L’EMIGRAZIONE FRIULANA IN FRANCIA 1820-1970 · 2016. 9. 28. · 1 L’EMIGRAZIONE FRIULANA IN...

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1 L’EMIGRAZIONE FRIULANA IN FRANCIA 1820-1970 Matteo Ermacora * 1820-1914 - Mosaicisti, terrazzieri e muratori in Francia. I primi ad arrivare nella repubblica transalpina agli inizi dell’Ottocento furono piccoli gruppi di mosaicisti e terrazzieri della destra Tagliamento che si dedicarono, con procedimenti innovativi, al restauro di antichi mosaici romani e alla decorazione di palazzi pubblici e privati. L’espansione urbanistica di fine secolo richiamò anche muratori e scalpellini della zona montana e pedemontana; ad ogni modo i flussi migratori verso la Francia risultavano decisamente inferiori a quelli diretti nei vicini Imperi Centrali. 1. Le origini. Una meta possibile, ma secondaria Fino al primo dopoguerra la Francia rappresentò per i lavoratori friulani una destinazione eccentrica rispetto agli sbocchi migratori degli Imperi Centrali. Stando alle statistiche ufficiali, nel periodo 1876-1915 si recarono in Francia complessivamente 19.713 emigranti, un numero esiguo (pari al 2.2%) rispetto ai flussi diretti verso le «germanie» 1 . Sin dagli esordi l’emigrazione in questo paese rimase limitata a piccoli nuclei di operai terrazzieri e mosaicisti della destra Tagliamento che, dopo aver operato in Lombardia e in Piemonte, passarono in Francia per eseguire opere decorative in palazzi pubblici e privati. A metà dell’Ottocento il ritrovamento dei mosaici di età romana richiamò i lavoratori di Sequals per le operazioni di restauro a Montepellier, Béziers e Nîmes 2 . La presenza degli specialisti si rafforzò progressivamente: le inchieste ministeriali degli anni 1884-1885 e 1888 segnalavano la presenza oltralpe dei terraioli e fornaciai di Fanna, * Insegnante, dottore di ricerca in storia sociale presso l’Università degli studi di Venezia «Cà Fiscari», cultore della materia. 1 Mia rielaborazione da B. M. Pagani, L’emigrazione friulana dalla metà del XIX secolo al 1940, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1968, pp. 33; 98; L’emigrazione veneto-friulana in Francia negli anni 1909-1913 rappresentava in media il 4.8% dei flussi temporanei continentali. M. Fracca, La forza di espansione della popolazione veneta, in «Quaderno mensile dell’Istituto federale di credito per il Risorgimento delle Venezie», Venezia, Ferrari, 1924, p. 25; Commissariato Generale dell’Emigrazione, Annuario statistico dell’emigrazione italiana 1876-1925, Roma, 1926, tav. II e III, p. 101.

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L’EMIGRAZIONE FRIULANA IN FRANCIA 1820-1970

Matteo Ermacora∗

1820-1914 - Mosaicisti, terrazzieri e muratori in Francia.

I primi ad arrivare nella repubblica transalpina agli inizi dell’Ottocento furono

piccoli gruppi di mosaicisti e terrazzieri della destra Tagliamento che si

dedicarono, con procedimenti innovativi, al restauro di antichi mosaici romani e

alla decorazione di palazzi pubblici e privati. L’espansione urbanistica di fine

secolo richiamò anche muratori e scalpellini della zona montana e pedemontana;

ad ogni modo i flussi migratori verso la Francia risultavano decisamente

inferiori a quelli diretti nei vicini Imperi Centra li.

1. Le origini. Una meta possibile, ma secondaria

Fino al primo dopoguerra la Francia rappresentò per i lavoratori friulani una

destinazione eccentrica rispetto agli sbocchi migratori degli Imperi Centrali. Stando

alle statistiche ufficiali, nel periodo 1876-1915 si recarono in Francia

complessivamente 19.713 emigranti, un numero esiguo (pari al 2.2%) rispetto ai

flussi diretti verso le «germanie»1. Sin dagli esordi l’emigrazione in questo paese

rimase limitata a piccoli nuclei di operai terrazzieri e mosaicisti della destra

Tagliamento che, dopo aver operato in Lombardia e in Piemonte, passarono in

Francia per eseguire opere decorative in palazzi pubblici e privati. A metà

dell’Ottocento il ritrovamento dei mosaici di età romana richiamò i lavoratori di

Sequals per le operazioni di restauro a Montepellier, Béziers e Nîmes2. La presenza

degli specialisti si rafforzò progressivamente: le inchieste ministeriali degli anni

1884-1885 e 1888 segnalavano la presenza oltralpe dei terraioli e fornaciai di Fanna,

∗ Insegnante, dottore di ricerca in storia sociale presso l’Università degli studi di Venezia «Cà Fiscari», cultore della materia. 1 Mia rielaborazione da B. M. Pagani, L’emigrazione friulana dalla metà del XIX secolo al 1940, Udine, Arti Grafiche Friulane, 1968, pp. 33; 98; L’emigrazione veneto-friulana in Francia negli anni 1909-1913 rappresentava in media il 4.8% dei flussi temporanei continentali. M. Fracca, La forza di espansione della popolazione veneta, in «Quaderno mensile dell’Istituto federale di credito per il Risorgimento delle Venezie», Venezia, Ferrari, 1924, p. 25; Commissariato Generale dell’Emigrazione, Annuario statistico dell’emigrazione italiana 1876-1925, Roma, 1926, tav. II e III, p. 101.

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degli operai stradali di Aviano, dei mosaicisti, tagliapietre e terraioli di Sequals, degli

scalpellini di Travesio. La perizia di questi operai era riconosciuta ed apprezzata,

tanto che in questo periodo alcune squadre cominciarono a dirigersi in Germania,

Olanda, Danimarca e negli Stati Uniti3.

La dinamicità dell’industria musiva friulana in Francia nella seconda metà

dell’Ottocento è senza dubbio legata al successo imprenditoriale di Gian Domenico

Facchina; nato a Sequals nel 1826 e formatosi tra Trieste e Venezia, Facchina a metà

del secolo si trasferì a Montpellier dove si impegnò nel restauro di pavimenti antichi

sperimentando un innovativo procedimento che - permettendo un considerevole

abbassamento dei costi di produzione e la rapida esecuzione dei lavori - gli assicurò

l’ampliamento delle commesse. La capacità di unire tecniche e tradizioni artistiche

romane, veneziane e bizantine gli permisero di operare nella capitale francese, dove,

dopo aver partecipato all’esposizione universale del 1867, decorò il teatro dell’Opera.

Sino al 1904, anno della sua morte, Facchina si divise tra i suoi laboratori di Venezia

e Parigi, costituendo uno dei motori dell’emigrazione di mosaicisti e terrazzieri verso

la Francia, molti dei quali - come i fratelli Odorico - dopo un periodo di

apprendistato, fondarono ditte autonome operando in altre città francesi4.

L'espansione del settore delle decorazioni musive sollecitò la costituzione di

numerose ditte familiari nell’ultimo decennio dell’Ottocento ed ampliò l’area di

specializzazione di partenza, interessando i distretti di Pordenone, Sacile e

Spilimbergo5.

I flussi stagionali di terrazzai, mosaicisti e decoratori si intensificarono nel

corso del primo decennio del Novecento, come registra l’inchiesta condotta

dall’Ispettore del Lavoro Guido Picotti nel 1909; tuttavia, alla svolta del secolo agli

specialisti si unirono squadre di muratori e di scalpellini provenienti dall’area

2 L. Zanini, Friuli migrante, Udine, Doretti, 1964, p. 153; 155. 3 G.Colledani-T. Perfetti (a cura di), Dal sasso al mosaico. Storia dei terrazzieri e mosaicisti di Sequals, Sequals, Comune di Sequals, 1994; O. Lorenzon-P. Mattioni, L’emigrazione in Friuli, Udine, Amministrazione provinciale di Udine, 1962, p. 33. 4 Zanini, Friuli migrante cit., pp.159-170; G. Colledani, Giandomenico Facchina: da Sequals a Parigi, in «Il Barbacian», XXX (1993), n. 1, pp. 11-13. 5 M. Ermacora, Imprenditoria migrante. Costruttori e imprese edili friulane all’estero (1860-1915), in F. Merluzzi (a cura di), Baumeister dal Friuli. Costruttori e impresari edili migranti nell’Ottocento e primo Novecento, Udine, Grop Pignot, 2005, p. 117. G. Cosattini, L’emigrazione temporanea del Friuli, Udine-Trieste 1982 ,(1903), p. 41; 130; 137.

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montana del pordenonese e della Carnia. I tagliapietra di Forni di Sotto partirono

infatti negli anni 1898-1899 verso le miniere della Lorena e Parigi, dove costruirono

le stazioni della metropolitana6. Le relazioni dei parroci della Diocesi di Udine del

periodo 1911-1914 confermano come l’emigrazione verso la Francia abbia ormai

coinvolto anche gli edili della zona pedemontana (Venzone, Pioverno, Montenars,

Alesso) e della stessa Carnia (Verzegnis-Chiaicis, Lauco, Ampezzo, Raveo,

Enemonzo)7. Oltre ai mestieri «classici», il parroco di Ampezzo segnalava nel 1911

la migrazione di sarti per Marsiglia e Parigi8, mentre alcuni gruppi di fornaciai di

Artegna e di Buja e del medio Friuli si dirigevano in Alsazia-Lorena, muovendosi

lungo la contrastata linea di confine franco-tedesca.

Tra Otto e Novecento la Francia si affermava quindi come una tra le possibili

mete dell’ emigrazione friulana, ma rimaneva soprattutto una zona di passaggio per

coloro che, raggiunti i porti francesi, salpavano verso il Canada. Ciononostante,

seppur filtrati dalla stampa o dalle voci dei pochi operai che vi si dirigevano, gli echi

di quanto avveniva nel paese transalpino giungevano sino in Friuli, basti pensare

all’ascesa del movimento sindacale francese, agli episodi xenofobi contro gli operai

italiani ad Aigues Mortes nel 1893, oppure ancora al caso dello sfruttamento dei

piccoli vetrai9.

1915-1918 – La cesura della Grande Guerra

La Grande Guerra si rivelò un vero e proprio punto di svolta nella storia

migratoria friulana; l’evento bellico impose nell’agosto del 1914 il rimpatrio di

circa 80 mila lavoratori dagli Imperi Centrali, mut ò i tradizionali flussi

migratori ed accrebbe il ruolo dello stato nella regolamentazione degli espatri.

