CAPITOLO 11 - DANTE E DIO

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CAPITOLO 11 - DANTE E DIO Nella figura di Dante confluisce la crisi degli istituti e delle forme della civiltà medievale, mentre in tutta la sua opera, particolarmente nella Divina Commedia, è presente l’estremo tentativo di superare questa crisi per poter restaurare l’equilibrio ormai spezzato. Anche se oggi l’ideale politico del poeta può sembrarci un’utopia, è necessario che lo si comprenda, posto nel suo periodo, per capire la genesi stessa della Commedia. Bisogna ricordare, prima di tutto, il Convivio e la Monarchia: nel primo, Dante si sofferma sulla necessità dell’Impero e dei suoi limiti: da Romolo ad Augusto, l’ascesa di Roma fu voluta da Dio e perciò l’autorità data da Dio all’Imperatore ha lo scopo di raggiungere i beni temporali, che preparano a quelli spirituali. Tale argomento verrà meglio sviluppato nel De Monarchia, in cui Dante vuole dimostrare ancora una volta la necessità dell’Impero che, mediante un’autorità universale, l’Imperatore, può assicurare la pace universale, essenziale affinché l’uomo possa svolgere la sua opera in terra e diventare perfetto nella vita intellettuale. Anche qui è presente l’interpretazione provvidenziale della missione di Roma e dell’Impero romano nella storia del mondo. Affrontando i rapporti fra Impero e Papato, Dante afferma che l’Imperatore, come la luna, riceve, grazie alla Dante e Dio 118

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CAPITOLO 11 - DANTE E DIO

Nella figura di Dante confluisce la crisi degli istituti e delle forme della civiltà

medievale, mentre in tutta la sua opera, particolarmente nella Divina Commedia, è

presente l’estremo tentativo di superare questa crisi per poter restaurare l’equilibrio ormai

spezzato. Anche se oggi l’ideale politico del poeta può sembrarci un’utopia, è necessario

che lo si comprenda, posto nel suo periodo, per capire la genesi stessa della Commedia.

Bisogna ricordare, prima di tutto, il Convivio e la Monarchia: nel primo, Dante si

sofferma sulla necessità dell’Impero e dei suoi limiti: da Romolo ad Augusto, l’ascesa di

Roma fu voluta da Dio e perciò l’autorità data da Dio all’Imperatore ha lo scopo di

raggiungere i beni temporali, che preparano a quelli spirituali. Tale argomento verrà

meglio sviluppato nel De Monarchia, in cui Dante vuole dimostrare ancora una volta la

necessità dell’Impero che, mediante un’autorità universale, l’Imperatore, può assicurare

la pace universale, essenziale affinché l’uomo possa svolgere la sua opera in terra e

diventare perfetto nella vita intellettuale. Anche qui è presente l’interpretazione

provvidenziale della missione di Roma e dell’Impero romano nella storia del mondo.

Affrontando i rapporti fra Impero e Papato, Dante afferma che l’Imperatore, come la

luna, riceve, grazie alla benedizione del Papa, la luce della grazia che gli consente di

operare con giustizia e onestà. Il poeta è anche convinto che la Chiesa non precede

l’Impero, perchè per i due fini assegnati da Dio all’uomo in terra (la beatitudine di questa

vita e quella della vita eterna) sono necessarie due guide per gli uomini: il Papa, per

guidare l’umanità alla vita eterna e l’Imperatore, per la felicità temporale, quindi due

poteri autonomi. (Ma poi alla fine Dante ammette che ci può essere una certa

subordinazione del Principe romano al romano Pontefice, dal momento che la felicità

terrena è ordinata verso la felicità eterna).

Il pensiero politico di Dante, con il passare degli anni, sembra (anche se questo è

un problema ancor oggi molto dibattuto) che abbia subito dei mutamenti: il poeta, con la

Commedia, pare aver dato, rispetto alle opere precedenti, maggior importanza al

rinnovamento della Chiesa, non solo per i fini ultraterreni ma anche per quelli politici.

Riguardo al fondamentale concetto dell’interpretazione provvidenziale, la Divina

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Commedia sarà meglio compresa se si ricorda l’interpretazione figurale di Auerbach,

secondo cui la Provvidenza divina ha eletto, fin dagli inizi, Roma a capitale del mondo,

dando al popolo romano grandi virtù per conquistare il mondo e ridurlo in pace; dopo,

sotto Augusto, giunse finalmente il momento del Redentore: per questo Roma terrena,

anticipazione della Roma celeste, è specchio dell’ordine divino nel mondo, diventando il

centro del Cristianesimo e sede del Papa. Così, tutta la tradizione romana confluisce nella

storia della redenzione.

