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BREVE CORSO SULLA PREDICAZIONE OMILETICA d. Chino Biscontin – Camposampiero 2010

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BREVE CORSO

SULLA

PREDICAZIONE OMILETICA

d. Chino Biscontin – Camposampiero 2010

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DIFETTI DELLA PREDICAZIONE OMILETICA CORRENTE

La predicazione omiletica ha un ruolo non secondario nella pastorale. È parte integrante di quella

“mensa della Parola” che, assieme alla mensa del Pane, nutre e sostiene la fede dei battezzati. Appar-tiene perciò al “culmine” e alla “fonte” della vita delle chiese. Grazie ad essa è dato anche a noi, oggi, di rivivere l’esperienza dei due di Emmaus: camminare lungo i sentieri della vita accompagnati dalla spiegazione delle Scritture, illuminate dal Signore crocifisso e risorto.

D’altra parte si deve ammettere che la predicazione omiletica ai nostri giorni si trova in difficoltà. È una persuasione diffusa, confermata anche da studi e rilevamenti specifici. Naturalmente non manca-no omileti che svolgono con efficacia il loro ministero e sono perciò apprezzati, ma non è raro sentire lamentele da parte di chi ascolta e incontrare predicatori che parlano del disagio che avvertono nel lo-ro ministero. Tutto ciò appartiene alle conseguenze di quel più vasto fenomeno di rapidissima tra-sformazione della comunicazione che ci vede coinvolti e frastornati, ma vi sono anche cause intrinse-che a questa particolare attività di comunicazione ecclesiale. Su di esse vale la pena di riflettere.

Senza la pretesa di fornire un elenco completo, passiamo in rassegna quelle debolezze dell’odierna predicazione che è possibile osservare con maggiore frequenza.

Un discorso obiettivamente non logico

È un difetto legato spesso ad un’inadeguata preparazione del predicatore e alla scarsità del tempo dedicato a pensare l’omelia. L’omelia è un discorso. Il termine “discorso” contiene un’analogia, che pa-ragona il susseguirsi delle frasi ad una corsa. È chiaro che un discorso dovrebbe disegnare un itinera-rio che trasmetta un senso. A chi ascolta dovrebbe risultare chiaro qual è il punto di partenza e quale l’arrivo e, tenendo conto di entrambi, dovrebbe apparire logico il tracciato seguito. Fuori di metafora: dovrebbe essere chiaro quale aspetto della realtà aveva di mira il predicatore e perché se n’era occu-pato, e quali modifiche della realtà egli voleva ottenere mediante l’omelia, verso quale finalità indiriz-zava il suo intervento. I vari passaggi del suo parlare, i mezzi retorici usati, il modo di iniziare e di con-cludere… dovrebbero apparire ragionevoli come particolarmente adatti al raggiungimento dello sco-po.

Non raramente, invece, la traiettoria dell’omelia procede attraverso cesure e scatti non coordinati: un insieme di ghirigori per spiegare i quali il riferimento obiettivo è assai poco utile. Sarebbe più pro-ficua una conoscenza del mondo interiore dell’omileta e delle concatenazioni d’immagini ed idee che egli si porta dentro, come caratteristiche della sua individualità. L’impressione che si ricava, in tali ca-si, è che l’omelia sia abbandonata all’arbitrarietà individuale, come se il predicatore non avesse consa-pevolezza d’alcuna disciplina e criteriologia cui obbedire.

Per la festa dell’Immacolata Concezione della B. V. Maria, un predicatore iniziò la sua

omelia esaltando la purezza verginale di Maria, facendo un ampio elogio di questa virtù. Passò a denunciare con particolare foga l’immoralità dilagante dei costumi, in campo ses-suale, nella nostra società. Proseguì parlando della televisione come di un pericolo molto grave, come istigatrice ad ogni sfrenatezza. Alla fine tornò a proporre Maria come modello di purezza, raccomandando ai genitori di ispirarsi a lei nell’educazione dei figli e soprat-tutto delle figlie.

Parleremo più oltre del difetto del moralismo, dilagante in uno schema siffatto di predica. Qui inte-

ressa rilevare la mancanza di una logica obiettiva cui il predicatore avrebbe dovuto sottomettersi. L’oggetto della festa dell’Immacolata Concezione di Maria non è la sua verginità e la sua castità, ma l’iniziativa preveniente della grazia di Dio, in vista della nascita del Cristo. Una tale direzione è indicata chiaramente dalla scelta delle letture bibliche del Lezionario, dalle orazioni e dal prefazio che si leggo-no nel Messale, ispirati al testo della proclamazione del dogma. Di tutto ciò nell’omelia citata non v’è traccia.

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Lo schema ha, in realtà, una sua logica, ma essa è soggettiva, legata alle caratteristiche interiori in-dividuali del predicatore. Dell’espressione “Immacolata Concezione”, egli ha lasciato cadere “Conce-zione” e si è concentrato su “Immacolata”, parola che usa come metafora la “macchia”. Quest’imma-gine, che tradizionalmente è usata per esprimere la bruttezza di uno stato di peccato, lo ha visto parti-colarmente sensibile. Non solo, ma egli l’ha associata immediatamente ad una determinata categoria di peccaminosità, quella che riguarda i disordini in campo sessuale. A sua volta l’immoralità sessuale gli ha evocato ricordi d’immagini e scene viste alla televisione che, evidentemente, lo hanno impres-sionato. La sfiducia di ottenere un consenso da parte dei giovani lo ha portato, infine, a fare appello all’autorità dei genitori nel processo educativo.

Si potrebbero fare molte osservazioni, ma ci limitiamo a segnalare l’inconveniente più serio di una predicazione abbandonata alla logica soggettiva. Chi ascolta avrà l’impressione di ascoltare un’opinione individuale e non d’essere guidato a misurarsi con la Parola dell’unico Maestro e Signore. L’assemblea sarà portata ad incentrare l’attenzione sul predicatore, sulle sue propensioni e sui suoi umori, piuttosto che essere guidata ad ascoltare la Parola. Se la cosa è frequente, o addirittura abitua-le, si verificheranno una diseducazione ed una distorsione permanenti nell’assemblea, che non verrà aiutata e sostenuta a dedicare attenzione alla Parola e a Colui che parla.

L’omelia come intrattenimento

Si sa che durante la celebrazione eucaristica festiva ci deve essere la predica, e che essa deve dura-re una decina di minuti, minuto più minuto meno. Si tratta, dunque, di occupare quello spazio di tem-po, riempiendolo di argomenti di carattere religioso. Lo si può fare anche in maniera che la cosa risulti interessante e anche piacevole. Ma ci si deve porre il problema dell’utilità dell’omelia, altrimenti il ri-schio di cadere in una forma di intrattenimento religioso che lascia il tempo che trova è molto alto.

Si immagini un viaggiatore in treno. Giunge allo scompartimento assegnato e vi si ac-

comoda. Nello scompartimento c’è già un altro viaggiatore. Tra i due nasce una conversa-zione, ovviamente non preparata e non finalizzata, se non al trascorrere il tempo del viag-gio senza annoiarsi. Si parla di temi piacevoli, vengono scambiati pareri o racconti grade-voli. Un buon intrattenimento, niente di meno e niente di più!

Lo scopo dell’omelia va stabilito con chiarezza in fase di preparazione. Solo uno scopo può fornire i

criteri in base ai quali operare le scelte necessarie alla composizione dell’omelia. Altrimenti tali scelte obbediranno ad altre istanze (ciò che è più familiare al predicatore, ciò che persuade lui, ad esempio) e il risultato sarà un’omelia con scarso frutto.

Si consideri quanto si può leggere in un sussidio, allegato ad un quotidiano italiano e destinato ad un Master per corrispondenza, sulla gestione e strategia d’impresa. Il sussidio è intitolato “Le compe-tenze manageriali: l’arte di comunicare e public speaking”:

Preparare un discorso è operazione complessa. Senza un metodo di preparazione, que-

sta complessità risulta di difficile gestione per il manager. Per preparare un discorso chia-ro e persuasivo è meglio mettere in atto un processo strutturato di analisi.

La prima attività necessaria consiste nella definizione precisa dell'obiettivo o degli o-biettivi del discorso. L'obiettivo non deve descrivere che cosa farà chi parla (spiegare l'ar-gomento A, informare del fatto B, convincere qualcuno a presentarmi il suo conoscente C) ma piuttosto che cosa faranno gli interlocutori dopo averlo ascoltato: aver compreso e memorizzato l'argomento A, essere in grado di riferire il fatto B, correre a telefonare al lo-ro conoscente C.

Definendo l'obiettivo in modo corretto, la nostra mente si prepara ad affrontare il di-scorso in modo congruente. Per esempio, se un professore del liceo definisce il proprio o-biettivo "spiegare bene un teorema di matematica", probabilmente si concentrerà solo sui termini da usare, sul flusso della dimostrazione, sull'esattezza delle formule. Se invece il professore si pone come obiettivo il fatto che gli studenti comprendano e poi ricordino per sempre il teorema, si farà anche altre domande: "Come faccio a conquistare la loro at-

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tenzione e poi a mantenerla?", "Come faccio a garantirmi il fatto che comprendano piena-mente tutti i passaggi?", "Come faccio ad assicurarmi che memorizzino le formule?". È ve-ro che non sempre a queste domande si riesce a trovare risposta immediata: tuttavia sen-za le domande corrette, risulterà complesso trovare le risposte più congruenti. C'è di più: un bravo professore è quello che gestisce bene la lezione sul piano tecnico oppure colui che stimola l'apprendimento degli studenti e rende appassionante la materia? Analoga-mente, il bravo manager è colui che presenta in modo perfetto gli scenari che hanno sug-gerito il piano strategico adottato dall'azienda o colui che fa in modo che le scelte siano condivise dai collaboratori?

Chi deve tenere l’omelia deve proporsi un obiettivo da raggiungere, e tale obiettivo non consiste nel

contenuto della predica, ma in ciò che accadrà a coloro che sono i destinatari della predicazione. Il contenuto, insieme con le modalità comunicative, è il mezzo per il raggiungimento di quell’obiettivo.

Un’esperienza che si è ripetuta molte volte durante corsi di aggiornamento sulla predi-

cazione è il seguente. Dopo aver fatto ascoltare un paio di volte un’omelia precedentemen-te registrata, viene chiesto ai partecipanti di individuare quale era l’eventuale scopo che il predicatore si era proposto. Le opinioni erano molte e disperse in maniera casuale. Il che significa che lo scopo non era percepibile con chiarezza neppure ad ascoltatori partico-larmente attenti.

Le forzature sentimentalistiche

Giustamente S. Agostino, erede della retorica classica, sostiene che l’omelia deve commuovere, mettere in movimento i sentimenti. Ciò non significa, però, che la predica debba scadere nel sentimen-talismo. Accade, invece, di ascoltare delle omelie intrise d’aggettivi ridondanti (“Il Papà buono che è nei cieli, misericordioso e dolcissimo…), che ricorrono volentieri a diminutivi (“La nostra Mammina del cielo…”) ed esclamativi (“assolutamente straordinario! …straordinariamente bello!”), con una se-rie di frasi che iniziano tutte con la medesima espressione, ripetuta in successione più e più volte (“È quel sangue che ci ha salvato... È quel sangue che ci ha lavato... È quel sangue che ha pagato per noi…È quel sangue che…”). In tempi recenti, per un’evoluzione in senso devozionale, emotivo, d’una parte non trascurabile della religiosità, questa tendenza si è accentuata: la s’incontra con certa frequenza in celebrazioni per gruppi ecclesiali particolari, in santuari, in certa predicazione radiofonica.

Un prete all’inizio di una celebrazione eucaristica ha rivolto questo saluto

all’assemblea: “La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio Padre e la tenerez-za di S. Giuseppe siano con tutti voi”. A parte l’inaspettata “trinità” risultante, tale saluto ha dato il tono all’apertura di una celebrazione che nel seguito ne ha mantenuto la pro-messa. L’omelia, incentrata sulla figura di S. Giuseppe, esaltava soprattutto i tratti della sua affettuosità paterna. Tratti non desunti da un’attenta considerazione dei dati evangeli-ci, ma ampiamente congetturati sul profilo di una figura paterna idealmente precostituita dall’omileta.

Ascoltando certe omelie, si ha la netta impressione che la logica sottesa sia più quella del transfert

psicoaffettivo che quella derivante dal rapporto con i testi scritturistici proclamati, con il mistero li-turgico e con il sacramento celebrati. È come se si assistesse non all’impresa di chi cerca di rendere quest’assemblea più aperta alla comunicazione, alla comunione e alla fedeltà al suo Maestro e Signore, quanto piuttosto al proposito di condurre gli ascoltatori entro un grembo emotivamente e affettiva-mente caloroso. Una risposta a bisogni affettivi di tipo primario, quelli che caratterizzano non l’età a-dulta, ma quella infantile.

È proprio questo l’aspetto più preoccupante: il cambiamento della direzione dell’attenzione (dal Si-gnore alle dinamiche relazionali dell’assemblea stessa, a volte incentrate sull’omileta) e dell’orizzonte (dalla storia della salvezza ad un’atmosfera psicoaffettiva in funzione, insieme, d’esaltazione e gratifi-cazione emotiva e di rassicurazione).

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È una deformazione che, a livello rituale più generale, si può notare anche in certe ce-

lebrazioni di gruppi ecclesiali particolari. È quello che accade, ad esempio, quando la pre-ghiera dei fedeli e l’abbraccio di pace vengono ad occupare uno spazio di tempo, e così un rilievo, molto ampio rispetto agli altri elementi della celebrazione. Oppure quando l’intrusione prepotente d’elementi scenografici eclissa la dimensione verticale della cele-brazione (cartelloni attaccati alla mensa dell’altare, con messaggi riguardanti prevalente-mente la situazione relazionale del gruppo). Oppure, per fare un ulteriore esempio, quan-do alla presentazione delle offerte sono portati all’altare e deposti o direttamente sulla mensa o in prossimità oggetti che non entrano in dialogo con quel momento liturgico e le sue logiche. L’interruzione rituale così provocata attira l’attenzione sulla “novità” costitui-ta dagli oggetti e sul messaggio che la loro presenza trasmette: non raramente, ancora una volta, essi riguardano la natura e le dinamiche dei rapporti nel gruppo celebrante. È inevi-tabile che l’omelia s’intoni all’atmosfera così creata. Non è raro, in casi come questi, senti-re esclamazioni del tipo: “Che bell’esperienza! Che esperienza commovente!”.

Ribadiamolo: non si vuol negare legittimità ai sentimenti e agli affetti. Anzi, rispetto ad un recente

passato, un’attenzione e un rispetto maggiore per la “devozione” va senz’altro ritrovata. Una cosa, pe-rò, è la devozione, un’altra il devozionismo. Come pure una cosa è il sentimento, altra il sentimentali-smo. Esiste, infatti, il rischio di estenuare la fede in un vago estetismo religioso. L’omelia deve farsi ca-rico, tra l’altro, di una pedagogia che sappia condurre verso una religiosità autenticamente radicata nelle Scritture e umanamente matura.

Il didatticismo

Su un versante opposto al precedente, si colloca un ulteriore difetto che ha ricevuto un certo im-pulso proprio dalla riforma conciliare, evidentemente mal compresa. La riforma ha creato l’esigenza di fornire ai partecipanti alle celebrazioni molte informazioni di carattere sia liturgico sia esegetico, e altrettante precisazioni di natura dottrinale. Ciò ha spinto non pochi predicatori a concepire l’omelia come una specie di breve lezione esplicativa. Non si vuol qui escludere che si debbano fornire infor-mazioni e nozioni di tale tipo, e che la predicazione sia anche didattica, ma ciò non deve essere lo sco-po ultimo ed esclusivo dell’omelia. A questo difetto sono esposti preti giovani che, più o meno con-sciamente, fanno riferimento, come modello per l’omelia, a lezioni cui hanno partecipato durante gli studi teologici. Oppure celebranti che non hanno contatti pastorali diretti con le persone che compon-gono l’assemblea.

L’omelia non può esaurirsi nell’interpretazione della Scrittura, ma deve essere interpretazione del-la vita sia pure con la luce che deriva dall’ascolto della Scrittura; l’attenzione non va alla Parola in sé, ma attraverso la parola al Parlante, in dialogo qui e ora con questa porzione del suo popolo. L’omelia non può limitarsi all’interpretazione dei segni e dei simboli liturgici, ma concorre, con le azioni e gli elementi del simbolismo liturgico, all’unico evento sacramentale della comunione tra il Signore viven-te e questa comunità di suoi discepoli. L’omelia non può ridursi alla spiegazione di una verità di fede in maniera catechistica, senza occuparsi di quanto sta avvenendo qui e ora, nella celebrazione sacra-mentale, e senza chiedersi che cosa tutto ciò possa significare per l’esistenza concreta dei partecipanti alla celebrazione.

Un’omelia della prima domenica di quaresima. Il predicatore ha fatto la scelta, in sé le-

gittima, di parlare della quaresima nel suo insieme. Ha iniziato con un cenno al significato che il numero quattro, e il quaranta in derivazione, ha nella Bibbia. Ha continuato parlan-do dei quaranta anni di peregrinazione del popolo d’Israele dalla schiavitù verso la terra promessa. Ha proseguito spiegando il senso dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel de-serto, dopo il battesimo. Infine ha informato sulla prassi battesimale e penitenziale della chiesa nei primi secoli. Ha concluso affermando che è da tutto ciò che ha origine la quare-sima appena inaugurata.

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Lo schema è molto limpido e certamente segue una logica obiettiva, ma che cosa differenzia questo discorso da una conferenza divulgativa sulla storia della liturgia? Manca completamente ogni impegno mistagogico, ogni sforzo per rendere significativa e coinvolgente, oltre che interessante, la quaresima oggi e qui, per queste persone concrete.

A volte certi predicatori si limitano a passare in rassegna la prima lettura, il salmo, la seconda lettu-ra e il Vangelo, soffermandosi su qualche versetto difficile e spiegandone brevemente il significato. A volte non si preoccupano neppure di cogliere un collegamento tra le varie parti ma semplicemente ac-costando l’uno all’altro, come capita, i tre o quattro frammenti di esegesi. È un’altra forma di didattici-smo che non realizza la natura dell’omelia.