2. Un episodio dimenticato. I profughi friulani in Francia 1917-1919

6 J.B. Candotti, C’era una volta in Carnia. (Ricuarz di un frut), Castions di strada, Coordinamento circoli culturali della Carnia, 1997, p. 17; 87. 7 Archivio Curia Arcivescovile di Udine (d’ora in poi Acau), vol. 8 (Enemonzo 1913, fasc. 75; Forni di Sopra 1913, fasc. 77, Raveo 1913, fasc. 79), vol. 12 (Lauco 1914, fasc. 113); vol. 15 (Alesso 1911, fasc. 147; Montenars 1916, fasc. 152), vol. 16 (Venzone 1916, fasc. 164). 8 Acau, vol.8, Ampezzo 1911, fasc. 74. 9 F. Micelli, Geografie dell’emigrazione: i friulani in Francia (1919-1926), in «Metodi e Ricerche», n.s. XVII (1998), n.1, p. 40.

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La Grande Guerra fece cessare le migrazioni verso gli Imperi Centrali, coinvolse la

manodopera nei lavori logistici nelle retrovie del fronte ma prospettò anche nuove

possibilità di espatrio nell’ambito di accordi economico-militari tra paesi alleati. Nel

corso del 1917 infatti, il governo italiano, attraverso il Commissariato Generale

dell’Emigrazione, reclutò a più riprese circa 35 mila edili e braccianti da utilizzare

come operai militarizzati per costruire linee difensive, strade, ferrovie, canali nelle

retrovie del fronte francese10. Tra il dicembre del 1917 e il gennaio del 1918, dopo la

rotta di Caporetto, questi contingenti vennero rafforzati con circa duemila operai

profughi friulani - in prevalenza provenienti dalla Carnia e dal gemonese, molto

spesso anche adolescenti -, desiderosi di sottrarsi alla precarietà della profuganza.

Partite dalla Lombardia, dal Piemonte e dal Veneto non occupato, le squadre dei

profughi lavorarono alle dipendenze delle truppe americane, francesi e del corpo di

spedizione italiano11. La documentazione archivistica e le relazioni militari

riferiscono di un gran numero di operai infortunati ed ammalati a causa delle difficili

condizioni di vita e di lavoro; ricorda Carissimo Ferro, operaio di Nespoledo:

Siamo stati lì [in Francia] due mesi, dal dicembre del 1917 fino al gennaio del 1918. [...] Facevamo un campo di aviazione. E poi dovevamo fare un ospedale di baracche. Però si stava male. La notte, doversi alzare e andare a nasconderci nel bosco. I tedeschi bombardavano perchè vedevano che lì si lavorava. Eravamo vicini al fronte, verso la Germania. Un freddo cane. [...] Ci davano da mangiare male in Francia. Ci davano quelle pagnotte di riso e io mangiavo la mia tutta in un pasto. Dopo, la sera, era grave. Si andava a dormire piangendo di fame12.

Le ultime squadre rientrarono in Friuli nella primavera del 1919; anche questa

drammatica esperienza rafforzò le conoscenze relative alla realtà francese e mise in

luce le ampie possibilità di impiego che si aprivano con la ricostruzione; nel

frattempo, gli operai ritornavano a casa sperando di poter trovare lavoro in patria.

1919-1924 - Il difficile dopoguerra e la ripresa dell’emigrazione

10 Archivio Centrale dello Stato (Acs), Roma, Segretariato Generale per gli Affari Civili, b. 512, Missione militare italiana. Regio ispettore dell’emigrazione. Relazione, 30 aprile 1917. Sul lavoro durante il conflitto, cfr. M. Ermacora, Cantieri di guerra. Il lavoro dei civili nelle retrovie del fronte italiano (1915-1918), Bologna, Il Mulino, 2005. 11Acs, Alto commissariato per i profughi di guerra, b. 33. 12 I. Urli, Bambini nella grande guerra, Udine, Gaspari, 2003, p. 151.

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Le difficoltà della ricostruzione in Friuli e la disoccupazione dilagante spinsero

gli operai a valicare nuovamente i confini, non più verso gli Imperi Centrali

prostrati dalla guerra ma verso la Francia che richiedeva manodopera per

affrontare i lavori di ricostruzione delle zone devastate dai combattimenti. La

ripresa degli espatri, organizzata mediante contratti collettivi intergovernativi,

fu accompagnata da forti tensioni sociali e da un acceso dibattito tra le principali

forze politiche sulla necessità e le modalità dell’emigrazione.

3. Verso la Francia

Alla fine della Grande Guerra il Friuli era spossato dalle distruzioni belliche: la

sitematica spoliazione operata dall’esercito austro-tedesco nel 1917-1918 aveva

infatti distrutto il settore agricolo ed industriale; le diffcoltà finanziarie dello stato

italiano impedivano l’avvio di un piano organico di lavori pubblici di ricostruzione. Il

rientro dei profughi e la smobilitazione dell’esercito accrebbero la disoccupazione

(80-100 mila unità tra 1919-1921) e le tensioni interne. Il dopoguerra fu quindi

segnato dall’ «urgenza» di ripartire: bloccati i flussi verso gli Imperi Centrali a causa

del ristagno dei lavori edilizi, i lavoratori friulani si diressero principalmente verso la

Francia che aveva subito forti perdite durante il conflitto ed aveva bisogno di nuove

energie per avviare la ricostruzione delle zone teatro di guerra.

La possibilità di collocamento nel paese transalpino ben presto si scontrò con la

volontà dei governi di regolamentare i flussi migratori; in particolare, il trattato

stipulato tra Francia e Italia nel 1919, sebbene fosse particolarmente avanzato, nella

congiuntura postbellica si rivelò un vero e proprio intralcio all’emigrazione friulana

perchè subordinava la concessione del passaporto al contratto di lavoro e al nullaosta

consolare. Le lungaggini burocratiche e la concomitante pressione operaia - tra il

1919 e il 1920 le proteste e le agitazioni dei disoccupati non si contavano -

determinarono un acceso dibattito tra le diverse forze politiche, divise tra tutela e

liberalizzazione degli espatri; prevalse realisticamente la necessità di una valvola di

sfogo, così si susseguirono le missioni dei dirigenti cattolici e socialisti volte ad

allacciare rapporti con le autorità francesi e indirizzare i disoccupati verso il paese

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transalpino. La prima fase dell’emigrazione fu quindi gestita mediante contratti

collettivi con imprenditori francesi stipulati dal Commissariato Generale

dell’Emigrazione e dagli enti provinciali friulani. Non meno importante fu il

collocamento operato attraverso i segretariati cattolici francesi e la rete di assitenza

dell’«Opera Bonomelli» a Parigi e a Grenoble13.

I primi a partire furono significativamente i lavoratori della destra Tagliamento

che già conoscevano le terre francesi: sin dalla fine del 1919 gli imprenditori di

questa zona avevano infatti inziato ad assumere appalti per la ricostruzione dei

villaggi distrutti attorno a Verdun e a reclutare manodopera. Lo stesso Segretariato

dell’emigrazione di Pordenone nel 1921 segnalava le crescenti partenze dai distretti

della destra Tagliamento verso la Francia14. I primi flussi erano composti da

fornaciai, cementisti e minatori, ai quali si unirono ben presto i muratori della zona

montana e pedemontana. La restrizione degli ingressi operata dal governo francese

alla fine del 1920, la presenza di agenti e procacciatori nella provincia e i severi

controlli alle frontiere alimentarono una massiccia emigrazione clandestina attraverso

le Alpi (Frejus, Monte Bianco, San Bernardo); alla metà degli anni Venti, complice la

chiusura del mercato svizzero, i lavoratori compivano percorsi sempre più lunghi (ma

già noti), entrando in Francia dopo aver attraversato la Germania, il Belgio e il

Lussemburgo15.

La Francia diventò rapidamente la principale destinazione dell’emigrazione

diretta nel continente europeo. Secondo le statistiche, dai 1.224 emigranti del 1919 si

passò ai 16.554 nel 1920, agli oltre 28 mila nel 1922; alimentati dalle catene

migratorie spontanee che superavano i flussi organizzati, nel 1923 gli emigranti

friulani in Francia erano circa 40 mila, disseminati su tutto il territorio, con la

prevalenza di Parigi, punto d’arrivo per i muratori, e dei dipartimenti del Nord, meta

13 Micelli, Geografie dell’emigrazione cit., pp. 37-49. 14 Relazione morale e finanziaria del segretariato di emigrazione e lavoro di Pordenone per l’anno 1921, Pordenone, 22 febbraio 1922. 15 Ufficio provinciale del Lavoro di Udine, Relazione morale per il 1921, Udine, Stab. Tip. S. Paolino, 1921, p. 7; J. Grossutti, Le cooperative di lavoro dei muratori friulani in Francia tra le due guerre, in «Metodi e Ricerche», n. s. XXII, 2003, n.1, pp. 146-147.

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di fornaciai e minatori16. Le fornaci di mattoni e di tegole francesi («briqueterie» e

«tuilerie») diventarono la destinazione principale dei lavoratori del medio Friuli e

della zona collinare che non potevano più emigrare in Austria e in Baviera; esemplare

in questo senso il caso di Buja, dove nel 1922 vennero rilasciati 1585 passaporti, dei

quali 643 per la Francia, 239 nel Lussemburgo, 8 nel Belgio, a testimonianza delle

mutate direzioni dei flussi nell’immediato dopoguerra ma anche della loro sensibile

diminuzione17.

Dopo aver eliminato la concorrenza socialista, attraverso la creazione di un

nuovo organismo - l’ «Istituto Friulano per l’Emigrazione» - a partire dal 1923 la

federazione fascista friulana riuscì a conquistarsi la fiducia di quasi la metà dei

lavoratori emigranti e a continuare l’organizzazione degli espatri; nel corso degli anni

Venti gli operai furono diretti prevalentemente verso le miniere della Lorena e

Meurthe et Moselle e le fornaci nei dipartimenti del Nord; la tutela e il collocamento

della manodopera risultarono subordinati a nuove necessità di controllo e di

propaganda, tanto che il movimento migratorio fu utilizzato in chiave nazionalista,

come veicolo di italianità18.

1919-1925 – Emigrazione, cooperativismo e antifascismo

Sin dal 1919 l’emigrazione in Francia si distinse per la presenza di imprenditori

e di cooperative che assumevano appalti e lavori di ricostruzione. Questo

processo, esito della radicalizzazione del movimento operaio nel difficile

dopoguerra, si configurava anche come espressione della consapevolezza delle

competenze accumulate nelle «germanie» e della volontà di presentarsi oltralpe

con dignità e professionalità. Al collocamento rogolamentato dai governi e

segretariati si sovrapposero ben presto migrazioni - regolari e clandestine -

16 E. Franzina, La crisi del sistema di assistenza e la chiusura degli sbocchi emigratori, in Veneto Ribelle. Proteste sociali, localismo popolare e sindacalizzazione, Udine, Gaspari, 2001, p. 223, n.60. 17 G. Ellero, Buja. Terra e popolo, Udine, Arti Grafiche, 1984, p. 137; T. Tomat, L’emigrazione da Fagagna tra le due guerre, Udine, Comune di Fagagna, 2004, p. 59. 18 P.P. Pillot-L.Camisa, Il primo dopoguerra nel Friuli Occidentale (1919-1923), Pordenone, Edizioni Concordia Sette, 1997, pp. 136-137; 144-145; G. L. Bettoli, Una terra amara. Il friuli Occidentale dalla fine dell’Ottocento alla dittatura fascista, Udine, Ifsml, 2003; M. Puppini, L’emigrazione politica dal Friuli in Francia tra le due guerre, in «Storia contemporanea in Friuli», XXXI (2001), n.32, pp. 101-102.

