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Newton, la luce e i colori: un percorso scientifico per la scuola primaria Relatore Samuele Straulino Candidato Sara Campana Anno Accademico 2016/2017 Scuola di Studi Umanistici e della Formazione Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria

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Newton, la luce e i colori:

un percorso scientifico

per la scuola primaria

Relatore

Samuele Straulino

Candidato

Sara Campana

Anno Accademico 2016/2017

Scuola di

Studi Umanistici

e della Formazione

Corso di Laurea in

Scienze della Formazione

Primaria

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A mia figlia Francesca e a mio marito Davide,

con amore

Alla mia imperfetta e meravigliosa famiglia,

con gratitudine

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"C'è una crepa in ogni cosa. Ed è da lì che entra la luce"

L. Cohen

Nonostante tutto...

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Newton, la luce e i colori:

un percorso scientifico per la scuola primaria

Indice

Introduzione………………………………………………………………………….p. 5

Capitolo I

L’insegnamento delle scienze nelle Nuove Indicazioni e approcci metodologici nel

progetto……………………………………………………………………………….p. 7

1.1.Le Indicazioni Nazionali per l’insegnamento delle scienze nella scuola primaria...p.7

1.1.1. Le indicazioni ministeriali

1.1.2. Traguardi per lo sviluppo delle competenze dalle Indicazioni Nazionali

1.1.3. Principi metodologici dalle Indicazioni Nazionali

1.1.4. Dal documento Indicazioni Nazionali e nuovi scenari

1.2.Scelte metodologiche nella progettazione del percorso………………………….p.19

1.2.1. Il modello metodologico delle cinque fasi

1.2.2. La narrazione nell’educazione scientifica

1.2.3. Organizzazione didattica degli incontri

1.2.4. La scelta del contenuto

Capitolo II

Luce, colore e visione: aspetti scientifici…………………………………………..p. 29

2.1. La luce…………………………………………………………………………...p.29

2.1.1. La natura fisica della lue: la teoria di Newton e le prospettive teoriche

odierne

2.1.2. La propagazione della luce

2.1.3. Corpi opachi, traslucidi e trasparenti

2.1.4. La riflessione e la riflessione speculare

2.2. La rifrazione e la riflessione totale………………………………………………p.37

2.2.1. La riflessione diffusa

2.3. Il colore e il sistema ottico……………………………………………………….p.40

2.3.1. La gamma delle onge elettromagnetiche e lo spettro visibile

2.4. L’interazione della luce con la materia…………………………………………..p.43

2.5. L’origine dei colori e il sistema visivo…………………………………………..p.44

2.6. Sintesi additiva e sottrattiva……………………………………………………...p.48

2.7. L’arcobaleno……………………………………………………………………..p.50

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Capitolo III

Il percorso didattico in classe………………………………………………………p.53

3.1. Presentazione della classe……………………………………………………….p.53

3.2. Progettazione Unità di Competenza……………………………………………..p.53

3.3. Descrizione degli incontri………………………………………………………..p.55

Primo incontro: gioco a squadre

Secondo incontro: l’intervista a Newton

Terzo incontro: come facciamo a vedere le cose?

Quarto incontro: come interagisce la luce con le cose?

Quinto incontro: come interagisce la luce con l’acqua?

Sesto incontro: come si formano i colori nell’arcobaleno?

Settimo incontro: i colori intorno a noi

Ottavo incontro: la visione dei colori

Capitolo IV

Strumenti di verifica e presentazione dei risultati………………………………..p.91

4.1. Oggetti della valutazione………………………………………………………...p.91

4.1.1. Valutazione del percorso

4.1.2. Valutazione specifica riferita ai contenuti

4.2. Valutazione del percorso in reazione all’approccio metodologico……………...p.92

4.2.1. Valutazione della partecipazione

4.3. Valutazione delle elaborazioni scritte e orali effettuate durante il percorso…….p.95

4.4. Valutazione da parte degli alunni………………………………………………..p.97

4.5. La valutazione sui contenuti……………………………………………………..p.99

4.6. Osservazioni generali sui dati raccolti………………………………………….p.111

Conclusioni…………………………………………………………………………p.115

Allegato 1…………………………………………………………………………...p.119

Bibliografia…………………………………………………………………………p.123

Sitografia…………………………………………………………………………...p.125

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ABSTRACT

Questo progetto di tesi nasce con l’intento documentare un percorso didattico di scienze

realizzato in forma di laboratorio, dove l’esperimento non viene proposto per

confermare una definizione ma per generarla; un percorso nel quale si cerchi di

sviluppare, oltre alla capacità di osservazione, anche quella di modellizzazione e

argomentazione, attraverso il modello didattico chiamato delle “cinque fasi”. Nel testo

verranno analizzati, alla luce delle Indicazioni Nazionali e delle recenti ricerche

didattiche, gli aspetti fondamentali collegati all’insegnamento della scienza e, attraverso

la descrizione e valutazione del percorso realizzato in classe, si produrranno alcune

considerazioni sull’efficacia della metodologia usata e sui criteri da tener presenti nella

scelta dei contenuti da proporre nel curricolo di scienze della scuola primaria.

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INTRODUZIONE

Nella capacità di osservare, descrivere e comprendere un fenomeno, si nasconde

qualcosa di “fenomenale”: lo sguardo attento, l’attesa paziente, la motivazione forte, la

trasformazione cognitiva, il pensiero critico, il linguaggio argomentativo.

L’insegnamento scientifico può essere considerato un vero pilastro all’interno della

formazione scolastica, sia per i contenuti che propone, sia per le competenze che

promuove: l’educazione scientifica educa all’osservazione attenta, alla capacità di

entrare dentro le cose per indagare su come sotto fatte, come funzionano, come

reagiscono e interagiscono; l’educazione scientifica inoltre, aiuta a dare una

rappresentazione matematica alla realtà attraverso processi di analisi e modellizzazione

e sostiene lo sviluppo del linguaggio, favorendo la capacità descrittiva e argomentativa.

Queste considerazioni stanno alla base della scelta del contenuto in questo lavoro di

tesi: nella scuola è necessario che ci sia una continua ricerca-azione inerente alle

metodologie e alle strategie più efficaci per sostenere lo sviluppo delle competenze

scientifiche e del pensiero critico, e c’è necessità che queste esperienze di ricerca

vengano registrate, documentate e condivise.

In particolare, in questo progetto di tesi, saranno due i contenuti di indagine: il primo

riguarda il metodo didattico utilizzato, il secondo il contenuto proposto. Riguardo al

primo, la conduzione delle attività in classe verrà scandita da fasi ben definite, secondo

il metodo chiamato “delle cinque fasi”: i momenti laboratoriali di scoperta ed

esperienza verranno sistematicamente accompagnati da momenti di riflessione e

concettualizzazione, prima attraverso una elaborazione ipotetica personale scritta poi,

dopo il confronto, con la creazione condivisa delle definizioni scientifiche. Riguardo al

contenuto, l’obiettivo di questo lavoro è quello di realizzare un percorso su un

fenomeno scientifico che fa parte dell’esperienza sensibile dei bambini, ma che presenta

aspetti concettuali complessi, per poi valutarne, alla fine, l’effettiva comprensione da

parte loro. Le domande a cui cercheremo di rispondere saranno pertanto queste: qual è

stato l’approccio della classe di fronte a questa metodologia? Quanto i contenuti

proposti sono stati acquisiti? Quali elementi di forza e quali di criticità legati alla

metodologia o ai contenuti proposti sono emersi? Nelle conclusioni cercheremo di dare

risposta queste domande.

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Il primo dei quattro capitoli sarà dedicato all’inquadramento dell’educazione scientifica

nella scuola primaria, alla luce delle Indicazioni Nazionali, nell’ottica della costruzione

delle competenze. Collegandoli alle metodologie presentate nelle Indicazioni e facendo

riferimento a testi di vari autori specializzati in didattica, verranno delineati alcuni

principi che dovrebbero stare alla base della didattica della scienza: cosa si intende per

“laboratorio scientifico”? Qual è il ruolo dell’esperimento? Cosa si intende per

linguaggio scientifico? Cosa si intende per modellizzazione? Come gestire il divario tra

sapere comune e sapere scientifico? Quali sono i contenuti da proporre? Quali sono le

strategie didattiche per la costruzione delle competenze scientifiche nella scuola

primaria? Il primo capitolo si concluderà con la descrizione della strutturazione degli

incontri, della metodologia utilizzata nel percorso e delle diverse strategie che verranno

messe in atto.

Nel secondo capitolo si presenteranno i concetti scientifici affrontati in questo percorso:

il fenomeno della luce, l’interazione tra luce e corpi, l’origine dei colori, la funzione e il

ruolo del sistema visivo. La luce è un fenomeno quotidiano facilmente esperibile, ma è

particolarmente complesso da comprendere: non sempre ciò che si vede è “evidente”.

La scelta, in questo capitolo, è di affrontare gli aspetti teorici che verranno presentati ai

bambini: la propagazione e la diffusione, la rifrazione della luce; l’interazione tra la luce

e gli oggetti (opachi, trasparenti, traslucidi, riflettenti); il fenomeno dell’arcobaleno (sul

quale si fonda la sfida lanciata da Newton ai bambini); l’origine dei colori e la

spiegazione del fenomeno che consente di vedere le cose colorate.

Nel terzo capitolo verranno descritti gli incontri effettuati in classe. Oltre alla

descrizione narrativa delle attività, verranno riportati stralci di conversazione e parti di

testi scritti dai bambini, così da poter osservare e comprendere come i bambini hanno

interagito e costruito le loro conoscenze. Anche questo materiale sarà poi oggetto di

verifica.

L’ultimo capitolo sarà dedicato alla valutazione del percorso: la valutazione si baserà

sull’analisi egli elementi raccolti durante il progetto didattico e sull’analisi dei risultati

di prove di verifica strutturate. Dei risultati emersi daremo conto nella conclusione.

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CAPITOLO 1

L’INSEGNAMENTO DELLE SCIENZE NELLE NUOVE

INDICAZIONI E APPROCCI METODOLOGICI NEL PROGETTO

1.1 Le Indicazioni Nazionali per l’insegnamento delle scienze nella scuola primaria

1.1.1 Le indicazioni ministeriali

Il MIUR afferma che la scuola primaria «pone le basi per l’utilizzazione di metodologie

scientifiche nello studio del mondo naturale, dei suoi fenomeni e delle sue leggi»1.

Questa affermazione è estremamente densa di significato e ciascun termine esprime

concetti chiave fondamentali per l’insegnamento scientifico:

Basi: se la scuola primaria deve porre le basi, si prevede che negli ordini futuri,

su queste basi, si debbano costruire conoscenze e competenze che siano in

continuità tra loro, in relazione alla crescita cognitiva dei bambini, in accordo sul

cosa e sul come insegnare. Diventa allora fondamentale che l’educazione

scientifica, nelle metodologie usate e nei contenuti proposti, sia strutturata

all’interno di un curricolo verticale costruito e condiviso all’interno di ogni

Istituto comprensivo. Potremo dire che alla base della scuola primaria non c’è

più la prescrittività del programma, ma l’apprendimento significativo per

ciascun alunno. Il curricolo non ha a che vedere con la quantità, ma con la

qualità dei contenuti: un passaggio dalla “cultura del programma alla cultura del

curricolo”2;

Metodologie scientifiche: le metodologie scientifiche si applicano allo studio

del mondo naturale, ed è pertanto dall’osservazione delle “cose” del mondo che

devono partire. Osservare è diverso da vedere: osservare è guardare con

attenzione, è un atto volitivo finalizzato alla scoperta e alla conoscenza (saper

descrivere ciò che avviene, saperlo distinguere, saperlo prevedere). Sarà poi

l’azione dell’insegnante, elemento fondamentale in questo processo, che

condurrà verso la comprensione di ciò che è stato scoperto. Ecco perché è

1 Miur, Scuola Primaria in http://www.miur.gov.it (Verificato in data 12/1/2018). 2 Trisciuzzi L., Manuale di didattica in classe, Edizioni ETS, Firenze 1999.

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fondamentale partire dalle esperienze e dalle attività laboratoriali, nelle quali il

fare accompagna l’osservare e introduce al capire;

Fenomeni e leggi: nella scuola primaria è fondamentale affrontare argomenti

scientifici che abbiano a che fare con l’esperienza sensibile; fenomeni che siano,

appunto, esperibili e, quando possibile, ripetibili. L’esperienza però, non è

sufficiente: deve essere accompagnata da una fase di comprensione che prevede

anche, attraverso la sua costruzione, l’utilizzo e la comprensione di un

pensiero/linguaggio scientifico, nel quale i termini utilizzati abbiano un

significato contestualizzato, spesso non corrispondente all’uso comune. Si

dovrebbe pertanto condurli a «un passaggio dall’esclusivo ricorso alla

conoscenza comune per spiegare i fenomeni della realtà, all’uso di quella

scientifica, supportata da opportune leggi e motivazioni»3. Del resto, la

complessità maggiore dell’in-segnare sta proprio in questo: trasformare la realtà

complessa in segni che siano comprensibili e intellegibili ai bambini.

1.1.2 Traguardi per lo sviluppo delle competenze delineati nelle Indicazioni

Nazionali

Nelle Indicazioni Nazionali si mettono in stretta relazione il mondo (naturale e del

laboratorio), il soggetto che apprende e la comunità in cui questo avviene.

L’apprendimento scientifico non avviene solo attraverso azioni in cui il soggetto è

isolato, ma anche attraverso l’interazione, il confronto, la collaborazione e la

progettazione con gli altri.

Il percorso realizzato in questo progetto di tesi ha assunto come riferimenti i seguenti

traguardi per lo sviluppo delle competenze al termine della scuola primaria.

L’alunno:

«Sviluppa atteggiamenti di curiosità […] che lo stimolano a cercare spiegazioni

di quello che vede e succede»4: l’artefatto fondamentale da cui parte ogni azione

di questo percorso è la domanda. Il docente interroga continuamente i bambini,

li pone di fronte a quesiti su quello che vedono, chiede loro di ipotizzare

spiegazioni e poi le ascolta attento, dà valore a questo sforzo di trasformare

3 Renda E., Quaderni di Ricerca in Didattica- Science, n. 4, 2012 G.R.I.M. - Department of Mathematics,

University of Palermo, Italy, pag. 6. 4 Annali della Pubblica Istruzione, Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del

primo ciclo d’istruzione, Numero speciale 2012, Le Monnier, Firenze, pag. 67.

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pensieri indefiniti in parole, dà valore a questo sforzo intellettivo e a quel senso

di “incompiutezza” comunicativa che a volte il bambino prova (non so come

spiegarlo…non mi vengono le parole…) ed è a questo che si aggancia per dare

ai bambini ciò di cui hanno bisogno per sistematizzare, organizzare ed esprimere

ciò che pensano, sperimentano e sentono di sapere;

«Formula domande, anche sulla base di ipotesi personali»: è partendo dalle

ipotesi personali che il docente realizza un “cambiamento concettuale” nel

bambino. L’educazione scientifica, proprio in quanto educazione, parte sia

dell’ex-ducere inteso come il tirar fuori quello che c’è dentro al bambino, sia

dell’ex-ducere inteso come il condurre dietro di sé. Educare significa sapere

dove si trova l’allievo, portandolo da una conoscenza spontanea a una

conoscenza scientifica. Un bambino che pone domande è un bambino in ricerca

e questa ricerca crea un contesto significativo per l’apprendimento. Come è

esplicitato nel piano ministeriale Insegnare Scienze Sperimentali “ciò significa

raccogliere al riguardo le domande e le proposte degli alunni, coerenti o

incoerenti che siano poiché lo scopo primario è quello di ricercarne i relativi

contesti di senso”5;

«Individua nei fenomeni somiglianze e differenze e registra dati significativi»:

confrontare esperienze, scoprirne somiglianze e differenze, annotarle, registrarle,

documentarle e comunicarle in vari modi (attraverso schemi, disegni, narrazioni,

tabelle, descrizioni) aiuta il bambino ad orientarsi all’interno dei fenomeni che

sperimenta, lo aiuta a fare previsioni e a capire cosa può aspettarsi da azioni,

reazioni e interazioni tra oggetti, materiali e sostanze. Questo processo prepara

alla competenza esplicitata nei traguardi della scuola secondaria di primo grado:

quella della modellizzazione6. In base a quanto riportato nel Piano Insegnare

Scienze Sperimentali del 2010, possiamo definire modelli dei «costrutti mentali

con diversi livelli di astrazione, corrispondenti a rappresentazioni esprimibili in

linguaggi diversi, adeguati a organizzare in forma definita le correlazioni che il

soggetto conoscente stabilisce tra aspetti diversi della realtà»7. In questa

accezione, molto ampia, il processo di modellizzazione emerge come una

5 Annali della Pubblica Istruzione, Il Piano insegnare scienze sperimentali, 5-6 2009/1 2010, Le Monnier,

Firenze, pag. 40. 6 Annali della Pubblica Istruzione 2012, op. cit., pag. 69. Il termine è utilizzato nelle Indicazioni

Nazionali, nel paragrafo che riguarda le competenze in uscita nella scuola secondaria: “Sviluppa semplici

schematizzazioni e modellizzazioni di fatti e fenomeni” 7 Annali della Pubblica Istruzione 2010, op. cit., pag. 143.

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caratteristica del pensiero umano che contraddistingue sia la conoscenza comune

che la conoscenza scientifica. Il processo di apprendimento delle scienze

consiste, da questo punto di vista, in un passaggio da attività di modellizzazione

spontanea ad attività di modellizzazione che acquisiscano gradualmente caratteri

sempre più vicini a quelli delle attività disciplinari. L’insegnante deve sincerarsi

che siano salvaguardati alcuni aspetti critici:

Appropriazione del problema conoscitivo che induce alla costruzione o

all’uso del modello; distinzione tra modello e realtà: il modello come

strumento per sviluppare e testare le proprie ipotesi sulla realtà;

Consapevolezza del carattere di schematizzazione del modello8;

«Espone in forma chiara ciò che ha sperimentato, utilizzando un linguaggio

appropriato»: il linguaggio appropriato è, a mio avviso, prima di tutto, quello che

consente di descrivere, raccontare, esprimersi, collegare fatti, metterli in

sequenza con l’utilizzo dei giusti connettivi logici e temporali, degli aggettivi,

dei verbi, delle preposizioni etc... Questo non vuol dire che non si possano

introdurre dei termini specifici connessi alla disciplina. Il problema semmai è un

altro: quando i termini specifici vengono semplicemente trasmessi,

accompagnati da definizioni da memorizzare, magari letti da un libro e

supportati da qualche immagine che dovrebbe aiutarne la comprensione, è certo

che quei termini rimarranno parole prive di significato, ed il fatto che siano

avulse da qualsiasi contesto e distanti da qualsiasi esperienza, le renderà

soggette ad essere presto dimenticate, e sicuramente la loro conoscenza non

contribuirà alla costruzione di alcuna competenza. Ma, in base a quanto ho

sperimentato in questi anni a scuola, se l’insegnamento di questi termini si

accompagna ad esperienze concrete e ad una costruzione personale e collettiva

del loro significato, allora non solo vengono compresi ma aiutano anche a

comprendere. In questo senso, Eleonora Aquilini riprende il concetto di

“definizioni operative”9. La professoressa Aquilini afferma che il mondo

macroscopico che si vede, che si può toccare e manipolare, che si può

interrogare, su cui si possono verificare ipotesi, deve essere non solo osservato,

ma anche descritto, letto e riletto con un linguaggio sempre più adeguato.

8 Ivi pag. 143. 9 Quanto segue è riportato da un articolo, condiviso da e di Eleonora Aquilini, durante un corso CIDI nel

mio Istituto, dal titolo “I bambini e le definizione scientifiche”.

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Studiando i fenomeni si possono costruire definizioni operative che

assomigliano alle azioni interiorizzate, che sono i primi pensieri scientifici che

poi contribuiranno a formare schemi più generali che potranno abbracciare

pensieri scientifici adulti. Tali definizioni sono precise ma non hanno nulla che

ricordi la perfezione autoritaria degli enunciati che leggiamo sui libri.

È questo che, nella mia esperienza di insegnante, ho inteso per “padronanza” dei

termini specifici; una volta appresi, ma soprattutto compresi ed utilizzati, diventano la

base cognitiva indispensabile per gli apprendimenti successivi.

Riguardo ai contenuti, nelle Indicazioni Nazionali si parla anche di fenomeni della vita

quotidiana, legati al mondo che circonda i bambini, sui quali essi possono compiere

delle investigazioni, formulare ipotesi, scoprirne le cause e descriverne le qualità e le

proprietà: le proprietà dell’acqua, l’ombra prodotta dal sole, una candela che brucia

etc…

Nelle Indicazioni si fa inoltre esplicito riferimento agli organizzatori concettuali.

Secondo Lubini e D’Anna, un organizzatore concettuale «è uno strumento che permette

di spiegare e strutturare la realtà, dando forma a una possibile configurazione di

connessioni all’interno della rete complessa delle informazioni. Secondo questa logica

comprendere significa acquisire la competenza di stabilire dei legami tra le varie

componenti della conoscenza, evitando di limitarsi al semplice accumulo delle

informazioni».10 Gli organizzatori concettuali quindi, come riportano le Indicazioni,

garantiscono di riconoscere «l’unitarietà della conoscenza di quello che vanno

studiando»11 evitando così “la frammentarietà nozionistica” dei differenti contenuti. Del

resto, come afferma anche Silvia Caravita, «i bambini hanno uno sguardo olistico,

perché non separano in parti ciò che si manifesta nella sua globalità; in questo senso

sono ancora capaci di cogliere o forse intuire l’intreccio che c’è tra le parti che è ciò che

produce risposte coerenti»12.

1.1.3 Principi metodologici secondo le Indicazioni Nazionali

Riguardo alla didattica, D’Amore parla di situazione didattica definendola come

«l’insieme delle relazioni stabilite in modo implicito ed esplicito tra l’insegnante,

10 Lubini P. e D’Anna M., Gli organizzatori concettuali, in www.pse.unimore.it 11 Ibidem. 12 Caravita S., La ricercazione in area biologico/naturalistica. Le scienze della vita nella scuola primaria,

in Quaderni di documentazione n.8 Laboratorio Valdera scuola scienza, Pontedera 2013, pag.74.

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l’allievo (o il gruppo di allievi) ed elementi al contorno (strumenti o materiali)»13.

Essendo situazioni, esse sono necessariamente contestualizzate in un determinato

ambiente, in un determinato momento e avvengono tra determinate persone: ecco

perché, tra le competenze richieste al docente, c’è quella di adattare e contestualizzare

continuamente e in modo dinamico la sua azione didattica. La situazione didattica è

strettamente correlata al metodo, cioè «alle modalità con cui viene concepito il rapporto

tra docente e allievi nel progettare e realizzare le procedure relative

all’insegnamento/apprendimento»14. Ma nell’insegnamento delle scienze, sostiene

ancora Olmi, i metodi in questione sono due: il metodo didattico, che «attiene alle

modalità con cui si instaura il rapporto tra docente e discente» e il metodo scientifico,

che «concerne i possibili metodi di indagine scientifica»15.

Non sarà possibile affrontare in dettaglio la questione sui metodi o sulle svariate

tecniche d’insegnamento, ma in questo paragrafo presenterò quali sono stati i

presupposti su cui ho progettato e cercato di realizzare questo percorso scientifico.

Questa presentazione parte dallo strumento professionale che, come insegnante, sta alla

base della mia progettazione didattica: sto parlando ancora delle Indicazioni. In esse si

trovano precise indicazioni metodologiche, che collegherò in questo caso alla disciplina

scientifica.

«Valorizzare l’esperienza e la conoscenza degli alunni, per ancorarvi nuovi

contenuti»16: a questo proposito, riprendo D’Amore che afferma che «non si insegna

mai sul vuoto, nel nulla: quando si insegna qualche cosa, su quel qualche cosa ci sono

già idee, consapevolezze, competenze più o meno corrette, più o meno ben fondate»17.

Questo aspetto della valorizzazione dell’esperienza ha una duplice valenza: dalla parte

del discente il coinvolgimento emotivo e motivazionale, per il quale i bambini si

sentono chiamati ad esprimere il proprio mondo interiore e ad essere quindi protagonisti

attivi del dialogo educativo; dall’altra parte, quella del docente, l’opportunità di

conoscere «la formazione spontanea dei concetti, prima della loro formazione

scientifica vera e propria»18. Si apre a questo proposito la questione delle

misconcezioni, che riguardano appunto le concezioni non corrette, quelle che sono in

13 D’Amore B., Elementi di Didattica della Matematica, Pitagora Editrice, Bologna 1999, pag. 78. 14 Olmi F., Quali metodi per l’insegnamento delle scienze sperimentali? In http://storico.cidi.it (Verificato

in data 21/1/2018). 15 Ibidem. 16 Annali Pubblica Istruzione, op. cit., pag. 34. 17 D’Amore B., Elementi di Didattica della Matematica, op. cit., pag.63. 18 Ibidem.

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attesa di una sistemazione più cognitiva e critica. Anche il bambino che frequenta il

primo anno di scuola primaria possiede già un bagaglio esperienziale e conoscitivo; è

proprio da questo bagaglio che l’insegnante deve partire, mettendo in crisi i preconcetti

dei bambini con esperienze e informazioni nuove, in modo che il bambino possa

indirizzare il proprio pensiero verso la formazione di concetti scientificamente corretti.

Arons sostiene a questo proposito che «ciò che si deve imparare a fare è di porre delle

domande semplici, scandite in sequenza, che guidino gli studenti in maniera socratica

consapevole. Dopo ogni domanda, si deve tacere ed ascoltare con attenzione la

risposta»19. Questo tempo di attesa è di enorme importanza: spesso gli insegnanti si

aspettano risposte immediate e, se non arrivano subito, sollecitano il bambino

modificando la domanda o suggerendo parte della risposta. Ma se sono gli insegnanti

che, di fronte a questo tempo necessario di “riflessione interna”, pongono le «risposte

corrette e le spiegazioni chiare, gli studenti non imparano niente»20: gli studenti

imparano se sono condotti ad affrontare le contraddizioni che si trovano in ciò che

dicono e a modificare spontaneamente le proprie dichiarazioni. Nel documento già

citato di Elisabetta Renda, si afferma che «l’obiettivo della didattica è quello di far

convivere gli schemi spontanei con quelli scientifici riconoscendo anche ai primi

carattere di validità; questi possono convivere solo nell’ambito di uno schema di

conoscenza più ampio che ne determini le regole d’uso»21.

«Attuare interventi adeguati nei riguardi delle diversità per fare in modo che non

diventino diseguaglianze»22: all’interno del laboratorio scientifico (inteso non come

luogo ma come modalità di lavoro), nel quale l’allievo viene coinvolto nella scoperta e

collabora alla costruzione del suo significato, le differenze si integrano e le difficoltà si

superano, compensate dall’interazione e dalla stimolazione di tutte le capacità che i

bambini posseggono. Il laboratorio, per sua natura, è inclusivo: in esso lo studente è il

protagonista, colui che fa, che descrive, che ipotizza e verifica. In tutto questo,

l’insegnante si pone come accompagnamento, guida, sostegno e aiuto istaurando un

setting che favorisce la centralità dell’allievo.

«Favorire l’esplorazione e la scoperta»23: sono i presupposti essenziali

dell’educazione scientifica. Feynman scrive: «Penso sia molto importante far capire che

19 Arons A., Guida all’insegnamento della fisica, Zanichelli, Bologna 1992, pag. 414. 20 Ibidem. 21 Renda E., op. cit., pag. 4. 22 Annali pubblica Istruzione 2012, op. cit., pag. 34. 23 Ibidem.

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dalle osservazioni può emergere qualcosa di splendido. Fu così che imparai che cosa

voleva dire scienza. Era pazienza. Se osservavi e prestavi attenzione ottenevi una grande

ricompensa (anche se non tutte le volte forse)»24. Il punto semmai è riflettere bene su

cosa esplorare e su cosa si intenda, nell’azione didattica, per scoperta. Riguardo

all’esplorazione, è l’insegnante che deve proporre percorsi di esplorazione di fatti e

fenomeni che siano prima di tutto connessi allo sviluppo cognitivo dei bambini. Di

recente ho partecipato ad un corso del CIDI organizzato nel mio istituto e tenuto dalla

professoressa Eleonora Aquilini. In una presentazione da lei condivisa si legge proprio

questo: «i temi da esplorare e approfondire devono essere caratterizzati da una quantità

di contenuti ed esperienze effettivamente compatibili con un apprendimento

significativo». Per significativo in questo caso di intende «adeguato alle strutture

cognitive e motivazionali dello studente» (Eleonora Aquilini). L’esplorazione è

necessaria, ed essa si realizza attraverso l’osservazione diretta degli oggetti, dei fatti e

dei fenomeni, in un contesto laboratoriale ed esperienziale. Ed è in questo contesto che

dall’esplorazione scaturisce la scoperta. La scoperta quindi, è legata ad un processo

lungo, orientato dall’insegnante ma costruito dagli studenti. Se scoprire significa

“rimuovere ciò che nasconde”, questo significato, a mio avviso, lo si può intendere

come comprensione di cosa si nasconda dietro alla ripetitività di certi fenomeni, al loro

modo di manifestarsi, agli elementi che interagiscono tra loro per produrre quel

fenomeno, alle costanti che rimangono invariate e agli elementi che invece variano al

variare delle situazioni etc... La sorpresa che si innesca nello studente di fronte ad una

scoperta, non è legata ad una sorta di “pensiero magico” che lega la meraviglia dei

fenomeni alla loro spettacolarità, ma alla sorpresa di averli compresi, così da poter

affermare con stupore: “Ah…ecco come succede, ora ho capito”. È importante pertanto

ribadire che i contenuti di questa esplorazione e di questa scoperta, proprio perché sono

processi complessi, devono essere adatti all’età evolutiva e cognitiva dei bambini. Del

resto questo deve accadere nella progettazione di qualsiasi disciplina, come sostiene

anche Trisciuzzi nel Manuale di didattica in classe: «L’idoneità di un programma

didattico consiste, prima di tutto, nel rispettare l’utente e le sue capacità di comprendere

quanto gli viene presentato»25. Nel documento già citato ad opera di Elisabetta Renda,

viene ripreso P. V. Hewson (prospettiva costruttivista) che pone tre condizioni per

l’accettazione dei contenuti della conoscenza: «La nuova conoscenza deve essere

24 Feynman R., Il piacere di scoprire, Adelphi, Milano 2002. 25 Trisciuzzi L., Manuale di didattica in classe, Edizioni ETS, Firenze 1999.

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intellegibile (perché il soggetto ne comprenda il significato e ne veda la coerenza tra gli

elementi); plausibile (perché il soggetto sia in grado di riconoscerne la validità); utile

(per risolvere problemi precedenti e per suggerirgli nuove idee e possibilità)»26.

Anche nella scoperta, la mediazione didattica è importantissima. L’attività di scoperta,

secondo Silvia Caravita, deve essere sostenuta dall’insegnante in vari modi: dal fatto di

selezionare molteplici esperienze attorno a determinati fenomeni, in modo che nella

classe si consolidi un nucleo di riferimenti empirici che siano comuni a tutti; dal fatto

che colga l’elemento di curiosità dei bambini di fronte a fenomeni che possono andare

anche oltre ciò che si aspettavano, e far diventare questa “sorpresa” motore di ricerca

per sviluppare la capacità di problematizzare ciò che essi stessi sperimentano27.

Concludo questa parte, riprendendo una brano di Franco Lorenzoni:

«I bambini nella scuola elementare incontrano per la prima volta la storia, le

scienze, l’arte e il pensiero che pensa se stesso. Cominciano ad esplorare in

modo diverso e più strutturato la matematica e la lingua, che praticano da

quando sono nati. Come far sì che questi incontri si presentino a loro

conservando il sapore di scoperte che hanno trasformato la percezione umana

del mondo?»28

«Incoraggiare l’apprendimento collaborativo»29: nella realizzazione di questo

progetto, si devono distinguere due modalità di socializzazione del processo di

apprendimento. Come vedremo in seguito, alcune attività sono state condotte dagli

studenti in modalità di cooperative learning: sono stati assegnati ai gruppi (gruppi

informali, per riprendere la definizione di Johnson) dei compiti specifici e ben definiti e,

in ciascun gruppo, i ruoli di ciascuno.30 L’apprendimento cooperativo, oltre che allo

sviluppo delle competenze sociali, sostiene, se ben organizzato, il processo di

apprendimento dei bambini con difficoltà di apprendimento, poiché favorisce, in

ciascun componente del gruppo, l’interdipendenza positiva, la responsabilità individuale

e l’interazione costruttiva.

Nel nostro percorso però, la socializzazione riguarda anche le modalità con cui avviene

il passaggio dagli schemi spontanei a quelli scientifici, attraverso quella che può essere

26 Renda E., op. cit., pag. 4. 27 Cfr. Caravita S., op. cit., pag. 71. 28 Lorenzoni F., I bambini pensano grande, Sellerio Editore, Palermo 2014. 29 Annali Pubblica Istruzione, op. cit., pag. 34. 30 Per l’organizzazione didattica delle attività in apprendimento cooperativo, si sono seguite le indicazioni

presenti nel testo di D. W. Johnson, R. T. Johnson e E. Holubec, Apprendimento cooperativo in classe,

Erickson, Trento 1994.

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definita una discussione scientifica collettiva. Nei materiali del corso CIDI di Eleonora

Aquilini, già menzionati, si legge proprio che “tra pari può stabilirsi un conflitto socio-

cognitivo in cui lo scambio con l’altro conduce il soggetto a cercare di risolvere le

contraddizioni tra i suoi giudizi e, quindi, a entrare nel campo della razionalità”.

Attraverso il confronto e con la continua mediazione con l’altro, si verifica la

plausibilità delle proprie affermazioni e si effettua un loro eventuale “aggiustamento”; si

sviluppa inoltre la competenza fondamentale connessa all’argomentazione

(l’argomentazione educa al pensiero logico-formale, al ragionamento ipotetico, alle

competenze matematiche e al pensiero scientifico, ma anche al saper discutere,

dimostrare e ragionare criticamente).

«Promuovere la consapevolezza del proprio modo di apprendere31»: questo

principio metodologico fa riferimento alla competenze chiave dell’“imparare ad

imparare”. A questo proposito, Massimo Recalcati riprende un’immagine spesso

utilizzata, perché estremamente chiara, parlando di apprendimento: «L’apprendimento

non avviene per travaso passivo da un bicchiere più pieno a un bicchiere più vuoto,

perché il modello su cui si basa non è mai quello di un vuoto da riempire, quanto di un

vuoto da aprire»32. La riflessione sui propri processi di apprendimento va oltre il

cognitivo e investe l’ambito del metacognitivo. In relazione alla metacognizione, Carlo

Fiorentini afferma che essa rappresenta una modalità profondamente diversa

nell’impostare il processo di insegnamento-apprendimento rispetto alle modalità

tradizionali, basate sul prodotto e non sui processi; è strettamente connessa a modalità

didattiche laboratoriali significative, centrate sui processi di costruzione della

conoscenza. 33

Riguardo a questo aspetto, ho scelto di far riferimento ad un capitolo del libro di Arons

che si intitola Pensiero Critico34. Egli introduce il capitolo con una citazione di Jacques

Bazun che mi pare assolutamente significativa:

«Le semplici e pur difficili arti del prestare attenzione, copiare accuratamente,

rilevare un’ambiguità o una deduzione falsa, organizzare in vista dello studio il

proprio tempo e il proprio pensiero: tutte queste arti non possono essere insegnate

in astratto ma solo affrontando le difficoltà di un argomento definito; non

31 Annali Pubblica Istruzione, op. cit., pag. 35. 32 Recalcati M., L’ora di lezione, Torino 2014, pag. 43. 33 Fiorentini C., Il ruolo della lingua italiana nella comprensione dei fenomeni scientifici,

http://www.cidi.it (Verificato in data 25/1/2018). 34 Arons A., op. cit., pag. 399.

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possono essere insegnate in un corso di un anno, ma devono essere acquisite

gradualmente attraverso dozzine di connessioni»35.

Lo stesso Arons, che elenca una serie di processi atti a sviluppare il pensiero critico,

afferma che il lettore può togliere o aggiungere punti a quelli elencati a seconda della

loro pertinenza alle materie insegnate (a mio avviso anche in base all’età degli studenti).

Tra questi punti, nel mio percorso ho cercato di favorire i seguenti:

Sollevare in maniera cosciente le domande “Che cosa sappiamo? Cosa può

accadere secondo noi quando si verificano certe condizioni?”

Essere coscienti in maniera chiara ed esplicita delle lacune che esistono nelle

informazioni che abbiamo a disposizione.

Distinguere tra osservazione e deduzione (per fare un esempio, si potrebbe

paragonare questa distinzione a quella che esiste tra l’analisi di un’opera e la sua

interpretazione).

Riconoscere che le parole sono simboli per esprimere le idee, e non le idee

stesse. Far vedere agli studenti che i concetti si evolvono, che si parte da un

livello più approssimativo, iniziale e intuitivo, per affinare progressivamente il

concetto e attribuirgli, solo dopo averlo costruito, un nome.

Eseguire un ragionamento ipotetico-deduttivo, cioè da una particolare

situazione, applicare le conoscenze dei principi e visualizzare, in astratto, le

conseguenze possibili. Questo non sempre e solo con domande molto

circoscritte, ma anche con questioni più ampie che costringano lo studente a

inventare possibili variazioni a caccia di possibili conseguenze.

Verificare la consistenza interna della propria linea di ragionamento e delle

proprie conclusioni, e sviluppare così la fiducia in se stessi.

Sviluppare un’autocoscienza dei propri processi di riflessione e di

ragionamento36.

«Realizzare attività didattiche in forma di laboratorio»: l’aspetto del laboratorio è

strettamente connesso all’esplorazione e alla scoperta. Il laboratorio è da intendersi in

due sensi: come luogo fisico, cioè come ambiente adeguatamente predisposto,

organizzato nella struttura, nello spazio e nei materiali per la realizzazione di esperienze

35 Ivi pag. 400. 36 Arons A., op. cit., pag. 400-407. I punti sopra riportati sono stati ripresi nelle linee essenziali, da me

sintetizzati e in parte riformulati.

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e la riproduzione di fenomeni, in modalità di semplice osservazione da parte dei

bambini oppure nella modalità di riproduzione dell’esperimento da parte loro; come

modalità di lavoro, nella quale, appunto, si realizzano esperienze di esplorazione e

ricerca. Non è detto però, che la mancanza del primo impedisca la realizzazione del

secondo. Molto spesso nelle nostre scuole manca il luogo fisico del laboratorio

scientifico, ma le insegnanti conducono ugualmente attività laboratoriali straordinarie.