Quando l’omelia cade nel didatticismo si può dire di essa ciò che è stato detto di certa cattiva teolo-gia: “Risponde in modo più o meno chiaro a domande che nessuno pone e che a nessuno stanno a cuo-re”. Ed è proprio questo il danno più rilevante Il rito diventa irrilevante rispetto alla vita e, in fin dei conti, si trasmette l’impressione che Dio rimanga estraneo ai problemi reali dell’esistenza. Il contrario di ciò che le Scritture affermano quando qualificano Dio come “il Vivente”.

Il moralismo

Il moralismo è un difetto talmente presente nelle omelie che il termine “predica”, che nella parlata comune le designa, nei dizionari dei sinonimi è affiancato a: “sgridata, rimprovero, ramanzina, predi-cozzo, tirata, filippica, rimbrotto e fervorino”. Naturalmente non si vuol negare che sia compito dell’omelia anche la parenesi, o esortazione morale, che, anzi, normalmente non dovrebbe mancare. Si vuole, però, evidenziare una fastidiosa e deleteria deformazione della predicazione morale. Per mora-lismo intendiamo qui la caratteristica negativa di un discorso su ciò che si deve o non si deve fare, gra-cile nelle motivazioni o a causa dei contenuti o a causa delle modalità espositive, e di conseguenza de-stinato ad essere sterile o anche controproducente.

Si cade nel moralismo quando si tranciano giudizi negativi generici e generalizzati (“Il male che fanno i mezzi di comunicazione di massa…”: Sempre? In ogni caso? Tutti?). Coloro che ascoltano o tro-veranno l’affermazione esagerata e non credibile, e la rifiuteranno; oppure proveranno un senso d’inquietudine e d’angoscia paralizzante e rassegnato, e saranno sospinti verso un’inerzia sterile e brontolona (“Dove andremo a finire di questo passo…?!”).

Si ottiene un risultato analogo quando si pronunciano condanne contro soggetti non diversificati (“I giovani d’oggi... le donne… gli immigrati…”: tutti?), o quando la condanna di modi di fare molto diffusi non è sufficientemente argomentata (“Il consumismo… La moda…”: ma quando il consumo diventa consumismo e perché? Quando e perché seguire le indicazioni della moda è un male?).

Un altro esempio sono le prescrizioni massimaliste, perentorie e, nelle circostanze concrete, non realistiche (“Per Cristo dobbiamo essere pronti a rinunciare a tutto, anche alla vita…”: l’affermazione in sé è corretta, ma nelle stragrande maggioranza dei casi non corrisponde alle nostre situazioni pa-storali), oppure indicazioni generiche e non accompagnate da una “pedagogia” che sappia tener conto della gradualità e della fatica di certi cammini.

Chi predica, ad esempio, la necessità di perdonare le offese ricevute, non può ignorare

che la cosa può risultare difficile, in certi casi persino drammatica, e che non di rado può essere solo una meta verso cui camminare con fatica e gradualità. “Bisogna perdonare, perché chi non perdona il suo prossimo non può pretendere che Dio lo perdoni”. L’affermazione è corretta. Ma un’omelia, rivolta ad un’assemblea in cui diverse persone possono avere questo problema irrisolto, non può limitarsi a ciò. Basti considerare l’effetto prodotto in una persona che, a causa di un’offesa o di un danno davvero laceranti, psicologicamente non è in grado ancora di perdonare. Si finirà col caricare questa persona o di un senso di colpa schiacciante, o di una rabbia che può diventare ribellione generaliz-zata e distacco dai precetti evangelici, considerati impraticabili. L’omileta deve parlare di un aiuto da chiedere con insistenza nella preghiera, di una buona volontà che è già testi-moniata da qualche piccolo passo, compiuto man mano che si rende concretamente possi-bile, di un sostegno fraterno cui ricorrere…

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La stortura più grave della deriva moralistica va individuata, normalmente, nel mancato rispetto dell’ordine evangelico nell’annuncio. L’opera di Dio e il suo dono, la grazia, precedono la prescrizione morale, la sostengono e la motivano in positivo. Certamente un discepolo di Gesù deve perdonare, ma l’annuncio del perdono gratuito di Dio, che abbraccia anche chi per il momento non ce la fa a perdona-re, precede la prescrizione morale. Non solo, ma la motiva e la sostiene. Non è un caso che l’esortazione morale, nel Nuovo Testamento (d’ora in poi: NT), appare associata, nella maggioranza dei casi, a consolazione e conforto e solo secondariamente a rimprovero: quest’ordine delle cose è squisitamente evangelico, corrisponde alla logica della salvezza donata in Gesù, e perciò va rispettato anche da chi tiene le omelie.

La scarsa qualità religiosa

Un’ulteriore lacuna della predicazione omiletica corrente consiste in una scarsa qualità religiosa di molte omelie. Certamente tutte le omelie hanno un contenuto che verbalmente tratta argomenti reli-giosi, ma molte prediche lasciano insoddisfatti coloro che partecipano alle celebrazioni in cerca di una qualche esperienza della vicinanza di Dio. Non poche omelie, pur parlando di Dio, non nascono da un vero parlare con Dio e non si propongono esplicitamente e seriamente d’essere uno spazio offerto a Dio perché Egli stesso possa avere un’opportunità di comunicazione. Troppo spesso Dio è unicamente oggetto del discorso omiletico, e non il soggetto di una misteriosa presenza “sacramentalmente” me-diata dal parlare umano e in esso avvertita.

Negli schemi dell’oratoria sacra del passato era previsto che il predicatore si rivolgesse

direttamente a Dio con una preghiera all’inizio, dopo aver esposto all’assemblea il tema e l’intendimento del suo discorso, e che un’altra preghiera la rivolgesse verso la fine del suo discorso. Ancor oggi il pastore protestante che tiene il sermone ad un’assemblea sa che deve preparare anche un’apposita preghiera con cui si rivolgerà a Dio all’inizio e alla fine. Non mancano, nella predicazione corrente, omileti che spontaneamente innalzano il loro parlare fino alla preghiera esplicita, ma la cosa è meno frequente del desiderabile. Do-vrebbe far riflettere, tuttavia, sia la preghiera prescritta dal Messale a chi si accinge a leg-gere in assemblea il Vangelo che tutto il riguardo rituale riservato alla proclamazione del-la Parola.

Più in generale si ha l’impressione che, nel tempo dedicato alla preparazione dell’omelia, lo spazio dedicato alla meditazione, intesa come ascolto adorante rivolto a Dio e al Signore Gesù, sia piuttosto scarso o addirittura assente. Ciò può dipendere da vari fat-tori, tra cui va annoverata certamente una comprensione inadeguata della natura dell’omelia. Essa, come diremo in seguito, va concepita come atto “sacramentale” e non come un discorso qualunque. Di conseguenza chi tratta l’omelia dovrebbe essere animato da un rispetto religioso analogo a quello da tenere con le azioni sacramentali.

Era questo, a quanto si narra, il segreto del Curato d’Ars: negli ultimi anni di vita la sua voce era così flebile che solo una parte dell’assemblea era in grado di udire le parole che pronunciava. Tutti, però, si sentivano raggiunti da una qualche comunicazione che confor-tava la loro fede.

Troppo spesso lo stato d’animo del predicatore che si accinge a preparare l’omelia è quello di chi

dice a se stesso: “Che cosa andrò a dire domenica alla gente che mi ascolterà?”. In questo caso la ri-sposta andrà cercata solo nella riflessione. La domanda corretta dovrebbe essere, invece, del tipo: “Che cosa vorrà dirci Dio, che cosa vorrà dirci il Signore Gesù, quando saremo riuniti in assemblea?”. In questo secondo caso la meditazione orante diventerà indispensabile. E sarà del tutto probabile che le parole che sgorgheranno porteranno con sé il profumo e la mediazione della vicinanza di Dio e della sua parola vivente.

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Inadeguatezza del processo comunicativo

Tratteremo altrove su alcuni aspetti metodologici riguardanti il processo comunicativo mediante la parola in pubblico. Ma va segnalata la persuasione, comune tra gli esperti, che pur non mancando di buoni predicatori la maggioranza di essi oggi non è in grado di utilizzare i mezzi di una comunicazione qualitativamente buona. Alcuni cenni esemplificativi.

Se ad un gruppo di preti, mediante un questionario, si chiede quanto tempo mediamen-

te essi dedicano per preparare l’omelia di una comune domenica e, con una successiva domanda, si chiede di specificare quanto di quel tempo è impiegato per decidere dei con-tenuti e quanto per trovare il modo più efficace per comunicarli, ci si potrà facilmente rendere conto di una diffusa mancanza di professionalità comunicativa. Sulla base della presunzione che chi ha qualcosa di valido da dire troverà spontaneamente anche il modo migliore per comunicarlo, il tempo dedicato all’efficacia comunicativa è o assente o molto scarso. Ciò può essere anche il risultato della formazione “classica”, così incentrata sui contenuti e sulle idee e così poco propensa ad interessarsi di pedagogia e di metodi di effi-cace comunicazione.

In un progetto comunicativo gestito da esperti, invece, il tempo che è dedicato al come comunicare in modo efficace è notevolmente superiore a quello speso per decidere il che cosa dire. La povertà di una seria preparazione retorica, teorica e pratica, nel curriculum di studi dei futuri preti, aggravatasi dopo la riforma conciliare e solo di recente un po’ ri-considerata, fa sentire tutto il suo peso.

Affinché un discorso pubblico sia davvero comunicativo, è indispensabile che tra colui che parla e

coloro che ascoltano vi sia una buona intesa. Essa, tra l’altro, è frutto di un adeguato linguaggio, ben compreso non solo da chi parla ma anche da chi ascolta. Il vocabolario deve corrispondere, il più pos-sibile, a quello correntemente usato da chi ascolta. Il predicatore non deve dare per scontato che chi lo ascolta comprenda il significato delle parole che pronuncia solo perché a lui suonano familiari. E non soltanto per termini appartenenti allo stretto gergo teologico, quali: kenosi, kerigma, kairos, koinonia (termini tutti che un normale programma di videoscrittura, pur dotato di un ricco vocabolario di con-trollo, segna come errori di battuta!) e via dicendo. O per termini del vezzo di circoli ecclesiastici quali: iniziazione, discernimento, icona, lectio divina eccetera. Ma anche per le grandi parole della tradizio-ne: grazia, mistero, memoriale, alleanza. Parole che certamente non vanno lasciate cadere, ma la cui capacità comunicativa è usurata, limitata.

Anche i procedimenti mentali, i ragionamenti e le concatenazioni simboliche, mediante le quali si cerca di produrre persuasioni o decisioni, devono essere simili a quelli percorsi normalmente dagli ascoltatori. La predicazione percorre non raramente sentieri che sono familiari a chi ha studiato teo-logia, ma non possono essere tali per la quasi totalità dei membri dell’assemblea.

Ad un predicatore che ha frequentato il liceo classico e ha fatto studi teologici, un per-

corso tra ragionamenti e prove razionali può apparire il più adatto a provocare convinzio-ni e decisioni. Non è detto che coloro che lo ascoltano frequentino abitualmente gli stessi sentieri. La citazione di alcune esperienze e un paio di racconti possono risultare più effi-caci di un formidabile ragionamento, con il suo procedere stringente.

Un discorso che voglia essere seguito e trovato interessante, inoltre, deve avere un riferimento

preciso a ciò che gli ascoltatori sperimentano come rilevante nella loro esistenza. Essi vivono gioie e dispiaceri, speranze e delusioni, successi e sconfitte, preoccupazioni e attese. Tutti questi stati d’animo sono collegati a circostanze, avvenimenti, situazioni, persone, relazioni.... In che rapporto sta l’omelia che essi stanno ascoltando con queste loro passioni? Vi trovano una qualche luce, un confor-to, un sostegno, una speranza, un incoraggiamento? È la relazione tra i contenuti e i modi dell’omelia da una parte e le dimensioni reali dell’esistenza di chi l’ascolta dall’altra che determina la serietà, l’interesse dell’omelia.

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L’IDENTITÀ DELL’OMELIA

Che cos’è l’omelia

L’omelia è la predicazione tenuta durante una celebrazione liturgica. Essa appartiene a quel gene-re di attività fondamentali di una comunità cristiana, il servizio alla Parola di Dio, che comprende an-che l’annuncio missionario, la catechesi, la mistagogia, l’insegnamento, il richiamo alla conversione. Ciò che la specifica è la sua collocazione entro una celebrazione liturgica, normalmente dopo la pro-clamazione di testi scritturistici e in connessione con essi.

Il termine “omelia” deriva dal verbo greco homiléō, usato solo negli scritti del terzo evangelista (2 volte il Luca e 2 volte in Atti), che non significa soltanto il parlare, ma comprende sempre anche l’aspetto della relazione sociale nella forma della comunione, sino al punto che homilía, termine non usato nel N. T., significa: relazione, rapporto, compagnia, convivenza. E’ con i Padri greci, a iniziare da S. Ignazio di Antiochia, che il termine assume il significato di predicare. L’omelia viene così qualificata come un discorso pubblico che avviene in un contesto di comunione di fede o, se si vuole, la comunio-ne nella fede che si esprime e si nutre mediante la predicazione.

La natura dell’omelia è stata precisata dal Vat. II, in particolare nella Sacrosantun Concilium. Al n. 7 afferma:

“Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. (…) E’ presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura”.

Dal contesto dell’intero documento si deduce che l’affermazione della presenza di Cristo non ri-

guarda unicamente la proclamazione dei testi scritturistici, ma l’intera Liturgia della Parola, compresa l’omelia.

Al n. 24 si legge: “Nella celebrazione liturgica la Sacra Scrittura ha una importanza estrema. Da essa in-

fatti si attingono le letture che vengono poi spiegate nell’omelia”.

E al n. 35: “Questa (la predicazione omiletica) poi attinga anzitutto alla sorgente della Sacra Scrit-

tura e della liturgia, come annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza ossia nel mistero di Cristo, mistero che è in noi sempre presente e operante, so-prattutto nelle celebrazioni liturgiche”.

Infine, al n. 52:

“Si raccomanda vivamente l’omelia, come parte della stessa liturgia; in essa, nel corso dell’anno liturgico, vengono presentati, dal testo sacro i misteri della fede e le norme della vita cristiana. Anzi nelle messe della domenica e delle feste di precetto celebrate con par-tecipazione di popolo, l’omelia non si ometta se non per grave motivo”.

Questi testi contengono l’essenziale dei pronunciamenti conciliari sulla natura dell’omelia. Essi

vengono continuamente citati nei documenti della riforma liturgica successiva, che vi aggiungono del-le chiarificazioni e specificazioni, lasciando intatta la sostanza. Tra di essi merita essere citato l’Ordo

Lectionum Missae (nella Editio typica altera del 1983), al n. 24 dei Praenotanda:

“Particolarmente raccomandata come parte della liturgia della Parola, a partire special-mente dalla Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, anzi in alcuni casi espressamente prescritta è l'omelia, con la quale nel corso dell'anno liturgico vengono esposti, in base al te-sto sacro, i misteri della fede e le norme della vita cristiana.

Tenuta, di norma, da colui che presiede, l'omelia nella celebrazione della Messa ha lo scopo di far sì che la proclamazione della parola di Dio diventi, insieme con la liturgia eucari-stica, quasi un annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mi-

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stero di Cristo. Infatti il mistero pasquale di Cristo, che viene annunziato nelle letture e nell'omelia, viene attualizzato per mezzo del Sacrificio della Messa. Sempre poi Cristo è pre-sente e agisce nella predicazione della sua Chiesa.

Pertanto l'omelia, sia che spieghi la parola di Dio annunziata nella sacra Scrittura o un al-tro testo liturgico, deve guidare la comunità dei fedeli a partecipare attivamente all'Eucari-stia, perché esprimano nella vita ciò che hanno ricevuto mediante la fede. Con questa viva esposizione la proclamazione della parola di Dio e le celebrazioni della Chiesa possono otte-nere una maggiore efficacia a patto che l'omelia sia davvero frutto di meditazione, ben pre-parata, non troppo lunga né troppo breve, e che in essa ci si sappia rivolgere a tutti i presen-ti, compresi i fanciulli e la gente semplice. Nella concelebrazione, l'omelia è tenuta di norma dal celebrante principale o da uno dei concelebranti”.

Da questi testi risultano tre componenti fondamentali della natura dell’omelia.

L’omelia è parte integrante della celebrazione liturgica

E anzitutto che essa è parte integrante della celebrazione liturgica, e in particolare della Liturgia della Parola. Che l’omelia sia parte della liturgia andava affermato, poiché nel corso della sua storia è accaduto che essa venisse concepita e percepita come un elemento a parte. Il distacco dell’omelia dal contesto liturgico avvenne, sostanzialmente, con la stagione della predicazione popolare medioevale. “La predicazione popolare determina una vera rinascita della predicazione, ma non una rinascita dell’omelia. Anzi, lo sganciamento della predicazione omiletica dal contesto liturgico si accentua mag-giormente: persino il luogo della predicazione viene spostato dal presbiterio alla navata, così che il predicatore abbandonava anche spazialmente la zona dell’altare per recarsi al luogo della predicazio-ne (e talvolta deponeva anche parte dei paramenti e le candele sull’altare venivano momentaneamen-te spente). Lo stesso uso della lingua volgare, dalla predicazione non liturgica, penetrò in quella litur-gica, contribuendo a fare dell’omelia un corpo a parte rispetto al contesto rituale celebrativo in lingua latina. Ciò provocò anche una scelta di tematiche che molto spesso non facevano alcun riferimento ai testi biblici e alla celebrazione liturgica. Si giunse, in molti casi, a staccare del tutto l’omelia dalla cele-brazione liturgica, facendola diventare una predicazione di tipo catechistico, collocata la domenica pomeriggio, uso che si consolidò, nell’epoca della Riforma, sia in campo cattolico che protestante”. Qualcosa di analogo va detto anche per la predicazione tematica, rivolta alle persone colte e in partico-lare di quella praticata nelle scolae.

A conferma dell’importanza dell’affermazione sta il fatto che, anche se in forme meno conclamate, non mancano ai nostri giorni segnali che denunciano il permanere di una simile mentalità. Si pensi all’uso di aprire e concludere l’omelia con un saluto o con altra formula, di fatto percepita come deli-mitazione dello spazio dell’omelia rispetto a ciò che la precede e la segue, e dunque segnale della sua distinzione riguardo al contesto; oppure alle molte omelie concepite come piccola conferenza, senza che vi traspaia alcuna consapevolezza della sua collocazione entro una celebrazione sacramentale, da catalogare dunque come intrattenimento religioso.