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alimentate dalle catene migratorie, dalla disoccupazione e dalla volontà di

fuggire alla violenza fascista.

4. Le cooperative friulane in Francia 1922-1927

Il fallimento dei lavori di ricostruzione in Friuli a causa della mancata liquidazione

degli appalti da parte dello stato italiano, la forte disoccupazione e le prime avvisaglie

dello scontro con lo squadrismo fascista spinsero anche le organizzazioni socialiste

all’emigrazione. Nel 1922 il Consorzio Carnico delle cooperative di lavoro (che

riuniva 33 cooperative con 4000 operai) si trasferiva in Francia cercando di

assicurarsi gli appalti di ricostruzione nelle zone del fronte, in particolare a Soisson,

affidati alla cooperativa «Alba Proletaria» di Cavazzo Carnico, ma anche in altre città

come Eguzon, Parigi, Treviri, Marsiglia e Amiens, dove dal 1923 si trasferiva la

cooperativa di Lavoro «Val Pesarina».

Questa nuova esperienza trovava le sue radici nel periodo antecedente al

conflitto: i socialisti avevano infatti individuato nella cooperazione uno strumento

utile per assumere lavori all’estero in maniera tutelata, attraverso la federazione delle

cooperative e la distribuzione degli appalti. Il conflitto aveva troncato questi progetti

che vennero riproposti nell’immediato dopoguerra, sulla spinta delle necessità ma

anche dell’intenso sviluppo del movimento socialista negli anni del «biennio rosso».

La consapevolezza delle proprie competenze professionali, l’esperienza maturata

all’estero permisero agli emigranti friulani di presentarsi in Francia organizzati, in

grado di aggiudicarsi gli appalti dei lavori edili su un piede di parità, con

manodopera, capitali e direzione «propri»19.

La dimensione politica caretterizzò fortemente queste migrazioni; la violenza

fascista, l’omicidio di Matteotti spinsero molti operai socialisti, comunisti ed

anarchici a lasciare il Friuli, determinando il tracollo delle cooperative di lavoro in

patria e una secca sconfitta elettorale del socialismo carnico20. La Francia divenne

19 Grossutti, Le cooperative di lavoro dei muratori friulani cit., p. 140. 20 M. Puppini, Economia e società nella valle del Lago tra fine’800 e seconda guerra mondiale, in Val del Lâc, Udine, Società Filologica Friulana, 1987, pp. 194-197; S. Zilli, Geografia elettorale del Friuli-Venezia Giulia. Consenso, territorio e società 1919-1996, Udine, Ifsml, 2000, pp. 60-61; F. Bof, La cooperazione in Friuli e nella Venezia Giulia dalle origini alla seconda guerra mondiale, Udine, Arti Grafiche 1995, p. 56.

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ben presto il punto di riferimento di tutta l’emigrazione antifascista e delle dirigenze

dei partiti in esilio. Questa esperienza migratoria diventò così una fase di uno scontro

con il fascismo che, inziato nell’immediato dopoguerra in Italia, si spostò in Francia,

proseguì con la guerra civile in Spagna per poi concludersi con la partecipazione alla

lotta partigiana in Francia e in Italia21.

Partire con le cooperative o al seguito dei piccoli imprenditori univa

strettamente il dissenso politico con l’urgenza di lavoro e di occupazione. Quadri e

semplici militanti completarono la loro formazione politica, già avviata nelle

«germanie», proprio durante l’esilio in Francia: le lettere degli operai espatriati

testimoniano un’orgogliosa riaffermazione della propria identità politica e pongono

l’accento sulla «libertà» e sulle positive opportunità di impiego nel paese transalpino.

Affinità politiche, lavoro e solidarietà animavano dunque i gruppi di fuoriusciti -

socialisti, comunisti, anarchici - che da Colugna, Tavagnacco, Prato Carnico,

Venzone e dalla destra Tagliamento decisero di spingersi in Francia dove poterono

vivere liberamente, ricreare la «piccola patria» mediante le comunità di immigrati,

avviare nuove esperienze professionali e riorganizzare il movimento operaio in esilio.

I recenti studi condotti sulla base della documentazione della polizia politica fascista

(il «Casellario politico Centrale») che controllava gli antifascisti all’estero

confermano come la componente «economica» e quella «politica» dell’emigrazione

non solo erano strettamente intrecciate ma si alimentavano reciprocamente,

permettevano il collocamento degli emigranti e nel contempo stimolavano volontà di

emancipazione politica e sociale22.

L’attività delle cooperative cominciò a dare segni di cedimento nella seconda

metà degli anni Venti, quando la situazione economica in Francia si aggravò; le

difficili condizioni di lavoro, la scarsità dei capitali a disposizione e l’insolvenza delle

imprese francesi appaltatrici dei lavori determinarono un progressivo scioglimento

21 Puppini, L’emigrazione politica dal Friuli in Francia cit., p. 100; 103; 104-117; P. Mattioni, Aspetti economici e vicende migratorie in Friuli durante il fascismo, in «Storia contemporanea in Friuli», nn. 2-3, pp.134-135. 22 Rimando a J. Grossutti-F. Micelli (a cura di), L’altra Tavagnacco. L’emigrazione friulana in Francia tra le due guerre, Pasian di Prato, Comune di Tavagnacco, 2003.

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delle cooperative23. Ciononostante, l’iniziale esperienza cooperativa costituì per molti

operai un importante momento di aggregazione sociale e politica nonchè uno

strumento che rendeva meno difficile l’inserimento lavorativo e il contatto con la

società francese.

1919-1939 - Flussi, destinazioni, mestieri

Nel periodo interbellico l’emigrazione in terra francese sembra coinvolgere -

seppure con intensità diverse - pressochè tutte le zone del Friuli e della Venezia

Giulia. In questo periodo circa 100 mila friulani raggiunsero la Francia che si

attestò come la principale destinazione continentale. Gran parte dei flussi

migratori erano composti da fornaciai e muratori, in misura minore da

manovali e da minatori. Se gli edili furono attratti principalmente dalla capitale

e dai dipartimenti del nord-est, teatro di guerra, i minatori e fornaciai si

diressero verso la Normandia e il bacino minerario dell’Alsazia-Lorena. Altri

flussi di muratori ed agricoltori privilegiarono, n ella seconda metà degli anni

Venti, la Francia meridionale, in particolare il sud-ovest. Ben presto la presenza

friulana, dopo una prima destinazione ben precisa, spesso determinata da

professioni e catene di richiamo, si estese a tutto il suolo francese in virtù di una

forte mobilità interna. Alle prime partenze maschili si sovrapposero, nel corso

degli anni Trenta, i ricongiungimenti familiari ma anche nuove migrazioni di

domestiche, sarte, cameriere, commesse che si dirigevano verso Parigi e i grandi

centri, e nuove ondate di braccianti, contadini e manovali diretti verso le

campagne. Gli espatri, particolarmente intensi nella prima metà degli anni Venti

(25-30 mila unità annue), si ridussero notevolmente nel corso del decennio

successivo (3-5 mila unità annue) a causa della crisi economica mondiale del

1929 e delle politiche restrittive intraprese dallo stato francese e dal governo

fascista. Pur riprendendo nei periodi di maggiore crisi (1931-1933; 1934-1935), il

regime cercò di dirottare l’emigrazione dapprima verso le colonie (Libia, Africa

23 C. Puppini, Cooperare per vivere. Vittorio Cella e le cooperative carniche 1906-1938, Tolmezzo, «Gli Ultimi», 1988, pp.136-149.

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Orientale italiana), ed in seguito verso la Germania hitleriana che si stava

preparando alla guerra.

5. Maçons. I percorsi nell’edilizia

In Francia, gli operai friulani si inserirono prevalentemente nel settore edile, favoriti

non solo dalla mancanza di manodopera locale ma anche dal fatto che questo settore

era strutturato in piccole imprese artigianali. I grandi lavori da affrontare

nell’immediato dopoguerra spinsero gli imprenditori francesi all’uso massiccio del

subappalto e di squadre di cottimisti formate da immigrati; nonostante alcune crisi

congiunturali (1921;1927), il mercato del lavoro francese riuscì ad assorbire

agevolmente i flussi in arrivo, tanto che le cooperative friulane e gli stessi operai

riuscirono a trovare una nicchia e creare una sorta di mercato del lavoro interno, quasi

separato, che si alimentava grazie ai nuovi arrivi - spesso clandestini - dal Friuli.

Significativo a questo proposito il ricordo di Pietro Candolini, partito da Interneppo

giovanissimo, a 15 anni, nel 1924:

Abbiamo dovuto andare in treno attraverso l’Austria e la Germania, perchè per la Svizzera non lasciavano passare, neanche con i passaporti [...]. In Francia c’erano già due tre persone di Interneppo e chiamavano a lavorare chi voleva andare..un pò alla volta è finita che eravamo tutti in Francia24.

Ben presto le catene migratorie ebbero il sopravvento sui flussi organizzati

perchè chi partiva poteva infatti giovarsi dell’intermediazione di parenti e

compaesani già presenti nel paese transalpino. Conclusasi la fase legata alla

ricostruzione postbellica, edili e piccoli imprenditori friulani si si avvicinarono alla

capitale, alle zone del centro e dell’ovest francese; Parigi e la sua periferia in

espansione e lo sviluppo edilizio di piccoli e grandi centri erano infatti in grado di

offrire numerose opportunità di impiego a muratori, cementisti, imbianchini e

carpentieri. L’attività nel settore edile non sempre seguiva traiettorie lineari, come

dimostrano le storie di numerosi operai che avevano trovato impiego dapprima nelle

fornaci e nelle miniere belghe e, alla scadenza dei contratti, erano rimasti all’estero

24 Testimonianza citata in A. Verrocchio (a cura di), Bordan e Tarnep. Int pal mont, Udine, Arti Grafiche, 1991, pp. 127-128.

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passando poi in Francia alla ricerca di occupazioni migliori e più remunerative nel

settore edile.

