CAPITOLO 3 - a cura di Giuseppe Vettori · ... il contratto, il fatto oggetto del ... accordo delle...

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1 CAPITOLO 3 GLI ELEMENTI E I REQUISITI FRA DISCIPLINA GENERALE E NORME DI SETTORE Sommario: 1. Accordo – 1.1. I procedimenti di conclusione del contratto. – 1.2. L’inizio di esecuzione (art. 1327 c.c.). – 1.3. I contratti reali. – 1.4. Scambio proposta accettazione ( artt. 1326- 1328 c.c.). – 1.5. I contratti con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 c.c.). – 1.6. I patti preparatori. Proposta ferma e opzione – 1.7. Il contratto preliminare. Rinvio – 1.8. La prelazione volontaria. – 1.9. La puntuazione e la lettera di intenti. – 2. Causa 3. Oggetto 4. Forma 5. Elementi accessori 6. Interpretazione e qualificazione 1. Accordo 1.1. I procedimenti di conclusione del contratto. L’art. 1372 c.c. sottolinea una caratteristica essenziale del contratto, la sua vincolatività. Una volta concluso il contratto, il fatto oggetto del medesimo contratto diviene vincolante per le parti contraenti. La storia di ogni sistema giuridico mostra con quali difficoltà si è arrivati all’idea che da una promessa possa derivare una obbligazione in senso giuridico. L’art. 1321 c.c. definisce il contratto come «l’accordo di due o più parti per costituire, modificare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» e l’art. 1325 c.c. e precisa quali sono i requisiti essenziali : l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità. Per esaminare il primo requisito occorre distinguere la categoria del procedimento da quello della fattispecie e utilizzare più fonti di valutazione. a) “Ciascun atto che si inserisce nella fase formativa ha un proprio effetto: rappresentando una tappa dell’iter, è destinato ad instaurare una situazione giuridica ben definita, che costituisce presupposto indefettibile del successivo atto, nel senso che quest’ultimo assume significato e valore giuridico in presenza della situazione nella quale si innesta e che , sua volta, è destinato ad evolvere. Si determina in tal modo una sequenza di atti e situazioni giuridiche intrinsecamente correlati, in che consiste appunto il procedimento di formazione del contratto 1 In altra prospettiva si muove l’analisi della fattispecie che è una dimensione statica ( factis species immagine del fatto ) per esaminare i problemi di validità d efficacia e cioè la regole unitarie che disciplinano l’assetto sostanziale di interessi. 1 G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, p.56.

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CAPITOLO 3

GLI ELEMENTI E I REQUISITI FRA DISCIPLINA GENERALE E NORME DI SETTORE Sommario:

1. Accordo – 1.1. I procedimenti di conclusione del contratto. – 1.2. L’inizio di esecuzione (art. 1327 c.c.). – 1.3. I contratti reali. – 1.4. Scambio proposta accettazione ( artt. 1326-1328 c.c.). – 1.5. I contratti con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 c.c.). – 1.6. I patti preparatori. Proposta ferma e opzione – 1.7. Il contratto preliminare. Rinvio – 1.8. La prelazione volontaria. – 1.9. La puntuazione e la lettera di intenti. – 2. Causa 3. Oggetto 4. Forma 5. Elementi accessori 6. Interpretazione e qualificazione

1. Accordo

1.1. I procedimenti di conclusione del contratto.

L’art. 1372 c.c. sottolinea una caratteristica essenziale del contratto, la sua vincolatività. Una volta concluso il contratto, il fatto oggetto del medesimo contratto diviene vincolante per le parti contraenti.

La storia di ogni sistema giuridico mostra con quali difficoltà si è arrivati all’idea che da una promessa possa derivare una obbligazione in senso giuridico. L’art. 1321 c.c. definisce il contratto come «l’accordo di due o più parti per costituire, modificare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale» e l’art. 1325 c.c. e precisa quali sono i requisiti essenziali : l’accordo delle parti, la causa, l’oggetto, la forma quando risulta che è prescritta dalla legge sotto pena di nullità.

Per esaminare il primo requisito occorre distinguere la categoria del

procedimento da quello della fattispecie e utilizzare più fonti di valutazione. a) “Ciascun atto che si inserisce nella fase formativa ha un proprio effetto:

rappresentando una tappa dell’iter, è destinato ad instaurare una situazione giuridica ben definita, che costituisce presupposto indefettibile del successivo atto, nel senso che quest’ultimo assume significato e valore giuridico in presenza della situazione nella quale si innesta e che , sua volta, è destinato ad evolvere. Si determina in tal modo una sequenza di atti e situazioni giuridiche intrinsecamente correlati, in che consiste appunto il procedimento di formazione del contratto1”

In altra prospettiva si muove l’analisi della fattispecie che è una dimensione statica ( factis species immagine del fatto ) per esaminare i problemi di validità d efficacia e cioè la regole unitarie che disciplinano l’assetto sostanziale di interessi.

1 G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969, p.56.

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Questo primo chiarimento di metodo ci fa intendere come la parola accordo debba essere intesa in modo diverso a seconda dei diversi contesti in cui essa ricorre2.

Il contratto è accordo e in tale accezione si evoca l’essenza del contratto e uno dei suoi elementi essenziali (art. 1325), ma l’accordo è anche sinonimo di mettersi d’accordo e di una disciplina che scandisca le varie sequenze di atti idonei a dettare regole al se, come, quando e dove il contratto è concluso.

b) Quanto alla disciplina della formazione del contratto occorre porre a raffronto

quattro fonti. Il codice civile italiano dagli articoli 1326 e seguenti,la Convezione di Vienna

sulla vendita internazionale di beni mobili recepita in Italia con una legge del 11 dicembre 1985 n. 765, i Principi Unidroit , i Principi di diritto europeo dei contratti PECL ( Principi Lando). Ciò tenendo conto, naturalmente, del diverso valore giuridico di esse.

La Convenzione di Vienna è stata ratificata con legge dello Stato e fa parte ad ogni effetto del nostro diritto positivo. Essa prevede un solo tipo contrattuale : la compravendita, ma contiene una sezione dedicata ala formazione del contratto (art. 14-24) che presenta un grado di astrazione capace di essere assunto a modello o criterio interpretativo al di fuori di tale tipo. Difatti stante la sua piena giuridicità e il suo inserimento nel diritto interno, in mancanza di una precisa disposizione applicabile al caso concreto non esistono ragioni per escludere una applicazione analogica delle sue regole3.

I due testi di Principi non sono fonti in senso stretto. Come sappiamo i primi (Unidroit) sono una raccolta che attinge alla prassi del commercio internazionale i secondi (PECL) sono anch’essi elaborati da autorevoli giuristi nella prospettiva di uniformazione del diritto ei contratti in Europa

Iniziamo dal codice civile italiano per esaminare poi ,quando occorra, le altre fonti alla ricerca di una stratificazione comune delle regole.

Nel disciplinare la formazione del contratto si pongono due ordini di problemi: • Fissare i procedimenti attraverso i quali il contratto giunge a perfezione; • Precisare il tempo e il luogo in cui questo è da ritenersi concluso.

Occorre anzitutto una critica nei confronti dell’idea dell’accordo inteso come incontro o fusione delle volontà. Questa formula è ostacolante e non consente di conoscere appieno il sistema positivo. Il giudice deve ricostruire le sequenze oggettive che la disciplina positiva conosce. Tale ricerca è svincolata dal tentativo di reperire un momento di mistica fusione della volontà; ciò per un motivo evidente.

Le regole positive non mirano affatto a cogliere un momento di incontro delle volontà, ma si articolano in schemi diversi, ordinati a seconda dell’affare e della sostanza degli interessi coinvolti. Non solo la necessità di abbandonare il dogma della fusione delle volontà deriva dallo stesso diritto positivo ove sono venute meno le premesse da cui traeva origine tale idea. Nel codice civile del 1865 mancava una

2 G.Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, cit 20 ss.; Id., La formazione del contratto e l’inizio di esecuzione.Dal codice civile ai principi di diritto europeo dei contratti, in Eur.dir.priv., 2006, p.309 ss. 3 R.Sacco, in R.Sacco-G. De Nova, Il contratto, in Tratt.dir.civ.,dir.da R.Sacco, Torino, 2003.

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disciplina compiuta della formazione del contratto ed esistevano due sole norme del codice di commercio (artt. 36 e 37). Sicché la lacuna normativa lasciava spazio ad una costruzione basata su una precostituita idea di accordo.

Il codice del 1942, invece, dedica al tema un’intera sezione del Capo II, del Titolo II, del Libro IV, del codice civile e la prima considerazione è la varietà di congegni.

L’art. 1326 c.c. fa riferimento allo scambio proposta accettazione, ma la regola non è generale. Vi sono sequenze ove lo scambio proposta accettazione non esiste e altre in cui tale sequenza non è sufficiente. Vediamo subito questa ultima ipotesi.

1.2. L’inizio di esecuzione

L’art 1327 del codice dispone che :«Qualora, su richiesta del proponente o per la natura dell’affare o secondo gli usi, la prestazione debba eseguirsi senza una preventiva risposta, il contratto è concluso nel tempo e nel luogo in cui ha avuto inizio l’esecuzione. L’accettante deve dare prontamente avviso all’altra parte dell’iniziata esecuzione e, in mancanza, è tenuto al risarcimento del danno».

Il procedimento si conclude con un atto che secondo le stesse parole della norma non è una risposta. Il contratto non è formato mediante lo scambio di due dichiarazioni ma in coincidenza cronologica e spaziale con l’inizio dell’esecuzione. Si esclude il dialogo e tutto ciò preclude la possibilità di affrontare lo studio in chiave di incontro di consensi.

La ratio è chiarissima. Si vuol semplificare il procedimento quando ciò sia funzionale agli interessi

delle parti che esigono una rapida modalità di conclusione. Gli interessi che si muovono sullo sfondo, per loro natura, o per la valutazione che ne danno gli appartenenti ad una cerchia sociale o per lo stesso proponente indicano che in taluni casi è sovrabbondante lo schema basato sullo scambio di una proposta e di un accettazione.

Né si può ritenere che vi sia comunque un dialogo in tal caso. Si è tentata questa operazione in due modi: • l’inizio di esecuzione è considerata un’accettazione implicita; • il pronto avviso è ricostruito come un atto che chiude la sequenza del procedimento.

Ma così non è perchè: • l’inizio dell’esecuzione non è una dichiarazione, ma un atto reale; • all’omissione del pronto avviso segue solo la risarcibilità del danno e il contratto è già concluso prima di esso, come si ricava espressamente dalla norma.

1.3. I contratti reali.

E’ noto che in una serie di casi la norma richiede ai fini della conclusione del

contratto non solo l’accordo ma la consegna della cosa. E’ così nel comodato (art. 1803 c.c.); deposito (art. 1766 c.c.); pegno (art. 2784 c.c.); mutuo (art. 1813 c.c.); riporto (art. 1548 c.c.) e negli altri casi espressamente disciplinati dalla legge.

Nel nostro sistema che menziona l’accodo fra i requisiti essenziali del contratto

( 1325 c.c.) e che fa seguire ad esso la vincolatività del contratto( 1372 c.c.), la

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consegna appartiene alla fase esecutiva. Per i contratti reali, invece, la consegna è necessaria per la stessa esistenza del contratto.

Lo schema basato sulla consegna è una scelta normativa consapevole in ordine ai fini e al significato della disciplina legale di questi contratti.

Si pensi al pegno. La funzione della garanzia sarebbe frustrata se il bene fosse lasciato nella disponibilità del contraente perché chi acquista in buona fede dal possessore e ne riceve la consegna acquista bene . Sicché il debitore pignorato potrebbe trasferire a terzi il bene e con ciò vanificare l’interesse del creditore alla garanzia reale ( v. art. 1153 c.c.).

D’altra parte nel comodato la consegna segna anche il momento dal quale il fenomeno di un prestito d’uso assume giuridica rilevanza ed integra dunque la causa ( la giustificazione ) di tale contratto.

Nei contratti appartenenti al tipo della donazione (art. 783) la traditio sostituisce la forma ,non richiesta per i beni mobili di modico valore

1.4. Scambio proposta accettazione.

La sequenza prevista dagli articoli 1326-1328-1336 prevede uno scambio fra

due atti pre-negoziali scandita da due essenziali principi. • la caducazione in conseguenza del trascorrere di un breve lasso di tempo art. 1326 2° comma; • la conformità come criterio fondamentale di giudizio di un’intesa che va ricostruita come dialogo, regolato, appunto, secondo il canone della conformità di tal chè la proposta deve contenere la menzione degli elementi essenziali ( art. 1336 c.c.) e l’accettazione deve essere conforme;

Il dialogo è disciplinato in un procedimento caratterizzato da due regole:

• la ricettizietà che prevede l’ efficacia della proposta e dell’accettazione solo all’arrivo all’indirizzo del destinatario, ( 1335 c.c.) come atti partecipativi di una sequenza che è fondata sul dialogo; • la revocabilità come carattere essenziale degli atti che complica il procedimento perché proposta e accettazione non si inseriscono nel procedimento in maniera identica.

Per quanto attiene alla revoca dell’accettazione la norma esclude qualsiasi discussione giacché la revoca è efficace solo se giunge a conoscenza prima dell’accettazione.

Per la proposta il dato non è altrettanto chiaro perché dall’art. 1328 non si trae con certezza se la revoca della proposta sia o meno recettizia e cioè se sia sufficiente per la sua efficacia l’emissione o se occorra invece la sua ricezione da parte del destinatario. La dottrina e la giurisprudenza sono state a lungo divise. L’inclusione della proposta fra gli atti di cui parla l’art. 1335 hanno convinto molti della sua natura recettizietà.

Una diversa opinione valorizza l’art. 1328 c.c. da cui si trarrebbe che la legge mostra di considerare efficace la revoca una volta emessa, nonostante che l’accettante non ne sia stato a conoscenza. Se fosse necessaria la ricezione, si sostiene, si addosserebbe sul proponente il rischio anche di una impossibilità di ricevere. La revoca in tal caso sarebbe , invece, una dichiarazione solo indirizzata e l’indennizzo riequilibra la posizione delle parti.

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Tale tesi è stata lungo maggioritaria anche nella giurisprudenza di legittimità ma una recente sentenza ha mutato radicalmente l’orientamento della Cassazione

La Corte (16 maggio 2000 n. 6323) da atto che esiste una giurisprudenza consolidata sull’art. 1328 che ammette l’efficacia della revoca emessa prima che il proponente abbia conoscenza dell’accettazione, secondo il criterio della spedizione anziché della ricezione. Ma si orienta in modo difforme in base alle seguenti motivazioni.

• La lettera dell’art. 1328 va interpretata nel contesto degli articoli 1334 e 1335.

• Tali norme prevedono il carattere recettizio della revoca e dell’accettazione e la medesima disciplina deve valere anche per la revoca della proposta.

• Tra le due interpretazioni, entrambe possibili, “ deve essere preferita quella che tuteli maggiormente il destinatario dell’atto recettizio (accettante) sussistendo in capo a questo ultimo un affidamento qualificato sulla conclusione del contratto, qualora l’accettazione sia pervenuta al proponente prima dell’arrivo all’accettante della revoca della proposta. Insomma tutto ciò sarebbe maggiormente coerente con il principio dell’affidamento e dell’esigenza di garanzia e di certezza dei traffici.

La tesi non appare affatto definitiva perché taluno rileva che :

• L’art. 1328 ha caratteri di specialità che sono resi evidenti dalla disciplina dell’indennizzo a favore di chi inizi l’esecuzione ignorando la spedizione della revoca.

• E’ più razionale risolvere il dilemma sulla efficacia della revoca in base alla verifica della priorità cronologica fra due atti che maturano nella sfera dello stesso soggetto, mentre darebbe più problemi la verifica fra eventi che maturano tra soggetti diversi.

• La revoca deve giungerà a conoscenza in un tempo ragionevolmente breve.

La verità è che la sentenza della Cassazione motiva il proprio revirement sulla base di argomenti discutibili in ordine al dettato letterale della norma e su un bilanciamento di interessi non svolta in modo ineccepibile.

Si sarebbe potuto invece trovare un diverso fondamento su un’interpretazione evolutiva argomentata alla stregua di una valutazione transnazionale che avrebbe dato coerenza sistematica alla decisione.

L’art. 16.1 della Convenzione di Vienna può essere utilizzato come dato specialistico ma capace di influire sulla interpretazione degli articoli 1328 e 1334. Certo tale indicazione, che appartiene al diritto uniforme della vendita internazionale, non può deformare la lettera del codice sulla disciplina generale del contratto ,ma può portare argomenti a favore di una delle due tesi in contrasto.

1.5. I contratti con obbligazioni del solo proponente (art. 1333 c.c.). L’art. 1333 c.c. non richiede neppure un atto positivo del destinatario della

dichiarazione. Giunta all’indirizzo la proposta è irrevocabile e la sequenza si chiude con il silenzio del destinatario che non è un’accettazione tacita.

La ratio è anche qui evidente. La proposta è diretta a concludere un contratto da cui derivano obbligazioni a carico del solo proponente e l’assetto di interessi è del tutto peculiare. L’oblato non deve accettare ma può rifiutare “nel termine richiesto dalla natura dell’affare o dagli usi. In mancanza di tale rifiuto il contratto è concluso.”

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Ciò è coerente con le altre ipotesi nelle quali è utilizzato il rifiuto. Nell’art. 1411 c.c. si prevede un effetto incrementativo nel patrimonio di un terzo per effetto di una atto unilaterale, soggetto a rifiuto sicché, combinando gli articoli 1372 e 1411, può ricavarsi una regola generale sulla possibilità di un effetto diretto del contratto nei confronti dei terzi purché favorevole e salvo il rifiuto.

Tale considerazione conferma che accanto alla sequenza caratterizzata dalla proposta e dall’accettazione esiste un altro procedimento caratterizzato da una attribuzione favorevole a da un potere di rifiuto del destinatario. Con valore diverso a seconda del contesto in cui si inseriscono.

Non vi è accettazione tacita, ma un meccanismo improntato ad una logica diversa: attribuzione formale e rifiuto la quale ,secondo alcuno, sarebbe espressione non di un contratto, ma di un negozio unilaterale soggetto a rifiuto4.

Qualche osservazione sul modello europeo. La convenzione di Vienna disciplina il contratto di vendita internazionale di

merci ma le tecniche utilizzate sono spesso indicate come un modello di riferimento generale e comune a livello europeo per alcuni significativi orientamenti.

Si accoglie la scelta operata dal codice italiano (1335) della conoscenza come

momento di efficacia delle dichiarazioni . Ciò risulta chiaro nell’art. 15 ove si afferma che una proposta produce effetto quando giunge al destinatario, ma è confermato in tema di revoca dall’art.16.1 ove si precisa che “Finchè il contratto non è concluso una proposta può essere revocata se la revoca giunge al destinatario prima che questi abbia inviato l’accettazione”.

Nella Convenzione si valorizza lo schema basato su una dichiarazione e su un comportamento omissivo ,più funzionale all’interesse alla rapidità della fase di conclusione. Ne sono prova alcune disposizioni.

L’art. 18 individua tale sequenza, nei suoi tre commi, dando rilievo al “comportamento tenuto dal destinatario indicante il suo consenso ad una proposta”.

L’art. 19 afferma nel primo comma la necessaria conformità dell’accettazione alla proposta,ma prevede poi nel secondo comma che “ un’accettazione che contiene clausole aggiunte o difformi che non alterano sostanzialmente i termini della proposta costituisce accettazione a meno che l’autore della proposta ,senza ritardo ingiustificato, non si opponga verbalmente a queste differenze o non invii un avviso a questo scopo. In caso contrario il contenuto del contratto è il contenuto della proposta con le modificazioni aggiunte nell’accettazione”

L’art. 21 prevede che un accettazione tardiva produce effetto come accettazione se il “proponente senza ritardo ne informa verbalmente l’accettante o gli invia un avviso a questo scopo”. Nel secondo comma si precisa che “ se dalla lettera o altro scritto contenente un’accettazione tardiva risulta che questa è stata spedita in circostanze tali che se la sua trasmissione fosse stata regolare sarebbe giunta al proponente nel tempo dovuto, l’accettazione tardiva produce effetto come accettazione, a meno che il proponente senza ritardo non informi verbalmente l’accettante che egli considera caducata la sua proposta o non gli invii un avviso a questo scopo.

4 G.Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, op.cit. ,p.

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Contratti dei consumatori Vi sono in tali contratti almeno due peculiarità da rimarcare. La prima . Nel contratto concluso a distanza con il mezzo telematico l’art. 13

del Codice di consumo non formula un preciso procedimento di conclusione per motivi diversi e chiari. Si doveva coniugare diversi sistemi basati alcuni sulla scelta della emissione della dichiarazione (common Law) e altri sulla conoscenza (civil Law). Si doveva altresì adattare la fase di conclusione alla nuova tecnologia.

La scelta è stata netta. Si è escluso dalla disposizione il contratto concluso mediante messaggi di posta

elettronica per i quali non è necessaria alcuna peculiarità. Per la proposta comunicata per via telematica si precisa invece il momento in cui avviene la conoscenza legale. Nella norma si dice che l’ordine e la ricevuta si considerano pervenuti quando le parti alle quali sono indirizzati hanno la possibilità di accedervi.

La seconda. Gli articoli 64,65,66,67 del Codice di consumo prevedono un

recesso del consumatore che, secondo alcuni, si colloca fra le tecniche procedimentali di conclusione del contratto in funzione di protezione di tali soggetti che hanno per legge un diritto di ripensamento. Ciò rende instabile l’accordo sino al termine fissato per il possibile recesso.

1.6. I patti preparatori. Si parla spesso della categoria dei contratti preparatori che trova ampio seguito

in dottrina ma ha incerti confini e dubbia utilità. Questa sensazione è macroscopica allorché si pensi di trovare l’unico punto di

contratto fra vari atti, nel loro essere effettuati in vista del futuro compimento di un altro negozio che i soggetti hanno principalmente di mira, giacché così non si ottiene che un raggruppamento di comodo. Nessun rilievo può avere tale metodo nel precisare i rapporti che negozio preparatorio e negozio definitivo esercitano l’uno sull’altro perché diversa è tale relazione da figura a figura, ma soprattutto è assai difficile trovare un gruppo di atti omogenei i cui tratti strutturali e funzionali siano tali da essere propri solo di essi ed estranei ad ogni altro, sì da legittimare l’uso corretto della categoria.

Il tentativo di isolare dogmaticamente la funzione preliminare di una serie di fattispecie che, in sé compiute, pure tendono alla agevolazione e conclusione di un futuro contratto, ha il torto di porre sullo stesso piano fattispecie produttive di soli effetti procedimentali e accordi relativi al contenuto contrattuale, quali minute e puntuazioni, e si legittima così la critica sulla scarsa utilità di un accostamento di queste figure che resta sovente alla stato di «una cornice puramente formale» entro la quale si inseriscono senza una evidente utilità, le singole fattispecie a cui corrisponde una propria e caratteristica regolamentazione di legge.

Queste considerazioni indicano la scelta di metodo che sarà seguita. Si affronteranno le singole figure senza alcuna riconduzione unitaria e con una precisazione da anteporre subito.

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1.7 Il contratto preliminare: rinvio Il codice menziona nell’art. 1351 il contratto preliminare come un accordo con

cui una o entrambe le parti si obbligano alla conclusione di un futuro contratto definitivo.

Tale contratto deve avere la stessa forma del contratto definitivo e in caso di inadempimento la parte danneggiata potrà chiedere la risoluzione e il risarcimento del danno o l’esecuzione forzata in forma specifica ai sensi dell’art. 2932 c.c.

La dottrina più attenta e alcune sentenze recenti della Cassazione ( v. in part. Cass. 25 luglio 2006 n. 1624 ) hanno precisato la natura e gli effetti del contratto preliminare e il suo rapporto con il contratto definitivo. Si osserva in particolare che “ la conclusione del definitivo non assorbe né esaurisce gli effetti del contratto preliminare che continua, viceversa, a regolare i rapporti fra le parti sicché il promettente venditore resta responsabile per il caso di evizione e di vizi”.

In tal modo si delinea una moderna concezione del contratto preliminare inteso come accordo che già realizza un assetto di interessi prodromico a quello che sarà poi attuato compiutamente con il definitivo. Ciò almeno nei casi –molto frequenti- in cui le parti anticipano in tutto o in parte il corrispettivo o immettono il promissorio nel possesso del bene. In questi casi l’oggetto del preliminare non è soltanto un facere ossia l’obbligo di prestare il consenso per la conclusione del contratto definitivo, ma soprattutto un dare ,ossia la trasmissione del diritto che “costituisce il risultato pratico avuto di mira dai contraenti” (Cass. 25 luglio 2006 n. 1624)

Da tutto questo si ricava che lo studio del contratto preliminare si deve incentrare non più e non solo sulla sua tradizionale configurazione di patto preparatorio di un futuro contratto definitivo quanto sulla sua struttura e funzione di accordo che concorre a trasferire il diritto o la cosa ed è per questo che di tale figura si tratterà nel capitolo relativo agli effetti e alla circolazione dei beni.

1.8 Proposta ferma e opzione Una prima osservazione può indurre ad assimilare i due istituti perché identica è

la situazione passiva del destinatario e comune appare, a prima vista, la modalità di conclusione prevista dall’ art. 1333 c.c. se l’ opzione è gratuita, ma se si guarda più a fondo la diversità fra le due figure è profonda.

L’ oblato con la proposta ferma acquista una situazione solo procedimentale caratterizzata «non da una pretesa ma da un potere di perfezionare il contratto senza che al proponente sia dato, in qualche modo, di potersi sottrarre all’impegno preso».

Diversamente nella opzione il beneficiario è titolare di una situazione soggettiva caratterizzata dalla possibilità di perfezionare, con un proprio atto, la sequenza e dall’ interesse a regolare un conflitto patrimoniale in ordine all’acquisizione del bene; sicché risulta netta la differenza fra le due figure.

Con la proposta ferma il dichiarante conforma il procedimento di conclusione

del contratto secondo un ordine che egli stesso determina attribuendo all’oblato un potere che vive nella sola dimensione del procedimento e si comprende come, in tal caso, non si applichi l’art. 1333 c.c. e quest’ ultimo non possa rifiutare la proposta ma casomai la stessa conclusione del contratto.

Con l’opzione, invece, le parti regolano due aspetti diversi: il procedimento formativo dell’atto e gli interessi patrimoniali sottostanti di tal che la posizione

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dell’oblato è del tutto diversa. L’art. 1331 c.c nel disporre che la dichiarazione si considera quale proposta irrevocabile per gli effetti previsti dall’art. 1329 c.c. regola solo un aspetto dell’opzione e cioè il procedimento formativo del contratto cui una parte si vincola; ad esso resta estranea la disciplina degli interessi sostanziali che hanno indotto le parti a stipulare l’opzione che sotto questo profilo sarà regolata dalla disciplina generale dei contratti; e, quindi, se gratuita, l’effetto favorevole si produrrà per l’oblato solo in mancanza di rifiuto.

In conclusione : La proposta ferma ha effetto solo procedimentale e struttura unilaterale.

Sicchè: • Il vincolo unilaterale crea una soggezione ed un corrispettivo potere dell’altro

di perfezionare il contratto. • E’ essenziale un termine e la sua assenza non può essere colmata dal giudice:

se manca la conseguenza non può che essere la nullità. • Ha un significato solo procedimentale perché il dichiarante da impulso al

procedimento di conclusione del contratto. • La revoca ( ex art. 1329 c.c.) non produce effetto a differenza di quanto

accade nella disciplina del mandato ( art. 1723 c.c.) ove la revoca ha conseguenze solo risarcitorie.

L’opzione è costituita da un momento procedimentale ma è anche una

fattispecie autonoma. Sicchè: • Ha struttura bilaterale e le parti regolano gli interessi sottostanti. • Dal patto sorge un diritto, di opzione, che è negoziabile. Dunque essa non

vive solo nella dimensione del procedimento e sono rilevanti le conseguenze. • Il termine ha una disciplina positiva e diversa dalla proposta ferma. In caso

le parti non abbiano disposto niente può essere fissato su richiesta dal giudice. Il dato in comune alla proposta ferma e all’opzione è costituito dalla situazione

soggettiva del proponente ( soggezione ) ma diverse sono la struttura, gli effetti e la disciplina positiva.

1.8. La prelazione volontaria. Il contenuto della prelazione non è disciplinato dal codice in generale ma è

chiaramente delineato nella prassi e nella ricostruzione dottrinale. Il patto può avere un contenuto autonomo od essere inserito in un altro contratto

ed ha una struttura costante. Dal lato passivo dell’obbligato comporta la libertà di concludere o meno il

contratto oggetto di preferenza, l’obbligo di manifestare al preferito la volontà di disporre se e quando il promittente si determinerà in tal senso e il dovere di tale soggetto di astenersi dal contrarre con terzi in pendenza della risposta del preferito.

Dal lato attivo del titolare si ha il diritto di essere avvisato dell’intenzione dell’obbligato di contrarre e il diritto di esercitare la prelazione e di concludere il contratto , con preferenza rispetto ad altri, alle condizioni indicate nella proposta (denuntiatio).

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La dottrina è da tempo divisa nel qualificare il patto di preferenza come contratto preliminare condizionato, o come convenzione caratterizzata dalla finalità negativa di escludere ogni soggetto diverso dal preferito dall’accesso al bene, ma entrambe le costruzioni, se appaiono spesso coerenti con le premesse, non riescono a spiegare compiutamente l’istituto e dar risposta a tutti i problemi di disciplina.

Chi utilizza come tratto distintivo della fattispecie un obbligo di non contrarre a

carico del promittente, trae per lo più argomenti da un confronto con le prelazioni legali ove è assai dubbia la presenza costante di una finalità negativa; è certo che la ratio dell’ art. 732 c.c. è quella di impedire l’ingresso di un estraneo nella comunità dei coeredi intesi come gruppo, anche se non necessariamente a carattere familiare, ma il fine di esclusione sfuma nella prelazione agraria ove non è possibile rintracciare un fondamento comune a tutte le ipotesi che spesso testimoniano, anzi, un vero interesse all’acquisito tutelato espressamente dal legislatore. D’altra parte nella prelazione urbana è evidente l’interesse dell’impresa a rafforzare la possibilità di utilizzazione del bene con la sua titolarità formale e quindi con la acquisizione definitiva di esso fra gli elementi stabili dell’azienda. Mentre nella preferenza che reciprocamente si riconoscono gli appartenenti ad un gruppo organizzato l’interesse prevalente è indubbiamente quello di impedire che l’organizzazione collettiva sia alterata per l’ingresso di estranei ma ciò non è connaturale alla preferenza pattuita isolatamente o anche in occasione di una comunanza occasionale di interessi fra due soggetti. Insomma l’obbligo di non contrarre con altri in pendenza del patto fa parte del contenuto complesso del dovere del promittente ma non esaurisce il contenuto della prelazione.

Altrettanto unilaterale è, comunque, il procedimento inverso che subordina

l’analisi funzionale alla ricostruzione del tipo. In tal modo si definisce la prelazione come contratto preliminare. Ma il contratto preliminare unilaterale, seppur concettualmente ammissibile, ha struttura diversa dal patto di prelazione. La qualifica della prelazione come preliminare condizionato è frutto di una tendenza dottrinaria a ravvisare in ogni interdipendenza di atti un legame retto dalla disciplina della condizione, che non si presta, invece, ad essere applicata fuori da un campo delimitato. Con quel termine si fa riferimento a fatti esterni e non ad ogni atto di esercizio di potere, che è concetto molto diverso dalla subordinazione ad una condizione in senso tecnico. Nel concedere la prelazione il promettente esercita il proprio potere dispositivo limitandolo nel concedere ad alcuno una preferenza ; non c’ è nessun fatto esterno che venga dedotto in condizione, bensì egli si riserva una propria determinazione e cioè un particolare atteggiamento nell’esercizio di un suo potere.

In conclusione: La prelazione volontaria non è un preliminare condizionato

perchè oggetto dell’obbligazione è la preferenza e non la conclusione del contratto e la condizione relativa alla eventuale volontà di concludere il contratto da parte dell’obbligato è essenziale al tipo.

Dubbio è se il preferito in caso di inadempimento dell’obbligato oltre alla tutela risarcitoria disponga anche di una tutela specifica ai sensi dell’art.2932 c.c.. Se si qualifica l’istituto come un preliminare la soluzione potrebbe essere positiva , altrimenti è più incerto.

Certo è che non si potrà richiedere la sentenza costitutiva sinchè l’obbligato è libero di contrarre Si può ammettere il ricorso a tale azione se l’obbligato ha già manifestato irrevocabilmente la volontà di contrarre ed è dunque divenuto attuale il

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diritto del preferito che in caso di inadempimento potrebbe ricorrere al giudice per richiedere il rispetto dell’altra parte dell’obbligo a contrarre

1.9. La puntuazione e le lettere di intenti Vi sono numerose altre pattuizioni che agevolano il progredire dell’impegno

fino all’accordo. La puntuazione si inserisce spesso nella fase di formazione progressiva del

contratto. Si ha tale figura quando le parti concordano di fissare alcuni elementi del

contratto in una minuta per fissare le trattative svoltesi sino a quel momento e si riservano di definire successivamente altri punti.

“Rientrano nella nozione di «minuta o puntuazione» del contratto, per la quale è indispensabile l’esistenza di un documento sottoscritto da entrambe le parti, sia i documenti che contengano intese parziali in ordine al futuro regolamento di interessi (c.d. puntuazione di clausole), sia i documenti che predispongano con completezza un accordo negoziale in funzione preparatoria del medesimo (c.d. puntuazione completa di clausole); in relazione a tale secondo caso, la parte che intenda dimostrare che non si tratti di un contratto concluso, ma di una semplice minuta con puntuazione completa di clausole, deve superare la presunzione semplice di avvenuto perfezionamento del contratto, e ciò gli è reso possibile in virtù del principio secondo cui anche un documento dimostrante con completezza un assetto negoziale può essere soltanto preparatorio di un futuro accordo, una volta dimostrata l’insussistenza di una volontà attuale di accordo negoziale”. Cass., sez. III, 16-07-2002, n. 10276

Chiara è la sua diversità rispetto alle altre figure sin qui esaminate. “Ai fini della configurabilità di un definitivo vincolo contrattuale è necessario

che tra le parti sia raggiunta l’intesa su tutti gli elementi dell’accordo, e non se ne può ravvisare pertanto la sussistenza là dove, raggiunta l’intesa solamente su quelli essenziali ed ancorché riportati in apposito documento (c.d. «minuta» o «puntuazione»), risulti rimessa ad un tempo successivo la determinazione degli elementi accessori.”

“Ne segue che anche in presenza della completa regolamentazione di un determinato assetto negoziale può risultare integrato un atto meramente preparatorio di un futuro contratto, come tale non vincolante tra le parti, in difetto dell’attuale effettiva volontà delle medesime di considerare concluso il contratto il cui accertamento, nel rispetto dei canoni ermeneutici di cui agli art. 1362 seg. c.c., è rimesso alla valutazione, del giudice di merito, incensurabile in cassazione ove sorretta da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici.”

(Nell’affermare tale principio, la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza di merito rilevando che, nel ritenere perfezionato un accordo transattivo tra le parti di giudizio per effetto di duplice missiva inviata dal legale di una delle parti e considerata accettata dal difensore di controparte, il giudice di merito aveva nel caso del tutto omesso di valutare il comportamento complessivo delle parti, in particolare quello mantenuto successivamente alla supposta conclusione dell’accordo transattivi. Non si era considerato che dopo lo scambio delle suindicate lettere, il difensore di una delle parti aveva dichiarato in udienza avanti al giudice istruttore che erano ancora pendenti trattative tra le parti per la formalizzazione di un accordo, e che nel prosieguo del giudizio le parti avevano in entrambi i gradi di merito formulato opposte conclusioni). Cass., sez. III, 18-01-2005, n. 910

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Le lettere di intenti sono testi che le parti concordemente si scambiano o sottoscrivono 5 per attestare che può iniziare o esiste fra di loro una trattativa . Con queste dichiarazioni le parti non si vincolano alla conclusione di un contratto, ma manifestano una disponibilità, un interesse ad iniziare o a proseguire la trattative.

Tali documenti possono avere diversi contenuti, funzioni ed effetti. Possono collocarsi all’inizio della trattativa e indicare che le parti intendono

trattare su un certo contratto e quali punti dovranno discutere. Ad uno stadio successivo possono contenere un impegno delle parti a proseguire le trattative in corso fissando i punti su cui si è raggiunto l’accordo. Infine possono contenere anche tutti i punti dell’accordo e documentare che, tuttavia, il contratto non è concluso (ad esempio, nell’ipotesi in cui il contratto deve essere sottoposto all’approvazione di un organo)6.

Il contenuto di queste dichiarazioni può creare affidamenti e rilevare sul piano della responsabilità precontrattuale.

L’indagine volta a stabilire se e in che momento tra le parti si sia concluso un contratto, o se le dichiarazioni di volontà intercorse abbiano solo il valore di dichiarazione di intenti, costituisce accertamento di fatto, riservato al giudice di merito (in applicazione di tale principio di diritto, la suprema corte ha ritenuto carente sul piano sia logico che giuridico la motivazione della sentenza con la quale si attribuiva valore di semplice dichiarazione di intenti alle scritture sottoscritte dalle parti, trascurando del tutto l’elemento letterale e mancando una analisi completa e compiuta sia delle due missive, sia del comportamento complessivo tenuto dalle parti). Cass., sez. III, 18-11-2003, n. 17449.

Gli accordi normativi. Il contratto normativo viene comunemente definito l’accordo con il quale due o

più parti predeterminano il contenuto di futuri contratti, che esse restano libere di concludere o meno.