L’affermazione che l’omelia è parte integrante della celebrazione ha risvolti pratici rilevanti. Non è possibile, infatti, preparare adeguatamente un’omelia se non nel contesto della preparazione generale della celebrazione stessa, con tutte le scelte di regia liturgica che essa comporta.

L’omelia ha uno stretto rapporto con le letture bibliche proclamate

Una seconda cosa che apprendiamo dai testi della riforma conciliare è che l’omelia ha uno stretto

rapporto con i testi scritturistici che vengono proclamati nella celebrazione. Pur non essendo l’omelia cattolica il sermone protestante, e potendo vertere anche sul momento liturgico, su qualche testo dell’eucologio, sul sacramento celebrato, la relazione alle Scritture fa parte della sua definizione. Il suo legame con le Scritture va compreso alla luce della Dei Verbum, n. 21:

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“La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola su-prema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sem-pre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e po-tenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fe-de, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di Dio » (Eb 4,12), « che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13)”.

Il rapporto tra l’omelia e le Scritture ha il suo punto cruciale nel problema della cosiddetta attua-

lizzazione. L’omelia, infatti, deve mediare il “qui ed ora” di testi che provengono dal passato, permet-tendo in tal modo ad essi di diventare significativi per i destinatari e per la loro esistenza concreta. Ta-le attualizzazione, già presente nella predicazione di Gesù (vedi ad es. Lc 4,16 ss.) e nell’uso neotesta-mentario dei testi dell’A. T., è indispensabile perché le Scritture diventino parola del Dio vivente per l’assemblea celebrante.

L’attualizzazione non si riduce a quella che potremmo chiamare “transcodifica” delle Scritture, e cioè interpretare, in modo esegeticamente corretto, il senso letterale dei testi biblici, coglierne il mes-saggio e poi ridirlo usando una codificazione linguistica diversa, comprensibile all’uomo d’oggi: ridire il medesimo messaggio con un linguaggio attuale. Evidentemente l’omelia deve fare anche questo, ma l’attualizzazione è qualcosa di più profondo e ricco. Ugualmente, l’attualizzazione non si riduce al fatto che nell’omelia si tratta di questioni attuali. Essa consiste nel produrre una situazione nella quale l’orizzonte storico testimoniato dalle Scritture e l’orizzonte entro il quale noi viviamo oggi si aprano l’uno all’altro, così che ci sentiamo protagonisti della storia santa, avvertita come storia nostra, che ci riguarda. E di conseguenza avvertiamo le parole che testimoniano quella storia come parole che par-lano anche di noi e a noi. Oltre tremila anni dopo gli eventi, ai nostri giorni un ebreo credente può, in tutta verità, ripetere durante la celebrazione familiare della Pasqua: “Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente. Il Signore operò sotto i nostri occhi segni e prodigi grandi e terribili contro l'Egitto, contro il faraone e contro tutta la sua casa. Ci fece uscire di là per condurci nel paese che aveva giurato ai nostri padri di darci” (Dt 6, 21-23). Così come duemila anni dopo l’evento, un cristiano d’oggi può ripetere, celebrando il Natale: “Oggi è nato per noi il Salva-tore!”.

E’ in gioco il rapporto tra la Parola, intesa come Scrittura ma anche come predicazione attualizzan-te, e la storia della salvezza, non solo del passato e testimoniata dalla Bibbia, ma anche attuale, in cui noi siamo coinvolti. La storia della salvezza, la medesima narrata dalle Scritture, si sta svolgendo an-che oggi e noi ne siamo coinvolti. Una storia che è intessuta, come insegna il Vat. II, di eventi e parole strettamente congiunti. La proclamazione delle Scritture e la predicazione omiletica che da esse attin-ge luce sono la sorgente delle parole che colgono e dichiarano il senso degli eventi, e in tal modo intes-sono storia. È dentro la storia ordinaria, infatti, che si incarna la storia della salvezza, e scrutando i “segni dei tempi” è possibile comprendere il Vangelo come parola vivente del Signore per noi.

Va chiarito che per storia non si intende un semplice aggregato di fatti che accadono, come un semplice mucchio di mattoni non è una casa: ci vuole la malta che li lega e una disposizione secondo progetto che li ordina. Un insieme di eventi distesi nel tempo assurge alla dignità di storia solo se essi sono avvertiti colmi di un senso che li collega tra loro, e ciò da una comunità che ne è coinvolta. E il senso è determinato dalla rivelazione di un piano di Dio che intesse quella storia (cfr. Rm 16, 25-27). Perché vi sia storia devono, dunque, accadere degli eventi, ma vi deve essere anche una comunità che ne avverte il senso, lo indaga, lo comprende, lo dichiara. Ed è qui che interviene, con il suo apporto in-

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dispensabile, la parola. È in essa che il senso, percepito nella coscienza, viene alla luce, è dichiarato pubblicamente, e può diventare consenso, e cioè senso condiviso in una comunità. Questo è indispen-sabile perché la catena degli eventi sia storia, e perché una comunità possa interpretarla, narrarla, ri-cordarla. Ed è in tutto ciò che il parlare di Dio si incarna, è in tutto ciò che il Parlante fa udire il suo parlare.

Quanto abbiamo detto va applicato alla storia particolare di ciascuna comunità cristiana. La storia di questa comunità, e la memoria collettiva che essa ne ha, sono l’incarnarsi qui e ora, della grande storia universale della salvezza. La presa di coscienza della continuità della storia della salvezza, rom-pe i sigilli che renderebbero mute le Scritture, e permette alla loro proclamazione di essere l’appuntamento con il Dio vivente, con il Parlante. Non va disconosciuta la reale dignità della storia di ogni singola comunità cristiana, solo perché si tratta di una “piccola” storia. Sarebbe ragionare come i compaesani di Gesù, a Nazaret, incapaci di riconoscere la sua missione messianica, solo perché era il figlio del carpentiere e sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle vivevano là, nel piccolo villaggio (cfr. Mt 13, 53-58).

In tutto ciò, ancora una volta, la proclamazione e l’ascolto della Parola, da intendersi sia come pro-clamazione delle Scritture che come predicazione attualizzante, nella fede e nello Spirito, è indispen-sabile affinché la storia diventi evento di salvezza e, insieme, luogo nel quale il Parlante si rende pre-sente e parla, rivolgendo a noi la sua parola.

L’omelia è una mediazione sacramentale della Parola di Dio

Da ciò, ed è la terza caratteristica, si può giungere ad affermare la natura sacramentale dell’omelia, in quanto mediazione dell’atto del parlare stesso di Dio al suo popolo. Naturalmente il termine “sa-cramentale” ha un significato analogico, rispetto al settenario fissato dal Concilio di Trento, ma l’analogia non è debole. Non si deve comunque mai dimenticare che l’omelia non va mai disgiunta dal contesto dell’intera Liturgia della Parola, e che quest’ultima è pur sempre una mediazione dell’atto del parlare di Dio, non una identificazione materiale con esso. Senza trascurare che il parlare di Dio giun-ge a noi sempre e solo in forma mediata.

Come per ogni azione sacramentale, anche per la predicazione omiletica, va sottolineata la neces-saria presenza ed opera dello Spirito Santo. L’Ordo Lectionum Missae si esprime così, al n. 9:

“Perché la Parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi, si ri-chiede l’azione dello Spirito santo; sotto la sua ispirazione e con il suo aiuto la Parola di Dio diventa fondamento dell’azione liturgica, e norma e sostegno di tutta la vita. L’azione dello stesso Spirito santo non solo previene, accompagna e prosegue tutta l’azione liturgica, ma a ciascuno suggerisce nel cuore tutto ciò che nella proclamazione della Parola di Dio vien detto per l’intera assemblea dei fedeli, e mentre rinsalda l’unità di tutti, favorisce anche la diversi-tà dei carismi e ne valorizza la molteplice azione” (OLM, 2^ ed., n. 9).

La necessità dell’azione dello Spirito nell’interpretazione della Scrittura è richiesta dal fatto che la stessa Scrittura non è materialmente e immediatamente Parola di Dio, se con questa espressione in-tendiamo l’effettivo parlare di Dio qui e ora. La Scrittura non è un libro rivelato, ma ispirato. La Scrit-tura, scritta sotto la guida dello Spirito santo, testimonia che Dio nel passato ha parlato. Ma perché la Scritture ridiventi il parlare attuale di Dio a noi non basta che venga materialmente letta ed ascoltata. Lo scritto deve ridiventare parola, e parola viva qui, per questa comunità. Ed è proprio nel far passare la parola da scritto ad atto del parlare vivente qui e ora che è fondamentale l’azione dello Spirito santo, e la mediazione della predicazione sostenuta dal medesimo Spirito.

Perché Dio possa parlare ad una comunità, bisogna che questa comunità sia aperta al dono e all’azione dello Spirito. Il che significa, anzitutto, una comunità che sa pregare, lo fa con intensità e con continuità. Compreso quell’aspetto caratteristico della preghiera cristiana che è la preghiera d’ascolto. Una preghiera che prevede, come suo punto centrale, la cosciente apertura ad una comunicazione at-tuale di Dio, la disponibilità a lasciarsi da lui istruire e trasformare. Una preghiera che coltiva il reali-smo della percezione di un Dio vivente con cui si ha a che fare, un Dio personale che ha l’iniziativa, che ha dei “pensieri” che sono solo suoi e che desidera comunicare a coloro che si dispongono ad ascoltar-lo, per trasforma interiormente.

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MEDIAZIONI DELLA PAROLA DI DIO

La rivelazione avviene in una storia intessuta di eventi e parole strettamente congiunti, entrambi

riconducibili anche all’iniziativa di Dio. È necessario soffermarci a trattare delle parole appartenenti alla storia della salvezza, come parole che mediano il parlare di Dio. Pur non potendo svolgere qui una completa teologia della parola di Dio, dobbiamo coglierne i tratti indispensabili per giungere a com-prendere in modo adeguato la natura dell’omelia. Va ridetto, comunque che è proprio la parola, e solo la parola, la realtà nella quale il senso degli eventi viene liberato dall’ambiguità ed acquista la sua tra-sparenza. Senza la parola i fatti resterebbero segni ambigui, il loro senso indecifrabile, inadatto a di-ventare consenso e tradizione di una comunità. Non sarebbe, dunque, possibile collegarli tra loro per continuità di senso e non assurgerebbero mai alla dignità di storia e storia santa.

Anzitutto una precisazione. L’espressione “parola di Dio” può essere intesa secondo due direzioni di significato. Nella prima si può mettere a fuoco l’attenzione sulla parola in quanto è veicolo di conte-nuti; nella seconda si può collocare in primo piano l’atto del parlare, e con esso lo stabilirsi di una re-lazione tra due soggetti: colui che parla e colui che ascolta. Non raramente, nei discorsi sulla parola di Dio, questo secondo aspetto è trascurato, così che l’attenzione è rivolta prevalentemente ai contenuti della parola e non al Parlante e alla relazione che il Parlante stabilisce con l’ascoltatore. Nel contesto di un discorso che sottolinea l’attualità della rivelazione, invece, il secondo aspetto è di grande impor-tanza. Con l’espressione “parola di Dio” si deve intendere, dunque, anche e soprattutto: “Dio rivolto verso di noi, che parla a noi, qui, oggi”.

Ridetta in tal modo, l’espressione “parola di Dio” rivela tutta la sua arditezza. Attribuire al Dio tra-scendente l’attività della parola, e di una parola rivolta proprio a noi, non è un antropomorfismo pre-suntuoso e inaccettabile? Non è Dio stesso, nel suo mistero, oltre ogni parola? E tuttavia è proprio questa la fede che traspare dalle Scritture: Dio si è rivolto a uomini mediante una parola che è anche sua. Questa stessa fede vive della fiducia che anche oggi sia possibile ascoltare Dio che si rivolge a noi e ci parla. La fede, infatti, non è solo una maniera di vedere la vita, il cosmo e la trascendenza, ma è an-che apertura all’azione di una parola-evento che viene verso di noi come parola di Dio, cioè come au-tomanifestazione del Dio tre volte santo e come offerta di intesa e comunione con lui.

Del resto, se vi deve essere una qualche comunicazione personale tra noi e Dio, è necessario che es-sa avvenga attraverso quel vertice caratterizzante la comunione propriamente personale che è la pa-rola. Parola che pone le persone una davanti all’altra nella dignità della loro libera autodeterminazio-ne: quella di chi ha l’iniziativa della parola per autoproporsi e autodonarsi, quella di chi ascolta per decidere se corrispondere accogliendo e autodonandosi a sua volta. Escludere la mediazione della pa-rola tra Dio e gli uomini significa escludere la possibilità di un rapporto propriamente personale tra loro.

Naturalmente la parola che Dio pronuncia deve essere comprensibile agli uomini. Si pone, dunque, la questione della mediazione umana del parlare di Dio: di come, cioè, la comunicazione che ha origine nel Dio trascendente giunga in maniera umanamente comprensibile fino a noi. Noi sappiamo che ciò fa parte di una economia divina sacramentale che ha nell’incarnazione del Verbo, pieno di grazia e di ve-rità, il suo culmine e dunque il suo significato ultimo.

Dio ha parlato

L’esperienza caratterizzante il rapporto con Dio testimoniato dalla Scrittura non è anzitutto la con-templazione del suo mistero, ma l’ascolto della sua parola. Per questo il precetto religioso capitale del popolo di Dio è: “Ascolta, Israele!” (Dt 6,4). Il Dio della Scrittura è un Dio che interviene nell’esistenza degli uomini mediante la sua parola. È evidente che gli attributi personali di Dio vengono così messi in pieno risalto e in particolare la sua libertà personale sovrana. La storia diventa il luogo dell’appuntamento privilegiato tra Dio e il suo popolo, perché è il luogo in cui la libertà personale può lasciare la traccia della sua iniziativa. Ciò a differenza delle religioni mitologiche, che vedevano nella natura il luogo della manifestazione di un mistero divino i cui tratti personali rimanevano piuttosto vaghi, e nella storia il realizzarsi di un destino impersonale non modificabile.

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È probabile che Israele abbia preso coscienza del parlare di Dio soprattutto tramite quelle figure carismatiche che sono i profeti (delle 242 volte che nell’AT appare dabar YHWH, 225 sono riferite alla rivelazione profetica). Questi uomini si rivolgevano al popolo con la consapevolezza e la pretesa che i loro discorsi contenessero il parlare stesso di Dio. La forma del carisma e le vie della comunicazione tra Dio e il profeta si presentano varie e non sono da escludere l’estasi, la visione, l’audizione in forma straordinaria. La forma più normale e ordinaria, tuttavia, sembra essere quella di uomini afferrati dal-lo Spirito di Dio, così che la causa di Dio diventava la loro stessa causa, la loro ragione di vita. La co-munione con Dio faceva sorgere nel loro intimo i sentimenti e i giudizi che essi avvertivano come pro-venienti da Dio stesso. Di conseguenza le parole con cui verbalizzavano questo loro intimo le attribui-vano a Dio stesso come sorgente ultima, era parola di Dio. Quanto mai pertinenti queste osservazioni di L. A. SCHÖKEL:

Dio si impadronisce dei profeti, ne interrompe le attività, li prende al suo servizio o li sceglie e prepara ancor prima che vengano concepiti; non che il profeta si dedichi esclusi-vamente a profetizzare, o proclami messaggi periodicamente e frequentemente come i puntuali burocrati della magia e della divinazione (Is 47,13). Deve essere bensì a disposi-zione di Dio in qualunque momento e con qualunque messaggio: ‘dove io ti manderò, an-drai; ciò che io ti comanderò, lo dirai’ (Ger 1,7). [...] I profeti sono uomini della parola, de-vono cioè porre a disposizione di Dio soprattutto il loro linguaggio, come se dovessero da-re la carne e il sangue, la vita e l’espressione della loro lingua perché in essi si incarni la parola di Dio. Evitiamo una concezione estrinseca del servizio della Parola, che potrebbe essere suggerita da alcune formule. ‘Il Signore rivolse la parola al tale’, ‘metto le mie paro-le sulla tua bocca’ (Ger 1), ‘il Signore mi risveglia l’orecchio perché io ascolti’. Qualcuno potrebbe concludere, e ha concluso, che il profeta ascolta, impara a memoria e ripete alla lettera le parole di Dio. Non è così. Altre immagini ci permettono di comprendere che Dio si incarna nella parola umana dal di dentro: Ezechiele deve mangiare e assimilare il rotolo, Geremia avverte la parola di Dio come lava ardente nel suo interno. E questa visione con-ferma l’analisi stilistica dei testi profetici: il profeta deve elaborare gli oracoli col sudore della fronte, come coscienzioso artigiano della parola profetica.

La potenza della parola di Dio sulle labbra dei profeti consiste nel fatto che essa predice, spiega e

nello stesso tempo impegna nella storia la volontà fedele e giusta di Dio. Predice e causa il giudizio di Dio nella storia, in Israele e anche oltre i confini di questo singolo popolo. Quando l’evento accade, è il compimento della parola. Una volta pronunciata essa, finché non sia compiuta, incombe sulla storia con la sua promessa o la sua minaccia. Ed è proprio in questo legame di parola che annuncia ed eventi che la compiono che Dio si manifesta a Israele come il Dio affidabile cui concedere credibilità, fede. Poiché mediante la sua parola potente Dio manifesta non solo la sua volontà, le sue intenzioni, ma an-che le sue qualità e in fin dei conti se stesso. Narrare le opere di Dio, ricordare la storia che egli provo-ca per il suo popolo, è il modo per far sì che la conoscenza di Dio rimanga viva e venga trasmessa. Per questo il credo di Israele consiste in un racconto e mediante il racconto la fede viene trasmessa di pa-dre in figlio. In tal modo Israele ha vissuto l’esperienza di un rapporto vivo con Dio mediante la sua parola, posta sulle labbra dei profeti. Una parola non solo informativa, ma anche performativa, effica-ce. Una volta pronunciata la parola, infatti, incide nel corso della storia, manifestandosi come forza ge-neratrice di eventi. Per questo “dabar” nell’A.T può indicare non solo la parola, ma anche i fatti che es-sa provoca.