Le storie degli edili evidenziano alcuni tratti comuni: la partenza in giovane età

al seguito del padre o dei fratelli, la mediazione parentale o dei compaesani per

l’ingresso nell’edilizia, il lavoro come manovale nelle imprese francesi o italiane, il

successivo passaggio alle mansioni di aiuto-muratore, muratore specializzato sino a

raggiungere la posizione di «chef d’équipe». Nel primo dopoguerra mentre i

lavoratori friulani si fecero largo in maniera autonoma nei lavori di ristrutturazione e

di riparazione perchè erano in grado di esercitare diverse mansioni (muratore,

cementista, gessatore, terrazziere, carpentiere), nel caso della costruzione di nuovi

edifici tendevano ad inserirsi in posizione subordinata nelle imprese francesi a causa

dei diversi sistemi di costruzione adottati25. Lo sviluppo edilizio necessitava di molta

manodopera a buon prezzo: nonostante i contratti prevedessero la paga oraria e otto

ore di lavoro, in virtù del cambio favorevole e degli elevati salari, gli operai friulani

accettarono i cottimi e il prolungamento degli orari; il padronato francese, d’altro

canto, sfruttò la manodopera immigrata italiana e friulana, che si trovò spesso in

concorrenza con gli operai polacchi. Almiro Rossi, emigrato giovanissimo nel 1929

per raggiungere gli altri tre fratelli, ricordava così il lavoro nei cantieri nella periferia

parigina:

Lavoravamo anche 14-15 ore al giorno sui cantieri; la mattina si preparava la malta per la giornata, e poi si lavorava fin che c’era luce. Si veniva pagati a rendimento: io ero abbastanza forte, riuscivo a portare la malta sulle impalcature e così i padroni mi davano qualche franco in più [...]. Dopo sei mesi parlavo bene il francese, anche perchè i miei fratelli mi mandavano sempre a prendere le cose che servivano e a fare la spesa e così mi dovevo arrangiare26.

L’esperienza di lavoro si rivelò spesso difficile; le testimonianze dei muratori si

soffermano spesso sulla precarietà delle condizioni di vita e di lavoro (lunghi

spostamenti a piedi per raggiungere i cantieri, 10-12 ore di lavoro al giorno anche di

sabato, alloggi precari) ma anche sull’ospitalità e l’amicizia stretta con le inservienti

25 J. Grossutti, Le scelte migratorie a Tavagnacco, Feletto Umberto e Pagnacco: tra Francia e Argentina (1919-1939), in Micelli-Grossutti (a cura di), L’altra Tavagnacco cit., pp. 142-143. 26 Testimonianza citata in A.Verrocchio (a cura di), Bordan e Tarnep cit., p.123.

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delle trattorie, dove trovavano vitto e alloggio a buon prezzo. La capacità di

imparare il francese, la frequenza di scuole serali valorizzarono il ruolo di alcuni

operai; questi ultimi diventarono ben presto punti di riferimento per gli emigranti in

arrivo dal momento che erano in grado di compilare la documentazione di ingresso e

di aiutarli nell’inserimento lavorativo e nella ricerca di una abitazione.

6. Dalle cooperative all’imprenditoria negli anni della grande crisi

IL caso francese mette in luce la spiccata capacità di adattamento della manodopera

friulana al nuovo contesto lavorativo grazie a quel patrimonio di competenze

precedentemente accumulato nelle «germanie». In particolare, la figura dei «polier» e

dei capi operai abili nel reclutamento e nella direzione delle maestranze furono

dapprima figure di riferimento all’interno delle cooperative edili e poi diventarono

veri e propri imprenditori; le inchieste francesi e recenti ricerche riferiscono che il

fenomeno era particolarmente diffuso, nel 1926 si potevano infatti contare oltre 7000

capi di impresa italiani27. Se pochi riuscirono a farsi largo come veri e propri

costruttori, un buon numero di lavoratori tentò l’avventura imprenditoriale nel settore

delle pitture, della ripulitura delle facciate e delle decorazioni di edifici, attività per le

quali non erano necessari grandi capitali ed era possibile sfruttare intensamente la

manodopera, sulla quale spesso venivano scaricate difficoltà e insolvenze. La

capacità di organizzare la manodopera a basso costo - garantita dal continuo flusso di

emigranti, regolari e clandestini - favorì dunque l’estendersi dell’attività

imprenditoriale. La scarsità di capitali, d’altro canto, era compensata dai subappalti

che permettevano di limitare gli investimenti e di frammentare le attività delle

imprese in diversi lavori di ridotta entità, il cui pagamento riduceva l’esposizione

finanziaria. La condivisione degli stessi spazi, la vita comunitaria degli immigrati,

permisero ai piccoli imprenditori friulani di scambiarsi informazioni, reclutare

manodopera, collaborare alla realizzazione dei subappalti e spartirsi i lavori. Accanto

agli imprenditori edili esisteva poi una ampia categorie intermedia di capi-operai, i

cosiddetti «tacherons» (in genere muratori, stuccatori, pittori edili specializzati, tra di

27 Grossutti, Le cooperative di lavoro dei muratori friulani in Francia cit, pp. 137-148.

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essi molti friulani, piemontesi, siciliani e lombardi), che ricevevano dall’impresa che

li impiegava la responsabilità di una piccola parte del cantiere; l’attività principale dei

«tacherons», tuttavia, era l’intermediazione e il reclutamento di squadre di operai da

impiegare a cottimo, garantendo all’imprenditore bassi costi e alta produttività28.

Spesso la condizione di «tacheron» costituiva la prima fase del percorso che poteva

condurre dal lavoro dipendente a quella dell’imprenditore-proprietario di una impresa

edile29.

Il passaggio all’imprenditoria si accentuò soprattutto negli anni della grande crisi

1929-1933, quando la manodopera friulana pagò duramente l’eccessiva

specializzazione professionale con un forte tasso di disoccupati e con la crescente

ostilità da parte degli edili francesi. Il periodo della crisi fu segnato dall’ossessiva

ricerca di lavoro; tra il 1932 e il 1934 la precarietà fu acuita dai severi provvedimenti

del governo francese volti a difendere l’occupazione «nazionale»: venne infatti

limitata la presenza straniera in tutti i settori produttivi, i controlli furono irrigiditi, le

carte di identità, valide solo per il periodo contrattuale, non furono rinnovate. I

lavoratori disoccupati vennero rimpatriati. I provvedimenti protezionisti si

susseguirono anche nella seconda metà degli anni Trenta, quando il governo del

Fronte Popolare tassò i datori di lavoro che assumevano gli immigrati ed espulse i

lavoratori che rompevano i contratti. In questo contesto il potere discrezionale degli

imprenditori italiani e francesi - attraverso il rinnovo dei documenti e dei contratti -

divenne molto ampio, tanto che gli operai furono sfruttati senza scrupoli e spesso

posti in reciproca concorrenza30. Giovanni Battista Candotti, giovane operaio di Forni

di Sotto al lavoro con l’impresa Bourisson nel 1935, ricorda le difficoltà del settore

edile:

L’emigrante doveva soprattutto pensare al proprio lavoro, trovare un posto e difenderlo, talvolta senza capire la lingua, soddisfare premurosamente l’impresario, il paron che pensava solamente al rendimento del suo dipendente. L’emigrante doveva mettersi in regola con l’amministrazione locale, diffidente verso lo straniero, riempire i moduli regolamentari, esibire documenti e foto e dichiarazioni e porre le firme indispensabili. Un mucchio di cavilli [...] anche da parte dei propri compagni, piuttosto ostili ad ogni

28 A. Grassani, Emigrazione, self-employment, imprenditorialità. Itinerari collettivi degli emigranti italiani nell’edilizia francese 1919-1939, in «Imprese e storia», X, 1999, n.20, pp. 230-231. 29 Grossutti, Le scelte migratorie cit , pp.118-119. 30 P. Milza-R. Schor-É Vial (a cura di), Italiani di Francia. L’emigrazione fra le due guerre, Firenze, Giunti, 1989, pp. 35-39.

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concorrenza, perchè c’era poco lavoro e spesso di una aggressività che bisognava fingere di non vedere rispondendo con un atteggiamento corretto ed esemplare31.

Osteggiati, ricattati dalla mancanza di lavoro, gli operai immigrati subirono un

drastico peggioramento delle condizioni di lavoro: molti dovettero abbandonare i

cantieri per far posto alla manodopera francese, vivere di espedienti oppure

rimpatriare. Fu proprio l’esasperazione dovuta alle dure condizioni di lavoro che

spinse gli operai a improvvisarsi imprenditori oppure, più spesso, a diventare

«tacheron», attirandosi per questo motivo l’ostilità xenofoba della manodopera

francese. Fondare nuove ditte si configurò paradossalmente come una sorta di

«strategia difensiva» attuata proprio per sfuggire alla precarietà e ai provvedimenti di

espulsione ma che nel contempo costituì un processo virtuoso che spesso garantì una

positiva mobilità professionale e sociale32.

7. Un caso unico. La colonizzazione agricola del Sud Ouest della Francia 1924-1927

L’emigrazione verso la Francia assunse forme originali, infatti durante gli anni Venti,

i contadini della destra Tagliamento, del medio Friuli e dalle zone ex austriache

partirono alla volta del Sud-Ovest francese, dando vita ad un’inedita colonizzazione

agricola all’interno del continente europeo. L’esodo dei contadini fu motivato da un

complesso intreccio di cause politiche, economiche e sociali: all’aumento

demografico che aveva reso insufficienti i terreni per la sopravvivenza delle famiglie

coloniche, si sovrapposero gli effetti delle lotte agrarie, l’instaurarsi della dittatura

fascista e, nel Friuli ex-austriaco, un forte malcontento per il nuovo quadro politico

determinatosi dopo il conflitto mondiale. Per braccianti, salariati, coloni o piccoli

proprietari il Sud-Ovest della Francia e l’Argentina apparvero come possibili mete

ove poter trovare «miglior fortuna», sottraendosi allo squadrismo agrario e a

prestazioni di natura feudale33. Sin dall’immediato dopoguerra agenti francesi

avevano cominciato a percorrere le zone agricole venete e friulane sovrappopolate,

pubblicizzando la possibilità di acquisto di terreni ed aziende agricole a prezzi

31 Candotti, C’era una volta in Carnia cit., p. 64. 32 Grassani, Emigrazione, self-employment, imprenditorialità. cit., pp. 221-222. 33 F.Cecotti-D.Mattiussi (a cura di), Un’altra terra un’altra vita. L’emigrazione isontina in Sud America tra storia e memoria 1878-1970, Gorizia, Centro L. Gasparini, 2003.

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favorevoli nel Sud Ovest francese dove ampie zone agricole versavano in stato di

abbandono a causa dei processi di urbanizzazione e del calo demografico causato

dalla Grande Guerra. Le difficoltà interne e le nuove opportunità oltralpe

determinarono un vero e proprio esodo di massa; dopo i primi espatri dei braccianti,

nel 1924 partirono i coloni di Ruda, Saciletto e Perteole che si stabilirono a Preignan,

Auch e Montestruc (Gers). I coloni di Medea si diressero invece a Castelculier, dal

medio Friuli e dalla destra Tagliamento braccianti e contadini si recarono verso altre

zone dell’Aquitania34. Nonostante i tentativi del governo fascista di contrastare

questo tipo di emigrazione definitiva che prevedeva una discreta esportazione di

capitali, tra il 1926 e il 1927 si diressero nel sud della Francia circa 19 mila friulani,

parte dei quali rientrò a più riprese.