Esso può essere ricompresso , al pari dell’opzione e del contratto preliminare, nel più ampio fenomeno della formazione progressiva del contratto, sebbene differisca da queste ultime figure perché non obbliga le parti alla conclusione dei futuri accordi, limitandosi a stabilire le clausole che questi devono contenere nel caso siano poi essere perfezionati.

Si suole distinguere i contratti normativi c.d. interni da quelli c.d. esterni. Nei primi le parti dei contratti futuri, detti anche particolari, sono le stesse che avevano concluso il contratto quadro, i secondi individuano invece le ipotesi nelle quali le parti si impegnano ad includere determinate clausole contrattando con terzi soggetti; Ad esempio alcune imprese si obbligano a praticare ciascuna nei confronti dei propri clienti determinati prezzi minimi. Si consideri che quest’ultima ipotesi è tenuta presente dal 2° comma dell’art. 2 L. 287\1990 che sanziona le intese restrittive della concorrenza, nonché dall’art. 33 C.d.C. lett. t) secondo il quale si presumono vessatorie le clausole che implicano “restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi”.

Sebbene il contratto in questione rappresenti una categoria di origine dottrinale

e quindi si presti ad essere ricostruito secondo di innumerevoli schemi, esempi tipici

5 Roppo, Il contratto, cit. 140. 6 Roppo, Il contratto, cit. 140.

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di contratti normativi vengono individuati, oltre che nei contratti collettivi di lavoro, nell’accordo quadro tra appaltatori e fornitori previsto dall’art. 16 D.Lgs. 158\1995, nel conto corrente bancario, nel contratto di intermediazione mobiliare, nella concessione di vendita e nel franchising.

Si discute se il contratto di cui ci occupiamo sia vincolante per le parti, tanto che

qualcuno ha sollevato dubbi sul fatto che possa essere qualificato come un contratto, non potendo avere quella forza di legge stabilita dall’art. 1372 c.c.. Quest’ultima opinione, un tempo maggioritaria, veniva motivata con la considerazione che qualora una parte del contratto quadro, al momento della conclusione di un contratto particolare, non condivida più il contenuto delle clausole concordate in precedenza potrebbe rifiutarsi di perfezionare l’accordo, vanificando così gli scopi e gli effetti del contratto programmatico senza, peraltro, incorrere in alcun inadempimento.

In tempi più recenti la dottrina - pur concordando con quanti osservano che la mancata stipula dei contratti particolari non provoca alcun inadempimento - ha affermato che tale rifiuto può essere qualificato come contrario a correttezza sopratutto nel caso in cui sia del tutto immotivato.

E’ infine discusso se le clausole prestabilite in un contratto normativo entrino automaticamente nel contenuto dei successivi contratti particolari ovvero se occorra una specifica manifestazione di volontà. La giurisprudenza ha avuto modo, anche recentemente, di occuparsi proprio di quest’ultima questione, in riferimento ad una concessione di vendita, stabilendo che quest’ultima è “un contratto innominato riconducibile, sul piano strutturale, al contratto quadro o normativo, dal quale deriva l'obbligo di promuovere la rivendita dei prodotti che vengono acquistati mediante la stipulazione, alle condizioni fissate dall'accordo iniziale di singoli contratti di acquisto. Da ciò consegue che la previsione, nel contratto normativo intercorso tra le parti, del patto di riservato dominio comporta l'obbligo per le medesime parti di inserire la clausola di riserva della proprietà in ciascuno dei contratti di vendita da stipularsi in epoca successiva, senza tuttavia che detta clausola possa ritenersi implicitamente riprodotta in questi ultimi per il solo fatto di far parte dell'impegno programmatico” (Cass. 22.10.2002 n. 14891. In senso conforme: Cass. 22.02.1999 n. 1469 ed in ultimo Cass. 07.04.2005 n. 7275).

Recentemente la giurisprudenza, soprattutto di merito, ha avuto modo di

affrontare con frequenza altre problematiche indotte dalla figura del contratto quadro, in materia di intermediazione finanziaria ed in riferimento ai rapporti che lo legano ai successivi contratti particolari, nella fattispecie gli ordini di acquisto titoli. A quest’ultimo proposito si è affermato che: “La mancata stipulazione del contratto-quadro tra l'intermediario finanziario autorizzato e il cliente, che rappresenta un necessario presupposto dei successivi contratti esecutivi di mandato, determina la nullità degli ordini di acquisto conferiti nel corso del rapporto” (Trib. Firenze 18.10.2005). Ancora si è statuito che il contratto a monte trovi la propria causa nella regolamentazione dei contratti a valle, sicché : “La disciplina dei singoli contratti afferenti alla negoziazione di "swap" va ricerca nel contratto quadro, la cui causa consiste nel regolare (cfr. art. 1321 c.c.) in via preventiva una indefinita serie di negozi, ” (Trib. Torino 03.02.2005)

L’analisi di questa particolare applicazione ha suscitato, poi, ulteriori riflessioni con riguardo alla possibilità che il contratto normativo sia immediatamente produttivo di obblighi. Si è così affrmato che : “La violazione dei doveri di comportamento che gravano sull'intermediario finanziario non costituisce causa di nullità del contratto per mezzo del quale l'investitore acquista gli strumenti finanziari, ma inadempimento

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delle obbligazioni che derivano dal contratto quadro con cui l'intermediario si impegna a prestare il servizio di negoziazione: il cliente, dunque, è legittimato a domandare la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno” (Trib. Milano 25.07.2005). Altra giurisprudenza (Trib. Mantova 30.11.2006) nega, peraltro, che nei casi in questione si possa parlare di contratto normativo non essendo – si afferma – “solo finalizzato a disciplinare eventuali e futuri negozi giuridici, ma comportando l’immediato insorgere di diritti ed obblighi”.

Dalla casistica emerge quindi come il contratto normativo o quadro sia una figura aperta e capace di contenere varie clausole, le quali benché immediatamente precettive non ne mutano la struttura di base, che resta quella di programmare, predeterminandolo, il contenuto di un numero imprecisato di futuri affari, che le parti si riservano di concludere.

1.10 Le condizioni generali di contratto Il codice civile italiano è stato il primo ad affrontare il tema della contrattazione

di massa, disciplinando agli artt. 1341-1342 le condizioni generali di contratto, di cui non vi era traccia né nel Codice Francese, né in quello Tedesco.

Il fenomeno, essenziale nella collocazione sul mercato di beni di consumo e di servizi di pubblica utilità, comporta la predisposizione di un testo contrattuale uniforme (condizioni generali di contratto) che sono efficaci se "conosciute o conoscibili dall'altra parte" (1341 c.c.). Il contratto non è concluso e concordato da due parti, ma predisposto da un solo contraente. Il proponente è generalmente un imprenditore.

Le condizioni generali di contratto sono destinate a regolare una serie indefinita di rapporti e sono oramai uno dei tratti della negoziazione più significativi della società industrializzata. L'impresa non può negoziare con i singoli contraenti la vendita di beni di consumo, la Banca non può concordare con i singoli clienti le condizioni di ogni singolo contratto, e così via. Nei servizi pubblici essenziali, non si negozia la fornitura del gas, dell'acqua, dell'energia, e non si concludono singolarmente tanti contratti quanti sono i soggetti-utenti che chiederanno quel servizio: ciò comporterebbe un costo economico enorme. Da qui la predisposizione del contenuto del contratto attraverso le condizioni generali di contratto.

La omogeneità del contenuto contrattuale è dunque una necessità ma può, al contempo, celare un’anomalia dovuta al fatto che il contenuto è predisposto da una sola parte e che l’altra può solo aderire.

Gli artt. 1341-1342 si applicano alle condizioni generali di contratto predisposte da un contraente per regolare una serie di contratti (art.1342 c.c.) Non si applicano:

• ai contratti oggetto di contrattazione tra le parti; ( v. Cass.19 maggio 2006

n.11757 : “ Un contratto è qualificabile “per adesione” …solo quando sia destinato a regolare una serie indefinita di rapporti e sia stato predisposto unilateralmente da un contraente; ne segue che tale ipotesi non ricorre quando risulta che il negozio è stato concluso mediante trattative tra le parti”, Si reputa anche che : il richiamo della disciplina fissata in un distinto documento che sia effettuato dalle parti contraenti sulla premessa della piena conoscenza di tale documento ed al fine dell’integrazione del rapporto negoziale nella parte in cui difetti di una diversa regolazione, assegna alle previsioni di quella disciplina..il valore di clausole concordate e quindi li sottrae all’esigenza della specifica approvazione per iscritto di cui all’art.1341 c.c.. Le parti

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nella specie avevano fatto riferimento , in un contratto di appalto di opera pubblica al capitolato speciale predisposto dall’appaltante . v. Cass. 6 settembre 2006 n. 19130 )

• al contratto redatto nella forma dell’ atto pubblico; • agli statuti e ai regolamenti; • alle condizioni predisposte per un solo contratto. ( Cass. 14 febbraio 2006

n.3184) Efficacia L’art. 1341 c.c. prevede che le condizioni generali predisposte da uno dei

contraenti siano efficaci nei confronti dell’aderente in presenza della conoscenza o conoscibilità dell’aderente. Le clausole sono, dunque, efficaci per l'altra parte quando sono conoscibili. C’è un onere del predisponente di renderle conoscibili e c’è una diligenza dell’aderente in ordine alla loro conoscenza.

In una recente sentenza ( Cass. 20 dicembre 2005 n.28232 ) si è precisato che “ la clausola contrattuale che esime dall’obbligo di custodia del veicolo e dalla responsabilità il gestore del parcheggio è inefficace se apposta sul retro dello scontrino consegnato all’utente successivamente alla conclusione del contratto, in quanto non conosciuta né conoscibile usando l’ordinaria diligenza, nel momento in cui il contratto è stato concluso.”

Tutele In materia di interpretazione l’art. 1370 prevede che “le clausole inserite nelle

condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti s’interpretano, nel dubbio, a favore dell’altro”. La norma sancisce che nel dubbio opera l’interpretazione contro il predisponente.

Il secondo comma dell’art. 1342 c.c. contiene un elenco di clausole vessatorie fra cui si distinguono quelle che pongono a favore dell’imprenditore limitazioni di responsabilità; facoltà di recedere o sospendere l’esecuzione, e a carico dell’aderente: decadenze, limitazioni delle eccezioni, restrizioni alla libertà contrattuale, proroghe tacite, clausole compromissorie.

Perché le clausole vessatorie siano efficaci è richiesto l’onere della doppia sottoscrizione per iscritto che deve consentire in modo diretto ed espresso di manifestare un consenso sul contenuto della clausola. Sarebbe dunque inidonea una sottoscrizione di mero rinvio o generica. L’approvazione aggiuntiva della clausola vessatoria deve avere il carattere della specificità e della separatezza che va accertata caso per caso in base alle circostanze seguite nel caso concreto. ( così Cass. 11 maggio 2006 n. 10942)

E’ stato a lungo discusso se l’elenco di clausole contenuto nell’art. 1341 sia o meno tassativo. Si reputa ora che sia possibile un’interpretazione estensiva tutte le volte che “ vi sia l’esigenza di tutelare il contraente per adesione in una situazione per lui particolarmente sfavorevole”. ( v. Cass. 23 novembre 2001 n. 14912 e Cass. 27 aprile 2006 n. 9646 che non comprende nell’elenco, neppure in via estensiva, la clausola che prevede la corresponsione di interessi moratori in misura extralegale)

I limiti della disciplina Come si è accennato il modello italiano ha introdotto per primo, con gli artt.

1341-1342 una disciplina generale del fenomeno, ponendosi come modello di

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riferimento e come indice di riflessione per individuarne pregi e difetti. Ma a partire dagli anni ’70 del secolo scorso sono state molte le critiche ad una

disciplina insufficiente perché in presenza di una doppia firma qualsiasi contenuto contrattuale è efficace per l’aderente.

L’uniformazione del contenuto contrattuale è spesso necessaria ma vi è il rischio di una manipolazione incontrollata dei contratti da parte degli imprenditori. L’ aderente o sottoscrive o rinuncia al bene o al servizio sicché non vi è nessun controllo sul contenuto contrattuale . D’altra parte l’aderente non ha spesso alternativa alla scelta , specie se l’impresa agisce in situazione di monopolio di fatto o si tratta dell’accesso ad un bene primario.

Negli ultimi decenni del novecento tutte le legislazioni degli Stati europei e le

Istituzioni Comunitarie hanno avvertito la necessità di intervenire per rimediare alla disuguaglianza di fatto e allo squilibrio che si determina in tali rapporti. Nella tradizione fondata sull’uguaglianza formale del contraente (qui dit contractuel dit juste) non vi era spazio per una nozione di clausola abusiva. La clausola su cui si è formato l’accordo non può essere iniqua, la clausola su cui non si è formato l’accordo non ha forza obbligatoria. Ma questa convinzione è superata in molti paesi ove il consumatore o l’aderente vengono a porsi come punto di riferimento di varie discipline che optano per un controllo giudiziale in Germania (1976) e per un controllo amministrativo in Francia(1978) o per una combinazione dei due modelli. Ciò sino all’approvazione nel 1993 della Direttiva comunitaria poi recepita nei singoli paesi.

E’ bene ricordare che la nozione di consumatore, anche se parzialmente si sovrappone, non si identifica con quella di aderente in quanto l’aderente può non essere consumatore mentre il consumatore è tutelato anche in ipotesi di contrattazioni non stipulate con condizioni generali ma negoziate individualmente 7.

Contratto concluso mediante moduli o formulari Anche nel caso in cui le condizioni generali di contratto siano scritte in un

modulo o in un formulario, (art. 1342 c.c.) le clausole sono efficaci soltanto se specificamente approvate per iscritto. Ma v’è qualcosa di più .Se al modulo vengono aggiunte clausole scritte a mano o a macchina, queste, se incompatibili, prevalgono su quelle del modulo o del formulario prestampate, anche se queste ultime non sono state cancellate.

Natura normativa o convenzionale delle condizioni generali di contratto8 Discussa è la natura normativa o convenzionale delle condizioni generali di

contratto, dalla cui definizione discende l’applicabilità di un diverso tipo di canoni ermeneutici e di rapporti tra condizioni generali e singolo contratto.

Se si considerano le condizioni generali norme giuridiche9 predisposte dall’imprenditore troveranno applicazione i criteri stabiliti dall’art. 12 delle Preleggi e

7 Per la disciplina del contratto concluso tra un consumatore e un professionista si veda il terzo capitolo di queste dispense. 8 Cfr: B. Sirgiovanni, Interpretazione del contratto non negoziato con il consumatore, in Riv. dir. civ., 3/2006, 760 ss.

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dunque il canone letterale sarà quello della ratio legis delle condizioni generali di contratto.

Se, invece, si attribuisce alle condizioni generali di contratto natura negoziale, si distingueranno le ipotesi in cui tali condizioni vanno ad integrare il contenuto dell’accordo, per le quali troveranno applicazione i criteri di cui all’art. 1362 c.c., ovvero il criterio letterale in combinato disposto con quello della comune intenzione e i criteri di cui agli artt. 1367 c.c. nel caso in cui permanga il dubbio.

Attribuire alle condizioni generali di contratto natura normativa o convenzionale produce conseguenze anche sul rapporto con le altre clausole del contratto. Se si riconosce alle condizioni generali di contratto natura di norme giuridiche, queste non potranno subire modificazioni una volta che siano state inserite nel contratto. Se invece si conferisce loro natura negoziale, sia che si presentino come parte dell’accordo che come atto negoziale esterno a quest’ultimo, la natura convenzionale delle clausole in entrambi le ipotesi determinerà una inevitabile interferenza.

Preferibile è la teoria che attribuisce alle condizioni generali natura di negozio

unilaterale che integra futuri contratti da stipulare con gli aderenti. In questo senso, le condizioni generali, ponendosi fuori e prima del contratto acquistano una rilevanza autonoma.

9 Per la tesi della natura giuridica delle condizioni generali cfr.: M. Costanza, Natura normativa delle condizioni generali di con tratto, in Le condizioni generali di contratto, a cura di Cosi e Marchetto: Bianca, Milano, 1979, 155 ss.

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2. La causa Il procedimento volto alla conclusione del contratto indica le varie sequenze e

le regole di condotta che esistono in questa fase ove il termine accordo ha il significato di “mettersi d’accordo”.

Ma l’art.1325 richiede la presenza di altri elementi di struttura necessari perché il contratto sia vincolante e abbia forza di legge. ( art. 1372). Primo fra tutti la causa.Il ruolo di questa figura è da sempre discusso tanto che nei progetti di uniformazione europea se ne propone l’abbandono e il Codice Olandese del 1994 non la disciplina proprio.

L’idea che la causa esprima la funzione economica e sociale del contratto è

contenuta non solo nei manuali, ma anche nelle relazioni governative e nei testi ufficiali. Vedremo subito i limiti di tale nozione. Si può solo premettere che tale elemento ha un preciso scopo. Serve a valutare l’atto di autonomia . E’ questa la sostanza della causa qualsiasi significato le si possa attribuire. Essa risponde sempre a una esigenza di controllo delle conseguenze che i contraenti intendono realizzare.

La storia ci ricorda spesso che l’accordo non è sufficiente a rendere vincolante il

contratto. Il nudo patto, la sola volontà delle parti non è sufficiente a creare un vincolo giuridico che abbia forza di legge e che l’ordinamento riconosca come atto idoneo a modificare la sfera giuridica altrui e il mondo circostante. La semplice volontà non basta: occorre qualcosa di più. Questo “qualcosa di più” da sempre, si individua nella causa, un elemento di giustificazione del sacrificio che subisce una parte per effetto del contratto o del sacrificio che entrambe subiscono per realizzare il programma negoziale. E questo vestimentum è diverso a seconda che ci sia un contratto gratuito o oneroso, o una promessa, o un atto unilaterale .

Nei contratti corrispettivi dove ad una prestazione corrisponde un’altra prestazione, è chiaro che la giustificazione sta nello scambio, nell’esistenza di una controprestazione che giustifica la precedente. Nei contratti gratuiti non c’è una controprestazione, ma si richiede un elemento ulteriore rispetto all’accordo. Nel comodato, per esempio, è richiesta la consegna perché è un contratto essenzialmente gratuito e come tale produce effetto non soltanto per il consenso prestato dalle parti ma attraverso una formalità che richiama e fissa la giuridicità dell’atto. Nella donazione (atto di liberalità) il vincolo nasce dal consenso e da una formalità solenne, l’atto pubblico o la consegna ( per i beni mobili). In caso di atto unilaterale gratuito, occorrerà l’elemento in più dell’affidamento creato nell’altra parte. Insomma la giustificazione si articola diversamente ed ha un significato diverso nella storia.

2.1. Significato della causa: evoluzione storica Il diritto è una scienza sociale: la regolazione giuridica non è mai neutra, ma è

anzi strettamente dipendente dalla cultura, dalle esigenze e dalle ideologie del tempo. Ciò accade in particolare per un elemento essenziale come la causa.

Per i giuristi francesi dell’800 essa ha un significato soggettivo, è lo scopo che

induce ciascuno ad assumere il vincolo. Idea recepita per lo più nel Code Napoleon e poi riprodotta nel codice civile italiano del 1865 in piena aderenza con le idee del tempo: la forza della volontà, l’individuo, sono idee dominanti che non possono non influenzare il controllo dell’atto di autonomia.

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Questa soluzione ha un forte aspetto di debolezza nella valutazione dei contratti volti al trasferimento dei beni. Ed è evidente perché. La causa riferita al momento soggettivo rende partecipe l’atto dei relativi vizi dello scopo o finalità individuale perseguita, con la conseguente nullità del contratto nel caso in cui manchi questo elemento soggettivo.

L’incidenza sulla circolazione di tale impostazione è evidente. Il trasferimento è nullo nel caso in cui manchi la causa, che è rimessa a un fattore individuale e non oggettivabile.

Tutto ciò determina l’insicurezza della circolazione, che deve essere invece tutelata e resa certa, sicchè si comincia a ripensare il ruolo e il significato della causa, e inizia nei primi anni del secolo (1900) un processo di elaborazione dogmatica (riflessione teorica) e un processo normativo (serie di norme) attraverso le quali si giunge a formulare un significato oggettivo della causa secondo i seguenti passaggi logici.

Lo spostamento di ricchezza trova causa nel negozio e non può che essere

valutato dall’ordinamento. In questa valutazione, la causa esprime la “ratio”, la giustificazione dello spostamento di ricchezza. Non è quindi il motivo, l’impulso, lo scopo: è il perché, la ragione, il titolo, il fondamento dell’atto di autonomia.

La distinzione fra causa e motivi è netta e individuata con precisione: una cosa

è la motivazione individuale, lo scopo, altro è la ragione, il fondamento, la giustificazione del trasferimento, della concessione di un prestito e così via.

Questo processo di oggettivazione produce un ulteriore conseguenza. La causa,

oltre alla giustificazione dello spostamento di ricchezza, viene identificata e serve a distinguere i vari tipi negoziali predisposti dal legislatore: ne segue che la causa giustifica lo spostamento dei beni e caratterizza i singoli tipi. La vendita, la locazione, il mutuo, che hanno appunto funzioni diverse.

Alla fine di questo percorso teorico la causa svolge due attività fondamentali: • il controllo dello spostamento di ricchezza realizzato con l’atto di

autonomia . • l’individuazione dei tipi legali. Sicchè ogni contratto disciplinato dalla legge ha una causa che esprime appunto

la giustificazione di quella produzione di effetti. Di questa nozione oggettiva si impossessa, nei primi decenni del novecento la

politica e l’ideologia del tempo e lo Stato, in un momento della sua storia, si serve di questo concetto per realizzare i suoi obbiettivi sociali.

La riflessione dogmatica sulla causa Vediamo intanto come la dottrina e la dogmatica italiana in particolare, riflette

su questo elemento. Alla nozione oggettiva di causa sono destinati studi importantissimi della prima

e seconda metà del ‘900. Emilio Betti, che maggiormente influenza la dottrina del tempo, ha un’idea precisa :

a) in ogni contratto si deve realizzare un interesse sociale oggettivo e

socialmente controllabile che ne costituisce la funzione; b)la funzione presuppone una configurazione per tipi, opera del legislatore o di

attività ripetute con continuità nella prassi sociale.

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Di questo significato si appropria il legislatore per attuare quei fini solidaristici propri dell’ideologia del tempo espressa chiaramente nella Relazione “in ogni contratto si deve realizzare un interesse sociale, oggettivo e socialmente controllato, che ne costituisce la funzione”.

Appare un termine, la funzione, che si ripete stancamente per decenni. Ma torniamo alla Relazione. “In ogni contratto si deve realizzare un interesse sociale e oggettivo”: il contratto non è più il mondo della libertà e della volontà. Siamo lontanissimi dall’800, anche se sono passati pochi decenni dalla fine del secolo. Il contratto non è più l’affermazione dell’individuo e della sua volontà sovrana: deve invece realizzare un interesse “sociale e oggettivo” , “socialmente controllato”, che ne “costituisce la funzione”.

Il contratto diventa funzione di un interesse non individuale ma sociale: deve essere allineato e conforme a un interesse sociale.

La consacrazione di tale idea si trova nell’art. 1322 2° comma “Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.”

Il motivo si comprende se si ricorda quanto accade in Italia e in Europa in quel periodo.

Il legislatore del 1942 opera all’interno di un progetto politico che ha lo scopo di realizzare una struttura corporativa all’interno della quale si perseguono gli interessi di categoria, dove l’interesse individuale è e deve essere finalizzato a un ordine comunitario che definisce, caratterizza l’assetto istituzionale.

La relazione al codice è chiarissima nello spiegare perché la causa è stata inserita come elemento essenziale del contratto, e a quale significato corrisponda quell’elemento: “nonostante gli equivoci e le critiche a cui il requisito della causa ha dato luogo … si è stimato necessario conservarlo e anzi, conferirgli massima efficienza”.È uno strumento di cui la politica si vuole servire per disciplinare i rapporti tra privati, anzi “conferirgli massima efficienza, non solo e non tanto in omaggio alla secolare tradizione del nostro diritto comune, quanto e soprattutto perché un Codice fascista ispirato alle esigenze della solidarietà, non può ignorarne la nozione senza trascurare quello che deve essere il contenuto socialmente utile del contratto”.

Dunque la causa è, in quel tempo, strumento per attuare un valore dell’ordinamento . Il contenuto “socialmente utile” del contratto che deve essere valutato attraverso la causa cui si deve attribuire massima efficienza. Nei passi successivi della Relazione ciò è espresso senza infingimenti.

“Bisogna tener fermo, contro il pregiudizio incline a identificare la causa con lo scopo pratico individuale (presa di distanza dallo Stato ottocentesco e liberale) che la causa richiesta dal diritto non è lo scopo soggettivo, qualunque esso sia, perseguito dal contraente nel caso concreto, ma la funzione economico-sociale (qui appare nella sua pienezza questa definizione) che il diritto riconosce quale garante dei suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata. Funzione pertanto che deve essere non solo conforme ai precetti di legge (ordine pubblico e buon costume) ma anche rispondente ad una finalità socialmente apprezzabile e come tale meritevole della tutela giuridica”.

E’ facile rintracciare le radici di questo preciso indirizzo ideologico. Muta il rapporto fra Stato e cittadino rispetto alla codificazione francese. Emerge lo Stato corporativo, accentratore e dirigista in economia. Lo Stato fissa le finalità da raggiungere. È tutelata la libertà di iniziativa privata, ma il suo ruolo primario è quello di strumento per il perseguimento delle finalità generali, prima che strumento

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portatore di finalità particolari. L’autonomia è uno strumento per il perseguimento della finalità generale, prima che strumento per la finalità particolare dei contraenti.

Tanto è vero che l’autonomia deve perseguire uno scopo socialmente apprezzabile, deve essere finalizzata al perseguimento di un interesse perfettamente in linea con l’interesse generale, in un ordine all’interno del quale l’atto di autonomia e il contratto sono strumenti di un tutto.

Si comprende quindi cosa significa funzione: non è affermazione della libertà, è strumento per realizzare un interesse generale e predefinito nel quale l’atto di autonomia deve inserirsi. E’ lo strumento di un controllo dell’atto per assicurarne la conformità ad un modello sociale.

Alla causa viene attribuito un ruolo di controllo per stabilire se i fini e gli interessi privati dei contraenti siano coerenti con quelli generali fissati dall’ordinamento corporativo.Nell’ambito delle corporazioni, ciascuno era inserito in una comunità. In quell’ordine comunitario, si esprimeva un interesse collettivo, con il quale doveva essere coerente l’interesse individuale e così via, in un ordine articolato con passaggi e con una chiusura molto decisa.

La causa emerge come strumento che esprime non tanto il punto di vista dei contraenti quanto quello dell’ordinamento, in un senso particolare. L’agire dei contraenti è lecito, non solo se non è contrario all’ordinamento pubblico, buon costume, norme imperative, ma anche se si faccia portatore di finalità generali fissate dall’ordinamento giuridico divenendo elemento della realizzazione di queste.

Si consolida anche in giurisprudenza una massima: “la causa è la funzione essenziale che il diritto riconosce rilevante ai suoi fini e che sola giustifica la tutela dell’autonomia privata, ha fondamento oggettivo, caratterizza i negozi giuridici e ne differenzia ciascun tipo”.

La formula ha avuto un’enorme fortuna perché serve a distinguere la causa dai motivi individuali irrilevanti e perché pone l’ esigenza di una giustificazione dello spostamento di ricchezza.

L’evoluzione politico istituzionale Questo assetto politico, istituzionale e economico cade con la caduta del regime.

Appena sei anni dopo si instaura un nuovo ordine completamente diverso. La Carta Costituzionale ridisegna i rapporti tra individuo e Stato, tra libertà e ordine sociale, tra contratto e legge, tra iniziativa economica privata e controlli.

Sarebbe ultroneo ripercorrere le tappe di questa evoluzione, basta rimarcare la profonda diversità che emerge subito dalla lettura di alcuni articoli :

• Gli art. 2 e 3 sostituiscono i diritti ,i doveri, le pari opportunità alla

conformità sociale dell’ atto di autonomia all’ordine corporativo. Il nuovo Stato si fonda su diritti e doveri inviolabili e “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali”, che hanno un ruolo importante nell’assetto istituzionale pluralistico che si basa, però sui diritti fondamentali e inviolabili dell’uomo;

• L’art 12 delle Disposizioni preliminari al codice civile, limita la analogia iuris e i principi entro l’ordine positivo dello Stato ma deve coordinarsi con l’art. 11 della Costituzione che consente limitazioni di sovranità. La norma , nata dal ripudio della guerra, guardando più alle Nazioni Unite che all’Europa, ha legittimato, fra l’altro, il giudice nazionale a disapplicare il diritto nazionale contrario al diritto

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europeo ed è stata uno strumento di riforma più intenso dell’art.138 della Carta Costituzionale.

• L’art.117 della Costituzione nel testo modificato di recente, ha confermato dopo cinquanta anni dai Trattati di Roma, un primato costituzionale dell’Ordinamento comunitario .

• L’art.111 esige un sistema che assicuri un pieno equilibrio tra il principio di eguaglianza e la protezione giurisdizionale dei diritti resa effettiva dalla distribuzione dell’onere della prova.

• le norme fondamentali sui rapporti economici (art. 41 e 42), disciplinano l’iniziativa economica privata e la proprietà. All’art. 41 si legge che : “l’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità social o in modo da recare danno alla sicurezza ,alla libertà, alla dignità umana”. Nel precetto costituzionale si parla di contrasto: non c’è l’idea di funzione. La necessaria coerenza tra l’interesse individuale e quello sociale. L’interesse individuale non deve contrastare con l’utilità sociale ma non c’è affatto una finalizzazione dell’interesse privato all’interesse sociale. L’ordine si capovolge.

Da tutto ciò emerge un nucleo precettivo espresso nel riconoscimento,

indivisibilità e tutela dei diritti fondamentali che non è finalistico, non vuole preterminare il futuro “sciegliendone uno perché ritenuto l’unico giusto” (M.Fioravanti). Questo nuovo ordine lascia al pluralismo di individuare l’indirizzo politico più adeguato ai tempi e fissa con i diritti un limite di contenuto che non può non condizionare anche la libertà di contratto e la costruzione di nuovi rimedi.

Muta dunque completamente il quadro di riferimento, muta il modo di intendere il rapporto tra Stato e individuo, tra contratto e legge. E ciò influisce sulla nozione e il ruolo della causa che la giurisprudenza e la dottrina più consapevole hanno ripensato identificandolo con una funzione non sociale ma individuale e con l’idea di una causa non astratta ma in concreto.

L’evoluzione del concetto di causa nella seconda metà del 1900 La Costituzione Repubblicana si fonda sui diritti inviolabili e le libertà. Tra le

libertà, c'è la libertà personale e quella economica, che è una libertà al pari delle altre. L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto, prima di tutto, con l'utilità sociale, la sicurezza e la dignità della persona.

In questo ordine deve essere riletta la vincolatività del contratto e il controllo del suo contenuto espresso dalla causa. La quale non è tanto la funzione del contratto. E’ l’elemento che giustifica il sacrificio di uno e/o dell’altro contraente.

La causa manca quando il negozio sia originariamente inidoneo a realizzare ciò

che è stato programmato: ad esempio acquisto di cose proprie, contratto con prestazioni corrispettive in cui faccia difetto una controprestazione, contenuto assurdo come quello di un“ contratto per la protezione astrale soddisfatto dalla consegna di un amuleto in cambio di un ingente somma di denaro.”

La giurisprudenza si è occupata anche del trasferimento di proprietà che tace sulla causa. A ben vedere una causa in astratto esiste perché il trasferimento di un immobile è una funzione lecita.

Ma la giurisprudenza è ferma nello stabilire la nullità per difetto di causa perché , si osserva, nessuna promessa è autosufficiente se non è accompagnata da un elemento che ne spiega la ragione e la giustifica. Una dichiarazione di volontà, un accordo, che persegue anche un fine lecito, non è autosufficiente. Nessuna promessa è

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autosufficiente. Nessuna dichiarazione di alienazione è autosufficiente: il nudo patto non vincola. Occorre un elemento che spieghi la ragione del vincolo e giustifichi la produzione dell'effetto. Senza di questo, la dichiarazione di volontà rasenterebbe l'arbitrio: qualsiasi effetto sarebbe possibile senza alcuna possibilità di controllo. Si arriverebbe all'assoluto ottocentesco della volontà come unico elemento dominante mentre essa vincola se esiste una ragione che la giustifichi, e che giustifichi appunto la produzione dell'effetto.

Dunque “La causa è l'elemento che giustifica il sacrificio dell'uno e dell'altro contraente. Giustificandolo, rende possibile l'effetto, e rende questo effetto irreversibile." (Sacco)

Una volta che la promessa è sorretta da una causa manifesta e lecita, l'effetto è irreversibile. Resta da precisare in che modo la causa assolva a questo controllo di liceità

2.2 La causa in concreto La giurisprudenza teorica e pratica inizia anzitutto a considerare che la

giustificazione dei negozi non deve rimanere nel limbo dell’astrattezza; a) si arriva a fondare un concetto più esteso di causa, intesa come funzione

concreta del singolo negozio, indispensabile per il raggiungimento di quello scopo concreto voluto dalle parti;

b) il giudice, quindi, nel valutare un dato contratto, al fine di stabilire la liceità, deve esaminarlo nel suo complesso, secondo la funzione concreta ad esso attribuita dalle parti;

c) Si estende dunque la funzione di controllo al confronto fra risultato vietato e risultato programmato dalle parti 1345;

Ciò significa passare da una nozione astratta e unitaria di causa a una nozione

di causa in concreto. Vediamo da vicino questo passaggio. L'idea che esista una causa unitaria e astratta, una funzione, appunto, di ogni

contratto, porta a trascurare quella realtà viva degli interessi e dei bisogni che sono regolati dal contratto. La causa della vendita è lo scambio, ma c'è una causa di scambio in ogni contratto di compravendita, e dunque dove esiste lo scambio, esiste la causa. Se ci limitassimo a ciò dovremo riconoscere che qualsiasi negozio di compravendita è lecito. Ma tale conclusione esaurisce il giudizio e il controllo in un profilo astratto del tutto insufficiente: che si venda un paio di buoi o un chilo di eroina è la stessa cosa, c'è sempre uno scambio.

D’altra parte l'idea di una causa astratta e unitaria come elemento immutabile riferito a ciascun tipo, non agevola affatto il controllo della giustificazione concreta del singolo concreto negozio. Ed ecco allora il passaggio successivo della dottrina e della giurisprudenza.

Si inizia a considerare che la funzione del negozio non deve rimanere in

un’aurea astratta. Si arriva a fondare un concetto più esteso di causa, intesa come concreta funzione del singolo negozio.

Anche nella compravendita occorre individuare quali sono gli interessi delle parti oggettivati nell'affare. Non ogni vendita è uguale a se stessa, anzi ogni vendita è diversa dall’altra, perché ogni vendita è caratterizzata da un interesse delle parti oggettivato nell'atto.Distinguendo sempre i motivi per cui si vende o scambia una

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cosa, esiste una serie di interessi oggettivati nell'affare, che caratterizzano quel particolare negozio di compravendita, ed è rispetto a quell'interesse concreto delle parti speso nel negozio, che si deve indirizzare il giudizio di controllo sulla giustificazione dell'affare.

Insomma, il giudice o l'interprete, nel valutare il contratto e per stabilirne la liceità, deve esaminarlo nel suo complesso, nella struttura complessiva e nella finalità concreta che ad esso hanno attribuito le parti.

Solo in questo modo, passando da una idea astratta di causa, di funzione, ad un controllo sulla giustificazione concreta del negozio, si riesce poi a realizzare la finalità ultima della valutazione causale, che è un'esigenza di valutazione che rende insufficiente il nudo patto e richiede la presenza di una ragione giustificatrice di quella prestazione, di quello scambio, di quella negoziazione.

Il risultato finale è quello di controllare se il risultato che si sono proposte le parti contrasta con un limite posto dall'ordinamento e la causa è un elemento di valutazione che è espresso da un giudizio in concreto sul singolo contratto.

Nella vendita, le parti hanno voluto realizzare un determinato assetto di interessi

che è funzionale ai loro interessi: la causa in concreto deve valutare questo interesse che si è realizzato attraverso la compravendita, in concreto. Il giudice non si deve fermare a valutare l'esistenza di un tipo legale, ma deve analizzare in concreto gli interessi che le parti hanno voluto realizzare con quel particolare tipo, che sia vendita o altro atto negoziale.

Molto chiara è la definizione contenuta in una recente sentenza ( Cass. 8 maggio

2006 n. 10490) “Causa del contratto è lo scopo pratico del negozio, la sintesi, cioè, degli

interessi che lo stesso è concretamente diretto a realizzare (c.d. causa in concreto) quale funzione individuale della singola e specifica negoziazione, al di là del modello astratto utilizzato. ( Nel formulare tale principio la Suprema Corte ha considerato privo di causa, e conseguentemente viziato da nullità, un contratto concernente un’attività di consulenza avente ad oggetto la valutazione di progetti industriali e di acquisizione di azienda intercorso tra una società di consulenza, che ne aveva contrattualmente assunto l’incarico,e un soggetto che la stessa attività già svolgeva in adempimento delle proprie incombenze di amministratore della medesima società conferente.)

2.5 Qualche riflessione sulla causa nel diritto privato europeo. Sempre più spesso si parla di declino della causa. Codificazioni recenti come

quella olandese non inseriscono tale elemento tra gli elementi essenziali del contratto. Nei Principi elaborati dalla Commissione Lando e nei Principi Unidroit non compare la causa. Il perché lo si enuncia chiaramente. La difficoltà e a volte l’oscurità di questo requisito, che assume nella sua evoluzione aspetti e contorni diversi.