Infatti l’indicazione metodologica non parla di attività didattiche in laboratorio, ma in

forma di laboratorio. In generale, l’importante è capire che il laboratorio è il luogo in

cui si agisce con la mente partendo da elementi empirici. Il termine laboratorio quindi è

un modo attivo e operativo di organizzare l’insegnamento/apprendimento e viene usato

per indicare «qualsiasi attività intenzionale tesa a raggiungere un risultato definitivo e

concreto attraverso procedure e attività specifiche controllate dall’allievo e per lui

significative»37 Riguardo contenuti su cui condurre l’attività laboratoriale ci siamo già

soffermati; l’elemento fondamentale del laboratorio però è che non sia un

frammentazione di esperimenti volti a dimostrare qualcosa: capita spesso infatti, che

l’esperimento sia utilizzato per dimostrare e confermare una teoria scientifica introdotta

dall’insegnante. In questo caso il laboratorio diventa il luogo della sola verifica, ma non

della scoperta. Il laboratorio invece è il luogo della ricerca empirica, ed il procedimento

è esattamente opposto: si osserva una realtà (fenomeno), ci si interroga su di essa, si

elaborano ipotesi, si effettuano prove e, alla fine, si definiscono i concetti scientifici che

ne stanno alla base.

Il laboratorio scientifico, come sostiene Silvia Caravita, è il luogo in cui avviene

l’elaborazione delle relazioni tra fatti e fattori che producono variazione nei fenomeni.

In questo senso, parla di un elemento fondamentale nell’educazione scientifica: la

modellizzazione. La Caravita la definisce come «l’elaborazione di sistemi interpretativi

che vengono applicati ai dati di realtà e modificati qualora l’evidenza dimostri che non

sono utili per fare previsioni su quanto accade»38.

1.1.4. Dal documento Indicazioni Nazionali e nuovi scenari

Nel febbraio 2018, il MIUR ha pubblicato il documento Indicazioni nazionali e nuovi

scenari, frutto del lavoro del Comitato scientifico per le Indicazioni nazionali della

scuola dell’Infanzia e del primo ciclo di istruzione. Il documento propone alle scuole

37 Renda E., op. cit., pag. 5. 38 Caravita S., op. cit., pag. 71.

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una rilettura delle Indicazioni nazionali attraverso la lente delle competenze di

cittadinanza. In realtà, le Indicazioni del 2012 presentavano uno scenario del tutto

coerente con quanto è stato poi delineato nell’Agenda 2013 dell’ONU per lo sviluppo

sostenibile che indicava, al quarto punto, l’obiettivo di “Fornire un'educazione di

qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di apprendimento per tutti”39. Nel nuovo

documento ministeriale il pensiero scientifico si legge:

«In ambito scientifico, è fondamentale dotare gli allievi delle abilità di rilevare

fenomeni; porre domande; costruire ipotesi; osservare, sperimentare e raccogliere

dati; formulare ipotesi conclusive e verificarle. Ciò è indispensabile per la

costruzione del pensiero logico e critico e per la capacità di leggere la realtà in

modo razionale, senza pregiudizi, dogmatismi e false credenze. Per il

conseguimento di questi obiettivi è indispensabile una didattica delle scienze

basata sulla sperimentazione, l’indagine, la riflessione, la contestualizzazione

nell’esperienza, l’utilizzo costante della discussione e dell’argomentazione»40.

A questo proposito, se è stato necessario ribadire quanto era già espresso nelle

Indicazioni, significa a mio parere che il mondo della scuola presenta ancora delle

difficoltà nell’accogliere e attuare le Indicazioni stesse. Se è vero che il curriculum

esplicito si costruisce nell’Istituto e deve essere caratterizzato da continuità e coerenza,

è necessario lavorare anche sul curriculum implicito. La cittadinanza, ma insieme ad

essa qualsiasi forma di pensiero, si costruisce giorno dopo giorno, istante dopo istante,

in quelle che sono le scelte, le azioni, le relazioni e le attenzioni che si realizzano in

classe: la gestione del tempo e degli spazi, lo stile educativo di ascolto e accoglienza, la

costruzione condivisa delle conoscenze e delle competenze, la realizzazione di contesti

di senso, non possono essere collegati ad una sola disciplina o ad un solo progetto, ma

devono costituire, a partire dai primi anni della scuola primaria, lo stile abituale della

vita scolastica.

1.2 Scelte metodologiche nella progettazione del percorso

1.2.1 Il modello metodologico delle cinque fasi

In questi anni di insegnamento ho frequentato molti corsi di formazione sulla didattica

della scienza e la mia bibliografia di riferimento è molto collegata a questa formazione.

39 MIUR, “Indicazioni Nazionali e nuovi scenari”, documento a cura del Comitato Scientifico Nazionale

per le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, 22

Febbraio 2018, pag. 7. 40 Ivi pag. 13.

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Al corso del CIDI ho avuto l’opportunità di conoscere il modello metodologico delle

“cinque fasi”, messo a punto da Carlo Fiorentini, nel quale, a mio avviso, si ritrovano

molti degli elementi didattici che ho presentato nel primo capitolo e che, in linea di

principio, costituiscono un punto di riferimento del mio lavoro in classe. In definitiva,

posso dire di aver individuato in questo modello (seppur modificandolo in qualche suo

aspetto) un’ottima sintesi di tutto il mio percorso formativo e professionale.

Fiorentini afferma che l’osservazione e la comprensione dei fenomeni si realizzano

attraverso attività linguistiche specifiche: descrizione, confronto, individuazione di

differenze e somiglianze, attuazione di classificazioni, elaborazione di definizioni. In

questa tipologia di modello didattico, il prodotto può essere raggiunto consapevolmente

attraverso il dispiegamento di attività cognitive e metacognitive di ciascuno studente, in

una dimensione cooperativa e costruttiva della conoscenza. Fiorentini parla di una

impostazione “fenomenologico-operativa”: fenomenologica in relazione al contenuto,

operativa in riferimento alla metodologia didattica. Di seguito, ho riportato una

sintetica descrizione di queste cinque fasi, presentate in un articolo di Fiorentini41.

La prima fase è quella della sperimentazione-osservazione. Secondo Fiorentini, nella

scuola primaria, si deve avere un’impostazione metodologica. Un percorso didattico

significativo deve svilupparsi sulla base di fenomenologie che si

osservano/sperimentano e non che vengano descritte o raccontate dall’insegnante.

La seconda fase è quella della verbalizzazione individuale scritta. Sono perfettamente

d’accordo con Fiorentini, quando sostiene che l’osservazione di un fenomeno può

sembrare un’attività più o meno ludica, ma non realizza la costruzione della conoscenza

e il processo di concettualizzazione. È soltanto il linguaggio che può produrre,

attraverso le attività cognitive sopra citate, consapevolezza delle relazioni significative

che caratterizzano una determinata fenomenologia. Questo linguaggio scritto deve

essere libero dagli impacci della forma, deve essere “pensiero direttamente in azione”.

L’obiettivo di questa fase non è la concettualizzazione, ma far sì che inizi il processo di

concettualizzazione in tutti i bambini. Talvolta, nei bambini più piccoli, questa fase può

essere aiutata con l’utilizzo di tabelle per registrare i dati osservati nell’esperimento.

La terza fase è quella che Fiorentini definisce della discussione collettiva. Ho sempre

ritenuto molto importanti le fasi di discussione collettiva in classe: spesso, sia a

41 Fiorentini C., Quali condizioni per il rinnovamento del curricolo? in L’arcipelago dei saperi.

Progettazione curricolare e percorsi didattici nella scuola dell’Autonomia. 1: Alla ricerca dei paradigmi,

a cura di Cambi F., Le Monnier, Firenze 2000, pp. 275-290.

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matematica che a scienze, soprattutto nelle attività di risoluzione dei problemi, ho

utilizzato questo momento. Non è affatto facile gestire la discussione in modo che sia

partecipata ma allo stesso tempo ordinata, coinvolgente per tutti ma allo stesso tempo

controllata; il fatto però che ciascun bambino, in questa particolare metodologia, abbia

come base di interazione con gli altri ciò che ha scritto, aiuta la partecipazione di tutti,

perché ai bambini che difficilmente intervengono nelle discussioni si può chiedere cosa

hanno scritto e quello scritto costituisce un contributo alla discussione, qualsiasi sia il

suo contenuto. È stato davvero interessante vedere come i bambini intervenissero sulle

considerazioni degli altri, confermandole e evidenziandone i limiti (nella descrizione

delle attività è riportato uno stralcio di discussione collettiva che esemplifica questo

punto). In questa fase, ho spesso chiesto ai bambini di venire alla lavagna per provare a

descrivere anche con immagini ciò che spiegavano a voce.

Nella quarta fase, che potremmo definire della revisione critica, ciascun bambino

corregge, modifica ed integra la sua precedente definizione del fenomeno, alla luce delle

considerazioni emerse dalla discussione. Ecco che emergono le già citate “definizioni

operative”, che contengono la difficoltà dell’oggettivazione della percezione e vengono

costruite attraverso la ricerca del rispetto reciproco: «quello che io ho visto è qualcosa di

meno o qualcosa di più di quello che hai visto tu…. Posso accordarmi con te a

descrivere questo fatto in modo che sia compreso il mio e il tuo punto di vista». Sono

imperfette come tutte le attività che sono frutto del tentativo di applicare concretamente

i principi della democrazia.

L’insegnante media, indirizza, è il regista di un copione che è solo un canovaccio,

perché l’opera finale sarà parzialmente diversa in ogni classe, visto che gli attori stessi

la costruiscono con la propria individualità.

La quinta fase è quella della sintesi finale, nella quale l’insegnante, utilizzando tutto ciò

che è stato prodotto dagli studenti, realizza una sintesi grafica e scritta chiara e

linguisticamente corretta. A volte è utile che i bambini abbiano nel quaderno una sintesi

scritta con un certo ordine e immagini chiare: ecco perché è opportuno che questa

sintesi venga fatta alla fine e sia fotocopiata dalla maestra affinché i bambini la

inseriscano nel quaderno.

Secondo Fiorentini la concettualizzazione non consiste nell’indicare qualche aspetto

disorganico del fenomeno, ma nel cogliere gli aspetti significativi nella loro successione

spaziale e temporale.

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Nell’aspetto metodologico, questo percorso ha cercato di seguire questo tipo di

impostazione. Riguardo all’aspetto epistemologico del contenuto proposto in questo

percorso, non so se può rientrare in quello che il Fiorentini definisce, “un contenuto

cognitivamente adeguato”. Il quesito maggiore infatti, all’inizio del percorso, è stato

proprio quello dell’accessibilità cognitiva dei concetti che stanno alla base dei fenomeni

presentati. Nel capitolo che riguarda la verifica del percorso, analizzeremo i dati

raccolti, anche se la loro significatività è proporzionale alla quantità degli studenti

coinvolti.

1.2.2 La narrazione nell’educazione scientifica

Come insegnante, mi è capitato spesso, durante la frequenza di corsi di formazione

lunghi ed anche interessanti, che io abbia poi trovato spunti professionali o avuto idee o

intuizioni particolari, in un solo attimo o per un solo evento, spesso del tutto inaspettato.

Così è capitato al convegno Nazionale della Matematica a cui ho partecipato lo scorso

Novembre. Ho assistito alla presentazione del libro di Bruno D’Amore Quando l’allievo

supera il maestro. Dieci storie di scienziati, artisti, filosofi42. Mi sono molto

appassionata alla biografia di questi personaggi e all’aspetto umano che li lega ai loro

maestri. Ho subito pensato che, se leggere queste biografie appassionava me, forse le

storie di vita degli scienziati sarebbero piaciute anche ai bambini. La cultura scientifica,

a mio avviso, non risiede solo nella conoscenza di leggi fisiche, chimiche e matematiche

e neanche solo nello sviluppo del pensiero critico/scientifico, logico/deduttivo o di

quello induttivo: la cultura scientifica è legata anche agli uomini che hanno definito

quelle stesse leggi e alle loro storie; uomini che hanno vissuto, agito, provato

sentimenti, sbagliato, riprovato e costruito. La cultura scientifica è anche cultura umana,

inserita in un contesto storico e in una antropologia. Francesca Morgese afferma che per

favorire l’apprendimento scientifico è importante introdurre un approccio umanizzato

ed attento alla contestualizzazione storica, intesa come comprensione del modo e del

tempo in cui si sono affrontati i nodi concettuali e fatte le scoperte. Si condanna una

scienza presentata priva di dimensione epistemologica, storica, dinamica e socio-

culturale, in cui si privilegia la descrizione dei prodotti più che del fare scientifico e con

scarso approccio interdisciplinare43.

42 D’Amore B., Quando l’allievo supera il maestro, Edizioni Dedalo, Bari 2016. 43Cfr. Morgese F., La narrazione e le storie nella didattica delle scienze: il contributo della storia e della

filosofia alla scienza, in https://www.academia.edu/ (Verificato in data 19/1/2018).

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Introdurre quindi nella scuola primaria la storia dei grandi scienziati, può in qualche

modo favorire lo sviluppo della cultura scientifica e darle al contempo un carattere

umano, raggiungibile e comprensibile da chiunque. Come scrive Paolo Guidoni

Gli snodi centrali della formazioni culturale di ogni uomo nuovo dovrebbero essere

centrati su [...] una discorsologia che faccia capire in che modi e in che ruoli i discorsi

degli uomini (per citare Galileo) sono essenziali per dare forma a ogni sapere: su noi

stessi e sul mondo44.

Presa da questa idea, ho fatto una ricerca e ho scoperto i libri di Luca Novelli e la sua

collana Lampi di Genio. Così, nel primo incontro con i bambini, ho introdotto la figura

di Newton leggendo/narrando loro alcuni stralci della sua vita, ripresi appunto dal testo

di Luca Novelli Newton e la formula dell’antigravità45. Oltre a questo, per dare alla

presentazione dello scienziato una dimensione ancora più biografica ed una dimensione

ancora più coinvolgente, ho pensato che sarebbe stato interessante far vivere ai bambini

anche un’esperienza “teatrale”: così Newton è stato interpretato da un docente di fisica

della scuola superiore. L’incontro è stato interattivo, poiché i bambini hanno preparato

un’intervista per lo scienziato: è stato davvero molto interessante osservare i bambini

mentre ascoltavano le vicende della vita di Newton, sia quelle legate alla scienza che

quelle personali, familiari, economiche. Voler sapere quanto lavorava ad una scoperta,

cosa pensavano gli altri di lui, cosa pensavano i suoi genitori della sua vita da

scienziato. La narrazione ha rivestito gli abiti di una esplorazione e di una scoperta e

queste sono state favorite, proprio come sollecitato dalle Indicazioni.

1.2.3 Organizzazione didattica degli incontri

Come già indicato, il modello didattico di riferimento per realizzare il mio percorso è

quello delle “cinque fasi”. Ho aggiunto però a questo modello alcuni elementi che, in

base alla mia esperienza, potevano essere efficaci affinché i bambini fossero orientati e

sapessero sempre su che cosa stavamo indagando. Premetto che, pur avendo progettato

ogni singolo incontro nel modo più accurato possibile, ho cercato di fare in modo che

questa organizzazione, peraltro sempre indispensabile quando si tratta di interventi

didattici in classe, non condizionasse l’aspetto creativo e talvolta inaspettato che si

genera nell’interazione tra il docente e gli alunni, o tra gli alunni stessi. Ho cercato di

44 Guidoni P., “Alcuni criteri, basati sull’esperienza, per impostare esperienze di rinnovamento della

formazione scientifica di base”, in Quaderni di documentazione n.8 Laboratorio Valdera scuola scienza,

Pontedera 2013, pag.126. 45 Novelli L., Newton e la formula dell’antigravità, Editoriale Scienza, Trieste 2008.

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fare in modo che gli schemi non divenissero schermi. Ho lasciato che le singoli fasi del

nostro lavoro insieme seguissero una logica legata alle dinamiche generate sul momento

più che alle logiche delle cose organizzate nei tempi e nei modi. Se ad esempio una

discussione collettiva generava interesse, interazione, contrapposizione di idee, lasciavo

che questa scorresse, seppur mantenendola sempre orientata verso la nostra metà.

Di seguito illustrerò le modalità con cui ho condotto gli incontri in classe:

Ogni incontro è iniziato con il recupero delle osservazioni e delle spiegazioni

scritte la volta precedente, attraverso la compilazione talvolta individuale,

talvolta collettiva, di schemi, disegni o tabelle. Successivamente si riprendevano

le definizioni condivise che avevo scritto in modo ordinato alla LIM, di solito

accompagnate da una o due immagini significative che ne favorissero il recupero

(per preparare lo lezioni e le presentazioni di questi materiali ho usato il

programma Active Inspire, in uso in molte LIM presenti nel nostro Istituto).

La nuova attività prendeva avvio con una “domanda stimolo”, alla quale i

bambini dovevano dare una prima risposta scritta. Come si legge nel piano

Insegnare Scienze Sperimentali, “è necessario partire dalle idee precoci dei

bambini che pertanto diventano interlocutori circa la stessa progettazione

dell’attività laboratoriale”46. Ogni nuova domanda era collegata alla domanda

fatta nella lezione precedente, perché ogni nuova scoperta doveva collegarci

all’esperienza precedente e condurci all’esperienza successiva.

A questo punto, venivano effettuati gli esperimenti, che potevano aiutarci a

rispondere alla domanda di partenza. Gli esperimenti erano introdotti sempre da

domande quali “cosa accadrà secondo voi? Cosa si vedrà? Cosa pensate che

possa accadere se invece di fare così facciamo in quest’altro modo?

L’esperimento quindi, oltre che essere accompagnato dalla descrizione di ciò che

accadeva (fatta dai bambini) era sostenuto con domande che stimolavano i

bambini a prevedere cosa sarebbe potuto accadere (modellizzazione), soprattutto

quando si trattava di esperienze simili.

Dopo l’esperimento, i bambini provavano ad elaborare, scrivendole in modo

autonomo, delle ipotesi che spiegassero come erano andate le cose, qual era stata

l’interazione che aveva generato quel fenomeno.

46 Annali della Pubblica Istruzione 2010, op. cit., pag. 40.

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Successivamente i bambini leggevano le risposte date, si confrontavano tra loro

e con me. In questa fase, per sostenere e accompagnare le loro idee, talvolta

mostravo alla LIM disegni o schemi che rappresentassero il fenomeno e che

quindi potessero essere di sostegno nel provare a spiegarlo: la presentazione di

tali modelli però, avveniva solo dopo la creazione di modelli co-costruiti e

condivisi; costituivano anche questi, una sorta di “sistemazione più ordinata” di

quanto comunque era emerso dal lavoro individuale e collettivo;

Infine cercavamo di raggiungere una definizione condivisa. Quando possibile, si

chiedeva ai bambini, prima di avere la definizione condivisa uguale per tutti, di

provare a riscriverla di nuovo con parole loro. Dopo la fase dell’affinamento

della definizione, questa veniva scritta dai bambini sul quaderno in modo

ordinato (talvolta ho preparato loro delle parti fotocopiate che facessero da

“riordinatori cognitivi” di quanto fatto insieme).

Riguardo alle fasi di scrittura, che sono state una novità rispetto al mio abituale modo di

condurre le lezioni di scienze, temevo che potessero rappresentare un momento di

dispersione e interruzione delle attività, richiedendo troppo lunghi per l’apprendimento,

e che i bambini potessero disperdere troppe energie cognitive in queste fasi intense da

un punto di vista cognitivo e didattico (sforzarsi di descrivere quello che accade,

argomentare le proprie ipotesi, trovare le parole per esprimersi) perdendo l’aderenza

percorso di osservazione e scoperta che stavamo conducendo. In realtà, e questo alla

fine di questo progetto, credo che lo scrivere abbia arricchito molto gli incontri. Perché

l’esperienza della scrittura, nella quale il bambino si trovava solo con sé stesso a

produrre qualcosa di permanente (la parola scritta rimane segno visibile e ripercorribile,

a differenza della parola detta) ha permesso ai bambini di dirigere il pensiero verso

l’interno, verso sé stessi. Ed ho recuperato e ripensato le parole di Margaret Donaldson:

«Un bambino arriva a scuola con capacità di pensiero ben definite. Ma il suo

pensiero è diretto verso l’esterno, al mondo reale, ricco di significati. Per avere

successo il nostro percorso educativo, occorrerà che il bambino impari ad

orientare la lingua e il suo pensiero verso l’interno, verso sé stesso. […] Deve

diventare capace di manipolare i simboli. La parola detta esiste per un breve

attimo. La parola scritta permane. Ci possiamo ritornare il giorno dopo. […] La

parola scritta offre al bambino occasioni favorevoli di diventare consapevole

della lingua in sé stessa, molto più della parola detta. […] Sembra così che le

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caratteristiche della parola scritta possano favorire la consapevolezza del proprio

pensiero ed essere rilevanti per lo sviluppo dell’autocontrollo intellettuale»47.

1.2.4 La scelta del contenuto

L’argomento della luce e del colore non è espressamente indicato nelle Indicazioni

Nazionali, nelle quali si parla in modo generico, non a caso, di mantenere “un costante

riferimento alla realtà”, con contenuti che siano strutturati in “organizzatori

concettuali”. Sono molte però le esperienze didattiche progettate e svolte nella scuola

primaria riguardo a questo argomento: nella mia attività di ricerca ho trovato numerose

documentazioni di progetti svolti nella scuola primaria. La luce e i colori sono fenomeni

che fanno parte della vita quotidiana, ma i concetti che stanno alla base sono molto

complessi. Ecco perché si deve porre particolare attenzione ai contenuti e alle modalità

di presentazione dei concetti collegati a questo argomento. Riguardo a questo, riprendo

lo stralcio di un articolo presente sul Piano Insegnare Scienze Sperimentali, relativo

all’argomento della luce, del colore e della visione, nel quale si esplicita la seguente

riflessione sul curricolo verticale e sulla modalità di presentazione degli argomenti

scientifici:

La necessità di pensare al livello successivo per poter progettare (sequenzialità

dei percorsi);

La possibilità di presentare concetti differenti (o anche gli stessi), ma a un livello

di concettualizzazione diverso, e adatto alle età dei bambini-ragazzi con i quali

ci si rapporta;

La necessità di stabilire una sequenza di concetti o nodi successivi nella

verticalità del percorso;

La necessità di una riduzione degli argomenti affrontati in favore di un maggior

approfondimento delle tematiche;

L’esigenza di descrivere un fenomeno attraverso modelli interpretativi a livelli

di approssimazione decrescente (sempre più precisi, più «potenti»),

individuando le fasce di età in cui si può passare dalla semplice descrizione del

modello, alla sua rappresentazione grafica, fino a giungere all’analisi critica del

modello (dei suoi pregi e dei suoi limiti)48.

47 Donaldson M., Come ragionano i bambini, Springer, Milano 2010, pag. 68. 48 Annali della Pubblica Istruzione 2010, op. cit., pag. 140.

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Spiegare e capire la fisica dei fenomeni luminosi richiede un percorso lungo, complesso,

interdisciplinare: tale percorso può essere avviato fin dalla scuola dell’infanzia e portato

avanti lungo l’arco scolastico, con modi e tempi rispettosi dei modi di apprendere e

delle esigenze cognitive, emotive ed affettive che caratterizzano gli allievi delle diverse

età. Del resto si impiega di solito il termine modellizzazione anche per indicare la messa

in corrispondenza tra il reale e quello che si decide di estrarvi e di rappresentare. Un

gioco complesso di aggiustamento reciproco tra teoria e risultati permette poi di

costruire una descrizione più coerente dei fenomeni e delle predizioni più affidabili. Ma

questa operazione richiede sempre una semplificazione del reale, ed il reale può essere

semplificato prima di tutto preparandolo.

Il fenomeno della luce, potrebbe quindi essere affrontato in tempi e in modi diversi,

all’interno del curricolo, partendo sin dalla scuola dell’infanzia: compiendo e

registrando ad esempio semplici osservazioni sull’ombra, per proseguire poi il percorso

nella primaria riprendendo la questione delle ombre ma iniziando a misurarle, a

confrontare la stessa ombra in momenti diversi, a ragionare anche sull’intensità della

luce etc… fino ad arrivare ad un percorso come quello presentato in questo progetto, per

poi proseguire oltre, ad esempio con l’ottica geometrica o con la geografia astronomica.

Questo argomento, si può collegare allo studio del corpo umano, del sistema solare,

dell’energia etc…

La modellizzazione in questo caso può riguardare il comportamento della luce in alcuni

suoi aspetti: la propagazione rettilinea dei raggi di luce ma anche dei raggi di vista; il

fatto che la luce porti delle informazioni; la necessità che la luce entri nell’occhio per

vedere (proveniente anche dalle sorgenti secondarie); il colore visto come una risposta

percettiva a una eccitazione luminosa nell’occhio e non una proprietà degli oggetti o

della luce separatamente.

Questo percorso, seppur con un campione esiguo di alunni, si concluderà con il

tentativo, attraverso l’analisi dei dati relativi alle verifiche effettuate, di fornire delle

informazioni sulla relazione tra la complessità degli argomenti proposti e la loro

acquisizione da parte dei bambini, cercando di comprendere se e quali degli argomenti

affrontati siano effettivamente intellegibili agli alunni.

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CAPITOLO 2

LUCE, COLORE E VISIONE: ASPETTI SCIENTIFICI

2.1. La luce

Nella prima parte di questo capitolo, affronteremo alcuni importanti concetti collegati

alla luce.

2.1.1. La natura fisica della luce: la teoria di Newton e le prospettive

teoriche odierne

Per quanto si possa essere ancora incerti sull’origine dell’universo, una cosa sembra

certa: «è difficile avere dubbi sul fatto che la luce si sia manifestata nell’istante stesso in

cui è esistita la materia, almeno quella che si presenta nelle forme a noi note»49. La luce

è una forma di energia raggiante, e questa energia si allontana dal corpo che l’ha

generata sotto forma di onde elettromagnetiche. Le onde elettromagnetiche sono simili

alle onde sonore ma, a differenza di queste, si propagano anche nel vuoto. Anzi, la luce

viaggia nel vuoto meglio che nell’aria: nel vuoto viaggia percorrendo circa 300.000

chilometri al secondo, mentre nell’aria e in altre sostanze trasparenti viaggia a una

velocità inferiore.

Per quanto riguarda la luce visibile, è un particolare tipo di onda elettromagnetica. Altri

tipi di onde elettromagnetiche sono le onde radio, i raggi X, il calore e i raggi

ultravioletti (che non possono essere visti ma, ad esempio, impressionano la pellicola

fotografica). Lo spettro della luce visibile si diversifica da queste per il fatto, appunto, di

essere visibile all’occhio umano. Nell’interazione con l’occhio, la luce «è capace di

stimolare, arrivando alla retina, impulsi e segnali nervosi che vengono trasmessi al

cervello. Quest’ultimo li elabora e costruisce un’immagine tridimensionale»50. Come

ogni altro tipo di onda elettromagnetica, la luce visibile è la testimonianza esteriore dei

processi di trasformazione della materia nei quali viene liberata energia: possono essere

processi chimici, come ad esempio una fiamma che brucia oppure fisici, come ad

esempio un fulmine, una lampada o un laser o ancora termonucleari, come ad esempio

accade nel sole o, appunto, nei processi termonucleari.

49 Frova A., Luce colore visione, Editori Riuniti, Roma 1984, pag.10. 50 Ivi pag. 11.

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Molti sono stati gli scienziati che, nella storia, hanno elaborato teorie sulla luce:

Huygens (1629-1695), Newton (1642-1727), Young (1773-1829), Maxwell (1831-

1879), Michelson (1852-1931), Planck (1858-1947) ed Einstein (1879-1955). Non sarà

possibile ripercorrere tutte le teorie che hanno portato all’elaborazione della moderna

teoria della luce, ma ci soffermeremo sullo scienziato da cui ha preso avvio il percorso

didattico presentato in questo elaborato: Newton. Sia prima di lui che

contemporaneamente a lui, le questioni affrontate su questo argomento erano state

molte: tra le più dibattute, quella della propagazione della luce. Secondo alcuni, come

Hooke (1635-1703) e Huygens, essa avveniva con moto ondulatorio. Il modello

ondulatorio fu proposto da Christian Huygens il quale «avanzò l’ipotesi che la luce

fosse costituita da onde […] in grado di propagarsi con trasferimento di energia, ma non

di materia»51. Questo tipo di moto spiegava perfettamente anche i fenomeni sia della

riflessione speculare che quello della rifrazione.

Newton però non concordava con questa visione: le onde hanno la proprietà di aggirare

gli ostacoli, cosa che non sembra possano fare i raggi luminosi (l’ombra ne è la

dimostrazione). Secondo Newton quindi la luce doveva essere composta, invece che da

onde, da minuscole particelle che venivano “sparate” dalla sorgente luminosa ad

altissima velocità, come fossero proiettili, i quali, colpendo gli oggetti, li facevano

apparire illuminati. Quanto alla riflessione o alla rifrazione della luce, esse si sarebbero

potute spiegare con la legge della meccanica che descrivono la penetrazione il rimbalzo

di una pallina che venga a collidere con una particolare sostanza […] E per i colori?

Ciascun colore avrebbe dovuto corrispondere a una diversa velocità dei corpuscoli in

arrivo all’occhio. Per esempio, i corpuscoli più veloci avrebbero dato l’effetto del

violetto, i corpuscoli più lenti del rosso52.

Anche se nella teoria di Newton c’erano delle considerazioni errate (la negazione del

moto ondulatorio), egli comprese che la luce bianca è la sovrapposizione di vari colori.

Egli infatti riuscì a separare mediante un prisma la luce bianca nei vari colori; quando

però fece passare la luce di un solo colore, ad esempio il rosso, attraverso un secondo

prisma, osservò che essa non veniva ulteriormente scomposta: «ne concluse che la luce

bianca è una sovrapposizione di diversi colori, ciascuno dei quali è puro nel senso che

non può essere ulteriormente suddiviso»53. In realtà, come specifica meglio Feynman

51 Besson U., Didattica della Fisica, Carocci Editore, Bologna 2015, pag. 172. 52 Ivi pag. 26. 53 Feynman R. P., QED, Adelphi, Milano 1985, pag 27.

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(1918-1988), il colore puro può essere ancora scomposto, ma in modo differente:

secondo la sua “polarizzazione”.

Newton pensava inoltre che la luce fosse fatta di particelle che chiamava “corpuscoli” e,

anche se era giunto a quella conclusione attraverso ragionamenti errati, aveva ragione.

«Oggi sappiamo che la luce è costituita da particelle perché se si prende uno

strumento molto sensibile che produce un ticchettio quando viene colpito dalla

luce (monocromatica), i singoli “clic”, quando la luce diventa più fioca, restano

della stessa intensità ma diventano meno frequenti. La luce è dunque un po’

come la pioggia: è fatta di tante “gocce” chiamate fotoni, e quando è di un solo

colore, le “gocce” hanno tutte la stessa dimensione»54.

Poiché nessun modello era realmente esaustivo nello spiegare tutti i fenomeni relativi

alla luce, si è continuato a studiare il problema della propagazione della luce e

dell’interazione tra luce, oggetti, colori e sistema visivo. Quindi, dopo Newton fu

Maxwell (1831-1879) a stabilire, intorno alla metà del 1800, che la luce è un’onda

elettromagnetica che si propaga anche nel vuoto. Agli inizi del 1900 Albert Einstein

(1879-1955), per poter interpretare l’effetto fotoelettrico, cioè l’emissione di elettroni

da una placchetta metallica colpita dalla luce, dovette ammettere la natura corpuscolare

della luce, dando quindi ragione a Newton. I suoi studi portarono quindi ad affermare la

duplice natura della luce: «In certe situazioni la luce si comporta come un’onda, in altre

come un corpuscolo»55.

La propagazione della luce viene definita in termini di raggi, cioè di segmenti in linea

retta. Bisogna tenere presente che i raggi luminosi, di per sé, sono invisibili, a meno che

tali raggi non entrino direttamente nella pupilla del nostro occhio. Noi li vediamo

quando la luce incontra minuscole particelle sospese nell’aria (pulviscolo, fumo,

goccioline d’acqua) che la diffondono attorno, così che essa può indirettamente

raggiungere i nostri occhi.

Questa energia elettromagnetica si propaga quindi in linea retta, sotto forma di onda.

Un’onda ha delle creste e degli avvallamenti (si può paragonare alle onde del mare o,

ancora meglio, a cosa succede a una corda tenuta ferma da una estremità se viene scossa

in una direzione dall’altra estremità). Le tre caratteristiche principali dell’onda sono

lunghezza, ampiezza e frequenza (Fig. 1). La lunghezza d’onda è la distanza tra due

creste successive. La lunghezza d’onda delle radiazioni luminose è molto piccola ed è

54 Ivi pag. 29. 55 Amaldi U., Suono e luce, induzione di onde elettromagnetiche, op.cit. pag. 423.

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espressa generalmente in nanometri56; l'ampiezza invece misura l’intensità dell’onda; la

frequenza, infine, è la quantità di oscillazioni che l'onda compie nell'unità di tempo (con

unità di misura Hertz, oscillazioni al secondo). La frequenza è inversamente

proporzionale alla lunghezza d'onda: minore è la lunghezza d'onda, maggiore è la

frequenza, e viceversa.

Figura 157

2.1.2 La propagazione della luce

Affrontiamo preliminarmente alcuni aspetti della luce, utili per comprendere i fenomeni

di diffusione, riflessione e rifrazione.

Il raggio di luce è un segmento di retta che indica il tragitto della luce per andare da un

punto a un altro; il fascio di luce è un insieme di raggi emessi dalla stessa sorgente58.

Quindi, in un mezzo trasparente omogeneo, i raggi sono orientati in linea retta, come

dimostra l’ombra generata da una fonte di luce puntiforme: la zona d’ombra che si

genera si chiama appunto cono d’ombra (Fig. 2).

56 Un nanometro è 10-9 metri, cioè la miliardesima parte del metro e si indica con nm. 57 Figura tratta da https://it.wikipedia.org/wiki/Lunghezza_d%27onda (Verificato in data 11/1/2018) 58 Per i contenuti di questo paragrafo, quando non indicato diversamente, si fa riferimento ai seguenti

testi:

- Ruffo G., Fisica lezioni e problemi, Zanichelli, Bologna, 2014, file del cap. 14

- Amaldi U., L’Amaldi 2.0, Zanichelli, Bologna, file del cap. 17

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Figura 259

Quando la sorgente di luce non è puntiforme, si generano zone di penombra (Fig.3).

Figura 3

A causa della natura ondulatoria della luce, non è possibile isolare un singolo raggio di

luce: nel tentativo di isolare un raggio di luce, interviene il fenomeno della diffrazione

(Fig.4) che è dovuta alla deviazione di un’onda ai margini di un ostacolo opaco.

Quando l’oggetto è macroscopico, l’effetto in genere è trascurabile, ma diventa

importante quando le dimensioni dell’ostacolo sono poco diverse dalla lunghezza

d’onda delle radiazioni60.

59 La seguente immagine, insieme alla successiva, fa parte di materiale didattico prodotto dalla

sottoscritta. 60 Cfr. Nassau K., L’origine dei colori, in Le scienze quaderni n. 78, Le Scienze SPA, Milano 1994, pag.

27.

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Figura 461

Il modello di raggio rimane comunque il migliore per descrivere la propagazione della

luce, senza mai però dimenticare il modello corpuscolare e ondulatorio di essa. Nel

progetto didattico presentato in questo elaborato, la scelta è stata quella di parlare della

luce come raggio che si propaga in linea retta, e si è solo accennato alla teoria

ondulatoria: per questo livello di scolarità, sarebbe stato un carico cognitivo troppo alto

e comunque la modellizzazione della luce come raggio rettilineo potrà essere modificata

e integrata negli agli successivi.

Riguardo alle sorgenti di luce, la distinzione è tra sorgenti di luce primaria (sole,

lampadine etc...) e sorgenti di luce secondaria (cioè i corpi illuminati) che diffondono i

raggi in tutte le direzioni.

Un ultimo aspetto da considerare è quello del mezzo in cui la lue si propaga: un mezzo è

trasparente per la luce quando questa, propagandosi in esso, si attenua in modo

trascurabile; è omogeneo quando le sue proprietà ottiche sono uguali in tutti i suoi punti

ed è isotropo quando non presenta proprietà di birifrangenza o similari. L’aria, l’acqua,

il vuoto, i vetri e le plastiche utilizzate per le lenti di un sistema ottico sono esempi di

materiali trasparenti, omogenei e isotropi.

2.1.3 Corpi opachi, traslucidi e trasparenti

L’oggetto (ma anche il mezzo materiale nel quale la luce si propaga, aria compresa)

seleziona la radiazione elettromagnetica della luce che lo investe attraverso un processo,

che coinvolge la struttura atomico-molecolare della sua superficie, determinando la

61 Le immagini, eccetto dove diversamente indicato, sono tratte da Amaldi U., Suono e luce, induzione di

onde elettromagnetiche, Zanichelli Editore, Bologna 2010.

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percentuale di diffusione (alla sua superficie) e di assorbimento (al suo interno) di

ciascuna delle componenti presenti nella luce incidente. La diffusione, selettiva o non

selettiva, è alla base della percezione del colore superficiale degli oggetti. Quello che

qui è importante mettere in evidenza, è che il processo di assorbimento di queste onde

elettromagnetiche, selettivo o non selettivo, determina il grado di trasparenza/opacità di

un oggetto o di un materiale. Un oggetto/materiale che per trasparenza appare grigio o

incolore, assorbe e trasmette in maniera non selettiva. Un oggetto/materiale che appare

opaco ha assorbito tutta la luce penetrata al suo interno. È importante tener presente che

“opaco” e “trasparente” non sono concetti assoluti, ma relativi. Qualunque materiale si

prenda in considerazione (anche le rocce, che mineralogisti e petrografi studiano

facendone “sezioni sottili” da osservare al microscopio) può essere attraversato dalla

luce, se di spessore abbastanza piccolo. Nessun materiale quindi è perfettamente

trasparente, neanche l’aria (anche se su piccole distanze possiamo trascurare

l’assorbimento della luce): l’azzurro del cielo di giorno non è altro che “il colore

dell’atmosfera”, che assorbe in maniera selettiva le diverse componenti della luce

solare. Se l’atmosfera fosse sufficientemente spessa, sulla Terra non arriverebbe alcuna

luce, come avviene per le profondità del mare: solo nel vuoto la radiazione si propaga

senza assorbimento62. Ecco perché, se anche nel progetto didattico si sono utilizzate

delle definizioni precise come opaco (impenetrabile alla luce visibile), trasparente

(proprietà che permette alla luce di passare attraverso un materiale) o traslucido (la luce

passa attraverso il materiale in modo diffuso), si è sempre evitato di farne delle rigide

categorizzazioni: un oggetto o un materiale può avere anche tutte queste caratteristiche.