La Divina Commedia è sicuramente un’opera nel suo insieme politica e

autobiografia, ma è particolarmente nel canto sesto dell’Inferno, del Purgatorio e del

Paradiso, che queste caratteristiche si evidenziano maggiormente. Nella sua ascesa verso

Dio, Dante "pellegrino" non può sminuire il valore della città terrena, frutto della sua

osservazione della storia, la quale gli serve a dare concretezza alla sua poesia, che

altrimenti diventerebbe astratta.

Per questo, dopo la lode della volontà assoluta dell’individuo ideale, vi è la

celebrazione, nel Canto VI del Paradiso, dell’ideale sociale, affinché l’ordine divino si

possa realizzare non solo nell’individuo e nel mondo intero ma anche nella "civitas". Con

questo canto ci troviamo nel secondo Cielo di Mercurio dove appaiono gli spiriti attivi

per desiderio di onore e di fama. L’Imperatore Giustiniano, dopo essersi presentato e

dopo aver affermato che, sotto l’ispirazione divina, si dedicò "all’alto lavoro" (Corpus

iuris) affidando il comando dell’esercito al generale Belisario, celebra l’Aquila, (simbolo

dell’Impero romano e poi cristiano), che campeggia fin dall’inizio in primo piano nelle

vicende storiche, dominate dai disegni provvidenziali di Dio; si sa che in Dante pensiero

politico e religioso non vanno mai separati, anche se il tema politico, in questo canto, è

trattato soprattutto con uno spirito teologico, che permette di trascendere le pure vicende

della cronaca come afferma il Sapegno. Infatti a Dante interessa non tanto la storia di

Roma quanto la "translatio Imperii", il trasferimento dell’Impero, la sua continuazione sia

da Cesare a Tito, sia da Tito a Giustiniano e da questi a Carlo Magno e ai successori, fino

a Federico II e Arrigo VII. Le varie figure, mediante le quali opera il segno dell’Aquila,

prima dei re, poi degli Imperatori (“puris strumenti”) sono emblematiche: Cesare, che

prende in mano l’insegna dell’Aquila per volere del popolo romano; Ottaviano, che

portando l’Aquila fino alle rive del Mar Rosso, stabilì la pace nel mondo; Tiberio, sotto il

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quale fu mandato a morte Gesù, ed ancora Tito, che fece giustizia di questo fatto, con la

distruzione di Gerusalemme dove era avvenuta la crocifissione.

A questo punto, si ha la chiara denuncia dei Guelfi e dei Ghibellini, con una

maggiore polemica verso i Guelfi per il tono pauroso della profezia (la giustizia divina

punirà la malvagità dei Guelfi); dopo aver detto che questi spiriti sono felici perché

riconoscono in Dio l’esatta corrispondenza tra merito e premio, Giustiniano presenta

l’anima di Romeo di Villanova, esempio di giustizia contrapposto agli exempla di

ingiustizia (Guelfi e Ghibellini); quest’uomo giusto, dopo aver accresciuto il patrimonio

del suo signore, viene ingiustamente calunniato e costretto a lasciare la corte, povero e

vecchio. Anche se Romeo appare rassegnato, mentre Dante reagisce sempre fortemente

alle sventure, i due personaggi sono molto vicini. La vicenda privata di Romeo, uomo

giusto, si rivela a Dante più vicina ad un ideale di giustizia universale (dunque imperiale)

della politica partigianesca di Guelfi e Ghibellini, che nei loro comportamenti

affermavano di seguire valori universali. E’ giusto ribadire con il Sapegno che "quello

che nel Convivio e nella Monarchia è un concetto storiografico e un assunto teorico" si

trasforma, soprattutto nel Canto VI del Paradiso in "un motivo di grandiosa epopea, dove

il protagonista è Dio stesso", ma bisogna puntualizzare che in questo epos si ha la

prevalenza del figurante sul figurato, cioè del "sacrosanto segno" incarnatosi ne "li egregi

/ Romani" (vv. 43-44) rispetto a Dio che li trascende tutti. Basta un pronome "lo" a

rendere, nella sua martellante ripetizione, l’idea di un poema epico.