Certo l’ eliminazione della causa non comporta l’abbandono della sua funzione. Nei progetti di uniformazione si è spostato il controllo dell’atto di autonomia da

un requisito di struttura della fattispecie al contenuto. La valutazione che la causa esercitava come requisito intrinseco della struttura negoziale, è stato affidato ad altri istituti fra le quali la buona fede. La verità è che siamo ancora in una fase di sperimentazione.

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Sarà la prassi e l’applicazione giurisprudenziale. Saranno le fonti europee che daranno una risposta sull’effettività della causa o di altri strumenti di controllo. Resta il problema di fondo che l’ atto di autonomia è conformato dalla legge e deve svolgersi secondo limiti posti dall’ordinamento. D’altra parte occorre ricordare che il nudo patto secondo la tradizione dogmatica non obbliga e che l’accordo e la circolazione di ricchezza devono essere giustificati.

In entrambi i casi la causa esprime una valutazione difficile da precisare .Come si è osservato, tale requisito reca “dietro di sé un lascito di problemi ” Per fare un minimo di chiarezza si deve rovesciare la linea di ricerca. Si deve muovere dall’effettività dei problemi e porsi una serie ragionata di domande e risposte.10

a) Sulla sufficienza dell’accordo e del nudo patto Intanto, la percezione e la disciplina della causa negli ordinamenti europei è

molto diversa da un ordinamento all'altro. Il diritto anglosassone fa riferimento alla nozione di consideration, che è

simile alla causa, ma disciplina i soli contratti onerosi. Il mondo anglosassone è legato a un'idea di bilanciamento di interessi, di sacrificio reciproco o comunque di esistenza di una giustificazione concreta della prestazione che si esegue. Se ci limitassimo a definire e a valutare il problema causale in ordine a questo tipo di rapporti (corrispettivi onerosi) ,causa e consideration finirebbero per avvicinarsi, ma la nostra nozione di causa si spinge oltre ,perché il diritto dei contratti e la disciplina degli atti di autonomia in Italia e in Francia (cioè nei paesi di derivazione francese)abbracciano non solamente rapporti di tipo oneroso ,ma anche gratuito. Di più . L’esigenza causale si estende anche ai sensi dell’articolo 1324 a coprire gli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale (quindi anche gli atti unilaterali) ed è allora difficile farla coincidere con il riferimento alla consideration .

Il diritto tedesco consente l’astrazione della causa anche se tale carenza dà luogo ad una azione di ripetizione . Esiste un negozio obbligatorio, dove le parti si impegnano a vendere o comprare, e poi un negozio traslativo, che è astratto, non è un negozio causale. Anche se poi le parti possono chiedere la restituzione del bene se difetta la giustificazione del negozio obbligatorio. La scelta è evidente. Si è voluta agevolare al massimo la circolazione dei beni. Il BGB è stato il Codice che ha avuto più cura della sicurezza e certezza dei negozi traslativi tanto è vero che la proprietà si trasferisce, in quel regime giuridico (in Germania e nei paesi Altoatesini a diritto germanico, Trento, Bolzano e Alto Adige, che sono soggetti a quella disciplina)con il consenso e la consegna se si tratta di una cosa mobile, con l'intavolazione, cioè un sistema di pubblicità nei registri immobiliari, se si tratta di una cosa immobile.

Ciò in netto contrasto con il principio con sensualistico che vige in Francia e in Italia ove è sufficiente il consenso legittimamente manifestato. La trascrizione non è elemento costitutivo del trasferimento della proprietà: è elemento che rende opponibile il trasferimento, ma esso è già operante tra le parti per effetto del consenso legittimamente manifestato. Si comprende così come in questi due ambienti si dia particolare rilievo alla causa che giustifichi l’effetto traslativo.

10 Così U. Breccia, Causa e consideration , Relazione al convegno svolto a Firenze il 30 marzo 2007 dal Titolo Remedies in contract. The common rules for a european law. Da tale testo sono tratte anche le osservazioni contenute nelle pagine seguenti.

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Nel diritto europeo in formazione, si è detto, il mero accordo è sufficiente a concludere il contratto. Ciò risulta da tutti i testi dei principi ma non dal progetto di riforma (avant-projet )del code civil francese presentato il 22 settembre 2005.

Esiste una consapevolezza che è alla base dei testi dei Principi Lando e Unidroit che la causa può essere sostituita da altri strumenti di controllo. Quali in particolare i rimedi restitutori e la valutazione del contegno delle parti. Il punto va chiarito ricorrendo ancora ad un quesito relativo alle risposte da fornire in presenza di una grave disparità di potere fra le parti.

b) disparità di potere. In presenza di uno scambio il controllo dell'operazione può essere effettuato in

base a un elemento di struttura, la causa, o in base a una norma che valuti il comportamento delle parti. Il controllo e la valutazione dell'ordinamento, attraverso la causa ha di mira l'equilibrio e la giustificazione dell'operazione. Oppure può essere effettuato tramite un controllo che assicuri la restituzione di pagamenti effettuati senza titolo e consenta di valutare con attenzione i comportamenti delle parti nella fase formativa del contratto. Con una norma sui comportamenti. E’ questa la linea seguita dal processo di uniformazione e elaborazione dei principi. Si da rilievo ad una valutazione della posizione delle parti durante la conclusione dell'affare.Se una di esse si trova in una situazione di grave difficoltà economica, o se una parte aveva una forza contrattuale assolutamente prevalente, se c'era una grande disparità tra le parti nel momento di conclusione dell'accordo, quella situazione può essere valutata e disciplinata con una norma sui comportamenti che consenta alla parte svantaggiata dalla disparità di impugnare il contratto. Si da rilievo insomma alla " gros disparity" cioè alla grave disparità di potere tra le parti e assume una grande importanza la buona fede e il controllo dei comportamenti mediante di essa.

Nei singoli ordinamenti non si ipotizza una norma generale ma piuttosto singole discipline specifiche a tutela dei consumatori, delle imprese in stato di dipendenza economica

c)sulla razionalità dello scambio e sullo scambio “assurdo, incongruo,

simbolico”. Il diritto europeo in formazione propende per non esprimere una valutazione in

proposito, ma è attento nel caso vi sia prevaricazione di un contraente alla previsione “quasi sempre presunta dei vizi del consenso” e di una nullità relativa o di una annullabilità. Per la Francia e l’Italia l’atto è mancante di causa e si rinvia in un caso alla nullità relativa nell’altro alla nullità assoluta.

d) accordo che ha una “base negoziale presupposta ma inespressa e sia accertato

il difetto totale originario” ( presupposizione). Sia nel diritto uniforme che nei diritti nazionali “ i rimedi sono delegati alla

prassi giudiziale e oscillano dalla nullità assoluta alla nullità relativa”. e) garanzie autonome o escussioni a prima richiesta. Prassi diffusissime nel mondo degli affari che comportano la separazione della

garanzia dal “sottostante fondamento giuridico” del contratto. In tali casi il problema

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della causa e della sua possibile astrazione in virtù dell’utilità di tali strumenti si è posto in ogni ordinamento. Il diritto in via di uniformazione ma anche i diritti nazionali concordano per la loro ammissibilità. Nel caso si accerti che “la causa dello spostamento patrimoniale sia illecita o manchi del tutto” si ammette l’eccezione generale di dolo e la ripetizione dell’indebito.

In conclusione Il giudizio causale è sempre più eroso nella legislazione e nella elaborazione

dottrinaria in Europa. Questa è una tendenza che occorre attentamente considerare. Per il momento, pur nella complessità del problema, è opportuno rileggere la limpida definizione di Sacco:

"La causa è l'elemento che giustifica il sacrificio dell'uno e dell'altro contraente. E’ una giustificazione dell'esistenza del vincolo, e questa giustificazione è quello che rende possibile la vincolatività e la irreversibilità". Quindi tale elemento giustificando il sacrificio delle parti, ne rende possibile l'effetto e rende tale effetto irreversibile.

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3. L’oggetto Anche la nozione di oggetto del contratto è regolata da poche norme che

elencano una serie di requisiti in ordine alla sua determinazione e determinabilità. Secondo l’art. 1346 del codice civile, l’oggetto deve essere possibile, lecito,

determinato e determinabile. Si dice che la prestazione di cosa futura può essere dedotta in contratto che una cosa non esistente può essere oggetto di una determinazione contrattuale e nell’art. 1349 c.c. si descrive la determinazione dell’oggetto che può essere deferita ad un terzo, con particolarità circa le modalità con cui avviene e della sorte del contratto in presenza di una determinazione da parte del terzo che non risponde a certe caratteristiche fissate dalla legge.

L’oggetto è un elemento di struttura , senza il quale il contratto non esiste. In presenza di un oggetto che non abbia i requisiti indicati, il contratto può essere dichiarato illecito, impossibile o indeterminato. In tutti questi casi il contratto è nullo. Non facile è la identificazione di questo requisito.

Il codice indica una serie di elementi diversi. (1346) L’oggetto deve essere possibile, lecito, determinato, determinabile e ciò fa riferimento ad una prestazione, perchè non avrebbe senso definire una res lecita o illecita, possibile o impossibile. Anche l’art. 1349 fa riferimento alla prestazione, perchè occorre che sia determinata o determinabile la prestazione.

Altre volte, il codice fa riferimento ad un bene, ad una cosa materiale anche futura. ( 1348 ).

Molte altre volte si fa riferimento non ad un bene ma un fatto. Per oggetto il codice civile intende, dunque, la prestazione ,un bene materiale,

un fatto. Elementi questi molto diversi tra loro. Le opinioni prevalenti in dottrina . Secondo taluno l’oggetto deve identificarsi con le prestazioni dedotte in

contratto ma il riferimento alla prestazione non copre tutta l’area dei contratti, lascia fuori i contratti ad effetti reali, in cui la proprietà si trasferisce per effetto del consenso legittimamente manifestato . (art. 1376) In tal caso l’oggetto del contratto richiama un trasferimento ideale della proprietà che avviene nel momento del consenso espresso nelle forme legittime. Quindi, il riferimento alla prestazione lascerebbe fuori i contratti che trasferiscono o costituiscono i diritti sulle cose.

Secondo altri l’oggetto del contratto deve essere individuato nel bene, ma anche questa nozione non è conciliabile con quella di una valutazione che va al di là della materialità di una res sicché anche questa ricostruzione non coglie per intero tutte le espressioni con cui tale elemento deve essere inteso.

Questa difficoltà di fissare l’oggetto nelle prestazioni o nel bene materiale, ha portato altri autori a identificare questo elemento con il contenuto del contratto. Oggetto e contenuto sarebbero due facce della stessa realtà che vuol indicare nella sua interezza tutto ciò che le parti hanno voluto regolare, modificare o estinguere. In tal modo il problema si semplifica senza incorrere nelle difficoltà di definizione viste prima, e si costruisce il concetto in termini più raffinati.

L’oggetto è il termine di riferimento esterno della volontà delle parti il quale non può essere né solo una prestazione né solo un bene materiale ma un’entità da definire con un espediente tipico della costruzione teorica. Si smaterializza l’elemento trasformandolo in un’idea che si identifica con la previsione volitiva delle parti ed è

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così un riferimento esterno della loro volontà da ricostruire con un meccanismo di interpretazione ed analisi della volontà. L’oggetto è il programma negoziale che le parti intendono realizzare. Che esse si sono date.

La ricostruzione è raffinata ma per niente concreta non fosse altro perché non sempre l’oggetto corrisponde al programma negoziale. Sempre più spesso non è così, perché la determinazione del contenuto non è solo rimessa alla volontà o alla rappresentazione delle parti ma influiscono sulla determinazione dell’oggetto molti altri fattori. La legge in primo luogo.

La verità è che nella ricostruzione dell’oggetto come per la causa, occorre

abbandonare una nozione unitaria ed astratta. E individuare una pluralità di sensi, di significati più vicina all’assetto degli interessi, alla sostanza dell’operazione economica. Ed è facile comprendere il perché.

Se consideriamo l’oggetto un programma negoziale, nelle contrattazioni tra privati soggette quasi per intero alla volontà delle parti (es. vendite immobiliari tra persone fisiche), la rappresentazione delle parti del programma negoziale coincide con l’oggetto. Ma se prendiamo ad esempio i contratti dei consumatori l’oggetto di questi contratti è del tutto peculiare. La legge interviene a disciplinare i contegni e la validità di questi rapporti ma prevede anche obblighi di informazione e di indicazione espressa di una serie di modalità attinenti al bene prodotto, alle sue caratteristiche, al prezzo, alla qualità del bene, elementi di identificazione del bene che contribuiscono ad individuare un contenuto minimo di contratto. Per cui, se manca quel contenuto, il contratto è invalido perché manca dell’aspetto minimo essenziale richiesto dalla legge per la sua validità. Quindi i contratti a distanza, i contratti turistici, il commercio elettronico sono tutti schemi di contratto che hanno una serie di elementi del contenuto prefissato secondo le indicazioni previste dalla legge. Questo significa che c’è un intervento sul contratto che non dipende da una previsione volitiva delle parti, che non dipende dal loro programma negoziale. Significa anche che c’è anche una necessaria determinazione dell’oggetto del contratto che esclude, per volontà della legge, la determinabilità.

Qualcosa di non molto diverso accade nei contratti d’impresa dove si è al di fuori dal rapporto tra professionista e consumatore. In queste ipotesi, quando manca un’espressa indicazione del prezzo, per esempio, la legge prevede la possibilità di determinarlo ricorrendo a fonti indicate dalla legge o di natura extracontrattuale. Nella vendita (art. 1474) ci sono una serie di elementi per determinare il corrispettivo, così come per altri contratti conclusi o con un’impresa o tra imprese (non tra professionista e consumatore) è prevista la possibilità di determinare il prezzo in base ad elementi o prefissati o indicati o esterni al contratto. Per esempio nella somministrazione (1561), nell’appalto, nella spedizione. Nell’appalto se le parti non hanno determinato la misura del prezzo, né hanno stabilito il modo di determinarla, essa è calcolata in base alle tariffe esistenti o agli usi, in mancanza, è determinata dal giudice.Tuttavia, anche per questi contratti si moltiplicano interventi normativi che fissano il contenuto di alcune prestazioni e prevedono (come nei contratti dei consumatori) un riequilibrio delle previsioni contrattuali. Esempio chiarissimo è la disciplina dei termini di pagamento. Ma non solo. Nei contratti che si inseriscono nei mercati regolati, per esempio nelle telecomunicazioni l’accesso al mezzo telematico o televisivo è regolamentato da una legge e da un’autorità garante che controlla e vigila sul mercato e che ha un potere di regolazione e di intervento sui contratti che concernono beni e servizi offerti con quel contratto.

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In definitiva la nozione di oggetto (come quella di causa) si può intendere meglio se al di là di una nozione astratta e unitaria, si fa riferimento alla modalità concreta del contenuto in relazione al singolo assetto di interessi realizzato e all’intervento normativo che su quel tipo di contratto la legge prevede.

La determinatezza o determinabilità dell’oggetto. Una vicenda giurisprudenziale L’art. 1346 dispone che l’oggetto deve essere determinato o determinabile ed è

chiara la sua ratio. Se l’oggetto non è determinato o determinabile, il vincolo è generico e contrario all’interesse delle parti. L’esigenza di determinatezza o determinabilità mira alla delimitazione preventiva ed esatta dell’impegno derivante dal vincolo.

Per meglio comprendere i problemi relativi alla determinatezza, determinabilità e all’ intervento della legge sull’oggetto del contratto è utile un richiamo alla vicenda della fideiussione.

Nel concedere finanziamenti le Banche devono esigere garanzie adeguate.

Spesso è richiesta una garanzia reale, un’ ipoteca sul bene se si tratta di un acquisto di un immobile, ma se il finanziamento è richiesto da chi vuole iniziare o potenziare un’attività economica, viene spesso richiesta una garanzia personale per un preciso motivo. Se si crea una società a responsabilità limitata o altra piccola società per cui è necessario un capitale minimo l’ istituto di credito richiede garanzie personali a soggetti che si obbligano a garantire il pagamento dei debiti e la restituzione del finanziamento concesso alla società.

Il debito principale nei confronti dell’istituto di credito è identificato ma può lievitare nel corso degli anni mediante una liquidità che la Banca fornisce a seconda dell’affidabilità e delle richieste dell’impresa.

Per regolare tale aspetto l’Associazione Bancaria Italiana (ABI) aveva predisposto un modello di fideiussione, cosiddetto omnibus, per cui il fideiussore si obbligava a garantire non solo il pagamento di una somma di denaro prefissata, ma si obbligava a garantire qualsiasi altra obbligazione che il debitore principale si trovava ad avere verso la banca in relazione ad operazioni consentite all’impresa. Quindi il fideiussore si obbligava a garantire l’obbligazione assunta e tutte le altre che il debitore avesse assunto in relazione al rapporto di finanziamento che si era instaurato. Ciò comportava in molti casi un fenomeno di estrema gravità, diffuso in Italia e in Europa. Spesso coloro che prestavano questa fideiussione indeterminata nel suo ammontare non erano consapevoli di assumere un impegno così oneroso e, soprattutto, erano consapevoli inizialmente di dover rispondere per una somma e potevano trovarsi in qualsiasi momento, nel corso del rapporto, a dover versare alla banca un importo molto maggiore se nel frattempo l’operazione fosse lievitata in base a quanto il rapporto comportava. La società debitrice era sovente di dimensioni familiare, sorretta con la fideiussione di un parente individuato in una cerchia ristretta, che si trovava a dover rispondere anche di enormi somme.

Si è discusso a lungo, nella giurisprudenza teorica e pratica, di questa fattispecie proprio in relazione all’oggetto del contratto di fideiussione perché la legge prevedeva che la l’obbligazione potesse riguardare anche debiti futuri, quindi l’importo garantito era vago. Nella giurisprudenza di merito dei Tribunali e delle Corti di appello, si erano avute sentenze di diversa valutazione del fenomeno così come in dottrina.

Secondo alcuni la fideiussione omnibus per tutti i debiti che il debitore avesse assunto con la Banca, non era carente di un oggetto determinabile, perché il debito

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del fideiussore era ricavabile in ogni momento in base al debito che aveva assunto il debitore principale nei confronti dell’istituto di credito. Quindi si escludeva la possibilità di dichiarare nullo il contratto in presenza di elementi certi e oggettivi , esterni al rapporto, ma sempre determinabili.

Altre opinioni e sentenze facevano leva sulla necessità di un controllo del contratto in ordine proprio alla effettiva consapevolezza da parte del fideiussore dell’impegno assunto. Ma non era affatto semplice giungere ad una soluzione unica e appagante.

La Corte di Cassazione si è orientata infine in un modo preciso. Si è ritenuto di non poter affermare la nullità del contratto per

l’indeterminabilità dell’oggetto perchè la disciplina della fideiussione prevede la possibilità di garantire un debito futuro e nel caso di rapporto tra debitore principale e la banca tale debito è indirettamente determinabile. Da qui l’idea di un controllo sul regolamento da effettuare diversamente. Valutando il comportamento della Banca.

Può accadere che il debito del debitore principale sia aumentato in base ad un comportamento scorretto dell’Istituto di credito che consenta in modo ingiustificato di aumentare l’esposizione del debitore principale e tale contegno si è ritenuto contrario a buona fede. Con una precisa conseguenza: l’inefficacia ,ai sensi dell’art. 1375, della pattuizione per quanto attiene a tale eccedenza nei confronti del fideiussore ( v. ora Cass. 4 marzo 2005, n. 4754)11. Il correttivo indicato dalla Corte di Cassazione è stato utile ma non è stato idoneo a risolvere in radice il fenomeno.

Sicchè è dovuta intervenire la legge modificando una norma in tema di fideiussione e rendendo, per effetto del suo intervento, maggiormente determinato l’oggetto del contratto di fideiussione, con un’aggiunta di alcune parole all’art. 1938 c.c.. La norma stabiliva che “La fideiussione può essere prestata anche per un’obbligazione condizionale o futura”. La legge del’92 ha inserito altre parole: “Nel caso di obbligazione futura deve essere indicato l’importo massimo garantito”. Se questa previsione dell’importo massimo garantito non c’è, l’oggetto non è determinabile quindi il contratto è nullo. Dunque la legge interviene sul problema di determinabilità dell’oggetto, fissando in via imperativa, la necessità che in caso di obbligazione futura, il contratto di fideiussione debba contenere un limite massimo, oltre il quale il fideiussore non debba più rispondere.

Sui requisiti dell’oggetto si segnalano le seguenti sentenze Cass. Sez un.7. 3.2005 n.4806; Cass. 27.1.2004 n1432; Cass. 24.2.2004 n.3638; Cass.24.12.2004 n.23618; Cass. sez. II, 13-09-2004, n. 18361.

La determinazione da parte del terzo Arbitraggio e perizia contrattuale

Si ha arbitraggio allorché «il contratto per relationem indica nella valutazione di un terzo, appositamente incaricato, l’elemento che renderà determinabile l’oggetto attualmente solo determinabile»12 . Le parti possono affidare all’arbitratore l’incarico di svolgere la sua valutazione in base all’equo apprezzamento oppure al mero arbitrio.

In mancanza di espressa pattuizione tra le parti il terzo deve procedere con equo apprezzamento, cioè secondo criteri obiettivi, controllabili in base alla motivazione che l’arbitratore deve esplicitare. Le parti possono anche stabilire che il terzo proceda

11 A.Tomasetti, Fideiussione per obbligazione futura:obblighi di correttezza e buona fede del creditore, in Obb.cont., 2006,1,15 ss. 12 V. Roppo, Il contratto, Giuffrè, 2001, 352

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secondo mero arbitrio. Questa scelta autorizza l’arbitratore a decidere anche con valutazioni che non seguono un percorso logico e razionale13

Per quanto concerne il regime delle impugnazioni, si distinguono le ipotesi in cui il terzo deve procedere con equo apprezzamento da quelle in cui deve decidere con mero arbitrio. Nel primo caso la determinazione può dar luogo a impugnazione qualora sia manifestamente iniqua o erronea. Nel secondo, qualora vi sia la mala fede del terzo.

Nel caso in cui venga a mancare la determinazione, questa viene fatta dal giudice se il terzo doveva procedere con equo apprezzamento. Se l’arbitratore era stato autorizzato a decidere secondo mero arbitrio le parti devono accordarsi per sostituirlo e in assenza di accordo la clausola è nulla.

Discussa è la natura giuridica dell’atto di arbitraggio. Sembra preferibile la tesi

secondo cui l’atto di arbitraggio non è un negozio ma un atto giuridico. In tal modo si spiega come l’incarico al terzo sia configurabile come mandato e che il regime di impugnazione sia diverso rispetto a quello previsto per i negozi. D’altra parte la tesi dell’atto negoziale non pare accoglibile se non altro perché il terzo non si sostituisce alle parti nella creazione del vincolo contrattuale. Sembra da escludere anche la tesi opposta che ritiene che l’atto rilevi come un mero fatto o comportamento del terzo, perché mal si concilia con la prevista possibilità di impugnare l’atto14.

La giurisprudenza dominante distingue la perizia contrattuale dall’arbitraggio.

L’autonomia della figura risiede nel fatto che il perito “non compie valutazioni discrezionali ispirate a criteri equitativi, ma si limita ad applicare norme tecniche , ad utilizzare criteri tecnico-scientifici propri della scienza, arte, tecnica o disciplina nel cui ambito si iscrive la constatazione, l'accertamento, la valutazione che è stato incaricato di compiere”. L'arbitratore, invece, nell’espletare il proprio incarico “deve procedere con equo apprezzamento[..] La determinazione della prestazione con equo apprezzamento da parte dell'arbitratore è volta ad assicurare, nel momento del completamento del contenuto del contratto, l'equilibrio mercantile tra prestazioni contrapposte, la perequazione degli interessi economici in gioco. L'equo apprezzamento (in contrapposizione al mero arbitrio) non si risolve in valutazioni discrezionali, in quanto tali insindacabili, bensì in valutazioni che sia pur scontando un certo margine di soggettività, sono ancorate a criteri obbiettivi, desumibili dal settore economico nel quale il contratto incompleto si iscrive” 15).

Si fonda, dunque, la distinzione tra perizia e arbitraggio sui criteri di valutazione

ai quali devono attenersi rispettivamente il perito e l’arbitratore. Dalla configurazione autonoma delle due figure ne discende che alle

determinazioni del perito e dell’arbitratore siano applicabili regimi di impugnabilità diversi, ovvero si esclude “nel caso di perizia contrattuale, l'esperibilità della tutela tipica prevista dall'art. 1349”, secondo il quale la determinazione dell'arbitratore può essere impugnata se manifestamente iniqua o erronea. Secondo la lettura datane dalla giurisprudenza alla determinazione dell'arbitratore-perito possono essere applicate esclusivamente “le regole generali del codice civile che determinano le cause di invalidità dei negozi giuridici. La perizia contrattuale potrà quindi essere impugnata soltanto nel caso di errore, dolo o violenza”.

13 V. Roppo, Il contratto, cit.. 14 V.Roppo, Il contratto, ult.cit. 15 Cass. 30/06/2005 n. 13954

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La dottrina dominante è molto critica nei confronti della posizione assunta dalla giurisprudenza.

Si ritiene, infatti, che non sia possibile identificare la perizia contrattuale come figura autonoma. Il carattere tecnico dell’operazione che deve essere espletata dal terzo non esclude che l’atto vada a determinare il rapporto contrattuale altrui oppure a comporre una controversia. Ne discende che in ogni caso la perizia o integra un elemento del contratto, ed allora è arbitraggio, oppure risolve una controversia, ed allora è arbitrato irritale16 . Ciò soprattutto ove si consideri le ipotesi in cui le parti abbiano stabilito in via preventiva di impegnarsi ad accettare che l’importo di un indennizzo debba essere determinato da un collegio di esperti. L’accettazione in via preventiva fa risaltare come l’atto del perito incida sul rapporto contrattuale, integrandolo17.

Sempre al fine di contrastare l’orientamento giurisprudenziale si è, altresì, osservato come sia difficile ritenere che la determinazione del terzo possa essere del tutto scevra da valutazioni discrezionali o giudizi soggettivi. Ciò soprattutto se si considera la fase in cui, dopo aver studiato la questione con la propria specifica competenza tecnica, il terzo debba applicare alla fattispecie concreta i risultati dello studio condotto. Inoltre la scelta delle parti di rimettere ad un terzo la decisione di integrare un elemento del contratto fa perdere a quest’ultima il carattere di mera dichiarazione di scienza e conseguentemente assumere quello decisionale18 .

Si dubita, pertanto, che sia possibile riconoscere alla perizia un’autentica autonomia sul piano strutturale e funzionale. Si è rilevato, infatti, come il riferimento alla natura tecnica dei criteri di valutazione adottati non sembra poter costituire un criterio sufficiente a distinguere la c.d. perizia contrattuale dall’arbitrato e dall’arbitraggio 19.

In primo luogo si osserva che il riferimento all’ equità, contenuto nell’art. 1349 c.c., non è tale da distinguere arbitratore e perito perché la determinazione equitativa dell’arbitratore si caratterizza proprio per la sua natura di relatio e per la necessità di una rispondenza della scelta operata dal terzo ai criteri di valutazione fissati dalle parti che hanno conferito preventivamente l’incarico20 . La determinazione del terzo è dunque espressione del suo equo apprezzamento, ispirato pur sempre a parametri oggettivi21 , qualora “sia vincolata a criteri tecnici di comune accezione” 22. E questa interpretazione è ritenuta la migliore perchè «vale a soddisfare meglio le esigenze delle parti e corrisponde certamente alla loro normale volontà»23

Fonti persuasive Principi Unidroit L’art. 1.1, rubricato “Libertà contrattuale”, riconosce alle parti la possibilità di

determinare liberamente il contenuto del contratto: “Le parti sono libere di concludere un contratto e di determinarne il contenuto”.

Nel caso in cui le parti abbiano lasciato intenzionalmente delle clausole in bianco l’art. 2.14 stabilisce che:

16 Bianca, Diritto Civile, 3, Il contratto, Milano, Giuffrè, 1987, 330 ss. Cfr. anche V. Roppo, Il Contratto, cit., 352-353 17 Bianca, op.ult.cit. 18 Criscuolo, in Enc. del diritto, Aggiorn., 2000, 60. 19 Gitti, La determinazione dell’oggetto, in Regolamento (a cura di G. Vettori), in Trattato del contratto (a cura di V.Roppo), Giuffrè, 2007. 20 Criscuolo, Arbitraggio e perizia contrattuale, in Enc. del diritto, Aggiorn., 2000, 70 21 Cass. 12.04.1956, n. 1082 e Cass. 2.02.1999, n. 858 22 E. Gabrielli, Il codice civile commentato. Commentario diretto da Schelesinger, Giuffrè 2001, 233 23 Scognamiglio, Dei contratti in generale, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, Bologna, 391).

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(1) Il fatto che le parti abbiano intenzionalmente lasciato la fissazione del contenuto di una determinata clausola a future negoziazioni o alla determinazione di un terzo non esclude la conclusione del contratto se le parti stesse avevano effettiva intenzione di concluderlo.

del contratto. (2) L’esistenza del contratto non è compromessa dal fatto che successivamente (a) le parti non raggiungano alcun accordo sulla clausola; o (b) il terzo non determini il contenuto della clausola, a condizione che per definire quest’ultima esista un altro metodo ragionevole

considerate tutte le circostanze, tenuto conto delle intenzioni delle parti. Il contratto illecito Il contratto è illecito quando è illecita la causa, l’oggetto, i motivi nell’ipotesi

indicata nell’art. 1345 c.c. , la condizione (art.1418 c.c.) o il risultato comunque realizzato dalle parti (1344 c.c.). Vediamo da vicino queste ipotesi.

Causa e oggetto sono illeciti se contrari a norme imperative ,ordine pubblico e buon costume e si tratta di precisare questi concetti. Spesso può non essere facile distinguere tra negozio illecito per illiceità della causa oppure dell'oggetto. Nella vendita di droga, sarà sicuramente illecito l'oggetto, il programma negoziale volto allo scambio di droga, ma sarà illecita anche la causa. Sul piano teorico, comunque, non esistono possibilità di confusione.

La causa esprime un giudizio in ordine alla finalità conseguita in concreto e al risultato raggiunto. L'oggetto riguarderà il contenuto del contratto e il programma negoziale.

Nella giurisprudenza più recente si considerano ipotesi di oggetto illecito: • Una delibera condominiale con oggetto contrario all’ordine pubblico, alla

morale o al buon costume ( Cass. 7 marzo 2005, n.4806). • Il contratto con cui si effettuano favori economici in cambio di

“disponibilità” nell’esercizio delle funzioni pubbliche (Cass. 2 ottobre 2006, ). • L’appalto per la costruzione di un immobile senza concessione edilizia in

quanto il suo oggetto è illecito per violazione della norma imperativa in materia urbanistica Cass. 21 febbraio 2007 n. 4015)

Norme imperative Si considera tale una regola concretamente posta dal legislatore che non può

essere derogata dalle parti e che pone un comando o un divieto. In particolare il divieto di conseguire con il contratto un risultato contrario agli interessi tutelati dalla norma. La quale peraltro può prevedere una conseguenza diversa dalla nullità (v.art. 1418 1° comma) . Come vedremo subito la violazione di una norma penale, amministrativa o valutaria, può dar luogo non alla nullità del contratto ma una diversa sanzione penale, amministrativa o civile.

Violazione di norme tributarie Le norme tributarie sono norme imperative, ma l’orientamento

giurisprudenziale precedente escludeva l’invalidità dell’atto contrario a norme fiscali

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sul presupposto che esistono altre sanzioni in materia e che la nullità può essere di ostacolo, in tale vicenda, alla circolazione dei beni.

La Cassazione nella sentenza n. 11351 del 2001 riassume tale indirizzo precisando che “non è sufficiente che una norma sia inderogabile perché possa essere qualificata come imperativa, essendo a tal fine necessario che essa sia di carattere proibitivo e sia posta, altresì, a tutela di interessi generali che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico”; tali caratteri non sono ravvisabili nelle norme tributarie “poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e, in linea di massima, non pongono divieti, ma assumono un dato di fatto quale indice di capacità contributiva”.

Tre sentenze successive si sono pronunziate su ipotesi in cui si verificano una

serie di cessioni poste in essere per evitare la tassazione sul dividendo che spetta all’azionista. Si tratta dei c.d. contratti di dividend washing e dividend stripping, fattispecie su cui la Cassazione si è pronunciata prima che fossero disciplinate da una norma. Siamo in presenza di un’operazione di collegamento evidentissima tra due contratti posti in essere a pochissima distanza di tempo l’uno dall’altro: si acquista l’azione quando il dividendo è stato deliberato e si rivende prima di incassarlo.

La Cassazione a sorpresa dichiara nulli questi contratti. Una prima sentenza dichiara la nullità per difetto di causa poiché la ragione

giustificatrice, si sostiene, non era lo scambio, ma solo lo scopo elusivo, il risparmio fiscale. ( Cass. 21 ottobre 2005 n. 20398 )

Un’altra sentenza ritiene che la contrattazione elusiva celi una simulazione assoluta delle parti al fine di eludere e frodare la legge. Vi è un richiamo all’art. 53 della Costituzione che ha, si osserva, una precettività immediata nel disporre che : “tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità pubblica” secondo “ criteri di progressività” ispirati a scaglioni diversi a seconda del reddito. La sentenza prende le distanze rispetto a quella del 2001 e riafferma che la norma tributaria è imperativa. ( Cass. 26 ottobre 2005 n. 20816 : Il collegio ritiene pertinente il richiamo all’art.1344 perché le norme tributarie sono norme imperative poste a tutela dell’interesse generale del concorso alle spese pubbliche e su questo dissente dalle argomentazioni della sentenza del 30 settembre 2001 n. 11351)

La terza sentenza si pone in linea con la precedente, riprendendola. In entrambe le ipotesi è centrale il riferimento alla causa: la frode alla legge colpisce una illiceità della causa che deriva non dal contratto, ma dal fatto di servirsi di un mezzo per eludere una norma imperativa. Vi è un riferimento alla causa in concreto per individuare l’assenza o l’esistenza della causa e si accerta che quel contratto è stato posto in essere con l’unica finalità dell’elusione fiscale( Cass.14 novembre 2005,n. 22932)24.

Con tale orientamento la Corte di Cassazione sembra “aver trovato nella nullità

del contratto per difetto di causa lo strumento antielusivo di portata generale di cui l’ordinamento tributario si mostrava carente”25. Non mancano però sentenze che richiamano il precedente orientamento. ( v. Cass. 28 febbraio 2007 n. 4785 : Le pattuizioni contenute in un contratto che siano dirette ad eludere ,in tutto o in parte, la normativa fiscale non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, trovando nel sistema tributario le relative sanzioni.)

24 V.G.Corasaniti, La nullità dei contratti come strumento di contrasto di operazioni di dividend washing nella recente giurisprudenza della Suprema Corte, in Obb.contr., 2006,4, p. 302 ss. 25 Così, G.Corasaniti, op. cit. p. 303.

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L’aver affermato che le norme tributarie sono norme imperative non porta, però, automaticamente alla dichiarazione di nullità. Ciò accade se si accerta che l’unico fine è l’elusione fiscale e si possono applicare gli articoli 1343 e 1344 c.c. Diverso è il caso in cui il contratto abbia una propria causa lecita e ,ad esempio, la pattuizione relativa la prezzo sia simulata per evitare una maggiore tassazione. ( Cass. 22 dicembre 2005 n. 28421 ove si afferma che qualsiasi pattuizione delle parti in ordine al prezzo è ininfluente per l’ Erario che comminerà in caso di accertamento le proprie sanzioni )26

Contratto contrario a norme penali. Non sempre la contrarietà ad una norma penale determina la nullità. Se la

norma penale vieta la realizzazione di uno scopo, la conseguenza è la nullità . Se, invece, la norma penale valuta il comportamento di una parte - es. la truffa- non deriva la nullità, ma la responsabilità civile o l’annullabilità . La dottrina penalistica distingue fra reati-contratto, ovvero contratti la cui stipulazione è reato e reati in contratto nei quali il legislatore penale incrimina le condotte poste in essere mediante violenza o frode nella fase precedente alla stipulazione del contratto”27 Nel primo caso si considera nullo il contratto nella seconda ipotesi si applica la disciplina dell’annullabilità.

Contrarietà a buona fede. Secondo taluni la violazione della regola di buona fede può determinare la

nullità del contratto (art. 1418 c.c.) o di una clausola (art. 1419 c.c.). L’argomento si basa sul seguente ragionamento: salvo che manchi una norma di legge che disponga diversamente, la violazione di una norma imperativa comporta la nullità, quale forma generale di invalidità ex art. 1418 c.c.

Preferibile è ritenere ( come si dirà più avanti) che la violazione della buona fede, di per sé, non comporta nullità del contratto, ma risarcimento dei danni, come si evince dall’art. 1338 del codice civile italiano28 e da una recente sentenza della Cassazione italiana.29. In essa si precisa che le norme di comportamento a carico di operatori del mercato possono avere natura di ordine pubblico, ma lo strumento di una loro ricezione non è la nullità virtuale. Per una ragione espressa in modo chiaro nella motivazione. L’art. 1418 1° comma “ attiene ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, che riguardano la struttura e il contenuto del contratto ( art.1418 2° comma)”. Mentre “i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale ..e la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto…; a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista del legislatore.30” Tutto ciò esclude il richiamo della nullità 31

26 C.Bruni, L’indifferenza del fisco rispetto alla pattuizione interna del prezzo, in Obb.cont., 2007, 4,p.320 ss. 27 F.D’Arcangelo, Il contratto concluso in violazione di una norma penale, in Obb.cont., 2007,6,p.533. 28 G. Vettori, Buona fede e diritto europeo dei contratti , in Eur. Dir. priv., 2002,4,p. 915. e ora in G. Vettori, Diritto dei contratti e costituzione europea, Milano, 2005, p. 166.ss.,181 ss. 29 v. V. Roppo, op. cit.,p-892 ss. 30 vedila in V. Roppo, op. cit. , p. 910 31 V. Scalisi, Invalidità e inefficacia: Modalità assiologiche della negozialità, in Riv.dir.civ., 2003, 2,p.210.

