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Bryan S. Turner RELIGIONE E POLITICA Una sociologia comparata della religione ARMANDO EDITORE

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Bryan S. Turner

RELIGIONE E POLITICAUna sociologia comparata

della religione

ARMANDO EDITORE

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Sommario

Prefazione 9Società, politica e religione in Bryan S. Turner di EmanuEla C. DEl RE

Introduzione 33

Parte Prima: RELIGIONE E POLITICA 51

Capitolo primo: La paura del diverso: le origini della politica 52

Introduzione: creare la diversità 52La Grecia antica e l’ascesa della politica 53La violenza urbana 55I musulmani in Norvegia 59Il Manifesto e il multiculturalismo europeo 63Conclusione: la religione nella sfera pubblica 67

Capitolo secondo: Carisma e relazioni tra Stato e Chiesa 70

Introduzione: il carisma in Max Weber 70Critica alla Sociologia del Carisma di Weber 80Ripensare il carisma 84Padre Pio e Mussolini 87Conclusione: il Carisma nell’Era della Celebrità 92

Capitolo terzo: Città, nazione e mondo: 94 l’ascesa della Chiesa e del cittadinoIntroduzione: tre eventi 94Sant’Agostino e le due città 99

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Il Trattato di Westfalia: religione e sovranità moderna 105La teoria westfaliana dello Stato in Hobbes 107Le origini della cittadinanza britannica 110Diritti di cittadinanza contro diritti umani 112Violenza e processo di civilizzazione 117Conclusioni: da citizen a denizen 121

Parte seconda: LO STATO E LA GESTIONE 125 DELLA RELIGIONE

Capitolo quarto: Religione e regolarità: liturgie e riti 126

Introduzione: liturgie 126La Sociologia della monarchia 128Shils sul centro e sulla periferia 133Il problema inglese 135Monarchia e Celebrità 138Centro e periferia 140Conclusione: religione, regalità e politica 144

Capitolo quinto: Religione e riproduzione: matrimonio 147 e famiglia Introduzione: sesso e morte 147Cittadinanza sessuale: lo Stato e lo status delle donne 152Matrimonio e pluralismo legale: il dibattito giuridico negli Stati Uniti 160Conclusione: fine del matrimonio? 166

Capitolo sesto: Conversione e Stato 169

Introduzione: le identità collettive 169Soggettività, intenzionalità e conversione 172Sant’Agostino e San Paolo: il problema dell’intenzionalità 174Conversione e colonialismo 179La Sociologia della conversione 182Conclusioni: il problema del libero arbitrio 186

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Capitolo settimo: Religione, Stato e Legittimità: 189 tre dimensioni dell’autoritàIntroduzione: il contesto 189Carl Schmitt e la crisi del regime di Weimar 193Legalità e legittimità 195Sulla religione civile 199Conclusione: l’erosione della legittimità 204

Parte terza: STUDI STORICI E COMPARATI 207

Capitolo ottavo: Il buddismo e la politica: lo shanga e lo Stato 208

Introduzione: The Religion of India secondo Max Weber 208La trattazione di Weber del primo buddismo 212Weber sull’amore acosmico: Krishna, Arjuna e Buddha 220Conclusione: la politica come chiamata 223

Capitolo nono: Il confucianesimo come ideologia di Stato: 228 la CinaIntroduzione: Max Weber e The Religion of China 228Il confucianesimo come pietas secolare 232L’economia di scarsità della religione 236Conclusione: ascesa e declino delle civiltà 244

Capitolo decimo: Religione, Stato ed eccezionalismo 247 giapponese: il nihonjinronIntroduzione: l’unicità giapponese 247La Restaurazione Meiji e la modernizzazione 254Le teorie sulla globalizzazione 260Conservatorismo culturale e letteratura nihonjinron 263Conclusione: popolazione in diminuzione e religione in declino 268

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Capitolo undicesimo: Stato e secolarismo turco: 270 il caso del Diyanet (con Berna Zengin Arslan)Introduzione 270Il secolarismo turco e il ruolo del Diyanet 274Il Diyanet, Direttorato degli Affari Religiosi 278Le minoranze religiose in Turchia e la comunità alevita 282Il Diyanet nella Turchia contemporanea 284Conclusioni 287

Parte quarta: CONCLUSIONI 291

Capitolo dodicesimo: Religione popolare e democrazia 292popolareIntroduzione: una religione impopolare 292Sociologia classica e antropologia culturale 294La religione popolare in Asia meridionale 297Genere e religione popolare 301Commercializzazione e religione negli Stati Uniti 307Conclusione: siamo tutti popolari ora 310

Capitolo tredicesimo: Lo Stato e la libertà religiosa 312

Introduzione: le costituzioni erastiane 312La Costituzione americana e la gestione della religione 316Privacy e moralità 321Conclusione: post-secolarizzazione o crollo della secolarizzazione? 323

Bibliografia 325 Postfazione 348di RobERto CipRiani

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PrefazioneSocietà, politica e religione in Bryan S. TurnerEmanuEla C. DEl RE

Leggere per la prima volta il volume di Bryan Turner The Reli-gious and the Political, che Roberto Cipriani mi aveva proposto di tradurre in italiano, ha suscitato in me una forte emozione. Ha evocato l’emozione della scoperta che avevo provato quando mio padre Mi-chele C. Del Re mi aveva dato da leggere nel pieno dell’adolescenza Il Ramo d’Oro di James Frazer1 che si dipanava nel senso dell’univer-salità delle manifestazioni umane con il loro intricato rincorrersi in mille forme tanto diverse seppur simili nel significato: nelle declina-zioni luminose e oscure delle organizzazioni che le comunità si danno superando poi le catene dell’immanenza per liberarsi nella magia, che prelude alla trascendenza; e ancora, gli incontri con donne e uomini che si avventurano nello spiegare il visibile e l’invisibile, nell’indica-re percorsi morali e dettare norme. Un tutto compreso in se stesso e allo stesso tempo frammentato in mille rivoli, come una trinità molti-plicata all’infinito, dotata dello stesso peso specifico per i destini del mondo. È per questo che lo studio di Turner mi è apparso via via che lo leggevo per la prima volta un labirinto di stimoli e ho accettato la sfida di tradurlo in italiano con il titolo Religione e Politica.

Bryan Stanley Turner d’altra parte rappresenta un punto di ri-ferimento importante per gli studi sociologici legati alle religioni. Nato a Birmingham in Inghilterra nel 1945, ha studiato sociologia e

1 Frazer, J. (1973), Il ramo d’oro, Torino, Boringhieri (1a ed. 1915; 1a ed. italiana A. Stock, Roma, 1925).

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conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Leeds nel 1970. Ha poi insegnato in università inglesi, scozzesi, australiane, olandesi e statunitensi e ha lavorato presso l’Università di Bielefeld in Germania con una borsa di ricerca della Fondazione Humboldt. È stato Professore di Sociologia a Cambridge dal 1998 al 2005 e presso l’Università Nazionale di Singapore, dove ha condotto ricerche sulla religione con un approccio interdisciplinare. Al momento è Professo-re Presidenziale di sociologia (titolo conferito direttamente dal Pre-sidente del City College come riconoscimento di meriti accademici speciali, che corrisponde più o meno a Professore Emerito), Direttore responsabile degli studi sulla religione presso la City University di New York e Direttore dell’Istituto per la religione, la politica e la so-cietà dell’Università Cattolica Australiana. Ha scritto molto, ha fonda-to riviste come Body and Society (con Mike Featherstone), Citizenship Studies e Journal of Classical Sociology (con John O’Neill).

La personalità di studioso di Turner è complessa e articolata, per-ché i suoi interessi hanno spaziato dal rapporto tra globalizzazione e religione alla concettualizzazione di tematiche come la relazione tra conflitto e religione. Il tema del potere, nelle sue declinazioni legate all’autorità religiosa nell’era dello stato moderno e delle tec-nologie informatiche, è un Leitmotiv dei suoi studi. Dal suo primo noto studio su Weber e Islam del 19742, che gli consentì di entrare nel novero dei grandi sociologi della religione a livello internazio-nale, apparve chiaro che Turner aveva doti intuitive e innovative. Egli stesso in un saggio successivo del 20103 in cui “riesamina” il suo studio del 1974, scrive che all’epoca in cui lo scrisse la lettera-tura sulla sociologia della religione comparativa di Weber era scarsa e che la riflessione sui suoi frammentati commenti sull’Islam era ancora più rara, anche perché egli non aveva realizzato uno studio incentrato sull’Islam quando aveva esplorato le religioni dell’Asia meridionale e della Cina. Turner aveva sviluppato un interesse per questo tema seguendo le lezioni di Trevor Ling sulla religione com-parativa e quando pubblicò lo studio su Weber e Islam nel 1974 die-de l’avvio a un settore di studi che poi ispirò molti altri a misurarsi a

2 Turner, B.S. (1974), Weber and Islam. A Critical Study, London, Routledge and Kegan Paul.3 Turner, B.S. (2010), Revisiting Weber and Islam, in The British Journal of Sociology,

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livello accademico con quello stesso tema. Sebbene criticato, sostie-ne Turner, l’approccio sociologico weberiano al tema dell’Islam non è stato superato o innovato.

La Sociologia del corpo è un altro grande tema trattato da Turner. L’influenza weberiana emerge fortemente anche in questo ambito, in cui Turner si avventura partendo dalla convinzione che vi sia una gran-de assenza di attenzione verso il corpo nella teoria sociale in Occiden-te. Secondo Turner, una sociologia veramente inclusiva dovrebbe con-templare lo studio della corporeità degli attori sociali, mentre al corpo è stata prestata davvero poca attenzione. Inoltre, vi è una gran confu-sione sull’interpretazione del corpo causata da fenomeni come il neo-darwinismo, la sociobiologia e il biologismo. Secondo Turner, invece, sono importanti gli studi antropologici, la fenomenologia e la filosofia esistenziale, in cui il concetto di corporeità è considerato molto rile-vante. Turner però resta ancorato a studi sul corpo in ambito urbano, secolare, nella società capitalistica. Nel suo saggio The body and so-ciety del 19844, il concetto forse più significativo è la connessione che egli stabilisce tra corpo e ordine, stratificazione e controllo sociale, sot-tolineando che tra i quattro compiti fondamentali della società vi sono: regolare la riproduzione della popolazione nel tempo; dare una regola al posto dei corpi nello spazio; il contenimento del corpo “interiore” attraverso delle discipline; la rappresentazione del corpo “esteriore” nello spazio sociale. Attraverso poi l’analisi del patriarcato e dell’in-trusione teologica sul corpo attraverso diete, prescrizioni alimentari e altro, Turner si sofferma sulla secolarizzazione della gestione del corpo in ambito occidentale che comporta una conversione interiore dalla gestione del desiderio alla rappresentazione esteriore del corpo esercitata attraverso cosmetici e ginnastica. È questo uno degli stadi di riflessione che portano a Religione e Politica di Turner, in cui la corpo-reità non è trascurata, rappresenta piuttosto un elemento fondamentale del potere, in particolare quando si parla di carisma. Nel libro, infatti, egli mette assieme in modo originale due personaggi storici di cui ana-lizza il carisma: Mussolini e Padre Pio. Il corpo e le manifestazioni del sacro sono elementi fondamentali del carisma, che secondo Turner

4 Turner, B.S. (1984), The body and society: exploration in social theory, Oxford, Basil Blackwell.

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viene controllato dallo Stato e dalla gerarchia religiosa ufficiale perché costituiscono una sfida alle convenzioni. L’accostamento tra i due per-sonaggi mostra tutta la complessità del Novecento, un secolo in cui il carisma si è manifestato spesso attraverso aspetti profondamente umani sublimati in forme sacre o politiche.

La ricerca di Turner si rivela sempre coerente, anche quando egli tratta argomenti apparentemente separati tra loro. L’attenzione verso la religione ne ha fatto un vero pioniere, ad esempio negli studi sull’I-slam, in un momento storico in cui l’interesse per questo tema era marginale nella ricerca sociologica. Il contributo di Turner agli stu-di sull’Islam è stato poi via via arricchito dall’incrocio con variabili come il capitalismo, l’orientalismo, il genere e la società civile.

