BSide and FreeWords

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SIDE B

All’ombra dell’ultimo sole s’era assopito un pescatore Network e Rete due vocaboli che ormai sono sulla bocca di tutti, voci rivolte alla folla, sonanti squilli ad accompagnare il nuovo che avanza con la consapevolezza che, oggi, è essenziale unire le forze, senza dover scomodare Marx & C., tutti sanno che Network è d’obbligo. L’Italietta nostrana come sempre si riempie il cavo orofaringeo di parole e motti, slogan e buoni propositi, il farò che sa tanto di cambiale a vuoto, riempire l’aere di futilità è facile, veloce e non comporta fatica dal dire al fare, però, ci sta in mezzo il mare e in mezzo al mar ci stan i camin che fumano. Il Network presuppone una cosa essenziale, senza la quale, non ha possibilità alcuna di nascere ed esistere la collaborazione delle parti in causa. Siamo sempre alle solite tutti ne parlano ma nessuno, poi, a conti fatti nulla fa. Collaborare significa integrare professionalità e mentalità diverse ottimizzando le risorse per ottenere un risultato migliore, in fondo unire è sicuramente più vantaggioso che dividere, mescolare è un atto creativo puro più sorprendente dell’utilizzo seriale della stessa nota o ingrediente per mantenere inalterata una ricetta. Le scoperte, l’innovazione e i progetti migliori sono sempre il frutto di un crocevia di individui che, messo da parte l’ego da super uomo, si confrontano per costruire, non per distruggere.

L’Europa ci rammenta che i network sono l’oggi e il domani del Vecchio Mondo, e non solo (basta leggere http://europa.eu/index_it.htm), il Bel Paese fa spallucce, ne parla con entusiasmo ma, a guardar dietro il vetro, lascia inalterato lo stuolo di prime donne d’Ancien Régime, vuote, vecchie e scarsamente utili, ad abbuffarsi sul piatto di portata lasciando meno che le briciole. Con gran scorno ici la parola rete è associata o alle calze da signora o a quella usata dal pescatore di frodo per far incetta di poveri pesci, senza rispettare il ciclo biologico del mare e dei suoi abitanti, in fondo fin che la barca va lasciala andare. Armiamoci e partite miei prodi, raccontare come siamo bravi a fare, come facciamo rete, quanto è bello fare delle cose insieme è un ritornello mnemonico facile facile, orsù, non abbiatene a male se alla fine sono cristalli di ghiaccio sciolti dal sole mattutino. Pazienza se, oggi, molti sono individui di nietzschiana memoria, automi parlanti allo specchio rare volte dotati di udito, che ricordano i bambini che tappandosi le orecchie cominciano ad urlare la stessa cosa ad alta voce per non sentire altra ragione che la propria. IO, io, io, reucci da pozzanghera infangata, imbrigliati loro stessi, senza nemmeno avvedersene, alla rete della mediocrità e alla mercè di famelici pasti di pesci più grandi. Sollevare appesantiti deretani da sgangherate sedie per tessere una variopinta coperta patchwork per l’inverno è di certo più utile d’essere ballonzolanti scheletri di fantocci da teatrino di marionette, buttati nei cassoni a fine recita.

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Cave canem In un monotono giorno di caldo e umido autunno, in una tediosa giornata di cani randagi un rumore sordo rompe la monotonia, la Domus dei Gladiatori, sopravvissuta ad una terribile eruzione datata 79 d.c. e al passare lento ed inesorabile del tempo, si è tolta dalla scena sbriciolando non solo la sua struttura muraria ma la cultura e la dignità di un Paese intero. Ora in ogni paese civile (con tanto di sottolineatura sul “civile”, perché ancora oggi la mancanza di civiltà e rispetto è visibile come un cancro incancellabile nei fantasmi dei Buddha di Bamiyan, distrutti a cannonate dai Talebani nel 2001, per annientare le radici e la cultura di un popolo imponendo, nel contemporaneo, la propria forza bruta) la storia e le testimonianze delle civiltà passate sono considerate come preziosi amici, gli abitanti della zona ne sono a conoscenza e anche piccole tracce, che a primo sguardo lasciano il turista perplesso “tutta questa spiegazione per queste due misere pietre?”, sono pubblicizzate e spiegate con minuzia di dettagli, con un’enfasi che lascia esterrefatti, perlomeno noi abituati al degrado e all’incuria. L’Italia invece che fa? Ricca di un consistente patrimonio culturale, figlio di età dell’oro felici e perdute, che a ben vedere nemmeno si merita, lascia che il suo passato si polverizzi davanti ai propri occhi senza alzare un dito, semmai la voce a posteriori, quando il silenzio sarebbe d’uopo. Pompei mirabilia dei Grand Tour dei figli di buona società, mistico luogo da sindrome di Stendhal, si ritrova a leccarsi le ferite, dolorante sotto il peso dei fasti del suo passato e della miseria del suo presente. Il paziente allo stato comatoso non può muoversi ma solo, suo malgrado, vedere sopra la sua testa il passaggio della scottante patata bollente della responsabilità, tutti hanno ragione, il male esiste ma, c’è sempre un ma, abbiamo fatto tanto, certo tanto per far si che la cultura agonizzante vada a morire.

Chiudere gli occhi e ripetersi che i problemi non esistono signori miei, udite udite, non li risolverà, a meno che siate i protagonisti dell’ultimo cartone disneyano ma, allora, in questo caso come avete potuto permetterlo? Prima di usare la carta della privatizzazione bisognerebbe fare una cosa semplice quanto mai rara, evitare il megafono e farsi tutti, tutti quanti, un serio esame di coscienza: il nostro dna, l’immateriale cultura e la bellezza, sono inutili? Se ci avete pensato anche solo un istante prima di rispondere è crollato ben più di un pezzo del nostro passato. Siamo tutti colpevoli se non prendiamo coscienza che cancellare ed ignorare il proprio passato significa non avere un futuro ma nemmeno un presente. Chissà se si potrà dire ancora “fiat lux et facta est” (Genesi, 1, v.3), senza chiedersi se sia uno slogan per pubblicizzare un nuovo e fiammante modello di utilitaria dal sapor di gianduja?

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Ora et labora L’insegnamento benedettino (se vogliamo precisare a lui attribuito e non scritto e accompagnato da “lege” che aumenta il peso specifico del significato) per secoli ha rappresentato la summa della vita umana, non solo monastica. La preghiera, se vogliamo aggiungere la lettura (principalmente rivolta alle Sacre Scritture ma in senso più ampio sottolinea l’importanza della cultura e del sapere, il dovere di istruirsi per conoscere, sarà un caso ma la sorella portava il nome di Santa Scolastica), intercalata all’attività lavorativa rendeva l’uomo parte di una società e utile a sé stesso e agli altri. L’equilibrio si sa tende alla perfezione ed è raro da raggiungere, però è difficile credere che la rarefazione della fede e l’allontanamento dalla religione siano dovuti a “labora”: un rovesciamento di pesi dovuto all’occupazione degli uomini moderni, assorti in una lieve distrazione quale la spasmodica ricerca del lavoro. Sicuramente questo è il quid della questione, il nocciolo dell’allontanamento dai sacri precetti, ma un dubbio seppur misero viene, senza la necessità di cadere nella blasfemia, ma in questa situazione contingente con poche vie d’uscita, e le poche spesso chiuse e precluse, mettere l’accento sulla questione non va a svantaggio di coloro che vorrebbero poter garantire alla propria famiglia e a sé stessi una vita quanto meno dignitosa? Non sarebbe più opportuno evitare di cercare scusanti e trovare i veri motivi alla base della diminuzione effettiva della fede? Le porte di Santa Madre Chiesa sono aperte a tutti, indistintamente, peccatori compresi che non verranno giudicati ma semplicemente accolti, invece, ora, si assiste ad una decisa inversione di tendenza molto Veterotestamentaria che allontana il figliol prodigo invece di avvicinarlo.

Dal pulpito la politica, poi, dovrebbe stare molto lontana, fra l’altro pure stabilito per legge e non l’altro ieri, le scelte politiche non sono mai un peccato tranne quando si trasformano in aperti eccidi di massa ma, qui, il diretto ammonimento, in virtù del fatto che uccidere un proprio simile è un peccato non veniale, non è sempre stato palesato. Far di un precetto del Vangelo quale “è più facile che un cammello passi attraverso la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel Regno dei Cieli” (Mt. 19, vv. 23-26 )una regola di vita applicabile in ogni circostanza aiuterebbe molto a sentirsi tutti uguali e, proteste a parte, invece è molto facile vedere i privilegiati dalla sorte compiere ogni variegata varietà di peccato e poi ritrovarli nei primi banchi a farsi portatori sani dei valori cristiani e vedere alla berlina persone che, pur avendo fede, hanno scelto di divorziare o di votare per altro candidato. Supportare e sostenere i servi di Dio che hanno scelto di votare la propria vita, a loro rischio e pericolo, per aiutare chi ne ha bisogno sarebbe fondamentale, invece di farne degli exempla sono spesso lasciati ai margini, eppure sono coloro che testimoniano che l’ideale di vita francescano è possibile, oggi come allora. Ritrovare la forza piena e vitale dei Vangeli, dei Padri e dei Dottori della Chiesa, essere presenti in modo diretto, capire e non puntare l’indice contro, aprire e non chiudere potrebbero essere piccoli passi per riavvicinare le pecorelle smarrite all’ovile, senza dover attendere “la folgorazione sulla via di Damasco”. In medio stat virtus, l’equilibrio è raro ma l’avvicinarsi ad esso è, quantomeno, più probabile.

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Va', torna all'erbetta, gentil farfalletta Ascoltando una delle tante voci che scelgono di raccontarsi, più per proprio piacere che per quello altrui, mi è capitato di sentire un’affermazione dal sapore di canone (inteso come legge) da Libro Rosso sul mestiere dell’attore, colui che vuole camminare sull’irto sentiero dell’arte sappia, o giovane aspirante, che deve esser disposto a tutto. In questo nebuloso periodo di assenza di certezze e di futuro avere un sogno è cosa rara e questo è di certo uno spiraglio nel buio, come ci narra il Rapporto Annuale Censis (http://www.censis.it/1) gli italiani hanno perso la capacità di sognare e di desiderare e, forse, anche di vedere il futuro,”grazie di tutto”. Beati coloro che cullano ancora un sogno, lo alimentano facendolo crescere e cercano il giusto modo per far si che da evanescente prodotto della mente diventi realtà, quella vera e toccabile con mano, San Tommaso è sempre di gran moda. Lunga vita ai sognatori che non si lasciano trascinare nel gorgo della grettezza di un asfittico mondo di plastica, sebbene quasi in parte riciclabile (l’amor per madre terra it’s cool nowadays), però, qualcosa suona come una nota stonata di un violino mal accordato (chi ne conosce il rumore sa quanto è stridente e insostenibile per le povere orecchie umane, già sottoposte a sentir una quantità di cose poco piacevoli per l’udito e non solo): disposto a tutto. Lottare miei prodi cavalieri sempre ma la cavalleria, regole da chiasmo con l’amor cortese, sancisce che in amore e guerra tutto è concesso fuorché perdere l’onore e la dignità.

Facile è dire si a tutto, ma spente le luci della ribalta l’attore diventa uomo e i suoi sogni si presentano come nel Canto di Natale di Dickens. Essere disposto a tutto significa in primis dire no a quello che non funziona, al mal sistema e a chi cerca di calpestare la dignità altrui vendendo fumo, che più somiglia all’effetto tossico del popper, un istante di stordimento per un risveglio molto più doloroso e vuoto, un viaggio nel nulla di un secondo per poi ritrovarsi sempre allo stesso punto, con uno stringente cerchio alla testa in più. Cambiare quello che non ci piace non è semplice ma inizia da noi stessi, accettare le regole già scritte quando non sono giuste significa cominciare a perdere lentamente i propri sogni senza nemmeno rendersene conto. “En cherchant d'la sorte je n'sais c'qu'on trouva. Mais je sais qu'la porte sur eux se ferma.“

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Così fan tutte Negli ultimi mesi la condizione femminile è in caduta libera verso il ridicolo, si levano ovunque cori di dissenso contro chi relega la donna a soprammobile, fra l’altro piuttosto grossolano, mescolati alle voci delle giovani fanciulle che si giustificano e si arrabbiano perché penalizzate dalle loro “amicizie”. Certo prendere una posizione netta di distacco dalla prostituzione compiacente è quanto meno doveroso, possiamo usare termini più soft ma il significato è poi questo, a volte pure caldeggiata da famigliari e amici. Meno male che le famiglie sono il pilastro basilare dello Stato, certo con queste fondamenta avremo una solida costruzione in elevato. Però un esame di coscienza va fatto. Nessuno ha imposto alle ninfette di utilizzare il proprio corpo per farsi strada nella vita, modellandolo al silicone per essere automi adatti al gusto attuale, potevano evitarselo. In fondo che siano cortigiane, ierodule, meretrici, escort o semplici gadget da esposizione il risultato non cambia, è stata una scelta. Prima di chiedere rispetto e dignità dovrebbe la donna pretenderli da sé stessa. È avvilente che i miti di oggi siano le veline piuttosto che individui con cervelli pensanti, come Margherita Hack, Rita Levi Montalcini o più semplicemente tutte le donne che mettono la personalità e le capacità al primo posto. Accettarsi e prendere coscienza della propria fisicità migliorerebbe il rapporto con gli altri essere umani, non è necessario essere delle Barbie per far carriera nella vita. Ora, tra l’altro, la nota bambola di plastica , un tempo icona di bellezza raffinata ed elegante, si è adeguata al Kunstwollen involgarendo i tratti e il guardaroba per rispecchiare la donna moderna. Cambia il vento ma noi no forse oggi non è più così, dopo tante lotte per l’emancipazione ci si schiavizza volontariamente, i lustrini e la ribalta non sono una gabbia meno oppressiva di altre con sbarre più chiaramente visibili.

Indignarsi è giusto ma solo se si prende coscienza di essere individui appartenenti alla razza umana uguali a quelli di sesso maschile e a comportarsi come tali, evitando di mettersi in ridicolo come bambole gonfiabili usa e getta. Uscire dal ghetto spetta a noi così come educare le donne di domani a diventare persone dotate di propria individualità e di cervello, da utilizzare non solo per il calcolo del conto in banca di amichetti, amanti e mariti.

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Assurancetourix In questi primi giorni del 2011 tiene banco una notizia che ricorda molto la scoperta dell’acqua calda: i premi assicurativi per le RCA auto italiane sono i più alti d’Europa, zona Parco delle Vittorie, per la gioia dei poveri assicurati, obbligati per legge a dover pagare se in possesso di un rombante mezzo di trasporto su ruote. Oltre il danno la beffa, al solito ci ritroviamo a dover pagare più di tutti per servizi pessimi, se non per colossali disservizi, ma che bella novità, è evidente che l’Inno alla Gioia non fa per noi. Don’t worry be happy a fast solution designed around you, this is a typical italian style. Il Governo ammonisce e l’Ania e l’Isvap rispondono prontamente, ma che colpa abbiamo noi se gli italici assicurati sono i più grandi frodatori del mondo? (http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE7030FE20110104, http://www.ania.it/opencms/openmcs/export/sites/default/documenti/cc55ffaf-89b8-11df-8a79-f3c446ddba06___ANIA-ass_italiana_2009-2010.pdf) Vi siete per caso chiesti il perché di cotal comportamento fraudolento? A rigor di logica, se mai ve ne fosse rimasta una in qualche angolo remoto di questa patria solatia, la scelta più semplice sarebbe quella di riportare le tariffe in media con l’Europa, quanto meno per recuperare un briciolo di credibilità con i colleghi oltre confine. Si sa, però, che la fantasia è nel nostro dna per cui ci si è inventati un nuovo organismo preposto alla tutela e al controllo anti frode, come se non bastassero quelli esistenti, fra l’altro mai troppo efficaci quando e dove serve; chi è senza peccato scagli la prima pietra (Gv., 8, vv. 1-11) come ci testimoniano i reiterati ammonimenti dell’AGCM alle

imprese assicuratrici nostrane (in ordine di data ultimo rapporto http://www.agcm.it/agcm_ita/docum/docs.nsf/0af75e5319fead23c12564ce00458021/316bd40550080877c1257742002e91da/$FILE/Rel%2010.pdf). La proposta è accompagnata dalla revisione del bonus-malus, or bene, a parte che nessun medico ha prescritto l’ereditarietà della classe di merito nostri cari presidentissimi (http://it.reuters.com/article/topNews/idITMIE7030FE20110104), non sarebbe più semplice far si che davvero la classe di merito abbia un vero sistema tariffario decrescente per gli assicurati che non hanno prodotto sinistri? Invece di scoprire che, seppure diligenti, gli aumenti di polizza superano sempre la nostra buona condotta. Non è un caso che per evitare un aumento del proprio premio molti italiani si diano alla fuga, lasciando al povero malcapitato la scoperta del danno ma non dell’autore, o viaggino con veicoli non assicurati (http://www.associazionedifesaconsumatori.it/comunicati-stampa/liberalizzazioni/in-italia-la-rc-auto-costa-il-doppio-ripetto-altri-paesi-europei/). Proclami di riduzioni e argomenti validi a loro vantaggio ne hanno a iosa, certo che se si prestasse maggiore attenzione alla formazione delle risorse umane (meno venditori di pentole e materassi alla Mastrota più preparati e obiettivi già sarebbe un buon passo avanti), alle vere esigenze del cliente (che non è solo un nome in più su una lavagnetta di famelici responsabili di filiale) e ci fossero maggiore trasparenza e chiarezza nell’elenco infinito di clausole contrattuali a corredo di una polizza (chissà come mai spunta sempre una micro postilla che, guarda caso, non copre il danno come avevamo creduto) e una reale e concreta concorrenza (solo con un libero mercato aperto e competitivo è davvero possibile ottenere un buon rapporto qualità/prezzo del servizio offerto) forse si riuscirebbe a dare ancora un senso d’utilità ai servizi assicurativi.