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la quale esprime sempre la necessaria “inidoneità dell’atto” alla produzione di effetti stabili e permanenti”.

Diverso è il problema della possibile inefficacia di una clausola per effetto della inesigibilità di un contegno in mala fede. In tal caso la clausola negoziale è improduttiva di effetti non in quanto tale, ma ab-extrinseco, per la violazione dell’art. 1375 c.c.. Ciò perché “avuto riguardo alle circostanze del caso concreto è contrario al dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede, prestare attuazione a quella determinata clausola”.

Ordine pubblico. Vi sono contrapposte letture del principio • Secondo taluni l’ordine pubblico è una formula descrittiva e riassuntiva dei

precetti già posti in modo autonomo dalle singole norme imperative. • Secondo un’opinione più recente e preferibile, l’ordine pubblico è una

clausola generale che consente un utilizzo giurisprudenziale del principio. Certo il suo contenuto non si può trarre dalla realtà sociale giacchè l’ordine pubblico è un criterio formale di validità del contenuto del contratto che dovrà esprimere i fondamenti etico-politici ed economici dell’ordinamento ricavati in primo luogo dalle fonti di produzione giuridica.

Occorre quindi innanzitutto attingere orientamenti dalle norme imperative , dai precetti Costituzionali e da quelle leggi ordinarie che hanno un valore decisivo in vari settori.

Particolare rilievo può avere al riguardo l’esame di normative sopranazionali fra

le quali la Carta dei diritti fondamentali su cui si è detto nel Primo capitolo al quale si rinvia anche per la casistica riportata

Buon costume. Il mutato rapporto tra morale e società assume un evidente rilievo ai nostri fini

in considerazione del carattere oggettivo che la regola morale deve avere per acquistare rilevanza per il diritto.

La giurisprudenza ripete una massima costante (Cass. 15.12.2001, n. 7523) : Le pattuizioni considerate contrarie al buon costume non sono solo quelle contrarie alla regola del pudore sociale o della decenza , ma anche quelle lesive dei principi e delle esigenze appartenenti alla coscienza morale collettiva, cui la generalità delle persone uniforma il proprio comportamento in un determinato ambiente e momento storico” Sicché, ad esempio: “ Il contratto con cui una parte assume l’impegno di procurare dietro corrispettivo un posto di lavoro..utilizzando i favori indebiti di funzionari pubblici deve considerarsi.. contrario alle esigenze etiche della collettività”

La particolare riprovazione per il negozio immorale si trae dall’art 2035 che esclude la ripetibilità di una prestazione eseguita per uno scopo che anche da parte dell’autore costituisca offesa al buon costume.

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La meritevolezza dell’interesse L’orientamento prevalente in giurisprudenza considera tale valutazione

coincidente con quella di liceità ( v. da ultimo Cass. 6 febbraio 2004 n. 2288) Il riferimento al requisito indicato nell’art. 1322 2° comma potrebbe in astratto

determinare una illiceità per una mancata coerenza del singolo contratto a fini sociali ma si è già detto che tale giudizio , presente al legislatore del 1942, non è compatibile con il nuovo assetto dei rapporti contrattuali disciplinato dal codice ,dalla costituzione e dall’ordinamento comunitario.(art. 41 ,42,117 Costituzione) . L’art.41 della Costituzione “dopo aver sancito la libertà economica privata, e quindi dell’autonomia contrattuale che ne è strumento” dispone “ che tale iniziativa non si svolga “in contrasto” con l’utilità sociale”. Se ne ricava che “ il controllo consentito in sede giurisprudenziale, alla stregua di tale norma, è meramente negativo; il contratto non deve essere socialmente dannoso, mentre non è dato verificare se esso possa considerarsi “meritevole di tutela” perché socialmente utile.”32

Motivo illecito In base all’art. 1345 “Il contratto è illecito quando le parti si sono determinate a

concluderlo esclusivamente per un motivo illecito comune a entrambe”, per cui non ogni motivo illecito rileva, ma soltanto quello che sia comune, esclusivo e determinante. Il motivo deve incidere in modo esclusivo sulla determinazione delle parti.

L’art. 1345 contiene il riferimento ad altre due norme, ovvero all’art. 788 c.c. in tema di donazione e all’art. 626 c.c. in materia di testamento.

Secondo l’art. 788 il motivo illecito rende nulla la donazione “quando risulta dall’atto ed è il solo che ha determinato il donante alla liberalità”. Analogamente l’art. 626 c.c. prevede che per rendere nulla la disposizione testamentaria il motivo debba risultare dal testamento ed essere il “solo che ha determinato il testatore a disporre”. In entrambe le ipotesi il legislatore richiede che il motivo oltre ad essere determinante della liberalità del donante e della volontà del testatore, sia espresso, ovvero che risulti anche dall’atto.

La disciplina sui motivi si presenta molto rigida e gli interpreti, interrogatisi sulle ragioni che hanno determinato questa rigidità, hanno cercato le risposte nell’esigenza di tutelare l’affidamento di controparte. Vi è diffidenza nel dare rilievo ai motivi, per la necessità di non intralciare la circolazione per motivazioni che rimangono nella sfera soggettiva.

In caso di donazione e testamento il motivo deve essere espresso. In giurisprudenza si dice che non si integra questa ipotesi soltanto nel caso in cui il motivo illecito emerga chiaramente dall’atto, ma anche quando risulti da elementi desunti da circostanze esterne comunque collegate all’atto.

In ipotesi di contratto viziato per motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c. può accadere che un contratto sia stipulato con un motivo illecito comune ed esclusivo, ma le parti abbiano interesse anche al corrispettivo, ovvero a conseguire un ulteriore vantaggio oltre alla illiceità. Quasi sempre vi è una controprestazione che una delle parti si attende, ma ciò rientra nella causa, nella giustificazione del contratto. La motivazione è qualcosa di diverso. La norma quando vuole reprimere i motivi, vuol colpire un’illiceità che va oltre la giustificazione dell’operazione e che attiene alla

32 G.Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in Riv.dir.civ.,2007, p.328.

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sfera psicologica delle parti. Sì vuol dare rilievo alla motivazione inespressa delle parti, che ha unificato le prestazioni verso quella finalità illecita.

Si deve, pertanto, distinguere la causa concreta del contratto dalla motivazione che riguarda elementi non penetrati nel regolamento contrattuale, non perseguibili con la causa ma, appunto, con l’art. 1345 c.c.

Può accadere che la motivazione si atteggi come condizione. Nella condizione

l’illiceità non attiene all’evento, ma all’intento che ha ispirato la volontà delle parti di introdurre il meccanismo condizionale. Da qui la repressione anche della condizione illecita (art. 1354)

Frode alla legge. In base all’art. 1344 c.c. “Si reputa altresì illecita la causa quando il contratto

costituisce il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”. Spesso il controllo sotteso all’art. 1344 c.c. si realizza già con la causa in

concreto ma in molti casi il solo riferimento alla causa è insufficiente come per le ipotesi di un collegamento fra più atti isolati che realizza la frode.

Un esempio è il contratto di lease-back. Un imprenditore proprietario di un

immobile ha interesse a disporre di denaro contante, per cui cede il bene ad una società di finanziamento e stipula con la stessa un successivo contratto di leasing con cui gli viene concesso in godimento lo stesso bene che aveva ceduto. In tal modo si realizza l’interesse dell’impresa alla disponibilità del capitale e l’ interesse del finanziatore ad una garanzia effettiva che si realizza con l’acquisto della proprietà. Il problema è quello di verificare se tale operazione viola il divieto del patto commissorio. A tal fine si devono individuare gli elementi di questa valutazione illecita e chiarire se la norma colpisce un intento o un risultato.

La giurisprudenza più risalente faceva riferimento all’animus. Più di recente si

pone l’accento sull’esigenza di colpire un risultato vietato. Da ultimo si analizzano i comportamenti e le circostanze concrete del singolo rapporto. L’evoluzione è significativa ed occorre soffermarsi ripercorrendo tale vicenda.

La norma che pone il divieto del patto commissorio è contenuta nell’art. 2744

c.c. che sanziona con la nullità “il patto col quale si conviene che, in mancanza del pagamento del credito nel termine fissato, la proprietà della cosa ipotecata o data in pegno passi al creditore. Il patto è nullo anche se posteriore alla costituzione dell’ipoteca o del pegno”.

Con il divieto si colpisce una pattuizione con la quale il debitore conviene che la cosa ipotecata passi in proprietà al debitore in caso di mancato pagamento. Si vuole evitare che il creditore si soddisfi con un atto di autonomia e senza che si seguano le procedure legali di soddisfazione di tutti i creditori. Dunque si deve sottrarre il debitore alla vincolatività di un patto che l’ordinamento riprova.

Esistono, però, altre norme che lasciano pensare che l’ordinamento non giudichi sempre negativamente l’alienazione in garanzia in garanzia. Vediamole.

• L’ art. 1500 c.c. sul “Patto di riscatto” prevede la possibilità per il venditore di riacquistare il bene con una dichiarazione.

• L’ art. 1548 c.c. sul “Riporto”, nella vendita di titoli disciplina “il contratto per il quale il riportato trasferisce in proprietà al riportatore titoli di

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credito di una data specie per un determinato prezzo, e il riportatore assume l’obbligo di trasferire al riportato, alla scadenza del termine stabilito, la proprietà di altrettanti titoli della stessa specie, verso rimborso del prezzo, che può essere aumentato o diminuito nella misura convenuta”.

• Nell’ art. 1851 c.c. sul Pegno irregolare si usa addirittura la parola garanzia: “Se a garanzia di uno o più crediti, sono vincolati depositi di denaro, merci o titoli che non siano stati individuati o per i quali sia stata conferita alla banca facoltà di disporre, la banca deve restituire solo la somma o la parte delle merci o dei titoli che eccedono l’ammontare dei crediti garantiti”.

C’è, dunque, un divieto generale del patto commissorio e schemi negoziali che sembrano non vietare in assoluto la finalità di garanzia ed occorre approfondire questa vicenda giurisprudenziale.

Fino agli anni ottanta si è seguita una interpretazione letterale dell’art. 1344. Si sosteneva che nella vendita con patto di riscatto si fosse al di fuori

dell’ipotesi prevista perché l’inadempimento si verifica, in tal caso, dopo l’effetto traslativo. La stessa soluzione si propone in caso di vendita sottoposta a condizione risolutiva. Secondo questa impostazione si deve verificare se il trasferimento sia collegato all’inadempimento. L’orientamento si basa sull’esistenza o meno di un elemento strutturale. Occorre esaminare se il trasferimento è collegato all’inadempimento. Non si viola il divieto quando le parti non prevedono una corrispondenza automatica tra inadempimento e il trasferimento.

La sentenza della Corte di Cassazione del 3 giugno 1983 n. 3800 supera il ragionamento imperniato sul divieto strutturale ritenendo che “più che la dichiarazione circa il momento dell’effetto traslativo della proprietà” rilevi “il comune intento delle parti di attribuire alla vendita funzione di garanzia e l’esistenza di un nesso teleologico e strumentale fra i due negozi”. Nella motivazione si osserva che le parti pongono in essere strumenti negoziali volti alla realizzazione del risultato vietato, cioè del patto commissorio e si ipotizza l’illiceità della causa “in quanto volta frodare il divieto del patto commissorio attraverso il ricorso ad un procedimento simulatorio”. In tal modo però si sovrappone la simulazione e la frode alla legge che non sempre coincidono.

Successivamente la Cassazione abbandona il riferimento alla simulazione e applica l’art. 1344 c.c. Così la sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 3 aprile 1989 n. 1611 pone in luce la ratio del divieto: la tutela legislativa interviene “in favore del debitore privato della libertà di contrattare”essendo “diretto ad impedire al creditore l’esercizio di una coazione morale sul debitore, spesso spinto alla ricerca di un mutuo da ristrettezze finanziarie, con facoltà di far proprio il bene oggetto di pegno, ipoteca o dato in anticresi, attraverso un meccanismo che gli permetta di sottrarsi alla fondamentale regola della par condicio creditorum” La Cassazione ragiona sulla carenza di causa andando a ricercare nell’alienazione se ciò che le parti hanno realizzato integri una compravendita o manchi, invece, lo scambio ed emerga che le parti hanno voluto realizzare la funzione di garanzia.

Il recente orientamento sul contratto di lease-back (Cass. 14 marzo 2006 n. 5438) formula un nuovo criterio di valutazione.

Più elementi fanno dubitare della liceità dell’operazione. L’impresa vende l’immobile alla società finanziaria, ma rimane nella disponibilità del bene perché le viene concesso in leasing. Vi è una somiglianza indubbia con l’alienazione in garanzia e c’ è la possibilità che attraverso questa operazione si possa realizzare una frode, aggirando il divieto del patto commissorio. Al pari delle precedenti forme di alienazioni in garanzia pensate in passato, la nuova formula è sottoposta ad analisi da

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parte della Cassazione, la quale stabilisce che il contratto non è in astratto illecito ma anzi espressione di una prassi negoziale che si è affermata come utile. Sicché si tratta di accertare, caso per caso, l’assenza di elementi patologici verificando se esista o meno l’intento fraudolento previsto dall’art. 1344 c.c.

La Corte di Cassazione isola gli elementi sintomatici della frode e le circostanze in base alle quali è possibile evincerla. Si deve indagare se esistano in particolare tre aspetti:

• se esiste una situazione di debito-credito tra la società finanziaria che acquista il bene e l’impresa che lo vende. In caso affermativo c’è una prima indicazione che le parti vogliono realizzare non una funzione esclusivamente di scambio, ma qualcosa di diverso, che si avvicina alla vendita con finalità di garanzia.

• Se l’ impresa venditrice si trovava in una situazione di difficoltà economica che “legittima il sospetto di una approfittamento della condizione di debolezza ”;

• Se esiste una sproporzione tra il valore del bene trasferito e il corrispettivo versato dall’acquirente, “sproporzione che se esistente conferma anch’essa il sospetto di approfittamento di una situazione di debolezza”.

La sentenza in termini chiari ed esplicativi dispone che solo attraverso una verifica in fatto di queste tre circostanza si può fondare la presunzione che il lease-back, “contratto d’impresa di per sé lecito” sia stato in concreto impiegato per eludere il divieto del patto commissorio. Altre decisioni ripetono questa motivazione che diviene così un orientamento giurisprudenziale consolidato.

Attraverso questo ragionamento si cassa la sentenza della Corte d’Appello che aveva ritenuto

nullo il contratto di specie. Il giudizio della Corte d’Appello, si osserva, non ha in modo convincente e con motivazione rigorosa accertato l’esistenza degli indicati presupposti, ma si è basato su indizi da cui non era possibile desumere la prova. Ha ritenuto rilevante il fatto che l’impresa venditrice fosse stata dichiarata fallita dopo due anni e non ha tenuto conto, invece, che al momento della conclusione del contratto l’impresa venditrice risultava una società non in stato di insolvenza e senza elementi certi che dimostrassero la sua incapacità di adempiere le proprie obbligazioni. Non si è accertata l’esistenza della difficoltà economica al momento della conclusione del contratto (primo vizio della motivazione) e non si è presa in esame (ecco un altro vizio della motivazione) l’esistenza di una sproporzione tra il valore del bene ed il corrispettivo versato, anzi era stata allegata agli atti una perizia tecnica d’ufficio che accertava che il valore di mercato del bene corrispondeva al valore corrisposto. La Cassazione annulla la sentenza della Corte di Appello e riafferma queste circostanze.

Occorre riflettere sull’evoluzione che c’è stata su questo contratto e più in

generale sui criteri per accertare l’illiceità e la frode. La valutazione non si incentra su una valutazione strutturale, ma ripercorre la

situazione concreta del fatto . L’ indagare sulla situazione economica legittima una presunzione di debolezza e di approfittamento che va oltre ciò che è scritto nell’art. 1344 c.c. La giurisprudenza di legittimità trae questi criteri dalla ratio del divieto del patto commissorio volto ad evitare che il debitore sia indotto o costretto ad accettare una vendita o un trasferimento legato strettamente all’adempimento di un debito nei confronti del creditore che diviene acquirente.

La ratio di protezione del debitore è evidente e da essa si trae la necessità di un giudizio in concreto sulle circostanze di fatto e i contegni. Elementi che possono in parte essere presunti una volta accertata la situazione di insolvenza o la presenza di fatti ( la sproporzione) che individuano la difficoltà economica del debitore al momento della stipulazione del contratto.

La Cassazione utilizza una serie di argomenti che erano impensabili qualche anno fa e la distanza dal passato è netta nel prestare nuova attenzione al contegno delle parti e alla diversità di potere secondo una tendenza costante della legislazione

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speciale. Da un confronto strutturale si passa ad una valutazione più attenta al contegno delle parti 33.

Ogni tempo ha uno schema che si afferma e che è ritenuto più efficiente. L’esame della sentenza ci fa capire che sempre più spesso l’analisi del giudice

ha di mira il controllo del potere, la ricerca di asimmetrie che la norma impone di correggere secondo un metodo che avvicina spesso i nostri Tribunali ai giudici di common law nell’ analisi di forme di scorrettezza procedurale.

Ciò avviene nel nostro caso con una continuità storica circolare. La ratio dell’art 1344 sta nel proteggere la posizione del debitore; si isola una situazione in cui c’è una debolezza di una parte, una potenziale situazione di approfittamento dell’altra e si protegge la parte con la sanzione della nullità. Che il divieto del patto commissorio non debba essere automatico e che il giudizio debba essere attento alle situazioni soggettive delle parti e alla circostanze concrete , era già stato compreso nell’antica Roma. Ove si riteneva valido il “Patto Marciano” con cui si fosse prevista la stima di un perito sul valore del bene al momento del trasferimento. Se tale valore era superiore al valore del credito vi era il sospetto di invalidità e la somma non dovuta al creditore doveva essere rimborsata al debitore. In caso contrario era esclusa la illiceità di un alienazione in garanzia.

33 Sullo stesso tema cfr. anche Cass., 2 febbraio 2006, n. 2285.

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4. La Forma L’articolo 1325 numero 4 si riferisce alla forma,quando risulta che è prescritta

dalla legge sotto pena di nullità. Se combiniamo tale regola con l’articolo 1350 si ricava che la forma è elemento essenziale quando è richiesta.

Da tale dettato normativo emergono due problemi: Qual è il significato del possibile silenzio della legge sulla forma e qual è il

trattamento dei contratti per i quali la legge non prevede alcuna forma come squisito di validità.

Un esemplificazione può essere utile. Nel mandato niente si dice sulla forma sicchè in caso di acquisto di cose

immobili è dubbio se possa essere conferito anche con una forma orale o se sia invece necessaria la forma scritta Nel contratto preliminare la norma richiede la stessa forma del definitivo (art. 1351 ) Ma se si tratta di accertare l’esistenza di un accordo che risolva tale accordo si pone ugualmente un problema di individuare la forma richiesta per la validità del contratto. Sul punto vi sono state due sentenze della Cassazione ,a distanza di poco tempo l’una dall’altra, che hanno deciso in modo totalmente diverso l’una dall’altra.

Vediamo le motivazioni. La prima sentenza, ( Cass. Sez. un.l 28 agosto 1990, n.8878.) afferma che la

risoluzione consensuale di un contratto che ha ad oggetto il trasferimento,la costituzione,l’estinzione di diritti reali,è soggetta al requisito della forma scritta ab sustantiam. E ciò vale anche quando questo contratto sia non un definitivo,ma un preliminare perché, si osserva, la ragione giustificativa dell’assoggettamento del preliminare alla forma,è da ravvisarsi nella incidenza che il preliminare ha sui diritti reali immobiliari

Una Sentenza di poco successiva ( Cass,20 maggio 1991 numero 5684.) segue tutta un altro orientamento. Si osserva che la risoluzione consensuale del contratto preliminare,avente ad oggetto il trasferimento di diritti reali immobiliari ,non richiede la forma scritta,in quanto non produce alcun effetto di natura reale,ma solo l’estinzione delle precedenti obbligazioni.

Il ragionamento si basa sui seguenti passaggi • Il contratto preliminare obbliga a concludere il definitivo e dunque la

vicenda è preordinata ad un trasferimento della res. • Nella risoluzione del contratto preliminare non si ha un effetto di natura

reale ma si estingue solo un obbligo. • Ne segue che l’atto non è soggetto alla stessa forma Perché non essendo la

forma scritta dell’accordo risolutorio imposta da una espressa disposizione di legge deve trovare normale esplicazione il principio della libertà di forma nella manifestazione della volontà e dunque , le parti possono seguire la forma che ritengono più opportuna e anche la forma orale.

Nella disciplina del mandato si ripropongono le stesse diverse argomentazioni,

contrapposte. Vi è una prima teoria che motiva la esclusione della forma solenne in base agli

effetti obbligatori del contratto e una seconda impostazione che richiede la forma

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quando l’incarico sia preordinato al realizzarsi di effetti reale su cose immobili o diritti reali immobiliari.

Il problema fondamentale che abbiamo evocato è chiaro e la risposta deve

muovere dalla precisazione del requisito formale. La forma è un mezzo attraverso il quale si manifesta il consenso, è un

comportamento, una dichiarazione, uno strumento attraverso il quale diviene manifesto all’esterno del soggetto il consenso manifestato nell’atto unilaterale o nell’accordo.

Vi possono essere, comportamenti dichiarativi o non dichiarativi. Ma nel mondo

dei concetti si è fatto riferimento ad uno stampo entro il quale si contiene la volontà.

L’articolo 1325 evoca, non la problematica della forma in generale, ma un problema specifico: quello di una forma solenne necessaria per la validità dell’atto. In questi casi il contratto deve avere una particolare modalità di espressione della volontà (un vestimentum).

Le motivazioni del ricorso al formalismo sono diverse. • L’ esigenza può derivare dalla necessità di responsabilizzare il consenso per

particolari atti. La donazione è il classico contratto dove è necessario richiamare l’attenzione del donante che si spoglia di un bene con spirito di liberalità; in questo caso la forma è davvero vestimentum del consenso, stampo necessario perché il consenso sia pienamente efficace. (art. 783) Un analoga esigenza si ha anche in alcuni negozi che hanno un particolare significato, quali ad esempio la costituzione delle società per azioni ( 2328), delle società chiamate a svolgere attività pubblicamente rilevanti , i contratti con la pubblica amministrazione.

• In certe ipotesi la forma è richiesta per la certezza dell’atto e per la sicurezza della circolazione. Tutta una serie di contratti che riguardano il trasferimento delle cose immobili devono essere fatti in una certa forma che è quella scritta,(1350) ma per essere trascritti questi atti devono avere una particolare formalità .Se un soggetto si reca nell’ufficio dei registri immobiliari con una scrittura privata, in cui le parti hanno manifestato il loro consenso,quel foglio non è ricevuto dal conservatore perché è necessaria una forma idonea ad accertare la provenienza dell’atto dal soggetto. Sarà indispensabile l’ autenticata della firma o l’atto pubblico.

• Vi può essere una particolare esigenza di socialità dell’atto. Le convenzioni matrimoniali devono essere redatte in forma pubblica perchè riguardano la scelta e le modalità del regime patrimoniale della famiglia .

• Di recente molte leggi di protezione (del consumatore, della parte più debole ,anche imprenditori di fronte ad un potere di fatto delle imprese monopolistiche od oligopolistiche che godono di una situazione predominante sul mercato) esigono la forma scritta dell’atto perché ciò consente anche molto spesso di imporre un contenuto minimo del contratto e una serie di informazioni che siano rese ad esempio dal professionista al consumatore. Qui la forma è veicolo di informazioni e di contenuti che integrano la tutela di una parte.

• C’è una forma richiesta dalla legge ai fini probatori. Si distingue così tra la forma richiesta ad substantiam richiesta per la validità dell’atto e forma ad probationem che è richiesta in particolare, non per la validità, ma per la prova dell’atto. ( es. art.1888)

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• L’art. 1352 consente poi alle parti di convenire per iscritto una determinata forma per la futura conclusione di un contratto.

Dunque vi sono esigenze diverse, che portano la legge a stabilire in

determinate ipotesi, espressamente previste, che il contratto è valido solo se rispetta e se segue quella forma.

Ma detto ciò dobbiamo ancora rispondere all’interrogativo se il problema si pone per le sole ipotesi per le quali si richiede una determinata forma cioè se il problema della forma esiste solo per i contratti per i quali è espressamente prevista normativa in tal senso.

Un’ autorevole dottrina trae dall’art. 1325 la conclusione che vi sono negozi a

struttura forte e negozi a struttura debole. Per i primi sarebbe necessaria una forma mentre per i secondi non è prevista nessuna forma.

Sul piano filosofico la considerazione ha una sua legittimità. Il consenso in tanto è in quanto vi è un atto che lo esprime. Ma questa considerazione non è esatta se valutiamo il significato giuridico della forma.L’aspetto formale dell’atto di autonomia non è disciplinato solo nell’art.1325 n. 4

Le forme solenni ( le forme per le quali la legge richiede espressamente una forma) non esauriscono il problema del formalismo degli atti in quanto un atto ha sempre una forma (non esiste un negozio, un contratto senza una forma).

• Nella conclusione del contratto in certi casi,(1327) previsti dalla volontà delle parti o dalla natura dell’affare, a fronte della proposta d’una parte, è l’inizio dell’esecuzione che chiude la sequenza negoziale e non c’è bisogno dell’accettazione. Tale attività non è né una dichiarazione né un silenzio, ma esprime la forma dell’ atto che chiude la sequenza del procedimento.

• Ci sono atti che non hanno necessità d’una manifestazione (orale,scritta o altro) ma hanno la loro espressione in atto reale un atto di esecuzione.

• La convalida di un negozio annullabile può avvenire in modo espresso ,dichiarando di sanare il vizio, oppure dando volontariamente esecuzione al negozio conoscendo il motivo di annullabilità (1444).Questa esecuzione del contratto conoscendo il motivo di invalidità è espressione d’una volontà che produce un effetto significativo come la convalida.

• L’ articolo 680 e i seguenti scandiscono diverse modalità di manifestazione della revoca del testamento che può essere appunto espressa con un nuovo testamento o con un atto ricevuto dal notaio .Ma vi è tutta una serie di indicazioni ulteriori : un testamento posteriore che non revoca in modo espresso i precedenti,annullando di questi sono le disposizioni incompatibili. La distruzione del testamento olografo e tutta una serie di atti che equivalgono a revoca: testamento olografo distrutto ,cancellato ,lacerato in tutto o in parte .La revoca appunto è manifestazione di volontà rivolta proprio alla eliminazione del testamento e può manifestarsi attraverso un’ attività di distruzione ,di lacerazione o modalità diverse che manifestano tutte un modo di espressione della volontà di eliminare il testamento.

Ne segue che le forme solenni (1351) non esauriscono il problema del formalismo degli atti. Non esistono negozi senza forma ed essa va intesa come tratto che distingue ed esprime la manifestazione nelle vicende del diritto.

Da qui un ulteriore problema del significato da attribuire al silenzio della norma

sulla forma. Esistono due posizioni diverse.

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• Secondo una prima quando una norma non contiene un’ indicazione espressa in ordine a una forma necessaria prende forza un principio che è quello della libertà per cui il contraente può utilizzare qualsiasi forma se la norma non dispone diversamente. Corollario di questa prima ricostruzione è che il principio della libertà avrebbe forza generale mentre la norma che prescrive la forma avrebbe carattere eccezionale. Ciò perché il principio si ricava dal comma 4 dell’ articolo 1325 . Essendo la forma elemento necessario solo ove richiesta, rovesciando tale formula si ricava che il principio è la libertà di forma mentre l’eccezione è la esigenza di una forma particolare.

Ne segue che quando una legge pone espressamente una forma come necessaria, quella legge è eccezionale perché fa eccezione al principio generale. Con la conseguenza che non possono essere estese analogicamente e si applicano solo nelle ipotesi previste dalla legge. Secondo questa linea di pensiero la risoluzione del contratto preliminare e il mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili sono casi in cui non esiste una disposizione sulla forma e non è possibile estendere analogicamente nessun altra norma che prevede la forma e quindi prevale un principio di libertà.

• C’è un altro modo di intendere il significato della forma che segue un

procedimento logico diverso se non opposto. Dal numero 4 dell’ art.1325 non si trae che dove non è espressamente prevista la forma non esista. Né tanto meno che l’art. 1350 sia una norma eccezionale rispetto ad un principio o regola generale Eccezionale è una norma che deroga ad un principio generale dell’ordinamento. Tale non è la norma sulla forma perché forme volontarie e forme legali sono entrambe strumentali alla realizzazione di interessi secondo una valutazione del sistema, diversa da caso a caso.

Questa seconda linea di pensiero è quella maggiormente seguita da giurisprudenza e dottrina e da risposta all’ interrogativo sul modo di comportarsi di fronte a un contratto per il quale la legge non richiede espressamente una forma

Si dovrà esaminare se quel tipo di atto, pur non avendo espressamente ricevuto un’indicazione della norma deve compiersi comunque in una certa formalità.

Nel caso del mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili si rileva, in primo luogo, che non c’è nessuna norma sulla forma. Secondariamente emerge che tale contratto produce effetti obbligatori e non produce un effetto reale ;tuttavia nell’ esame non ci si può fermare qui e dalla lettura della norma sul mandato si rileva che il mandatario può acquistare la proprietà della cosa e deve trasferirla al mandante. Se non la trasferisce l’articolo 1706 prevede la possibilità che il mandante possa comunque acquisire la proprietà della cosa, oggetto del mandato, attraverso una sentenza costitutiva e quindi c’è un procedimento che conduce attraverso quel titolo,il contratto di mandato,all’ acquisto di un bene immobile e quindi al prodursi di un effetto reale .

Diversa naturalmente è l’ ipotesi del mandato con rappresentanza perché l’art.

1392 esige che la procura sia conferita con le forme prescritte per il contratto che il rappresentante deve concludere.

La stessa ratio è alla base dell’ art. 1351: il contratto preliminare deve avere la

stessa forma del contratto definitivo perché attraverso un contratto preliminare ,anche senza un consenso espresso dall’ altra parte, si può giungere all’ acquisto del diritto reale attraverso la sentenza costitutiva e dunque il procedimento che è iniziato attraverso il contratto preliminare può terminare con l’acquisto del diritto .

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Se è così l’ interprete non può fermarsi di fronte l’ assenza della norma sulla forma solenne ,occorre invece valutare attentamente il tipo di effetto che produce l’ atto, la finalità a cui è diretto. Si dovrà poi esaminare attentamente se per quel tipo di atto e per quel tipo di effetto non si debba rispettare un formalismo che è richiesto per analoghi atti. Se si ravvisa identità di ratio e di finalità non c’è ragione di non estendere al contratto, che pur non ha un’indicazione formale ,la forma solenne.

Ed è proprio quello che avviene per il mandato senza rappresentanza ad acquistare beni immobili, dopo una serie di incertezze la giurisprudenza si è pronunciata quasi sempre per la forma scritta ragionando nel modo che si è detto. In modo analogo i giudici si sono pronunciati anche per tutti i contratti risolutivi di un precedente contratto formale. (risoluzione la revoca il recesso). (Cass. Sez un. 11 ottobre 2002 n.14524 )

In sintesi si può concludere che: • forme libere e volontarie e forme vincolate sono tutte manifestazioni

dell’esigenza di una necessaria manifestazione della volontà. • in taluni casi la legge prevede espressamente una forma per la validità del

contratto e in quel caso l’ atto senza quella forma è senz’altro nullo. • Tali norme non sono eccezionali e la loro ratio può essere estesa in via

analogica o anche in via indiretta fino a coprire ipotesi non disciplinate espressamente ma ispirate da una medesima finalità o da una stessa ragione giustificatrice.

Occorre precisare ancora i seguenti aspetti: “ Ai fini della sussistenza del requisito della forma scritta non occorre che la

volontà negoziale sia manifestata dai contraenti contestualmente e in un unico documento”. Il contratto si può ritenere perfezionato anche quando “le sottoscrizioni siano contenute in documenti diversi, anche cronologicamente distinti, qualora ..si accerti che il secondo documento è inscindibilmente collegato al primo sì da evidenziare in modo non equivoco la conclusione dell’accordo” Cass.13 febbraio 2007 n. 3088.

Nei contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam, la ricerca della comune intenzione delle parti.. deve essere compiuta con riferimento agli elementi essenziali del contratto tenendo presenti le manifestazioni di volontà contenute nel testo scritto “ mentre non è consentito valutare il comportamento complessivo delle parti anche successivo alla stipulazione del contratto, in quanto non può avere rilevanza la formazione del consenso ove non sia stata incorporata nel documento scritto” Così Cass. 22 giugno 2006 n. 14444.

“ Con riferimento ai contratti per i quali è prevista la forma scritta ad substantiam il contraente che non abbia sottoscritto l’atto può perfezionare il negozio con la produzione in giudizio del documento al fine di farne valere gli effetti contro l’altro contraente sottoscrittore, o manifestando a questi con un proprio atto scritto la volontà di avvalersi del contratto; in tal caso la domanda giudiziale o il successivo scritto assumono valore equipollente della firma mancante, semprechè, medio tempore, l’altra parte non abbia revocato il proprio assenso o non sia deceduta, con la conseguente impossibilità della formazione del consenso nella forma richiesta dalla legge nei confronti dei suoi eredi” Così Cass. 17 ottobre 2006 n. 22223.

Fonti persuasive

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Principi Unidroit Art. 1.2 Libertà di forma “Nessuna disposizione di questi Principi richiede che un contratto sia concluso

o sia provato per iscritto. Esso può essere provato con qualsiasi mezzo, inclusi i testimoni”.

La norma sancisce il principio della libertà di forma per i contratti commerciali

internazionali e anche se testualmente riferita alla sola forma scritta, si ritiene che la disposizione debba essere estesa a qualsiasi altro requisito formale (I principi Unidroit nella pratica, a cura di M. Bonell, Milano, 69)

L’art. 1.4 (Norme imperative) stabilisce però che: “Nessuna disposizione di questi principi è intesa a limitare l’applicazione delle norme imperative di origine nazionale o sovranazionale, applicabili secondo le norme del diritto internazionale privato”.

Ciò significa che le leggi nazionali o sovranazionali possono imporre requisiti di forma per il contratto o per alcune clausole di esso.

Le parti possono, comunque, subordinane la conclusione del contratto al “raggiungimento di un accordo su questioni specifiche o all’adozione di una forma determinata” (art. 2.13 la cui rubrica recita “Conclusione del contratto subordinata all’accordo su questioni specifiche o all’adozione di una forma determinata).

Infine l’art. 2.18 (Clausole sulla forma della modificazione del contratto) sancisce che se una clausola di un contratto scritto “prevede che qualsiasi modificazione o scioglimento consensuale dell’accordo debba essere fatto per iscritto non può essere modificato o sciolto in altra forma. Tuttavia, il comportamento di una parte, può precluderle di invocare tale clausola in quanto l’altra parte abbia agito facendo affidamento su tale comportamento”.

Principi di diritto europeo dei contratti Art. 2:101 Requisiti dell’accordo delle parti (1) Il contratto è concluso quando a) le parti hanno manifestato la volontà di vincolarsi giuridicamente e b) hanno raggiunto un accordo sufficiente. Non è richiesto alcun altro requisito. (2) Né la conclusione né la prova del contratto necessita della forma scritta o di

altro requisito di forma. La prova del contratto può essere data con qualsiasi mezzo, compresa la testimonianza.

Art. 2:106 Clausola di modificazione solo per iscritto (1) La clausola contenuta in un contratto redatto in forma scritta la quale

preveda che qualsiasi modifica o scioglimento del rapporto contrattuale debba essere fatto per iscritto fissa soltanto la presunzione che un accordo per modificare o sciogliere il rapporto possa essere giuridicamente vincolante solo se redatto in forma scritta.

(2) La parte che mediante proprie dichiarazioni o comportamenti abbia ingenerato nell’altra un ragionevole affidamento in senso contrario non potrà invocare tale clausola.

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4.1. Scrittura privata34 Perché un documento possa essere qualificato come scrittura privata è

necessaria la sottoscrizione, con cui si rende imputabile l’atto al soggetto da cui proviene, e a carico del quale possono prodursi effetti.In assenza di sottoscrizione, il documento non produce effetti neppure nel caso in cui non sia impugnata la provenienza dalla parte cui siano state opposte in giudizio.

Il principio della necessaria sottoscrizione della scrittura privata deve essere

letto alla luce della c.d. “crisi della sottoscrizione”. Cominciamo dalle ipotesi previste dal codice civile. Il telegramma. Il primo comma dell’art. 2705 prevede che: “Il telegramma ha

l'efficacia probatoria della scrittura privata, se l'originale consegnato all'ufficio di partenza è sottoscritto dal mittente, ovvero se è stato consegnato o fatto consegnare dal mittente medesimo, anche senza sottoscriverlo”. La norma stabilisce una equiparazione tra l’originale sottoscritto e quello che ne sia privo se proveniente dal mittente.

La disposizione ha incontrato difficoltà applicative dal momento in cui si è diffusa la prassi di dettare al telefono i telegrammi.

La soluzione offerta dalla giurisprudenza è quella di ritenere che al telegramma sia riconosciuta l’efficacia probatoria della scrittura privata se il mittente prova che l’atto è stato affidato all’ufficio incaricato di trasmetterlo «per sua opera o iniziativa»35.

