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Capitolo 41 Il Siracide Il libro del Siracide – che ci è giunto in lingua greca – fa parte della Bibbia della LXX, ma è stato escluso dal canone ebraico di Iamnia, alla fine del I sec. d.C., in cui è assente anche il testo ebraico 1 . Il testo greco è stato riconosciuto come canonico dalla Chiesa. E’ stato scritto da Gesù Ben Sira, e tradotto in greco dal nipote (cf. prologo Sir). Traduzione che sarebbe av- venuta – secondo quanto afferma il testo – il trentottesimo anno di Tolomeo VII Emergete, cioè nel 132 a.C. L’originale perciò dev’essere datato intorno al 190-180 a.C. Il titolo latino Liber Ecclesiasticus - «un libro della Chiesa» - caratterizza bene il genere dello scritto; è infatti principalmente – ad eccezione dei capitoli 44-50 intitolati «Lode dei padri dell’antichità» - un manuale di educazione alla pietà del «pio giudeo». In esso troviamo le realtà che sono fondamentali per la spiritualità del giudaismo biblico: la Sapienza (Sir 2,1- 24,21), la Torah (Sir 24,22-42-44), la creazione (Sir 42,15-43,44), la storia (Sir 44,1-49,16), il culto del tempio e la preghiera (Sir 50,1-51,30). Il libro non sembra seguire un ordine coerente, né pare strutturato secondo uno schema e- vidente. Noi ci limitiamo a presentare alcune tematiche. 1. L’origine della Sapienza e il timore del Signore (Sir 1,1-20) 1.1. La Sapienza viene da Dio (Sir 1,1-10) Ben Sira apre il suo libro con un poema d’otto versetti. Si può dividerlo in due strofe. I primi quattro versetti fanno vedere che la Sapienza ha la sua origine in Dio e resta inac- cessibile all’uomo abbandonato alle sole sue forze: «Ogni sapienza viene dal Signore e resta con lui per sempre» (Sir 1,1). Al contrario dei suoi predecessori, Ben Sira non parte dall’esperienza quotidiana e dalla realtà intramondana. La sua affermazione d’inizio è teologica. Per lui, non c’è, fra gli uomini, nessuna sapienza che non venga dal Signore. Se dunque sulla terra qualche sapienza c’è, è perché il Signore ne è la fonte. «La sabbia del mare, le gocce della pioggia, i giorni del tempo passato, chi può contarli? L’altezza del cielo, la distesa della terra, la profondità dell’abisso, chi può esplorarli?» (Sir 1,2-3). L’uomo non può avere una conoscenza totale dell’universo. Conoscere l’universo significa essere capace di contarne gli elementi, come i granelli di sabbia su tutte le spiagge o le gocce di pioggia che cadono sulla terra e sul mare, ma anche quelle che sono già cadute da quando il mondo esiste. Né l’uomo è in grado di precisare quante volte il sole si è levato sul nostro mondo da quando ha cominciato a esistere. C’è di più: l’immensità del mondo sfugge all’uomo. Ben Sira intende la totalità quando u- tilizza le due dimensioni dello spazio: la verticalità e l’orizzontalità (cf. Ef 3,18). E ancora ai 1 Una buona parte dell’originale ebraico, che era ancora conosciuto da Girolamo, è stata ritrovata nel 1896 in una sinagoga della città antica del Cairo, tra i frammenti di manoscritti del X-XI sec. Altri frammenti ebraici sono stati scoperti nel 1931, e ancora di più nelle grotte 2 e 11 di Qumran nel 1956, e a Masada nel 1964.

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Capitolo 41

Il Siracide

Il libro del Siracide – che ci è giunto in lingua greca – fa parte della Bibbia della LXX, ma

è stato escluso dal canone ebraico di Iamnia, alla fine del I sec. d.C., in cui è assente anche il testo ebraico1. Il testo greco è stato riconosciuto come canonico dalla Chiesa. E’ stato scritto da Gesù Ben Sira, e tradotto in greco dal nipote (cf. prologo Sir). Traduzione che sarebbe av-venuta – secondo quanto afferma il testo – il trentottesimo anno di Tolomeo VII Emergete, cioè nel 132 a.C. L’originale perciò dev’essere datato intorno al 190-180 a.C.

Il titolo latino Liber Ecclesiasticus - «un libro della Chiesa» - caratterizza bene il genere dello scritto; è infatti principalmente – ad eccezione dei capitoli 44-50 intitolati «Lode dei padri dell’antichità» - un manuale di educazione alla pietà del «pio giudeo». In esso troviamo le realtà che sono fondamentali per la spiritualità del giudaismo biblico: la Sapienza (Sir 2,1-24,21), la Torah (Sir 24,22-42-44), la creazione (Sir 42,15-43,44), la storia (Sir 44,1-49,16), il culto del tempio e la preghiera (Sir 50,1-51,30).

Il libro non sembra seguire un ordine coerente, né pare strutturato secondo uno schema e-vidente. Noi ci limitiamo a presentare alcune tematiche.

1. L’origine della Sapienza e il timore del Signore (Sir 1,1-20) 1.1. La Sapienza viene da Dio (Sir 1,1-10) Ben Sira apre il suo libro con un poema d’otto versetti. Si può dividerlo in due strofe. I primi quattro versetti fanno vedere che la Sapienza ha la sua origine in Dio e resta inac-

cessibile all’uomo abbandonato alle sole sue forze:

«Ogni sapienza viene dal Signore e resta con lui per sempre» (Sir 1,1).

Al contrario dei suoi predecessori, Ben Sira non parte dall’esperienza quotidiana e dalla realtà intramondana. La sua affermazione d’inizio è teologica. Per lui, non c’è, fra gli uomini, nessuna sapienza che non venga dal Signore. Se dunque sulla terra qualche sapienza c’è, è perché il Signore ne è la fonte.

«La sabbia del mare, le gocce della pioggia, i giorni del tempo passato, chi può contarli? L’altezza del cielo, la distesa della terra, la profondità dell’abisso, chi può esplorarli?» (Sir 1,2-3).

L’uomo non può avere una conoscenza totale dell’universo. Conoscere l’universo significa essere capace di contarne gli elementi, come i granelli di sabbia su tutte le spiagge o le gocce di pioggia che cadono sulla terra e sul mare, ma anche quelle che sono già cadute da quando il mondo esiste. Né l’uomo è in grado di precisare quante volte il sole si è levato sul nostro mondo da quando ha cominciato a esistere.

C’è di più: l’immensità del mondo sfugge all’uomo. Ben Sira intende la totalità quando u-tilizza le due dimensioni dello spazio: la verticalità e l’orizzontalità (cf. Ef 3,18). E ancora ai

1 Una buona parte dell’originale ebraico, che era ancora conosciuto da Girolamo, è stata ritrovata nel 1896 in una sinagoga della città antica del Cairo, tra i frammenti di manoscritti del X-XI sec. Altri frammenti ebraici sono stati scoperti nel 1931, e ancora di più nelle grotte 2 e 11 di Qumran nel 1956, e a Masada nel 1964.

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nostri giorni, chi può pretendere d’aver misurato le dimensioni dell’universo?

«Prima d’ogni cosa fu creata la Sapienza e la perspicacia dell’intelligenza dall’eternità» (Sir 1,4).

La Sapienza è a fortiori inaccessibile essendo essa anteriore a questo mondo che tanto ma-le noi conosciamo (cf Pr 8,22-26): la Sapienza esisteva ben prima del mondo. Fu il Signore a dare l’essere ad essa.

Chi allora potrà conoscere le profondità più nascoste della Sapienza (cf. Sir 1,6)? Ben Sira precisa anzitutto che il Signore ha diffuso la sua Sapienza «su tutte le sue ope-

re»: tutte sono in qualche modo abitate dalla Sapienza. Ritroviamo qui l’idea che nel mondo c’è un ordine voluto da Dio (cf. Pr 3,19-20). Egli ha anche diffuso la sua Sapienza «su ogni carne»: ogni essere umano la riceve; Pr 8,31 affermava che la Sapienza trova le sue delizie in mezzo agli uomini; è il Signore a spanderla, misurando a ognuno il dono che dà.

1.2. Il timore del Signore e la Sapienza (Sir 1,11-20) Il timore del Signore è l’atteggiamento di fondo e la condizione stessa per ricevere con

profusione la Sapienza divina (cf. Sir 1,1) e nello stesso tempo è incitamento per il fedele a mettere in pratica i precetti della Sapienza. È quel che Ben Sira spiegherà in Sir 1,25-27:

«Nei tesori della Sapienza ci sono proverbi intelligenti, ma il timore del Signore è cosa abominevole per il peccatore. Desideri la Sapienza? Osserva i precetti e il Signore te la prodigherà. Perché sapienza e disciplina, ecco il timore del Signore; ciò che a lui piace sono la fedeltà e la dolcezza».

Ma non dobbiamo pensare che Ben Sira concepisca il timore del Signore solamente in funzione della pratica dei precetti: egli non è un «legalista», ma è piuttosto vero che colui che teme il Signore, cioè l’ama, è spontaneamente incline a sottomettersi di buon grado alla divi-na volontà:

«Quelli che temono il Signore non disobbediscono alle sue parole; quelli che l’amano camminano sulle sue vie. Quelli che temono il Signore cercano di piacergli; quelli che l’amano si riempiono della sua legge. Quelli che temono il Signore hanno il cuore disponibile e stanno con umiltà davanti a lui» (Sir 2,15-17).

Ma prima di spiegare tutto questo, Ben Sira mostrerà i benefici del timore del Signore (Sir 1,11-13):

«Il timore del Signore è gloria e fierezza, gaiezza e corona di contentezza. Il timore del Signore rallegra il cuore, dà gaiezza, gioia e lunga vita. Per chi teme il Signore tutto finirà bene: nel giorno della sua morte sarà benedetto».

Il timore del Signore è dunque un paradiso di benedizioni. Ben Sira ne cita tre. La prima è il sentimento di condurre una vita onorevole e maturante. Lungi dal sentirsi oppresso o diso-norato, il fedele prova fierezza a stare dinanzi a Dio in un atteggiamento di amorevole dispo-nibilità. Poi, per lui c’è soltanto gioia, profonda ed esuberante insieme. A questa seconda be-nedizione Ben Sira ne aggiunge una terza: una lunga vita. Il Deuteronomio (per es. Dt 4,40; 11,21) assicurava a Israele lunghi giorni sulla terra promessa, purché osservasse i precetti del Signore; per Dt 6,2 l’atteggiamento che supporta quest’osservanza è appunto il timore del Si-

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gnore. Ben Sira pensa anche che il timore del Signore, come egli l’intende, è già di per sé pe-gno di lunga vita. Una simile certezza è provata dai fatti? Ben Sira elude l’obiezione della morte prematura del giusto, mentre Sap 4,7-16 ne darà una spiegazione. Ben Sira non sa che una cosa, cioè che il Signore non abbandona quaggiù chi lo teme e l’ama: costui se ne andrà pieno di giorni, come i patriarchi, sereno davanti alla morte e lasciando dietro di sé una buona fama, un ricordo benedetto.