L’impatto con la nuova realtà francese si rivelò decisamente difficile perchè fu

necessario lavorare nuovamente i terreni abbandonati, livellare i campi, arginare e

drenare le acque, riattare le case fatiscenti. Giuliano Leonarduzzi, colono di Ruda,

descrive così i primi tempi a Preignan:

Si dovevano costruire le strade e i ponti, mancavano l’acqua e l’elettricità, mancavano i negozi...la terra, poi non era di buona qualità, da noi si definirebbe: fredda, cruda [...]. Per guadagnare qualche soldo, nell’attesa dei primi raccolti, le donne andarono a lavorare nella grandi aziende nei paraggi. Alcuni coloni, pentiti della scelta fatta, cercarono altri lavori in città35.

Il secondo conflitto mondiale segnò un punto di svolta perchè dopo tante

difficoltà, in regime di razionamento alimentare, i coloni riuscirono a trarre qualche

profitto dal mercato nero e a migliorare ulteriormente i propri appezzamenti. Sul

lungo periodo gli effetti dell’immigrazione, ad ogni modo, furono positivi per lo stato

francese dal momento che le zone interessate dai nuovi insediamenti furono

ripopolate, furono riconquistati gran parte dei terreni abbandonati e fu innalzata

significativamente la produzione agricola.

34 Tomat, L’emigrazione da Fagagna cit, p. 74. Per le partenze da Dignano e Pinzano, cfr. Libro storico Dignano, vol. 1, 1875-1941; 12 aprile 1926, p. 98. 35 Testimonianza citata in A. Miceu (a cura di), Tieris cence oms par oms cence tieris. De basse furlane al Sud-Ovest de France. Storis di emigrazion (1923-1957), Udine, Comune di Ruda 2005, pp.280-281.

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1927 – Dall’emigrazione stagionale all’integrazione

Il caso dell’emigrazione in Francia dimostra come i flussi migratori tra le due

guerre siano condizionati da forze interne - la catena dei richiami - ma anche

esterne - la crisi economica mondiale, le politiche restrizioniste, la lotta condotta

dai fascisti contro i «sovversivi». Se negli anni Venti l’emigrazione mantenne

schemi tipici del periodo prebellico, configurandosi come emigrazione di tipo

«stagionale», a partire dal 1927 i lavoratori diradarono i rientri a causa delle

limitazioni all’immigrazione volute dai governi italiano e francese e del timore di

perdere il posto di lavoro. Lo spopolamento della montagna friulana, che forniva

un nutrito contingente di emigranti, risultò quindi accentuato. La possibilità di

acquisizione della cittadinanza, l’avversione al regime e l’elevata qualità della

vita in Francia favorirono il radicamento degli operai oltralpe ma anche la

diffusione di nuovi costumi sociali e sessuali in Friuli.

8. La Francia come una nuova patria d’adozione.

Mano a mano che ci si addentra nel periodo interbellico la repubblica transalpina

rivelò ai friulani volti diversi, dapprima rappresentò una importante opportunità di

lavoro per uscire dalla precarietà, in seguito fu terra d’asilo e di libertà e infine, nel

corso degli anni Trenta, diventò il paese nel quale, non senza difficoltà, poter avviare

una nuova esistenza. Con il celebre «discorso dell’Ascensione» del 1927 Mussolini,

facendo proprie le misure antimmigratorie del governo francese alle prese con una

crisi congiunturale, iniziò a scoraggiare l’emigrazione definitiva e a limitare gli

espatri temporanei ai soli lavoratori che erano in possesso di un regolare contratto di

lavoro. La crisi mondiale del 1929 contribuì bruscamente a rallentare i flussi diretti

in Francia, tuttavia la grave crisi rurale e la forte disoccupazione (40-50 mila unità)

determinarono una notevole ripresa dell’emigrazione clandestina. Dopo una parziale

apertura, il regime limitò nuovamente la concessione dei passaporti per indirizzare i

disoccupati verso i lavori nelle bonifiche e soprattutto verso le colonie36. Gli ostacoli

36 A. Nobile, Politica migratoria e vicende dell’emigrazione durante il fascismo, in «Il Ponte», XXX, 1974, nn.11-12, pp.1328-1333; J.Grossutti, Gjermaneoz pal mont. I tolmezzini all’estero. Quantificazione ufficiale e comunità reale, in G. Ferigo-L. Zanier (a cura di) Tumieç, Udine, Società Filologica friulana, 1998, pp. 111-112; S. Biasoni, Il regime fascista in Friuli durante gli anni Trenta: disoccupazione, nuovi flussi migratori e assistenza, in «Storia contemporanea

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burocratici, le maggiori difficoltà nel rinnovo dei contratti e il timore di perdere il

posto di lavoro spinsero gli emigranti a rallentare il movimento stagionale che aveva

caratterizzato gli anni Venti. La migrazione da temporanea divenne quindi

definitiva, fase che spesso veniva sancita dal richiamo dei familiari, dal matrimonio

contratto in Francia e dall’avvio di processi di naturalizzazione. Paradossalmente,

anche tra le componenti meno politicizzate dell’emigrazione friulana i processi di

integrazione risultarono accelerati dai continui ostacoli burocratici e dall’aperta

ostilità dimostrata dalle autorità consolari italiane.

La società francese, sin dall’immediato dopoguerra, si rivelò ben più aperta ed

accogliente rispetto a quella incontrata nelle «germanie», dove le possibilità di

integrazione erano state piuttosto limitate. Ben presto la Francia divenne non solo la

patria «del lavoro», ma anche del «cuore», delle libertà politiche e delle possibilità di

emancipazione sociale, politica ed economica. L’accoglienza riservata agli esuli, la

possibilità di trovare occupazione remunerativa, le affinità linguistiche e la possibilità

di acquisire la cittadinanza furono fattori che facilitarono i processi di integrazione.

Non solo, la capitale e le grandi città offrivano standard di vita qualitativamente più

alti, modelli culturali e sociali più avanzati e ben diversi da quelli friulani; la Francia

apparve quindi come un modello di «modernità» e di «progresso», rivelando aspetti

di inedita apertura37. Gli emigranti furono spesso colpiti dalla «democraticità» e dalla

mancanza di classismo, come ricorda Teresa Boschin, partita nel 1937 da Saciletto

per raggiungere il fratello:

Nei primi tempi a Parigi, oltre a dover sostenere interminabili discussioni in fatto di politica, ebbi non poche difficoltà ad adeguarmi alle abitudini dei francesi, ma ammiravo il loro senso dell’uguaglianza: tutti erano semplicemente “Monsieur e Madame”, i titoli non esistevano, ed ognuno era rispettato per il suo lavoro38.

Una socializzazione più libera e meno formale, appartamenti con luce elettrica,

acqua corrente e il bagno, una alimentazione migliore, maggiori comodità e servizi -

in Friuli», XXX (2000), n. 31, pp. 80-85; G. Bertuzzi, La società friulana alla vigilia della seconda guerra mondiale. Note su alcuni problemi economici e sociali, in A. Ventura (a cura di), Sulla crisi del regime fascista 1938-1943,. La società italiana dal “consenso” alla Resistenza, Venezia, Marsilio, 1996; P. Purini, L’emigrazione non italiana dalla Venezia Giulia tra le due guerre, in F. Cecotti-D. Matiussi (a cura di), Una nuova terra cit., p. 87; 99. 37 Micelli, Geografie dell’emigrazione cit., p.39; 49. 38 Testimonianza citata in Miceu (a cura di), Tieris cence oms cit., p. 342.

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immagini ricorrenti nelle testimonianze - erano una vera e propria novità e segno

tangibile della possibilità di un’«altra vita». La domenica, libera dal lavoro, era un

momento per «esplorare» la nuova realtà francese, girare la città, assistere alla partita

di calcio, andare a ballare, trovarsi con i compaesani nelle baracche o nelle birrerie,

veri e propri punti di riferimento per le comunità degli immigrati. La richiesta di

naturalizzazione, l’abbandono della lingua italiana - spesso sin dalla sceonda

generazione - evidenziano un desiderio di assimilazione nel paese in cui si era deciso

di vivere. Nondimeno, la società francese mantenne sempre una forte ostilità al punto

che molti emigranti ricordano con dolore come fossero trattati «come stranieri» e

considerati con disprezzo. Lo spazio conquistato dei friulani nella società francese

appariva quindi come il frutto di un processo faticoso e graduale che vedeva

soprattutto nel lavoro un momento di riscatto e di riconoscimento sociale.

9. Il Friuli in Francia. La Francia in Friuli

In pochi anni, i riflessi dei mutamenti culturali e sociali veicolati dall’esperienza

migratoria «francese» penetrarono profondamente anche nelle comunità di partenza,

segnando un’ulteriore tappa del processo di modernizzazione della società friulana. In

questa direzione i libri storici parrocchiali, le relazioni delle visite pastorali redatte a

cavallo della grande crisi costituiscono una importante fonte per verificare l’impatto

dei nuovi flussi migratori sulla popolazione. L’esperienza di vita e di lavoro in

Francia fu accolta con preoccupazione soprattutto dai parroci della zona montana che

intravedevano negli emigranti un rafforzamento del processo di secolarizzazione e un

rinnovato vigore delle «immoralità» e del «sovversivismo» collegato con la militanza

antifascista in Francia, pericolosa fucina di laicismo e di «social-comunismo». Altresì

è necessario registrare che queste nuove tendenze, complice anche il «biennio rosso»,

si diffusero anche nelle zone che meno erano state interessate dai processi di

modernizzazione sociale nel periodo prebellico, in particolare nella zona collinare e

nel medio Friuli che erano più legate all’autorità religiosa39.

39 Mi limito a segnalare i casi della zona di Buja e San Daniele (Villalta, Comerzo, Muris, Susans, Farla, Vendoglio, Forgaria, Carpacco, Madonna di Buja, Artegna), di Codroipo (Lonca, Pozzo, Zompicchia, Rivarotta, Qualso) e della

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Nei primi anni Trenta era già dunque possibile trarre un primo bilancio

dell’esperienza francese: i parroci lamentavano la ripresa dell’«indifferentismo»,

ovvero l’allontanamento dalla pratica religiosa e la «corruzione» dei costumi, che si

articolava nella condanna della limitazione delle nascite e nella amara constatazione

dell’«importazione» di nuove forme di socializzazione di cui erano massima

espressione i «divertimenti», la «ballomania», l’attività sportiva, tutti segnali di una

ricerca di una socialità più libera e meno soggetta a controlli. Tra la denuncia

stereotipata e l’analisi più approfondita, l’emigrazione in Francia veniva indicata

come «causa prima» della straordinaria diffusione del «malthusianesimo» che trovava

conferma nella decisa flessione delle nascite, a dispetto delle politiche pronatalistiche

sostenute dal regime fascista e degli indirizzi della cultura cattolica che individuava

nel matrimonio prolifico uno dei capisaldi dell’identità cristiana40. Emigrazione

all’estero ed interna, crisi economica e diffusione di nuovi costumi sessuali

«francesi» accentuarono il processo di spopolamento della zona montana e sembrano

prefigurare una nuova struttura familiare e demografica41.