Di certo un grande impulso agli studi su questi temi è stato dato dai tragici eventi dell’11 settembre 2001, spostando l’attenzio-ne all’improvviso sulla religione e la sfera sociale. Turner in quegli anni divenne punto di riferimento perché l’opinione pubblica avver-tiva fortemente il bisogno di comprendere la religione dal punto di vista del suo ruolo nella politica, soprattutto per quegli aspetti che venivano percepiti come minacciosi. Proprio la minaccia rendeva gli studi di Turner ancora più significativi, in quanto le sue analisi sulla corporeità ad esempio, lontano dall’interpretazione tipica del prote-stantesimo legata alla religione solo come universo di valori e nor-me, permetteva di comprendere che esisteva una dimensione diver-sa, legata ai sensi, ai simboli, alle pratiche, alle cerimonie. Questo contribuiva alla comprensione della propensione verso la violenza motivata da fattori religiosi, nella grande tradizione di Marcel Mauss e René Girard5. Turner affronta in Religione e Politica il tema del-la violenza anche analizzando la sua negazione, ovvero i modi per tenerla sotto controllo. Parte dalla nozione weberiana di “amore a-cosmico” o “amore che nega il mondo” presenti sia nella tradizio-ne braminica sia in quella buddista. Nel dialogo tra Krishna e Arjuna della Bagavad Gita6, il tema predominante è comprendere il senso della violenza per controllarla. Turner studia il buddismo dal punto di

5 Cfr. Del Re, Michele C. (1961), Il reato determinato da movente religioso, Napoli, Giuffrè.

6 Cfr. Del Re, Michele C. (trad. e cura) (1996), Il Canto del Beato. Bagavad Gita, Roma, Atanor.

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vista della storia della tradizione monastica (lo shanga) e del rapporto con la monarchia, perché una tradizione buddista sostiene che la virtù del monarca venga esplicitata dai suoi tentativi di purificare la cultu-ra monastica. Il monarca per esercitare la sua regalità ha bisogno di ricorrere a mezzi violenti per difendere la società, il che permette ai religiosi di abbracciare l’etica della non violenza. Un paradosso che per Weber, dice Turner, è permanente nella vita sociale.

Un tema che domina Religione e Politica è d’altra parte la paura, in particolare la paura della diversità. Turner comincia il suo studio proprio con il triste episodio della strage avvenuta in Norvegia nel lu-glio 2011 per mano di Anders Behring Breivik che uccise settantaset-te persone nell’isola di Utoya. Per Breivik, come peraltro egli aveva scritto in un vero e proprio Manifesto, la strage faceva parte della sua crociata contro i musulmani, temendo un’imminente islamizzazione della civiltà europea; si tratta della maggioranza che si sente minaccia-ta dalla minoranza, dice Turner, il quale in Sociology of Islam sostiene che quando l’orientalismo era imperante l’Islam era visto come l’Altro lontano, mentre oggi i musulmani sono presenti nelle società occiden-tali e in alcune società hanno ottenuto la cittadinanza, divenendo una importante minoranza a seguito delle migrazioni.

L’attenzione verso la religione come fenomeno sociale si rinnova dunque, dopo essere stata accantonata verso la fine del secolo XX, a seguito della potente onda emotiva, sociale e politica dei Nuovi Mo-vimenti Religiosi tra gli anni 1980 e 1990, che anche in Italia avevano suscitato grande interesse nella sociologia e in altre discipline (come emerge dagli studi di Franco Ferrarotti, Maria Immacolata Macio-ti, Michele C. Del Re, Roberto Cipriani e altri7), peraltro dando una

7 Cfr. tra altri: Ferrarotti, F., De Lutiis, G., Macioti, M.I. (1978), Studi sulla produzione sociale del sacro, vol. I. Forme del Sacro in epoca di crisi, Napoli, Liguori /Laterza; Ferrarotti, F. (1983), Il paradosso del sacro, Roma-Bari, Laterza; Ferrarotti, F. (2013), La religione dissacrante. Coscienza e utopia nell’epoca della crisi, Chieti, Solfanelli; Cipriani, R. (1988), La religione diffusa. Teoria e prassi, Roma, Borla; Macioti, M.I. (2009), Les leaders charismatiques. Quelles fonctions sociales et spirituelles?, Parigi, L’Harmattan; Macioti, M.I. (2000), La religiosità nel terzo millennio. Sacro, carisma e spiritualità in Italia, Roma, EDUP; Macioti, M.I., Tedeschi, E., Del Re E.C. (1995), Profeti senza Bibbia, sciamani del 2000, Roma, Armando; Del Re, M.C. (1982), Culti Emergenti e Diritto Penale, Napoli, Jovene; Del Re, M.C. (1994), Riti e Crimini del Satanismo, Napoli, Jovene.

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risposta concreta alla sfida di Sabino Acquaviva che aveva profetizza-to una “eclissi del sacro” in un suo noto studio del 19618.

Turner si concentra su questioni più ampie, andando ad esplorare la relazione tra la religione, la modernità e la secolarizzazione, indi-viduando anche le conseguenze di tali processi. Partendo dall’analisi della coesione sociale, egli studia l’elemento religioso come varia-bile fondamentale nei processi di cambiamento, ad esempio quando la religione non viene più a costituire il collante per le comunità in società sempre più pluralistiche. Nei suoi studi resta costante il ri-ferimento all’ordine sociale, e alla necessità di garantirlo. L’aspetto giuridico-normativo emerge come fondamentale in Turner, proprio perché è lo strumento principale per garantire equità e diritti umani e civili. Conia il concetto di “pluralismo legale”, con cui sintetizza proprio l’esigenza delle società moderne di individuare istituzioni chiave che possano garantire l’applicazione delle norme per il ri-spetto dei diritti. È qui che la sua analisi diventa particolarmente pregnante, soprattutto in tempi come questi in cui c’è la tendenza a semplificare al massimo le informazioni e a spettacolarizzare più che a contemplare e comprendere. I suoi studi su società, religione e corporeità si fondono fino a produrre interpretazioni originali e com-plete della realtà attuale. L’essere umano è drammaticamente vulne-rabile, e questo è esplicitato dalla fragilità del corpo: è questa vulne-rabilità che secondo Turner costituisce la più alta giustificazione per il rispetto dei diritti umani. Si spinge fino a sostenere che a partire da questa consapevolezza – la corporeità degli esseri umani che li rende tutti uguali nell’essere potenziali vittime di sofferenze fisiche – si potrebbe costruire la pacifica coesistenza di diverse religioni.

Concordo pienamente con la centralità della qualità dell’essere umano come essere “senziente” ovvero dotato di sensi che lo rendono capace di sentire, soprattutto il dolore. Il dolore attraversa la storia dell’uomo in tutte le sue manifestazioni, con le implicazioni legate alla sua funzione come perfetto sistema d’allarme corporale per pro-teggersi e curarsi ed alla sua declinazione come espiazione, non neces-sariamente evitata, ma anche cercata e custodita, auto-gestita e fatta

8 Acquaviva, S.S. (1961), L’eclissi del sacro nella civiltà industriale. Dissacrazione e secolarizzazione nella società industriale e postindustriale, Milano, Ed. Comunità.

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proprio (nelle pratiche religiose sia individuali sia collettive). Ancora, il dolore fisico come ricatto, abominevole pratica di abuso del potere sia legittimo sia illegittimo (la tortura), ma anche qui, a volte cercato, consenziente, condiviso, offerto ad altri, come in pratiche sessuali tra adulti consenzienti oggi ormai legittimate, pubbliche e non più celate o definite come perversione – semmai ridicolizzate. La corporeità in Turner abbraccia tutti i sensi, per cui anche la fame e il sonno, sono elementi che fanno parte di quell’universo che chiamiamo essere uma-no, che come essere senziente nel contesto comunitario deve confron-tarsi con norme e valori che consentono l’esercizio del potere e che proprio su quelle caratteristiche corporali spesso fanno leva. La pro-spettiva turneriana della centralità del sistema dei sensi spiega molto dei nostri sistemi sociali e spiega anche perché e come avvengono mutamenti e quale sia il loro impatto. La religione in questo gioca un ruolo preponderante. La sintesi di tutte queste riflessioni, con un corposo apparato di casi studio, è costituita dalla collezione di saggi presentata in Religione e Politica di Turner.

La connessione tra religione e politica, due dimensioni fondamen-tali della società umana, non è ovvia, e anzi le due arrivano spesso “ai ferri corti”, come afferma Turner. Quest’ultimo propone una vi-sione della religione che la connota come qualcosa appartenente ad un ambito diverso dell’esistenza, qualcosa che dà significato alle cose permanenti, collocandole al di là della quotidianità. La politica invece, dice Turner, è guidata dagli interessi e per questo sembra implicare sempre una lotta secolare tra potere e influenza politica. L’equazione turneriana porta a questo risultato: la religione e la politica sono quasi inevitabilmente intrecciate, perché entrambe sono profondamente in-teressate al controllo e alla regolamentazione dei fatti quotidiani.

Questa riflessione potrebbe concludersi qui, visto che il risultato sembra condurre, per restare nella metafora matematica, a un vero e proprio assioma. È Wittgenstein però a ricordarci, nelle sue Lezioni sui fondamenti della matematica9, che la matematica è in forte relazione con le branche dell’ontologia, della metafisica e dell’epistemologia e tuttavia non può essere inscritta in nessuna di queste tre branche,

9 Diamond, C. (ed.) (1976), Wittgenstein’s Lectures on the Foundations of Mathematics, Ithaca, N.Y., Cornwell University Press.

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trovandosi, per così dire, nell’intersezione fra di esse. Infatti, l’ap-parente assioma viene scomposto da Turner nelle sue dimensioni ontologiche ed epistemologiche, mantenendo latente la metafisica delle cose quotidiane: salute e ricchezza – e Turner qui cita We-ber – e poi la violenza, inestricabilmente legata al potere in mille forme, così come la religione. L’equazione di Turner si arricchisce di nuove variabili e propone un sistema della vita quotidiana che include simboli e atti concreti, tutti mirati alla costruzione, da un lato, dello Stato – o della convivenza nelle comunità umane, si po-trebbe dire – e della vita spirituale: è la distinzione tipica del pen-siero classico nella relazione tra religione e politica, da cui Turner inizia il suo viaggio.

Lo scenario delineato introietta due prospettive uguali e contrarie allo stesso tempo, partendo da una distinzione in due ambiti sepa-rati: Stato-nazione e società globalizzate. Nell’era della crisi dello Stato-nazione, in cui siamo testimoni del fatto che i nazionalismi non sono affatto scomparsi o sconfitti, ma dall’India alla Cina all’Europa emergono, riappaiono o si rafforzano numerosi movimenti separa-tisti, irredentismi, conflitti etnici e politiche estere aggressive, ci si chiede quali possano essere le ragioni dello spostamento dell’asse dal baricentro costituito dallo Stato-nazione alle proposte che lo negano. Non possiamo non tener conto delle istanze di questi movimenti e nemmeno dimenticare, come ci ricorda Turner, che le società pre-sentano aspetti religiosi e sociali particolari e specifici e che queste peculiarità non solo devono essere conosciute, ma soprattutto rico-nosciute, perché in esse si può trovare la soluzione per risolvere la tensione tra religione e questioni civili.

La definizione di nazione non può più essere rigida. Tra i primi a teorizzare la crisi dello Stato-nazione vi è Arjun Appadurai10 che già nel 1996 sosteneva che è la cultura dell’identità ad essere entrata in crisi con i cambiamenti in atto, perché l’idea della comunità naziona-le, che si basa sulla stessa lingua, sugli stessi usi e costumi, la stessa religione, la stessa cultura viene oggi messa in dubbio. Secondo Jür-gen Habermas, d’altra parte, la comunità nazionale non precede la

10 Appadurai, A. (1996), Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis, University of Minnesota Press.

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comunità politica, ne è il prodotto11. L’idea di nazionalità può maturare soltanto all’interno di uno Stato, che tuttavia non tiene conto della pre-senza di un sentimento nazionale profondo (anche se non istituziona-lizzato) su cui si possa costruire uno Stato? Molti dei cosiddetti India-ni d’America, però, si definiscono “nazione” nel senso di “popolo”, per quanto il termine sia diventato controverso, viste le vicende sto-riche che li hanno toccati.

