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«CANTI ORFICI» DI DINO CAMPANA di Alberto Asor Rosa Letteratura italiana Einaudi 1

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«CANTI ORFICI»DI DINO CAMPANA

di Alberto Asor Rosa

Letteratura italiana Einaudi 1

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In:Letteratura Italiana Einaudi. Le OpereVol. IV.I, a cura di Alberto Asor Rosa,Einaudi, Torino 1995

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Sommario

I. GENESI E STORIA. 5

1. «Ma questo Campana [...] è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò “Te deum”». 5

2. «Io sono un povero diavolo che scrive come sente». 13

3. «Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desidererei farlo alla pari. Sono molto modesto e non vi domando, amici, altro segno che il gesto. Il resto non vi riguarda». 19

4. «Ricevo io sottoscritto dal Sigr. Bandini Luigi fu Paolo la somma di lire centodieci (110) come caparra per la stampa di 1000 copie del libro ‘Canti orfici’ del Sigr. Dino Campana [...]». 21

5. Sfortunato, in vita e in morte. 22

6. Scoperte e riscoperte. 23

6.1. «I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno | potrà sembrare tutta robetta da fiera». 24

7. Edizioni e commenti. Stato del testo. 27

II. STRUTTURA. 28

1. Il «libro». 28

2. Il titolo. 29

3. Sottotitolo e dedica. 30

4. I testi. 32

5. Il «colophon». 36

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6. La «partenza» e il «ritorno». 37

III. TEMATICHE. 38

1. La notte e il canto. 38

1.1. Mitico/mistico. 41

2. Il poeta e la poesia. 44

2.1. L’Eros. 47

3. I luoghi e il viaggio. 49

3.1. La poesia e il Cosmo. 51

IV. MODELLI E FONTI. 51

1. La tradizione poetica italiana recente. 52

2. «L’idea simbolista». 54

3. Gli anglo-sassoni. 58

4. Dantismi e stilnovismi. 59

5. Iconografia mentale. 60

6. Un poeta all’avanguardia. 61

V. UN PONTE SULL’INFINITO. 63

1. «Visionario-visivo». 63

2. «Armonia/melodia». 64

2.1. Ritmi, movimenti, ripetizioni. 662.2. Il «panorama» scheletrico del mondo». 672.3. Colori e musica. 68

3. I linguaggi del “moderno”. 72

3.1. Simultaneità psichiche, rivoluzioni temporali. 733.2. Sogno e inconscio. 743.3. Le nuove tecnologie. 75

4. «Una goccia d’acqua, una sola goccia». 77

VI. NOTA BIBLIOGRAFICA. 80

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I. GENESI E STORIA.

1. «Ma questo Campana […] è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò“Te deum”».

Quel nulla, cui Carlo Michelstaedter era pervenuto alla conclusione di un tra-vagliato e doloroso percorso interiore, Dino Campana lo portava con sé, fin dal-l’inizio della sua avventura poetica ed umana, qual frutto di un turbamento psi-chico, che i casi della vita e la sua stessa sfortunata carriera letteraria non avreb-bero fatto che accentuare. E quando scrivo: nulla, intendo, da una parte, unapiù o meno conscia tendenza autodistruttiva, dall’altra, una spiccatissima, qua-si abnorme sensibilità per le esperienze profonde ed essenziali, per quella ricer-ca del quid ultimo, che, come tutti sanno, in quanto coincide appunto con l’“ul-timo”, mette capo subito dopo ad una sorta di rischioso dialogo con… appun-to, il niente, il vuoto primigenio o, se si preferisce il vuoto finale.

Dire questo, tuttavia, e riconoscere che esiste in Campana un certo nessotra la sua personalità umana e morale e lo “stato” del suo cervello, – ovvietà, delresto, che vale un po’ per tutti gli scrittori di questo mondo, oltre che, in ma-niera forse ancor più vistosa per personaggi del calibro di Hölderlin, Lautréa-mont e Esenin, – non significa affatto riconoscere legittimità alla tesi sciaguratae purtroppo ampiamente diffusa che individua un nesso necessario e necessitan-te, nell’opera di Dino Campana, tra “poesia” e “follia”. Ha fatto più male allacomprensione dell’opera di Dino Campana la vasta e fortunata affermazionedel mito di lui come “poeta pazzo” e “maledetto” di quanto Campana non siariuscito a farsene con le sue stranezze. Cercherò di dimostrare al contrario chec’è tanto buonsenso e “logica letteraria” nella sua opera almeno quanto ce n’ènella ricerca dei più paludati ed intellettuali poeti borghesi e, quel che più im-porta, che l’autore ne era perfettamente cosciente.

Del resto, la stessa citazione in epigrafe, che è di uno dei primi e megliodisposti lettori dei Canti Orfici, e cioè Giovanni Boine, voleva intendere qual-cosa di un po’ diverso da ciò che sembra. Boine, infatti, aveva rilevato nelle ri-ghe precedenti della sua recensione ai Canti Orfici (poiché di questo si tratta-va) che

c’è in giro per l’arte contemporanea (compresa l’italiana, parlo dell’italiana) un fer-mento d’esaltazione come un’ansia di novità e d’anarchia, un tumore di angosciache cerca sfocio. […] Ma c’è anche ed assai più la preoccupazione di metterlo inmostra e di affermare la propria modernità spregiudicata colla rettorica dell’espres-sione [...].

[E] c’è infine gente che finge la libertà essendone dall’intimo schiava sprovvista; e poi-

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ché s’è persuasa dell’ovvia verità sopra enunciata che la poesia è dei pazzi più pazzi, sifinge dunque per pazza e lo fa con scioltezza1.

Ecco dunque che definire Campana «un pazzo sul serio», significava ricono-scergli un’autenticità e una verità rare in quei tempi (e non solo in quelli), di cuibisognava esser grati al Signore. Resta il sospetto che anche in Boine, come in tan-ti altri dopo di lui, l’individuazione del rapporto tra caratteri della poesia e statopsichico morboso dell’autore comportasse una sorta di limitazione nel giudizio,indotta precisamente da quello. Infatti, la formulazione completa della sua frasesuonava in questo modo: «Ma questo Campana, per lo stesso impaccio del suo par-lare, questo che di elementare ed ingenuo che la coltura ha lasciato in lui e nel suostile (non l’ha cancellato), è, se dio vuole, un pazzo sul serio. Epperciò Te deum»2.Siamo, – nonostante l’innegabile acutezza dello ‘‘scopritore”, – agli antipodi diuna giusta impostazione nella lettura di un’opera indubbiamente singolarissimacome i Canti Orfici.

Io penso infatti che le eventuali “stranezze” del testo non siano commensura-bili a quelle, puramente comportamentali, del suo autore empirico, biografico.Esse rispondono invece ad una logica letteraria, che va giustificata in quanto tale.Ricorrerò perciò ad una lettura fondamentalmente interna del testo per chiarire lanatura di certe scelte tematiche e stilistiche.

Non nego, naturalmente, che per raggiungere determinati effetti fossero im-portanti, forse decisive, certe condizioni della “visione”. Per esempio, una certaforsennata esasperazione della dimensione metaforica e coloristica, un “occhio”particolarmente allucinato e penetrante, potrebbero essere collegati ad una con-dizione psichica, per così dire, “fuori del comune”. Ma anche questo, come cer-cherò di mostrare, fa parte di una vera e propria regolamentazione dei rapportipsichici, che stanno alla base della creazione della poesia europea moderna già inarea simbolista e, a miglior ragione, in quella post-simbolista: quando l’anorma-lità psichica non esiste in partenza, si fa ogni sforzo per “indurla” volontariamen-te e programmaticamente. Su questa base, – che è scientifica e non impressioni-stica, né moralistica, – si potrebbe fondare un’eventuale storia dei rapporti trapoesia e, per così dire, “psichismo deviato” nell’età moderna e contemporanea.La follia, infatti, non è che una delle tante forme possibili della “diversità”: se sop-primiamo la «diversità», sopprimiamo tre quarti della poesia europea tra metàdell’Ottocento e giorni nostri (esiste anche, com’è noto, una vera, autentica poe-sia della “normalità”, particolarmente fiorente in Italia).

1 G. BOINE, Plausi e botte, in ID., Il peccato. Plausi e botte. Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano1983, p. 203.

2 Ibid., pp. 203-4, c.n. (c.n. sta per «corsivo nostro»).

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L’unico modo d’affrontare la biografia di Dino Campana è dunque quello dinon considerarla il prodotto di una necessità assoluta, di un “destino fatale”, pro-dotto dal germe di follia, che probabilmente, come capita, s’annidava nel suo cer-vello (come del resto in quello di molti di noi: cosa saremmo e come faremmosenza?) Gli elementi di “libertà”, – le scelte esistenziali fondamentali, la cocciuta,commovente vocazione letteraria, la passione per i viaggi e dunque per la cono-scenza, – sono decisamente prevalenti in lui su quelli di un fato meschinamentecostrittivo, o quanto meno s’intrecciano profondamente con questi. Può darsi cheil ragazzo (poiché anche in questo caso di un ragazzo si tratta, di una giovane vit-tima predestinata e infelice) fosse poco “ordinato”, ma sapeva esattamente quelche voleva. Certo, era estremamente vulnerabile. Ma questa “vulnerabilità”, – nelsenso proprio del termine: d’essere purtroppo disponibile al vulnus, – è già un da-to intrinseco alla sua ispirazione poetica, ne costituisce uno dei tratti più caratte-rizzanti: possiamo forse dire che la sua poliformità e polifonicità traggono origineda una innata predisposizione a ricevere ed assorbire “colpi”, – in ogni senso, – edi conseguenza a restituirne (almeno qualche volta).

Un’ultima osservazione prima di fornire le scarne notizie biografiche, chepenso possano servire di più alla comprensione del suo percorso. Uno scrittoree ricercatore argentino, Gabriel Cacho Millet, ha curato e allestito negli ultimianni due volumi, che costituiscono degli utilissimi strumenti di lavoro per glistudiosi di Campana, intitolati rispettivamente Souvenir d’un pendu3 e DinoCampana fuorilegge4. Nel primo sono raccolte pressoché tutte le lettere di Cam-pana, numerose lettere di corrispondenti a lui dirette e testimonianze edite einedite riguardanti la carriera letteraria del poeta; si tratta, in sostanza, del Cam-pana che ha avuto a che fare con il mondo della letteratura e della poesia e chene ha ragionato, anche in stretto rapporto, ovviamente, con la sua vicenda esi-stenziale. Nel secondo, invece, è raccolta la documentazione relativa alle sue av-venture, – e disavventure, – biografiche, la chiamata alle armi, i ricoveri mani-comiali, i referti psichiatrici, le varie informative della polizia italiana e stranie-ra su di lui, i “fogli di via”, ecc.

3 D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931, con documenti inediti e rari, a cura di G. Cacho Mil-let, Napoli 1985 (il titolo, ricavato da una poesia di François Villon, è preso da una dedica dello stesso Campana alpoeta triestino Dario De Tuoni: ibid., p. 9).

4 G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge, Palermo 1985. Nella introduzione a questo volume, il CachoMillet, pur così benemerito degli studi campaniani, forse volendo dire altro, ripete a carico del suo autore uno dei piùvieti luoghi comuni che lo abbiano mai riguardato: «Nelle sue poesie e nelle sue novelle poetiche non esiste nulla diprogrammato. Egli è poeta per caso, e ha scritto versi e novelle come avrebbe potuto esser vice-commissario di Mar-radi, o pompiere, o attore di teatro. Così i Canti Orfici non sono altro che brandelli di esistenza arsi dal fuoco dellapoesia che l’orfico e selvaggio marradese non sempre riuscì a sublimare in opera d’arte, come poeta “di professione”»(ibid., p. 12). E pensare che l’unica cosa che Campana aveva voluto essere era “poeta”.

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Ebbene, di 182 “pezzi” raccolti in Souvenir d’un pendu, soltanto undiciprecedono la stampa dei Canti Orfici (1914); in Dino Campana fuorilegge, inmaniera pressoché perfettamente rovesciata, su centodue documenti presenti,ben settantadue precedono l’uscita dei Canti Orfici. Questo vuol dire, in so-stanza, che prima della comparsa del suo libro Campana non esiste, letteral-mente non esiste né come poeta né come letterato, ma esclusivamente come“povero diavolo”, la cui biografia è ricavabile soltanto da una nuda elencazio-ne di scritture burocratiche (tutte inerenti, per giunta, per usare una termino-logia aggiornata, alle cosiddette “istituzioni totali”: scuola, esercito, manico-mio, pubblica sicurezza).

Tenendo conto di questa osservazione, si potrebbe dire che la biografia diCampana si divide in tre segmenti, assai diseguali fra loro: il primo, fino all’u-scita dei Canti Orfici, pieno di “dati” biografici ma scarso di “eventi” letterari:il secondo, dall’uscita dei Canti Orfici al definitivo ricovero manicomiale (1914-1918; è questo il periodo in cui Dino Campana si agita ai margini del mondo let-terario, ha una corrispondenza abbastanza fitta con poeti, letterati ed artisti, siarrabatta per emergere ed ha la sua grande, travolgente storia d’amore con Si-billa Aleramo); il terzo, tra il definitivo ricovero nel manicomio di Castel Pulci aBadia a Settimo, vicino Firenze, e la morte avvenuta in quello stesso stabilimen-to psichiatrico per una setticemia (28 gennaio 1918-1° marzo 1932; il periododella grande reclusione e del grande silenzio, da cui ci sono pervenuti soltantoalcuni messaggi intermittenti e indiretti)5. Il problema, dunque, di chi si pro-ponga di analizzare e interpretare i Canti Orfici è che, a rigore, se si dovesse sta-re alla cronologia degli avvenimenti e della documentazione e si restasse quindi,almeno fondamentalmente, all’analisi del primo periodo, non si avrebbero a di-sposizione che certificazioni manicomiali e avvisi di polizia, per arrivare a capi-re come il poeta pervenga all’ideazione e alla stesura dell’opera. Motivo di piùper fare riferimento alla storia interna dei testi, che invece è possibile. In ognicaso userò, sia pure con discrezione, la documentazione epistolare 1914-18 equalche suggestione ricavabile dall’ultimo e definitivo periodo manicomiale,per capire a quale sistema di idee e a quale corredo culturale il poeta si sia rifat-to per scrivere la sua unica opera: operazione legittimata anche dal fatto chebuona parte delle sue dichiarazioni successive sono volte a spiegare e giustifica-

5 Un medico psichiatra, di nome Carlo Pariani, ebbe a visitarlo a lungo, attratto dal fascino promanante dai suoiCanti Orfici recentemente ristampati da Bino Binazzi (1928), ponendogli domande sul suo passato e sulla sua opera, ediede conto di queste conversazioni in Vite non romanzate di Dino Campana scrittore e di Evaristo Boncinelli scultore,Firenze 1938. L’opera, tenendo conto dei limiti culturali e ideologici dell’autore, è ancora utile. Ne sono state fatte nu-merose ristampe, di cui la più recente, e dunque la più facilmente consultabile, è: C. PARIANI, Vita non romanzata diDino Campana. Lettere scelte (1910-1931), a cura di T. Gianotti, Firenze 1994.

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re natura e genesi dei Canti Orfici e che comunque il segmento temporale den-tro cui l’intera vicenda dell’opera si svolse è assai breve: cinque, sei anni in tut-to – e poi chiusura.

Dino Campana era nato a Marradi, paese della provincia di Firenze, ma col-locato su quel versante dell’Appennino che digrada verso le Romagne, il 20 ago-sto 1885 (lo stesso anno di Palazzeschi e Rebora, – e di Esenin)6. La doppia natu-ra, tosco-romagnola, è del tutto evidente nella sua opera e assai importante percapire la formazione della sua sensibilità.

La sua famiglia, – il padre Giovanni, maestro, la madre Fanny Luti, donnadi casa e benestante, – apparteneva a quella piccola o piccolissima borghesia diprovincia, che proprio in quel momento in Italia partecipava anche senza sa-perlo di un più vasto moto ascensionale. Il fratello di Dino, Manlio, ad esem-pio, divenne un rispettabile e autorevole avvocato; lo stesso Dino fece studi re-golari nelle scuole di Faenza, conseguendo infine la licenza liceale presso il Col-legio Bresso di Carmagnola, dove aveva frequentato con scarso profitto l’ulti-mo anno (1903).

Va sfatata, dunque, la leggenda sempre su di lui gravitante di un’origineumile e di un’educazione del tutto autodidattica e irregolare. Va invece attiratal’attenzione su certe sue caratteristiche comportamentali, che possono aiutare acapire taluni aspetti della sua poesia. È vero che, abbastanza precocemente (in-torno ai quindici anni), in famiglia si cominciano a lamentare le sue “stranezze”,consistenti soprattutto nell’atteggiamento aggressivo verso la madre e nella ten-denza a sottrarsi il più possibile al controllo famigliare. C’è da chiedersi però sead una psichiatria post-basagliana gli indizi denunciati sarebbero sembrati suf-ficienti a pronunziare una diagnosi tanto grave da aprirgli assai presto le portedel manicomio.

Valga per tutte la lettura della “modula informativa”, a firma del dottor V.Mercatali, con la quale il Comune di Marradi, in data 5 settembre 1906, rivolgevadomanda al Tribunale per l’ammissione coatta di Dino nel Manicomio di Bolognain Imola. Tra le “notizie storiche”, che accompagnavano tale richiesta, troviamo leseguenti precisazioni, davvero prodigiose:

Se l’individuo sia stato altre volte affetto da pazzia o qualunque altra infermità: Mai af-fetto da pazzia o d’altra malattia. – Cause fisiche e morali: Dedito al caffè del quale è avi-dissimo e ne fa un abuso eccezionalissimo. – Epoca e modo di sviluppo della pazzia, seintermittente o continua: Cominciata circa ai quindici anni alternata da periodi di eccita-

6 Esistono varie biografie del poeta. La più aggiornata e documentata è: G. TURCHETTA, Dino Campana. Bio-grafia di un poeta, Milano 1990.

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bilità e misantropia quasi continua in forma non grave tanto da permettergli il prosegui-mento degli studi. – Manifestazioni sintomatiche attuali tanto fisiche che psichiche del-la pazzia: Esaltazione psichica – Impulsività e vita errabonda. – Cura pratica: Nessuna cu-ra praticata. – Diagnosi della forma di pazzia e, se è possibile, della natura di essa: De-menza precoce? – Dichiarazione delle ragioni per le quali il medico sottoscritto ritienenecessaria la custodia e cura del mentecatto in un manicomio: Per toglierlo dai pericolidel suo stato impulsivamente irritabile e per la sua vita errabonda che lo potrebbe esporrea gravi pericoli e per le cure necessarie in Manicomio7.

Anche un lettore totalmente ignaro di faccende e regolamenti psichiatricinon avrebbe difficoltà a riconoscere, nella diagnosi del dottor Mercatali, – pro-nunziata, non dimentichiamolo, a carico di un individuo che in quel momentoaveva solo ventun’anni, – la presenza colpevolizzante di due fattori comporta-mentali, che nel nostro autore hanno indubbiamente una rilevanza notevole, ecioè una certa irregolarità di condotta (ma, Dio mio, possibile che la passione peril caffè anche nella Marradi dei primi del secolo fosse considerata l’anticameradella follia?) e una incoercibile tendenza al nomadismo. Con chiarezza non dissi-mile, del resto, il Pariani riassumeva le cause che avrebbero condotto Campanaper la prima volta in manicomio nel seguente elenco: «il mutamento del carattere,la perversione affettiva, i facili eccitamenti, gli impulsi errabondi, l’indipendenzadagli atti della ragione»8: se ne potrebbero trarre considerazioni di molto analo-ghe a quelle precedenti.

Ignoriamo se i due aspetti del carattere sopra segnalati siano forieri di schi-zofrenia. Constatiamo che, quando il Comune di Marradi inoltra per la secondavolta, nell’aprile 1909, una richiesta di ammissione per Campana nel Manico-mio (questa volta di Firenze: San Salvi), le motivazioni non sono molto cambia-te, con una maggiore accentuazione, forse, dell’elemento dell’aggressività e pe-ricolosità («Il malato è oltremodo trascurato in famiglia ed in società, tanto daattirare l’attenzione dei ragazzi che l’incontrano per le strade. Ha un odio spe-ciale colla sua mamma, che è dovuta andar via di casa. È pericoloso specialmen-te dopo eccessive libagioni. Ripetutamente ha minacciato varie persone sia inluoghi pubblici, sia nella pubblica via»)9 che, quando viene ricoverato nell’Asy-le des hommes aliénés a Tournay in Belgio, tra il febbraio e il giugno 191010 do-po aver trascorso sessanta giorni nella prigione di Saint-Gilles a Bruxelles, lopsichiatra che lo aveva avuto in cura, a felice testimonianza dell’uniformità di

7 G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., pp. 44-45.8 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 25.9 G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., p. 61.10 A questa esperienza fa riferimento il brano Il Russo, nei Canti Orfici, per i quali si veda: D. CAMPANA, Canti

Orfici, introduzione e commento di F. Ceragioli, nuova ed. Milano 1994 (19953), pp. 189-95.

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criteri che governavano allora la medicina in Europa, individua in lui sintomi di«Dégénerescence mentale. Caractère déséquilibré [...] tendance à la paresse[…] au café, […] à l’alcoolisme»11.

Ora, se si prescinde dalla “degenerazione mentale”, singolare in un uomo cheproprio in quel momento stava covando i Canti Orfici, il “carattere squilibrato”,la «tendenza alla pigrizia, al caffè e all’alcoolismo» (succedanei, evidentemente, didroghe più potenti, in quel momento sconosciute o poco usate), rientrano perfet-tamente nel quadro in precedenza tracciato (rilevo che, nella sintesi di Pariani,l’atteggiamento definito «indipendenza dagli atti della ragione» s’inquadra benis-simo nelle procedure d’esclusione più abituali a qualsiasi istituzione, in primoluogo, ovviamente, quella psichiatrica: ma anche sul tema della “ragione” dovròtornare più avanti).

Dunque, facciamo un passo indietro. Io, la vicenda umana di Campana me laimmagino così: carattere irrequieto, instabile, insofferente alle regole famigliari ecivili; la famiglia e Marradi gli appaiono presto un carcere da fuggire (ma, fug-gendone, come s’è detto, gli capitò d’imbattersi in altre forme di reclusione, comead esempio quella del collegio): del resto, dietro ogni grande scrittore della pro-vincia italiana c’è una Recanati, e la Recanati di Campana fu Marradi, tanto piùcrudele, sorda e persecutoria di quanto la condizione di Dino era inferiore, piùmisera e meno protetta di quella del contino Giacomo.

Gli studi universitari, – si era iscritto nel 1903-904 a Chimica a Bologna, e poinel ’13 a Genova, – sbagliati nella sostanza e nella destinazione, non gli aprirononessuna nuova strada (non li portò mai a compimento)12; la fuga nel mondo, –una fuga errabonda ed instabile anch’essa, piena d’inquietudini e di violenza, – siconclude ogni volta con il ritorno a Marradi, prigione ma anche culla irrinuncia-bile della sua infanzia e della sua adolescenza; l’«eterno errante», come straordi-nariamente ebbe a definirsi13 lo stesso Campana, non era destinato a trovar requiein nessun porto; e ad ogni ritorno la sua situazione sarebbe diventata peggiore, in-nestando una spirale senza fine di provocazioni, violenze e nuove provocazioni.Siccome ci fidiamo più di lui che degli psichiatri che lo ebbero in cura, riteniamoverosimile la descrizione che di questa situazione chiusa e senza sbocco egli diedein una lettera a Emilio Cecchi, presumibilmente del marzo 1916:

11 G. CACHO MILLET, Dino Campana fuorilegge cit., p. 74, c.n.12 Molto assennatamente il poeta dichiarerà al Pariani: «Non riuscivo affatto a studiare chimica. Non avevo me-

moria. Ci vuole precisione. Ci vuole una passione speciale: io non avevo né precisione, né passione. Così trascuravo illaboratorio di chimica. Fu uno zio che mi suggerì di studiare chimica. Io accettai senza pensarci, per inconsideratez-za» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 42).

13 D. CAMPANA, Pampa, in ID., Canti Orfici cit., p. 185. Da questo momento in poi le citazioni dai Canti ver-ranno date con il titolo del componimento seguito dal numero della pagina.

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Quelli del mio paese che mi avevano sempre perseguitato con una infamia e una ferociatutte lazzaronescamente italiane e clericali, risultando che io non ero altro che un avan-zo di galera perché varie volte ero stato rimpatriato pidocchioso e stracciato (sfuggivole loro infamie) mi fecero fare dalla polizia una persecuzione che mi impedì di conti-nuare. Dicevano che ero anarchico pericoloso, che volevo uccidere il re, i professoriecc. Provai a cambiare Università. Ma a Genova fu peggio […]14.

E più tardi, confessandosi a Pariani: «Non sapevo bene i costumi che c’eranofuori [a Carmagnola, in collegio: forse le sue prima uscita nel mondo]; quandotornai a Marradi mi ridevano, mi arrabbiai e divenni nevrastenico. Poi cominciaia viaggiare. Non feci nulla di buono»15.

«Poi cominciai a viaggiare»16: secondo un elenco ancora incerto, nonostan-te tutte le ricerche, nella indicazione dei luoghi e delle date, Campana fu, oltreche in varie città italiane (Firenze, Livorno, Pisa, Milano, Genova), in Svizzera,in Francia (per qualche tempo di sicuro anche a Parigi), in Belgio; nel 1908 (?)intraprende, con l’aiuto della famiglia, un grande viaggio oltre mare, in Argen-tina, dove, a piedi e nei treni merci, si sposta da Buenos Aires a Bahia Blanca,da Mendoza a Rosario a Santa Rosa de Toay, facendo, secondo le sue testimo-nianze a Pariani, il pianista nei caffè concerto e nei bordelli, il suonatore ditriangolo nella Marina argentina, il manovale sterratore nella costruzione dellestrade ferrate, il poliziotto, «ossia il pompiere», ecc.17. Secondo la sua ricostru-zione, sarebbe rientrato in Europa lavorando come mozzo sulla nave che lo tra-sportava, e sarebbe approdato ad Anversa, di li di nuovo a Parigi e da Parigi aMarradi18. Campana parla anche di un suo non meglio documentato viaggio aOdessa, come fuochista a bordo di una nave, dove poi si sarebbe accompagna-to con i «Bossiaki», sorta di zingari, che campavano vendendo calendari e stel-le filanti nelle fiere19.

Secondo uno schema che ha antecedenti, ma anche molti illustri continuato-ri, Campana antepose dunque all’esperienza letteraria e poetica un insolito disfre-namento delle sue energie vitali e conoscitive, da cui ricavò qualità non disprezza-

14 ID., Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 139.15 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 42. La definizione di «nevrastenico» è quella in cui

più volentieri Campana si sarebbe riconosciuto: cfr. La giornata di un nevrastenico (Bologna), pp. 169-75.16 Campana dice anche, ed è anche questa una testimonianza di viva verisimiglianza psicologica: «Verso i vent’an-

ni non potevo più vivere, andavo sempre in giro per il mondo» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campanacit., p. 42). E ancora: «Sissignore, viaggiavo molto. Ero spinto da una specie di mania di vagabondaggio. Una specie diinstabilità mi spingeva a cambiare continuamente» (ibid., pp. 43-44).

17 Ibid., pp. 42-45.18 Ibid., p. 44.19 Ibid., p. 45.

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bili neanche per un’esperienza di tipo letterario e poetico: un’ampia conoscenzadel mondo, il discreto possesso di parecchie lingue straniere (francese, inglese,spagnolo, tedesco), attraverso le quali ebbe accesso diretto alle corrispondenti let-terature e poesie, una precisa nozione (come vedremo meglio più avanti) del co-me usare e mettere a frutto il corredo di esperienze raccolto a vantaggio di unamoderna poesia italiana.

Non abbiamo nessuna testimonianza, come dicevo, sull’intreccio che da uncerto momento in poi dovrebbe essersi realizzato tra vagabondaggio ed eserciziopoetico: salvo questa affermazione dello stesso Campana, che, come al solito, co-glie molto precisamente almeno un aspetto della questione: «Viaggiando avevodelle impressioni d’arte, le scrissi»20. L’abitudine di “taccuinare”, che, come ve-dremo, è alla base del suo peculiare metodo compositivo (cfr. pp. 350-351), èstrettamente connessa con la raccolta di queste «impressioni d’arte» e riconducead operazioni analoghe della pittura del tempo: impressionisti e macchiaioli nonsi sarebbero comportati diversamente, riempiendo le pagine dei loro “album” dischizzi, abbozzi e... “impressioni”, nei loro vagabondaggi naturalistici, per ripor-tarli sulla tela, compiutamente, più tardi. Ma, naturalmente, casi analoghi sonofrequenti anche nella poesia contemporanea (Rimbaud, ad esempio).

Sempre secondo lui, «la prima» di queste «impressioni» sarebbe da far risali-re a quando egli aveva «vent’anni»21. Saremmo, dunque, nel 1905: le date coinci-dono: «esaltazione psichica», «vita errabonda» (per dirla col dottor Mercatali) ecomparsa della vocazione poetica almeno temporalmente sono contigue (e non èdetto, ovviamente, che i primi segni della vocazione poetica non fossero annove-rati tra i sintomi di quell’«esaltazione psichica», di cui famigliari e medici eranocosì preoccupati).

2. «Io sono un povero diavolo che scrive come sente».

Lo spazio cronologico utile a definire le intenzioni e i caratteri del tentativo poe-tico compiuto da Dino Campana è dunque, come già accennavo, assai ristretto. Apartire dal 1910, infatti, cominciano le prime manifestazioni epistolari e letterariedel nostro autore, ma soltanto con il 1913 s’infittiscono; e i Canti Orfici, come ve-dremo, appaiono nell’estate del ’14. Qui vorrei dunque definire sommariamenteil clima, i rapporti, le vicende culturali, con cui Campana ebbe a che fare in que-sto periodo, rimandando a più avanti una più precisa descrizione delle sue ascen-denze letterarie e poetiche (sezione IV).