La Francia diventò quindi una sorta di pardigma negativo per la valutazione

dello stato dei costumi religiosi e morali degli emigranti. Nella zona montana questi

ultimi minavano l’autorità del parroco e denigravano il paese, messo impietosamente

a paragone con la realtà francese, più moderna ed avanzata. In questo quadro la

limitazione delle nascite diventava parte di un discorso «pubblico» alternativo: il

parroco di San Gervasio annotava che «si è giunti a tal sfacciataggine di deridere i

genitori che hanno numerosa la prole»42. D’altro canto fu proprio la meta francese a

favorire nuovi costumi sessuali, non caso i parroci mettevano in evidenza che tra gli

emigranti si riscontrava «mancanza di fedeltà coniugale», «rilassatezza etica» e

«spregiudicatezza», termini che indicavano relazioni sessuali più libere. Non meno

infrequenti (ma tutti da verificare) erano gli accenni all’abbandono di mogli e figlie,

pianura friulana a sud-ovest di Udine (Vergnacco, Rivignano, Teor, Basiliano, Bressa, Colloredo di Prato, Nespoledo, Varmo, Pradamano, Ternzano, Sammardenchia, Flambro, Morsano, Mortegliano). Acau, Visite pastorali 1929-1933. 40 Le annotazioni relative al «maltusianesimo» sono sono distribuite in prevalenza nelle zone di montagna, ma anche nella zona collinare e nella pianura, a testimonianza di un mutamento diffuso. A Segnacco: «limitazione delle nascite, conosciuta soprattutto in Francia»; a Cassacco il vizio contro la «santità del matrimonio» si verifica «massime dopo che si va in Francia». A Verzegnis: «la Francia ha insegnato il controllo delle nascite». Acau, Visite Pastorali 1929-1933. 41 M. Gortani-G. Pittoni, Lo spopolamento montano nella montagna friulana, Roma, Inea-Cnr, 1938.

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agli emigranti che non ritornavano «da molti anni» e non davano «più notizie di sè»;

da questo punto di vista l’emigrazione oltralpe, analogamente a quella transoceanica,

fu per molti un’occasione per tagliare definitivamente i legami con la società di

partenza: l’insoddisfazione di carattere esistenziale e sociale, unita alla precarietà

economica e alla repressione fascista, si traducevano nella costruzione di una nuova

vita all’insegna di principi e di codici morali diversi43.

Così come era avvenuto alla svolta del secolo gli esiti dell’emigrazione si

facevano sentire soprattutto sulla componente più «giovane» e più ricettiva, che

rientrava in Friuli «areligiosa», «viziosa», «corrotta», «rilassata» oppure «fredda e

indifferente»44. Il timore del laicismo, identificato come una diretta conseguenza del

diffondersi dell’ideologia comunista tra gli operai in Francia, dimostra anche la

sostanziale convergenza tra Chiesa e regime: natalità, religiosità, ruralismo, sobrietà,

antibolscevismo. Dopo una visita in Francia nel luglio del 1931, il parroco di Rivalpo

annotava allarmato:

Il popolo francese è veramente corrotto ed un glaciale e spaventoso laicismo domina ovunque [...]. Il flagello del neo malthusianesimo è generalmente praticato fino all’eccesso: i bambini infatti sono una vera rarità. E’fortemente accentuato l’urbanesimo: i contadini in massa hanno abbandonato le campagne [...] e si sono stabiliti nelle città dove guadagnano i mezzi senza troppa fatica e trovano i modi ed i luoghi quasi ad ogni passo per godere i vizi e divertimenti. Le feste non sono affatto santificate [...], questo gran male si vede specialmente in mezzo al basso popolo, all’elemento operaio col quale i nostri emigranti lavorano e vivono e ne restano poco o troppo infetti [...]. Bisognerebbe poter far loro una visita ogni anno e allora la corruzione ed il laicismo francese non produrrebbero tanta ferita in questi poveri uomini costretti a portarsi ed a vivere in mezzo a tanto male per mantenere le famiglie45. La sensazione di impotenza dei parroci era acuita anche dal fatto che la

permanenza all’estero si allungò e i ricongiungimenti familiari coinvolsero ben presto

anche l’elemento femminile. Tuttavia l’azione pastorale, libera dalla concorrenza

socialista ma sottoposta ai controlli del regime, si rinnovò, esplicandosi in patria e

all’estero mediante la spedizione agli emigranti dei bollettini parrocchiali e della

42 Acau, Visite pastorali, vol. 848, San Gervasio 1932. 43 Per un esempio, Ifsml, b. 5, Libro parrocchiale di Venzone, sac. F. Lucardi, 1938, pp. 161-163. 44 M. Ermacora, Parroci ed emigarnti nelle visite pastoriali della Diocesi di Udine (1898-1914), in «Metodi e Ricerche», n. s., XVIII, 1999, n. 1, p. 58. 45 Libro storico parrocchiale di Rivalpo, sub 13 luglio 1931.

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stampa cattolica, le corrispondenze epistolari, l’organizzazione di celebrazioni e

feste, oppure attraverso apposite missioni e pellegrinaggi in Francia.

10. Gli anni duri. Tra espulsione, integrazione e lotta politica

Negli anni Trenta la Francia rivelò il suo volto più duro, non solo per le misure

antimmigratorie ma anche per l’intensificarsi del violento scontro tra fascisti e

antifascisti. In questo periodo sembrarono consolidarsi l’avversione per il regime e i

processi di integrazione; la storiografia ha messo in luce come l’antifascismo sia stato

un fattore importante di integrazione della manodopera immigrata nella società

francese, un processo che tuttavia non fu lineare a causa delle diverse componenti

interne agli antifascisti e del loro diverso modo di interpretare l’esilio e l’attività

politica. Non senza contrasti, infatti, il movimento operaio francese spinse i militanti

immigrati a partecipare alle lotte sindacali del paese ospitante, una prassi favorita

dalle direttive dell’internazionale comunista che dal 1934 sostenne la formazione dei

fronti popolari in funzione antifascista. In questa direzione il PCF e la CGT e la

componente politicizzata dell’emigrazione ebbero un ruolo fondamentale nella

maturazione sindacale e politica di vecchie e giovani leve operaie determinando

fenomeni - come in Lorena - di diffusa sindacalizzazione. L’appoggio al Fronte

Popolare, gli scioperi che portarono alla conquista delle ferie pagate, delle 40 ore

settimanali di lavoro, del contratto collettivo, del sabato festivo, furono momenti

importanti per la presa di coscienza di nuove possibilità nell’ambito della politica e

dell’economia, e si tradussero in precise scelte di campo46. Nonostante le grandi

difficoltà e i severi controlli, l’esperienza francese si rivelò dunque un momento

irripetibile di libertà, solidarietà e di partecipazione, che sfociò nella consistente

partecipazione friulana e della Venezia Giulia nelle Brigate Internazionali durante la

guerra civile spagnola del 1936-1939; i comunisti di Tavagnacco a Montrouge e

quelli di Castelnuovo del Friuli a Toulon, solo per fare alcuni esempi, fornirono molti

46 A. Bechelloni, Tra esilio politico ed emigrazione economica: gli Italiani in Francia da una guerra all’altra sullo sfondo di un mezzo secolo di presenza italiana nel movimento operaio francese, in J.Grossutti-F.Micelli (a cura di), L’altra Tavagnacco. L’emigrazione friulana in Francia tra le due guerre, Pasian di Prato, Comune di Tavagnacco, 2003, pp. 11-12.

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volontari per combattere il fascismo in Spagna47. La militanza politica, tuttavia, si

aprì anche a nuove forme di aggregazione, come dimostra l’esperienza del giornale

«l’Alba Friulana» e le attività ricreative ed assitenziali - attente all’identità regionale

della comunità degli immigrati - coordinate dal dirigente socialista Ernesto Piemonte.

L’esistenza delle comunità antifasciste era minata da spie e delatori e dai severi

controlli delle autorità francesi che non esitavano ad espellere i lavoratori stranieri

che avviavano attività «sovversive». Il controllo fascista sui militanti comunisti,

socialisti ed anarchici della Carnia o del pordenonese, fu costante e spietato,

riflettendosi anche sui familiari, spesso ricattati e malmenati48. «Sovversivi» e

«rinnegati» dovettero confrontarsi con il consolidamento del regime e con la decisa

«fascistizzazione» degli emigranti operata attraverso i «fasci italiani all’estero», le

«case degli italiani» e l’utilizzo dei consolati come strumento di propaganda e di

controllo49. Le attività del regime - corsi di lingua italiana, soggiorni in patria, viaggi

gratuiti per le puerpere, attività ricreative e sportive - avevano lo scopo di esaltare

l’identità nazionale, allontanare gli emigranti dal desiderio di naturalizzazione e

favorire i rimpatri50. In ossequio a questi indirizzi, nel gennaio del 1939 venne varata

la cosiddetta «legge Ciano» che concedeva agli emigranti da tempo stabilitisi

all’estero la possibilità di rientrare in Italia; i rimpatri in Friuli furono tutto sommato

limitati, un’ulteriore prova dell’integrazione nella repubblica transalpina ma anche

dell’avversione nei confronti del regime.

Nella seconda metà degli anni Trenta i flussi migratori verso la Francia si

ridussero ulteriormente: il regime cercò di indirizzare la manodopera disoccupata

dapprima verso le colonie e poi verso la Germania di Hitler che necessitava di forza

lavoro per accelerare il riarmo; la crescita economica tedesca tra il 1939 e il 1940

47 M. Puppini, In Spagna, per la libertà, Udine, Ifsml, 1986; si veda anche i saggi di M. Puppini, Fuoriusciti in Francia tra le due guerre, e K. Salvador, Dati sull’emigrazione a Castelnuovo del Friuli dal 1918-1950, in La dispora friulana. Materiali per una ricerca, Sequals, Tielle, 2001, pp. 9-18 e p. 85. 48 C. Venza, La val Pesarina alla fine degli anni Trenta: fascismo e “consenso”, in «Almanacco culturale della Carnia», VI, 1991, p. 122; O. Fabian, Affinchè resti memoria. Autobiografia di un proletario carnico 1899-1974, Basaldella, Kappavu 1999, pp.47-55. Sui dirigenti del movimento operaio nel pordenonese nel corso del periodo interbellico è in corso una importante ricerca di G. L. Bettoli che l’autore mi ha permesso gentilmente di consultare. 49 E. Vial, I Fasci in Francia, in E. Franzina-M.Sanfilippo (a cura di), Il fascismo e gli emigrati, Roma-Bari, Laterza, 2003, p. 28; 33-34. Si veda per alcuni esempi, Archivio Comunale di Gemona, b. 596, fasc. Assistenza alle madri italiane rimpatriate 1937-1939.

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spinse un gran numero di operai friulani a trasferirisi dalla Francia alla Germania

nazista51.