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Alla fine la solita routine, a parole tutto è a portata di mano ma i fatti concreti difettano e si perdono nello stargate, come pollini trascinati nell’aree dal vento, peccato, però, che mai generino buoni frutti, mais c’est la vie.

Cour des Miracles Con un incessante e ormai ritmato tamburellante tam tam si sbattono in prima pagina notizie di scandalini e scandaletti che fanno subito scalpore. Soubrettine, maÎtresse, nani, ballerine, travestiti oltre il Carnevale, tradimenti, amanti, spionaggio e altri ingredienti similari miscelati a uomini di potere e di spettacolo sono, ormai, all’ordine del giorno. Basta un bel titolo ad hoc e il morboso interesse degli italiani scatta a velocità della luce. Ci si butta con avidità a leggere i giornali e ad ascoltare ore ed ore di telegiornali e approfondimenti, banali quanto decisamente inutili, per il chi, come, quando, dove. Mai, però, si vede ciò che dovrebbe veramente scandalizzare: non il gioco delle coppie, ognuno è libero di fare ciò che crede nel suo tempo libero (ovviamente se non si tratta di minori, in questo caso veto assoluto e non ci dovrebbe nemmeno essere la necessità di dirlo e di ricordarlo) ma sul fatto che i giocattoli sono regali a nostre spese. Sfilate di nullità e brevi periodi di gloria sono tutto ciò che rimane, acqua gettata sull’asse del bucato per far scivolare lontano l’attenzione da quello che più conta, nuove leggi ad personam, provvedimenti vari, riduzioni di servizi, aumento delle tasse e via discorrendo, qui il silenzio è d’oro in cotanto rumors. In fondo banalità di poco conto, che importa se un’attività di primaria importanza come la gestione e la guida di un Paese non sono fatti con la diligenza del buon padre di famiglia (c.c. art.1176), che male mai sarà quello di divertirsi a spese dei propri figlioli, alla fine la famiglia non è più quella di una volta e i padri nemmeno. In ogni altro Paese questo basterebbe per chiedere le dimissioni e il saldo dei conti, come ben sa chi è caduto nel fallo di una solerte stagista, ma qui panta rei os potamòs.

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Invece di mettere alla porta la fiera del ridicolo si getta tutto nel dimenticatoio, poco male se questa è la fotografia che ci rappresenta tutti, tanto si sa che alla fine tutto si può dire ma rimaniamo sempre “italiani, brava gente”. Il tempo scorre e la crisi s’ingrossa, lentamente cala il sipario su un paese alla deriva ma la gente viaggia con due bei paraocchi e procede il suo cammino, senza nemmeno più avere il coraggio di indignarsi e dire basta. Lasciamo che tutto venga corroso e limato purché rimanga almeno il circenses, il panem lasciamo ai passeri .

Universitas Inverno caldo per le nostre povere università, alla televisione appaiono flashback da un passato non troppo lontano dove giovani pantere con striscioni che inneggiavano alla fantasia al potere scendevano in piazza e occupavano gli atenei. Ora, purtroppo, di tutto quel fermento è rimasto solo il potere mentre la fantasia si è andata a perdere, allora, quantomeno, faceva sperare in un futuro migliore. Certo oggi parlare di riforma è decisamente ridicolo, sarebbe meglio dire semmai appiattimento, s’intenda cambiare e migliorare il sistema è necessario, con logica e senso pratico però, ovvero non cancellando, tagliando e ridicolizzando un mondo già di per sé in agonia. È necessario partire da un’attenta analisi per trovare la giusta via: ottimizzare dove necessita, potenziare ciò che di buono già c’è, eliminare il degrado e i malfunzionamenti. Il problema è sempre poi di fondo lo stesso, la mancanza di un dialogo e di un serio e dinamico processo di mutamento e di evoluzione che interessa non solo i programmi politici, quelli vanno e vengono con il cambiar di lenzuola, ma soprattutto le università stesse, punti nevralgici della tutela e della trasmissione della cultura e dell’innovazione. Troppo facile puntare il dito ma non avere la correttezza di farsi un profondo esame di coscienza per trovare il modo di eliminare, o almeno ridurre, le tristi anomalie all’ordine del giorno: disservizi, baronie, arretratezza tecnologica, burocrazia da cancelleria imperiale, miscelata sovente ad incompetenza e menefreghismo (ovviamente eccezioni esistono e rendiamo lode al merito) che fa rivivere in prima persona agli studenti l’episodio delle “Dodici Fatiche di Asterix “ ”La casa che rende folli, lasciapassare A28” (qui numeri alla mano provate a chiedere ad un qualsiasi studente universitario, di oggi e di

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ieri, e vi troverete una serie pressoché simile di aneddoti vari ai confini della realtà e, forse, pure oltre). Le università dovrebbero avere il coraggio di superare il giogo degli antichi privilegi e dare onore al merito, non solo quello degli studenti (e anche in questo caso si potrebbe migliorare di molto) ma dei docenti e di tutti i funzionari e gli impiegati che lavorano al suo interno. Chiedere è lecito e doveroso per costruire e sviluppare nuovi percorsi ma è ancor più opportuno dare un segnale positivo dall’interno, dimostrando che sebbene non sia tutto da rifare c’è molto da cambiare prima di tutto mentalità e direzioni, a cominciare dalla trasparenza e dalla libera e diretta circolazione delle informazioni e della comunicazione. Far si che la laurea non sia solo un mero pezzo di carta buono da appendere al muro ma un’esperienza per aprire la mente e gli orizzonti, dando un valore concreto a percorsi di studi che diventino veramente parte integrante ed integrata del sistema lavorativo ed economico non è certo utopia. Portare alla luce i malesseri e trovare la cura, dare risalto e spazio al merito e alle capacità individuali e di team, non nascondersi ma mettersi al centro di un dialogo costruttivo con gli studenti, linfa vitale delle università, non mere matricole porta soldi ad un asfittico e polveroso mondo accademico dalla decisa aria retrò, sarebbero buone fiches da giocare sul tavolo delle trattative. “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum”, uscire dal circolo per andare avanti non è poi così impossibile, in fondo “tentar non nuoce”.

Se potessi avere mille lire al mese Un altro anno è faticosamente arrivato al termine, Giano Bifronte è pronto a girare il suo volto vecchio e grinzoso per lasciare spazio a quello giovane pieno di speranze e come al solito tirando le somme già siamo orientati a doverne fare per il nuovo anno, speranze al mimino e tasche già vuote. Non si sono ancora spente le luci, dal retaggio pagano, che illuminano le feste, più consumistiche che religiose, con i palesi inviti ai bravi italiani a spendere e spandere, à la fin la doratura superficiale è sempre un rimedio sciué sciué che copre temporaneamente l’immondizia, poco importa se ritorna a galla dopo lo scioglimento delle nevi, arriva il 31 e la fiera del bianco (c’è da chiedersi come mai la facciano dopo S. Stefano, l’Epifania non esiste più? nemmeno la speranza del carbone nella calza dei cattivi?) arrivano in prima pagina gli aumenti che colpiranno tutti, ma proprio tutti i cittadini dello stivale made in China. La falce, un tempo attributo solo di Sua Signora Morte, colpisce di netto: nuovi aumenti, naturalmente ingiustificati (basta verificare il rapporto qualità/prezzo per capirlo, per esempio il trasporto pubblico ci si chiede perché sta a noi pagare? dovrebbero i fornitori pagare gli utenti, poiché nonostante tutto ancora li utilizzano) colpiscono non certo il superfluo, no sarebbe troppo facile, ma i beni di prima necessità, il famoso paniere, ormai basterebbe una piccola scatola di fiammiferi (per una stima approssimativa ma vicina al vero basta leggere http://www.federconsumatori.it/default.asp). C’è da chiedersi come è possibile che gli aumenti siano unidirezionali mai negli stipendi, o meglio mai in quelli della gran parte della popolazione, a ben vedere

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fortunati quelli che ancora ne hanno uno, almeno un tempo esistevano le scale mobili, ora solo una sdrucciolevole scala a chiocciola. In ogni caso non preoccupatevi, mentre fate un altro buco per stringere la vostra corrosa cinghia sappiate che non siete soli anche i politici fanno lo stesso, mal comune mezzo gaudio, tutti dobbiamo fare economia. Una breve nota fa sapere che il Quirinale si auto infligge tagli agli stipendi, ah bravi (pronunciato con l’enfasi che metteva il rimbambito suocero dell’Imperatrice Sissi interpretata da Romy Schneider), ora non serve essere maghi della finanza creativa o esperti matematici per fare un rapido calcolo percentuale: trattenute del 5 e del 10% su stipendi superiori ai 90 e 150 mila euro (http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Quirinale-Napolitano-applica-misure-per-economie-previste-da-decreto-legge_311465293429.html). Bene, bravi, bis a cosa dovranno mai rinunciare? A un paio di scarpe nuove, una borsa, una cravatta? Avrebbero fatto meglio a sotto tacerlo senza farlo notare perché quello che balza agli occhi non è il fioretto ma il tenore dello stipendio, che se fosse ridotto di 2/3 sarebbe ancora degno di Alì Babà. Ahinoi non esistono lampade magiche con geni pronti ad esaudire i desideri però specchi e coscienze quelle dovrebbero averceli tutti, o quasi, allora perché non usarli? San Benedetto dice “correte, finché avete la luce della vita” (Regola di San Benedetto, Pr 8-20), sarebbe opportuno seguire il consiglio.

Digitale, magari un domani Alta tecnologia del nuovo millennio per godere appieno la ricchezza dei palinsesti televisivi, benvenuto digitale terrestre e un addio sincero alla televisione analogica morta e sepolta dall’innovazione. Splendido splendente tutto è cambiato, si, però, a ben guardare la televisione dietro a lustrini e paillettes pare nascondere qualche piccolo difetto. Lasciando a parte il divertimento sublime a risintonizzare i canali con un certa frequenza prima che il definitivo switch over a macchia di leopardo si tramuti in switch off a macchia d’olio e copra con il suo aureo manto tutto il rattoppato stivale. Sorvolando sulla qualità hd e blu ray e chi più ne ha più ne metta poiché, ça va sans dire, che nell’enfasi dell’advertising si omette che tutto dipende dal mezzo in nostro possesso, or quinci, se possediamo un caro e nemmeno poi troppo vetusto esemplare a tubo catodico (dimenticate con i nuovi nati la longevità propria della robusta tempra dei vecchi ed ingombranti apparecchi televisivi, piccoli dettagli ) o gli incunaboli di lcd, beh non aspettatevi cambiamenti mozzafiato, quello che era più o meno sarà. Chiudendo un occhio sull’aumento dei rifiuti ingombranti e di non facile smaltimento come i vecchi televisori, gettati con decisione per godere di un light & flat tv che pare a picture, tanto è bello a vedersi, lì in centro del salotto, magari scelto sovradimensionato per dare sfoggio del proprio status, invidia tubo catodicus? Non dando peso al fatto che i canali si moltiplicano ma con gli stessi programmi clonati e replicati all’infinito, che sebbene il tutto costa quanto un caffè giornaliero, due se

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mettiamo insieme canone e pay tv, alla fine del mese incide non poco insieme a bollette, rate e, magari piccoli capitali destinati al superenalotto & Co. Non soffermandosi sul fatto che, grazie ad informazioni poco chiare, a tutti, o quasi, tocca comprare un decoder: per registrare, per le tv che si ipotizzava fossero già predisposte per il digitale ed invece surprise, no, perché mica si possono sostituire con nuovi e brillanti modelli tutte le televisioni che arricchiscono le nostre casupole. E se domani io non potessi rivedere …la tv, forse, non ci perderemmo molto. Un piccolo pensierino finale ma in periodo “no tengo dinero ohohoh” tutto questo spreco di soldi e di elettrodomestici era così necessario per migliorare la nostra umile vita?

Bibidi-Bobidi-Bu A ritmi ciclici salgono all’onor della cronaca orrendi raggiri perpetrati ad ignare vittime che con il cuore in mano si rivolgono a maghi, fattucchiere e santoni vari ed eventuali, pronte a donare tutto il portafogli (sé stessi di norma, salvo rari casi, non è richiesto) per ottenere, con filtri magici, carte e collegamenti in linea diretta con l’aldilà (ossia credo al di là di ogni normale uso della ragione), amore, denaro e ogni bene. Ci sono truffe che giocano con maestria sulla buona fede ma qui, cadere nel vuoto senza rete, è una scelta volontaria, per giunta sapendolo in partenza. Se c’è tutta questa voglia di rivolgersi a terzi per raggiungere la felicità ci sono molti mezzi, senza ricorrere a babbo natale ed alla befana (che se esistono portano doni solamente ai bambini, per gli adulti “chi fa da sé fa per tre e il resto vien da sé”), perché non volgere il proprio pensiero direttamente a Dio, certo non chiede denari ma un qualcosa di molto più impegnativo, la fede e la preghiera che implicano la purezza di spirito ed il credere. Troppo difficoltoso, allora si potrebbe incamminarsi verso un diverso percorso, affittare un bell’orto, in zona stazione o in periferia, coltivare zucche, cantando con uccellacci e pantegane “i sogni son desideri, di felicità” sino al momento del raccolto, in queste zone è probabile che ‘nà fata dovrebbe apparire, magari più malandrina che Smemorina, ma non stiamo a “guardare il capello” (probabilmente potrebbe pur essere turchino). Nemmeno così è soddisfacente? Allora devolvete in beneficenza i denari che dareste per una lettura di carte, vi renderà più positiva l’aurea senza nemmeno doverlo chiedere come favore personale a parenti defunti che, direi, lasciamoli in pace almeno nell’aldilà. Decisi ad andare da visionari con palle piene di pesci rossi che leggono nel pensiero?

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Potreste provare a pagare una figura professionale per momenti di divertissement privati, sempre soldi buttati, quanto meno fate un po’ di ginnastica, che non guasta, e vedete volti nuovi. Se non vi siete convinti, allora, non ci resta che dire “chi è causa del suo mal pianga sé stesso” , alla fine della favola “chi rompe paga e i cocci sono suoi”. Magie qui non se fanno ed il sale in zucca ognuno lo deve metter da sé.

Verba volant, scripta manent Girovagando senza meta alla ricerca di interessanti percorsi di viaggio fra parole e pensieri ci si trova immersi in una galassia senza fine, sconfinata, immensa e densa. In un mondo che sembra vivere in assenza di contatti umani veri ci si trova, per contro, in un oceano di parole lasciate vagare, un reflusso continuo di sentimenti e oscuri malesseri, bisogno di dire, di raccontare. Nel “piattume” generale di una società superficiale navigando con pazienza si scoprono narratori e poeti dalle voci di sirena che sanno ammaliare portandoti in profondità sommerse, narrate in un caleidoscopio di nuovi punti di vista. Grida e sussurri ai viandanti distratti, “leggete il mio bisogno di dire, comprendete la mia sete di condividere”, messaggi scritti sull’intangibile virtuale e parole fissate sulla carta stampata, dall’odore inconfondibile, più avvolgente delle petite madeleine di Proust. Parole, parole, parole, echi lasciati al vento, bottiglie gettate in mare con messaggi che arriveranno solo quando sarà troppo tardi. Leggendo si è avvolti da una desolante sensazione di solitudine, nessuno ha la bontà di raccogliere l’invito, a volte sottotaciuto, di dialogare. Nemmeno gli autori, che dovrebbero possedere per natura la brama di conoscere, di scambiare e scambiarsi gli abiti e gli occhiali per trasformare le parole usuali in nuovi scintillanti carri allegorici, neanche loro sanno più andare oltre la lettura e costruire nuovi percorsi figli di discussioni lunghe e fitte.