20 Ibid., p. 48.21 Ibid.

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Non priva d’interesse per collocare esattamente il suo “punto di vista” è unalettera da lui inviata – presumibilmente tra il 1909 e il 1910– alla rivista fiorentina«La difesa dell’arte», nella quale, dopo un’auto-presentazione, anch’essa non deltutto irrilevante («Io sono un uomo ancora inedito e non valgo in materia proba-bilmente per altra cosa che per l’amore vivace e costante che sento per tutte lemanifestazioni dell’arte»)22, così viene esposto il suo programma:

Io conosco cinque lingue e mi offro volentieri per far passare un po’ di giovine sanguenelle vene di questa vecchia Italia, e ciò per tutte le questioni che loro crederanno op-portuno sollevare. Un po’ di coltura di pensiero veramente e vivamente moderno laposseggo anch’io. E i miei lunghi viaggi e le diverse manifestazioni del genio umano cheho studiato nelle diverse letterature moderne mi hanno conferito qualche larghezza, se-renità e indipendenza di giudizio23.

Dunque, se non attribuisco troppa importanza a queste semplici righe, glielementi che emergono sono: “modernità” (e la cosa dovrebbe apparire più elo-quente e più importante di quanto non sembri a prima vista, se si pensi al valoreche una terminologia del genere poteva assumere nell’ambiente letterario ed arti-stico italiano d’inizio secolo); l’apertura, anche linguistica, verso le “letteraturemoderne” straniere; una sostanziale indipendenza nei confronti del “gruppettari-smo” intellettuale del tempo («larghezza, serenità e indipendenza di giudizio»); e,soprattutto, un programma di ringiovanimento della cultura italiana contempora-nea, che, molto espressivamente, il venticinquenne apprendista concepisce comeuna vera e propria trasfusione di sangue («far passare un po’ di giovine sanguenelle vene di questa vecchia Italia»), al tempo stesso offrendo il proprio braccioagli specialisti che vogliano eseguirla.

Per certi versi è il programma della «Voce». E questo spiega due cose: sia per-ché Dino Campana, ingenuo ed appartato cultore di poesia, cercasse di accostar-si a quel gruppo; sia perché dovette ritrarsene quasi subito, stante l’abissale diffe-renza di posizioni, che nella sostanza li contraddistingueva.

Al primo ordine di sentimenti appartiene la lettera che Campana scrisse aPrezzolini il 6 gennaio 1914, quando questi era ancora direttore della «Voce» equando egli aveva già consegnato a Papini e a Soffici, direttori di «Lacerba», ilmanoscritto delle sue poesie, senza ancora averne risposta (dicembre 1913):

Mi rivolgo a Lei, egregio signore. Io sono un povero diavolo che scrive come sente: Leiforse vorrà ascoltare. Io sono quel tipo che le fui presentato dal signor Soffici all’espo-sizione futurista come uno spostato, un tale che a tratti scrive delle cose buone.

22 D. CAMPANA, Lettera alla rivista «La difesa dell’arte» dell’[estate 1910], in ID., Souvenir d’un pendu cit.,p. 45.

23 Ibid., p. 46.

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Scrivo novelle poetiche e poesie; nessuno mi vuole stampare e io ho bisogno di esserestampato: per provarmi che esisto, per scrivere ancora ho bisogno di essere stampato.Aggiungo che io merito di essere stampato perché io sento che quel poco di poesia cheso fare ha una purità di accento che è oggi poco comune da noi. Non sono ambiziosoma penso che dopo essere stato sbattuto per il mondo, dopo essermi fatto lacerare dal-la vita, la mia parola che nonostante sale ha il diritto di essere ascoltata. Benché io la co-nosca appena sono certo che Lei ha un’anima delicata, che sente la giustezza del mioappello come sentirà la verità della mia poesia. Sono certo che Lei non appartiene allaschiera ironica dei bluffisti24.

Ma neanche Prezzolini, “anima delicata”, degnò d’attenzione quello «spo-stato», quel «tale che a tratti scrive delle cose buone» (parole nelle quali si sen-te l’eco vivente della voce, arrogantemente benevola, di Soffici). Il fatto è che lerotte di Campana e dei “vociani”, compresa, e a miglior ragione, l’ala dissiden-te dei “Lacerbisti”, erano divergenti, e questo anche indipendentemente dallaperdita del manoscritto, su cui tornerò più avanti. Già nel maggio 1913 (datapresunta), infatti, Campana si era scagliato violentemente in una lettera a Papi-ni contro la linea di «Lacerba», di cui stigmatizzava la propensione accademi-ca, e sia pure della più volgare e teppistica Accademia del Mantellaccio, da af-fiancare a quelle più paludate della Crusca e dei Lincei25, in nome, – questo mipare estremamente significativo, – di un’idea di “arte”, che il poeta mette al disopra di tutto:

Non ho letto il vostro discorso sul futurismo ma lo stato di filosofo implica una puritàdi coscienza tale che non può essere altro che artistica; ora se io ammettessi che voi fo-ste filosofo e che foste riuscito ad esserlo tanto doverosamente, tanto latinamente, e tan-to classicamente da riassorbire questa coscienza artistica, non vi dovreste voi vergogna-re di sputare in faccia al sentimento artistico facendo servire da mezzana per la propa-ganda delle vostre idee un’arte falsa e bastarda???? E se di arte non capite più niente ca-vatevi da quel focolaio di cancheri che è Firenze e venite qua a Genova e se siete un uo-mo d’azione la vita ve lo dirà e se siete un artista il mare ve lo dirà26.

Le evidenti “fonti” nietzschiane di questa posizione, – una filosofia che sirisolve totalmente in arte, un’arte che si coniuga e si misura da vicino con la na-tura e con la vita, – si mescolano alle ambizioni più tipicamente “italiche” diCampana, tutt’altro che sottovalutabili, di creare una poesia capace di conti-nuare le glorie della “classicità” e della “latinità”, dove chi lo voglia potrebbefacilmente scorgere un’impronta carducciana ma dove, al tempo stesso, non sa-rebbe neanche qui impossibile scoprire un’eco del Nietzsche che voleva ritrova-

24 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914, ibid., pp. 55-56.25 ID., Lettera a Giovanni Papini del [maggio 1913], ibid., p. 53.26 Ibid., c.n.

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re in una spregiudicata modernità il ceppo della più raffinata e controllata gre-cità (come vedremo meglio più avanti).

La “monotonia” della rivista è inoltre, secondo Campana, definitivamentesancita dalla ricorrenza dei sempre soliti autori: «i vostri Govoni», «l’immanca-bile Palazzeschi», «il fatale Soffici»27. Commenta Campana: queste sono «“Lecose che fanno la Primavera” [titolo d’un pezzo di Govoni, apparso nel numerodi «Lacerba» del 1° maggio 1913]. Ora Bergson direbbe che colle cose che fan-no la Primavera non si fabbrica la Primavera»28. Quindi un consiglio: «Ma scri-vete un po’ a Marinetti che è un ingegno superiore, scrivetegli che vi mandiqualche cosa di buono...»29.

Il riconoscimento personale a Marinetti non implicava però nessuna sostan-ziale adesione a programmi e caratteristiche del futurismo (anche se, come ve-dremo, tracce consistenti delle tematiche di quel movimento si possono senzadubbio individuare nella sua poesia). Se dall’intollerabile moralismo vociano,radicato, come suole, negli atteggiamenti più eversivi e spregiudicati, lo allonta-navano profondamente il suo altrettanto dichiarato e radicato antimoralismo ela sua visione dei rapporti tra filosofia e arte, tra pensiero e poesia, dal futuri-smo lo distinguevano il suo senso dell’arte e la sua ricerca dell’armonia poetica,intesa come proiezione e forma dell’armonia cosmica. Ripetutamente li defini-sce «quei cretini dei futuristi», accomunandoli anche a «quei superidioti deifiorentino-napoletani» (cioè, ai vociani di matrice idealistica e vociana)30, che èun’intuizione critica niente male (almeno per i futuristi fiorentini). In un ap-punto del Taccuinetto faentino troviamo questa graffiante osservazione: «Futu-risti se aveste il senso del grottesco. Se sentiste l’enorme parodia dei fischi dellamacchina del riso umano»31. E poi, anche più tardi, parlandone con il Pariani,con una lucidità che fa impressione, soprattutto perché mette in relazione at-teggiamenti e scelte, che a distanza di anni gli si sarebbero potuti cancellare o di-sintegrare: «Ogni tanto scrivevo dei versi balzani ma non ero futurista. Il verso li-bero futurista è falso, non è armonico. È una improvvisazione senza colore e sen-za armonie. Io facevo un poco di arte»32.

27 Ibid., pp. 52 e 53.28 Ibid., p. 52.29 Ibid., p. 54.30 ID., Lettera a Mario Novaro [senza data, ma prima del maggio 1916], ibid., p. 167.31 ID., Taccuinetto faentino, in ID., Taccuini, edizione critica e commento di F. Ceragioli, Pisa 1990, p. 253 (sui Tac-

cuini campaniani si veda più avanti, pp. 350-51). Com’è evidente, Campana, per prenderli in giro, rifà il verso agli stes-si futuristi.

32 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 43, c.n. E sul tema dell’«arte», che evidentemente do-veva essergli rimasto nella mente come Leitmotiv fondamentale della sua ricerca, ritorna anche più avanti con una to-nalità malinconica che accora: «Avevo qualche arte, ma poi non ne ho più» (ibid., p. 47, c.n.).

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Se, dunque, la ricerca di “modernità” di Campana non coincide in nessunmodo con quella delle due correnti culturalmente e poeticamente più “rivoluzio-narie” dell’epoca e non può ovviamente, proprio in quanto tale, rifluire nell’imita-zione pedissequa della Sacra Trimurti poetica nazionale del tempo, – Carducci,Pascoli, D’Annunzio, – che può stare alle spalle non certo davanti ad un poeta delnuovo e della “modernità”, le domande che correttamente bisognerebbe porsiper cominciare a definire la “posizione” di Campana, sono: qual era il suo “pro-getto” poetico? in che cosa, più precisamente, consisteva la sua nozione di “mo-dernità”? La mia opinione è che la critica abbia poco riflettuto su queste due do-mande. La risposta, come ho già accennato, è nei testi poetici. Però, alcuni segna-li espliciti e programmatici Campana li ha lasciati e, se non erro, di sorprendentechiarezza e lucidità. Bastava leggerli.

A Soffici, – che di tutti i suoi interlocutori egli sembra comunque stimare dipiù – scrive da Ginevra nel maggio 1915:

Credo che si potrebbe fare una fusione tra la Svizzera sassone dello spirito in cuiNietsche scrisse che si era rifugiato Schumann e la religione della maternità del lavoro edell’amore, così divinamente espressa dal nostro dolce e severo Segantini, e che già sitrova in Millet. Questa mi sembra la via da seguire perché è la più larga, quella che ri-chiede maggiore umanità e realtà.

Ho trovato alcuni studi, purtroppo tedeschi, di psicanalisi sessuale di Segantini,Leonardo ed altri, che contengono cose in Italia inaudite e potrei fargliene un riassuntoper Lacerba. Si tratta di utilizzare la capacità di osservazione di quella gente in favoredella nostra sintesi latina.

Se una nuova civiltà latina dovrà esistere, essa dovrà assimilare la Kultur.La Francia da sola non ci è riuscita, essa è stata sommersa nella cultura tedesca, nel-

la difformità che non è riuscita a forgiare, e anche noi in Italia per ripercussione siamostati vittime di questa débâcle, e proprio nel momento in cui una nuova cultura potevaformarsi in Italia dove non esiste finora altro che una Kultur universitaria33.

E qualche mese più tardi, questa volta a Prezzolini:

Passando alla guerra trovo che il governo francese ha soppresso la quadricentenariamonarchica Gazette de France, ciò che significa che il vecchio spirito aristocratico fran-cese minaccia di riprendere il sopravvento e di mettersi di nuovo a capo della culturaeuropea come fu sempre, anche per testimonianza dei tedeschi (Nietzsche). Se questofatto avvenisse, se questa coltura che adoriamo tornasse io le confesso che darei sul mo-mento senza esitare la vita. Viva dunque la grande Francia. Questo presentimento ap-pare in tutti i grandi tedeschi. Ricordi le ultime parole di Beetoven [sic]: Nel sud dellaFrancia, laggiù, laggiù. Era l’ideale della musica, dell’arte mediterranea che Nietzschepresentì e credé di trovare in Bizet. E questo presentimento si verificherà certamente

33 D. CAMPANA, Lettera a Ardengo Soffici del [12] maggio 1915, in ID., Souvenir d’un pendu cit., pp. 83-84.

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perché Nietzsche e Beetoven [sic], erano dei genii. Viva dunque la Francia. E chi, mo-destia a parte, comprende queste cose da noi? cioè le integra e le risente non le violen-ta, colla animalità del parvenu? Ci dondoliamo sulle anche come l’Italia nelle poesie diD’Annunzio che, poveraccio, dell’Europa moderna non capisce proprio nulla. Chepietà vedere la grande cultura in certe mani mezzane34.

Di fronte ad asserzioni di questa portata vien voglia di dar ragione al poveroCampana, quando ad uno dei suoi più benevoli corrispondenti, Mario Novaro,scriveva, con il modesto orgoglio che spesso lo contraddistingue: «[…] quel po-chissimo di attività che ultimamente ho mostrato basta a provare che io seguo lo-gicamente una via»35. A parte il sorprendente richiamo psicanalitico, sul qualetornerò, il “programma” di Campana è niente di meno che la fusione tra le duecomponenti più vigili e avanzate della cultura europea contemporanea, ossia la ci-vilisation francese con la Kultur tedesca, – esprit con Geist, potremmo dire, poe-sia con filosofia, arte con vita, – secondo una linea che i grandi tedeschi, in primisWagner e Nietzsche, avevano loro stessi intuito e in qualche misura praticato: siche la “mediterraneità” e la “latinità”, in cui si riversa la parte più esaltante e piùsolare dell’ispirazione campaniana, ben lungi dall’apparire l’alternativa provincia-le italiana all’egemonia dello “spirito critico” tedesco, dissolutore e dissacratore,ne rappresenta il sogno segreto, il lato felice, in palese coerenza con tutte le teoriedella “grecità” e del “primitivo”, anch’esse profondamente riverberate dalla Ger-mania nell’opera di Campana. Chi altri al di fuori di lui avrebbe potuto stenderein quegli anni un pensiero davvero folgorante come questo?

Il secondo stadio dello spirito è lo stadio mediterraneo. Deriva direttamente dal natu-ralismo. La vita quale è la conosciamo: ora facciamo il sogno della vita in blocco. Ancheil misticismo è uno stadio ulteriore della vita in blocco, ma è una forma dello spiritosempre speculativa, sempre razionale, sempre inibitoria in cui il mondo è volontà e rap-presentazione: ancora, volontà e rappresentazione che del mondo fa la base di un conoluminoso i cui raggi si concentrano in un punto dell’infinito, nel Nulla, in Dio. Sì: scor-rere sopra la vita questo sarebbe necessario questa è l’unica arte possibile. Primo fratutti i musici sarebbe colui il quale non conoscesse che la tristezza della felicità piùprofonda e nessun’altra tristezza: una tale musica non è mai esistita ancora. Nietzsche èun Wagner del pensiero. La susseguenza dei suoi pensieri è assolutamente barbara,uguale alla musica wagneriana. In ciò unicamente nell’originalità barbaramente balzan-te e irrompente dei suoi pensieri sta la sua forza di sovvertimento e tutto anela alla di-struzione tanto in Wagner come in lui36.

34 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del [4 ottobre 1915], ibid., pp. 97-98.35 ID., Lettera a Mario Novaro del [12 aprile 1916, timbro postale (d’ora in poi t.p.)], ibid., p. 161.36 Il frammento, la cui datazione nell’opera di Dino Campana resta assai incerta (ma l’affinità con i testi contigui

dovrebbe consentire di collocarlo nel 1916), fu pubblicato da Enrico Falqui in ID., Opere e contributi, Firenze 1973,p. 446. Ma sullo stesso argomento si veda la prima di Storie, II, ibid., p. 444, dove il giudizio su Dante suona: «Comesempre la poesia di Dante risulta dalla lotta tra il nordico e il latino...» (ibid., p. 430), e altri luoghi.

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L’Italia dovrebbe dunque assolvere con la sua poesia il compito che la cultu-ra francese soltanto imperfettamente si era posto e che la cultura tedesca avevaposto ma con troppe durezze soprattutto filosofiche per poterlo risolvere. Natu-ralmente, un’Italia e una cultura italiana molto diverse da quelle con cui gli tocca-va vivere e sopravvivere. Le accuse alla piccineria e alla taccagneria del fiorentini-smo, con le quali egli tanto se la prese, vanno intese in questo quadro.

Da ciò la sua rovente polemica contro l’Italia contemporanea, continuamen-te accusata di «lazzaronismo» e di «clericalesimo» (dove anche l’esperienza poli-tica in quel momento dominante, il giolittismo, veniva da lui letta come il segno diun’antica degenerazione nazionale), e contro la figura che del pressapochismo edell’arretratezza italiani rappresentava il simbolo: ossia l’«arrivista» («Oh parve-nu! Tu sei la rovina!»)37. Alla sua ambizione altissima il clima del tempo dovevaapparire addirittura desolante.

3. «Mi sono sempre battuto in condizioni così sfavorevoli che desiderereifarlo alla pari. Sono molto modesto e non vi domando, amici, altro segnoche il gesto. Il resto non vi riguarda»38.

Non c’erano, dunque, le condizioni per capirsi, né culturali né, come vedremo,umane. Dino Campana aveva cominciato intanto a pubblicare qualcosa su deimodesti fogli goliardici bolognesi, in quell’anno accademico 1912-13 in cui, do-po il suo lungo vagabondare, aveva ripreso a frequentare Chimica nell’Universitàpetroniana39: Montagna – La Chimera, Le cafard (Nostalgia del viaggio), Dualismo– Ricordi di un vagabondo. Lettera aperta a Manuelita Tchegarray [sic], in «Il Pa-piro», 1912; Torre Rossa – Scorcio, in «Il Goliardo», 1913 (tutti pezzi che, di pe-so oppure rielaborati o scorciati, entreranno a far parte dei Canti Orfici). Ma al-l’ambizione del giovane questa glorietta locale non poteva più bastare. Pensòperciò di rivolgersi alla banda di giovani mascalzoni, che in quel momento diri-geva «Lacerba». Aveva messo insieme un manoscritto piuttosto corposo, che, co-me si seppe solo dopo molti anni, aveva preso il titolo de Il più lungo giorno. Se-condo la sua ricostruzione, che tutto sommato resta la più attendibile, «venutol’inverno [dicembre 1913] andai a Firenze all’Acerba [sic] a trovare Papini checonoscevo di nome. Lui si fece dare il mio manoscritto (non avevo che quello) eme lo restituì il giorno dopo e in un caffè mi disse che non era tutto quello che si

37 ID., Storie, I, ibid., p. 442.38 ID., Lettera a Mario Novaro dell’ [aprile 1916], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 153.39 Su questo momento della sua vita si possono consultare i ricordi, affettuosi e nostalgici, di F. RAVAGLI, Dino

Campana e i goliardi del suo tempo, Firenze 1942.

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aspettava (?) ma era molto molto bene e m’invitò alle giubbe rosse [il famosocaffè “intellettuale” fiorentino] per la sera»40. Segue un autoritratto di terribilesincerità: «Io ero un povero disgraziato esausto avvilito vestito da contadino coni capelli lunghi e un po’ parlavo troppo bene un po’ tacevo»41. Ad un personag-gio di tal genere non si poteva certo dare troppo credito. Infatti, prosegue Cam-pana, «per tre o quattro giorni andò avanti poi Papini mi disse che gli rendessi ilmanoscritto ed altre cose che avevo, che l’avrebbe stampato sull’Acerba [sic].Ma non lo stampò. Io partii non avendo più soldi (dormivo all’asilo notturno edera il giorno che loro [Papini e Soffici] facevano le puttane sul palcoscenico allaserata futurista incassando cinque o seimila lire) e poi seppi che il manoscrittoera passato nelle mani di Soffici. Scrissi 5 o 6 volte inutilmente per averlo42 e midecisi di riscriverlo a memoria […]»43.

Il manoscritto risultò definitivamente perduto tra le carte Soffici, fino alla ri-scoperta di anni assai recenti (cfr. p. 350). Il colpo non poteva essere più brutale:Campana ne sviluppò una mania persecutoria, che in un cervello come il suo nonpoteva non avere gravi conseguenze (egli maturò il convincimento che Papiniavesse avuto «dalla polizia l’incarico (o se lo è preso) di indirizzare la giovane let-teratura»44: ma questo, a pensarci bene, poteva anche essere vero). Giusta era co-munque la sua protesta: «Papini e Soffici si fecero complici degli assassini mentreio pieno di fiducia gli abbandonavo in mano quello che era la sola giustificazionedella mia esistenza»45; e comprensibili gli strascichi di un risentimento, che arri-verà fino alle minacce estreme: «Se dentro una settimana non avrò ricevuto il ma-noscritto e le altre carte che vi consegnai tre anni or sono verrò a Firenze con unbuon coltello e mi farò giustizia dovunque vi troverò»46.

40 D. CAMPANA, Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., pp. 139-40.41 Ibid., p. 140. Lo stesso incontro visto con l’occhio di uno dei due mascalzoni, Ardengo Soffici: «Privo di un

qualsiasi soprabito che lo riparasse dal freddo di quella mattina, aveva in testa un cappelluccio che somigliava un pen-tolino, addosso una giubba di mezzalana color nocciuola, simile a quelle fatte in casa che portavano i contadini e i pe-corai di mezzo secolo fa, i piedi diguazzanti in un paio di scarpe sdotte e scalcagnate, mentre intorno alle sue gambeercoline sventolavano i gambuli di certi pantaloni troppo corti per lui e d’un tessuto incredibilmente leggero, gialla-stro, a fiorellini azzurri e rosei, uguale in tutto alle mussoline onde si servono i barbieri di paese per i loro accappatoi,e le massaie povere per le tendine delle finestre che danno sulla strada. [Soffici 1930, 81-82]» (G. TURCHETTA, Di-no Campana cit., p. 145). E impressionante come il patetismo autentico dell’autoritratto campaniano si rovesci in que-sto macchiettismo burlone, che sta alla base del fiorentinismo più becero e volgare.

42 Notabile l’estrema dignitosità con cui, all’inizio, il poeta, visibilmente ferito, chiede la restituzione del mano-scritto: «Egregi Signori Papini e Soffici, Li prego ad usarmi la cortesia di lasciare i manoscritti miei che ho consegna-to a Loro presso l’amministrazione di Lacerba. Un uomo da me incaricato passerà a ritirarli. Ossequi: Dino Campa-na» (ID., Lettera a Giovanni Papini [t.p. 4 febbraio 1914], in ID., Souvenir di un pendu cit., p. 59).

43 ID., Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., p. 240.44 Ibid., p. 143.45 Ibid., p. 141.46 ID., Lettera a Giovanni Papini del 23 gennaio 1916, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 134.

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Il gesto atteso ed implorato non era arrivato. Trattamenti più umani Campa-na ebbe da Emilio Cecchi e da sua moglie Leonetta Pieraccini, da Mario Novaro,da Giovanni Boine. Ma l’unico rilevante tentativo di contatto con uno dei giovanie più organizzati gruppi intellettuali del tempo era miseramente fallito, ribadendouna ormai cronica situazione d’isolamento e di esclusione.

4. «Ricevo io sottoscritto dal Sigr. Bandini Luigi fu Paolo la somma di lirecentodieci (110) come caparra per la stampa di 1000 copie del libro ‘Can-ti Orfici’ del Sigr. Dino Campana [...]»47.

Reagendo con vitalità prodigiosa, tenuto conto della situazione, alla terribile di-savventura capitatagli, Dino Campana rimise insieme in pochi mesi la raccoltaperduta, apportandovi, come vedremo, non poche modifiche. Fin quando il testodel Più lungo giorno non fu noto, poté apparire credibile la leggenda, che Campa-na volle avvalorare, di aver ricostruito i testi a memoria48. Ma il confronto tra ledue stesure permise di stabilire che l’identità di numerosi componimenti, anche aprescindere da quelli già stampati in precedenza, è tale da rendere inverosimileuna applicazione letterale delle affermazioni campaniane. È più probabile cheCampana si servisse contemporaneamente e della sua memoria e degli scartafaccie degli appunti rimastigli, secondo un metodo che, del resto, doveva essergli in li-nea di massima abituale.

Il manoscritto, comunque ricostruito, dovette esser pronto in un tempo nonlungo, se, forse già nella primavera del ’14, egli si rivolgeva da Berna ad un amicodi Marradi, Luigi Bandini, chiedendogli di aiutarlo a pubblicare i Canti49. Il Ban-dini versò allo stampatore Bruno Ravagli le famose 110 lire, di cui nel titolo diquesto paragrafo, – le 110 lire, alle quali dobbiamo, letteralmente il privilegio del-la conoscenza di questo capolavoro (il meno caro della letteratura mondiale), – ei Canti Orfici videro finalmente la luce nel giugno del 1914. Si tratta dell’edizionein carta rozza e grigiastra e con le pagine un po’ più grandi e un po’ più piccole,destinata a passare alla leggenda del Novecento letterario italiano.

Nella storia della poesia italiana del Novecento, e, più in generale, nella sto-ria della nostra poesia, le vicende editoriali dei Canti Orfici sono pressoché uni-

47 Si tratta della sottoscrizione del tipografo Bruno Ravagli di Marradi, al contratto con cui, il 6 giugno 1914, fu-rono stabilite le condizioni per la stampa del volume dei Canti Orfici (cfr. G. CACHO MILLET, Dino Campana fuo-rilegge cit., p. 117).

48 Si rammenti la conclusione del brano della lettera a Emilio Cecchi citata alla nota 44; ma anche a Giovanni Boi-ne, in precedenza: «Je retourna à la campagne et j’écrivis de memoire mes canti orfici et je reussis à le faire publier parun brute de mon village» [t. p. 18 gennaio 1916], in D. CAMPANA, Souvenir d’un pendo cit., p. 232.

49 ID., Lettera a Luigi Bandini della [primavera 1914], ibid., pp. 60-61.

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che, se si escludono, se non erro, alcune iniziative editoriali di Giacomo Noven-ta (che è, comunque, un bell’accostamento), e non sono state abbastanza valu-tate, – penso, – ai fini di una comprensione intrinseca dell’opera. Si aggiungache il libro fu venduto dallo stesso Campana nei caffè di Firenze e di Bologna,come lui stesso e la leggenda tramandano, oppure agli amici mediante sottoscri-zione. Quando apparve l’edizione Binazzi nel 1928, delle mille copie stampateda Ravagli diverse centinaia erano ancora depositate presso l’editore. Il “circui-to della comunicazione” non poteva dunque essere più ristretto: dall’autore allettore, saltando tutte le mediazioni, ma anche tutti gli appoggi, delle macchineeditoriali, pubblicitarie, dei gruppi intellettuali, ecc. Il carattere di “voce solita-ria” della poesia campaniana ne risulta assolutamente ingigantito. Se Carlo Mi-chelstaedter era risultato autore postumo in quanto noto, letteralmente, soltan-to dopo la sua morte, la “postumità” di Campana consiste, ancor più crudel-mente forse, nel non-ascolto pressoché totale del pubblico còlto suo contempo-raneo (salvo, s’intende, le poche eccezioni d’obbligo: ma fino a che punto, ver-rebbe voglia di chiedersi, Cecchi e Boine, ad esempio, lo avevano compreso?)Quella di Campana è davvero, in sé, una “voce altra”, una “voce diversa”: la re-clusione è il simbolo non solo del suo “farsi” ma anche del suo “darsi”. Leggen-dolo, bisogna tenerne conto.

5. Sfortunato, in vita e in morte.

Alle difficoltà editoriali della prima stampa puntualmente seguirono le altre, in vi-ta e in morte. Nel 1928 l’editore Vallecchi intraprese il progetto di una ristampadei Canti Orfici (a quanto sembra, senza neanche chiedere il parere all’autore, ilquale, in quanto ricoverato in manicomio da un decennio, doveva esser conside-rato morto e seppellito da un pezzo); e ne affidò la cura ad un giornalista e lette-rato, Bino Binazzi, amico di Campana, con il quale però questi aveva avuto in pas-sato non pochi contrasti. L’edizione che ne seguì50 comprendeva, oltre ai testi pre-senti nell’edizione del ’14, alcune liriche di lui successivamente apparse (tra l’ago-sto 1915 e il marzo 1917) su vari giornali e riviste del tempo, e cioè: Bastimento inviaggio (già Frammento), Arabesco-Olimpia, Toscanità (già A Bino Binazzi), Vecchiversi, Notturno Teppista, A M[ario] N[ovaro]51.

Il Binazzi invia copia dell’edizione a Dino Campana, e qui si verifica una sor-presa: il matto decennale si scopre lettore attento e puntiglioso delle proprie cose,e rivela una vena filologica insospettabile solo per chi lo considerava “scrittore”

50 ID., Canti Orfici ed altre liriche, opera completa con prefazione di B. Binazzi, Firenze 1928.51 Si possono ora leggere in ID., Opere e contributi cit., pp. 283-90.

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facile e approssimativo. Ringrazia dunque il Binazzi dell’edizione in un momentodi requie del suo male; ma subito dopo aggiunge:

A Marradi presso l’editore Ravagli si devono trovare ancora almeno cinquecento copiene la lezione originale: la Vallecchi varia quà e là non so perché: poco importa giacché èun compenso dovuto a la modernità de l’edizione senza dubbio. Rimasugli di versi,strofe canticchiate se ne potrebbe riempire un quadernetto. Ma che farne. Tutto va peril meglio nel peggiore dei mondi possibili: variante vallecchiana. Passo lunghe ore pen-sando a la vanità del tutto52.