2.1.4 La riflessione e la riflessione speculare

Quando un raggio di luce colpisce una superficie sufficientemente liscia, si ha la

produzione di un raggio. La riflessione dei raggi di luce segue regole ben precise:

Prima legge: il raggio incidente, il raggio riflesso e la perpendicolare alla superficie

riflettente nel punto di incidenza appartengono allo stesso piano.

Seconda legge: l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione (Fig. 5)

62 Cfr. Gagliardi M., Mancini A., Nolli P., Salomone A., Luce colore e visione, documento consultabile al

link http://didascienze.formazione.unimib.it/Lucevisione/Index.html (Verificato in data 29/1/2018).

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Figura 5

Nella figura, un raggio di luce incide nel punto I di uno specchio e viene riflesso. La

retta perpendicolare allo specchio nel punto I è la normale nel punto di incidenza.

L’angolo i, formato dal raggio incidente e dalla normale nel punto di incidenza I, si

chiama angolo di incidenza: l’angolo r, formato dalla normale e dal raggio riflesso, si

chiama angolo di riflessione.

Quando la superficie di un oggetto illuminato è sufficientemente liscia, i raggi

corrispondenti ad ogni fascio di luce incidente, composto da raggi tra loro paralleli,

vengono riflessi in modo da mantenere il parallelismo e costituiscono a loro volta un

unico fascio: si parla in questo caso di superficie riflettente.

Collegando il fenomeno della riflessione al sistema della visione, si può dire che si ha

una “visione diretta” quando il soggetto che osserva e gli oggetti sono immersi nello

stesso mezzo - l’aria – e la luce che parte dall’oggetto raggiunge l’occhio senza subire

deviazioni. Si ha invece “visione indiretta” quando i raggi luminosi provenienti dai

diversi punti di un oggetto subiscono deviazioni per riflessione o rifrazione nel percorso

fra i punti di origine e l’occhio63. Questo è il motivo per cui gli oggetti osservati

attraverso uno specchio piano sembrano collocati dietro lo specchio.

La sorgente puntiforme S (Fig. 6) emette raggi in tutte le direzioni; consideriamo due di

questi raggi che incidono sullo specchio piano. Il raggio SH incide con l’angolo i=0 e

quindi torna indietro, il raggio SI viene riflesso con un angolo uguale a quello di

incidenza. Questo raggio, osservato dall’occhio, sembra provenire dal punto S’ situato

dietro lo specchio. Il punto S’, che si trova nell’intersezione dei prolungamenti di due

raggi riflessi, si dice immagine del punto S. Questa immagine (S’) non esiste nella

63 Ibidem.

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realtà: l’occhio la vede nel punto S’, ma in quel punto non c’è niente perché non vi

arriva la luce. Per questo motivo si chiama immagine virtuale64.

Figura 6

2.2 La rifrazione e la riflessione totale

La rifrazione avviene ogni volta che un raggio di luce attraversa la superficie di

separazione tra due mezzi trasparenti, nei quali la luce ha velocità diverse. Anche in

questo caso, come per la riflessione, l’immagine dell’oggetto che ci arriva all’occhio è

prodotta dai raggi che subiscono una deviazione al passaggio da un mezzo di

propagazione all’altro. Ad esempio, se un oggetto è immerso nell’acqua, la luce

proveniente dall’oggetto per raggiungere i nostri occhi deve attraversare sia uno strato

d’acqua che uno strato d’aria: questo modifica il percorso dei raggi rispetto a quello che

avrebbero se passassero attraverso un solo mezzo e l’immagine appare pertanto

modificata, dandoci una percezione diversa dell’oggetto.

Quando il fascio passa dall’aria all’acqua si nota che:

La direzione di propagazione del raggio di luce cambia in corrispondenza della

superficie di separazione tra i due mezzi trasparenti (aria e acqua in questo

caso);

All’interno di ciascun mezzo il raggio si propaga in linea retta (Fig. 7 A);

L’angolo formato dalla direzione di propagazione del raggio di luce e la retta

perpendicolare alla superficie (î) è maggiore nell’aria rispetto a quanto lo sia

nell’acqua (ȓ). Il raggio di luce pertanto si avvicina alla perpendicolare quando

passa dall’aria all’acqua.

64 Ruffo G., Fisica lezioni e problemi, op. cit. pag. 3

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Figura 7

Quando invece il raggio passa dall’acqua all’aria, si allontana dalla perpendicolare alla

superficie di separazione (Fig. 7 B).

In alcuni casi può accadere che il raggio rifratto sia assente: si parla in tal caso di

riflessione totale. Questo può accadere quando la luce proviene dal mezzo più

rifrangente (in questo caso l’acqua) e l’angolo di incidenza supera un certo valore (noto

come l’angolo limite). La Fig. 8 è utile per comprendere questo meccanismo.

Dato che un raggio di luce si allontana dalla normale quando penetra in un mezzo meno

denso, e la deviazione aumenta all’aumentare dell’angolo di incidenza, ci deve essere

un angolo per il quale l’angolo di rifrazione è uguale a 90°: in quel caso il raggio

rifratto si propaga lungo la superficie di separazione dei mezzi (angolo limite). Nella

riflessione totale (Fig.8 B) l’angolo di incidenza è maggiore dell’angolo limite e la luce

viene completamente riflessa nel primo mezzo.

Figura 8

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2.2.1 La riflessione diffusa

Il fenomeno della diffusione, spesso molto trascurato nel percorso scolastico, è in realtà

uno dei più importanti nell’interazione tra luce e oggetti: tutti gli oggetti che noi

vediamo, e che non emettono luce propria, sono visti grazie alla riflessione diffusa della

luce ambientale: «ogni punto dell’oggetto si comporta come una sorgente puntiforme,

riflettendo la luce in tutte le direzioni»65.

Le leggi della riflessione valgono anche su superfici che presentano delle asperità; la

differenza è che se una superficie è scabra e ruvida, i raggi incidenti appartenenti ad un

unico fascio vengono riflessi in modo disordinato, intersecandosi fra loro e

mescolandosi ai raggi riflessi generati da altri fasci incidenti (si parla di superficie

diffondente). Si perde l’informazione sui punti dai quali proveniva il fascio originario e

i fasci diffusi portano informazione solo sui punti della superficie diffondente (Fig. 9).

Figura 9

Ecco perché la diffusione, difficilmente modellizzabile con le leggi dell’ottica

geometrica, è in realtà il fenomeno fondamentale che ci assicura la visione degli oggetti.

65 Arons A. B., Guida all’insegnamento della fisica, Zanichelli, Bologna 1992, pag. 280.

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2.3.Il colore e il sistema ottico

In questa parte, seppur ancora collegati alla descrizione della luce alle sue

caratteristiche fisiche, ci orienteremo verso l’argomento della relazione tra luce e

colore.

2.3.1. La gamma delle onde elettromagnetiche e lo spettro visibile

Lo spettro elettromagnetico della luce è costituito dall'insieme delle radiazioni e

comprende l'intera gamma delle lunghezze d'onda esistenti in natura, dalle onde

lunghissime, alle onde cortissime, per cui fenomeni fisici legati alle onde

elettromagnetiche appaiono diversissimi. Prima di parlare dello spettro visibile,

vediamo meglio le onde elettromagnetiche che non rientrano nello spettro dei raggi

visibili, ordinate da quelle con frequenza più bassa a quelle con maggiore frequenza66

(Fig. 10). Le onde radio (corte, medie o lunghe) hanno una lunghezza d’onda che va dai

chilometri alle decine di centimetri, come quelle che si usano nelle radio a modulazione

di frequenza e nella televisione. Le microonde hanno una lunghezza caratteristica che

va da qualche centimetro a pochi millimetri e sono quelle che vengono utilizzate nei

radar e nei forni a microonde: esse vengono parzialmente assorbite dai corpi cedendo

una parte di energia, producendo quindi un effetto riscaldante in profondità. I raggi

infrarossi vengono percepiti dall’uomo e dalla maggioranza degli esseri viventi come

calore. Vi sono alcuni animali che vedono anche una parte dell’infrarosso più vicino, ad

esempio i serpenti: questo spiega perché alcuni rettili sono in grado di vedere al buio

altri esseri viventi che emettono calore, cioè una certa dose di infrarossi. Dopo gli

infrarossi troviamo le spettro dei raggi visibili partendo dal rosso (di questi parleremo

successivamente). Oltre lo spettro visibile, accanto a quello che percepiamo come

colore viola, stanno i raggi ultravioletti: questa radiazione è utile per formare la

vitamina D ed è quella che provoca abbronzatura e bruciature della pelle. I raggi

ultravioletti infatti, se eccessivi, possono provocare danni, ma hanno anche un buon

effetto germicida: per questo vengono utilizzati per sterilizzare ambienti ed oggetti. Tra

i 100 e i 10 nm i raggi ultravioletti diventano raggi X: essi si distinguono in “raggi X

molli” (pur avendo energia inferiore, questa viene assorbita dal corpo umano e sono

quindi sono molto dannosi per le cellule su cui vengono irradiati) e in “raggi X duri”

(attraversano la materia organica con più facilità e quindi non la danneggiano in modo

66 Cfr. Frova A., Luce colore visione, Editori Riuniti, Roma, 1984, pag.50.

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altrettanto grave). I raggi X duri vengono utilizzati in radiologia. Alla fine si trovano i

raggi gamma, quelli con maggiore energia: con questo nome si indicano le onde

elettromagnetiche prodotte dal decadimento radioattivo dei nuclei atomici.

Figura 1067

Ma, come detto all’inizio di questo capitolo, solo una piccolissima porzione dello

spettro elettromagnetico appartiene allo spettro visibile, cioè all'insieme delle lunghezze

d'onda a cui l'occhio umano è sensibile e che sono alla base della percezione dei colori

(Fig. 10). Le differenze individuali possono far variare leggermente l'ampiezza di tale

intervallo. Approssimativamente, esso si situa tra i 380 e i 780 nanometri: alla

lunghezza d'onda minore corrisponde la gamma cromatica del blu-violetto, a quella

maggiore corrisponde invece la gamma dei rossi68. Quando ci si limita a questo

intervallo di lunghezza d’onda, la proprietà che più evidentemente varia con la

lunghezza d’onda è quella che, al nostro occhio, appare come colore. Nella vita

quotidiana, raramente ci è dato di vedere la luce in una sola lunghezza d’onda separata

dalle altre (solo il laser è in grado di emettere una tale luce); in generale, al nostro

occhio arriva una “mistura di parecchie lunghezze d’onda”69. Noi non siamo in grado di

distinguere un’onda dalle altre e ne abbiamo una sensazione complessiva. La luce solare

ad esempio, che a noi appare completamente bianca, contiene tutte le frequenze che il

nostro occhio può vedere (con in più le frequenze infrarosse e ultraviolette). Per

riconoscere che la luce bianca contiene diverse lunghezze d’onda e per misurare

67 Figura tratta da http://www.vitofusco.com/web/spettro-visibile-temperatura-colore-mired/ (Verificato

in data 12/1/2018) 68 Cfr. Luce, occhio e visione, Corso di illuminotecnica, Università di Reggio Calabria, consultabile al

link https://www.unirc.it (Verificato in data 29/1/2018) 69 Frova A., Luce colore visione, op. cit., pag. 51.

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l’intensità di ciascuna, si fa riferimento al fenomeno della dispersione della luce70.

Newton riuscì a scomporre la luce bianca attraverso un prisma di vetro: egli scoprì che

le varie componenti cromatiche della luce bianca subiscono una rifrazione con un

angolo leggermente diverso da quello degli altri colori. Oggi sappiamo infatti che «ogni

colore subisce una deviazione dalla propria direzione di marcia, che risulta essere tanto

più grande quanto minore è la lunghezza d’onda che gli corrisponde»71. Il rosso devia

meno del violetto. Lo stesso fenomeno si verifica due volte: quando la luce entra nel

prisma e quando ne esce (Fig. 11).

Figura 1172

Newton riuscì anche a ricombinare i vari colori, così da ripristinare la luce bianca: li

fece passare attraverso un secondo prisma, uguale al primo, ma capovolto.

I colori che fanno parte dello spettro visibile vengono chiamati colori spettrali. Anche

se Newton ne aveva individuati sette, in realtà all’interno di ciascuna gamma di

intervallo di lunghezze d’onda, il nostro occhio avverte una graduale e continua

variazione di tinta. Se ad esempio si prende in considerazione il verde, questo si

avvicina sempre più al blu verso il limite inferiore dell’intervallo (490 nm) e sempre più

al giallo nell’estremo opposto (560 nm).

70 Ibidem. 71 Ivi pag. 52. 72 Immagine tratta da http://goriand.altervista.org/prismi.html (Verificato in data 23/1/2018).

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2.4.L’interazione della luce con la materia

In base a quanto descritto dalla fisica quantistica, «la colorazione di un materiale è

determinata dai meccanismi di interazione delle radiazioni elettromagnetiche con gli

elettroni costituenti il materiale stesso»73. Come spiega il professor Victor Weisskopf:

«Quando la luce colpisce la superficie di un oggetto può essere riemessa senza

variazione di frequenza oppure può essere assorbita e allora la sua energia viene

trasformata in agitazione termica; […] gli elettroni degli atomi compiono

piccolissime vibrazioni quando sono esposti alla luce. Le ampiezze di queste

vibrazioni sono estremamente piccole: persino in piena luce solare non superano i

10-17 metri, sono cioè inferiori all’1 per cento del raggio del nucleo atomico. Tutto

ciò che vediamo attorno a noi, tutte le luci e i colori che colpiscono i nostri occhi

quando ci guardiamo attorno, sono dovuti a queste piccolissime vibrazioni degli

elettroni dovute alla luce»74.

Weisskopf, nell’articolo citato, ricorda che l’interazione della luce con la materia

avviene mediane l’assorbimento di un fotone (o quanto di luce) da parte di un atomo o

di una molecola. Pur ammettendo che il sistema di interazione è molto più complesso,

egli cerca di spiegare l’emissione di fotoni da parte degli oggetti illuminati: se il fotone

(che arriva al corpo illuminato) ha energia sufficiente, l’atomo o la molecola passano da

uno stato di bassa energia a uno di energia più alta, per ritornare dopo un breve tempo

in uno stato a minore energia, emettendo la differenza di energia tra i due stati sotto

forma di fotone75.

Riguardo ai colori che vediamo, il ricercatore Kurt Nassau riferisce che lo spettro della

luce solare copre una gamma di frequenze che ben si sovrappone all’intervallo di

sensibilità dell’occhio umano: «ne segue che la luce appare bianca quando la sua

composizione spettrale è prossima a quella del sole, mentre i colori possono essere

definiti in base a come si scostano dallo spettro solare»76.

Possiamo quindi concludere che sono gli elettroni che rendono il mondo colorato

interagendo con le radiazioni visibili di diversa lunghezza d’onda.

Come abbiamo già detto parlando delle caratteristiche di opacità, traslucenza e

trasparenza, l’oggetto seleziona la radiazione che lo investe attraverso un processo che

coinvolge la struttura atomico-molecolare della sua superficie (in particolare gli orbitali

73 Ivi pag. 70. 74 Weisskopf Victor, L’interazione della luce con la materia, in Le scienze quaderni n. 78, ed. Le Scienze

SPA, Milano 1994, pag. 8 75Ivi p. 9. 76 Nassau K., op. cit., pag. 17.

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degli elettroni), determinando la percentuale di diffusione (alla sua superficie) e di

assorbimento (al suo interno) di ciascuna delle componenti presenti nella luce incidente.

La diffusione, selettiva o non selettiva, è alla base della percezione del colore

superficiale degli oggetti. In condizioni normali di illuminazione la percezione dei

colori dal bianco al nero, attraverso le diverse sfumature di grigio, indica che la

selezione è nulla: tutte le componenti sono diffuse praticamente nella stessa

percentuale, da zero (per il nero) al cento per cento (per il bianco).

Le quantità di luce assorbita e di luce riflessa dipendono dal materiale di cui sono fatti

e dalla lunghezza d'onda della luce incidente. Ai fini della determinazione del colore da

parte di un osservatore, l'elemento principale da tenere presente è la curva di riflessione

propria della superficie. Il colore di una qualsiasi superficie dipende infatti dal potere di

quella superficie di assorbire una parte della luce ricevuta dall'ambiente e di rimandarne

verso l'osservatore la parte non assorbita sotto forma di luce riflessa (i fotoni di cui

parlava Weisskopf). Un oggetto rosso avrà ad esempio uno spettro di riflessione con un

picco nella zona delle lunghezze d'onda lunghe, che corrispondono al colore rosso.

Riassumendo, se alcune lunghezze d'onda dello spettro visibile sono più assorbite di

altre l'oggetto ci appare colorato: se assorbe tutte le onde tranne una, risulta del colore

corrispondente a quella radiazione: se non assorbe il rosso, risulta rosso, ecc.; se riflette

tutte le onde luminose appare bianco (somma di tutti i colori); se assorbe tutte le

lunghezze, senza restituirle ai nostri occhi, viene percepito come nero (assenza di

colori).

2.5.L’origine dei colori e il sistema visivo

Prima di tutto, è importante specificare che ogni volta che si parla di colore, in realtà

non parliamo di una qualità insita negli oggetti (come può essere la forma o la

dimensione), ma ci riferiamo ad una “sensazione”. La percezione dei colori «è una

esperienza soggettiva nella quale hanno un ruolo importante fattori psicologici e

fisiologici»77: il colore percepito è il risultato di una misura eseguita dall’occhio e di

un’interpretazione data dal cervello della composizione spettrale della radiazione

osservata. Quando si tratta di una luce monocromatica (che riguarda cioè una sola

lunghezza d’onda, o frequenza o energia) questo processo è immediato; se però la luce è

77 Nassau Kurt, op. cit., pag 16.

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costituita da una miscela di radiazioni con lunghezze d’onda diverse, il processo si

complica.

Riguardo al meccanismo della visione, l'occhio dell'uomo è costituito essenzialmente

dai seguenti "componenti": un sistema ottico, un sistema di messa a fuoco, la pupilla e

la retina (Fig. 12).

Figura 1278

Il sistema ottico assicura la formazione dell'immagine e comprende in particolare: la

cornea, l'umore acqueo, il cristallino e l'umore vitreo. Il suo funzionamento può essere

descritto così: da ogni punto della zona circostante all'oggetto l'occhio riceve un fascio

di raggi luminosi divergenti. Il cristallino, che può essere paragonato ad una lente

biconvessa, concentra tutti i raggi procedenti da ogni punto dell'oggetto in un punto

della retina. Si forma così un gran numero di punti immagine che, insieme,

costituiscono l'immagine retinica dell'oggetto. Il sistema di messa a fuoco è costituito

dal cristallino e da una serie di piccoli muscoli permette di ottenere un'immagine nitida

qualunque sia la distanza tra l'occhio e l'oggetto. L'occhio si adatta automaticamente

alla distanza fra il cristallino e l'oggetto; questa facoltà va sotto il nome di

"accomodamento". La pupilla regola invece la quantità di luce che entra nell'occhio ed

influenza nel contempo la profondità di campo. I muscoli ciliari possono far variare il

diametro della pupilla tra 2 ed 8 mm per cui essa ha l'attitudine a dilatarsi al massimo

nel caso di poca luce ed a contrarsi al massimo nel caso di luce troppo intensa. La retina

è la parte fondamentale per la visione dei colori: la retina si comporta come una

78 La seguente immagine, insieme alla successiva, sono tratte da

https://www.unirc.it/documentazione/materiale_didattico/597_2009_221_6520.pdf (Verificato in data

14/1/2018).

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pellicola fotografica adatta a ricevere impressioni sia in bianco - nero che a colori. Essa

è costituita da un gran numero di cellule sensibili alla luce che si differenziano in:

"bastoncelli" e "coni" (definiti fotorecettori).

Gli impulsi luminosi ricevuti dai coni e dai bastoncelli vengono trasmessi al cervello

tramite il nervo ottico. I bastoncelli, a differenza dei coni, non sono sensibili al colore.

Sia gli uni che gli altri hanno comunque il potere di modificare la propria sensibilità a

seconda che la luce disponibile sia poca o molta e contribuiscono così a realizzare

l'adattamento dell'occhio. La concentrazione dei bastoncelli e dei coni varia sull'area

della retina. La fovea, una piccola depressione al centro della retina avente un diametro

di circa 0,5 mm, contiene solo coni. Esternamente a quest'area coni e bastoncelli sono

mischiati e la proporzione di coni diminuisce man mano che si va verso la zona

periferica della retina. In condizioni d'illuminazione molto scarsa, a determinare il

fenomeno della visione provvedono solo i bastoncelli: la percezione periferica è

superiore a quella foveale e non si ha la sensazione del colore (visione scotopica). Nel

caso invece in cui la luce disponibile sia sufficiente i principali elementi attivi sono i

coni ed ha luogo la normale visione dei colori (visione fotopica)79.

In riferimento alla questione che più ci interessa, il colore, l'occhio umano percepisce in

misura diversa l'intensità corrispondente alle varie lunghezze d'onda ed è per questo che

uguali quantità di energia raggiante di differenti lunghezze d'onda non provocano

un'impressione luminosa di uguale intensità. Se, ad esempio, si considerano uguali

quantità di energia per tutte le varie lunghezze d'onda e si paragona l'intensità

dell'impressione luminosa ricevuta, si constata che alla radiazione giallo-verde

(lunghezza d'onda pari a 555nm), corrisponde l'impressione luminosa più intensa,

mentre le radiazioni rosse e violette determinano un'impressione molto più debole. A

seguito di esperimenti effettuati su un gran numero di persone è stato possibile

rappresentare graficamente la sensibilità spettrale relativa dell'occhio umano (Fig. 13).

La sensibilità dell'occhio alla radiazione giallo-verde è stata considerata pari al 100% e

perciò a tale lunghezza d'onda corrisponde un fattore di sensibilità visiva uguale ad uno.

La sensibilità a tutte le altre lunghezze d'onda può essere espressa in rapporto a questa

sensibilità massima. Così, ad esempio, il fattore di sensibilità dell'occhio per la

79 Cfr. Corso di illuminotecnica, Università di Reggio Calabria, consultabile al link

https://www.unirc.it/documentazione/materiale_didattico/597_2009_221_6520.pdf (Verificato in data

29/1/2018).

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radiazione di colore arancio (corrispondente ad una lunghezza d'onda di 600 nm) è di

0,63.

Figura 13

Chiudiamo questo paragrafo sulla visione dei colori, approfondendo la parte che

riguarda la funzione dei coni nella visione dei colori.

«La risposta è fornita in gran parte da tre classi di cellule che formano il cono,

sensibili ai colori, che si trovano nella retina dell’occhio. Ciascun tipo di cellula

risponde in modo diverso alla luce riflessa di un oggetto colorato a seconda che

la cellula contenga un pigmento sensibile al rosso, al verde o al blu; i pigmenti

sono proteine fotosensibili che vengono eccitate particolarmente da lunghezze

d’onda lunghe (rosso) intermedie (verde) e corte (blu) della luce visibile. Le

quantità di luce assorbite rispettivamente da ciascuna classe di coni sono tradotte

in segnali elettrici dai nervi retinici e quindi trasmesse al cervello. Dove il

segnale complessivo induce la sensazione di uno specifico colore»80.

La funzione dei fotorecettori viene descritta dai ricercatori Schnapf e Baylor:

«Il processo visivo inizia con la conversione di pacchetti di energia

elettromagnetica, chiamati fotoni o quanti di luce, in segnali nervosi che il

cervello è in grado di analizzare. […] Ciascuna cellula fotorecettrice assorbe la

luce da un unico punto dell’immagine e genera un segnale elettrico che codifica

la quantità di luce assorbita. Questi segnali vengono trasmessi attraverso un

complicato sistema di sinapsi, o giunzioni nervose, che si trovano nella retina e

80 Nathans J., I geni per la visione del colore, in Le scienze quaderni, op. cit., pag. 45.

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nel cervello. A livello di queste giunzioni i segnali vengono sommati e

confrontati. Questo processo permette al sistema visivo di ottenere informazioni

sulla forma, sul movimento e sul colore del mondo circostante»81.

La trattazione sulla percezione del colore sarebbe ancora lunga: ci sono aspetti

psicologici, oltre che fisiologici, che qui non possono essere presi in considerazione. Si

deve comunque tener presente che «la percezione dei colori è il risultato di una

complessa serie di operazioni che ha inizio sulla retina e si conclude nella corteccia

visiva, mescolando elementi oggettivi e soggettivi»82.

2.6.Sintesi additiva e sottrattiva

Come abbiamo visto, luci di differente lunghezza d'onda ci appaiono di diverso colore.

Il fatto che queste generino, se sommate, la visione del bianco, è un fenomeno che viene

definito sintesi o mescolanza additiva. La visione del bianco può essere quindi

considerata come la controparte percettiva della somma di tutte le radiazioni che

compongono lo spettro visibile. Miscelando i colori primari si generano i colori. La

terna di colori primari a partire dai quali definire tutti gli altri è una scelta arbitraria.

Abbiamo anche già visto che i tre tipi di coni presenti sulla retina hanno una differente

sensibilità alle lunghezze d’onda della luce. In particolare:

I coni corti hanno un picco di assorbimento delle radiazioni intorno ai 400 nm

(nanometri) e dunque sono sensibili al blu;

I coni medi hanno un picco di assorbimento intorno ai 500 nm e quindi risultano

principalmente sensibili al verde;

I coni lunghi hanno un picco di assorbimento a 600 nm circa; sono quindi

sensibili alla gamma dei rossi.

La tonalità permette la loro classificazione. Le differenze di tonalità dipendono in

particolare dalle variazioni nella lunghezza d'onda della luce che colpisce i nostri occhi.

Il concetto di luminosità si riferisce, invece, alla quantità di chiaro o scuro del colore.

Fisicamente un colore viene percepito come più o meno luminoso a seconda del grado

di riflettività della superficie che riceve la luce. Un'elevata luminosità ci fa percepire il

colore più chiaro rispetto al colore della stessa tonalità con luminosità inferiore.

81 Schnapf J., Baylor D., Come i fotorecettori rispondono alla luce, in Le Scienze quaderni, op. cit., pag.

52. 82 Camiz P., Il colore come costruzione mentale, in La scienza quaderni, op cit., pag. 74.

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La saturazione si riferisce all'intensità del colore e viene misurata nei termini della

differenza di un colore rispetto ad un grigio con lo stesso livello di luminosità. Al

diminuire della saturazione il colore tenderà al grigio.

La stimolazione simultanea dei tre tipi di coni della retina porta alla percezione di

qualsiasi colore generabile dall'incontro di luce rossa, verde e blu in diversa misura.

L'incontro di due fasci luminosi di uguale intensità genera altri tre colori: il giallo (rosso

e verde), il ciano (verde e blu) ed il magenta (blu e rosso). Per ottenere il bianco è

necessario che i tre fasci luminosi rosso, verde e blu abbiano un'intensità tale da

generare lo stesso triplice stimolo indotto dalla luce del sole (Fig. 14).

Figura 1483

Per la visione degli oggetti è altrettanto fondamentale la sintesi sottrattiva: la

percezione del colore di tutto ciò che osserviamo dipende da meccanismi "sottrattivi",

in quanto si basa sulla capacità della materia di assorbire componenti cromatiche

piuttosto che emetterne di proprie. Una superficie colorata assorbe una parte della luce

visibile e restituisce il resto all’ambiente sotto forma di luce riflessa.

Se consideriamo il fenomeno dalla parte della radiazione assorbita, le superfici che ci

appaiono colorate sottraggono alla nostra visione una parte dello spettro visibile. E’

molto importante nel campo della pittura e della stampa prevedere quale effetto produca

sulla visione dei colori la combinazione delle proprietà riflettenti (cioè della capacità di

assorbire parte della luce) proprie di superfici differenti.

Ad esempio, che colore si può vedere mescolando su una superficie neutra giallo e

magenta? Il colore risultante percepito corrisponderà a quella parte dello spettro visibile

che entrambi i pigmenti riflettono, mentre sarà cancellata ogni parte della luce visibile

83 La seguente immagine, come la successiva, è tratta da http://www.crearecreativita.it/sintesi-additiva-e-

sintesi-sottrattiva/ (Verificato in data 15/1/2018).

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che è riflessa da uno soltanto di essi. Il giallo riflette la luce verde e la rossa; il magenta

riflette invece la luce blu e la rossa. Mescolando i due colori, il giallo bloccherà la

componente di luce blu riflessa dal magenta, mentre il magenta bloccherà la

componente di luce verde riflessa dal giallo, ed entrambi rifletteranno la luce nello

spettro del rosso.

Il ciano, il giallo e il magenta hanno, ciascuno, la proprietà di bloccare, cioè di sottrarre

alla vista, uno dei colori primari della sintesi additiva e di riflettere gli altri due. Ciano,

giallo e magenta sono perciò considerati i colori primari della sintesi o mescolanza

sottrattiva, cioè di quella mescolanza di pigmenti che genera la visione di colori in

dipendenza del modo in cui essi riflettono la luce bianca. La mescolanza di due primari

qualsiasi della sintesi sottrattiva genera uno dei primari della sintesi additiva.

Sommando i tre colori si ottiene il nero (Fig. 15), perché ciascuno dei tre colori della

sintesi sottrattiva assorbono un terzo delle radiazioni della luce bianca e ne rilasciano

due terzi.

Figura 15

2.7.L’arcobaleno

La spiegazione dettagliata del fenomeno dell’arcobaleno, con gli effetti meno visibili

come la comparsa di un arco secondario e la comparsa di una zona più scusa tra i due

archi, ha costituito nel tempo una grande sfida per gli scienziati, anche a costo di

qualche incomprensione; Goethe ad esempio scrisse che l’analisi dei colori fatta da

Newton avrebbe “paralizzato il cuore della natura”. Ma nelle parole di Cartesio, che si

era occupato di questo fenomeno, si recupera l’idea che gli scienziati non sono stati

affatto insensibili alla bellezza dell’arcobaleno: «L’arcobaleno è una meraviglia della

natura così straordinaria…che difficilmente potrei scegliere un esempio più adatto per

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l’applicazione del mio metodo»84. Persino Aristotele aveva affrontato la questione

dell’arcobaleno: egli suggerì che l’arcobaleno fosse un’insolita riflessione della luce del

sole da parte delle nubi. L’angolo di incidenza formato dai raggi dell’arcobaleno e dalla

luce del sole fu invece misurato da Bacone, nel 1266: egli misurò un arco di circa 42°.

Nel 1304 il monaco tedesco Teodorico Freiberg respinse l’idea di Aristotele e suggerì

che ogni goccia fosse individualmente capace di produrre un arcobaleno, provando

questa tesi con una goccia d’acqua ingrandita: una boccia sferica piena d’acqua. La

questione dei colori fu poi affrontata dal Newton nel 1666, con i suoi esperimenti con il

prisma. Tali esperimenti dimostrarono che non solo la luce bianca è la somma di tutti i

colori, ma anche che l’indice di rifrazione è differente per ogni colore, per un effetto

detto dispersione85.

Per una esauriente spiegazione del fenomeno dell’arcobaleno, bisogna sfruttare tutte le

risorse della fisica e della matematica. Quella che segue è una semplice spiegazione del

fenomeno. Quando un raggio di sole colpisce una goccia d’acqua, parte della luce viene

riflessa e parte rifratta, per effetto del cambiamento di indice di rifrazione tra aria e

acqua86. Quando la luce giunge alla parete posteriore della goccia, il processo si ripete.

Il raggio riflesso all’interno della goccia ritorna verso la superficie anteriore e parte di

esso esce all’esterno, subendo di nuovo una deviazione. Questa è la luce che arriva

all’osservatore, il quale, per vedere l’arcobaleno, deve volgere le spalle al sole (Fig. 16).

Figura 1687

84 Nussenzveig M., L’arcobaleno, in La scienza quaderni, op. cit., pag. 28. 85 Ivi pag. 31. 86 Cfr. Frova A., Luce Visione Colore, op. cit., pag. 97. 87 L’immagine è tratta da http://www.treccani.it (Verificato in data 15/01/2018)

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L’angolo formato dal raggio incidente sulla goccia e da quello emergente dipende dal

parametro d’impatto, che è la distanza tra il raggio di sole e l’asse della goccia. Poiché

la luce del sole colpisce la goccia simultaneamente in tutti i punti (e quindi con molti

valori del parametro d’impatto) si può dire che la luce viene diffusa praticamente in

tutte le direzioni.

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CAPITOLO 3

IL PERCORSO DIDATTICO IN CLASSE

3.1 Presentazione della classe

Questo percorso è stato realizzato nella classe quinta della scuola primaria “G.Carducci”

di Santo Pietro Belvedere, nel comune di Capannoli. La scuola è a tempo pieno, con

orario di 40 ore settimanali e fa parte dell’Istituto Comprensivo “Sandro Pertini” di

Capannoli, nel quale lavoro come insegnante dal 2008. L’insegnante della di

matematica e scienze della classe, con cui collabo nei dipartimenti disciplinari, ha

accolto la proposta di questo percorso con entusiasmo e ha collaborato sia nella gestione

delle attività, sia registrando parte delle conversazioni e delle osservazioni orali dei

bambini mentre io conducevo le attività stesse.

La classe è composta da 17 alunni, 9 maschi e 8 femmine. Sono presenti in classe 2

bambini con certificazione DSA e un bambino BES (tutti con PDP). La classe è stata

presentata come una classe di livello medio, senza particolari problemi di

comportamento, ma poco partecipativa e un po’ passiva. I bambini sono comunque

abituati a lavorare in gruppo, collaborando e assegnando ruoli a ciascun componente.

Nella scuola è presente una LIM, collocata in una stanza che ci è servita da laboratorio e

che abbiamo tenuto oscurata con dei teli neri per tutto il periodo del percorso.

3.2 Progettazione dell’Unità di Competenza

Per progettare il percorso si è fatto riferimento alla griglia di progettazione per Unità di

Competenza, tratta dal testo “Progettare per unità di competenza nella scuola

primaria”88. La progettazione curricolare della scuola ha come traguardo il

raggiungimento delle competenze previste nelle Indicazioni Nazionali: le metodologie,

le strategie e i contenuti devono essere inseriti in questa cornice di riferimento. In

questo percorso didattico si è cercato di impostare un “intervento didattico atto a

promuovere l’interazione tra le conoscenze, le abilità, gli atteggiamenti e le azioni”.89

88 Capperucci D., Franceschini G., Guerin E., Perticone G., Progettare per unità di competenza nella

scuola primaria, FrancoAngeli, Milano 2016. 89 Ivi, pag. 132.

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3.3 Descrizione degli incontri

Nel primo capitolo sono state descritte le modalità generali di conduzione degli incontri.

Di seguito, è riportata la descrizione delle attività didattiche condotte in classe. Alcuni

dei materiali utilizzati sono inseriti in allegato. Riguardo all’utilizzo della LIM, spesso

gli schemi e le rappresentazioni utilizzate erano animate e gli oggetti potevano essere

spostati, collegati e scoperti, in modo da favorire la comprensione da parte dei bambini

e la loro interazione. Nelle immagini in allegato non è possibile riportare questo tipo di

animazione (Allegato 1).

Nella descrizione degli incontri, per rendere più agevole la lettura, si è scelto di

evidenziare in corsivo tutte, e solo, le affermazioni dei bambini. Quando è stato

possibile (nei testi scritti o in dialoghi meno serrati) sono state riportate le iniziali dei

nomi dei bambini che sono intervenuti. Quando le discussioni sono state serrate, è stato

possibile solo annotare le affermazioni in modo più generico, senza poterne indicarne

l’autore. Ciò non toglie che siano comunque frutto dei bambini e significative per la

comprensione dei loro ragionamenti.

PRIMO INCONTRO – GIOCO A SQUADRE

Contenuto:

Conoscenza della classe;

Presentazione del percorso;

Attivazione delle preconoscenze;

Preparazione dell’intervista a Newton.

Nel primo incontro, ho pensato che fosse opportuno fare conoscenza con i bambini,

spiegare loro chi fossi e cosa avremmo fatto insieme. Ho strutturato l’incontro

proponendo loro una sorta di gioco a squadre, che mi sarebbe servito per capire le

conoscenze che i bambini già conoscevano, soprattutto riguardo ad alcuni termini che

nel percorso della scuola primaria si acquisiscono e si utilizzano con una certa

frequenza: ipotesi, fenomeno, esperimento, deduzione.

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Figura 1790

Figura 18

Ciascun gruppo aveva questo compito: capire quali parole legate alla scienza fossero

nascoste sotto le lenti; di queste parole erano messe in evidenza soltanto le iniziali (Fig.

17 e 18). È stato interessante osservare quali parole siano emerse: evoluzione,

esperimento, energia, forza, fuoco, domanda, dilatazione, idea, fenomeno, ipotesi. Oltre

a queste parole, nei gruppi sono venuti fuori anche termini legati al corpo umano

(ultimo argomento affrontato a scienze).

Dopo la discussione collettiva, i bambini si sono accordati su quali termini potessero

essere nascosti sotto le lenti ed infine li abbiamo scoperti.

90 Tutte le immagini, da questo momento in poi, sono elaborate dalla sottoscritta.

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Dopo aver individuato le parole, i bambini dovevano provare a definirne il significato

scientifico. Ecco alcune delle definizioni:

Un fenomeno è una cosa che accade in natura

L’ipotesi è una probabilità che ci si pone su un fenomeno

L’esperimento è una prova per testare se l’ipotesi è corretta

Definizione è il nome che si dà a un fenomeno

Il fenomeno è una cosa che accade in natura e incuriosisce

Definizione: dare un significato a un fenomeno

Definizione: una certa cosa spiegata con parole scientifiche

Definizione: il risultato di tutto ciò che abbiamo osservato

Questa attività mi è servita per introdurre i bambini alle modalità con cui avremmo

affrontato l’intero percorso: partendo cioè da ciò che sentono di sapere sulle cose, o dal

provare a dare spiegazioni a cose che hanno sempre visto

Nell’ultima attività, si è richiesto ai gruppi di disporre secondo un ordine che per loro

fosse logico, le azioni contenute nell’immagine qui riportata (Fig.19). Non c’era in

realtà un ordine prestabilito in modo univoco: i gruppi dovevano però motivare la

sequenza delle loro azioni. La finalità di questa attività era che ciascun gruppo

riflettesse sul significato di queste azioni e le interiorizzasse.