Fotocopia. Se si intende avanzare pretese contro il firmatario di un documento

di cui non si possiede l’originale, la legge prevede che la fotocopia abbia la stessa efficacia dell’originale «se la loro conformità con l’originale è attestata da pubblico ufficiale competente ovvero non è espressamente disconosciuta» (art. 2719 c.c.).36

Telefax. Il telefax «costituisce un sistema di posta elettronica volto ad accelerare

il trasferimento della corrispondenza mediante la riproduzione a distanza (con l'utilizzazione di reti telefoniche e terminali facsimile) del contenuto di documenti37».

Il telefax è uno strumento di comunicazione oggi molto utilizzato nella prassi commerciale, ma non ancora diffuso alla data di entrata in vigore del codice civile.

La giurisprudenza non ha esitato a ritenere che «Alla riproduzione di un documento mediante il servizio telefax deve riconoscersi l'efficacia probatoria attribuita alle scritture private»38 e che «fra le riproduzioni meccaniche indicate, con elencazione meramente esemplificativa, dall'art. 2712 c.c., le quali formano piena prova dei fatti o delle cose rappresentati, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesimi, rientra anche la riproduzione di un atto mediante il servizio telefax».

34 Cfr.: U. Breccia, La Forma, in La Formazione a cura di C. Granelli, Trattato a cura di V. Roppo, Milano, 2006, 561 ss. 35 Cass. 03.7.1990 n. 6788, in Foro it., 1991, I, 511. 36 Cfr. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, il quale precisa che è comunque l’originale che determina la conclusione del contratto. 37 Cass. , sez. III, 24 novembre 2005, n. 24814, in Giust. civ. Mass. 2005, 11. 38 Cass. , sez. lav., 13 febbraio 1989, n. 886, in Giur. it. 1990, I,1,124.

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Firma elettronica. La prima figura di forma elettronica che è stata disciplinata

nel nostro ordinamento è stata la firma digitale, definita dal d.p.r. 513/1997, come «il risultato della procedura informatica..che consente al sottoscrittore..e al destinatario..rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico» (art. 1 lett. b).

E precisato che per documento informatico si deve intendere «la rappresentanza informatica di atti, fatti o dati giuridicamente irrilevanti» (art. 1, lett. a), l’art. 4 attribuiva al documento informatico su cui è apposta la firma digitale dell’autore «il requisito legale della forma scritta».

La firma digitale è il risultato di una procedura che si fonda sull’utilizzo di due coppie di chiavi crittografiche: una privata nota al solo soggetto che la utilizza; una pubblica risultante da pubblici registri.

Successivamente la firma digitale è stata ricompressa all’interno delle figure elettroniche “avanzate” ed attualmente denominate “qualificate” dall’art. 1, lett. r del d.lg. 82/2005.

La firma elettronica è stata definita dal d.lg. 10/2002, in assenza di qualificazioni specifiche, come insieme di dati in forma elettronica «utilizzati come metodo di autenticazione informatica», secondo dispositivi di tipo diverso che offrivano a loro volta un diverso grado di garanzia.

Il legislatore ha sancito che qualsiasi firma elettronica «soddisfa il requisito legale della forma scritta» (art. 10 t.u. 445/2000, sostituito dall’art. 6 d.lg. 10/2002).

Persone affette da cecità La sola eccezione che riguarda la sottoscrizione

concerne le persone affette da cecità per le quali la L. 18/1975 prevede che essa sia effettuata apponendo un segno di croce. Ai sensi dell’art. 3, inoltre, “Per espressa richiesta della persona affetta da cecità è ammessa ad assistere la medesima nel compimento degli atti di cui all’art. 2 o a partecipare alla loro redazione, altra persona cui egli accordi la necessaria fiducia”.

La persona che assiste il cieco e quella che partecipa alla formazione dell’atto deve, inoltre, apporre la propria sottoscrizione accanto a quella di quest’ultimo.

4.1.1. Il biancosegno. Il biancosegno «è la firma apposta non in calce ad un testo contrattuale già

scritto, ma a un foglio totalmente o parzialmente in bianco». Il contratto viene scritto o completato in un secondo momento «da persona diversa dal firmatario, per incarico di questo»39.

Se il soggetto incaricato di “riempire” il contenuto contrattuale non rispetta il criteri stabiliti per determinare il contenuto del contratto (cui ci si riferisce anche con la locuzione contra pacta), si devono distinguere varie ipotesi a seconda della fattispecie all’interno del quale può essere ricondotto il caso di specie.

Il biancosegno può essere utilizzato per realizzare un arbitraggio (si parla anche di “lodo per biancosegno”). In questa ipotesi troverà applicazione la disciplina prevista agli artt. 1349 ss.

La giurisprudenza ritiene lecito e valido l’emissione in bianco di un titolo cambiario quando vi sia un accordo per determinarne il contenuto.

39 V. Roppo, op. cit., 232.

51

Se non vengono rispettati i criteri di riempimento, una volta che ne sia data la prova da parte di chi ne è onerato, la violazione può essere opposta soltanto al portatore del titolo in mala fede, cioè di colui che è venuto a conoscenza dell’abuso .

Nei casi non codificati si deve osservare che il contratto è imputabile al firmatario che ha dato l’incarico. Il firmatario può impugnare il documento per errore ostativo, da ciò deriva l’impossibilità di impugnare il contratto quando vi sia l’affidamento di controparte. E’ cioè necessario che «l’infedeltà del testo» sia conosciuta o conoscibile da controparte. Rimane salva la possibilità di agire con un’azione di responsabilità nei confronti dell’autore del riempimento infedele40.

Diversa è l’ipotesi in cui manca un accordo preventivo per determinare i criteri di riempimento. Può accadere, ad esempio, che un foglio firmato in bianco venga sottratto da un soggetto che provvede a riempirlo. Il documento non è imputabile a chi lo sottoscrive e il rimedio adeguato è quello della querela di falso.

Giurisprudenza

Cass., sez. I, 14-11-1996, n. 10007. A norma dell’art. 14 della legge cambiaria, l’emissione di un titolo, oggettivamente cambiario,

in bianco, accompagnato da un accordo diretto a riempirne le lacune, è lecita e valida e validamente il portatore può esercitare il potere di riempimento, facendo acquisire al titolo medesimo il valore di cambiale; pertanto, la contrarietà del riempimento agli accordi non comporta la mancata acquisizione del patto di riempimento e nei soli confronti del portatore in mala fede, gravando sull’emittente l’onere di provare l’eventuale violazione dell’accordo di riempimento

Cass., 06-02-1987, n. 1209. Il c. d. lodo per biancosegno è sostanzialmente il risultato di un arbitrato irrituale, in quanto le

parti conferiscono ad uno o più soggetti il mandato di determinare il contenuto di un accordo transattivo per la composizione di una controversia, mediante un regolamento da scrivere su fogli preventivamente sottoscritti in bianco dalle parti; tale regolamento è, quindi, soggetto alle regole che disciplinano il contratto di transazione (nella specie, è stato ritenuto che legittimamente l’arbitro aveva esercitato il potere di riduzione della penale, a norma dell’art. 1384 c.c.).

4.1.2. Scrittura privata autenticata La scrittura privata «fa piena prova, fino a querela di falso della provenienza

delle dichiarazioni da chi l'ha sottoscritta» quando vi sia: • autenticazione, ovvero in presenza di un’attestazione da parte del notaio o di

altro pubblico ufficiale che la sottoscrizione è stata apposta in sua presenza (2703); • verificazione in giudizio; • riconoscimento in giudizio da parte di colui contro il quale la scrittura è

prodotta (2702); La data certa della scrittura privata serve a rendere opponibile nei confronti dei

terzi un atto che tra le parti è già valido e efficace. La certezza della data consente, infatti, di far prevalere tra più aventi causa successivi di un diritto personale di godimento sulla stessa cosa e dallo stesso dante causa «quello che ha il titolo di data certa anteriore», qualora nessuno abbia conseguito il godimento della cosa (1390, c. 2).

40 V. Roppo, op. cit., 234.

52

Inoltre in base all’art. 2914 c.c. “Non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione, sebbene anteriori al pignoramento:..3) le alienazioni di universalità di mobili che non abbiano data certa 4) le alienazioni di beni mobili di cui non sia stato trasmesso il possesso anteriormente al pignoramento, salvo che risultino da atto avente data certa”.

La certezza della data anteriore al pignoramento è altresì richiesta per l’opponibilità della riserva di proprietà (Art. 1524 c.c.).

Se la scrittura privata non è autenticata, perché si abbia data certa è necessario

che l’atto abbia determinati requisiti formali o vi siano altri fattori o eventi tali da escludere ogni dubbio sull’anteriorità della formazione del documento. L’art. 2704 c.c. prevede, pertanto, che la scrittura abbia data certa :

• dal giorno in cui la scrittura è stata registrata; • dal giorno della morte o della sopravvenuta impossibilità fisica di colui o di

uno di coloro che l'hanno sottoscritta; • dal giorno in cui il contenuto della scrittura è riprodotto in atti pubblici • dal giorno in cui si verifica un altro fatto che stabilisca in modo egualmente

certo l'anteriorità della formazione del documento. La norma prevede, inoltre, che “la data della scrittura privata che contiene

dichiarazioni unilaterali non destinate a persona determinata può essere accertata con qualsiasi mezzo di prova” e “che per l'accertamento della data nelle quietanze il giudice, tenuto conto delle circostanze, può ammettere qualsiasi mezzo di prova”.

Giurisprudenza

Cass., sez. I, 06-09-2006, n. 19136. la simulazione relativa intervenuta tra le parti originarie del contratto, avente ad oggetto il

prezzo della vendita, ..è opponibile al fallimento dell’alienante a condizione che la prova dell’accordo dissimulato risulti da scrittura avente data certa anteriore alla dichiarazione di fallimento (nella specie, la corte ha ritenuto che - siccome l’art. 2704 c.c. non contiene un’elencazione tassativa dei fatti in base ai quali la data di una scrittura privata non autenticata deve ritenersi certa rispetto ai terzi, ma lascia al giudice di merito la valutazione, caso per caso, della sussistenza di un fatto, diverso dalla registrazione, idoneo, secondo l’allegazione della parte, a dimostrare la certezza della data - sia ammissibile la prova per testi o per presunzioni tesa a dimostrare, con il collegamento tra il pagamento documentato e il contratto dissimulato, la necessaria anteriorità di questo, allorché non sia in discussione la certezza di data della scrittura rappresentativa del pagamento).

Cass. [ord.], sez. un., 05-05-2006, n. 10312. Le linee fondamentali che..caratterizzano [la scrittura privata autenticata] nell’ordinamento

italiano.. consistono..nella dichiarazione del pubblico ufficiale che il documento è stato firmato in sua presenza e nel preventivo accertamento dell’identità del sottoscrittore.

4.2. Atto pubblico Il contratto deve essere concluso con la forma dell’atto pubblico quando è

richiesto dalla legge a pena di nullità o per accordo delle parti, pur in assenza di una espressa previsione di legge.

53

Il codice civile prescrive che devono essere conclusi per atto pubblico, a pena di nullità: le convenzioni matrimoniali (art. 162, c. 1); la donazione (art. 782, c. 1).

Devono altresì, essere conclusi per atto pubblico l’atto costitutivo delle società di capitale e cooperative (artt. 2328, 2424, 2475, 2518), l’atto di fusione societaria (art. 2504 c.c.). Pur in assenza di una esplicita previsione devono farsi per atto pubblico gli atti costitutivi di alcuni enti collettivi senza scopo di lucro, quali associazioni e fondazioni (si ricorda che queste ultime si fanno per atto unilaterale e non per contratto).

Per le convenzioni matrimoniali e per la donazione, la legge notarile e il relativo regolamento (l. 89/1913 e il r.d. 1326/1914) richiedono oltre all’atto pubblico, la presenza di testimoni che assistano alla formazione dell’atto e che lo sottoscrivano.

Aldilà dei casi espressamente citati, nella prassi accade spesso che le parti si accordino per riprodurre il contratto nelle forma dell’atto pubblico per finalità che riguardano la prova o la pubblicità.

L’atto pubblico è definito dall’art. 2699 c.c. come «il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato». La redazione del documento secondo questo procedimento si chiama “rogazione”.

Le parti dichiarano la loro volontà davanti al pubblico ufficiale, il quale la raccoglie in un atto che successivamente legge alle parti, le quali, controllata la corrispondenza alle loro dichiarazioni, lo sottoscrivono insieme al pubblico ufficiale rogante. Tra gli altri pubblici ufficiali cui si riferisce la legge oltre al notaio, si ricordano i consoli, i cancellieri dei tribunali che rogano i verbali di conciliazione giudiziale41.

La pubblica fede significa che l’atto pubblico «fa piena prova fino a querela di falso»

• «della provenienza del documento dal Pubblico Ufficiale che lo ha firmato» • «delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale

attesta avvenuti in sua presenza o da lui compiuti» (art. 2700 c.c.) Ciò significa che la pubblica fede riguarda l’estrinseco dell’atto, ovvero il fatto

che le parti hanno dichiarato « ciò che l’ufficiale rogante attesta di aver sentito dichiarare», ma non l’intrinseco, cioè «la corrispondenza al vero di quanto le parti dichiarano» e la « genuinità della volontà dichiarata» 42.

L’unico possibilità di inficiare la pubblica fede dell’atto pubblico è la querela di falso, ovvero quel procedimento con cui si tende a dimostrare che il documento è falso perché il pubblico ufficiale lo ha formato contro le prescrizioni di legge (falso materiale) oppure perché ha attestato fatti o dichiarazioni non avvenuti di fronte a lui43.

Giurisprudenza

Cass., sez. II, 27-04-2006, n. 9649. L’atto pubblico redatto dal notaio fa fede fino a querela di falso relativamente alla provenienza

del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, alle dichiarazioni al medesimo rese ed agli altri fatti dal medesimo compiuti, ma tale efficacia probatoria non si estende anche ai giudizi valutativi che lo stesso abbia eventualmente svolto, tra i quali va compreso quello relativo al possesso, da parte di uno dei contraenti, della capacità di intendere e di volere.

41 V. Roppo, op. cit., 236. 42 Id.., op. cit., 238. 43 U. Breccia, La Forma, in La Formazione a cura di C. Granelli, Trattato a cura di V. Roppo, Milano, 2006.

54

Cass., sez. II, 25-05-2006, n. 12386. In tema di prove, l’atto pubblico fa fede fino a querela di falso solo relativamente alla

provenienza del documento dal pubblico ufficiale che l’ha formato, alle dichiarazioni al medesimo rese e agli altri fatti dal medesimo compiuti o che questi attesti essere avvenuti in sua presenza, come - ad esempio - nel caso in cui dal notaio sia attestata la materiale dazione del prezzo in quanto avvenuta in sua presenza; pertanto, l’efficacia privilegiata che l’art. 2700 c.c. assegna all’atto pubblico non si estende alla intrinseca veridicità delle dichiarazioni rese al pubblico ufficiale dalle parti o alla loro rispondenza alla effettiva intenzione delle parti

Cass., sez. V, 10-02-2006. Integra il delitto di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479

c.p.) la condotta del notaio che provveda ad autenticare sottoscrizioni non apposte in sua presenza relative alla dichiarazione di vendita di un veicolo.

Cass., sez. V, 07-07-2005. Integra il delitto di falso ideologico commesso dal pubblico ufficiale in atto pubblico (art. 479

c.p.) la condotta del notaio che proceda ad autenticare in calce ad una procura speciale sottoscrizioni non apposte in sua presenza, in quanto detta attestazione - riconducendo tali sottoscrizioni ai rispettivi autori apparenti - comprova l’esistenza di un fatto in realtà inesistente, vulnerando la funzione autenticativa e certificativa propria del notaio e ledendo il bene giuridico della pubblica fede e dell’affidamento dei terzi; né, al riguardo, rileva il fatto che si tratti di atto nullo, considerato che solo l’inesistenza giuridica, e non la mera nullità del documento, fa venire meno la tutela penale nel caso di falso documentale.

Cass., sez. I, 05-06-2006, n. 13190. La querela di falso proposta in via principale dà luogo ad un giudizio autonomo volto ad

accertare la falsità materiale di un atto pubblico o di una scrittura privata autenticata o riconosciuta, ovvero la divergenza, in un atto pubblico, fra la dichiarazione e gli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati da lui compiuti e quanto effettivamente avvenuto, al fine di paralizzarne l’efficacia probatoria; all’esito di siffatto giudizio, l’eventuale accertamento della falsità spiega i suoi effetti erga omnes, e, quindi, oltre il limite del giudicato, senza, peraltro, che da tali effetti risulti esclusa la possibilità che al relativo giudizio partecipino tutti coloro che da esso potrebbero subire qualche effetto; in considerazione delle richiamate peculiarità, il giudizio introdotto con la querela di falso in via principale non tollera la proposizione di altre domande, nemmeno se dipendenti, nell’esito, dalla prima, e nemmeno se risarcitorie, per la cui definizione, del resto, non sarebbe sufficiente l’affermazione della falsità del documento, essendo pur sempre necessaria una ulteriore indagine, volta ad individuare i soggetti tenuti al risarcimento e ad accertare la sussistenza del dolo o della colpa.

Fonti persuasive

Principi Unidroit Art. 1.2 Libertà di forma “Nessuna disposizione di questi Principi richiede che un contratto sia concluso

o sia provato per iscritto. Esso può essere provato con qualsiasi mezzo, inclusi i testimoni”.

La norma sancisce il principio della libertà di forma per i contratti commerciali internazionali e anche se testualmente riferita alla sola forma scritta, si ritiene che la disposizione debba essere estesa a qualsiasi altro requisito formale (I principi Unidroit nella pratica, a cura di M. Bonell, pratica, Milano, 69)

L’art. 1.4 (Norme imperative) stabilisce però che: “Nessuna disposizione di questi principi è intesa a limitare l’applicazione delle norme imperative di origine nazionale o sovranazionale, applicabili secondo le norme del diritto internazionale privato”.

Ciò significa che le leggi nazionali o sovranazionali possono imporre requisiti di forma per il contratto o per alcune clausole di esso.

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Le parti possono, comunque, subordinane la conclusione del contratto al “raggiungimento di un accordo su questioni specifiche o all’adozione di una forma determinata” (art. 2.13 la cui rubrica recita “Conclusione del contratto subordinata all’accordo su questioni specifiche o all’adozione di una forma determinata).

Infine l’art. 2.18 (Clausole sulla forma della modificazione del contratto) sancisce che se una clausola di un contratto scritto “prevede che qualsiasi modificazione o scioglimento consensuale dell’accordo debba essere fatto per iscritto non può essere modificato o sciolto in altra forma. Tuttavia, il comportamento di una parte, può precluderle di invocare tale clausola in quanto l’altra parte abbia agito facendo affidamento su tale comportamento”.

Principi di diritto europeo dei contratti Art. 2:101 Requisiti dell’accordo delle parti (1) Il contratto è concluso quando a) le parti hanno manifestato la volontà di vincolarsi giuridicamente e b) hanno raggiunto un accordo sufficiente. Non è richiesto alcun altro requisito. (2) Né la conclusione né la prova del contratto necessita della forma scritta o di

altro requisito di forma. La prova del contratto può essere data con qualsiasi mezzo, compresa la testimonianza.

Art. 2:106 Clausola di modificazione solo per iscritto (1) La clausola contenuta in un contratto redatto in forma scritta la quale

preveda che qualsiasi modifica o scioglimento del rapporto contrattuale debba essere fatto per iscritto fissa soltanto la presunzione che un accordo per modificare o sciogliere il rapporto possa essere giuridicamente vincolante solo se redatto in forma scritta.

(2) La parte che mediante proprie dichiarazioni o comportamenti abbia ingenerato nell’altra un ragionevole affidamento in senso contrario non potrà invocare tale clausola.

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5. La buona fede nella formazione e nella esecuzione del contratto. Gli articoli 1337 e 1375 contengono una regola fondamentale volta a

disciplinare la fase di conclusione e di esecuzione del contratto. Per comprenderne il significato e per precisare il suo attuale ruolo occorre distinguere vari fasi di approfondimento. Si dovrà in particolare: precisare il contenuto della regola e la sua evoluzione ,delimitare il suo ruolo nella fase di conclusione e formazione del contratto , precisare i rapporti con le norme di validità , chiarire la natura della responsabilità pre-contrattuale.

Sino agli anni ottanta del secolo scorso la giurisprudenza italiana aveva assunto

uno posizione assai restrittiva. La buona fede era considerata fonte di responsabilità solo in presenza della violazione di un diritto altrui, riconosciuto in base ad altre norme. Con ciò si negava l’autonomia precettiva della regola che rappresenta invece uno delle fondamentali novità del nuovo codice.

Le sentenze degli ultimi venti anni hanno assunto piena consapevolezza del valore di clausola generale che crea diritti e obblighi per le parti del contratto già nella fase delle trattative e della formazione. Utile è dunque un richiamo a queste nuove acquisizioni sul piano interno e comunitario.

La buona fede nel sistema italiano Occorre fare un minimo di chiarezza sul contenuto della regola e sulle

conseguenze della sua violazione. E’ noto che sono diversi i modi di precisare il contenuto della buona fede. Per alcuni essa può integrare il regolamento solo in modo rispettoso della

volontà espressa nel testo44, salvo che la legge individui una diversa funzione. Per altri la clausola generale filtra e realizza determinati fini dell’ordinamento45, per altri ancora essa ha funzione di riequilibrio delle posizioni delle parti e una funzione re-distributiva46 .

Sono due in sintesi le posizioni. Da un lato il dovere di correttezza si reputa un limite interno ai diritti e

obblighi delle parti con funzione auto-integrativa del regolamento privato. Dall’altro è considerata una valutazione esterna all’atto in funzione di controllo e di etero-integrazione47.

44 C. Castronovo, Un contratto per l’Europa, in Principi di diritto europeo dei contratti, a cura di C. Castronovo, Milano, 2001,p. XXXV ss. e per una sintesi della varie posizioni G. Vettori, Diritto dei contratti e costituzione europea, Milano, 2005, p.157 ss. 45 A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, in Europa dir.priv. 2005,p.341 ss. 46 A. Somma, Buona fede contrattuale e gestione del conflitto sociale, in Buona fede e giustizia contrattuale,Torino, 2005, p. 75 ss. 47 Critico su entrambi gli orientamenti S. Mazzamuto, Equivoci e concettualismi nel diritto europeo dei contratti: il dibattito sulla vendita dei beni di consumo, in Europa e dir. priv, 2004, p.1037 e per diverse posizioni sul tema H. Collins, La giustizia contrattuale in Europa, in Riv. crit. dir. priv., 2003,

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La verità è che si ha difficoltà a “ conciliare la buona fede con il modello tradizionale della fattispecie e dei suoi effetti”. Ciò perché essa amplia gli obblighi delle parti e non si colloca fra gli effetti, ma attiene all’atto ed è espressione di un “ordine rimediale che si sovrappone al programma contrattuale”48. In questa dimensione operativa lo stesso dubbio, se il ruolo della clausola sia interno all’atto di autonomia o ad esso estraneo, si attenua nella considerazione che la “ finalità privata dell’atto non può che uniformarsi ad una doverosità di contegni che la buona fede da sempre esprime”49.

L’evoluzione della giurisprudenza italiana . Già nel 199450, la Corte di Cassazione considera la clausola come “ un limite

interno di ogni situazione soggettiva” che “ concorre alla relativa conformazione” “per modo che l’ossequio alla legalità formale non si traduca in sacrificio della giustizia sostanziale e non risulti disatteso quel dovere (inderogabile) di solidarietà, oramai costituzionalizzato”. Dovere che applicato “ai contratti ne determina, integrandolo, il contenuto e gli effetti (art. 1374 c.c.) e deve ad un tempo orientarne l’interpretazione (1366 c.c.) e l’esecuzione (1375 c.c.c)”. Tali enunciati sono poi ripresi e sviluppati nelle sentenze in tema di riducibilità d’ufficio della penale ove si dà atto del pieno riconoscimento della costituzionalizzazione dei rapporti di diritto privato per effetto dell’art. 2 della Carta Costituzionale e della regola di buona fede da cui l’ assetto pattizio non può ritenersi svincolato51.

Il collegamento fra buona fede e normativa costituzionale è chiaramente delineato da tali sentenze ( v. anche Cass .13 gennaio 1993 n.343) dalle quali si evince che :

a) la regola ha immediata valenza anche in forza della previsione dell’obbligo di

solidarietà contenuto nell’art.2 della costituzione italiana. Sicchè “ buona fede e correttezza consentono al giudice di operare, nel caso concreto, l’indispensabile collegamento delle disposizioni particolari di legge con i fondamenti e le direttive etico-sociali di tutto l’ordinamento.

b) il principio di solidarietà non è un obbligo morale ma “ la base sulla quale devono fondarsi le soluzioni di tutti quei conflitti in cui si debba decidere a chi accollare le conseguenze negative di un comportamento dannoso”. “In assenza di una norma espressa che valuti tale contegno il danno resterebbe a carico di chi lo subisce. La buona fede e il principio di solidarietà consentono di imputare il danno a chi non ha osservato la regola di correttezza, in presenza di un nesso di causalità”.

Sulla discrezionalità del giudice. L’evoluzione degli ultimi decenni provoca una svolta netta rispetto al passato.

Si abbandona l’idea che l’ordine giuridico debba solo assicurare un controllo

p. 659 ss.; G. Vettori, Giustizia e rimedi nel diritto europeo dei contratti, in Europa dir. priv.,2006, p.62 ss. 48 A. Di Majo, Il linguaggio dei rimedi, op. cit. p.354. 49 C. Scognamiglio, L’integrazione, in I contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, Trattato dei Contratti,dir. da P. Rescigno,Torino, 1999, p. 1020 ss. 50 Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in Foro it. 1995, p.1296 51 Cass. 24 settembre 1999, n.10511, in Foro it. On-line;Cass. sez. un.23 giugno-13 settembre 2005 n. 18128, in Guida al Diritto, 2005,38, p.34 ss.

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procedurale sulla formazione del consenso (solus consensus obligat) e muta il rapporto contratto-legge-giudice52.

Il corollario del precedente assetto era chiaro: la volontà (integra) ha un effetto

normativo limitato soltanto dalla legge. Solo ragioni di ordine pubblico (e quindi politiche) possono esigere correzioni materiali dell’accordo, mentre il giudice può accertare l’invalidità del contratto e valutare i comportamenti delle parti. Ciò perché l’assetto voluto può essere contraddetto solo da un’esigenza di giustizia sociale individuata e mediata in via esclusiva dalla legge che interviene per contrapporla al contratto53.

Caduta la fiducia nell’intervento diretto dello Stato e acquisita la consapevolezza, nelle teorie della giustizia, di una maggiore attenzione ai diritti individuali rispetto all’utilità collettiva, mutano oggetto e soggetto del controllo. Le valutazioni sul contenuto del contratto sono affidate non solo e non tanto ad elementi strutturali come la volontà e la causa, quanto anche ad un controllo di razionalità tramite buona fede attuato dal giudice 54.

Sui tratti di questa tendenza il giudizio può essere diverso. Si può intravedere nella precedente superiorità della legge un rigoroso rispetto

della separazione dei poteri legislativo e giudiziario e un argine ai poteri che si formano spontaneamente sul mercato, e si può individuare nella discrezionalità affidata al giudice un cedimento ad una logica individuale priva di un controllo effettivo sui grandi affari che sfuggono ad ogni valutazione offerta dal diritto dei contratti55, oppure, più realisticamente, si può cogliere le ragioni del nuovo in fatti e mutamenti stratificati nel tempo. La crisi della sovranità popolare e dello Stato di fronte ai processi di mondializzazione e di uniformazione di regole e il diverso ruolo e funzione della legge rispetto al mercato esigono mutamenti profondi nel modo e negli strumenti per garantire un tendenziale equilibrio nel contratto56.

In tale contesto il richiamo della buona fede e della correttezza ha una funzione di integrazione del giudizio sui contegni dei privati secondo una razionalità che non si è potuta realizzare nel momento formativo e che può essere assicurato proprio da una clausola generale in grado di tener conto dell’assetto complessivo e di tutte le circostanze dell’affare57 .

L’ampliamento dei poteri del giudice è anch’esso un esito logico del mutato assetto normativo. Prende atto dell’insufficienza della legge ed è una scelta necessitata considerando i due corni dell’alternativa. Lasciare alla norma il compito di colmare ogni lacuna nell’assetto privato58 o consentire al giudice di “integrarlo nella maniera che ritiene più conforme e più rispettosa. dell’interesse delle parti” e al dovere di correttezza che grava su di esse. Come si è osservato i timori di un aumento della sua discrezionalità è in gran parte infondato se si tiene conto che il giudizio secondo buona fede e la valutazione giusto-ingiusto non crea preoccupanti novità

52 (119) v. ancora l’art. 5 del D.P.R. 19 settembre 1987 n . 318, cit.; v. M. Barcellona, La buona fede e il controllo giudiziale dei contratti, Relazione al convegno “Il controllo e le tutele”, Roma 31 maggio 2001 p. 2 ss. (del dattiloscritto) 53 v. M. Barcellona, op. ult. cit. p. 7 (del dattiloscritto 54 v. Breccia, Morte e resurrezione della causa: rimedi, op. cit. p. 5 segg. 55 M. Barcellona, op. ult. cit. 56 M. Barcellona, op. ult. cit. 57 M. Barcellona, op. ult. cit. 58 Illuminanti le pagine di P: Grossi, Mitologie giuridiche della modernità, Milano 2001, in part. p. 25 ss., 85 segg

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rispetto “al libero convincimento che al giudice gli ordinamenti moderni riconoscono in generale sul terreno della qualificazione vero-non vero relativamente ai fatti” 59.

Un problema può essere la propensione di chi giudica a formulare convincimenti personali e non criteri di valutazione basati su di una razionalità obiettiva che la clausola ha la funzione di richiamare, ma ciò può essere esorcizzato sia con orientamenti precisi del legislatore e della dottrina sia da un recente indirizzo giurisprudenziale della Cassazione italiana. La quale ha precisato le modalità con cui deve avvenire il giudizio che attua una norma elastica, un concetto indeterminato o una clausola generale, e ha precisato che tale decisione non appartiene alla valutazione del fatto incensurabile in sede di legittimità ma rappresenta anzi una decisione di diritto, soggetta ad impugnazione ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c.60.

La Corte ritiene che, in tali casi: a) “il giudice di merito compie un’attività di interpretazione giuridica e non

meramente fattuale della norma.. in quanto dà concretezza a quella parte mobile (elastica)della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico sociale, non diversamente da quando un determinato comportamento viene giudicato conforme o meno a buona fede allorché la legge richieda tale elemento”;

b) tale “giudizio valutativo- e quindi di integrazione giuridica-del giudice di merito deve.. conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di standard valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente…”

c) “la valutazione di conformità …..dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida”61.

In tal modo, come si è osservato , la Cassazione ha ritenuto sindacabile

attraverso un controllo di legittimità l’attività del giudice che applica una clausola generale “ ritenendo tale giudizio di diritto e non di fatto” e dunque sottoposto alla verifica da parte della Cassazione sulla modalità con cui si riempie di contenuti il dovere di correttezza62. Il che costituisce limite preciso ad ogni decisione arbitraria e orientamento sicuro per l’interprete63.

Sui contenuti della discrezionalità Al di là del solo generico riferimento alla Costituzione che può rischiare di non

fornire sempre un criterio di giudizio preciso è utile cogliere le correlazioni con le norme che attribuiscono rilevanza nuova a circostanze soggettive.

• il codice civile durante la fase della formazione dell’accordo reprime il

dolo, la violenza, l’errore. Nelle leggi speciali si impongono ai contraenti obblighi specifici di informare, di non abusare del proprio

59 C. Castronovo, op. cit. p. 22 60 C. Castronovo, op. cit. p. 22 61 Tali osservazioni sono tratte testualmente da E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione sulle norme elastiche e giusta causa di licenziamento, op. cit. p.5 (dell’estratto 62 E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione ,op.ult. cit. 63 E. Fabiani, Sindacato della Corte di cassazione ,op.ult. cit.

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potere da cui si deve trarre indicazioni nel concretizzare il contenuto della regola.

• ancora il codice protegge l’incapace naturale ( 428), l’insano di mente (414) il prodigo, chi fa uso di sostanze alcoliche o di stupefacenti (415), ma di recente si è introdotta una nuova disciplina che detta Misure di protezione delle persone prive in tutto o in parte di autonomia (Titolo XII capo I art. 404 ss. ) Ciò da rilievo giuridico ad una serie di circostanze soggettive che arricchiscono i criteri di formulazione di un giudizio di correttezza o scorrettezza di chi contrae con tali soggetti.

• A ciò deve aggiungersi un valore precettivo ulteriore nelle leggi di settore che fissano limiti alla discrezionalità di un contraente in funzione di tutele differenziate .64

La buona fede del diritto comunitario. La regola di buona fede ha un ruolo preminente nei Principi di diritto europeo

dei contratti tanto da costituirne il vero esprit collectif65 capace di fissare tratti di comunanza e di dialogo fra tradizioni culturali molto diverse. Il diritto continentale che da sempre crede e utilizza la clausola generale66 ed il mondo della common law che vede in essa, spesso, un “vago concetto” che può rendere le decisioni giurisprudenziali imprevedibili e di disturbare, perciò, le transazioni commerciali bisognose di certezze e di prevedibilità67.

La buona fede nei Principi Lando L’affermazione che le parti sono libere di stipulare contratti e di determinarne il contenuto nel

rispetto della buona fede può essere interpretata seguendo la logica interna dei Principi o nel contesto più ampio delle Direttive e della giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Nella prima prospettiva l’art. 1:102 va letto in connessione con la sua definizione di obbligo generale che grava sulle parti (art. 1:201) e con altre disposizioni particolari previste in ogni fase di formazione, adempimento e attuazione del contratto o di esercizio di un diritto, ove il dovere di agire correttamente implica una pluralità di situazioni doverose.

In alcuni casi si impone di “non svolgere trattative contrattuali in mancanza di una reale volontà di raggiungere un accordo” (art. 2:301), di non “rivelare informazioni confidenziali fornite dall’altra parte” (2:302), di non trarre “vantaggio iniquo dalla dipendenza, dalle difficoltà economiche o altra debolezza dell’altra parte” (4:109). In altri si prevede che il dovere di correttezza fa “emergere clausole

64 H. Collins, La giustizia contrattuale in Europa, op. cit. p. 659 ss; G. Vettori, Giustizia e rimedi nel diritti europeo dei contratti, op. cit., p. 53 ss:ID. Libertà di contratto e disparità di potere, in Riv. dir.priv., 2006, p.750 ss. 65 O. Lando, Lo spirito dei Principi del diritto contrattuale europeo, in Il codice civile europeo, Materiali dei seminari 1999-2000, raccolti da G. Alpa e E. M. Buccico, Milano, 2001, p. 41. 66 C. Castronovo, Un contratto per l’Europa, in Principi di diritto europeo dei contratti, Edizione italiana a cura di C. Castronovo, Milano, 2001, p. XXX ss.; v. altresì l’ampia nota di commento all’art. 1:201, in Principi di diritto europeo dei contratti, op. cit., p. 119 ss., ove si descrivono due modelli diversi: la Germania che ha riconosciuto da tempo un obbligo generale di rispetto della buona fede e l’Inghilterra ove manca una tale previsione generale. Fra i due estremi gli altri ordinamenti “oscillano tra questi due opposti. Riconoscono la buona fede e la correttezza come un principio generale, ma tali principi non hanno attinto il medesimo livello di penetrazione nella disciplina del contratto” (p. 119). V. da ultimo L. Antoniolli Deflorian, L’interazione del diritto inglese con il diritto comunitario: l’esempio della Direttiva sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori ed il principio di buona fede, in Riv. dir. civ., 2002, I, p.452 ss. 67 Goode, The concept of “Good Faith” in English Law, Roma, 1992; id. Commercial Law, 2a ed., 1997; Treital, The Law of contract, 9a ed., 1995.

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tacite dal contratto” (6:102). Crea per una parte il diritto a “correggere una prestazione inesatta”(8:104). Esige altri tipi di prestazioni non tipizzate (9:102)68.

La regola ,dunque, consente di valutare contegni ma anche di “rimediare alla incompletezza” del contratto (v. 6:111, ma anche 2.17, 3.10, 4.8, 6.2.3 del testo predisposto dall’Unidroit) con una funzione integrativa del contenuto, riconosciuta in modo diverso nei vari ordinamenti nazionali69 e accolta nei Principi con una disposizione che consente al giudice, in presenza di un’eccessiva onerosità della prestazione sopravvenuta e imprevedibile, di sciogliere il contratto o di modificarlo “in maniera giusta ed equa” e di condannare al risarcimento dei danni se una parte ha rifiutato di “intavolare trattative” o le ha iniziate “in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza” (6:111, 3 a), b))70.

Interpretando assieme queste “disposizioni generali” si è osservato che la buona fede, nel testo dei Principi, non ha una funzione eteronoma ma di autointegrazione del regolamento e dell’equilibrio suo proprio posta in luce dal fatto che la clausola “coopera con la volontà delle parti per fare emergere l’assetto che avrebbero scelto se vi avessero potuto provvedere da sé”71. Una finalità che consente di “rimodellare il contratto” di fronte a situazioni non previste o in ipotesi di squilibrio (4:105, 6:111). Un modo di operare che non filtra tanto i valori dell’ordinamento ma espande la logica “impressa dalle parti al loro atto e la proietta su ciò che il contratto non risulta aver regolato”72, con un’operatività diversa dal criterio di ragionevolezza73.

Tutto ciò in una prospettiva che non si appiattisce sul modello europeo-continentale al fine di agevolare un raffronto con l’ambiente di common-law, ostile ad uno strumento che consente al giudice di sovrapporsi alla volontà delle parti74.