Alcuni fattori determinanti ci impongono una nuova visione, che deriva dal fatto che lo Stato-nazione, come concetto, è ormai mes-so in discussione dal nuovo assetto globale, in ambiti come il potere decisionale dello Stato, oppure sconvolgendo le strutture sociali ed offrendo enormi opportunità di affermazione economica alle élite con-solidate che posseggono il know how necessario per far parte delle reti globali, allo stesso tempo emarginando e impoverendo chi non possiede tali strumenti conoscitivi e di management. Queste tenden-ze polarizzanti hanno effetti sul mito dell’interesse nazionale che tra-scende le divisioni interne alle popolazioni, semmai esaltandole, con risvolti evidenti come la Brexit o l’elezione inaspettata – non per me che l’avevo preconizzata – di Trump negli Stati Uniti. Turner analizza i processi politici dal punto di vista delle reazioni collettive. I flussi migratori – lavoratori e rifugiati – in questo contesto offrono l’oppor-tunità a forze politiche cosiddette “di destra” di strumentalizzare il concetto di Stato-nazione adottando una narrativa che tende a creare un immaginario medievale, con fortezze (la nazione) assediate da as-salitori (i migranti e i rifugiati) che diventa tanto concreto da portare alla costruzione di veri e propri muri di mattoni. I social media, poi, creano comunità virtuali che viaggiano liberamente attraverso i confi-ni nazionali. È chiaro che l’apertura dei confini presuppone un’apertu-ra culturale che abbia risolto e definitivamente consolidato le certezze costruite nei secoli, tanto da renderle così forti da accettare le novità, ma questo è ancora in itinere, visto che anche le normative europee presentano incongruenze e la società multiculturale non è perfetta e nemmeno del tutto interiorizzata. Siamo testimoni della fine del mo-dello westfaliano, che garantiva l’equilibrio di potere tra gli Stati e che

11 Habermass, J. (2001), The Postnational Constellation: Political Essays, Cambridge, MIT Press.

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ha costituito la pietra d’angolo delle relazioni internazionali per se-coli? Dobbiamo accogliere il modello post-wesfaliano di Tony Blair, proposto in un famoso discorso a Chicago nel 1999, in cui l’allora premier sosteneva che il modello wesfaliano è anacronistico nell’era della globalizzazione?

In Religione e Politica Turner inserisce il Trattato di Wesfalia in una sua visione storica della cittadinanza, insieme con La città di Dio di S. Agostino e con la Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, sottolineando che è da momenti particolarmente violenti della storia e dai conflitti che sono emersi questi capisaldi del progresso umano.

Secondo Turner, il concetto di Stato sovrano diventa fondamenta-le quando si parla di diritti umani. Egli adotta la triangolazione indi-viduo/diritti umani/Stato sovrano come riferimento per analizzare e spiegare il conflitto che si viene a creare. Turner afferma in Religione e Politica: “una caratteristica dell’utopia dei diritti è la convinzione che la moralità si possa sostituire alla politica e che gli Stati totalitari e i loro leader possano essere riportati alla giustizia. Tuttavia, l’applica-zione dei diritti umani rimane un problema persistente. L’altro aspetto di questo problema, come già accennato, è la tensione fra diritti dei cittadini e diritti umani”.

Sul piano internazionale, i diritti civili derivano dalle costituzio-ni e dalle leggi dei singoli paesi, mentre i diritti umani sono univer-sali e riguardano tutti gli esseri umani. Il problema sta nel fatto che in questo senso gli attori internazionali avrebbero meno interesse a intervenire nelle violazioni dei diritti civili all’interno delle sin-gole nazioni, mentre si sentono coinvolti nelle violazioni dei diritti umani in senso ampio. I diritti umani sono universali in tutti i paesi del mondo, ma i diritti civili variano da Stato a Stato. Turner sotto-linea le criticità della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, nella cui formulazione vi è una forte influenza “cristiana”. Concordo con Turner perché secondo me questo è alla base della decisione nel mondo arabo di elaborare una Carta Araba dei Diritti Umani nel 2004, sulla falsariga della Dichiarazione Universale del 1948, ma con differenze tanto sostanziali in merito ai diritti delle donne, dei bambini e altro da portare le Nazioni Unite a dichiara-re che essa è incompatibile con il concetto stesso di diritti umani. Turner peraltro sottolinea il fatto che senza una governance globale

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l’applicazione dei diritti resta legata alle politiche dei singoli stati, con ciò che ne consegue.

Turner parte da una profonda comprensione e consapevolezza di queste sfide per soffermarsi sull’aspetto religioso di molte questio-ni politiche. Il viaggio in cui ci conduce, dall’Europa alla Cina, al Giappone e oltre, attraverso le epoche storiche, facendoci incontrare personaggi semplici e straordinari, non ha la pretesa di dare risposte, piuttosto tende a fornire ulteriori elementi d’analisi che starà al lettore cucire insieme per elaborare un’immagine completa.

Nello studiare e analizzare la storia religiosa e la cultura politica di diversi paesi, Turner si sofferma sui processi storici che hanno portato le diverse società ad affrontare – e in alcuni casi a risolvere o ad enfatizzare – la tensione tra politica e religione attraverso de-terminati percorsi e per l’influenza di uomini e donne. Sono proprio le donne a essere nell’analisi di Turner un elemento di riferimento potente, perché costituiscono un trait d’union fondamentale nella sua visione sociologica diacronica e geograficamente trasversale. Elizabeth Ettorre nel suo Revisioning women and drug use: gender, power and the body12 afferma che Bryan Turner si distingue per es-sere uno dei primi sociologi maschi teorici dell’importanza del cor-po, che hanno preso le donne e il genere seriamente, riferendosi in particolare agli studi di Turner Regulating bodies: Essays in medical sociology13 e The body and society14. Egli studia con attenzione non solo il ruolo ma anche i diritti delle donne nei diversi sistemi so-ciali e nelle tradizioni religiose. In The body in Asia15, che Turner ha curato con Zheng Yangwen, emerge la divergenza tra il modello aristotelico occidentale – peraltro centrale anche nel pensiero islami-co – e il modello della filosofia orientale, che poi si ricongiungono nel pensiero di Heidegger ispirato da Lao Tzu; questo come introdu-zione alle analisi presenti nel volume in cui le donne sono il punto di riferimento per comprendere le complessità dell’interpretazione del corpo femminile tra motivo di subordinazione ed esaltazione del

12 Ettorre, E. (2007), Revisioning women and drug use: gender, power and the body, New York, Palgrave McMillan, p. 27

13 Turner, B.S. (1992), Regulating bodies: Essays in medical sociology, London, Routledge.14 Turner, B.S. (1992), op. cit.15 Turner, B.S., Yangwen, Z. (eds.) (2009), The Body in Asia, London, Berghahn.

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desiderio, con l’enorme impatto sul ruolo sociale della donna che questo modo di pensare ha avuto ed ha in Asia.

In Religione e Politica Turner il tema del femminile è trasversale. Egli parte da lontano, dall’antica Grecia, analizzando la distinzione in ruoli naturali tra uomo e donna, per poi sfociare nell’attualità ad esem-pio analizzando la questione della reazione al velo indossato dalle musulmane in contesti sociali occidentali. Altri temi affrontati vanno dalla donna e il suo corpo violato negli stupri di guerra ai miti sui ruoli delle donne che si trasformavano, ad esempio negli anni 1950, in trappole sociali con finte emancipazioni che portavano la donna a lavorare fuori della famiglia per poi assolvere comunque tutti i ruoli tradizionali all’interno di essa, con il risultato di un gravoso impegno di lavoro. In Religione e Politica Turner affronta inoltre il tema del genere anche dal punto di vista del matrimonio (che ricorre nel testo anche come forma rituale ultima), analizzando la questione del matri-monio gay dal punto di vista delle rivendicazioni politico-legislative e analizzando le recenti istanze per la legittimazione della poligamia in ambito occidentale, con conseguente ridefinizione del concetto di matrimonio anche da parte dello Stato.

Ancora, la vulnerabilità di donne e bambini in contesti di guerra; l’approccio di cristianesimo ed ebraismo al ruolo della donna e altro. Come affermano Nickie and Hintjens16, Turner sottolinea che è neces-sario trovare una forma di dialogo di solidarietà che metta in risalto i punti di convergenza e coinvolgimento tra parti opposte, senza sot-tovalutare le differenze. È un compito non facile, come dimostra il coinvolgimento delle donne nei conflitti inter-etnici, nei nazionalismi esclusivi e nel fondamentalismo religioso – emblematico il caso delle donne combattenti nello Stato Islamico (Daesh)17 –, che ne evidenzia-no la capacità di farsi protagoniste di movimenti che in genere sono anti-universalisti e anti-egalitari e ignorano le variabili delle categorie che li accomunano tutti pur su fronti opposti.

16 Nickie, C., Hintjens, H. (eds.) (1998), Gender, Ethnicity and Political Ideologies, London, Routledge, p. 23.

17 Del Re, E.C. (2015), Female combatants in the Syrian conflict, in the fight against or with the IS, and in the peace Process, in: Shekawat, S. (ed.), Female combatants in conflict and peace, New York, Palgrave McMillan.

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L’elemento della violenza ricorre in Religione e Politica. Turner parla di violenza e provvedimenti legislativi e prende in esame la violenza sulle donne, affermando che vi è una correlazione tra mag-giore riconoscimento delle donne in diversi ruoli, di cui, aggiungo, il fenomeno del cosiddetto “femminicidio” in contesti occidentali co-stituisce un esempio complesso. Sarà forse l’oscillare tra i nuovi ruo-li delle donne e il ruolo femminile legato ad un certo immaginario come nel caso del fiabesco matrimonio reale in Gran Bretagna, cui Turner dedica molta riflessione? Resta l’ambiguità del rapporto tra l’immagine della donna, del matrimonio e della fertilità nelle diverse religioni. La visione cristiana è ambigua. Il desiderio sessuale è un elemento del controllo comunitario e religioso, regolato anche dallo Stato. Il rapporto tra sesso e morte – eros e thanatos – viene profon-damente studiato da Turner, che individua nel II secolo il momento in cui essi vengono associati come simboli della vulnerabilità umana e quindi la rinuncia al sesso doveva essere interpretata come un atto di redenzione per guadagnarsi il paradiso, ovviando ai rischi insiti nel libero arbitrio. Questo tema torna oggi in molte scelte anche in ambito occidentale, in contrasto con l’apparente dilagare della liber-tà sessuale, di Nuovi Movimenti Religiosi che impongono regole molto rigide in ambito sessuale e di relazione tra i generi ai loro ade-renti – come ad esempio gli Hare Krishna che impongono astinenza e divisione tra uomini e donne.

La globalizzazione fa da cornice a queste riflessioni di Turner, il cui studio costituisce una fonte ricchissima di spunti per la rifles-sione su questioni teoriche legate alla complessità della globaliz-zazione in epoca contemporanea. D’altra parte la globalizzazione è tema caro a Turner, che nel 2010 ha pubblicato, insieme con Habibul Haque Kondkher, Globalization East and West18. Secondo Turner e Khondker, la globalizzazione è un processo complessivo attraverso il quale l’umanità è entrata in una fase di civiltà che presenta aspetti qualitativi molto particolari, in ambiti come la religione, le migra-zioni, la medicina, il terrorismo, i disastri ambientali, la cittadinan-za, il multiculturalismo, i media e la cultura popolare. In Religione

18 Turner B.S., Kondkher, H.H. (2010), Globalization East and West, London, Sage Pu-blications.

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e Politica diversi capitoli sono dedicati alla questione del rapporto tra cittadinanza e sovranità proprio nell’ottica della globalizzazione: essi secondo Turner sono diventati gli elementi fondamentali per la definizione dello Stato-nazione moderno. Come risponde lo Stato, ad esempio, alle sfide poste dai flussi migratori sempre crescenti – che includono grandi percentuali di rifugiati – e all’emergere di or-ganismi sovranazionali? Quale l’impatto sulle comunità religiose, se la centralità dello Stato viene a mancare? La risposta di Turner può essere sintetizzata nell’idea che il rapporto tra religione e Stato non implica una dipendenza dell’una dall’altro, perché vi sono molti elementi che intervengono a definire le politiche dello Stato riguardo alla religione. Ma l’argomento potrebbe essere più attuale, consi-derando quanto la sicurezza oggi, come Turner sottolinea nel suo studio, influenzi l’atteggiamento verso le religioni e in particolare verso le comunità religiose. Turner analizza i casi della Gran Bre-tagna e degli Stati Uniti d’America che hanno reagito agli attacchi dell’11 settembre 2001 con misure anti-terrorismo molto serrate. In particolare, la percezione della comunità musulmana e dell’Islam in generale è mutata, portando a misure preventive contro il radicali-smo soprattutto nei suoi risvolti violenti.

Il sentimento anti-musulmano, che si è riacuito – dopo l’11 settem-bre – a seguito degli attacchi terroristici avvenuti in Francia e altrove negli ultimi anni a seguito dell’affermarsi dello Stato Islamico (Daesh), ha portato alla messa in atto di norme restrittive di controllo in nome della sicurezza. Il controllo sulle comunità musulmane, in particolare, è giustificato ancora una volta dal bisogno di prevenzione del radicali-smo, a discapito però di libertà fondamentali, che in teoria non dovreb-bero essere negoziabili. In Europa l’opinione pubblica sembra percepire con chiarezza il rischio di ricadute di misure speciali per il contrasto al terrorismo sull’intera popolazione e si conserva una certa moderazione, pur affermandosi movimenti populisti e nazionalisti, ma si può aggiun-gere che, in altri contesti come ad esempio l’Australia, la paura sembra prevalere e le misure di controllo sono diventate molto severe, tanto da suscitare molta preoccupazione per il destino dei diritti civili. Turner ha scritto Religione e politica prima della Brexit e dell’elezione di Donald Trump negli USA, ma in tutto il suo studio egli fornisce elementi anali-tici che possono aiutare a comprendere questi eventi storici.