Queste frasi fanno pensare: accanto alla solita sardonica e orgogliosa malinco-nia, che costituisce il fondo del Campana matto (forse meno matto di quanto luistesso non volesse credere e far credere), viene fuori un piccolo problema critico-esistenziale: o davvero Dino aveva avuto e conservava una così straordinaria memo-ria da poter cogliere alla semplice lettura le varianti sbadatamente profuse nel testoda Binazzi, oppure aveva presso di sé una copia dei Canti Orfici e persino delle poe-sie pubblicate in rivista, visto che, secondo una testimonianza del Pariani, il Cam-pana avrebbe invitato a «raffrontare» e «correggere» l’edizione «sul testo di Marra-di e delle riviste che stamparono i miei versi per la prima volta»53. Inequivocabile misembra anche l’accenno ad una perdurante produzione poetica: «Rimasugli di ver-si, strofe canticchiate se ne potrebbe riempire un quadernetto», sopraffatta da unaormai mortale disillusione: «Passo lunghe ore pensando a la vanità del tutto».

Ancor più sorprendente è il risveglio d’interesse testimoniato da questa lettera alfratello Manlio, con il quale ebbe sempre una corrispondenza estremamente esile epuramente informativa, intorno al solito tema delle scorrettezze dell’edizione Binazzi:

Caro Manlio,tempo fa ebbi l’occasione di vedere la ristampa dei miei Canti Orfici edita da Val-

lecchi-Firenze. In qualche momento di tranquillità potei notare i continui errori del te-sto che è così irriconoscibile. Vi hanno pure aggiunte poesie di lezione fantastica. Nonsono più in grado di occuparmi di studi letterarii, pure vedendo che il testo va così per-duto. Ti pregherei ricercare l’edizione originale di Marradi, per conservarla per ricor-do. Non ho bisogno di nulla e continuo a vivere normalmente54.

6. Scoperte e riscoperte.

La vera storia editoriale dei Canti Orfici, dopo la stampa di Marradi, cominciacon l’attività di ricerca e di scavo compiuta con encomiabile dedizione da EnricoFalqui alle soglie della seconda guerra mondiale, la quale approda innanzitutto al-

52 ID., Lettera a Bino Binazzi del [t.p. 11 aprile 1930], 10 ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 242.53 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 65.54 D. CAMPANA, Lettera al fratello Manlio del 2 giugno 1930, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 243.

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la stampa dei Canti Orfici, Firenze 1941, ricondotti alla lezione marradese, e di unvolume di Inediti, Firenze 1942, il quale comincia a rivelare, dietro i Canti, unaricchezza di prove, di materiali, di appunti e di rielaborazioni in precedenza inso-spettabile. Dei Canti Orfici curati da Falqui appariranno negli anni successivi nu-merose edizioni, talvolta comprendenti taluni degli inediti.

Successivamente apparvero un Taccuino, a cura di Franco Matacotta, Fermo1949, uscito dai materiali in possesso di Sibilla Aleramo, e un Taccuinetto faenti-no, a cura di Domenico De Robertis, presentazione di Enrico Falqui, Firenze1960, il primo successivo, l’altro immediatamente precedente l’ultima stesura deiCanti Orfici da parte del poeta55. È ovvio che io utilizzerò soprattutto questo se-condo come strumento integrativo nell’interpretazione dei testi. Importante an-che il Fascicolo marradese, a cura di Federico Ravagli, Firenze 1972, che raccogliealtri testi manoscritti o gli stessi testi in versioni diverse, ritrovati nella casa dellafamiglia Campana a Marradi.

Il punto d’arrivo di questa lunga fase di scoperte e riscoperte è rappresentatodai due volumi di Opere e contributi, a cura di Enrico Falqui, presentazione diMario Luzi, note di Domenico De Robertis e Silvio Ramat, carteggio con SibillaAleramo a cura di Niccolò Gallo, Firenze 1973 (due volumi con numerazionecontinua), che a tutt’oggi rappresenta il repertorio più completo degli scritti diDino Campana.

Intanto, però, era avvenuto il disseppellimento (è il caso di dirlo) del mano-scritto affidato a Papini e Soffici e poi perduto: ne dava notizia in un articolo sul«Corriere della Sera» Mario Luzi56. Cos’era accaduto? Era accaduto che, nel rior-dino delle carte di Soffici seguito alla sua morte (1964), tra carte, manoscritti, cor-rispondenza, era riemerso lo sventurato fascicolo di Dino Campana. La stampa(in due volumi) non doveva tardare: Il più lungo giorno, I: riproduzione anastati-ca del manoscritto; II: presentazione di Enrico Falqui, testo critico a cura di Do-menico De Robertis, Firenze 1973.

6.1.«I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno | potrà sembrare tutta robettada fiera».

Un’analisi delle caratteristiche e delle scelte essenziali del Più lungo giorno verràfatta, nel capitolo successivo, a confronto con i testi dei Canti Orfici. A qualche

55 Dell’uno e dell’altro ha dato un’eccellente edizione critica Fiorenza Ceragioli in ID., Taccuini cit. Il primo è da-tabile prima dell’estate 1916 (ibid., pp. 14 sgg.); invece, «numerosi [...] elementi confermano che il Taccuinetto è im-mediatamente prossimo all’edizione di Marradi» (ibid., p. 220).

56 M. Luzi, Un eccezionale ritrovamento fra le carte di Soffici. Il quaderno di Dino Campana, in «Il Corriere della Se-ra», 17 giugno 1971.

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considerazione preliminare si prestano invece i materiali presentati da Falqui perla prima volta negli Inediti, e poi i Taccuini.

Mettendo insieme e confrontando le varie fasi dell’elaborazione poetica cam-paniana, risulta abbastanza chiaro che lo scrittore lavorava generalmente in que-sto modo: dapprima l’“impressione”, il dato psichico vivente immediatamente ri-cavato, sovente in forma assai sommaria, dall’incontro-scontro con il “fenome-no”; e si capisce che, trattandosi di un poeta abituato a modulare la sua tavolozza“all’aperto”, questa fase originaria dell’ispirazione, tradotta nelle note frante, ap-prossimative e allusive del genere “taccuino”, risulta molto importante (e chissàquanti di questi appunti, ovviamente, sono andati perduti).

In seguito il poeta seleziona, elabora, costruisce; e successivamente mescola erimescola, prima d’arrivare al risultato considerato definitivo. Da questo punto divista utilissima risulta la lettura del fascicolo denominato Quaderno, una specie dibella copia di pezzi già cresciuti altrove, la cui datazione è incerta (secondo alcu-ni 1908-14, secondo altri 1906/907 - 12), ma i cui caratteri fondamentali rivelanogià strette affinità con quelli dei Canti Orfici, e che perciò può esserne da moltipunti di vista considerato sia un antecedente sia un serbatoio57.

Si tratta di quarantatre componimenti, il che non è poco, considerando che iCanti Orfici ne contengono ventinove: ma, naturalmente, niente che assomigli al-la compattezza e all’unità d’intenti dell’opera maggiore. Anzi, qui sorprende lapluralità e anche la confusione delle scelte messe in campo: che però vanno tenu-te presenti proprio per capire a quante e quali suggestioni si volgesse la cultura diCampana all’inizio del suo lavoro. Qui c’è esotismo alla Salammbô e alla PierreLouÿs in un pezzo strano come Convito romano-egizio58; immaginismo simbolisti-co-decadente alla Leconte de l’Isle (Poèmes barbares) in Spada barbarica59; coloremistico-medievale in Guglielmina e Manfreda al balcone (sec. XIII) e ne Le figliedell’impiccato60.

Soprattutto c’è un dispiegamento di conoscenze metriche e compositive checolpisce. Il primo componimento raccolto, presumibilmente il più antico, Il tem-po miserabile consumi61, è una saffica, che, sebbene non raggiunga i livelli di per-

57 Cfr. D. CAMPANA, Quaderno, in ID., Opere e contributi cit., pp. 295-355 (il commento di Silvio Ramat, ibid.,pp. 295-355).

58 Ibid., pp. 317-18.59 Ibid., pp. 244-300.60 Rispettivamente alle pp. 312 e 330-32. Qualche curiosità desta il fatto che Dino Campana parli con una certa co-

gnizione di causa di due personaggi, Guglielmina la Boema e Manfreda (o Maifreda), diventati recentemente famosiper aver anticipato certi temi della polemica femminista (cfr. P. M. COSTA, Guglielma la Boema, l’eretica di Chiara-valle, Milano 1985, e L. MURARO, Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista, Milano 1985). Fin dove sispingevano le letture di questo giovane curioso?

61 D. CAMPANA, Quaderno cit., pp. 297-98.

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fezione dei grandi modelli carducciani (Dinanzi alle Terme di Caracalla, Alle fontidel Clitumno), sta in piedi benissimo. Sonetti come Quando gioconda trasvolò lavita62 e come quello, caudato, intitolato, misteriosamente, Sonetto di Vittoria Co-lonna63, rivelano una mano esperta e lungamente collaudata. Ci vuole altro persfatare la tesi del poeta “primitivo” e guidato soltanto dalla sua follia?

Il Quaderno consente poi di cogliere e studiare l’incessante lavorio composi-tivo e ri-compositivo, cui ho già accennato. Prosa fetida64, una galoppante sfilatad’ottonari su di un tema tipicamente maudit e teppistico come quello della prosti-tuzione notturna fiorentina, confluisce, – questa volta per sottrazione, – nella Pe-tite promenade du poète dei Canti Orfici65; il tema di Tre giovani fiorentine cammi-nano66 viene ripreso, con operazione abilissima, in Frammento (Firenze)67; Pei vi-chi fondi tra il palpito rosso68, che è del resto lirica al livello dei componimenti piùalti dei Canti, e un’altra poesia, Sopra la larva di un antico sogno69, confluiscono,con una singolare operazione di “compressione” metrica, stilistica e semantica, inBatte botte70. E questa è solo una piccola parte delle considerazioni che si potreb-bero fare a questo proposito.

Il poeta taglia, cuce, fonde e rifonde, plasma e continua a plasmare: come sela materia verbale fosse, davvero, creta fra le sue mani.

Il Quaderno è importante anche perché allinea l’una accanto all’altra una se-rie di liriche sul tema della poesia: O poesia poesia poesia, O l’anima vivente del-le cose, O poesia tu più non tornerai, I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno71:nel loro insieme costituiscono la più rilevante dichiarazione di poetica, che Cam-pana abbia mai pronunciato. Io direi che l’ambito tematico ed ispirativo in cuiCampana colloca la sua ricerca risulta esser quello della grande “avanguardia”europea contemporanea (tornerò su questo punto): il rifiuto dello scodellamen-to del “bell’e fatto” e della “specialità”; il poeta si è rivestito di quello che ha po-tuto: «Io così nel mio piccolo ho vestito | quel che ho potuto e che mi conveniva| son mancante, stracciato, ebben guardate | s’è brutto quel che trasparirà»)72; ilcuore dei poeti assai spesso è bello da sé; tuttavia, anche «se a qualcuno | potrà

62 Ibid., p. 354.63 Ibid., p. 353.64 Ibid., pp. 319-21.65 ID., La petite promenade du poète, p. 113.66 ID., Quaderno cit., p. 303.67 ID., Frammento (Firenze), p. 180.68 ID., Quaderno cit., pp. 348-50.69 ID., Taccuini abbozzi e carte varie, I, ibid., pp. 378-79.70 ID., Batte botte, pp. 144-45.71 ID., Quaderno cit., pp. 333, 334, 335, 336.72 ID., I miei versi sono meravigliosi: a qualcuno, ibid., p. 336.

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sembrare robetta da fiera»73, la capacità “illusionistica” del poeta farà piacere aciascuno ciò che ciascuno aspetta di farsi piacere. La tonalità sardonica e ironi-stica è connessa con questo punto di vista, che sconta una totale dissacrazionedella funzione e del ruolo tradizionali della poesia: «O poesia tu più non torne-rai | eleganza eleganza | arco teso della bellezza»74. Per risorgere essa deve am-marare nella realtà del mondo moderno, mescolarsi al vento sinistro modulatodai rumori, dai suoni e dalle forme della tetra, oscura, dinamica e fangosa, crepi-tante ed assordante dimensione del tempo presente: «O poesia poesia poesia |sorgi, sorgi, sorgi | su dalla febbre elettrica del selciato notturno»75. Influenze fu-turistiche sono fin troppo visibili. Ma, se fossimo in Russia, io direi più precisa-mente “cubofuturiste”. Il macchinismo e la città sono infatti collocati, nel siste-ma campaniano, in un orizzonte più vasto, che tende ad abbracciare il cosmo.L’“elettricità” va bene, ma accanto a quella delle lampadine, dei fari e dei tram,esiste quella delle stelle e della luna, secondo un corredo di associazioni analogi-che, che, ad esempio, presso i russi del tempo è frequentissimo. Della sua “mo-dernità”, programmatica ed intenzionale, fa parte dunque anche un occhio aper-to sulla creazione76. Detto in una forma ancora un po’ troppo esplicita e dichia-rata, è questo il senso dell’appello che lo scrittore rivolge alla poesia:

Scintilli il tuo pensiero sulle forme moltepliciche muovono cantano e stridono elettrizzate nel soleanima oscura del mondoson le tue forme molteplici che tratte dal sonno alla vita ora avviluppano il mondo77.

7. Edizioni e commenti. Stato del testo.

Dalla ricerca e dal lavorío impiantati da Enrico Falqui sono fondamentalmentederivati le edizioni e i commenti successivi. Segnalo: Canti Orfici e altri scritti, in-troduzione di Carlo Bo, «Oscar Mondadori», Milano 1972; e l’eccellente CantiOrfici e altre poesie, introduzione e note di Neuro Bonifazi, «i grandi libri Gar-zanti», Milano 1989.

73 Ibid.74 ID., O poesia tu più non tornerai, ibid., p. 335.75 ID., O poesia poesia poesia, ibid., p. 333.76 Si veda a questo proposito anche ID., La Creazione, ibid., p. 327.77 ID., O l’anima vivente delle cose, ibid., p. 334.

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Fiorenza Ceragioli ha curato per l’editore Vallecchi, Firenze 1985 (3a edizio-ne, maggio 1987) un ottimo commento dei Canti Orfici, che tiene conto il piùpossibile dei materiali e dei riscontri presenti in tutte le scritture precedenti diCampana. Successivamente l’edizione Ceragioli-Vallecchi si è riversata in un’edi-zione della Bur, dalla cui ultima ristampa (Milano 1995) traiamo, anche per co-modità del nostro lettore, le citazioni.

Nel 1986 l’editore Tallone di Alpignano ha presentato un’edizione anastaticadei Canti Orfici, con una presentazione di Mario Luzi.

In conclusione.Come il lettore avrà capito, seguendo la mia esposizione, lo stato del testo dei

Canti Orfici è attualmente ancora disastroso. Non esiste un’edizione critica deiCanti; e soprattutto, direi, non è stata data nessuna sistemazione certa (se si eccet-tuano, come abbiamo visto, i Taccuini e Il più lungo giorno) all’ampio materialesopravvissuto alla possibile distruzione, di cui Falqui ha fornito una stampa ancorpiù che in casi analoghi “sulla fiducia”. Il lavoro di riscontro e di confronto sui va-ri testi, iniziato dalla Ceragioli, è ben lungi dall’aver esaurito la grande ricchezzadei materiali disponibili. E le molte scritture “in codice”, elaborate da Campana,non sono ancora state che minimamente decodificate. Come scrive il poeta, anchesu questo terreno della fama postuma, sarebbe da ricercare «la stella | avvelenatasotto cui [egli era] nato»78.

II. STRUTTURA.

1. Il «libro».

L’ipotesi che va messa alla base di ogni corretta lettura dei Canti Orfici è che que-sta “raccolta” è da concepirsi alla maniera di un “libro”, pensato, progettato erealizzato come tale. Ha scritto Mario Luzi, che, oltre ad essere un grande poetadel Novecento italiano, è stato uno degli interpreti più attenti e sensibili dellapoesia di Campana: «[…] gli studi di due generazioni hanno messo in luce la na-tura profonda e organica del suo libro che insieme con quello coevo di ClementeRebora si staglia come il libro più libro, più ‘œuvre’ del nostro secolo italiano, an-che se la persistenza dello schema latente della nostra cultura lo ha lasciato, misembra, nel limbo delle assimilazioni imperfette»79 (osservo di sfuggita che anche

78 ID., Sonetto di Vittoria Colonna, ibid., p. 353.79 M. LUZI, Al di qua e al di là dell’elegia, in AA.VV., Dino Campana oggi. Atti del Convegno (Firenze, 18-19 mar-

zo 1973), Firenze 1973 p. 144 (ora, col titolo Campana, al di qua e al di là dell’elegia, in ID., Vicissitudine e forma, Mi-lano 1974, pp. 160-61). Il medesimo testo era servito da introduzione a D. CAMPANA, Opere e contributi cit., pp. V-X. Sul tema del “libro” cfr. anche G. TURCHETTA, Dino Campana cit., pp. 102 sgg.

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l’accostamento a Rebora ha influenzato il nostro giudizio). Campana risale all’in-dietro, oltre la “forma canzoniere”, ancora dominante nel Novecento italiano, eapproda ad una sorta di “forma mista”, che sta fra il prosimetro dantesco della Vi-ta nuova e il frammentismo poetico-prosastico decadente e simbolista (si pensi aLes illuminations e a Une saison en enfer di Rimbaud: ma saranno da tener pre-senti anche le mallarmeane teorizzaziont del Libro). In più, – mi pare, – c’è inCampana l’obiettivo di raccontare una storia a suo modo compiuta, con un inizio,uno svolgimento e una conclusione, come cercherò di dimostrare.

La struttura del libro si compone di precisi elementi, in stretta coerenza fraloro, che sono: 1) titolo; 2) sottotitolo e dedica; 3) testi; 4) il colophon, con cui sichiude il testo. Mi propongo di esaminarli partitamente, per tornare alla fine aduna conclusione unitaria.

2. Il titolo.

Canti Orfici sostituisce il precedente Il più lungo giorno, titolo che altro non erache una citazione d’un passo della terza parte (Il ritorno) del poemetto in prosainiziale La notte: «E si raccoglie la mia anima – e volta al più lungo giorno de l’a-more antico ancora leva chiaro un canto a l’amore notturno»80: passo poi scom-parso nei Canti Orfici, in uno dei punti più rielaborati del poemetto.

Per quanto riguarda l’orfismo è d’obbligo la citazione del capitolo V, Orphée(Les mystères de Dionysos), dei Grands initiés. Esquisse de l’histoire secrète des re-ligions, di Édouard Schuré, che Campana poteva aver letto in una qualsiasi dellenumerose edizioni francesi del tempo, seguite alla prima del 1889. Tutti sanno,peraltro, che il libro di Schuré contribuì a volgarizzare, anche presso masse abba-stanza vaste di pubblico, una riscoperta del mondo religioso primitivo e dei pri-mordi della civiltà ellenistica, che nella Nascita della tragedia (1874) di Nietzscheaveva trovato uno dei suoi capisaldi. Ora, in Nietzsche, come poi in Schuré, il mi-to di Orfeo è strettamente collegato al motivo dionisiaco e questo sembra già unbuon motivo per la scelta di tale titolo da parte di Campana: in lui, infatti, la scel-ta di fondo è dionisiaca, anche se reminiscenze e nostalgie apollinee percorronoda cima a fondo la sua poesia81.

80 D. CAMPANA, Il più lungo giorno, prefazione di E. Falqui, testo critico a cura di D. De Robertis, 2 voll., Fi-renze 1973, II, p. 22. Ma anche in ID., Taccuinetto faentino cit.: «(o ancora amore ancora, più lungo più lungo giornodell’amore antico)» (p. 269).

81 Su questo, come su altri punti del nostro discorso, cfr. S. RAMAT, Campana nella tradizione novecentesca(1973), in ID., Protonovecento, Milano 1978, pp. 265-84, il quale a sua volta giustamente rimandava agli studi di Neu-ro Bonifazi, poi raccolti e ripresi nel volume N. BONIFAZI, Dino Campana, Roma 19782, importante soprattutto perl’analisi dei rapporti fra Nietzsche e Campana e del tema dell’orfismo.

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Ma con «orfico» Campana poteva far riferimento anche ad altre suggestio-ni. Orfeo è il poeta delle origini; e tale s’immagina Campana in contrapposizio-ne al clima sfatto e snerbato della poesia dei suoi tempi. Orfeo e l’orfismo ri-chiamano un rapporto visionario, pre-logico, che s’allarga facilmente a dimen-sioni cosmiche; e Campana sviluppa dall’osservazione concreta ed attenta del“fenomeno” sensibile risonanze che possono arrivare fino alle stelle (rapportotra “visivo” e “visionario”, che costituirà una delle cruces più rilevanti della cri-tica campaniana); Orfeo è sospeso tra il mondo umano e gli Inferi; e Campana,anche lui, pendola strenuamente tra la ragione e la non-ragione, tra la chiaritàdel giorno e l’oscurità della notte; Orfeo insegue la sua Euridice e la perde; eCampana per tutta la vita cerca di concretizzare in una figura definita un eter-no femminino, che tuttavia sempre gli sfugge; Orfeo finisce sbranato dalle Bac-canti; e Campana si sente (vedi il colophon) immerso nel proprio sangue dallaviolenza degli aggressori. Orfico, poi, rappresenta una sottolineatura dellacomponente religiosa, mistica ed esoterica, presente nella voce della poesia; edin Campana c’è un’ansia mistica, che, senza diventare «religione», si fa contem-plazione estatica del mondo.

Infine, c’è un atteggiamento orfico in ciò che riguarda il contenuto del miste-ro, ma c’è anche un atteggiamento orfico nel comunicarlo: l’orfismo è un cultoiniziatico; e anche Campana pensa, innegabilmente pensa ad una poesia, la cuifruizione sia riservata al sacrificio di comprensione di pochi eletti (la cosiddetta“difficoltà” campaniana).

Del titolo, insieme con l’aggettivo, va apprezzato nella giusta misura anche ilsostantivo: Canti. Da Leopardi in poi, – altro esempio chiaramente presente aCampana, – Canti sta a significare una lirica alta, che travalica gli orizzonti di unanormale dimensione comunicativa: un ampliamento, più che un innalzamento,della voce, che sia in grado di definire e accogliere una nuova dimensione dellosguardo. Il nesso con lo spirito visionario è preciso ed evidente: anche Orfeo can-tava, anche i suoi seguaci lo celebravano con il canto. E una “poesia delle origini”o, meglio, del “nuovo inizio”, non poteva che essere canto.

3. Sottotitolo e dedica.

Nel frontespizio del libro, sotto Canti Orfici troviamo: «Die Tragödie des letztenGermanen in Italien»); ossia: «La tragedia dell’ultimo Germano in Italia». Sullapagina successiva, bianca, spicca la dedica:

A GUGLIELMO II IMPERATORE DEI GERMANIL’AUTORE DEDICA

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Se si tiene presente che ciò accade nell’estate del 1914, a pochi mesi di di-stanza dallo scoppio del primo conflitto mondiale, mentre il clima politico e mili-tare in Europa va arroventandosi e cresce quasi ovunque l’odio per il tedesco, lascelta di Campana appare ancora una volta ispirata ad una trasgressione pazzesca.Più tardi cercherà di giustificare la cosa in termini di inesperienza e d’impruden-za82. La spiegazione invece è come al solito più profonda.

Chi abbia seguito finora la mia esposizione non può non rendersi conto chel’autodefinizione di «germano» da parte del poeta calza a pennello, da una parte,con la violenta polemica sua contro usi, costumi, abitudini nazionali italiani, inparticolare quelli intellettuali, dall’altra, con la sua ambizione di collegare nordi-cità e mediterraneità, spirito tedesco e tradizione latina. Campana dà la spiegazio-ne più logica e completa della questione nella lettera a Emilio Cecchi del marzo1916, già più volte richiamata:

Ora io dissi die tragödie des letzten Germanen in Italien mostrando di aver nel libroconservato la purezza del germano (ideale non reale) che è stata la causa della loro mor-te in Italia. Ma io dicevo ciò in senso imperialistico e idealistico, non naturalistico. (Cer-cavo idealmente una patria non avendone). Il germano preso come rappresentante deltipo morale superiore (Dante Leopardi Segantini)83.

Più chiaro di così: per Campana «germano» o, come altrove, «germanico» èsinonimo di purezza, – quella stessa purezza per conservare la quale gli antichibarbari, calati in Italia, erano ad un certo punto scomparsi. Esso, perciò, è ag-gettivo usato sempre da lui positivamente, per marcare una differenza. Ad esem-pio, in tutt’altro contesto: «Nel portamento della testa Carducci ha del germani-co [...]»84. Altrove si definirà da sé «ultimo avanzo dei barbari in Italia»85. La de-dica a Guglielmo Il viene di conseguenza: nella logica così instaurata il poetarende omaggio al “proprio” sovrano.

82 Per esempio, in una lettera a Carlo Pariani dal manicomio di Castel Pulci, del 22 ottobre 1927, in D. CAMPA-NA, Souvenir d’un pendu cit., p. 240: «Il mio piccolo libro contenente poesie patriottiche fu dedicato all’ImperatoreGuglielmo per confusione di idee. Testimoniava in forma di insufficenza di caratteri che l’ambiente in cui ero destina-to a vivere, stante un indebolimento de la volontà prodottomi da una nevrastenia giovanile».

83 ID., Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., p. 143.84 Da un frammento pubblicato in ID., Opere e contributi cit., p. 429, che si affianca a quello già richiamato in cui

si afferma che «come sempre la poesia di Dante risulta dalla lotta tra il nordico e il latino...» (ibid., p. 430).85 ID., Lettera ad Anselmo Geribò del [25 dicembre 19151, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 116. Per capire l’at-

teggiamento mentale di Campana in questo contesto è importante leggere il seguito della lettera, in cui egli stigmatiz-za a modo suo la realtà morale e intellettuale dell’Italia contemporanea: «Sono assai dispiacente che lei mi misuri colmetro. No Signor Girabò io sono un uomo e se lei paga 25 lire le ultime propagini filosofiche del mal de Naples ((ge-suitismo, camorra, borbonismo sbirro (= negazione di Dio ossia negazione dell’arte come la fa il campione BenedettoCroce quando dice arte = espressione), papini, il papinismo, De Robertis (anello di congiunzione), putrefazione pro-gressiva della lingua, stile, italianità, ruffianesimo, la Voce, la civiltà filosofica, la Somma di S. Tommaso, il barocco, lospionaggio ecc., all’infinito)) dico se lei paga 25 lire al pezzo le infami propaggini (vociane) della putrefazione pro-gressiva di una buona metà d’Italia, perché perdio dà solo dieci lire a me?» (ibid., pp. 116-17).

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È leggendario che, dopo lo scoppio della guerra, Campana si desse da fareper cancellare o strappare le pagine incriminate. Fatto è, invece, che anche piùtardi Campana mostrò di non voler rinunciare all’appellativo. Inviando a MarioNovaro i versi di una poetessa fiorentina recentemente scomparsa, Luisa Gia-coni, per raccomandarne la pubblicazione, egli precisava: «La condizione dellastampa e [sic] che non sia omesso: Poeta germanicus»86. E siamo nel 1916! Lasua ostinazione dovette essergli fonte di non pochi fastidi, soprattutto quando,continuando a vagabondare per l’Italia, cominciò ad essere scambiato per unaspia tedesca87.

Non è da escludere che il poeta amasse giocare anche sul proprio aspetto fisi-co: non molto alto ma robusto, biondo, capelli e barba lunghi (spesso), con gli oc-chi chiari, doveva sentirsi ed apparire un cittadino italiano molto particolare: unresiduo estremo di quelle popolazioni barbariche, – appunto, – pressoché som-merso dalla universale diffusione del tipo fisico e morale opposto.

«Tragedia» vuol dire ch’egli vede se stesso in posizione tragica rispetto almondo. È stato ricordato che il sottotitolo del Faust è Eine Tragödie88. È in questosenso che va interpretato il termine: come storia di un’illusione, che si risolve indisillusione, disperazione e sconfitta. Nel sottotitolo, dunque, è inscritta, ad aper-tura di pagina, la sofferta matrice autobiografica del testo.

4. I testi.

Il confronto tra il fascicolo del Più lungo giorno e il volume dei Canti Orfici per-mette di seguire con il massimo di precisione l’evoluzione creativa e compositi-va del poeta e di cogliere l’enorme differenza di progettualità intercorrente frale due stesure. Dico subito che i due testi vanno intesi non come opere distintema come fasi diverse e strettamente integrate di uno stesso processo evolutivo.Campana si conferma in tal modo poeta unius libri: a questo libro ha lavoratoesclusivamente nel corso della sua attività fino al 1914; e si potrebbe forse an-che dire che i versi suoi, apparsi dopo questa data, rientrano anch’essi nell’o-rizzonte compositivo del “libro”, – avrebbero potuto renderne possibile un fu-turo arricchimento e una ulteriore manipolazione, più che la comparsa di unprogetto diverso.

86 ID., Lettera a Mario Novaro [senza data, ma prima del maggio 1916], ibid,, p. 167.87 Su uno di questi episodi, cfr. l’assai interessante A. MASTROPASQUA, Un episodio inedito della biografia di

Dino Campana, in «Es», n. 6 (1977), pp. 25-28; e le note di Gabriel Cacho Millet in D. CAMPANA, Souvenir d’unpendu cit., p. 183.

88 Cfr. F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Immagini del viaggio e della montagna, in ID., Canti Orficicit., p. 329.

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Le differenze fra le due stesure dovrebbero risultare evidenti nel confrontoreso possibile da questa tabella89.