«Principio della Sapienza: temere il Signore. Con i fedeli essa è formata nel seno della loro madre. In mezzo agli uomini essa ha nidificato, fondazione perpetua, e con la loro discendenza è in confidenza» (Sir 1,14-15).

Ben Sira pensa al suo popolo, con cui il Signore è stato prodigo di Sapienza. Ogni giudeo fedele l’ha ricevuta dal seno materno. La versione greca ripete l’idea con le immagini del nido e della fondazione, difficili da conciliare fra loro; l’originale ebraico, forse mal letto dal tra-duttore, probabilmente diceva: «nel passato il Signore le ha concesso di stare con i suoi fede-li»; Ben Sira pensa ai patriarchi, a Mosé e alla sua generazione. Completa l’idea aggiungendo che la Sapienza divina dimora con la loro discendenza, con la quale vive una relazione di confidenza (cf. Pr 8,31).

«Pienezza della Sapienza: temere il Signore; li inebria con i suoi frutti. Riempie la loro dimora di cibi desiderabili e i loro magazzini dei suoi prodotti» (Sir 1,16-17).

Questi due versetti, completati dai due successivi, passano dalla descrizione dell’origine della Sapienza in Israele a quella della sua piena maturità. Le immagini sono quelle della rac-colta nella bella stagione. Quelli che temono il Signore vengono colmati dagli effetti che la Sapienza produce per essi. Accogliendola con generosità, essi godono degli eccezionali bene-fici che essa con altrettanta generosità offre loro. E quali sono, detto chiaramente, questi be-nefici?

«Corona della Sapienza: il timore del Signore. Essa fa fiorire pace e buona salute. Spande a fiotti conoscenza e perfetta intelligenza, esalta la gloria di coloro che la possiedono» (Sir 1,18-19).

Il timore del Signore dispone i fedeli a ricevere dalla Sapienza le più belle benedizioni. In primo luogo, la pace, cioè il benessere, la concordia, la serenità, il rigoglio dell’anima e del corpo. E meglio ancora, un’intelligenza profonda che permette ai fedeli di comprendere il senso della loro vita e delle loro attività. Infine, la gloria, che è insieme fierezza d’essere così stati colmati dalla Sapienza (cf. Sir 1,11) e fama dopo la morte (cf. Sir 44,1-15).

«Radice della Sapienza: temere il Signore. I suoi rami: lunga vita» (Sir 1,20).

Alla conclusione, Ben Sira riprende i due temi dei versetti precedenti: l’avvio, o principio del suo inizio (cf. Sir 1,14), e il tempo della maturazione (cf. Sir 1,16.18). Per esprimerli me-glio, torna alle immagini vegetali: la radice della pianta e i suoi rami.

In Sir 1,6 il sapiente chiedeva a chi fosse stata rivelata la radice della Sapienza, e la rispo-sta era che soltanto il Signore ne conosceva i segreti. Qui, in Sir 1,20, il punto di vista cam-bia: adesso i fedeli sanno che, per quanto li riguarda, è il timore del Signore all’origine della donazione della Sapienza che viene loro fatta. Quando essa sarà maturata in loro, ciò che essa recherà a quanti l’avranno accolta sarà una lunga vita, quella benedizione di cui già parlava

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Sir 1,12. 2. La ricerca della Sapienza (Sir 6,18-37) Questo poema ha tanti versetti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico: ventidue. Esso

si divide in tre sezioni, ognuna delle quali comincia con un’esortazione al discepolo, chiama-to «figlio mio» (Sir 6,18.23.32).

2.1. Penare per ottenere la Sapienza (Sir 6,18-22) «Figlio mio, fin dalla tua giovinezza accogli l’istruzione e fino ai capelli bianchi otterrai la Sapienza. Come il lavoratore e il mietitore, sta’ a lei vicino e conta su un abbondante raccolto. Penerai un poco a coltivarla, ma l’indomani mangerai i suoi prodotti» (Sir 6,18-19).

Ben Sira si rivolge a dei giovani. L’acquisizione della Sapienza passa per un lungo ap-prendistato, spesso fastidioso. Come un agricoltore che lavora il terreno senza ancora nulla vedere del prossimo raccolto e come un mietitore che miete senza che i frutti siano già in ta-vola, il giovane discepolo deve perseverare nel suo penoso lavoro, sostenuto dalla sola spe-ranza, che il sapiente gli garantisce, d’ottenere al termine dei suoi sforzi un’abbondante sa-pienza.

«Essa è inaccessibile per lo sciocco e l’insensato non la sopporta: gli pesa come una greve pietra e non tarderà a rigettarla. Perché l’istruzione merita il suo nome: per molti non è facile» (Sir 6,20-22).

Molti rinunciano a perseverare alla cieca. Avrebbero bisogno di vedere subito dei risultati positivi. A costoro, la rude formazione pesa, ed essi la rifiutano. In fondo, già la parola ebrai-ca mûsâr lo dice senza ambiguità: come sostantivo significa educazione, istruzione, discipli-na, ma come participio passato significa rigettato!

2.2. Accettare di buon grado l’educazione (Sir 6,23-31) «Ascolta, figlio mio, accetta il mio avvertimento, non rifiutare il mio consiglio: metti il piede nelle sue reti e il tuo collo sotto il suo giogo; porgi la tua spalla e portala, non sentirti vessato dai suoi legami» (Sir 6,23-25).

Ben Sira riprende l’argomento con altre immagini, più sconcertanti. A prima vista e all’apparenza, il discepolo dovrebbe lasciarsi mettere in schiavitù, lasciarsi intrappolare come un uccello che perde la sua libertà, diventare come una bestia da soma dai movimenti goffi. È vero, c’è anche questo, in ogni serio apprendistato. «È bene che l’uomo porti il giogo fin dalla giovinezza» (Lm 3,27). Ma quello che all’apprendista viene anzitutto richiesto, è che da sé liberamente s’impegni: non esiste vera educazione se uno non la chiede; ma chi la chiede de-ve anche capire che s’impegna a essere docile.

Tutto sta nel sapere a chi uno si sottomette. Già entrare in alleanza con il Signore era «la-sciarsi condurre con dolci vincoli, con legami d’amore» (Os 11,4). Ma, accusa Geremia: «tu hai spezzato il tuo giogo, hai lacerato i tuoi legami» (Ger 2,20). Un rabbino del I secolo d.C. riconosceva che «colui il quale accetta il giogo della Torà si libera dal giogo del potere stabi-lito e dalle preoccupazioni terrene». Da cosa dunque si lascerà dominare, il giovane? Aprendo

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la sua scuola, Ben Sira ripete, a riguardo della Sapienza:

«Mettete il vostro collo sotto il suo giogo e portatene il peso: essa è vicina a chi la cerca e chi si dà a cercarla la trova. Con i vostri occhi osservate che, se un poco ho penato, molto riposo ho in essa trovato» (Sir 51,26-27, testo ebraico).

Essendosi personalmente sottoposto a quell’ascesi, il suo esempio dovrebbe invogliare i giovani a seguirne le tracce. È l’insegnamento, quel che è visto come un pesante giogo, è ve-ro; ma alla fine esso arreca anche un grande riposo. Anche Gesù riprenderà queste idee, ma applicando a se stesso quel che Ben Sira diceva della Sapienza: «Caricatevi del mio giogo e mettetevi alla mia scuola, perché io sono dolce e umile di cuore, e voi troverete il riposo [cf. Gv 6,16]. Sì, il mio giogo è agevole e il mio fardello leggero» (Mt 11,29-30). In queste parole Gesù si rivela più d’un maestro di sapienza alla maniera di Ben Sira: parla come fosse egli stesso la Sapienza.

«Con tutta la tua anima sta’ a lei vicino e con tutta la tua forza resta sulle sue piste. Cerca, scava, indaga e troverai, ma quando l’avrai presa, non lasciartela scappare. Perché poi troverai il riposo che essa dà: si trasformerà per te in gioia» (Sir 6,26-28).

Ben Sira cambia di nuovo immagini. Qui il discepolo è come uno che parte a caccia della Sapienza. Nei versetti precedenti era come uno che resta impaniato; qui è invece tutta la de-strezza e resistenza del cacciatore di selvaggina che deve imitare. Come una cerbiatta bracca-ta, la Sapienza scappa davanti a lui: a te, seguirla, e non importa quanto difficile sia il terreno su cui a tutta velocità essa fugge. Ma finirai per trovarla e alla fine le metterai le mani addos-so; ma allora tienila forte, non lasciartela scappare! Una buona formazione richiede iniziativa e perseveranza non meno che docilità. Il cacciatore che torna a casa con la sua preda, col pen-siero già pregusta l’allegra e riposante serata in cui la selvaggina catturata gli farà da festino. Lo stesso, per colui che avrà inseguito la Sapienza fino a quando essa non si lascerà prendere e farà la sua felicità:

«La sua rete sarà per te un luogo sicuro e le sue corde una veste d’oro. Ornamenti d’oro, il suo giogo, e i suoi legami, stole di porpora violacea! Te ne vestirai come d’un abito di gala, la cingerai come splendido diadema» (Sir 6,29-31).

Per concludere questa sezione, Ben Sira torna alle immagini dei versetti 23-25, la rete dalle mille maglie e il giogo ben attaccato. Ma ciò che là impressionava, qui diventa, per chi ne a-vrà sopportato le spiacevolezze degli inizi, un onore e una gloria: della rete d’un tempo, ades-so si riveste come d’un ricco mantello, e il giogo è corona sulla sua testa, mentre i legacci che tenevano ben fermo il giogo adesso sono di quel colore raro che indica, con gli altri ornamen-ti, la qualità regale o sacerdotale di chi li porta.

Se accetta quel che Ben Sira gli propone, il giovane discepolo deve sapere che la rude di-sciplina e lo sfiancante addestramento descritti dal maestro avranno la loro ricompensa.

2.3. Se vuoi... (Sir 6,32-37) «Se vuoi, figlio mio, diventerai sapiente; se ti applichi, sarai accorto. Se ti piace ascoltare, imparerai;

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se porgi orecchio, t’istruirai» (Sir 6,32-33).

Finite, le immagini. L’essenziale adesso è che il discepolo decida, da sé. Per ottenere la Sapienza ci vuole volontà e bisogna metterci il prezzo, con un’applicazione fedele e costante nonostante le difficoltà. L’ascolto è la prima regola pratica: esso implica docilità, attenzione e sottomissione. In Israele, come altrove, la sapienza si trasmette anzitutto con la parola:

«Sta’ con i più anziani, attàccati alla loro sapienza; ascolta volentieri ogni conferenza e non perdere un’esposizione intelligente. Se vedi una persona intelligente, va’ a trovarla e il tuo piede frusti la soglia della sua porta» (Sir 6,34-36).