Figura 19

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Dopo questa attività, ho svelato ai bambini che il nostro percorso avrebbe avuto inizio

proprio conoscendo un grande scienziato: Newton. Ho chiesto loro se lo conoscessero e

molti hanno detto di sì. Qualcuno di loro sapeva anche che si deve a lui la legge sulla

forza di gravità. È stato subito chiaro, senza bisogno che lo esplicitassi, che non poteva

essere il vero Newton, perché tutti sapevano che “è vissuto tanto tempo fa”. Mi viene da

pensare che già in quel momento era iniziato il gioco delle parti: evidenziare un

elemento tanto evidente, come il fatto che non fosse il vero Newton, avrebbe rotto un

po’ quel senso di gioco e complicità che si era creato. A questo punto ho letto loro

alcuni brani tratti dal libro di Luca Novelli; poi ho chiesto ai bambini, ancora divisi in

gruppi, di preparare una piccola intervista da fare a Newton, facendogli tutte le

domande che venivano loro in mente. Ne riporto alcune, anche se in realtà l’intervista,

pur partendo da queste domande, è andata ben oltre.

Come hai scoperto il “pendolo di Newton”?

Come hai fatto a scoprire la gravità?

Come è possibile il cambio che si danno le palle di Newton?

Quanto tempo ci vuole circa per una scoperta?

Per tutte le scoperte, hai sempre usato il metodo scientifico sperimentale?

Hai conosciuto Galileo?

Ma veramente ti è caduta la mela in testa?

Che giorno sei nato?

Qual è la scoperta che ha rilevato più successo?

Quanto tempo hai impiegato per finire la legge di gravità?

Quante scoperte hai fatto?

Quando le hai fatte ti prendevano in giro?

A che metodo ti sei ispirato?

Ti sei laureato? In cosa?

I tuoi genitori volevano che diventassi scienziato?

Ti è sempre piaciuto fare lo scienziato?

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SECONDO INCONTRO – L’INTERVISTA A NEWTON

Contenuto:

Intervista a Newton;

Consegna dell’artefatto della sfida: scoprire come si realizza il fenomeno

dell’arcobaleno.

Questa esperienza ha messo in evidenza che l’aspetto narrativo, che coinvolge la sfera

emozionale, può contribuire ad appassionare i bambini alla scienza. Il “racconto

scientifico”, la conoscenza dello scienziato nell’ aspetto più umano e persino la

drammatizzazione e la personificazione nel gioco di ruolo, nel “far finta”, ha generato

un’intesa, un interesse e un “appassionamento” tali da rendere l’esperienza unica e

indimenticabile. Non di meno, si deve ammettere che la riuscita di questa esperienza sia

dovuta soprattutto alla preparazione del professor Fabio Bachini (Fig. 20), che ha saputo

rispondere a tutte le domande poste dai bambini in modo competente, ma con un

linguaggio semplice e chiaro. Dal calcolo integrale al pendolo a tre sfere di Hooke, dagli

aneddoti sul mercurio trovato nei capelli dello scienziato, alla trasformazione

dell’energia. I bambini hanno continuato a fare domande andando ben oltre l’intervista

preparata.

Quasi sicuramente, la permanenza nel bagaglio conoscitivo dei bambini dei contenuti

scientifici emersi in questo incontro-intervista, essendo essi solo trasmessi, non sarà

duratura. Ma in questo caso la finalità era un’altra, ed ha a che fare con l’aspetto

motivazionale ed emozionale, aspetti assolutamente predisponenti all’apprendimento.

Ogni volta che, nella loro carriera scolastica, ma anche al di fuori di questa, i bambini

sentiranno nominare Newton, il fatto di averlo incontrato, anche solo nella finzione, sarà

per loro un aggancio emotivo che li predisporrà agli apprendimenti dei contenuti ad esso

collegati.

Riporto di seguito quanto i bambini hanno rielaborato a casa: le rielaborazioni sono

state tutte molto ricche; ne ho scelti solo alcuni stralci significativi.

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Figura 20

Martedì è venuto Newton: è stata una lezione interessante e fantastica. La volta prima

con il nostro gruppo avevamo preparato delle domande da fargli. A ogni domanda che

gli facevamo lui ci rispondeva, poi ci ha spiegato la forza di gravità, se gli piaceva fare

lo scienziato e molte altre cose […] Ovviamente non era Newton vero, era un

professore di fisica. Ci ha fatto tutti i disegni alla lavagna per farci capire, poi ci

spiegava ogni cosa punto per punto così noi capivamo meglio. (Elisa)

Ci ha parlato delle operazioni massimali, per calcolare l’area delle figure curve e

strane. (Daria)

E da quello che abbiamo scoperto oggi, è diventato il mio scienziato preferito insieme a

Galileo. (Francesco)

Ho ben capito gli argomenti perché li ha spiegati molto bene e l’argomento che mi è

piaciuto di più è stato quello delle palle. Vorrei approfondire la forza di gravità.

(Ginevra)

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Però la campanella è suonata altrimenti gli avrei fatto altre domande. Spero di rivivere

altre esperienze come questa. (Massimo)

Io credevo che le altre persone lo prendevano in giro quando faceva una scoperta,

invece erano invidiose di lui. Per fare una scoperta ci impiegava anche venti anni.

Quando sono arrivato a casa da quanto mi ero interessato a questa cosa sono subito

andato a cercarla su Internet ed ho guardato altre informazioni su di lui. (Andrea)

Abbiamo scoperto che Newton era figlio di un contadino e a malapena aveva i soldi per

andare a scuola; a scuola aveva il compito di alzarsi tutte le mattine e andare a

prendere i vasi da notte nelle camere degli altri studenti. (Leonardo)

Ci ha parlato delle palle di Newton, che però non erano davvero sue, e come

funzionano grazie all’energia che trasmette una pallina all’altra […] e ci ha raccontato

che lui si auto fabbricava le medicine. Alla fine per salutarci ci ha letto una poesia in

rima per lanciarci una sfida che consisteva nel descrivere o definire il fenomeno

dell’arcobaleno. Quando siamo tornati in classe la maestra Sara ci ha dato un

fogliettino dove appunto si doveva scrivere la nostra ipotesi, cioè un’affermazione non

certa su un fenomeno, sull’arcobaleno. (Margherita)

Alla fine dell’incontro, è stato presentato un artefatto. Una filastrocca in rima (Fig. 21)

con la quale Newton ha lanciato una sfida ai bambini: lo scienziato osserva i fenomeni

attorno a sé e ne cerca la causa. Newton ha sfidato i bambini ad essere essi stessi

scienziati: cercare di spiegare cosa accade quando si forma l’arcobaleno in cielo.

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Figura 21

Indubbiamente l’arcobaleno è un fenomeno complesso, ma si possono affrontare

percorsi di costruzione di conoscenza relativamente ad ambiti fenomenologici in modo

tale che i bambini possano rendersi conto del loro carattere di complessità sin

dall'inizio. È necessario per questo partire con la considerazione di situazioni “ampie",

con lo scopo dichiarato di voler capire e descrivere quello che succede e non procedere

per unità didattiche che ritagliano separatamente aspetti distinti di una fenomenologia

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che, nel suo complesso, è "vista" solo dall'insegnante. La necessità di segmentare i

"fatti" e di studiare un aspetto per volta deve nascere dal lavoro svolto in classe.

Quando Newton ci ha lasciati, ho chiesto ai bambini di elaborare delle ipotesi su come,

secondo loro, si forma l’arcobaleno in cielo.

Ecco alcune delle risposte date dai bambini:

Secondo me il motivo è che la pioggia a contatto con il sole crea nel cielo questo fluido

tutto colorato (Andrea)

Secondo me l’arcobaleno è solo un raggio di sole (molti raggi) che filtrano nelle gocce

d’acqua quando piove e si formano strati di colore che unendosi formano l’arcobaleno.

Tante tante strisce di colore che unendosi formano una striscia multicolor” (Nicola)

Secondo me grazie alle radiazioni che il sole trasmette nella goccia d’acqua e forma

questo arco colorato con tutti i i colori naturali che sono nell’atmosfera. (Gabriele)

Dopo la pioggia c’è l’arcobaleno perché il sole luccica nelle gocce di pioggia e

formano l’arcobaleno. (Maria)

Secondo me l’arcobaleno succede perché la pioggia con la luce del sole si scontra e

con i raggi solari l’arcobaleno si forma. (Elisa)

L’acqua della pioggia si specchia sul sole e fa dei colori, ma se si vede in lontananza è

perché sta piovendo in quella zona. Quando si guarda il sole si vedono alcune luci

colorate nei raggi e dato che l’occhio riflette è uno specchio e come la goccia d’acqua

trasparente uno specchio è trasparente quindi riflette. (Gioele)

“L’acqua fa da specchio al sole e così si crea l’arcobaleno (la goccia d’acqua grazie al

sole diventa colorata). (Massimo)

“Secondo la mia religione Geova fece comparire un arcobaleno in cielo e gli disse che

l’arcobaleno era per farci ricordare di ubbidire e ascoltarlo così ci salveremo come

Noè. (Gerardo)

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TERZO INCONTRO – COME FACCIAMO A VEDERE LE COSE?

Contenuto:

L’interazione tra la luce, gli oggetti e gli occhi.

In questo incontro si è cercato di avviare un processo di modellizzazione della luce,

degli oggetti, dei mezzi materiali, dell’occhio e dell’interazione della luce che desse

ragione degli aspetti geometrici (forme, dimensioni, collocazione spaziale, ecc.) e non

geometrici (luminosità, colori, caratteristiche della superficie, ecc.) delle percezioni

visive. Questo incontro inizia con una domanda: “Come facciamo a vedere le cose?” La

domanda è stata concretizzata con una situazione pratica: ho indicato ai bambini un

astuccio sul banco e ho chiesto loro come facessimo a vederlo. I bambini hanno iniziato

a discutere e la prima cosa che è emersa è che per vedere l’astuccio è necessario

l’organo della vista (ed è già una buona consapevolezza!), ma le riflessioni non vanno

oltre.

Così abbiamo chiuso la porta e abbiamo oscurato la stanza (si era provveduto a

preparare dei teli per le finestre in modo da avere l’oscurità completa). Ho spento la luce

e ho chiesto ai bambini se riuscivano, in quella situazione, a vedere l’astuccio. È subito

emerso che per vedere l’astuccio è necessario che ci sia la luce. Ho aperto poi un

piccolo spiraglio di tenda, ma i bambini affermavano che ancora non riuscivano a

distinguere bene l’astuccio. Ho aperto ancora un po’ la tenda: i bambini a questo punto

affermavano di distinguere la sagoma e la forma dell’astuccio, ma non riuscivano a

distinguerne i colori. Così l’insegnante ha acceso la luce e i bambini hanno subito detto

che, per vedere bene l’oggetto, nella forma e nel colore, deve esserci un bel po’ di luce.

A questo punto si è chiesto loro se è necessario qualcos’altro per vedere l’astuccio e un

bambino ha subito detto: “è necessario che ci sia l’astuccio!”

Si hanno così tre elementi che interagiscono nel meccanismo che ci consente di vedere

le cose. Alla LIM ho iniziato a disegnare i tre elementi e ho chiesto loro cosa dovevo

disegnare per rappresentare la luce. Qualcuno ha detto il sole, qualcuno ha detto una

lampadina. Dalla discussione è emerso immediatamente, senza necessità di mediazione,

che l’origine della luce può essere naturale o artificiale (evidentemente questa

distinzione era già molto chiara nella mente dei bambini). Ci siamo messi d’accordo di

disegnare il sole. Poi ho disegnato l’astuccio e un occhio. A questo punto ho posto loro

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un nuovo quesito: abbiamo capito che questi sono i tre elementi che “interagiscono”

quando vediamo l’astuccio. Ma come interagiscono tra loro? Qual è la relazione tra

l’uno e l’altro? Ho chiesto ai bambini di copiare lo schema sul quaderno e provare a

descrivere, con disegni o parole, lavorando da soli, questa interazione.

Da subito, girando tra i banchi, mi accorgo della difficoltà che molti di loro hanno, così

chiedo: “Sapete cosa vuol dire interazione?” Alcuni bambini intervengono cercando di

spiegare questo termine.

Vuol dire che delle cose agiscono insieme, che si mischiano.

Vuol dire che una cosa fa una cosa ad un’altra cosa.

Interagire vuol dire che delle cose si influenzano tra loro.

Non ho aggiunto altro: queste spiegazioni, condivise con tutti i bambini, mi sono parse

sul momento sufficienti. Quindi ho riformulato la domanda: “Quali sono le azioni che

luce, astuccio e occhio fanno in relazione tra loro per renderci possibile di vedere

l’astuccio? Quale influenza hanno l’uno sull’altro?”

I bambini provano a scrivere o rappresentare quello che pensano:

La luce illumina l’astuccio e grazie ai colori che sono nell’atmosfera lo vediamo.

Senza luce non possiamo vedere, se non c’è l’oggetto non si vede niente: la luce

permette all’occhio di mettere a fuoco così si vede forma e colore.

L’occhio non può vedere senza la luce. La luce colpisce l’occhio e così si vede

l’oggetto.

La visibilità dell’oggetto dipende dalla quantità di luce (se ce n’è tanta si vede bene, se

ce n’è poca si vede male ma se non ce n’è non si vede niente).

Passando tra i banchi mentre i bambini lavorano e leggendo le risposte, mi rendo conto

delle loro difficoltà; non riuscendo a spiegare come questi elementi interagiscono,

tendono a ripetere ciò che era stato appena detto, cioè che cosa interagisce. La loro

risposta riprende spesso in modo tautologico la domanda. Quando rileggiamo insieme le

risposte, alcuni bambini si rendono conto di questo.

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Ci sono però alcune risposte su cui ci soffermiamo a riflettere: “La luce colpisce

l’occhio e noi vediamo le cose”. Il bambino che lo ha scritto rappresenta questa azione

con una freccia alla lavagna: la freccia parte dalla sorgente luminosa e colpisce

direttamente l’occhio, senza interessare l’oggetto. L’insegnante chiede al bambino di

uscire fuori e lasciare la porta aperta, poi spenge la luce all’interno dell’aula. Tutti noi,

da dentro, vediamo il bambino illuminato dalla luce esterna (quindi la luce colpisce i

suoi occhi) e gli chiediamo se lui riesce a vedere noi dentro l’aula: il bambino risponde

di no. Quindi concludiamo che non è la luce del sole/lampadina che, entrando

direttamente nei nostri occhi, ci fa vedere l’astuccio.

Dopo diversi tentativi, discussioni e disegni, si arriva a concludere che la sorgente di

luce (il termine è stato introdotto da me) colpisce l’oggetto illuminato con un raggio che

si propaga, cioè che si “muove”. I bambini affermano che il raggio di luce colpisce

l’oggetto e “rimbalza” su di esso, andando in tutte le direzioni e colpendo l’occhio:

questo, secondo i bambini, è dimostrato dal fatto che tutti possiamo vedere lo stesso

oggetto, anche se siamo in posizioni diverse. A questo punto ho introdotto il termine

diffusione.

Figura 22

Abbiamo infine realizzato uno schema condiviso (Fig. 22) che racchiudesse e ordinasse

tutte le nostre osservazioni, utilizzando i termini introdotti da me.

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QUARTO INCONTRO – COME INTERAGISCE LA LUCE CON LE COSE?

Contenuto:

La propagazione della luce in linea retta;

L’interazione tra i raggi di luce e gli oggetti;

I fenomeni di diffusione e riflessione totale.

Il quarto incontro è stato introdotto con un compito assegnato ai bambini, che aveva un

duplice scopo:

Verificare la comprensione delle parole introdotte nell’incontro precedente e

del tipo di interazione che avviene tra sorgente luminosa, corpo illuminato e

occhio;

Recuperare gli argomenti affrontati la volta precedente per formulare una

nuova “domanda stimolo”.

Successivamente ho preso una camera oscura da me costruita con una scatola da scarpe

e della carta forno posta sul fondo, in posizione opposta al foro di entrata della luce.

L’ho fatta osservare e descrivere ai bambini. Poi ho chiesto ad un bambino di andare

alla finestra e di fare dei gesti. Gli altri bambini, a turno, osservavano l’immagine

capovolta proiettata sulla carta forno e, con enorme stupore, vedevano che l’immagine

appariva capovolta. Ho posto loro la solita domanda stimolo: come possiamo spiegare

questo fenomeno? I bambini hanno scritto le loro ipotesi sul quaderno. Successivamente

abbiamo discusso insieme le risposte. La maggior parte di loro, avendo studiato il corpo

umano, si accorge subito della similitudine che c’è tra il funzionamento della camera

oscura e quello dell’occhio. Per questo descrivono il fenomeno utilizzando i termini che

indicano le parti dell’occhio (retina, cristallino etc…). Abbiamo provato a realizzare

insieme un disegno alla lavagna che riprendesse la situazione: i bambini si sono

scambiati idee, sono venuti alla lavagna hanno iniziato a rappresentare i raggi, fino a

quando non sono arrivati a capire che i raggi di luce per arrivare al foglio, dovevano

passare nel buco della camera oscura per cui, se le mani del bambino alla finestra erano

in alto ma si vedevano in basso, voleva dire che il raggio andava “diritto passando dal

buco” e che “si muoveva come una linea diritta”. Abbiamo formalizzato questa scoperta

con un disegno più accurato, che mettesse in evidenza i punti ribaltati dall’immagine

esterna alla camera oscura e le linee che uniscono questi due punti (Fig. 23).

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Figura 23

Per consolidare questa scoperta, abbiamo fatto un altro esperimento: abbiamo oscurato

la stanza e puntato un raggio laser sulla parete. Si vedeva la sorgente e il punto in il

raggio laser incontrava la parete, ma non il raggio luminoso nel suo percorso. Poi ho

sparso della polvere di gesso in aria e la luce rossa del laser è apparsa nel buio. I

bambini affermano che “la luce del laser diventa visibile perché incontra le particelle di

gesso che la diffondono”. I bambini hanno rappresentato anche questa esperienza con

un disegno (Fig. 24).

Figura 24

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A questo punto, ho posto loro una nuova domanda: come interagisce la luce con le

cose? La luce interagisce con gli oggetti sempre allo stesso modo? Dopo una breve

discussione, ho acceso un proiettore e ho chiesto loro: cosa accadrà se metto l’astuccio

davanti alla luce del proiettore? I bambini hanno risposto subito che la luce non sarebbe

passata e che sulla parete ci sarebbe stata l’ombra. Abbiamo verificato quanto detto e

poi ho fatto loro alcune domande per guidare la conversazione: si vede bene l’astuccio?

E i suoi colori? Perché lo vediamo così bene? Poi ho preso una busta di plastica

trasparente per foglio e ho chiesto loro cosa sarebbe accaduto mettendola di fronte al

proiettore. Le posizioni in questo caso erano un po’ diverse, ma alla fine tutti erano

d’accordo con un loro compagno che ha detto: “La luce un po’ passa e un po’no, con

un po’ d’ ombra ma un po’ no”. Ho provato a chiedere al bambino di provare a

spiegarmi meglio: “In alcuni punti piccoli piccoli la luce passa e lì non c’è ombra, in

altri puntini la luce non passa e c’è ombra. Questi puntini però sono mischiati tra loro.”

Dopo aver verificato se effettivamente sul muro si vedevano come dei puntini mischiati

di luce e ombra abbiamo visto che attraverso la busta di plastica messa davanti agli

occhi si vedeva la luce ma non si distinguevano bene le forme (Fig.25). Qualcuno però

ha osservato: “Con tante buste di plastica, la luce non passa”. La maestra ha subito

preso altre buste e abbiamo realizzato che era vero. La luce non passava e dietro le buste

si creava l’ombra.

Figura 25

Allo stesso modo (domande previsione/risposte/verifica/discussione) abbiamo visto

cosa accade con il vetro e cosa accade con lo specchio: abbiamo notato che, con lo

specchio, “i raggi rimbalzavano tutti insieme nello stesso punto della parete” (Fig. 26).

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A questo i bambini hanno parlato delle loro esperienze con gli specchi: i labirinti nei

parchi giochi, lo specchio che usa il parrucchiere che “quando lo mette dietro la testa, le

immagini si riflettono tantissime volte”.

Figura 26

Alla fine, abbiamo formalizzato le nostre descrizioni, dando un nome a ciascuna

tipologia di oggetti, in relazione alla loro interazione con la luce: opachi, traslucidi,

trasparenti e “riflettenti” (intesi come corpi su cui avviene una riflessione totale) e

abbiamo cercato di capire come i raggi interagiscono con loro, anche attraverso l’uso di

immagini mostrate alla LIM (Fig.27).

Figura 27

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Sugli oggetti lisci lisci la luce riflette in un solo punto e su quelli irregolari si diffonde,

cioè si riflette in tutte le direzioni.

Negli oggetti lisci e trasparenti passa oltre, in quelli trasparenti ma non lisci, un po’

passa e un po’ si diffonde.

Affinché non si creassero categorizzazioni eccessive, ho chiesto loro di spiegarmi cosa

stava accadendo sul banco di un bambino. I bambini hanno subito osservato che il

banco è un oggetto opaco, quindi diffonde la luce, ma osservandolo meglio ci siamo

accorti che il banco rifletteva la luce, perché “è molto liscio e poi dipende da dove

arriva la luce”. Abbiamo concluso la nostra attività elaborando uno schema che

raccogliesse le informazioni necessarie per rispondere alla domanda che ci eravamo

posti all’inizio. I raggi di luce si comportano con gli oggetti in tanti modi diversi: a volte

con lo stesso oggetto può “un po’ diffondersi, un po’ riflettersi, come sui banchi, che

son un po’ opachi e un po’ riflettenti. Dipende da dove arriva la luce”.

QUINTO INCONTRO – COME INTERAGISCE LA LUCE CON L’ACQUA?

Contenuto:

L’interazione tra la luce e l’acqua;

Il fenomeno della rifrazione.

Anche questo incontro inizia riprendendo la descrizione degli esperimenti fatti e le

definizione condivise che ne sono emerse. A questo scopo, ho utilizzato spesso la LIM,

che mi ha consentito non solo di mantenere la traccia del lavoro fatto, ma anche di

ripresentare, quando è servito, le definizioni condivise e affinate a cui siamo arrivati alla

fine dei nostri incontri. Per accompagnare queste definizioni, ho usato delle immagini

che ho scelto per favorire e accompagnare la comprensione dei fenomeni osservati (alla

fine del testo, in allegato, si trova una sequenza di pagine delle flipchart che ho

utilizzato durante gli incontri).

Anche in questo incontro, ho posto una domanda ai bambini: come interagisce la luce

con l’acqua? Ho chiesto loro di provare a descrivere, dopo aver visto l’interazione della

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luce con diversi oggetti e in base alla loro esperienza, cosa accade quando luce e acqua

entrano in contatto.

Secondo me l’acqua non trattiene la luce e la respinge in linea retta. Ad esempio la mia

mamma un giorno mi ha detto che io mi abbronzo tanto anche se sto nell’acqua perché

l’acqua riflette i raggi solari. (Manuel)

Secondo me l’acqua è tipo un oggetto trasparente e la luce passa tranquillamente però

non so se fa anche da oggetto riflettente perché un po’ nell’acqua siamo in grado di

specchiarci perciò un po’ l’acqua riflette le cose. (Giulia)

Secondo me l’acqua può essere una specie di corpo traslucido trasparente perché fa

passare la luce, infatti si vedono gli oggetti dietro se è un bicchiere. Però se ce n’è

molta ad esempio nel mare, non si riesce a vedere bene, come negli oggetti trasparenti,

i corpo dietro, perciò può anche essere traslucido. Ma secondo me ha un nome

appropriato perché in scienza non si potrebbe chiamare un corpo

traslucido/trasparente. E poi l’acqua diffonde la luce, perché il sole nel mare riflette i

suoi raggi e li diffonde. (Eleonora)

La luce a contatto con l’acqua in movimento secondo me non riflette e l’acqua la tiene

per sé e invece con l’acqua ferma riflette. (Andrea)

La luce con l’acqua si comporta riflettendo il corpo che c’è davanti. Tipo se sei davanti

ad un fiume si vede la persona riflessa. Quindi l’acqua è riflettente ma è anche un po’

traslucida perché vedi un po’ sfuocato. (Elisa)

L’acqua riflette come un corpo trasparente e come uno specchio perché puoi vedere la

tua immagine riflessa ed è traslucida. L’acqua trattiene i raggi molto più che

respingerli. Quando ne trattiene troppi si riscalda. (Gioele)

Secondo me interagiscono così: quando i raggi del sole si propagano passano

attraverso l’acqua perché è trasparente ma non tutti passano e la riflettono. Ad esempio

quando ero al mare sotto l’acqua ho visto chiaramente i raggi di luce. (Margherita)

Secondo me, se punti una torcia in un lago, in un fiume, nel mare, in un bicchiere

d’acqua…la luce illumina quella parte e i dintorni di dove è andata a colpire la luce. In

un bicchiere la luce riesce ad illuminare tutto lo spazio: nell’oceano invece la luce non

riesce ad arrivare fino in fondo, quindi non riesce a diffondersi tutta. Secondo me però

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l’acqua non sempre riesce a riflettere la luce, quindi l’acqua trattiene la luce. Però se il

sole ti colpisce dal dietro, si vede la tua immagine dell’acqua. (Angela)

Secondo me l’acqua riflette quando è ferma e invece quando si muove continuamente

non riflette. (Francesco)

Secondo me la luce colpisce l’acqua e l’acqua trattiene, ma anche riflette e la diffonde.

Ad esempio hai l’acqua in un bicchiere e quando la luce incontra l’acqua la trattiene e

la riflette, e inoltre nel bicchiere ci si può anche specchiare, ma anche nell’acqua ci si

può specchiare! L’acqua è anche trasparente. L’acqua ti riflette solo quando l’acqua è

ferma. (Daria) (Fig. 28)

Figura 28

Quando i bambini hanno letto queste risposte, ho notato il loro tentativo di iniziare ad

utilizzare, nonostante non fosse stato loro chiesto, alcuni dei termini che avevamo

incontrato fino a quel momento: riflette, diffonde, è trasparente, lascia passare i raggi,

trattiene i raggi etc… Mi sono chiesta se questo facesse parte del “contratto didattico” di

Brosseaux, per cui i bambini sentivano di dover usare quei termini perché erano stati

loro presentati in precedenza, o se effettivamente iniziassero a sentire che quei termini

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potevano aiutarli a descrivere l’interazione dell’acqua con la luce. Ho notato anche che

hanno usato correttamente quasi tutti i termini, mentre non avevano ancora ben chiara

l’idea dell’assorbimento della luce da parte degli oggetti. Dalle loro risposte che si

vedano gli oggetti che assorbono la luce, non quelli che la diffondono. La lettura di

questi elaborati mi ha aiutata a capire che avrei dovuto riprendere questo aspetto e

chiarirlo meglio, sia nella discussione collettiva che negli incontri successivi.

Abbiamo letto le considerazioni e abbiamo concordato sul fatto che l’acqua riflette la

luce e la diffonde ma, se non è tantissima come nel mare profondo, la fa anche passare

(cioè un corpo trasparente). I bambini nella discussione hanno riportato diversi esempi

concreti, con diverse situazioni: l’acqua in un bicchiere, l’acqua del lago, l’acqua del

fiume, l’acqua del mare, l’acqua calma, l’acqua agitata, l’acqua pulita, l’acqua sporca

etc… e per ogni situazione abbiamo provato a capire che cosa accade. Quando “l’acqua

è ferma è più riflettente di quando è agitata”; “l’acqua si comporta come le buste di

plastica traslucide: una lascia passare un po’ di luce, tante insieme non la fanno

passare e diventano un corpo opaco”; “anche l’acqua sporca è come un corpo opaco”.

Dopo aver fatto queste osservazioni, propongo ai bambini di osservare due esperimenti

registrando ciò che accade. Il primo semplice esperimento è quello della matita immersa

nell’acqua: pur avendo visto certamente tantissime volte questo effetto, i bambini

sembrano meravigliati (Fig. 29).

Figura 29

La matita “sembra che si pieghi”; provano a guardarla da varie prospettive. “Se ti metti

sopra è piegata, se ti metti di lato sembra spezzata”. Quando ho chiesto loro di fare

delle ipotesi per spiegare ciò che avevano visto, ero consapevole del fatto che la

spiegazione sarebbe stata troppo complessa per i bambini; allo stesso tempo però, ero

curiosa di vedere cosa avrebbero scritto. Ho capito di essere estremamente interessata a

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scoprire come i bambini cercano di interpretare e spiegare fatti a loro cognitivamente

distanti, le reazioni che attuano di fronte a ciò che non sanno spiegare. Riporto di

seguito alcune delle ipotesi scritte dai bambini riguardo a questo esperimento (Fig.30).

La matita è come se si piegasse, perché la luce si sposta in linea retta e quindi entra ed

è come se volesse uscire. (Sara)

Secondo me perché l’immagine si riflette a galla e appare attaccata alla vera matita

immersa perciò abbiamo visto la matita che sembra spezzata. (Giulia)

Secondo me la matita si “piega” perché si ingrandisce e sicché se ce la metti a metà si

“piega” e se ce la metti tutta non succede nulla e siccome si propaga la matita si

ingrandisce o meglio noi si vede più grande. (Ginevra)

Secondo me perché i raggi di luce si muovono in linea retta e quando incontrano

l’acqua si deviano. (Leonardo)

Figura 30

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Vedo la matita immersa nell’acqua (quando guardo dall’alto) e la vedo piegata e

quando guardavo dal basso la vedevo ingrandita. Questo perché secondo me i raggi del

sole si riflettono e si diffondono e l’acqua trattiene i raggi di luce e grazie a questa

interazione si vede la matita piegata mentre la ingrandisce quando l’acqua ha una

funzione di lente. (Margherita)

Prima di affrontare il secondo esperimento, ci siamo confrontati su quanto i bambini

avevano scritto. Anche questa volta, è stato interessante vedere come i bambini stessi

correggessero i compagni. Ad esempio, quando una bambina ha detto che la matita

sembrava piegata perché quella che si vedeva sotto era la riflessione della parte di sopra,

altri bambini hanno affermato che se così fosse stato, la parte sotto sarebbe dovuta

essere speculare alla parte sopra, invece erano diverse. Una aveva la punta, l’altra no.

Mi sono anche accorta, osservando gli elaborati dei bambini, che chi non era riuscito a

produrre un’ipotesi, si era concentrato nella descrizione del fenomeno, sia in forma

scritta che con un disegno.

A questo punto, ho proposto il secondo esperimento, da svolgere a coppie. Un bambino

versava l’acqua nella bacinella, l’altro osservava il fenomeno ottico della monetina che

all’inizio è nascosta dal bordo del contenitore ma, mano a mano che viene versata

l’acqua, diventa visibile (Fig. 31).

Figura 31

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Anche questa volta, ho chiesto ai bambini di elaborare le loro ipotesi riguardo al

fenomeno osservato. In questo caso, per me la cosa più importante era che si rendessero

conto che effettivamente l’acqua esercita un effetto sulla visione della moneta. Anche

solo la descrizione del fenomeno avrebbe puntualizzato e sistematizzato il fatto che

l’acqua modifica la visione delle cose (Fig. 32).

Figura 32

Quando la moneta era sul fondo e il mio compagno Leonardo aggiungeva l’acqua,

vedevo la moneta che era come se si alzasse ma invece era l’acqua che mi faceva

credere che la moneta si alzasse ma non era vero. Accade che l’acqua fa vedere le cose

diverse da come in realtà sono. (Daria)

L’acqua fa da lente di ingrandimento. Quindi quando si metteva più acqua si

ingrandiva di più la moneta. (Gioele)

All’inizio sembra che la moneta si stia alzando, però è solo l’immagine. Sull’immagine

però la scritta si leggeva un po' male. (Eleonora)

Secondo me è perché quando si aggiunge acqua l’immagine del fondo si riflette a galla

e quindi sembra che la moneta galleggia. Quando mi alzo sembra che moneta si

abbassa. Sembra che tolgo l’acqua. (Giulia)

Una moneta immersa completamente nell’acqua, che a mano a mano si mette l’acqua si

vede meglio la moneta. Perché secondo me dipende tutto dai raggi del sole che si

bloccano e sono costretti a cambiare la loro direzione (in linea retta). (Margherita)

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Dopo aver letto le varie ipotesi e osservato tutte le rappresentazioni, ci confrontiamo su

quanto emerso e, come per l’esperimento precedente, sono gli alunni tra loro che

trovano le incongruenze nelle loro affermazioni. Quando mi sono accorta che non

c’erano stimoli nuovi alla discussione, ho ripreso alcune frasi, quali “raggi che si

muovono in linea retta”, “raggi deviati” etc… e ho presentato ai bambini un’immagine

che schematizzasse la situazione della moneta nella bacinella e dell’occhio che la

guarda. Ho chiesto ai bambini di venire alla lavagna per ripetere il modello della

visione. Il problema era che la luce diffusa dalla moneta avrebbe dovuto colpire il bordo

senza arrivare all’occhio. Allora, attraverso vari tentativi, siamo arrivati a capire che al

passaggio tra acqua e aria accade qualcosa. Ho introdotto il fenomeno della rifrazione.

Abbiamo elaborato una rappresentazione per capire cosa accade (ho utilizzato delle

immagini preparate su una flipchart alla LIM, che riporto in allegato). A questo punto,

prima ancora di scrivere la definizione condivisa e uguale per tutti del fenomeno della

rifrazione, ho chiesto loro ancora una volta di provare a descrivere, anche con un

disegno, quello che avevamo visto insieme e di spiegare il fenomeno della rifrazione.

La rifrazione è un fenomeno che accade quando i raggi di luce attraversano stati di

“mondo” (atmosfera, aria, acqua…) e viene deviato il raggio di luce e a noi sembra è

una apparenza che il soggetto nel nostro esperimento (la matita o la moneta) è spostato

ma non lo è. (Margherita)

Abbiamo scoperto la rifrazione, ora te lo spiego: allora, la rifrazione è una cosa che

abbiamo scoperto grazie a un esperimento. La rifrazione avviene quando la luce del

sole passa da un’atmosfera all’altra. Ad esempio i raggi passano attraverso il vuoto

poi cambiano direzione nell’aria e se passa attraverso l’acqua cambia posizione.

(Daria)

Abbiamo visto che la rifrazione è che praticamente la luce si diffonde nell’acqua e

sicché c’è la deviazione e sicché cambia la velocità e sicché la matita si piega.

(Ginevra)

Secondo me la matita si piega perché i raggi di luce quando entrano a contatto con

l’acqua avviene come un cambio di direzione dei raggi; i raggi si deviano e i raggi

deviati raggiungono il nostro occhio. Questo fenomeno si chiama rifrazione. (Manuel)

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La matita si vede spezzata perché la luce si rifrange per via dell’acqua, cioè i raggi

della luce si deviano per cui la matita sembra spezzata. I raggi della luce si deviano

perché cambia la sua velocità. (Leonardo)

La luce solare illumina un punto dell’oggetto immerso in acqua. Dopo viene diffusa e

quando i raggi solari stanno per uscire dall’acqua viene deviato, perché viene cambiata

la temperatura. L’occhio quindi vede la matita a metà e vede l’immagine della moneta

sulla superficie dell’acqua. Questo fenomeno si chiama rifrazione. (Francesco)

I bambini che hanno voluto, hanno letto la loro spiegazione del fenomeno della

rifrazione: ancora una volta, nella maggior parte dei casi, i bambini hanno confermato o

corretto le definizioni dei propri compagni e abbiamo ulteriormente sistemato alcune

affermazioni non corrette. Alla LIM, abbiamo condiviso la definizione del fenomeno

della rifrazione, utilizzando ancora uno schema di rinforzo.

SESTO INCONTRO: COME SI FORMANO I COLORI NELL’ARCOBALENO?

Contenuto:

La scomposizione della luce nei colori dello spettro;

La dispersione dei colori nel prisma;

Il fenomeno dell’arcobaleno.

Il nostro percorso non perde mai di vista la domanda che ci ha fatto Newton: come si

forma l’arcobaleno nel cielo? Abbiamo visto come interagiscono i raggi di luce con gli

oggetti e abbiamo scoperto il fenomeno della rifrazione che avviene quando i raggi di

luce incontrano l’acqua. A questo punto, la domanda da porci è questa: “come si

formano i colori dell’arcobaleno?”

Anche in questo caso, ho chiesto ai bambini di scrivere una loro ipotesi. La domanda è

molto simile a quella posta all’inizio del percorso, e sicuramente la spiegazione del

fenomeno, anche alla luce delle esperienze fatte, non era ancora del tutto accessibile ai

bambini, ma l’intento è stato quello di verificare, dopo aver realizzato la prima parte del

percorso, quanto le nostre attività potessero aver in qualche modo modificato le ipotesi

iniziali.

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Secondo me i colori dell’arcobaleno provengono dalla luce e poi si riflettono e si

diffondono. (Ginevra)

Secondo me i colori dell’arcobaleno si vedono perché quando la luce colpisce un

oggetto riflettente si crea l’arcobaleno. (Massimo)

Secondo me i colori dell’arcobaleno si vedono dopo la pioggia perché l’acqua fa

ingrandire i colori di tutto il mondo e li diffonde. E ecco come si forma l’arcobaleno.

(Maria)

Secondo me, visto che l’acqua e la luce formano un arcobaleno, potrebbe essere la luce

che fa un’illusione. (Eleonora)

Secondo me i colori stanno intorno al sole e vengono fuori quando viene fuori sia la

pioggia e sia il sole. Oppure quando la luce si propaga su un vetro e lo diffonde su un

oggetto. (Francesco)

Secondo me i colori sono i colori del sole. (Margherita)

Secondo me la luce propagata dal sole riflettono su un oggetto e così creando i colori.

C’è bisogno di luce chiara e di un corpo riflettente. Però credo che esistano due modi

di arcobaleno: quello grande che si trova fuori ed uno piccolo che riflette sugli oggetti.