Il più lungo giorno Canti OrficiEpigrafi (di N.N., di Nietzsche, di Soffici)

I) La notte mistica dell’amore e del dolore – 1) La Notte (1)Scorci bizantini e morti cinematografiche.I. La notte mistica I. La notteII. Il viaggio II. Il viaggio e il ritornoIII. Il ritorno III. FineIV. La sosta

Notturni

2) La Chimera 2) La Chimera (2)3) Giardino autunnale (Firenze) 3) Giardino Autunnale (Firenze) (3)4) La petite promenade du poète (Firenze) 4) La Speranza (sul torrente notturno)

(8)5) Il canto della tenebra (Tono minore) 5) L’invetriata (7)6) Scirocco serale (Piazza S. Petronio) 6) Il canto della tenebra (5)7) L’invetriata 7) La sera di fiera (9)8) Sul torrente notturno. La speranza 8) La petite promenade du poète (4)9) La notte di fiera 9) La Verna (12)

Immagini del viaggio e dellamontagna

10) «Amo le vecchie troie» 10) «... poi che nella sorda lotta notturna» (13)

11) Firenze 11) Viaggio a Montevideo (15)12) Il mattino: Il pellegrinaggio: Le sorgenti *12) Fantasia su un quadro di

Ardengo Soffici13) Alba 13) Firenze (Uffizii) (11)14) Giro d’Italia in bicicletta (1° arrivato *14) Batte botte

al traguardo di Marradi)15) «Ma un giorno» *15) Firenze

*16) Faenza*17) Dualismo (Lettera aperta a

Manuelita Etchegarray)

89 Nella colonna di sinistra sono elencati i componimenti e le sezioni del Più lungo giorno, in quella di destra quel-li dei Canti Orfici; nella prima colonna sono indicati in corsivo i componimenti che non appariranno più nei Canti Or-fici; nella seconda colonna sono indicati con un asterisco i componimenti che appaiono per la prima volta in questaraccolta; nella seconda colonna segue ai titoli un numero tra parentesi, che indica in quale posizione si collocava inprecedenza quel componimento nella prima raccolta, ove presente.

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*18) Sogno di prigione*19) La giornata di un nevrastenico

(Bologna)

Varie e frammenti

*20) Barche amorrate*21) Frammento (Firenze)

III. Il viaggio e l’incidente

16) Passeggiata in tram fino in America 22) Pampa (17)e ritorno *23) Il Russo

17) Pampa 24) Passeggiata in tram in America e ritorno (16)

*25) L’incontro di Regolo*26) Scirocco (Bologna)*27) Crepuscolo mediterraneo*28) Piazza Sarzano

18) Il canto di Genova 29) Genova (18)Preludii mediterranei

Da questo raffronto emerge con chiarezza che esiste in realtà un solo libro, iCanti Orfici, – e che di questo libro Il più lungo giorno rappresenta soltanto unmoncone: forse neanche un progetto di libro destinato alla pubblicazione, ma uninsieme di testi da esibire agli intendenti perché ne trascegliessero qualcosa a loropiacimento. Infatti.

Il più lungo giorno è costituito da diciotto componimenti poetici, di cui cin-que in prosa, o misti di prosa e versi, e tredici in versi. I Canti Orfici sono costi-tuiti da ventinove componimenti. Di questi quindici erano già presenti nella ste-sura precedente; i tre caduti (6, 10, 14) sono interamente in versi. Ce ne sono benquattordici nuovi (quasi la metà); di questi, dieci sono prosastici. Il rapporto tra iversi e la prosa si è dunque decisamente riequilibrato: quindici componimenti inversi e quattordici prosastici90.

È del tutto evidente che le partizioni introdotte nei Canti Orfici intendonosegnalare esattamente la presenza di un percorso. Dopo La notte, che, sia purecon profonde rielaborazioni, apre ambedue le stesure, la sezione Notturni rac-coglie e risistema tutte le grandi poesie, che hanno come tema ispiratore la con-

90 I primi comprendono: La Chimera, Giardino autunnale, La speranza, L’invetriata, Il canto della tenebra, La seradi fiera, La petite promenade (ossia, l’intera sezione dei Notturni, tutta poetica), «... poi che nella sorda lotta notturna»,Viaggio a Montevideo, Fantasia su un quadro di Ardengo Soffici, Firenze (Uffizii), Batte botte, Barche amorrate, Fram-mento (Firenze), Genova. I secondi: i due grandi poèmes en prose La Notte e La Verna, ognuno dei quali precede e in-quadra un lungo momento poetico, e Firenze, Faenza, Dualismo, Sogno di prigione, La giornata di un nevrastenico,Pampa, Il Russo, Passeggiata in tram, L’incontro di Regolo, Scirocco, Crepuscolo mediterraneo, Piazza Sarzano.

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templazione della notte. Scirocco serale viene escluso e Firenze spostato piùavanti, perché, appunto, non così esplicitamente notturni come gli altri. «Amole vecchie troie» viene soppresso perché di tonalità non più conveniente alle al-te ambizioni dei Canti Orfici; per lo stesso motivo viene censurato della partecentrale, riferentesi più esplicitamente al mondo della prostituzione fiorentina,La petite promenade du poète.

La sezione dei Notturni ha una tonalità uniformemente elevata; ma sicco-me nelle poetiche avanguardistiche il sublime ha sempre da dar di gomito nelgrottesco, ecco che La sera di fiera si conclude con un andante facile e voluta-mente popolaresco, un vero e proprio scioglilingua («una canzonetta volga-ruccia», v. 25), che a sua volta anticipa e prepara le movenze realistico-grotte-sche de La petite promenade, sia pur depurata delle parti più crude. Segue poiper contrasto il diario sublimizzante e mistico della Verna, dove il vagabon-daggio s’incontra con gli innumerevoli fantasmi cristiani della devozione reli-giosa italiana.

Nell’incerta struttura grafica del volume Immagini del viaggio e della mon-tagna potrebbe esser considerato in maniera egualmente legittima sia il titolodel singolo componimento «... poi che nella sorda lotta notturna», sia il titolodell’intera sezione che segue, dedicata appunto al tema del viaggio, che arrivafino a La giornata di un nevrastenico. Da qui comincia il rinnovamento più radi-cale nella struttura del testo, quasi del tutto nuovo. La Fantasia su un quadro diArdengo Soffici ha il valore di una dichiarazione di poetica della modernità, eforse proprio per questo è inserito qui, oltre che per il riferimento della pitturaa un cafè chantant d’America (che è comunque ambientazione esotica).

In Varie e frammenti ci sono componimenti anche molto diversi fra loro, masostanzialmente prosegue la serie dedicata alle impressioni e agli incontri di viag-gio. Anche qui sono predominanti i componimenti del tutto nuovi rispetto al Piùlungo giorno.

Il “libro” finisce con tre componimenti dedicati a Genova: Crepuscolo medi-terraneo, Piaggia Sarzano e la grandiosa raccolta di liriche, più che singola lirica,riunite sotto il titolo di Genova.

Nel passaggio dal Più lungo giorno ai Canti Orfici si verifica lo stesso gioco dirielaborazioni, rifusioni e sottrazioni che fra le poesie del Quaderno e le altre dueraccolte. Si accentuano e si moltiplicano i richiami tra un componimento e l’altro(per esempio, tra La Verna, da una parte, La Notte e La Chimera, dall’altra; il Gi-ro d’Italia in bicicletta, che scompare come componimento a sé, viene ripreso nel-la parte centrale di «... poi che nella sorda lotta notturna»; ecc.).

Sulle tracce dei metodi compositivi e delle intenzioni progettuali del poetaci mette un appunto a p. 38 del Taccuinetto faentino, sul quale ha giustamente

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attirato l’attenzione la Ceragioli91. Vi troviamo scritto: «Novelle a gran velocità.Il russo l’incontro». Successivamente integrato e corretto con varie interpola-zioni, si potrebbe alla fine leggere: «Novelle (titolo del libro: incidenti) a granvelocità | Il russo l’incontro | da unirsi a impressioni di città prose e poesie | fi-nisce i notturni | chiaro di luna poesia per ridere | parte prima del libro i not-turni | e [tutto] il libro finisce nel Più chiaro giorno | di Genova e la discussionesull’arte | mediterranea»92. Si tratta, non v’è dubbio, di un abbozzo sommariodella struttura dei libro, ad uno stadio ormai avanzato di elaborazione. Per «ti-tolo del libro: incidenti», si rammenti che una delle sezioni del Più lungo giornos’intitolava «Il viaggio e l’incidente». Definisce con grande chiarezza «novelle agran velocità» (intitolazione dal sapore futuristico) Il russo e L’incontro di Rego-lo. Nella lettera di presentazione a Prezzolini aveva preannunziato: «Scrivo no-velle poetiche e poesie [...]»93.

5. Il «colophon».

In fondo al volume, ma come incorporato al testo, – lo separa dall’ultima riga diGenova una semplice barra nera, – Campana ha inserito in forma di colophon i se-guenti versi di Walt Whitman:

They were all tornand cover’d with

the boy’sblood

Si tratta di una citazione dal Song of Myself (v. 34) del poeta americano, chenell’originale suona esattamente: «The three were all torn and cover’d with theboy’s blood»94. Nella riduzione di Campana si potrebbe tradurre: «Erano tuttistracciati e coperti del sangue del fanciullo». Sull’importanza attribuita da Cam-pana a questa “chiusura”, si pensi a quanto il poeta ne dice nella solita lettera aEmilio Cecchi del marzo 1916: «Se vivo o morto lui si occuperà ancora di me laprego di non dimenticare le ultime parole [...] che sono le uniche importanti dellibro. La citazione è di Walt Whitman che adoro nel Song of myself quando parladella cattura del flour [sic] of the race of rangers»95. È evidente che Campana s’i-

91 Cfr. F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Il Russo, in ID., Canti Orfici cit., p. 380.92 D. CAMPANA, Taccuinetto faentino cit., p. 267.93 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914, in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 56.94 Nel brano in questione Whitman descrive, con accenti epici e commossi, il massacro di Alamo: cfr. w. WHIT-

MAN, Song of Myself, 1855 (trad. it. di E. Giachino, Il canto di me stesso, in ID., Foglie d’erba e Prose, Torino 1956,pp. 141-42).

95 D. CAMPANA, Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., pp. 141-42.

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dentifica con la sorte dei giovani massacrati a tradimento nella poesia di Whit-man. E ciò è molto importante, perché risulta a questo punto ben chiaro che frala «tragedia» del sottotitolo e questa conclusione (addirittura le uniche parole im-portanti del «libro») esiste un nesso preciso, – autobiografico, certo, come è statonotato96, – ma anche filosofico, cosmico. La poesia è concepita come sacrificio dise stesso, frutto inerme della persecuzione, infine, letteralmente, massacro dell’in-nocente, vittima sacrificale. L’inserimento del colophon è una delle tante chiaviiniziatiche di lettura sparse nel testo.

6. La «partenza» e il «ritorno».

Nella poesia di Campana è fondamentale, – ovviamente, – il tema dei viaggio: mail viaggio per lui è soprattutto la congiunzione di due momenti, che, normalmen-te, in un viaggio possono ma possono anche non essere ambedue presenti: la par-tenza e il ritorno. «Così conosco una musica dolce nel mio ricordo senza ricor-darmene neppure una nota: so che si chiama la partenza o il ritorno [...]» (La Ver-na, p. 131). Una certa “circolarità” è dunque intimamente connessa con la visionedel viaggio da parte di Campana: si pensi, ad esempio, a La Verna: da Marradi aMarradi; oppure al vagabondare stesso del poeta lungo le strade del mondo: daMarradi all’universo; e dall’universo a Marradi.

Ma accanto al tema del viaggio fisico, geografico, esperienziale, Dino Campa-na ha sempre ben presente il tema del viaggio mentale, che si svolge secondo gliinconsueti e spesso insondabili assi (e parallassi) immaginari del tempo, – passato,presente, futuro, – e tra i diversi punti del suo cervello, ognuno dei quali assumela forma e la funzione di un luogo da osservare e da descrivere.

Ora, questa anticipazione delle tematiche più tipicamente campaniane miserve a chiarire che anche i Canti Orfici, nella loro essenziale struttura, nella di-sposizione delle parti e nell’indice dei componimenti, si pone come un viaggioo, forse sarebbe meglio dire, un percorso, che, in termini fisici, va dalla pesantebarbarica notte faentina alla luminosa «infinitamente occhiuta» notte mediter-ranea97 e, in termini psichici, va dalla cupa desolazione di quell’ingresso agli In-feri, che è La Notte, a quella sorta di liberazione spirituale, – un autenticamentedantesco «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno, XXXIV, 139), – che èla poesia di Genova. Converrebbe forse, in una qualche prospettiva di facilevolgarizzazione campaniana, sostenere un’interpretazione del testo opposta a

96 F. CERAGIOLI, Commento a D. CAMPANA, Canti Orfici cit., pp. 418-19.97 Sono gli ultimi due versi di Genova: «Nuda mistica in alto cava | infinitamente occhiuta devastazione era la not-

te tirrena» (vv. 158-59, p. 234).

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questa, come progressiva discesa del poeta verso la parte più oscura dell’essere.I Canti Orfici, invece, descrivono un’esperienza spirituale non molto dissimileda quella compiuta nell’Inferno da Dante, il quale, a furia di scendere, si trovòalla fine salito (e rovesciato) ad una dimensione più elevata di quella di parten-za. Anche per Campana il viaggio è, nonostante le apparenze, ritorno ad unapiù vera patria: il percorso è dunque ascensionale: «E dentro il cavo de la notteserena | e nelle braccia di ferro | il debole cuore batteva un più alto palpito [...]»(Genova, vv. 154-56). Il punto estremo del “ritorno” allude dunque ad un pos-sibile stato di liberazione, su cui tuttavia incombono, a ricordare la “tragedia”dell’autore, i versi ammonitori di Whitman.

III. TEMATICHE.

1. La notte e il canto.

La condizione propria del poeta orfico è la notte: è nella notte che si celebrano esi chiariscono i misteri; è nella notte che il canto può alzarsi più puro, più con-centrato, meno condizionato dal necessario rapporto con gli altri uomini e con lastoria, che la luce e il giorno invece favoriscono.

Notturna è l’ambientazione, et pour cause della Notte, che si colloca tra uninfuocato crepuscolo e l’ombra più fonda, inframezzata di luci e di suoni, e deiNotturni, compresa quella, volutamente becera e un po’ disgustosa, de La peti-te promenade: questa è l’apertura, grandiosa, del libro. Ma preponderanti ele-menti notturni sono presenti anche in Firenze, Dualismo, La giornata di un ne-vrastenico. Tutto notturno, – e di una notturnità profonda e sconvolgente, – èPampa. Anche «... poi che nella sorda lotta notturna», che inizia da un tormen-tato risveglio, si chiude con ritorno alla notte, che Campana carica di ogni pos-sibile riferimento psichico e letterario: «Ecco la notte: ed ecco vigilarmi | e lucie luci: ed io lontano e solo: | quieta è la messe, verso l’infinito | (quieto è lo spir-to) vanno muti carmi | a la notte: a la notte: intendo: solo | ombra che torna,ch’era dipartito...» («... poi che nella sorda lotta notturna», vv. 72-77, p. 139).Egli ultimi tre componimenti del volume, – Crepuscolo mediterraneo, PiazzaSarzana, Genova, – sono una lunga, rinnovata immersione nelle tenebre dellaNotte, che si conclude con gli ultimi due straordinari versi di Genova: «Nudamistica in alto cava infinitamente occhiuta devastazione era la notte tirrena»(Genova, vv. 158-60, p. 234).

La notte è per Campana la madre di tutte le forme dell’esistenza: essa è ri-cettacolo di meditazione (Pampa); luogo di disfrenamento e di visionarismo (LaNotte); scoperta del mito (La Chimera); luogo dello spirito dove è possibile

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scorgere un altro mondo («le stelle vivide nei pelaghi del cielo», La Chimera, v.18, p. 105); alvo materno nel quale rientrare sconfitti (Sogno di prigione); pre-monizione di morte (Il canto della tenebra); più precisa nozione della inevitabi-lità della sofferenza umana («[...] è fatua la sera e tremola ma c’è | nel cuore del-la sera c’è, | sempre una piaga rossa languente», L’invetriata, vv. 9-11, p. 109);luogo dell’imbestiamento e della corruzione (La Notte, La petite promenade, Fi-renze), che tuttavia prelude, come in tutti i casi di “maledettismo” e di trasgres-sione, ad una visione più pura e sublimata dell’esistenza (come nella conclusio-ne della Notte e in Genova): «Fuori è la notte chiamata di muti canti, pallidoamor degli erranti» (La Notte, p. 10298; dove il motivo del vagabondaggio («er-ranti») è collegato a quelli dell’amore e della poesia, secondo un’associazioneche ritorna insistentemente in Campana).

L’impresa di sciogliere in precise spiegazioni razionali tutti i nodi della poesiacampaniana è non solo difficile ma anche rischiosa, perché è contraria alla logicacui il poeta si rifà con rigore estremo. Quel che il critico può fare, in un caso delgenere, è non tanto restituire il senso ultimo di certe affermazioni quanto tentaredi ricostruire il “sistema semantico”, cui Campana si è ispirato e che ha voluto nelsuo linguaggio trasmetterci.

Se ragioniamo in questo modo, vediamo che la notte, – la quale è per lui qua-si un sinonimo di “ispirazione poetica”, – sta al centro di una vera e propria co-stellazione di termini e di concetti, che nel loro insieme costituiscono una partenon irrilevante dell’intero sistema poetico campaniano.

La notte, ad esempio, – in quanto rappresenta, per così dire, un fisiologico“sfondamento” del campo visivo e dei limiti della percezione, – viene a confinarestrettamente con la nozione di “infinito”. Lo abbiamo visto nei versi già citati di«... poi che nella sorda lotta notturna» (vv. 74-76) e di Genova (vv. 158-59, p. 234);ma ancora in Genova, dove è motivo ricorrente e fondamentale: «sulla tacita infi-nita | marina chiusa nei lontani veli» (vv. 2-3, p. 229, c.n.); e «Nel paesaggio miti-co di navi nel seno dell’infinito» (vv. 90-91, p. 232, c.n.). L’uso di questo “sistemasemantico”, metaforico-simbolistico, ha un aspetto scenografico, – la dimensionenotturna in La Notte, ne La Chimera99 in Pampa, in Genova, appare come l’im-menso suggestivo velario, su cui si proietta l’intima tragedia del poeta, – e unaspetto ideale, che si dipana lungo assi precisi.

Ad esempio, anche dalla ristretta campionatura, che in questo caso possopresentare, risulta con grande chiarezza l’importanza della serie “notte —> infini-to, nulla —> morte”: naturalmente, per tener fede alle mie avvertenze precedenti,

98 Cfr. anche La Speranza (sul torrente notturno), v. 5, p. 108.99 Cfr. La Chimera, vv. 16-20, p. 105.

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devo subito precisare che la serie non va letta in modo strettamente lineare mapiuttosto come un insieme di motivi, che continuamente si influenzano e si corri-spondono a vicenda. Infatti, variando solo alcuni elementi della sequenza, se nepotrebbe ricavare quest’altra, che ha molti punti di contatto con la prima, ma unaconclusione opposta: “notte —> infinito, stelle —> felicità”.

Un esempio della prima sequenza:

Chi le taciturne porteguarda che la Notteha aperte sull’infinito? [...]

Per l’amor dei poeti, porteaperte de la mortesu l’infinito! (La Speranza (sul torrente notturno), vv. 9-11 e 15-17, p. 108).

E un esempio della seconda:

Ne la seracalida di felicità, lucentein un grande in un grande velariodi diamanti disteso nel crepuscolo [...].

Velario d’oro di felicitàè il cielo ove il sole ricchissimolasciò le sue spoglie preziose [...]100. (Genova, vv. 92-95 e 110-12, pp. 232-33).

Si noti che «felicità» è termine che ricorre, se non erro, prevalentemente nelconclusivo e ascensionale Genova, il cui ruolo di punto d’arrivo e di sublimazionedell’intero processo anche da questo punto di vista si conferma101.

Con il “sistema semantico” della notte hanno a che fare anche tutti quegli attri-buti e nozioni, che rimandano a loro volta all’incertezza e all’indeterminatezza diquello spazio della luce che sta fra il crepuscolo e la tenebra. Ad esempio, «ambi-guo»: «Per i vichi marini nell’ambigua | sera cacciava il vento [...]» (Genova, vv. 43-44, p. 230); «I palazzi marini avevan bianchi | arabeschi nell’ombra illanguidita | edandavamo io e la sera ambigua [...]» (ibid., vv. 46-48, pp. 230-31); «[...] e canti | udi-vo lenti ed ambigui su le vene de la città mediterranea» (ibid., vv. 143-44, p. 234).

Oppure, «ignoto»: «[...] o sorriso | di lontananze ignote | fosti» (La Chimera,vv. 2-4, p. 105); «Ma per il tuo ignoto | poema di voluttà e di dolore [...]» (ibid.,vv. 10-11); «D’ignota scena fanciulla sola» ( Viaggio a Montevideo, v. 6, p. 140);«come un ignoto turbine di suono» (Genova, v. 17, p. 229).

100 I «diamanti», di cui al v. 95, sono le stelle che cominciano ad apparire in questo fulgido crepuscolo.101 Ma cfr. anche Pampa, p. 184.

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Ma si capisce che, sia pur promanando dalla dimensione notturna, aggettivicome «ambiguo» e «ignoto» finiscono per colorare d’una sfumatura tutta lorol’impianto semantica dell’intera poesia campaniana: la quale, non a caso, si muo-ve costantemente sull’incerto, mobile confine che sta fra l’immaginario esistenzia-le e l’immaginario cosmico, fra il mito e il “fenomeno”.

1.1.Mitico/mistico.

La notte si popola d’immagini, di vibrazioni, di luci, – e di “forme”. La notte“produce” forme, che l’occhio poetico coglie come manifestazioni elementari del-l’essenza: «[...] la bianca notte mediterranea scherzava colle enormi forme dellefemmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellensi dal cavo dei lampioni»(La Notte, p. 98); «[...] sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innu-merevoli sogni dell’ombra» (ibid., p. 99); «a me trepidante la vita passava avantinelle immortali forme serene» (Crepuscolo mediterraneo, p. 218).

Ma, per quel sottile gioco di rapporti e di scambi tra fenomeno ed essenza,che costituisce tanta parte della poesia campaniana, il gioco delle “forme”, –come quello, con esso strettamente intrecciato, dei nomi, delle luci e dei colori,– esce continuamente dalla sfera puramente visiva, non dico per non più rien-trarvi, ma per configurare una sfera superiore delle sensazioni e delle percezio-ni, che trascende l’esperienza. La poesia di Campana tende a creare miti, se-condo un’accezione classico-orfica, che il poeta rivisita con sensibilità moder-na, perfettamente decadente. E il mito, nella sua accezione più antica, è con-crezione di esperienze, che si sublimano in un’idea e in un’immagine ricorren-te. Ma, poiché per Campana il mito diventa associazione vivente di antico e dimoderno, di originario e di decrepito, in lui il termine «mitico» assai spessos’accosta e si lega al termine «mistico» (come del resto già s’è visto in molti de-gli esempi precedenti):

Inconsciamente io levai gli occhi alla torre barbara che dominava il viale lunghissimodei platani. Sopra il silenzio fatto intenso essa riviveva il suo mito lontano e selvaggio:mentre per visioni lontane, per sensazioni oscure e violente un altro mito, anch’esso mi-stico e selvaggio mi ricorreva a tratti alla mente. (La Notte, pp. 83-84, c.n.).

E ancora: «Un calore dorato nell’ombra della stanza presente, una chiomaprofusa, un corpo rantolante procubo nella notte mistica dell’antico animale uma-no» (ibid., p. 96, c.n.). Oppure, su di un altro registro, ma continuando e svilup-pando il medesimo discorso: «E allora figurazioni di un’antichissima libera vita,di enormi miti solari, di stragi di orgie si crearono avanti al mio spirito. Rividiun’antica immagine, una forma scheletrica vivente per la forza misteriosa di un mi-to barbaro [...]» (ibid., pp. 96-97, c.n.).

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Il mito, dunque, è l’apertura fantastica su di una dimensione spazio-tempora-le, in cui il passato e il presente convivono e luoghi diversi possono essere poeti-camente, analogicamente accostati fra loro. Nella Verna «mitico» e «mistico» tro-vano la loro fusione più piena, nel nome di una «leggenda francescana» (p. 125)rivissuta anch’essa come proiezione d’un passato, che congiunge insieme «la tel-lurica melodia della Falterona» (p. 127) e la «divina dolcezza notturna» (p. 124)del paesaggio sottostante: le divinità ctonie e quelle celesti, in una fusione di im-maginari, che potrebbe essere definita, – se la contraddizione fosse intesa nei suoigiusti termini, – pagano-cristiana. Il simbolo di questa sintesi è il paesello di Cam-pigno, il quale è, al tempo stesso, «paese barbarico, fuggente, paese notturno, mi-stico incubo del caos» (p. 128, c.n.).

1.1.1. Barbarismi ed esotismi. Il corredo dell’immaginario mitico-misticospazia dal primitivo al moderno e s’apre allo spazio illimitato della conoscenza edel viaggio.

Nella poesia di Campana ci sono, come del resto abbiamo già visto dalle cita-zioni precedenti, barbarismi: «Una antica e opulenta matrona, dal profilo di mon-tone, coi neri capelli agilmente atlanti sulla testa sculturale barbaramente decora-ta [...]» (La notte, p. 86); bizantinismi e orientalismi: «Dormiva l’ancella dimenti-ca nei suoi sogni oscuri: come un’icona bizantina, come un mito arabesco imbian-cava in fondo il pallore incerto della tenda» (ibid., p. 96); «Laggiù nel crepuscolola pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo no-bilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa nobilee mitica donata dell’enigma delle sfingi» (La Verna, p. 132)102; esotismi, che, senzasoluzioni di continuità, ma pressoché sullo stesso piano spazio-temporale, si ri-chiamano anch’essi al motivo del barbarico e del primitivo:

Andavamo andavamo per giorni e per giorni: le navigravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente [...]

ed ecco: selvaggiaa la fine di un giorno che apparve

la riva selvaggia là giù sopra la sconfinata marina [...].(Viaggio a Montevideo, vv. 32-33 e 36-38, p. 141).

1.1.2. La Chimera. In questo corredo d’immagini mitiche, che qualche voltanei momenti di stanchezza diventa armamentario stanco e un po’ demodé e chetuttavia riempie la poesia campaniana di personaggi misteriosamente seducenti, –

102 Si noti particolarmente in questo brano il ricco intreccio di motivi mitici, che si richiamano a piani anche di-versi del discorso: sì che lo stesso immaginario che produce un modello femminile da «icona bizantina», richiama apochissima distanza il modello della «sfinge».

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la matrona barbarica, le «sagome nere di zingari mobili e silenziose sulla riva» (LaNotte, p. 83), «la barba giudaica di un vecchio» (ibid.), l’ancella dal volto d’iconabizantina e dal corpo di sfinge, la «bronzina» «fanciulla della razza nuova» (Viag-gio a Montevideo, vv. 34-35, p. 141), – si consolidano qua e là, riempiendosi di si-gnificati riposti, figure e immagini, che diventano i miti personali, ancestrali, delpoeta. Uno di questi, e forse il più importante, è la Chimera.

Non so se sia stato sufficientemente notato che la Chimera è in sé figura mi-tologica della più grande stranezza103, tanto è vero che essa è passata a designareper antonomasia le illusioni più sfrenate e inverosimili degli umani104. Nella poe-sia che Campana le dedica essa appare come la figura misteriosa che l’occhio delpoeta vede apparire nelle condizioni di lontananza e di oscurità che la situazionedescritta delinea, – «pallida» ed «esangue», perché i suoi colori sono appuntoquelli della lontananza e del mistero, – come proiezione di un desiderio al tempostesso insopprimibile e inattingibile: sorella della Gioconda leonardesca (anch’es-sa lontana e impenetrabile come un mito), della Cerere-Proserpina, rapita da Plu-tone e divenuta regina degli Inferi, e della Santa Cecilia del dipinto di Raffaello105;e al tempo stesso creatura autonoma della fantasia campaniana, pura immaginedella sua insoddisfatta richiesta di amore proiettata all’intorno sul cosmo intero edestinata a restare senza risposta:

guardo le bianche rocce le mute fonti dei ventie l’immobilità dei firmamentie i gonfi rivi che vanno piangentie l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algentie ancora per teneri cieli lontane chiare ombre correntie ancora ti chiamo ti chiamo Chimera. (La Chimera, vv. 27-32, p. 106).

In questi che sono sei tra i versi più belli del Novecento italiano risalta conchiarezza inconfondibile ciò che intendo per caratterizzazione mitica della poesiacampaniana. L’indeterminatezza del simbolo, – a me pare indifferente che si trat-ti di una versione dell’Eterno Femminino oppure, come altri vogliono, di una raf-figurazione della Poesia, – consente d’allargare lo sguardo alla visione cosmica incui esso s’inquadra, dove l’acqua, l’aria, la terra, – gli elementi-base del mondo, –s’allacciano strettamente al fuoco della passione poetica, che insegue, insegue e

103 La Chimera è, com’è noto, un mostro mitologico dalla testa di leone, corpo di capra e coda di drago: dalla boc-ca alita fiamme. Dino Campana poteva averne visto l’esemplare scultoreo più famoso, d’origine etrusca, presso il Mu-seo Archeologico di Arezzo. Naturalmente, l’uso che il poeta ne fa è essenzialmente metaforico e simbolico: non èperò senza significato che il suo immaginario rimanesse colpito, anzi folgorato, da una «figura» così singolare.

104 E in questo senso viene usata da Campana in Il Russo, p. 194: «Nella camerata non c’era che il tanfo e il respi-ro sordo dei pazzi addormentati dietro le loro chimere».

105 Cfr. N. BONIFAZI, Dino Campana cit., p. 135.

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continua ad inseguire senza posa se stessa: pura espressione di desiderio, ripeto,contro i ristretti confini della carne umana, del tempo e dello spazio.

Altrove, coincidendo in questo caso il chimerico sogno con la predilezionedel poeta per l’universo stellare:

ed io gli occhi alzavo su ai millee mille e mille occhi benevolidelle Chimere nei cieli:... (Genova, vv. 49-51, p. 231);

in questo caso, l’identificazione stelle-chimere è diretta e porta ad inserire la figu-ra di questo mito in una delle catene semantiche già descritte, dimostrando ancheper questo verso come funziona il processo, associativo e analogico, della compo-sizione campaniana.