La struttura narrativa del canto (nella terza persona del passato) è veramente tipica

di un epos, particolarmente di un poema epico, dove l’eroe è uno solo, anche attraverso le

azioni di figure diverse: ecco i protagonisti positivi dell’epos, dal progenitore Pallante

(v.36) agli Orazi e a Bruto, Torquato, i Deci e i Fabi, Scipione e Pompeo, poi Cesare; di

contro gli antieroi o protagonisti negativi: Brenno, Pirro, Annibale, Tolomeo, Bruto con

Cassio, Cleopatra, i Longobardi, che servono ad esaltare meglio gli eroi positivi, come

Ottaviano, Tito e Carlo Magno (si pensi ai poemi epici, a Gano contro Orlando). Il centro

ideale di questa epopea divina è la Redenzione, che dà significato religioso al processo

provvidenziale della Storia, che viene vista così come teologia della Storia, per Dante un

punto preciso di partenza per giungere, alla fine, al Vero Supremo, a Dio, diventando da

storia Metastoria. Il Poeta riesce a comprendere la realtà del suo tempo grazie alla

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conoscenza della storia che lo aiuta a fare luce su tutte le miserie del suo periodo. Egli

scorge nelle oscure profondità del Consiglio divino il processo del manifestarsi storico:

storia ebrea e storia romana sono dirette verso un medesimo fine, quello trascendentale,

la storia romana diventa anche storia sacra. Dante vede Dio “vivere” attraverso i fatti, per

indirizzare l’umanità verso uno scopo determinato, diventando così Ispiratore della storia,

fatta dagli uomini, strumenti.

E’ il divino che, trasfuso nella ricostruzione del passato, dà a quest’ultima il

motivo di esistere. In questo modo, nel Canto VI del Paradiso, si nota la storia rivestita di

trascendenza e vista nel suo insieme e gli uomini che fanno la storia si realizzano non

tanto per la loro singola opera ma perché fanno parte di Lei, che si svolge e si manifesta

per mezzo di questi stessi uomini. Infatti il Poeta raffigura la storia con un Simbolo: il

santo segno dell’Aquila, che opera e manifesta le sue virtù, per mezzo degli uomini:

"Vedi quanta virtù l’ha fatto degno / di riverenza…" (Paradiso, VI, vv.34-35).

Pur partendo dalla figura concreta dell’Imperatore Giustiniano, si giunge subito

alla figura ideale di Cesare, che è diretto verso un ideale "reggimento" perché è “Dio che

lo ispira”. Dante, mosso da un profondo interesse politico e religioso, trascende la verità

storica e fa operare Giustiniano sotto l’ispirazione divina, per affermare l’estrema verità,

che è la santità e la grandezza della storia imperiale, la guida ideale, astratta, teorica per

la vita civile. Nella sua visione terrena della storia, il poeta non bada ad un racconto

cronologico preciso e lineare, ma sceglie, dalla storia stessa, gli avvenimenti che riescano

ad evidenziare l’insieme, l’universalità, in una parola il trascendente, il Divino che

traspare da essa.

E’ chiara la fusione del tema politico con quello teologico, quando chi lotta per la

grandezza e l’affermazione dell’Impero, lotta contemporaneamente per la grandezza di

Dio, e così la "missione" politica, terrena, storica coincide con quella religiosa, a costo

del dolore, del martirio politico come ben fa notare Giustiniano quando parla dell’opera

di Romeo, un altro "pellegrino" dell’ideale, che come Dante "vaga" dalla selva terrena

verso la Roma Celeste, dalla storia terrena a quella Divina, che è trasfusa in quella

terrena, per mezzo delle imprese degli uomini, "baiuli", strumenti e portatori di essa. Il

Poeta, partendo da un concetto storiografico e da un assunto teorico, giunge così ad una

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grande e maestosa epopea di Dio e della sua opera che si svolge in terra per poi, alla fine,

elevarsi nel regno dei cieli.

