanto riguarda gli espatri di questo periodo, notia-mo il netto prevalere dei flussi oltre oceano, ma con una inversione dal Sud al Nord America.

Il movimento globale tocca le cifre più elevate di questo periodo ma con fortissime oscillazioni dovute a cicli molto brevi, (3 – 4 anni), e ini-zia la fase discendente dell’emigrazione (vedi tabella 5).

Un ulteriore elemento interessante è la struttura della popolazione emigrante distinta per età, sesso, professione.

Tab. 6: Emigrazione italiana con separata indicazione dei valori per uomini e donne (1861-1915)8

Anni Totale emigranti(000)

Uomini(000)

Donne(000)

1861-1870 1210 1008 2021871-1875 585 525 601876-1880 544 464 801881-1885 771 654 1171886-1890 1110 871 2391891-1895 1283 989 2941896-1900 1552 1240 3121901-1905 2770 2287 4731906-1910 3256 2658 5981911-1915 2743 2198 545

8 www.riccati.it

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La domanda di lavoro internazionale selezionò la forza lavoro otte-nibile dell’Italia: durante la grande emigrazione la maggior parte degli emigrati italiani era di sesso maschile (80 - 85%) di età superiore ai 15 anni (vedi tabella 6). Abbiamo così due curve che si muovono paralle-lamente: momentanei avvallamenti o la fase di più durevole ribasso dei tassi di mascolinità e di adulti (1885-1897), corrispondono ai massicci reclutamenti di famiglie agricole per l’America Latina (vedi figura 1).

Adulti >15 anni

Maschi

Maschi

%100 -

90 -

80 -

70 -

60 -

50 -

40 -

30 -

20 -

10 -

%100 -90 -

80 -

70 -

60 -

50 -

40 -

30 -

20 -

10 -

Agricoltori

Adulti>15 anni

Agricoltori

1915 19351920 19301925 1940

1875 18951880 18901885 1900 1905 1910 1915

1905

Fig. 1: Percentuale di maschi adulti in etå superiore ai 15 anni (16 nel periodo 1926-1927) e di agricoltori sul totale degli espatri.

E. Sori, L’emigrazione italiana..., cit., pag. 33

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Alle perdite di popolazione effettiva sul territorio si devono aggiun-gere i danni derivanti dagli squilibri creati nella popolazione rimasta:cioè, in particolare, quello tra maschi e femmine, poiché inizialmente la popolazione emigrante era composta dall’85% di maschi e il 15% di femmine.

Tali cifre hanno fatto si che la popolazione che rimaneva in patria fosse composta quasi esclusivamente da donne, costituendo schiere di

1879

100

150

90

80

70

60

50

40

30

20

10

019001885 18961890 1906 1910 1914

Fig. 2: Numeri di indice (19080=100) degli espatri degli operai e dei partecipanti a scioperi nell’industria in Italia (1879-1914).

E. Sori, L’emigrazione italiana..., cit., pag. 33

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nubili e mancati matrimoni che hanno provocato adeguati contingenti di mancate nascite sul territorio nazionale, contribuendo in grande misura a far diventare (come media) vecchia la popolazione residente. Per rende-re più semplice la comprensione delle statistiche ufficiali riguardanti le categorie impiegate per la classificazione professionale, si è assunto che esse siano un indicatore delle “tappe” di un processo di proletarizzazio-ne, così ordinabili:

ÿ agricoltori, contadini, pastori; ÿ terraioli, braccianti;ÿ muratori, manovali;ÿ artigiani, operai.

Le loro quote di partecipazione al flusso migratorio complessivo si comportano a partire dal 1881 e per tutta la durata della grande migrazio-ne, secondo un avvicendamento ben definito: cresce prima la quota degli agricoltori (1861-86), quindi quella dei braccianti (1886-96); successiva-mente c’è la costanza di queste due quote (1891-96); poi sale la quota dei muratori (1896-1901) e infine quella di operai artigiani.

Questi movimenti li traduciamo idealmente in due distinti cicli di pro-letarizzazione che si concatenano e si sovrappongono (figura 4).

Dalla lettura di questi dati si possono comprendere due elementi essenziali: innanzi tutto che il decollo economico italiano si colloca pre-cisamente in una fase cruciale della trasformazione della composizione di classe, in secondo luogo si comprende perché la partecipazione dei braccianti al flusso emigratorio ha un comportamento anomalo rispetto ad altre figure professionali.

La crescita del loro peso tende ad estendersi per un periodo più lungo e, nel secondo ciclo, a perpetuarsi nel tempo.