2. Il poeta e la poesia.

Da quanto sono venuto finora esponendo dovrebbe risultare evidente che il poe-ta è non solo protagonista pressoché costante della sua poesia, ma anche tema, ar-gomento privilegiato di essa. Le due cose, per quanto possa apparire arduo, sonodistinguibili. C’è nella poesia di Campana un personaggio che dice «io» e che rac-conta le sue esperienze. Ciò accade in quasi tutti i componimenti, e spesso in po-sizione semanticamente molto significativa, come ad esempio all’inizio del discor-so, in posizione, musicalmente, di “attacco”: «Ricordo una vecchia città [...]» (LaNotte, p. 83); «Non so se tra roccie il tuo pallido | viso m’apparve [...]» (La Chi-mera, vv. 1-2, p. 105); «Il cuore stasera mi disse: non sai?» (La sera di fiera, v. 1, p.105); «Io vidi dal ponte della nave [...]» (Viaggio a Montevideo, v. 1, p. 140); ecc.L’«io» è spesso assolutamente, prepotentemente centrale: esso si assimila total-mente le caratteristiche della poesia che produce, come in questo scandito, mar-tellante suo presentarsi al proscenio del cosmo:

[...] io poeta notturnovegliai le stelle vivide nei pelaghi del cielo, io per il tuo dolce misteroio per il tuo divenir taciturno. (La Chimera, vv. 17-20, p. 105, c.n.).

Ciò garantisce il tono uniformemente lirico, alto, dell’esperienza poetica diCampana, che è sempre discorso dell’ego e nell’ego, anche quando il poeta descri-ve situazioni e paesaggi.

Ma il poeta, e la sua poesia, sono anche oggetto, tema, del racconto di quelpersonaggio che dice «io». Questo accade, ovviamente, per ogni forma di poe-sia lirica, che, oltre a raccontare altre cose, racconta sempre anche il suo autore.In Campana, tuttavia, questo aspetto è più accentuato: è come se l’immaginario

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poetico di Campana fosse al tempo stesso soggetto e oggetto di se stesso. L’Or-feo, che sta dietro e dentro il reietto matradese, tende a imporsi come un perso-naggio autonomo; e i Canti sono, come ho già accennato, anche il resoconto del-la sua storia.

Estremamente significativo è che, in un punto nodale de La Notte, il poeta siidentifichi nella figura di Faust: «Faust era giovane e bello, aveva i capelli ricciuti[...] Faust era giovane e bello» (pp. 93-94); poi, con rapido passaggio dalla terzaalla prima persona singolare, che svela il facile arcano: «Oh! ricordo!: ero giovine,la mano non mai quieta poggiata a sostenere il viso indeciso, gentile di ansia e distanchezza [...]. Ero bello di tormento, inquieto pallido assetato errante dietro lelarve del mistero» (p. 94).

Dunque, Faust. Ma cosa di Faust, a parte la non irrilevante conferma del rap-porto con la sempre sovrastante “tragedia” goethiana? Del Faust, io credo, so-prattutto il rapporto con il diavolo, che gli consente di sperimentare fino in fon-do, a rischio della sua anima e della sua ragione, la sfera altrimenti impenetrabiledei misteri mondani («Le larve del mistero»), e l’invalicabile, dolorosissimo dissi-dio tra il livello alto e quello basso dell’esistenza umana, tra lo spirito e la carne,tra l’amore e la morte.

Solo che Campana trasporta lo spunto goethiano in un’aura perfettamentenietzschiana: perché l’avventura del poeta percorre in lui binari fatali, ripeteun’eterna vicenda, è sottomessa fino in fondo alla prepotenza del destino, –buoni o cattivi che siano gli effetti che esso produce su di lui, come sulle altreesistenze, coscienti o incoscienti, che popolano l’universo: ossia «larve che siscioglievano mute per rinascere a vita inestinguibile nel silenzio pieno delleprofondità meravigliose del destino» (Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Et-chegarray), p. 163). Per cui, di fronte alle alternative della speranza e del dolore,ecco l’affermazione decisa e inequivocabile: «io dovevo restare fedele al mio de-stino» (ibid., p. 164, c.n.).

C’è un ritmo, dunque, nell’eterno svolgimento delle vicende cosmiche, che lapoesia coglie, e al quale non resta che adeguarsi. E in questo adeguamento c’è an-che un approssimarsi il più possibile, – l’unico, del resto, concesso alla consape-volezza del poeta, – a quello stato di «illusione», in cui forse consiste l’unica pos-sibile felicità umana:

Gettato sull’erba vergine, in faccia alle strane costellazioni io mi andavo abbandonandotutto ai misteriosi giuochi dei loro arabeschi, cullato deliziosamente dai rumori attutitidel bivacco. I miei pensieri fluttuavano: si susseguivano i miei ricordi: che deliziosa-mente sembravano sommergersi per riapparire a tratti lucidamente trasumanati in di-stanza, come per un’eco profonda e misteriosa, dentro l’infinita maestà della natura.Lentamente gradatamente io assurgevo all’illusione universale: dalle profondità del mio

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essere e della terra io ribattevo per le vie del cielo il cammino avventuroso degli uominiverso la felicità a traverso i secoli. Le idee brillavano della più pura luce stellare. Dram-mi meravigliosi, i più meravigliosi dell’anima umana palpitavano e si rispondevano atraverso le costellazioni. Una stella fluente in corsa magnifica segnava in linea gloriosala fine di un corso di storia. Sgravata la bilancia del tempo sembrava risollevarsi lenta-mente oscillando: – per un meraviglioso attimo immutabilmente nel tempo e nello spa-zio alternandosi i destini eterni. (Pampa, pp. 183-84, c.n.).

Comincia da qui, e da qui si sviluppa, la componente utopica, palingenetica,indubbiamente presente nella poesia di Campana (come, del resto, in tanti poetidell’avanguardia). La scoperta dell’America è decisiva per il processo di rivelazio-ni cui egli perviene. Di fronte alla contemplazione di un universo così diverso emaestoso le barriere del pensiero cadono e si apre la porta ad uno stato di esalta-zione e di conoscenza, talvolta favorito dalla droga, che provoca la nascita di unanuova creatura, ab imis rigenerata:

– Un mistero grandioso e veemente ci faceva fluire con refrigerio di fresca vena profon-da il nostro sangue nelle vene: – che noi assaporavamo con voluttà misteriosa – comenella coppa del silenzio purissimo e stellato [...]. E allora fu che nel mio intorpidimentofinale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere [...]. Mi ero alzato. Sotto le stelle im-passibili, sulla terra deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le bracciaal cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio. (ibid., pp. 183, 186, 187).

L’illusione della pace, – che presenta anche una variante mistica nella Ver-na, – non è però un pacifico e tranquillo punto d’arrivo, una meta ultima e defi-nitiva del percorso. È solo uno dei nodi resistenti dell’esistenza. Più complessi-vamente, la storia dell’illusione si presenta invece come la storia di una scissio-ne. Il Faust è diviso in due. In questo quadro assume un suo rilievo anche l’in-serimento grottesco della Petite promenade du poète, che, pur depurato dei suoiaspetti più crudamente descrittivi, rappresenta pur sempre l’immersione delpoeta in un universo postribolare, raccontato con i mezzi dimessi di una fila-strocca «volgaruccia»: la parte putrida dell’esistenza fa da ineliminabile pendanta quella luminosa, limpida, sottile.

Più in generale ancora: non c’è punto della storia o dello spazio in cui il poe-ta possa trovare requie, neanche in quel lontano Nuovo Mondo, dove pure «lamia vita ritrovò un istante il contatto colle forze del cosmo» (Dualismo (Letteraaperta a Manuelita Etchegarray), p. 161). Da questo punto di vista Dualismo risul-ta decisivo (fin dal titolo) per la comprensione del tema, di cui stiamo parlando.Al sogno d’amore, che la señorita Manuelita Etchegarray gli ha acceso in cuore, sicontrappone in lui la nostalgia invincibile delle origini, in questo caso il fascinodel ritorno, come del resto in altri casi quello altrettanto irresistibile della parten-za: «Il silenzio era scandito dal trotto monotono di una pattuglia: e allora il mio

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anelito infrenabile andava lontano da voi, verso le calme oasi della sensibilità del-la vecchia Europa e mi si stringeva con violenza il cuore [...]» (ibid., p. 162). Inquesto caso la felicità non è, come in Pampa, la contemplazione dell’universo ver-gine del Nuovo Mondo ma al contrario è il ricordo di quello passato, – l’altro la-to del mondo, appunto, che coincide con l’altro lato insopprimibile del poeta: «Ecosì lontane da voi passavano quelle ore di sogno, ore di profondità mistiche esensuali che scioglievano in tenerezze i grumi più acri del dolore, ore di felicitàcompleta che aboliva il tempo e il mondo intero, lungo sorso alle sorgenti dell’O-blio!» (ibid., pp. 163 -64). Appunto, come ho già ricordato: «[…] io dovevo resta-re fedele al mio destino: era un’anima inquieta quella di cui mi ricordavo semprequando uscivo a sedermi sulle panchine della piazza deserta sotto le nubi in cor-sa» (ibid., p. 164, c.n.)106.

2.1.L’Eros.

I Canti Orfici e dunque la storia del poeta sono percorsi da una ininterrotta pul-sione sessuale, – molto più costante e profonda di quanto critici troppo pudichinon abbiano finora rilevato. Il calore intenso, – talvolta torbido ma in molti casiluminoso, – che si sprigiona dai suoi versi e dalle sue prose ha molto spesso que-sta origine.

L’eros in Campana tende spesso a coincidere con quella pura espressione didesiderio, di cui ho già parlato: esso è per lui, prevalentemente, manifestazione diun sogno d’amore, che sgorga dagli abissi più profondi del suo essere e tende a ri-manere insoddisfatto: è una virtualità, più che una realtà; oppure, quando si tra-sforma in realtà, deve acconciarsi ad accettare il compromesso con la dura e spes-so mortificante realtà dell’essere.

L’eros si manifesta in una serie di forme, che si dispongono come lungo unascala digradante (o ascendente, a seconda del punto di vista): anche qui esisto-no degli Inferni e un Paradiso. Ma non è difficile accorgersi che il rapportomercenario, tanto da lui cantato, – e il quale, del resto, ha una lunga storia nel-l’immaginario della poesia simbolista e decadente, – non è la moralistica alter-nativa, il surrogato costrittivo di un amor puro destinato a restare irrealizzabile:è solo un gradino diverso, appunto, che Campana concepisce comunque comeiniziatico. In ogni donna, – signora o prostituta che sia, – l’Orfeo-Campana sco-pre un’Euridice, a cui accostarsi superando una serie di prove (a meno che nonsi precipiti nel grottesco volgare della Petite promenade, ma in tal caso del tutto

106 L’inquietudine del poeta si contrappone al suo sogno d’amore come un ostacolo insormontabile: «So Manueli-ta: voi cercavate la grande rivale [...]» (ibid.).

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intenzionalmente): prova ne sia il complicato rituale cui il poeta sottostà inquello che dobbiamo immaginare “realisticamente” come un modesto lupanaredi Faenza onde pervenire alla conquista dell’«ancella»: dove la Ruffiana attingeal ruolo di «sacerdotessa orientale», mentre l’«ancella», destinata ad esser pos-seduta, anche lei immersa in questa evocativa penombra orientale, si presentacome una misteriosa creatura d’altri luoghi e d’altri tempi: «L’agile forma didonna dalla pelle ambrata stesa sui letto ascoltava curiosamente, poggiata suigomiti come una Sfinge [...]» (La Notte, p. 87). L’accostamento delle due figurefemminili a quella del poeta, – esplicitamente presentata come tale, il che con-ferma alcune delle mie osservazioni precedenti, – definisce ancor più esatta-mente il senso profondo di un tale convito, che, nonostante la sua limitatezzasul piano puramente aneddotico e occasionale, assume la rilevanza di un incon-tro di destini: «[...] la sacerdotessa dei piaceri sterili, l’ancella ingenua ed avidae il poeta si guardavano, anime infeconde inconsciamente cercanti il problemadella loro vita» (ibid.).

Si sale poi sempre più su in questa scala dei desiderio irrealizzato, passandoattraverso le matrone, le zingare, «le bambine dei Bohemiens» (Dualismo (Letteraaperta a Manuelita Etchegarray), p. 163), la stessa Manuelita di Dualismo (ibid.), lafolgorante apparizione della Russa ne La giornata di un nevrastenico («È passata laRussa. La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido. È venuta ed è passa-ta portando il fiore e la piaga delle sue labbra [...])», pp. 172-73); fino alla miticafigura della Siciliana, che unisce in sé la tellurica imponenza delle forme e la sa-cralità millenaria della professione esercitata: «O Siciliana proterva opulente ma-trona | a le finestre ventose del vico marinaro | nel seno della città percossa disuoni di navi e di carri | classica mediterranea femina dei porti [...]» (Genova, vv.135-38, p. 233).

Fin qui siamo, in un modo o nell’altro, nel campo dei sensi. Più in alto il ses-so, il desiderio, l’amore sfumano nella dimensione dell’irreale e del mito, pur sen-za mai perdere il fuoco iniziale. È una figura dell’eros – ovviamente, – anche laChimera, dove l’eros, come ho già detto, torna ad essere espressione di desideriopuro, slancio dell’essere al di là dei confini fisici. Ma se il poeta si prova a tratteg-giare il suo sogno e a dare una forma al mito, ecco che sul volto della Chimera sistampa la maschera incredibilmente sensuale della Russa: «Musica fanciulla esan-gue, | segnato di linea di sangue nel cerchio delle labbra sinuose [...]» (La Chime-ra, vv. 12-14, p. 105).

Ma chimerica è anche quella figura femminile, – che chiameremo la Donnadella Notte, – nella quale l’illusione erotica e il soddisfacimento sessuale sembra-no trovare per un istante un accordo pressoché completo, che trascende persinola dimensione occasionale dell’incontro:

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Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino.Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle allemosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiudessero sudi una duplice ombra. Ed il mio cuore era affamato di sogno, per lei, per l’evanescentecome l’amore evanescente, la donatrice d’amore dei porti, la cariatide dei cieli di ventu-ra. Sui suoi divini ginocchi, sulla sua forma pallida come un sogno uscito dagli innume-revoli sogni dell’ombra, tra le innumerevoli luci fallaci, l’antica amica, l’eterna Chimerateneva fra le mani rosse il mio antico cuore. (La Notte, p. 99).

3. I luoghi e il viaggio.

Come ho già accennato (sezione II, § 6), il “percorso” di Campana non ha soltan-to uno svolgimento verticale, – dall’alto verso il basso, o dal basso verso l’alto, ecomunque dentro i meandri più segreti della sua psiche, – ma ne ha anche unoorizzontale, che corrisponde alla dimensione del viaggio.

Il viaggio è per Campana la forma suprema della conoscenza sensoriale edella esperienza umana. Esso, perciò, – anche quando ha una meta più o menoprecisa, la Verna, Parigi, l’America Latina, – segue il più possibile suoi tempi,suoi ritmi, sue modalità, che non coincidono con quelle di un viaggio normale:più correttamente si dovrebbe definire vagabondaggio, se si liberasse questa pa-rola della sua coloritura moralisticamente negativa e la si riconducesse al suoetimo. Non a caso esso il più delle volte si fa a piedi o con mezzi di fortuna,adattando le modalità del percorso alle esigenze della visione e della conoscen-za, e non viceversa.

Il viaggio è dunque per Campana esperienza di libertà, rottura dei vincoli co-noscitivi e culturali imposti dalle situazioni di “partenza” (è il caso di dirlo), aper-tura illimitata agli orizzonti dell’esperienza. Lo dice benissimo il poeta in quella“novella rapida” di grande intensità e bellezza, L’incontro di Regolo, che è, al tem-po stesso, un ritratto partecipe di un’altra figura di vagabondo e, attraverso que-sto, un autoritratto suo dei più espliciti e rilevanti:

Avevo accettato di partire. Andiamo! Senza entusiasmo e senza esitazione. Andiamo.L’uomo o il viaggio, il resto o l’incidente, Ci sentiamo puri. Mai ci eravamo piegati a sa-crificare alla mostruosa assurda ragione [...].

Voleva partire. Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione e cilasciammo stringendoci semplicemente la mano: in quel breve gesto noi ci lasciammo,senza accorgercene ci lasciammo: così puri come due iddii noi liberi liberamente ci ab-bandonammo all’irreparabile. (L’incontro di Regolo, pp. 206 e 207).

«Mai ci eravamo piegati a sacrificare alla mostruosa assurda ragione»: è unalimpidissima professione di fede nelle ragioni dell’avanguardia, come se ne trovanopoche anche in ambito europeo; è l’orgogliosa affermazione del nesso che passa tra

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la rottura dell’universo razionale e la scelta del viaggio, che, appunto, va contro leregole e contro tutte le costrizioni; ed è anche il riconoscimento che, partire o nonpartire, quel che conta è fare la propria scelta da liberi, la quale nietzschianamentecoincide con l’accettazione del proprio destino (l’“irreparabile”, – ciò che, appun-to, non si può “parare”, che non può essere deviato in una direzione altra).

Il Viaggio di Campana assurge dunque a metafora della sua vita, forse d’ognivita: e come ogni vita assume, l’ho già detto, un’inevitabile forma circolare. Partedall’odioso ventre materno, Marradi (La Verna, pp. 133-34); s’aggira nell’inquietaprovincia romagnola, dove Faenza si presenta come il cupo, barbarico ricettacolodelle prime esperienze adolescenziali e giovanili (La Notte, pp. 83 sgg.)107; sale allaVerna, fra Romagna e Toscana, alla ricerca d’un puro soffio d’aria spirituale (LaVerna, pp. 115-33); s’aggira irrequieto nella tronfia Bologna, la città delle sue fru-strazioni umane e studentesche, contraddistinta dalle sue «sanguigne» luci nebbio-se (La Notte, pp. 92 sgg.)108; sosta ammirato e disgustato ai piedi dei monumenti edelle bellezze fiorentini109; attraversa esaltato le grandezze architettoniche e natu-rali di Milano e delle Alpi, viste in successione, senza soluzioni di continuità (LaNotte, pp. 94-95); intravvede una Parigi notturna e zingaresca (Dualismo (Letteraaperta a Manuelita Etchegarray), p. 163); fa conoscenza con le dimensioni carcera-rie e manicomiali del Belgio110; si spinge fino ai mari giganteschi e fangosi e allepianure vergini e smisurate dell’America del Sud111; rientra e “si ferma” in una Ge-nova solenne e impressionante, ricca di tutte le sfumature dell’esistenza112.

Di ogni luogo egli coglie i tratti e le forme, che più ne restituiscono l’essen-za. Il viaggio, dunque, perde ogni aspetto aneddotico per diventare un percorsodi rivelazione e di conoscenza. Alcuni stilemi o gruppi di stilemi vi assumonouna particolare rilevanza: per esempio, la nave, il mare e il porto; o, per restarealla terra ferma, la forma delle case e delle strade, le quali, come nel caso dei «vi-chi», continuamente ricorrenti nel gruppo di componimenti genovesi, si presen-tano come altrettanti tracciati obbligati dell’esperienza, degli “indicatori” delviaggio da compiere.

In taluni casi le osservazioni si raggrumano in una nuova dimensione mitica,al tempo stesso fisica e spirituale. Penso, ad esempio, alla nozione di «mediterra-

107 Cfr., naturalmente, Faenza, pp. 153-57.108 Cfr., ovviamente, anche La giornata di un nevrastenico (Bologna), pp. 169-75, e Scirocco (Bologna), pp. 209-14.109 Cfr. Giardino autunnale (Firenze), p. 107; Firenze (Uffizi), p. 143; Firenze, pp. 147-51; Frammento (Firenze), p.

180.110 Cfr. Sogno di prigione, pp. 165-67, e Il Russo, pp. 189-95.111 Cfr. Viaggio a Montevideo, pp. 140-41; Dualismo (Lettera aperta a Manuelita Etchegarray), pp. 159-64; Pampa,

pp. 181-87; Passeggiata in tram in America e ritorno, pp. 197-201.112 Cfr. Crepuscolo mediterraneo, pp. 215-19; Piazza Sarzano, pp. 221-25; Genova, pp. 227-34.

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neo», così importante per chiarire sia, come abbiamo già visto, la visione ideolo-gico-filosofica del poeta, sia la sua concreta, fisica percezione del mondo: mito,simbolo, osservazione del fenomeno fisico ed estasi psicologica ed intellettuale sifondono insieme in un brano come questo:

Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze felici, i vichi, dove ancora in alto battagliaglorioso il lungo giorno in fantasmi d’oro, nel mentre a l’ombra dei lampioni verdi nel-l’arabesco di marmo un mito si cova che torce le braccia di marmo verso i tuoi doratifantasmi, notturna estate mediterranea?113. (Crepuscolo mediterraneo, p. 217).

Il viaggio, iniziato nella cupezza tenebrosa e sanguigna delle città e dei borghiromagnoli ed emiliani, si conclude nell’estasi potenzialmente felice della genovesenotte mediterranea: la pulsione del desiderio inappagato ha trovato un suo sbocco,per quanto precario, – e al di là di questo il discorso necessariamente s’arresta.

3.1 La poesia e il Cosmo.

Tra Marradi e la Pampa, la Verna e Place d’Italie, la soffocante tenebra romagno-la e l’immensità aperta e illimitata della Pampa notturna, tra il Mar della Plata e ilporto di Genova, – il poeta stende la rete delle sue relazioni e delle sue associa-zioni, scopre legami invisibili, rivela il “senso” che sta nascosto dietro paesaggi,montagne, rocce, fiumi e porti diversi.

Il mistero interiore si collega orficamente al mistero del Cosmo, che ci circon-da, impenetrabile, con la sua notte tenebrosa, ma anche con le sue stelle, con le suetenebre e con le sue luci. Campana, stabilendo un nuovo diretto rapporto tra lacreazione poetica e la Creazione tout court, – alla maniera, verrebbe voglia di osser-vare, del Leopardi dell’Infinito, – allarga a dismisura lo sguardo dell’osservatore, fi-no a tentare di abbracciare il mondo. Poesia e Cosmo alla fine, si corrispondono,come se fossero le due facce, appunto, della medesima Creazione. Il tema vero del-la poesia campaniana è l’infinito dispiegamento del “fenomeno”: gli strumenti e gliespedienti molteplici usati dal poeta servono essenzialmente a rendere possibile chele parole aderiscano fedelmente alla ricchezza senza limiti dell’osservazione.

IV. MODELLI E FONTI.

In un’opera come Canti Orfici l’indagine sui modelli e sulle fonti si presenta comepotenzialmente ricchissima di suggerimenti e al tempo stesso disperante. Campa-na, infatti, usa il più delle volte i suoi modelli e le sue fonti in un modo non dissi-

113 Ho segnato con il corsivo tutti i termini che si richiamano all’unità profonda di questo «sistema semantico»campaniano, che ho cercato finora di descrivere.

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mile da come un pittore userebbe i colori da stendere sulla sua tela: li prende, listende, li mescola e li confonde, al punto che alla fine il lettore ha l’impressioneche sotto quel viola si celino quel tale rosa e quel tale blu ma senza averne alcunacertezza. Aggiungo che la critica ha dedicato scarsa attenzione a questo punto,che potrebbe risultare addirittura decisivo114. In assenza di precedenti indagini si-stematiche ritengo utile fornire, più che un elenco puro e semplice di riscontri, lalinea di un discorso possibile: la lotta del poeta per piegare al suo punto di vistal’immenso materiale verbale e, come vedremo, iconografico del quale in pochi an-ni s’era impossessato (uomo com’era di letture forse disordinate ma immense).

1. La tradizione poetica italiana recente.

Carducci, Pascoli, D’Annunzio: come avrebbe potuto il giovane apprendista pro-vinciale non cominciare da loro115?

Il rapporto più forte resta a mio giudizio con Carducci: in Quaderno se nehanno le prove, dalla scelta dei metri (per esempio, dalla già chiamata in causasaffica iniziale Il tempo miserabile consumi116 alla predilezione fabbrile per il belsonetto in Sonetto perfido e focoso117 e in Sonetto di Vittoria Colonna118) al gustoper il quadro robusto, sia cosmico che storico. Ma soprattutto io trovo che perCampana il carduccianesimo fu una sorta di solido basamento, una scuola di abi-lità e di forza (soprattutto di forza), sulla quale edificare la sua sregolata avventu-ra degli anni successivi. A questo credo pensasse il poeta quando formulava quel-la domanda in cui è contenuta una parte non irrilevante della sua poetica: «Nonvi sembra che un cafonismo molto carducciano possa essere una base solida per imiei giuochi di equilibrio?»119.

Qualche considerazione in più merita anche il rapporto con Pascoli. In talunicasi il rapporto è diretto, letterale, e per di più in un contesto che avvalora ancordi più la sostanza del riferimento: «Qualche cosa di nuovo, di infantile, diprofondo era nell’aria commossa [...]» (Scirocco (Bologna), p. 213): ovviamente

114 Mi limiterei a segnalare la fine analisi di M. COSTANZO, Cultura e poesia di Campana (1955), in ID., Critica epoetica del primo Novecento (Boine, Campana, Sbarbaro, Rebora), Roma 1969, pp. 81-96; le osservazioni ampiamentesparse in N. BONIFAZI, Dino Campana cit.; le note di commento al testo di F. CERAGIOLI, Commento a D. CAM-PANA, Canti Orfici cit.

115 In una confessione a Pariani, che come molte altre ha l’aria d’esser verisimile, Campana dichiara: «Leggevo quae là. Carducci mi piaceva molto: Pascoli, D’Annunzio. Poe anche: l’ho letto molto Poe» (C. PARIANI, Vita non ro-manzata di Dino Campana cit., p. 48).

116 D. CAMPANA, Opere e contributi cit., p. 297.117 Ibid., p. 309.118 Ibid., p. 353.119 Si tratta della terza delle Storie inviate nell’aprile del 1916 a Mario Novaro (ID., Souvenir d’un pendu cit.,

p. 150).

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L’aquilone, vv. 1-2: «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, | anzi d’antico […]»120.Ma tutto Il Canto della tenebra può dirsi d’impianto pascoliano, dalla metricamorbidamente atteggiata a cantilena (un impasto sorvegliatissirno di versi lunghie, prevalentemente, di novenari) al tema di fondo, – la Morte incombente, – all’u-so reiterato di monosillabi («Più Più Più», v. 13, p. 110) a quella conclusione:«Pùm! mamma quell’omo lassù!» (v. 24, p. 110), che non potrebbe essere più pa-scoliana. Notturni sono del resto molti dei temi della poesia pascoliana, com’è no-to; e pascoliano è il senso profondo della vita che s’annida in tutte le forme dell’e-sistenza, destinato a ritornare anche in Campana (e la poesia del cosmo può averein lui un’ascendenza al tempo stesso e leopardiana e pascoliana).

Discorso diverso bisognerebbe fare per D’Annunzio. Da una parte, infatti,la poesia dell’“imaginifico” non poteva non lasciare tracce nella lussureggiantericerca metaforica e coloristica del nostro autore. Recentemente è stata esplora-ta, senza lasciare ragionevoli dubbi, l’influenza della prosa narrativa di D’An-nunzio sulla poesia campaniana121. Ma gli incroci e i prestiti sono ancora più ric-chi e numerosi. Si prenda, ad esempio, l’inizio di Firenze: «Fiorenza giglio di po-tenza virgulto primaverile» (p. 149). Non c’è dubbio che si tratti di Alcyone, Di-tirambo I, vv. 113-15: «O Fiorenza o Fiorenza, | giglio di potenza, | virgulto pri-maverile»122. Forse d’origine dannunziana è anche l’uso di un termine colto e ar-caicizzante come «cuna»: «angeliche cune» (Sogno di prigione, p. 167): «quandola valle è una cuna | di fiori di sogni di pace»123; «Ma cuna dell’anima mia | è ilsolco del carro stridente»124.

Rovesciando il rapporto, ci si potrebbe anche chiedere se il Notturno dan-nunziano (1921) non debba qualcosa all’idea campaniana dei Notturni. Certo,come ho detto, il «notturno» è situazione pienamente decadente, che circolaininterrottamente nella poesia europea del tempo. Tuttavia, non può non esseresegnalata la coincidenza per cui fra i titoli o sottotitoli significativi del Novecen-to italiano due soltanto si richiamino così esplicitamente alla “notte”, quello diCampana e quello di D’Annunzio: non avrà per caso il prensile, il “camaleon-

120 G. PASCOLI, L’aquilone, vv. 1-2, in ID., Poemetti, a cura di E. Sanguineti, Torino 1972, p. 147.121 A. CORSARO, La prosa narrativa di D’Annunzio nell’opera di Dino Campana, in A. CORSARO e M. VERDE-

NELLI, Bibliografia campaniana (1914-1985), Ravenna 1985, pp. 83-98. Ma bisogna, per questo punto, richiamarsianche alle pagine che Neuro Bonifazi gli dedica nel capitolo Campana e Nietzsche della sua monografia Dino Campa-na cit. (particolarmente alle pp. 61-65). Cfr, inoltre C. GALIMBERTI, Dino Campana, Milano 1967, particolarmentealle pp. 99-102 (dove tuttavia si enfatizza eccessivamente, a mio giudizio, il rapporto fra i due poeti), e M. DEL SER-RA, L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti Orfici», Firenze 1973, passim.

122 G. D’ANNUNZIO, Ditirambo I, vv. 113-15, in ID., Alcyone, ed. critica a cura di P. Gibellini, Milano 1988,p. 53.

123 Ibid., vv. 118-19.124 Ibid., vv. 121-22.

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te”, l’onnivoro “vate” captato una suggestione dal suo modestissimo e sfortuna-tissimo fratello d’arte?