Questo itinerario dantesco, che inizia sempre dall’analisi attenta dei fatti storici e

da un assunto teorico, per poi giungere all’immensa celebrazione di Dio, si riscontra

anche esaminando il VI Canto dell’Inferno: siamo nel terzo cerchio, dove le anime dei

golosi giacciono prostrate nel fango, sotto una pioggia, mista ad acqua fetida, di neve, di

grandine. Il custode Cerbero, cane tricipite, latra sopra gli spiriti che squarta con le sue

unghie. In tali dannati c’è solo bestialità senza nessuna luce di intelligenza. Fra i golosi,

Dante riconosce un fiorentino, Ciacco, che visse da parassita presso le mense dei ricchi

gentiluomini. Un tono pesante ed angoscioso è presente in questo canto politico e

profetico di Firenze, la cui vera situazione viene rivelata proprio da un personaggio come

Ciacco, che sul piano dell’eternità continua la stessa funzione che ebbe in terra come

parassita che, strisciando nelle mense dei signori, ne osservava i vizi.

Sollevandosi per un attimo dal fango (il fango della sua anima), ritrova per un

secondo la sua umanità perduta solo nella condanna dei vizi di cui egli stesso si macchiò.

Ciacco, in una visione generale della Commedia, esprime tutta la carica e la tensione del

tema politico della giustizia e dell’esilio, che sarà uno dei temi fondamentali del poema

dantesco. Dante, personaggio del suo itinerario ultraterreno, illumina della sua umanità e

della sua drammatica esperienza, molti personaggi dell’Inferno, come Ciacco, Filippo

Argenti, Farinata e anche del Paradiso, come Cacciaguida. Così il tema dell’esilio, qui

vagamente accennato, sarà nella missione affidatagli da Dio, il motivo da cui Dante

partirà per rivelare e condannare vizi e colpe dell’umanità. Ciacco infatti accenna

profeticamente all’esito delle discordie civili a Firenze e alla rovina della parte Bianca, in

cui sarà coinvolto anche Dante, soffermandosi sulle cause di tali discordie, come la

superbia e la cupidigia. Alla fine a Dante viene chiarita la condizione dei dannati dopo il

Giudizio universale, condizione che si perfezionerà nel bene e nel male. Le profezie di

Ciacco esprimono il giudizio e lo sdegno di Dante che vede nelle lotte e nelle divisioni

politiche un legame con la degenerazione morale dell’umanità. (In questo assunto si

evidenzia sempre come il cammino della storia sia legato al cammino che porta o

allontana da Dio, ed è chiara la fusione del tema politico con quello teologico, dal

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momento che, in tale visione moralistica, la morte delle cose terrene serve ad affermare

l’importanza e la grandezza dell’assoluto e dell’Eterno).

Lo scopo di Dante è fondamentalmente quello di condurre l’umanità dalle lotte e

dai dolori terreni verso la pace, dalla città terrena alla città celeste verso la purezza della

luce divina. Per questo trascendente scopo di giustizia, Dante, attraverso le parole

politiche di Ciacco, condanna l’uomo che lotta contro l’uomo ed anche l’uso della

violenza, di cui è imbevuta la storia. Nelle profezie di Ciacco, gli avvenimenti di cronaca

e di storia politica diventano anche fatti di metastoria e metapolitica, che trascendono

quindi la semplice storia e la semplice politica di quei tempi. Se si riflette bene

sull’assunto teorico, sulla concezione che ha Dante della vita e sullo scopo ultimo del suo

poema, questo significa partire dal terreno per giungere al celeste, in una visione cosmica,

in cui Dio illumina e vive nel Tutto.

Il tema delle lotte intestine che lacerano le città d’Italia, realtà di quei tempi, è

presente anche nel Canto VI del Purgatorio, con la medesima visione altamente

moralistica presente nel Canto VI dell’Inferno, visione che rafforza e stimola un bisogno

di purificazione, di ribellione a tanta corruzione terrestre per giungere a godere del nuovo

ordine di pace e di giustizia che regna nei cieli. (Ancora una volta il tema politico si

fonde con quello teologico). Nella pittoresca similitudine di apertura del gioco d’azzardo,

Dante riflette sul Caso, presente nelle vicende della vita; ma per Dante "cristiano" il Caso

è la profonda e abissale volontà divina, è Dio nella Storia e nella vita degli uomini. Siamo

nell’Antipurgatorio, dove i negligenti uccisi con violenza si accalcano attorno a Dante per

chiedere preghiere (a questo riguardo, viene chiarito a Dante che solo la preghiera degli

uomini ha qui valore). Un’anima solitaria attira l’attenzione di Dante, ed è quella di

Sordello da Goito, che al solo nome di Mantova proferito da Virgilio lo abbraccia

affettuosamente.