Il ristagno del processo di proletarizzazione è dovuto sia a un insuffi-ciente assorbimento delle forze di lavoro da parte sia del settore naziona-le moderno (agricoltura e industria capitalistica), sia della grande azienda agricola “arretrata” ma legata al mercato.

A ciò si aggiunge anche un tipo di domanda di lavoro internazionale che fissa l’emigrazione italiana a questo specifico livello di erogazione della prestazione lavorativa (vedi fig. 2 e 3).

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1878 18961881 18911886 1901 191119065

10

20

30

40

50Agricoltori

Braccianti

Manovalimuratori

Artiganioperai

1881 19011886 18961891 1906 1911

BracciantiAgricoltori

Settori extra agricoli tradizionali

BracciantiAgricoltori(agricoltura di sussistenza)

ManovaliMuratori

"Deccilo"

Operai(settore moderno)

MarovaliMuratori

Proletarizzazioneinternazionale(Emigrazione)

ProletarizzazioneNazionale(Trasformazioneinterna deirapporti diproduzione)

ICiclo

IICiclo

Fig. 3: Partecipazione percentuale al flusso di espatri di alcune categorie professionali (1878-1911).

E. Sori, L’emigrazione italiana..., cit., pag. 36

Fig. 4: Schema di modello emigratiorio in Italia tra il 1881 e 1911.

E. Sori, L’emigrazione italiana..., cit., pag. 37

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1.2 Le cause del fenomeno

Le radici dell’emigrazione italiana vanno ricercate in un arco di pro-blemi ampio e con uno spessore storico assai rilevante.

Gli osservatori del fenomeno erano più propensi ad analizzarlo in un’ottica di breve periodo tenendo in considerazione alcuni fattori come i prezzi agricoli calanti (e la conseguente caduta dei redditi agricoli), l’insufficiente domanda di lavoro e il divario salariale rispetto all’Italia in alcuni paesi esteri.

Alcuni studiosi erano meno interessati alle cause endogene ed eco-nomiche dell’emigrazione italiana e quindi inquadravano il fenomeno entro il più generale moto di esodo che coinvolse le popolazioni europee durante il XIX secolo1.

Una certa attenzione veniva però anche dedicata a una serie di fattori istituzionali che accreditavano una lontana componente “culturale” alla mobilità spaziale di alcuni gruppi sociali.

Tutti questi elementi furono certamente importanti e incideranno in modo rilevante nella concreta determinazione delle fasi, delle intensità e delle modalità di svolgimento della grande ondata emigratoria italiana2.

Per spiegare la rapida crescita dell’emigrazione italiana in epoca post-unitaria bisogna prendere in considerazione sia la situazione mondiale sia la nuova tormentata nazione italiana.

Tra il Settecento e prima metà dell’Ottocento, si decise della capacità di adeguamento dell’economia italiana ai ritmi che la rivoluzione indu-striale inglese e i nascenti rapporti capitalistici europei imposero ai pro-cessi di moder-nizzazione.

La capacità era estremamente debole, né l’Italia era nell’Ottocento, l’unico stato nazione in difficoltà a dover affrontare una rapida crescita della popolazione e una economia stagnante.

Infatti, in generale, la crescita agricola italiana si basò più su un mec-canismo orizzontale, di espansione delle superfici coltivate, che su un aumento della produttività; in questo contesto molte aree del paese erano

1 E. Sori , L’ emigrazione italiana …, cit., pag. 11.2 Idem, pag. 12.

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caratterizzate da diffusi fenomeni di pauperismo rurale, vagabondaggio, espulsione da un ruolo produttivo stabile e riduzione dei consumi ele-mentari a limiti insopportabili3.

Per queste ragioni la modernizzazione non riusciva a sanare gli ele-menti più negativi del quadro economico sociale: crisi di sussistenza, epidemie e successivamente le più moderne malattie da carenza, conti-nuano a percuotere periodicamente il mondo contadino e le città.

Questo è in rapida sintesi il quadro retrospettivo delle origini della grande emigrazione italiana, un quadro dove devono essere presi in considerazione anche gli umori politici e sociali del risorgimento italia-no (movimento nazionalista italiano) dato che, in questa fase è difficile distinguere tra l’emigrazione “politica” d’élite e quella “economica”.