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Il silenzio è d’oro, a volte è meglio tacere, certo, ma rimanendo seduti a guardare il mare di parole che non sanno parlarsi e di io in perenne attesa, è lecito chiedersi se non è allora vero il vecchio andante “asino chi legge”, forse ancora di più chi vorrebbe esser letto ma non ha la voglia e la forza di confrontarsi nel dialogo. Stia bene l’abbondanza, felicità di ogni lettore puro, senza velleità artistiche, qui le vacche sono ben grasse a prima vista, ma se ci si addentra nella stalla modello si vedranno molte vacche magre, quelle che attendono lettori e squarci di attenzione fatti di un qualcosina di meno stitico del “bello, mi piace!!!!!”. (qui l’abbondanza di esclamativi è un obbligo quasi morale oramai). Fermarsi davanti alle epigrafi, “non ti scordare di me mio buon passante, ricordarmi anche solo per un soffio”, per dare un pieno a sequenze interminabili di grafemi è un primo passo per superare il famoso “non guardarmi, non ti sento”, “basta poco che ce vò”.

Chi va piano va sano e va lontano La sicurezza sulla strada è sicuramente un argomento che merita ben più della semplice attenzione perché la posta in palio è massima: la vita, di chi è guidatore ma anche di chi rimane inconsapevole vittima dell’altrui sbaglio. Si parla molto di inasprire le regole e di essere maggiormente severi nel giudicare i guidatori, punti da togliere sulle patenti, di certo molto meno dolorosi e profondi di quelli di sutura, campagne di prevenzione e maggiore attenzione durante i famigerati week end. Tutto questo è giusto e va fatta ogni cosa perché il livello di incidenti sulle nostre strade vada a diminuire ma come si dice andrebbe fatta ogni cosa non solo una piccola ed esigua parte. Si parla molto di tasso alcolemico (fra l’altro sotto stimando un altro fattore di rischio notevolmente diffuso la droga, che non solo è severamente sconsigliata prima di mettersi alla guida ma, a dirla tutta, anche se non si possiede alcuna patente) e di velocità ma poco o nulla si dice di tutta la serie di ostacoli e di pericoli che ogni guidatore si trova ad affrontare, suo malgrado, quando deve per forza mettersi alla guida; poiché non sempre si tratta di una scelta libera, soprattutto quando si vive lontano dalle città diventa una necessità, nemmeno troppo amata. Le strade italiane più che lunghe fasce di asfalto ricordano degli scolapasta pieni di buchi, spesso rattoppati con un po’ di catrame pronto a svanire con le prime piogge, per lasciare spazio a minacciosi pozzi di cui non è possibile stimarne la profondità se non capitandoci dentro (non sempre è possibile zigzagare per le corsie a nostro piacimento, perché ahimè non è un video

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gioco dove dopo il game over è possibile iniziare una nuova partita, qui la fine è fine). Un tempo le strade avevano pendenze lievemente a schiena d’asino per far si che l’acqua andasse a concentrarsi ai lati, nelle care e vecchie cunette (canali di scolo per la percolazione dell’acqua piovana n.d.s.), opere dell’ingegno deputate a far scorrere il liquido verso i tombini, e già, chissà dove sono andate a finire le cunette, forse estinte con l’impero romano? Chissà. Ora invece l’effetto al volante, durante le lunghe giornate piovose, è più simile al pattino (o pedalò) in mezzo al mare. Al dondolio scivoloso dell’acqua planning a volte si aggiunge, per rendere più adrenalinici les jeux sans frontières, la caduta di alberi lungo le carreggiate, l’incuria del bosco e del sottobosco (troppo semplice invitare a pulirlo in cambio di legna da ardere) regala, in taluni casi, piante in caduta libera senza preavviso. Non ci credete? Vi assicuro che è vero, testato in presa diretta.

Killing me softly Nella televisione accesa, da veline a loden, vecchia politica e solite parole corrono con calma, perché bisogna “fare sacrifici insieme” ed intanto, nel silenzio e nell’indifferenza di uno Stato, aumentano i suicidi da crisi. I dati ci sono, seppure, come sempre, mai chiari e limpidi del tutto (http://www.cgiamestre.com/2012/04/suicidi-con-la-crisi-quelli-economici-sono-aumentati-del-246/), però i casi aumentano perché la disperazione di “non riuscire più a mantenere la propria famiglia,” più ancora di sé stessi, è lacerante. Ci si sente oggetti inutili da gettare in una discarica umana, questa è una sensazione che corre nelle vene di molta gente, troppa. Si parla di crisi e allora bisogna salassare, diciamolo pure, che tanto è facile, facendo pressione su chi è già povero e non può sfuggire al taglio della scure, perché tutto è nero su bianco: busta paga, rate e bollette. Bisognerebbe ridurre i consumi, davvero sprechiamo troppo, al contempo dovremmo avere uno stipendio da spendere per dare ossigeno agli acquisti, dovremmo produrre, dovremmo “alimentarci” da soli, per non cadere nel vuoto del dipendere in tutto e per tutto da altri e non avere il denaro per saldare i nostri debiti. Tagli indiscriminati e l’economia non si rilancia, anzi si paralizza, cari geni della fuffa, così come il lasciar sopravvivere in silenzio le caste, dopo gli strilli di una giornata, perché fanno troppa paura e perché se ne è parte. Questa logica non ferma l’emorragia lenta di un paese che potrebbe vivere senza drammi il contemporaneo, al contrario, lo soffoca con le sue stesse mani. Uomini e donne, senza limiti di età e di censo, perché in fondo a parte la gabbia dorata che sta appesa oltre il cielo c’è un grosso calderone indistinguibile di

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sopravvivenze senza domani, preferiscono togliersi la vita, come atto disperato che nasconde la vana speranza di essere più utili da sotterrati. Le famiglie cercano di sostenere gli anelli deboli, solo che sono troppi, ormai, e il potere d’acquisto diminuisce, come le entrate, ma aumentano, chissà come, solo le tasse (http://www.ilsussidiario.net/News/Economia-e-Finanza/2012/4/4/RECESSIONE-Bankitalia-crolla-il-reddito-delle-famiglie/264593/, http://www.lettera43.it/economia/macro/famiglie-senza-piu-reddito_4367546122.htm, http://www.repubblica.it/economia/2012/04/04/news/bankitalia_crolla_il_reddito_delle_famiglie-32742354/?rss) e, così, si cancellano ruoli e reti di sostenibilità arcaicamente radicati nei nostri Dna. Non si vedono più vie d’uscite e, allora, si cercano punti certi senza ritorno. Se i cittadini diventano pesi inattivi, non inseribili in un mercato economico, si crea una diseconomia insostenibile che erode il tempo vissuto, perché è la vita stessa a veder cancellato il suo significato di utilità all’interno di un contesto sociale condiviso. La miseria, prima di tutto mentale e culturale, cancella il ruolo sociale di un individuo e toglie la libertà di essere persone; eppure la nostra costituzione sancisce e suggella sotto l’egida legislativa cosa è la nostra Repubblica Art. 1 “L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. (http://www.governo.it/governo/costituzione/principi.html). Chi si impegnerà a salvare l’articolo 1? Naturalmente è fondamentale sottolineare che il lavoro non è, qui, schiavitù, come ricordava la scritta Arbeit macht frei all’ingresso dei campi di sterminio, sarà su questo punto che i governanti fanno confusione?

Bentivoglio Angelina Un breve video ha fatto il giro del mondo, lanciato su tutti gli schermi più che suscitare la forte essenza dell’informare per conoscere ha lasciato un sapore di fiele con un disgustoso retrogusto: l’inutile infierire sulla dignità umana. Il nuovo millennio invece di cancellare l’imbecillità (“la madre degli stupidi è sempre gravida” sancisce la saggezza popolare) ripropone usi e costumi dai retaggi più che barbarici inumani, ossia senza un lontano briciolo di umano cervello funzionante (anche prendendo in considerazione il minimo sindacale richiesto dalla decenza). Una piazza, una donna punita e una folla divertita, questa è la parità e il rispetto? Coperta di veli, o completamente svelata, segregata in casa, incapace di intendere e di volere, derisa e sottomessa, biblicamente colpevole dalla “notte dei tempi” (soprassediamo che per il Libero Arbitrio concesso da Dio l’altra metà, se non fosse stato fesso al cubo, avrebbe potuto gentilmente rifiutare l’offerta della compagna e nulla sarebbe successo) tutto questo è la donna oggi e non serve andare a cercare l’ignominia in paesi lontani, basta guardare fra le nostre calde e rassicuranti mura domestiche. Violenze reiterate e subdole colpiscono individui fragili, non solo fisicamente, le cicatrici si rimarginano, ma soprattutto mentalmente, togliendo alla donne la consapevolezza di essere persone. Il numero delle violenze è in crescita ma, ad eccezion fatta di brevi grida da strillone di piazza in campo nei momenti giusti, si fa poco o nulla per cambiare le cose, in fondo, suvvia allarmismi inutili. Si chiede di denunciare e di uscire allo scoperto, peccato, però, che sino all’irreparabile nessuno presti attenzione alle voci disperate, compreso le legge, alla fine

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dei conti, “oltre al danno la beffa”, si sapeva e non si è fatto nulla. Assassini non per caso rilasciati o liberi ritornano colpiscono e poi, forse, saranno puniti, ma questo non farà tornare in vita le vittime di una prevedibile cronaca di una morte annunciata. Raccapricciante è il risultato dell’analisi “La Violenza contro le donne” condotta dall’Eurobarometro (http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/ebs/ebs_344_fact_it_it.pdf, dati sino marzo 2010): in Italia ben il 7% ritiene che la violenza, sebbene inaccettabile, non sempre debba essere punita per legge, ma certo in fondo è sempre colpa delle donne se: vanno in giro con abiti succinti e/o attillati, se salutano, se sorridono, se ti avevano guardato, se sono amichevoli, se dicono di no, se si sa benissimo che vogliono essere conquistate, se avrebbero dovuto dire di si dai segnali di fumo ma poi due di picche, se non gli piaci, etc (sarebbe un elenco sconfinato e lo riduciamo alle motivazioni più gettonate), è chiaro no! E il 2% la ritiene accettabile in certe circostante, bene allora sarebbe sempre ammissibile sugli idioti? Perché se così fosse cominceremmo proprio da chi ha dato questa “intelligentissima” risposta. Chissà se lo considererebbero ancora accettabile? Non dite insignificanti percentuali perché essere rimasti dei Neanderthaliani non è certo un vanto. Né giustificarsi sottolineando che, molte volte, sono proprio le vittime ad amare disperatamente i loro carnefici, a proteggerli e a sperare in una loro miracolosa redenzione. Il famoso “ti cambierò” non funziona nemmeno nei film. Sindrome di Stoccolma un par de ciufoli, è un lavaggio del cervello reiterato, con un meccanismo lacerante che s’insinua nelle pieghe della fragilità creando canyon senza fondo, non è facile da cancellare, soprattutto quando si è annientati a livello mentale. Si vive come invisibili e spettrali relitti che non osano nemmeno più considerarsi individui.

La par condicio non si ferma ai reati di stalking e molestie sessuali sul lavoro equamente (sarebbe da valutare quanto l’ago della bilancia penda sul piatto del sesso forte) subiti da uomini e donne; l’attenzione su un problema di intelligenza e di civiltà non si limita a giornate isolate, che hanno sempre il sapore di amara commemorazione da conta dei caduti, o a notizie splatter buone solo per far audience. Quando mai si arriverà, senza venerazioni o sottomissioni, ad un bilanciato e naturale scambio paritario alla base di un vivere civile in un contesto sociale? Donna tutto si fa per te, non esageriamo tutto non è necessario ma il rispetto è d’obbligo.

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L’inferno Parola che evoca turpitudini avvolte da fiamme, dannazione eterna, l’allontanamento dal Vero. Non si sarebbe potuto scegliere nulla di più pertinente per denominare gli armadi segreti dove si rinchiudevano i libri “proibiti”, là dove s’inghiottiva la luce del sapere fra le tenebre ottuse dell’imbecillità. Una delle più colossali castronerie della storia dell’umanità è sicuramente la creazione dell’ Index librorum prohibitorum: il tentato omicidio di cultura e di libertà di pensiero attuata sotto il vigile e solerte controllo del Sant’Uffizio, nato sotto l’astro oscurantista del concilio tridentino. Accanto all’Indice, nel corso dei secoli, attraverso un salto asincrono ante e post XVI secolo, le censure sono state migliaia. La storia di ripete uguale a sé stessa, ogni potere forte, o che tale aspira a divenire, sæcula sæculorum,si è preoccupato nell’immediato di cancellare il libero pensiero. Attraverso una programmatica azione di lavaggio del cervello pro ignoranza si è bruciato, condannato, bandito ogni libro o libello (e i suoi autori, ove possibile) che potesse aprire le menti, o, quantomeno, suggerire delicatamente che, forse, esistevano altre strade da percorrere. L’orrore perpetrato ai danni della libertà di pensiero e di lettura per il contemporaneo sembrava, ormai, retaggio di un passato storico lontano, bigotto e moralista, favorevole al filtraggio a maglie strette dei messaggi e delle idee, che dovevano fermarsi prima di arrivare alle masse, per non rischiare di mutare privilegi, ordini morali e sociali di comodo. Sembrava, appunto. L’imperfetto del sistema censorio riapre nuovamente i battenti attraverso subdoli sistemi di comunicazione che inneggiano alla tutela della privacy, bieca scusante, e a quella della morale e delle idee,

che, maligne, potrebbero portare ad una rivoluzione, ma io direi meglio e-voluzione, del sistema socio, culturale, economico e politico attuale. Ora, tutto questo, a livello di società evoluta e immersa nella comunicazione senza confini, è assolutamente insostenibile: un libro, così come un articolo, un post, un autore, etc, buono o cattivo che sia (fra l’altro questo è opinabile e, totalmente, soggettivo) ha diritto di essere letto e sottoposto al personale giudizio di ogni suo lettore o di chiunque ritenga opportuno, per qualsiasi motivo, leggerlo. La scure censoria è un atto incivile mai scusabile e, a rigor di logica, una riflessione banale vale pur la pena di farla. La censura, in realtà, sortisce, spesso, l’effetto opposto a vantaggio proprio del censurato. A volte il senso di proibito stuzzica il desiderio di conoscenza e, così, invece di cancellare dalla memoria un testo, ritenuto pericoloso o potenzialmente dannoso, ne amplifica l’aurea attrattiva. In taluni casi testi mediocri o da niente di nuovo sul fronte occidentale diventano popolari, accrescendo la forza persuasiva, proprio perché contrastati dall’alto; sul concetto di fondo prevale il senso di sfida alle regole e il gusto del proibito, che riescono anche ad arrivare a mitizzare scritto e scrivente. In ogni caso la recherche del libro condannato è un buon volano per la sua diffusione “sottobanco”, che diventa una miccia fertile e attiva per nuove idee. Perciò ci si chiede ma ha veramente senso la censura, nostri moderni censori? Credete davvero che imbavagliare servirà a nascondere la spazzatura sotto la doratura posticcia che fate risplendere? La storia non vi ha insegnato che la libertà è

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un canto di sirena che vale sempre la pena di ascoltare, sæcula sæculorum, e così sia.

Dress Code Confetti reali a go go ci sommergono con un mare di servizi kitsch quanto trash su un mondo dorato che non è più capace di regalare sogni da favola. Fra tanti racconti dal sapor scipito da cibo preconfezionato non potevano mancare certo quelli dedicati alla scelta degli abiti, mica solo quelli dei regali sposi, per carità, ma di tutti gli invitati, e a chi non interessa? Sul tema dell’importanza di un abito, per apparire prima ancora dell’essere, “inciampo” quasi per caso in un passo di Hemingway (http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/409175/), è dunque vero che anche chi sta nell’Olimpo deve indossare il giusto costume per il Ballo in Maschera del viver quotidiano. Tutti a dire che “l’abito non fa il monaco”, che non è importante ma “fra il dire e il fare c’è in mezzo il mare”. Se si prende la briga di guardarsi attorno sarà facile, molto facile, notare macchie uniformi inserite in diagrammi di Eulero Venn che dietro alla loro uniforme racchiudono un messaggio standard automaticamente decodificabile da “gli altri”. Una giacca rende le persone professionali, degne di ascolto e fiducia, così come una gonna corta dice che la persona in questione è poco seria e superficiale, ma ogni categoria umana, ogni piccolo recinto, ha i suoi codici d’abbigliamento, così chi ama il rock deve per forza usare jeans e pelle e chi ama i libri essere castigato, noioso, meglio se con occhiali, e potremmo continuare all’infinito. Mi dite banale? Assolutamente oltre il banale, assurdamente superficiale ma provate a fare mente locale e chiedetevi se non l’avete pensato anche voi, e in più di un caso, o quante volte l’avrete sentito dire, un’infinità, elevata all’ennesima potenza.