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In tale scenario, dove si collocano la Chiesa (intesa come isti-tuzione religiosa) e la legge naturale? Turner analizza la questione della legittimità nelle società moderne in cui l’autorità della legge naturale e la Chiesa sono state sostituite da una dipendenza da sor-genti di autorità più secolari. Carisma, tradizione e razionalità legale come teorizzate da Weber non corrispondono al modello prevalen-te attuale, basato piuttosto su legittimità, legalità e prestazione. La legittimità nelle società moderne è un concetto fluido, interpretato variamente dai cittadini che legano la legittimità del governo a quel-lo che il governo è realmente in grado di elargire, anche in termini, secondo Turner, di ricchezze e sicurezza. Fino a che punto il citta-dino è disposto a negoziare sulla legittimità quando vuole ottenere benessere e sicurezza? Si può tollerare meno legittimità per mag-giore ricchezza? Le promesse disattese dalla realtà dei fatti – disoc-cupazione, crisi economica, incertezza, insicurezza, paura, welfare limitato – portano i cittadini ad essere sospettosi della politica e a non collegare legittimità e risultati concreti. Turner analizza tutto questo e si chiede se la religione civile americana, ad esempio, possa fornire una base di legittimità.

Fatto sta che la religione non è assente in tutto questo, perché il discorso politico è spesso denso di riferimenti religiosi. Torniamo alla questione della paura e prendiamo ad esempio la War on Terror (WoT) guerra al terrore (anche nota come Global War on Terror, guerra glo-bale al terrore) la campagna di George W. Bush iniziata all’indomani dell’11 settembre, poi dichiarata chiusa nel 2013 da Obama, il quale ha affermato che bisognava ormai indentificare nemici specifici più che applicare una tattica. Nella War on Terror il riferimento a Dio era preponderante. Nel suo discorso al Congresso il 20 settembre 2001, Bush affermò: “Libertà e paura, giustizia e crudeltà, sono sempre sta-te in guerra, e noi sappiamo che Dio non ha una posizione neutrale rispetto ad esse”19. Se la misura è Dio, nell’attuale clima di paura e sospetto verso le comunità musulmane, gli Stati tendono a insistere sulla distinzione tra Islam “buono” e Islam “cattivo”, Islam “ufficia-le”, “pacifico”, integrato nelle nostre società occidentali.

19 Traduzione mia di brano da: trascrizione del discorso tenuto da G.W. Bush al Congres-so il 20 settembre 2001, http://edition.cnn.com/2001/US/09/20/gen.bush.transcript/ (ultimo accesso: 12 settembre 2016).

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Turner vede nell’atteggiamento dello Stato rispetto alla questione della presenza delle comunità musulmane un allontanamento dalla tra-dizione della separazione tra Stato e Chiesa. La religione è sotto con-trollo anche dove non vi è paura del terrorismo cosiddetto “islamico”, e lo dimostra il caso della Turchia analizzato in Religione e Politica. Turner è convinto che la Turchia non possa essere d’esempio quando si parla di Islam secolare, come afferma in uno studio recente sulla sociologia dell’Islam20, perché l’ideologia del secolarismo nel paese non ha realmente comportato che tutti i gruppi sociali venissero tratta-ti equamente: i Curdi, ad esempio, sono stati trattati duramente dallo Stato turco. Lo stesso secolarismo non è stato il risultato di un dibattito ampio coinvolgendo la popolazione, è stato piuttosto il risultato di po-litiche imposte dall’alto. Turner è stato più volte criticato, soprattutto dagli antropologi, per non aver condotto solide ricerche sul campo tra le comunità musulmane e quindi di fatto di parlarne senza conoscer-le. Tuttavia, secondo suoi commentatori, come ad esempio Talib21, in realtà Turner presenta nuovi modi di concettualizzare le realtà sociali e anche nuovi strumenti analitici anche senza aver conosciuto diret-tamente le comunità. Mentre, secondo Talid, il punto di vista dell’in-sider e dell’outsider dipendono sempre dallo sforzo dell’analista di enfatizzare e comprendere (il verstehen weberiano), Turner mantiene un equilibrio nella sua analisi dell’orientalismo negli studi sull’Islam.

L’analisi di Turner prende in esame, in Religione e Politica, l’isti-tuzione storica del dyanet, fondato nell’ambito di una serie di riforme istituzionali dell’Impero Ottomano nell’organizzazione secolarizzata dello Stato-nazione turco. Un importante esempio di queste rifor-me istituzionali fu l’abolizione del Ministero della Legge Islamica e delle Fondazioni di Beneficenza, nonché la creazione nel 1924 del Diyanetİsleri Baskanlığı (Direttorato degli Affari Religiosi) per gesti-re i servizi religiosi a favore della la maggioranza sunnita. Era lo Stato che gestiva gli affari religiosi, dunque il processo di secolarizzazione va interpretato come incompleto.

20 Turner, B.S., Kamaludeen, M.N. (eds.) (2013), The Sociology of Islam: collected essays by B.S. Turner, Fahrnam, Surrey, Ashgate.

21 Talib, M. (2014), Book Review: Turner, B.S., Kamaludeen, M. N. (a cura di) (2013) The Sociology of Islam: collected essays by B.S. Turner, Fahrnam, Surrey: Ashgate., in: Journal of Islamic Studies, 5, pp. 1-3

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Turner insiste sul tema, accostando il caso turco a quello giap-ponese, in cui la costruzione dell’identità della popolazione giappo-nese si basa su una commistione tra principi del buddismo e dello shintoismo. Un’identità, quella nipponica, che è il risultato di una profonda e capillare propaganda da parte dello Stato, che a comin-ciare dal tardo XVIII secolo ha promosso un forte nazionalismo, co-lorato anche di un senso di superiorità, in particolare per consentire alle autorità di fronteggiare pressioni esterne o interne. Il Giappone fonda molta della sua coesione sociale sul senso della sua unicità e diversità, sull’origine divina. Turner ravvisa convergenze tra i casi Turchia e Giappone sulla base dell’influenza dello Stato negli affari religiosi e viceversa.

Turner studia anche il confucianesimo e il taoismo, sempre restan-do in Asia, perché intende comprendere e spiegare la relazione tra essi e la politica. Nella sua analisi arriva ad affermare che il confuciane-simo è un’ideologia politica di Stato che proclama l’importanza del dominio della virtù nel creare un ordine sociale, contrapposto alla dif-fusissima pratica taoista in Cina, che può essere interpretata piuttosto come una religione popolare delle masse.

Questi esempi convergono in Turner nella sua analisi del rap-porto tra religione e politica in un senso complessivo, perché la sua teoria si esplicita nel fatto che pur essendo le religioni libere di agire in Stati liberi nel mondo, tuttavia diventano oggetto delle politiche dello Stato.

La parte dedicata a Islam e Giappone e l’identità costruita sulla religione costituisce forse la sintesi esemplare della metodologia di Turner. Come afferma Daniel Martin Varisco nella prefazione a So-ciology of Islam22: “L’occhio sociologico di Turner è onnipresente. L’Islam non viene mai trattato come una variabile separata o come oggetto unico e a se stante, ma viene sempre concettualizzato come fenomeno sociale”. Dice ancora Varisco, che quando Turner inevi-tabilmente si deve confrontare con l’islamofobia imperante e con la sfida perenne postaci dallo “scontro di civiltà” profetizzato da Hung-tinton, ricorre a Leibnitz e Spinosa che predicano la tolleranza nei

22 Varisco, D.M. (2013), Preface, in: Turner, B.S., Kamaludeen, M.N. (eds.) (2013), The Sociology of Islam: collected essays by B. S. Turner, Fahrnam, Surrey, Ashgate, p. XI (tradu-zione mia).

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confronti di opinioni diverse, diventando così “antidoti razionali a Hungtington”23. Turner cita anche l’Islamista francese Maxime Ro-dison, facendo suo il senso di cosmopolitismo empatico più che mai necessario oggi.

Quanto di Turner persona ci sia in Religione e Politica e nei suoi studi in genere emerge frequentemente, perché è dalle sue esperienze e dalle sue preferenze che prendono l’avvio le sue analisi. Altrimenti non potrebbe essere. La religione letta secondo la prospettiva del-la globalizzazione è uno dei temi che secondo Ruzzeddu – che ha collaborato a questa traduzione del volume in italiano – reca-no l’impronta più personale di Turner24, che individua nella sfida del secolarismo il vero rischio insito nella libertà religiosa delle società libere, quando porti a scelte dettate dal consumismo, su-perficiali. Già in un saggio sul discorso religioso del 2008, Turner sottolineava che i bambini i quali crescono in una città potrebbe-ro nella loro vita non vedere mai una pecora, per cui quello che ha preso il posto dell’esperienza condivisa nelle comunità è una religiosità ibrida compatibile con il consumismo e la cultura po-polare: “Gli stili di vita religiosi sono modellati sul consumismo, che offre la possibilità agli individui di provare diverse religioni proprio come provano abiti alla moda”25. La metafora turneriana si spinge fino a immaginare le religioni in lizza come candidati alle elezioni che portano alla vittoria chi è in grado di rappresen-tare meglio l’opinione pubblica. Il riferimento ai processi politici ricorre in Turner quando egli parla ad esempio dell’incoronazio-ne in Gran Bretagna. Nel 2012 ha scritto un saggio intitolato In defence of Monarchy26 facendo una comparazione tra il sistema americano, con la sua “religione civile” e quello britannico, con la distanza tra gli intellettuali “secolari” e la popolazione in cui il senso religioso è diffuso – non necessariamente l’appartenenza a una religione istituzionale – e individua nel matrimonio reale un

23 Ibidem.24 Ruzzeddu, M. (2015), “Review of The Religious and the Political: a comparative So-

ciology of Religion”, in: Politics and Religion, n. 2, vol. IX, pp. 329-33125 Turner, B.S. (2008), Religious Speech. The Ineffable Nature of Religious Communica-

tion in the Information Age, in Theory, Culture & Society, Los Angeles, London, New Delhi, and Singapore: Sage, vol. 25 (7-8), p. 230.

26 Turner, B.S. (2012), In Defence of Monarchy, in: Society, 49 (1), 84-89.

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rito collettivo fondamentale che corrisponde a un bisogno socia-le inestinguibile, con quello che sociologicamente se ne può trar-re. Ritengo che questa interpretazione sia in linea con molte mie riflessioni sull’importanza del rito collettivo nei regimi totalitari atei – Albania e blocco sovietico in particolare – in cui le grandi coreografie spettacolari che accompagnavano le cerimonie dedicate alla celebrazione dell’anniversario della fondazione del partito, ad esempio, avevano l’intento di soddisfare il senso aggregativo reli-gioso dei riti collettivi, pur mutandone la forma, per non creare un vuoto ideologico e la nostalgia verso la dimensione sociale della re-ligione. Turner conferma questa mia interpretazione, perché ritiene appunto che anche quando venissero a mancare le religioni istitu-zionali, le comunità potrebbero essere soddisfatte da riti laici altret-tanto coinvolgenti quanto quelli religiosi. D’altra parte Turner ha sempre sollevato la questione fondamentale: “se la globalizzazione produca nuovi fenomeni (…) piuttosto che una semplice modifica dei fenomeni sociali esistenti”27.

In che cosa restano uniche allora le religioni istituzionali? Che cosa ha permesso loro di continuare per secoli a costituire un collan-te sociale? Le religioni in passato agivano su ortodossia, norme rigi-de e gerarchia per conservare un senso di autorità e mistero, mentre oggi in Occidente le pratiche religiose assumono una connotazione individuale auto-gestita che acquisisce il significato di terapia perso-nale. Ma pur sostenendo che il credo religioso è diventato un credo a “bassa intensità28”, egli sottolinea che la fede e la pratica, essendo ormai mescolate a una cultura commerciale secolare, non possono che mettersi in competizione con gli stili di vita secolari nel produrre beni di consumo, dalle mega-chiese alle preghiere che si comprano on-line e altro. Weber peraltro sosteneva che la religione ha un pote-re tale che la sua dissoluzione porterebbe a un disorientamento, non alla liberazione.

Turner si mostra però indulgente verso forme di sincretismo re-ligioso con connotazione politica. In particolare si sofferma sulle varie forme di culto della Vergine Maria, riportando ad esempio la

27 Turner, B.S. (2011), Religion and Modern Society: Citizenship, Secularization and the State, Cambridge, UK: Cambridge University Press, p. XIII (traduzione mia).