Emigrazione e nazionalismo erano profondamente intrecciati alla vita degli attivisti del Risorgimento, tanto che un nazionalista italiano su tre emigrava all’estero costretto a prendere la via dell’esilio dalla propria azione politica.4

L’emigrazione legò tra loro l’élite politica italiana e le classi sociali più umili della penisola durante le persecuzioni politiche e gli stessi esuli poli-tici furono trasformati dall’emigrazione in capi delle comunità dei dispersi . Infatti per i patrioti italiani la sfida significava superare i rapporti di anta-gonismo esistenti tra i poveri della campagne e la borghesia cittadina.

I patrioti in esilio ritenevano che i lavoratori emigrati facessero parte della nazione italiana più di quelli rimasti in Italia e cercarono di conver-tirli e renderli partecipi della causa nazionale.

In ogni caso l’unificazione del paese che fu creata da una classe media patriottica, fu uno stato-nazione soltanto di nome e non di fatto, in quan-to nei plebisciti votò solo il 2% dei cittadini italiani.

In Italia il governo non godeva della fiducia dei cittadini che sempre più indigenti ed esclusi dalla vita politica cercarono una loro affermazio-ne fuori dalla patria. In ogni caso l’unificazione segna un momento di svolta nella vicenda emigratoria; dopo un pausa e una caduta del numero degli espatri nei primi anni ‘60, inizia la lenta e frastagliata ascesa che

3Idem, pag. 13.4 Donna R. Gabaccia, Emigranti... , cit., pag. 34.

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porterà al grande esodo5. Unanime però fu il riconoscimento che le cause della massiccia emigrazione italiana dell’Ottocento e del Novecento fossero di natura economica. Ma, riconosciuto questo, le interpretazioni divergono in due direzioni. Vi è chi sottolinea la crescente incompatibili-tà tra la popolazione insediata e crescente e le risorse date o poco esten-sibili, tra cui la principale è la terra. Altri, per contro, posero l’accento sulle trasformazioni che subirono i rapporti tra popolazione e risorse economiche entro date condizioni istituzionali6, cioè la contraddittorietà della classe dirigente italiana che da un canto tentava di fissare le popo-lazioni in un dato luogo di nascita o di abituale residenza attraverso la creazione di una nuova struttura della proprietà, senza rendersi conto che proprio questi fattori determineranno l’abbandono della terra.

Nelle prime riflessioni sull’emigrazione italiana, lo studioso Ellena sottolineò l’evoluzione del pensiero economico, dall’opposizione set-tecentesca all’emigrazione di Quesnay, Genovesi, Filangeri, Beccaria e Verri, a una tolleranza verso l’emigrazione, definita un surrogato della carità pubblica e uno strumento per liberarsi della “zavorra sociale”.

Era una zavorra che aveva turbato la compagine sociale delle grandi città europee e anche di quelle italiane, luoghi privilegiati dall’erogazio-ne benefica e dall’assistenza, e che andava riconvertita senza le garanzie di completo assorbimento.

Il contadino italiano venne spesso respinto sia dalle campagna sia dalla città perché accusato di oziare nella beneficenza cittadina, per questo motivo durante la crisi agraria degli anni ‘90 la borghesia euro-pea favorì esplicitamente lo sfollamento del continente, con sussidi per l’emigrazione provenienti proprio da quelle società benefiche che dove-vano sostenere la povertà e l’emarginazione in patria7.

È proprio in questo contesto che emersero contraddizioni all’interno della classe dirigente dell’Italia unita: vi erano, da una parte gli interessi agrari più chiusi, che si scagliavano contro l’esodo contadino, che minac-ciava di indebolire il rapporto di forza numerico tra proprietà e contadini su salari e patti agrari; contemporaneamente, dall’altra parte, i gruppi più

5 Idem, pag. 17.6 Idem, pag. 69.7 Idem, pag. 72.

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avveduti rilasciavano silenziosamente i “nulla osta” del sindaco all’espa-trio per liberarsi di chi si trovava sulle spalle della carità pubblica e pri-vata e della finanza pubblica.

In questo senso l’implicito “via libera” accordato dalla classe diri-gente italiana ad un’emigrazione di massa aveva come unico scopo un veloce risparmio, poiché si spendeva meno a formare il lavoratore che a mantenerlo in vita essendo il valore economico della vita umana poco importante a differenza dei casi inglese e tedesco, che traevano dall’assi-stenza economica e sociale all’emigrante un notevole profitto.