Quelli che più di tutti bisogna ascoltare sono coloro che per l’età si son fatti dell’esperienza. Stare con loro è il miglior modo per impadronirsi della loro sapienza. Nell’ambiente sapienziale antico, la sapienza dei più anziani si esprimeva in occasione dei loro interventi orali, che potevano essere delle riflessioni, magari delle meditazioni, oppure assumere la più ampia forma della lezione sapienziale, non mediante il semplice proverbio, ma, di nuovo, mediante lunghe riflessioni alla maniera, per esempio, del libro di Giobbe. Og-gi parleremmo di conferenze, lezioni, seminari, che obbligano chi ascolta a riflettere e farsi un’opinione. Inoltre, il giovane ha tutto da guadagnare a scegliersi un maestro, che lo seguirà nel suo sviluppo intellettuale e sotto la cui direzione farà le sue prime ricerche e scriverà i suoi primi lavori. È a questa realtà d’oggi che dobbiamo assimilare l’invito di Ben Sira al giovane perché frequenti un maestro di sua scelta. Lo stesso Ben Sira si offrì ai giovani per questo servizio (cf. Sir 51,23-30).

«Porta la tua attenzione sul timore dell’Altissimo e medita continuamente i suoi precetti. Egli ti farà capire e ti renderà sapiente, come desideri» (Sir 6,37).

Più d’una volta Ben Sira ha spiegato che, oltre a ricorrere agli umani, conviene rivolgersi al Signore. Per questo, quando c’è da scegliersi un consigliere, ricorrere all’Altissimo è la prima cosa da fare, anche se Ben Sira non ci insisterà che alla fine della sua esposizione (cf. Sir 37,15), ma lo dice anche qui. Sulla stessa linea di pensiero, il malato deve sì chiamare il medico, ma deve anche pregare il Signore e riconciliarsi con lui (cf. Sir 38,1-15); o a proposi-to dello scriba: costui fa il suo mestiere, ma è anche un uomo di preghiera (cf. Sir 39,1-11).

3. La sapienza d’un povero (Sir 10,19-11,6) In Sir 9,16 Ben Sira scriveva: «Metti il tuo onore nel temere il Signore». Così cominciava

una lunga esposizione sull’onore, quello falso e quello vero. Era a proposito del governo dei popoli che Ben Sira affrontava il tema del falso onore, partendo dall’orgoglio (Sir 9,17-10,18). Ci sono buoni e cattivi governanti, ma in ogni caso «la sovranità sulla terra è nella mano di Dio» (Sir 10,4). A proposito dei cattivi governanti, Ben Sira dichiarava che «al Si-gnore, come agli umani, l’orgoglio è odioso» (Sir 10,7), dato che, essendo gli umani «polvere e cenere» (Sir 10,9; cf. Gen 18,27; Gb 42,6), il loro orgoglio è contro natura. L’orgoglio è perciò una colpa che Dio punisce rovesciando il trono dei capi orgogliosi e mettendo al loro posto una persona umile (cf. Sir 10,14). La conclusione di quell’analisi, basata sull’esperienza storica dell’autore, era che «l’orgoglio non è per l’uomo» (Sir 10,18). A quella esposizione in negativo Ben Sira fa adesso seguire il suo contrappunto in positivo (Sir 10,19-11,6). Subito Ben Sira stabilisce un principio generale (Sir 10,19):

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«La razza degna d’onore, quale razza di uomini è? La razza degna d’onore è quella che teme il Signore. La razza degna di disprezzo, quale razza di uomini è? La razza degna di disprezzo è quella che trasgredisce il precetto».

Per il nostro maestro di sapienza, degni d’onore sono solamente coloro che temono il Si-gnore e lo manifestano compiendo i suoi precetti (cf. Sir 1,25-27).

Il poema si divide poi in due parti, di nove versetti ciascuna. 3.1. Il vero criterio dell’ordine sociale: il timore del Signore (Sir 10,20-29) «In mezzo a fratelli, il loro capo è onorato, ma agli occhi di Dio lo è chi lo teme. Residente o straniero, immigrato o povero, la loro gloria è il timore del Signore. Non bisogna disprezzare un povero intelligente né onorare l’oppressore, chiunque sia. Principe, decisore e governante sono onorati, ma nessuno è più grande di colui che teme Dio. Un servo intelligente, i nobili lo serviranno e l’uomo sensato non se ne lagnerà» (Sir 10,20.22-25).

Dobbiamo ricordare che al tempo di Ben Sira Gerusalemme passò dalla dominazione dei Lagidi a quella dei Seleucidi in mezzo a guerre e crisi. L’ordine sociale è fondato sul potere e si onora chi lo detiene, cioè il primogenito d’una famiglia regale e chi ne fa parte. Ma ci sono anche gli esclusi dal potere, gli stranieri, i poveri, i servi: la loro gloria è temere il Signore e l’intelligenza o sapienza che ne proviene. Al centro della strofa Ben Sira ha posto un precetto fondamentale: il povero oppressore non merita di venire onorato, né più né meno che il pove-ro intelligente non merita di venire disprezzato. In materia d’onore, insomma, il criterio non è il potere, ma il timore del Signore, che rende veramente intelligente anche lo straniero, il po-vero o chi sta in fondo alla scala sociale.

«Non giocare al sapiente, quando fai il tuo mestiere, e non glorificarti [della tua sapienza] quando sei in miseria. Val più chi lavora e abbonda di beni di chi si vanta ma non ha cibo. Figlio mio, glorìficati con umiltà e stimati secondo il tuo merito. Chi da sé si condanna, chi lo giustificherà? E chi onorerà chi si disprezza?» (Sir 10,26-29).

In questi versetti Ben Sira applica al discepolo l’insegnamento generale che ha dato nella strofa precedente. Ne ricava due precetti. Il primo è in negativo: non bisogna pretendere d’essere sapiente quando non si fa che il proprio mestiere, né sbandierare sapienza quando non si ha nemmeno di che vivere. La ragione, come pare, è che ci vuole del tempo libero per coltivare la sapienza; l’operaio o il commerciante che giocasse a fare il sapiente rischierebbe di non far più bene il proprio mestiere (cf. Sir 38,24s) e, per altro verso, pretendere d’essere sapiente quando non si è nemmeno capaci di far fronte ai propri bisogni è ridicolo.

Il secondo precetto è in positivo; lo sottolinea pure il fatto che Ben Sira torna a sollecitare direttamente l’attenzione del discepolo: «figlio mio!». Si valuti con modestia, secondo il suo vero valore; eviti però anche di cadere nella trappola opposta, quella di considerarsi una nulli-tà. La ragione è che nessuno prenderà sul serio chi non ha per sé che disistima. Il discepolo, insomma, non passi i limiti, né vantandosi in modo esagerato, né in modo altrettanto esagera-to svilendosi.

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Se dunque è il timore del Signore l’onore dei senza potere, questi si giudichino corretta-mente, senza eccesso, né in un senso né nell’altro.

3.2. Come giudicare gli altri (Sir 10,30-11,6) «Il povero è onorato per la sua intelligenza e il ricco è onorato per la sua fortuna. Onorato nella sua povertà, che ne sarebbe, se fosse ricco? Disprezzato nella sua ricchezza, che ne sarebbe, se fosse povero? La sapienza d’un povero gli tiene alta la testa e lo fa sedere in mezzo ai grandi» (Sir 10,30-11,1).

Qohèlet (Qo 9,14-16) aveva raccontato questa storia:

«C’era una piccola città con pochi abitanti. Arrivò un grande re ad assediarla; costruì contro essa delle grandi opere. Ma trovò in faccia a sé un uomo povero e sapiente che salvò con la sua sapienza la città. Nessuno però conservò il ricordo di quell’uomo povero. Allora io dico: “Val più la sapienza che la forza, ma la sapienza del povero è disprezzata e nessuno ascolta quel che dice”».

Ben Sira è più ottimista, per quanto anche egli avesse scritto (Sir 13,23):

«Quando il ricco parla, tutti tacciono e si porta fra le nubi la sua intelligenza. Quando il povero parla, si dice: “E che?”, e lui s’impappina, lo fanno cadere».

Nel testo che qui commentiamo (Sir 10,30-11,1), Ben Sira ammette che, accanto ai ricchi, per forza rispettati per la loro agiatezza, ci sono dei poveri la cui intelligenza e sapienza im-pone il rispetto. E si chiede fin dove arriverebbe il rispetto del povero se, oltre la sua chiaro-veggenza, avesse anche dei beni di fortuna: non sarebbe allora al culmine della gloria? E se il ricco, invece d’essere onorato perché ricco, fosse disprezzato, a motivo forse della dubbia provenienza dei suoi beni o del cattivo uso che ne fa, di qual disprezzo non sarebbe oggetto il giorno in cui finisse in miseria? Qui Ben Sira sta pensando a un cambiamento nell’ordine so-ciale, su cui tornerà in Sir 11,4c-6, alla fine alla sua esposizione (ma cf. già Sir 10,14).

Comunque sia, per il nostro autore è la sapienza che permette al povero di tener alta la sua dignità e di frequentare i ricchi di questo mondo. Forse qui Ben Sira alluderebbe alla sua per-sonale esperienza? Alcuni l’hanno pensato: Ben Sira proverrebbe da un ceto poco favorito. In ogni epoca della storia, la nostra compresa, ci sono delle persone senza fortuna la cui parola però non cessa di sollevare interrogativi alla coscienza di quelli che governano, a riguardo delle più serie opzioni per l’avvenire dell’umanità.

«Non lodare nessuno per la sua apparenza, non detestare nessuno per il suo aspetto: fra gli alati, l’ape è minuscola, ma produce il meglio di quel che si raccoglie. Non disprezzare chi indossa soltanto una veste e non motteggiare colui che vive un giorno amaro» (Sir 11,2-4).

Se invero dei cambiamenti nella scala sociale non sono mai da escludere, meglio è non giudicare nessuno dalle apparenze. Né il ricco di bel portamento né, soprattutto, il povero ve-stito di stracci o l’infelice che se la vede nera. Al centro dei tre versetti, il paragone dell’ape fa molto pensare. In Pr 6,8 si legge quest’aggiunta greca a riguardo del pigro:

«Va’ a vedere l’ape, impara quanto è laboriosa e quanto seriamente fa il suo lavoro.

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Re e gente comune usano il suo prodotto per la loro salute; tutti la cercano: è stimata. Benché valga poco sotto l’aspetto del vigore, si distingue per aver onorato la sapienza».

Ben Sira va nello stesso senso: quando ci si attenesse alle apparenze, l’ape farebbe una ben misera figura, accanto all’aquila, per esempio, ma il suo miele, fra tutto ciò che l’uomo può raccogliere in natura, è il più fine e apprezzato dei prodotti. Non disprezzare quindi neppure uno straccione, perché può essere dotato di profonda sapienza.