La buona fede nel diritto comunitario (l’acquis ) Se ci spostiamo dal testo dei Principi al contesto in cui sono destinati ad operare emergono dal

corpus delle Direttive alcuni elementi significativi su cui è opportuno soffermarsi. Il confronto va eseguito con estrema cautela perché si tratta di provvedimenti eterogenei dove

non è mai disciplinato il contratto in generale, formulati con ambiguità terminologiche, attuati in modo diverso nei vari ordinamenti nazionali75. Sicché da essi non è possibile costruire una disciplina unitaria ma, casomai, una serie di orientamenti coerenti con i principi comunitari.

68 Utilissime, ancora, le limpide note di commento ai singoli articoli in Principi di diritto europeo dei contratti, cit.; e la ricca sintesi di C. Castronovo, ivi, p. XIII ss. 69 V. sul punto in Italia F. Macario, Adeguamento e rinegoziazione nei contratti a lungo termine, Napoli, 1996, p. 305 ss.; G. Bellantuono, I contratti incompleti nel diritto e nell’economia, Padova, 2000; V. Roppo, Il contratto, Milano, 2001, p. 1025 ss.; M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e impresa, 1999, p. 83 ss.; R. Pardolesi, Regole di “default” e razionalità limitata: per un (diverso) approccio di analisi economica del diritto dei contratti, in Riv. crit. dir. priv., 1996, p. 451. 70 Per una preziosa prospettiva di sintesi v. ora G. Alpa, La completezza del contratto: il ruolo della buona fede e dell’equità, in Le riforme dei codici in Europa e il progetto di codice civile europeo, Materiali dei seminari 2001, raccolti da G. Alpa e E. M. Buccico, Milano, 2002, p. 118 ss.; e sulla buona fede nell’integrazione del contratto, L. Nanni, La buona fede contrattuale, Padova, 1988 e ancora G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma – Bari, 2000. 71 C. Castronovo, Un contratto per l’Europa, op. cit., p. XL. 72 C. Castronovo, op. ult. cit. 73 Sul criterio di ragionevolezza v. l’art. 1:302 e il commento, in Principi di diritto europeo dei contratti, op. cit., p. 131, ove esiste un utilissimo richiamo agli articoli che fanno riferimento alla regola e alle funzioni che essa svolge. Da un’analisi sistematica emerge che il principio non genera obblighi e diritti, ma “attiene alle modalità esecutive secondo le quali gli obblighi stessi trovano migliore attuazione” (C. Castronovo, cit., p. XLII); in relazione ad un’attesa o affidamento di una parte (1:303, 4; 2:102; 2:202, 3; 3:205, 3; 3:206; 3:209, 3; 5:101, 3; 6:111, 2 a); 8:103, 2; 8:108, 1; 9:503) al tempo per agire (2:206, 2, 3; 3:203; 7:102, 3; 7:109, 2; 8:106, 3; 8:105, 2; 8:108, 3; 9:303, 2, 3; 9:506) o per comunicare la volontà (4:113, 1, 2; 6:109; 8:104, 3) alla valutazione in certi casi di una clausola o del prezzo giusto (4:105, 3; 4:115; 6:104; 6:105; 6:106, 2; 7:110, 2 a b; 9:101, 2 a; 9:506; 9:509, 2) dello sforzo richiesto ad una parte (7:110, 1; 9:102, 2d; 9:505, 1) o della proporzione tra due esigenze (9:201, 1) o della probabilità del verificarsi di un evento (1:303, 2; 8:105, 1; 9:105, 2b). 74 V. ancora C. Castronovo, op. cit., p. XXXII; e Goode, The concept of “Good Faith”, in English Law, op. ult. cit.. 75 G. Alpa, Il diritto dei consumatori, Roma – Bari, 1999, p. 3 ss., 128 ss.; C. Castronovo, I principi di diritto europeo dei contratti e l’idea di codice, in Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999, p. 854 ss.

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Con questi limitati obbiettivi è possibile individuare da un lato modalità di intervento sull’atto che impongono un contenuto minimo essenziale, limitano il potere di modificare il contratto, e introducono requisiti formali in funzione di protezione76; dall’altro criteri di valutazione dei contegni con espresso riferimento alla buona fede.

Emblematica in questo ultimo senso la Direttiva 93/13/CEE che trattando dei contratti dei consumatori nel considerando n. 16, definisce la clausola come una valutazione globale sull’atto che deve tener conto di alcuni fattori determinati. La forza delle rispettive posizioni dei contraenti, l’esistenza di condizionamenti nel prestare il consenso, la presenza o meno di un ordine del consumatore, le modalità del contegno del professionista con la controparte di cui si deve tenere presenti i legittimi interessi77.

E’ chiara l’influenza del modello tedesco costruito dalla giurisprudenza sin dai primi decenni del ’900 e recepito nella legge del 1966 solo novellata in attuazione della Direttiva, ma dal confronto con gli altri ordinamenti si ricava una differenza più formale che sostanziale.

In Francia si elimina il riferimento all’abuso di potere economico del professionista per valutare l’abusività ma tale elemento era da tempo in giurisprudenza presunto nelle contrattazioni fra professionisti e consumatore. In Inghilterra il quadro è più complesso: era già in vigore un controllo di tipo amministrativo e giudiziario e la Direttiva è stata recepita con un Regolamento che mantiene in vita anche la precedente legge del 1977. Fra i due provvedimenti vi è diversità: la legge del 1977 rimette la valutazione ad un controllo di ragionevolezza e il Regolamento di attuazione ad un giudizio di buona fede. Se però si analizzano le guide-line dei rispettivi allegati è facile constatare che si indicano dei criteri di valutazione in larga misura coincidenti con quelli della Direttiva Comunitaria anche se con un ambito operativo diverso: la legge si riferisce ai contratti di impresa, il Regolamento ai contratti fra professionisti e consumatori78.

Una prospettiva di sintesi. Se coordiniamo le norme generali previste nel codice, le leggi speciali e la

giurisprudenza della Corte di Cassazione è possibile ricavare un significato costante della buona fede. Con essa si fa riferimento ad un dovere che sorge indipendentemente dalla volontà delle parti, preesiste alla formazione del contratto e impone obblighi specifici di comportamento rilevanti sotto vari profili.

La clausola consente di rimediare alla incompletezza del contratto tramite un giudizio di riprovazione dei contegni e su questa base va sperimentata una consonanza con la common law che reprime la scorretta procedurale e attribuisce

76 V. tra le altre la Dir. 93/13/CEE, pubbl. in G.U. L. 095 del 21/04/1993, p. 29, sulle clausole abusive; Dir. 97/7/CE in G.U. L. 44 del 04/06/1997 sulle vendite a distanza, p. 191; Dir. 84/450/CEE in G.U. L. 250 del 19/09/1984, p. 17, modificata dalla Dir. 97/55/CE in G.U. L. 290 del 23/10/1997, p. 187, sulla pubblicità ingannevole e comparativa; Dir. 87/102/CEE, modificata dalla Dir. 97/7/CE in G.U. L. 101 del 01/04/1998, p. 17, sul credito al consumo; Dir. 93/22/CEE, in G.U. L. 141, del 11/06/1993, p. 27, modificata dalla Dir. 97/9/CE, in G.U. L. 84, del 26/03/1997, p. 22, sull’investimento nel settore dei valori mobiliari; Dir. 94/117/CE, in G.U. L. 280, del 29/10/1994, p. 73, sulla vendita in multiproprietà; Dir. 99/44/CE in G.U. L. 171, del 07/07/1999, p. 12, su taluni aspetti della vendita e delle garanzie dei beni di consumo. Per alcuni approfondimenti v. Materiali e commenti sul nuovo diritto dei contratti, a cura di G. Vettori, Padova, 1999; v. altresì Dir. 2000/35/CE del 29/06/2000, in G.U. 08/08/2000 sui termini di pagamento e al legge di recezione D.lgs. 20 settembre 2002. 77 Direttiva 93/13/CEE del Consiglio del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, cit., Nel considerando n. 16 si dice che “la valutazione del carattere abusivo di clausole ... deve essere integrata con uno strumento idoneo ad attuare una valutazione globale dei vari interessi in causa”, criterio che si esplica nel requisito della buona fede che implica “una particolare attenzione alla forza delle rispettive posizioni delle parti, al quesito se il consumatore sia stato in qualche modo incoraggiato a dare il suo consenso alle clausole e se i beni o servizi siano stati venduti o forniti su ordine speciale del consumatore". Si osserva poi che il professionista può soddisfare il requisito della buona fede trattando in modo leale ed equo con la controparte, di cui deve "tenere presenti i legittimi interessi”. 78 V. sul punto A. Musio, La buona fede nei contratti dei consumatori, Napoli, 2001, p. 143 ss. e L. Antoniolli Deflorian, L’interazione del diritto inglese con il diritto comunitario: l’esempio della Direttiva sulle clausole abusive nei contratti con i consumatori ed il principio di buona fede, op. cit., p.451 ss., sul rapporto fra unfairness e buona fede, nonché sui criteri previsti dalla Schedule 2 delle Regulation del 1994 che richiama il considerando n. 16 della Direttiva.

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rilevanza alle ragionevoli aspettative delle parti79. Fra le quali si deve considerare l’affidamento di un contraente a che l’altro osservi nei suoi confronti, non solo i contegni a cui è tenuto in virtù del rapporto ma anche di tutti gli altri contegni richiesti dalle norme o da doveri specifici presenti in settori determinati di attività80.

Le conseguenze della violazione a) Buona fede e invalidità81. Da alcuni si è teorizzato che la violazione della

regola di buona fede può comportare la nullità o comunque l’inefficacia del contratto82 e si è osservato, di recente, che la clausola è lo strumento prioritario per garantire la giustizia del contratto (attraverso l’ azione prevista dall’art.1418 c.c.). Sono convinto che debba essere rettificato tale orientamento che è tratto, in Italia, da una interpretazione non convincente di alcuni precedenti giudiziari.

Anzitutto la sentenza di legittimità, in tema di abuso di voto di un socio di maggioranza, che reputa illegittima tale manifestazione di volontà ai sensi dell’art. 2377 e dell’art. 1375. La sentenza, a ben vedere, non dichiara l’invalidità della delibera in base alla violazione della buona fede, ma con riferimento alla norma che sanziona la contrarietà dell’atto alla legge o allo statuto. L’art. 1375 integra, nella motivazione, il giudizio sui contegni del socio ed ha, nel contesto della pronunzia, una funzione integrativa del precetto che prevede espressamente la invalidità dell’atto collegiale83. Più ambigua è una recente pronunzia sulla clausola del contratto di leasing che fa gravare sull’utilizzatore il rischio della mancata consegna84. Ma l’ambiguità è contenuta solo nella massima, ove si dice che tale clausola viola il principio di buona fede ed è pertanto invalida. Se si legge con attenzione la

79 L. Antoniolli Deflorian, L'interazione del diritto inglese con il diritto comunitario, op. cit., p. 452 ss. 80 R. Brownsword, (a cura di) Good faith in contract: concept and context, Dartmouth, 1999, reputa che la teoria delle aspettative ragionevoli possa essere utilizzata per recepire il concetto di buona fede nel diritto inglese; v. A. Lordi, Autonomia privata ed equilibrio contrattuale, in www.jus.unitn/cardozo/Review/Contract/Lordi1.html. Su uno dei pochi precedenti giurisprudenziali in tema di clausole abusive e di contrarietà alla buona fede v. ancora L. Antoniolli Deflorian, op. cit., p. 461, ove si riferisce sul caso (Director General of Fair Trading - First National Bank) deciso (nel 2000) in primo grado dalla Chancery division della High Court e in secondo grado dalla Court of Appel la quale applica il criterio di contrarietà alla buona fede tenendo conto della “gravità degli obblighi” della “sorpresa” e della “superiorità del potere contrattuale della banca” (p.463). La pronuncia della House of Lords è improntata alla massima cautela sul requisito della buona fede. Si reputa non necessario un intervento chiarificatore della Corte di Giustizia e si mostra piena consapevolezza della emersione della clausola nel contesto europeo. La Corte tuttavia “non riesce a dissipare la sensazione che i giudici inglesi siano restii a sfruttare a fondo le potenzialità dello strumento”, così L. Antoniolli Deflorian, op. cit., p. 466. 81 Riprendo qui alcune osservazioni già contenute nel saggio Giustizia e rimedi nel diritto europeo dei contratti, op. cit.,p. 62 ss. 82 v. F. Galgano, Squilibrio contrattuale e mala fede del contraente forte, op.cit., p.423: “ non può suscitare scandalo che alla violazione della regola di buona fede possa conseguire, in base all’art.1418 comma 1°, la nullità del contratto o, a norma dell’art.1419 , di singole sua clausole. Da quando la Cassazione ha equiparato il dolo omissivo al dolo commissivo può dirsi acquisito che la violazione della buona fede precontrattuale può produrre effetto invalidante del contratto”; dello stesso autore, Conratto e persona giuridica nelle società di capitali, ivi, 1996, p. 1 ss.. Su questa scia si avviano ora alcuni giovani autori v. E. M. Pierazzi, La giustizia del contratto, op. cit. p. 654; M. Baraldi, Il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale, op. cit. p. 519:il quale richiamando ancora F. GALGANO e l’idea della nullità per violazione della buona fede osserva : “ quando manca una norma di legge che “disponga diversamente”, la violazione di una norma in operativa comporta nullità, quale forma generale di invalidità a norma dell’art. 1418, comma 1°” 83 v. Cass. 26 ottobre 1995, n. 11151, in Giur.comm.,1996,II,p. 329. 84 Cass.sez.III,2 novembre 1998,n. 10926, in Foro it., 1998,I,c. 3081.

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motivazione, si trae che la Corte valuta la causa e la meritevolezza di tale pattuizione entro il tipo sociale del leasing, dichiarando per tale carenza la nullità. Il riferimento alla buona fede è solo un obiter dictum, non determinante del giudizio. E la successiva sentenza85, sullo stesso tema, ripete il precedente giudizio senza aggiungere alcunché di nuovo. D’altra parte le recenti decisioni86 sulla riducibilità di ufficio della clausola penale non introducono elementi utili sul nostro problema. La prima riafferma il ruolo centrale della buona fede nella valutazione dell’atto di autonomia, ma entrambe collegano la riduzione ex officio ad un potere del giudice che ha la sua fonte nell’art.1384 c.c., il quale garantisce l’adeguatezza e la proporzione della sola sanzione dell’illecito che la penale è destinata a prevenire o reprimere. Sicché è assai dubbia una sua estensione analogica87.

La verità è che la buona fede anche nelle motivazioni della pronunzie della Corte di Cassazione italiana che si sono richiamate, integra le norme di validità e assume un ruolo, decisivo, nel coordinare la disciplina dell’atto e dei contegni e nel ripensare gli elementi strutturali dei nuovi rimedi. La sua violazione, di per sé, non comporta nullità del contratto, ma risarcimento dei danni, come si evince dall’art. 1338 del codice civile italiano88 e da una recente sentenza della Cassazione italiana.89. In essa si precisa che le norme di comportamento a carico di operatori del mercato possono avere natura di ordine pubblico, ma lo strumento di una loro ricezione non è la nullità virtuale. Per una ragione espressa in modo chiaro nella motivazione. L’art. 1418 1° comma “ attiene ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, che riguardano la struttura e il contenuto del contratto ( art.1418 2° comma)”. Mentre “i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale ..e la loro eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norme violate, non può dar luogo alla nullità del contratto…; a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista del legislatore.90” Tutto ciò esclude il richiamo della nullità 91 la quale esprime sempre la necessaria “inidoneità dell’atto” alla produzione di effetti stabili e permanenti”.

b) Buona fede e inefficacia. Diverso è il problema della possibile inefficacia di una clausola per effetto della inesigibilità di un contegno in mala fede. In tal caso “ la clausola negoziale è improduttiva di effetti non in quanto tale, ma ab-extrinseco, per la violazione dell’art.1375. Ciò perché “avuto riguardo alle circostanze del caso concreto è contrario al dovere di esecuzione del contratto secondo buona fede, prestare attuazione a quella determinata clausola”92

c) La correzione del regolamento. Più delicata è la possibilità di correzione o integrazione da parte del giudice , secondo il criterio suggerito dall’art. 4:119 dei Principi di diritto europeo dei contratti. In base a quel modello il giudice, su domanda della parte legittimata all’annullamento, può “modificare il contratto in

85 Cass. sez.III,6 giugno 2002,n. 8222, in Danno e resp., 2002, p 941. 86 Cass.Sez.I, 24 settembre 1999,n.10511, in Foro it. ,2000, c.1929 ss.; e da ultimo Cass. sez. un., 23 giugno-13 settembre 2005, n. 18128, in Giuda al Diritto, 005,38,p.34 ss. 87 v. invece in questo senso M. Baraldi, Il governo giudiziario della discrezionalità contrattuale,op. cit. p.524. 88 G. Vettori, Buona fede e diritto europeo dei contratti , in Eur. Dir. priv., 2002,4,p. 915. e ora in G. Vettori, Diritto dei contratti e costituzione europea, Milano, 2005, p. 166.ss.,181 ss. 89 v. V. Roppo, op. cit.,p-892 ss. 90 vedila in V. Roppo, op. cit. , p. 910 91 V. Scalisi, Invalidità e inefficacia: Modalità assiologiche della negozialità, in Riv.dir.civ., 2003, 2,p.210. 92 Così E. Scoditti, Regole di efficacia e principio di correttezza nei contratti del consumatore, in Riv.dir.civ.,2006.p.131; V. Scalisi, Invalidità e inefficacia. Modalità assiologiche dfella negozialità, ivi, 2003, p.214. V. anche Cass.n.19 del 1994 e Cass. 20 aprile 994, n.3775 cit. c.1298 ss.

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modo da metterlo in armonia con quanto avrebbe potuto essere convenuto nel rispetto della buona fede e della correttezza”93. E’ noto che nei vari ordinamenti nazionali il problema è affrontato in modo diverso94, mentre la dottrina italiana si è divisa a lungo a seconda del valore che si riconosce alle fonti legali nella disciplina del contratto95. Anche se l’evoluzione del pensiero ha avvicinato molto le posizioni. Fra chi reputa che l’integrazione può far emergere “quelle conseguenze che appartengono alla normalità dell’operazione economica, in esso espressa96” e chi ipotizza fonti concorrenti nella costruzione del regolamento contrattuale97, si teorizza uno “svolgimento coerente della logica impressa dalle parti…realizzato attraverso l’imposizione di atti e modalità esecutive conformi a quanto la prassi consolidata degli affari ritiene corretto e perciò dovuto”98.

Questo esito concettuale aiuta la soluzione del problema. Se la buona fede è considerata nella giurisprudenza italiana99 ed europea100 una

regola di governo della discrezionalità del potere dei contraenti101 e se essa, come si è detto, integra, in certi casi, le stesse norme di validità, non è affatto azzardato affermare che il giudice possa, in alternativa o in conseguenza dell’ annullamento di parte del contenuto, operare quelle modifiche conformi alla intrinseca razionalità dell’operazione voluta dalle parti e rese obbligatorie dalla necessità di un agire corretto in quel determinato contesto. Ancora il dubbio 102 se il ruolo della clausola sia interno all’atto di autonomia o ad esso esterno in funzione di controllo, si attenua in considerazione della concreta ratio delle norme103.

Queste considerazioni, tratte dalla disciplina generale del contratto, aiutano ad interpretare l’art.

140 del Codice di consumo ove al punto 1 lett. B, è riprodotto il testo dell’art. 3 della legge n. 281 del 1998, fissando il potere di richiedere al giudice di “adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate”. E’ noto che non si trae con certezza dalla legge se tale provvedimento possa essere chiesto solo dalle associazioni dei consumatori inserite nell’elenco di cui all’art. 137 o anche tramite le azioni individuali dei singoli consumatori. Il dubbio deriva dal testo del n.9 ove si precisa che “ fatte salve le norme sulla litispendenza, continenza, sulla connessione e sulla riunione dei procedimenti le disposizioni di cui al presente articolo non precludono il diritto ad azioni

93 Principi di diritto europeo dei contratti, a cura di C. Castronovo, Milano 2001, p.289 ss. 94 Principi di diritto europeo dei contratti, cit, p.294 ove si rinvia all’art. 1161 del cod civil francese, all’art.1118 del codice civile lussemburghese, all’art. 3:54 BW, al § 935 ABGB,al § 31 del codice civile portoghese, al §36 della legge sui contratti dei Paesi nordeuropei e in Danimarca, al diritto giurisprudenziale belga, all’art.1450 del codice civile italiano. 95 V. sul punto C. Scognamiglio, L’integrazione, in I contratti in Generale , a cura di E. Gabrielli, nel Trattato dei Contratti, diretto da P. Rescigno, Torino, 1999 ,p.1020 ss. 96 G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966,p.281ss. 97 S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969. 98 P. Barcellona, Diritto privato e società moderna, Napoli 1996, p.360. C. Scognamiglio, (L’intergrazione, cit. p.1022 nota 10, reputa che “l’evoluzione della posizione di questo Autore ,-rispetto a quella assunta in precedenza nel volume Gli Istituti fondamentali del diritto privato,Napoli ,1970, p.257 ss. - sarebbe di per sé sufficiente a tracciare le coordinate evolutive del problema dell’integrazione nella recente dottrina civilistica italiana” 99 v. Cass.20 aprile 1994,n.3775, in Foro it.1995,I, 1296 ( caso Fiuggi) e in particolare le sentenze sulla riduzione d’ufficio della clausola penale Cass.24 settembre 1999,n.105111, ivi, 2000,I,1929 e Cass. sez. un. 13 settembre 2005,n.18128, in Guida al diritto,1 ottobre 2005, n. 38, p34 ss. 100 v. per il riferimento delle Corti francesi a forme di solidarismo contrattuale D. Cohen, La bonne foi contractuelle éclipse e renaissance, op.cit.,p. 523 ss. Per le corti inglesi High Court 26 giugno 2003 e Court of Appeal 21 maggio 2004 in esecuzione del caso Courage deciso da Corte di Giustizia 20 settembre 2001,in Foro it. 2002, IV, 76. 101 V. G. Vettori, Libertà di contratto e disparità di potere, op.cit., p.750 ss. 102 C. Castronovo, Prefazione, in Principi di diritto europeo dei contratti, cit. p. XXXVII; Id., Autonomia privata e costituzione, in Europa dir. privato, 2005, p,49 nota 39 e G. Vettori, Libertà di contratto e disparità di potere, cit. p.758. 103 v. G. Vettori, Diritto dei contratti e costituzione europea, Milano, 2005, p.136-140.

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individuali dei consumatori che siano danneggiati dalle medesime violazioni.”104 Il testo della norma potrebbe far pensare ad un doppio binario di tutela, con diversi contenuti, ma un’interpretazione sistematica della norma porta a una conclusione diversa che può seguire questi passaggi argomentativi.

L’art. 2 del codice del consumo riconosce e garantisce i diritti anche e non solo in forma collettiva e associativa. L’art. 140 n. 1 consente alle associazioni di richiedere l’inibizione di atti e comportamenti lesivi, e l’adozione di misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate. L’art. 140 n. 9 fa salvo il diritto ad azioni individuali che va interpretato tenendo conto della evoluzione dottrinale e giurisprudenziale nazionale e dei principio elaborato dalla Corte di giustizia ed espresso ora nell’art. II-107 del Trattato costituzionale. Come si è già detto, la norma e il principio che essa riafferma esigono che si dia attuazione, in Europa, alla pretesa di un rimedio efficiente, inteso come pretesa ad adeguati strumenti di tutela e idonee configurazioni processuali capaci di garantire la piena soddisfazione dell’interesse azionato105.

La buona fede nella fase di trattative e della conclusione. Occorre chiarire due aspetti.

• In quale momento sorge il dovere di condotta. • Se l’azione di responsabilità è esperibile quando il contratto è già

concluso. La norma attribuisce rilevanza a qualsiasi condotta dell’agente “volta ad

incidere su di un consenso contrattuale della vittima” e su una condotta finalizzata alla conclusione del contratto. Sicché per trattativa si deve intendere qualsiasi attività collegata ad un futuro contratto.

Più difficile è stabilire quale ruolo rivesta la regola dell’art. 1337 quando il

contratto è già concluso. Si può ritenere anzitutto che la slealtà, conosciuta dalla controparte, sia superata

dall’accordo che è stato concluso successivamente. Ma ciò in mancanza di un accertamento specifico da svolgersi nel rispetto dell’onere della prova che incombe sulle parti non elimina il problema della compatibilità fra regola di responsabilità precontrattuale e contratto concluso.

Si è ritenuto sino ad un passato recente che la stessa configurabilità di un azione ai sensi dell’art. 1337 sia preclusa dalla intervenuta conclusione del contratto. ( Cass. n. 3621/1994 ) Ma tale convincimento è stato contraddetto da una parte della dottrina e da una più recente e convincente giurisprudenza di legittimità.

La Cassazione ( 29 settembre 2005 n. 19024) si è pronunciata sulla mancata osservanza, da parte di intermediari finanziari, degli obblighi di informazione posti dalla legge 2.1.1991 n. 1 E il ragionamento svolto ha seguito le seguenti fasi:

a) tali regole attengono alla fase delle trattative e la loro inosservanza non può determinare nullità anche se hanno carattere imperativo. Ciò perchè “ l’art. 1418 e il richiamo della contrarietà a norme imperative quale causa di nullità postula che esse attengano ad elementi intrinseci della fattispecie negoziale, che riguardino cioè la struttura o il contenuto del contratto (1418 2° comma)” Mentre “ i comportamenti tenuti dalle parti nel corso delle trattative o durante l’esecuzione del contratto rimangono estranei alla fattispecie negoziale” Sicché la loro “eventuale illegittimità, quale che sia la natura delle norma violata, non può dar luogo alla nullità del contratto a meno che tale incidenza non sia espressamente prevista dal legislatore”.

b) Si afferma inoltre che non è affatto vero che una volta concluso il contratto non vi sia più possibilità di ottenere un risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1337. Tale idea ,si osserva, si basa sull’idea che la rilevanza di tale norma si esaurisca nella

104V. il Commento, in questo Quaderno, all’art. 139 140 141 di S. Benucci. 105 G. Vettori, Giustizia e rimedi nel diritto europeo dei contratti, cit. p.60

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sola ipotesi in cui il comportamento abbia impedito la conclusione del contratto o abbia determinato un contratto invalido o inefficace. “ Da qui l’idea che la conclusione precluda ogni questione relativa all’osservanza degli obblighi imposti alle parti nel corso delle trattative, in quanto la tutela sarebbe affidata, a partire da quel momento, alle sole norme in tema di invalidità o inefficacia.”

c) In verità “ la rilevanza dell’art. 1337 va ben oltre l’ipotesi dell’ingiustificata rottura delle trattative e assume il valore di una clausola generale il cui contenuto non può essere predeterminato in maniera precisa”. Essa implica “ il dovere di trattare in modo leale, astenendosi da comportamenti maliziosi o anche solo reticenti e fornendo alle parti ogni dato rilevante conosciuto o conoscibile”. Ne deriva che “ la violazione di tale regola non può non assumere rilievo anche quando il contratto posto in essere sia valido e tuttavia pregiudizievole per la parte vittima del comportamento scorretto” (1440)

d) Tale conclusione comporta una diversa valutazione del danno risarcibile. In caso di mancata conclusione del contratto sarà dovuto il solo interesse negativo (spese e occasioni perdute) per aver confidato senza colpa nella realizzazione dell’accordo. (1338 c.c.) Quando invece il danno derivi “ da un contratto valido ed efficace ma “sconveniente” il risarcimento deve essere individuato… nel minor vantaggio o nel maggior aggravio economico determinato dal contegno sleale di una delle parti, salvo la prova di ulteriori danni.

Tale ragionamento è del tutto convincente ed è preferibile l’idea, non condivisa da tutti, che la conclusione di un contratto valido ed efficace non sia di ostacolo all’azione di responsabilità promossa ai sensi dell’ art. 1337.

Tipologia della condotta Il recesso ingiustificato dalle trattative. Esiste un orientamento consolidato in giurisprudenza che individua due aspetti

per la valutazione di illegittimità del recesso. a) la parte deve aver potuto contare su di un affidamento legittimo sulla

conclusione del contratto. Sicché vi debbono essere stati elementi non equivoci di carattere obbiettivo tali da qualificare la legittimità dell’affidamento in base alla qualità e quantità dei rapporti intercorsi. Avrà rilievo dunque la frequenza dei contatti, l’aver preso in esame tutti gli elementi essenziali del contratto, l’aver redatto una minuta , l’aver consegnato la cosa o versato parte del prezzo e così via.

b) il recesso non deve essere conforme a buona fede e ciò si verificherà, ad esempio, “ quando non è verificabile alla luce di circostanze oggettive” e si basi solo su di una diversa valutazione di convenienza che poteva essere operata prima di proseguire i contatti. Legittimo sarà invece il recesso giustificato da sopravvenienze esterne che non rendono più conveniente l’affare.

Dalle opere più significative sul contratto si trae la seguente casistica. a) doveri di informazione. “la parte che conosce ( o dovrebbe conoscere) dati rilevanti per la valutazione

del contratto da parte dell’altro contraente e sa ( o dovrebbe sapere) che questa invece ignorava ha il dovere di informare la controparte” ( Roppo) Occorre però delimitare tale doverosità perché non ogni reticenza è illecita.

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Tra il dovere di informare sui soli fatti che siano capaci di incidere sulla validità o sull’efficacia (1338) e il dovere di fornire sempre e comunque ogni informazione occorre attribuire un ruolo alla buona fede nel selezionare ciò che deve essere oggetto di un informazione. Il giudizio non è sempre facile ma esistono doveri speciali in determinati settori di attività ( operatori finanziari, coloro che intendono e debbono proporre un OPA, i contratti dei consumatori ).

b)dovere di verità, che si specifica in un dovere di chiarezza, di segretezza, di

custodia. c) conclusione di un contratto non conveniente perché frutto di inganno (1440)

o di un errore anche non essenziale ma determinato da un omessa o falsa informazione.

c) l’ambiguità. Natura della responsabilità precontrattuale E’ un problema controverso da sempre. In Francia ove “ si può estendere il

campo della responsabilità extracontrattuale ai sensi dell’art.1382 e si restringe la colpa contrattuale all’inadempimento del contratto” si propende per la natura extracontrattuale.

In Germania invece “ si restringe l’illecito alla lesione di un diritto assoluto e si estende la figura della colpa contrattuale all’inadempimento di qualsiasi obbligazione” sicché si fa discendere la responsabilità pre-contrattuale da un obbligo provvisorio assunto con il fatto di prendere parte ad una trattativa”.

La Corte di Giustizia (17.9.2002, in Giur. It. 2003, 1321) si è pronunziata per la

natura extracontrattuale. La Cassazione italiana propende per la natura extracontrattuale e le Sezioni

Unite ( 12.3.2001 n.99) hanno manifestato un preciso orientamento. Se la parte non ha qualificato l’azione di responsabilità deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non sia emersa una precisa scelta del danneggiato in favore di quella contrattuale”. Ciò perché per aversi responsabilità contrattuale occorre che la domanda sia fondata sull’inosservanza di una precisa obbligazione contrattuale”.

Si deve ricordare peraltro che le recenti sentenze in tema di distinzione fra

responsabilità contrattuale ed extracontrattuale inducono a ripensare questo orientamento. Significativo è quanto affermato da una sentenza delle Sezioni unite della Cassazione ( Cass. 26 giugno 2007 n14712 ):

“E’ opinione oramai quasi unanimemente condivisa dagli studiosi quella secondo cui la responsabilità nella quale incorre il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta (1218c.c.) può dirsi contrattuale non soltanto nel caso in cui l’obbligo di prestazione derivi propriamente da un contratto….ma anche in ogni altra ipotesi in cui essa dipenda dall’inesatto adempimento di un’obbligazione preesistente quale ne sia la fonte”…In base a tale ricostruzione la giurisprudenza ha ritenuto che sussista responsabilità contrattuale anche “in presenza di violazione di obblighi nascenti da situazioni (non già di contratto bensì) di semplice contatto sociale, ogni qual volta l’ordinamento imponga ad un soggetto di tenere, in tali situazioni, un determinato comportamento”. (medico dipendente della struttura ospedaliera Cass. n.9085 del 2006; Cass. 12362 del 2006; Cass. n.10297 del 2004;

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Cass. n.589 del 1999 ; sorvegliante dell’incapace Cass. n.11245 del 2003). “ Ne deriva che la distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale sta essenzialmente nel fatto che quest’ultima consegua dalla violazione di un dovere primario di non ledere ingiustamente la sfera di interessi altrui, onde essa nasce con la stessa obbligazione risarcitoria, laddove quella contrattuale presuppone l’inadempimento di uno specifico obbligo giuridico già preesistente e volontariamente assunto nei confronti di un determinato soggetto.”

Seconda tale ricostruzione, che è sicuramente condivisibile, fra le parti di una

trattativa è possibile riconoscere l’esistenza di un contatto sociale qualificato da un obbligo di comportamento secondo buona fede (1337 c.c.). Sicché è preferibile affermare la natura contrattuale di tale responsabilità.

Conclusione. La recente sentenza del 2005 che considera esperibile un azione ai sensi dell’art.

1337 anche quando il contratto sia già stato concluso (e purché si provi l’esistenza di un preciso nesso di causalità fra comportamento in mala fede del contraente e svantaggio dell’altra parte ) va sottolineata con forza. Convincente ,in base a quanto si è detto poc’anzi, è anche la natura contrattuale di tale forma di responsabilità.

La buona fede nella esecuzione del contratto L’art. 1375 prevede che il contratto deve essere eseguito in buona fede. Per la precisazione di tale dovere si può richiamare quanto si è sin qui osservato

ma è utile anche richiamare il contenuto di una recente massima. Cass. 11 febbraio 2005 n.2855 La violazione del dovere di comportamento imposto dal principio di buona fede

(art.1375 ) è già di per sé inadempimento e può comportare l’obbligo di risarcire il danno cagionato a causa della violazione medesima. Esso opera,quindi, come un criterio di reciprocità che, nel nuovo quadro di valori introdotto dalla Carta costituzionale, costituisce specificazione degli “inderogabili doveri di solidarietà sociale” tutelati dall’art.2 Cost : la sua rilevanza si esplica nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di quanto espressamente stabilito da singole norme di legge; la buona fede, quindi, si pone come governo della discrezionalità nell’esecuzione del contratto nel senso che essa opera sul piano della selezione delle scelte discrezionali dei contraenti, assicurando che l’esecuzione del contratto avvenga in armonia con quanto emerge dalla ricostruzione dell’operazione economica che le parti avevano inteso porre in essere, filtrata attraverso uno standard di ragionevolezza.

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6. Elementi accessori del contratto 6.1. La condizione106. Le parti possono decidere di inserire nel contratto una condizione per

subordinare l’efficacia o la risoluzione del contratto o di un singolo patto ad un avvenimento futuro e incerto (art. 1353).

La condizione cui è sottoposto il contratto può, infatti, essere di tipo sospensivo o risolutivo.

La condizione sospensiva rende inefficace il contratto cui è apposta fino a che il fatto sottoposto a condizione sospensiva avverrà e se avverrà (art.1353 c.c. ).Essa tutela le parti contro il rischio che un evento corrispondente all’interesse delle parti non si verifichi o si avveri troppo tardi.

Il contratto sottoposto a condizione risolutiva rimane efficace fino a quando il

fatto non si verificherà. Dal momento in cui si verifica il fatto sottoposto a condizione risolutiva, il contratto diverrà inefficace. Le parti vengono, in tal modo, tutelate dal rischio che si verifichi un evento contrario ai loro interessi.

La condizione è semplice quando vi è dedotto un singolo fatto. Plurima quando

vi sono dedotti due o più fatti. La condizione è illecita quando è “contraria a norme imperative, all'ordine

pubblico o al buon costume”. La condizione illecita, sia essa di tipo sospensivo o risolutivo, rende nullo il contratto cui è apposta. (art. 1354 c.c.)

La condizione è impossibile quando il fatto sottoposto a condizione non può

accadere secondo un giudizio oggettivo degli eventi. Essa produce effetti diversi a seconda che la condizione sia sospensiva o risolutiva. Se è sospensiva rende nullo il contratto; se è risolutiva, si ha come non apposta.

Con riferimento al caso in cui la condizione illecita o impossibile sia apposta ad

un singolo patto il terzo comma dell’art. 1354 c.c. prevede che si osservano, riguardo all'efficacia del patto, le disposizioni dei commi precedenti, fermo quanto è disposto dall'articolo 1419.

Si è soliti distinguere la condizione in: casuale,quando “il fatto condizionante è indipendente dalla volontà delle parti”. Mista quando “la volontà dei contraenti concorre solo in parte

all’avveramento del fatto, mentre per altra parte questo dipende da fattori esterni”. Potestativa quando “il fatto dipende dalla sola volontà dei contraenti”. Meramente potestativa quando gli effetti del contratto dipendono dalla mera

volontà della parte. Mentre la condizione potestativa corrisponde ad un interesse obiettivamente apprezzabile, quella meramente potestativa riguarda un interesse che è

106 Cfr. V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica-Zatti, 2001, 605 ss.

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del tutto estraneo a quello regolato dal contratto. Esempi di tale condizione sono “se vorrò..” “se deciderò di..”. La condizione meramente potestativa è portatrice di nullità, L’art. 1355 c.c. dispone, infatti, che “È nulla l'alienazione di un diritto o l'assunzione di un obbligo subordinata a una condizione sospensiva che la faccia dipendere dalla mera volontà dell'alienante o, rispettivamente, da quella del debitore”.

Si è soliti distinguere anche tra condizione bilaterale, che ricorre quando è prevista nell’interesse di entrambe le parti. E unilaterale quando è posta nell’interesse esclusivo di una delle parti, che è libera di decidere se avvalersene o meno.

Retroattività della condizione “La condizione opera retroattivamente”. L’art. 1360 dispone, infatti, che gli

effetti dell'avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto.