28 Ibidem, p. 150 (traduzione mia).

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storia dell’identificazione di Maria con l’emergente cultura naziona-lista messicana, con radici fin dal 1531. Nel non nascondere lo stu-pore di fronte a tante trasformazioni del culto, Turner però trova la sintesi nel tratto che le accomuna, ovvero l’essere legate alle donne meno privilegiate, alle donne oppresse. Il culto si rivela uno straor-dinario strumento di aggregazione per il cattolicesimo, che nell’esal-tare la figura di Maria resta il faro per gli emarginati, e soprattutto le emarginate, come nelle favelas brasiliane dove infatti l’affetto per Maria, dice Turner, è grande.

In questo senso Turner si riconcilia con lo sgomento che sembra provare nel dover constatare la trasformazione della religione in bene di consumo post-moderno. Alla fine, secondo me, le pratiche e i sim-boli religiosi, pur nella forma e nel significato che hanno assunto oggi, restano una forma di conforto sociale necessario e ad essi va ricono-sciuto tutto il merito e il valore.

Non è indulgente Turner, invece, quando si trova ad analizzare casi come quello di Sai Baba, che presenta in tutta la sua concretissi-ma umanità e che definisce come una vera e propria truffa. Che fine ha fatto il carisma weberiano? Lo si ritrova in un caso come quello di Sai Baba?

Turner parla di Sai Baba e delle sue famose miracolose mate-rializzazioni di piccoli oggetti dall’aria preziosa, che egli faceva in pubblico, lasciando a bocca aperta gli astanti i quali interpretavano quelle sue abilità di prestigiatore come manifestazioni della sua na-tura divina. In realtà, dice Turner, esse potrebbero essere considerate come esempi di quello che Karl Marx definiva feticismo della merce. La cultura hindu, in cui non esiste una centralizzazione del potere, concede facilmente spazio a figure come Sai Baba, il quale si inseri-sce nella millenaria tradizione dei santi uomini, ma che in un conte-sto globalizzato risponde alle pressanti esigenze di quel consumismo che Turner ritrova in tante manifestazioni religiose umane. Tali forme di sincretismo Turner individua anche in ritrovati culti antichi come quello della Madre Terra, che egli inserisce nella cultura New Age, come rielaborazioni di culti aborigeni.

Sono proprio queste riflessioni, questi esempi, che consentono a Turner di continuare a sostenere che è il bisogno umano di prendersi cura di sé, di esprimersi liberamente, di ritrovarsi in ideali come

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l’ecologismo, che spiegano il successo di tali forme religiose, per cui non ha veramente importanza, aggiungo io, se si tratta di frodi spirituali o dottrine superficiali.

Tornando alla dimensione individuale, Turner affronta il tema della conversione come elemento trainante sia nelle società tradizionali sia in quelle attuali. Molti conflitti sono incentrati su questioni di conver-sione, come il tentativo da parte dei cristiani di convertire gli ebrei con la forza delle leggi. Turner esamina il caso della conversione al cri-stianesimo in Indonesia, spesso messa in dubbio perché sospettata di essere il frutto di coercizione. Misurare l’autenticità della conversione è difficile, ma lo studio storico di Turner in Religione e Politica sulle attività delle missioni cristiane in Asia e in Australia suscita riflessioni stimolanti sul concetto di tradizione e religione.

Quale la proposta metodologica di Turner? Per quanto criticato per non aver condotto ricerche sistematiche sul campo, Turner è consa-pevole che i metodi comparativi convenzionali applicati alle religioni dovrebbero essere innovati, perché come dimostra in questo libro, le convergenze nell’era della globalizzazione sconvolgono i canoni in-terpretativi tradizionali. I temi a lui cari, come le donne, le questioni legate alla paura, al fondamentalismo, devono essere analizzati sotto la lente del processo di modernizzazione.

Grande conoscitore di Weber, Turner prende le distanze dal concetto che certe forme religiose siano un rifiuto delle cose terre-ne. Weber teorizzava che nella sfera religiosa si sono create delle religioni salvifiche che rifiutando la magia hanno sviluppato del-le potenzialità razionalizzanti. Lo studio comparativo di Weber si soffermava sulla sociologia di quelle che chiamò religioni mondiali emerse soprattutto nel primo millennio prima di Cristo29. Turner riprende questa visione globale, includendo aspetti contemporanei, cercando di individuare comportamenti collettivi, movimenti so-ciali, che siano rappresentativi della società globale e che possano costituire elementi trasversali a diverse religioni, accomunandole. Si tratta di movimenti, tendenze, post-moderni? Turner risponde a Weber contrapponendo alla teoria del “rifiuto delle cose del mondo” un’interpretazione che non vede nelle religioni di oggi un rifiuto

29 Weber, M. (1920), Sociologia delle religioni, Torino, Utet (1a ed. 1920).

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della modernità, piuttosto un necessario e sofferto, a volte giusto e a volte sbagliato, adattamento al nuovo contesto globale. Turner so-stiene che forse nelle società moderne tutte le religioni abbiano una connotazione popolare perché nella società moderna lo Stato in ge-nere non può controllare completamente la religione. Inutile parlare dell’impatto di Internet e della scomparsa delle chiese istituzionali per sottolineare il fatto che le religioni popolari trovano un humus favorevole in cui prosperare.

Religione e Politica si conclude con una riflessione sui concetti di eguaglianza e individualismo. I nuovi culti della celebrità, esaltati dai mass media, influenzano anche l’ambito politico, in cui i politici si devono misurare con criteri divistici e con un carisma cultuale che impone criteri difficili da rispettare. La religione è un fatto privato ma è in contrasto con le regole della società informatica.

Il quadro della società globale – a tutte le latitudini e in tutte le sue manifestazioni – nell’interpretazione turneriana presenta tinte for-ti. L’individuo è protagonista attivo e allo stesso tempo passivo nella ricerca dell’equilibrio che religione e politica cercano costantemente, che (sembra suggerire Turner) possono trovare solo conoscendo e ri-conoscendo le trasformazioni sociali avvenute e in atto, assolvendo al loro compito di catalizzatori dei bisogni umani.

Che cosa piace a Turner? Attraversare il mondo come Gulliver, ritrovandosi gigante a Lilliput e nano a Brobdingnan, con tutte le prospettive e le opportunità che queste apparentemente scomode condizioni offrono? O Turner è piuttosto un moderno Phileas Fogg, che viaggia in tutto il mondo immergendosi di volta in volta nelle culture d’Oriente e d’Occidente, mettendo a dura prova il suo senso di equilibrio e di giustizia, come nel caso del salvataggio della ve-dova indiana destinata a seguire il marito defunto gettandosi come da tradizione tra le fiamme che ne avvolgevano il cadavere per mo-rire con lui? Se questi accostamenti potrebbero sembrare profani quando si parla di uno studio scientifico come quello di Turner, che conferma la sua grande capacità di condensare il globale nel locale e di universalizzare il locale nel globale, come ci chiede prepoten-temente il nostro tempo, in realtà non sono, da parte mia, che un modo per rafforzare l’invito a immergersi in questo testo come si farebbe con un romanzo. Turner trasforma la religione e la politica

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nell’avventura che esse sono, ancor più quando si intrecciano. E ci insegna – studiosi o lettori che siamo – a usare religione e politica con sapienza, per restare con i piedi saldi nei diritti umani e con la testa libera di guardare oltre le nubi.

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Ringraziamenti

Molti capitoli di questo volume, specialmente per quello che riguarda la nozione di “religione popolare”, sono stati presentati per la prima volta come working papers ai seminari settimanali del Comitato per la Religione del Graduate Center della City University di New York. I miei colleghi del Dipartimento di Sociologia e il gruppo organizzatore degli incontri del Comitato per la Religione mi hanno offerto una piat-taforma straordinaria per testare le mie idee. I dibattiti con i colleghi sono stati di valore inestimabile. Desidero ringraziare John Torpey e John Shean, con i quali ho letto il volume Religion in Human Evolution di Robert Bellah per preparare i capi-toli sulla Cina e sul Giappone. Berna Zengin Arslan si è unita a me nella stesura del capitolo 11 mentre era ancora post-doctoral fellow nel Centro di Specializzazione. Desidero ringraziare anche i colleghi del Centro per la Religione e la Società della Western Sidney University, e in special modo Adam Possamai e Julia Howell, per il loro sostegno. Elena Knox della Western Sidney University è stata preziosissima nel curare la revisione del testo e nel preparare la bibliografia. Mia moglie Nguyen Kim Hoa è stata la mia compagna sempre presente durante tutto il mio lavoro.

Bryan S. Turner

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Introduzione

La religione e la politica sono due dimensioni fondamentali del-la società umana, eppure giungono spesso ai ferri corti. La religione sembra appartenere ad un ambito diverso, essendo l’indicatore di que-stioni permanenti e perduranti, che si collocano oltre il quotidiano. La politica sembra implicare sempre la lotta secolare tra potere e influen-za politica, essendo guidata dagli interessi. Uso il verbo “sembrare” perché in effetti la religione e la politica sono quasi inevitabilmente intrecciate, perché entrambe sono profondamente interessate al con-trollo e alla regolamentazione dei fatti quotidiani. Max Weber proprio all’inizio di Sociologia della Religione (1966b) afferma che la reli-gione si occupa fondamentalmente delle cose di questo mondo come la salute e la ricchezza. Continua poi sostenendo che è inevitabile che la politica riguardi il potere e la violenza, ma che la religione (per lo meno le forme organizzate di religione) riguarda anche la violenza simbolica, di cui le scomuniche sarebbero un esempio eclatante. Que-ste affermazioni potrebbero non apparire immediatamente ovvie, per-ché è certo che la religione riguarda anche la delicata cura dell’anima, e la politica riguarda anche lo sviluppo del cittadino in ambito pubbli-co. La sociologia di Weber può dirsi tragica, in ultima analisi, perché la religione, come etica universale o amore fraterno, è in contrasto con “il mondo”, e inoltre è quasi sempre compromessa o sconfitta dalle forze del mondo.

Nel pensiero classico questa relazione tra religione e politica viene analizzata nei termini di una significativa distinzione tra arte di gover-nare (statecraft) e arte di curare le anime (soulcraft). Una società fun-zionante richiedeva sia una efficace gestione delle pubbliche relazioni attraverso una saggia leadership di Stato, sia una disciplina interiore del

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cittadino, per controllare le proprie emozioni e indirizzare i propri inte-ressi verso il bene pubblico. Nel mondo moderno rischiamo di perdere entrambe. Con l’affermarsi dei mass media nelle democrazie elettorali, i politici vengono guidati dal bisogno di ottenere buoni piazzamenti nei sondaggi d’opinione e inseguono la celebrità più che la saggezza. Li giudichiamo in merito alle loro performance in ambito economico, per esempio per quanto riguarda il tasso di disoccupazione, e molto meno in merito al loro credo religioso e alla loro dirittura morale. Le loro politiche hanno un approccio a breve termine, perché nei regimi democratici il loro obiettivo è vincere le elezioni, e quindi le loro tatti-che politiche sono spesso basate sugli esiti dei più recenti focus group più che sui bisogni a lungo termine della società. La mancanza di una seria attenzione all’ambiente come strategia a lunga gittata e la volontà di appoggiare la “fracking” in ambito petrolifero o per il gas, nono-stante il suo effetto negativo sulle riserve idriche negli Stati Uniti, è un caso emblematico. L’idea di “politica come vocazione”, espressa da Weber nella sua famosa conferenza del 1919, è stata superata da “poli-tica come gioco” (Weber, 2009a), e ben troppo spesso i cittadini sono guidati più dal consumismo che dall’auto-disciplina. Forse soltanto un ritorno simultaneo alla religione come pratica collettiva e alla politica come vocazione potrebbe ristabilire l’importanza del “pubblico” nelle nostre vite che sono altrimenti esclusivamente private?

Questo libro affronta le questioni fondamentali dell’autorità nella politica classica: l’Uno, i Molti e gli Altri. La politica riguarda la pe-renne questione: può un’unità essere forgiata dall’inevitabile diversità di una società che è originata con il concetto di Molti, specialmente quando nelle società moderne, con l’aumento della diversità etnica e del multiculturalismo, la maggioranza spesso crede di essere oggetto di sfida da parte delle minoranze (l’Altro)?

Nell’antichità classica si pensava che la diversità nella polis emer-gesse dalle differenze familiari e di genere, ovvero gli interessi parti-colaristici che sembravano mettere in discussione l’unità che sorreg-geva l’emergere della città-stato. Con le conquiste di nuovi territori, un’altra diversità si affermò con la presenza di schiavi e stranieri. In Fear of diversity Arlene Saxonhouse (1992) ha proposto che il vero fondamento della politica ha avuto origine in queste differenze, che hanno minacciato le possibilità dell’Uno. Eraclito parlava di nómoi, o

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delle mura della città come basi per il dominio dell’Uno, ma vedeva anche questo principio di unità come una metafora dell’ordine della natura. Questa idea è la radice del concetto sociologico di anomia o di crisi nell’ordinamento normativo della città moderna. Nella società mondiale moderna, la diversità sociale si è sempre più concentrata sulle differenze religiose che emergono dalla presenza di minoranze, la cui esistenza nelle megalopoli è conseguenza di un modello di mi-grazioni globali motivate dalla ricerca di lavoro.