«Sí, le opere del Signore sono stupefacenti e la sua azione è nascosta all’uomo. Molti oppressi si son seduti sul trono; quelli che non si pensava han cinto il diadema. Molti potenti son stati assai disprezzati e persone illustri abbandonate alle mani del popolaccio» (Sir 11,4c-6).

Questi versetti conclusivi giustificano, sulla base dell’esperienza, i precetti che Ben Sira dava al discepolo nel gruppo di versetti precedenti (Sir 11,2.4). Uno sconvolgimento nella scala sociale, cui l’autore con discrezione alludeva in Sir 10,31, obbliga a non aver fretta nel giudicare le persone, i poveri in particolare. Per Ben Sira un simile sconvolgimento dipende dall’azione del Signore, che l’uomo non può prevedere. Lui dà la corona ai lasciati da parte e fa decadere quelli il cui potere pareva consolidato, consegnandoli nelle mani di gente di bassa estrazione, di quelli che si trovavano all’altro capo della scala sociale. Non lo dice anche il Magnificat che il Signore «rovescia i potenti dal loro trono, innalza gli umili» (Lc 1,52; cf. Gb 12,19)?

4. Libertà responsabile e misericordia del Signore (Sir 15,11-20; 16,4-15) 4.1. Libertà e retribuzione (Sir 15,11-16,14) Ben Sira parte da una duplice obiezione: è Dio la causa del mio peccato, è stato lui a farmi

cadere. Ebbene, risponde il maestro, ciò è impossibile, dato che Dio odia il male, e dunque non lo fa. Del resto, Dio non ha nessun bisogno di iniqui; se così fosse, non ci sarebbe nean-che un giusto sulla terra (Sir 15,11-13)! Prova per assurdo, che l’autore propone in forma condensata; ma poi subito esplicita il suo pensiero (Sir 15,14-17):

«Al principio Dio creò l’uomo e lo lasciò in potere della sua inclinazione. Se vuoi, osserverai il precetto: compiacerlo è intelligenza. Davanti a te son posti fuoco e acqua: stendi le tue mani verso quel che vuoi. Davanti all’uomo stanno la vita e la morte: quel che vuole, gli sarà dato».

È l’uomo, l’unico responsabile del suo peccato. E per mostrare ciò, Ben Sira rimonta fino all’atto delle origini con cui Dio creò l’essere umano. Ebbene, quando lo creò, Dio gli diede in dote il potere di scegliere liberamente, secondo la sua inclinazione: verso cosa sarebbe egli andato? Si tratta proprio del libero arbitrio: qui la scelta volontaria dell’uomo viene ricordata per ben tre volte. Se sceglie d’obbedire a Dio osservando il suo precetto, darà prova d’intelligenza, cioè di sapienza. Come già diceva il Deuteronomio (30,15.19), quella scelta suppone un’alternativa: il fuoco che fa perire, oppure l’acqua che fa vivere. A te scegliere, dice Ben Sira al suo discepolo. E la scelta comporta delle conseguenze: «Quel che egli vuole, gli sarà dato»; in altre parole: la retribuzione dei nostri atti dipende dalle nostre libere scelte.

Per completare la sua argomentazione, Ben Sira spiega poi che la retribuzione è inevitabi-

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le, perché Dio, cui sicuramente non manca la potenza, osserva attentamente la scelta d’ognuno (cf. Sir 15,18.20). La loro retribuzione è certa: Ben Sira lo sa per esperienza perso-nale (cf. Sir 16,1-5a), ma anche per la testimonianza dell’antica storia del suo popolo (Sir 16,5b-10). La sua esperienza personale si allinea alle affermazioni d’Ezechiele (cf. Ez 18): ognuno è responsabile dei propri atti. Chi agisce male verrà punito e chi fa il bene avrà la sua ricompensa: «ciascuno sarà trattato secondo le sue opere» (Sir 16,15).

Sembra che Ben Sira pensi soltanto a una retribuzione quaggiù. In lui, nessuna evidente apertura a un aldilà della morte (cf. soprattutto Sir 17,27-28). Ebbene, Giobbe e Qohèlet ave-vano inciampato proprio su una retribuzione terrena che i fatti smentivano. Bisognerà aspetta-re la Sapienza di Salomone (Sap 3-4) perché l’enigma si risolva.

4.2. Responsabilità umana e misericordia divina (Sir 16,17-18,14) L’obiezione si fa anche più forte. Secondo Ben Sira Dio vede tutto, osserva e scruta le a-

zioni d’ognuno (cf. Sir 15,18-19). Ma come potrebbe di lassù vedermi essendo io nell’immensa creazione sì piccola cosa? Che io faccia il bene o il male, quale importanza può avere? E se faccio il bene, qual è la mia speranza (cf. Sir 16,17.20-22 ebraico)? L’obiezione mette insomma in dubbio la divina provvidenza nei riguardi d’ognuno, e conclude che non c’è differenza fra agire male e fare il bene. Quale rapporto c’è dunque fra l’azione morale dell’uomo e Dio?

L’obiezione è seria; per questo, prima di rispondere Ben Sira alza il tono di voce (Sir 16,24-25):

«Ascoltatemi e sentite il mio parere, fate attenzione alle mie parole. Spanderò con misura il mio spirito, con modestia indicherò il mio sapere». 4.2.1. L’uomo nella creazione (Sir 16,26-17,14) Come nella sua risposta alle prime obiezioni (Sir 15,14), Ben Sira rimanda all’atto iniziale

del Creatore, per svelarne alcune implicazioni. In un primo tempo spiega il senso della crea-zione del cosmo, in particolare degli astri (Sir 16,26-28):

«Quando al principio Dio creò le sue opere, appena fatte, assegnò a esse un ruolo. Mise in ordine le sue opere per sempre, le loro funzioni, d’epoca in epoca. Esse non soffrono debolezza né stanchezza e mai tralasciano il loro compito. Nessuna ha mai urtato l’altra e mai esse infrangono la sua parola».

Ciò che Ben Sira vuole sottolineare è anzitutto che, creando con la sua parola le varie componenti del cosmo, Dio assegnò in modo definitivo a ciascuna d’esse un ruolo particola-re; poi, che ogni componente del cosmo assolve al suo ruolo senza stancarsene, senza mai desistere, senza mai invadere e disturbare il campo del vicino, insomma compiendo fedel-mente l’ordine stabilito da Dio (cf. Bar 3,32-35).

Quindi, con due versetti intermedi (Sir 16,29-30), Ben Sira passa logicamente alle creature di vita effimera: i vegetali di cui il Signore ha riempito la terra e gli animali che «tornano alla terra».

E’ propriamente in questo contesto che il nostro sapiente arriva a parlare dell’essere uma-no, anche esso tratto dalla terra e che alla terra deve tornare:

«Il Signore creò l’uomo a partire dalla terra, per li poi rimandarlo. Diede loro un tempo di vita limitato,

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ma dando loro potere su ciò che è terreno. Li dotò di forza come lui, a sua immagine li fece. Mise in ogni carne il timore dell’uomo, perché domini le bestie e gli uccelli» (Sir 17,1-4).

Effimera è la nostra vita, effimera anche essa; ma creando l’essere umano a sua immagine, il Signore ne fece il padrone della creazione (cf. Gen 1,26-28). Benché, insomma, la vita dell’essere umano sia transitoria, anch’egli, come gli astri e i pianeti, ha ricevuto una funzio-ne sulla terra, e il Signore gli ha dato potere al riguardo facendo di lui la propria immagine sulla terra, il suo rappresentante, il suo luogotenente. E non è ancora tutto.

«Formò loro una lingua, degli occhi e delle orecchie, donò loro un cuore per pensare, li riempì di scienza e d’intelligenza, indicò loro quel che è bene e quel che è male. Tiene d’occhio i loro cuori, mostrando loro la magnificenza delle sue opere: descrivendo le sue opere grandiose, essi loderanno il suo santo nome» (Sir 17,5-8).

Per esercitare la propria funzione nel mondo, ogni uomo ha ricevuto dal Signore degli or-gani di senso e un organo di discernimento, il cuore, che decide e impegna. Il Signore ha gra-tificato gli uomini dell’intelligenza e ha fatto intuire loro la differenza fra il bene e il male (allusione alla voce della coscienza più che al divieto di cogliere il frutto dell’albero della co-noscenza del bene e del male di Gen 2,17). Così dotati, gli uomini non sono abbandonati a se stessi. E il Signore continua a osservarli, ma semplicemente mostrando loro le sue opere, le quali, fedeli alla sua parola, indefettibilmente compiono la loro funzione: esse invitano gli uomini a fare altrettanto, a compiere anche essi rettamente la loro funzione, scegliendo libe-ramente il bene piuttosto che il male. Così facendo, essi sono chiamati a lodare il Signore che scoprono attraverso le sue opere: le meraviglie dell’universo invitano alla lode di colui che le ha create (cf. Sal 8). Per Ben Sira, la lode è appunto il più nobile atto che gli umani sono chiamati a compiere (cf. Sir 15,9-10; 39,14-15).

«Concesse inoltre loro la conoscenza, una legge di vita, come eredità. Concluse con essi un patto eterno e indicò loro i suoi precetti. I loro occhi videro la magnificenza della sua gloria, le loro orecchie udirono la sua voce gloriosa: disse loro: “Guardatevi da ogni male!” e diede a ognuno di loro dei precetti riguardo al prossimo» (Sir 17,9-12).

È manifesto che qui Ben Sira si riferisce invece all’esperienza fondatrice che Israele visse al Sinai. Lì il Signore si manifestò direttamente al suo popolo. Nuova tappa della storia di Dio con l’umanità, giacché la rivelazione sinaitica assume per Ben Sira una dimensione universa-le: Israele incarna tutta l’umanità; attraverso Israele, è in realtà a tutta l’umanità che il Signore mira. Ebbene, in quella rivelazione, con il decalogo (cf. Es 20,3-17; Dt 5,7-21) il Signore die-de dei precetti che incitano da una parte a scegliere il bene e, dall’altra, a comportarsi verso il prossimo senza mai agire male. Come gli astri, nessuno dei quali mai invade il campo del vi-cino (cf. Sir 16,28), ogni uomo potrà così assolvere la sua missione in pace.

Compresa in questi termini, la risposta di Ben Sira alle nuove obiezioni (cf. Sir 16,17.20-22) non manca di pertinenza: ogni uomo ha delle funzioni da assolvere e, perché gli riesca, il

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Signore l’ha dotato di tutto ciò che gli è necessario per scegliere liberamente quel che ne as-seconda il compimento. Agire male o fare il bene non è dunque cosa indifferente. Inoltre, riandando all’atto con cui Dio creò il mondo e l’umanità, il nostro sapiente lascia intendere che l’origine non è semplicemente un lontano momento del tempo, ma indica quel che il Si-gnore si decideva a fare per sempre. In questo senso, possiamo parlare di creazione continua, d’una volontà di Dio che si mantiene fino a noi: è adesso che ogni essere umano viene in quel modo dotato, per assolvere la sua funzione nel mondo. L’obiettante ha dunque torto a negare la provvidenza divina riguardo al singolo individuo.