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La società liquida, poi, amplifica la codificazione e allora non bastano più solo l’abito, l’atteggiamento e il comportamento, bisogna “clonarsi”. Il diverso fa paura, annienta e spaventa, perché ha personalità e cervello autonomi e allora è necessario cancellarlo, reprimerlo, incorporarlo nella casellina del “normale”, o meglio nel proprio concetto di normale, che è ben diverso. E così, anche gli adulti devono, oggi, in assenza di idee e pensieri veri, omologarsi anche fisicamente, attraverso stampi plastificati, da automi fisici e mentali, per confondersi nel mucchio senza voce. Quale tristezza sentir dire “la nuova x o il nuovo y”, non avere nessun tratto nuovo, dentro e fuori, ma essere un clone, di un clone, di un clone, rifatto, adattato e plasmato per piacere ad un pubblico con un kunstwollen che è ben difficile da inquadrare nel concetto di “gusto”. Nella società del melting pot è più facile di quanto si possa credere ghettizzare e targhetizzare gli individui per un abito, non c’è tempo per approfondire, ammesso e concesso che poi si abbia voglia di farlo, né si hanno i codici per valorizzare gli stili, meglio affidarsi a modelli imposti, seppur in via subliminale, accettati e riconosciuti. Basterebbe pensare che lo stile è l’essenza esteriore del proprio modo di essere, non a caso tutti i grandi stilisti, quelli veri, hanno sempre ribadito che la moda è creatività anche per chi la indossa, ognuno deve crearsi il suo stile e riformulare le idee e la moda su di sé. L’essere sé stessi dovrebbe essere il punto di partenza per dare un tocco di colore particolare al grande affresco umano; un quadro originale è meglio di un seriale sticker da incollare su un album di figurine, n’est pas?

Poveri ma belli Le vetrine del Corso, con i loro scintilli, rispecchiano mute la cruda realtà contemporanea: il Titanic, fra danze e musica, si dirige allegro verso l’inesorabile scontro con l’iceberg, con il finale noto a tutti, eppure il disastro si sarebbe potuto evitare. Ultimamente, sempre con maggiore frequenza, si sente parlare di “nuovi poveri”, con aria di sgomento si sottolinea “famiglie italiane”, che sorpresa verrebbe da dire, ma, evidentemente, nel giardino dei Finzi-Contini la vita reale arriva a piccoli tratti e rarefatta, così quando questo accade non rimane che indignarsi, perché i poveri ora siamo di nuovo noi, i fratelli d’Italia (http://www.aspects.it/index.htm, http://www.caritasitaliana.it/materiali/Pubblicazioni/Libri_2010/rapporto_poverta2010/IC_ottobre2010 ). Dal bianco e nero all’era digitale il fil rouge è ancora pane, amore e fantasia, o meglio è rimasto il pane, in quantità ridotte, mentre il resto ha lasciato il posto ad un più drammatico riso amaro. L’Italia s’impantana sempre di più nella spirale del depauperamento e la povertà diventa notizia da prima pagina. Trovare soluzioni è complesso, più semplice trasformare le persone in fenomeni da baraccone, da esibire sotto il luccicante tendone mediatico per un giorno o forse due e poi spegnere la luce sui bisogni e sulla dignità calpestata e così sia. Oplà finito il servizio cala il sipario senza lasciare traccia nelle coscienze, con un repentino cambio di scenario si ritorna alla superficialità vuota e ad un’immagine stereotipata e falsata della società. Una censura mentale e comunicativa sottovoce, senza strilli con un ritmo continuato, piccole stille quotidiane per un placido stanno tutti bene. Troppo occupati a prendercela con gli immigrati che rubano il lavoro agli autoctoni

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(saranno microscopici dettagli ma spesso sono proprio i datori di lavoro che vorrebbero chiudere i confini ad assumerli, chissà perché c’è quest’antitesi fra pensiero politico e azione concreta) non ci rendiamo conto di essere tornati emigranti forzati, con la valigia di cartone chiusa da un filo di spago. L’idea di abbandonare il suolo natio per cercare un futuro migliore è oggi una necessità per molti, alla ricerca dell’America sperando di non finire a Marcinelle. Via via, vieni via di qui, niente più ti lega a questi luoghi, dovrebbe essere un’opportunità in più da cogliere non il viaggio forzato verso la speranza, la ruota gira e gli altri siamo di nuovo noi.

Fatte non foste a viver come bruti “Odi et amo, Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior”. Come sia possibile crocifiggere la cultura, depauperandola, defraudandola e scacciandola ai margini, senza che nessuna voce di dissenso sappia tramutare slogan e parole al vento in un solido un rompighiaccio capace di rompere la spessa coltre di ottusità, ignoranza e diseconomia vigente non me lo so spiegare. In primis è d’obbligo capire, una volta per tutte, una cosa essenziale, evitando l’imbecillità imperante da “se hai il vuoto dentro hai fatto centro”: la cultura è l’incipit e l’excipit stesso di una società, di una nazione, di un’etnia e di ogni singolo essere umano. Senza di essa non si hanno radici né nuovi innesti da far crescere, si è solo marionette i cui fili sono mossi a discrezione dei burattinai. Capire, conoscere, imparare, ragionare secondo la personale logica, con il proprio cervello e non per “frasi fatte”, buone solo per incartare un cioccolatino, cercare l’essenza dei contenuti e non limitarsi alla confezione di parole vuote sarebbe atto necessario e dovuto, prima di tutto verso sé stessi. Senza cultura una società muore, ma, forse, nel mondo attuale, non importa quasi a nessuno. Dimenticare è atto semplice e comodo, soprattutto per chi dirige i giochi, ma conoscere i percorsi storici dell’umanità è l’unico modo sicuro per evitare di reiterare i medesimi sbagli per banale ignoranza, come dice il proverbio “Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, et tertia non datur”. Ignorare, sia chiaro, non è un male irrimediabile, ma diventa peccato mortale se non si colmano i propri vuoti di conoscenza, con umiltà e pazienza. Superato lo scoglio dell’ovvio ragioniamo

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sull’immenso circuito economico che la cultura (e con essa, intendo letteratura, arte, design, archeologia, architettura, pittura, scultura, storia, economia, know how, cultura popolare, tecnologia e molto altro ancora, n.d.s.) genera. In un paese come il nostro la “cultura”, da sola, potrebbe comodamente impiegare tutta la popolazione esistente, senza esagerazioni. Peccato sia più comodo etichettarla come peso, non è difficile fare operazioncine semplici sui tre valori: spesa, ricavo, guadagno. Partiamo dall’indotto basilare, ossia, da tutta la forza lavoro che mette in campo, partendo dai professionisti e tecnici (si potrebbe obiettare che non sempre c’è meritocrazia, vero, ma è risolvibile a monte la questione, se solo lo si volesse davvero…), passando per le università, gli istituti e le associazioni culturali, sino ad arrivare ai custodi. La cultura mette in circolo enormi risorse, umane, produttive e finanziarie e genera movimenti a saldo nella voce “entrate”. Nonostante la crisi gli spettatori e gli utenti paganti aumentano (nei musei, negli eventi collaterali, etc), segno che la cultura è un bisogno reale e che i denari si incassano (magari si perdono per la via, ma questa è altra storia, fra l’altro, tipicamente italiana). Questa è solo la punta dell’iceberg ma un singolo evento genera a pioggia una ricaduta positiva a cerchi concentrici allargati, che si allontano molto dal suo epicentro, movimentando l’economia a micro e macro livelli. Vi pare esagerato? Semplifichiamo con un esempio banale: un evento culturale qualsiasi, festival o mostra scegliete voi, oltre ai professionisti, richiede personale tecnico specifico per gli allestimenti ad esempio, o per i restauri ad hoc, e i materiali necessari, che devono essere acquistati e, ovviamente, questi sono stati prodotti da aziende (tradotto: acquisto, produzione/trasformazione/vendita/consegna/messa in opera); in un festival, poi, ci sono i partecipanti che per creare le opere in

concorso generano micro economia, persone coinvolte, creazione di circoli di collaborazione, acquisto o nolo dei materiali, invio degli stessi, a mezzo posta o corriere (che devono essere pagati e incrementano i loro incassi in funzione dell’evento, entrate che non avrebbero altrimenti avuto). Se, poi, i vincitori diventano famosi è un ritorno d’immagine per gli organizzatori immenso; comunicazione (tv, giornali, radio, internet) e pubblicità, non solo le agenzie coinvolte ma l’effetto che partecipare ad un evento, ospitarlo o esserne promotori genera, poi, su vasta scala e su lunghi periodi, con ricadute oggettive monetizzabili a sostegno del brand o del luogo ospitante. Un esempio? Confrontate Torino pre e post Olimpiadi e ve ne renderete subito conto; gadget, accessori, libri e simili legati alla mostra che sono ideati, prodotti, pubblicizzati, trasportati, venduti, attraverso una lunga filiera. Diventano, inoltre, una pubblicità extra continua nel tempo per l’evento e per i loro produttori; agenzie e strutture turistiche, di ogni genere e grado (bar, alberghi, ristoranti, etc), e commerciali che sono coinvolte a più livelli; i trasporti, non solo le ditte di spedizione che muovono materiali, strumenti, etc per l’evento stesso, ma i trasporti pubblici, che sono scelti da migliaia di persone, in Italia e all’estero, per recarsi all’evento, i benzinai e le autostrade, chiamati in causa per le utenze che utilizzeranno un mezzo privato; lo Stato stesso che, se è pur vero che eroga finanziamenti (quasi tutti europei), incamera imposte e tasse da tutti gli agenti coinvolti in questo immenso processo già descritto; etc. Potrei andare avanti all’infinito ma l’elenco è sufficiente per provare che definire la cultura un peso di saldo negativo è, non solo da stolti, ma diseconomico, alla stessa misura dei tantissimi atti di scempio perpetrati ogni giorno a danno del nostro immenso patrimonio culturale.

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Auguriamoci che Gesù Bambino (o Santa Lucia, San Nicola, Babbo Natale o la Befana, purché almeno uno ascolti) porti agli italiani come regalo di Natale la logica ragione, per sostenere, promuovere e sviluppare la cultura in tutte le sue manifestazioni, e, indi, l’economia reale di un paese che, avendo tradizione, risorse, idee e know how, non dovrebbe nemmeno conoscere il significato della parola “crisi”.

Il foto ritocco degli italiani “Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. Tutti andavano a far scrivere il loro nome nei registri, e ciascuno nel proprio luogo d'origine. Anche Giuseppe andò: partì da Nàzaret, in Galilea, e salì a Betlemme, la città del re Davide, in Giudea. Essendo un lontano discendente del re Davide, egli con Maria, sua sposa, che era incinta, doveva farsi scrivere là.” (Lc, 1, vv. 2-5) passano i secoli e ancora non siamo immuni a questa rottura. Mi chiedo come, in tempi di tecnologia Web tutti in connessione, sia ancora necessario dover compilare manualmente (o in digitale, ma sempre mano è quella che inserisce i dati) una sequenza di domande piuttosto inutili quando tutto è registrato e consultabile online sempre e dovunque. Non polemizziamo. È necessario farlo e si faccia dunque, indi, prima cosa leggere le istruzioni, divertente assai, sono peggio di quelle di alcuni giochi in scatola dove non si capisce quasi nulla, ma sarà sufficiente rispondere alle domande, che sarà mai. Eccoci arrivati alla compilazione, nella prima pagina inserire i membri appartenenti al nucleo coabitativo principale, bene, ma mi chiedo perché reinserire poi gli stessi dati nelle singole pagine, dato che tutto verrà inserito in un computer, penna ottica o meno, che per sua struttura elementare ragionerà in binario, portando automaticamente il nome della casellina A, alla pagina x, con ripetuto casellina e nome. Teoricamente la tecnologia semplifica la vita e abbrevia i tempi, in teoria, evidentemente. Indicati tutti quanti, si passa all’alloggio, ora, quando una persona qualunque va ad

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acquistare o ad affittare un appartamento nelle stanze conteggiate ci mette pure bagno e cucina, che, fra l’altro, sarebbero quelle essenziali, il resto potrebbe pure essere optional, e qui invece no. Per facilitare l’induzione all’errore le devi sottrarre da quelle effettive, perché queste non si calcolano stanze come le altre. Passiamo all’anagrafica, giusto per far notare come le convivenze non abbiamo nessuna importanza in Italia, dogmi religiosi o meno, sono un dato di fatto effettivo, tra l’altro in aumento, indi nello stato civile lo status di convivente, dopo la gran rottura di anagrafi create appositamente per questo, andrebbe giustamente inserito, se davvero vogliamo una fotografia diretta, leggibile ed immediatamente chiara delle famiglie italiane. Il divertente arriva nella situazione lavorativa, evidentemente meglio annacquare i dati per rendere meno sfacciatamente chiaro il ristagno creato ad hoc per la nostra misera nazione. Prima di tutto non è più diretto come dato, e direi più d’effetto, indicare per chi non ha un lavoro attuale semplicemente disoccupato, non occupato, licenziato o in cassa integrazione. Questo è l’unico dato che conta, sarebbe una bella strisciata rossa che andrebbe a coprire invece gli effettivamente occupati, quelli si divisi per tipologia di contratto. Invece no, per edulcorare la pillola si chiede di compilare ugualmente tutta la trafila delle domande sul lavoro riferendosi a quello precedente, e che senso ha? Se non ce l’ho più, per vari motivi, perché metterlo, indico solo che non ne ho uno ad oggi. Quanto poco sia chiara la tipologia delle attività economiche ancora esistenti in Italia lo si vede dalle domande sul tipo di lavoro e sulla categoria produttiva di appartenenza, migliaia di professionalità, e non solo culturali, di norma quelle di per sé ghettizzate, e di campi di produzione sono lasciati fuori e ci si chiede, ma allora per tutte le assenze che si fa, si tira a caso, si generalizza?

Questo sempre per avere dati corrispondenti al vero, bastava lasciare un’opzione altro, a scelta o meno la specifica. I lavori di oggi, molto spesso fluidi e sottopagati, sono diversi da quelli di ieri e sarebbe bene metterli in luce, integrando i dati con la tipologia di contratto, con la fascia d’età e di istruzione posseduta, così si che la vergogna attuale avrebbe la sua giusta visibilità. Idem per le pensioni, mettere in un’unica casella pensione per lavoro, reddito e invalidità ha poco senso, come mettere in generico “altri” tutte le altre tipologie pensionistiche. Siccome sulle pensioni si gioca molto, allungando i tempi per i lavoratori e lasciando fuori gli altri, rompendo il cerchio il sistema non funziona e si vede, sarebbe meglio avere la specifica casella sotto pensione da barrare, in modo che arrivi chiaro chi percepisce cosa. Infine lo spazio dedicato a quanto tempo ci metti a raggiungere il lavoro e con quale mezzo ci vai, certo risulterà che gli italiani sono antiambientalisti usando l’auto più degli europei, ma, ecco, avessero chiesto hai mezzi alternativi comodi e vicini per cambiare abitudine? S arebbe emerso che in Italia, fatto salvo se abiti in centro città, non hai molte possibilità di fare diversamente, niente car sharing, niente stazioni (e poi come servizio i pendolari sanno che calvario sia), niente pulmann, o esistono ma in orari impossibili, niente tram, metro o simili. Indi cosa resta da fare se non lavoro nel raggio di pochissimi km? Non serviva mica un censimento per saperlo. Trasparente e semplice, renderebbe più facile i controlli e mostrerebbe una situazione ben diversa da quella che si cerca di mettere in luce usando i dati a propria discrezione a seconda del momento. Chiudiamo in bellezza con il quadro 8 per difficoltà legate alla vista, udito o mobilità, dati non di primaria importanza, ci possono stare

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ma se abbinati ad altro, anche in fattore del calcolo delle possibili scelte in fatto di sanità. Non sarebbe invece meglio mettere a fuoco chi ha patologie allergiche, un dramma per le spese mediche future, dato che le allergie sono in crescita e non sono mali guaribili totalmente, oppure l’incidenza di quelle tumorali, incrociandole con i dati geofisici si potrebbe scoprire come aree considerate salubri non lo siano in realtà, ma, forse, meglio non saperlo. Lasciando a parte la richiesta di aiuto, li tutto dipende dalla fortuna nell’incontrare, al telefono o fisicamente, la persona che sa fare il suo lavoro. Se l’Italia che verrà parte da qui http://censimentopopolazione.istat.it/ partirà con quadro parziale e poco rispecchiante la reale situazione del paese, partendo da focus inesatti o troppo superficialmente rigidi. La domanda sorge spontanea “a chi giova tutto ciò?”, a dire il vero un’idea ce l’avrei…, a voi l’ardua sentenza.