(Angela)

Secondo me vengono dalla luce che ha tantissimi colori che ci fanno vedere tutti i

colori. (Gabriele)

Secondo me vengono dalla luce visto che insieme fanno i colori ma l’acqua è senza

colore. (Giulia)

Secondo me i colori vengono formati dalla luce, come il cielo, ma è anche merito

dell’acqua che li diffonde. (Leonardo)

Confrontando queste ipotesi con quelle fatte dai bambini all’inizio del percorso, non

posso fare a meno di notare che, seppur non vi sia ancora il concetto di scomposizione

della luce, i bambini utilizzano con una certa sicurezza e in modo quasi sempre

appropriato il termine “riflessione” (che comunque era già in uso nel loro linguaggio

comune); ma mi stupisce ancor di più il fatto che abbiamo utilizzato termini come

“propagazione” e “diffusione”.

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A questo punto, ho proposto alla classe due esperimenti: la scomposizione della luce

bianca con il prisma e la ricomposizione della luce bianca con il disco di Newton.

Ho preso un prisma e l’abbiamo osservato insieme: ne abbiamo osservato la forma, il

materiale e le caratteristiche. Ho proiettato poi una luce prodotta da una lampada

alogena sul prisma e, nell’aula completamente oscurata, i bambini hanno potuto vedere

un arcobaleno proiettato sulla parete. Abbiamo analizzato quali colori vi fossero e anche

la loro disposizione. A questo punto ho chiesto loro da dove provenissero quei colori.

Ne è sorta una discussione molto interessante. La maggior parte diceva che i colori

erano nella luce, visto che il prisma non li aveva. Un bambino però, ha detto che

secondo lui i colori erano nell’aria. Come insegnante, ho avuto una certa difficoltà:

come poter dimostrare, senza strumenti, che i colori sono anche nel vuoto?

Ma i bambini sono arrivati oltre; riporto uno stralcio di discussione:

M: “Secondo me i colori sono nell’aria. La luce attraversa l’aria e fa apparire i colori”

F: “I colori sono nella luce perché quando non c’è luce, anche se c’è l’aria, i colori

non li vedi”

M: “Magari ci sono lo stesso, la luce li illumina e basta”

G: “Ma se fossero nell’aria, vedresti l’aria di tutti i colori”

L: “Nello spazio non c’è l’aria, ma i colori ci sono. Quando si vedono le foto degli

astronauti delle navicelle spaziali, i colori si vedono”

F: “Si vedono se stanno dentro la navicella”

L: “No si vedono anche fuori”

Per verificare questa affermazione, abbiamo cercato alla LIM le immagini di astronauti

nello spazio. Abbiamo verificato che i colori si vedevano anche se erano nel vuoto; così

abbiamo concluso che i colori non sono nell’aria. Prendendo spunto dalla foto

dell’astronauta nella quale si vedeva la terra da lontano, ho aggiunto che l’atmosfera un

suo colore ce l’ha, perché appunto, non essendo vuoto, è composta da “particelle”

piccolissime che la luce incontra e sulle quali si diffonde.

La discussione è proseguita cercando di capire quale fosse l’effetto che il prisma

esercita sulla luce bianca. I bambini sono arrivati alla conclusione che il prisma riflette

la luce dentro di sé e la smonta in tanti colori.

A questo punto ho presentato il disco di Newton: abbiamo di nuovo parlato di Newton,

poi abbiamo osservato i colori sul disco. Come sempre, ho chiesto ai bambini che cosa

secondo loro sarebbe accaduto se avessimo fatto girare il disco molto velocemente:

“Vedremo solo il verde, perché ce n’è tanto”; “Lo vedremo scuro, perché ci sono più

colori scuri” …La maggior parte dei bambini era d’accordo con l’ipotesi che avremmo

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visto un unico colore, però scuro. Quando il disco ha iniziato a girare, i bambini hanno

iniziato a nominare a voce alta i colori che mano a mano apparivano sul disco e che si

succedevano, fino a quando, con loro grande stupore, hanno visto sul disco un colore tra

il grigio e il bianco (Fig. 33).

Figura 33

Ancora una volta, ho chiesto ai bambini di scrivere delle ipotesi riguardo a questo

fenomeno:

I colori girano, si mischiano, e formano di nuovo la luce bianca.

I colori si “rimontano” insieme. Il prisma smonta la luce bianca e il disco di Newton,

girando fortissimo, mischia i colori e la rimette insieme.

A questo punto, dopo aver puntualizzato le nostre osservazioni, ho pensato che fosse il

momento di far vedere ai bambini che cosa era accaduto alla luce bianca quando è

entrata nel prisma. Abbiamo visto alla LIM il modello della scomposizione della luce

nello spettro visibile, che avviene attraverso il prisma. Abbiamo osservato insieme che i

colori occupavano la stessa posizione, sia in quel modello che nel prisma. Abbiamo

ripreso i concetti di riflessione e rifrazione che entrano in gioco in questo processo e

abbiamo in qualche modo sistematizzato questa scoperta. Non ci rimaneva da fare altro

che tornare all’arcobaleno. Per i bambini l’associazione tra prisma e gocce d’acqua è

stata immediata. Avevo previsto una nuova fase di scrittura delle ipotesi, ma i bambini

avevano già esternato in modo spontaneo e immediato questa considerazione: la luce del

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sole che entra nelle gocce d’acqua si comporta come la luce bianca che è entrata nel

prisma. Abbiamo osservato uno schema che riproduceva il fenomeno e poi ho chiesto ai

bambini, in modo autonomo, di riprodurre lo schema sul quaderno, cercando di spiegare

che cosa accade tra luce e acqua nel fenomeno dell’arcobaleno (Fig. 34 e 35).

Figura 34

Figura 352

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SETTIMO INCONTRO: I COLORI INTORNO A NOI

Contenuto:

Sintesi additiva dei colori;

Sintesi sottrattiva.

In questo incontro abbiamo proseguito la nostra attività di indagine sui colori. I bambini

si erano già chiesti perché nel mondo ci sono tanti colori diversi, se nello spettro del

visibile ce ne sono così pochi.

Dopo aver ripreso il modello dell’arcobaleno, abbiamo indirizzato la nostra indagine sui

colori. Questa forse è stata la parte più teorica di questo percorso: per scelta, non ho

introdotto il moto ondulatorio della luce, perché il carico cognitivo, a mio avviso,

sarebbe stato eccessivo. Da qui la scelta di affrontare la teoria dei colori con esperienze

concrete ma senza entrare nel mondo dell’infintamente piccolo. Credo però che un

percorso di questo tipo sull’argomento realizzato nella scuola primaria, possa

predisporre i bambini ad affrontare gli aspetti più complessi di questo argomento con

più facilità in un grado di scuola successivo, in un’ottica di continuità.

Per indagare sui colori, abbiamo usato strumenti molto semplici: una parete bianca, una

stanza oscurata, tre luci con filtri colorati (blu, rosso e verde) e dei pezzettini di carta

traslucida colorata (Fig. 36).

Figura 36

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Ho proiettato separatamente i tre colori sulla parete. Ho chiesto ai bambini cosa secondo

loro sarebbe accaduto se avessi sovrapposto le luci colorate. I bambini, per esperienze

pregresse, anche scolastiche, sapevano già che le luci colorate, sovrapposte, avrebbero

dato origine ad altri colori. Abbiamo provato a combinarli insieme a due a due e

abbiamo scoperto quali colori si formavano: il giallo in modo molto evidente dal rosso e

dal verde e un celeste dal verde e dal blu. Poi ho sovrapposto in parte i tre colori e i

bambini sono riusciti, con grande stupore, a vedere una zona molto chiara, quasi

perfettamente bianca, nella zona in cui si sovrapponevano tutti e tre. Ancora una volta

abbiamo visto che il bianco è la somma di tutti i colori, in particolare dei colori che

chiamiamo “primari”: il rosso, il verde e il blu. Successivamente ho preso una torcia

con luce bianca e l’ho proiettata sulla parete; poi ho messo davanti alla torcia un filtro

rosso e ho chiesto ai bambini che cosa stava accadendo alla luce. La discussione che ne

è scaturita è stata davvero interessante. Le prime affermazioni sono state queste:

M. La luce bianca è rossa perché hai aggiunto il colore rosso

L. La luce è diventata rossa perché il filtro l’ha colorata

Ho cercato di dare ai bambini uno spunto per guidare la discussione: “Non abbiamo

detto che nella luce ci sono già tutti i colori? Il rosso non è forse già contenuto nella luce

bianca?” Questa domanda ha subito innescato una serie di interventi.

F: Il filtro che hai messo davanti alla luce è un corpo traslucido. L: Fa passare alcuni

raggi, altri li diffonde e altri ne assorbe.

M: Allora fa passare solo i raggi di colore rosso. Il filtro è come un colino che fa

passare solo i raggi di colore rosso.

A questo punto ho messo di fronte alla luce il verde: “Ora perché vediamo la luce

verde?”

G. Il filtro fa passare solo il colore verde e blocca gli altri colori che sono nella luce.

Uno per volta, ho posto davanti alla luce tutti i filtri: i bambini hanno visto che la luce

continuava a passare dai filtri, ma si proiettava sulla parete diventando molto scura.

E. I filtri assorbono tutti i colori e la luce viene scura

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Dopo queste osservazioni, ho introdotto uno schema che riprendeva quanto osservato

insieme riguardo ai colori (Fig. 37) e ho chiesto ai bambini di provare a rielaborare

quanto scoperto (Fig. 38).

Figura 37

Figura 38

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OTTAVO INCONTRO: LA VISIONE DEI COLORI

Contenuto:

I colori e gli oggetti;

I colori e l’organo della vista.

Anche questo incontro viene introdotto definendo con i bambini cosa proveremo a

scoprire insieme: come facciamo a vedere le cose colorate? Avevamo già in precedenza

osservato che senza luce i colori non ci sono. Riprendiamo l’esperienza fatta all’inizio

del nostro percorso, oscurando la stanza: i bambini subito affermano che non si vedono

gli oggetti. Apro uno spiraglio di luce e la stanza si trova in penombra. Prendo delle

matite colorate, una per una, e chiedo ai bambini se riescono a capire di che colore sono:

tutti concordano sul fatto che, pur vedendo la sagoma, non si riesce a distinguere il

colore.

Se i colori sono nella luce, se c’è poca luce c’è poco colore

Se è buio io i colori non li vedo, ma loro ci sono lo stesso. La matita rimane verde

anche se la luce è spenta. Se ad esempio coloro al buio su un foglio, quando accendo la

luce vedo che la matita verde lo ha colorato di verde.

Sì ma quando la luce è spenta non lo vedi di che colore lo hai colorato.

Mi sono resa conto che questo concetto, per alcuni di loro, era di difficile comprensione.

Ho trovato comunque positivo il fatto che non abbiano tenuto un atteggiamento

arrendevole, “accomodandosi” alla posizione degli altri senza vera convinzione.

Successivamente ho posto loro una domanda: “Perché vediamo questo astuccio rosso?

Se i colori sono nella luce, cosa accade tra la luce, l’astuccio e l’occhio per cui tutti

possiamo dire che questo astuccio è rosso?”.

L’astuccio è rosso perché chi lo ha costruito gli ha dato il colore rosso.

No ma io ho capito maestra: è rosso perché manda raggi rossi.

A sì, come il filtro: blocca gli altri colori e fa passare solo il rosso.

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Diffonde i raggi rossi, ma dove vanno a finire i raggi che vengono assorbiti?

Se vengono assorbiti, vuol dire che non si vedono. Noi si vedono solo i raggi rossi che

partono dall’astuccio e arrivano ai nostri occhi.

Gli oggetti fanno come il filtro colorato: alcuni raggi li assorbono, altri li diffondono.

Noi vediamo i raggi diffusi.

Dopo aver raggiunto questa definizione condivisa, l’abbiamo scritta e rappresentata

graficamente. Da qui siamo passati a definire cosa accade quando si vedono oggetti di

diversi colori (più raggi diversi che arrivano agli occhi e si mischiano) e cosa accade

quando si vedono le cose bianche oppure nere (Fig. 39 e 40).

Figura 39

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Figura 40

A conclusione dell’incontro, visto che i bambini a scienze avevano affrontato il corpo

umano, compreso l’organo della vista, ho ritenuto opportuno tentare di spiegare la

fisiologia della visione, cioè come l’uomo riesce a vedere colori. Ho mostrato alcune

figure che spiegavano la funzione dei coni e dei bastoncelli. I bambini stessi, che

avevano affrontato l’argomento della vista con la loro insegnante, hanno fatto presente

che i daltonici vedono i colori diversamente da come li vedono gli altri; alcuni bambini

hanno detto che anche gli animali non vedono i colori come noi. Queste loro

conoscenze sono state sistematizzate e hanno contribuito, almeno in parte, a formare nei

bambini il concetto che la visione dei colori non dipende solo dalle proprietà delle cose

intorno a noi, ma anche e soprattutto dai nostri organi.

Alla fine di questo incontro ho consegnato ai bambini dei questionari da compilare, nei

quali ho chiesto di esprimere le loro considerazioni sul percorso fatto insieme.

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90

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91

CAPITOLO 4

STRUMENTI DI VERIFICA E PRESENTAZIONE DEI RISULTATI

4.1.Oggetti della valutazione

Prima di introdurre quali siano stati gli oggetti della valutazione, è opportuno fare

alcune considerazioni. La verifica di un’attività come quella da noi proposta esce spesso

dai canoni tradizionali e presenta alcuni aspetti di difficoltà. Infatti non è semplice

verificare se il bambino abbia interiorizzato la metodologia del procedere scientifico

nella costruzione di conoscenza. Un metodo scientifico si acquisisce con il tempo, con

le esperienze e con una strutturazione metodologica che sia continuativa. Questa è

comunque da ritenersi un’esperienza significativa e i dati raccolti, anche in relazione

alla metodologia, danno la possibilità di fare alcune considerazioni importanti, che

possono offrire spunti di riflessione interessanti. Si deve aggiungere che è necessario

basarsi su prove finali oggettive e standardizzate, per valutare un percorso di

formazione e istruzione, ma non è assolutamente sufficiente. La valutazione di un

percorso, e del modo del bambino di percorrerlo e progredire negli apprendimenti, è

qualcosa di molto più complesso e che deve configurarsi come un’azione costante,

attenta e strutturata, che valuta molti aspetti. Come scrive Capperucci:

«La funzione valutativa deve accompagnare ogni momento del percorso formativo

del soggetto e dell'azione didattica, fornendo un riscontro costante su come sta

procedendo l'apprendimento e allo stesso tempo monitorare l'efficacia degli

interventi predisposti dai docenti. Una scuola che interpreta la valutazione come

strumento per l'apprendimento, capace cioè di fornire informazioni aggiornate e

personalizzate sui punti di forza e di debolezza, sulle modalità di funzionamento

del pensiero, sulle strategie di ragionamento, di ricerca, organizzazione e ritenzione

delle informazioni, sui tempi, sugli elementi di ostacolo e di accelerazione dei

dispositivi apprenditivi dell'alunno, affida alla valutazione un ruolo-chiave,

assolutamente non riduttivo, dove il risultato terminale ha valore perché

espressione di un percorso di accompagnamento pregresso che “dà senso” alla

valutazione»91.

La valutazione non solo conclude un percorso, ma lo precede (ad esempio con la

valutazione del contesto, dell’ambiente della situazione di partenza) e lo accompagna.

91 Capperucci D. (a cura di), La valutazione degli apprendimenti in ambito scolastico. Promuovere il

successo formativo a partire dalla valutazione, FrancoAngeli, Milano, 2011, p. 11.

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In questo percorso quindi, l’analisi costante di ciò che è stato prodotto dai bambini (in

forma scritta e orale) è stato oggetto di valutazione e ha consentito, tra un incontro e

l’altro, di capire quali fossero le cose da riprendere, analizzare, sistemare, aggiustare.

4.1.1 Valutazione del percorso

Riguardo alla metodologia, la valutazione che ne verrà fatta riguarderà due livelli. Il

primo livello analizza il percorso dal punto di vista del docente: si baserà

sull’osservazione sistematica in contesto riguardo alla partecipazione degli alunni e

sull’analisi qualitativa delle tracce lasciate dai bambini sui quaderni, nei momenti in cui

hanno riportato le loro ipotesi scritte (si confronteranno le ipotesi scritte all’inizio del

percorso, con quelle elaborate alla fine). Si riprenderanno inoltre in questa valutazione

le tracce delle discussioni fatte in classe per coglierne gli aspetti significativi, le

procedure di ragionamento, gli elementi che ne sono scaturiti, la partecipazione degli

alunni. La metodologia sarà valutata anche in relazione ai contenuti appresi e quindi in

relazione all’analisi dei dati delle verifiche. Il secondo livello riguarderà la valutazione

del discente: verranno analizzati i dati di due questionari proposti ai bambini che

indagheranno sul senso di autoefficacia, sulla motivazione e sulla percezione

metacognitiva del percorso svolto.

4.1.2. Valutazione specifica riferita ai contenuti

Saranno proposte agli alunni prove di verifica strutturate in modi diversi, in tempi

diversi e su contenuti diversi. La valutazione e la raccolta di dati relative a tutte le

prove, nel loro complesso, darà un quadro generale su quali siano stati i contenuti più

accessibili e quali invece siano risultati poco comprensibili ai bambini. Ovviamente non

è possibile fare una valutazione dei contenuti a prescindere dalla metodologia con cui

sono stati insegnati, ma si cercherà, proprio perché la metodologia è stata la stessa per

tutti i contenuti, di capire il loro diverso livello di apprendimento.

4.2 Valutazione del percorso in relazione all’approccio metodologico

In questo paragrafo, saranno riportati i criteri e gli strumenti di valutazione, con relativi

risultati, inerenti l’osservazione in contesto e le produzioni degli alunni sia sui quaderni,

sia nelle fasi di discussioni orali. Si concluderà la valutazione del percorso con la

valutazione dei discenti riguardo al proprio coinvolgimento nel percorso e riguardo alla

loro percezione di autoefficacia.

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4.2.1. Valutazione della partecipazione

Riguardo all’osservazione in contesto, quindi in relazione a come gli alunni hanno

interagito con gli altri nelle fasi di sperimentazione e discussione guidata, sono state

elaborate due griglie di osservazione: una riguarda la partecipazione alle fasi di

sperimentazione e osservazione, l’altra riguarda i momenti di partecipazione alle fasi di

discussione ed elaborazione delle definizioni. Nella compilazione delle valutazioni, c’è

stato il confronto con l’insegnante di classe.

A) VALUTAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE ALLE ATTIVITÀ DI

SPERIMENTAZIONE

CRITERIO GRIGLIA DI OSSERVAZIONE PUNTEGGIO

Partecipa attivamente e con interesse alle attività e cercando di

offrire il proprio contributo nelle fasi di previsione dei fenomeni

5

Partecipa con interesse alle attività cercando di offrire il proprio

contributo nelle fasi di previsione dei fenomeni

4

Partecipa con interesse alle attività e, se richiesto, cerca di offrire

il proprio contributo nelle fasi di previsione dei fenomeni

3

Partecipa alle attività e, se richiesto, cerca di offrire il proprio

contributo nelle fasi di previsione dei fenomeni

2

Partecipa alle attività con poco interesse 1

RISULTATI VALUTAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE ALLE ATTIVITÀ DI

SPERIMENTAZIONE (Tab. 1)

Tabella 1

0123456789

10

Val. 5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

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94

B) VALUTAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE ALLE ATTIVITÀ DI

DISCUSSIONE E DEFINIZIONE

CRITERIO GRIGLIA DI OSSERVAZIONE PUNTEGGIO

Partecipa attivamente e con interesse alle discussioni cercando di

offrire il proprio contributo nella costruzione dei concetti

5

Partecipa con interesse alle discussioni cercando di offrire il proprio

contributo nella costruzione dei concetti

4

Partecipa, se chiamato, alle discussioni e cerca di offrire il proprio

contributo nella costruzione dei concetti

3

Se chiamato, talvolta riesce a esprimere le proprie considerazioni 2

Segue con difficoltà le discussioni e, anche se chiamato, non si

esprime

1

RISULTATI VALUTAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE ALLE ATTIVITÀ DI

DISCUSSIONE E DEFINIZIONE (Tab.2)

Tabella 2

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

Val. 5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

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4.3. Valutazione delle elaborazioni scritte e orali effettuate durante il percorso

Per la valutazione delle elaborazioni scritte e orali, è stata fatta un’analisi partendo dai

quaderni e dalle registrazioni degli interventi degli alunni. Riguardo alle produzioni

scritte, utilizzando criteri definiti, si sono valutati i lavori degli alunni sui singoli

quaderni; riguardo alle discussioni, si è fatta invece un’analisi generale di tipo

qualitativo sui contenuti sulla qualità degli interventi degli alunni. Si deve comunque

tener presente che ciò che interessa non è solo la qualità dei contenuti, ma il fatto che i

bambini si siano espressi e abbiano partecipato, consentendo così il processo di

conversione dalle conoscenze legate al senso comune alla costruzione dei concetti

scientifici.

A) VALUTAZIONE DEI TESTI SCRITTI

RISULTATI VALUTAZIONE DEI TESTI SCRITTI (Tab. 3)

Tabella 3

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

Val. 5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

CRITERIO PUNTEGGIO

Rispetto alla produzione scritta di

partenza;

Nella descrizione dei fenomeni

Nell’utilizzo di termini specifici;

Nell’elaborazione di ipotesi argomentate;

Nell’avvio all’acquisizione di procedure

di ragionamento

L’INCREMENTO È STATO:

RILEVANTE 5

BEN

PERCEPIBILE

4

ADEGUATO 3

POCO

RILEVANTE

2

NON

PERCEPIBILE

1

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B) VALUTAZIONE DELLA FASE DI DISCUSSIONE E DEFINIZIONE

CRITERIO PUNTEGGIO

Nella fase di discussione e definizione

collettiva;

Rispetto ai seguenti parametri;

Utilizzo di termini specifici;

Capacità di collegare cause ad effetti;

Capacità di deduzione;

Capacità di seguire gli interventi degli altri e

intervenire in modo consequenziale;

Approccio critico ai ragionamenti propri e

degli altri

L’INCREMENTO È STATO:

RILEVANTE 5

BEN

PERCEPIBILE

4

ADEGUATO 3

POCO

RILEVANTE

2

NON

PERCEPIBILE

1

RISULTATI VALUTAZIONE DELLA FASE DI DISCUSSIONE (Tab.4)

Tabella 4

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

Val. 5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

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4.4. Valutazione da parte degli alunni

L’ultima parte di questo paragrafo riguarda la valutazione assegnata dai bambini alla

tipologia di percorso, ai contenuti proposti e al loro senso di autoefficacia. Anche questa

parte della valutazione è estremamente significativa: conoscere i processi metacognitivi

e motivazionali permette di non perdere di vista l’obiettivo finale dei processi di

insegnamento e apprendimento perché, alla fine, deve essere l’apprendimento a guidare

l’insegnamento.

A) QUESTIONARIO DI RIFLESSIONE SULL’APPRENDIMENTO DEI

CONTENUTI

Nel questionario, ho chiesto agli alunni un’autovalutazione relativa alla percezione con

cui sentivano di aver acquisito i contenuti proposti: dovevano colorare con il verde

quelli che sentivano di aver acquisito con sicurezza, e in rosso quelli su cui si sentivano

più insicuri (Fig. 41).

Figura 41

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Nel grafico (Tab.5) sono riportati i risultati del questionario

Tabella 5

B) QUESTIONARIO DI VALUTAZIONE E AUTOVALUTAZIONE DEGLI

ALUNNI

Nel questionario (Tab.6) si è chiesto ai bambini di esprimere un giudizio sui contenuti

proposti e sulle fasi delle attività; si è chiesto inoltre di esprimere il proprio stato

d’animo nei vari momenti del percorso.

PER

NIENTE

POCO ABBASTANZA TANTO

Ho trovato interessanti gli argomenti 4 13

Gli esperimenti mi hanno aiutato a capire 12 5

Le fasi di scrittura sono state difficili da

affrontare

3 10 3

Scrivere le mie ipotesi secondo me è stato

utile

5 12

Ho avuto momenti in cui sentivo di non

riuscire a capire

10 5 2

Il percorso in generale mi è piaciuto 2 15

Sento di aver partecipato alle attività 10 7

Sento di non aver compreso tutti gli

argomenti affrontati

10 6 1

Tabella 6

0

2

4

6

8

10

12

14

16

18

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99

4.5.Valutazione sui contenuti

Di seguito verranno riportate le prove effettuate dagli alunni: le competenze di

riferimento sono già state indicate nella UDC all’inizio di questo capitolo. La

presentazione di ciascuna prova sarà così strutturata:

Titolo e breve descrizione della prova

Obiettivi, contenuti e abilità da verificare92

Immagine della prova

Descrittori per la valutazione

Tabella e grafico dei risultati

Osservazioni particolari

A) LA LUCE E GLI OGGETTI

Descrizione della prova (Fig. 42 e 43): la prova chiede di descrivere e rappresentare con

un disegno/schema i fenomeni la propagazione della luce e l’interazione tra la luce e gli

oggetti.

OBIETTIVI CONTENUTI ABILITÀ

Descrivere semplici

fenomeni della vita

quotidiana

La propagazione

La diffusione

La rifrazione

Rappresenta con il disegno

elementi della realtà

esterna e fenomeni

Cominciare a riconoscere

la regolarità nei fenomeni

e a costruire in modo

elementare il concetto di

energia

Produce descrizioni scritte

(di elementi della realtà

esterna) utilizzando

termini relativi a contenuti

specifici

92 Questi saranno ripresi dalle Indicazioni Nazionali e dal curricolo dell’Istituto a cui appartiene la scuola

nella quale ho svolto il percorso.

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100

RISULTATI LA LUCE E GLI OGGETTI (Tab. 7)

Tabella 7

Figura 42

0123456789

10

val. 5 val. 4 val. 3 val. 2 val. 1

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Osservazioni sulle prova

Le difficoltà maggiori sono emerse nella diversificazione grafica tra i raggi diffusi e

quelli riflessi. Evidentemente il concetto di diffusione, si allontana molto dal “senso

comune”, per cui i bambini pensano che gli oggetti emettano luce solo quando la

riflettono. La rifrazione è compresa come deviazione ma i bambini presentano delle

difficoltà nel verbalizzare cosa accade.

Figura 43

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B) LA LUCE E GLI OGGETTI (vero/falso)

Descrizione della prova (Fig. 44): la prova chiede di definire se le affermazioni date

siano vere o false. Questa prova presenta un grado di difficoltà maggiore rispetto alla

precedente, anche per la quantità maggiore di argomenti presente.

OBIETTIVI CONTENUTI ABILITÀ

Descrivere semplici

fenomeni della vita

quotidiana

La propagazione

La diffusione

La rifrazione

Gli oggetti e la luce

Fonti di luce primarie e

secondarie

Comprende

complessivamente le

spiegazioni orali relative ad

argomenti scientifici, anche

con termini specifici

Comprende il significato

specifico di informazioni

contenute in testi informativi,

descrittivi e scientifici

Cominciare a riconoscere la

regolarità nei fenomeni e a

costruire in modo

elementare il concetto di

energia

Comprende descrizioni scritte

(di elementi della realtà

esterna) che utilizzano termini

relativi a contenuti specifici

CRITERIO PUNTEGGIO

Errori: da 0 a 2 su 18 quesiti 5

Errori: da 3 a 4 su 18 quesiti 4

Errori: da 5 a 6 su 18 quesiti 3

Errori: da 7 a 8 su 18 quesiti 2

Errori: più di 8 errori su 18 quesiti 1

Numero di bambini che hanno effettuato la prova: 17

RISULTATI LA LUCE E GLI OGGETTI (Tab.8)

Tabella 8

val. 5 val. 4 val. 3 val. 2 val. 1

0123456789

10

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103

Figura 44

Osservazioni sulla prova

La domanda che ha fatto segnalare più errori (12 su 17) è la seguente:

“Gli oggetti illuminati, a loro volta, emettono raggi luminosi”. I risultati mostrano una

difficoltà nella comprensione del fenomeno della diffusione. Il numero di domande era

quantitativamente rilevante, per cui il risultato è da considerarsi positivo.

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104

C) L’INTERAZIONE TRA LUCE/OGGETTI/OCCHI

Descrizione della prova (Fig. 45): la prova è suddivisa in due parti, un esercizio di cloze

da completare utilizzando i termini specifici e uno schema di modellizzazione da

completare.

OBIETTIVI CONTENUTI ABILITÀ

Descrivere semplici fenomeni

della vita quotidiana

La propagazione

La diffusione

La rifrazione

Gli oggetti e la luce

Fonti di luce

primarie e secondarie

L’interazione tra

luce-oggetti-occhio

Comprende

complessivamente le

spiegazioni relative ad

argomenti scientifici, anche

con termini specifici

Comprende il significato

specifico di informazioni

contenute in testi informativi,

descrittivi e scientifici

Cominciare a riconoscere la

regolarità nei fenomeni e a

costruire in modo elementare

il concetto di energia

Rappresenta con il disegno

elementi della realtà esterna e

fenomeni

CRITERIO PUNTEGGIO

6 termini inseriti correttamente / schema completo 5

5 termini inseriti correttamente / schema completo nelle sue parti

essenziali

4

4 termini inseriti correttamente /schema parzialmente corretto 3

3 termini inseriti correttamente / schema non corretto 2

2 (o meno) termini inseriti correttamente / schema non completo 1

Numero di bambini che hanno effettuato la prova: 16

RISULTATI INTERAZIONE TRA LUCE/OGGETTI/OCCHI (Tab.9)

Tabella 9

0123456789

10

Val. 5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

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105

Figura 45

Osservazioni sulla prova

Nelle prove con schemi costruiti insieme in classe, i bambini hanno dimostrato

maggiore sicurezza e le valutazioni sono risultate più alte. I risultati della prova

dimostrano che i concetti relativi all’interazione luce/occhio/oggetto sono stati in gran

parte acquisiti.

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D) L’INTERAZIONE TRA LUCE E OGGETTI (DEFINIZIONI)

Descrizione della prova (Fig. 46): l’esercizio di riempimento chiede di inserire i termini

specifici corretti in relazione alla loro definizione.

Descrivere semplici fenomeni

della vita quotidiana

Opacità

Trasparenza

Traslucenza

Riflettenza

Gli oggetti e

la luce

Comprende complessivamente le

spiegazioni relative ad argomenti

scientifici, anche con termini specifici

Comprende il significato specifico di

informazioni contenute in testi

informativi, descrittivi e scientifici

Cominciare a riconoscere la

regolarità nei fenomeni e a

costruire in modo elementare il

concetto di energia

Comprende descrizioni scritte (di

elementi della realtà esterna) che

utilizzano termini relativi a contenuti

specifici

CRITERIO PUNTEGGIO

4 termini inseriti correttamente 5

3 termini inseriti correttamente 4

2 termini inseriti correttamente 3

1 termine inserito correttamente 2

0 termini inseriti correttamente 1

Numero di bambini che hanno effettuato la prova: 17

RISULTATI INTERAZONE LUCE/OGGETTI DEFINIZIONI (Tab.10)

Tabella 10

0123456789

10

val. 5 val. 4 val. 3 val. 2 val.1

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107

Figura 46

Osservazioni sulla prova

La prova presentava un elevato grado di difficoltà poiché le definizioni associate

utilizzavano, a loro volta, altri termini specifici. Per completare le definizioni era

pertanto necessario aver acquisito anche il significato di tutti gli altri termini. Questa è

l’unica prova in cui un alunno ha avuto la valutazione riferita al valore uno.

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E) L’ARCOBALENO E LA SCOMPOSIZIONE DELLA LUCE

Descrizione della prova (Fig. 47): l’esercizio chiede di completare un’illustrazione con

dei termini specifici e chiede di descrivere con un breve testo la relazione tra la luce e i

colori

Descrivere semplici fenomeni

della vita quotidiana

Rifrazione

Riflessione

Scomposizione

della luce

Arcobaleno

Rappresenta con il disegno

elementi della realtà esterna e

fenomeni

Comincia a riconoscere la

regolarità nei fenomeni

Cominciare a riconoscere la

regolarità nei fenomeni e a

costruire in modo elementare il

concetto di energia

Produce descrizioni scritte (di

elementi della realtà esterna)

utilizzando termini relativi a

contenuti specifici

CRITERIO PUNTEGGIO

Completa la figura inserendo termini specifici e descrive i

fenomeni in modo chiaro e corretto indicandone anche la causa

5

Completa la figura inserendo termini specifici e descrive i

fenomeni in modo chiaro

4

Completa la figura inserendo in modo parziale i termini

specifici e descrive i fenomeni utilizzando un linguaggio molto

semplice

3

Completa la figura in modo molto parziale e la descrizione dei

fenomeni non è del tutto chiara

2

Completa (o non completa) la figura in modo errato e la

descrizione dei fenomeni non è comprensibile

1

Numero di bambini che hanno effettuato la prova: 17

RISULTATI L’ARCOBALENO E LA SCOMPOSIZIONE DELLA LUCE (Tab. 11)

Tabella 11

0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

val. 5 val. 4 val. 3 val. 2 val.1

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109

Figura 47

Osservazioni sulla prova

Anche in questo caso, l’aver costruito insieme il modello che spiega come si verifica il

fenomeno nell’arcobaleno, ha fatto sì che gli alunni lo abbiano compreso. Questo tipo di

prova prevedeva anche una competenza linguistica per effettuare descrizioni e spiegare

concetti (ad esempio la scomposizione della luce). Rispetto alle spiegazioni iniziali e

all’approccio dei bambini alla descrizione scritta di ipotesi, il livello della classe è

migliorato.

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F) SINTESI ADDITIVA E SOTTRATTIVA/DIFFUSIONE DEL COLORE

Descrizione della prova (Fig. 48): elaborazione di un testo scritto, con la possibilità di

utilizzare immagini, per descrivere l’esperimento svolto della sintesi additiva e

sottrattiva, il fenomeno della luce e la diffusione del colore.

Descrivere semplici fenomeni

della vita quotidiana

Sintesi additiva

Sintesi sottrattiva

Diffusione del colore

Scomposizione della

luce

Rappresenta con il disegno

elementi della realtà

esterna e fenomeni

Comincia a riconoscere la

regolarità nei fenomeni

Cominciare a riconoscere la

regolarità nei fenomeni e a

costruire in modo elementare

il concetto di energia

Produce descrizioni scritte

(di elementi della realtà

esterna) utilizzando termini

relativi a contenuti specifici

CRITERIO PUNTEGGIO

Il testo è chiaro e articolato. Il fenomeno del colore delle cose

viene collegato alla diffusione della luce e alla sintesi

sottrattiva. Le immagini elaborate sono corrette.

5

Il testo è chiaro. Il fenomeno del colore delle cose viene

collegato alla diffusione o alla sintesi sottrattiva. Le immagini

elaborate sono corrette.

4

Il testo è abbastanza chiaro. Descrive, con l’aiuto dello schema

sulla diffusione del colore, il fenomeno del colore delle cose

3

Il testo non è chiaro. Le descrizioni sono appena accennate. Lo

schema della diffusione del colore è corretto

2

La descrizione è carente. Lo schema non è corretto. 1

Numero di bambini che hanno effettuato la prova: 17

RISULTATI SISNTESI ADDITIVA E SOTTRATTIVA (Tab.12)

Tabella 12

0123456789

10

Val. 5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

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111

Figura 48

4.6.Osservazioni generali sui dati raccolti

In questo ultimo paragrafo, cercheremo di raccogliere ancora qualche dato complessivo

e porremo l’accento su alcuni dati significativi. Di seguito è riportata una

rappresentazione della frequenza dei valori attribuiti nelle prove che sono state valutate

con punteggio da 1 a 5 (Tab. 13)

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112

Tabella 13

Osservando i risultati, si possono fare alcune osservazioni generalizzate:

Nella valutazione della partecipazione, i punteggi sono stati alti, nonostante la

classe fosse stata definita dall’insegnante come “passiva e poco partecipativa”.

In un confronto con la stessa insegnante è emerso che anche i bambini che

raramente intervenivano durante le lezioni (come ad esempio i bambini BES), in

questo percorso hanno partecipato in modo più attivo. Si è cercato di capire cosa

avesse reso la partecipazione così alta, e le spiegazioni sono state due: la prima è

che partire dal dato esperienziale e dall’osservazione diretta ha consentito a tutti

di potersi esprimere su ciò che era stato osservato. Il punto di partenza non è

stata la lettura del libro di testo o l’ascolto di una spiegazione (attività cognitive

nelle quali i bambini BES possono presentare difficoltà); si può pensare che

nell’osservazione diretta abbiano trovato un aggancio ai concetti molto più

immediato. La seconda spiegazione è che i bambini non avevano paura di

sbagliare. In questo percorso, essi si sono sentiti liberi di esprimere ciò che

pensavano senza l’ansia di dover dire ciò che la maestra si aspettava che

dicessero; o meglio, l’insegnante “aspettava senza aspettarsi”. Dava ai bambini il

tempo di trovare le parole per esprimersi: non dava segno di volersi sentir dire

qualcosa in particolare, ma dava valore a ciascun particolare. Le affermazioni

venivano poi accompagnate verso un’analisi critica, che spesso veniva fatta

dall’alunno stesso e dai compagni. Anzi, spesso anche le ipotesi che poi

venivano decostruite (e non distrutte) erano il punto di partenza per costruirne

altre più solide, e questo i bambini l’hanno percepito;

0

10

20

30

40

50

60

Val.5 Val. 4 Val. 3 Val. 2 Val. 1

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Il punteggio più basso (valore 1), nonostante la complessità e la quantità degli

argomenti, è stato assegnato raramente e se anche è stato talvolta assegnato,

nella parte dell’autovalutazione, nessun bambino ha percepito la propria

inadeguatezza al metodo o ai contenuti presentati. Data la complessità degli

argomenti, questo significa che il clima in classe e la metodologia utilizzata

hanno favorito comunque il senso di autoefficacia dei bambini;

Nel questionario di autoconsapevolezza dei contenuti acquisiti, è stato

interessante rilevare come i bambini siano stati in grado di valutare se e quanto

“possedevano” un argomento. Probabilmente, il fatto di trovarsi spesso a dover

descrivere ed elaborare ipotesi su quanto esperito e di doversi confrontare con i

compagni ha aiutato gli alunni ad assumere maggiore consapevolezza di sé.

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115

CONCLUSIONI

Dall’analisi dei dati acquisiti, in relazioni agli aspetti su cui si voleva indagare, si

possono ricavare le seguenti conclusioni:

L’introduzione del percorso partendo dall’approccio narrativo sulla vita e

sulla figura di uno scienziato, ha molto coinvolto i bambini, creando in loro

una notevole spinta motivazionale.