4.2.2. Conversione e misericordia (Sir 17,13-18,14) Nell’ultima parte della sua confutazione, Ben Sira aggiunge allora delle importanti rifles-

sioni. L’obiettante pareva scoraggiato, quando si chiedeva: «Quale speranza [posso avere] quando compio il precetto?» (Sir 16,22, ebraico).

In un primo tempo (Sir 17,13-18) il sapiente ripete che il Signore, è vero, scruta la condot-ta degli uomini, i loro peccati, ma ancora di più tiene conto delle loro buone azioni: le custo-disce egli preziosamente, per ricompensarne più avanti i loro autori.

Un secondo tempo (Sir 17,19-18,14) è molto più sviluppato. Ben Sira gli dedica 22 verset-ti: tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico. A significare l’importanza del messaggio. Il versetto 19 fa da introduzione:

«Ma a chi si pente egli concede un ritorno, incoraggia quelli che perdono la speranza».

Impari dunque la lezione il peccatore:

«Torna al Signore e rinuncia al peccato, pregalo direttamente e cessa di offendere. Torna all’Altissimo e lascia l’ingiustizia; detesta veracemente ogni azione abominevole» (Sir 17,20-21).

Qui Ben Sira non sta a discutere; con vera e propria insistenza si appella piuttosto al pec-catore perché prenda una posizione concreta, perché lasci da parte le sue scoraggianti elucu-brazioni e faccia un atto vero. La ragione è che c’è fretta, il tempo preme. In effetti, per lodare il Signore, che è la più alta missione dell’uomo (cf. Sir 17,10), questi dev’essere vivo, sicco-me la lode non può salire dallo sheòl, dal soggiorno dei morti (Ben Sira non sa ancora niente di preciso sull’aldilà). E per questo, a titolo d’esempio ma anche in segno d’incoraggiamento, il maestro subito intona un inno, che introduce con queste parole che legano quel che precede a quello che svilupperà in seguito (Sir 17,249):

«Come è grande la misericordia del Signore, il suo perdono per quelli che tornano a lui!».

In effetti, - la miseria dell’uomo proviene dal fatto che è mortale e, più ancora, dal fatto che nel suo

cuore egli medita il male; la sua finitezza e la sua colpevolezza contrastano con l’eternità e la giustizia divine (cf. Sir 17,25-18,2);

- le opere del Signore, in particolare i suoi gesti di misericordia, son tali che l’uomo non riuscirà mai a lodarne in modo conveniente il loro autore: la nostra lode del Signore è sempre inadeguata (cf. Sir 18,4-7);

- anche il tempo di vita concesso all’uomo è breve. Cosa sono cent’anni, di fronte all’eternità? Perciò il Signore porta pazienza e si dimostra abbondantemente misericordioso con gli umani (cf. Sir 18,8-11);

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- il Signore moltiplica il suo perdono. A differenza dell’uomo che può essere misericordio-so perdonando il suo prossimo (cf. Sir 17,14b), il Signore dà prova di misericordia verso tutti gli uomini, prossimi o lontani senza distinzione: come un pastore, si fa pedagogo per riportare indietro quelli che si sono sviati (cf. Sir 18,12-14).

5. Preghiera per dominare la lingua e gli appetiti sessuali (Sir 22,27-23,6) È la preghiera d’un credente che supplica Dio perché sa che solamente l’aiuto dall’alto può

permettergli di tenere sotto controllo la sua lingua e i suoi istinti sessuali. Tenere queste cose sotto controllo significa essere padroni di sé e vivere con dignità, che è appunto ciò cui mira-vano i sapienti.

5.1. Controllare la lingua (Sir 22,27-23,1) «Chi metterà un custode alla mia bocca e sulle mie labbra un sigillo efficace, perché io non vacilli a causa loro e la mia lingua non provochi la mia rovina? Signore, padre e madre della mia vita, non lasciarmi vacillare per causa loro!».

I primi due distici pongono una domanda, la cui risposta è implicita, ma evidente: non so-no io! Soltanto Dio può aiutarmi in questo: di qui, l’invocazione dell’ultimo distico.

Molto tempo dopo Ben Sira, l’apostolo Giacomo scrisse una rutilante pagina (Gc 3,2-12) sui misfatti che si commettono con la lingua. Anche il libro dei Proverbi su questo tema ha tramandato massime incisive:

«Chi sorveglia la sua bocca conserva la sua vita, chi troppo parla si perde» (Pr 13,3). «La bocca dello stolto è una rovina; le sue labbra, una trappola per la sua vita» (Pr 18,7).

Ben Sira tornerà sull’argomento in Sir 28,13-26; eccone gli ultimi due versetti:

«Nel tuo linguaggio usa bilancia e peso, alla tua bocca metti porta e spranga. Guàrdati dal fare con essa passi falsi: cadresti in potere di chi ti insidia» (Sir 28,25-26).

Poco prima aveva dato questo consiglio:

«Non lodare nessuno prima che abbia parlato, perché è dalle parole che si giudica una persona» (Sir 27,7).

Nel nostro contesto, Ben Sira pensa invece a quelli che hanno il giuramento troppo facile (Sir 23,7-11): chi avrà preso quest’abitudine metterà poi in pratica quello cui tanto spesso si sarà impegnato?

«Non abituare la tua bocca a far giuramenti, non abituarti a pronunciare il nome del Santo» (Sir 23,9).

Nel discorso della montagna Gesù dirà: «Ebbene, io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Geru-salemme, perché è la città del grande re. [...] Il vostro linguaggio sia: “Sì”, se è sì; “No”, se è no; tutto il di più viene dal Malvagio» (Mt 5,34-35.37).

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Ben Sira pensa anche a quelli che sono soliti bestemmiare, cosa orribile, in Israele, o a quelli i cui discorsi volgari e disonorevoli fan capire che sono delle persone mal allevate (Sir 23,12-15). Sia gli uni che gli altri sono colpevoli, e di questo subiranno le conseguenze.

È tutto ciò che il sapiente vorrebbe evitare. Per questo si volge al Signore, che chiama «Padre e madre della mia vita», perché lo preservi da simili sbandamenti.

5.2. Essere padrone della propria sessualità (Sir 23,2-6) «Chi applicherà la sferza ai miei pensieri e al mio cuore la disciplina della sapienza, per non risparmiarmi i miei errori e perché i miei peccati non restino impuniti, perché non si moltiplichino i miei errori e non sovrabbondino i miei peccati perché non cada in mano dei miei avversari e il mio nemico se ne rallegri? Signore, padre e Dio della mia vita, non mettermi in balìa di sguardi sfrontati e allontana da me la concupiscenza. Sensualità e lussuria non mi dominino e non abbandonarmi al desiderio impudìco».

L’invito della carne può essere tanto forte che uno perde quel controllo che su essa do-vrebbero avere l’intelligenza e la volontà. Il sapiente ammette insomma la sua fragilità in questa materia: anche il discepolo potrà fare altrettanto. La disciplina che la sapienza esige, come una sferza, chi può in verità applicarsela, se non con il favore divino? Per questo, biso-gna chiedere l’aiuto di Dio.

Senza questo aiuto è ben difficile soggiogare pensieri e cuore - da cui provengono inten-zioni e calcoli - a quell’autocontrollo che la sapienza insegna. La disciplina di vita permette di porre un freno ai possibili sbandamenti, a passeggere colpe. Senza di che, l’ingranaggio s’ingrippa: sbandamenti e colpe si commetteranno allora senza più ritegno, senza più vergo-gna. Chi tanto decade, finirà per venire scoperto e perderà il suo onore.

Ben Sira lo fa poi ben vedere, nel suo insegnamento vero e proprio, a riguardo dell’uomo depravato (Sir 23,16-21), poi della donna adultera (Sir 23,22-26). Conclude infine con queste parole:

«Così tutti gli abitanti della terra sapranno e tutti quelli che dimorano nel mondo capiranno che non c’è niente di meglio del timore del Signore, niente di più dolce che osservare i precetti del Signore» (Sir 23,27). 6. L’elogio della Sapienza (Sir 24,1-34) Posto al centro del libro, è il passo più noto della Sapienza di Ben Sira. La struttura del ca-

pitolo è la seguente: i primi due versetti (Sir 24,1-2) introducono la Sapienza che si appresta a fare un discorso; esso viene poi pronunciato (Sir 24,3-22), prolungandosi per 22 distici, tanti quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico: segno che è un discorso d’importanza fondamen-tale. Poi riprende la parola Ben Sira, per precisare il rapporto tra Sapienza e legge (Sir 24,22-27) e spiegare quella funzione di sapiente che anche egli esercita (Sir 24,28-32).

6.1. Il discorso della Sapienza (Sir 24,1-21) Un primo movimento, essenzialmente spaziale, descrive la Sapienza uscita dalla bocca

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dell’Altissimo fino a quando riceve l’ordine, da Colui che l’ha formata, d’insediarsi in Israele (cf. Sir 24,3-8). È assimilata alla Parola del Signore quando creò il mondo (cf. Gen 1). È pa-ragonata anche alla rugiada che al mattino copre il terreno e lo fertilizza (cf. Sir 43,22). Già Is 55,10-11 aveva paragonato la Parola divina alla pioggia che scende dal cielo e feconda la ter-ra. Là, tuttavia, la Sapienza dimorava nelle altezze: una colonna di nube era il suo trono. Essa percorreva tutto l’universo, il cielo e l’abisso, in verticale, poi il mare e la terra abitata, in o-rizzontale. Dall’alto governava tutti i popoli, cercando a ogni buon conto un punto dove anco-rarsi. Fu allora che il Signore le indicò Israele.

Una descrizione del genere ne fa venire in mente delle altre ancora. In Gb 28, la ripetuta domanda voleva sapere dove stesse la Sapienza; una parte della risposta era che l’abisso e il mare non la contenevano (Gb 28,14). In Pr 8,27.30a, spiegava poi come fosse presente quan-do il Signore mise in ordine le varie parti dell’universo e come cercasse di mettersi in contatto con gli umani (cf. Pr 8,31). In Sir 24,3-6, afferma d’aver esercitato sul mondo un’attività fe-condante e una dominazione.

Ma le immagini usate nei versetti Sir 24,4-8 possono anche alludere all’esodo: sottesa a tutto il discorso ci sarebbe allora la storia sacra. Ricordiamo in particolare il ruolo svolto dalla nube durante l’uscita dall’Egitto e al passaggio del mare (cf. Es 13,21-22; 14,19-24). Dopo la rivelazione del Sinai, la nube copriva la Tenda in cui si trovava l’arca dell’alleanza con le due tavole del decalogo; la nube continuò a guidare gli Ebrei nel deserto (cf. Es 40,36-37; Nm 9,13-23; 10,33-34). Più tardi Davide fece salire l’arca a Gerusalemme: fu lì che essa trovò la sua eredità (cf. Es 15,17) e il suo riposo (cf. 1Cr 6,16; 28,2; Sal 132,14), nel tempio che poi Salomone costruì: al momento della sua inaugurazione, la nube l’invase (cf. 1Re 8,1-13). per l’autore di Sap 10,17-19, era la Sapienza stessa che lì agiva.