Ciò significa che se il trasferimento era sottoposto a condizioni sospensiva, l’acquirente acquista la proprietà fin dal momento della stipulazione del contratto. Se era sottoposto a condizioni risolutiva, il bene appartiene all’alienante fin dal momento della conclusione del contratto.

Si prevedono, però delle deroghe alla retroattività. L’art. 1360 specifica, infatti, “salvo che, per volontà delle parti o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati a un momento diverso”.

Il terzo comma introduce un’altra deroga: se la condizione risolutiva è apposta a un contratto ad esecuzione continuata o periodica, “l'avveramento di essa non ha effetto riguardo alle prestazioni già eseguite”, salvo che non vi sia patto contrario.

Inoltre, l’art. 1361 c.c. dispone che “L'avveramento della condizione non pregiudica la validità degli atti di amministrazione compiuti dalla parte a cui, in pendenza della condizione stessa, spettava l'esercizio del diritto”.

Un’altra norma che introduce deroghe è l’art. 1465, il quale prevede che il rischio del perimento fortuito della cosa, sopravvenuto in pendenza della condizione sospensiva non gravi sull’acquirente, il quale viene liberato dalla sua obbligazione anche se poi questa si avvera.

Anche per i frutti percepiti la regola della retroattività è derogabile. Essi sono, infatti, dovuti dal giorno in cui la condizione si è avverata, ma sono fatte salve “diverse disposizioni di legge o diversa pattuizione”.

Pendenza della condizione Il periodo temporale compreso tra la conclusione del contratto e quello in cui si

avvera o viene a mancare la condizione, si chiama pendenza della condizione. Durante la pendenza, l’acquirente sotto condizione sospensiva o l’alienante

sotto condizione risolutiva, possono compiere atti conservativi (art. 1356 c.c.). La loro è una posizione di aspettativa, perché il primo non è titolare del diritto, ma lo sarà se e quando si avvererà la condizione; il secondo ha perso il diritto, ma lo riacquisterà se la condizione si avvererà.

La controparte del titolare della posizione di aspettativa, ovvero l’alienante sotto condizione sospensiva e l’acquirente sotto condizione risolutiva, è titolare di un diritto precario. La legge riconosce, però, al solo acquirente di un diritto sotto condizione risolutiva il potere di esercitarlo (art. 1356, comma 2).

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Come accennato, chi ha l’esercizio del diritto può compiere atti di amministrazione del bene (art. 1361). Tali atti non sono sottoposti al principio di retroattività.

In pendenza della condizione le parti possono disporre delle posizioni soggettive di diritti precari e aspettative. L’art. 1357 prevede, infatti, che “chi ha un diritto subordinato a condizione sospensiva o risolutiva può disporne in pendenza di questa”. La norma precisa, però, che “gli effetti di ogni atto di disposizione sono subordinati alla stessa condizione”. La norma deve essere collegata a quella della retroattività della condizione. Ad esempio, se l’acquirente sotto condizione sospensiva cede ad un terzo la sua posizione soggettiva di aspettativa e la condizione si avvera, il terzo diviene titolare del bene dalla data del suo titolo . Se la condizione viene a mancare, il bene rimane in proprietà del primo alienante.

In pendenza della condizione l’art. 1358 c.c. stabilisce che ciascuna parte “deve

comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell'altra parte”.La norma detta un criterio che costituisce una concretizzazione del contenuto della buona fede.Ciascuna parte nell’adempiere l’obbligo di buona fede è tenuta a far salvo l’interesse altrui, finché non le derivi un sacrificio apprezzabile. Vi è un obbligo di salvaguardia che grava sulle parti.

Gli articoli che disciplinano la condizione prevedono anche una norma che, in caso di violazione dell’obbligo di comportarsi buona fede, contiene una “sanzione” che prevede una finzione di avveramento. L’art. 1359 c.c. dispone, infatti, che “la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento di essa”. La norma opera quando “l’iniziativa della parte è antagonista al piano d’interessi perseguito col contratto condizionato”107.

La giurisprudenza ha precisato che l’art. 1359 c.c. non si applica alla “condizione potestativa semplice o impropria - quella cioè interamente rimessa alla pura discrezionalità delle parti -e a maggior ragione ove trattasi di condizione meramente potestativa”108. In queste ipotesi è, infatti, logico che avveramento o mancamento della condizione dipendano dalla volontà della parte.

* * * *

Quella di cui si è parlato fin’ora è la condizione volontaria, cui si contrappone quella legale che riguarda un interesse esterno al contratto ma toccato da questo come, ad esempio, i contratti conclusi con gli enti pubblici, i quali producono effetti soltanto se riceveranno l’autorizzazione dell’autorità di controllo.

Giurisprudenza

Cass., sez. I, 22-04-2003, n. 6423. “Anche il contratto sottoposto a condizione mista è soggetto ..alla disposizione del successivo

art. 1359, secondo cui la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all'avveramento.

Quest'ultima norma, invece, non può trovare applicazione nel caso di condizione potestativa semplice o impropria - quella cioè interamente rimessa alla pura discrezionalità delle parti - perché il non avveramento di questa non può essere dovuto che alla contraria volontà dell'uno o dell'altro contraente, libero di fare o meno quanto è posto in condizione, perciò rivelandosi incompatibile con il disposto dell'art. 1359 cod.civ.; ed a maggior ragione ove trattasi di condizione meramente potestativa,

107 Roppo, op. cit., 633. 108 Cass., sez. I, 22-04-2003, n. 6423

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in relazione alla quale il precedente art. 1355, allorché la stessa consista in un fatto volontario il cui compimento o la cui omissione non dipende da seri ed apprezzabili motivi, ma dal mero arbitrio del debitore, sancisce l'invalidità della relativa obbligazione. Sicché la "fictio iuris" applicata dal collegio arbitrale è invocabile soltanto nella ipotesi di condizione casuale (il cui verificarsi dipende, cioè dal caso o dalla volontà di terzi) o di condizione mista: il cui avveramento dipende in parte dal caso o dalla volontà dei terzi, in parte dalla volontà di uno dei contraenti (Cass. 8584/1999; 5243/1996; 702/1983).

Cass., sez. II, 11-08-1999, n. 8584. La norma contenuta nell’art. 1359 c.c., che considera avverata la condizione quando questa sia

mancata per causa imputabile alla parte che abbia un interesse contrario al suo avveramento, trova applicazione nelle sole ipotesi di «condizione casuale» (il cui avveramento, cioè, dipenda dal caso o dalla volontà di terzi) oppure «potestativa mista» (il cui avveramento dipenda in parte dal caso o dalla volontà di terzi e in parte da quella di uno dei contraenti); e invece, non può trovare applicazione in ipotesi di condizione «potestativa semplice», configurabile quando è attribuita rilevanza all’avveramento di un fatto che, pur essendo collegato alla volontà di una delle parti, non può ritenersi rimesso al suo mero arbitrio, poiché non le è indifferente adottare oppure omettere il comportamento rilevante e la relativa scelta rappresenta invece l’esito di un suo apprezzamento discrezionale di un complesso di motivi ed interessi

Cass., sez. un., 19-09-2005, n. 18450. Il contratto sottoposto a condizione potestativa mista è soggetto alla disciplina di cui all’art.

1358 c.c., che impone alle parti l’obbligo giuridico di comportarsi secondo buona fede durante lo stato di pendenza della condizione, e la sussistenza di tale obbligo va riconosciuta anche per l’attività di attuazione dell’elemento potestativo della condizione mista (nella specie, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso l’applicabilità dell’art. 1358 c.c. ad un contratto di progettazione di un’opera pubblica in cui il professionista aveva accettato di condizionare il diritto al compenso al conseguimento, da parte della p.a., del finanziamento dell’opera, ed ha rinviato la causa al giudice di merito affinché proceda ad un penetrante esame della clausola recante la condizione e del comportamento delle parti, al fine di verificare alla stregua degli elementi probatori acquisiti, se corrispondano ad uno standard esigibile di buona fede le iniziative poste in essere dall’ente locale onde ottenere il finanziamento).

Cass., sez. III, 12-01-2006, n. 419. Nel caso in cui una condizione sia costituita da un evento incerto sia nell’an che nel quando, le

parti possono concordare un limite temporale riguardo al suo verificarsi, per non lasciare indefinitamente nell’incertezza l’efficacia del contratto, e sono abilitate a porre tale limite nell’interesse esclusivo di una di esse, nonché a rinunciare a farlo valere, anche con comportamenti concludenti.

Cass., sez. I, 22-02-2005, n. 3579. La clausola contrattuale che sottoponga il sorgere del diritto alla seconda parte del compenso, in

favore del professionista incaricato da un comune del progetto di un comparto peep - compenso la cui prima parte debba per contratto essere corrisposta alla consegna dell’elaborato - alla ricezione da parte del comune dei corrispettivi delle convenzioni da stipulare con gli enti attuatori del progetto, non dà luogo all’istituto della presupposizione, che ricorre quando le parti, nel concludere il contratto, abbiano inteso come certa la esistenza di una situazione di fatto (passata, presente o futura), o di diritto, indipendente dalla loro volontà, stipulando l’atto su tale presupposto; né configura un termine o una condizione meramente potestativa, ma, piuttosto, una condizione mista, in quanto l’evento, alla data del contratto futuro ed incerto nell’an e nel quando - per essere le parti consapevoli, all’atto del perfezionamento del contratto d’opera professionale, del potere del comune di non stipulare le convenzioni con gli enti attuatori, attesa la facoltà, attribuita allo stesso dall’art. 35 l. n. 865 del 1971, richiamato nella clausola contrattuale di cui si tratta, di procedere in proprio alla esecuzione del comparto peep - della stipula delle convenzioni con i predetti enti, è rimesso anche alla volontà di questo ultimi: ne consegue che, ove il comune, ritenendo, nell’esercizio della propria discrezionalità, venuto meno, per effetto di varianti imposte da nuove norme regionali, il pubblico interesse alla esecuzione del peep, non proceda alla stipulazione delle convenzioni dedotte in condizione, non essendo configurabile la nullità della condizione apposta al contratto d’opera

professionale, né ravvisabile a carico dell’ente alcuna violazione delle regole di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto, non sorge il diritto del professionista al conseguimento della seconda parte del compenso pattuito.

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Cass., sez. II, 23-09-2004, n. 19146. Qualora le parti abbiano sospensivamente condizionato il contratto al verificarsi di un evento,

indicando nel reciproco interesse il termine entro il quale esso possa utilmente avverarsi, il contratto deve considerarsi inefficace per il mancato avveramento della condizione dal momento in cui sia decorso inutilmente il suddetto termine (nella specie, l’efficacia della vendita era stata, nell’interesse del compratore, sospensivamente condizionata alla destinazione edificatoria dei terreni da parte del piano regolatore in corso di approvazione, sempreché questa fosse intervenuta entro il termine stabilito dalle parti nel reciproco interesse.

Cass., sez. III, 30-11-2005, n. 26079. In tema di riscatto agrario, posto che l’acquisto diretto da parte del retraente del fondo dal

proprietario venditore è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento del prezzo, consegue, in virtù dell’applicabilità dell’art. 1361 c.c., che la maturazione di un credito per i frutti si determina solo al momento dell’avveramento di detta condizione sospensiva, in quanto all’acquirente spetta il diritto di compiere atti di amministrazione in pendenza del verificarsi della condizione stessa; infatti, la mera dichiarazione di voler esercitare il riscatto non fa acquistare al retraente il diritto di entrare nel godimento del fondo oggetto della dichiarazione stessa o di farne propri i frutti, prima del pagamento del prezzo, con la conseguenza che, qualora in forza dell’atto di compravendita, l’acquirente sia stato immesso nel possesso del fondo, non esiste titolo, in capo al retraente, di pretendere, nei confronti dell’acquirente, i frutti da quest’ultimo raccolti in epoca anteriore al pagamento del prezzo.

Cass., sez. II, 23-09-2004, n. 19146. In tema di contratto, la condizione può ritenersi apposta nell’interesse di una sola parte soltanto

in presenza di una espressa previsione contrattuale ovvero quando vi siano una serie di elementi che nel loro complesso inducano a ritenere che si tratti di condizione alla quale l’altra parte non abbia alcun interesse, non potendo desumersi l’unilateralità dal semplice fatto che una sola delle parti può essere interessata al verificarsi o meno dell’evento dedotto in condizione.

Cass., sez. III, 20-07-2004, n. 13457. L’art. 1359 c.c. - a norma del quale la condizione si ha per avverata se è mancata per causa

imputabile alla parte interessata al non avveramento - non intende riferirsi soltanto a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi, in concreto, secondo l’accertamento del giudice di merito, ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsi della condizione, ponendo in essere atti tali da contribuire a far insorgere un fattore modificativo del naturale iter attuativo dell’efficacia del contratto (nella specie, pattuita la compravendita di numerosi appartamenti per i quali era in corso la pratica di concessione edilizia e pagato il prezzo con la datio in solutum di un terreno edificabile, l’adempimento delle obbligazioni del costruttore promittente venditore era stato garantito con polizza fideiussoria a beneficio della promissaria acquirente, la cui validità era stata condizionata al rilascio al venditore della concessione edilizia; la suprema corte ha confermato la sentenza di merito, che aveva ritenuto avverata la suddetta condizione perché il mancato rilascio della concessione edilizia era addebitabile all’omissione, da parte del promittente venditore, di adempimenti indispensabili).

A. Genova, 18-03-2004. Nell’ipotesi di condizione bilaterale, entrambi i contraenti hanno necessariamente interesse a

che la condizione pattuita a favore di ciascuno di essi si avveri, e quindi non trova applicazione l’art. 1359 c.c., che considera equivalente all’avverarsi della condizione il suo non verificarsi in dipendenza del comportamento positivo del contraente titolare di un interesse contrario.

Cass., sez. II, 06-08-2001, n. 10827. Con riguardo al rapporto che si costituisce per effetto della sentenza di accoglimento della

domanda di esecuzione specifica dell’obbligo a concludere una compravendita, il pagamento del prezzo, cui è subordinato il trasferimento della proprietà, se è vero che assolve alla funzione di condizione per il verificarsi dell’effetto traslativo, non perde peraltro la sua natura di prestazione essenziale destinata ad attuare il sinallagma contrattuale, con la conseguenza per cui l’inadempimento della correlativa obbligazione, può - nel concorso dei relativi presupposti - essere fatta valere dalla controparte, come ragione di risoluzione del rapporto o ipso iure o ope iudicis, e non già come causa di automatica inefficacia del rapporto medesimo ai sensi dell’art. 1353 c.c

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6.2. Il termine109 Il termine indica il periodo temporale entri cui si collocano gli effetti del

contratto.Può essere iniziale o finale. Quando al contratto è apposto un termine iniziale, i suoi effetti sono differiti a

quella data. Il termine iniziale indica, infatti, il momento a partire dal quale cominciano a

prodursi gli effetti del contratto. Deve essere distinto dal termine di adempimento dell’obbligazione, il quale indica “il tempo in cui la prestazione deve essere eseguita” (art. 1183 c.c.)I contratti cui è apposto un termine iniziale sono denominati “ad esecuzione differita”, per la configurazione dei quali è sufficiente che sia differita una sola delle prestazioni o una parte rilevante delle stesse.

Il termine finale indica il momento in cui il contratto cesserà di produrre effetti

ed assume rilevanza nei contratti di durata. Per alcuni casi la legge ammette che il contratto non contenga alcun termine: è

l’ipotesi del contratto a tempo indeterminato. Altre volte, invece, la legge impone che il contratto abbia un termine indicato nel massimo o nel minimo. Nel primo caso l’ordinamento valuta con particolare attenzione una durata eccessivamente lunga del rapporto. Esempio, il patto di non concorrenza non può avere una durata superiore a cinque anni. Nel secondo, al contrario, è valutata negativamente la durata troppo breve del rapporto. Ad esempio, la l. 392/1978 prevede che non possa avere un termine inferiore a 9 anni la locazione di immobili non abitativi.

Alla scadenza del termine il contratto si dice scaduto e non produce più effetti a

meno che non vi sia un rinnovo (o proroga) per volontà delle parti (proroga convenzionale) o espressa previsione di legge (proroga legale).

Giurisprudenza Cass., sez. III, 03-12-1997. L’istituto del sequestro preventivo non tollera l’apposizione di clausole, quali il termine o la

condizione, che alterino struttura, conseguenze e finalità legislativamente determinate come proprie della misura; non è pertanto ammissibile il c.d. sequestro condizionato la cui esecuzione viene differita e subordinata all’adempimento di specifiche prescrizioni entro un termine prefissato.

T. Milano, 17-06-2005. In ipotesi di contratto di apprendistato le parti possono e devono apporre un termine finale al

rapporto di apprendistato, non al rapporto di lavoro, posto che il contratto di apprendistato non può configurarsi come contratto di lavoro a termine; ne segue che è illegittima la cessazione del rapporto disposta per mera scadenza del termine di apprendistato e che il lavoratore ha diritto alla riammissione in servizio come lavoratore qualificato, nonché al risarcimento del danno.

6.3. Il modus110. Il modus o onere, “è un peso imposto dall’autore di un atto di liberalità

(donazione, legato, istituzione di erede) a carico del beneficiario”111. L’obbligazione

109 Cfr. V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di Iudica-Zatti, 2001. 110 Trabucchi, Istituzioni di diritto civile, Cedam, Padova, 2004, 147 ss.

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oggetto del modus è secondaria rispetto a quella di liberalità cui è apposta e di cui costituisce un limite.

Il modus si distingue dalla condizione, perché forma un precetto autonomo

rispetto alla disposizione principale per la cui attuazione non è necessario attendere che venga adempiuto l’onere.

Le disposizioni in materia prevedono che qualsiasi interessato possa agire per l’adempimento dell’onere (artt. 648,793 c.c.).Il beneficiario legatario o donatario, è tenuto all’adempimento nei limiti del valore della cosa legata o donata (artt. 671, 793 c.c.).

Se il modus non viene adempiuto gli interessati possono agire per chiedere l’adempimento dell’obbligo oggetto dell’onere senza che cada l’atto di liberalità, a meno che la causa di risoluzione non sia stata prevista dalle parti. Quando l’onere è apposto ad una disposizione testamentaria l’autorità giudiziaria può pronunciare la risoluzione della obbligazione principale quando l’adempimento dell’onere ha costituito l’unico motivo del lascito.

Il modus impossibile o illecito è nullo, ma la disposizione di liberalità rimane

valida, a meno che l’atto di liberalità non sia stato posto in essere per il solo scopo impossibile o illecito.

Giurisprudenza Cass., sez. III, 28-06-2005, n. 13920. In ordine alla corretta qualificazione di un contratto come comodato o come locazione di

immobili, il carattere di essenziale gratuità del comodato non viene meno se si inserisce un modus, posto a carico del comodatario, purché esso non sia di consistenza tale da snaturare il rapporto, ponendosi come corrispettivo del godimento della cosa ed assumendo quindi la natura di una controprestazione (in applicazione del suindicato principio la suprema corte ha cassato la sentenza della corte di merito che aveva qualificato il rapporto come di comodato precario, omettendo peraltro di considerare l’entità dell’onere economico posto a carico della beneficiaria, consistente nel pagamento del canone, degli oneri accessori e delle utenze: elementi viceversa necessari, onde poter valutare se tale assetto contrattuale fosse compatibile o meno con il carattere di gratuità del comodato).

Cass., sez. II, 28-06-2005, n. 13876. In tema di attribuzioni a titolo gratuito, lo spirito di liberalità è perfettamente compatibile con

l’imposizione di un peso al beneficiato, purché tale peso, non assumendo il carattere di corrispettivo, costituisca una modalità del beneficio senza snaturare l’essenza di atto liberalità della donazione; peraltro costituisce indagine di fatto attinente all’interpretazione del negozio di donazione che, come tale, è riservata al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se congruamente e correttamente motivata - stabilire se l’onere imposto al donatario sia tale da porre in essere un modus oppure valga a imprimere al negozio carattere di onerosità (nella specie, è stata confermata la sentenza impugnata che, nell’escluderne la natura di vitalizio oneroso, aveva qualificato come donazione morale il contratto di trasferimento a titolo gratuito della nuda proprietà di un immobile con l’obbligo a carico dei beneficiari di prestare assistenza alla donante).

Cass., sez. I, 11-06-2004, n. 11096. È ammissibile l’inserimento del modus come elemento accessorio di un negozio atipico di

liberalità (nella specie, si è ritenuto che l’atto unilaterale con cui il proprietario aveva acconsentito all’occupazione di un terreno da parte di un comune, inserendovi l’obbligo, per quest’ultimo, di costruire un manufatto, avesse natura di disposizione modale anziché di atto sub condicione).

111 Trabucchi, op. cit.

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7. L’interpretazione del contratto. 1. Interpretazione della legge e del contratto. Ovunque vi sia una manifestazione oggettiva artistica, letteraria, giuridica entra

in gioco la nostra attività interpretativa. Il che ha indotto taluno, autorevolmente, a ricercare un elemento comune che starebbe in ciò.

Riprodurre l’altrui pensiero sino a scoprire la chiave spettacolare , orchestrale, letteraria, filosofica dell’opera oggetto di esegesi . L’interpretazione giuridica ha in questo ipotetico genus una funzione dettata dalla peculiarità del testo. Deve fornire la massima per decidere o per l’azione.

Essa contiene un momento ricognitivo: ricostruire l’idea originaria della formula o del contegno, ma non si arresta a tale momento perchè ha di mira un risultato pratico: prendere posizione su di un conflitto di interessi, su di una richiesta di tutela o un accertamento rilevante. Attraverso di essa è necessario bilanciare interessi e valori contrastanti.

E’ da sempre controversa l’idea che l’interpretazione del contratto possa confrontarsi con le regole di interpretazione della legge e che questa possa riferirsi ad un’attività intellettiva comune ad altre scienze umane. Tale indicazione è corretta e utile con un limite preciso. Il metodo deve evitare ogni tentazione dogmatica e ha il solo scopo di precisare l’attività che si richiede a chi si pone di fronte ad un testo contrattuale. Con questo limitato intento si possono premettere alcune indicazioni generali

E’ nota l’influenza sul tema di orientamenti ideologici e filosofici tanto che in alcuni ordinamenti si è preferito non disciplinare la materia. Non così nel nostro sistema ove si disciplina separatamente l’interpretazione della legge e del contratto. Che è utile ripercorrere, per alcuni profili, assieme.

1.1 criteri Primo fra tutti il problema del rapporto fra l’interpretazione letterale e gli altri

criteri previsti nell’art. 12 e negli articoli 1362 e seguenti. La cultura illuminista e i valori espressi dalla Rivoluzione francese hanno tentato di vincolare l’interprete ad un’attività di mera ripetizione del contenuto della legge ed è chiarissimo il perché.

Il divieto di interpretare è espressione di un rifiuto di ogni intermediazione fra volontà generale e cittadini.Frutto della fiducia illimitata nella legge, della reazione contro precedenti abusi dell’ancien regime, ma anche della volontà di subordinare i giudici al potere politico.

L’art.12 e il suo riferimento all’intenzione del legislatore impone di non fermarsi alla lettera della legge ma di tener conto della storia e dello scopo pratico che la norma si propone di perseguire.

Sono noti i criteri. L’evoluzione normativa, il procede sistematico della ricerca di senso, la valutazione comparativa degli interessi tutelati dal precetto. C’è sotto ad essi l’idea che il linguaggio del legislatore sia coerente e che sia riconoscibile anche una coerenza dei fini e degli interessi tutelati. Ciò esiste all’interno di un corpo unitario come il codice o di un testo contrattuale (1363 c.c.). Non sempre è possibile nell’interpretazione di una legge o di un provvedimento speciale.

Si può comunque ricordare che in entrambe le operazioni esegetiche la attività di comprensione del testo letterale è insufficiente. Qualche dubbio esprime la Cassazione in tema di interpretazione del contratto sull’opportunità di utilizzare altri criteri quando il senso letterale delle parole conduca a risultato di certezza. Ma di

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recente si reputa sempre necessario il criterio ermeneutico evocato dalle varie clausole contrattuali (1363 c.c.) (Cass.11.6.1999 n.5747) e fondato sull’ insieme di regole comportamentali di lealtà e correttezza ( 1366 c.c.) (Cass.12.11.1992 n.12165) che può condurre a individuare doveri strumentali al soddisfacimento delle parti contraenti, anche in caso di mera “ inerzia cosciente e volontaria” ( Cass.17.2.2004 n.2992). Su cui dovremo nel proseguo soffermarci.

Qualche precisazione merita anche il riferimento alla cosiddetta interpretazione

evolutiva che può prestarsi a varie ricostruzioni. Si può far riferimento ad essa come ad un interpretazione più o meno libera per adattare il contenuto delle norme ad esigenze pratiche sorte in epoca posteriore alla sua emanazione e in tal caso non si tratta di interpretazione, ma della creazione di una nuova norma e ciò non è consentito al giudice e all’interprete. Si è parlato in passato di un uso alternativo del diritto. Ma l’uso alternativo deve preludere al diritto alternativo: l’unico che può dar regole alle nuove esigenze.

Ancora non si può parlare di interpretazione evolutiva quando la norma ha un contenuto elastico che autorizza una certa discrezionalità perché in tal caso siamo in presenza di una tecnica normativa fondata su clausole generali o norme dal contenuto indeterminato. Tale tratto riguarda dunque la norma e non la sua esegesi.

In verità, come ci ricorda Santi Romano, l’interpretazione è un attività intellettiva. Essa non è che il riflettersi, come in uno specchio, del diritto vivente ed effettivo nell’intelletto di chi vuole o deve conoscere il diritto. Sicché la qualifica di evolutiva è incompatibile con la stessa natura dell’interpretazione. E’ l’ordinamento che si evolve e l’interprete e il giudice debbono applicare il diritto qual è e non quale è stato o quale si vorrebbe che fosse.

2. I soggetti Il ricorso alla legge nell’interpretazione di un testo normativo o di un contratto

è, come è noto, l’unico strumento tecnico che vincola tutti. Diverso è il ruolo del giudice e della dottrina.

Sul ruolo della giurisprudenza è necessario richiamare tre norme costituzionali: gli art. 101, 24, 111. Vediamoli da vicino.

La prima norma vincola il giudice solo alla legge. Collega dunque la funzione

giurisdizionale alla sovranità popolare e la soggezione alla legge precisa questo collegamento. La sua attività non si attua in una forma di partecipazione politica ma attraverso un’attività intellettiva. In tale attività non può ingerirsi un altro potere e neppure un altro giudice. Non esiste neppure una soggezione rispetto al Parlamento perché il giudice può sollevare una questione di costituzionalità di una legge ordinaria. Il giudice partecipa dunque all’attuazione della volontà generale, spesso muovendosi su di un labile confine con l’ambito riservato alla politica che assieme al diritto, del resto , è una scienza sociale.

Le altre due norme chiariscono il rapporto fra eguaglianza e disparità di potere

fra i cittadini sancita nell’art.3 1° e 2° comma della Costituzione112 . La parità delle situazioni soggettive ( diritto, obbligo, potere ,dovere) di fronte

alla legge e al giudice è garantita, in Italia, espressamente dalla Carta costituzionale.

112 v sul punto il bel libro di A. Orsi Battaglini, Alla ricerca dello Stato di diritto. Per una Giustizia “ non amministrativa”,Milano,2005, p.115,116,117-118,121-122.

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L’art.24 riconosce, su di un piano di assoluta parità, ogni situazione di diritto e interesse legittimo e l’art. 111 esige che tali situazioni siano valutate da un giudice terzo e imparziale.

Tutto ciò significa che il rilievo di eventuali disparità di potere dei contraenti non può essere accertato e deciso sul piano delle situazioni soggettive. Eguali per tutti. L’eguaglianza sostanziale imposta dall’art.3 2° comma dovrà essere assicurata attraverso l’accertamento giudiziale della diversità che dovrà fondarsi esclusivamente sull’attuazione di una norma, l’uso corretto di clausole generali, la qualificazione giuridica di un fatto che giustifichi il trattamento differenziato113.

Quanto alla dottrina non si può che ricordare che la vita sociale è contemplata

dal diritto non già nella sua complessità, ma attraverso schematizzazioni. La norma semplifica e distingue. Le fonti si diversificano sino a rappresentare un panorama impensabile sino a pochi decenni fa. Sarà necessario individuare per ogni problema di vita la norma primaria o secondaria del Parlamento o di Altra Autorità, nazionale o comunitaria, sovranazionale o convenzionale, conoscere attentamente gli orientamenti della giurisprudenza italiana e comunitaria.

Da qui l’esigenza di un’attività conoscitiva ove conserva un ruolo importante l’astrazione e l’elaborazione di concetti e categorie dei quali spesso non si può fare a meno. Con un limite preciso.

Concetti e categorie esprimono realtà mutevoli come sono mutevoli i dati da cui sono costruiti. La loro efficienza e utilità sarà subordinata alla verifica costante del loro contenuto che deve esprimere ,sempre, una razionalità senza dogmi tale da non fermarsi alla lettera della legge o alla massima delle sentenze, ma capace di usare la logica per sviluppare il criterio di soluzione nella sua razionalità ed effettività. Il tutto tenendo conto di un criterio indispensabile.

Occorre non sovrapporre la volontà dell’interprete alla ricerca della soluzione giusta e corretta.

1.3 Norme e principi. Una prima chiarificazione dei termini esige un chiarimento sul significato di

lacuna. In una prima accezione essa si identifica con una situazione della vita che

sfugge al sistema normativo non è rilevante ed evoca ,dunque, uno spazio vuoto, un’assenza di norme. In questo senso si riconosce al giudice il potere di creare il diritto per il caso singolo o di sostituirsi alle parti nella individuazione del contenuto del contratto. Il pericolo è in entrambi i casi enorme.

Esiste un altro significato di lacuna. Il sistema positivo è completo . Consente di emettere una sentenza in ogni caso. Non esiste uno spazio giuridico vuoto, ma casomai un difetto di previsione specifica, (una lacuna in senso tecnico) da colmare con un procedimento analogico (art.12-14) o con un integrazione suppletiva rimessa nel contratto ad un ‘attività di ricerca del senso più rispondente ad un attività corretta (1366 c.c.) delle parti.

D’altra parte un testo contrattuale non è solo un insieme di segni linguistici. E’ il frutto di una volontà comune da ricostruire con attenzione alle dichiarazioni, ai contegni, e agli strumenti tecnici che consentono all’interprete di trarre da quel titolo il suo profondo significato. Criterio sistematico, buona fede, presunzioni (2727 c.c.)

113 A.Orsi Battaglini, op. cit.,p.117

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sono mezzi per colmare le lacune. Non solo l’art.1374 precisa che il contratto vincola le parti a ciò che hanno voluto ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge ,gli usi e l’equità. Criteri cogenti come la legge consentono di sostituire alla volontà dei contraenti una previsione legale e criteri suppletivi come gli usi e l’equità consentono al giudice di colmare i vuoti di regolazione presenti nel contratto. Anche se sul punto la diversità dei sistemi è molto accentuata.

Sull’analogia legis occorre solo richiamare qui la distinzione fra diritto speciale

e diritto eccezionale sui principi il discorso è più complesso. Sul primo aspetto sono utili qui solo alcune precisazioni riassuntive. Il diritto speciale si contrappone al diritto comune. E’ un modo più specializzato

di regolare ipotesi che rientrerebbero in quelle più ampie del diritto comune. Come cerchi concentrici se viene a mancare il diritto speciale il diritto comune torna a regolare la materia. Nella complessità attuale delle fonti il diritto speciale può essere un sistema ordinato e ne sono espressione i Codici emanati in esecuzione della norma sulla semplificazione legislativa. Ciò che conta è che tale diritto non è in contrasto con i principi della materia ma li specifica. Da qui la possibilità di una sua applicazione analogica.

Non è invece possibile l’ampliamento dell’ipotesi normativa eccezionale. Ed è

chiaro il perché. Quei precetti correggono la portata delle norme di un determinato sistema sottraendo all’operatività di esse una parte delle loro previsioni. Introducono un fattore di disuguaglianza di trattamento ed è ovvio che sia escluso la loro estensione analogica. (12-14c.c.)

Il ruolo dei principi è assai diverso per la legge e per il contratto, ma il tema può

essere affrontato ab origine ancora assieme. Nel codice francese non si trova una disposizione che faccia riferimento ai principi generali. Vi sono invece riferimenti a singoli principi. Il codice albertino è incerto sulla loro natura ma adotta una posizione singolare e aperta parlando di principi generali del diritto. Questa dizione passa poi nel codice del 1865 Sul finire dell’800 si affermano tesi volte a positivizzare i principi per evitare che essi assumano un ambito troppo elastico e l’ art. 12 delle preleggi al codice del 1942 fa riferimento ai principi dell’ordinamento positivo dello Stato. Formula molto restrittiva e insoddisfacente che ha origini precise. Si è voluto riaffermare la completezza dell’ordinamento e limitare l’arbitrio interpretativo. Ma era chiaro anche il motivo ideologico tratto dal contesto politico del tempo.

Si è voluto assegnare solo al diritto positivo il compito di assicurare la completezza del sistema mortificando l’attività dell’interprete. La insufficienza della norma è evidente e va sicuramente superata e corretta. Da essa si possono trarre comunque alcune considerazioni.

La norma evoca una regola che disciplina situazioni di interesse determinate mediante precetti determinati. I principi si ricavano dalle norme e dal sistema attraverso un meccanismo logico di induzione semplificante. Da questa indicazione si trae che non sempre un precetto specifico ( anche tramite l’analogia) può risolvere il problema di vita. Da qui l’espresso riconoscimento del limite del diritto positivo. Non solo.

Il richiamo necessario alla Costituzione repubblicana successiva al codice civile non fornisce solo un sistema di valori nuovo e diverso sul piano interno.

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All’art. 11 di quel testo si dice che l’ Italia … “consente in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni”. Sicchè il contesto ordinamentale si allarga ad un sistema che trascende i confini e i limiti del diritto statuale.

L’art. 117 indica ora un nuovo assetto delle fonti precisando che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.

2. L’interpretazione del contratto. Gli articoli del codice (1362-1371). I problemi Si suole distinguere una serie di criteri interpretativi di carattere soggettivo

(1362-1365 ) volti alla ricerca della comune intenzione dei contraenti, da una serie di indici di ordine oggettivo (1367-1370) necessari per ricostruire la finalità e l’ambito del regolamento predisposto. Fra le due serie di norme si colloca il richiamo alla buona fede (1366) e, in chiusura, i due criteri finali di ricostruzione del significato del testo (1371).

Questi tradizionali problemi debbono essere ripensati nell’ ambito dei contratti dei consumatori e dei contratti fra imprese.

Su tutti questi aspetti occorre soffermarsi. I problemi della disciplina generale del codice L’art.1362 C.C. 1° comma Sulla nozione di comune intenzione delle parti, pur essendo diverse le

espressioni utilizzate dalla dottrina , esiste una sostanziale identità di vedute nel individuare con tale termine il reale assetto di interessi , “lo scopo condiviso dalle parti e perciò comune ad entrambi i contraenti”114 che è criterio ermeneutico e non giudizio di valutazione o di qualificazione anche se i confini con la causa sono molto esigui115.

Il criterio è fissato dalla legge e dunque vincolante per l’interprete. La soluzione inversa è frutto della vecchia teoria che l’interpretazione coincida con la ricostruzione della volontà ma l’”attrazione delle regole ermeneutiche nelle norme propriamente giuridiche è conseguenza dell’abbandono di quella dottrina. E tale conseguenza è indiscussa”. Le parti non possono vincolare il giudice ad una determinata interpretazione. Il giudice è vincolato sì da una concorde visione dei fatti ma non quando “ il fatto su cui si è concordato non è verisimile”. Dovrà decidere “ sulle domande e nei limiti di queste ma per risalire al significato delle dichiarazioni può interpretare un contratto anche in modo non prospettato dalle parti”116.

114 N. Irti, Testo e contesto,Padova 1966,p. 25; ma v. anche C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova,1983,p. 108.; M.Casella, Il contratto e l’interpretazione. Contributo ad una ricerca di diritto positivo, Milano,1961,p.143; V.Rizzo, Interpretazione dei contratti e relatività delle sue regole, Napoli, 1985,p.163 ss.; C. Scognamiglio, Interpretazione dei contratti e interessi dei contraenti, Padova 1992, p.273,324. 115 V. sul punto B. Sirgiovanni, Interpretazione del contratto non negoziato con il consumatore, in Rass.dir.civ.2006, p.730. 116 R.Sacco e G. De Nova, Il contratto, op.cit.p.

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La ricognizione del senso letterale non si contrappone alla ricerca della comune intenzione. Entrambi hanno di mira dati oggettivi come le parole usate o i comportamenti e un fine comune. Cogliere la ratio contractus , la “ragione” del singolo contratto che “ esprime un criterio di interna coerenza”117. Resta da precisare se esiste una gerarchia dei criteri interpretativi riassunta per lo più nella frase in claris non fit interpretatio: quando il senso letterale ha condotto a risultati soddisfacenti non si dovrebbe passare a fasi ulteriori. Questa convinzione va precisata.

Non è dubbio che la scienza giuridica è incentrata dal “primato del testo”118. Ciò

significa in primo luogo che “ non è consentito attribuire alla dichiarazione, in base a dati extratestuali, un significato privo di congruenza con il testo”119. L’interprete deve accertare il senso delle parole “ nel contesto verbale, nell’unità di tutte le clausole, come nel contesto situazionale”. Sicchè “ il principio di ultraletteralità si determina nel principio di complessità. Il legislatore usa l’aggettivo “ complessivo” nel secondo comma dell’art. 1362 e nella rubrica dell’art.1363; ed il sostantivo complesso nel testo di questo articolo. La disciplina dell’interpretazione è pervasa dall’immagine di un tutto, che raccoglie molteplici parti e le tiene insieme per uno scopo comune”120.