Sulla base di questa esperienza Israele ricomprende tutta la sua storia nel segno della parola poten-te di Dio. A Mosé Dio stesso rivolge la sua parola, ed essa lo mette in grado d’essere il liberatore del suo popolo. Al popolo, mediante Mosé, Dio rivolge la parola che fa di esso il popolo di Dio con cui sta-bilisce un rapporto stabile di alleanza, suggellato dalle “dieci parole”. E sono le dieci parole che fanno di Israele un popolo, e segnatamente un popolo unico tra i popoli. Prima ancora di Mosé, Dio aveva stabilito un rapporto d’amicizia con Abramo, Isacco e Giacobbe, fondando la storia del popolo dell’elezione. Con la sua parola Dio ha creato questo popolo, così come lo nutre e lo guida. In questo quadro la parola viene ipostatizzata, acquista una sua esistenza autonoma, per così dire, e diventa un personaggio che fa parte del supremo consiglio divino, potente esecutrice dei suoi ordini.

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Sotto la provocazione delle cosmogonie dei popoli vicini, Israele sarà portato a riflettere anche sull’opera creatrice di Dio. Dio crea tutto liberamente e con la forza onnipotente della sua parola, così come con la sua parola ha “creato” il suo popolo. Il mondo non è soltanto “natura”, ma anche “creato” e come tale depositario di una parola divina, manifestazione di chi Dio vuole essere per gli uomini. Il creato manifesta la potenza di Dio e diventa parola che gli rende la dovuta lode. La parola, immaginata con una sua esistenza autonoma, è l’esecutrice dei comandi di Dio nell’opera della creazione, così co-me nell’opera di salvezza. Su tale base ogni riflessione umana che cerchi di cogliere il senso profondo delle cose per dedurne delle norme di saggezza per il comportamento è in qualche modo ascolto della parola nascosta di Dio nel creato. I sapienti, senza alcuna esperienza di un carisma profetico, diventa-no ascoltatori della parola di Dio colma di saggezza.

La sapienza divina, come la sua parola, viene immaginata con un’esistenza autonoma, come mem-bro del consiglio divino e a sua volta esecutrice dei suoi comandi. Si stabilisce una stretta parentela tra parola e sapienza di Dio, così che la vera sapienza in Israele è ascoltare Dio che parla. E viene stabi-lita anche una stretta connessione tra Spirito e parola di Dio, sulla base dell’analogia del parlare uma-no, sostenuto dal respiro. La parola di Dio è dunque l’energia spirituale originaria, colma della sapien-za divina, a cui si deve la creazione, compresa quella del popolo di Israele, e in quanto tale è norma e legge sia della creazione che dell’alleanza.

Nel NT Gesù non solo è colui che, più grande di tutti i profeti, pronuncia la parola suprema di Dio, ma è la parola e la sapienza stessa di Dio diventata uomo in mezzo a noi nella potenza dello Spirito. In Gesù il Logos, parola sapiente di Dio, si rende visibile, avvertibile, afferrabile dagli uomini. Nella vi-cenda storica dell’uomo Gesù, Dio stesso si è espresso in maniera insuperabile perché completa e de-finitiva. Il significato del rapporto tra Dio e noi mediante la sua parola giunge così al suo esito definiti-vo, quello di una comunicazione personale che diventa comunione tra Dio e gli uomini, così che negli uomini scorre la vita stessa di Dio mediante il suo Spirito.

Nel nome di Gesù, obbedendo al suo comando, sostenuti dallo Spirito ricevuto dal Signore risorto, gli apostoli pronunciano parole che vengono riconosciute per quello che sono: non mere parole uma-ne, ma il parlare di Dio agli uomini. Essi annunciano il Vangelo della salvezza donata da Dio a tutti co-loro che si affidano alla sua misericordia manifestatasi in Gesù. È come se Dio stesso, se il Signore Ge-sù, esortasse per mezzo delle loro parole. Nella loro predicazione che fa memoria, spiega, custodisce e delimita, applica a nuove situazioni l’unico e multiforme Vangelo, è il Signore stesso che parla, e chi ascolta lui ascolta Dio stesso.

Accogliere nella fede il Vangelo di Gesù, la parola di Dio che è la parola della vita, significa entrare nella salvezza. Perché quella parola non è solo informazione, ma potenza di Dio che rende mondi e che trasforma, che giudica questo mondo. È nello Spirito che i discepoli sono in grado di accogliere e com-prendere la parola di Gesù. E nello Spirito la parola diventa luogo della comunione di vita con Dio, poi-ché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede. Essa è la forza che coagula la comunità di Gesù, poiché ha la potenza di crescere e di diffondersi. In essa è custodito anche il segreto ultimo della sto-ria, che Dio ha posto nella mani del Signore Gesù.

L’omelia, pur nella sua umiltà, va iscritta entro questa grande storia di parole umane che mediano il parlare stesso di Dio al suo popolo.

La parola e il libro

Proprio nel periodo in cui in Israele il carisma profetico va spegnendosi, alcuni decenni dopo il ri-torno dal grande esilio babilonese, nasce l’esigenza e l’idea di fissare per iscritto, in maniera sistemati-ca, la memoria storica, la comprensione teologica, le normative dell’alleanza, il deposito sapienziale e le attese messianiche che erano andate accumulandosi per secoli. Da una parte la cosa viene avvertita come ripiego: poiché non è data la parola vivente di Dio tramite la parola viva dei profeti, si vuole cu-stodire l’eco di quanto Dio ha fatto udire nel passato. Dall’altra la fissazione per iscritto attribuisce alla parola una consistenza istituzionale, una autorevolezza nuova. Scrive giustamente M. LIMBECK:

La disponibilità ad ascoltare coloro che, in qualità di teologi o di profeti, annunciavano la parola di Jahvé, non fu a quanto pare inizialmente molto grande (cfr. 1 Re 19,10; Is 7,1-13; Ger 26; 36s.; Am 7,12-15). Ma questa situazione cambiò radicalmente dopo la distru-zione del primo tempio nel 586 a.C. e dopo la deportazione nell’esilio babilonese. La storia

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aveva legittimato le parole dei profeti, prima disprezzate, come parola di Dio (Dt 18,21s.; Ne 9,30; Ger 23,20; Lam 2,17). Di conseguenza crebbe nel popolo la disponibilità a pren-dere seriamente il messaggio divino risuonato nella storia passata (Ne 1,5-11; 9,6-10; 30; Sal 106). Si cercò di conservare nella maniera più completa possibile anche per il futuro la parola comunicata da Dio nel passato: il Pentateuco trovò la sua forma definitiva; gli ora-coli dei profeti, che in parte erano già stati uniti in raccolte più piccole, furono unificati nei grandi complessi dei libri dei profeti.

Naturalmente la decisione in favore della fede dei padri non era più una cosa ovvia. Le religioni di quei popoli, tra cui molti israeliti furono dapprima costretti a vivere, ma tra cui vissero poi anche volontariamente (2 Re 24s.; Ger 42-44; 1 Mac 15,15-23; Aristea 12s.; Giuseppe, Ant. XII, 3.4), e che in qualità di potenze politiche e economiche esercitavano un influsso e risultavano attraenti in misura sempre più forte anche per gli ebrei viventi nel loro proprio paese (1 Mac 1,11-15; 2 Mac 4,7-20), relativizzarono la fede tradizionale. La decisione in favore del Dio d’Israele doveva essere continuamente legittimata rifacendosi alle decisioni, mediante cui i padri si erano legati, per la loro salvezza, a Jahvé (Gn 17 [P]; Ne 8; Sir 44,1 - 50,24), e confidando nel fatto che Dio avrebbe adempiuto quanto aveva lo-ro promesso (Sal 79; 89; Is 24-27; 65,17-24; Dn 9; Gl 3,1-5).

Dal momento che era chiaramente impossibile vivere in mezzo alle nazioni come “pro-prietà di Jahvé fra tutti i popoli, come un regno di sacerdoti e una nazione santa” (cfr. Es 19,5s.), senza rifarsi continuamente al messaggio di Jahvé, il giudaismo primitivo si abituò sempre più a vedere e a interpretare consapevolmente il presente e il futuro alla luce “del-la legge, dei profeti e degli altri libri dei nostri padri” (Sir, Prologo) (1 Mac 3,48).

In Palestina non ci si spinse certo così avanti come nella diaspora ellenistica, ove si ri-tenne che gli autori degli scritti biblici sarebbero diventati, con esclusione del loro intellet-to umano, “interpreti di Dio, il quale si sarebbe servito dei loro organi per rivelare la sua volontà”. Tuttavia neppure il giudaismo palestinese dubitò mai che nel “libro sacro” (2 Mac 8,23) parlasse lo Spirito Santo stesso. In fondo sia Mosè che i profeti avevano agito e parlato appunto in virtù di questo spirito divino (Nm 11,17; Ez 2,2; 11,5; Os 9,7; Mi 3,8; Zac 7,12).

Anche la Chiesa apostolica ha avvertito il bisogno di mettere per iscritto la narrazione della vicenda

di Gesù e la memoria dei suoi insegnamenti testimoniati dagli apostoli e ha conservato con cura parti-colare scritti degli apostoli e dei loro immediati collaboratori. A questi testi verrà o fin dall’inizio o gradualmente riconosciuta dignità di Scrittura nel senso teologico del termine: scritti contenenti la parola di Dio.

È necessario che riflettiamo sulla differenza tra la parola pronunciata e la parola scritta, poiché ciò

illuminerà il rapporto che c’è e vi deve essere tra Scrittura e predicazione omiletica. La parola parlata dice riferimento all’attualità: qui e ora una persona parla rivolgendosi a degli ascoltatori. La parola è legata fisicamente all’emissione sonora simbolica con la quale chi parla invade, provoca, incide sull’ascoltatore e si attende, qui e ora, una sua reazione. La parola parlata sta al centro del dinamismo di una relazione vivente in atto. La parola scritta invece testimonia una distanza, e dunque una non at-tualità. Più che il soggetto parlante, è l’oggetto parola scritta che viene alla ribalta. Naturalmente anche attraverso lo scritto si stabilisce una relazione interpersonale. Ma in questa relazione chi ha scritto rimane più sullo sfondo, mentre viene in primo piano la parola stessa in quanto scritto e al lettore vie-ne dato il massimo di iniziativa: dipende completamente da lui l’accendersi della relazione e il suo esi-to.

E tuttavia chi ha steso il testo ha dato alla sua parola una consistenza nuova, stabile, solida (“La pa-rola vola, lo scritto rimane!”). Mentre la parola viva entra in un gioco che può vederla indebolirsi e i-nabissarsi - basta che chi ascolta la ignori - la parola scritta conserva una sua solidità irriducibile. In questo senso la parola scritta acquista un protagonismo più vivo: vuole continuare a interessare, a es-serci in mezzo come una realtà con cui continuamente bisogna fare i conti. Essa sembra la forma par-

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ticolarmente adatta ad una parola che debba essere il punto di riferimento istituzionale, il luogo del convegno e del confronto di una comunità.

Nella parola parlata l’atto del parlare è almeno altrettanto importante del contenuto della parola: la presenza e l’atteggiarsi del parlante non viene eclissato dal contenuto della parola ma lo condetermi-na. Ciò soprattutto quando si tratta della parola di un testimone la cui credibilità può rendere la parola che pronuncia degna o non degna di fede. Nella parola scritta ciò che è detto prevale su colui che dice, così che è una parola particolarmente adatta ad un atto verbale che tenda a sciogliere i legami con il soggettivismo, per acquistare la forza di una parola di valore comunitario e persino universale. Tutta-via la parola scritta è viva solo in quanto viene letta, proclamata ed ascoltata. Ed esercita la sua auto-revolezza solo quando viene recepita come parola propria da una comunità. E una comunità l’avverte come propria quando riconosce in essa la parola che esprime in maniera autentica la propria storia, nel suo sorgere e nel suo svilupparsi. Insomma come parola autentica della propria tradizione.

Con tutto ciò hanno a che fare i processi dell’ispirazione. Affermare che le Scritture nascono per i-spirazione dello Spirito Santo (DV 11) significa riconoscere che il processo che ha portato alla stesura dei libri santi è stato guidato da Dio stesso, mediante il suo Spirito. Non nella forma di una mitologica dettatura materiale ma, in analogia con quanto abbiamo detto dei profeti, in un determinante influsso dello Spirito di Dio nello spirito di coloro che sono stati gli attori umani del processo scritturistico, spesso assai complesso. “Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel posses-so delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri au-tori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte. Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, bisogna ritenere, per conse-guenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore, la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle Sacre Scritture” (ibid.). Da notare che quel “per la nostra salvezza” attenua la rigidezza del “senza errore”, che evidentemente non va più interpretato in maniera razionalistica. L’assenza di errore va cercata non nell’esattezza intellettualistica delle propo-sizioni, ma, come abbiamo sottolineato già in precedenza, nella traiettoria della guida verso la salvezza messa in opera da Dio.

E tutto ciò ha a che fare anche con la fissazione del canone, che è l’atto mediante il quale la chiesa postapostolica attribuisce valore di parola di Dio a determinati scritti. Il canone ha le sue radici nella cura che la chiesa apostolica stessa ha posto nel distinguere tra testimonianza apostolica autentica e dottrine fuorvianti: cura della fedeltà oggettiva delle testimonianze fondanti e della loro trasmissione istituzionale. Una cura che rivela la consapevolezza di una missione, di un compito: in essa ricono-sciamo un’impronta della guida dello Spirito (cf. la prospettiva di K. RAHNER riguardo alla fissazione del canone delle Scritture). Può essere interessante, per questa nostra ricerca, ricordare che uno dei criteri per stabilire la canonicità di un testo era il suo uso nella liturgia e la sua citazione nella predica-zione ecclesiale.

La cura apostolica e quella della chiesa subapostolica di cui abbiamo parlato non sono altro che atti della tradizione, entro la quale, e solo entro la quale, le Scritture sono quello per cui sono state conce-pite: luogo di appuntamento con la parola di Dio, o più chiaramente ancora, con il Dio vivente che vuo-le continuare a rivolgere la sua parola al suo popolo. Per questo la Dei Verbum afferma: “Dovendo la Sacra Scrittura essere letta e interpretata con l’aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scrit-ta, per ricavare con esattezza il senso dei sacri testi, si deve badare con non minore diligenza al conte-nuto e alla unità di tutta la Scrittura, tenuto debito conto della viva Tradizione di tutta la Chiesa e dell’analogia della fede” (DV 12).

È attraverso tutto questo processo, che abbiamo fatto intuire, che le Scritture diventano a loro volta

mediazione della parola di Dio. Le Scritture sono Parola di Dio, e come tale vengono venerate nella Chiesa. Ma su questa affermazione, continuamente ripetuta, è necessario fare delle precisazioni. Su come intendere l’affermazione che la Bibbia è la parola di Dio, così scrive R.F. COLLINS:

Le Scritture sono chiamate la parola di Dio. Questa formula tradizionale, apparente-mente semplice, è invece estremamente complessa e polivalente. Alcuni protestanti evan-gelici affermano un’identità quasi fisica tra le Scritture e le parole effettivamente pronun-

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ciate da Dio, respingendo come inadeguato il concetto che le Scritture testimonino la pa-rola di Dio. Altri cristiani sostengono che la Bibbia è parola di Dio, pur affermando che Dio non ha mai comunicato mediante parole (nemmeno parole interiori). Vi sono dei teologi protestanti i quali affermano che la parola di Dio è una realtà dinamica; Gesù è, dunque, preminentemente la parola di Dio (Barth). Le Scritture sono veramente la parola di Dio quando rivivono nella proclamazione e nella predicazione (Bultmann).

Il cardinale C.M. Martini ha aiutato a distinguere diversi significati dell’espressione “parola di Dio”. Fondamentalmente (spec. come concetto trinitario) essa suggerisce l’idea della comunicabilità di Dio. Può dunque rinviare a:

-gli eventi della storia della salvezza perché l’ebraico dabar significa “parola, evento, realtà”;

-il messaggio comunicato dagli inviati da Dio, in special modo i profeti e Gesù; -la persona di Gesù che è il Verbo di Dio (cfr. Gv 1,1); -la predicazione cristiana; -il messaggio di Dio agli uomini in generale; -la Bibbia. Sebbene canonizzata dall’uso secolare, la locuzione “parola di Dio” non si dovrebbe u-

sare per le Scritture senza l’aggiunta di un’ulteriore riflessione ermeneutica. È vero che questa modalità espressiva indica l’origine divina della comunicazione biblica ed esprime la sua realtà e la sua forza. Ciononostante, la “parola di Dio” delle tradizioni ebraica e cri-stiana è radicalmente diversa dagli oracoli divini delle religioni ellenistica e del Vicino O-riente; non ha solamente la funzione di comunicare la verità, ma anche quella di incorag-giare, consolare, provocare, ecc. Poiché le parole contenute nelle Scritture, nella loro real-tà di testo scritto, sono parole umane, l’espressione “parola di Dio” rappresenta necessa-riamente un linguaggio analogico. È necessario mantenere una distanza concettuale tra l’espressione scritturistica e l’autocomunicazione di Dio in sé, anche nel caso dei profeti. Teologicamente causa meno confusione l’affermare che le Scritture testimoniano la parola di Dio.

Possiamo ora comprendere quanto sia importante evitare malintesi su che cosa si deve intendere con l’espressione “parola di Dio”. O. H. PESCH elenca i principali malintesi in proposito:

1. Il fraintendimento linguistico: “Sta scritto...”. Scritte sono solo e sempre le oggettiva-zioni mediatrici della parola di Dio, mai questa in quanto tale

2. Il fraintendimento soggettivistico: la parola di Dio sarebbe ciò che un individuo spe-rimenta e riconosce personalmente e in quanto tale. Se è vero che la parola di Dio è pre-sente solo lì ove essa viene udita e accolta come verità da un soggetto, quindi soggettiva-mente, è pure vero che in tale processo la parola di Dio e la verità rimangono solo se am-bedue sono accolte non solo come verità del soggetto, bensì come verità precedente il soggetto, intersoggettivamente comunicabile, vincolante il soggetto, in breve come verità universale.