La Sapienza – di cui ne viene affermata l’eternità al v. 9 – dimorò prima nella Tenda e poi nel tempio di Sion (ove officia liturgicamente davanti al Signore), estendendo il suo spazio all’intera città di Gerusalemme (cf. vv. 10-12).

I versetti 13-14 precisano la crescita della Sapienza - per tre volte ripete che è cresciuta - e l’estensione al territorio d’Israele che ha coperto. Per far ciò, essa indica i confini della terra d’Israele: a nord il Libano e il monte Ermon, a est Engaddi e Gerico, a ovest la fertile pianura che costeggia il mar Mediterraneo. Luoghi ben noti, perché lì acque abbondanti permettono alla vegetazione di crescere: gli alberi e altre piante tipiche d’ogni regione fanno da appro-priato paragone alla crescita della Sapienza in Israele.

Il versetto 15 assimila allora la Sapienza al profumo dell’olio che serve per l’unzione sacra (cf. Es 30,23-25) e al buon odore dell’incenso (cf. Es 30,34-36). Questo ritorno al tempio di Sion, come al punto d’ancoraggio della Sapienza (cf. Sir 24,10), vuole indicare quanto la Sa-pienza abbia impregnato del suo profumo tutto quello che con la sua presenza ha consacrato e quanto essa tenda a salire verso il Signore, come la preghiera (cf. Sal 141,2) o la lode (cf. Sir 39,14) di quelli che l’accolgono.

I versetti 16-17 riprendono i paragoni della vegetazione in crescita: viene il tempo in cui spuntano i rami e le loro gemme, che sbocciano poi in fiori, prima che nella bella stagione compaiano i frutti. Quanto al terebinto (cf. Is 6,13) e alla vigna (cf. Is 5,1-7; 27,2-6; Sal 80,9-12), si tratta di simboli di tutto il popolo. Partendo insomma dal tempio di Gerusalemme, la Sapienza ha coperto e arricchito con i suoi frutti tutto Israele.

I versetti 18-21 concludono l’elogio che la Sapienza fa della propria storia invitando gli ascoltatori a mettersi a tavola per consumare i suoi prodotti. Rispondere all’invito della Sa-pienza significa andare a saziarsi dei suoi prodotti, come frutti maturi alla bella stagione. Quali sono questi prodotti? Il versetto 17 precisava che erano dei «frutti di gloria e di ricchez-za». Già in Sir 1,16-19 il sapiente aveva parlato dell’abbondanza e della qualità di quei pro-dotti, che sono la pace, la salute, la conoscenza e la gloria. In Sir 15,3-6 Ben Sira diceva, del

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discepolo che si attacca alla Sapienza, che

«essa lo nutre con il pane del buon giudizio e gli dà da bere le acque dell’intelligenza. Egli si appoggia su essa e non vacillerà, si fida d’essa e non arrossirà. Essa l’esalterà più dei suoi compagni; nell’assemblea gli aprirà la bocca. Egli troverà gioia e gaiezza ed essa gli farà possedere un nome perpetuo».

A queste spiegazioni di Ben Sira sui prodotti della Sapienza, la famosa aggiunta del verset-to 17 (Greco 248 e lat.) fa nuova luce:

«Io sono la madre del bell’amore, del timore, della conoscenza e della santa speranza».

La sapienza è considerata la madre dei beni che genera. Anzitutto dell’autentico amore che il credente ha per il Signore, che nient’altro è se non il timor divino, che nella sua sostanza di fondo è atteggiamento d’affettuoso rispetto, di venerazione e di sincero impegno verso Dio (cf. Sir 2,15-17). Secondo Ben Sira, quest’atteggiamento è sicuramente la condizione per ri-cevere la Sapienza (cf. il nostro commento di Sir 1,11-20), ma per l’autore dell’aggiunta esso è già l’opera della Sapienza in colui che mediante essa si apre al dono di Dio. Ciò che l’aggiunta dice in più è la profondissima conoscenza delle vie di Dio e la capacità di ricono-scere la sua incessante presenza nelle nostre vite; è anche la speranza che il Signore ricom-penserà quelli che d’essa si nutrono. L’ignoto autore di quest’aggiunta pensa, come pare, alla beatitudine dei giusti oltre la tomba.

Il versetto 19 apre la giustificazione dell’invito della Sapienza. Il ricordo che d’essa con-serva chi consuma i suoi prodotti, quel che essa lascia come un’eredità (cf. Sir 4,13) è al gu-sto più dolce del miele. Già Pr 24,13-14 diceva:

«Prendi del miele, figlio mio, è buono; una goccia di miele è dolce al tuo palato. Sappilo: così è la Sapienza per te»,

cioè adatta a soddisfare i tuoi desideri. In verità, chi ha gustato del miele ne vuole ancora. Secondo il versetto 20, la Sapienza dichiara insomma di non stancare mai: è come un cibo o una bevanda cui sempre si torna con piacere. Poi, al versetto 21, andando oltre le immagini per entrare nel concreto della vita, conclude la spiegazione del suo invito alla maniera di Pr 8,32-36 e Pr 9,6: consumarla significa mettersi al suo ascolto e agire sotto la sua influenza; chi risponde così al suo appello evita sia la vergogna sia lo sbandamento, sbaglio o colpa che sia.

6.2. Sapienza e Legge (Sir 24,22-29) Per Ben Sira il discorso della Sapienza, o perlomeno una sua parte, va messo in relazione

con il libro dell’alleanza (cf. v. 22). Anche in Bar 4,1 la via che porta alla Sapienza è apparsa nella terra d’Israele: «Essa è il libro dei precetti, la legge che sussiste in eterno». Dal canto suo, in Sir 24,22bc Ben Sira aggiunge una citazione di Dt 33,4: si tratta della «legge che Mosè ci ha prescritto, eredità delle assemblee di Giacobbe».

La legge spande a profusione la sapienza. Tale profusione (e la pienezza che ne deriva) è paragonabile a quella dei quattro fiumi del paradiso (cf. Gen 2,10-14), ai quali vengono ag-giunti qui il Giordano e il Nilo. Questa lista di fiumi indica la portata universale e paradisiaca della legge data a Israele. E tuttavia la Sapienza non si riduce ai precetti della legge (di cui ne è la migliore espressione), ma si estende a tutta la Scrittura.

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6.3. Il ruolo di Ben Sira (Sir 24,28-32) Una volta fatta parlare la Sapienza e mostrata la sua relazione con la legge, Ben Sira chiu-

de il suo poema indicando il rapporto che egli stesso ha con la Sapienza. Egli è come uno di quei canali che s’innestano su un fiume e vanno a un parco da irrigare. Si è dunque deciso ad aprire le chiuse, per irrigare il suo giardino e il suo parco, cioè i discepoli che frequentano la sua scuola (cf. Sir 39,13-14; 51,23). È a essi che il sapiente trasmette la Sapienza. La sua atti-vità è simile a quella della legge: questa esprime al meglio ciò che la Sapienza propone, così arrecando a chi l’accoglie un’abbondante sapienza (il canale si trasforma in fiume e poi il fiume diventa immenso come il mare).

Allo stesso tempo Ben Sira è convinto che la raccolta fatta in questo libro è una luce che illumina ben lontano, al di là della ristretta cerchia della sua scuola (cf. vv. 30-32). In effetti, il libro, potendo venire riprodotto, raggiunge un pubblico più ampio dell’ambiente immediato dell’autore.

7. Aiutare finanziariamente il prossimo (Sir 29,1-20) Ci sono tre maniere per aiutare finanziariamente chi è nel bisogno. Gli si può fare un pre-

stito, oppure dargli del denaro in elemosina, oppure ancora fargli da garante nei confronti del creditore. Il popolo della Bibbia conosceva queste tre forme d’aiuto al prossimo.

Fra israeliti, il prestito in contanti escludeva ogni interesse (cf. Es 22,24; Lv 25,35-38); a fortiori era riprovata l’usura (cf. Ez 18,8.13.17; Pr 28,8); era lodato chi per pietà imprestava (cf. Sal 112,5); mentre di rado il debitore che non restituiva veniva condannato (cf. Sal 37,21a).

L’elemosina, che la lingua ebraica chiama «giustizia», di per sé non implica nessuna resti-tuzione; si dà a fondo perduto, e spesso la Bibbia loda chi la pratica, di norma in natura (per esempio cf. Tb 4,7-11; 12,8-9). Gesù chiederà di farla con discrezione (cf. Mt 6,1-4).

7.1. Prestare, ma anche restituire (Sir 29,1-7) Sebbene ricordi il dovere di prestare al prossimo in difficoltà, Ben Sira si dilunga pure

sull’obbligo di restituire il prestito avuto: è il primo a farlo con tanta chiarezza. Chi presta dà prova di bontà, di misericordia e fedelmente pratica quel che impone la legge

mosaica (cf. vv. 1-2a). Ma chi ha ottenuto un prestito, al tempo stabilito lo renda! Sia fedele alla parola, cioè all’impegno preso con chi gli ha fatto il prestito! Sia onesto nei suoi confron-ti! Se così fa, non solo non mette in difficoltà colui che l’ha aiutato (cf. v. 4), ma anche come debitore troverà poi ancora uno che gli farà un prestito, se ancora gli capitasse di trovarsi un’altra volta in difficoltà (cf. vv. 2b-3).

Ben Sira allora insiste e commenta mediante immagini, con ironia ma anche con realismo, il comportamento di colui che (cf. vv. 5-6), per ottenere il prestito, diventa lusinghevole e mieloso: si fa umile e rispettoso come mai, vanta la fortuna dell’altro. Ma al momento del rimborso, non essendone in grado, porta scuse su scuse, un pretesto dopo l’altro, per non met-tersi in pari. A chi ha prestato toccherà perciò insistere, ma a che prezzo! Recuperare la metà della somma, per chi ha prestato sarà già una cosa insperata. In caso contrario il creditore, ol-tre ad essere stato spogliato, sarà oggetto della maledizione e dell’ingiuria del debitore stesso. Ecco perché, senza cattiveria da parte loro, quelli che imprestano si fanno rari: staranno ben attenti a farsi spogliare per niente (cf. 7).

La caricatura del nostro maestro di sapienza fa sorridere. Ma ciò non toglie che ci siano dei debitori insolventi senza colpa.