Lo scoppio del conflitto mondiale determinò rientri massicci dalla Francia52 e

la posizione degli immigrati rimasti oltralpe si fece particolarmente difficile dopo

l’attacco fascista del 1940 che determinò l’internamento preventivo di migliaia di

italiani, considerati «stranieri nemici»: la guerra dimostrava come l’integrazione

fosse fragile ed incerta. Nondimeno, la partecipazione degli immigrati alla resistenza

francese fu rilevante, condotta all’insegna dell’ internazionalismo operaio e della lotta

contro il nazi-fascismo; i fuoriusciti che avevano partecipato alla guerra di Spagna

diventarono figure di spicco nella resistenza francese e del movimento partigiano in

Italia; una nuova generazione di militanti, cresciuta in Francia, portava a termine lo

scontro con il fascismo che era iniziato venti anni prima.

1945-1968. La ripresa dell’emigrazione

L’emigrazione verso la Francia riprese in maniera intensa nei difficili anni della

«ricostruzione» postbellica. La prima fase dell’emigrazione, sostenuta

prevalentemente dalla manodopera della zona montana, assunse spesso un

carattere definitivo; alla fine degli anni Cinquanta la meta francese fu

sopravanzata dalla meglio remunerata emigrazione stagionale in Svizzera e in

Germania. Le diverse richieste del mercato del lavoro francese, caratterizzato

da un forte sviluppo industriale, contribuirono a ridurre i flussi di muratori,

minatori e fornaciai, progressivamente sostituiti da operai di fabbrica,

carpentieri ed artigiani dotati di una specifica preparazione professionale;

l’emigrazione assunse un ritmo pluriennale contraddistinto da rientri regolari.

50 Si veda per alcuni esempi, Archivio comunale di Gemona, b. 596, fasc. Assitenza alle madri italiane rimpatriate 1937-1939. 51 C. Bermani, Al Lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana, 1937-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 23-35. M. Fincardi (a cura di), Emigranti a passo romano. Operai dell’Alto Veneto e Friuli nella Germania hitleriana, Verona, Cierre, 2002. 52 Cfr. Archivio comunale di Artegna, b. 1350, fasc. ECA rimpatriati 1939-1945.

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11. In Francia dopo la seconda guerra mondiale

L’intensa fase migratoria che ha interessato la Francia nel secondo dopoguerra

attende ancora una compiuta indagine storiografica. Alla fine della guerra il Friuli era

in ginocchio: difficoltà alimentari, disoccupazione, lenta ricostruzione e forti tensioni

sociali condizionarono il primo periodo della nuova repubblica. Cercare nuove

opportunità di vita all’estero fu per molti la soluzione più immediata perchè il lavoro

agricolo offriva limitate e precarie possibilità di impiego, il tenore di vita era

particolarmente basso. Il movimento migratorio riprese quindi con rinnovato vigore

tra il 1946 e la fine degli anni Cinquanta, alimentato dalla manodopera proveniente

dall’area montana carnica e pordenonese, dalla fascia pedemontana a cavallo del

Tagliamento, dalla zona collinare: di fatto i paesi si svuotarono delle loro forze più

attive. Nei primi anni del dopoguerra l’emigrazione clandestina fu un fenomeno

rilevante.

Fino al 1952 la Francia prevalse tra le mete europee, seguita dal Belgio e dal

Lussemburgo; gran parte degli operai che emigravano infatti sfruttarono i punti di

appoggio offerti dai compaesani che si erano stabiliti in Francia prima del conflitto.

In qualche modo, i lavoratori ripercorrevano percorsi già battuti in precedenza, basti

pensare al caso dei muratori di Bordano ed Interneppo che tra il 1947 e il 1967

continuarono a frequentare i cantieri della capitale e della sua periferia; si osservano

analoghi fenomeni nella zona carnica o nel Friuli collinare dove le nuove partenze

riproducevano destinazioni e professioni del periodo interbellico: a Majano, Buja,

Lauzzana, Flaibano, Colloredo, Fagagna, Pozzuolo solo per citarne alcuni, erano i

fornaciai a ripresentarsi nella periferia di Parigi oppure nei dipartimenti del Nord53.

Come riferiscono numerose testimonianze, gli italiani erano «mal visti» a causa

dell’aggressione del 1940: agli insulti dei compagni di lavoro francesi - «fascisti,

venduti, traditori» - si univano le discriminazioni salariali e di trattamento54. In questa

fase i friulani non poterono far altro che offrire le proprie braccia nei lavori più

53 G. Di Caporiacco, Storia e statistica dell’emigrazione dal Friuli e dalla Carnia. Volume secondo. Da dopo la grande guerra al 1966, Udine, Edizioni del Friuli Nuovo, 1969, p. 88. E. Saraceno, Emigrazione e rientri, Il Friuli-Venezia Giulia nel secondo dopoguerra, Udine, Il Campo, 1981, p. 11; 37-39. J. Grossutti (a cura di), Chei di Puçùi pal mont. I pozzuolesi nel mondo, Tavagnacco, Arti Grafiche friulane, Comune di Pozzuolo del Friuli, 2004, p. 25.

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faticosi, meno qualificati e tutelati quali l’edilizia, il lavoro nelle miniere e nelle

fornaci ma anche la raccolta delle bietole e delle cozze in Normandia, il bracciantato

agricolo. All’espatrio clandestino senza contratto corrispondeva l’ingresso nel

mercato del lavoro irregolare, ampiamente sfruttato dal padronato francese negli anni

della ricostruzione postbellica.

Le condizioni di lavoro degli edili e dei fornaciai furono particolarmente dure:

transito nei campi di smistamento, diffusa precarietà, vita in comune nelle baracche

in prossimità dei luoghi di lavoro; i risparmi furono spesso accumulati mediante

occupazioni integrative prestate durante i fine settimana o in occasione dei lavori

agricoli. Nelle fornaci la dimensione del lavoro a cottimo, dura e faticosa, sembrava

immutata, come riferiva Gildo, operaio friulano emigrato clandestinamente a Precy-

sur-Oise nel 1946:

Si alsiamo alle quattro della mattina e sotto fino a mezzogiorno, dopo ci fermiamo una ora per mangiare qualche cosa e dopo sotto fino che viene buio, sono anche quattordici ore al giorno [...]. Adesso il padrone ci ha cresciuto il contratto, ci dà 130 franchi al mille, ma ancora non è tanto se pensi che portare fuori mille mattoni con la cariola è una fatica grossa, a ogni modo è meglio di prima e noi cerchiamo tutti di risparmiare tutto quello che si può per tornare presto a casa, ci facciamo tutto da soli, come mangiare pulire la roba e aggiustare i vestiti e tagliarsi i capelli e al cine non ci andiamo mai, io ci sono andato solo una volta e dopo mi pareva di essere stato stupido a buttare via tutti quei soldi55.

Non furono pochi i lavoratori che, una volta giunti nel paese transalpino decisero

di fermarvisi, richiamando la propria famiglia oppure formandone una nuova con

donne francesi o, più spesso, con figlie di emigranti friulani o italiani. L’espatrio in

questo periodo si configurò, soprattutto nel caso francese, come una scelta di vita e di

lavoro di carattere definitivo56. Così come avvenne nella zona montana (Tolmezzo,

Comeglians, Resia), anche nelle valli del Natisone e del tarcentino (Savogna,

Lusevera) e nella destra Tagliamento la migrazione verso la Francia, unitamente a

quelle verso l’interno, contribuì significativamente ad accentuare lo spopolamento di

54 F. Fabbroni, Friuli 1945-1948. Linee di interpretazione, in «Storia contemporanea in Friuli», VI, 1976, n.7, pp. 40-41. Si veda anche le testimonianze all’indirizzo: http:www.sangiorgioinsieme.it/valis3.html#anchor20340. 55 Lettera citata in A. Bongiorno-A. Barbina, Il pane degli altri. Lettere di emigranti, Udine, Edizioni la situazione, 1970, p. 123.

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queste zone perchè alle buone possibilità di integrazione oltralpe faceva da

contrappunto il perdurare della mancanza di uno sviluppo economico nelle aree di

partenza57. Nei due periodi di massima emigrazione, tra il 1946 e il 1949 e più tardi

tra il 1956 e il 1962, Mulhouse, Metz, Nancy, i dipartimenti di Tarn e Garonne, Alta

Savoia, Ardenne, Jura, Mosella, Borgogna, Île de France, Parigi divennero veri e

propri centri di attrazione per la manodopera friulana58. I mestieri della «vecchia

emigrazione» - lavoratore agricolo, muratore, fornaciaio, oste, commerciante,

boscaiolo - convivevano con quelli caratteristici di un paese europeo in rapida

crescita economica che richiedeva elettricisti, tornitori, operai di fabbrica, artigiani

specializzati, falegnami. La pratica accumulata nel corso del periodo interbellico fu

preziosa per avviare importanti esperienze professionali, come dimostra il caso di

Angelo Pittau di Maniago, divenuto nel secondo dopoguerra uno dei maggiori

imprenditori del settore edile59.

Il radicamento nella società francese permise una lenta mobilità sociale;

l’edilizia rimase il principale settore professionale degli immigrati, tuttavia

l’accresciuta conoscenza della società di arrivo permise di trovare occupazione anche

nel piccolo commercio oppure tra i lavori più umili del settore terziario. Altresì lo

sviluppo dell’economia basato sulla grande fabbrica consentì a molti lavoratori -

uomini e donne - di uscire dai mestieri «sporchi», di fare esperienza all’interno del

movimento operaio e sindacale, di integrarsi e di partecipare attivamente alla vita

sociale del paese di accoglienza; il matrimonio con donne francesi fu spesso decisivo

per avviare piccole attività imprenditoriali nel campo dell’edilizia, del commercio e

dell’artigianato. Una significativa trasformazione interessò anche la componente

56 A. Faelli A., Chel porco di destin... Da Arba a La-Frette-sur Seine, Pasian di Prato, Museo provinciale della vita contadina “Diogene Penzi”, Comune di Cavasso nuovo, 2001; L. Zilli (a cura di), “…A lavorâ in Francia”. I lestanesi e l’emigrazione friulana, Lestans, Somsi, 2005. 57 Per un quadro generale, cfr. Montagna problema nazionale. Quarant’anni di storia: dalla liberazione ad oggi, Udine, Ifsml, 1987, in part. 240-248. J. Grossutti, L’emigrazione in Canale di Gorto nel secondo dopoguerra, in M. Michelutti (a cura di), In guart. Anime e contrade della Pieve di Gorto, udine, SFF, Arti Grafiche, 1994, pp. 252-254. 58 G. Meneghel-F. Battigelli, Contributi geografici allo studio dei fenomeni migratori in Italia. Analisi di due comuni campione delle Prealpi Giulie: Lusevera e Savogna, Pisa, Pacini Editore, 1977, p.52; 146-147; J. Grossutti, Magnanès, buereòz e biliròz all’estero. L’emigrazione nel territorio comunale di magnano di Riviera, in O. Burelli (a cura di), Magnano in riviera. Un comune e tre anime, Udine, Arti grafiche, 2003, p. 217; N. Boz, Parâ via. L’emigrazione da Barcis, Sequals, Comune di Barcis, 2004, p. 51; F. Micelli-J. Grossutti (a cura di), Comeglianots pal mont. I Comeglianotti nel mondo, Udine, Designgraf, Comune di Comeglians, 2002.