3. Il fraintendimento oggettivistico: la parola di Dio sarebbe il ‘contenuto’ permanente, formulabile in ogni tempo in proposizioni, là identificabile e dato così prima della fede. Per quanto sia doveroso sottolineare la coerenza del contenuto nella storia delle oggetti-vazioni della parola di Dio e per quanto, malgrado tutte le fratture della tradizione, vada respinta l’idea di una storia della fede disperdentesi in singole tradizioni del tutto etero-genee - senza per questo pronunciare ancora alcun giudizio circa la natura e il modo di ta-le coesione e circa le possibilità di tradurli in parole-, va pur detto che le oggettivazioni non sono la parola di Dio, bensì la rappresentano nel modo indicato e con le conseguenze descritte.

4. Il fraintendimento esistenzialistico-attualistico: la parola di Dio sarebbe un puro processo fatto di interpellanza e risposta, senza un contenuto oggettivabile, o con un con-tenuto oggettivabile sotto una riserva escatologica sottolineata in maniera così estremisti-ca che le oggettivazioni formulate sarebbero solo l’allusione del tutto disparata all’ineffabile. Il discorso della totale non-oggettivabilità della parola di Dio così come il di-

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scorso della sua piena ineffabilità finisce - visto che anche questa teoria vuol dire qualcosa sulla parola di Dio - per contraddirsi da solo e rende superflua in partenza la questione della verità e della comunicabilità della predicazione.

Predicare il Vangelo oggi

Tutto quanto siamo venuti dicendo ha, evidentemente, un peso determinante per la comprensione della predicazione omiletica. Quel Vangelo che era la parola di Dio sulle labbra di Gesù e più tardi su quelle degli apostoli, ora deve risuonare, e proprio come Vangelo, nella predicazione ecclesiale. Dob-biamo riflettere dunque su che cosa significhi propriamente predicare il Vangelo, partendo dai dati neotestamentari.

La terminologia cristiana primitiva legata alla parola “vangelo” risulta comprensibile nella traccia di una tradizione che si rifà al Deutero e Tritoisaia, e specialmente a Is 61,1 (“Lo Spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto an-nunzio ai miseri…”) e 52,7 (“Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che an-nunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: ‘Regna il tuo Dio’”), in-terpretati in chiave messianica ed escatologica (cfr. al riguardo anche Lc 4,18s; At 10,36.38). Nel pri-mo stadio della tradizione, “vangelo” è la parola che indica come finalmente intrapresa l’azione defini-tiva di salvezza da parte Dio, l’instaurazione del suo regno, e precisamente mediante il Cristo Gesù.

Nella chiesa apostolica, dopo gli eventi pasquali, si verificano degli spostamenti di accento. Il “van-gelo di Dio” è chiaramente collegato con la predicazione missionaria che annuncia Gesù come salvezza definitiva e universale. Il “vangelo” è la buona novità dell’azione compiuta da Dio, che ha agito su Gesù (risurrezione) e lo ha perciò stabilito salvatore escatologico. Ma, e ciò è di capitale importanza, il “van-gelo” non è solo messaggio che notifica l’evento salvifico, ma è esso stesso evento salvifico efficace, in cui la “dynamis” creatrice di Dio dà vita a una nuova creazione, fintanto che un giorno sia compiuto quanto in Cristo è già compiuto. Il discorso del “vangelo” contiene l’azione di Dio in Gesù.

Ma proprio perché l’annuncio del Vangelo contiene l’azione di Dio, esso è un evento che deve di-spiegarsi nello spazio e nel tempo della storia: solo così diventa evento vivo che dona la salvezza. Ciò non si ottiene con la ripetizione letterale delle parole che sono state novità consolante sulle labbra di Gesù e su quelle degli apostoli. La fedeltà richiesta al predicatore del Vangelo deve fare riferimento all’apertura alle intenzioni e all’azione di Dio attuale, qui e ora. Nel parlare di chi annuncia il Vangelo chi ascolta è invitato a conoscere l’azione di Dio che lo salva e ad aprirsi ad essa, e ciò proprio ora, nel presente.

E il presente è il punto di intersezione fra passato e futuro. Di conseguenza il presente va sempre visto come punto di incontro fra tradizione e futuro affiorante. Un radicamento creativo nel proprio passato costituisce il presupposto indispensabile di un nuovo futuro, se il futuro deve essere quello di questa storia: la continuità della tradizione non va lacerata. L’apertura al futuro è indispensabile, a sua volta, perché il passato diventi presente e abbia un senso nel presente: la tradizione rimane se stessa solo se è vivente. La mancata apertura al futuro fa diventare ciò che ci giunge dal passato sorpassato, e quindi senza alcun presente. A sua volta il radicamento nel proprio passato non va identificato con la trasmissione, adattata, di un “deposito di verità”, ma come parola nuova, fedele alla traiettoria della tradizione, provocata da una storia santa che continua.

Predicare il Vangelo presuppone dunque uno sguardo illuminato dalla luce che viene dalla tradi-zione vivente; esso è in grado di discernere l’azione di Dio nel presente, la indica, ne dichiara il senso ed invita a lasciarsi coinvolgere da essa. L’accostamento sapiente e orante ai testi scritturistici, luogo di appuntamento con la luce dello Spirito, fa conoscere l’“economia”, le caratteristiche inconfondibili dell’agire di Dio nella storia. Raccolta tale luce il predicatore la rivolge al presente, per interpretarlo in maniera storico-salvifica. La parola che dovrà predicare gli verrà posta sulle labbra da ciò che i suoi occhi scorgeranno della storia santa di Dio che continua, qui e ora. È così che la predicazione, per la grazia dello Spirito, diventa evento sacramentale, parole umane che contengono il parlare di Dio, nello Spirito, oggi.

Alla luce di quanto siamo venuti dicendo è possibile precisare meglio che cosa si debba intendere con “predicare il Vangelo” (seguendo H. WALDENFELS):

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1. Predicare il Vangelo non significa in primo luogo indottrinare e comunicare pertanto una dottrina. Per quanto si debbano trasmettere anche tradizioni dottrinali e per quanto anche Paolo lo abbia fatto (cfr. 1Cor 15, 3-5), non possiamo tuttavia oggettivare il “vange-lo” sino a farne una “cosa”.

2. Predicare il “vangelo” significa attualizzare un evento, in cui il regno di Dio si afferma in questo mondo. Una tradizione puramente conservatrice, preoccupata unicamente di conservare e salvaguardare il patrimonio dottrinale oggettivo, contraddice perciò l’essenza del “vangelo”, che è profondamente una dinamica, “dynamis”.

3. Il “vangelo” risponde debitamente al proprio orientamento escatologico solo qualora metta continuamente in relazione la tradizione, da conservare, con il mondo, che deve es-sere conquistato dal “vangelo” come evento e mediante esso ricreato.

4. Proprio perché il “vangelo” non attualizza solo retrospettivamente l’opera salvifica di Cristo, ma è proletticamente anticipazione e inaugurazione del compimento e della nuova creazione escatologica e quindi nient’altro che rivelazione creatrice di questo evento esca-tologico, il predicatore non può voler disporre autonomamente di esso; al contrario, egli deve vivere nella consapevolezza di portare in maniera profetica la parola di Dio. Altri-menti esiste il pericolo che la predicazione degeneri in propaganda e il “vangelo” in “ideo-logia”.

L’omelia va capita in questo ampio contesto di mediazioni umane del parlare di Dio entro la storia

della salvezza, di cui rappresenta un’umile ma preziosa continuazione, e precisamente quella conti-nuazione che fa tornare parola viva le Scritture, così che il Parlante possa comunicare con i suoi allea-ti, oggi.

ESSERE UN BUON PREDICATORE

Per essere predicatori eccezionali, oltre ad una eccellente preparazione, si richiedono anche doti innate non comuni. Per diventare buoni predicatori, invece, basta essere disposti a dedicare il tempo e l’impegno necessari per coltivare adeguatamente le proprie risorse. Qui di seguito il lettore troverà un elenco essenziale delle qualità e abilità indispensabili ad un predicatore per svolgere il suo ministero con frutto e con soddisfazione.

L’omelia ideale – va subito precisato – non esiste, anche perché per una medesima celebrazione si possono ipotizzare diverse proposte, e tutte a loro modo buone. E dentro ogni omelia si potrebbero proporre molte varianti, ma tra di esse bisogna fare delle scelte: e ogni scelta è anche una rinuncia. Bi-sogna accettare che ogni omelia abbia i suoi limiti. In ogni caso, una volta che l’impegno c’è stato, i ri-sultati vanno affidati a Dio con fiducia e animo sereno, anche se l’azione imprevedibile del suo Spirito non deve diventare una giustificazione per la eventuale pigrizia del predicatore. Alla fine nessuno di noi è in grado di misurare completamente i frutti della propria predicazione: quel seme che è la Parola ha una sua fecondità autonoma, come Gesù ha insegnato (cfr. Mc 4, 26-28).

Ma ecco l’elenco sopra accennato.

1. L’amore a Dio, al Signore Gesù, alla Parola del Regno

La prima qualità che deve animare il predicatore cristiano è l’amore a Dio, al Signore Gesù, alla Pa-

rola animata dallo Spirito. Un amore nutrito da una relazione intensa, mediante la preghiera individu-ale e le celebrazioni di cui l’Eucaristia è il culmine e la fonte. La stessa cura della regia liturgica, del re-sto – lungi dal distogliere chi presiede da un rapporto intenso con Dio – può essere vissuta come com-ponente, e non secondaria, dell’attenzione rivolta a Lui. Questo amore per Dio è fondamentale: troppo spesso, infatti, ci si imbatte in omelie dallo scarso spessore religioso. Nonostante l’argomento, non si avverte quel “timore” e quell’ardore che rivelano una fede autentica e un servizio generoso reso a Dio e al suo popolo.

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L’amore a Dio e al Signore Gesù, ispiratore di un fedele servizio della Parola, deve far cogliere quanto sia prezioso il Vangelo del Regno. Il predicatore deve aver visto con i suoi occhi come la gente abbia necessità di questo annuncio, poiché senza di esso corre il rischio di perdersi. Deve aver speri-mentato la Parola come una spada a doppio taglio, che «penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12), e perciò può ricondurre ad autenticità chi si è smarrito. Ha assistito più volte alla sua azione generatrice di cordialità e intesa, bontà e comunione, generosità e solidarietà, liberazione e smascheramento. La percepisce in sé e deposta nel cuore di altri, come una medicina che sottrae al vuoto interiore, che ri-sparmia dal cadere nella disperazione: «Quelli che sono stati una volta illuminati, che hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e le meraviglie del mondo futuro» (Eb 6,4-5). Insomma, il predicatore, per amore a Dio, a Gesù e alla gente, si impegna a custodire e servire la Parola con piena consapevolezza che in essa c’è l’antidoto che può far fronte a mali mortali: «Sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case, scongiurando Giudei e Greci di conver-tirsi a Dio e di credere nel Signore nostro Gesù» (At 20,20-21).

2. L’amore alla comunità e la volontà di renderle un buon servizio

L’amore alla comunità e il desiderio di svolgere a suo favore un buon servizio sono una logica con-

seguenza di quanto siamo venuti dicendo. Questo amore nasce dall’attenzione e dall’ascolto accorato delle persone che si rivolgono al pastore, che a lui spalancano una finestra sulle loro sofferenze, sui lo-ro problemi e fatiche. Chi ha ricevuto la vocazione e la grazia di rappresentare il Signore Gesù, deve provare la sua stessa “compassione” verso la gente (cfr. Mt 9,36; 14,14). La volontà di offrire un aiuto, una luce, un conforto deve vibrare nella predicazione. É una questione di cuore grande, grande anche nella bontà: «Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza» (Rm 10,2).

Su questo versante si richiede ai preti una particolare vigilanza. Il celibato è un carisma, apporta-tore di doni, ma li espone ad alcuni rischi. Le relazioni familiari, infatti, se vissute positivamente, sca-vano profondità immense nel cuore e costituiscono un continuo esercizio per superare l’egocentrismo e sviluppare sentimenti nobili e squisiti. Chi vive nel celibato non ha la stessa esperienza e quindi deve dedicare una cura particolare a che il proprio cuore cresca in generosità e bontà. Sia pure in modi di-versi, il ministero offre infinite provocazioni a tale riguardo. E sono innumerevoli gli esempi di preti dotati di un cuore grande: essi sono la prova che ciò si può realizzare anche nella condizione del celi-bato.

La propensione ad ascoltare è una delle prime e più autentiche espressioni di un cuore buono. Va-le anche per i predicatore il detto: «Il Creatore ha dato all’uomo due orecchi e una bocca, perché ascol-ti il doppio di quanto parla». Il prete non ha solo il compito di insegnare (per sacra autorità), quasi non avesse nulla da imparare dagli altri. Fratello tra fratelli, deve avere occhi e orecchi ben aperti verso co-loro al cui servizio è stato posto, aperti anche verso il cuore, ricordando quanto afferma S. Paolo: «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede voi siete già saldi» (2Cor 1,24). Un ascolto attento, empatico, umile – immune da ogni prota-gonismo- e perciò anche lucido, animato da una cordiale volontà di capire e, se necessario e possibile, di offrire una qualche risposta, un qualche aiuto, una parola sinceramente buona. Se colui che predica è un ministro non solo della Parola, ma anche della comunità, accetta di essere un servo che sa ascol-tare, per offrire un servizio che corrisponda alle necessità concrete, reali, nella forma più opportuna ed efficace.

3. La competenza e la professionalità necessarie

L’omelia ha gli stessi requisiti di qualsiasi comunicazione sensata: ecco perché bisogna non solo

avere qualcosa da comunicare ma anche saperlo comunicare in maniera corretta ed efficace. È una questione di competenza quanto ai contenuti e di professionalità riguardo alle modalità comunicative -

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senza mai dimenticare che, come avremo modo di sottolineare, la maniera di comunicare è essa stessa portatrice di messaggi, e dunque contenuto della comunicazione stessa.

E dunque anzitutto competenza. Assicurata dagli studi teologici istituzionali -tra essi segnatamen-te la conoscenza della Sacra Scrittura e della Liturgia-, e coltivata con un aggiornamento continuo –la formazione permanente e l’autoformazione. Ma non con un mero apprendimento di stampo scolastico. La competenza di cui qui parliamo deve essere il frutto di un costante impegno di appropriazione per-sonale, di interiorizzazione di quanto apprendiamo da letture e lezioni. Deve tradursi in una sorta di dialogo con se stessi, di “autocomunicazione”, in cui affiorano domande personalissime: «Nella mia esistenza che significato, che peso e valore ha quanto ho appreso? Quali conseguenze comporta? Quali significati illumina o svela?». È solo da questa appropriazione personale, infatti, che è resa possibile ogni “inculturazione” dei contenuti della fede che permette di farli sentire come vivi e interessanti. Nel ridire a noi stessi le nostre nuove conoscenze attinte dalla formazione permanente, ci capita di dover utilizzare altre parole, altri simboli, altre immagini, ricorrere ad altri esempi più aderenti alla nostra situazione esistenziale. Tutto ciò sarà un aiuto indispensabile per trovare le vie per ridire ciò che si è interiorizzato agli altri.

Oltre alla competenza teologica è indispensabile un confronto serio con la cultura e la situazione sociale in cui si opera. Karl Barth raccomandava ai predicatori “Bibbia e giornale” (oggi “giornale” si-gnifica tutta la galassia dei “media”, senza trascurare la narrativa e il cinema). Naturalmente si preste-rà particolare attenzione a tutto ciò che ha attinenza con il Vangelo: la sensibilità religiosa diffusa, l’evolversi dell’ethos, la visione dell’uomo, il mutare della scala dei valori e, naturalmente, il discerni-mento operato dalla comunità ecclesiale. Può essere di grande utilità anche coltivare l’amicizia con persone competenti e avvertite in diversi campi riguardanti la nostra società, chiedendo un loro pare-re.

Oltre alla competenza che riguarda i contenuti, è necessaria, anche la professionalità nel comuni-care. Faceva giustamente notare Theodor Adorno: «Non c’è pensiero che sia immune dalla sua comu-nicazione, e basta formularlo nella falsa sede e in un senso equivocabile per minare la sua verità». Pur-troppo, nel curriculum di formazione dei futuri predicatori, troppo spesso mancano quel bagaglio di avvertenze e quell’addestramento un tempo forniti dall’insegnamento della retorica o, come si diceva, dell’oratoria sacra, anche se in questi ultimissimi anni si assiste ad una nuova attenzione per i pro-blemi posti dalla comunicazione in pastorale. Si aggiunga poi che sempre, in tale percorso formativo seminaristico, almeno da noi in Italia, prevale di gran lunga l’insegnamento frontale e teorico, mentre è vistosamente carente la formazione metodologica e pratica, l’addestramento o apprendistato.

Proprio questa situazione ci induce ad elencare una serie di qualità, attinenti all’aspetto comunica-tivo, necessarie ad un buon predicatore.

a. Conoscenza dell’argomento

Se si vuol comunicare efficacemente parlando in pubblico, bisogna conoscere molto bene l’argomento che si esporrà: la cosa va da sé. Bisogna averci pensato, riflettuto, essersi documentati… Ma non si tratta semplicemente di ciò che si ottiene stando con diligenza sopra un libro per il tempo necessario. Non basta, infatti, aver capito concetti e logica. È necessario saper valutare dove andrà ad inserirsi il nostro messaggio nell’insieme dell’esistenza degli ascoltatori, quali relazioni stabilirà con le loro convinzioni, a quali condizioni potrà trovare uno spazio per radicarsi in mezzo ad esse. Significa saggiarne il valore, cioè valutare quale sarà l’utilità, l’importanza, il peso che per essi potrà avere quanto partirà da noi e li raggiungerà.

Un suggerimento pratico. Una volta individuato il tema che si vuol trattare nell’omelia, il

suo scopo e, in linea di massima, anche le modalità con cui si darà forma al messaggio, l’omileta deve provare a ridire il tutto a se stesso, come se parlasse ad un altro e contempora-neamente come se ascoltasse da un altro. Trova l’omelia interessante, coinvolgente, utile? Su-bito dopo dovrà immaginare cinque o sei persone che partecipano abitualmente all’assemblea liturgica nella quale prenderà la parola: anch’esse hanno motivo di trovare altrettanto interes-sante quanto dirà?

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Un secondo suggerimento. Si raggiunge una buona conoscenza di un argomento quando si è in grado di poterlo ridire non in una sola, ma in parecchie maniere, anche diverse dai testi u-tilizzati per la preparazione. Per questo l’omileta deve chiedersi: So vedere gli argomenti cor-relati, così da poter disporre di buoni esempi esplicativi? So coniugare quanto dirò con le si-tuazioni concrete di vita di coloro che mi ascolteranno? Sono in grado di prevedere le loro o-biezioni e resistenze, così da intervenire con risposte ed argomentazioni convincenti?