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7.2. L’elemosina, una giustizia senza rischio (Sir 29,8-13) L’insegnamento di Ben Sira sull’elemosina è di tutt’altro ordine. Non è la prima volta che

il maestro affronta l’argomento. Per esempio in Sir 4,1-6 aveva scritto:

«Figlio mio, non privare il povero del necessario per vivere e non rattristare gli occhi di chi vive nell’amarezza. Non far patire l’indigente e non esasperare le viscere dell’infelice. Non contristare il cuore del povero e non far aspettare un dono a chi ha bisogno. Non disprezzare la domanda del mendicante e non nasconderti a un cuore dolente. Non distogliere lo sguardo da chi chiede e non dargli pretesto di maledirti: nella sua angoscia, pieno d’amarezza, egli griderà e colui che l’ha plasmato sentirà il clamore del suo grido».

Chi sollecita un prestito si trova momentaneamente in difficoltà, ma la situazione del po-vero è peggiore: essa è permanente e radicale. Per questo, chi ha mezzi, come i discepoli di Ben Sira, vengono dal sapiente pressantemente pregati di dar prova di generosità, di «giusti-zia», come si dice in ebraico.

I primi tre versetti della pericope (Sir 29,8-10) sono una serie di pressanti sollecitazioni: fa’ vedere che hai il cuore grande, corri in aiuto, da’ il tuo denaro in perdita. Il beneficiario è un povero, ma in realtà è anche un fratello e un amico. Per insistere sull’urgenza Ben Sira completa il suo pensiero con formule in negativo: non farlo aspettare, non rimandarlo a mani vuote, il tuo denaro non arrugginisca sotto una pietra. La motivazione di questi precetti è la seguente: è un comando del Signore (cf. Dt 15,1) e bisogna assolverlo «in proporzione alla miseria» del povero (cf. v. 9). Dare il proprio denaro perché così vuole il precetto dell’Altissimo lo rende più utile dell’oro, anche per il benefattore che se ne disfa (cf. vv. 11). Ben Sira invita perfino a mettere da parte quel che uno decide di dare ai poveri (cf. v. 12): così s’impegna a non spenderlo per sé, sarà la parte del povero sui miei averi. A meno che - seguendo la versione latina - dobbiamo leggervi questa bella espressione: «Chiudi la tua ele-mosina nel cuore del povero»: te ne farai un vero amico e l’esperienza te lo dimostrerà, do-vessi un giorno aver bisogno.

È proprio a questo che Ben Sira vuol arrivare (cf. v. 13). Grazie al denaro di cui dispongo-no, i più fortunati hanno i mezzi per difendersi e anche per controbattere gli attacchi personali di cui possono cader vittima; con il denaro si armano di scudo e lancia. Ma per correre in loro soccorso, il povero che hanno colmato sarà un difensore ancora più efficace.

7.3. Prestar garanzia? Sì, ma... (Sir 29,14-20) Quando c’è un garante chi presta si sente più sicuro di recuperare la somma. Chi offre la sua garanzia è un uomo buono che rende un servizio rischiando grosso e libera

chi si fa prestare da una brutta situazione. Ma se capiterà che questi debba onorare la parola, pagando di tasca sua, il debitore non dovrà credersi dispensato dal restituirgli somma del pre-stito al momento stabilito (cf. v. 15)!

Ben Sira ricorda che ci sono anche persone senza scrupoli che cercano occasioni di far da garanti per tassare a proprio vantaggio colui si fa prestare il denaro e che già dunque si trova in difficoltà. È un comportamento che si avvicina al prestito a interesse. Questo disonesto ga-rante, troppo avido di guadagno, potrebbe finire davanti a un tribunale, dato che la legge (Dt 24,12-13) vietava simili maneggi. Ben Sira conclude perciò: «corri in aiuto» (Sir 29,20, gre-co), o, detto in maniera concreta: «fatti garante» (secondo la versione siriaca) «in misura dei tuoi mezzi, ma fa’ attenzione a non cadere tu stesso», dando cioè garanzie al di là della misu-ra cui puoi realmente spingerti, oppure praticando, per voglia di guadagno, delle deplorevoli pressioni su colui per il quale hai dato la tua garanzia.

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8. Comportamento da tenere in un banchetto (Sir 32,1-13) Ben Sira dedica ben due pagine dei suoi consigli al comportamento che una persona edu-

cata deve tenere a tavola. Tratta anzitutto del banchetto, un pranzo di gala, e invita alla buona creanza e alla moderazione (Sir 31,12-24). A questo genere di pranzi, la cultura greca faceva seguire un sympósion, cioè un momento in cui gli invitati gustavano del buon vino e insieme discutevano d’un dato argomento2. Ben Sira, che resta aperto a quest’uso greco, probabilmen-te a Gerusalemme ormai consueto in certi ambienti favorevoli all’ellenismo, darà però alcuni consigli sul modo di starci. Parla perciò del consumo del vino (Sir 31,25-31): anche qui la moderazione s’impone, sotto pena altrimenti di finir male. Passa poi al sympòsion vero e pro-prio.

II sympósion si svolgeva sotto la presidenza d’una personalità scelta dai convitati: costui doveva sorvergliarne il buon svolgimento e mantenervi un’atmosfera piacevole. Ecco i consi-gli di Ben Sira al presidente:

«T’hanno fatto presidente: non sentirti superiore; sii per essi come uno di loro. Occupati di essi; ti metterai comodo dopo; provvedi a quel che manca loro, poi allùngati per godere della loro lode: per il buon ordine otterrai la simpatia» (32,1-2).

La presidenza non deve dare alla testa. È un servizio, non una superiorità che debba susci-tare orgoglio o vanità. Soltanto dopo essersi assicurato che tutti siano perfettamente sistemati e serviti, prenderà anche lui posto su quei letti di gala dove i greci e i loro imitatori si stende-vano per il banchetto, ma anche per il sympòsion. Se tutto si svolgerà con generale soddisfa-zione, il presidente servizievole e modesto si attirerà la simpatia dei partecipanti, e quella sarà la sua ricompensa. Insomma, servire, prima di servirsi: questo, per Ben Sira, è il vero ruolo di chi assume la presidenza.

Quanto ai discorsi, spetta ai più anziani prendere per primi la parola. Ma lo facciano con ritegno. È meglio dunque versare vino nelle coppe che un torrente di parole che esasperi i convitati. Far sfoggio di sapienza in maniera inopportuna è di cattivo gusto (cf. vv. 3-6).

Per i più giovani, poi, leggiamo:

«Parla, o giovane, se c’è bisogno, se, insistendo, te lo chiedono due o tre volte. Sintetizza le tue parole e riduci la lunghezza; sii come colui che sa ma anche tace. Fra i notabili, non t’esaltare, e fra gli anziani non perorare troppo. Prima del tuono splende il lampo: innanzi al modesto splende la stima» (32,7-10).

Ben Sira conclude con un ultimo tocco di buona educazione (cf. vv. 7-10): una volta ter-minato il banchetto è buona cosa non tirarla per le lunghe ma rientrare subito a casa (cf. vv. 11-12). Ed ecco la parola del finale:

«E per tutto questo benedici il tuo Creatore che ti colma dei suoi beni» (v. 13)

Il nostro maestro di sapienza si rivela in queste righe. Vive con il suo tempo e non rifiuta per principio certe forme culturali di convivialità, sebbene provengano dal mondo pagano. Ma ha ugualmente ritenuto una buona cosa ricordare a ognuno, anche ai suoi pari, certi prin- 2 Il Convivio di Platone ne è l’esempio letterario classico. Ai discorsi si alternavano musiche.

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cìpi di cortesia, e la benedizione finale denota un sapiente che, pur fra i piaceri della tavola, non dimentica Chi li dona.

9. L’amicizia (Sir 6,5-17; 7,18; 9,10; 12,8-18; 22,19-26) 9.1. Importanza e bellezza dell’amicizia L’amicizia è celebrata dalla Bibbia come la condizione affettiva che dà sapore alle giornate

dell’uomo, senso alla sua prosperità e rifugio nei tempi di povertà e sofferenza, impedendo così che quei beni che impreziosiscono l’esistenza diventino inutili e scialbi. Nella povertà e nelle disgrazie gli uomini pensano che l’amicizia sia l’unico balsamo che lenisce le ferite, l’unica protezione contro i colpi della vita

«Un amico fedele è una protezione potente; chi lo trova, trova un tesoro. Per un amico fedele non c’è prezzo, non c’è peso per il suo valore. Un amico fedele è un balsamo di vita»: Sir 6,14-16a).

L’amicizia introduce in una relazione di comunione, di confidenza, di scambio che non sopporta l’inganno. Per questo la Bibbia raccomanda vivamente che l’amicizia non sia profusa a chiunque e perciò sperperata in mille direzioni:

«Siano in molti coloro che vivono in pace con te, ma i tuoi consiglieri uno su mille. Se intendi farti un amico, mettilo alla prova, non fidarti subito di lui...» (Sir 6,6ss.).

La considerazione attenta di come vanno le cose, che ispira il trattatello di Siracide sull’amicizia (Sir 6,5-17), sfocia nell’esortazione esplicita a non fidarsi subito di tutti, ma a capire se una persona merita veramente fiducia. L’invito è perciò anche a non confondere alcuni momenti euforici, caratterizzati da facilità nella comunicazione, con l’inestimabile tesoro dell’amicizia, e a non caricare di eccessive valenze situazioni che poi non reggono alla verifica del tempo. Pertanto, sapienza è il darsi da fare per conquistare amici autentici e conservarseli a ogni costo (cf. Sir 7,18), ricordando che l’amicizia ha bisogno di pudore, di capacità di silenzio e d’attesa e insieme di accoglienza e apertura ospitale all’altro, al diverso.

L’amicizia esige l’impegno della volontà, la costanza, e che proprio tale esercizio della li-bertà fa di essa qualcosa che va oltre la forma spontanea del sentimento. Istruttivo in tal senso è quanto scrive Pr 17,17: «Un amico vuol bene sempre, è nato per essere un fratello nella sventura». Come la virtù, intesa quale forma stabile dell’agire libero, così l’amicizia ha biso-gno della verifica del tempo, della durata:

«Non abbandonare un vecchio amico, perché quello recente non è uguale a lui. Vino nuovo, amico nuovo; quando sarà invecchiato, lo berrai con piacere» (Sir 9,10).

E, se il timore del Signore è la radice di tutte le virtù, l’amicizia in questo suo profilo mo-rale sarà favorita e salvaguardata contro ogni degenerazione proprio dal timore del Signore:

«Un amico fedele è un balsamo di vita, lo troveranno quanti temono il Signore. Chi teme il Signore è costante nella sua amicizia, perché come uno è, così sarà il suo amico» (Sir 6,16-17).

La costanza nell’amicizia si manifesta nel superamento delle forme naturali del sentire, propense alla ricerca dell’interesse immediato:

«Non cambiare un amico per interesse, né un fratello fedele per l’oro di Ofir» (Sir 7,18).

Costanza nell’amicizia significa anche vegliare sulle decisioni impulsive, e sui facili risen-timenti e permalosità:

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«Interroga l’amico, perché spesso si tratta di calunnia; non credere a ogni parola» (Sir 19,15).