La tesi secondo cui l’emigrazione fosse lo sbocco necessario per un eccessiva pressione demografica ebbe molta fortuna e sostituì quella che scorgeva dietro l’emigrazione la scarsa industrializzazione e il sot-toconsumo popolare. Nel 1888 l’emigrazionista Nitti per tranquillizzare i gruppi agrari sul fatto che in Italia non ci sarebbero stati spopolamenti traumatici a causa dell’emigrazione, affermerà che la densità della popo-lazione italiana era di poco inferiore ai paesi più industrializzati come Olanda, Belgio e Regno Unito8. Ma i comportamenti demografici non sono autonomi né rispetto ai rapporti di produzione né ai rapporti tra le classi. Colajanni dirà che è la miseria che favorisce la procreazione imprevidente. In gran parte dell’Italia agricola l’esuberanza demografica era tale che indusse a pensare vi fosse una “costituzione agraria”.

Il problema risiedeva nel legame tra il regime demografico espansivo e la costituzione agraria, che tendeva a perpetuarsi una volta che si crea-vano garanzie prima naturali e poi di politica economica sulla difendibi-lità dei prezzi agricoli, nonché su un sistema d’ordine sociale e istituzio-nale che assicurasse la sottomissione contadina.

A questo proposito si può ricordare che la legge sull’emigrazione del 1888, che avrebbe dovuto garantire la libertà di emigrare, fu votata un anno dopo la tariffa protezionistica che tutelava dal lato dei prezzi quella costituzione agraria9, e dopo che questa verificò che l’esodo non aveva arrecato nessun danno alla grande proprietà.

Nelle campagne italiane fu crescente il fabbisogno di denaro. Attraverso questo fabbisogno filtrava, anche nelle economie aziendali e

8 Idem, pag. 75.9 Idem, pag. 78.

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familiari più chiuse, la legge del valore, che immetteva il contadino nei rapporti capitalistici della produttività. Le questioni che tormentavano le campagne italiane e che furono all’origine di molte decisioni di espatrio o di migrazione interna erano legate al bisogno di trovare quel denaro per pagare l’imposta fondiaria, imposta di registro e di successione, debito ipotecario e colonico, usura, etc. Questi evidenti problemi nascondevano una costante insufficienza di reddito che si intensificò dopo l’Unità.

Esisteva nelle campagne italiane un antico rapporto di asservimento, non a caso i proprietari, nella fase iniziale della grande emigrazione, si scagliarono contemporaneamente contro chi partiva lasciando debiti insoluti e contro l’atmosfera di insubordinazione scaturita dal desiderio di emigrare. Questi fattori, insieme ad altri erano stati un ottimo motivo per spingere i contadini ad emigrare, in particolare nelle aree sociali della piccola proprietà e affitto10.

Le piccole proprietà avute in fitto dalla disgregazione della grande proprietà, crearono non pochi problemi ai titolari che evitavano di ricor-rere al minuto mercato del lavoro giornaliero, preferendo la via dell’emi-grazione. In queste aree caratterizzate dalla piccola proprietà contadina, la via dell’emigrazione veniva percorsa prevalentemente dai “figli di famiglia”, cioè dai giovani figli maschi privi di prospettive immediate per l’emancipazione economica e familiare. Perdurando questa assenza di prospettive, essi spesso trasformavano un tradizionale flusso di emi-grazione temporanea in espatri definitivi o, si sposavano prima di partire per l’estero in modo da far divenire la sposa il più sicuro depositario delle rimesse.

La polverizzazione della proprietà fu una delle responsabili dei movi-menti migratori italiani e questo specifico modo di integrarsi, attraverso il lavoro stagionale emigrante, con aree capitalistiche già consolidate o comunque con un mercato del lavoro esterno era per numerose aree mon-tane italiane il metodo più antico e collaudato dell’emigrazione all’estero vera e propria che vi si innestò nella seconda metà dell’Ottocento.

I piccoli proprietari delle aree montane, sospinti verso quote altimetri-che sempre più elevate dalla pressione demografica e tramite il meccani-

10 Idem, pagg. 81-85.

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smo del disboscamento, dovettero affrontare maggiori difficoltà rispetto a quelli del piano-colle: infatti la loro era “terra ingrata” con basse rese e periodi invernali nei quali la neve arrestava la vita lavorativa agricola.

Nel corso dell’Ottocento l’emigrazione stagionale si trasforma fino a confondersi con l’emigrazione vera e propria: cresce il flusso di espa-tri, si amplia e si differenzia il raggio di azione, cresce la partecipazione femminile e tende ad allungarsi il periodo di assenza11.