La partecipazione è stata alta, anche da parte degli alunni con bisogni

educativi speciali (BES). In parte, probabilmente è dipeso dal fatto che

abbiano potuto rielaborare quanto visto senza sentirsi giudicati, poiché

qualsiasi fosse stata la loro idea riguardo alle cose (senza che fosse definita

come giusta o sbagliata), questa sarebbe stata sempre e comunque il punto di

partenza per generarne altre.

Un altro aspetto che ha favorito la partecipazione è stato il fatto che

l’esperimento e l’osservazione siano stati utilizzati come punto di partenza

della scoperta e non come dimostrazione di una teoria. Spesso le attività

scolastiche partono dalla lettura di un libro o da una spiegazione verbale, e

solo dopo si arriva all’osservazione e alla sperimentazione (impostazione

metodologica che risulta ostacolante per i bambini con bisogni educativi

speciali). L’osservazione, invece, ha favorito l’aggancio cognitivo e, di

seguito, il fatto che siano stati loro, con i loro interventi, a tracciare la strada

verso la spiegazione dei fenomeni, ha fatto sì che la motivazione del gruppo

e la relativa partecipazione fosse sempre alta.

L’approccio degli alunni di fronte alle fasi di elaborazione e scrittura

personale, nonostante non fossero abituati a questo tipo di metodologia, è

risultato piuttosto positivo: in base al questionario presentato, solo un

bambino su 17 le ha trovate faticose. In effetti, la scrittura non è stata quasi

mai immediata: spesso i bambini hanno avuto bisogno di diverso tempo per

trasformare i loro pensieri in parole scritte. Per qualche minuto, fissavano il

foglio come se stessero cercando di dare un ordine alle loro idee e cercassero

le parole adatte per esprimerlo: quei minuti probabilmente sono stati i più

importanti di tutto il percorso.

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Man mano che il percorso proseguiva, nell’elaborazione scritta delle ipotesi

e nella ricostruzione dei concetti, i bambini hanno usato spontaneamente e in

modo quasi sempre adeguato i termini specifici scoperti e introdotti durante

gli incontri precedenti.

In più della metà della classe si è visto un miglioramento nell’approccio e

nella strutturazione delle parti scritte: i bambini hanno iniziato ad essere

meno vaghi e più aderenti a ciò che veniva osservato.

La scrittura ha favorito la partecipazione di tutti gli alunni alle discussioni.

Infatti, mentre in una discussione basata solo sugli interventi orali capita

spesso che molti bambini pensino di non aver alcun contributo da dare, in

questo caso, anche i bambini più in difficoltà potevano intervenire, leggendo

quello che avevano scritto. Anche se il contenuto di ciò che era stato scritto

doveva essere “rimodellato”, essi hanno in qualche modo contribuito

fornendo materiale per la discussione. Inoltre, attraverso la lettura dei loro

elaborati, l’insegnante ha potuto avere sempre la percezione chiara di quali

fossero le idee di tutti gli alunni su quel fenomeno, in quel momento: questo

ha dato la possibilità di indirizzare con più cognizione la discussione

(puntualizzando alcuni aspetti, mettendone in evidenza altri etc…).

Riguardo alla schematizzazione delle interazioni e quindi all’approccio alla

modellizzazione dei fenomeni, il fatto che non siano stati presentati schemi o

disegni all’inizio come prodotti già “confezionati”, ma che siano stati invece

prima elaborati dagli alunni (talvolta anche per tentativi ed errori, attraverso

azioni di aggiustamento) ha fatto sì che questi fossero veramente strumenti

utili per il recupero visivo dei concetti, il loro ordinamento e la loro

comprensione. Le prove di verifica collegate agli schemi lo dimostrano. Le

immagini di rinforzo ai concetti, con una grafica chiara e ben organizzata,

sono state presentate solo alla fine di ogni incontro, per “affinare” ciò che

era stato prodotto dai bambini in precedenza.

Per quanto concerne ai contenuti, la propagazione della luce in linea retta, il

fenomeno della rifrazione e della riflessione sono stati compresi in modo

chiaro dalla maggior parte dei bambini; hanno trovato invece maggiore

difficoltà nella comprensione del fenomeno della diffusione e del fatto che

tutti gli oggetti siano fonte di luce secondaria. Alla fine comunque, anche

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questo concetto è stato compreso dalla maggior parte dei bambini, ma c’è

stato bisogno di riprendere spesso il modello che avevamo “costruito”

confrontandolo con il dato empirico delle diverse situazioni che si creano

quando la stanza è al buio o è illuminata.

Il concetto della scomposizione della luce nei colori è stato reso più chiaro

dagli esperimenti con il prisma e il disco di Newton e i bambini hanno

compreso l’analogia tra ciò che avviene nel prisma e ciò che avviene delle

gocce d’acqua, quando si crea il fenomeno dell’arcobaleno.

Riguardo al collegamento tra la sintesi sottrattiva e il colore degli oggetti,

seppure sia emerso dai bambini durante la discussione, non tutti sono riusciti

a comprenderlo fino in fondo.

Infine, si può dire che l’idea del colore come frutto di interazioni fisiche,

chimiche, fisiologiche e psicologiche è risultata, seppur presentata in modo

molto semplice, acquisita solo come informazione trasmessa, ma non è stato

possibile valutarne la comprensione profonda: dalle loro affermazioni

durante le discussioni, è emersa la difficoltà di considerare il colore come

una sensazione e non come una proprietà fisica propria dell’oggetto.

In relazione alle conclusioni emerse dai dati rilevati, si possono fare alcune

considerazioni: se in così pochi incontri si è visto un miglioramento negli alunni

nell’approccio alla descrizione e all’argomentazione di possibili ipotesi, c’è da pensare

a quanto questo metodo possa essere efficace nella formazione del pensiero scientifico

se adottato sin dai primi anni della scuola primaria (magari iniziando da tabelle di

osservazione predisposte, da semplici rappresentazioni grafiche etc…) e proseguito

negli anni successivi nella scuola secondaria.

Collegata a questa, sorge subito un’altra considerazione importante: gli alunni possono

essere in grado di fare previsioni o possono essere in grado di tentare di spiegare i

fenomeni, solo se questi sono esperibili e alla loro portata cognitiva. Altrimenti si

rischia di frustrare invece che valorizzare. Mentre la propagazione della luce, il

comportamento delle ombre, l’interazione tra luce, oggetti e occhio possono essere

“scoperti”, descritti e definiti dai bambini, il concetto del colore come fatto psicologico

e fisiologico, oltre che chimico e fisico, non è alla loro portata. Non che introdurlo sia

da considerarsi sbagliato: è un concetto che può essere in qualche modo anche in parte

dimostrato attraverso delle esperienze, ma di certo non può essere costruito da loro:

rimane pertanto una conoscenza a livello di informazione.

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Un’ultima ma fondamentale considerazione, che riguarda la quantità e la qualità dei

contenuti da proporre. Questo percorso è stato realizzato in 18 ore, più o meno due mesi

di scuola: la scoperta, l’elaborazione scritta, la rielaborazione collettiva, la definizione

scientifica costruita insieme, richiedono tempi lunghi. Ecco perché sarebbe importante

affrontare, in un anno scolastico, pochi argomenti, ma che possano condurre e

sviluppare modellizzazioni fondamentali. E questa scelta non la si può fare solo come

classe, la si dovrebbe fare come Istituto: i curricoli di scienze di ciascun istituto

dovrebbero essere costruiti in collaborazione tra gli insegnanti di ogni ordine di scuola

(dall’infanzia alla secondaria) che si confrontano, interagiscono, si accordano per dare

forma ad un curricolo verticale in continuità nei contenuti e nelle metodologie.

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ALLEGATO 1

ALCUNE PAGINE DELLE FLIPCHART PRESENTATE ALLA

LIM

Le definizioni e gli schemi sono stati presentati sempre nell’ultima fase della lezione,

come “aggiustamento” cognitivo delle definizioni condivise a cui erano giunti gli

alunni.

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RINGRAZIAMENTI

Il primo immenso ringraziamento va a mia figlia Francesca. Se ce l’ho fatta, è stato

grazie a lei. Ciascuna di noi due, in questi cinque anni, ha fatto la sua “primaria”. Lei ha

imparato a scrivere, leggere e contare quasi da sola, mentre io studiavo quale fosse il

modo migliore per insegnarlo. Non le sarò mai abbastanza grata per la capacità che ha

avuto di comprendere e di comprendermi.

Il secondo ringraziamento va a Davide. Per tutto il sostegno, l’incoraggiamento e l’aiuto

che mi ha donato. Perché ha compensato la mia assenza con la sua presenza, le mie

ansie con il suo sorriso, la mia debolezza con i suoi abbracci. Perché ha reso le

soddisfazioni più piene e le gioie più intense. Perché ha creduto in me…più di me.

La mia gratitudine più profonda va alla mia mamma e al mio papà. Per il loro esserci e

il loro crederci. Con poche parole ma con tanti fatti. Grazie a loro per essere stati per la

mia bimba nonni presenti e stupendi. Se anche ho superato da tempo i quaranta anni, è

nel loro lettone (e nel loro frigo) che troverò sempre tutto quello di cui ho bisogno.

Grazie a mio fratello Fernando e alla sua fantastica moglie Katia, per avermi sopportato

e supportato. Grazie per avermi ricondotto sempre a me stessa e a ciò che conta. Questo

traguardo ha un senso più profondo perché lo condivido con loro.

Grazie a Mario e Leda, per le coccole, le attenzioni e l’aiuto. Non è facile avere una

nuora che sta sempre con la testa sui libri. Ma il loro affetto, tra una pagina e l’altra,

l’hanno fatto sentire lo stesso.

Grazie di cuore alle mie amiche che hanno continuato ad esserlo nonostante la mia

assenza. Le ringrazio per aver continuato a chiamarmi anche quando non rispondevo.

Le ringrazio per aver dato valore alle piccole cose. Torneranno i tempi degli aperitivi,

delle cene, dello shopping, dei pomeriggi in piscina, delle giornate al mare, delle

mostre, dei musei, del cinema. Le ringrazio con tutto il cuore per essermi state accanto

anche quando questi tempi non ci sono stati.

Grazie a tutte le mie colleghe, soprattutto ad Elisabetta e Patrizia: non solo hanno fatto

il tifo per me ma, sostituendomi a scuola, mi hanno permesso di frequentare e sostenere

gli esami senza togliere niente ai nostri alunni.

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Grazie al professor Fabio Bachini: mi ha sostenuta in questo viaggio alla scoperta della

fisica e ha affascinato i bambini vestendo i panni di Newton.

Grazie alla maestra Cinzia Barsacchi per aver accolto questo mio progetto, per il suo

supporto e la sua competenza.

Grazie alla professoressa Eleonora Aquilini: per la sua preparazione e professionalità,

per la sua passione e la sua attenzione.

Grazie alla rete Bibliolandia, in particolare alle persone che lavorano presso la

biblioteca di Capannoli e Pontedera. Una risorsa straordinaria, una gentilezza e una

disponibilità uniche.

Grazie alle mie straordinarie compagne di università: senza il loro aiuto, sarebbe stato

tutto molto più difficile, a volte forse impossibile.

Grazie ai tutor universitari che hanno accompagnato e arricchito questo percorso.

Grazie alla mia bicicletta che mi ha insegnato a stringere i denti quando la pendenza

aumenta e mi ha regalato un tempo e uno spazio in cui scaricare la mente e ricaricare il

cuore.

Grazie alla musica, il mio tesoro più grande.

Ed infine, grazie a me stessa, per avercela fatta.

Sempre e soprattutto, nonostante tutto.

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123

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19/1/2018);

https://www.unirc.it/documentazione/materiale_didattico/597_2009_221_6520.pdf

(Verificato in data 29/1/2018);

www.pse.unimore.it/site/home/events/2012-ii.../documento530029395.html.

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Anno Accademico 2016/2017

IL MAESTRO DELLA MAESTRA

Tutor universitario

Dott.ssa Lucia Maddii

Candidato

Sara Campana

Scuola di

Studi Umanistici

e della Formazione Corso di Laurea in

Scienze della Formazione Primaria

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Al mio maestro Vittorio

e a tutti gli alunni che ho incontrato,

per tutto quello che mi hanno

insegnato.

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“Una sola certezza, la presenza dei miei allievi

dipende strettamente dalla mia:

dal mio essere presente all’intera classe

e a ogni individuo in particolare,

dalla mia presenza alla materia,

dalla mia presenza fisica,

intellettuale e mentale”

D. Pennac

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5

INDICE

Introduzione………………………………………………………….……………p.6

Capitolo 1

La scuola da alunna: gli anni ottanta e il mio maestro Vittorio………….…….p.8

1.1. La scuola prima del 1985……………………………………………………....p.8

1.2. Vittorio e Villamagna…………………………………………..……………p.10

1.3. Vittorio e la sua alunna………………………………………………..……...p.18

1.4. Riflessioni………………………...………………………………………..…p.20

Capitolo 2

La scuola da insegnante: i riferimenti che mi orientano……………………....p.21

2.1.L’inizio della mia professione………………………………………………...p.21

2.2. La relazione………………………………………………………….………..p.22

2.2.1. La relazione con gli alunni

2.2.2. La relazione con i colleghi

2.2.3. La relazione con le famiglie

2.2.4. La relazione con la comunità

2.3. La didattica……………………………………………………………...……p.32

2.3.1. L’ambiente e-motivante

2.3.2. La didattica delle scelte contestualizzate

2.3.3. La didattica della matematica

2.4. La formazione…………………………………………………………...……p.43

2.4.1. La formazione come trans-formazione

2.4.2. L’innovazione tecnologica

Capitolo 3

L’esperienza di tirocinio nella scuola dell’infanzia……………….…….……..p.52

3.1. Rapporti con l’Istituzione scolastica……………………….…….…………p.52

3.2. Il tirocinio nella scuola dell’Infanzia……...………………….…….………p.55

3.2.1. Il progetto Galileo nella scuola dell’infanzia

3.2.2. La sezione rossa

3.2.3. Il mio intervento didattico

Conclusioni………………………………...…………………………………….p.64

Normativa di riferimento……………………………………………………….p.67

Bibliografia………………………………………………………………………p.68

Sitografia…………………………………………………………………………p.69

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INTRODUZIONE

Sono nata e cresciuta in un podere di campagna, in una piccola frazione di Volterra.

Spesso, da piccola, passavo i miei pomeriggi in completa solitudine e di quei

pomeriggi ricordo il gioco che facevo sempre: giocavo a fare la maestra. Mettevo in

fila tutte le mie bambole, prendevo quaderni, matite e pennarelli e iniziavo ad

insegnare loro. Non so cosa insegnassi, ma sono certa che nel farlo, imitavo il mio

modello di riferimento: il mio maestro Vittorio. E quell’imitazione non è si è ancora

conclusa. Ecco perché è a lui che dedico questa mia relazione finale di tirocinio.

Quando sono cresciuta poi, non ho avuto alcun dubbio nello scegliere di frequentare

l’Istituto Magistrale: volevo in tutti i modi fare la maestra. A venti anni ho iniziato

ad insegnare, con incarichi a tempo determinato, mentre frequentavo il magistero di

scienze religiose a Pisa. Nel 1998 ho conseguito il diploma di magistero e ho

insegnato nelle scuole superiori della Diocesi di Volterra. Nel 1999 ho partecipato

all’ultimo concorso magistrale, superandolo. Ho lavorato con incarichi annuali fino a

quando, nel 2007, sono diventata insegnante di ruolo.

Seppure fare l’insegnante fosse il mio più grande desiderio, ho sviluppato una sorta

di rifiuto verso una frase che tanto volta mi viene ripetuta: “Fare l’insegnante è una

vocazione”. No, fare l’insegnante non è una vocazione: è una professione. E se è

vero che è un lavoro in cui la passione è fondamentale e determinante, questo non è

assolutamente sufficiente. Le competenze nel gestire il gruppo classe, nel progettare

contesti e azioni didattiche significative, nel relazionarsi con i bambini, nell’essere

per loro l’aggancio cognitivo e affettivo per istruirli, educarli e renderli cittadini

attivi, competenti e riflessivi, non sono doni di vocazione. Sono competenze che si

acquisiscono con la formazione, con l’esperienza, con la continua messa in

discussione di se stessi, con la riflessione sul proprio operato, con l’analisi attenta dei

risultati.

Questa relazione finale costituisce per me l’occasione di ripercorrere i miei primi

venti anni di insegnamento e lo farò partendo da quello che è sempre stato per me il

modello di rifermento, il mio maestro Vittorio che, ancora oggi, è una presenza

importante nella mia vita.

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Nel primo capitolo ripercorrerò la mia esperienza di alunna: sarà la descrizione di

una scuola di campagna negli anni ottanta.

Nel secondo capitolo, proverò a delineare quelli che sono, dopo venti anni di

insegnamento, i riferimenti che orientano la mia azione didattica.

L’ultimo capitolo, riguarderà la mia attività di tirocinio diretto nella scuola

dell’Infanzia: un’esperienza estremamente significativa e formativa e mi è stata

molto utile. Ho acquisito la consapevolezza che la continuità si dovrebbe costruire

attraverso la compenetrazione dei vari segmenti di scuola: non basta il contatto, ci

vuole la contaminazione.

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CAPITOLO 1

LA SCUOLA DA ALUNNA: GLI ANNI OTTANTA E IL MIO

MAESTRO VITTORIO

Sono nata nel 1974: quasi dieci anni prima che venissero emanati i programmi

dell’85. In questo capitolo proverò a delineare, in modo sommario, gli scenari della

scuola e della società in quel periodo e proverò a descrivere come questi scenari

siano stati contestualizzati in una piccola scuola di un paese di campagna. Molte

delle cose che riporterò mi sono state raccontate dal mio maestro Vittorio che, oltre

ai suoi ricordi, mi ha donato anche alcune immagini di quegli anni.

1.1.La scuola prima del 1985

Nel 1962 viene istituita la scuola media unificata e un anno dopo ne viene decretato

l’obbligo; nel 1968 viene istituita la scuola materna statale (non più asilo quindi,

segno di un cambiamento profondo nella consapevolezza dello sviluppo della

persona) e l’anno successivo ne vengono emanati gli orientamenti. Nel 1969 le

manifestazioni studentesche. Tra il 1973 e il 1974 i decreti delegati (dal 416 al 420)

che aprono la scuola alle famiglie e alla società, favorendone la partecipazione e il

coinvolgimento nella progettazione delle attività: nascono i consigli di classe e di

interclasse, nei quali sono coinvolti anche i genitori come attori nella progettazione.

Il direttore didattico non è più quello che stabilisce il sapere da insegnare, ma

coordina ed elabora insieme agli organismi sociali un programma di lavoro. Poi

l’importantissima legge 517 del 1977, con l’inserimento nella scuola dei ragazzi

portatori di handicap. Il quadro generale che si delinea è quello di una società in

pieno fermento politico, culturale e sociale. La scuola non può essere un’entità

chiusa e isolata che si limita a trasmettere il sapere, ma lo condivide e lo costruisce

con le famiglie, i ragazzi e la società: il sapere diventa una conquista.

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Ho frequentato la scuola elementare dal 1980 al 1985: i programmi in uso prima del

1985 (anno in cui, appunto, uscirono i Nuovi Programmi) erano i programmi Ermini,

del 1955. Questi programmi erano indirizzati sia alla scuola media che alla scuola

elementare. Il percorso era articolato in tre cicli: il primo ciclo comprendeva prima e

seconda, il secondo ciclo andava dalla terza alla quinta e l’ultimo ciclo era quello

della scuola media. Si era forse superata, ma non del tutto, l’impostazione

spiritualistica gentiliana presente nei programmi del 1923, a favore della filosofia

personalistica di Maritain, nella quale assumeva un ruolo fondamentale il concetto di

persona, intesa come unità globale e inscindibile, che viene messa al centro del

processo educativo. Oltre a questo, la scuola risentiva anche delle teorie piagetiane

che individuavano fasi di sviluppo ben definite e delle teorie dell’attivismo di Dewey

che davano valore prioritario, oltre che all’azione come elemento fondamentale

nell’apprendimento, anche all’interesse e alla motivazione. In base a questi principi,

nei programmi Ermini il primo ciclo era strutturato senza divisioni per discipline. Si

chiedeva, alla fine, che i bambini sapessero scrivere, leggere, contare, misurare ed

esplorare l’ambiente. Si aveva quindi non una programmazione divisa per discipline,

ma per abilità da raggiungere. In questa organizzazione è evidente il concetto di

globalità (tant’è vero che per l’insegnamento della lingua si utilizzava proprio il

metodo globale). In base alle fasi di sviluppo piagetiane, si riteneva che solo verso

gli otto anni il bambino fosse in grado di iniziare a collocare nello spazio e nel tempo

elementi concettuali, ed infatti in terza vengono introdotte le discipline. Questo

programmi, a differenza di quelli del 1985, non erano prescrittivi: l’insegnante

decideva come e quando raggiungere gli obiettivi. C’era libertà didattica, ma non

libertà dalla didattica: nel primo ciclo si pongono degli obiettivi generici e non

specifici, per consentire agli insegnanti di adattare i processi di insegnamento e

apprendimento alle specifiche realtà in cui si trovano ad operare.

Questo quindi è il contesto scolastico generale nel quale ho vissuto la mia esperienza

di scuola da alunna. Nel paragrafo successivo, presenterò il contesto specifico: la

scuola di Villamagna e il mio maestro Vittorio.

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1.2.Vittorio e Villamagna

Vittorio Lupi è stato il mio maestro: è nato nel 1937 a Montefoscoli, in provincia di

Pisa. Sua moglie, come lui, è stata insegnante di scuola elementare. Vive a Volterra.

Viene spesso a trovarci a Villamagna e proprio l’estate scorsa è capitato che,

vedendo come ancora con la sua macchina fotografica immortalasse sorrisi, visi,

paesaggi ed emozioni, ho pensato che sarebbe stato bello raccontare qualcosa della

sua storia da insegnante e di quanto un maestro possa essere stato un punto di

riferimento per un’intera comunità. Oggi forse la scuola ha perso di vista questo

ruolo.

Quando gli ho espresso questo mio desiderio, tra un sorriso stupito e uno sguardo

compiaciuto, ha accettato. Sono andata a casa sua: in una scatola c’erano le migliaia

di foto che, nella sua vita, ha scattato. Molte di queste le avevo già viste, o meglio, le

avevo viste “nascere”. Ricordo quando in classe sviluppavamo quelle che ci aveva

fatto; tutta l’aula era al buio e noi stavamo fermi, in silenzio, tutti intenti ad osservare

i suoi movimenti: attimi sospesi nell’attesa di veder comparire i nostri visi e i nostri

corpi su quella carta bianca e lucida.

Mi ha fatta entrare nel suo studio. Vittorio ha ottantuno anni. Ha acceso il suo Mac,

ha aperto una cartella e le foto erano tutte lì: scannerizzate, nominate, salvate e

ordinate. Centinaia di foto. E scorrendole, ha cominciato a raccontare.

Ha iniziato ad insegnare in un istituto per ragazzi con disabilità mentale, a Volterra.

Nel 1962 venne mandato dal Direttore Didattico ad insegnare in un piccolo paese

chiamato Querceto, nel Comune di Castelnuovo Val di Cecina. Si ritrovò ad essere

l’unico maestro di quella piccola scuola. Aveva una pluriclasse, dalla prima alla

quinta, composta da dieci bambini. Di fronte ad una situazione come questa si trovò

disarmato, ed espresse le sue perplessità al direttore didattico: “Come posso

insegnare a questi bimbi?” Vittorio ricorda sempre la risposta: “Stai tranquillo, i

bimbi imparano nonostante gli insegnanti”.

Come si fa nella scuola da sempre, anche lui all’inizio dell’anno appese in classe

l’alfabetiere. E i bambini lo leggevano così: “O come papero (invece di oca), I come

ombuto, V come gorpe”. Sorride mentre ne parla. Ma è un sorriso pieno d’affetto. Ha

sempre avuto un approccio ironico alle situazioni: senza mai drammatizzarle,

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riusciva a coglierne il lato umano, ed è su quella umanità che basava il suo

insegnamento.

Vittorio e la scuola di Querceto

È arrivato a Villamagna nel ’75 ed è rimasto lì per tutto il resto della sua carriera da

insegnante, circa ventisette anni. Villamagna è una piccola frazione di Volterra, che

conta circa cinquecento abitanti.

Anche in questo paese, come in molti altri della Toscana, tra gli anni cinquanta e

settanta, ci fu una forte immigrazione dal Sud Italia. Molti villamagnesi infatti

avevano lasciato le terre per andare a lavorare alla Piaggio di Pontedera e l’Ente

Maremma mise queste terre a disposizione delle famiglie provenienti dal Sud. Le

modalità erano le stesse di ogni movimento migratorio; come in un gruppo di

formiche, all’inizio partivano in pochi, acquistavano i terreni, si insediavano e poi, in

base alle disponibilità del luogo, iniziavano a chiamare parenti e amici. Tutti dello

stesso paese. Tra queste famiglie c’era anche quella del mio babbo, che arrivò a

Villamagna nel ’56, quando lui aveva cinque anni. Ecco: l’integrazione era tutta da

costruirsi, e la scuola ne fu il centro promotore.

Quando Vittorio arrivò a Villamagna, il tasso di natalità era piuttosto alto e,

nonostante le dimensioni ridotte del paese, c’erano cinque classi. La prima classe che

ebbe fu quella prima della mia.

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Vittorio ha sempre mostrato di avere una visione pragmatica delle cose, poco teorica

e molto pratica. Un giorno, durante una lezione, da un alunno venne fuori una

domanda: “Quale sarà la temperatura dell’Era?”1. Gli scuolabus non c’erano, a

piedi non si poteva andare. Ma rispondere a quella domanda, in quel momento,

sarebbe stato quello che oggi noi definiamo “compito di realtà”. Sì, perché in fondo

la scuola è piena di buone pratiche da sempre; molte di quelle che oggi vengono

riproposte, non sono altro che una selezione di ciò che di meglio la scuola nella sua

storia ha costruito e ha messo in atto. Come fare? Come rispondere a quella

domanda, dando importanza a quella curiosità? Vittorio fece così: li fece salire tutti

sulla sua auto. Con quell’azione temeraria e, bisogna ammetterlo, anche un po’

rischiosa, fece in modo che quella curiosità si vestisse di avventura e diventasse

scoperta. La misurazione della temperatura, l’ambiente del fiume, la flora, la fauna.

Una lezione di geografia in un contesto significativo. Quei bambini, che oggi hanno

circa 48 anni, quel giorno non lo avrebbero mai dimenticato.

L'uscita didattica

1 Fiume che passa da Villamagna e arriva a Pontedera.

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La temperatura dell’Era

Quando io sono arrivata a scuola, nell’80, la metà dei bambini della mia classe era sì

nata in Toscana, ma era figlia di immigrati.

La mia classe

Vittorio si trovò a relazionarsi con molti genitori provenienti dal Sud: Campania,

Sicilia, Sardegna, Abruzzo. Eppure, seppe dare a quella pluralità eterogenea un senso

di unità. Vittorio, e insieme a lui tutti gli insegnanti, resero la scuola di Villamagna

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un punto di riferimento, un sistema che generava coesione e non divisione. Che non

classificava ma che includeva. Le iniziative per Natale, per Carnevale, le recite, le

feste paesane, tutto coinvolgeva la scuola e la scuola era coinvolta in tutto.

Il Carnevale festa di tutto il paese

Una volta all’anno ad esempio, la scuola organizzava la “gita”. Ed era veramente una

gita, non era un’uscita didattica. Alla gita andavano gli alunni, uno o due genitori e a

volte anche qualche altra persona del paese. Era un giorno di festa. E anche quello

era un momento di coesione. Era un modo per far stare insieme le famiglie, per farle

conoscere, per consolidare quel substrato di relazioni che, attraverso le esperienze

condivise, generava il senso di “comunità”.

Vittorio andava già oltre l’integrazione. Forse, senza saperlo, attuava quella che oggi

definiamo inclusione: non erano le persone ad adattarsi all’ambiente, ma era

l’ambiente che si adattava alle persone.

Il mio maestro non solo favoriva le relazioni orizzontali tra le famiglie, ma anche

quelle verticali tra le generazioni. Ricordo ancora molto bene quando ci portava dal

calzolaio Lombo o dal postino Vittorio, per farci raccontare gli anni duri della guerra,

del fronte e della prigionia nei campi in Austria e in Russia. E non era il calzolaio

Lombo a venire in classe, eravamo noi ad andare nel suo piccolo negozio, che sapeva

di pelle e cuoio.

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Il calzolaio Lombo

Il postino Vittorio

I ritmi della natura, della campagna e dell’ambiente, erano i ritmi della

programmazione: a settembre scienze con la vendemmia, a dicembre con la

produzione dell’olio. La valorizzazione del territorio e dell’agricoltura, la scuola che

usciva nei poderi, che incontrava la realtà e la strutturava in abilità: il racconto

scritto, la descrizione, la successione degli eventi, l’orientamento. I contenuti su cui

costruire l’apprendimento erano significativi, perché erano vissuti.

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La vendemmia

La matematica e la geometria erano strumenti necessari per progettare, costruire,

realizzare. Come ad esempio avveniva con gli aquiloni: misurare, ritagliare,

assemblare, incollare. E poi l’ansia e l’attesa di sapere se sarebbero volati, la ricerca

della collina adatta e le corse a perdifiato, nel tentativo di farli rimanere in cielo. E le

mongolfiere: ogni volta che ne lanciavamo una, era una grande emozione.

Alimentate da un po’ di cotone infiammato con l’alcool, non sarebbero andate molto

lontano. Ma noi bambini questo non lo sapevamo: a noi bastava vederle sparire, e dal

momento in cui le perdevamo di vista, sarebbero potute arrivare chissà dove,

alimentate dalle nostre emozioni.

Le mongolfiere

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È difficile percepire quanto, nella scuola di Villamagna, arrivassero le indicazioni

Ministeriali. Ed è difficile capire quanto Vittorio le seguisse. Una volta ad esempio,

arrivarono indicazioni riguardo alla pratica didattica delle “classi aperte” (citate nei

programmi dell’85). In una scuola come Villamagna, sarebbe stato impossibile

aprirle più di quanto non lo fossero già: tutte le esperienze erano condivise, in una

continua interazione tra alunni e insegnanti di tutte le classi. Così, un po’ per

provocazione, un po’ per gioco, dette la sua interpretazione di questa indicazione,

togliendo fisicamente le porte dai loro cardini. Ma forse, gli si può perdonare anche

questo.

Le classi aperte secondo Vittorio

Vittorio è sempre stato un maestro “senza cattedra”. Sempre operativo, sempre

dinamico, sempre curioso: un maestro in continua ricerca; magari non sempre

cercava dove un insegnante avrebbe dovuto cercare (nelle normative, nei libri di

pedagogia e di didattica), ma cercava. Ed era attento: non solo capiva, comprendeva

(da cum-prehendere: “prendere insieme”).

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Vittorio in classe

Quella che abbiamo descritto però, non è la “scuola rurale” che preparava al lavoro:

non era certo ancora la stessa scuola elementare che aveva frequentato il mio babbo.

Sebbene la scuole fosse il sistema unificante della comunità, e sebbene fosse una

scuola che immergeva le sue radici nel contesto, essa era anche lo spazio in cui si

preparavano bambini ad affrontare un futuro che li avrebbe portati, un giorno, ad

uscirne.

Oggi Vittorio continua a frequentare Villamagna e a fotografare istanti; continua ad

essere per tutti un punto di riferimento e continua ad essere curioso, vorace e, in

qualche modo, innovativo. Perché l’innovazione, a mio avviso, non sta nell’adattarsi

ogni giorno alle novità, ma nel farsi novità per gli altri ogni giorno.

1.3.Vittorio e la sua alunna

Vittorio ha sempre mantenuto un rapporto di interesse e attenzione verso ciascuno

dei suoi alunni. Chiunque parli di lui, non può scinderne il suo nome dalla sua

apposizione: non è mai Vittorio, è sempre, per tutti, “il maestro Vittorio”. Ed è così

anche per me. Molto spesso, nelle situazioni didattiche, ho fatto riferimento alla

ricchezza relazionale che ho vissuto con lui, e ho rivisto nei miei alunni me stessa.

Riconosco ad esempio, di essere stata un’alunna abbastanza svogliata. Molte volte i

miei genitori erano impegnati nei lavori fuori e capitava spesso che non facessi i

compiti. Una volta, lo ricordo benissimo, dovevamo scrivere un testo per casa. A

scuola, Vittorio chiese a tutti di leggerlo. Quando toccò a me, mi vergognai di dire

che non l’avevo fatto, e iniziai a far finta di leggere. Tutti si accorsero che non stavo

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leggendo, ma che stavo improvvisando un testo che non c’era. E qualche compagno

tentò anche di dirlo al maestro che, ovviamente, se ne era accorto. Ma lui fece loro

cenno di fare silenzio e mi chiese di continuare a leggere. Alla fine mi disse che

avevo scritto un bel testo. Non so cosa accadde nella mia mente, ma da quella volta

non capitò più che arrivassi a scuola senza aver fatto i compiti. E quell’istante mi

torna in mente ogni volta che un bambino, che magari a casa non ha i genitori che lo

seguono, mi guarda imbarazzato perché non ha svolto i compiti assegnati.

Ero anche una bambina creativa o, per dirla senza troppi eufemismi, un po’ bugiarda.

Nei miei testi inventavo spesso di essere stata in posti mai visti, oppure di aver

vissuto esperienze che in realtà avevo solo sognato. È capitato che io abbia discusso,

per desiderio di cose mai avute, con qualche mia compagna e l’abbia fatta piangere,

anche solo per un fazzoletto ricamato, dicendo che era mio quando invece non lo era.

Eppure, mai una sola volta, Vittorio mi ha richiamata o rimproverata per quella mia

eccessiva e fervida fantasia e, seppur alla fine in qualche modo il fazzoletto tornasse

alla legittima proprietaria, mai mi sono sentita accusata o condannata davanti a tutti.

Forse c’era una sensibilità e un livello di comprensione tale in quel maestro, che

riusciva a capire che in quel caso, mi avrebbe educata più con l’attenzione e la

comprensione che con il richiamo e l’umiliazione.

Questo è stato, ed è tutt’oggi, il mio maestro Vittorio.

Giochi di luce

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1.4.Riflessioni

Villamagna è rimasto un piccolo paese, nel quale è fortissimo il senso di comunità.

Oggi sono altri gli immigrati che arrivano, ad esempio muratori e boscaioli con le

loro famiglie, provenienti dall’Est Europa. Ebbene, non so se sia merito di quella

scuola che ci ha educati accogliendoci, ma è certo che oggi la nostra piccola

comunità è educata ad accogliere.

Concludo questo capitolo, introducendo il successivo, nel quale cercherò di delineare

quali, tra le situazioni che ho vissuto come alunna, ho cercato di tener presenti come

maestra. Certo, è vero che con la mia formazione odierna, potrei cogliere tante

mancanze in quel modo di fare scuola: forse troppa improvvisazione, a volte un po’

di incoscienza. E non saprei neanche definire, in base ai miei ricordi, la qualità della

la mia “formazione di base”. Negli anni successivi a quelli, ho incontrato diverse

difficoltà: non sono mai stata un’alunna eccellente. Ma so per certo che, al di là di

qualsiasi eccessivo sentimentalismo, queste difficoltà le ho vissute senza perdere mai

la fiducia in me stessa, e questo perché negli anni più importanti della mia infanzia,

ho avuto chi credeva in me. Nonostante tutto.

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CAPITOLO 2

LA SCUOLA DA INSEGNANTE: I RIFERIMENTI CHE MI

ORIENTANO

2.1.L’inizio della mia professione

Ho iniziato ad insegnare a venti anni ed ho vissuto il periodo in cui si poteva essere

chiamati ad insegnare anche per un solo giorno, da una scuola qualsiasi dei venti

istituti che dovevano essere inseriti nella messa a disposizione per le supplenze. Ci

sono stati anni, almeno due o tre, in cui è capitato che abbia insegnato in sei scuole

diverse alla settimana, distanti tra loro anche cento chilometri. Spesso svolgevo più

attività di “badantato” che di insegnamento ed ho incontrato classi che, come è

risaputo, alla vista della supplente davano il peggio di sé. Eppure, anche quel

periodo, è stato molto importante: non stavo bene, ma mi ha fatto bene. Dopo

qualche anno ho iniziato ad avere incarichi sul sostegno, seppur non avessi

l’abilitazione. Erano incarichi lunghi, a volte per tutto l’anno. Anche quello è stato

un periodo importante: stando in classe con le altri insegnanti ho imparato tantissimo.

Riuscivo ad avere un punto di vista privilegiato sulle cose e riuscivo a cogliere le

dinamiche che si creavano in classe, osservando le azioni e le razioni degli insegnanti

e dei bambini. Ho iniziato anche a selezionare le strategie, gli atteggiamenti, le

metodologie didattiche che sentivo più vicine alla mia personalità, così come

percepivo l’inadeguatezza, a mio avviso, di molti approcci didattici a cui assistevo.

Ed ho capito che osservando gli altri lavorare, facendo tesoro dei loro consigli,

ponendomi sempre con occhio curioso e attento di fronte ai lavori altrui, potevo

imparare tantissimo. In seguito, qualsiasi sia stato il collega con cui abbia lavorato in

team, anche se non sempre eravamo sulla stessa lunghezza d’onda, ha lasciato traccia

di sé in me. Forse è per questo che ho maturato l’idea che un team di insegnanti sulle

stesse classi, per quanto funzioni bene, debba avere una scadenza. Si impara molto

dai cambiamenti.

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2.2.La relazione

Ho messo al primo posto dei miei riferimenti la relazione, perché ritengo che la

capacità di costruire e gestire le relazioni sia il presupposto fondamentale in una

professione in cui si lavora per l’altro e con l’altro. Come scrive Carl Rogers:

“Chiunque lavori nel campo delle relazioni umane e cerchi di capirne le

leggi fondamentali è impegnato nell’impresa più cruciale del mondo di

oggi. […] Perché il futuro non dipende dalle scienze fisiche ma da chi

comprende ed affronta le interazioni tra gli esseri umani, da chi si sforza

di creare delle relazioni d’aiuto”.2

Per realizzare qualsiasi processo di insegnamento e apprendimento, per avere

un’ambiente dove si producono risorse educative valide, per generare benessere

all’interno di un ambiente di lavoro, è necessario prima di tutto costruire relazioni. E

non parlo di relazioni personali, ma di relazioni professionali. Le seconde sono

umane tanto quanto le prime.