Jacques Derrida (2000) in una serie di seminari e in alcune conver-sazioni con Anne Dufourmantelle sulla questione dell’ospitalità nella politica greca esplorava la questione dello straniero e della città, e l’e-mergere di un patto con tale straniero. Questo dibattito democratico sull’Altro e sui Molti è stato dall’11 settembre 2001 incentrato quasi esclusivamente sull’aumento della minoranza musulmana in Occiden-te, ma in realtà le divisioni in merito alla diversità religiosa sono più generali che non soltanto legate al conflitto tra Cristianesimo e Islam. Anzi, l’eccessiva attenzione verso l’Islam da parte dei media è diventa-ta parte del problema più che un contributo per trovare una soluzione.

Un conflitto religioso potrebbe esserci quando delle pretese incom-mensurabili riguardo a uno speciale stile di vita (la Verità) entrano in collisione in uno stesso spazio, e quando la cornice secolare dello Sta-to (come ad esempio lo Stato di diritto e la cittadinanza egualitaria) non riescono ad assicurare una lotta ad armi pari tra le minoranze e la maggioranza. Queste tensioni vengono spesso ingigantite quando la religione diventa profondamente incastrata nella identità etnica ed è ul-teriormente galvanizzata dalla forza del nazionalismo. Molti di questi conflitti sono l’eredità del colonialismo europeo, specialmente quelli in Asia meridionale e in Africa, dove i confini dello Stato sono poco rile-vanti per la complessa geografia delle comunità etniche sul territorio.

Nel suo The New Religious Intolerance (2012) Martha Nussbaum prende in esame numerosi esempi di intolleranza religiosa, anche se una parte preponderante di casi riguarda l’intolleranza verso l’Islam. Infatti, la sua argomentazione in merito alle democrazie giunge natu-ralmente all’idea di una lotta ad armi pari, ovvero all’idea che il requi-sito fondamentale della tolleranza sia che tutte le religioni dovrebbero essere trattate allo stesso modo (dallo Stato) nell’arena pubblica, a meno che non vi sia un “interesse di Stato vincolante” che porti ad

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agire diversamente. Nussbaum riporta molti esempi in cui lo Stato sembra sostenere nelle democrazie le maggioranze contro le mino-ranze, fallendo così nel compito di proteggere il bisogno di tolleranza che le società multiculturali e diversificate manifestano. Un esempio riguarda il permettere alle minoranze religiose di costruire i loro pro-pri luoghi di culto. In Svizzera vi è stato un referendum popolare, il cui risultato ha portato a proibire la costruzione di minareti, nonostante soltanto quattro moschee su centocinquanta ne avessero uno.

A Chicago, la commissione urbanistica della Contea DuPage ha rigettato un progetto per la costruzione di una moschea a Willowbrook nonostante quella stessa commissione avesse approvato la costruzione di un centro di meditazione buddhista, una missione Chinmaya e una Chiesa ortodossa. Tuttavia, il caso principale di discriminazione at-traverso i piani regolatori urbanistici è quello di Park 51 a New York, proprio vicinissimo a Ground Zero (Nussbaum, 2012: 188-239), per cui il progetto dei musulmani di costruire un centro culturale inter-re-ligioso, in cui ci sarebbe stato uno spazio per la preghiera musulmana, ha sollevato un dibattito a livello nazionale. La questione è comples-sa, perché persino coloro che sostenevano il sito come questione di principio sulla base della tolleranza pensarono che la scelta di quel sito specifico fosse priva di tatto, e probabilmente sconsiderata. Però Nussbaum sottolinea che quella stessa zona urbana ospitava club con spogliarello, un centro scommesse, negozi di liquori, ristoranti e altro. Dato che Ground Zero è diventato uno spazio sacro, perché non op-porsi anche alla presenza di simili ritrovi invece di concentrarsi solo su Park 51? Nussbaum propone di rispondere a tali conflitti non sol-tanto con leggi ed attenta vigilanza in ambito pubblico, ma con l’im-maginazione, con la comprensione e mostrando empatia. Propongo di chiamare questa risposta immaginativa “virtù cosmopolita”, cosa che spiegherò nell’ultimo capitolo, suggerendo che nelle società comples-se è richiesto un certo grado di ironia personale per poter comprendere i nostri stessi pregiudizi alla luce di altre culture. Il cosmopolitismo nelle società moderne è una delle risposte possibili all’esplosione dei Molti e alle sfide dell’Altro.

Con la globalizzazione, queste tensioni storiche vengono ulterior-mente rinfocolate dai conflitti che derivano dalla scarsità di risorse, specialmente quelle materiali come il petrolio e l’acqua.

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Il conflitto sociale viene spesso ingigantito nelle circostanze in cui la maggioranza si sente minacciata da una minoranza; molta parte dell’Islamofobia europea ha assunto questa caratteristica. Sia in Nor-vegia sia in Gran Bretagna, i musulmani rappresentano una minoran-za, ma in entrambe le società i movimenti di destra – la Lega di Difesa Norvegese (Norwegian Defence League) e la Lega di Difesa Inglese (English Defence League) – hanno ottenuto un certo seguito, in gene-re nell’ambito della classe urbana dei lavoratori, per poter suggerire che ci si trovi in presenza di una minaccia culturale che deriva dal presunto crescente affermarsi della Shari’a. Martha Nussbaum riporta l’attenzione sulle differenze che vi sono tra le risposte alle minoranze in Europa e negli Stati Uniti d’America. Le società come quella degli Stati Uniti, del Canada e dell’Australia sono per loro stessa origine società di migranti e diversità, ma nelle società europee l’appartenen-za come membri viene definita più secondo la condivisione di una cultura etnico-religiosa non secondo valori politici. Negli Stati Uniti vi è stata relativamente poca ostilità nei confronti del velo delle donne musulmane, mentre in certe parti della Germania, dell’Olanda, del-la Spagna e del Belgio ci sono norme giuridiche che impediscono ai dipendenti pubblici di indossare il velo. Tuttavia, nel 2011-2012, du-rante la selezione dei candidati presidenziali repubblicani, negli Stati Uniti si è manifestata una ostilità sempre più evidente nei confron-ti della Shari’a. Questi sviluppi suscitano ovvie domande sul futuro del multiculturalismo e sul ruolo della religione civile nel fornire una cornice culturale, all’interno della quale bisogna che la diversità reli-giosa non corroda il tessuto sociale. Alcune di tali questioni verranno discusse nei capitoli 11 e 13.

In questo volume, sostengo che nella discussione sulla politica dobbiamo anche tenere in considerazione le questioni fondamentali della religione, che implicano la continua riproduzione del sociale attraverso una “catena della memoria” (Hervieu-Léger, 2000). Nella sociologia classica Émile Durkheim vedeva il ruolo della religione come un modo di forgiare le basi della solidarietà sociale nelle società umane. Anzi, è ancora più decisivo il modo in cui, nel suo Le forme elementari della vita religiosa (The Elementary Forms of Religious Life, 2001), egli descrive il sociale come una emanazione del sacro. Durkheim prese come modello di partenza per spiegare il contrasto tra

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il sacro e il profano il mondo simbolico degli aborigeni dell’Australia centro-settentrionale, ma la società moderna non gode più dell’ intensa solidarietà – o “solidarietà meccanica”, nella terminologia durkhei-miana – di tali forme dell’Uno.

Durkheim non ha mai trovato una risposta veramente soddisfacen-te alla domanda: dove sono le fonti della solidarietà sociale nelle mo-derne società complesse? Egli era influenzato dall’idea di “religione civile” che Jean-Jacques Rousseau aveva formulato nel 1762 a con-clusione del suo Il Contratto Sociale (1973). Per Rousseau il cristiane-simo non poteva soddisfare i bisogni di una società moderna, e quindi prospettava una forma secolarizzata di credo e pratica religiosi che potessero dare ai cittadini una cornice comune.

Nella sociologia contemporanea, questa idea è stata sviluppata con grande impatto da Robert Bellah in un gran numero di articoli sulla religione civile in America (Bellah and Tipton, 2006). La questione della religione civile viene esplorata nel capitolo 7, nel contesto di un dibattito sulle fonti della legittimità politica nelle società democratiche.

Tuttavia, in una società moderna complessa, specialmente dove c’è stata una frammentazione del mondo sociale, l’idea che la religione civile possa bilanciare il dominio di Uno e la diversità democratica di Molti, allo stesso tempo includendo gli Altri, sembra poco prometten-te come soluzione per i problemi della tarda modernità. Nel mondo contemporaneo la prospettiva di uno “scontro di civiltà” (Huntington, 1997) è una minaccia ovvia alla stabilità civile, e l’ascesa del conflit-to religioso sembra probabile quanto il fiorire della religione civile. Ci sono molte fonti di diversità nelle società occidentali: l’aumento di minoranze numericamente consistenti, l’esperimento politico del multiculturalismo, lo sviluppo del pluralismo giuridico, la frammenta-zione dei curricula scolastici nazionali dovuta allo sviluppo di scuole religiose separate, e la privatizzazione di molte utenze pubbliche.

In gran parte dell’Europa abbiamo indebolito o distrutto le istitu-zioni pubbliche che un tempo contribuivano a definire l’ambito pub-blico, o “Commonwealth”, come il servizio di leva obbligatorio, un sistema fiscale comune e unificato, il diritto, il calendario cristiano, il welfare state e le telecomunicazioni pubbliche.

C’è una credenza diffusa tra i sociologi che le radici comuni della società siano state minate dall’urbanizzazione, dalla secolarizzazione

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e dal declino della famiglia (Nisbet, 1990). L’enfasi sul mercato al fine di aumentare l’efficienza, di allargare la scelta dei consumatori e di controllare i prezzi (supponendo che questi obiettivi possano essere realizzati con il mercato libero) non serve a creare la solidarietà socia-le. Ci sono naturalmente diverse politiche per contrastare le tenden-ze verso la frammentazione sociale, incluso il sostegno ai “diritti dei gruppi”, forme di cittadinanza più flessibili, condizioni più generose per la naturalizzazione dei migranti, una legislazione contro la discri-minazione razziale, e, in senso più ampio, la promozione di un sistema di credo normativo, come il cosmopolitismo, che celebri la diversità (Delanty, 2009).

In senso lato, si sostiene che i diritti umani offrano certe soluzioni alle tensioni comuni che sono dal punto di vista istituzionale superiori ai diritti sociali della cittadinanza, che hanno inevitabilmente un ca-rattere di esclusione. Il “diritto di avere dei diritti” viene visto da molti filosofi come la base per il riconoscimento dell’appartenenza a una comunità condivisa (Benhabib, 2004).

Nel capitolo 3 analizzo la storia dei diritti nel contesto delle guerre e dei conflitti religiosi.

La letteratura recente sulla storia dei diritti umani ha portato l’at-tenzione sull’importanza del cristianesimo nel definire il contenuto dei valori e sulla normativa relativa ai diritti umani. In particolare, sosten-go che una sociologia dei diritti umani deve considerare tali diritti come manifestazioni di quello che Norbert Elias (2000) chiamava “il processo civilizzante”, a compensazione delle conseguenze negative dello “scontro di civiltà” teorizzato da Huntington. Vi sono vari esem-pi che suggeriscono che la violenza (rappresentata come omicidio, stupro, linciaggio, violenza domestica e altro) è diminuita nel tardo XX secolo a causa del processo di civilizzazione (Pinker, 2011).

Ciononostante, l’equilibrio tra la solidarietà sociale, la differenzia-zione sociale e la diversità culturale è instabile, se non precario.

La questione più profonda, dietro sia la difesa sia la critica dei diritti umani, il cosmopolitismo e il multiculturalismo come risposte all’Altro, è la questione della secolarizzazione. Se prendiamo la sepa-razione tra Stato e Chiesa come definizione minima di secolarizzazio-ne, possiamo chiederci se questa separazione costituzionale, che trova in qualche modo le sue origini nel Trattato di Westfalia del 1648, sia

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una precondizione per l’armonia sociale. La secolarità di ampie vedu-te è in grado di assicurare la pace fra tradizioni concorrenti nella sfera pubblica? Sono molti coloro che sostengono che, mentre il secolari-smo liberale ha ottenuto una pace religiosa tra protestanti e cattolici, questa versione della secolarizzazione non è più rilevante per una so-cietà moderna nella quale ci potrebbe essere uno schieramento di tra-dizioni religiose che non possono essere adattate a queste condizioni liberali (Spinner-Halevy, 2005). Una risposta senza pregiudizi a questi dilemmi è stata elaborata da John Rawls il quale, specialmente nel suo Political Liberalism (1993), ha identificato una serie di condizioni che devono essere rispettate da ogni comunità che aspiri ad essere una società decentemente liberale, con un sistema di delibere significative e la consultazione tra cittadini. Questa cornice è stata ulteriormente elaborata da Jürgen Habermas (2006) nell’idea di una società post-secolare come cornice in cui situare la religione nella sfera pubblica. In tale società, i secolarismi devono prendere il credo religioso in seria considerazione, e i cittadini religiosi devono dare motivazioni pub-bliche per la loro fede. Questa forma di dialogo può contribuire alle culture democratiche attraverso il riconoscimento reciproco.