E’ proprio dal contrasto fra questo abbraccio affettuoso tra compaesani e le feroci

divisioni e lotte fratricide dell’Italia, che nasce l’apostrofe dantesca all’Italia, al Papa,

all’Imperatore ed anche a Firenze. La scelta del personaggio di Sordello è motivata dal

fatto che egli, un poeta politico-civile del planh (poema) per la morte di Blacatz

(cavaliere provenzale), fu anche fustigatore della corruzione civile del tempo. L’apostrofe

all’Italia "serva", cioè priva di libertà in quanto prova dell’ordine e delle leggi forniti

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dall’autorità imperiale e quindi in preda a regimi tirannici e a rovine come la decadenza

dei partiti politici, lo squallore di Roma e l’odio feroce tra la "gente" della penisola sono

qua evidenziati. Dove manca l’autorità imperiale non c’è speranza di pace né di salvezza

eterna preparata in terra dalla stessa autorità imperiale.

L’Italia, in questo canto, appare come il "giardino" dell’Impero, il fulcro, la sede

legittima della Monarchia voluta dalla Provvidenza. Il messaggio di Dante si presenta in

una prospettiva etico-ideologica che trascende gli stessi istituiti civili in vista di un loro

riscatto. Si desume pure che il potere politico e quello religioso, distinti nei loro rispettivi

campi ma subordinati alla volontà di Dio, devono collaborare in armonia, allo scopo di

raggiungere i fini che la Provvidenza ha indicato per l’umanità, quali la felicità terrena e

la gioia celeste. Solo guardando le tristezze della storia da una prospettiva ultraterrena,

Dante può tendere ad un ideale di armonia terrena fra gli uomini, retta dalle leggi della

Provvidenza.

Il poeta è teso sempre a cercare nella Storia un destino, un disegno della

Provvidenza divina, un giudizio di Dio nello scorrere del tempo storico, un rapporto

profondo fra il momento reale, concreto e l’assoluto: quell’ideale assoluto, che è la

suprema e ultima speranza al dolore degli uomini, si ritrova nell’emozione del presente:

"perché foco d’amor compia in un punto…". (Purgatorio, VI, v. 38). Infatti per il Poeta

la politica, la storia, è soprattutto e fondamentalmente realizzazione dell’Assoluto e

l’ansia stessa del rinnovamento e di purificazione di Dante-uomo è ansia di Assoluto:

tutto è proiettato verso l’Infinito, in una continua e trascendente tensione sovrumana. Si

pensi all’invocazione al sommo Giove, crocefisso in terra per noi, dove il fato viene

cristianizzato e l’Assoluto s’incarna e si prepara a soffrire nell’umano; ancora, è

nell’Incarnazione il primo passo concreto, reale, storico per la redenzione finale. E’

quindi sempre presente il concreto, il contingente, la storia e l’assoluto,

l’universalizzazione dei richiami alla Bibbia, dei toni profetici e l’attualizzazione, la

storia contemporanea dei Montecchi e Cappelletti, e Monaldi e Filippeschi,

"attualizzazione" che permette di presentare sempre gli assunti ideali, universali e assoluti

in modo non troppo astratto. E’ appunto questa continua tensione fra attualità e

universalità, tra storia concreta e tendenza verso l’Assoluto, tra cronaca contemporanea

ed eternità, che dà alle invettive di Dante un’impronta fortemente realistica, plastica e

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nello stesso tempo magnanima e grandiosa. L’invettiva del Poeta all’Italia, alla gente

della Chiesa, all’Imperatore Alberto di Asburgo, poi alla Divinità, poi di nuovo all’Italia,

diventa da imprecazione, preghiera, e fonde la visione gretta, meschina della terra con la

visione maestosa del cielo, giungendo così ad una grandiosa epopea, il cui protagonista è

Dio.

Dante, autore universale e di ogni tempo, trasmette a noi l’importanza e l’eterna

attualità di un Valore, la Fede in qualcosa che superi, trascenda la triste e corrotta realtà,

illuminandola della luce divina: infatti è solo questa luce divina che può dare un’ultima e

suprema spiegazione a quella che inizia come semplice e contingente storia umana, ma

che sarebbe incompleta, assurda ed imperfetta se non tendesse verso una Metastoria,

qualcosa cha va al di là della stessa storia terrena. Solo con questa speranza, con questa

tensione verso l’assoluto, come scopo ultimo della vita terrena, si può vivere ed accettare

con dignità la stessa vita terrena, in cui operiamo secondo disegni imperscrutabili.

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