Non si comunica in modo efficace se non si appare autorevoli a coloro che ci ascoltano, an-zitutto per la conoscenza affidabile di quanto si espone. S. Paolo s’è posto il problema della propria credibilità. Si è reso conto che essa, tra l’altro, dipendeva anche dalle sue credenziali: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scrit-ture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (1Cor 15,3-7).

b. Sicurezza di sé e forza interiore

Da non confondere con la presunzione e la sicumera, da non opporre ad una giusta dose di umiltà

e di rispetto, la sicurezza di sé è paragonabile a quello che è una buona illuminazione per un quadro: ne permette una visione complessiva, evidenziando gli elementi fondamentali, così che se ne apprezza tutta la bellezza e la forza. L’omileta deve illuminare quanto dice con un atteggiamento positivo verso se stesso, interiore dunque anzitutto, ma che sarà ben percepibile anche per gli ascoltatori, soprattut-to attraverso il canale paraverbale e non verbale della comunicazione.

Perché ciò avvenga, è necessario essere consapevoli dei propri stati d’animo negativi, se vi sono, e aver appreso ad affrontarli e integrarli in positivo. Il che non avviene sempre facilmente. Si pensi, per esempio, alla situazione psicologica in cui può venirsi a trovare un prete la notte della Veglia Pasquale e ancor più al mattino seguente. I numerosi impegni della Quaresima, la Settimana Santa con le sue ce-lebrazioni, le lunghe ore passate in confessionale ed i contrattempi che non mancano mai, possono portarlo ad infilare camice e casula come se fossero delle corazze e a salire all’altare, prima, e al pulpi-to, poi, con un umore nero e i nervi a fior di pelle. Se egli non ne prende coscienza e non cerca di rea-girvi, integrando questi stati d’animo in positivo, essi inevitabilmente troveranno il modo di manife-starsi durante la celebrazione e l’omelia. La lealtà verso il proprio ministero, la consapevolezza di qua-le sia l’importanza della celebrazione, l’amore sincero per Dio e il cuore colmo di gratitudine nei con-fronti di Gesù, il suo Signore crocifisso e risorto, nonché il desiderio di essere di una qualche utilità ai partecipanti, tutto ciò può aiutarlo a ritrovare lo stato d’animo giusto. Può fare dell’esperienza della stanchezza il luogo dove può prendere coscienza di quanto si stia spendendo per amore del Signore e della gente, e provarne giusto orgoglio.

Ma si pensi, ed è un altro esempio, al prete che si rende conto di salire abitualmente all’ambone con stati d’animo negativi: eccessiva timidezza, frustrazioni e senso di inutilità, percezione dell’uditorio come lontano, indifferente o addirittura ostile…. Tutto questo non è privo di conseguenze per il messaggio che offrirà al suo uditorio, sia riguardo i contenuti che riguardo soprattutto le modali-tà comunicative. I danni saranno rilevanti. Sarà necessario mettere in atto un cammino interiore, ma-gari con l’aiuto di qualcuno, per giungere interpretare quanto gli accade e a reagirvi. L’esperienza di-mostra che non c’è ombra che no segnali qualcosa di consistente che, debitamente trattato, si rivelerà un’opportunità. Se la timidezza viene elaborata in positivo, può diventare umiltà e dolcezza e diventa-re un fattore di buona riuscita della comunicazione.

Alla sicurezza di sé contribuisce in maniera determinante il vivere positivamente il proprio compi-to. Il che significa trovarlo importante, tale da giustificare le fatiche e i sacrifici che richiede, e anche bello, degno di essere vissuto con passione e slancio, perché capace di dar senso alla propria ed all’altrui esistenza.

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In S. Paolo si trovano splendide esemplificazioni di tutto ciò. Basti una citazione per tutte: «Investiti di questo ministero per la misericordia che ci è stata usata, non ci perdiamo d’animo; al contrario, rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti a ogni coscienza, al cospetto di Dio. Animati tuttavia da quello stesso spirito di fede di cui sta scritto: “Ho creduto, perciò ho parlato”, anche noi crediamo e perciò parliamo» (2Cor 4,1-13).

c. Entusiasmo

L’omileta sta trattando un argomento che conosce bene, che lo ha convinto ed interessato, di cui

ha percepito su di sé l’utilità. Inoltre vive bene il suo ministero ed avverte di star facendo qualcosa di molto utile per le persone a cui parla. Inevitabilmente il tono generale del suo discorso sarà caloroso e contagioso. L’entusiasmo, discreto o esplosivo che sia, sarà il risultato normale delle due qualità sopra descritte: competenza e sicurezza di sé.

Per vivere e trasmettere entusiasmo va aggiunto un terzo e importante elemento: provare

vera stima e simpatia per le persone a cui si indirizza la predica, e avvertire gioia al pensiero che si sta facendo loro del bene. A questo proposito un suggerimento pratico: perché non uti-lizzare, sia in fase di preparazione che di esecuzione dell’omelia, l’impulso positivo che ci viene da quelle persone che ci sono vicine, ci ascoltano con vero interesse e gratitudine – ma senza servilismi – ci vogliono bene con sincerità e lealtà? Senza ignorare coloro che nutrono altri at-teggiamenti, ma evitando di dare a tutto ciò un rilievo esagerato. In fin dei conti la nostra esi-stenza dobbiamo viverla sotto il giudizio di Dio e non degli uomini. Lasciarsi abbattere per qualche giudizio negativo, magari non del tutto motivato, significa perdere opportunità pre-ziose. È la vecchia storia del bicchiere mezzo pieno, che il pessimista considera mezzo vuoto. Niente di meglio per perdere l’entusiasmo… e per dimenticare che abbiamo fatto mille volte l’esperienza che davvero la Parola ha una fecondità sorprendente, nascosta.

Su questo tema si possono trovare abbondanti esemplificazioni in S. Paolo. Basta percorre-re sia gli inizi che le conclusioni delle lettere, cercando di cogliere i sentimenti che vi si espri-mono: «La nostra bocca vi ha parlato francamente, Corinzi, e il nostro cuore si è tutto aperto per voi. Non siete davvero allo stretto in noi; è nei vostri cuori invece che siete allo stretto. Io parlo come a figli: rendeteci il contraccambio, aprite anche voi il vostro cuore!» (2Cor 6,11-13).

d. Una preparazione adeguata

C’è una persuasione condivisa da coloro che studiano la predicazione corrente: se le omelie man-cano di efficacia, una causa non secondaria è la preparazione inadeguata di chi prende la parola. Il calo numerico dei sacerdoti e la complessità della pastorale contemporanea sottopongono i preti ad un impegno spesso massacrante. A farne le spese, purtroppo, è non raramente la confezione dell’omelia. Ecco perché è opportuno stabilire delle priorità nella gestione del proprio tempo e consacrarne a que-sto impegno una parte adeguata. Solo così si giungerà ad ottenere un buon messaggio, fedele al conte-sto liturgico e utile alle necessità della comunità. Serve tempo per dotare di una struttura chiara e coe-rente il proprio discorso, dividendolo in parti e curandone i passaggi e il ritmo, cercando le modalità che servono all’efficacia nel raggiungere l’obiettivo che ci si propone.

Un esempio dagli scritti di S. Paolo: «Voi sapete come non mi sono mai sottratto a ciò che pote-

va essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi in pubblico e nelle vostre case... Per questo dichiaro solennemente oggi davanti a voi che io sono senza colpa riguardo a coloro che si perdes-sero, perché non mi sono sottratto al compito di annunziarvi tutta la volontà di Dio. Per questo vi-gilate, ricordando che per tre anni, notte e giorno, io non ho cessato di esortare fra le lacrime cia-scuno di voi» (At 20,20ss).

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e. Un messaggio efficace

Un messaggio sarà efficace se saprà sostenere l’attenzione trasmettendo nuove conoscenze, inte-ressanti per gli ascoltatori. Interessanti soprattutto perché utili, e utili perché offrono ad essi delle op-portunità, non da ultima quella di venir cambiati in meglio. Ma non basta avere un contenuto dottrina-le da indirizzare agli ascoltatori. La forma che gli si dà, infatti, non è semplice rivestimento, ma con-corre a definire il messaggio stesso. Limitarsi ad affermazioni teoriche, o al contrario accostarvi un e-sempio tratto dall’esperienza concreta degli ascoltatori non è la stessa cosa e non ottiene un medesi-mo effetto. Nel secondo caso si produce maggiore chiarezza e concretezza, una probabilità più grande di lasciare un segno nella memoria e, sullo sfondo, si fa vivere l’esperienza della prossimità di un Dio che ci è Padre e di una Parola familiare, “per noi uomini e per la nostra salvezza”.

Consideriamo cosa accade, sul piano comunicativo, quando Gesù afferma: «Il regno dei cieli si può paragonare al lievito, che una donna ha preso e impastato con tre misure di farina perché tutta si fer-menti» (Mt 13,33). Chi ascolta proverà stupore per il coraggio con cui quest’uomo osa parlare di Dio e del suo Regno, per la conoscenza che pretende di averne e che gli permette di comporre un paragone. Ma il paragone trovato evoca un’operazione feriale, quotidiana, comunissima: allora chi ascolta avver-te che Dio e il suo Regno gli sono vicini, a ridosso, entrano nella sua casa. Sentendo Gesù parlare di ben tre misure di farina, la non comune quantità gli farà sgranare gli occhi e la meraviglia diventerà anche curiosità, desiderio di saperne di più. Tutto questo è già messaggio, che non è riducibile al solo conte-nuto dottrinale. Non sarebbe stata la stessa cosa se Gesù avesse detto: “Come il granello di senape e il lievito, il regno ha inizi modesti ma un grande sviluppo”: è così che riassume la Bibbia di Gerusalemme in nota al passo citato. La modalità espressiva, la parabola, concorre a intessere il messaggio insieme al contenuto, che risulta più ricco di quello riassumibile in forma concettuale.

Senza trascurare poi che il messaggio non è costituito solo dalle parole, ma anche da se-

gnali paraverbali (il tono e il volume della voce, il ritmo, le pause…) e non verbali (la gestualità, l’espressione del volto, la direzione dello sguardo…). Sempre rimanendo sulla frase pronuncia-ta da Gesù, e immaginando modalità paraverbali adatte: “Il regno dei cieli” va pronunciato con tono abbastanza alto e lentamente, e magari con la mano desta alzata; dopo il “si può parago-nare” ci vuole una breve pausa che accentui l’effetto-stupore della metafora del “lievito” che segue; mentre si pronuncia “una donna” lo sguardo si poserà con una certa insistenza su qual-che donna che è lì ad ascoltare (e che perciò penserà: “tutto ciò mi riguarda personalmente!”); “tre misure di farina” andrà pronunciato calcando il “tre” e prolungando “misure”, e allargando le braccia a rendere quasi visiva la grande quantità di farina e di pasta che ne viene fuori; le mani si muoveranno come ad impastare.

f. Capacità d’ascolto.

Quando si parla di comunicazione, e la si vuol distinguere dalla semplice informazione, si intende

includere nell’evento comunicativo, come sua parte integrante, il feedback (in italiano: “retroazione”), che è la reazione al messaggio da parte degli ascoltatori. Anche il feedback può essere verbale, para-verbale, oppure soltanto non verbale. Quando ascoltiamo la radio o guardiamo la televisione, ciò che avviene non è, propriamente parlando, comunicazione ma informazione, poiché coloro che ci parlano non vengono raggiunti da alcuna nostra reazione, almeno in forma diretta e immediata ( si noti che c’è, tuttavia, la misurazione del gradimento del pubblico con lo share!). Ben diversa è la situazione di due persone che comunicano intensamente tra loro, in un fitto botta e risposta: parole, battute, silenzi, ri-satine, sguardi, gesti, spostamenti...

L’attenzione e la reazione al feedback è di grande importanza perché avvenga un vero scambio, poiché è questo a rendere quanto avviene una comunicazione. Ne consegue che un oratore che voglia comunicare in modo incisivo deve essere dotato di buone capacità di ascolto e di attenzione, per co-gliere le reazioni degli ascoltatori. Durante un’omelia coloro che ascoltano non possono intervenire direttamente in forma verbale, ma lanciano evidenti segnali non verbali (espressione attenta o distrat-ta, contatto visivo prolungato o sguardi impazienti all’orologio o spersi nel vuoto…). Il predicatore,

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ponendo attenzione a tali segnali, è in grado di valutare se il contatto con il suo pubblico è ancora ben aperto e se quanto dice ne incontra l’attenzione. Se, ad esempio, nelle sue intenzioni la battuta che ha pronunciato era destinata a far sorridere, ma la maggioranza dei destinatari rimane inespressiva, si chiederà immediatamente che cosa non sta funzionando. Il capire la situazione dei destinatari e il re-agirvi in maniera appropriata genera nei presenti la sensazione di essere tenuti ben presenti e presi sul serio, così che anch’essi siano disposti a dedicare attenzione al messaggio loro diretto.

L’omileta ha bisogno di un ascolto “informativo”, necessario ad avere una buona conoscenza delle caratteristiche di coloro che lo ascolteranno, e di un ascolto “critico”, così da potersi fare un quadro sufficientemente preciso di quale è la loro situazione rispetto al messaggio che intende esporre. Non è la stessa cosa avere davanti delle persone che già condividono quanto si espone, oppure che provano resistenza ad accettarlo: il compito dell’omileta esige, per i due casi, un approccio diverso. L’ascolto deve essere anche “empatico”, così da percepire rapidamente le reazioni degli ascoltatori, per poterle assumere e rispondervi. Più la sequenza proposta – reazione – reazione alla reazione si prolunga e più intensa e coinvolgente sarà la comunicazione.

Per questo il predicatore deve saper prendere coscienza anche i propri difetti di ascolto. Non è ra-ro, infatti, tra noi preti l’ascolto “selettivo”, che avviene quando si presta attenzione solo a ciò ci che sta a cuore e interessa per il ministero, e non a tutta la comunicazione che ci raggiunge. Il rischio è ac-centuato, in qualche modo, dal quadro della nostra esistenza (celibato, ruolo pubblico, appartenenza a tempo pieno alla sfera del “sacro”…), così eterogeneo rispetto a coloro a cui predichiamo. In un volan-tino parrocchiale, raccolto dalla bacheca di una chiesa di Roma, si poteva leggere la seguente afferma-zione: “I funerali sono una bella occasione per radunare la comunità parrocchiale”. Una simile frase evidenzia la quasi totale mancanza di partecipazione alle vicende altrui, a causa di un certo narcisismo da parte di chi, presiedendo la celebrazione, la vede come una occasione per lui gratificante. In questo caso l’attenzione non è solo “selettiva”, ma anche “egocentrica”. Ci si avvicina alla soglia del “non a-scolto” o dello “pseudoascolto”, che avviene quando non è l’altro che ci sta a cuore, ma il corso delle nostre preoccupazioni, dei nostri pensieri.

La comunicazione è una delle forme di apertura alla comunione, e contiene una qualche de-

clinazione dell’amore. E l’attenzione accorata, coinvolta, seria verso gli interlocutori è proprio indispensabile per una comunicazione che voglia mediare il Vangelo dell’amore di Dio in Gesù.

S. Paolo raccomanda: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi» (Rm 12,15-16).

g. Coscienza positiva di sé

Riprendiamo qui alcuni accenni già fatti in precedenza. La coscienza di sé è il modo in cui vediamo e giudichiamo noi stessi. Ad un buon oratore è richiesta una valutazione positiva di sé: solo così egli potrà aderire con cordialità a ciò che sta facendo, vivendolo con entusiasmo e calma, con decisione e senso di sicurezza. Tutto ciò giungerà a coloro che lo ascoltano soprattutto attraverso il paraverbale, il tono e il volume della voce e il ritmo delle frasi, e il non verbale, le espressioni del volto, la gestualità e gli eventuali spostamenti. Trasmetterà una percezione di affidabilità che rende gradevole e interes-sante l’ascolto. Al contrario, una valutazione negativa di sé costringerà il predicatore a comportarsi come se recitasse una parte, un ruolo che male gli si adatta, a dare l’impressione che egli è il primo a non condividere ciò che tenta di dire agli altri, a essere sfiduciato riguardo all’utilità di ciò che sta fa-cendo. L’ascolto diventerà penoso, e perciò improbabile, e la persuasività scadente.

La coscienza di sé è un fenomeno ricco e complesso, che dipende da molti fattori. Uno di essi è co-stituito dal feedback di coloro che ascoltano, da ciò che ci manifestano attraverso i messaggi non ver-bali. Una persona matura, che ha una buona auto-accettazione e ben motivata, evita di cadere in balia del giudizio altrui sino al punto da danneggiare l’autostima. Ne tiene conto naturalmente, ma non è condizionata dal giudizio che qui ed ora gli ascoltatori sembrano esprimere, perché può essere occa-sionale, non fondato, dovuto a fattori estranei al valore del predicatore e di ciò che sta dicendo. Se mai

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l’attenzione verrà spostata sulla comunicazione in atto: sulla strategia da adottare per far fronte a quella che sembra un’ostilità preconcetta.

Il predicatore, – lo abbiamo detto più volte – consapevole dell’importanza del suo ministero, parla sostenuto dalla coscienza di essersi ben preparato e di poter offrire un buon messaggio, che contiene il profumo della Parola di Dio, meditata. È convinto di cercare con sincerità il bene di coloro a cui si ri-volge. Eventuali insuccessi, dovuti anche a qualche limite personale, non diventano allora motivo di scoraggiamento, ma stimolo alla preparazione e allo studio e contribuiscono a far maturare la sua e-sperienza.

h. Integrità morale

Quanto stiamo per dire non è un omaggio, dovuto, alla sensibilità etica cristiana. Studi di stampo

dichiaratamente laico, che affrontano il tema della comunicazione efficace, insistono anch’essi su que-sta qualità. L’inautenticità morale dell’oratore si manifesta in modo inevitabile, soprattutto con il pa-raverbale e il non verbale, anche se egli si è ben allenato a mascherare i suoi veri sentimenti. Chi ascol-ta, infatti, non bada solo alle parole, ma concepisce, in base alle sue impressioni, un giudizio di massi-ma sulla persona che gli parla. Ed è in forza di tale giudizio che si aprirà o si chiuderà al messaggio che gli viene inviato. Si rivelano così indispensabili l’onestà, la coerenza esistenziale e la professionalità, che permettono a chi parla di avere la coscienza “a posto”. In tal modo può accadere che anche quanti non aderiscono al messaggio provino sentimenti di rispetto e stima per chi si rivolge a loro.