Non fria, frana! Ogni qualvolta la pioggia decide di cadere copiosa, oserei dire sempre con maggiore frequenza, a turno le nostre povere regioni si trovano a contare gli ingenti danni, umani e materiali, chiedendosi il perché e gridando disperatamente aiuto. Purtroppo ci risiamo ma cosa servirà tutto questo? Perché i disastri, con tutta la negatività e il dolore che portano con sé, dovrebbero, almeno, essere un monito per imparare dagli errori commessi e per migliorare le cose affinché tutto questo non possa accadere più o, per lo meno, sia prevedibile, con una riduzione netta della quota di danni possibili e dei conti da saldare. Qui, invece, la catastrofe è buona solo per fare notizia e poi finito il pathos del momento tutto torna come prima, e non dite no, è tristemente e assurdamente così. Puntuale come un orologio svizzero l’autunno, come la primavera del resto, si è portato via una pezzo di noi, disgregando, travolgendo e cancellando i volti dei territori a rischio idrogeologico. In Italia, e non è mistero, la densità della popolazione è maggiore proprio nelle aree più facilmente soggette a catastrofi naturali (http://www.isprambiente.gov.it/site/it-IT/Temi/Suolo_e_Territorio/Rischio_idrogeologico/, http://sgi1.isprambiente.it/geoportal/catalog/main/home.page, http://sgi1.isprambiente.it/ArcGIS/rest/services/servizi/iffi/MapServer?f=jsapi), già questo dovrebbe suonare come un insistente campanello d’allarme. In fondo, però, qui vale la regola del “sino a che non tocca me stiamo tutti bene”, ossia, perché leggere le carte geologiche, conoscere la geomorfologia del suolo, gli elementi naturali, il rischio probabile, combattere la speculazione edilizia e gli interessi mafiosi di pochi?

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Che sarà mai, non è mica detto che accada e, se poi succederà, che io sia qui, o, se ci sarò ci penserò al momento, questa è la spaventosa logica italica, laissez faire, laissez passer. Costruzioni in terreni a rischio, nessun riguardo per le aree di rispetto intorno ai fiumi, argini che hanno il solo pregio di rendere più devastante il trasporto dei detriti durante la piena, strutture moderne fatte con materiali scadenti, che cadono come fiocchi di neve leggeri alla prima difficoltà, mentre le costruzioni antiche, pur rattoppate, resistono e guardano dall’alto della loro perfezione razionale e tecnica l’ignoranza e l’avidità odierna. Boschi lasciati all’incuria, un tempo fonte di ricchezza, che dovremmo imparare nuovamente a sfruttare in modo razionale, o obliterati da nuove costruzioni, elementi naturali sottovalutati o maltrattati che ci si rivoltano contro come boomerang sui denti. Luoghi sfregiati dalla sovraumana potenza della natura porteranno segni indelebili, ma bisognerebbe prima farsi un esamino di coscienza, perché la natura si ribella sempre all’imbecillità dell’uomo che si crede essere superiore, ricordandoci, nel modo peggiore, che nessuno vince su di lei. Tutto molto chiaro, tutto chiaro a tutti, ma le notizie splatter sono sempre buone per fare audience e “scoprire l’acqua calda”. Qui voglio sottolineare la assoluta idiozia, perché lo merita, di frasi del tipo “il fiume ha trascinato auto perfino nelle case”, ringraziamo Iddio che ha lasciato integre le case, ma avete idea della potenza di acqua e detriti, soprattutto su pendenze favorevoli? Direi di no, eppure basta usare la logica. Immagini in loop, frasi di circostanza, toni drammatici, le sciagure in prima pagina, almeno per qualche giorno: il je accuse; si doveva; come è possibile; si parla della carta del rischio idrogeologico, nessuno vi ha detto che non è un jolly ma uno strumento di studio e prevenzione?; dove sono andati a finire i soldi; le nuove strutture crollano; e molto altro.

Banalità su banalità buone per riempire di parole i video, ma spenti i riflettori tutto come prima, “chi rompe paga i cocci sono suoi”, tenetevi il danno, fate scempio e ci vedremo alla prossima. Sarebbe logico, razionale ed economico non dover essere così cinici ma purtroppo la realtà è questa, frana.

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Dura lex sed lex In epoche non sospette la scritta “La legge è uguale per tutti” (Costituzione, art. 3) che campeggia nei tribunali era un monito, almeno a parole, con un suo peso specifico, sottolineato anche dall’austera figura della Dea della Giustizia che con la sua stadera tutela impassibile, da tempo immemore, l’equità di giudizio. I tempi moderni stravolgono i concetti e mutano gli ambienti e così nelle oscure aule di tribunale si è insinuata, pare, un’insana bicromia fra le toghe, le rouge et le noir, un effetto che non appaga in senso cromatico l’occhio e lo spirito artistico des gouvernants. Parbleu il y n'a plus respect pour les lois in questo teatrino di marionette, con fantasia malata e chiara malafede, s’inventano scandali e reati inesistenti da scaricare su poveri cittadini che hanno la sola colpa di stare alla guida di un paese. Intercettazioni di innocui dialoghi d’amitié, innocenti evasioni, c’et tout. Dov’è finita la privacy? Non si può più nemmeno telefonare. Strano, però, se effettivamente si prendessero la briga di ascoltare tutti i cittadini, come il Grande Fratello (non me ne vogliano i “gieffini” ma qui è riferito a 1984 di G. Orwell, da cui fra l’altro trae origine il titolo del noto programma, n.d.s), non credo nessuno si preoccuperebbe troppo, a meno che abbia una grande “coda di paglia” (suppongo che si assopirebbero ben presto nell’ascoltare scambi di ricette, pettegolezzi, tradimenti, litigi, pianti, malattie, televendite and so on). Suvvia “che male c’è che c’è di male” è palese che “le pubbliche funzioni sono al servizio del bene comune” (http://www.corriere.it/economia/11_febbraio_09/governo-decreto-modifiche_ec55e0b8-3436-11e0-89a3-00144f486ba6.shtml), sempre, e, sia chiaro, al di sopra di ogni sospetto mie care malelingue. Fatica sprecata e tanto lavoro gettato alla pubblica berlina solo perché non si è in grado di capire che si tratta di manovre necessarie

per la crescita dell’amato suolo natio, oltre tutto nel pieno rispetto della legge: “l'iniziativa economia è libera, ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge” (http://www.corriere.it/economia/11_febbraio_09/governo-decreto-modifiche_ec55e0b8-3436-11e0-89a3-00144f486ba6.shtml). L’Affaire necessita di una sfumatura a correttivo, non siamo mica nella Repubblica delle Banane. Bisognerà pur “prendere il toro per le corna”, à la fin l’état c’est moi, e che si sappia après moi le déluge “uomo avvisato mezzo salvato”…, seulement on a oublié la division des trois pouvoirs. L’esprit des lois non è picciol cosa, au contraire.

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Giano Bifronte La matematica pare stia diventando un’opinione e giocare con le scarse entrate altrui un gioco buono per tutte le stagioni. Quando le idee mancano, si potrebbe obiettare dicendo “quando mai ce ne sono”, è vero, ma si cerca sempre di concedere un po’ di fiducia al presente e al futuro, l’unica cosa che si è in grado di proporre per intascare altri denari è la stretta sulle pensioni (ma tutte le gabelle che versiamo ci si chiede dove vanno a finire? Nello scarico del wc?, nel dimenticatoio? Persi in qualche vecchio pouf? Mah…) (http://www.corriere.it/economia/11_luglio_02/pensioni-revisioni-tagliate-a-partire-da-1400-euro-mario-sensini_58d44648-a477-11e0-9ba2-3e9ac4006989.shtml). Or dunque, “se tanto mi da tanto”, per prima cosa mi dico dove potete ancora stringere visto che avete ridotto alla fame un fetta talmente larga della popolazione da essere quasi la totalità della torta e poi perché ridurre le pensioni di chi lavora una vita onestamente? Non sarebbe più semplice toglierle a chi scalda una sedia ”a ufo” per giocare con le vite altrui? Toglierle? No! mi dareste dell’estremista e a quello ci pensava già la mia docente in tempi universitari lontani. Allora saremo più magnanimi, concediamola, non dopo un risicato numero di anni che è vergognoso solamente ripetere, ma passato un tempo ragionevole, possiamo proporre da venti in poi, ad esempio, così si potrebbe già effettuare un buon taglio dove effettivamente andrebbe fatto. Lo spreco è spreco e si abolisce dove è da considerarsi tale. Altro piccolo ragionamento logico, da unità colorate di legno che ricordano la prima elementare, non ancora primaria: la vita essendo una ruota gira, per cui se si innestano i giovani presto nel mondo del

lavoro avranno tutto il tempo di versare le pensioni per chi c’è già nell’Olimpo, avendo lavorato a suo tempo. Se, invece, si prolunga l’età pensionabile, non scollando dalle sedie gli anziani ma lasciandoli vegetare sui posti di lavoro fin che morte non li colga, quando mai si riuscirà ad inserire nuova linfa vitale? Meglio certo lasciare i giovani nel precariato, non pagarli, creare la “fuffa” degli stage o dei tirocini a vita, toglierli la possibilità di una contribuzione pensionistica futura e poi dirgli “sorry ma vivete troppo a lungo e siete solo un peso”. A questo punto perché non puntare ad un’estinzione programmata della razza umana? Oltre a ciò ci aggiungiamo “far di tutta un’erba un fascio” e tagliamo a caso l’invalidità e gli accompagnamenti. Gentili signori dal “cervello fino” non è più facile fare delle verifiche? Non è complicato perché è tutto alla luce del sole, tant’è vero che le “scoperte dell’acqua calda” non stupiscono nessuno, tranne, forse, il Bianconiglio, e far pagare chi ha gabbato lo Stato, compresi i “potenti”, invece di penalizzare chi ne ha effettivamente bisogno. Razionalizzare, certo, iniziate a snellire i vostri spropositati conti, a ridurre il numero di persone mantenute solo per dare “fiato alle trombe” e ad iniziare a ragionare in senso economico. Sarà tanto difficile fare questi semplici conticini? Non credo sono problemini da prima asilo; molto più facile, ne convengo, lasciare tutto in brodaglia a favore di pochi invece di ritrovare un senso lineare e compiuto di buona economia, concreta, tangibile e razionale. È primavera…svegliatevi bambine, prima che la continuata azione dell’acqua del Lete cancelli ogni traccia del mito di Adone.

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Una mela al giorno toglie il medico di torno

Fra tutti i servizi a corredo del viver moderno la sanità è di certo uno dei più importanti, sebbene non il più gradito, per tutti diventa, prima o poi, ahinoi necessario. I servizi, per definizione funzionale, dovrebbero “servire” a migliorare la vita degli individui all’interno di un contesto sociale, su questa base stranamente la prima voce di taglio della spesa pubblica è sempre, e comunque, la sanità, seguita a brevissima distanza da cultura ed educazione, per non farci mancare nulla, come si suol dire. Nel lunghissimo elenco di voci sfrondabili senza troppi sforzi dal bilancio dello Stato ad ogni giro di valzer, indipendentemente dai ballerini in pista, si punta il dito sul sistema sanitario nazionale e, senza indugi, a pieni polmoni si parla con enfasi dei prodigi della razionalizzazione business oriented frutto di una rigida gestione manageriale. Qualche cifra, un po’ di glossario tratto da “Il Marketing per ogni occasione” (il cocktail è semplice ma di grande effetto, si prendono pochi termini, possibilmente anglofoni e meno chiari possibili, senza badare al significato, spesso non ne hanno uno vero, si gettano in un bel discorso e il gioco è fatto, business know how che farà rimanere everybody a bocca aperta), un super amministratore, con C.V. chilometrico, et voilà faites vos jeux, il successo prêt-à-porter è garantito: aumento della qualità del servizio abbinato a un risparmio tangibile, business is business. Sul piano teorico il discorso non fa una grinza, però, le buone intenzioni rimangono spesso illusioni degne del grande Houdini. I poveri cittadini, poco felici già in partenza di dover fruire di tale servizio, si accorgono in un battibaleno dell’economia fatta, si vede ad occhio nudo, ma la qualità, si chiedono smarriti, dov’è? Quella non è visibile nemmeno sotto la lente di un microscopio SEM.

I nostri nosocomi ed affini sono, in gran parte, zattere alla deriva: tagli del personale, in fondo le risorse umane a che servono? Agnelli sacrificali di prima scelta da sempre; posti letti ridotti, “chi prima arriva meglio alloggia”, per gli altri Dio vede e provvede (si spera); accentramento delle strutture e chiusura di quelle non necessarie. Comodo e pratico lasciare vuoti a macchia d’olio sul territorio e costringere i degenti, e con essi chi deve assisterli, a lunghissime trasferte, decisamente geniale, in fondo chi non muore lungo il tragitto si rivede, forse, se trova una struttura che l’accoglie (perché non istituire un concorso a premi per i posti letto?); ospedali fatiscenti a corona di gioiellini nuovi di pacca che non verranno mai utilizzati, lasciati al degrado, dovuto allo scorrere del tempo e all’incuria; raccomandazioni e baronie anche nelle corsie ospedaliere; stanze sovraffollate, che paiono più l’anticamera al loculo che passaggio verso la salute. Ciliegina sulla torta, come se tutto questo non fosse sufficiente, il restringimento progressivo e continuo dei fondi destinati alla ricerca, meglio lasciare fuggire i pochi cervelli pensanti e poi ricomprare a caro prezzo medicine, macchinari e vaccini dall’estero; non sarebbe, forse, meglio ripassare le formule ricavo, spesa, guadagno fatte alle elementari (ops dovremmo oggi dire primarie) per vedere il saldo negativo? Tirando le fila siccome tutti, ma proprio tutti, siamo costretti a passare dai servizi sanitari non sarebbe meglio ricordarsene quando si propone un taglio indiscriminato di questa voce? Questo vale anche per tutti i cittadini che lasciano correre, per poi accorgersene a loro spese quando, ad esempio, vengono lasciati in una corsia, come un pacco abbandonato e dolorante, in attesa di un medico o di un letto, che, a volte, non è nemmeno nella stessa struttura di arrivo. Con tristezza, in qualche caso, fanno i conti con la malasanità anche nelle cliniche extra lusso, quelle da malati di serie A.

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In quel momento, allora, ci si indigna e si impreca a voce alta, ma è troppo tardi. Affidarsi solo al vecchio proverbio “una mela al giorno toglie il medico di torno” potrebbe non essere sufficiente. La salute non è un gioco, l’Allegro Chirurgo lasciamolo ai bambini, né un’azienda, il sottrarre continuato non è sempre ottimale, almeno sino a che l’uomo sarà ancora un essere vivente e non un mero automa meccanico.

The united colours of intolerance In una serata di tedio facendo zapping attraverso palinsesti televisivi alquanto scadenti mi ritrovo a soffermarmi sulle parole del cardinale Carlo Maria Martini, uomo di fede e di cultura. Il cardinale parlando dell’importanza costruttiva del dialogo fra uomini diversi, per cultura, religione ed etnia, cita un aneddoto pescato fra i suoi ricordi alquanto significativo per i tempi che corrono. Racconta di un incontro in un monastero buddhista con un monaco che, dopo una lunga confutazione fra le due fedi religiose, gli ricorda come seppure diversi, e in apparenza lontanissimi, dicono le stesse cose, perché l’esperienza spirituale non divide ma accomuna l’uomo (“Correva l’anno”, 21 marzo 2011, Rai3, “Carlo Maria Martini – Il Cardinale del Dialogo” http://www.correvalanno.rai.it/dl/portali/site/puntata/ContentItem-5515c05c-12a2-4c13-9d51-a1d952842910.html). Con una semplicità disarmante si esprime un concetto di fondo vero e inconfutabile, l’uomo è uguale in ogni parte del globo, nasce, vive, pensa, crede in qualcosa (tutti indistintamente crediamo in qualcosa, cambiano nomi, idee e orientamenti ma l’atto del credere è comune a tutti, anche a chi non crede in nulla, in fondo crede in qualcosa che non esiste), interagisce con i suoi simili e il suo ambiente, si accultura, ha una sua storia, muore. Nell’era contemporanea da grande villaggio globale sopravvivono ancora retaggi di oscurantismo e di ignoranza sul “diverso”, così vivi e atavicamente radicati negli uomini da non permettere il superamento dell’imbecillità, che si alimenta con la paura, con la non conoscenza, con il desiderio di denaro e potere e con il recondito senso di inferiorità che spinge ad annientare gli altri.