2.2.1. La relazione con gli alunni

Nel mio Istituto, la scuola dell’Infanzia aderisce al progetto Galileo3: ho avuto così

l’occasione di partecipare ad una formazione tenuta dal professor Giuliano Giuntoli.

Il progetto ha come punto di riferimento prioritario la relazione efficace insegnante-

alunno. Una relazione efficace è quella che promuove il senso di fiducia da parte di

ogni alunno e la costruzione di un buon sé. Come afferma il professor Giuntoli:

“Vi è una differenza sostanziale fra la concezione dell’insegnante quale

operatore della didattica, e quindi attento alle discipline ed ai relativi

apprendimenti, rispetto al formatore che insegna, che pone la sua

attenzione al bambino che impara. In questa seconda prospettiva,

assume un ruolo prioritario la relazione che il docente sa instaurare con

ciascuno dei suoi alunni. L’efficacia di tale relazione è in funzione non

solo della crescita dell’alunno sul piano cognitivo e degli apprendimenti

che egli potrà fare, ma anche nella costruzione del suo sé, della propria

autostima e delle competenze relazionali con coetanei ed adulti. […] É

2 Rogers C., La terapia centrata sul cliente, G.Martinelli, Firenze 1970, pag. 86.

3 Per maggiori informazioni si consulti il Centro Risorse Educative e Didattiche della Valdera, al

seguente indirizzo: http://www.centrorodari.it/sviluppare/progetti.php?id=196 (verificato in data 15

marzo 2018).

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indispensabile che ogni docente, essendo un educatore che insegna,

abbia un atteggiamento accogliente verso tutti i suoi alunni. A questo

scopo, semplificando, dovrà innanzi tutto riflettere sugli aspetti cognitivi,

emotivi e comportamentali che caratterizzano il proprio modo di porsi

nei confronti di ciascun bambino. […] É ampiamente dimostrato, infatti,

che se l’insegnante associa la stima e il valore dell’alunno al profitto

scolastico, l’alunno rischia di identificarsi con il profitto stesso, con

grave danno sulla sua personalità. In definitiva, i prodotti sono diversi,

ma la stima dell’insegnante è elevata per tutti gli alunni. E’ evidente che

ogni insegnante deve prima di tutto chiedersi se il suo modo di porsi di

fronte all’alunno è associato prioritariamente al profitto oppure alla

persona”.4

Quella tra docente è alunno deve essere pertanto una relazione in cui il bambino

sente di essere stimato per quello che è, non per quello che produce.

La relazione insegnante-bambino è asimmetrica, per ruolo e conoscenze: il potere, la

responsabilità e l’abilità da una parte; la dipendenza, il bisogno di protezione e di

apprendimento dall’altra. Questa asimmetria deve essere gestita dal docente con

grande responsabilità. Come afferma ancora Rogers: “Uno sviluppo costruttivo della

personalità si ha soltanto quando il bambino coglie e sperimenta una certa

atmosfera psicologica nel rapporto”5. E questa “certa atmosfera” fa riferimento a ciò

che l’insegnante comunica non solo attraverso il linguaggio, ma anche attraverso i

gesti, le espressioni, gli atteggiamenti. Ad esempio, espressioni del tipo: “Ti pareva

che tu anche oggi non avessi lasciato il quaderno a casa”, oppure “Sei sempre il

solito”, o ancora “Con te non so più come fare” sono devastanti per un bambino,

soprattutto quando vengono pronunciate davanti al resto della classe, generando così

addosso a quell’alunno un pre-giudizio che potrebbe davvero pre-giudicare lo

sviluppo della sua personalità. Sta quindi alla nostra formazione, alla nostra

attenzione e alla nostra competenza professionale, costruire relazioni che aiutino i

bambini a sviluppare un senso positivo del sé, cioè la base fondamentale per

costruire, di seguito, qualsiasi abilità cognitiva.

4 Giuntoli G., Le fondamenta della professione docente, al seguente indirizzo:

https://marcondirondirondello.wordpress.com/tag/giuliano-giuntoli-insegnante-formatore-relazione-

se-autostima-interazione-strategie-metodo-galileo-accoglienza-piccolo-gruppo-empatia/ (verificato in

data 15 marzo 2018). 5 Rogers C., La terapia centrata sul cliente op.cit. pag 96.

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Per gestire positivamente le relazioni, una delle competenze che un insegnante deve

sviluppare, è l’empatia: “Sentire il mondo più intimo dei valori personali dell’altro

come se fosse il proprio, senza però mai perdere di vista la proprietà del come se”6.

L’empatia quindi, è la capacità di mettersi “nei panni dell’altro”, pur indossando

ancora i propri, per facilitare il livello di comprensione nella comunicazione.

Un’ultima considerazione: un insegnante è prima di tutto una persona e, in quanto

tale, è unica. Ed è questa unicità che rende gli uni diversi dagli altri, insegnanti

compresi. Questa unicità, nella relazione, deve essere rispettata: “Ogni persona è

un’isola in se stessa e può gettare dei ponti verso le altre isole solamente se vuole e

se è in grado di essere se stessa”7. Questo è ciò che rende una relazione autentica: la

possibilità di poter essere sé stessi, anche con i bambini. Proporsi con autenticità ai

bambini, rispettando anche la propria personalità, ci consente di instaurare con loro

relazioni autentiche.

2.2.2. La relazione con i colleghi

La relazione con i colleghi è fondamentale: nessun insegnante può costruire percorsi

significativi, se non lo fa all’interno di una comunità. Il dialogo e il confronto sono i

presupposti fondamentali per costruire, nella scuola, un ambiente formativo coerente

e orientato. La prima relazione è quella con i colleghi di team: è necessario

condividere con loro strategie di gestione della classe, progetti, criteri di valutazione,

studi dei casi, interventi per i bambini BES. La programmazione settimanale serve

proprio a questo: orientare la classe in un’unica direzione, perché se i bambini sono

disorientati, non potranno essere condotti da alcuna parte.

Inoltre, non si può insegnare ai bambini “ad essere”8 nel mondo cittadini

consapevoli, se non attraverso l’esempio. Il clima collaborativo tra le insegnanti di

classe è il primo elemento che educa i bambini a collaborare tra loro.

Una classe però, non “naviga” da sola. Lo fa insieme alla scuola a cui appartiene.

Una scuola è, lo ripeto ancora, una comunità: condividere gli spazi, i progetti, le

6 Ivi, pag. 92.

7 Ivi. pag. 39.

8 Indicazioni Nazionali per il curricolo, in Annali della Pubblica Istruzione, Le Monnier, Firenze 2012,

pag. 10.

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risorse e i problemi è necessario e indispensabile. Concordare e condividere risorse,

ne potenzia l’efficacia; condividere i problemi, ne riduce la portata. Sono stata

coordinatrice di plesso per molti anni e ho percepito la difficoltà della condivisione.

Non è affatto facile. Alcune idee e alcuni punti di vista spesso risultano

inconciliabili; capita infatti che nel gruppo degli insegnanti si generino

incomprensioni, malumori e fraintendimenti, soprattutto quando le risorse da

condividere e dividere sono poche. Ma, anche in questo caso, credo che sia

l’atteggiamento professionale a dover prevalere: onestà intellettuale, obiettività nella

valutazione delle situazioni, promozione del bene comune e non di quello particolare,

attenzione ai bambini con più bisogni, capacità di mediazione interiore, capacità di

non confondere il piano della relazione professionale con quello personale. Sono

elementi essenziali e nel mondo della scuola sarebbe importante promuovere questo

tipo di formazione. Un insegnante con ottime competenze didattiche ma con scarse

competenze relazionali, difficilmente promuoverà le prime.

Ed infine, una scuola non “naviga” da sola. La fa insieme all’Istituto a cui appartiene.

Oggi che il curricolo d’Istituto è diventato lo strumento fondamentale per la

progettazione e la programmazione dell’azione didattica, un insegnante deve sentirsi

parte della sua costruzione. Sono sempre più necessari incontri in orizzontale, come i

dipartimenti disciplinari, o in verticale, come quelli in continuità. Nel nostro Istituto

ad esempio, si sta realizzando un meraviglioso percorso di condivisione, che

coinvolge quasi tutti gli insegnanti: la revisione dei curriculi sta avvenendo in modo

collegiale. Non è l’azione di un piccolo gruppo che realizza un meraviglioso

curricolo che poi pochi sapranno realizzare; il curricolo, con fatica, tempo e

confronto, lo stanno costruendo tutti gli insegnanti, insieme. Ci vorrà tempo, e forse

il sito della scuola non potrà far mostra di avere già un curricolo “per competenze”,

ma ad ogni incontro, ad ogni parte che si aggiunge, c’è un lavoro di scambio e

confronto di risorse che già di per sé ha una valenza straordinaria. Anche se sarà un

procede lento, sarà un procede attento. La stessa cosa accade nei dipartimenti:

costruire insieme percorsi per competenze e le relative prove di competenza,

scambiandosi buone pratiche e condividendo dubbi e problemi, sostiene tutti e

ciascuno nel proprio operato.

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2.2.3. La relazione con le famiglie

“La scuola perseguirà costantemente l’obiettivo di costruire un’alleanza

educativa con i genitori. Non si tratta di un rapporto da stringere solo

nei momenti critici, ma di relazioni costanti che riconoscano i reciproci

ruoli e che si supportino vicendevolmente nelle comuni finalità

educative”9.

La scuola, insieme alla famiglia, costituiscono l’impalcatura10

sulla quale costruire la

struttura portante della persona. Queste due realtà formative sono diverse ma

complementari. Nei processi di apprendimento, la famiglia riveste un ruolo di tipo

biologico, grazie alla predisposizione innata dell’individuo ad apprendere; nella

famiglia il bambino acquisisce le prime competenze di base (capacità comunicative e

relazionali) e la scuola subentra subito dopo, come principale agenzia educativa.

Oggi la relazione scuola-famiglia sta attraversando una fase di notevole difficoltà.

Spesso le situazioni familiari oscillano tra due estremi. Ad un estremo, c’è la

situazione di quelle famiglie che potremo definire “figliocentriche”:

“Il figlio non è più vissuto come progetto generativo che ha le sue radici

nelle generazioni precedenti ed è proteso verso quelle future, ma

unicamente come investimento emotivo e privato dei genitori. Il figlio

“sovrano” o “idolo” diviene una proiezione intima della propria

immagine, una rappresentazione privata e decontestualizzata”11

.

In una situazione di questo tipo, quando il bambino arriva a scuola, i genitori si

scontrano con una realtà nella quale si sentono valutati insieme ai loro figli. La

famiglia infatti, sempre più spesso, legge i giudizi numerici che vengono attribuiti

dalla scuola in termini personali e globali. Mentre la scuola considera il voto come

una valutazione a una prestazione situazionale, la famiglia lo intende un giudizio alla

persona e, quando la valutazione non è positiva, questa viene intesa dalla famiglia

come una inadeguatezza all’assolvimento dei compiti parentali. I momenti dei

colloqui tra la scuola e la famiglia sono spesso l’esempio di come tra queste due

agenzie educative, si parlino due linguaggi differenti che generano incoerenza

9 Indicazioni Nazionali, op. cit. pag. 10.

10 Bruner nel 1976 usa il termine “scaffolding” per indicare l’intervento di un adulto che consente al

bambino di risolvere un problema, portare a termine un compito o raggiungere un obiettivo che

sarebbe oltre le sue possibilità. 11

Dallari G., Il ruolo educativo della scuola e delle famiglie, in Il patto Educativo, a cura di Matteoli

S e Parente M., FrancoAngeli, Milano 2014.

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formativa. Questo comporta il crollo di quell’impalcatura a cui facevamo riferimento

all’inizio, con la conseguente perdita di punti di riferimento e stabilità per il

bambino.

L’altra situazione estrema che si può verificare, è quella in cui il bambino si trova,

per motivi sociali o culturali, ad essere solo nel gestire la sua situazione di alunno. In

questo caso, soprattutto quando il bambino presenta delle difficoltà, la famiglia non

ha gli strumenti per sostenerlo; si creano quindi situazioni in cui la famiglia sente un

forte senso di inadeguatezza e si allontana sempre di più dall’istituzione scolastica,

sospendendo ogni forma di comunicazione. Anche in questo caso, il bambino perde

stabilità e orientamento.

Come poter gestire queste difficoltà nella relazione scuola-famiglia? Negli ultimi

decenni, numerosi studi hanno evidenziato l’importanza della presenza dei genitori

all’interno della scuola12

: la partecipazione dei genitori alla vita della scuola è utile

per garantire coerenza educativa all’azione di genitori e insegnanti; inoltre, la stretta

collaborazione tra le due istituzioni rende armonici i processi di istruzione messi in

atto, agendo in modo positivo sulla buona riuscita scolastica degli alunni.

“Studi diversi hanno dimostrato come il coinvolgimenti attivo dei

genitori influisca positivamente su differenti dimensioni di sviluppo degli

alunni, quali l’autostima, la fiducia, la capacità di prendere decisioni,

l’assertività e la socializzazione. […] Si dovrebbe promuovere la

relazione scuola-famiglia non in un’ottica strumentale, di ricerca di

consenso, ma di concreta collaborazione, scambio e reciproca

valorizzazione”13

.

Lavorando nella scuola primaria, le occasioni di coinvolgimento dei genitori sono

molteplici: allestimento di mostre, rappresentazioni teatrali, laboratori a scuola, sono

momenti che offrono l’opportunità di valorizzare competenze diverse. Sta all’occhio

attento dell’insegnante proporre attività che coinvolgano tutti, proponendo attività e

collaborazioni diverse e valutando le singole competenze di ciascuno.

Negli anni ho realizzato diversi progetti con il sostegno e l’aiuto delle famiglie. Per

favorire la partecipazione di tutti, è capitato che venissero programmati incontri

pomeridiani (a volte anche la domenica). Un anno ad esempio, siamo riusciti a

12

Cfr. Parente M., La relazione scuola/famiglia tra problemi e risorse, in Il patto Educativo, op. cit.

pag 34. 13

Ivi pag. 36.

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realizzare un cartone animato su Pinocchio14

a conclusione di un percorso realizzato

durante l’anno scolastico. Ne è venuto fuori un progetto bellissimo, sia dal punto di

vista emotivo che relazionale. La ricostruzione del rapporto tra Geppetto e Pinocchio

è stata l’occasione per riflettere sul rapporto tra i bambini e i loro genitori.

Il progetto di Pinocchio

Un altro laboratorio realizzato con i genitori ha coinvolto anche il mio maestro

Vittorio: la realizzazione degli aquiloni. Dopo averli disegnati e progettati, abbiamo

chiamato Vittorio e i genitori per aiutarci a realizzarli.

Laboratorio aquiloni con Vittorio

14

Il filmato è visibile al seguente link: https: https://youtu.be/9C_cge7R-fA (verificato in data 15

marzo 2018).

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Oltre alle attività laboratoriali, credo sia importante condividere con i genitori la

conoscenza delle attività che vengono svolte in classe: è un mondo per farli sentire

coinvolti, rispettando tuttavia i ruoli di ciascuno. Gli strumenti digitali in questo sono

un ottimo supporto. Negli ultimi anni ho utilizzato degli strumenti per favorire questa

comunicazione, ad esempio un sito internet15

e una classe virtuale sulla piattaforma

Edmodo, che uso sia per assegnare compiti a casa sia per condividere con i genitori

la spiegazione dei percorsi (attraverso l’uso di padlet16

e google drive) con le relative

foto.

La nostra classe su Edmodo

Non si deve però mai dimenticare che alla base dei momenti di cooperazione e di

condivisione delle pratiche didattiche, c’è sempre il dialogo. La capacità di costruire

un dialogo positivo e costruttivo con le famiglie, per un insegnante è un’abilità

professionale fondamentale:

“In questo quadro di complessità, la mente stessa dell’insegnante, nella

sua dimensione cognitiva ed emotivo-affettiva, diventa strumento

psicologico di lavoro per la costruzione di una professionalità della

relazione, funzionale a:

15

Il sito è visionabile al seguente link:

https://sites.google.com/view/classisecondeprimariarodari/home (verificato in data 15 marzo 2018) 16

Un esempio di padlet condiviso con i genitori: https://padlet.com/s_campana_74/2yhk3t58705v

(verificato in data 15 marzo 2018).

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- Entrare in contatto con l’altro e comprenderne i bisogni

- Saper ricevere, accogliere e/o contenere l’altro

- Tentare di comprendere, capire e assumere responsabilità all’interno

della relazione

- Sviluppare capacità di sentire ed essere presenti nella relazione

- Fornire un sopporto cognitivo ed motivo all’altro”. 17

Quelle sopra elencate sono competenze complesse che non possono fondarsi solo

sulla sensibilità di un insegnante. Devono essere costruite sia attraverso la

formazione sia attraverso un processo su se stessi di conoscenza e di studio del

proprio modo di relazionarsi, analizzando il proprio modo di comunicare attraverso il

linguaggio, le azioni e la prossemica in generale. Bisogna saper lavorare su quegli

aspetti della nostra comunicazione che spesso assumiamo anche inconsapevolmente.

Bisogna interrogarsi di fronte alla reazione dell’altro e capire qual è stata l’azione

che l’ha generata. E, ancora una volta, entra in gioco l’empatia: quel “come se” che

ci permette di tener sempre presenti i vissuti, le paure e le ansie di chi abbiamo di

fronte.

2.2.4. La relazione con la comunità

Un altro importante riferimento che ho avuto dal mio maestro Vittorio, è

l’importanza della relazione tra la scuola e la comunità. In un momento così

“disorientato”, è fondamentale che la scuola non perda di vista la sua funzione

formativa non solo in relazione all’alunno, ma soprattutto in relazione alla società in

cui l’alunno è inserito. La scuola deve farsi promotrice di cultura e deve farlo non

solo dentro l’aula, ma soprattutto fuori.

In questi anni sono stati molti i progetti che ho realizzato in collaborazione con le

amministrazioni e gli enti locali, tutti volti a favorire la conoscenza e la

valorizzazione del proprio territorio. I bambini si sono sentiti protagonisti in questo

percorso di valorizzazione e la risposta della comunità è stata sempre pronta ed

accogliente. Sono stati tanti i progetti realizzati sia come classe che come plesso. Ne

17

Parente M., La relazione scuola/famiglia tra problemi e risorse, in Il patto Educativo, op. cit. pag

38.

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riporto solo alcuni per specificare meglio cosa si intenda per valorizzazione del

territorio:

Progetto Comenius: a questo progetto ho partecipato con una classe di

qualche anno fa; il tema centrale del progetto era “La casa” intesa come luogo

in cui realizzare scelte di salvaguardia dell’ambiente. Abbiamo conosciuto la

casa ecosostenibile e abbiamo realizzato un percorso di scienze e matematica,

per progettare e costruire un piccolo “forno” ad energia solare.

Il forno ad energia solare

Progetto Nazionale “Adotta un monumento”: i bambini di una classe quinta

hanno effettuato una ricerca storica riguardante l’edificio più importante di

Capannoli, Villa Baciocchi, e lo hanno promosso tra i monumenti d’Italia

attraverso la creazione di un video ambientato nel 1890, gli anni della

famiglia Baciocchi18.

Progetto “Adotta un monumento”

18

Il filmato è visionabile al seguente link: http://www.atlantemonumentiadottati.it/adozione/i-c-s-

pertini-rodari-villa-baciocchi/ (verificato in data 15 marzo 2018).

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Progetto “Alla scoperta del bene comune”: un progetto che ha portato alla

realizzazione di pannelli e manifesti che sono stati appesi in tutto il paese, per

la sensibilizzazione al rispetto del bene comune. Il progetto ha coinvolto

molte discipline, nell’ottica dello sviluppo delle competenze. Il percorso è

stato poi documentato e condiviso19.

Dalla bozza al manifesto

2.3.La didattica

Sarebbe impossibile poter definire quali siano tutti i riferimenti che orientano la mia

didattica: venti anni di insegnamento, tantissimi corsi di formazione, cinque anni di

scienze della formazione primaria mi hanno fornito un bagaglio grandissimo di

ispirazioni. Cercherò di delineare, ancora una volta, gli aspetti della mia didattica che

mi riconducono al mio essere stata alunna, alunna del maestro Vittorio.

2.3.1. L’ambiente e-motivante

Il primo aspetto che ritengo fondamentale, è la costruzione di un ambente positivo

inteso soprattutto nella sua dimensione emotiva. Proverò a delineare quali siano gli

19

La documentazione e reperibile al seguente link: https://padlet.com/s_campana_74/ucff2i65sy2o

(verificato in data 15 marzo 2018).

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elementi e gli atteggiamenti che, nella mia didattica, cerco di mettere in atto nel

tentativo di creare intorno ai bambini un ambiente che ho provato a definire “e-

motivante”, cioè che sia emotivamente positivo e quindi motivante.

Il parlato: lasciar parlare i bambini delle proprie storie personali, delle

proprie idee, delle proprie emozioni, costituisce un momento preziosissimo

per creare un contesto accogliente: “lasciar parlare i bambini delle proprie

storie, è il momento della scoperta, della conoscenza dei vissuti personali,

dell’elaborazione di buone regole comuni del vivere insieme”20;

L’ascolto: l’ascolto attento è fondamentale. L’insegnante deve sempre

prendere sul serio ciò che un bambino gli dice. L’ascolto dovrebbe diventare

un atteggiamento che coinvolge attenzione, sguardo e corpo; chinarsi o

sedersi mentre si ascolta ad esempio, permette da creare un contatto visivo

che genera nel bambino una sensazione di vicinanza e comprensione;

Le regole: in una classe, le regole non dovrebbero essere molte, ma

dovrebbero essere chiare e condivise e si dovrebbe mantenere coerenza nel

farle rispettare. Se ad esempio si utilizza la strategia della token economy, i

premi dovrebbero essere riconosciuti subito, il feedback agli atteggiamenti

positivi dovrebbe essere immediato. È importante inoltre, che le regole siano

applicate sempre, senza eccezioni. Questo crea un ambiente in cui il bambino

si sente emotivamente sicuro;

L’attesa: l’insegnante dovrebbe saper attendere, nel rispetto dei tempi di

ciascuno. E dovrebbe educare i bambini all’attesa. Mantenere lo sguardo

sereno e il volto accogliente senza esprimere o generare ansia, nell’attesa che

il bambino elabori le proprie risposte e trovi le proprie soluzioni. Riguardo a

questo aspetto, conducendo quest’anno percorsi di robotica educativa nelle

classi, mi sono accorta che molte insegnanti vivono con ansia il tempo che

serve al bambino per elaborare una propria risposta, oppure non sanno

attendere che gli alunni riescano, da soli, a trovare una propria strategia

risolutiva. Di fronte alla prima difficoltà, intervengono quasi subito, fornendo

ai bambini la risposta, senza lasciar loro il tempo di “scoprire” la soluzione

20

Zavalloni G., La pedagogia della lumaca, Emi, Bologna 2008, pag. 21.

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più adeguata. Il tempo dell’attesa è prezioso, è può generare buone

opportunità;

I legami: un ambiente dove si creano legami positivi, è un ambiente sereno.

Non è mai tempo perso quello passato a gestire e affrontare i conflitti: perché

se è vero che questi sono inevitabili, è anche vero che si può insegnare ai

bambini a gestirli e superarli, prima che diventino spaccature che possano

rovinare il clima della classe;

Il gioco: un elemento fondamentale è quello in cui l’insegnante lascia spazio

al gioco e gioca con i bambini. Sia il gioco libero, sia il gioco che, non è

necessario che venga esplicitato ai bambini, possa favorire in loro lo sviluppo

di particolari abilità;

Il sorriso: un ambiente in cui si sorride, che dà spazio allo scherzo, all’ironia,

alla sorpresa, è un ambiente pienamente e-motivante. L’insegnante e-

motivante è un’insegnante che prende le cose degli altri sul serio, ma non si

prende troppo sul serio;

Il successo: i bambini che vivono esperienze di successo, sono bambini che

imparano a credere in se stessi e sviluppano la capacità di essere resilienti

nell’ affrontare gli ostacoli. Il successo però deve essere autentico:

l’insegnante dovrebbe proporre attività con la consapevolezza che, con un po’

di sforzo, quel bambino potrebbe farcela, anche grazie all’aiuto degli altri e

collaborando con loro. L’insegnante dovrebbe sempre aver ben presente qual

è la “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij) di ciascun bambino e in quella

zona muoversi e strutturare la sua didattica;

Il fare: l’ambiente e-motivante si costruisce con la mente e con la mano: “la

mano comunica; la mano crea; la mano scopre; la mano lavora; la mano

gioca”;21

La valorizzazione prima della valutazione: un insegnante non dovrebbe mai

scrivere “bravo” o “bravissimo” riferendosi ad un compito sul quaderno: i

bambini potrebbero identificare se stessi nei loro prodotti. Un insegnante

aiuta i bambini a comprendere, fin da subito, che la valutazione ad un

compito non corrisponde alla valutazione alla persona. La mia scelta ad

21

Ivi pag. 66.

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esempio, è stata quella di non utilizzare i voti numerici nei primi anni della

scuola primaria. Nelle verifiche esprimo la valutazione sotto forma di

frazione: al denominatore gli esercizi totali, al numeratore quelli svolti

correttamente. E sugli errori, realizziamo attività di comprensione e

rielaborazione che ci aiutano a comprenderli e superarli;22

L’autorevolezza: l’insegnante deve essere consapevole che il ruolo che svolge

nella classe è fondamentale. Una classe è composta da un insieme di equilibri

per loro natura instabili e i bambini continuamente sperimentano il senso del

limite, proprio per trovarne uno in cui sentirsi orientati e protetti.

L’insegnante autorevole è quello che sa gestire equilibri e limiti, dando alla

classe la serenità di un ambiente giusto, tranquillo e regolato. Questa forse, è

una delle competenze professionali più complesse e difficili da acquisire.

2.3.2. La didattica delle scelte contestualizzate

Insegno matematica da circa dodici anni e ho seguito tantissimi corsi di formazione:

ho conosciuto il metodo del Bortolato, ho partecipato per diversi anni al Convegno

Nazionale della Matematica promosso da Bruno D’Amore, ho partecipato ai corsi di

formazione tenuti da Rosetta Zan e Alessandro Di Martino, ho sostenuto l’esame di

Didattica della Matematica con la professoressa Gavagna. Potrei asserire, con la

quasi certezza di non poter essere smentita, che parte delle metodologie didattiche

proposte da questi ricercatori, siano addirittura per certi versi antitetiche. Basti

pensare a come viene affrontata l’attività del problem solving nel metodo del

Bortolato e come invece viene presentata da Rosetta Zan. Così, negli anni, ho capito

una cosa: tutti questi approcci, in qualche modo, sono significativi, ma

probabilmente nessuno è esaustivo od onnicomprensivo. Ho capito che in questo

senso, l’insegnante ha un’enorme responsabilità: è chiamato a contestualizzare la

didattica, a scegliere quali metodologie, quali strategie e quali strumenti ritiene più

efficaci in un determinato momento, per un determinato gruppo di bambini (o per un

singolo bambino), per sviluppare una determinata abilità o competenza. Ovviamente

22

Riguardo all’errore, come suggerisce Rosetta Zan, si deve spostare l’attenzione dall’errore, allo

studente che commette l’errore. Uno dei testi di maggior riferimento per me nella mia didattica è il

seguente: Zan R., Difficoltà in matematica, Springer, Milano 2007.

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più ne conosce e più è in grado di mettere in atto contestualizzazioni adatte.

L’importante è che si muova sempre nel rispetto di un principio fondamentale:

proporre attività che siano alla portata dei bambini ma che abbiano la maggiore

efficacia possibile, per aiutarli a raggiungere il massimo sviluppo delle loro

potenzialità. Si deve ricordare inoltre, che spesso la didattica deve essere adattata in

base ai bisogni educativi speciali di ciascun bambino: l’insegnante deve conoscere

vari tipi di strumenti didattici per poter trovare quelli compensativi adeguati.

2.3.3. La didattica della matematica

Da quando sono insegnante di ruolo, ho quasi sempre insegnato in classi molto

numerose. Quest’anno ad esempio, insegno in una classe seconda di 29 bambini. Un

numero esorbitante, con poche possibilità di lavorare con un gruppo più ridotto. In

questi anni quindi, ho cercato di modellare il mio insegnamento adottando delle

accortezze di base che, premetto, sono del tutto opinabili, e magari un giorno le

supererò e ne adotterò altre.

L’istruzione programmata: come si legge nel testo del professor Giuliano

Franceschini, nell’ottica del costruttivismo, “l’aspetto metodologico

dell’istruzione programmata è quello di suddividere minuziosamente

l’obiettivo finale in tanti sotto-obiettivi” 23

. Quando ad esempio introduco un

nuovo contenuto o una nuova abilità, lo faccio strutturando micro-attività che

ordino in modo consequenziale per grado di difficoltà. Per fare un esempio

qualsiasi, ecco come strutturo l’insegnamento dell’algoritmo della

sottrazione con tre cifre: chiedo prima di tutto ai bambini se saprebbero

svolgerle l’operazione mente, generando così la consapevolezza che le

operazioni si incolonnano solo quando è necessario (il calcolo in colonna

non deve essere un automatismo, ma uno strumento di supporto laddove la

manipolazione dei numeri a mente non consenta di trovare la soluzione);

successivamente chiedo ai bambini chi di loro voglia venire alla lavagna a

mostrarci come si può incolonnare una sottrazione a tre cifre; una volta

condivisa la tecnica di incolonnamento, iniziamo ad operare. Il grado di

23

Cfr. Franceschini G., Insegnanti consapevoli, Clueb, Bologna 2012, pag. 167.

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37

difficoltà sarà progressivo: prima si proporranno alcune sottrazioni che non

richiedono alcuna scomposizione da una classe all’altra, quindi nelle quali

ogni cifra del minuendo è sempre maggiore di quella del sottraendo (di regola

si chiama prestito, termine che io non utilizzo); in questa fase, si danno

quattro sottrazioni e poi subito dopo si effettua la correzione (in base alla

risposta della classe, se ne possono fare anche di più, ma sempre poche alla

volta e con la correzione immediata). Quando queste saranno consolidate, si

passerà a quelle con un livello ulteriore di difficoltà. Così via, fino a proporre

tutta la possibile casistica, persino con sottrazioni che non possono essere

svolte con i numeri naturali (mettendo alla prova i bambini con sottrazioni in

cui il sottraendo e maggiore del minuendo e ragionando con loro sul fatto

che, per poterle fare, occorrerebbe andare nel “mondo dei numeri che stanno

sotto lo zero”). Questo è solo un esempio, ma utilizzo questa metodologia in

molte altre situazioni d’insegnamento;

Attività pratica di esercizio operatorio: volendo proseguire con l’esempio

della sottrazione, a questo punto propongo ai bambini esercizi operatori (che

di solito nei libri di testo vengono chiamati problemi, ma che in realtà non lo

sono) nei quali sia necessario utilizzare la sottrazione (o altri tipi di

operazioni, onde favorire comunque il ragionamento critico) per avere

un’informazione. Propongo ai bambini delle situazioni concrete, nelle quali

essi devono capire quale operazione eseguire per trovare l’informazione

richiesta. Riprendendo la didattica psicologica di Aebli, Franceschini riporta

le definizione di esercizio operatorio: “attività didattiche che consentano agli

alunni di sperimentare quanto appreso in precedenza esercitandosi nei

compiti nei quali le operazioni mentali già apprese vengono applicate nella

soluzione di problemi nuovi”24

. Nel caso della sottrazione quindi, calcolare

differenze, togliere quantità etc…

Organizzazioni di gruppi di lavoro specifici: la classe viene divisa in gruppi

in relazione ai bisogni di ciascun bambino. A ciascun gruppo viene assegnata

un’attività specifica. Nel gruppo si può lavorare da soli o a coppie;

24

Ivi pag 179.

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Lezione strutturata: in questi anni di università, ho avuto modo di conoscere e

studiare i testi del professor Calvani25

. Mi sono stati molto utili: per

temperamento, tendo ad avere difficoltà nel mantenere coerenza e continuità

e tendo ad essere dispersiva. Lo studio di questi testi mi ha dato l’opportunità

di lavorare su me stessa e di acquisire competenze sulla gestione organizzata

della lezione: nel momento di avvio della lezione presento ai bambini quello

che faremo e attivo le loro preconoscenze a riguardo (o comunque genero un

“aggancio” con elementi con cui i bambini hanno confidenza); riguardo alla

parte centrale, lo svolgimento dipende dalla tipologia di conoscenza o abilità

che voglio far acquisire oppure dalla competenza che voglio promuovere

(può essere una lezione di modellamento, di scoperta guidata, esplorativa

etc…); concludo sempre la nostra lezione, con un momento in cui

ripercorriamo ciò che abbiamo fatto, lo puntualizziamo e lo definiamo;

Attività di problem solving: in questo caso invece, si propongono ai bambini

vere e proprie attività di problem solving, nelle quali i bambini devono

cercare e adottare strategie adeguate per raggiungere la soluzione di un

problema. Di solito, queste attività vengono realizzate a coppie (in modo da

favorire il tutoraggio tra pari) o al massimo, in gruppi di tre;

Per fare un esempio di attività di problem solving, riprendo un piccolo

percorso che ha avuto origine da un quesito delle prove Invalsi che ho

proposto ai bambini e che dovevano risolvere in una attività a gruppi.

Quesito Invalsi di partenza

25

Calvani A., Come fare una lezione efficace, Carocci Faber Roma, 2014; Calvani A., Principi

dell’istruzione e trategie per insegnare, Carocci, Roma 2011.

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39

Dopo aver risolto il quesito, attraverso delle rappresentazioni grafiche sul

quaderno, i bambini hanno detto che sarebbe stato bello preparare una

macedonia in classe. Ho risposto loro che ero d’accordo, ma che avremmo

dovuto capire che frutta comprare e quanta comprarne;

Ho dato ai bambini la ricetta per realizzare una macedonia per 10 persone e

loro avrebbero dovuto calcolare la quantità di frutta per tutti noi, che siamo

30. Ci sono volute diverse ore, molti tentativi e tante strategie, ma alla fine ce

l’abbiamo fatta. Abbiamo preparato la nostra macedonia con gli ingredienti

giusti!

La ricetta della macedonia

Queste attività richiedono tempo nell’esecuzione e una grande organizzazione

da parte dell’insegnante, ma se “la competenza è il saper agire in una

situazione mai affrontata prima, utilizzando il proprio bagaglio di

conoscenze/abilità/atteggiamenti26, l’insegnante deve creare queste situazioni

in classe, in modo da favorirne lo sviluppo. La scuola delle competenze non è

solo la scuola che insegna le cose, ma che insegna a ragionare sulle cose;

26

Trinchero R., Costruire e certificare competenze con il curricolo verticale del primo ciclo, Rizzoli

Education, Milano 2017, pag.10.

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Utilizzo di artefatti concreti e manipolabili: è fondamentale che la

costruzione del concetto di numero sia collegata alla manipolazione e, per

certi versi, anche alla visualizzazione della quantità. Questo vale anche per la

geometria: le figure devono essere manipolate, scomposte, ricomposte,

ritagliate. Di seguito, riporto alcuni esempi di attività manipolative o artefatti

che abbiamo realizzato e che utilizzo quest’anno nella mia classe;

La busta della matematica

La “busta della matematica” contiene tutti gli “artefatti” che utilizziamo

quotidianamente: multibase, tangram, orologio, ruota per le rotazioni,

tabelline, tavola del 100 etc…

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La costruzione dei concetti geometrici

I concetti geometrici si costruiscono attraverso l’osservazione e la

manipolazione: “La parola non serve a nulla, il disegno non basta, è

necessaria l’azione… perché il bambino giunga a combinare delle operazioni

è necessario che abbia manipolato, che abbia agito, sperimentato non solo

sui disegni ma su materiale reale, su oggetti fisici …”27

Contare con le cannucce

I numeri entro e oltre il 100, le unità le decine e le centinaia presentate

attraverso l’utilizzo delle cannucce: cercare la strategia migliore con contare,

raggruppare, esprimere stime, visualizzare quantità per poi passare a

comprendere il reale valore posizionale delle cifre;

27

PIAGET J., Avviamento al calcolo, La Nuova Italia, Firenze, 1956 p.31.

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Manipolazione concreta

La manipolazione concreta, consente e facilita la successiva comprensione

profonda del significato dei simboli della matematica. In questa immagine ad

esempio, la manipolazione di oggetti in relazione alla divisione.

Concludo questo paragrafo con una frase di Franco Lorenzoni che per me è molto

significativa:

“I bambini della scuola elementare incontrano per la prima volta la

storia, le scienze, l’arte e il pensiero che pensa se stesso. Cominciano ad

esplorare in modo diverso e più strutturato la matematica e la lingua,

che praticano da quando sono nati. Come far sì che questi incontri si

presentino a loro conservando il sapore di scoperte che hanno

trasformato la percezione umana del mondo?”28

Sperimentare – scoprire – registrare

28

Zavalloni G., La pedagogia della lumaca, op. cit. pag. 82.

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2.4.La formazione

Il fatto stesso che mi trovi a scrivere questa relazione, rivela quanto per me sia

importante la formazione. Ho intrapreso questo lungo e duro percorso perché, dopo

aver frequentato tanti corsi di formazione, ho sentito l’esigenza di dare alla mia

formazione una sistematizzazione: una sorta di struttura portante in cui inserire tutte

le mie conoscenze, sia quelle acquisite che quelle future.

2.4.1. La formazione come trans-formazione

All’inizio del mio percorso professionale la formazione è stata per me un elemento

indispensabile e necessario, ricercato più per un senso di insicurezza che per

l’acquisizione di consapevolezza professionale. Le studentesse che escono da questo

corso di laurea forse possono avere una carenza esperienziale, ma quando ho iniziato

ad insegnare io, la carenza era anche epistemologica e metodologica: quattro anni di

Istituto Magistrale mi avevano dato ben pochi strumenti. Ancora oggi però,

nonostante i lunghi anni di insegnamento e i percorsi di formazione effettuati,

continuo a sentire forte l’esigenza di sapere, imparare, conoscere ed esplorare, presa

da una sorta di curiosità che si alimenta continuamente ma non si sazia mai. Forse

perché ho sperimentato quella impagabile sensazione che si prova quando si vive

ogni formazione non solo come in-formazione, ma come trans-formazione: se si vive

la form-azione come azione della mente che accoglie, interiorizza, colloca, modella e

valuta ogni elemento nuovo, non si può che uscirne trasformati, modificati, diversi.