Tutto questo vale, a maggior ragione, per il predicatore del Vangelo. Egli propone un messaggio che ha la pretesa di coinvolgere tutta l’esistenza degli ascoltatori. Ecco perché un’impressione di inau-tenticità svigorisce e rende poco credibile ciò che si va esponendo con le labbra. Gesù non esita a de-nunciare l’incoerenza dei maestri della legge: quella che hanno in mano è una “chiave” che finisce col chiudere al popolo le porte di accesso al Regno (cfr. Mt 23, 13). Naturalmente vale l’osservazione del card. Federigo a d. Abbondio: povera la predicazione cristiana se il predicatore dovesse limitarsi a dire ciò che di fatto mette in pratica. Ma l’impegno sincero e leale nel seguire la via indicata da Gesù, l’umile riconoscimento dei propri errori e limiti accompagnato dal proposito di farvi fronte per combatterli, tutto ciò è indispensabile.

Vale la pena rileggere a questo punto le belle espressioni contenute in Il presbitero, mae-

stro della parola, ministro dei sacramenti, un documento della Congregazione per il Clero, che abbiamo già citato:

«Esiste un rapporto essenziale tra orazione personale e predicazione. Dalla meditazione della Parola di Dio nella preghiera personale dovrà anche sgorgare spontaneamente il primato della " testimonianza della vita, che fa scoprire la potenza dell’amore di Dio e rende persuasiva la sua parola ". Frutto anche della preghiera personale è una predicazione che diventa incisiva non soltanto in virtù della sua coerenza speculativa, ma perché nata da un cuore sincero e o-rante, consapevole che il compito del ministro non è di insegnare una propria sapienza, bensì la Parola di Dio e di invitare tutti insistentemente alla conversione e alla santità. La predica-zione dei ministri di Cristo richiede dunque, perché diventi efficace, che sia saldamente fonda-ta sul loro spirito di preghiera filiale: "sit orator, antequam dictor". Nella vita personale di pre-ghiera del sacerdote trovano sostegno e impulso la coscienza della propria ministerialità, il senso vocazionale della propria vita, la sua fede viva e apostolica. Qui si attinge, giorno dopo giorno, anche lo zelo per l’evangelizzazione. Questa, divenuta convinzione personale, si tradu-ce in predicazione persuasiva, coerente e convincente. In questo senso, la recita della Liturgia delle Ore non riguarda solo la pietà personale, né si esaurisce come orazione pubblica della Chiesa; essa risulta anche di grande utilità pastorale, perché diventa occasione privilegiata di crescita nella familiarità con la dottrina biblica, patristica, teologica e magisteriale, prima inte-riorizzata e poi riversata sul Popolo di Dio nella predicazione».

Ancora una testimonianza di S. Paolo: «Tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla su-blimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. E questo perché io possa conoscere lui, la

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potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte. Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezio-ne; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del pas-sato e proteso verso il futuro, corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ri-cevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,8ss).

4. E lo Spirito Santo, in tutto ciò?

Ecco un’obiezione che ci si sente rivolgere quando, parlando ai preti, si insiste sulla necessità di essere comunicatori competenti e professionali. Un eccesso di attenzione agli accorgimenti “umani” non finisce per mettere in ombra le risorse “divine” da cui il ministero della Parola è sostenuto? Non è meglio affidarsi umilmente all’azione misteriosa dello Spirito Santo? Se stessimo discutendo di cristo-logia, potremmo ravvisare in un simile interrogativo una impostazione “docetistica”, condannata dal Concilio di Calcedonia: al posto della “e” congiuntiva tra l’umano e il divino che quel Concilio conside-ra come sostanza stessa dell’ortodossia, viene posta una “o” disgiuntiva, tendenza presente in tutte le eresie cristologiche: o il nostro impegno professionale o l’opera dello Spirito.

Ora l’attenzione all’“umano” non significa automaticamente trascurare l’apporto divino, dello Spi-rito. Al contrario, è proprio lo Spirito che tende ad “incarnare” la Parola in una dimensione umana in-tegra e squisita. L’azione dello Spirito Santo non va invocata, dunque, per giustificare la pigrizia di chi non cerca di raggiungere una buona “professionalità” nel comunicare. Tra le altre azioni dello Spirito c’è certamente quella che ispira nella coscienza dei predicatori di mettere ogni cura “umana” per ren-dere efficace la loro predicazione.

Il documento della Congregazione per il Clero sopra citato raccomanda giudiziosamente:

«Risulta essere di notevole importanza per il sacerdote la cura anche degli aspetti formali della predicazione. Viviamo nell’era dell’informazione e della rapida comunicazione, in cui siamo tutti abituati ad ascoltare e a vedere apprezzati professionisti della televisione e della radio. In un certo modo, il sacerdote, che pure è un particolare comunicatore sociale, entra in pacifica concorrenza con essi dinanzi ai fedeli quando trasmette un messaggio, il quale ri-chiede di essere presentato in maniera decisamente attraente. Oltre a saper sfruttare con competenza e spirito apostolico i “nuovi pulpiti”, che sono i mezzi di comunicazione, il sa-cerdote deve, soprattutto, fare in modo che il suo messaggio sia all’altezza della Parola che predica. I professionisti dei mezzi audiovisivi si preparano bene per compiere il loro lavoro; non sarebbe certo esagerato che i maestri della Parola si occupassero con intelligente e pa-ziente studio a migliorare la qualità “professionale” di questo aspetto del ministero. Oggi, ad esempio, in vari ambiti universitari e culturali sta ritornando l’interesse per la retorica; oc-corre risvegliarlo anche tra i sacerdoti, unitamente all’umile e nobilmente dignitoso modo di presentarsi e di porsi».

Su questo punto è necessario insistere: l’azione dello Spirito si manifesta anche nell’impegno dili-

gente volto ad ottenere una buona professionalità, necessaria incarnazione di quella carità pastorale, suscitata nel cuore del pastore d’anime dallo stesso Spirito. E per quanto i frutti della sua azione ri-mangano “misteriosi”, ciò non significa che il predicatore deve abbandonare la predicazione al caso e all’impreparazione, falsamente chiamata “ispirazione del momento”: questo non ha nulla a che vedere con il “mistero”, e cioè il piano di Dio che ci è stato limpidamente rivelato mediante il Signore Gesù. Se mai sono proprio i frutti insperati dell’azione dello Spirito nei cuori degli ascoltatori a sostenere la fi-ducia del predicatore: fiducia che lo motiverà a prepararsi, a dedicarsi con passione ed impegno al mi-nistero della Parola.

Vale il saggio consiglio di S. Ignazio di Loyola: mentre prepari il tuo intervento metti tutta la cura di cui sei capace, come se Dio non esistesse e tutto dipendesse da ciò che tu farai; quando hai fatto tut-to, ma proprio tutto il necessario, sta in pace, come se nulla dipendesse da te e tutto, invece, dall’azioen di Dio.

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S. Paolo scrive: «Anch’io, o fratelli, quando sono venuto tra voi, non mi sono presentato ad

annunziarvi la testimonianza di Dio con sublimità di parola o di sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e questi crocifisso. Io venni in mezzo a voi in debolezza e con molto timore e trepidazione; e la mia parola e il mio messaggio non si basa-rono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua po-tenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,1-5).

Non si tratta della rinuncia sdegnosa di ogni cura retorica nella predicazione. Le sue lettere manife-stano tutt’altro: grande competenza e cura nel dar forma ai messaggio e nella ricerca della trasparenza e dell’ efficacia persuasiva.

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IL LAVORO DEL PREDICATORE

È stato merito di John Langshaw Austin aver esplorato l’aspetto “performativo” del linguaggio, quello che interviene sulla realtà determinandone dei cambiamenti. L’esempio più chiaro in ambito cristiano è costituito dalle formule sacramentali che, unitamente all’invocazione e all’azione dello Spi-rito Santo, producono ciò che le parole dicono. Di ogni atto linguistico, però, si deve dire che non è solo trasmissione di contenuti da una mente ad un’altra e non ha solo il profilo di ciò che è vero oppure fal-so ma, nella maggior parte dei casi, modifica la realtà. Chi conosce la Bibbia non si stupirà di questo: in essa l’efficacia della parola e la sua capacità di cambiare la realtà sono costantemente affermate .

Un esempio particolarmente impressionante delle capacità performative del linguaggio

lo si ebbe durante i funerali di Vittorio Bachelet, ucciso dalle Brigate Rosse il 12 febbraio 1980.

Il figlio Giovanni, durante la celebrazione eucaristica per le esequie, pronunciò queste parole durante la preghiera dei fedeli:

«Preghiamo per i nostri governanti, per i giudici, i poliziotti e per quanti oggi, nelle di-verse responsabilità – nella società, nel Parlamento, nelle strade – continuano in prima fila la battaglia della democrazia con coraggio e amore. Preghiamo anche per quelli che hanno colpito il mio papà, perché senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre labbra ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri».

Da quel momento la questione del perdono si è imposta a livello pubblico in Italia e gli stessi media, anche se talora in modo discutibile, la ripropongono dopo un fatto di sangue. Quell’intenzione di preghiera ha provocato una modifica permanente della nostra cultura.

Il compito dell’omileta ci appare in questa prospettiva un lavoro che non ha di mira esclusivamente

l’istruzione, la trasmissione di conoscenze, ma si propone di modificare la realtà su cui interviene, i destinatari a cui il suo discorso è rivolto. Naturalmente non si può ignorare la varietà delle funzioni che spettano alla parola della predicazione , e dunque non le si ridurrà solo a quella performativa. Ma essa va tenuta ben presente.

A questo proposito, mentre si prepara l’omelia, sarà indispensabile fissare fin dall’inizio, come a-vremo modo di insistere più avanti, lo scopo che si vuole ottenere. Il lavoro dell’omelia consisterà nel trovare la maniera migliore per raggiungere lo scopo. Quest’ultimo consisterà sempre in una modifica che si vorrà provocare in coloro che ascoltano.

Ecco un elenco di obiettivi che un’omelia, o un passaggio di essa, può proporsi, e per i quali si pos-

sono trovare facilmente dei riscontri biblici (ci si può limitare anche a S. Paolo): - Chiarire, insegnare, correggere, interrogare, argomentare, comprovare, affermare, rispondere, far

riflettere. - Descrivere, esporre, spiegare, illustrare, narrare, notare. - Chiedere, incaricare, suggerire, raccomandare, consigliare. - Invitare, attrarre, esprimere desideri, incoraggiare, raccomandare. - Spingere a fare, dare ordine di, esigere, proibire di, permettere di, sollecitare, esortare, provocare. - Lodare, confermare, approvare, ringraziare, autorizzare. - Congratularsi, rallegrare, confortare, rassicurare. - Accusare, censurare, condannare, scusare, perdonare. - Promettere, testimoniare, garantire. - …e altro ancora! Quali sono, allora, i compiti fondamentali dell’omelia? Sulla base dei documenti della riforma litur-

gica del Vaticano II, essi possono essere ricondotti sostanzialmente a tre: l’insegnamento, l’esortazione e la mistagogia. Ciascuno di essi prevede, a sua volta, una pluralità di forme.

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1. L’insegnamento Intendiamo questo termine nella sua accezione più vasta, cioè come la trasmissione mediante la

parola di informazioni, conoscenze e significati. Può assumere tre modalità: l’annuncio, l’insegnamento dottrinale, la profezia.

a. L’annuncio

Per comprendere che cosa sia l’annuncio può essere illuminante tener conto di una coraggiosa af-

fermazione contenuta nell’enciclica Deus caritas est di Benedetto XVI, al n. 1: “All’inizio dell’essere cri-stiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Compito della predicazio-ne non è solo quello di presentare un’etica e di esortare ad osservarla o di esporre la dottrina e le con-vinzioni proprie della visione cristiana della realtà. Essa intende anzitutto mediare un avvenimento, rendere possibile l’incontro con Dio, il Padre, attraverso Gesù.

L’annuncio indica il “qui ed ora”, il “momento favorevole” (kairós) della grazia, da intendere come possibilità di incontro e di comunione con il Dio che ci raggiunge in Gesù. Particolarmente chiaro l’episodio, avvenuto agli inizi della predicazione di Gesù, riferito da Luca: “Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messag-gio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore”. Poi arrotolò il volume, lo consegnò all’inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui. Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi» (Lc 4, 16-21).

Gesù non fornisce una spiegazione dottrinale al testo di Isaia, né cerca di ricavarvi delle indicazioni di carattere etico. Annuncia che sta accadendo un evento, comprensibile proprio a partire dal brano profetico proclamato. Centro del suo discorso è quell’“oggi si è adempiuta questa Scrittura”, con cui vuole aprire gli occhi dei presenti su un avvenimento, di cui egli è in grado di dichiarare il senso.

Uno dei compiti dell’omelia è proprio questo: attirare l’attenzione sugli eventi carichi della presen-za di Dio e di Gesù. L’Ordo Lectionum Missae, in un passo già citato nel primo capitolo, afferma: “L’omelia nella celebrazione della Messa ha lo scopo di far sì che la proclamazione della parola di Dio diventi, insieme con la liturgia eucaristica, quasi un annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza, ossia nel mistero di Cristo”.

Le “mirabili opere di Dio” sono certamente quelle testimoniate dalle Scritture, ma non solo esse. Si tratta anche di ciò che Dio compie qui ed ora, nelle azioni sacramentali, ma anche negli eventi storico-salvifici in cui la comunità è coinvolta. L’omelia dovrebbe dunque contenere, sia pure in forme diversi-ficate, l’annuncio di un “qui ed ora” come opportunità di grazia.

b. L’insegnamento dottrinale

Il cristiano aderisce ad una rivelazione che viene da Dio ed è trasmessa e resa disponibile da una

comunità organizzata, la Chiesa, mediante formulazioni dottrinali. Senza mai dimenticare che essa ha la sua origine nell’incontro con il Dio vivente e in una storia condotta in sua compagnia. È l’esperienza di questa incontro e di questa comunione storica che produce una comprensione di Dio, di Gesù, del senso dell’esistenza umana, della storia, del creato, che caratterizza i cristiani e ne contrassegna la di-versità. Trasmettere la dottrina senza mediare l’incontro e il rapporto con il Dio vivente non corri-sponde all’intenzione del Rivelante; ridurre l’esistenza cristiana alla sola esperienza esistenziale dell’incontro con Dio la priverebbe della sua dimensione pubblica e storica e porterebbe a smarrire l’orizzonte del regno di Dio, che era il cuore della predicazione di Gesù. Proprio perché l’esistenza cri-stiana ha una dimensione pubblica, e perciò storica, è necessaria una codificazione dottrinale dei con-tenuti della rivelazione.

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Ed ecco perché fin dall’inizio, una delle condizioni per entrare a far parte della Chiesa mediante il battesimo era l’adesione ad un simbolo, durante una celebrazione liturgica attualizzante, con quell’atto complesso che è l’adesione di fede. La fides qua, che consiste nell’abbandonarsi ad una rela-zione colma di fiducia e di obbedienza verso Dio; e la fides quae, l’adesione all’insegna-mento pubblico proposto dalla tradizione, nella Chiesa.

Da questo punto di vista l’omelia svolge allora un compito fondamentale: comunicare la dottrina della fede, accrescerne e approfondirne la conoscenza, difenderla dalle interpretazioni fuorvianti, mo-strarne le implicazioni e le conseguenze, farne percepire la bellezza. Si capisce così quanto sia signifi-cativa la presenza della “cattedra”e dell’ambone tra gli arredi che caratterizzano il luogo dell’assemblea dei cristiani. E appaiono esemplari gli scritti paolini, nei quali non manca mai una parte dottrinale ed una parenetica.

Ecco un esempio di predicazione dottrinale, tratta da una lettera indirizzata da Paolo alla

comunità cristiana di Corinto. Egli fa presente la necessità di prendere le distanze dalle concezioni ellenistiche, che escludevano la risurrezione dei morti. Il cristiano vive dell’esperienza dell’incontro con Gesù risorto. Escludere la risurrezione dei morti sarebbe un tradimento dell’esperienza cristiana fondante:

«Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risusci-tato! Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimo-niato che egli ha risuscitato Cristo, mentre non lo ha risuscitato, se è vero che i morti non ri-sorgono. Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risor-to, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti. Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. Poiché se a causa di un uomo venne la morte, a causa di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1Cor 12,15-22).

Ma perché l’insegnamento dottrinale è un compito sempre aperto? Perché non basta consegnare

una volta per sempre formule dottrinali permanenti ben codificate? Lo fa capire quello che viene chiamato “circolo ermeneutico”. I contenuti della fede cristiana, infatti, non derivano semplicemente dai testi sacri, ma dalla loro interpretazione, a servizio di una relazione con Dio e di una storia santa che sono viventi, aperte nonn solo verso il passato, ma anche al presente e al futuro. Se la risposta dot-trinale agli interrogativi posti all’esistenza cristiana va cercata in un continuo scrutare le Scritture, le domande per interpellarle sgorgano dalla collocazione entro il flusso storico. Di qui il celebre detto di Gregorio Magno: “Scriptura crescit cum legente” . L’insegnamento rimane, dunque, un compito che non può essere esaurito dalla lettura di testi fissati una volta per tutte; esso ha bisogno della parola vi-vente, e la predicazione ne è una forma particolarmente rilevante.

Tra i compiti di insegnamento dell’omelia v’è anche quello di introdurre i fedeli ad una compren-sione sempre più profonda della Bibbia, rendendo familiare il suo linguaggio, le sue immagini, i suoi racconti. Solo così essi possano giungere ad avvertire le Scritture non solo come il loro passato, ma anche come il luogo dell’appuntamento con Dio nel loro presente. La predicazione patristica, da que-sto punto di vista, rimane esemplare, sia per l’attenzione al testo sacro che per la inculturazione dei suoi contenuti.

c. La profezia.