Ma, d’altra parte, deciso e altrettanto inequivocabile è lo stacco polemicocon cui Campana si separa da questo eventuale maestro. Neuro Bonifazi, adesempio, nelle pagine già richiamate, indica con precisione le differenze abissa-li intercorrenti fra i due nell’approccio a Nietzsche. Più in generale direi che ilpolimorfismo campaniano tende ad ottenere un effetto esattamente contrarioall’estetismo dannunziano: per questo il culto delle belle forme mira essenzial-mente al rutilante dispiegamento d’uno splendido scenario; per quello si trattadi passare da uno sguardo di superficie alla comprensione dell’essenza delle co-se e dei “destini” che esse celano. Le espressioni di polemica e talvolta anche disarcastico disgusto nei confronti del Grande Vate sono sparse in tutta la suaopera e nelle sue lettere. A proposito della miseranda situazione intellettuale eculturale italiana: «Ci dondoliamo sulle anche come l’Italia nelle poesie diD’Annunzio che, poveraccio, dell’Europa moderna non capisce proprio nul-la»125; sarcasticamente, delle studentesse bolognesi di scienze naturali: «Nonhanno l’arduo sorriso d’Annunziano palpitante nella gola come le letterate[…]» (La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 172); con violenza maggiore,che attinge ad una lucidità critica estrema:

Mio Carrà, non ho potuto leggere il discorso del Vate [forse uno dei tanti discorsi diguerra di Gabriele D’Annunzio]. È troppo letterato anche nei migliori e peggiori mo-menti. A me sembra che sia la massima cloaca di tutto il letteratume presente passato ditutti i continenti e non mi sento di ritrovarmi nei suoi discorsi. Il dolore del Vate non èil dolore del poeta: è senza nobiltà senza silenzio, senza umiltà, senza luce. Il Vate gra-mofono, quale meccanismo più tedesco di questo? Non vedi che gli estremi si toccanoe l’ironia del destino sferza oggi come uno scudiscio?126.

2. «L’idea simbolista»127.

Alle ambizioni di “modernità” di Campana la recente tradizione poetica italia-na doveva tuttavia apparire al massimo come un materiale verbale da usare co-me calcina per una costruzione tutta diversa. Il suo sguardo perciò si volge allagrande poesia simbolista francese, perché lì egli indubbiamente poteva trovare

125 D. CAMPANA, Lettera a Giuseppe Prezzolini del [4 ottobre 1915], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 98.126 ID., Lettera a Carlo Carrà della [Vigilia di Natale 1917], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 233.127 Traggo il titolo di questo paragrafo da quello di un libro-antologia apparso anni fa a cura di Mario Luzi, in cui

si tentava di ricostruire nella sua configurazione storica il percorso di un grande fenomeno come il simbolismo euro-peo, all’interno del quale anche Campana, con alcune specificazioni che farò più avanti, va ricompreso (M. LUZI, L’i-dea simbolista, Milano 1976).

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il germe della modernità e lo strumento stilistico e formale per coniugare, comeho già detto, esprit e Geist. Nel merito, però, le linee di contatto sono ancoratutte da scoprire.

Le esplorazioni già richiamate di Mario Costanzo128 risalenti ad anni non re-centi, hanno permesso di individuare prestiti e citazioni da Baudelaire, Rimbaud,Verlaine. Qualche ulteriore rilievo si può aggiungere.

In Campana, più di una volta, il motivo mitico della notte si collega a quellodella Notte michelangiolesca, secondo una procedura sulla quale intendo tornarepiù avanti: «[...] poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stan-che di cammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il pe-so di tutto il sogno umano» (La Notte, p. 88); «Caprese, Michelangiolo, Colei chetu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non po-sa [...]» (La Verna, p. 125). Si tratta, inequivocabilmente, di un suggerimento bau-delairiano: «Ou bien toi, grande Nuit, fille de Michel-Ange, | qui tors paisible-ment dans une pose étrange | tes appas façonnés aux bouches des Titans!»129.Egualmente baudelairiano è, secondo me, il riferimento costante in Campana aigrandi artisti del passato, ispiratori di un atteggiamento creativo e superiore an-che ai tempi nostri130.

Un altro personaggio del passato, che ritorna costantemente in Campana, èOfelia, simbolo di vari stadi della condizione femminile, dal più puro al più dege-nerato (dove evidentemente agisce una riflessione del poeta sulle ragioni e sullanatura della follia del personaggio). Ad esempio: «Ofelia la mia ostessa è pallida ele lunghe ciglia le frangiano appena gli occhi: il suo viso è classico e insieme av-venturoso» (Faenza, p. 156); «[...] l’infame cadavere di Ofelia» (La giornata di unnevrastenico (Bologna), p. 175). Direi che a far da serbatoio a queste varie defini-zioni sia il ben noto Ophélie di Rimbaud, in cui già si presenta il motivo della fol-le contemplazione del cavaliere amante nei confronti della povera sventurata(«C’est qu’un matin d’avril, un beau cavalier pâle, | un pauvre fou, s’assit muet àtes genoux!»)131.

Probabilmente a Rimbaud si deve far risalire l’origine di certi giochi ritmici emetrici ben presenti nei Canti Orfici:

Pouacre A le rotteboit: ne la nottenacre batte: ciecovoit: per le rotte

128 Cfr. p. 375, nota 1.129 CH. BAUDELAIRE, L’idéal, in ID., Les fleurs du mal, in ID., Œuvres complètes, Paris 1961, p. 21.130 ID., Les phares, ibid., pp. 12-14.131 A. RIMBAUD, Ophélie, in ID., Poésies, in ID., Œuvres complétes, Paris 1963, pp. 51-52.

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Acre Dentro l’occhioloi disumanofiacre de la nottechoit!132. di un destino

ne la notte133.

Altri nomi, ovviamente, possono esser fatti. A cominciare da quelli che indi-ca esplicitamente il poeta: «Oggi che il cielo e il paesaggio erano così dolci dopola pioggia pensavo alle signorine di Maupassant e di Jammes chine l’ovale pallidosulla tappezzeria memore e sulle stampe» (La Verna, p. 130). Ma poi, sicuramen-te, Verhaeren, per un certo suo colorismo grigio ed intenso e per le sue ambienta-zioni malinconiche e autunnali134; e, molto probabilmente, Paul Laforgue e i Poè-mes barbares di Leconte de l’Isle.

Ma, naturalmente, il nocciolo della questione non è qui, in questi limitati anchese interessanti riscontri. Ciò che dobbiamo chiederci è cosa Campana andasse cer-cando in questi poeti del grande simbolismo francese. La risposta è che vi andavacercando la lezione di un linguaggio poetico all’altezza dei tempi e in grado di espri-mere la “rivoluzione mentale”, di cui egli si sentiva portatore. Secondo la dichiara-zione di un testimone, Mario Bejor, «i due che egli riconosceva, senza dichiararlo,ma da come s’esprimeva, maestri erano Nietzsche per la filosofia e Verlaine per lapoesia; e dell’uno prendeva la dedizione, talvolta malata per eccesso; e dell’altro ilsuperamento violento, egoistico, esplodente a tratti in furori di distruzione»135.

La citazione di Bejor, chiara nella sua sostanza, apre tuttavia un altro proble-ma che si è sempre rimosso nella critica campaniana, senza trovare una definitivasistemazione, e che potrebbe essere sintetizzato in questo modo: fra Verlame eRimbaud quale deve considerarsi il referente poetico più vicino a Campana?

Nonostante la testimonianza di Bejor io penso che la risposta giusta sia: Rim-baud. Verlaine, certamente, doveva aver sedotto la sua ansia di una forma nuovaimpeccabile, di una classicità che sarebbe nata proprio dalla disperazione e dallafollia. Ma a me pare innegabile che l’esperimento di Rimbaud fosse più vicino al-la sua sensibilità, sia per la forma originalissima delle sue opere maggiori, – Les il-luminations e Une saison en enfer, – che egli non può non aver tenuto presentinello strutturare i Canti Orfici, sia per il sistema di idee, di obiettivi, di tematiche,che è caratteristico della poesia rimbaudiana.

Noi non possiamo sapere se la famosa lettera di Rimbaud a Paul Demeny, no-

132 ID., Cocher ivre, ibid., p. 115.133 D. CAMPANA, Batte botte, vv. 30-38, p. 145.134 Segnalo di E. Verhaeren Les heures claires, Un village, Un toit, là-bas, Le port décher, in ID., Choisie de poèmes

- Poesie scelte, a cura di G. Montagna, Firenze 1956, pp. 106-19, 164-67, 168-71, 174-75.135 M. BEJOR, Dino Campana a Bologna (1911-1916) (1943), in D. CAMPANA, Souvenir d’un pendu Cit., p. 295.

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ta come Lettre du voyant136, uno dei documenti capitali della poetica decadente esimbolista in Europa, fosse nota a Dino Campana, pur essendo questo non deltutto impossibile, dal momento che essa fu pubblicata nel 1912 su «La NouvelleRevue française»137. Io dico però che ciò che Rimbaud scrive in questa lettera disé e dunque del Poeta s’adatta mirabilmente al caso di Campana, e ciò può dun-que significare sia che Campana aveva delibato in qualche modo il brano rimbau-diano sia che il brano rimbaudiano definisce e circoscrive con estrema precisionel’ambito entro cui storicamente si sviluppa e prende forma l’immaginario poeticodi Dino Campana. Non sarà perciò inutile prendere visione, per quanto somma-riamente, dei suoi principali contenuti.

Rimbaud comincia da un richiamo allo spirito del Romanticismo, non bencompreso dagli stessi romantici, e punto di partenza imprescindibile di ogni spe-rimentazione poetica nuova: «On n’a jamais bien jugé le romantisme. Qui l’auraitjugé? Les Critiques!! Les Romantiques? qui prouvent que la chanson est si peusouvent l’œuvre, c’est-à-dire la pensée chantée et comprise du chanteur»138. Rim-baud ferma dunque la sua attenzione su questa nozione nuova e decisamente ri-voluzionaria: la poesia non è che “pensiero cantato”: ossia, pensiero che si esprimeda sé, rivelandosi in canto (e si dovrà ammettere che questa identificazione dellapoesia con il canto e del poeta con il cantore sembra fatta apposta per spiegare laposizione di Campana nei Canti Orfici).

C’è dunque qualcosa di misterioso, per Rimbaud, nel processo di creazionepoetica: la poesia è una voce che spira quando e come vuole: il passaggio dal pen-siero all’espressione si potrebbe dire automatico: «Car JE est un autre. Si le cuivres’eveille clairon, il n’y a rien de sa faute. Cela m’est evident: j’assiste à l’éclosion dema pensée: je la regarde: je l’écoute: je lance un coup d’archet: la symphonie faitson remuement dans les profondeurs, ou vient d’un bond sur la scène»139.

So bene che dare dell’automatico al ragionamento sopra citato significa acco-stare oltre la giusta misura Rimbaud alla poetica del surrealismo, nella cui forma-zione tuttavia egli occupa come tutti sanno, un posto estremamente rilevante; maindividuare e sottolineare la possibilità di questi accostamenti servirà anche, comevedremo, a capire meglio Campana.

Rimbaud prosegue: «La première étude de l’homme qui veut être poëte est sapropre connaissance entière; il cherche son âme, il l’inspecte, il la tente, l’ap-prend. Dès qu’il la sait, il doit la cultiver!»140.

136 A. RIMBAUD, Lettera a Paul Demeny del 15 maggio 2872, in ID., Œuvres complètes cit., pp. 269-74.137 Ibid., p. 823.138 Ibid., p. 269.139 Ibid., p. 270.140 Ibid.

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Il poeta deve dunque possedere la propria anima per poterla “dire” fino infondo; ma neanche ciò è sufficiente al bisogno di trasformazione e di rinnova-mento, da cui la “nuova poesia” è mossa: bisogna andare al di là della normalitàpsichica e sensoriale, entro cui la “vecchia poesia” è rimasta costretta: «[...] il s’a-git de faire l’âme monstrueuse [...]. Imaginez un homme s’implantant et se culti-vant des verrues sur le visage»141.

Alla luce di queste affermazioni rimbaudiane la cosiddetta “follia” di Campa-na, – in pratica il suo disordine, la sua irregolarità, il suo ostinato nomadismo, –potrebbe esser guardata con altri occhi.

Infine: «Je dis qu’il faut être voyant, se faire voyant»142. Poeta e veggente dun-que s’identificano (e quanto questo abbia a che fare con l’idea della poesia che sifa canto non è difficile capirlo). Il poeta è veggente, anzi deve farsi veggente. E co-me? L’ultima risposta è davvero decisiva: «Le Poëte [si noti che a questo puntocompare la maiuscola] se fait voyant par un long, immense et raisonné dérègle-ment de tous les sens […]»143. Questo, «lungo, immenso» e, si noti, persino «ra-gionato» (cioè sistematico, programmatico e dunque totale) «sregolamento di tut-ti i sensi» è davvero la chiave di volta di una poetica simbolista che tende ormai asuperare i suoi stessi limiti.

Spiegare Campana con Rimbaud non deve apparire un’operazione azzardata.Io uso Rimbaud come una chiave per penetrare nell’universo del nostro poeta: sela toppa si adatta, vuol dire che l’esperimento non è del tutto infondato. Vedremoche lo si può spingere anche più avanti.

3. Gli anglo-sassoni.

Dell’ammirazione di Campana per Poe abbiamo numerose testimonianze; madire come e dove questo scrittore abbia influenzato la sua poesia sarebbe moltopiù arduo. Il caso di Walt Whitman è invece assai diverso. Non solo, infatti,Campana dichiara di «adorarlo»144, – espressione quanto meno impegnativa, –ma non c’è dubbio per me che la poesia di Whitman, cosmica, grandiosa, intesaa cogliere il rapporto profondo tra l’anima del poeta e la natura, incline al can-to, metricamente e stroficamente di grande novità inventiva, toccava alcune del-le note più profonde del cuore e della sensibilità campaniani. La conoscenza diquesto rapporto andrebbe approfondita, al di là della citazione tratta dal Song

141 Ibid.142 Ibid.143 Ibid.144 D. CAMPANA, Lettera a Emilio Cecchi del [marzo 1916] cit., p. 142.

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of Myself per farne il colophon dei Canti Orfici (che pure è anch’esso episodionon irrilevante), se non altro perché alcuni elementi dei due sistemi semantici, –la terra, la notte, la luna, le stelle, il vagabondaggio, gli spazi sterminati – sonoassolutamente comuni.

Quanto all’uso anche ideologico, oltre che stilistico, dal bardo americano,colpisce, – anche per la natura originalissima dell’accostamento, tipicamentecampaniana, – questo brano di un’altra lettera al Cecchi: «Quanto è meglio lasitibonda Sibilla. È una donna che capisce. Walt Whitman e San Francesco que-sto è un buon programma e anche se non seppe attuarlo, rappresenta enorme-mente un progresso come scusa delle necessità nazionali»145. Walt Whitman esan Francesco: la versione italiana della “cosmicità” whitmaniana. Campana cilavorò su molto.

4. Dantismi e stilnovismi.

Dobbiamo ora fare un passo indietro e poi uno laterale per arrivare infine alleconclusioni nella maniera più ricca possibile.

Il passo indietro riguarda l’ampio tessuto di presenze dantesche, che si sot-tende all’esperienza pienamente simbolista e volutamente “moderna” dei CantiOrfici146. Alcuni dei numerosi esempi possibili: «[...] l’antica amica, l’eternaChimera teneva fra le mani rosse il mio antico cuore» (La Notte, p. 99)147: «e nel’una de le mani mi parea che questi tenesse una cosa la quale ardesse tutta, epareami che mi dicesse queste parole: vide cor tuum» (Vita nuova, III, 5); «e pa-re il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore» (La Verna, p. 127): «Eragià l’ora che volge il disio | ai navicanti e ‘ntenerisce il core | lo dì c’han detto a’dolci amici addio: | e che lo novo peregrin d’amore | punge, se ode squilla dilontano | che paia il giorno pianger che si more» (Purgatorio, VIII, 1-6); «[...]Solo | ombra che torna, ch’era dipartito...» («... poi che nella sorda lotta nottur-na», vv. 76-77, p. 139): «Intanto voce fu per me udita: | onorate l’altissimo poe-ta | l’ombra sua torna ch’era dipartita» (Inferno, IV, 79-81); «lucidamente trasu-manati» (Pampa, p. 183): «Trasumanar significar per verba | non si poria [...]»(Paradiso, I, 70-71). Che non si tratti di pure combinazioni lo dimostra questapiù impegnativa citazione, in cui il riferimento a Dante assume un valore di-

145 ID., Lettera a Emilio Cecchi del [31 luglio 1916], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 191.146 Sul tema cfr. L. SCORRANO, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna 1994,

pp. 83-90.147 Per i confronti testuali con le opere dantesche cfr.: D. ALIGHIERI, Vita nuova, in ID., Opere minori, t. I, par-

te I, a cura di D. De Robertis e G. Contini, Milano-Napoli 7984; ID., La Divina Commedia, testo critico stabilito da G.Petrocchi, Torino 1975.

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chiaratamente compositivo e procedurale: «Riposo ora per l’ultima volta nellasolitudine della foresta. Dante la sua poesia di movimento, mi torna tutta in me-moria. O pellegrino, o pellegrini che pensosi andate!» (La Verna, p. 128) (Vitanuova, XL: «Deh peregrini che pensosi andate»). Campana usa Dante come unsuggestivo serbatoio di immagini e di movenze poetiche. Sulla «modernità» egliinnesta un sogno di rimembranze arcaiche: «Figura del Ghirlandaio, ultima fi-glia della poesia toscana che fu [...]» (ibid., p. 129)148. Ciò è connesso, da unaparte, alla sua aspirazione a creare una rinnovata poesia italica, con le radici benaffondate nella tradizione nazionale; e dall’altra a quel gusto moderno per l’an-tico, che occupa un posto così rilevante nella poetica dell’avanguardia europeaprimo-novecentesca. Più che ai pre-raffaelliti io penserei all’impasto di periferiee di monumentalità, che troviamo, ad esempio in un Sironi.

5. Iconografia mentale.

L’uso moderno dell’antico non si ferma però in Campana né alla poesia né tantomeno a Dante: ma abbraccia segmenti interi di storia dell’arte (come del resto ilnome del Ghirlandaio, già tirato in causa, dimostra). Spesso, antico poetico e an-tico artistico vengono accostati e fusi insieme. Un esempio dantesco da questopunto di vista ci soccorre ancora:

Mentre più dolce, già presso a spegnersi ancora regnava nella lontananza il ricordo diLei, la matrona suadente, la regina ancora ne la sua linea classica tra le sue grandi so-relle del ricordo: poi che Michelangiolo aveva ripiegato sulle sue ginocchia stanche dicammino colei che piega, che piega e non posa, regina barbara sotto il peso di tutto ilsogno umano, e lo sbattere delle pose arcane e violente delle barbare travolte regineantiche aveva udito Dante spegnersi nel grido di Francesca là sulle rive dei fiumi chestanchi di guerra mettono foce, nel mentre sulle loro rive si ricrea la pena eterna del-l’amore149. (La Notte, p. 88).

Questo brano ci consente di comprendere alla perfezione un modo tipicodella procedura poetica campaniana. Il meccanismo dell’immaginario è in luisempre molto complesso. Il punto di partenza, – l’accensione, – è generalmente

148 Un’intuizione critica non poco acuta, oltre che una preziosa testimonianza autobiografica della propria forma-zione, esprimeva un Vasco Pratolini in procinto di dar vita alle delicate movenze liriche e cronistiche di Via de’ Ma-gazzini, con queste parole: «Ricordo che a me ragazzo Fernando Agnoletti parlò di Campana che egli si recava spessoa visitare. A me ragazzo le parole di Agnoletti suonavano Vangelo. Usciva allora la prima stampa dei Canti Orfici a cu-ra di Bino Binazzi: fu il secondo libro di poesia che lessi, dopo la Vita Nova [...]» (V. PRATOLINI, Omaggio a Cam-pana. «A Badia a Settimo», in «Primato», n. 6, 1942).

149 Quasi con le stesse parole nella Verna, p. 125. I riferimenti a Dante riguardano le antiche regine, Semiramide,Cleopatra, Elena e Didone, Inferno, V, 31 sgg., Francesca e la rappresentazione della Romagna, delle sue corti e deisuoi fiumi, sempre nel V dell’inferno.

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un momento di esperienza vissuta, intesa anche nel senso più elementare del ter-mine (per esempio, la visita ad un lupanare o una passeggiata in montagna). Poi,il poeta “scompone” quel “dato” iniziale in più piani, lo “lavora” nel senso arti-gianale del termine, lo “distribuisce” in diverse dimensioni, lo “visionarizza” ab-battendo le paratie, fisiche e temporali, tra fenomeno e fenomeno, tra piano e pia-no: l’immagine, artistica o poetica, del passato è materiale figurativo da plasmareo riplasmare in continuazione.

Le grandi “figure” femminili dei Canti Orfici sono sempre ‘immaginate’ in as-sociazione con i capolavori figurativi e poetici del passato: la Gioconda di Leo-nardo, la Notte di Michelangelo, la Francesca di Dante, la Ofelia di Shakespeare.Ma la galleria delle suggestioni è molto più ricca: comprende, oltre al Ghirlan-daio, Andrea del Castagno (La Verna, p. 118), più volte Leonardo, il «divino pri-mitivo» (ibid., p. 120), Ribera (ibid., p. 131), Dürer (ibid., pp. 131-132), Botticelli(Firenze, p. 149), Puvis de Chavannes (Faenza, pp. 155-156); e ancora altri.

6. Un poeta dell’avanguardia.

Ritorniamo alle parole di Rimbaud. Per quanto perfettamente rappresentative diuna poetica simbolista, esse sono ad un passo dallo sprigionare da sé la grandefiammata dell’avanguardia. E un simbolismo che si va facendo avanguardia, –questo è esattamente ciò che io penso della poesia dei Canti Orfici.

E non solo per le suggestioni futuristiche, che pure sono molto presenti nellasua poesia, e sulle quali torneremo in sede di analisi stilistica. Ma soprattutto perl’atteggiamento complessivo nei confronti della ricerca poetica e per l’adozione diprocedure compositive, in cui si riflette un’attenta meditazione sulle grandi cor-renti dell’arte contemporanea150.

Campana è il primo, – e forse l’unico in area italiana, – poeta d’un certo rilie-vo ad aver tentato la rappresentazione della città moderna, riproducendo a modosuo (ovviamente) il livello tecnologico più avanzato della civiltà del tempo e me-scolandolo al tempo stesso alla sua contemplazione della natura e dell’infinità:

Di già tutto d’intornolucea la sera ambigua:battevano i fanaliil palpito nell’ombra.Rumori lontano franavano dentro silenzi solenni

150 Ritengo perfettamente condivisibile nelle grandi linee il saggio di M. VERDENELLI, Campana e le avanguar-die, in A. CORSARO e M. VERDENELLI, Bibliografia campaniana cit., pp. 99-129.

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chiedendo: se dal mareil riso non saliva...chiedendo se l’udivainfaticabilmentela sera: a la vicendadi nuvole là in altodentro del cielo stellare. (Genova, vv. 74-86, pp. 231-32).

Ma ciò che colpisce di più è che alla rappresentazione di tale modernità eglinon arriva in maniera puramente descrittiva, ma realizzando una sorta di molti-plicata scomposizione dei piani, a cui ormai non si possono trovare più equiva-lenti nella tradizione strettamente simbolista. In taluni casi, ad esempio in Fanta-sia su un quadro di Ardengo Soffici (p. 142), la scoperta prende la forma di unesercizio in cui Campana rivaleggia direttamente con la figuratività futurista (ècomunque interessante osservare che il poeta «usa «i capolavori dell’arte con-temporanea in maniera non dissimile da come usa quelli antichi). Ma in altri ca-si l’esperimento si spinge più in là ed oltrepassa i confini del mero «calco» illu-sionistico. Marcello Verdenelli parla di ispirazione cubista; e parrebbe dargli ra-gione questo brano della Verna, tanto più in quanto il soggetto è arcaico e nonmoderno (ma l’esercizio del rinnovamento formale più spinto nei confronti di unsoggetto antico è, appunto, uno dei caratteri dell’avanguardia più raffinata ed in-telligente):

Castagno, casette di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese:così a le creature del paesaggio cubistico, in luce appena dorata di occhi interni tra i finicapelli vegetali il rettangolo della testa in linea occultamente dai fini tratti traspare ilsorriso di Cerere bionda: limpidi sotto la linea del sopra ciglio nero i chiari occhi grigi: ladolcezza della linea delle labbra, la serenità del sopra ciglio memoria della poesia tosca-na che fu.

(Tu già avevi compreso o Leonardo, o divino primitivo!) (pp. 119-20, c.n.),

Troviamo qui, riuniti in sintesi, quasi tutti gli elementi di cui abbiamo ragio-nato negli ultimi paragrafi: la contemplazione, poetica e pittorica, del passato, lachiamata in causa del grande artista (forzato a rientrare nella categoria cara alpoeta e ai suoi contemporanei del «primitivo»), il gioco scompositivo e ricompo-sitivo dei piani, alla maniera, qui esplicitamente richiamata, del «paesaggio cubi-stico», un colorismo che, a forza di esasperazioni, tende da realistico a diventareastratto.

Esperimenti di questo tipo mi farebbero pensare, – al di là dei limiti delle mieconoscenze linguistiche, – a certi grandi poeti e scrittori russi tra Ottocento e No-vecento, quali, ad esempio, Andrej Belyj e Aleksandr Blok. Ne sapeva qualcosaCampana? Qualche luce forse si potrebbe fare, quando fosse chiarito l’enigma di

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quei versi incastonati in un brano della Notte: «Tutto era mistero per la mia fede,la mia vita era tutta “un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abis-so”» (p. 94): di cui Campana laconicamente informò il Pariani: «Li scrisse un poe-ta russo, un poeta del tempo dei Romanoff»151.

V. UN PONTE SULL’INFINITO.

1. «Visionario-visivo».

Nel suo saggio del 1937, denso come pochi altri dello stesso periodo (anche perquanto riguarda la storia interna del critico), Gianfranco Contini s’impegna aduna riprecisazione dei termini interpretativi della questione Campana, che è già,in nuce, l’apertura di una diversa prospettiva sull’autore: «[...] Campana non è unveggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa inversa»152. Indi precisa:«Si dice: un visivo, e s’intende qui un temperamento così esclusivo da assorbire efondere in quella categoria d’impressioni ogni altra […]»153. L’errore di Campanasarebbe consistito nell’attribuire valore di simbolo a quello che in molti casi è«semplice luogo di evocazione»154: «è per questa via che il visivo Campana, finqui nel giusto, giunge a credersi un veggente»155.

Non è chi non veda come intorno ad una questione di tal genere si giochi l’in-tero giudizio critico sull’autore. Dirò di più. A me pare del tutto evidente che die-tro le raffinate notazioni critiche del Contini, in una certa misura anche condivisi-bili, si affacci un’intenzione di ridimensionamento e, forse, l’assenza di simpatia edi partecipazione del critico nei confronti di questo poeta. Di certo Campana, –come del resto Michelstaedter, – non era autore continiano: critico attentissimo einteressatissimo alle novità in letteratura, come sappiamo, il Contini, tuttavia, tol-lerava poco che la trasgressione infrangesse in maniera eccessivamente clamorosai «vincoli» del sistema letterario in quanto tale. Quindi, per restare in tema di tra-sgressione, Gadda benissimo, molto meno Campana. Lo dice con estrema chia-rezza in un altro punto del suo saggio: «Questo anarchico, questo «bohémien»non seppe liberare l’uomo d’ordine ch’era in lui, ma tocca pure alla critica estrar-lo, se non vuol rimanere a uno stadio di tradizione orale»156.

151 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 49.152 G. CONTINI, Due poeti degli anni vociani. II. Dino Campana (1937), in ID., Esercizî di lettura sopra autori con-

temporanei con un ‘appendice su testi non contemporanei. Edizione aumentata di «Un anno di letteratura», Torino19922, p. 16.

153 Ibid.154 Ibid., pp. 17-18.155 Ibid., p. 17.156 Ibid., p. 23.

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La questione, dunque, va di nuovo affrontata per la sua decisività, entrandodi più nel merito delle analisi stilistiche e formali, alle quali essenzialmente si de-ve chiedere una risposta agli interrogativi sollevati. La prima osservazione, cheverrebbe in mente di fare, è che, pur comprendendo il senso della distinzione (edella riduzione) di «visionario» e «visivo», non c’è forse fra i due termini, – e ledue nozioni, – una contrapposizione così netta. Lo ha già detto, mi pare, nella suasolita maniera limpida e precisa Sergio Solmi: «[...] a fondo di tale concezionedella poesia è, e non può non essere, unicamente, la diretta esperienza autobio-grafica, per Campana (come, d’altronde, per Rimbaud, sebbene lo sforzo di que-st’ultimo fosse stato tanto più energico, consapevole e coerente), ‘visivo’ viene acoincidere con «visionario», e l’accensione poetica non è in fondo che vibrazione,dilatazione del dato documentario»157. Vorrei richiamarmi ad un punto che hogià sottolineato: nei Canti Orfici c’è un costante gioco di rimandi tra «fenomeno»ed «energia». Ciò, ovviamente, è vero per qualsiasi soluzione di tipo simbolista.In Campana, tuttavia, il sistema semantico è particolarmente ricco e complesso:in quanto, in primo luogo, il fenomeno non è mai isolato ma è sempre evocato al-l’interno di un intreccio di relazioni con una moltitudine di altri «fenomeni», insecondo luogo, il «fenomeno» è sempre assunto in chiave fortemente evocativa eallusiva, «in funzione» di altro, che viene semplicemente fatto intendere, non tra-scinato sul proscenio. La risposta agli interrogativi continiani potrebbe dunquerisolversi per me in un’altra domanda: in che rapporto sta nella poesia di Campa-na la pura «visibilità» delle cose, – forme, colori, suoni, oggetti, – con la «visione»del mondo, – in cui entrano fantasmi, suggestioni, simboli, miti?