La chiarezza del dettato dunque non preclude ma induce alla diffidenza rispetto a mezzi extratestuali. Rodolfo Sacco riferisce il testo di una massima fortunata “ qualora il senso letterale di un contratto riveli con chiarezza e univocità la comune volontà dei contraenti e non sussista alcuna divergenza fra la lettera e lo spirito della convenzione un ulteriore interpretazione e inammissibile”. Ciò significa che “ la chiarezza e univocità del dettato rivela solo quando lo spirito della convenzione non ne diverge”. Nel conflitto insomma fra lettera e argomento extratestuale occorre che chi giudica enunci i suoi convincimenti sulla sufficienza del testo o i suoi dubbi sulla prevalenza dell’argomento opposto.121

L’art.1362 c.c. 2° comma. Si è individuato in dottrina un “duplice criterio di valutazione” del

comportamento complessivo. “Il segmento anteriore alla conclusione del contratto, richiede un criterio

prospettico, volto al futuro”, ove l’interprete “ deve distinguere ciò che cade e ciò che sopravvive, dove lo scopo rimane di una sola parte e dove si fa comune ad entrambe”. “ Il segmento posteriore alla conclusione del contratto esige un criterio retrospettivo. Alla libertà di concludere o non concludere è subentrata la necessità giuridica di eseguire.

L’intenzione comune assume uno schietto carattere interpretativo : il comune modo di comportarsi è un comune modo di intendere l’accordo già concluso…le parti prendono posizione rispetto al contenuto del contratto.122”

Occorre distinguere tre ipotesi123:

117N.Irti, Testo e contesto, op. cit. p. 19. 381 L.Mengoni, Problema e sistema nella controversia sul metodo giuridico, in Diritto e valori, Bologna, 1985,p.47. 119 L.Mengoni, Interpretazione del negozio e teoria del linguaggio, in Il contratto-Silloge in onore di G. Oppo,I, Padova,1992,p.318 ss. 120 N.Irti, op. cit. p.18 121 R.Sacco, op. cit. p.388. 122 N.Irti, Testo e contesto, op.cit.p.35,36. 123 Vedile in N.Irti, Testo e contesto, 38-40.

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se il contratto necessita di una forma ad substantiam i comportamenti comuni “non possono allargare o integrare il contenuto del contratto” ma di essi si dovrà tener conto per l’interpretazione visto che l’art. 1362 riguarda ogni contratto.

Se l’atto di autonomia non è soggetto ad un formalismo legale o volontario “ dal comportamento complessivo sono ricavabili, non soltanto comuni intenzioni delle parti, ma pure accordi, che integrino o modifichino il contratto”

Se il contratto è concluso senza l’uso di parole manca un senso letterale ma l’art.1362 è applicabile comunque.

Quanto al valore del comportamento complessivo alcune volte la giurisprudenza

reputa che il comportamento debba essere bilaterale124 altre volte da rilievo anche al contegno unilaterale125. Ma in verità “ il comportamento delle parti è rilevante quando logicamente se ne possa inferire la volontà o l’opinione delle parti sul valore del testo” ed “ ha questa attitudine il comportamento bilaterale”126.

L’art. 1366 e l’ interpretazione secondo buona fede. La norma pone da sempre dubbi e interrogativi soprattutto nell’identificare quali

soluzioni siano conformi alla buona fede e in che modo tale criterio aggiunga un ulteriore significato a quanto già previsto nell’art. 1362 e 1367127.

a) le definizioni più risalenti riferivano l’interpretazione secondo buona fede a

quella che si svolge in modo conforme “alla intenzione delle parti e allo scopo che esse si sono proposte contrattando”. Ma la fedeltà alla volontà comune è già richiesta dall’art.1362. Sicchè quando essa esiste ed è nota “non c’è bisogno dell’art.1366 per darle forza”.

b) Abbandonata l’equivalenza fra buona fede e volontà si opta per un significato più oggettivo. Da qui l’idea che la buona fede esplicita il rilievo di una “ reciproca lealtà di condotta fra le parti”128, ma la definizione non aggiunge niente al significato dell’art.1366.

c) Molto diffusa è l’dea di un collegamento fra la norma e il principio di affidamento. Secondo Grassetti “ data una dichiarazione che la controparte aveva il diritto di intendere in un dato senso” “ questo senso sarà rilevante per il diritto e il dichiarante non potrebbe invocare un significato diverso”129. Sicchè interpretare secondo buona fede una dichiarazione significa, secondo questa tesi, “ mettersi nella disposizione di chi debba prenderne cognizione”130. Ma ciò non è convincente perché “il contratto non è l’isolata dichiarazione di una persona ad un’altra ma un ceppo di dichiarazioni reciproche: un testo unitario a cui portano la loro adesione entrambe le

124 V. da ultimo Cass. 18 aprile 1995, n.4333, in Giust. Civ. 1995, I,1451, con nota di Costanzo; Cass. 13 agosto 2001, n.11089. 125 Per lo più alla manifestazione di una parte accolta senza dissenso dall’altra o alla manifestazione contraria al proprio interesse. V.Cass. 2 novembre 1978, n.4983 e Cass. 6 marzo 1995,n. 2570. 126 R.Sacco, Il Contratto, p. 403 127 Si veda su questo punto e sulle successive argomentazioni R.Sacco, op. cit. p.407 ss. 128 C. Grassetti, op. cit. p. 197. 129 C.Grassetti, op. cit. p. 197. 130 Mirabelli, I contratti, p. 205.

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parti. Non c’è un dichiarante e un destinatario i due contraenti partecipano delle due qualità”131.

d) La teoria dell’ affidamento si può arricchire in due ulteriori indicazioni. Si può far prevalere il significato che entrambe le parti dovevano dare al testo , ma ciò riflette o “ un codice comune alle parti o un significato oggettivo” che si ricava già dall’art. 1362”.Sicchè ,ancora, l’art.1366 sarebbe una ripetizione. D’altra parte si può dar rilievo all’ipotesi della predisposizione del contratto che però è già disciplinata dall’art. 1341 1370 e dalle norme speciali in tema di consumo. Ciò induce ad osservare che l’art.1366 non si è prestato a sviluppi particolarmente interessanti perché “ le applicazioni che esso ha generato prima del 1942 sono oggi tradotte in regole legali specifiche e perciò sono diventate autonome rispetto alla matrice che le ha prodotte”132.

E si comprende come da qualche tempo si formulano letture più impegnative dell’art. 1366 su cui non esiste un largo consenso ma che hanno sicuramente una base giustificabile.

• Si ipotizza un suo ruolo nel caso di effetti dannosi imprevisti e perciò ingiusti, aprendo la via al tema della revisione o ripetizione del contratto ,senza alterare rischio e oneri predisposti dalle parti.

• Si può utilizzare, secondo alcuni, l’art.1366 per “rettificare dettagli di un negozio, cancellandone quanto inserito grazie all’abuso del disagio (debolezza, ingenuità,timidezza) o della momentanea mancanza di discernimento della controparte”133

• La Corte di cassazione di recente ( Cass. 12 aprile 2006 n.8619 ) precisa che “ la volontà delle parti non può essere integrata con elementi ad essa estranei e ciò anche quando sia invocata la buona fede come fattore di interpretazione del contratto, la quale deve intendersi come fattore di integrazione del contratto non sul piana interpretativo ma su quello –diverso- della determinazione delle rispettive obbligazioni delle particome stabilito nell’art.1375 c.c.

L’interpretazione dei contratti dei consumatori Gli articoli 34 1° comma e 35 2° comma, contenuti prima negli articoli 1469 ter

1° comma e 1469 quater 2° comma, pongono il problema di coordinare tali disposizioni con la disciplina generale dell’interpretazione e sono diverse le ricostruzioni offerte dalla dottrina su cui occorre soffermarsi. Vediamole da vicino.

a)Per una prima teoria anche il contratto non negoziato stipulato fra

professionista e consumatore deve essere interpretato secondo i criteri posti dall’art. 1362 graduando i criteri esegetici. Dapprima una esegesi soggettiva volta a cogliere la comune intenzione e solo se permane il dubbio sul significato l’interpretazione oggettiva.134 Sicchè anche per tali contratti si dovrebbe ricostruire la “comune

131 R.Sacco, op. cit. p. 408. 132 R.Sacco, op. cit. p.408. 133 R.Sacco, op. cit. p.410. 134 N.Irti, Principi e problemi di interpretazione contrattuale,in Riv.trim.1999,p.1140; S.Martuccelli, L’interpretazione dei contratti del consumatore, Milano,2000;C.Scognamiglio,Principi generali e disciplina speciale dell’interpretazione dei contratti dei consumatori,Riv.dir. comm.1997,,p.947.

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intenzione delle parti” ai sensi dell’art.1362 1° comma, intesa come “risultato avuto di mira dalle parti”135.

Le posizioni di coloro che adottano tale tesi differiscono fra loro per alcuni

aspetti che è utile individuare. • Per alcuno l’art. 35 sostituisce l’art. 1370 nella graduazone prevista dalla

scansione delle norme del codice136. • Altri attribuisce a tale norma il carattere di norma interpretativa speciale al

pari degli art. 1925 e 1932 in tema di contratto di assicurazione. Con essa il criterio dell’interpretazione più favorevole a consumatore è criterio applicabile subito dopo la ricerca della comune volontà e con carattere di priorità rispetto a qualsiasi altro canone oggettivo137.

• Altri ancora reputa che l’art.35 sostituisca ogni altro canone di interpretazione oggettiva. Sicchè nel contratto fra professionista e consumatore opererebbero i soli articoli 1362,1363,1364,1365,1366 oltre all’art.35 2° comma come criterio oggettivo.138

b) Una diversa teoria reputa che al contratto non negoziato tra professionista e

consumatore non sia applicabile il criterio della interpretazione soggettiva e ciò con varie giustificazioni tecniche.

• Alcuno distingue fra contratto concluso mediante condizioni generali di

contratto per il quale non opererebbe il criterio soggettivo e contratto predisposto da una parte ove tale criterio troverebbe ancora spazio139.

• Altri escute in ogni caso i criteri soggettivi stante “ l’assoluta assenza in questi casi di una comune determinazione programmatica140. Sicchè i criteri interpretativi si ridurrebbero alla analisi del tenore letterale e al criterio più favorevole al consumatore. Ne segue l’idea di un doppio binario per i contratti disciplinati dal codice civile e i contratti dei consumatori destinatari di una disciplina speciale.

• Altri ancora attribuiscono ,nei contratti non negoziati, un ruolo centrale alla regola dell’art.1366 che consentirebbe di filtrare valori e principi dell’ordinamento e di operare un controllo sostanziale sul contratto.141

• Altri ancora reputa inapplicabile l’art. 1362 e 1366 ritenendo invece applicabili gli art.1363,1364,1365142.

d) E’ possibile un’ulteriore ricostruzione valorizzando l’art. 34 del codice di

consumo il quale adotta un ulteriore canone di totalità rispetto all’art. 1363 dando rilievo alle clausole di un altro “contratto collegato e dipendente” e alle “circostanze esistenti al momento della conclusione del contratto” ( da intendere

135 v. la utilissima ricostruzione delle varie posizioni , in B.Sirgiovanni, Interpretazione del contratto non negoziato con il consumatore, in Rass. Dir. Civ.,2006, p.729 e nota 28. a tale testo, riassuntivo e critico, si farà qui riferimento. 136 N.Irti, Principi e problemi di interpretazione contrattuale, op. cit.p. 1154 nota 58 137 S. Martuccelli,op. cit. p.139. 138 C.Scognamiglio, op. cit. p.967. 139 G.Stella Richter, L’interpretazione dei contratti dei consumatori, in Riv. trim. 1997, p.1027. 140 A.M. Azzaro, I contratti “non negoziati,Napoli, 2000, p.264.265 e B. Sirgiovanni, op. cit. p.732. 141 A. Di Amato, L’interpretazione dei contratti di impresa,Napoli 1999, p. 183; e M Pennasilico, L’interpretazione dei contratti del consumatore, in Il diritto dei consumi, a cura di P.Perlingieri e E. Caterini, Napoli,2004,p.145 ss. 142 A. Genovese, Contratti standard e interpretazione oggettiva,Milano, 2004, p26 ss.

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come comportamenti e circostanze di fatto relative anche alla diversità di potere, di informazione, di consapevolezza). Sicchè in tal modo si “individua un materiale ermeneutico non del tutto sovrapponibile a quello indicato negli articoli 1362 e 1363 c.c. superando anzitutto un obbiezione relativa alla logica antecedenza fra criteri interpretativi ( 1362 e ss.) e criteri di giudizio della vessatorietà fra i quali è previsto appunto l’art.34 cod.cons.. L’intendere si osserva “ è preordinato al fine di regolare l’agire” sicchè l’attività di regolazione giuridica è rivolta a “ conoscere il volere” delle parti e “ gli effetti che da questo discendono”. Ne segue che il processo interpretativo deve essere relativizzato tenendo conto della peculiarità dei singoli contratti e dei criteri “ di vessatorietà di una clausola” che possono costituire “ uno dei significati attribuibili alla clausola medesima”. L’art. 34 consentirebbe quindi di “adeguare i criteri soggettivi delineati dagli art. 1362-1366 alle peculiarità del contratto non negoziato” senza introdurre un diverso criterio ermeneutica ma ampliando il contesto verbale a clausole da cui si può trarre la comune intenzione delle parti nei contratti negoziati ove la trattativa risulta per lo più assente.

e) L’idea è che nel contratto non negoziato il testo perda la sua centralità divenendo

“ un tassello da inserire nel contesto che travalica i confini del contratto “ investendo fattori esterni che lo circondano”.143 A ciò si aggiunge l’art.35 cod.cons. il quale “ esclude il ricorso agli altri criteri ermeneutica oggettivi che presuppongono dubbi ( 1367 e 1369) e ambiguità (1368)” ma non l’art.1371. Tutto ciò vale naturalmente per i contratti non negoziati perché predisposti con le clausole generali o con il singolo contratto dal professionista. Non per i contratti frutto di trattative individuali o tra contrapposte associazioni di categoria.144 Di particolare interesse è anche l’art.35 cod.cons. 3°comma che esclude

l’applicabilità del principio della interpretatio contra proferentem nel caso di azione inibitoria esperita dalle associazioni dei consumatori. Il significato è chiaro. Il controllo collettivo tutela interessi di una collettività, quella dei consumatori, con finalità di regolazione del mercato…..mentre il controllo individuale tutela, invece,l’interesse individuale di colui il quale stipula il singolo contratto”.145

2.4 L’interpretazione dei contratti fra imprese. Nel settore dei contratti di impresa valgono due conclusioni già raggiunte in

precedenza. La nozione deve essere scomposta in una diversa serie di negoziazioni a

seconda che si tratti di contratti unilateralmente commerciali (B to c), ove si può richiamare quanto detto in precedenza a tutela del consumatore, o di contratti bilaterali ove è necessario ancora distinguere contratti fra imprese privi di significative asimmetrie (BtoB) o ancora di contratti fra ove invece la posizione delle parti è sostanzialmente diversa per una serie di circostanze soggettive o oggettive (B to b)146.

143 così B.Sirgiovanni,Interpretazione del contratto non negoziato con il consumatore, op.cit. p.745 ss. 144 B.Sirgiovanni, op. cit. p.754 145 B.Sirgiovanni, op. cit. p.767. 146 v. C. Scognamiglio, I contratti di impresa e la volontà delle parti contraenti, in Il diritto europeo dei contratti d’impresa . Autonomia negoziale dei privati e regolazione del mercato, a cura di P. Sirena, Milano, 2006, p.493 ss.; G. Vettori, I contratti di distribuzione, ivi, p.482 ss.

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D’altra parte emerge con sempre maggiore consapevolezza l’idea che i criteri di interpretazione devono essere diversificati in relazione al peculiare modo in cui la manifestazione dell’autonomia privata si esplica147.

Le posizioni in dottrina sono comunque distanti su aspetti centrali

dell’interpretazione di tali contratti. Da una parte si osserva che “ nessuna efficacia può avere la difesa della volontà

psicologica, quando di tale volontà manca ,di fatto, qualsiasi traccia” e si propone di recuperare un rilievo alla soggettività del contraente “ mediante il ricorso ad istituti, quali quello della buona fede, che consentono di restituire, anche nello scambio, la centralità che la persona ha nell’ordinamento”148. Dall’altra si rivaluta anche in tali contratti il ruolo della volontà dei contraenti e dei criteri anche soggettivi di interpretazione.

La verità è che occorre, come si è accennato innanzi, diversificare le varie figure

contrattuali sulla base di una considerazione generale. a) Nei contratti standard, fra un professionista e un consumatore, non si “può

negare l’esistenza né di una comune intenzione né quella di un accordo” perché l’adesione ad un programma negoziale predisposto può ben avvenire anche nell’iter procedimentale di uno scambio fra una proposta e un’accettazione. E’ vero che l’accordo in tal caso si coglie nell’adesione ad programma già definito ma l’accordo non può essere mitizzato come non lo è dal legislatore nel predisporre vari procedimenti sulle modalità con cui le parti possono “mettersi d’accordo”. In tal caso occorre conciliare il canone interpretativo sulla comune intenzione dei contraente “ con la rilevanza del complesso delle circostanze all’interno delle quali l’operazione contrattuale si inserisce”. Così le disposizioni previste in tema di controllo della vessatorietà può orientare anche l’interpretazione. Oltre a ciò che si è detto in proposito si può precisare che l’art. 1469 bis n.14 ( ora art. 33 lett. p cod. cons.) qualifica come vessatoria la clausola con cui il professionista sia sia riservato in modo esclusivo il diritto di interpretare una clausola.149

b)Nel caso di contratti fra imprese, conclusi o meno mediante condizioni

generali di contratto, sarà di ausilio innanzi tutto il criterio interpretativo previsto nella disciplina generale del codice civile a cui si dovrà unire l’esame della normativa speciale ispirata ad una ratio di protezione di un contraente imprenditore ( in tema di abuso di dipendenza economica, franchising e di termini di pagamento) o alla disciplina giuridica del mercato di cui la singola contrattazione non è che un segmento150. Da tali disposizioni si potranno trarre quelle circostanze soggettive e oggettive utili a integrare o sostituire i criteri di interpretazione di carattere oggettivo.

c) La buona fede (1366 ) può giocare un ruolo non già in funzione correttiva “

che rischierebbe di inquinare la funzione propria del procedimento interpretativo

147 sul punto si veda ora il bel libro di A. Rizzi, Interpretazione del contratto e dello statuto societario, Milano 2002. 148 A.Di Amato, L’interpretazione dei contratti di impresa, Napoli, 1999, p.183 ss. 149 C.Scognamiglio,I contratti di impresa e la volontà delle parti contraenti, op.cit.p.502. 150 G.Vettori, Autonomia privata e contratto giusti, op.cit.p.20

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bensì come tecnica di ricostruzione di quel tanto di libertà oggettivata che abbia potuto trovare espressione nella disciplina del concreto rapporto”151.

E’ utile ricordare al riguardo una recente sentenza di merito, ove si afferma che la buona fede impone “ di interpretare il contratto nel senso di adeguarlo al significato sul quale le parti potevano e dovevano fare ragionevole affidamento e di evitare interpretazioni cavillose, in contrasto con la causa del contratto e con lo spirito dell’intesa”152

151 C. Scognamiglio, “Statuti” dell’autonomia privata e regole ermeneutiche nella prospettiva storica e nella contrapposizione tra parte generale e disciplina di settore, in Tradizione civilistica e complessità del sistema, op.cit.,p.290. 152 v. L.Delli Priscoli, Il divieto di abuso di dipendenza economica nel franchising, fra principio di buona fede e tutela del mercato, nota a Trib. Isernia, 12 aprile 2006,in Giur. Mer.,10, 2006, p.2149 “ la sentenza ruota intorno all’interpretazione della clausola del contratto secondo la quale l’affiliante si impegna a non istituire ulteriori affiliazioni nella zona riservata all’affiliato, fermo restando la facoltà in suo favore di tenere rapporti commerciali di diversa natura –ossia non di affiliazione- nel predetto territorio. Secondo l’affiliante questa clausola gli avrebbe legittimamente permesso di entrare nella zona di pertinenza dell’affiliato vendendo personalmente i propri beni.” p.2158

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La qualificazione del contratto. La causa si è detto esprime sempre la necessità di una valutazione, ma accanto a

questa funzione è sempre necessaria un’ulteriore attività conoscitiva o di qualificazione volta a :

a) fissare ciò che le parti hanno voluto; b) individuare la disciplina applicabile ( 1322) in ogni particolare

contratto per il quale il codice prevede regole generali regole speciali. Rodolfo Sacco ci ha ricordato da tempo che il contratto atipico cui applicare le

sole regole generali contenute negli articoli compresi fra 1321 e 1469 non è mai apparso nei tribunali. Ciò per una tendenza alla tipizzazione legale o sociale, derivante da una ripetizione costante di schemi negoziali utili, che risale alla tradizione romana.

D’altra parte il giudice nell’accogliere un’azione fondata sul contratto non è tenuto ad indicare il tipo contrattuale e tuttavia ha la tendenza a tipizzare qualche volta anche quando non serve per la ricerca rassicurante di una norma positiva ad hoc che dia risposte certe alla ricerca della disciplina applicabile.

Resta da precisare che cosa intendiamo per tipo. L’art. 1322 c.c., prevede che le parti possono liberamente determinare il

contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge e concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare, purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico.

Dunque la legge adotta un doppio criterio nella identificazione della disciplina applicabile al contratto:

• una serie di contratti tipici aventi una disciplina particolare (1322.2) che sono descritti nel Titolo III del Libro IV c.c., e che provengono da una stratificazione che risale al diritto romano e si tramanda da secoli come disciplina che regola le prassi negoziali prevalentemente utilizzate dai privati

• Una disciplina generale che si applica a tutti i contratti ( 1323 c.c.) ancorché non appartenenti ai tipi aventi disciplina particolare.

Dal coordinamento fra gli articoli 1322 ed il 1323 c.c. si traggono alcune

indicazioni. Intanto, una considerazione generale. Non potrebbe mai essere dichiarato

invalido, inefficace, o improduttivo di effetti un accordo per il solo fatto che non risulti e non corrisponda a nessuno dei tipi legali. Ciò perchè i privati hanno l’autonomia di prevedere contratti diversi dai tipi col solo limite della meritevolezza di tutela.

Per la qualificazione del contratto queste due regole ci dicono poco. Qualcosa di più troviamo nell’art. 1323 c.c..

Da esso si evince che esistono tipi che hanno una particolare disciplina e che tutti i contratti, anche quelli che non appartengono ai tipi, sono sottoposti alle norme generali contenute nel Titolo secondo del quarto libro del codice civile, e cioè le norme generali che prevedono la disciplina di struttura, gli effetti, i rimedi.

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Queste indicazioni assieme al contenuto della leggi speciali e di settore orientano l’attività dell’interprete nella ricerca della disciplina applicabile al singolo concreto contratto. Ed a questo scopo serve la qualificazione.

Le parti pongono in essere un contratto, il quale sarà disciplinato dalla

normativa generale (tutte le regole contenute nel Titolo II) e dall’eventuale disciplina che sia contenuta in un tipo legale da tutte le norme di settore

Da qui il problema della applicabile della disciplina di un tipo legale. E’ molto difficile che un contratto posto in essere dai privati si identifichi

totalmente con un tipo . Anche un normale contratto di compravendita conterrà sempre qualche elemento inerente all’interesse che le parti hanno voluto perseguire, che sarà difficilmente riferibile totalmente al tipo legale della vendita. Ciò accadrà con più facilità, se ci si allontana dallo schema tipico per qualche circostanza, o pattuizione, o qualche interesse che le parti intendono perseguire con il contratto. Da qui la necessità di precisare quale sia il procedimento da seguire

I metodi sono diversi. Vediamoli da vicino. Si è pensato a lungo che la disciplina di un tipo sia utilizzabile nel disciplinare

un contratto posto in essere dai privati solo se quel contratto sia interamente riconducibile al tipo legale.

L’operazione da perseguire per stabilire la disciplina applicabile per quel tipo, doveva consentire la sussunzione della fattispecie concreta alla fattispecie legale, sicché si poteva applicare il tipo della vendita solo e soltanto se quel contratto posto in essere tra privati fosse interamente riconducibile allo schema legale, non quando le parti avessero inserito nel loro contratto di trasferimento, qualche altro elemento che alterasse quella funzione.

L’elemento utilizzato per ricondurre la fattispecie concreta alla fattispecie legale era spesso la causa considerata secondo la definizione corrente di quegli anni come elemento idoneo a identificare i singoli tipi legali caratterizzandoli per una funzione (di scambio, di godimento etc.).

Questa prima attività di qualificazione ha mostrato ben presto molti difetti fino ad essere del tutto abbandonata dalla più recente giurisprudenza, poiché questo metodo poneva un’alternativa rigida, basata sulla sovrapposizione della fattispecie concreta a quella legale per individuare se le due fattispecie coincidessero. Con la conseguenza di ritenere assolutamente inapplicabile la disciplina del tipo legale tutte le volte che il contratto posto in essere dalle parti si discostasse dal tipo legale. Un metodo di operare molto rigido, schematico, che portava a sacrificare tutta la disciplina contenuta nel tipo legale ogniqualvolta le parti arricchivano lo schema legale con qualche altra funzione più idonea al perseguimento dei propri interessi.

Controversa del resto è in tale fase l’ utilità della causa. Il metodo di qualificazione basato sulla sussunzione nasce dall'idea che esista

un unico elemento per distinguere i vari tipi. Questo elemento è stato a lungo identificato nella causa , confusa con la disciplina dei tipi o nelle norme cogenti che indicano i caratteri essenziali di un contratto e ne consentirebbero l'individuazione attraverso appunto la funzione . Ma i limiti di questo procedimento sono apparsi sempre più evidenti:

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Non esiste un unico elemento per distinguere i vari tipi e la causa non può essere elemento unificante. Basta pensare al leasing ove confluiscono cause molto diverse fra loro.

La verità è che i vari tipi si distinguono in base a molteplici criteri. Dalla qualità delle parti, alla natura del bene, agli effetti. La sussunzione con l'alternativa applicazione-disapplicazione sacrifica questa complessità153.E ne segue che la causa finisce per svolge un ruolo sempre meno incisivo nella qualificazione.

D’altra parte la sussunzione è uno strumento inadatto a qualificare una realtà sempre più complessa e articolata. La presenza di funzioni compenetrate tra di loro, di prassi negoziali sempre più ricche e aderenti alla complessità del reale è un fenomeno divenuto sempre più esteso. Si pensi alle figure ormai entrate nella prassi quotidiana: il leasing, il franchising, strumenti che individuano operazioni contrattuali costruite dalla prassi, combinando funzioni diverse.

2.4 Metodi alternativi all’uso della causa nel processo di qualificazione. In presenza di contratti non riconducibili ad un tipo ma a più tipi diversi, dove

cioè le funzioni sono plurime e dove nessuna di esse è neppure assorbente rispetto alle altre, l’interprete ha un compito molto delicato. La dottrina e la giurisprudenza hanno tracciato linee di orientamento utili e concrete.

a) metodo tipologico Si è sperimentato negli ultimi decenni un metodo definito tipologico perchè

imperniato sulla distinzione operata dalla dottrina tedesca fra il concetto e il tipo154 . Il concetto è una somma di elementi caratteristici tutti necessari alla produzione di effetti. Il tipo invece è uno schema ove si individuano i dati caratteristici in funzione di un quadro complessivo tramite un intuizione globale per la quale non è necessario che tutti i dati siano presenti in tutti gli elementi del contratto concreta da qualificare.

Da tale distinzione segue un diverso modo di operare della qualificazione giuridica che segue questo metodo:

• il confronto delle fattispecie concrete deve avvenire non con il tipo legale, ma con le figure sottese alla definizione normativa;

• ciò comporta la possibilità di una risposta graduale (e non un si o un no) per l’applicazione della disciplina del tipo al fatto concreto, in base alla conformità. del quadro generale;

• In tal modo si reputa possibile l’applicazione di più discipline appartenenti a tipi diversi alla fattispecie oggetto d esame.

b)La tecnica del contratto misto. Tale metodo muove dalla consapevolezza che spesso un contratto posto in

essere dai privati per realizzare interessi concreti presenta una pluralità di funzioni,tutte presenti nel regolamento predisposto. Si parla di contratto misto, quando c’è una pluralità di funzioni che integrano la causa rendendola complessa. Nel leasing, ad esempio, si combina una funzione traslativa con una funzione di godimento e ,nel leasing finanziario con una causa di finanziamento. Il contratto può

153 Fondamentali sul punto le osservazioni gli studi di G.De Nova, Il tipo contrattuale, Padova,

154 G.De Nova, Il tipo contrattuale, op. cit.

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dirsi misto ,in base ad una tradizione dogmatica molto risalente, perchè le parti combinano funzioni diverse per realizzare l’assetto di interessi più funzionale alla realizzazione dei loro bisogni.

Tale metodo non offre valide alternative se si adotta la tecnica

dell'assorbimento che è la più seguita. Con essa si applica la disciplina del tipo legale che sia considerata prevalente. Ma ciò sacrifica, a volte, la complessità e non da risposte aderenti ai reali interessi perseguiti. E’utile, invece, se si segue la tecnica della combinazione che è simile al metodo tipologico. In base a tale tecnica si scompone il negozio nei singoli elementi che lo compongono, individuando la disciplina delle singole prestazioni che le parti hanno previsto. Ciò può avvenire in vari modi . Utilizzando la disciplina generale dei contratti. Le clausole generali. Clausole o contenuti inscindibili.

c) La tecnica che si afferma nella dottrina e giurisprudenza più recente e

prevalente è quella della combinazione. Perché non è ragionevole e opportuno sacrificare le discipline legali previste nei tipi attraverso una modalità di qualificazione rigida, schematica, quando è possibile scomporre l’atto di autonomia nei singoli elementi che lo compongono, nelle singole funzioni, finalità che le parti hanno voluto realizzare. Un esempio significativo si ha nella qualificazione del leasing.

E’ noto che esistono due tipi sociali: operativo e finanziario. Il Leasing operativo ha una struttura semplice. Un soggetto, produttore, può

trasferire la proprietà del bene all’utilizzatore; lo schema classico, tipico, traslativo sarebbe la vendita, sia per un bene di consumo che per un bene produttivo: il produttore vende un bene all’utilizzatore che paga il prezzo, sia a rate che immediato. Il leasing ha innestato sulla funzione traslativa una ulteriore utilità per le parti. L’utilizzatore non acquista dal produttore il bene, ma questo gli viene concesso in godimento, per cui si prevede che per un certo numero di anni sarà pagato un canone. A una data prefissata, l’utilizzatore potrà scegliere di restituire il bene, terminando la fase di godimento, oppure avrà un’opzione di acquisto per una somma denaro, per lo più, già prefissata.

E’ evidente la flessibilità . L’utilizzatore può non avere interesse a trattenere il bene finale. Lo vuole utilizzare per un certo periodo di tempo dietro un canone prefissato. Alla scadenza vuole riservarsi la possibilità di acquistarlo o meno. Le funzioni che coesistono sono due: traslativa e di godimento.

Si pensi a chi ha necessità di macchinari sempre più evoluti, che invecchiano rapidamente, anche nel giro di pochi mesi: anziché acquistarli, è possibile utilizzare il leasing versando un canone per quel periodo di tempo, valutando se al momento della scadenza è utile acquistalo o meno. Anche per gli autoveicoli, le aziende e ,spesso i privati , preferiscono lo schema duttile del leasing, e non la compravendita: ed è facile comprendere perché. Può convenire pagare un canone di godimento per un certo periodo di tempo, e poi decidere se sarà utile trattenere quel autoveicolo o meno, o prenderne un altro in leasing senza acquisire la proprietà finale.

Questa la struttura semplice del leasing operativo. Il leasing finanziario è una funzione più complessa. Ci sono tre parti: un

utilizzatore che si rivolge al produttore per individuare il bene di cui ha bisogno. Il finanziatore, a cui il produttore o entrambe le parti si rivolgono perché questi

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(spesso una società finanziaria) acquisti il bene dal produttore e poi lo conceda in godimento all’utilizzatore.

Quindi il produttore vende alla società di leasing che acquista il bene il quale poi viene concesso in leasing all’utilizzatore.

In questo modo il leasing ha una funzione ancora più complessa, perchè si innestano tre cause: traslativa, di godimento e di finanziamento. L’utilizzatore ottiene il godimento il bene e l’opzione di acquisto. Il produttore riscuote immediatamente il prezzo del bene dalla società di leasing la quale ne diviene proprietaria ed è pertanto garantita al momento in cui affida il bene in godimento all’utilizzatore che dovrà corrispondere i canoni periodici.

Tre soggetti, tre cause in un’operazione complessa. Da qui il problema della disciplina applicabile.

La giurisprudenza recente ha posto in luce casi di grande interesse. L’utilizzatore deve versare una serie di canoni per godere della cosa e al termine

del contratto avrà un opzione che gli consentirà di restituire il bene o di pagare il residuo prezzo. Si tratta di precisare che cosa accade se l’utilizzatore nel corso del godimento del bene smette di pagare il canone mensile.

In base alla disciplina generale del contratto il contratto di leasing è un contratto ad esecuzione continuata o periodica, sicché l’inadempimento comporta la risoluzione, la quale non ha effetto retroattivo tra le parti (art.1458 cc.) e non si estende alle prestazioni già eseguite. Ne segue che la società di leasing riacquista la proprietà del bene e non deve restituire i canoni già pagati.

Diversa è la disciplina nel tipo legale della vendita con riserva di proprietà. Schema legale tipico, simile ma non identico alla nostra fattispecie. Nel 1523 c.c. è disciplinata la vendita a rate con riserva di proprietà, per cui il compratore acquista la proprietà della cosa col pagamento dell’ultima rata del prezzo, ma assume il rischio dal momento della consegna. In caso di inadempimento del compratore, ai sensi dell’art. 1526 c.c. il venditore deve restituire le rate riscosse, salvo il diritto ad un equo compenso per l’uso della cosa, oltre al risarcimento del danno. Qualora sia convenuto che le rate pagate restino acquisite al venditore, a titolo di indennità, il giudice, secondo le circostanze, può ridurre l’indennità convenuta.

Resta da precisare se nel caso del leasing si debba applicare la regola contenuta nella disciplina generale del contratto (art. 1458 c.c.) oppure la norma contenuta nel tipo legale vendita con riserva di proprietà. (art. 1526 c.c). Se ragioniamo col metodo della sussunzione, l’art. 1526 c.c. non sarebbe applicabile perché il leasing non è totalmente riconducibile alla vendita con riserva di proprietà., ma nel leasing c’è una compenetrazione di cause diverse: vendita, godimento e finanziamento. Ne segue che si applicherebbe solo la disciplina generale dei contratti (art. 1458 c.c.). Ciò appare alla giurisprudenza teoria e pratica irragionevole e errato. Per un motivo evidente.

La qualificazione deve individuare la disciplina applicabile all’interesse che le parti hanno voluto realizzare in concreto. Si dovrà allora valutare la concreta operazione eseguita.

L’utilizzatore può aver necessità di quel bene, ma il suo interesse finale potrebbe non essere quello dell’acquisto. C’è un dato oggettivo che dimostra se le parti hanno voluto dare prevalenza alla funzione di godimento o alla funzione traslativa.

Il dato che può orientare tale ricerca è l’analisi di ciò che si è fatto, in particolare con riferimento al canone.

Se le rate di canone esauriscono il valore del bene, la fase finale di acquisto non ha più significato, perché il bene ha esaurito interamente il suo valore attraverso la

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previsione del canone, quindi, indagando sul valore del bene, l’entità del canone individuato, ci si accorge se l’intenzione delle parti era quella di conservare una concreta finalità traslativa o meno. Perché se il canone coincide con il valore del bene, la funzione traslativa non c’è (c’è solo quella di godimento). Se invece, l’importo dei canoni è inferiore al valore del bene, accade che al momento dell’opzione il bene conserva un suo valore e allora la scelta dell’utilizzatore se acquistare o no è una scelta significativa e il leasing conserva la funzione traslativa, combinandola con quella di godimento.

E’ evidente l’utilizzo del metodo della causa in concreto. Si dovrà esaminare in concreto che cosa le parti hanno voluto stabilire con quel contratto e la giurisprudenza e la dottrina distinguono un leasing di godimento e un leasing traslativo. Nella sentenza della Cassazione n. 18229 del 2003 si adotta una massima che poi è divenuta ricorrente ( v. da ultimo Cass. 14 novembre 2006 n. 24214).

“Ricorre la figura del leasing di godimento rispetto a beni non idonei a conservare un apprezzabile valore residuo alla scadenza del rapporto, e dietro canoni che configurano esclusivamente il corrispettivo dell’uso del bene”. Quindi se l’insieme dei canoni coincide col valore del bene, c’è una funzione di godimento perché le parti volevano consentire il godimento del bene, senza innestare una funzione traslativa. “Si ha invece leasing traslativo allorché la pattuizione si riferisca a beni atti a conservare alla scadenza un valore residuo superiore all’importo convenuto per l’opzione, dietro canoni che scontano anche una quota del prezzo in previsione del successivo acquisto”.

Quindi, se alla fine del contratto di leasing il bene ha ancora un valore residuo rispetto al pagamento dei canoni esiste, in concreto, una funzione traslativa. Questa distinzione serve a ricercare la disciplina applicabile. Se il leasing è di godimento, in caso di risoluzione, si applicherà l’art. 1458 c.c. (che disciplina i contratti a esecuzione continuata o periodica). Se il leasing è traslativo, invece, in caso di risoluzione si applicherà l’art. 1526 c.c. , relativa al tipo legale (vendita –a rate- con riserva di proprietà) volto a soddisfare la funzione traslativa.