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Se l’uomo fosse meno miope si accorgerebbe che sono più i punti in comune che le diversità e ciò che unisce sono i macro elementi e non le piccolezze, perché la storia di ogni razza è simile alle altre, ogni percorso ha tratti e tappe in comune e tende a raggiungere i medesimi obiettivi. Migranti universali invece di dialogare per innestare saperi diversi in un percorso costruttivo ci chiudiamo in egoismi infantili, per preservare una razza senza rendersi conto che tutti abbiamo come minimo comun denominatore l’aggettivo umana prima di ogni particolarismo. “Mogli e buoi dei paesi tuoi” è un proverbio valido in tutto il mondo che è stato la causa di una lunga scia di tare ereditarie, fisiche e mentali, dovute all’indebolimento dei geni che lascia ancora oggi amare conseguenze sui discendenti. A pensarci bene non dovrebbe essere difficile comprendersi, basta osservare i bambini, non notano la diversità, attraverso i gesti e i giochi comuni riescono a comunicare superando gli ostacoli, lasciando campo alla sperimentazione del nuovo senza vincoli da schemi mentali preconfezionati ed obsoleti. Quando gli uomini saranno in grado di essere uniti non solo per la reciproca intolleranza? Ci si augura che non si debba aspettare ad Kalendas graecas.

E vennero le Chere Cioccolato e colombe glassate riempiono le vetrine per il periodo pasquale, commerciale ricordo della passione del Cristo, e il tribunale di Torino, in tempi da record, chiude il processo Thyssen emettendo una sentenza esemplare che agli accusati risulta indigesta quanto un uovo scaduto (TG3 http://www.rai.tv/dl/tg3/articoli/ContentItem-e6797de2-ed00-4ec1-9989-6fe4994f54c3.html). Purtroppo, ultimamente, ci siamo abituati ad una rarefatta presenza della giustizia, e non me ne vogliate ma non è questione di colore, le toghe se le si guarda sono oggettivamente nere come le vecchie divise arbitrali, ma di principi fondamentali di equità e giustizia. L’accusato, infatti, dovrebbe essere giudicato sulla base delle leggi e non per “simpatie” varie, così almeno in teoria, eccezioni alla regola esistono da sempre, on le sait. Ci si aspettava una sentenza scontata ed invece “sorpresa”, l’amministratore delegato e i dirigenti dell’azienda sono stati giudicati colpevoli con dolo eventuale, ponendo l’accento sulla responsabilità a carico dei dirigenti in merito alle scelte di politica aziendale (Rai3, Linea Notte, 15 aprile 2011 http://www.rai.it/dl/tg3/rubriche/PublishingBlock-ba2591cf-e5e5-44db-a2af-4401c6f00a34.html#). Rinunciare ad investire sulla sicurezza, a fronte di un elevato rischio d’incidenti, è stata oggettivamente una decisione dirigenziale volontaria. A margine di un esiguo risparmio economico non ci si è minimamente preoccupati dei possibili danni per i lavoratori dipendenti, con un saldo decisamente in negativo: l’impagabile prezzo pagato dalle vite umane sacrificate con noncuranza; soprassedendo, poi, sul costo totale che grava oggi sull’azienda. Naturalmente ogni sentenza provoca frementi discussioni fra i partiti pro e quelli contro, certo, ma chi tutela e guida le imprese

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dovrebbe farsi, oltre ad un esame di coscienza personale, due piccoli conti prima di dichiararsi vittima sacrificale (http://www.quotidianopiemontese.it/2011/04/20/carbonato-un-industriali-sulla-sentenza-thyssen-sconcertante/). Se è pur vero che l’incidente può succedere sebbene sia stato fatto tutto il necessario previsto dalle normative antinfortunistiche, perché l’errore umano e il guasto tecnico sono due variabili che non possiamo calcolare con esattezza matematica, è bene ricordare come gli interventi per la tutela dei lavoratori, e dell’azienda stessa, sono non solo necessari ma fondamentali e obbligatori. Non è il caso di battere i pugni sul proprio torace nudo urlando allo scandalo perché il tribunale penalizza le imprese. Tutti i bei discorsi sulla situazione dei lavoratori dei paesi emergenti, come la Cina ad esempio, quasi schiavi e senza nessuna tutela dove sono andati a finire? Nel cestino con le insignificanti sorprese pasquali? I dati degli incidenti sul lavoro e sulle morti bianche in Italia sono deprimenti, da qualunque punto si guardino (per chi volesse approfondire confrontando dati diversi un piccolo elenco bastevole http://cadutisullavoro.blogspot.com/ Osservatorio Volontario di Bologna sulle morti bianche; http://www.vegaengineering.com/download/Statistiche_morti_lavoro_Osservatorio_sicurezza_lavoro_Vega_Engineering_31-03-11.pdf Osservatorio sulla Sicurezza del Lavoro di Vega Engineering; http://www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_pageLabel=PAGE_SALASTAMPA&nextPage=Dati/index.jsp Inail rapporto 2009; Inail; http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=fr&pcode=tsiem100&plugin=1, http://epp.eurostat.ec.europa.eu/tgm/table.do?tab=table&init=1&language=fr&pcode=tps00043&plugin=1Eurostat; http://www.eurispes.it/index.php?option=com_content&view=article&id=493:infortuni-sul-lavoro-peggio-della-guerra&catid=73:lavoro&Itemid=339 Eurispes).

Vogliamo essere precisi e super partes dicendo che a volte sono gli stessi dipendenti a non seguire la prassi perché non sempre comoda? Aggiungiamolo ma il risultato non cambia, la sicurezza è sempre al primo posto e non è una voce di spesa sfrondabile con leggerezza, mai in nessun caso. La competitività è il frutto di una sapiente miscela d’ingredienti, capire quali spese sono necessarie per valorizzare la propria impresa è uno di questi, ma risicare su questo tasto non serve né per essere più competitivi né per raggiungere la qualità, l’unica carta che possiamo giocarci per non scomparire dal mercato globale. Invece di far polemica con le solite inutili questioni è necessario prendere atto della nostra arretratezza rispetto al sistema economico attuale e futuro e chiedere allo Stato maggior sostegno allo sviluppo imprenditoriale, ma soprattutto si deve cambiare mentalità e ritrovare l’animal spirits Keynesiano. Se evitassimo di nasconderci dietro un fil di lana e prendessimo di petto la situazione ragionando con logica potremmo fare grandi passi avanti, certo, bisogna pur volerlo fare…

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Vita Nuova Con i primi venti di primavera si ripresenta il dibattito sul Testamento Biologico, rinasce la natura e si ritorna a parlare di diritto alla morte, incapaci di dare dignità all’uomo e al suo insindacabile diritto al libero arbitrio. Naturalmente nessuno discute il valore della vita per la religione ma qui il nodo gordiano da sciogliere è un altro: rivendicare con chiarezza culturale, filosofica e umana la libertà di ogni singolo individuo, all’interno di un contesto sociale, di decidere della propria vita, nel bene o nel male. Se non è credente metterà un punto alla propria esistenza senza seguito alcuno, se è credente la sua anima dovrà fare i conti con le proprie scelte nell’Aldilà. Con quale diritto uno Stato si arroga la facoltà di imporre una legge che limita rigidamente la libertà personale ed individuale di decidere sulla propria vita? Non definiamola legge morale perché a fondamento di uno Stato democratico c’è la laicità; indipendentemente da quante e quali confessioni religiose ci siano all’interno dei propri confini queste non devono in alcun modo interferire sul libero arbitrio dei cittadini. Come è possibile affermare di pensare esclusivamente al benessere dei propri abitanti quando non gli viene riconosciuta la possibilità di scegliere se vegetare all’infinito -senza nessun contatto con il mondo esterno, dando un dolore infinito a chi si ama e soffrendo senza speranza- o se chiudere la propria vita, umanamente vissuta -per evitare ed evitarsi pesanti sofferenze-? Non è raro sentir mormorare sottovoce al capezzale di un essere inesorabilmente condannato alla morte “se chiudesse gli occhi ora sarebbe per lui un bene”. Senza nasconderci troppo dietro alla falsa morale vedere soffrire chi si ama e non riconoscerlo più, nell’ombra immobile di sé stesso, è un dolore che porta, spesso, a chiedere come Grazia la sua fine per liberarlo da un destino senza speranza di rinascita, e perché non dovrebbe poter scegliere in prima persona il diretto interessato?

Nel pieno rispetto di ogni singolo uomo si deve lasciare ad ognuno, secondo la propria coscienza, la libertà di decidere per sé stessi. Se poi le religioni condannano questa scelta come uno dei più grandi peccati contro Dio nessuno si permette di dire il contrario, ma, anche in questo caso, per l’infinita grandezza divina, che lascia agli uomini la libertà di scegliere il bene e il male, sarà solo nel giorno del giudizio che ognuno di noi, singolarmente, verrà giudicato e potrà accusare solo sé stesso degli errori commessi. La vita è un bene prezioso, per questa ragione è un diritto, personale e individuale di ogni uomo, decidere se aiutare Atropo a tagliare un filo che non si potrà più riannodare per tornare a filare o lasciare, senza indugi, che il Fato compia il suo destino. Perché ogni singolo individuo possa davvero credere che, in fondo, La fine è il mio inizio.

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La Giovine Italia. Povera Italia, mentre si avvicina il suo anniversario più importante, il suo genetliaco, invece di festeggiarla a dovere si sprecano fiumi di polemiche cha hanno il solo effetto di mostrare al mondo l’imbecillità degli italiani che “sputano nel piatto dove mangiano”. Certo il nostro inno non è, forse, così intenso come La Marseillaise né così lirico come il Va Pensiero e il tricolore non è certo un mélange glamour, però, unisce un popolo sotto la giovinezza, la speranza, la purezza di un ideale, il coraggio ed il sangue versato per un domani migliore, concetti di non poca importanza. 150 anni per compattare un puzzle con il solo risultato di non accorgersi nemmeno di essere già uno stato federale parte del vecchio continente, l’Europa, e che il federalismo made in Italy, che già c’è, è solo buono per far si che comune, provincia, regione che vai leggi che trovi; con il mero risultato di non sapere mai che cosa devi fare con esattezza e con la sola certezza di veder stringere ulteriormente il giogo al collo dei magri italici buoi. Il Nord lamenta di doversi sobbarcare il Sud, litania vecchia ed obsoleta che nasconde una verità dura a digerire per i delicati palati nordici, oggi è il Sud a possedere tutte le carte per dare slancio alla penisola, turismo, cultura, agricoltura, energie rinnovabili, finanziamenti e forza lavoro da impiegare. Mais oui dimenticavo la mafia, ma caro sciur Brambilla non ne siete immuni nemmeno voi giù al Nord e non vi distinguete dal Meridione per atteggiamento omertoso e di paura (http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/12/15/ndrangheta-ilda-boccassini-denuncialomerta-degli-imprenditori-milanesi/82080/, http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/11_marzo_11/draghi-mafia-lombardia-190202895480.shtml, http://www.consumatori.e-coop.it/portalWeb/stat/docConsumatoriPv/doc00000089150/9558/31/ant00000089153/mafie-e-economia-criminale-in-viaggio-verso-le-reioni-del-centro-nord.dhtml), alla fine ci sono

molte cose che ci uniscono, nel bene e nel male. “L’unione fa la forza” è un proverbio che assume un significato profondo soprattutto in momenti di crisi come questi, darsi la colpa a vicenda delle concause come i bambini dell’asilo servirà solo ad allargare i buchi nella suola del nostro ormai lacero stivale. O Patria mia, vedo le mura e gli archi/ E le colonne e i simulacri e l’erme/ Torri de gli avi nostri/ Ma la gloria non vedo (All’Italia, G. Leopardi). L’incapacità di essere fieri delle proprie origini e del suol natio sono i punti deboli di questa giovane nazione, imparare a comprendersi e a far crescere tutto quello che di buono esiste è l’unico modo per sopravvivere con un’identità propria, inserita nel melting pot universale ma geneticamente individuabile.

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Mimì metallurgico ferito nell’onore Dopo un lungo torpore ci si è risvegliati al referendum di Mirafiori, con gli operai chiamati a decidere se accettare o meno il piano Marchionne. L’immobilismo, è inutile negarlo, c’è (http://www.adnkronos.com/IGN/News/Economia/Mirafiori-Marchionne-Svolta-storica_311545547266.html) così come la riduzione progressiva dei diritti dei lavoratori ma non sono scoperte sensazionali e sorprendenti, è un percorso iniziato tempo fa e nessuno ha fatto nulla di concreto per evitare di arrivare fino a qui, laissez faire laissez passer. Un paese dotato di logica farebbe un bel punto della situazione per ritrovare un equilibrio positivo per entrambe le controparti, lavoratori e imprese, con l’unico obiettivo di trainare lo stato fuori dal pantano di una crisi che è nata più a tavolino che per reali insufficienze di risorse e di denaro. Lo sciopero è un sacrosanto diritto (sancito e tutelato dalla Costituzione art. 40 e dallo Statuto dei Lavoratori, L. 300/1970, artt. 15, 28) ma ha un suo scopo preciso, mettere a confronto due forze che hanno lo stesso peso, ossia quando il lavoro c’è, i ritmi di produzione sono elevati e i trend dell’economia e della finanza sono in piena crescita, in due parole il famoso boom economico. Sarebbe, quindi, più utile indire gli scioperi al momento giusto e, evitando demagogie e facile populismo, chiedere ciò che è legittimo per dare uno slancio all’economia e salvaguardare i lavoratori, che se non hanno possibilità di percepire delle entrate, difficilmente potranno poi re immettere il denaro in circolazione per beni che soddisfino altri bisogni oltre quelli primari. Innanzitutto si potrebbe iniziare con il chiedere chiarezza e trasparenza riguardo a

tutte le agevolazioni fiscali e i finanziamenti che le imprese ricevono dallo Stato (e dai vari enti pubblici a scalare) e dall’Europa, che sono finalizzati a implementare le risorse e a favorire ricerca e sviluppo e che, spesso, si volatilizzano lasciando il vuoto dove avrebbe dovuto esserci il pieno; meglio sarebbe imporre la restituzione dei fondi ricevuti, attuare una vigilanza serrata sulle promesse fatte e stabilire criteri selettivi e maggiori garanzie prima di erogare i fondi a pioggia. Poi, la regolamentazione effettiva dei contratti di collaborazione o a progetto, che sono, spesso, dei veri e propri rapporti di lavoro da inquadrare in altra categoria, uno strumento utile ma se utilizzato per evitare di regolamentare le risorse umane non è più funzionale e perde il suo scopo. Parificare, finalmente, tutti i lavoratori sul piano dello stipendio e delle opportunità per un mercato del lavoro davvero competitivo e di qualità, questo vale per le donne, che sono ancora ghettizzate per il loro ruolo di madri e non hanno risorse e servizi idonei per lavorare e gestire la famiglia (difficoltà di accesso al nido e alle materne e orari non funzionali a quelli lavorativi, part time raro, stipendi inferiori, vincoli pre assunzione in relazione alla possibilità di avere figli -inutile nascondersi dietro ad un vetro sovente nei colloqui si chiede alla donna se vuole avere figli, se ne vuole altri e di non averne durante il periodo lavorativo in questione-, e molto altro); per i lavoratori stranieri, spesso considerati più schiavi che lavoratori in virtù della diversa etnia (finti contratti, stipendi minori, turni di lavoro massacranti, scarsa sicurezza sul lavoro); per i giovani (tirocini lunghi una vita, difficoltà di accesso al mondo del lavoro). Meno manager, direttori, quadri, psicologi (tanto in voga per selezionare le human resources) e dirigenti esterni poco qualificati e, soprattutto, con scarsa conoscenza del sistema produttivo entro il quale si muovono e più produttività, perché un paese senza produzione è un castello di carta destinato a cadere con un soffio.