2. «Armonia/melodia».

Dobbiamo tornare ad alcune importanti dichiarazioni del poeta nel tempo dellafollia. A Pariani aveva detto: «Il verso libero futurista è falso, non è armonico. Èuna improvvisazione senza colore e senza armonie. Io facevo un poco di arte»158. Epoi, ancora più importante: «Cercavo armonizzare dei colori, delle forme. Nel pae-saggio italiano collocavo dei ricordi»159. I termini che ricorrono sono sempre gli

157 Si tratta della Nota 1953 apposta in calce al saggio I «Canti Orfici» del 1928 (cfr. S. SOLMI, La letteratura ita-liana contemporanea, I, Milano 1992, p. 77). In maniera ancora più decisa: «[...] Campana, poeta «orfico» o, se si vuo-le, voyant (e non «visivo» tout court)» (M. COSTANZO, Cultura e poesia di Campana cit., p. 83). Anche EugenioMontale ha espresso qualche dubbio sulla legittimità della contrapposizione continiana così netta: «Campana poetavisivo o poeta veggente? L’impressione che ci ha lasciato una recente rilettura dei Canti Orfici […] è che le corna diquesto dilemma siano tutt’altro che inconciliabili [...]» (E. MONTALE, Sulla poesia di Campana (1942), in ID., Sullapoesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, p. 249).

158 C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 43.159 Ibid., p. 63.

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stessi: Campana raccoglie il senso complessivo del suo tentativo sotto il termine di«arte», contrapponendola al pressapochismo futurista. La «forma» che l’«arte»prende in poesia è l’«armonia»: cioè, un insieme di suggestioni fisiche e percettive,che, tradotte in stile, diano l’impressione di un risultato felice e sonante e al tempostesso non tronfio né stridente («Guardo le bianche rocce le mute fonti dei venti |e l’immortalità dei firmamenti e i gonfi rivi che vanno piangenti», ecc.). L’«armo-nia» si raggiunge, componendo insieme opportunamente «colori» e «forme».

La parola-chiave di questo «sistema dell’armonia», in cui si risolve il credostilistico-cosmico di Campana, è «melodia». «Melodia» è termine che sta a signi-ficare in Campana non soltanto una situazione musicale ma, più in generale, unostadio di rapporti armonici, compiuti, nell’esistenza, – sia che si tratti, anche inquesto caso, di un’esistenza singola, individuale, umana, sia che si tratti di unaqualche forma di esistenza cosmica.

«Regina de la melodia» (La Chimera, v. 15, p. 105) è la Chimera; ma «melodi-ca», in accordo con la terra che la circonda e l’avvolge, è anche la fanciulla delViaggio a Montevideo:

Io vidi dal ponte della navei colli di Spagnasvanire, nel verdedentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celandocome una melodia:d’ignota scena fanciulla sola come una melodiablu, su la riva dei colli ancora tremare una viola... (vv. 1-8, p. 140, c.n.).

Ma, passando dal campo visivo umano a quello fisico e terrestre, troviamo,fra l’altro, «la tellurica melodia della Falterona»160 (La Verna, p. 127); «la melodiadocile dell’acqua» (ibid., p. 130); «le melodie della terra» («... poi che nella sordalotta notturna», v. 19, p. 137). Ma «melodia» è anche la manifestazione di un «rit-mo» che sta non nelle cose ma nei movimenti, nelle persone, nella musica delmondo: «Io fisso tra le lance immobili degli abeti credendo a tratti vagare unanuova melodia selvaggia e pure triste [...]» (La Notte, p. 95); «[...] la città (le vie lechiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia in-visibile scaturita da quel vagare» (ibid., p. 101); «[...] il battello è una casa scossadal terremoto che pencola terribilmente e fa un secondo sforzo contro il mare te-nace e riattacca a concertare con i suoi alberi una certa melodia beffarda nell’aria,una melodia che non si ode, si indovina solo alle scosse di danze bizzarre che lascuotono!» (Passeggiata in tram in America e ritorno, p. 200).

160 Prosegue: «L’ultimo asterisco della melodia della Falterona s’inselva nelle nuvole».

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Si ricordi poi l’attacco di Scirocco: «Era una melodia, era un alito? Qualchecosa era fuori dei vetri [...]» (p. 211), cui seguono: «Sotto lo scorcio dei portici se-guivo le vaghe creature rasenti dai pennacchi melodiosi, sentivo il passo melodio-so, smorzato nella cadenza lieve ed uguale» (ibid., p. 212); «Sbiancava nel cielofumoso la melodia dei suoi passi» (ibid., p. 213).

E, infine (ma l’esemplificazione potrebbe essere più vasta), in un’accezioneche comprende contemporaneamente un ritmo fisico ed uno psichico, cosmico(visionario?):

Quando, melodiosamented’alto sale, il vento come bianca finse una visione di Graziacome dalla vicenda infaticabilede le nuvole e de le stelle dentro del cielo seraledentro il vico marino in alto sale...161. (Genova, vv. 52-57, p. 231, c.n.).

2.1.Ritmi, movimenti, ripetizioni.

La «melodia» è dunque un ritmo che si colloca tra i comportamenti umani e leforme della percezione, e tra le forme della percezione e l’infinito (anche la «Nu-da mistica in alto cava | infinitamente occhiuta devastazione [...] notte tirrena» èun ritmo, e dunque una «melodia»). Questi ritmi psichici e cosmici il poeta li ren-de in vari modi. Per esempio, si potrebbe dire, come Campana diceva della poe-sia di Dante, che quella di Campana è una poesia di movimento, – et pour cause,naturalmente, visto che il viaggio, – ossia una forma di «traslazione» spazio-tem-porale, – costituisce un tema tipico della sua ispirazione. Il psichismo del movi-mento e dello spostamento è da lui espresso in vari modi, che naturalmente si dif-ferenziano tra la prosa e la poesia, ma non, mi pare, in modo radicale.

Nel campo della prosa gli esempi potrebbero essere numerosi, ma nessuno,forse, così clamoroso come quello di Pampa, dove il poeta si rappresenta supino sulfondo di un carro merci in rapido movimento mentre contempla il cielo stellato chefugge: alla traslazione fisica s’accompagna, come ho già accennato, il rapidissimomovimento interiore, che sovrappone continuamente il passato al presente:

Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lie-vi veli argentei, e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabileche mi tornava alla mente in flutti amari e veementi. (Pampa, p. 186).

161 Per capire le relazioni tra le varie parti del «sistema semantico» campaniano, si tenga presente che, immediata-mente prima del brano qui citato, il poeta, in un passo già richiamato, rivolgeva lo sguardo «ai mille | e mille e milleocchi benevoli | delle Chimere nei cieli:...» (vv. 49-51): il che significa che tra il mito della Chimera e il ritmo della me-lodia esiste un’associazione profonda e non episodica.

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Il senso del movimento è dato dall’associazione armonica di sostantivi e ag-gettivi, – «costellazioni fuggenti», «veli argentei», «flutti amari e veementi», – coneffetti quasi di prosa rimata; e dalla rapida enumerazione di termini, che dànno ilsenso della velocità e della ineluttabilità del movimento: «cieca fantastica infrena-bile».

In poesia, – ad esempio in Viaggio a Montevideo, – lo spostamento può esserreso con ritmi gravi e pesanti, come a rendere il senso del tempo che passa: itera-zioni e aggettivazioni sottolineano la «lunga durata» dell’esperienza:

Andavamo andavamo, per giorni e giorni: le navigravi di vele molli di caldi soffi incontro passavano lente [...].

(Viaggio a Montevideo, vv. 32-33, p. 141).

La ripetizione in altri casi sta a segnalare che c’è un ritmo connesso all’esi-stenza delle cose, cogliere il quale significa penetrare al di là dell’apparenza ed en-trare in una dimensione di comunione mistica con il mondo. Si potrebbe tornareall’esempio più volte fatto, – ma in ogni caso fondamentale, – degli ultimi quattroversi della Chimera, con quella quadruplice rima fissa («venti», «firmamenti»,«piangenti», «algenti»), che di volta in volta amplia indicibilmente lo spazio rit-mico e semantico dei versi, quasi in una cadenza da creazione primigenia. Ma an-che altrove troviamo compiuto il miracolo evocativo della ripetizione:

Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, sorgenti, sorgenti che sannosorgenti che sanno che spiriti stannoche spiriti stanno a ascoltare... (Il canto della tenebra, vv. 4-7, p. 110).

2.2. Il «panorama scheletrico del mondo».

È impressionante osservare come l’occhio del poeta, non pago di realizzare le as-sociazioni più imprevedibili tra i fenomeni, viventi e no, passa attraverso la mate-ria e vede, come ai raggi x, cosa si nasconda dietro di essa. In questo si verifica co-me una rivelazione di morte.

Questo tema è centrale nella Notte, che per l’appunto, essendo il luogo pereccellenza delle rivelazioni, consente allo sguardo, abituatosi alle tenebre, di scor-gere ciò che normalmente non si vede. Così il ricordo delle prime esperienze d’a-more si proietta su questa realtà profonda, che la visione poetica fa emergere:«[…] e ancora tutto quello che era arido e dolce, sfiorite le rose della giovinezza,tornava a rivivere nel panorama scheletrico del mondo» (p. 89)162. Altre volte è la

162 Ripetuto poco più avanti: «così quello che ancora era arido e dolce, sfiorite le rose de la giovinezza, sorgeva nelpanorama scheletrico del mondo» (p. 90).

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forza barbarica del mito a suggerire l’immagine che fa pensare alla morte, me-diante identificazioni in cui raggiunge il massimo valore l’idea di un’antica vitache penetra nel presente e lo lacera: «Rividi un’antica immagine, una forma sche-letrica vivente per la forza misteriosa di un mito barbarico, gli occhi gorghi can-gianti vividi di linfe oscure [...]» (ibid., p. 96-97).

Come abbiamo visto altrove (sezione IV, § 5), la visione del mondo può esse-re diretta, come negli esempi testé citati, – Campana «vede», visionariamente «ve-de», sotto la superficie dei fenomeni affiorare lo scheletro che essi contengono ecelano, – oppure può essere còlta e riverberata dalle visioni del mondo che altrihanno avuto: è il caso delle stampe di Dürer, osservate una volta dal poeta nelMuseo Civico di Faenza: «Nude scheletriche stampe, sulla rozza parete in un me-riggio torrido fantasmi della pietra...» (La Verna, pp. 131-32)163.

Ancor più clamorosa la deduzione che dal linguaggio cinematografico (poi-ché di questo si tratta) viene fatta del motivo della irrealtà e della sua spettraleparvenza: «Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panorami scheletrici dicittà» (La Notte, p. 91; ma su questo punto ritorneremo).

L’idea di fondo è che nel mondo delle apparenze è difficile definire con esat-tezza i confini del certo e dell’incerto, del conscio e dell’inconscio. Riprendendoanche, in parte, una citazione già fatta, vediamo come dal notturno «sogno d’a-more» lo sguardo si volga al mondo esterno come se fosse popolato di esseri pu-ramente onirici, esistenti solo nella fantasia del poeta. Il rapporto con la realtà èrovesciato: nella stanza chiusa è racchiusa tutta la forza del desiderio e del sogno(per quanto anche lì sia ben presente e fortemente cadenzato il senso della disil-lusione e della sconfitta: «tutto è vano vano è il sogno: tutto è vano tutto è so-gno»); fuori della stanza non c’è che una dimensione puramente irreale, a cui so-lo la poesia può dare una forma e un ritmo: «Aprimmo la finestra al cielo nottur-no. Gli uomini come gli spettri vaganti: vagavano come spettri: e la città (le vie leChiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, come per una melodia in-visibile scaturita da quel vagare» (ibid., p. 101).

2.3.Colori e musica.

Sull’ossatura del mondo Campana mette però della carne, tanta carne, e il mondoall’improvviso si anima di colori e di musica: una vera cascata di colori e di musi-che. Rammentiamoci delle confessioni al Pariani sui versi futuristi: «È un’improv-visazione senza colore e senza armonie»164. Le «forme del mondo», come abbia-

163 Quasi con le stesse parole in Faenza, p. 156: «Nel corpo dell’antico palazzo rosso affocato nel meriggio sordol’ombra cova sulla rozza parete delle nude stampe scheletriche».

164 Cfr. p. 387, nota 1.

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mo visto, sono talvolta descritte direttamente; ma il più delle volte vengono ri-chiamate, – anzi, alluse, – mediante il tocco di colore e la suggestione di un ritmomusicale.

Sono anche questi procedimenti tipici della più grande poesia simbolista. Ba-sti ricordare che Rimbaud ha scritto uno splendido sonetto, Voyelles, attribuendoa ciascuna delle vocali un colore privilegiato: «A noir, E blanc, I rouge, U vert, Obleu [...]»165. Ma il colorismo campaniano è più netto, violento, oltraggioso. Ilpoeta non riempie di colori ben distribuiti un disegno già abbozzato: butta i colo-ri sulla tela ad ampi e violenti colpi di spatola; gli effetti possono essere inizial-mente anche disarmonici: è il complesso del quadro che restituisce armonia al-l’insieme. Cade a puntino un riferimento ad un pittore, che può aver esercitatosulla sua poesia un’influenza espressiva più che tematica, e cioè Cézanne, della cuiconoscenza restano poche ma significative tracce nell’opera di Campana166.

L’analisi del colorismo campaniano occuperebbe da sé le dimensioni di unvasto saggio. Mi limito a rilevare che ogni colore ha per Campana, oltre alla suafunzione puramente descrittiva, pittorica, una proprietà simbolica, profonda.

Il «pallore», con i suoi derivati, è il colore della Chimera: «Non so se tra roc-cie il tuo pallido | viso m’apparve [...]» (La Chimera, vv. 1-2, p. 105); «Non so sela fiamma pallida | fu dei capelli il vivente | segno del suo pallore [...]» (ibid., pp.21-22). Ma anche, – a due passi dall’inizio della Chimera, e forse non involontarialiaison tra i due componimenti, – nella conclusione della Notte: «pallido amor de-gli erranti» (p. 102); e nella Speranza, – che anche da questo punto di vista si con-ferma pendant minore della Chimera, – troviamo «La pallida Sorte» (v. 13. p.108). Anche «Ofelia la mia ostessa è pallida» (Faenza, p. 156); e, per completarequesta galleria di figure femminili reali-irreali, che nel loro pallore portano il so-gno di una insuperabile irraggiungibilità, ricordiamo l’apparizione della Russanelle vie di Bologna: «La piaga delle sue labbra ardeva nel suo viso pallido» (Lagiornata di un nevrastenico (Bologna), p. 172).

«Bianco» è il colore di un’incantata purezza ma anche delle fugaci apparizio-ni notturne che suggeriscono una pulsione di torbida lussuria (e anche questa as-sociazione significherà pure qualcosa): «E le tue rive bianche come le nubi, trian-

165 A. RIMBAUD, Voyelles, in ID., Poésies cit., p. 103. Particolarmente significativa l’ultima terzina, in cui ele-menti coloristici e musicali si mescolano: «O, suprême Clairon plein des strideurs étranges, | Silences traversé desMondes et des Anges: | – O l’Oméga, rayon violet de Ses Yeux!» (ibid.).

166 Per esempio in Arabesco-Olimpia, un componimento dedicato a Giovanni Boine e pubblicato su «La Riviera li-gure» nel marzo 1916: «Se esiste la capanna di Cézanne pensai quando sui prati tra i tronchi d’alberi una baccante ros-sa mi chiese un fiore [...]» (D. CAMPANA, Opere e contributi cit., p. 284). E, sia pure indirettamente, in una lettera diEmilio Cecchi a Campana del 13 marzo 1916: «Si parlò di queste cose, mi ricordo, a proposito di Cézanne e di Bau-delaire, a Firenze» (ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 146).

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golari, curve come gonfie vele […]» (La Verna, p. 128); «Noi vedemmo sorgerenella luce incantata | una bianca città addormentata […]» (Viaggio a Montevideo,vv. 24-25, p. 141); le «bianche forme della bellezza» (Firenze, p. 149); con eviden-za poetica straordinaria: «[…] dai segreti dedali | uscíi: sorgeva un torreggiarebianco nell’aria: innumeri dal mare parvero i bianchi sogni dei mattini [...]» (Ge-nova, vv. 12-15, p. 229); «Una donna bianca appare a una finestra aperta» (PiazzaSarzana, p. 224). Ma anche: «[…] nel fondo bianca e torbida a lato dei lampioniverdi la lussuria siede imperiale» (ibid., p. 225). Ma subito dopo si torna, – e nelsenso più proprio, – al simbolo della purezza: «[...] si scorge in fondo il trofeodella V.M. tutto bianco che vibra d’ali nell’aria» (ibid.).

«Rosso» è il colore dei vecchi palazzi e delle vecchie torri e viene spesso asso-ciato all’idea della corrosione e del decadimento: «[...] una lunga contrada dovetutti i palazzi sono rossi e tutti hanno una ringhiera corrosa» (Faenza, p. 155)«Dalla breccia dei bastioni rossi corrosi nella nebbia si aprono silenziosamente lelunghe vie» (La giornata di un nevrastenico (Bologna), p. 171); «Il mattone rossoringiovanito dalla pioggia sembrava esalare dei fantasmi torbidi [...]» (Scirocco(Bologna), p. 213); «[...] sopra dei vicoli il velo rosso del rosso mattone» (PiazzaSarzano, p. 223). Ma anche la luce può essere rossa: «La vecchia amica luna chesorgeva in nuova veste rossa di fumi di rame» (La Verna, p. 520); «la rossa velocitàdi luci» (Fantasia su un quadro di Ardengo Soffici, vv. 5-6, p. 142).

«Sanguigno» è il colore della luce quando filtra faticosamente attraverso lanebbia ed è tipico di Bologna: «Ero sotto l’ombra dei portici stillata di goccie egoccie di luce sanguigna ne la nebbia di una notte di dicembre» (La Notte, p. 92);«Passeggio sotto l’incubo dei portici. Una goccia di luce sanguigna, poi l’ombra,poi una goccia di luce sanguigna, la dolcezza dei seppelliti» (La giornata di un ne-vrastenico (Bologna), p. 574).

«Viola» è colore tipico della tenebrosità campaniana: non a caso appare spes-so associato ad un’altra parola-chiave come «melodia»: «Il tuo corpo un aereo do-no sulle mie ginocchia, e le stelle assenti, e non un Dio nella sera d’amore di vio-la: ma tu nella sera d’amore di viola: ma tu chinati gli occhi di viola, tu ad un igno-to cielo notturno che avevi rapito una melodia di carezze» (La Notte, p. 100). Maanche: «D’ignota scena fanciulla sola | come una melodia | blu, su la riva dei colliancora tremare una viola...» (Viaggio a Montevideo, vv. 6-8, p. 140).

Ma, a parte questi colori «fondamentali» (fondamentali per Campana, inten-do), la tavolozza è assai più ricca e completa (e qui riduco l’esemplificazione alminimo): «Su un mare giallo de la portentosa dovizia del fiume» (ibid., v. 43, p.141, c.n.); «Oggi risalta tutto il grigio monotono e sporco della città» (La giornatadi un nevrastenico (Bologna), p. 173, c.n.); «L’aria pura è appena segnata di nubileggere. L’aria è rosa [...]. E dura sotto il cielo che dura, estate rosea di più rosea

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estate» (Piazza Sarzano, p. 223, c.n.); «[...] del giardino il verde sogno» (Genova,vv. 6-7, p. 229, c.n.); «contro l’azzurro serale» (ibid., v. 35, p. 230, c.n.) e in unasuccessione caratterizzante lo stesso componimento: «ed era l’azzurro mattino»(«... poi che nella sorda lotta notturna», v. 3, p. 137, c.n.); «giurando noi fede al-l’azzurro» (ibid., v. 10, c.n.); «nel silenzio azzurrino» (ibid., v. 26, p. 138, c.n.); «inazzurrina | serenità» (ibid., vv. 48-49, c.n.); «E si riposa nell’azzurro eguale» (ibid.,v. 54, c.n.); «e il mare e il cielo è d’oro» (Genova, v. 100, p. 232, c.n.); «Velano d’o-ro di felicità» (ibid., v. 110, c.n.).

Ma, naturalmente, queste elencazioni possono dare un’idea unicamentequantitativa della consistenza del fenomeno: sia perché i colori, oltre che puri, so-no disposti sulla tela anche in una serie infinita di sfumature («Il pulviscolo d’oroche avvolgeva la città parve ad un tratto sublimarsi in un sacrifizio sanguigno», IlRusso, pp. 193-94, c.n.; «La Falterona verde nero e argento», La Verna, p. 119,c.n.; «Pei grigi rosei della città di ardesia», Genova, v. 138, p. 233, c.n.); sia perchéi giochi coloristici s’intrecciano continuamente con quelli musicali.

Da quest’ultimo punto di vista la poesia di Campana presenta una ricchezzainesauribile: la «forma del mondo», cui essa attinge, nient’altro è che un ritmomusicale, e ciò, sia pure in forme diverse, sia che si tratti di prosa che di versi.

La musica di Campana si staglia sempre contro grandi silenzi: anzi, il silenzioè già in lui una forma di musica. Si pensi, ad esempio, alle scene notturne di Dua-lismo e di Pampa: dove i rumori e i suoni esprimono una sorta di lotta umana allacancellazione totale e universale: «Il silenzio era scandito dal trotto monotono diuna pattuglia [...]», Dualismo, p. 162167 (e da lì la fantasia del poeta parte per ilviaggio all’indietro, verso la vecchia Europa, che lo allontana dall’amore presentedi Manuelita); mentre impressionante è il fragore del treno che attraversa la Pam-pa solitaria e inattingibile, nella quale «la corsa penetrava, penetrava con la velo-cità di un cataclisma: dove un atomo lottava nel turbine assordante nel lugubrefracasso della corrente irresistibile» (Pampa, p. 185).

Ma ritmo e musica è anche la percezione del movimento che intorno a noi ri-vela la cadenzata presenza del destino: come in questa bellissima notazione delRusso: «Ora io lo vedevo chiudersi gli orecchi per non udire il rombo come di tor-rente sassoso del continuo strisciare dei passi» (p. 193).

E musica, – musica di ampiezza e dignità sinfonica, – è quella che percorredall’inizio alla fine un «poema» come Genova, dove Campana compie il miracoloraro di dare forma e ritmo ai rumori anche stridenti del lavoro moderno:

167 Semantica della luce, del colore e dell’ombra e semantica del suono e del silenzio si confondono in questo bra-no di Genova: «Di già tutto d’intorno | lucea la sera ambigua: | battevano i fanali | il palpito nell’ombra. | rumori lon-tano franavano | dentro silenzii solenni [...]» (vv. 74-79, p. 231).

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Come le cateratte del Niagaracanta, ride, svaria ferrea la sinfonia feconda urgente al mare […]guardavo dall’invetriata la folla salire velocetra le venditrici uguali a statue, porgentifrutti di mare con rauche grida cadenti [...] (vv. 23-24 e 28-30, p. 230).

Il battello si scaricaininterrottamente cigolante,instancabilmente introna […]. (vv. 97-99, p. 232).

Cigolava cigolava cigolava di catenela grú sul porto nel cavo de la notte serena […] (vv. 152-53, p. 234).

Ciò che l’analisi faticosamente e impietosamente divide e frantuma, la letturadovrebbe saldare e unificare. Tutti gli elementi descritti si ritrovano infatti pre-senti, collegati e fusi in quasi tutti i componimenti che costituiscono i Canti Orfi-ci e, ovviamente, all’interno di ognuno di essi.

Quale esempio di una fusione pressoché perfetta di tali elementi riporto perintero Sogno di prigione, dove l’inequivocabile matrice onirica e subconscia dell’i-spirazione favorisce, fino a punte massime, tale linea di ricerca. Colori, suoni, sen-sazioni, – stato di veglia, coscienza, delirio e sogno, – si compongono in un qua-dro ormai del tutto unitario:

Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il giaciglio è bianco.La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono nelle angeliche cune, dellevoci angeliche bronzee è piena la cella bianca. Silenzio: il viola della notte: in rabeschidalle sbarre bianche il blu del sonno. Penso ad Anika: stelle deserte sui monti nevosi:strade bianche deserte: poi chiese di marmo bianche: nelle strade Anika canta: un buffodall’occhio infernale la guida, che grida. Ora il mio paese tra le montagne. Io al para-petto del cimitero davanti alla stazione che guardo il cammino nero delle macchine, sù,giù. Non è ancor notte; silenzio occhiuto di fuoco: le macchine mangiano rimangiano ilnero silenzio nel cammino della notte. Un treno: si sgonfia arriva in silenzio, è fermo: laporpora del treno morde la notte: dal parapetto del cimitero le occhiaie rosse che sigonfiano nella notte: poi tutto, mi pare, si muta in rombo: Da un finestrino in fuga io? ioch’alzo le braccia nella luce!! (il treno mi passa sotto rombando come un demonio).

(Sogno di prigione, p. 167).

3. I linguaggi del «moderno».

Alla domanda che a un certo punto ci siamo posti: in quale rapporto sta «visivo»con «visionario» nell’universo stilistico e semantico campaniano, credo che sipossa cominciare a rispondere che in Campana il «visivo» è un puro tramite, la«forma sensibile», in cui prende corpo e si manifesta il «visionario»: l’occhio cheguarda e vede oltre l’apparenza dei fenomeni.

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Il convincimento si convalida e si consolida se, al di là dell’immaginario sim-bolista, di cui finora, sostanzialmente, ho esplorato la presenza nella poesia diCampana, si tenta di saggiare in essa la consistenza di nuovi patrimoni linguistici,semantici e percettivi, che più concretamente testimoniano in lui quello che hodefinito il passaggio dall’area propriamente simbolista a quella avanguardista.Naturalmente, siccome il confine fra queste due aree è mobile ed estremamentepermeabile, non escludo che nell’elenco siano comprese anche soluzioni che a ta-luno apparirebbero non estranee al campo del simbolismo. Si tratterà allora di va-lutare di volta in volta il grado di tensione e di radicalità, con cui quelle soluzionivengono applicate da Campana.

3.1.Simultaneità psichiche, rivoluzioni temporali.

Una chiave di lettura indispensabile a cogliere il significato (persino nel sensoletterale del termine) dei testi campaniani è la persuasione che svolgimento deltempo (o dei tempi) e psichismi conseguenti (percezione-conoscenza-rappre-sentazione) ubbidiscono a regole interiori, che nulla hanno a che fare con quel-le razionali e fisiche. Del resto, questo è in alcuni punti esplicitamente detto.All’inizio della Notte: «e del tempo fu sospeso il corso» (p. 83); il che vuol direche il resto del racconto è fuori del tempo, come del resto si conferma di segui-to: «anni ed anni ed anni fondevano nella dolcezza trionfale del ricordo» (ibid.,p. 84).

La situazione che si determina è che il poeta può collocarsi contemporanea-mente nel passato, nel presente e nel futuro, e può «dirsi», «raccontarsi» comeuna creatura che passa da una stagione all’altra della storia e della vita comeprocedendo su di un invisibile tapis roulant: è evidente che un atteggiamentodel genere ha a che fare, da una parte, con l’inconscio, – sorgente vitale di ognia-temporalità, – dall’altra, con il mito, che ne rappresenta, sul piano espressivoil prodotto più significativo: «Inconsciamente colui che io ero stato si trovavaavviato verso la torre barbara, la mitica custode dei sogni dell’adolescenza»(ibid., c.n.).

Un esempio perfetto di simultaneità psichica e d’inconscia traslazione deitempi si trova nella Verna, quando il poeta scorge (crede scorgere) un fanciulloaddormentato presso la gora di un mulino:

L’acqua del mulino corre piana e invisibile nella gora. Rivedo un fanciullo, lo stessofanciullo, laggiù steso sull’erba. Sembra dormire. Ripenso alla mia fanciullezza: quantotempo è trascorso da quando i bagliori magnetici delle stelle mi dissero per la primavolta dell’infinità delle morti!... Il tempo è scorso, si è addensato, è scorso: così comel’acqua scorre, immobile per quel fanciullo: lasciando dietro a sé il silenzio, la goraprofonda e uguale: conservando il servizio come ogni giorno l’ombra...

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Quel fanciullo o quella immagine proiettata dalla mia nostalgia? Così immobile lag-giù: come il mio cadavere168. (La Verna, p. 133).

Il fatto è che Campana è ossessionato dalla possibilità di stabilire un rap-porto tra lo scorrere empirico del tempo e quel tempo senza tempo che, dan-tescamente, è l’eternità. Così in Pampa169, oppure in Piazza Sarzano, doveCampana mette in atto una combinazione così prodigiosa di fattori da sfiora-re il surrealismo: «Accanto il busto dagli occhi bianchi rosi e vuoti, e l’orolo-gio verde come un bottone in alto aggancia il tempo all’eternità della piazza»(p. 225).

3.2.Sogno e inconscio.

È evidente che simultaneità psichica e traslazione dei tempi costituiscono di-mensioni della percezione e della rappresentazione, che trovano un humus par-ticolarmente fecondo nell’inconscio e nel sogno. Abbiamo visto170 che Campa-na aveva avuto una conoscenza non superficiale né indiretta di testi della teoriapsicanalitica applicata al mondo dell’arte e della rappresentazione, quali i lavo-ri di Sigmund Freud su Leonardo171 e quelli di Karl Abraham su Segantini172. Sipotrebbe osservare che, stando alle date, tale conoscenza risalirebbe ad una fa-se successiva alla comparsa dei Canti Orfici: infatti, la lettera a Soffici, in cui neparla, è del maggio 1915. Ma è un fatto che molti dei componimenti dei Cantiriproducono situazioni oniriche: tale è il caso del già citato Sogno di prigione,della parte iniziale di «... poi che nella sorda lotta notturna»; mentre in Pampa loscrittore s’immagina in preda agli effetti allucinatori del mate, con conseguenteestasi da droga.