Proprio perché l’amicizia è chiamata a superare la prova del tempo, non può ridursi a un momento magico ed euforico, ma deve saper resistere anche alle insinuazioni e alle calunnie.

Positivamente bisogna essere disponibili al perdono dell’amico che ha sbagliato:

«Chi scaglia pietre contro uccelli li mette in fuga, chi offende un amico rompe l’amicizia. Se hai sguainato la spada contro un amico, non disperare, può esserci un ritorno. Se hai aperto la bocca contro un amico, non temere, può esserci riconciliazione…» (Sir 22,20-22).

L’amicizia va dunque coltivata; ecco allora il Siracide esortare a fare del bene all’amico, impegnandosi seriamente per aiutarlo e difenderlo (cf. Sir 14,13; 22,25).

L’impegno della volontà nella costanza richiesta fa dunque assurgere l’amicizia da un’eventuale naturale simpatia a un’espressione dell’amore, di quell’amore che, più che ri-volgersi ai lontani, si intrattiene invece con i vicini, con chi è davvero prossimo. Essa rappre-senta infatti la forma più alta d’amore non erotico che possa regnare tra persone fra loro vici-ne, amore che può raggiungere il proprio culmine nel dono di sé: «Avendo amato i suoi che erano nel mondo li amò sino alla fine» (Gv 13,1); «Nessuno ha un amore più grande di que-sto: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

D’altra parte l’amicizia conserverà sempre un solido legame con le forme spontanee del sentire, con la simpatia, senza però ridursi ad esse. L’amicizia nel suo tratto di spontaneità rivela una promessa, segnala l’eccedenza di un dono che ci precede e che imprime una dire-zione al cammino dell’uomo quale avventura buona, sensata, gioiosa. Per questo essa è para-gonata al vino (cfr. Sir 9,10) che è appunto simbolo della festa, della gratificazione («Che vita è quella di chi non ha vino? Questo fu creato per la gioia degli uomini»: Sir 31,27).

9.2. Le contraffazioni dell’amicizia Già il libro dei Proverbi indica un aspetto essenziale dell’amicizia, che è l’«amore per la

verità». Se non c’è questo amore per la verità si rischia un rapporto soffocante, che impedisce più che far crescere poiché toglie libertà. Allora anche l’amicizia intristisce. L’amore per la verità chiede disponibilità degli amici alla correzione reciproca: «Leali sono le ferite di un amico, fallaci i baci di un nemico» (Pr 27,6).

A una mancanza di veracità si può ricondurre – come leggiamo nel Siracide - anche la ten-denza a propalare i segreti dell’amico, la carenza di discrezione e rispetto per le confidenze ricevute, che rappresentano invece il tesoro dell’amicizia. Per questo i libri sapienziali conti-nuamente mettono sull’avviso i lettori di fronte al grave rischio di smarrire il bene dell’amicizia proprio a causa di mancanza di riservatezza:

«Se hai aperto la bocca contro un amico, non temere, può esserci riconciliazione, tranne il caso di insulto e di arroganza, di segreti svelati e di un colpo a tradimento» (Sir 22,22).

Anche la disponibilità a riferire illazioni e dicerie ingenera diffidenza e mette a rischio l’amicizia:

«Non riferire mai una diceria e non ne avrai alcun danno; non parlarne né all’amico né al nemico, e se puoi farlo senza colpa, non svelare nulla. Altrimenti chi ti ascolta diffiderà di te... Hai udito una parola? Muoia con te!» (Sir 19,7-10).

In definitiva è sconveniente fare dell’amicizia un ricettacolo di tutto; è inopportuno che tutto ciò che c’è e che capita venga detto e raccontato all’amico. Non si tratta di mancanza di fiducia nei suoi confronti, ma è rispetto per lui e per se stessi!

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9.3. Il nemico mortale dell’amicizia Ciò che insidia più profondamente l’amicizia è esattamente l’invidia, frutto del "diavolo",

di colui che divide, che non può sopportare la vista del segreto dolce, impenetrabile dell’amicizia tra l’uomo e Dio (cf. Gen 3). È necessario allora guardare in modo amichevole, alternativo rispetto all’occhio “invidioso”, per vedere veramente il fratello e l’amico. Caratte-ristica dell’invidia, peccato inconfessato che cova nel segreto cuore, è impedire all’uomo di tenere alto il volto; come avviene con Caino si manifesta un abbassare lo sguardo, un tenere chino il volto perché non si sostiene la vista dell’altro e della sua virtù (Gen 4,6). Allora il mondo si restringe, si fa piccolo e angusto come l’invidia del cuore.

Un esempio biblico della forza devastatrice dell’invidia e della sua intrinseca pusillanimità è quello di Saul con Davide. Saul, da una profonda affezione verso Davide (cf. 1Sam 16,21), passa a un’invidia omicida (cf. 1Sam 18,9-16; 19,8-10) che lo isola sempre più non soltanto nei confronti di Davide, ma del mondo intero, e lo fa ripiegare su se stesso in una solitudine disperata che cesserà solo con la sua tragica morte.

Gli empi (che per la Bibbia coincidono con gli stolti) in quanto invidiosi sono portati a cancellare la presenza dell’altro e perciò non conoscono una vera amicizia, ma esclusivamen-te la complicità:

«Lo stolto dice: “Non ho un amico, non c’è gratitudine per i miei benefici”» (Sir 20,16).

Paradossalmente unico antidoto all’invidia è proprio la costanza in un rapporto di alleanza, di amicizia con il fratello, con il prossimo. Vincere l’invidia significa far tacere la critica ma-ligna, sopprimere l’ironia che diventa sarcasmo nei confronti delle virtù dell’altro.

10. La gloria del Signore nel mondo e nella storia (Sir 42,15-50,24) Concluse le sue istruzioni, Ben Sira propone di lodare il Signore per la magnificenza delle

sue opere nell’universo (Sír 42,15 - 43,33); e poi, richiamando le grandi figure bibliche, dalle origini alla sua epoca, si dà a quello che già l’antica tradizione chiamava «l’elogio dei Padri» (Sir 44,11 - 50,24). Sono due parti complementari: l’autore intende portare in luce l’attività del Signore nel mondo che crea e nella storia umana che dirige.

Il sapiente ha potuto ispirarsi alla lunga tradizione biblica che attribuisce al Signore il tota-le controllo sugli elementi cosmici, ma anche sullo svolgimento della storia degli uomini. Il pensiero va in particolare alla sequenza di Sal 104 e Sal 105, il primo dei quali benedice il Signore per la sua attività nel mondo e il secondo per le meraviglie compiute alle origini d’Israele; o anche a Sal 136, che riunisce le due cose: creazione (vv. 4-9) e storia (vv. 10-24).

10.1. La gloria del Signore nel mondo (Sir 42,15-43,33) Il progetto del maestro è per forza limitato: nemmeno gli angeli che stanno davanti a Dio

sono capaci di raccontare tutte le sue meraviglie (cf. Sir 42,17). Solamente il Signore ha una conoscenza perfetta di tutto quel che esiste ed esisterà (cf. 42,18-19). La sua intelligenza non ha limiti; è il solo, da sempre, ad aver mostrato la potenza della sua sapienza: è assoluta (cf. 42,20-21).

L’occhio dell’uomo non vede che una minuzia delle opere cosmiche del Signore, una scin-tilla appena. Nessuno si sazierà mai di contemplarne lo splendore (cf. 42,22-25).

In 43,1-26 si ha la descrizione del mondo. Ben Sira divide gli elementi cosmici in due gruppi: da una parte quelli che appartengono al cielo (Sir 43,1-12) e, dall’altra, quelli che so-no vicino all’uomo, sulla terra o sul mare (Sir 43,13-36).

Il firmamento è uno splendore (Sir 43,1). A riguardo del sole, insiste soltanto sul calore

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che dà e sullo splendore che abbaglia l’occhio: è il Creatore a farlo così splendere (Sir 43,2-5). La luna, con le sue successive fasi, determina i tempi; è in funzione d’essa che si fissano le feste (cf. Is 1,13-14). Le stelle sono fedeli al posto che il Signore loro ha assegnato (Sir 43,9-10; cf. Sir 16,27-28); e l’arcobaleno (cf. Gen 9,12-17), che maestà! E tu che lo contem-pli, benedici il suo Creatore che con tanta potenza lo dispiega (cf. Sir 43,11-12)!

La seconda parte dell’affresco dipinge il mondo di quaggiù. Sono soprattutto gli eventi at-mosferici sulla terra durante l’inverno a trattenere l’attenzione dell’autore (Sir 43,13-20). A Gerusalemme - a ottocento metri d’altezza - l’inverno è più rigido di quanto si creda; a volte si può anche ammirare la neve, che lentamente scende dal cielo come un volo d’uccelli o si abbatte cruda come una nube di cavallette, abbagliante nella sua distesa; si può anche ammi-rare la brina, che fa pensare al sale, e il ghiaccio, che ricopre come zaffiro le pozze d’acqua. In compenso, d’estate c’è soltanto qualche rara nube e la rugiada del mattino dà sollievo al calore ardente (cf. Sir 43,21-22).

Quanto al mare - forse chiamato Raab, come il mostro marino della mitologia biblica (cf. Gb 26,12) -, è la sapienza del Signore a dominarlo (cf. Mc 4,35-41: Gesù che calma la tempe-sta sul lago di Galilea). Il nostro autore pensa al Mediterraneo, con le sue isole, Cipro, Rodi, Creta ecc. Le narrazioni dei naviganti destano stupore (cf. At 27,9-44, la narrazione della tempesta che Paolo dovette subire), non soltanto per la sua immensità, ma anche per la vita che contiene. Se gli umani, commercianti o viaggiatori, riescono ad attraversarlo, è perché il Signore, con la sua parola efficace come un messaggero affidabile, ne ha il controllo (cf. Sir 43,23-26).

In tutta la conclusione (cf. 43,27-33) il maestro di continuo ci invita a lodare il Signore senza stancarci, senza affievolire la voce. La nostra lode, in effetti, non potrà mai pareggiare il nostro Dio: egli è superiore alle sue già splendide opere (Sir 43,28-30). Chi, peraltro, lo lo-derà come merita (cf. Sir 43,31)?

10.2. L’elogio dei padri (Sir 44,1-50,24) Ora Ben Sira fa il ritratto dei più celebri avi d’Israele, di coloro che hanno saputo accoglie-

re la Sapienza. La «Legge di vita» che JHWH ha dato a Israele con la su alleanza (cf. Sir 18,9-12), è diventata storia di un popolo lungo i secoli. Da Enoch (che è per Ben Sira un saggio ideale: cf. 44,16; 49,14) e da Noè (il perfetto giusto: cf. 44,17-18) fino al sommo sacerdote Simone II, figlio di Onia II (220-195 a.C.), i padri e gli uomini illustri di questo popolo sono ricordati come modelli di vita saggia per tutti.