Accanto a questo preciso modello di emigrazione temporanea si svol-geva un processo di crisi ed esodo definitivo, soprattutto per i rapporti di produzione agricoli diversi dalla piccola proprietà e per le aree dove l’integrazione lavorativa con le pianure e con altri settori produttivi era più debole e stava incontrando particolari difficoltà. Essa più tardi sarà descritta come normale crisi demografica della montagna.

L’emigrazione fu anche un espediente per gli artigiani le cui presta-zioni professionali venivano richieste sempre meno sul mercato del lavo-ro locale.

La maggior parte dei detentori di capacità professionali tradizionali non cercò di ampliare il raggio geografico di azione per fronteggiare una domanda decrescente per quel tipo di prestazione, né pare che si sia diretta verso particolari formazioni economico-sociali più “arretrate” di tipo autarchico, inventando una professionalità molto specifica.

Osservando la crisi dei “vecchi mestieri” artigiani come causa di espa-trio sembra che essa non possa essere ascritta totalmente alla immediata e concomitante concorrenza vincente della produzione di fabbrica rispet-to alla produzione artigiana, quanto a una pressione congiunta di questa e della domanda cedente degli strati inferiori della popolazione.

Ancora più che la crisi dei vecchi mestieri artigiani specializzati, a partire dagli anni ‘80 veniva alterato in molte zone del paese il delicato equilibrio nella distribuzione della forza lavoro rurale tra le varie occupa-zioni a causa della caduta della manifattura domestica contadina.

La crisi di questo settore manifatturiero fu molto precoce poiché incalzato non solo dalla produzione della fabbrica tessile, dimostratasi particolarmente aggressiva nella conquista del mercato interno, ma anche della crisi agraria. Quest’ultima, compresse bruscamente il reddito deri-

11 Idem, pag. 88.

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vante dalle prestazione lavorative agricole, e alterò oltre alla composizio-ne della domanda rurale, anche la distribuzione del lavoro contadino tra manifattura e lavoro agricolo.12

Così la produzione proveniente dalla manifattura domestica contadi-na rimase allo stadio elementare dell’autoconsumo e della circolazione paesana e non fu in grado di evolversi verso forme superiori di organiz-zazione della produzione e della commercializzazione, essendo in questo modo esposta alla successiva concorrenza di fabbrica.

Uno sviluppo assai diverso era stato possibile, per epoche precedenti, in altre nazioni, attraverso successivi livelli di integrazione-subordinazio-ne capitalistica che condussero alle “fabbriche disseminate”13.

La ragione della mancata evoluzione in forme superiori di organiz-zazione della produzione va ricercata nella assenza degli agenti sociali responsabili di una tale trasformazione: un solido ceto medio imprendito-re autonomo che si ponesse all’esterno e spesso in conflitto con la società agricola tradizionale14.

Un fenomeno specifico e articolato, legato a un blocco di cause che, nel corso degli anni 80, diedero un impulso decisivo alla prima ondata di emigrazione di massa delle classi agricole, fu la cosiddetta “crisi agra-ria”. Essa si espresse attraverso il crollo dei prezzi per alcune delle prin-cipali produzioni delle campagne italiane, tra cui il grano in primo luogo, dovuto alla cedente domanda internazionale e al contemporaneo afflusso in Europa dei grani e delle altre derrate e materie agricole provenienti dai “nuovi territori” oltre oceano15.

La crisi internazionale agricola scaturiva dal brusco confronto tra due agricolture a così diversi livelli di produttività ma anche dall’aumento della popolazione oltre oceano; del consumo interno di derrate e materie agricole e comunque dalla riduzione delle esportazioni verso l’Europa.

In Italia la crisi agraria fu definita crisi delle “forbici” dei prezzi agri-coli e dei redditi contadini rispetto alla media, ma era anche la crisi già

12 Z. Ciuffoletti, M. Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia 1865-1975, Vallecchi, Firenze 1978, pag. 71.13 Idem, pag. 72.14 Idem, pag. 94.15 Idem, pag. 115.

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presente in forma latente negli anni ‘70 che scaturiva dalla mancata pre-videnza dei responsabili della politica economica del paese16.

La crisi agraria assunse aspetti distruttivi nell’area della piccola possi-denza e si intersecò successivamente con quelli che colpirono la giovane agricoltura meridionale, dedita al mercato e alle colture specializzate del vino, olio e agrumi. Tuttavia la crisi agraria non riuscì a svolgere una funzione di ricostruzione della razionalizzazione agricola e della crescita della sua produttività. La tariffa doganale protezionistica del 1887, e in particolare quella sul grano, bloccarono questi possibili sviluppi, ricon-fermando la produzione e le strutture agrarie, fondiarie e di potere tradi-zionali, che alimentarono l’emigrazione.