La Notte, da parte sua, – coerentemente con la sua impostazione generale,– è un lungo percorso nelle tenebre, che, se per un verso sono quelle fisiche,naturali delle città e dei borghi attraversati, per un altro rappresentano una mi-tica, simbolica discesa agli Inferi e per un altro ancora l’oscurità interiore, chegiunge fino a velare e nascondere l’identità del poeta: «Non seppi mai come,costeggiando torpidi canali, rividi la mia ombra che mi derideva nel fondo» (p. 86).

168 Altro esempio straordinario di simultaneità psichica è Passeggiata in tram in America e ritorno.169 «Sgravata bilancia del tempo sembrava risollevarsi lentamente oscillando: – per un meraviglioso attimo immutabil-

mente nel tempo e nello spazio alternandosi i destini eterni [...]» (Pampa, p. 184). Si rammenti – per capire il rapporto cosmi-co che il poeta stabilisce fra sé e un destino universale – che è in Pampa che egli si definisce l’«eterno errante» (ibid., p. 185).

170 Cfr. p. 344, nota 12.171 S. FREUD, Eine Kindheitserinnerung des Leonardo da Vinci, 1910 (trad. it. Un ricordo d’infanzia di Leonardo da

Vinci, in ID., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, I, Torino 1969, pp. 73-158).172 K. ABRAHAM, Giovanni Segantini: un saggio psicoanalitico (1911), in ID., Opere, II, Torino 1975, pp. 629-83.

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3.3.Le nuove tecnologie.

Campana è il poeta del Novecento italiano che, in assoluto, ha più cercato d’incor-porare nella propria poesia forme, manifestazioni ed effetti dei nuovi mondi dellatecnica e della produzione, – se si eccettuano, naturalmente, i futuristi, i quali però,avrebbe detto lo stesso Campana, commettevano l’errore di separare disarmonica-mente tali novità da un contesto più vasto, mentre per lui si trattava di farne altret-tanti aspetti di una realtà universale, del resto con questa strettamente connessi.

Una vera passione il poeta dimostrò per quel fenomeno scoppiettante, dina-mico e luminoso, che era l’elettricità, simbolo, in un certo senso, di questo mon-do nuovo, che però poteva facilmente collegarsi a quello antico173. Si trattava diuna passione di vecchia data, se già in Pei vichi fondi tra il palpito rosso troviamo:«[...] Le navi inermi, drizzate in balzi | terrifici al cielo | allucinate in aurora | elet-trica inumana risplendente | alla prora per l’occhio incandescente»174, destinato adiventare in Batte botte: «Ne la nave | che si scuote, | con le navi che percuote | diun’aurora | sulla prora | splende un occhio | incandescente [...]» (vv. 1-7, p. 144).

E, con maggior forza e bellezza, unificando universo tecnologico e universonaturale, in Genova:

Vasto, dentro un odor tenue vanito di catrame, vegliato da le luneelettriche, sul mare appena vivoil vasto porto si addorme. (vv. 123-26, p. 233).

Una minuziosa analisi tecnologica meritebbero, naturalmente, il porto di Ge-nova, il treno di Pampa, il tram di Passeggiata in tram in America e ritorno175, il ri-corrente tema della gara in bicicletta176, l’aeroplano177. È abbastanza evidente chetutti questi inserimenti non fanno altro che aumentare il ritmo e il dinamismo del-la prosa e dei versi campaniani. Si noti che, conformemente alla lezione dell’avan-guardia, l’universo semantico delle nuove tecnologie non resta chiuso in sé ma

173 A voler essere una volta lugubremente ironici, si potrebbe osservare che questa mania per l’elettricità gli era re-stata anche nel manicomio di Castel Pulci, dove dichiarava di essere «elettrico», anzi, addirittura di essere Edison e diessere «tutto pieno di correnti magnetiche» (C. PARIANI, Vita non romanzata di Dino Campana cit., p. 36).

174 D. CAMPANA, Quaderno cit., p. 349.175 «Aspro preludio di sinfonia sorda, tremante violino a corda elettrizzata, tram che corre in una linea nel cielo

ferreo di fili curvi mentre la mole bianca della città torreggia come un sogno, moltiplicato miraggio di enormi palazziregali e barbari, i diademi elettrici spenti» (Passeggiata in tram in America e ritorno, p. 199).

176 «Dall’alto giù per la china ripida», in ID., Quaderno cit., p. 355; ID., Traguardo (a F. T. Marinetti), in ID., Tac-cuini, abbozzi e carte varie cit., p. 383; ID., Giro d’Italia in bicicletta, in ID., Il più lungo giorno cit., p. 60; ID., Alba, vv.7-18, ibid., pp. 57-58, poi in «... poi che nella sorda lotta notturna», vv. 29-41, p. 138.

177 Compare nella Forza: «Un balocco formidabile di raziocinio umano | irraggia la sua volontà per i cieli | l’energia domabramisce immane nel motore [...]» (vv. 11-13; in ID., Quaderno cit., p. 329); e in forma metaforica in La giornata di un nevra-stenico (Bologna): «Ecco inevitabile sotto i portici lo sciame aeroplanante delle signorine intellettuali [...]» (pp. 173-74).

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s’espande, a colpi di metafora, anche sull’antico universo naturale. Anche la luna,sorgendo sulla Pampa, può diventare un «elemento» di questo nuovo universo:«Un disco livido spettrale spuntò all’orizzonte lontano profumato irraggiando ri-flessi gelidi d’acciaio sopra la prateria» (Pampa, p. 184).

3.3.1. Cinematografo. Un posto di singolare rilievo va assegnato ai rapportitra la poesia di Campana e il nuovo linguaggio cinematografico. Non dimenti-chiamo che Il più lungo giorno portava come sottotitolo: La notte mistica dell’a-more e del dolore – Scorci bizantini e morti cinematografiche. Questo sottotitolo ri-sultava però dalla cancellatura di una precedente versione, che diceva più sempli-cemente e più significativamente: Cinematografia sentimentale178. Si tratta diun’indicazione da non trascurare.

Numerosi passi dei Canti Orfici rivelano ritmi e dinamismi, uso dei primi pia-ni, scorciature e salti temporali, che sarebbero impensabili senza una conoscenzaappassionata del nuovo mezzo. Ma in uno di essi, precisamente La Notte, c’è la ri-produzione pura e semplice di una proiezione cinematografica, finora non indivi-duata né dalla critica né dai commentatori, nonostante la sua inequivocabile evi-denza. Il poeta, nel corso di una serata di fiera, accompagna la fanciulla amata osognata in una sala cinematografica del tempo:

Fu attratta verso la baracca: la sua vestaglia bianca a fini strappi azzurri ondeggiò nellaluce diffusa, ed io seguii il suo pallore segnato sulla sua fronte dalla frangia notturna deisuoi capelli. Entrammo. Dei visi bruni di autocrati, rasserenati dalla fanciullezza e dallafesta, si volsero verso di noi, profondamente limpidi nella luce. E guardammo le vedu-te. Tutto era di un’irrealtà spettrale. C’erano dei panorami scheletrici di città. Dei mor-ti bizzarri guardavano il cielo in pose legnose. Una odalisca di gomma respirava som-messamente e volgeva attorno gli occhi d’idolo. E l’odore acuto della segatura che fel-pava i passi e il sussurrio delle signorine del paese attonite di quel mistero. «È così Pa-rigi? Ecco Londra. La battaglia di Muckden». Noi guardavamo intorno: doveva esseretardi. Tutte quelle cose viste per gli occhi magnetici delle lenti in quella luce di sogno!Immobile presso a me io la sentivo divenire lontana e straniera mentre il suo fascino siapprofondiva sotto la frangia notturna dei suoi capelli. Si mosse. Ed io sentii con unapunta d’amarezza tosto consolata che mai più le sarei stato vicino. La seguii dunque co-me si segue un sogno che si ama vano: così eravamo divenuti a un tratto lontani e stra-nieri dopo la strepitoso della festa, davanti al panorama scheletrico del mondo179.

(pp. 90-91).

178 Cfr. D. CAMPANA, Il più lungo giorno, riproduzione anastatica del manoscritto ritrovato dei Canti Orfici, Fi-renze 1973, p. 3.

179 Un particolare consente di stabilire con precisione la data dell’episodio, se non quella di composizione del bra-no: la battaglia di Muckden è infatti uno degli episodi culminanti della guerra russo-giapponese del 1905, alla qualeprobabilmente fanno riferimento anche i «panorami scheletrici di città» e i «morti bizzarri» che «guardavano il cieloin pose legnose».

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Si vede bene qui come l’immaginario campaniano si fonda perfettamente conle suggestioni provocate dal nuovo «mezzo»: «Tutte quelle cose viste per gli occhimagnetici delle lenti in quella luce di sogno!» L’«irrealtà spettrale» del cinema,Campana la proietterà nelle pagine successive, come abbiamo già visto, sul mon-do vero, al quale la «camera oscura» ha strappato la sua fisicità.

Campana ha anche intravisto il valore straniante dello spettacolo cinemato-grafico rispetto alla vita: l’amore tra i due giovani evapora nel chiuso di quell’o-dierno «mistero», che è la sala cinematografica e di fronte allo spettacolo, fattorealtà, del «panorama scheletrico del mondo». Se si vuol parlare, come molti han-no fatto, di una Euridice che si perde, si tenga presente che la sua scomparsa nonè un luogo letterario ma avviene nell’atmosfera irreale di un fascio di luce proiet-tato nella tenebra polverosa su di un telone bianco.

4. «Una goccia d’acqua, una sola goccia».

Sarebbe sbagliato concludere la nostra esplorazione con un bilancio finale, so-prattutto se fondato su confronti.

Dovrebbe essere chiara, ormai, la portata del tentativo campaniano. Se le no-stre analisi non sono riuscite finora a fare chiarezza, c’è un punto dei Canti Orficiche ci indica, in maniera inequivocabile, la strada giusta. Si tratta del brano finaledella parte II della Notte, Il viaggio e il ritorno, che riproduco per intero, nono-stante sia già stato parzialmente citato, proprio perché il suo senso appaia senza li-mitazioni chiaro:

Aprimmo la finestra al cielo notturno. Gli uomini come spettri vaganti: vagavano comegli spettri: e la città (le vie le chiese le piazze) si componeva in un sogno cadenzato, co-me per una melodia invisibile scaturita da quel vagare. Non era dunque il mondo abita-to da dolci spettri e nella notte non era il sogno ridesto nelle potenze sue tutte trionfa-le? Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo noi gettato sull’infinito, che tutto ciappare ombra di eternità? A quale sogno levammo la nostalgia della nostra bellezza? Laluna sorgeva nella sua vecchia vestaglia dietro la chiesa bizantina. (La Notte, p. 101).

Tutto qui l’esperimento campaniano (ma certo non è poco): gettare un pon-te sull’infinito per cogliere nelle cose viventi e nei fenomeni l’«ombra»dell’«eternità».

Si tratta, chiaramente, di un riferimento nietzschiano: «Quel che è grandenell’uomo è che egli è un ponte e non un fine: quel che si può amare nell’uomo èche egli è un passaggio e un trapasso»180. Il Nietzsche, si badi, di Zarathustra, in

180 F. W. NIETZSCHE, Così parlò Zarathustra, introduzione e commento di G. Pasqualotto, traduzione di S. Gia-metta, Milano 1985, p. 30.

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cui la voce della poesia è diventata l’oracolo di una missione profetica (non estra-nea, neanch’essa, come abbiamo visto, al misticismo di Campana).

La relazione è ancora più chiara in questo appunto del Taccuinetto faentino,steso a stretto contatto con le note che avrebbero dato vita a Faenza:

Il valore dell’arte non sta nel motivo ma nel collegamento e quindi nel punto di fusionesi ha la grande arte: e la grande arte come la grande vita non è che [un simbolo] un pon-te di passaggio181.

Con questi chiarimenti torniamo al brano de Il viaggio e il ritorno: è qui, inquesto momento di «fusione», che il poeta può concepire possibile la realizzazionedi questo suo sogno nostalgico di bellezza, che tutto il mondo intorno sembrava ne-gargli. L’arabesco finale, in puro stile decadente-avanguardistico, sembra conclude-re con un esemplare sberleffo marionettistico il poderoso pensiero. Ripeto: siamonel pieno – e consapevolmente – dell’avanguardia poetica europea più avanzata.

È vero, come osservava Montale182 che l’accoglienza degli intendenti all’ap-parire dell’opera, fu meno spietata di quanto ci si potesse aspettare. E tuttavianon si può certo dire che al poeta morto fosse riserbata un’accoglienza molto mi-gliore di quella che ebbe in vita. A restare soltanto ai poeti, o ai grandi poeti, sidovrebbe registrare nei suoi confronti la gelida ritrosia di Saba, gli avari ricono-scimenti di Pasolini, l’indifferenza di Ungaretti. Forse soltanto a Montale si devericonoscere l’onesta volontà di capire e soltanto a Mario Luzi una dichiarata pas-sione, che tuttavia derivava molto probabilmente da una non del tutto legittima,anche se giustificabilissima, sovrapposizione del suo «cosmicismo» cristiano aquello, mistico sì, ma niente affatto cristiano di Campana.

L’elenco delle «differenze», ingenuamente esibite e persino sfrontatamenteostentate dal reietto marradese, sarebbe assai lungo e tale comunque da giustifi-care una sostanziale relegazione della sua opera ai margini del dibattito letterarioitaliano del Novecento.

I poeti italiani del Novecento son quasi tutti «poeti da camera» o, avrebbedetto Cecchi, «d’atelier»183, anche e forse soprattutto i più grandi: per loro, quan-do diviene un elemento del loro immaginario, anche l’«infinito» resta un’astrazio-ne metafisica (si pensi a Ungaretti). Campana è un tipico poeta «en plein air», co-me avrebbe potuto esserlo il più fedele seguace di Cézanne. La sua tavolozza «si èfatta» osservando la natura, e l’occhio precede in lui la mente, anche se poi lamente suggestiona e «sregola» l’occhio, secondo il comandamento rimbaudiano.

181 D. CAMPANA, Taccuinetto faentino cit., p. 308.182 «Incomprensione propriamente detta [...] non ci fu» (E. MONTALE, Sulla poesia di Campana cit., p. 249).183 «Nulla, in Campana, di una psicologia d’uomo d’“atelier” [...]» (E. CECCHI, Dino Campana (1952), in ID., Di

giorno in giorno. Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Milano 1959, p. 315).

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I poeti italiani del Novecento sono «nazionali» nel senso più stretto del ter-mine: non uno, voglio dire, che abbia gettato lo sguardo al di là del borgo natio edelle coste, dei monti, delle siepi e dei muretti a loro noti fin dall’infanzia. Cam-pana in Italia è di una specie rarissima, quella a cui fa di scena il mondo. I poetiitaliani del Novecento sono dei calligrafi splendidi e purissimi, dei «distillatori»impareggiabii di essenze rare e squisite, cui serve da principale «ingrediente» lacomponente nobile del cervello, la parte superiore – la più vigile e razionale – del-la struttura cerebrale. Campana butta nel crogiolo una inverosimile quantità disensazioni, esperienze, ragionamenti e passioni, e una indicibile volontà di fusio-ne e di annullamento, rischiando – appunto – di perdere il cervello sul serio inve-ce di elegantemente sublimarlo.

Infine, i poeti italiani del Novecento sono in larga misura – avrei dei dubbi,anche se in tutt’altro senso, soltanto su Montale – dentro la corrente fondamenta-le del moralismo del secolo (per non parlar dei critici, naturalmente), dentro l’i-dea cioè che fare della buona poesia significa fare una buona azione. Campanaaveva, come abbiamo visto, un’idea altissima della Poesia (e anche, io credo, del-la propria poesia), proprio perché era radicalmente, assolutamente antimoralistae aveva deciso che tutta la sua vita si svolgesse al di fuori di tutti i parametri delcostume corrente (anche di quello letterario).

Non comincerò alla fine ad avanzare quelle spiegazioni ed interpretazionipsichiche e psicologiche, che ho rifiutato sostanzialmente di applicare in tutto ilmio discorso precedente. Non c’è dubbio, però, che Campana avvertisse l’ondamontante dell’indifferenza intorno a lui e che, sentendosi tradito negli affetti piùcari, cominciasse a nutrire una stanchezza crescente, una difficoltà sempre mag-giore a combattere e a resistere. Persino la docilità con cui, per quanto ne sappia-mo, accondiscese al suo ultimo e definitivo ricovero manicomiale, sembra un se-gno di resa più che di follia. Il manicomio a quel punto si presenta come un por-to sicuro, un rifugio tranquillo, di fronte ai marosi di un’esistenza troppo trava-gliata e sempre più solitaria.

Ci si può congedare in modi diversi dal proprio autore. Non ne trovo uno mi-gliore che lasciargli la parola, nell’ultima lettera prima del ricovero in cui affrontiassennatamente problemi di letteratura e di poesia, rivolta ad uno degli ultimiamici, Carlo Carrà, che egli credeva gli fosse restato. È la lettera in cui si scagliaprevalentemente contro il Vate, «il Vate gramofono», e in cui, in estrema conclu-sione, confessa all’amico: «Caro Carrà, sono sempre orribilmente innamorato diSibilla»184. In questo contrasto di situazioni, fra il disgusto letterario e il tormentoerotico, il poeta così manifesta il suo congedo:

184 D. CAMPANA, Lettera a Carlo Carrà della [Vigilia di Natale 1917], in ID., Souvenir d’un pendu cit., p. 234.

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Ah serva Italia! come questo plebeo dolore, come questa plebea indifferenza mi offen-de! Credi che è così dolce sentirsi una goccia d’acqua una sola goccia ma che ha rifles-so un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome!185.

Si rammenti l’inizio della «storia»: «[...] per provarmi che esisto, per scrivereancora ho bisogno di essere stampato»186. Stampatosi da solo, scopri che non ba-stava per essere amato. E la goccia d’acqua rinunciò a riflettere i raggi del sole.

VI. NOTA BIBLIOGRAFICA.

Delle vicende editoriali dei Canti Orfici ho riferito nella sezione I, §§ 4-5-6-7, aiquali rimando.

Esiste un’ottima Bibliografia campaniana (1914-1985), a cura di A. Corsaro eM. Verdenelli, premessa di N. Bonifazi, contributi critici di A. Corsaro e M. Ver-denelli, Ravenna 1985.

L’epistolario e i principali documenti biografici si possono trovare in: D.CAMPANA, Souvenir d’un pendu. Carteggio 1910-1931 con documenti inediti erari, a cura di G. Cacho Millet, Napoli 1985, e in G. CACHO MILLET, DinoCampana fuorilegge, Palermo 1985.

Testimonianze biografiche importanti, anche se non sempre affidabili, sono: A.SOFFICI, Dino Campana a Firenze, in ID., Ricordi di vita artistica letteraria, Firen-ze 1931, pp. 109-29; G. PAPINI, Il poeta pazzo (1948), in ID., Autoritratto e ritrat-ti, Milano 1962, pp. 969-73; C. PARIANI, Vite non romanzate di Dino Campanascrittore e di Evaristo Boncinelli scultore, Firenze 1958 (ora ID., Vita non romanzatadi Dino Campana, a cura di T. Gianotti, Firenze 1994); L. CECCHI PIERACCINI,Apparizioni di Dino Campana, in ID., Visti da vicino, Firenze 1952, pp. 201-17.

Profili biografici, intesi a ritrovare dietro lo svolgimento degli eventi il sensodi un percorso, sono quelli di G. GEROLA, Dino Campana, Firenze 1955, e di G.TURCHETTA, Dino Campana. Biografia di un poeta, Milano 1985.

La critica campaniana si organizza sostanzialmente in quattro decisivi mo-menti: 1) alla prima uscita dei Canti Orfici; 2) intorno alla ristampa del 1928 (Fi-renze); 3) intorno agli anni Quaranta, in relazione alla ristampa del Falqui (Firen-ze 1941) e alla comparsa del volume degli Inediti (Firenze 1942); 4) dopo il 1973,ossia dopo il Convegno fiorentino di quell’anno, la comparsa del volume di Ope-re e contributi curato dal Falqui (Firenze 1973) e la pubblicazione del Più lungogiorno (Firenze 1973) – avvenimenti che, in effetti, cadono tutti in quell’anno.

185 Ibid, p. 233.186 ID., Lettera a Giuseppe Prezzolini del 6 gennaio 1914 cit., p. 56.

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1) Nella primissima fase sono rilevanti gli interventi di: G. DE ROBERTIS,Un po’ di poesia (1914), in ID., Scritti vociani, a cura di E. Falqui, Firenze 1967,pp. 322-23; B. BINAZZI, Un pacco di libri, in «Giornale del mattino [Bologna]»,14 luglio 1915; G. BOINE, Canti Orfici (1915), in ID., Il peccato. Plausi e botte.Frantumi. Altri scritti, a cura di D. Puccini, Milano 1983, pp. 200-4; E. CECCHI,False audacie, in «La Tribuna [Roma]», 13 febbraio 1915; ID., Carlo Linati - DinoCampana, ibid., 21 maggio 1916.

Importante in questa fase anche la testimonianza di S. ALERAMO, Il passag-gio (1919), Milano 1985, particolarmente alle pp. 99-100 (ma dell’Aleramo si ve-dano i ricordi e le riflessioni sparsi nei suoi diari, e cioè ID., Diario di una donna.Inediti 1945-1960, con un ricordo di F. Cialente e una cronologia della vita del-l’autrice, scelta a cura di A. Morino, Milano 1978, passim, e ID., Un amore insoli-to. Diario 1940-1944, con una lettura di E. Melandri e una cronologia della vitadell’autrice, scelta a cura di A. Morino, Milano 1979; importante, ovviamente, an-che l’epistolario tra Sibilla e Dino, di cui, dopo la vecchia pubblicazione a cura diNiccolò Gallo nelle Opere e contributi del 1973, è apparso recentemente unastampa a cura di Bruna Conti: S. ALERAMO e D. CAMPANA, Un viaggio chia-mato amore. Lettere 1916-1918, Roma 1987).

2) Dopo il 1928 mi sembrano particolarmente importanti i seguenti contri-buti: S. SOLMI, I «Canti Orfici» (Il libro di cui si parla) (1928), in ID., La let-teratura italiana contemporanea, I. Scrittori negli anni, Milano 1992, pp. 66-77,con due Note del 1942 e del 1953; A. GARGIULO, Dino Campana (1900-1930) (1933), in ID., Letteratura italiana del Novecento, Firenze 1940, pp. 357-63; C. BO, Dell’infrenabile notte (1937), in ID., Otto studi, Firenze 1938, pp.105-25; G. CONTINI, Dino Campana (1937), in ID., Esercizi di lettura sopraautori contemporanei con un’appendice di testi non contemporanei Edizione au-mentata di «Un anno di letteratura», Torino 19922, pp. 16-24; G. DE ROBER-TIS, Scrittori nostri (1938), in ID., Scrittori del Novecento, Firenze 1940, pp.381-83; R. FRANCHI, Omaggi a Campana, in ID., Memorie critiche, Firenze1938, pp. 39-47.

Importante, anche se minore, la linea di un’interpretazione radicalmente «to-scana» dei Canti Orfici in: B. RICCI, Campana, in «Il Selvaggio», V (1928), 9, p.35; ID., In morte di Dino Campana, in «L’universale», II (1932), 6, p. 2; V. PRA-TOLINI, Il «pappagallo», in «Il Bargello», XI (1939), 44, p. 3; ID., Omaggio a Di-no Campana. «A Badia a Settimo», in «Primato», III (1942), 6, p. 119.

Si segnala in questa sezione l’interessante A. HERMET, La ventura delle rivi-ste (1903-1940), Firenze 1941, passim (ora ID., La Ventura delle riviste, a cura diM. Biondi, Firenze 1987).

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3) Dopo il 1941 riparte un’altra fase della critica campaniana, di cui le testi-monianze più importanti mi sembrano: E. MONTALE, Sulla poesia di Campana(1942), in ID., Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano 1976, pp. 248-59; A. SE-RONI, Lettura di Campana, in ID., Ragioni critiche. Studi di letteratura contempo-ranea, Firenze 1944, pp. 73-83; M. COSTANZO, Corazzini, Michelstaedter, Cam-pana, Roma 1949, pp. 21-32, 33-43, 44-50 (del medesimo Costanzo si veda ancheStudi critici. Rebora - Boine - Sbarbaro - Campana, Roma 1955, pp. 97-112; poi,Roma 1969); F. CHIAPPELLI, Langage traditionnel et langage personnel dans lapoésie italienne contemporaine, Neuchâtel 1951, pp. 40-46; A. BOCELLI, Fortu-na di Campana (1952), in ID., Letteratura del Novecento, Caltanissetta-Roma1975, pp. 221-26; E. CECCHI, Dino Campana (1952), in ID., Di giorno in giorno.Note di letteratura italiana contemporanea (1945-1954), Milano 1954, pp. 313-18;A. PARRONCHI, Genova e il «senso dei colori» nella poesia di Campana (1953),in ID., Artisti toscani del primo Novecento, Firenze 1958, pp. 239-76; O. MACRÌ,Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze 1956, pp. 29-32, 32-38, 107-28; G. POZZI, La poesia italiana del Novecento da Gozzano agli Ermetici,Torino 1956, pp. 110-16; P. BIGONGIARI, Poesia italiana del Novecento, Firen-ze 1965, pp. 27-40, 41-58, e ID., Capitoli di una storia della poesia italiana, Firen-ze 1968, pp. 345 -55, 356-73, 374-414.

Nel 1964 appariva il libro di N. BONIFAZI, Dino Campana, Roma 1964, che,accresciuto e ristampato anni più tardi (Roma 1978) dopo le successive acquisi-zioni testuali e documentarie, rappresenta una tappa importante nella storia dellacritica campaniana. Importanti anche i numerosi studi di S. RAMAT: L’ermeti-smo, Firenze 1969, passim; La pianta della poesia, Firenze 1972, pp. 192-215; Sto-ria della poesia italiana del Novecento, Milano 1976, pp. 115-28; Protonovecento,Milano 1978, pp. 265-84, 285-31.

Ancora ricca di spunti la monografia di C. GALIMBERTI, Dino Campana,Milano 1967. Forse un po’ sommarie, rispetto alla ricca materia, le osservazioni diM. DAVID, La psicoanalisi nella cultura italiana, Torino 1966, pp. 345-48.

4) Nel 1975, quasi contemporaneamente ai due volumi di Opere e contributi,a cura di Enrico Falqui, apparivano gli atti del Convegno Dino Campana oggi, Fi-renze 1973, con contributi di Carlo Bo, Enrico Falqui, Domenico De Robertis,Neuro Bonifazi, Silvio Guarnieri, Maura Del Serra, Silvio Ramat, Giuseppe Rai-mondi, Mario Luzi, Ruggero Jacobbi, Ludovico Bernabei.

L’importante intervento di M. LUZI, Campana al di qua e al di là dell’elegia, èstato poi raccolto in ID., Vicissitudine e forma, Milano 1974, pp. 157-63.

Inoltre: M. DEL SERRA, L’immagine aperta. Poetica e stilistica dei «Canti Or-fici», Firenze 1973; ID., Dino Campana, Firenze 1974; A. ABRUZZESE, Lo stile e

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il viaggio (1975), in ID., Lo stile e il viaggio, Venezia 1979; A. ASOR ROSA, DieTragoedie des letzen Germanen in Italien, in ID., La cultura, in Storia d’Italia, a cu-ra di R. Romano e C. Vivanti, IV. Dall’Unità a oggi, t. II, Torino 1975, pp. 1284-86; P. V. MENGALDO, La tradizione del Novecento. Da D’Annunzio a Montale,Milano 1975, pp. 117-18, 141-42, 314-16; R. JACOBBI, Invito alla lettura di DinoCampana, Milano 1976; S. GENTILI, Trionfo e crisi del modello dannunziano. «IlMarzocco», Angelo Conti, Dino Campana, Firenze 1981.

Il giudizio non proprio simpatizzante di P. P. PASOLINI, Campana e Pound,in ID., Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Torino 1979, pp. 235-240 (ma l’articolo è del 1973).

Seguono, di diseguale valore e non sempre persuasivi: L. PEIRONE, La ri-cerca espressiva di Campana, Genova 1978; I. LIVIGNI, Orfismo e poesia in Cam-pana, Genova 1983; A. PIETROPAOLI, «La Chimera» di Campana) o dell’osses-sione, in ID., Le strutture della poesia, Napoli 1983, pp. 7-18; R. MAZZA, La for-za, il nulla, e la Chimera, Roma 1986; Materiali per Campana, a cura di P. Cudini,Lucca 1986 (saggi e interventi di Alberto Casadei, Fiorenza Ceragioli, Piero Cu-dini, Giovanni Nencioni, Aldo Pecoraro, Beatrice Stasi); M. VERDENELLI, I«Canti Orfici» nell’inscenamento della «notturna estate mediterranea», in ID., Lateatralità della scrittura, Ravenna 1989, pp. 105-20; A. CAPODAGLIO, Un’ideadi poetica. Nuovo saggio su Dino Campana, con una premessa di M. Marti, Galati-na 1992.

Importanti i saggi raccolti in Dino Campana nel Novecento. Il progetto e l’o-pera, a cura di F. Bernardini Napoletano, Roma 1992, atti delle giornate di studiotenutesi presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università «La Sapienza» diRoma il 16-17 maggio 1988; e La Liguria per Dino Campana. Il viaggio, il mistero,il mare, la mediterraneità, numero monografico di «Resine», nuova serie, n. 58-59(1993).

Naturalmente hanno un’importanza capitale anche per l’impostazione com-plessiva del discorso le due introduzioni, contrapposte anche nel giudizio suCampana, alle rispettive raccolte poetiche del Novecento italiano, di E. SAN-GUINETI, Poesia italiana del Novecento, Torino 1969, e di P. V. MENGALDO,Poeti italiani del Novecento, Milano 1978.

Nei miei numerosi riferimenti ai rapporti fra Campana e l’avanguardia ho te-nuto presente la mia voce «Avanguardia», in Enciclopedia, diretta da R. Romano,II, Torino 1977, pp. 195-231.

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