Ed è meraviglioso sentirsi ogni giorno novità per se stessi e per gli altri.

2.4.2. L’innovazione tecnologica

Talvolta si imboccano delle strade senza averne all’inizio piena consapevolezza:

questo è stato il mio approccio all’innovazione tecnologica all’interno della scuola.

Ho partecipato ai corsi di formazione del PNSD e ad altri corsi, tra i quali corsi

sull’innovazione tecnologica organizzati dalla rete Costellazioni Valdera29

e corsi

sulla Flipped Classroom organizzati da diversi enti; ho frequentato inoltre corsi di

29

Per maggiori informazioni si consulti il seguente sito: http://www.retecostellazioni.it/j2/ (verificato

in data 15 marzo 2018).

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robotica educativa organizzati dall’Istituto di Biorobotica Sant’Anna; è stata inoltre

significativa la partecipazione al laboratorio di Tecnologie Didattiche frequentato in

questo corso di laurea.

Quest’anno ho avuto l’incarico dalla Dirigente come animatore digitale.

La prima cosa che ho fatto è stata quella di promuovere e coordinare la nostra

partecipazione alla “CodeWeek”. Le adesioni nel nostro Istituto sono state tante:

molte delle nostre scuole hanno persino ricevuto certificati di eccellenza30

.

A Ottobre ho organizzato dei percorsi di formazione per la formazione digitale nel

nostro Istituto e per la conoscenza di strumenti digitali utili nella didattica,

utilizzando solo risorse interne. Sono coinvolti in questa formazione dieci insegnanti

formatori e più di settanta insegnanti iscritti ai corsi.

Formazione digitale Istituto Pertini

30

I percorsi effettuati in Istituto sono visionabili al seguente link:

https://padlet.com/s_campana_74/ehu5lwwrby5d (verificato in data 15 marzo 2018).

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Anche se non si è ancora conclusa, questa esperienza formativa è stata significativa

perché:

Ha favorito la condivisione di competenze, abilità e conoscenze, valorizzando

le risorse umane presenti nell’Istituto;

Ha promosso la conoscenza tra insegnanti dei tre diversi ordini di scuola;

Ha permesso a molti insegnanti, grazie alle molteplici risorse presentate, di

costruirsi un percorso formativo adeguato e adatto alle proprie esigenze;

Ha migliorato le competenze digitali degli insegnanti.

In relazione alla mia formazione digitale, da due anni svolgo anche percorsi di

coding e robotica educativa nel mio plesso. Ho cercato di impostare questi percorsi

seguendo delle indicazioni metodologiche ben precise:

Favorire il pensiero computazionale (risolvere problemi pianificando

strategie);

Accompagnare le esperienze di programmazione ad esperienze propriocettive

(favorire il movimento e l’orientamento del corpo nello spazio);

Favorire il problem solving e la scoperta guidata;

Favorire l’interazione tra apprendimenti disciplinari e competenze digitali;

Lavorare in modalità cooperativa;

Favorire la rielaborazione verbale (scritta e orale) e iconica;

Promuovere i processi creativi e divergenti.

Durante questi anni di formazione e di esperienze nelle varie classi, ho maturato una

mia posizione riguardo all’uso di strumenti digitali nella didattica: gli strumenti

digitali, alla stregua di qualsiasi altro strumento si possa usare in didattica, non sono

efficaci a prescindere. La loro efficacia è collegata alle modalità di utilizzo, alla

competenza da acquisire, alla contestualizzazione, ai destinatari. Sono strumenti e, in

quanto tali, non vanno né esaltati né demonizzati. Essi sono complementari a tutte le

altre attività che sono assolutamente necessarie nell’apprendimento: la motricità fino

e grosso-motoria, la scrittura sul quaderno, la manipolazione di oggetti, il contatto

con la realtà circostante, le uscite didattiche, la rielaborazione grafica manuale, la

riflessione sull’appreso e sul modo di apprendere. Ma è anche mia convinzione che

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la scuola sia il migliore, se non unico, contesto in cui i bambini possano apprendere

l’uso consapevole, costruttivo e finalizzato alla crescita intellettiva, delle tecnologie.

Spesso i bambini di nove anni hanno già in mano uno strumento digitale, per di più

connesso. La scuola non può far finta di niente di fronte a questa realtà. E

accompagnare i bambini e i loro genitori verso un uso “educato” e consapevole delle

tecnologie dovrebbe essere considerato un imperativo, già nella scuola primaria.

Nella mia didattica, gli strumenti tecnologici integrano le strategie e le metodologie

che utilizzo.

Faccio spesso uso della LIM per tenere traccia dei percorsi che svolgiamo, per

favorire l’apprendimento visivo e per utilizzare altri canali di comunicazione.

Riguardo alla sua interattività, credo che anche una lavagna in ardesia possa essere

interattiva: di solito infatti, cerco di fare in modo che siano i bambini ad usarla. La

sua ricchezza semmai, sta nel fatto che, se connessa, possa essere una straordinaria

finestra sul mondo. A geografia ad esempio, utilizzo moltissimo Google Earth e

Street View, già dalla classe seconda: i punti di vista, l’orientamento spaziale, la

conoscenza del proprio paese, i punti di riferimento, i luoghi significativi del nostro

paese, le nostre abitazioni.

Le immagini di fianco sono

screenshot effettuati sulla LIM. Gli

strumenti digitali infatti, sono un

ottimo strumento per lavorare a

geografia: consentono di avere

punti di vista sulle cose che

altrimenti sarebbero solo

immaginabili. Grazie a Google

Earth, abbiamo potuto costruire una

pianta molto grande del nostro

paese e l’abbiamo utilizzata del

programmare percorsi con la

Beebot, calando pertanto la robotica

educativo in un contesto altamente

significativo e reale.

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Da Google Earth al quaderno: rappresentare i punti di vista

Percorso robotica educativa geografia 1

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Percorso robotica educativa geografia 2

La legenda

La robotica educativa è un ottimo strumento per lavorare in gruppo e collaborare

nella condivisione di ipotesi e strategie per raggiungere uno scopo; il fatto che un

robot esegua sempre e solo quello che gli viene programmato di fare, consente ai

bambini di ragionare subito sull’errore in modo costruttivo.

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Coding

Robotica come scoperta e riflessione

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Registrare ed elaborare le scoperte

Robotica e problem solving

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Cooding in cooperative learning

L’anno scorso, visto che nel nostro Istituto si stanno consolidando attività di robotica

educativa, ci è stata offerta l’opportunità, dal parte del CRED Valdera, di partecipare

all’ultimo incontro di un progetto Erasmus che si è tenuto in Turchia, il cui tema era

quello delle STEM. Io ed una mia collega abbiamo preparato del materiale da

condividere31

e lo abbiamo presentato durante un meeting a Sanliurfa. È stato un

momento straordinario. È stata un’esperienza che ma hi riempita di entusiasmo e

desiderio di continuare a crescere e di far crescere, insieme a me, nelle competenze

matematiche e scientifiche, i bambini che ho e che avrò come alunni.

Il simbolo nel palazzo Stem a Sanliurfa

31

La presentazione è consultabile al seguente link:

https://docs.google.com/presentation/d/1B2wi92mM5I6l7ZI1N8kljIVDBbKRPdR8LHkUmtDS528/e

dit?usp=sharing (verificato in data 15 marzo 2018).

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CAPITOLO 3

L’ESPERIENZA DI TIROCINIO NELLA SCUOLA

DELL’INFANZIA

3.1.Rapporti con l’Istituzione scolastica

La scuola dell’infanzia in cui ho svolto il tirocinio fa parte dell’Istituto Comprensivo

“Sandro Pertini” di Capannoli, nel quale presto servizio come insegnante di scuola

primaria dal 2007, due anni dopo la mia immissione in ruolo.

L’Istituto ha un’estensione molto vasta: comprende i territori dei comuni di

Capannoli, Laiatico e Terricciola che si estendono su zone collinari che dominano il

corso dell'Era, nel tratto compreso tra i confini del Comune di Ponsacco e quelli del

Comune di Volterra. I Comuni non sono molto popolosi, ma da oltre un decennio si

osserva un incremento della popolazione dei tre Comuni dovuto ad un flusso costante

di immigrazione da Paesi extracomunitari, in particolare dal Marocco, Albania,

Romania, Ucraina, Sud -Est asiatico e Senegal. La popolazione attiva risulta

occupata nei settori artigianali, industriali, in esercizi commerciali, del Territorio e

turistici. Gli studenti stranieri che frequentano l'Istituto rappresentano una

popolazione scolastica stabile nel tempo e frequentano, successivamente, le scuole

secondarie di secondo grado del Territorio.

Il contesto socio-economico e culturale delle famiglie degli studenti è medio alto.

Dai dati in possesso dell'Istituto la percentuale di studenti con entrambi i genitori

disoccupati è uguale a 0 nei tre ordini di scuola. Si osserva un pendolarismo diffuso.

L’Istituto comprende le seguenti scuole:

N° scuole dell’infanzia 3 n° alunni 231 n° insegnanti 28;

N° scuole primarie 5 n° alunni 568 n° insegnanti 59;

N° scuole secondarie di 1° grado 3 n° alunni 322 n° insegnanti 36;

N° complessivo alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) presenti

nell’Istituto 143.

Nell’anno 2016, ho collaborato, come membro dello staff, alla stesura del Piano

Triennale dell'Offerta Formativa (PTOF) che è stato predisposto della Legge 107

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del15/07/201532

. Il PTOF essere definito come uno strumento di coordinamento delle

attività individuali e collegiali che la comunità scolastica, costituita da studenti,

personale scolastico a vari livelli e genitori, sta effettuando in questo triennio, dall'

A.S. 2016/17 fino al 2018/19. Questo piano esprime la volontà di soddisfare i reali

bisogni formativi dell’utenza e del Territorio che, nel caso di questo Istituto, è molto

vasto e di valorizzare le risorse umane e professionali della Scuola, attraverso un

rapporto costruttivo e collaborativo con le Famiglie, con gli Enti Locali, in

particolare con le Amministrazioni Comunali, con le Agenzie educative, formative e

culturali e con le Associazioni presenti sul Territorio.

La funzione fondamentale del PTOF è quella di:

1) Informare sulle modalità di organizzazione e funzionamento dell’Istituto;

2) Presentare “la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa” che

l’Istituto mette in atto per soddisfare precisi bisogni formativi

3) Orientare, rispetto alle scelte fatte, a quelle da compiere durante il percorso

ed al termine di esso.

Affinché queste finalità vengano raggiunte, sono necessari sia l’apporto di ogni

componente della comunità scolastica, sia il dialogo fra componenti interne ed

esterne alle scuola e fra elementi delle singole componenti al proprio interno.

Un altro strumento fondamentale per l’Istituto Comprensivo, al fine di orientare le

proprie azioni in modo consapevole, è il Rapporto di Autovalutazione Interna

(RAV). Il rapporto di autovalutazione è articolato in 5 sezioni. La prima sezione,

contesto e risorse, permette alle scuole di esaminare il loro contesto e di evidenziare i

vincoli e le risorse presenti nel territorio per agire efficacemente sugli esiti degli

studenti. Gli esiti degli studenti rappresentano la seconda sezione. La terza sezione è

relativa ai processi messi in atto dalla scuola. La quarta sezione invita a riflettere sul

processo di autovalutazione in corso e sull'eventuale integrazione con pratiche

autovalutative pregresse nella scuola. L'ultima sezione consente alle scuole di

individuare le priorità su cui si intende agire al fine di migliorare gli esiti, in vista

della predisposizione di un piano di miglioramento. Riguardo alle rubriche di

32

Il materiale a cui si fa riferimento è visionabile sul sito dell’Istituto Comprensivo “Sandro Pertini”

di Capannoli, al seguente link:

http://www.istitutocapannoli.it/index.php?option=com_content&view=featured&Itemid=1300

(verificato in data 15 marzo 2018).

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valutazione presenti nel RAV, il nostro Istituto ha una valutazione positiva in tutte le

voci presenti. Le priorità emerse dal RAV sono le seguenti:

Garantire il successo formativo nel passaggio dalla Scuola Primaria alla

Scuola Secondaria di Primo grado;

Incrementare il successo degli studenti nel successivo percorso di studi.

Ridurre la variabilità fra le classi.

In relazione alle priorità individuate per il piano di miglioramento, gli obiettivi di

processo sono questi:

Migliorare l'esito degli apprendimenti di italiano e matematica nella Scuola

Primaria e Secondaria di I°grado;

Rimodulare il curricolo di italiano e matematica sulla base delle risultanze del

lavoro svolto dalla Rete Costella@zioni;

Continuità e orientamento.

In base a quanto emerso dal RAV, il Nucleo Interno di Valutazione segue la

progettazione del Piano di Miglioramento (PdM). Proprio in relazione a quanto

programmato nel Piamo di Miglioramento, durante l’attuale anno scolastico, sono

state consolidate le seguenti attività:

Revisione dei curricoli di italiano e matematica;

Incontri in continuità tra scuola dell’infanzia, primaria e secondaria;

Elaborazione di schede di presentazione degli alunni per il passaggio da un

ordine di scuola al successivo, con compilazione prevista in uscita e in entrata

(e lettura dei dati di ritorno);

Incontri per dipartimenti disciplinari, per la definizione di prove di verifica

condivise, per l’elaborazione di percorsi per lo sviluppo delle competenze e

relative prove di verifica; analisi degli items delle Prove Invalsi in cui

l’Istituto ha avuto un punteggio minore ed elaborazione di percorsi specifici;

Attivazione di corsi di formazione interni all’Istituto in relazione al

miglioramento dell’uso delle tecnologie nella didattica.

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All’interno del mio istituto, in questi anni, ho partecipato alle riunioni di staff: prima

come coordinatrice di plesso (dal 2013 al 2017) e quest’anno come animatore

digitale. Questo mi ha consentito di conoscere profondamente la realtà del mio

Istituto e di poter quindi compiere azioni di supporto a favore della sua

organizzazione.

Ho dato una mia interpretazione personale al termine “animatore”: gli strumenti

digitali, in quanto tali, non hanno alcuna valenza. È l’uso che se ne fa ad averla.

Essere “animatore” in questo caso, credo che significhi creare una comunità di

insegnanti che si approcciano al mondo tecnologico, per molti sconosciuto, con fare

curioso, aperto, senza pregiudizi, con il desiderio di conoscere, sperimentare,

mettersi alla prova e valutare, in modo responsabile, l’effettiva utilità ed efficacia di

alcuni strumenti digitali al fine di semplificare e favorire l’insegnamento, la

comunicazione e la condivisione. E devo ammettere che quest’anno, durante gli

incontri di formazione che sono stati fatti in Istituto, ho sperimentato la meraviglia e

la soddisfazione di vedere tanti colleghi cimentarsi in situazioni per loro del tutto

nuovo, condividendo incertezze e supportandosi tra loro. E mi sono sentita

“animatrice ri-animata”, piena di ottimismo ed entusiasmo.

3.2.Il tirocinio nella scuola dell’Infanzia

L’esperienza di tirocinio nella scuola dell’Infanzia, seppur faticosa a causa del mio

lavoro, è stata importantissima e significativa. Lo è stata a tal punto che ho iniziato a

pensare che potrei, in futuro, decidere di insegnare in questo segmento di scuola.

Sono attratta dalla possibilità di stare con i bambini molto tempo, condividendo con

loro tempi distesi ma pieni di potenzialità formativa: educare, attraverso la

quotidianità dei gesti e dei momenti condivisi, all’osservazione, alla riflessione,

all’espressione e alla condivisione. Quello da tre a sei anni è un momento talmente

significativo da un punto di vista di crescita intellettiva, che ogni occasione può

diventare un momento prezioso di formazione.

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Sede del tirocinio

La sede del mio tirocinio è stata la scuola dell’Infanzia di Capannoli, ubicata proprio

vicino alla scuola in cui presto servizio: in passato, sono state molte le occasioni di

incontro con le insegnanti della scuola, soprattutto in relazione ad attività in

continuità (progetti, scuola aperta, presentazione degli alunni al passaggio dalla

scuola dell’infanzia alla scuola primaria). La scuola è composta da sei sezioni miste,

per un totale di 132. La struttura scolastica non è molto funzionale e non dispone di

spazi adeguati (per l’anno futuro è prevista la sua demolizione e ricostruzione): le

aule sono piccole e c’è un unico spazio grande condiviso da tutte le sezioni, nel quale

si trovano gli attrezzi per fare attività motoria e una LIM che, proprio per la sua

disposizione in uno spazio così dispersivo e di passaggio, viene poco utilizzata. La

mensa invece, è ampia e luminosa. Il momento della mensa è ben organizzato: ad

ogni tavolo c’è un bambino responsabile che si preoccupa di prendere l’acqua al

fontanello ed il pane. Per favorire l’educazione alimentare e per promuovere una

dieta varia, i piatti vengono serviti tutti insieme in un unico contenitore diviso in tre

parti: un primo, un secondo e un contorno. I bambini possono iniziare a mangiare ciò

che preferiscono.

3.2.1. Il progetto Galileo nella scuola dell’Infanzia

Le scuole dell’Infanzia del nostro Istituto aderiscono al Progetto Galileo. Il progetto

ha avuto origine da due psicologi: Bickel Jacqueline e Giuntoli Giuliano. Alla base di

questo progetto, ci sono le teorie di Piaget (sviluppo cognitivo) e Gardner

(intelligenze multiple): l’apprendimento rappresenta la costruzione della mappa

cognitiva mentale, operata da ogni bambino fino dal momento della sua nascita,

durante tutte le ore di veglia; ed è proprio nei primi anni che vengono formati circuiti

nervosi estremamente resistenti e tenaci, sui quali potranno innestarsi tutti i

successivi apprendimenti. La mappa cognitiva è vista come una fitta rete di

connessioni fra neuroni. Ogni rete di neuroni all’interno della mappa cognitiva

corrisponde a comportamenti e a conoscenze. Le reti continuano ad arricchirsi nel

tempo con l’apprendimento e, se ben costruite, possono essere rese attive e

recuperate al momento opportuno. La mappa cognitiva è suddivisa in sottomappe,

che corrispondono a diversi prodotti dell’intelligenza, “intelligenze multiple”. Nel

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Progetto Galileo queste vengono raggruppate in tre prodotti dell’attività mentale: il

sé, intelligenza interpersonale e intrapersonale; il pensiero, intelligenza motoria,

spaziale, musicale; il linguaggio, intelligenza linguistica e logica. Attraverso

l’utilizzo del metodo induttivo e attraverso l’attività in piccolo gruppo, sin dalla

scuola dell’infanzia si può lavorare con i bambini “per il successo formativo di tutti e

di ciascuno”33

.

L’adesione a questo progetto ha interessato solo da poco tutte le scuole dell’infanzia,

ma le insegnanti stanno già adottando strategie di lavoro basate sul piccolo gruppo e

sulla stimolazione di tutti i tipi di intelligenze e abilità.

3.2.2. La sezione rossa

La sezione rossa è composta da 22 bambini, dei quali tre con Bisogni Educativi

Speciali. Questa sezione aderisce al modello di scuola “Senza Zaino”: l’aula non è

molto grande, ma è organizzata in spazi adibiti ad attività diverse. I bambini, in

completa autonomia, gestiscono l’accesso a questi spazi, utilizzando dei distintivi

colorati che si attaccano addosso quando intendono accedere ad un determinato

angolo. Ad ogni spazio può accedere un numero limitato di bambini, per cui non vi si

può eccedere se sono finiti i distintivi. C’è lo spazio gioco della cucina, quello delle

costruzione, quello della lettura (con materassini e cuscini), quello del disegno,

quello del gioco libero. Uno degli spazi più importanti è “l’agorà”, lo spazio in cui

tutti i bambini si riuniscono in cerchio con le insegnanti, in vari momenti della

giornata: all’inizio della mattinata, per scegliere il responsabile, registrare le

presenze, segnare la data e spiegare quale attività verrà svolta durante la mattinata;

dopo lo svolgimento delle attività, per confrontarsi su ciò che è stato fatto; prima e

dopo il pranzo e, comunque, in ogni momento in cui sia necessario un confronto tra

tutti i bambini e con le insegnanti.

Alle parete sono presenti cartelloni a cui sono collegate le routine giornaliere.

Nell’aula sono presenti delle “buchette” (scaffali bassi con spazi rettangolari):

ciascun bambino ha la propria buchetta in cui tenere il proprio materiale e le cose che

33

Per maggiori informazioni sul Progetto Galileo, si possono consultare i seguenti link:

http://www.comprensivogereschi.it/documenti/progetti/progetto_galileo.pdf

www.associazionegalileo.org (verificati in data 15 marzo 2018).

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si spostano da scuola a casa e viceversa. Prima di lasciare l’aula, ciascun bambino

prende ciò che deve dalla sua buchetta e la riordina.

Nell’aula sono presenti anche tre tavoli grandi, ai quali i bambini si siedono per

effettuare le attività che vengono progettate in modo differenziato in relazione

all’età.

I materiali (pennarelli, matite, cere) vengono tenuti dove i bambini possano accedere

con facilità, ma posso essere utilizzati solo negli appositi spazi. Alla fine dell’attività,

devono essere rimessi al loro posto.

L’ingresso dei bambini a scuola è previsto dalle 8.30 alle 9.30. In questo arco di

tempo, man mano che i bambini arrivano, possono giocare nei vari spazi liberamente.

Alle 9.30 i bambini si riuniscono con le insegnanti nell’agorà, dove vengono svolte le

attività routinarie: controllare chi è presente o assente, contare i presenti, collocare un

simbolo per ogni bambino presente in un apposito spazio, controllare che vi sia

corrispondenza tra il numero dei bambini e il numero dei simboli; aggiornare il

calendario con la data e la situazione metereologica; raccontare fatti o eventi che

sono accaduti e che i bambini desiderano comunicare a tutti; introdurre e spiegare

l’attività che verrà svolta. Nel periodo del mio tirocinio le attività riguardavano la

fruizione dell’opera d’arte (Mirò) e la rielaborazione personale.

Di solito nella seconda parte della mattina, le insegnanti della classe sono in

contemporaneità, questo permette di portare avanti le attività progettate dividendo la

classe in gruppi omogenei per età. I bambini lavorano divisi in gruppi ma comunque

in modo individuale. Solo in alcune occasioni li ho visti lavorare a coppie. Le attività

di solito si concludono con un piccolo confronto in agorà. Successivamente, prima di

andare a pranzo, i bambini riordinano la classe e, sotto la guida del responsabile, si

mettono in fila per andare a mangiare.

Dopo la mensa, i bambini giocano liberamente. Le attività del pomeriggio sono meno

strutturate, ma comunque sempre organizzate. L’insegnante può portarli in giardino,

oppure può leggere loro una storia che poi viene rappresentata in vari modi, o ancora

possono essere svolte attività creative di vario genere, utilizzando materiali e

tecniche diverse.

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3.2.3. Il mio intervento didattico e il progetto Marc

Credo fosse inevitabile che, più che come una tirocinante, le insegnanti mi vedessero

come una collega. Fin da subito ho collaborato con loro nella conduzione e nella

gestione delle attività in classe. Sono stati moltissimi i momenti di confronto e di

condivisione di idee. È stato un momento di grande arricchimento reciproco: è

capitato spesso che lavorassi con piccoli gruppi organizzando attività logico-

matematiche, di counting o di coding. Spesso, noi insegnanti della scuola primaria

non ci rendiamo conto di quanto lavoro pregresso sia stato svolto nella scuola

dell’infanzia. Sarebbe un’esperienza significativa per tutte le insegnanti della

primaria svolgere delle ore alla scuola dell’infanzia ed anche viceversa: le insegnanti

dell’infanzia potrebbero effettuare qualche ora nella scuola primaria. Un’attività “in

continuità” (quindi non solo di continuità) in cui gli ordini di scuola si compenetrano

e interagiscono.

L’intervento legato al progetto Marc, su richiesta delle mie colleghe, ha avuto come

contenuto un’attività di robotica educativa. Anche in questo caso, la progettazione e

la realizzazione di questo percorso è stato un momento di scambio formativo: le

insegnanti mi hanno aiutato a modellare la mia attività e loro hanno avuto

l’opportunità di sperimentare e valutare l’efficacia di un percorso di coding e

robotica anche alla scuola dell’infanzia.

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SCHEDA DI PROGETTAZIONE

STRUTTURA DELL’INTERVENTO DIDATTICO

FINALITÀ:

Sviluppare la capacità di orientamento nello spazio

Sviluppare la capacità di progettare ed eseguire semplici percorsi con il corpo

Sviluppare la capacità di progettare e far eseguire piccoli percorsi

Favorire la capacità di collaborare e cooperare in coppia

OBIETTIVO DIDATTICO:

Orientarsi in un reticolo

Programmare un piccolo percorso da far eseguire alla Beebot su un reticolo

STRUMENTI E MODALITÀ DI VERIFICA:

Strumenti: LIM, power point con immagini, reticolo a terra, cinque Beebot, materiale strutturato,

colori, fogli, reticoli per Beeboot.

Verifica: osservazione in situazione. L’insegnante osserverà i bambini e valuterà i seguenti aspetti:

Utilizzo corretto degli indicatori spaziali nel dare i comandi verbali: vai avanti, gira a

destra, gira a sinistra

Esecuzione corretta (con il corpo) dei comandi impartiti dai compagni

Utilizzo corretto dei quattro tasti direzionali della Beebot

Programmazione di almeno due movimenti della Beebot

Il processo di verifica da parte dell’insegnante si accompagna a quello di autoverifica: il bambino è

in grado di valutare se le sue azioni di programmazione delle Beebot sono corrette. A questa

autovalutazione segue l’autocorrezione (sostenuta dove necessario dall’insegnante).

STRATEGIE: mastery learning (procedura per tentativi- errori- autocorrezione-rimodulazione del

percorso) peer tutoring, learning by doing.

TEMPI: attività della durata di un’ora, in orario antimeridiano, per un totale di 15 ore.

PREDISPOSIZIONE DELL’AMBIENTE FISICO: (luce, organizzazione spazi, arredi …):

Spazio della palestra con reticolo predisposto a terra

Spazio dell’aula con reticoli predisposti a terra

RIDUZIONE DI EVENTUALI FATTORI DI DISTURBO: quando è stato necessario l’utilizzo

della LIM, data la sua ubicazione, non è stato possibile ridurre elementi di disturbo. La LIM era

infatti collocata in uno spazio aperto, rumoroso e di passaggio.

Data la caratteristica delle attività, che prevedeva lavori in piccolo gruppo, è stato necessario

richiamare i bambini affinché modulassero il tono della voce, soprattutto nei momenti di

“contrattazione” delle attività nei gruppi.

SCANSIONE DELLE ATTIVITÀ

La descrizione delle attività è riportata di seguito

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SCANSIONE DELLE ATTIVITÀ

FASE 1

Il percorso ha avuto inizio con delle attività di orientamento spaziale. Le attività sono

state programmate per fasi successive di difficoltà:

Esercizi in cui il bambino si muove nello spazio (reticolo) e descrive i

movimenti che sta facendo (giro a destra/ sinistra, faccio un passo (o più)

avanti;

Esercizi in cui un bambino dà delle indicazioni ad un altro, in modo da

fargli realizzare un percorso prestabilito;

Esercizi con l’uso delle carte di Cody Roby (3 carte direzionali: avanti,

gira a destra, gira a sinistra). I bambini (attività a coppie) devono

ricostruire il percorso indicato dalla maestra. Alla fine, un bambino

“legge” le carte e uno esegue il percorso.

È fondamentale che qualsiasi attività venga sperimentata prima di tutto con il corpo:

molti bambini hanno presentato difficoltà nel riconoscere la destra e la sinistra.

Inoltre, alcuni bambini hanno dovuto ripetere più volte i percorsi per acquisire la

corrispondenza passo-casella.

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FASE 2

Successivamente, ho presentato ai bambini le Beboot. Le abbiamo descritte insieme.

Le hanno definite “apette robot”. A questo punto è iniziata l’attività di scoperta,

prima libera e poi guidata, del loro funzionamento: in gruppi di tre, provavano a

premere i tasti per capire quale era la loro funzione. Alla fine dell’attività ci siamo

riuniti in agorà per condividere le scoperte.

FASE 3

A questo punto, ho innescato la fase narrativa del percorso. Secondo Bruner il

pensiero narrativo è uno dei due modi principali di pensiero con cui gli esseri umani

organizzano e gestiscono la loro conoscenza del mondo e strutturano la loro stessa

esperienza immediata. Introdurre fasi di narrazione all’interno delle attività, aiuta i

bambini a contestualizzare ciò che stanno facendo. Con il supporto delle LIM,

attraverso l’uso di immagini reali, ho narrato la storia di un’ape bottinatrice: abbiamo

osservato varie tipologie di fiori e alcuni li ho anche portati a scuola (ad esempio la

lavanda, la rosa e la bocca di leone). I bambini hanno potuto osservarli, annusarli ed,

infine, li hanno disegnati.

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FASE 4

La fase successiva è stata quella del gioco. I bambini erano divisi a coppie: uno stava

nel reticolo (l’ape) e l’altro doveva dargli le indicazioni per volare da un fiore ad un

altro.

FASE 5

A questo punto, abbiamo ripreso in mano le nostre Beboot e, come api bottinatrici, le

abbiamo fatte “volare” da un fiore all’altro. Anche in questo caso, il lavoro è stato

svolto in coppia, per gradi di difficoltà crescente. All’inizio i fiori erano distanti tra

loro due caselle poi, mano a mano che i bambini acquisivano sicurezza, la distanza

aumentava. È stato interessante osservare i bambini mentre adottavano strategie

diverse per rendere efficace la propria programmazione: chi ricostruiva il percorso

indicandolo prima con il dito e toccando le caselle, chi provava i movimenti

spostando con la mano la Beboot prima di programmarla, chi studiava il percorso

solo con lo sguardo.

FASE 6

Le attività di programmazione delle Beboot si sono svolte in più incontri. Alla fine di

ogni incontro però, c’era una fase di ricostruzione e di rielaborazione in agorà, sia

sull’attività svolta sia su come erano riusciti a gestire i turni e il gioco nel gruppo.

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CONCLUSIONI

Questi ultimi cinque anni sono stati tra i più intensi e difficili della mia vita: ci sono

stati giorni in cui, tra lavoro e studio, ho vissuto in apnea, respirando solo nei

momenti in cui mia figlia veniva ad abbracciarmi. Ma adesso che mi trovo a scrivere

questa pagina di conclusioni, non posso che essere felice di aver intrapreso questo

percorso. Perché mi ha dato la possibilità di vivere infinite esperienze che mi hanno

reso non solo un’insegnante professionalmente più preparata e competente, ma anche

una persona migliore.

Sono entrata a scuola a 3 anni. Oggi ne ho quarantatré. Quarant’anni senza mai

uscirne. La scuola è parte del mio mondo ed io mi sento parte del mondo della

scuola; seppur essa abbia i suoi difetti, sento che non saprei vivere in altri mondi e in

altri modi.

Se è la passione il motore che mi spinge, la formazione ne è il carburante: ritengo

talmente prezioso il materiale umano che ho tra le mani ogni giorno, talmente fragile

ma allo stesso così straordinariamente potente, che posso con presunzione affermare

di svolgere il lavoro più importante che esista. Con questa consapevolezza e con

questo senso di responsabilità, ho iniziato e portato avanti con determinazione questo

corso di studi.

Se penso alle conoscenze acquisite in questi cinque anni, credo che quelle

scientifiche siano state tra le più consistenti: la matematica, la fisica e la chimica per

me sono stati i corsi più faticosi, ma anche quelli che hanno riempito i miei spazi

cognitivi più vuoti. Per quanti corsi di formazione avessi potuto frequentare fuori

dall’università, mai alcuno mi avrebbe dato l’opportunità di andare così in profondità

nell’aspetto epistemologico di queste materie. Oggi questo mi fa sentire più sicura.

In generale però, posso affermare che la sistematicità, la specificità, la quantità e la

varietà dei corsi e dei contenuti appresi, mi hanno consentito di costruire una

struttura mentale portante in cui poter inserire tutti gli elementi provenienti

dall’esperienza e dalla formazione in generale.

Se penso alle competenze acquisite, è complesso farne un’autovalutazione. In base a

quella che è la mia percezione, in relazione agli standard professionali indicati nel

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documento S3PI, credo di aver acquisito maggiori competenze nelle aree della

conoscenza e comprensione (Area 3) e nell’interazione didattica (Area 4). In

particolare:

Competenza riferita alla lingua inglese: nello specifico, la competenza di

costruire lesson plan articolate e didatticamente ben strutturate.

Strategie e metodi evidence-based: nello specifico, la capacità di ricercare e

mettere in atto metodologie e strategie didattiche la cui efficacia sia

dimostrata da un’evidenza scientifica.

Schede osservative e strumenti di valutazione: nello specifico, riguardo alla

costruzione di rubriche di valutazione per certificare le competenze

Progettazione dell’intervento didattico: nello specifico, ho sviluppato

maggiore competenza nella definizione di obiettivi e loro

operazionalizzazione, nella selezione delle strategie e attività, nella gestione

di tempi.

Struttura degli interventi didattici: nello specifico, pianificare e condurre una

lezione/attività trasmettendo chiaramente ai bambini l’obiettivo, richiamando

preconoscenze o attività già svolte, tenendo alta la loro attenzione e

riprendendo le conclusioni al termine del percorso.

Qualità cognitiva: nello specifico, è aumentata la mia padronanza

contenutistica degli argomenti; è inoltre migliorata la mia competenza nel

progettare attività adeguate alle capacità cognitive degli alunni e la capacità

lavorare nella loro zona di sviluppo prossimale. È inoltre aumentata la mia

competenza nell’ adattare le attività utilizzando anche strumenti comunicativi

adeguati; adotto con maggior consapevolezza un atteggiamento

problematizzante, che uso in modo più proficuo nelle mie lezioni.

Gestione della classe e qualità del feedback: nello specifico, è aumentata la

mia consapevolezza sull’importanza dell’interazione, sulla corretta

organizzazione temporale tra le attività espositive e quelle attività pratiche,

sull’importanza della continua offerta di feedback di rinforzo e supporto

all’attività dei bambini.

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Queste sono le competenze acquisite che, spero, oggi mi rendono

un’insegnante migliore.

Poi ci sono le esperienze vissute che invece mi hanno resa un persona

migliore: ho imparato la resilienza, la capacità di non arrendermi di fronte

alle difficoltà, la capacità di portare avanti, contemporaneamente, studio e

lavoro, facendo in modo che il primo non condizionasse negativamente la

qualità del secondo, togliendogli tempo ed energia.

Ma tra le esperienze più importanti, ci sono state senza dubbio le relazioni

umane, quelle vissute con le compagne di corso più giovani di me di ben

venti anni, che mi hanno accolta, aiutata, sostenuta, incoraggiata e apprezzata.

Le volte in cui mi sono soffermata a osservarle con occhio da insegnante, mi

sono sentita piena di ottimismo: non vedo l’ora che, formate e preparate,

entrino nel mondo della scuola. Vorrei che lo travolgessero e lo investissero

con tutto quell’ entusiasmo e quel desiderio che ho visto in loro.

Domani sarò di nuovo di fronte ai miei alunni. Aver scritto questa pagina di

conclusioni mi restituisce ancora una volta la consapevolezza che non avrei

voluto essere da nessun’altra parte.

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NORMATIVA DI RIFERIMENTO

DPR n. 275 dell'8 marzo 1999 - Regolamento recante norme in materia di autonomia

delle istituzioni scolastiche;

Legge 13 luglio 2015, n. 107. Riforma del sistema nazionale di istruzione e

formazione e delega per il riordino delle disposizioni legislative vigenti;

Legge 8 Ottobre 2010, n. 170 , Nuove norme in materia di disturbi specifici di

apprendimento in ambito scolastico;

Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Innovazione Digitale

Piano Nazionale Scuola Digitale 2015.

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BIBLIOGRAFIA

Calvani A., Come fare una lezione efficace, Carocci Faber, Roma, 2014;

Calvani A., Principi dell’istruzione e trategie per insegnare, Carocci, Roma 2011;

Dallari G., Il ruolo educativo della scuola e delle famiglie, in Il patto Educativo, a

cura di Matteoli S e Parente M., FrancoAngeli, Milano 2014;

Franceschini G., Insegnanti consapevoli, Clueb, Bologna 2012;

Indicazioni Nazionali per il curricolo, in Annali della Pubblica Istruzione, Le

Monnier, Firenze2012;

Piaget J., Avviamento al calcolo, La Nuova Italia, Firenze, 1956;

Rogers C., La terapia centrata sul cliente, G.Martinelli, Firenze, 1970;

Trinchero R., Costruire e certificare competenze con il curricolo verticale del primo

ciclo, Rizzoli Education, Milano 2017;

Zan R., Difficoltà in matematica, Springer, Milano 2007;

Zavalloni G., La pedagogia della lumaca, Emi, Bologna 2008.

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SITOGRAFIA

http://www.atlantemonumentiadottati.it/adozione/i-c-s-pertini-rodari-villa-

baciocchi/;

https://www.associazionegalileo.org.

http://www.centrorodari.it/sviluppare/progetti.php?id=196;

http://www.comprensivogereschi.it/documenti/progetti/progetto_galileo.pdf;

https://www.docs.google.com/presentation/d/1B2wi92mM5I6l7ZI1N8kljIVDBbKRP

dR8LHkUmtDS528/edit?usp=sharing;

http://www.hubmiur.pubblica.istruzione.it/web/istruzione/dsa;

http://www.istitutocapannoli.it/index.php?option=com_content&view=featured&Ite

mid=1300;

http://www.istruzione.it/;

https://www.marcondirondirondello.wordpress.com/tag/giuliano-giuntoli-insegnante-

formatore-relazione-se-autostima-interazione-strategie-metodo-galileo-accoglienza-

piccolo-gruppo-empatia/;

https://padlet.com/s_campana_74/2yhk3t58705v;

https://padlet.com/s_campana_74/ehu5lwwrby5d;

https://padlet.com/s_campana_74/ucff2i65sy2o;

http://www.qualitaformazionemaestri.it/;

http://www.qualitaformazionemaestri.it/images/strumenti/160514_S3PI_v04.pdf;

http://www.retecostellazioni.it/j2/;

https://www.sites.google.com/view/classisecondeprimariarodari/home;

https://www.youtu.be/9C_cge7R-fA;

https://www.youtube.com/watch?v=S_UxtUfCZbQ;

https://www.youtube.com/watch?v=TJQdJApgOrA&list=PLKpc3TolLhpX2XCewx

721q3-8fWhI4RGF.