Il liberalismo può essere considerato come un ideale o perfino come una caratterizzazione utopistica della relazione tra la religione e la politica. In questo studio dobbiamo tenere a mente che tale modello liberale ha dato adito a due forme di governo storiche significative: il Cesarismo e la teocrazia. Quando lo Stato porta la religione all’interno della sua stessa sfera, allora si ha una forma di governo composto o “cesarismo”. Quando la religione organizzata porta lo Stato nella sua orbita, abbiamo il potere teocratico. In tutto questo studio, in partico-lare nella parte II, prendo in considerazione diversi studi di casi per poter afferrare la complessità delle relazioni tra il potere politico e le istituzioni religiose, inclusi le monarchie buddhiste della Tailandia, il confucianesimo e il neo-confucianesino in Cina, lo scintoismo giap-ponese e la venerazione dell’imperatore, e l’autoritarismo dallo Stato russo all’autoritarismo morbido di Singapore. Per fare un esempio, il comunismo cinese ha tentato di distruggere le tradizioni religiose dell’antica Cina. In particolare, il Maoismo ha cercato di estirpare le eredità del confucianesimo e del feudalesimo, ma paradossalmen-te Mao stesso divenne una figura divina, e la Rivoluzione Culturale

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presentava tutte le caratteristiche dell’entusiasmo religioso. Per quan-to riguarda la Cina moderna, nel capitolo 9 esploro il revival delle reli-gioni che è seguito alle riforme di Deng Xiaoping e mi concentro sulla regolamentazione dei “culti” come ad esempio quello di Falun Gong. In Occidente, il liberalismo tenta di risolvere queste questioni sepa-rando la religione dalla politica, ma cercherò di dimostrare in questo volume che lo Stato adotta una “gestione della religione” come stra-tegia per evitare il conflitto religioso nella sfera pubblica. La gestione da parte dello Stato delle attività religiose, che è stata storicamente descritta nella tradizione cristiana come erastianesimo, viene discussa nel capitolo finale come risposta ai problemi legati al conflitto civile.

In Religion and Modern Society (Turner, 2011c) ho esplorato molte questioni contemporanee intorno alla cittadinanza, la secolarizzazio-ne, la religione.

Dati i problemi sollevati dalle identità religiose e culturali nelle so-cietà con considerevoli minoranze, lo Stato ha esercitato una gestione della religione per assicurare la pace sociale. Questa strategia implica, come minimo, delle risposte legislative come il precludere i discor-si di incitamento all’odio in pubblico o la censura di pubblicazioni controverse; ma questi interventi possono andare molto più a fondo nella vita religiosa regolando la pratica religiosa – in modo plateale bandendo il burqa musulmano negli spazi pubblici. Nel capitolo fina-le, sostengo che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna l’intervento del-lo Stato nell’abbigliamento religioso, nei tribunali e nella leadership delle comunità musulmane ha l’effetto di creare un “islam ufficiale” (Rascoff, 2012).

Nel capitolo 1 affronto la questione della “paura della diversità” analizzando la tragedia accaduta in Norvegia nel luglio 2011 quan-do Anders Behring Breivik uccise settantasette persone nell’isola di Utoya. Nel suo Manifesto, egli immaginava questo attacco come parte di una crociata contro i musulmani, e come avvertimento contro l’im-minente islamizzazione della civiltà europea.

Questo tragico evento mi ha dato il pretesto per una considerazio-ne più generale sul problema politico nell’Europa moderna, in cui una maggioranza si sente minacciata da una minoranza, e dove come risul-tato c’è stato un diffuso aumento nella sicurezza di Stato e spesso una presa di distanza da politiche di governo precedenti a sostegno della

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diversità multiculturale. Nel capitolo 2 ritorno sulle radici intellettuali di molti di questi dibattiti, per esempio la teoria del carisma di Max Weber.

La cornice sociologica viene sviluppata guardando ad aspetti della religione popolare e allo Stato nella battaglia tra fascismo e socialismo in Italia nella prima metà del Ventesimo secolo. Il capitolo guarda a due esempi – Mussolini e Padre Pio – per sviluppare la teoria del carisma attraverso un’indagine del corpo e delle manifestazioni del sacro. Lo Stato e la gerarchia religiosa ufficiale tentano entrambi di controllare le manifestazioni del carisma, perché esso costituisce ine-vitabilmente una sfida alle convenzioni stabilite.

Anche il corpo ha un suo ruolo importante nei movimenti religiosi popolari, in cui l’incarnazione del carisma religioso è una fonte spe-ciale di potere. Questa discussione solleva un problema generale che riguarda la sepoltura delle figure carismatiche.

Nel capitolo 3 rivolgo l’attenzione alla storia della cittadinanza prendendo in esame tre momenti formativi nella storia dell’afferma-zione dei diritti: La città di Dio di S. Agostino; la firma del Trattato di Westfalia; la proclamazione della Dichiarazione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite.

Il contesto in cui sono emersi i diritti è stato spesso violento – il sacco di Roma, le guerre di religione, la Seconda Guerra Mondiale – e ognuno di questi testi affronta questioni relative all’Altro. Nel caso di Agostino, si trattava degli ebrei; nel caso del Trattato di Westfalia, si trattava del conflitto tra cattolici e protestanti; nel Ventesimo secolo, dell’industrializzazione della guerra.

Nella seconda parte di questo volume, continuo con il tema della diversità e dell’unità nel mondo contemporaneo, rivolgendo l’atten-zione a un gruppo di studi di caso comparati, che mostrano come e perché lo Stato intervenga nella vita religiosa nelle società occidentali.

Questi capitoli si occupano dell’interazione tra la religione e la po-litica nella creazione di parentele, adottando come illustrazione i ritua-li che hanno circondato le investiture. I rituali legati all’incoronazione nel Regno Unito forniscono un esempio utile del ruolo delle liturgie pubbliche e sollevano nuove questioni sul ruolo della religione nella vita pubblica e nella società secolare. La persistenza di monarchie co-stituzionali presenta aspetti preoccupanti per quanto riguarda la sepa-razione di Chiesa e Stato. Alcune di queste questioni possono essere

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utilmente esplorate in riferimento alla costituzione secolare degli Stati Uniti. Il capitolo 4 riconosce il fatto che la pratica liturgica è diminuita nelle democrazie occidentali, e la preghiera è diventata sempre più un fatto privato e personale, e non ha un ruolo significativo nelle società secolari come attività pubblica.

Nel capitolo 5 esamino il paradosso moderno del matrimonio. Nel mondo moderno il fidanzamento e il matrimonio sono tradizionalmen-te interpretati come il risultato di romantiche scelte individuali private, ma il matrimonio come istituzione è anche profondamente pubblico. Lo Stato ha avuto un interesse nel matrimonio per la ovvia ragione che esso è un’istituzione che legittima la riproduzione e il passaggio stabile delle proprietà. Tuttavia, molte società hanno ora raggiunto una “fertilità subottimale”. Con i tassi di fertilità bassi e in calo, molti Stati sono attentamente e direttamente coinvolti nel monitoraggio delle vite sessuali dei cittadini, allo scopo di stimolare una maggiore fertilità. Con la secolarizzazione, il matrimonio è in calo e sta cambiando pro-fondamente – per esempio per includere matrimoni tra persone dello stesso sesso. In assenza di adozioni, il matrimonio tra persone dello stesso sesso per definizione stessa non contribuirà al tasso di fertilità nazionale, e ci si potrebbe ragionevolmente chiedere: perché lo Stato ha a che fare con simili accordi? Una risposta superficiale è che qualsi-asi ridefinizione del matrimonio suscita considerevoli conflitti sociali tra i cristiani evangelici che si oppongono fortemente a questi sviluppi e le lobby liberali, che vedono i diritti dei gay come coerenti con le libertà individuali.

Il matrimonio tra persone dello stesso sesso viene difeso soprattut-to in base al fatto che il genere non dovrebbe essere un elemento preso in considerazione in un contratto di matrimonio tra due adulti consen-zienti. Perché non andare oltre nella ridefinizione del matrimonio? La legislazione recente nello stato di New York ha riconosciuto il matri-monio gay. Una società liberale potrebbe andare oltre e riconoscere la poligamia? In ogni caso la società americana ha una storia di poliga-mia in vari stadi dell’evoluzione del mormonismo e nelle derivazioni contemporanee come la Chiesa Fondamentalista di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno.

La critica femminista afferma anche che la poligamia è difficile da regolamentare, perché gli uomini contrarranno spesso matrimoni

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segreti con altre donne o avranno delle amanti, creando una forma di poligamia de facto o informale. Questi sviluppi sollevano la questione della ridefinizione del matrimonio da parte dello Stato. Lo Stato e le Chiese, ad esempio, possono cooperare a sostegno del “matrimonio indissolubile”? E ancora, la definizione di matrimonio dovrebbe esse-re affidata alle Chiese?

Il capitolo 6 esamina il problema della conversione come forza perturbante sia nelle società tradizionali sia in quelle moderne. Poi-ché l’identità religiosa è potentemente interconnessa con l’identità politica, la conversione religiosa ha conseguenze inevitabili per le questioni secolari. Per esempio, gli ebrei costituivano una minoran-za problematica nella storia del cristianesimo occidentale, e furono fatti molti tentativi per convertirli a forza con delle leggi. Ci sono molti altri esempi di conflitti attorno alla conversione, ed io prendo come esempio moderno quello della conversione al cristianesimo in Indonesia. Mentre la conversione solleva questioni sulle identità pub-bliche, c’è anche un dibattito sull’autenticità delle conversioni che emerge come risultato del vincolo giuridico o della minaccia della violenza. Questo capitolo esamina anche molte questioni teoriche che emergono nello studio della conversione. Attraverso una discussione sull’eredità della psicologia pragmatica di William James, prendo in considerazione il dibattito moderno sull’intenzionalità e sulla dimen-sione emotiva della conversione. Nell’antropologia della religione la nozione di conversione è stata ripetutamente messa alla prova dagli antropologi, che sostengono che questi aspetti (intenzionalità, indivi-dualismo ed emozionalità) non sono aspetti generali o universali del cambiamento religioso.

La storia delle missioni cristiane in Asia e in Australia solleva pro-blemi interessanti relativi alla “tradizione” e alla “religione” come ca-tegorie generali. Il capitolo si conclude guardando al problema del libe-ro arbitrio (o intenzionalità) nella dottrina cristiana, sottolineando simi-litudini ironiche tra la teoria di Agostino sull’abitudine e l’intenzione e il concetto di habitus, incarnazione e attitudine di Pierre Bourdieu.

Il capitolo 7 esamina le questioni relative alla legittimità nel-le società moderne in cui l’autorità della legge naturale e la Chiesa sono state sostituite da una dipendenza da sorgenti di autorità più se-colari. La teoria di Max Weber sull’autorità o sul dominio legittimo

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(carisma, tradizione e razionalità legale) viene sviluppata in un model-lo che sostiene che il potere legittimo moderno può attingere a tre fon-ti: legittimità, legalità e prestazione. Nella modernità queste tre sono forme secolari tipiche della legittimità, ma devono confrontarsi con serie limitazioni. Nelle democrazie moderne i cittadini sono sospettosi di fronte alle pretese di legittimità e legalità e chiedono invece se i loro governi non possano fornire ricchezza e sicurezza, a prescindere dal fatto che siano legittimi o legali o meno. La capacità dei governi di assicurare una legittimità che corrisponda ad azioni viene seriamente ostacolata da una gamma di condizioni (economiche, demografiche e politiche) che in anni recenti hanno cospirato per produrre redditi bassi, scarse opportunità di impiego, pensioni inadeguate e misure di welfare limitate. Il capitolo si conclude chiedendosi se la religione civile negli Stati Uniti fornisca una base per la legittimità.