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Ridurre corsi e pseudo corsi che sono utili solo a chi li organizza ma non ai lavoratori, perché sono poco funzionali e, soprattutto, lontani dall’obiettivo del life long learning (http://ec.europa.eu/education/lifelong-learning-programme/doc78_en.htm), inserire i disoccupati o gli inoccupati nel mondo del lavoro, qui, di norma, finito il corso si è di nuovo al punto di partenza. Maggiore sostegno alle micro e piccole imprese che fanno parte del tessuto produttivo italiano, sia a livello di agevolazioni fiscali che di accesso al credito. Le banche preferiscono indebitarsi con le grandi imprese piuttosto che concedere dilazioni ai piccoli imprenditori, senza rendersi conto (o forse l’esatto contrario) di penalizzare una grande fetta dell’economia italiana da sempre. Questo è uno striminzito elenco, una goccia nel mare, ma in fondo il mare è un insieme macroscopico di gocce e navigare, anche se a fatica, è certo meglio di colare a picco senza possibilità di salvezza.

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FREEWORDS Book and around Les Édinautes et la bande dessineé http://www.sandawe.com/fr/howitworks.awp Coraggiosi ed intrepidi autori “a scommessa” si lanciano nella sfida dell’editoria digitale, a colpi di mini azioni, per dar luce e gloria alle BD, “la nona arte francese” (cit . http://www.france.fr/it/conoscere/cultura-e-patrimonio/arti/dossier-thematique/bande-dessinee-la-nona-arte-francese). Tanto per cominciare è bene precisare, per chi non fosse avvezzo all’idioma d’oltralpe, che la bande dessineé sono i fumetti, in questo caso di autori emergenti in cerca di editoria partecipata sul Web. La storia è assai intrigante. Tutto comincia da un’idea di una casa editrice belga, la Sandawe: coinvolgere i lettori e gli utenti nel processo editoriale di fumetti d’autore inediti, attraverso la compartecipazione di quote, per trasformarli in investitori veri e propri con un obiettivo chiaro e semplice- finanziare, realizzare e vendere il prodotto -. I passi per innescare il processo sono pochi e lineari: gli autori di fumetti inviano la loro proposta, che viene attentamente valutata dalla casa editrice; chi supera il primo step di valutazione ha accesso al sito, dove si apre la vendita delle quote, piccole quote, taglio minimo da dieci euro (e multipli), affinché sia garantita l’assenza di un azionista di maggioranza (ogni singolo finanziatore non può possedere più del 20% di quote di un progetto), ma vi siano tanti èdinautes (Web

editori) che finanzino e promuovano il prodotto per il Web ed il mondo; raggiunta la quota totale di finanziamento editare il fumetto; promuoverlo e venderlo. Sandwave lascia agli editori internauti la libertà di spostare il proprio “capitale azionario” liberamente, sino a che il progetto non sia effettivamente arrivato al 100% della quota di finanziamento stabilita e sia pronto per essere messo in produzione, così ogni piccolo finanziatore è libero di cambiare idea, scegliere altri progetti e seguire nuovi autori. Un po’ come alla Borsa, ci si libera delle vecchie azioni per altre nuove. Finanziato il progetto l’autore non ha scampo e, sarà ben felice di farlo asserirei, deve realizzare la storia, rapportandosi con i suoi finanziatori. Ogni finanziatore riceve in omaggio una copia del fumetto e un gadget per collezionisti proporzionato al proprio investimento, un bonus da chicca. Terminata la fase di editing il fumetto viene venduto in Francia, Belgio e Svizzera e “potenzialmente negli altri paesi” grazie alla partecipazione attiva degli investitori al processo di marketing e vendite. Gli investitori guadagneranno il 60% sulla vendita (fumetti, gadget, etc), questo li spingerà ad entrare in azione anche come promotori dei loro autori (non a caso ricevono un kit buzz pour la promo), così potranno aumentare in modo esponenziale la pubblicità all’opera a costo zero. Piccoli capitali, libertà e il brivido di finanziare nuovi autori, magari i grandi di domani: questi sono gli ingredienti principali del successo del progetto. Con un valore aggiunto favoloso: la compartecipazione attiva, sia nel processo di finanziamento creativo sia nel supporto commerciale di un prodotto editoriale che è nato anche grazie alla propria personale azione concreta.

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“Quello che vendo sono io, il mio autore se diventerà grande lo dovrà anche a me e io avrò il piacere puro di essere parte di un processo culturale attivo che è unico”. La cultura è un bisogno, farne parte e sentirsi partecipi della sua crescita e continuità è, evidentemente, nel nostro impalpabile contemporaneo una necessità in forte crescita, ovunque e comunque.

Biblioteca online de L’Institut Français Italia http://www.numilog.com/bibliotheque/ambafrance-italie/default.asp L’Institut Français Italia mette a disposizione degli utenti una biblioteca web di testi in lingua francese, che possono essere letti o scaricati accedendo alla biblioteca online, per una durata di tempo limitata. Attraverso un catalogo, con ricerca semplificata, e un filtro tematico si possono consultare libri in lingua francese previa iscrizione alla biblioteca con login (id e password). I volumi sono forniti in formato .epub o .pdf ed è richiesto adobe reader, scaricabile gratuitamente dalla home page della biblioteca, per scaricare il volume sul proprio pc, o è possibile consultarlo online attraverso il sistema numilog della biblioteca (scaricando il plug in Silverlight). Nella home si trova anche il link a dei tutorial video per l’utilizzazione di abobe reader per facilitare la lettura e l’utilizzo del lettore anche per i neofiti. Il sistema di “Reservation”/Prestito è lo stesso di una biblioteca reale, ogni libro ha indicato il numero di copie attualmente disponibile, cliccando sopra si accede al prestito, qualora il volume non fosse disponibile viene indicato all’utente, segnalando la data entro la quale sarà di nuovo disponibile per la consultazione. Nella biblioteca virtuale è possibile ascoltare anche libri in formato audio, con un prestito della durata di 28 giorni. Sebbene un po’ complicato è sicuramente uno strumento utile per la lettura di libri contemporanei in lingua francese sul proprio pc.

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Sfogliare un e-book http://www.dday.it/redazione/5225/In-Corea-leBook-si-sfoglia-come-un-libro.html In rete circola la notizia che il Korea Advanced Institute of Science and Technology sta elaborando un sistema per rendere la visualizzazione di un e book su un e reader un’esperienza più simile alla lettura di un libro. L’escamotage è piuttosto semplice, nulla di nuovo, visualizzare lo sfoglio delle pagine che simuli l’atto concreto della mano nel girare pagina per proseguire la lettura. Fondamentalmente tutto questo a me pare, oltre alla “scoperta banale dell’acqua calda”, il miglior modo per allontanare il prodotto digitale da quello vero. Gli e book sono un buon prodotto per abbattere i costi, per aumentare l’offerta e per facilitare la fruizione del prodotto “libro”, spesso poco usati dagli amanti della lettura e “subiti” come vantaggio necessario, ma con la consapevolezza che si tratta di un’altra cosa rispetto al cartaceo. Un testo, in formato specificatamente dedicato agli e book o pfd, in file è comodo, utile, economico ma di certo per nulla emozionale, come accade maneggiando un libro nelle mani, il toccare, il sentire, la vicinanza, il ricordo nel rivederlo allo scaffale, etc. Tentare di copiare ciò che di per sé non potrà mai avere, tatto ed olfatto in primis, potrebbe ulteriormente aumentare il divario fra due mondi e diminuire l’apprezzamento degli amanti della lettura verso questo tipo di prodotto. Sicuramente ci saranno pareri discordanti dei tecnologici tout court, e sia, ad ognuno il suo parere, ma, in fondo, lasciare la propria anima a due prodotti fondamentalmente diversi, è, forse, il miglior modo per implementare il mercato in entrambe le direzioni.

Avanti Savoia! La rievocazione storica della Battaglia della Bicocca (No). Ogni anno alla Bicocca ha luogo la rievocazione storica in costume della famosa Battaglia di Novara che pose fine alla Prima Guerra d’Indipendenza, avvenuta il 23 marzo 1849. Quest’anno, in concomitanza con i festeggiamenti per il 150° dell’Unità d’Italia, il Gruppo Storico “23 marzo 1849 di Novara” ha colto l’occasione per festeggiare il lungo cammino dell’unificazione italiana, concludendo con un finale a sorpresa. Il Piemonte Orientale non è graziato dal bel tempo neppure nel primo fine settimana primaverile. Un cielo plumbeo puntellato da una fine pioggerella fa da cornice alla giornata uggiosa di domenica 27 marzo. Il tempo inclemente non scoraggia il pubblico che si reca ad assistere alla rievocazione storica della battaglia di Novara, che vede schierati gli eserciti del regno di Sardegna e dell’impero Asburgico. Il grigiore sottolinea la solennità del campo di battaglia, sebbene la pioggia non sia una condizione meteorologica troppo adatta agli scontri campali del passato. L’acqua inumidiva le polveri da sparo e rendeva difficile il movimento, di uomini e mezzi trainati da quadrupedi, non è un caso se per secoli le stagioni primaverili ed estive sono state le cornici scenografiche ideali per le infinite guerre che hanno disegnato l’Europa di oggi. Fiorivano le messi e sfiorivano le vite in un cerchio chiuso e ritmicamente cadenzato. Tornando a noi, l’evento richiede una mise a tema per calarsi meglio nella narrazione in un trasposto crono temporale ad hoc.

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Così con ampia mantella di lana verde brillante e cappuccio a larga falda calato sul capo, per ripararsi dall’acqua, accompagnata da un giovanissimo aiutante di campo, in un misterioso tableau vivant, a metà fra la dama di rango e il predicatore errante in cerca di questua, abbiamo guadagno un punto di veduta dall’alto per assistere allo scontro, come d’uso per i generali e per gli ufficiali addetti al monitoraggio delle battaglie, e qui il pensiero corre alle puntuali descrizioni di Tolstoj in “Guerra e Pace”. Non tergiversiamo, dunque, “Che lo scontro abbia inizio”.

I fatti di cronaca, addì 23 marzo 1849 Per dovere di cronaca è bene fare un ripasso generale e sintetico della battaglia in questione. La battaglia di Novara s’inserisce nel quadro di un turbolento periodo noto con il nome di Risorgimento e vede in campo le stelle del momento: il re Carlo Alberto, l’Imperatore Francesco Giuseppe I, marito dell’Imperatrice Sissi, il generale Radetzky e il generale Alessandro La Marmora, fondatore del corpo dei Bersaglieri. L’anno precedente, il 1848, si erano susseguiti diversi moti insurrezionali, fra cui le famose Cinque Giornate di Milano, e il Regno di Sardegna aveva dichiarato guerra al temibile Impero Asburgico. Le ostilità erano terminate con una tregua a rimarcare un sostanziale “nulla di fatto”. I piemontesi non avevano perso il loro desiderio di conquista e si sentivano ormai pronti per sferrare l’attacco decisivo agli austriaci, forse, sovrastimando le proprie capacità in campo, sostenuti dal Va pensiero, e sottostimando la brillante guida dell’ottuagenario generale Radetzky (ricordato ora più per la famosa marcia, composta da J Strauss padre, da concerto di Capodanno, antico retaggio di sudditanza austriaca).

Così, i piemontesi, ruppero l’armistizio di Salasco, firmato a Vigevano nell’agosto del 1848 per porre fine alle ostilità fra le due superpotenze dell’epoca, e ricominciarono la guerra. In questa fase le truppe sabaude fecero una ben magra figura. Errori tattici, condottieri non troppo brillanti, tradimenti e l’incapacità di sfruttare gli errori di calcolo dei nemici furono le cause alla base di una sonora sconfitta, poco onorevole per giunta, che portò lo stesso esercito piemontese, comandato dal generale Ferdinando di Savoia Genova, a dover rimettere ordine fra i fanti sconfitti alla Bicocca che, spersi e senza controllo, si erano liberamente dati al saccheggio, pratica ancor oggi comune in zone di guerra. In questa cittadina piemontese si pone, dunque, fine alla Prima Guerra d’Indipendenza con esito sfavorevole e poco onorevole per i futuri italiani. La vittoria degli austriaci costrinse il re Carlo Alberto ad una abdicazione notturna lampo in favore del figlio Vittorio Emanuele II, che si trovò a firmare, come suo primo atto ufficiale, l’armistizio di Vignale con il generale Radetzky il 24 marzo 1849. Fine prima puntata. Verranno per noi tempi migliori, come tutti sappiamo.

La rievocazione storica nell’anno del 150° dell’Unità d’Italia Terminato il doveroso flashback storico ci ritroviamo in Cascina Boriola pronti ad assistere alla battaglia. Nella piatta campagna risicola risuonano nuovamente i cannoni leggeri, i colpi dei fucili con lucide baionette e i vessilli ondeggianti dondolano veloci ad accompagnare la carica, data a ritmo di musica.

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Un tempo anche la guerra non poteva esimersi dall’arte, non solo guerresca ed estetica (uniformi, vessilli, copricapo elaborati, etc) ma anche musicale, le note davano la carica, ritmavano la marcia, annunciavano ritirate o vittorie; un tocco romantico, in senso letterario ottocentesco, che oggi si è perduto. I movimenti dei fanti e della cavalleria, con sciabole e splendidi cavalli vigorosi, sono commentati con una cronaca sportiva degna di “tutto il calcio minuto per minuto” da uno speaker che, per cadenza ritmica del parlato e per le prolisse spiegazioni dei dettagli, ricorda un soldato ben scaldato dall’acquavite davanti al fuoco notturno che, stanco e eccitato dalla giornata, da buon veterano superstite, racconta alle nuove reclute la storia della battaglia vissuta in prima persona, rendendo la narrazione ancora più verosimile. Gli uomini si muovono in cariche e contro cariche, come in un balletto ritmico, ma quest’anno la battaglia si conclude diversamente. Con un balzo temporale in avanti rientrano in campo anche i garibaldini e le truppe papaline, a simboleggiare tutte le tappe dell’unificazione del Regno d’Italia, avvenuta definitivamente con la storica Breccia di Porta Pia del 1870, nove anni dopo il primo atto ufficiale del Regno d’Italia (17 marzo 1861 n.d.s.). Le grida allegre dei bambini, che non si preoccupano del tempo inclemente, “forza neri”, “avanti bianchi”, “vai rossi” mi riportano alla mente le gare circensi romane, dove gli spettatori eccitati tifavano per le diverse fazioni rappresentate da colori ben distinguibili, tutto si lega nel filo della storia. Alla fine, dopo gli scontri accesi degli eserciti, si arriva finalmente all’agognata Unità d’Italia, ricordata anche attraverso il saluto militare ai caduti, di oggi e di ieri, per la patria. La rievocazione finisce con la musica, vengono suonati gli inni di casa Savoia, dell’Impero Asburgico ed infine quello di Mameli e, con una certa sorpresa, noto che molti giovani fanciulli cantano l’inno. Dopo un lungo tempo d’oblio per tutte le celebrazioni ufficiali nazionali si ritrovano a scoprire il significato della bandiera e dei valori che rendono gli italiani un popolo e possono

approfondire la storia che, ormai, è declassata a materia superficiale di poco conto, come se noi non fossimo il prodotto di stratigrafie multilivello che ci hanno permesso di arrivare sino a qui. La storia è un percorso di continua scoperta Si potrà obiettare che queste rievocazioni sono buffonate di poca raffinatezza, ma, in realtà, sono il frutto di studi e di passione di esperti e semplici appassionati che vogliono ricostruire, come in teatrini viventi, sprazzi di passato, spesso dimenticato o poco conosciuto, studiato velocemente a scuola e poi caduto nel dimenticatoio. Si studia non solo la cronaca degli eventi ma il paesaggio, gli equipaggiamenti, si ricercano documenti, libri, rappresentazioni artistiche e musicali, si raccolgono reperti per dare un quadro il più possibile veritiero della realtà. Uno studio interattivo che, spesso, porta questi gruppi ad interagire con musei, scuole, università ed istituzioni per arrivare in modo più diretto e tridimensionale alla gente e ai più piccoli, curiosi per natura e più facilmente affascinabili dal scenografico effetto di essere attore compartecipe di un libro di storia magicamente animato. Raccontare il proprio passato è sempre un percorso di scoperta che ci porta non solo a conoscere ma a capire chi siamo e a comprendere le proprie radici, per evitare di ricadere negli stessi errori. La storia si studia a scuola, certo, sui libri, con date e avvenimenti, ma è bello ritrovarla al di fuori delle mura scolastiche in ambienti più vivi e liberi, dove l’interazione e il divertimento rendono il passato attraente, tanto da diventare passione. Sito Ufficiale http://battaglia1849.altervista.org/ Contatti [email protected] Per saperne di più http://rievocando.blogspot.com/search/label/150%C2%B0Unit%C3%A0%20d%27Italia

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Come fece come non fece Principi fate folletti nel magico mondo delle favole Autore Luigi Chiriatti Illustrazioni Egidio Marullo Edizioni Kurumuny Anno di Edizione 2011

C’era una volta u cuntu Un magico viaggio alla riscoperta della tradizione favolistica salentina Le favole sono, da sempre, il mezzo più diretto e mistico per tramandare ai fanciulli la stratigrafia culturale ed educativa tradizionale propria di uno specifico contesto sociale. In un passato, neppure troppo lontano, i bambini imparavano le regole sociali attraverso il racconto orale, “di bocca in bocca”, di favole che, diventati adulti, rimettevano in circolo, narrando, a loro volta, alle giovani generazioni ciò che avevano ascoltato nell’infanzia, arricchito dall’esperienza.