Gli effetti distruttivi della crisi agraria furono immediati e fecero aumentare notevolmente il volume degli espatri17. In altri termini le grandi crisi agrarie investirono il settore di produzione dell’economia direttamente inserito nel mercato capitalistico, ma non ebbero la conse-guenza di far avanzare su basi tecniche nuove e più razionali tale settore né di indurre ad avviare nuove forme di attività economica; esse indusse-ro invece, a una regressione delle forze egemoni del settore, che tesero a rimanere sulle proprie posizioni avvalendosi del sostegno del potere poli-tico che esse furono in grado di assicurarsi18.

Sottoutilizzazione delle forze lavorative, bassa retribuzione del lavoro e rapporto generalmente sfavorevole tra capitale-proprietà e lavoro emer-gono, quindi, come cause più evidenti dell’emigrazione italiana.

Coloro che emigravano lamentavano il basso salario agricolo, spesso congiunto a un basso numero di giornate lavorate in un anno. Erano gli effetti negativi del mercato capitalistico del lavoro, che vanificava qual-siasi nesso tra saggio di salario e reddito annuale. Da ciò deriva l’incredi-bile varietà di posizioni salariali e di durate annue del lavoro nel tempo, nelle diverse regioni italiane e tra le varie sezioni dell’offerta di lavoro (uomini, donne, bambini). Perciò, quando la perfetta concorrenza sarà incrinata dalle prime organizzazioni di classe, troveremo il proletariato

16 Idem, pag. 117.17 E. Sori, L’Emigrazione…, cit., pag. 117.18 F. Cerase, Economia precaria di emigrazione, in F. Balletta (a cura di), Un secolo di emigrazione italiana 1876-1976, Centro studi emigrazione, Roma 1978, pag. 121.

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agricolo attivamente impegnato sui due fronti della lotta: il salario e il lavoro. Il patronato, da parte sua, era impegnato, anche sul piano con-trattuale, a creare le condizioni istituzionali che mantenessero un mer-cato del lavoro favorevole alla domanda. È in questo contesto che nasce l’emigrazione all’estero appena frenata da occupazioni marginali.

I bassi salari agricoli erano attribuibili al circolo vizioso del basso livello tecnico dell’agricoltura italiana, che si aggravava ulteriormente con il frantumarsi in un numero assai elevato di posizioni salariali che corrispondevano a locali e particolari situazioni nei rapporti tra capitale e lavoro e derivavano da una connessione ancora debole tra i vari mercati zonali e regionali del lavoro19.

Nell’Italia Settentrionale, dove il tessuto economico era più articolato, la crescita della disoccupazione rurale o semirurale era il risultato di un innesto delle cicliche crisi industriali sulle latenti difficoltà che permane-vano nelle attività agricole. Vanno quindi interpretate come ulteriori spin-te all’espatrio la depressione serica del 1876-77, la crisi generale degli anni 1888-1896 che respingeva dalle città piemontesi i contadini, fino alla crisi di disoccupazione industriale e agricola che esplose nel 1912-13 e che diede il via al più grande “boom emigratorio” della storia italiana20.

Una causa meno congiunturale e forse più importante per spiegare l’epoca di avvio di grandi flussi emigratori del Paese, è l’esaurimento, alla fine degli anni ’80, di una fase di grandi lavori pubblici e privati (ferrovie, bonifiche, risanamenti urbani e grandi costruzioni edilizie post-unitarie), che erano stati uno dei principali ammortizzatori della disoccu-pazione endemica del proletariato semi-agricolo. Questa situazione non era uniforme sul territorio nazionale, tanto che si propose di ridistribuire, la disoccupazione di alcune zone “calde” verso altre ritenute immuni21, come il Mezzogiorno spopolato e bisognoso di lavori pubblici, da realiz-zare con i braccianti padani. Ma proprio le zone in cui in passato era stata più intensa la domanda di lavoro bracciantile da parte dei lavori pubblici, paradossalmente registrarono le più intensa crescita dell’emigrazione.

19 E. Sori, L’Emigrazione…, cit., pagg. 103-104.20 Z. Ciuffoletti, M. Degl’Innocenti, L’emigrazione nella storia d’Italia…, cit., pag.110.21 Sori, L’emigrazione…, cit., pag. 111.

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