La parte III è incentrata sullo studio comparato di politica e re-ligione per prendere in considerazione il tema di Uno-Pochi-Molti con esempi presi al di fuori dell’Occidente. Si potrebbe sostenere che molte di queste questioni relative alla Chiesa e allo Stato, alla con-versione e alla cittadinanza, all’ortodossia e all’eterodossia settaria abbiano senso soltanto all’interno del contesto delle tradizioni ebrai-co-cristiane-islamiche. Queste religioni “abramitiche” hanno un Dio alto, la nozione dell’idolatria, il concetto di apostasia e altro, che sono assenti nella maggior parte delle “religioni asiatiche”. C’è una que-stione principale in questa discussione sulla specificità culturale dei concetti occidentali, per cui ci si chiede se ci sia alcuna “religione” in Oriente. Sia Durkheim sia Weber erano interessati al fatto che il bud-dismo puro o originario rifiuti l’idea che gli dei abbiano un significato ultimo o un’entità che agisce. Queste divinità sono alla fine semplici illusioni della mente umana. Si può dire allora che il buddismo fosse in origine una filosofia atea più che una religione nel senso occidenta-le del termine? La relazione tra induismo e buddismo è stata sempre aperta e permeabile. Mentre si pensa che il buddismo abbia radicaliz-zato l’etica della religione dei bramini, va detto anche che c’è stata continuità tra le due religioni. L’induismo è ampiamente una inven-zione dell’intervento occidentale in Asia meridionale e dunque ha più senso parlare delle tradizioni religiose dei bramini come fondamento della spiritualità in Asia Meridionale. Sostengo, per contrastare questa

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nozione generale di specificità culturale, che specialmente con la glo-balizzazione si possono trovare elementi paralleli che concernono la politica e la religione in Asia. Nel capitolo 8 prendo in considerazio-ne la nozione weberiana di “amore a-cosmico” o “amore che nega il mondo” presenti sia nella tradizione braminica sia in quella buddista. Nella storia dell’Asia meridionale e nel dialogo tra Krishna e Arjuna, troviamo uno dei temi costanti della civiltà più in generale, ovvero come controllare e imbrigliare la violenza. Guardando al buddismo nel capitolo 8, esamino la storia della tradizione monastica (lo shanga) e la monarchia. C’è una solida tradizione buddista secondo cui la virtù del monarca viene esplicitata dai suoi tentativi di purificare la cultura monastica. Tuttavia, l’esercizio della regalità richiede mezzi violenti per difendere la società, il che rende possibili le vite degli individui religiosi che abbracciano l’etica della non violenza. Per Weber questo è un paradosso permanente della vita sociale.

Il problema della definizione della religione e del comprendere la sua relazione con la politica diventa anche più problematico nel caso del confucianesimo e del taoismo, che esamino nel capitolo 9. Si può considerare il confucianesimo come un’ideologia di Stato che procla-ma l’importanza del dominio della virtù nel creare un ordine sociale. L’unità dello Stato contro i Molti e gli Altri doveva essere assicurata attraverso il ruolo coercitivo della moralità. Mentre il confucianesimo può essere visto in questa luce come una ideologia politica più che come una dottrina religiosa di salvezza, la popolarità del credo e della pratica taoista in Cina può essere riconosciuta come una religione po-polare delle masse.

Nel capitolo 10 analizzo la storia della religione in Giappone e le relazioni tra scintoismo e un senso nazionale di unicità culturale. Il Giappone ha resistito alla diversità culturale o alla molteplicità (per usare la terminologia di questo studio). Di tutte le società asiatiche, lo Stato giapponese ha giocato un ruolo precipuo nel creare un’uni-tà culturale, specialmente attraverso lo scintoismo di Stato. Concludo sostenendo che il Giappone è stato caratterizzato dall’eccezionalismo nell’era della globalizzazione, ovvero che esso continua a resistere all’Altro con rigide norme sull’immigrazione.

Nel capitolo 11 la dottoressa Berna Zengin Arslan ed io esaminia-mo un esempio critico di secolarizzazione moderna, ovvero la storia

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della Turchia dal declino dell’Impero ottomano alla crescente influen-za dell’Islam sunnita con l’elezione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo.

Mentre molti osservatori considerano questo sviluppo come il ri-pristino della religione e lo smantellamento del secolarismo, noi so-steniamo che la Turchia offre un ulteriore esempio della gestione della religione. Mettiamo in dubbio il fatto che la secolarizzazione sia stata il trend dominante dai tempi di Mustafa Kemal Atatürk. Nel conte-stare questa affermazione, ci soffermiamo sulla storia e sul ruolo del Diyanet (Il Direttorato per gli Affari Religiosi) che, secondo noi, è un’altra immagine della gestione della religione da parte dello Stato.

Da questo scaturisce la nostra argomentazione contro il modo tradi-zionale di interpretare la Turchia repubblicana come società profonda-mente e uniformemente secolare. Alcuni studiosi critici restano scettici di fronte all’uso del termine laicità, che era preferito dall’élite kemali-sta, suggerendo che fosse l’equivalente del secolarismo francese.

Un’analisi dei gruppi e delle istituzioni religiosi turchi nella socie-tà civile suggerisce che la religione non funziona come sfera autono-ma al di fuori del controllo dello Stato. Per esempio, lo Stato non è stato neutrale nella sua relazione con le minoranze religiose come gli Alevi. Nella parte finale, rifletto su alcune delle lezioni principali di questo volume, dalla prospettiva delle contraddizioni tra il religioso e il politico. Negli studi religiosi tradizionali e nella prima antropologia, era comune fare una distinzione fra tradizioni alte e basse.

Nel capitolo 12 esploro la possibilità che nelle società moderne tutte le religioni siano popolari. In una società moderna, in genere lo Stato gestisce la religione, ma non può controllarla completamente. L’ascesa di Internet e la scomparsa delle chiese istituzionali hanno creato un mercato religioso nel quale la religione popolare può fiori-re. Il risultato è, per definizione, un fiorire di forme di religione non-ortodosse, ibride e locali. Questi gruppi in genere vengono definiti come post-istituzionali, post-secolari e iperreligiosi (Possamai, 2012). Lo sviluppo delle religioni popolari trova l’esempio più significativo negli Stati Uniti, dove le mega-chiese e la Teologia della Prosperità veicolano il coinvolgimento popolare, mescolando religione, valori del capitalismo aziendale e la politica popolare. La tesi del capitolo è che c’è un’affinità elettiva tra le forme popolari di religiosità e la

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democrazia popolare, nella quale i leader religiosi e secolari usano le stesse tecnologie e valori simili per raggiungere un ampio pubbli-co. In entrambi i casi si potrebbe parlare dell’emergenza di celebrità religioso-politiche, che controllano alti stipendi in connessione con i mercati globali. Ma la religione popolare non è l’epitome della libertà religiosa?

Nel capitolo conclusivo esamino alcune delle questioni che emer-gono attorno al concetto di eguaglianza e individualismo. Il pensiero di John Stuart Mill è rilevante sia per l’idea di una religione popolare dominante sia per la centralità della libertà di religione per una de-mocrazia moderna. Mill, che aveva assorbito le lezioni contenute in Democrazia in America (2004) di Alexis de Tocqueville, credeva che un ampio elettorato politico popolare non sarebbe stato accettabile in Gran Bretagna finché le masse non avessero ricevuto un’istruzione per permettere che le loro scelte politiche fossero basate su una conoscenza razionale. Una democrazia basata su un elettorato ignorante e incivile produrrebbe una conformità oppressiva, valori e credenze soffocanti. Certamente nel Ventesimo secolo i mass media sono stati responsabili della banalizzazione della politica e della creazione di un culto delle celebrità. In Gran Bretagna e in America, i canali televisivi maggiori giocano un ruolo importante a sostegno dei sondaggi di popolarità che costituiscono la base per le elezioni di primi ministri e presidenti. I politici devono competere in un mercato dinamico per ottenere voti, e dunque devono coltivare i media. Questi sviluppi prendono piede in un contesto in cui il livello di istruzione del pubblico generale è basso e, nel caso americano, in declino. Può il liberalismo politico di John Stuart Mill, per prendere l’esempio liberale più importante del Diciannovesimo secolo, essere riadattato dal punto di vista stilistico ai bisogni del Ventunesimo secolo? Il dibattito sulla libertà religiosa come privilegio di cui si deve godere in privato si rivela sempre più problematico nelle società della tecnologia informatica moderna.

Lo scandalo di pirateria informatica attorno a “News of the World” nel 2011-2012 dimostra proprio fino a che punto l’ambito privato sia ormai parte del mondo pubblico.

Questi capitoli presi nel loro insieme sono costruiti per esplorare due questioni centrali della politica. La prima riguarda il problema dell’unità sociale nel dibattito classico sull’Uno, i Pochi e i Molti. Il

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secondo riguarda il problema dell’Altro nella lotta per ottenere un or-dine sociale giusto e liberale allo stesso tempo. Fino a che punto la po-litica può far rispettare l’unità sociale attraverso la regolamentazione della religione? Fino a che punto l’unità della società civile si poggia in definitiva su fondamenta religiose? Infine, quanto possono le so-cietà moderne concepire delle strategie per rispondere all’Altro nello spirito dell’ospitalità senza distruggere le fondamenta di una società ordinata? Rispondo dicendo che tutto ciò richiede che vi sia un ritorno all’arte di governare e all’arte di curare le anime, il che a sua volta richiede che si ricostruiscano le fondamenta della cittadinanza per far fronte a un mondo diversificato, e a una restaurazione dell’istruzione pubblica per sviluppare virtù utili in una società post-industriale in cui il lavoro è stato trasformato dalla tecnologia. Seppure io riconosca le rigide limitazioni delle idee sulla secolarizzazione, sulla privacy e sulla libertà che hanno trovato la loro origine intellettuale nel di-ciassettesimo secolo, tuttavia mi adopero modestamente a difendere il liberalismo come condizione necessaria per l’armonia sociale.

Questo libro è un’analisi sociologica delle complesse relazioni tra la religione e la politica, che si manifestano nel tempo e in diverse civiltà. Cerco di rendere questo dibattito di vecchia data rilevante per le società moderne, prendendo in considerazione un gran numero di questioni difficili come il matrimonio, la conversione e il pluralismo legale. Questi studi di caso insieme agli studi comparati di diverse tradizioni religiose vengono affrontati secondo la prospettiva della so-ciologia della religione di Max Weber, cercando anche di trovare un modo per difendere il liberalismo. Nella filosofia politica moderna, il liberalismo è spesso messo sotto attacco, e le sue credenziali come cornice per le società complesse vengono spesso messe in discussio-ne. In questo studio sostengo che senza gli ingredienti base del libe-ralismo – secolarizzazione (nel senso ristretto della neutralità dello Stato), una lotta ad armi pari e lo Stato di diritto – la religione non può fiorire, e noi abbiamo bisogno di una tutela liberale minima per evitare un conflitto religioso e secolare.

Sebbene questo sia uno studio sociologico della religione e della politica, c’è un’altra dimensione di fondo che concerne la relazione tra la ragione e la rivelazione come fonti dell’autorità politica. Può la legittimità politica essere basata soltanto sulle condizioni secolari di

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convalida? E ancora, può il regime politico essere fondato su un atto di rivelazione? Questo è il cosiddetto “problema teologico-politico” che ha dominato i lavori del filosofo politico Leo Strauss nei suoi stu-di di tutta una vita sulle tensioni tra la ragione e la rivelazione, ad esempio nelle sue ricerche su Spinoza (Strauss, 1965). I regimi politici vengono creati da profeti o da re, o da entrambi? Gran parte del lavo-ro di Strauss era indirizzato verso una profonda analisi contestuale della teoria politica classica e della teologia, ma le sue idee hanno una rilevanza profonda nel mondo contemporaneo (Tanguay, 2007). Per esempio, la politica estera di George W. Bush sembra essere sta-ta influenzata da nozioni religiose relative alla guerra contro il male di un paese che è diventato il bastione principale del cristianesimo protestante. Tra le menti pie musulmane, il Corano, proprio perché ispirato dalla rivelazione, ha un’autorità che non può essere messa in discussione. Esso stesso divide il mondo degli uomini in due case opposte e separate.

Nell’avvicinarmi alla fine della stesura di questo libro, sono stato fortunato perché ho letto il magistrale testo di Robert Bellah Religion in Human Evolution (2011), nel quale, riflettendo sulle contraddizioni nella cultura religiosa indiana tra la vita di rinuncia (il monaco) e la vita violenta (il guerriero) descritti nel Mahabharata, egli osservava che la grande epica «apre davanti a noi l’abisso tra la pratica etica e la violenza inevitabile, tra gli ideali religiosi e le realtà politiche, rivelan-do tensioni non soltanto nella società Indiana, ma in quella umana in generale» (Bellah, 2011: 559). In questa sociologia comparata, il mio scopo è quello di descrivere la tensione tragica tra religione e politi-ca che emerge costantemente nella storia umana, gettando una lunga ombra sui tentativi di creare società funzionanti che possano dare una risposta concreta alla nostra vulnerabilità.

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