Un patrimonio culturale immenso che rischia, oggi, di morire perché è venuto a perdersi il ritmo temporale ciclico del passato, scandito dalle stagioni e dalle età umane, che si ripeteva all’infinito, immutabile, noto e certo. Il libro, in uscita tra le strenne natalizie, il periodo in cui le atmosfere si rifanno magiche e si ritrova, seppure per un attimo fugace, il sapore delle tradizioni famigliari, raccoglie alcune fiabe popolari salentine, rivisitate con un linguaggio contemporaneo, più comprensibile ai bimbi di oggi, e valorizzate da un ricco corredo illustrativo. Queste fiabe rimettono in luce il patrimonio culturale dei saperi tradizionali del passato che, seppure con qualche differenza e specificità geografica, si ritrova in tutta Italia, e a ben guardare nel mondo intero, come un filo narrativo, a livello di stile e contenuti, unitario che si perde nella “notte dei tempi”: figure retoriche, allegorie e metafore, animali umanizzati, magie, messaggi morali e l’exemplum che insegnano ciò che è buono e giusto da quello che non lo è. La resa stilistica più attuale rende piacevole e adatta la lettura per i giovanissimi ma anche per chi, adulto, vuole ritrovare il senso della fabulae e il sapore del ricordo. Le illustrazioni si compenetrano con il testo e assolvono la funzione del docere attraverso le immagini, i colori vivaci, la resa stilistica, che ricorda le illustrazioni dei libri per fanciulli del secolo scorso, la grafica dei disegni, che sembrano colorati con i pastelli a cera e i colori a tempera, attirano l’occhio marcando i passaggi salienti della narrazione. Mi ha ricordato i miei vecchi libri di favole, che, prima di imparare a leggere, mi facevo raccontare all’infinito sino a che non ne conoscevo a memoria il testo per narrarmelo da sola, guidata, per la scansione temporale degli eventi,anche dall’aiuto delle immagini, castelli, animali, eroi, saggi, cavalieri, vecchi e vecchine, principesse, draghi e “chi più ne ha più ne metta”.

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Il contemporaneo è veloce e non ha tempo per i ricordi e le tradizioni, mai, quanto ora, è, perciò, importante recuperarne i contenuti, semplificando e attualizzando la forma, per ritornare a tramandare la conoscenza arcaica che è parte del nostro dna culturale e sociale. “La strada è lunga, ma vai, troverai un altro vecchio, lui ti saprà indirizzare meglio. Buona sorte.” Nulla di meglio di un libro sotto l’Albero per raccontare la nostra storia attraverso un fil rouge narrativo disseminato fra le pagine: “come fece e come non fece” si ritrovò a scoprire le favole perdute dei suoi bisnonni e la ruota tornò a girare “c’era una volta, tanto, tanto tempo fa…”.

I Book Author un libro che non è libro

http://itunes.apple.com/it/app/ibooks-author/id490152466?mt=12 È ora disponibile per il magico mondo Mac un’applicazione gratuita per creare libri interattivi da pubblicare su iBooks Store, “ibook Author”. Apple vuole dare impulso al self publishing, sia si tratti della pubblicazione vera e propria di un prodotto sia del proprio album privato di fotografie o della raccolta delle ricette di cucina preferite, un modo per rendere tutti protagonisti ed autori di libri. Il “libro” che si crea può contenere, non solo il testo, osservazione banale, direi, ma contenuti multimediali di ogni genere, tanto da trasformare il libro in un video interattivo, in una presentazione stile power point (non mi detestino gli amatori della mela e del defunto Jobs ma è solo un esempio comparativo), ad un sito web. Utile, probabilmente facile ed intuitivo, gratuito, rende chiunque un autore di libri, tutte buone ragioni per sceglierlo, certo ciò che si crea non è un libro vero e proprio ma più un sito, allora forse non si fa prima a creare un sito web vero e proprio? Detto questo potrebbe essere un buon strumento per la produzione di manuali tecnici, scientifici e divulgativi per le nuove generazioni, a patto che ci sia poi un reale controllo sulla veridicità delle informazioni contenute, a supporto e a vantaggio dei percorsi educativi, a volte troppo noiosi e piatti.

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La Sinossi Il riassunto, il succo, la sintesi, l’essenza in poche parole dell’opera, dello scritto, di qualsiasi tipo si tratta, pare sia lo scoglio più arduo da superare. In effetti riassumere la propria opera, a volte, può sembrare strano e comporta la ricerca d’equilibrio fra ciò che è necessario dire, il focus da sottolineare per attrarre l’editore, che non è un lettore, chiaramente, ili timore di sbilanciarsi verso un’autopromozione eccessiva, il concentrare in poche righe il frutto dell’ingegno proprio. In ogni caso è assolutamente essenziale. Assodato che deve essere breve, si propende per una lunghezza ideale di una cartella, massimo due, indi riassunto breve, conciso e chiaro, niente divagazioni, nemmeno dove sarebbe così bello farne. Chiaro l’editore, o chi per lui, a vari gradi a seconda del posizionamento della Casa Editrice sui segmenti di mercato, prima di decidere di leggere tutto il malloppo opera in pre selezione, secondo il proprio target di lettori, le collane editoriali, il mercato, etc, etc. Non è un caso se molte case editrici chiedono di inviare sinossi e lettera di presentazione, con o senza cv, proprio per questo motivo, ça va sans dire che è bene sempre leggere le modalità di invio di opere inedite. Tanto per cominciare con il piede giusto. Se pensate che il libro sia vostro personale e non una merce, perché lo pubblicate? Indi se avete deciso per questo passo, non sarà certo uno sforzo impossibile raccontarlo in poche parole. Indi, felici o meno, bisogna trovare il modo di chiarire bene di cosa si tratta evitando di le auto lodi, questo non è mai un buon biglietto da visita, come dice il proverbio “chi si loda s’imbroda” ed in ogni caso se davvero lo scritto ha un suo mercato sarà l’editore a deciderlo, senza bisogno si leggere quanto siete bravi, bravi, bravi.

Prima di iniziare a scriverla va ricordato che non vanno nemmeno inseriti i dati autobiografici, c’è una lettera di presentazione e un cv per questo, ripeterli, riducendo spazio al riassunto non è funzionale e soprattutto è inutile. Cosa metterci? Mi pare abbastanza chiaro, oltre le famose 5 W che fanno bene in tutte le salse, descrivere l’ambiente, i personaggi, l’inizio, lo svolgimento e la fine, proprio come i riassunti che diligenti insegnanti hanno insegnato a tutti i discenti del mondo, è lapalissiano. Qualcuno suggerisce di mettere, a discrezione, qualche accenno allo stile scelto e il perché, ma è da fare solo se si ha idea chiara su questo punto, sembra assurdo ma non sempre si hanno le idee così limpide in materia “stile”. Scrivere il riassunto in uno stile simile al testo che si presenta è una buona opportunità per mostrare come scrivete, prima ancora del cosa. Pare superfluo ricordarlo ma l’italiano corretto, la giusta impaginazione e la correzione degli errori di battitura sono assolutamente necessari. In qualche caso potete inviare, con file separato, i primi capitoli del libro, 1 o 2, non dieci, all’editore, in modo che possa già avere un secondo step di approfondimento. Detto ciò, tutti i suggerimenti sono validi e tutti possono non esserlo, proprio perché molto è legato alle logiche del mercato, argomenti e trama, ad esempio, in ogni caso una buona presentazione sarà sempre un punto a proprio favore, valutazione positiva o meno dello scritto.

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Lo spazio salverà manoscritti, incunaboli e libri a stampa antichi http://www.esa.int/esaCP/SEMHUXAX9WG_Italy_0.html La necessità di salvaguardare, tramandare e rendere accessibili le fonti cartacee è da sempre un bisogno e un problema aperto per chi si occupa di custodire la trasmissione del sapere antico e contemporaneo, che sarà nel futuro anch’esso passato. La delicatezza dei testi antichi, l’attenzione alla conservazione e alla tutela sono atti concreti che le biblioteche si accingono a fare ogni giorno, così come cercare di dare voce alle richiesta di accesso a questi beni preziosi, per studio e conoscenza. A queste si aggiunge il dovere di far circolare questi beni dell’umanità ad un più vasto e possibile pubblico, anche attraverso altri sistemi di accesso. Per ovviare ad una consultazione diretta di beni preziosi e irrepetibili si è ovviato nel recente passato con tecniche diverse, dalla trascrizione delle fonti, al microfilm sino ad arrivare alla scansione. Anche un passaggio a scansione, però, può danneggiare i volumi, così come non fornire un’immagine esaustiva e chiara tale da sopperire alla verifica autoptica della pagina da parte degli studiosi. Infine rimane aperta una dolorosa questione la trasmissione dei dati digitali nello spazio e nel tempo, la loro conservazione e la loro “accessibilità” per le generazioni future. Su queste base si muovono ricercatori ed equipe scientifiche per dare visibilità massima e sicurezza della “memoria” dei nuovi mezzi digitali ai posteri. Così la Biblioteca Vaticana, straordinaria collezione di volumi che non ha bisogno di

nessuna presentazione, ha deciso di avviare un progetto innovativo in collaborazione con l’ESA Italia (European Space Agency) per salvare copie digitali dei preziosismi reperti librari posseduti e assicurarsi la garanzia di un formato compatibile nel futuro, senza problemi di lettura e di decodifica. Può apparire strano che una biblioteca si rivolga proprio ad un’agenzia spaziale per un problema tecnicamente culturale, eppure un buon motivo c’è. Il formato di archiviazione utilizzato dall’ESA per salvaguardare i suoi dati scientifici, ossia il formato “FITS”, un particolare sistema che permette di salvare i dati per il futuro, perché FITS ha tutte le informazioni di codifica dati nel file stesso, indi, indipendentemente dalle variazioni, migliore e mutamenti dei sistemi informatici futuri, un file in formato FITS sarà sempre leggibile da un pc. Questo significa accedere ad una sola grande operazione di scansione della documentazione antica, una sola volta, il salvataggio nel formato FITS e la sicurezza dell’accessibilità per il futuro, senza limitazioni (almeno così assicura l’ETA). Aprendo, poi, di fatto la trasmissione della cultura nel tempo, senza danneggiare ulteriormente i preziosi volumi, e nello spazio, dando a tutti l’opportunità di visionare almeno i file. Oltre a ciò il sistema di scansione in formato FITS garantisce un’assoluta chiarezza dell’immagine con correzione automatica della stessa in modo che risulti piatta, molto più facile da leggere e soprattutto senza possibili pieghe pagine dovute alla scansione. Eureka!, se il progetto pilota funziona, potrebbe essere una soluzione ottimale per il futuro, ovviamente tutto dipende dai costi, certo, ma l’idea di un lavoro unico digitalizzazione in un formato che duri per sempre è di certo, a conti fatti, un bel risparmio e un grande slancio all’accessibilità delle fonti. Per sapere in dettaglio cos’è uno standard FITS http://www.lswn.it/astronomia/articoli/softwares_astronomici_open_source

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by Barbara Saccagno (articles and photos) 46

Buon Natale Vecchio Pard, di Roberto Barbolini Garzanti, e book 2011 Scaricabile gratuitamente http://www.illibraio.it/servizi/ecommerce/edigita/dettaglioBook.aspx?code=EDGT14202

Natale con “magna” Nita, di Bruno Gambarotta Garzanti, e book 2011 Scaricabile gratuitamente http://www.illibraio.it/servizi/ecommerce/edigita/dettaglioBook.aspx?code=EDGT13850 Ormai il Natale è alle porte e curiosando sul Web il mio occhio non ha saputo evitare i mini racconti di Natale della Garzanti. Così attirata dai titoli ne leggo due. Mi ritrovo in uno scontro ideologico fra la Madonnina della Milano da Bere, o Bevuta, per citare un Cheat the Chat!, e la Mole della Torino dei Bugia nèn, più volte da me raccontata; accomunati, caso strano, dalla citazione a pasticche da Prozac+ (ve li ricordate?). Iniziamo con “Buon Natale vecchio Pard”, il titolo è chiaramente una prece per Bonelli, of course. I protagonisti di questo brevissimo racconto: Milano, triste e spoglia sotto la neve; la Vigilia di Natale; un prete (a me uno in mente ne

verrebbe, visti i recenti fatti di cronaca, ma, sorvoliamo); due cow boy; il cimitero Monumentale, con i suoi morti illustri e lei, la prosti (-uta, n.d.s.) e nella mia mente parte il sottofondo musicale per accompagnare le due entità, nessuna viva davvero, Colombo dei Baustelle e Veronica di Jannacci. In un piccolo spazio è condensata tutta la superficialità contemporanea. Illustri famiglie che hanno polverizzato l’Italia, plastica umanoide con il cervello a calcolatrice, solitudine, la volgarità imperante del linguaggio da we’re all friends, il sesso a sottofondo (sarà, oggi tutti ne parlano ma non varrebbe, forse, la pena farlo di più, per davvero?, opinioni…), a pagamento, naturalmente, i SUV (non commento, sarebbe come “sparare sulla Croce Rossa”), un po’ di umanità nei personaggi del fumetto verso il loro creatore e l’insperato desiderio di credere al miracolo, d’altronde se non ci credono loro (vedasi Miracolo a Milano . ) Cinico e divertente, corre veloce sulle tristezze odierne e sulle chiappe rifatte della protagonista, con quel tocco tutto milanese per la satira pungente e per il linguaggio piuttosto volgare del parlato da bar. Purtroppo la neve non sa più coprire, con la sua silente bellezza, la spazzatura contemporanea. Passiamo a “Natale con ‘magna’ Nita”, qui gioco in casa, per correttezza devo dirlo. I protagonisti: Torino, silente e misteriosa; i ravioli, che tutti, ma proprio tutti, noi piemontesi portiamo in tavola nelle feste e sappiamo fare (con esiti diversi, ça va sans dire); il Barolo, davanti al quale non si può non inchinarsi prima di degustarlo, pieno, corposo, profumato, va bene finisco qui; la tovaglia e il servizio delle feste (la tradizione è tradizione); la Vigilia e Natale; la “magna”, nelle famiglie piemontesi non manca mai una zia denominata “magna”, “la grande”, rompiscatole, in sintesi (pure nella mia c’è, e il titolo viene tramandato da generazione in generazione, adesso è mio, per ora in condivisione, ma prima o poi tutto mio), l’eredità e la classica famiglia torinese.

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by Barbara Saccagno (articles and photos) 47

Un ospite inaspettato, l’eleganza raffinata della tradizione, la buona cucina, la figlia innestata nei tempi moderni, lo siamo un po’ tutte, il piccolo borghese e la sua gentilezza dal sapor antico. Una fine che ricorda i racconti della nonna. Un evento che, in apparenza senza senso, può cambiare la routine. La sicurezza di fondo che, alla fine, qualcosa di buono saprà sopravvivere anche al contemporaneo. Lieve e sornione tutto da gustare. Il miracolo, qui, ha un sapore amaro,ma è pur vero che il Piemonte ad un lieto fine non sa credere sino in fondo mai. Sono di parte, lo dico a chiare lettere. Detesto lo stressante luccichio superficiale di Milano (archeologia, arte, Jannacci, Gaber, Fo, Rossanda, Cochi e Renato a parte) e amo la bellezza provinciale di Torino (Savoia esclusi). Non sono da fumetti e da arti vari rifatti ma da libri letti in compagnia di un grande vino. Però una ventina di minuti per leggerli entrambi ve la consiglio, sono un divertente passatempo anti stress da feste. Cinismo e sottile ironia, sotto l’albero, non dovrebbero mai mancare. Gratis pure. In sintesi, buona lettura. Recensione natalizia di Wi-mee. A Natale la lettura non può mai mancare. Due racconti di garzanti, brevissimi, gratuiti e da leggere, dopo aver letto la nostra recensione, of course...