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femminile dell’emigrazione: a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta un numero

crescente di donne abbandonò il lavoro domestico e di cura (sarta, stiratrice, aiuto

cuoca, domestica) ed entrò nelle fabbriche, seppure con mansioni generiche,

subordinate e spesso sottopagate. Per molte donne l’uscita dal lavoro a domicilio

significò entrare in contatto in maniera diversa con la società francese, emanciparsi

da una condizione di isolamento e di incerta padronanza linguistica60.

La reciproca assistenza all’interno della rete degli immigrati friulani ed italiani

fu fondamentale per il progressivo inserimento nel paese transalpino, l’insediamento

abitativo, la mediazione e il collocamento in settori occupazionali migliori. Nel

secondo dopoguerra si affacciava alla ribalta, nelle zone urbane quanto in quelle

rurali, una nuova generazione di friulani che era cresciuta in Francia tra le due guerre,

aveva frequentato le scuole e si sentiva «francese» a tutti gli effetti; questo processo

accrebbe la fiducia del paese e contribuì anche ad un positivo riconoscimento

dell’emigrante friulano ed italiano. Ancora negli anni Cinquanta, infatti, chi era

straniero veniva disprezzato e «odiato», era un «macheronì», come ricorda Bianca:

«in Francia pur essendo casa tua era come se tu fossi in casa di un altro...ti dicevano

magari: caron d’Italie, tu vien manger notre pain e facevi finta di non aver sentito o

cambiavi discorso, ma a che prezzo...»61. Le differenze venivano «fatte pesare», per

lungo tempo infatti il trattamento riservato agli immigrati era discriminante sui

contributi assicurativi, limitati ai soli periodi lavorativi, oppure nei livelli degli

assegni familiari che erano inferiori se venivano inviati all’estero. Lentamente si

giunse ad una parificazione dei diritti e dei doveri sui luoghi di lavoro e nel

contempo, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta veniva portata a

compimento una definitiva integrazione delle componenti «storiche»

dell’emigrazione, ipocritamente riconosciute dall’opinione pubblica francese come

emigrazione «buona» e spesso utilizzate in contrapposizione con la più recente

emigrazione nordafricana62.

59 Si veda Grassani, Emigrazione, self-employement cit., pp. 248-255. 60“Feminis pal mont”. Storie di donne emigrate, Ires-Alef, s.l. 1990, p. 57. 61 “Feminis pal mont” cit., p. 49. 62 E. Vial, In Francia, in P.Bevilacqua-A.De Clementi-E.Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, pp. 134-138.

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1968-2006.

Verso la fine degli anni Sessanta si concludeva l’esperienza dell’emigrazione in

Francia. I rientri superavano le partenze e i flussi migratori si esaurirono in

concomitanza con la formazione di un mercato del lavoro regionale. Il Friuli e il

paese transalpino si trovarono legati dalla pendolarità estiva dei «francesi» e dai

rientri definitivi degli emigranti che avevano lasciato la regione dopo il secondo

conflitto mondiale. Dopo il terremoto del 1976, periodo di intenso interscambio,

si apre una fase nuova quanto contraddittoria; in tempi recenti la dimensione

europea, i processi di globalizzazione e i nuovi flussi migratori internazionali

sollecitano la riscoperta di sopite identità nazionali e regionali e una nuova

riflessione sulla storia dell’emigrazione.

12. L’ultima fase: radicamento, rientri e nuove identità

In alcune zone del Friuli come quella montana, la meta francese mantenne una

discreta capacità di attrazione sino ai primi anni Settanta. In realtà, già alla svolta del

decennio precedente, l’emigrazione verso questo paese aveva perso di slancio,

progressivamente sostituita dal lavoro stagionale in Svizzera e in Germania. In

quest’ultima fase si assite ad un duplice fenomeno: da una parte il definitivo

radicamento degli emigranti che avevano lasciato il Friuli nell’immediato secondo

dopoguerra e dall’altra parte il fenomeno della temporaneità dell’emigrazione,

scandita da rientri regolari e da improvvisi picchi migratori stagionali per far fronte

alle esigenze dell’economia francese in crescita63. Nel corso degli anni Sessanta,

complici le politiche statali e i caratteri dello sviluppo economico europeo,

l’emigrazione si rivelò un «progetto a tempo e a scopo determinati», finalizzato

all’accumulo dei risparmi e al rientro in Friuli64. È proprio l’aspirazione ad un nuovo

alloggio, dotato di comodità moderne ad essere la motivazione principale dell’invio

delle rimesse e, come scriveva un emigrante, di una «vita da frate per risparmiare il

63 Micelli, Muratori friulani in Francia cit., pp. 13-14. 64 Saraceno, Emigrazione e rientri cit., p. 11.

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franco»65. La centralità della casa rimarcava la temporaneità del progetto migratorio e

la mutata importanza del ritorno; Gildo, il fornaciaio precedentemente citato, scriveva

alle sorelle:

Voglio vederla [la casa] come viene su, sai che non mi par vero ancora che sto per finirla dopo tutti gli anni che la ho sognata, non vediamo l’ora che è finita così si può tornare in Italia [...] ma ci occorrono ancora due anni perchè vogliamo fare anche il bagno e i termosifoni, sono stato così sporco e al freddo tutta la vita che adesso voglio avere una casa da signore che di quelle che dinverno si sta bene anche se fuori piove e nevica66.

Nella seconda metà degli anni Sessanta il paese transalpino fu attraversato da

forti tensioni sociali interne e da processi di ristrutturazione industriale che

determinarono disoccupazione, aumento del costo della vita e riduzione dei salari;

questa crisi - avvertita soprattutto nei dipartimenti del Nord sede delle miniere e degli

stabilimenti metallurgici - si accentuò nel corso del decennio successivo, frenando

sensibilmente il movimento migratorio. Lo stesso mercato del lavoro in contrazione

richiedeva competenze professionali diverse, caratterizzate da una specializzazione

professionale più elevata, anche quando si trattava del tradizionale settore

dell’edilizia.

Tra integrazione e temporaneità gli emigranti sembrano soffrire di un

progressivo isolamento ed emarginazione che la politica non riesce a colmare. Anche

all’estero giungevano gli echi dello scontro DC-PCI che segnò il secondo

dopoguerra; da questo punto di vista la partecipazione al movimento sindacale

francese fece maturare l’esigenza di una maggiore attenzione della politica regionale

e nazionale nei confronti del problema dell’emigrazione:

Il sogno di tutti gli emigranti - scriveva Egidio Birri, un operaio emigrato in Francia - è di potere tornare in Italia e di potere vivere lì senza fare la fame come siamo adesso se si ritorna. [...] Quà siamo un gruppo di italiani e i più sono comunisti e ci sfotiamo sempre però si resta amici, loro dicono a me quando Saragat mi dà la minestra e io dico a loro quando Krusev li dà da mangiare col grano americano. E dopo che ci siamo sbrocati a sfoterci restiamo tuti due emigrati67.

L’emigrazione, d’altro canto - come dimostra la lucida denuncia poetica di cui si

fa portavoce Leonardo Zannier - sembra essere una necessità ancora più «dura» da

accettare, proprio nel momento in cui anche la regione friulana si sta avviando verso

65 Lettera citata in Bongiormo-Barbina, Il pane degli altri cit., p. 65. 66 Lettera citata in Bongiormo-Barbina, Il pane degli altri cit., p. 127.

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lo sviluppo industriale; proprio a partire dalla fine degli anni Sessanta il movimento

di rientro dei lavoratori si faceva intenso e la spinta migratoria si esauriva in

concomitanza con la creazione di un vero e proprio mercato del lavoro regionale

basato dapprima sui grandi poli industriali e poi sulla piccola e media azienda

decentrata, che si sviluppò proprio grazie alle competenze professionali ed

imprenditoriali maturate all’estero68. Il sisma del 1976 non rallentò i rientri e,

viceversa, favorì il collocamento degli edili: questo drammatico momento suscitò

nella società friulana «terremotata» il timore di una nuova emigrazione forzata69. La

ricostruzione post-terremoto fu seguita dagli emigranti con estrema attenzione,

curando il ripristino delle proprie abitazioni nei paesi di origine attraverso

l’intervento pubblico; alla fine degli anni Settanta risiedevano in Francia circa 55

mila emigrati friulani (50% degli emigrati in Europa, il 20% sul totale degli emigrati),

in condizioni difficili a causa dei processi di ristrutturazione industriale tanto che,

proprio dopo il sisma, molti lavoratori maturarono la decisione di rientrare

definitivamente70.

Le conferenze regionali sull’emigrazione tenutesi in questo periodo tracciavano

ormai un bilancio conclusivo del ciclo migratorio friulano, in Francia come in altri

paesi; d’altra parte, la stessa esperienza storica dell’emigrazione italiana volgeva

ormai al termine e la penisola era destinata a diventare meta della prima

immigrazione nordafricana. Si verificava quindi una biforcazione dei percorsi a

cavallo delle Alpi: al periodico rientro estivo dei «francesi» si contrapponeva la scelta

di chi, dopo decenni all’estero, decideva di trascorrere in patria il periodo della

quiescenza, un fenomeno che determinò forme di isolamento sociale soprattutto in

chi rientrava dalle grandi città e trovava un ambiente poco attento alle esigenze delle

donne e degli anziani, privo di servizi, burocratizzato e familista.

Secondo i dati dell’anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) del giugno

2005 la presenza friulana in Francia ammonta a circa 22 mila persone che

67 Lettera citata in Bongiorno-Barbina, Il pane degli altri cit., p. 89. 68 Saraceno, Emigrazione e rientri cit., pp. 89-90. 69 Si veda M. Ermacora, Documents pa storie dai furlans tal taramot dal 1976. Guide al archivi inte Biblioteche comunâl “Don Valentino baldissera” di Glemone, Gemona, Comune di Gemona, 2000.

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rappresentano un terzo circa dell’intera emigrazione continentale71. La nuova

dimensione europea, la mobilità e i nuovi mezzi di comunicazione offrono la

possibilità a «francesi» e friulani di diverse generazioni di riannodare i fili tra le

comunità di partenza e di arrivo e di ripensare alla propria storia. La riscoperta in

chiave problematica del fenomeno migratorio costituisce un possibile ponte per

costruire nuovi legami e riuscire a comprendere le aspirazioni, le paure e i progetti

dei nuovi migranti che, partendo dalle aree più povere e degradate del globo, cercano

in Europa un lavoro e una nuova esistenza.

70 Regione Autonoma Friuli-Venezia Giulia, Atti della seconda conferenza regionale dell’emigrazione, Udine 28-29-30 giugno 1979, Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia, Trieste, Litografia Ricci, s.d., pp. 171-172. 71 Rimando a www.ammer-fvg.org/