La profezia non consiste tanto nella predizione del futuro, come un persistente fraintendimento ri-

tiene, quanto piuttosto in un giudizio da portare sul presente e sulla sua traiettoria storica (e solo da questa prospettiva tratta anche del futuro) . Tale giudizio è frutto di un discernimento, condotto alla luce della parola di Dio e della sua volontà in essa manifestata. Il profeta, fedele alla rivelazione giunta

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fino a lui, scruta il presente e lo giudica dal punto di vista del rapporto con Dio. Ne dichiara il senso e, se è il caso, anche l’esito che potrebbe avere nel futuro.

Nelle Lettere di S. Paolo il dono e l’esercizio della profezia, intesa proprio come un discernimento, è tenuto in gran conto: «Ricercate la carità. Aspirate pure anche ai doni dello Spirito, soprattutto alla profezia» (1Cor 14,1; cfr. anche 11,4; 12,7-11…). In tempi più recenti in un documento conciliare, la Gaudium et spes, ritroviamo un’espressione che rimanda a questo tema: «segni dei tempi» . La fede porta a ravvisare in alcuni eventi qualificati, compresi alla luce delle Scritture, dei segnali della pre-senza di Dio che agisce nella storia. In questo consiste lo sguardo profetico.

L’omelia deve farsi carico anche di questo compito, con tutta la cautela ma anche la parresia che ciò comporta. Ed esempi di predicazione profetica sono disseminati in tutta la storia della Chiesa e non sono certo assenti ai nostri giorni. Si pensi alla predicazione di mons. Tonino Bello e di mons. Oscar Romero, per fare solo un paio di nomi; ma anche agli interventi di Giovanni Paolo II e del card. Carlo Maria Martini . Quest’ultimo afferma: «[occorre] quasi una specie di “ira comunicativa”, che, di fronte ad una certa situazione, mi fa dire: “Questo è ciò che bisogna dire adesso”; cioè bisogna che il dire ab-bia una certa necessità: non soltanto “è bene dire questo”, “è giusto dire questo”, ma “è necessario”. E questa necessità nasce, appunto, dal discernimento dei segni dei tempi, che, tra le mille cose possibili, me ne fa scegliere due o tre che rispondono ad una necessità grave del momento».

2. L’esortazione Se nella cultura ellenistica l’uomo ideale è il sapiente, nella Bibbia, invece, è colui che fa la volontà

di Dio . Ad ogni deriva gnostica del cristianesimo, che tende a ridurlo a pura attività mentale e spiri-tuale, si oppone con forza l’insegnamento di Gesù. «Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7,21), egli afferma, e racconta subito dopo la parabola delle due case, una costruita sulla sabbia e l’altra sulla roccia. Il cri-stianesimo è una “via” e chiede una coerenza di comportamento. Del resto il mandato del Risorto è chiaro: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20).

L’omelia deve aver cura di questo essenziale aspetto della vita dei discepoli di Gesù. Se ci si duole di uno scadimento della predicazione in forme moralistiche, più frequente nel passato ma non assente neppure oggi, non minore preoccupazione suscita una certa afasia etica, che lascia libero campo al sentimentalismo e non osa affrontare temi etici rilevanti. La chiamata alla fede è sempre vocazione ad un’alleanza e ad una missione: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che co-sa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che so-no nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt5, 13-16) .

Chi prende la parola nell’assemblea liturgica ha allora il compito di far percepire il legame inscin-dibile che c’è tra l’iniziativa di Dio verso di noi, il dono della sua grazia annunciato come Vangelo, e la trasformazione interiore e il comportamento che ne derivano. «Siate santi, poiché io, il Signore, Dio vostro, sono santo» – si trova scritto nel Levitico (19,2). E Gesù esorta: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Il precetto non assume dunque la figura dell’imposizione, ma appare come la possibilità di una vita nuova offerta dalla grazia; non per questo è meno impegna-tivo (cfr. Mt 7,17).

L’omileta ha anche il compito di applicare alle circostanze concrete i grandi valori evangelici: in ciò si realizza un aspetto essenziale del ministero “pastorale”. Non è sempre facile passare dagli orizzonti dei grandi valori, alle norme etiche concrete e, soprattutto, alla loro saggia applicazione a circostanze mutevoli, complesse e singolari. Oltre allo studio e alla meditazione personale, l’omileta dovrà essere aperto al dialogo nella comunità in cui presta servizio, per giungere a formulazioni equilibrate e cor-rette.

In ogni caso è sempre il legame con il dono di Dio e la sua fecondità nel presente che devono essere messi in risalto: l’indicazione della norma dovrà sempre apparire come dono e promessa, non come

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ingiunzione immotivata. La predicazione morale, perciò, non deve ridursi a trasmettere norme e pre-cetti, ma deve assumersi il compito dell’accompagnamento, del sostegno e dell’incoraggiamento, do-nando ai destinatari anche motivazioni e conforto. É quanto notiamo, del resto, negli scritti apostolici. Naturalmente non potrà mancare anche il rimprovero e la coraggiosa denuncia delle incoerenze, nel caso che vi siano serie, pubbliche e diffuse infedeltà al Vangelo. Le “Lettere alle Chiese” del Libro dell’Apocalisse (cap. 2) contengono impressionanti esempi in merito, così come la predicazione patri-stica e quella popolare medioevale e moderna. Ma a restare in primo piano, comunque, deve essere l’offerta della grazia da parte di Dio, il suo perdono paziente e misericordioso, la sua iniziativa fedele.

3. La mistagogia Come abbiamo già ricordato più volte, l’omelia è parte dell’intera celebrazione, non una breve con-

ferenza spirituale a se stante. La sua natura e i suoi compiti sono definiti dal rapporto con le letture proclamate e con l’intero contesto celebrativo. Il suo legame non solo con le letture proclamate ma con l’intero contesto celebrativo definisce la sua natura e i suoi compiti. In particolare essa deve contribui-re ad aprire l’anima alla grazia del sacramento e le menti e i cuori ad una partecipazione consapevole e viva ai riti e al loro simbolismo.

Obiettivo dell’omelia sarà dunque quello di provocare una apertura di fede perché si verifichi una fruttuosa recezione del sacramento . Si tratta di far passare la fede da stato latente ad atteggiamento cosciente e vissuto. O, con altro linguaggio, di favorire la consapevolezza che si sta vivendo un incon-tro con Dio e l’apertura grata e docile alla comunione con Lui . Ma l’omelia avrà anche il compito di far comprendere e gustare la ricchezza dei simboli e delle azioni rituali, al fine di ottenere una partecipa-zione piena alla celebrazione da parte di tutti.

La predicazione mistagogica dei Padri è un esempio che non può essere dimenticato, e al quale va riconosciuta una rinnovata attualità, dato che non è raro che alle celebrazioni partecipino persone che risultano impreparate a comprendere la dinamica liturgica e che, perciò, vanno aiutate.

Un esempio molto bello tratto dalla V Catechesi mistagogica di Cirillo di Gerusalemme: «Il diacono dice ad alta voce: “Riconoscetevi l’un l’altro e baciatevi a vicenda”. Non cre-

dere che quel bacio sia pari a quello che ci si dà tra amici in piazza. Non è un bacio di tal sor-ta: fonde le anime e promette l’oblio di ogni offesa. Questo bacio è dunque segno che le a-nime sono unite e hanno deciso di dimenticare ogni oltraggio. Per questo Cristo disse: Se of-fri il tuo dono all’altare e ivi ti ricordi che il tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì il tuo dono all’altare, e va’ prima a riconciliarti con tuo fratello; poi torna e offri il tuo dono (Mt 5,23-24). Il bacio dunque è segno di riconciliazione, e perciò è santo, come in un altro passo esclama san Paolo, dicendo: Salutatevi l’un l’altro con il bacio santo (1Cor 16,20); e Pietro: Salutatevi l’un l’altro col bacio dell’amore (1Pt 5,14).

Poi il sacerdote esclama: “In alto i cuori!”. Veramente infatti in quest’ora terribile biso-gna avere il cuore in alto, presso Dio, e non in basso sulla terra, tra gli affari terreni. Con for-za, dunque, il sacerdote comanda di allontanare ogni preoccupazione economica, ogni solle-citudine domestica e di avere il cuore in alto, presso Dio amico degli uomini. Voi rispondete: “L’abbiamo, l’abbiamo presso il Signore”, e con queste parole date il vostro assenso. Nessu-no sia presente da dire con la bocca: “Lo abbiamo presso il Signore”, ma abbia la mente oc-cupata dalle preoccupazioni quotidiane. Sempre dovremmo ricordarci di Dio, ma se per la debolezza umana ciò ci è impossibile, almeno in quest’ora dobbiamo farlo con ogni impe-gno.

Poi il sacerdote dice: “Rendiamo grazie al Signore”. Veramente dobbiamo rendergli grazie perché, pur essendo indegni, egli ci ha chiamato a tanta grazia; perché pur essendogli nemici ci ha donato la sua riconciliazione, perché ci ha ritenuti degni dello spirito di ado-zione. Voi rispondete: “É degno e giusto”. Quando ringraziamo, compiamo un’azione degna e giusta: Dio non solo per giustizia, ma al di sopra della giustizia ci ha beneficati e ci ha reso degni di tanti beni. […].

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Poi il sacerdote dice: “Le cose sante ai santi”. Cose sante sono le offerte, che hanno ac-colto la venuta dello Spirito Santo. E santi siete voi, degni dello Spirito Santo. Le cose sante dunque convengono ai santi. Voi soggiungete: “Uno il Santo, uno il Signore Gesù Cristo”. Ve-ramente uno è il santo, santo per natura; noi invece siamo santi, non per natura, ma per partecipazione, per l’esercizio delle opere buone, per la preghiera.

In seguito udite il salmista invitarvi, con un canto divino, alla partecipazione dei divini misteri, dicendo: “Gustate e vedete che buono è il Signore!” (Sal 33,9). Non rimettete il giu-dizio al vostro gusto corporeo: no, ma alla fede incrollabile. I partecipanti vengono invitati infatti a gustare non pane e vino, ma il corpo e il sangue del Cristo celati nel simbolo.

Udendo dunque l’invito, non avvicinarti con le palme delle mani spalancate o con le di-ta disgiunte, ma fa’ della sinistra un trono alla destra che deve ricevere il re; ricevi il corpo del Cristo nel cavo della mano e rispondi: «Amen». Con grande attenzione santifica i tuoi oc-chi al contatto del sacro corpo, e poi assumilo, badando che nulla ne vada perduto. Se lo permettessi, sarebbe come se andasse perduta qualcuna delle tue membra. Dimmi: se qual-cuno ti desse della polvere d’oro, non la terresti con tutta diligenza, attento che neppure un poco te ne cada e tu ne soffra il danno? E non presterai molta più attenzione perché non ti cada neppure una briciola di questo pane, molto più prezioso dell’oro e delle gemme?» .

L’omelia non si sostituisce ad un percorso catechistico di iniziazione alla partecipazione alle litur-

gie, ma coglie l’opportunità offerta dal contesto celebrativo per mantenere viva la comprensione ai simboli e la partecipazione ai riti. Dopo la riforma liturgica sono previste, a questo scopo, anche delle monizioni: esse, tuttavia, devono essere brevi (non superare normalmente le tre frasi) e di stile poeti-co o evocativo, perché «una liturgia infarcita di didascalie, di monizioni, di istruzioni senza fine rischia di diventare insopportabile» . All’omelia è dato un respiro più ampio da utilizzare anche per compiti mistagogici.

All’omelia, in ogni caso, spetta il compito di impedire la caduta delle celebrazioni nel ritualismo a causa della loro ripetitività (un proverbio ammonisce: “adsueta vilescunt”). Per raggiungere questo scopo è opportuno, a livello di regia liturgica, assicurare un equilibrio tra la fedeltà al programma ri-tuale ed una creatività saggia, e tuttavia coraggiosa . Ma, ripetiamo, l’omelia ha delle possibilità di spiegazione ed esortazione che vanno utilizzate. In un programma annuale di predicazione bisogne-rebbe aver cura che, di volta in volta, l’uno o l’altro aspetto simbolico o rituale delle celebrazioni venga citato e nuovamente messo in risalto. In certe situazioni, poi, non può mancare in essa una denuncia chiara contro il formalismo e l’ipocrisia, che si manifestano nell’incoerenza di giudizi e comportamen-ti.

Impressionante, nella sua irruenza, quanto si legge nel primo capitolo del Libro del pro-

feta Isaia: «Udite la parola del Signore, voi capi di Sodoma; ascoltate la dottrina del nostro Dio, po-

polo di Gomorra! “Che m’importa dei vostri sacrifici senza numero?” dice il Signore. “Sono sazio degli olocausti di montoni e del grasso di giovenchi; il sangue di tori e di agnelli e di capri io non lo gradisco. Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili, l’incenso è un abominio per me; noviluni, sabati, assemblee sacre, non posso sopportare delitto e solennità. I vostri noviluni e le vostre feste io detesto, sono per me un peso; sono stanco di sopportarli. Quando stende-te le mani, io allontano gli occhi da voi. Anche se moltiplicate le preghiere, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, togliete il male delle vostre azioni dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”» (Is 1,10-17).

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PROCEDURA PER PREPARARE L’OMELIA

É consigliabile non aspettare il giorno che precede celebrazione per preparare l’omelia, e ciò per almeno tre ragioni. La prima: possono sopraggiungere degli imprevisti che toglierebbero il tempo e la concentrazione necessari per la preparazione. La seconda: può capitare di avere una giornata di aridi-tà e di scarsa creatività e se si ha solo quella giornata a disposizione la preparazione sarà penosa e i risultati scadenti. La terza e più importante: un’omelia deve essere ben interiorizzata dal predicatore, e ciò esige riflessione, meditazione, preghiera e perciò un arco di tempo adeguato. Forse è bene non iniziare il lunedì, quando si è ancora sotto l’impressione dell’omelia domenicale, ma già il martedì do-vrebbe far posto almeno ad un primo contatto con le letture bibliche.

Non è detto che tutta la preparazione dell’omelia debba avvenire a tavolino. Se si segue il nostro consiglio, di iniziare cioè già il martedì con una prima lettura e uno studio preliminare delle letture bi-bliche, l’ideazione dell’omelia avverrà anche mentre si svolgono le varie attività e nei tempi morti: ciò è utile perché favorirà da una parte la creatività e dall’altra il contatto diretto con la concretezza della situazione pastorale. A scopo didattico qui immaginiamo che la preparazione dell’omelia avvenga a tavolino, e indichiamo una procedura che può apparire complessa ma che, una volta fatta propria e di-ventata abitudine, faciliterà la preparazione e favorirà buoni risultati

1. Strumenti da tenere a disposizione

a. Il Lezionario e la Bibbia Sul tavolo ci sarà certamente il Lezionario, con le letture bibliche che verranno proclamate. Si deve

tener conto, infatti, di come concretamente risulta una pericope una volta che è stata tolta dal contesto biblico di appartenenza e, talvolta, dal taglio di frasi che il compilatore ha operato. Entrambe queste operazioni hanno delle conseguenze per il significato del testo: sono veri e propri interventi interpre-tativi, con cui il predicatore dovrà misurarsi.

Non è la stessa cosa leggere le beatitudini in Matteo a partire dal primo versetto del capito-

lo quinto e terminare al versetto dodicesimo o iniziare dagli ultimi tre versetti del capitolo quarto e continuare fino al versetto sedicesimo del quinto capitolo.

Nel primo caso, separate dal contesto narrativo, le beatitudini assumeranno un significato sapienziale, di saggezza universale. Nel secondo caso, inserite nella tensione di un contesto storico-salvifico, avranno il senso di precise indicazioni date ai discepoli di Gesù, chiamati ad essere luce e sale, a favore di folle cariche di sofferenze, in vista della loro liberazione.

Non è la stessa cosa leggere la cosiddetta “parabola del figliol prodigo” senza i primi tre versetti del capitolo quindicesimo di Luca e interrompendo la lettura prima del ritorno del fra-tello maggiore dai campi, o leggerla invece nel contesto completo del capitolo quindicesimo.

Se per l’utilità pastorale, e con il senso di responsabilità che ciò comporta, l’omileta ritiene di dover fare riferimento ad una versione ampliata della lettura, con una lieve correzione del taglio della pericope, allora sarà necessario che il testo proclamato sia proprio quello a cui l’omileta si riferirà nella sua predica.

Il lezionario contiene non solo le letture, ma anche, in corsivo, delle didascalie che risultano neces-

sarie per comprendere le ragioni che hanno guidato il compilatore nelle sue scelte, e per individuare il messaggio centrale di ciascuna lettura e il possibile coordinamento delle letture tra loro.

Naturalmente accanto al lezionario vi sarà la Bibbia, che permetterà all’omileta di collocare le pe-ricopi nel loro contesto, cosa che è indispensabile per una loro corretta comprensione. Nel corso dell’omelia, però, egli dovrà evitare un eccesso di rimandi al contesto dal momento che gli ascoltatori non hanno avuto modo di averne una conoscenza previa.

Opportuno sarà l’aiuto offerto dal lavoro di buoni esegeti, reperibile in commentari o in riviste. In-fatti «non è solo legittimo, ma indispensabile cercare di definire il significato preciso dei testi come sono stati composti dai loro autori significato che è chiamato ‘letterale’».

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Suggeriamo di tenere a portata di mano anche un Dizionario Biblico o di Teologia Biblica. Man mano che lo studio delle letture progredisce emergeranno dei temi: andare a leggere la voce corri-spondente permetterà di averne una comprensione adeguata. E se ciò diventa una buona abitudine la familiarità dell’omileta con le Scritture ne guadagnerà motevolmente.

b. Il Messale Sul nostro tavolo dovrà esserci anche il Messale. Le celebrazione, infatti, va concepita come un in-

sieme di cui l’omelia fa parte: la preparazione dell’omelia non può avvenire che nel contesto della pre-parazione dell’intera celebrazione, compresi ovviamente i testi eucologici e il programma rituale del Messale.

Il Messale attuale, e in ciò sta una differenza decisiva nei confronti dei precedenti, richiede esplici-tamente una serie di decisioni di regia liturgica: la scelta dei testi eucologici (l’orazione colletta, l’atto penitenziale, la professione di fede, il prefazio e l’intera preghiera eucaristica…), le diverse modalità rituali (ad es., per l’atto penitenziale, per la venerazione dell’Evangeliario…), la composizione di testi (la preghiera dei fedeli, le monizioni…).

Con le scelte operate, che dovrà essere in armonia sia con il contesti liturgico più ampio sia con il tema delle letture bibliche che si vorrà privilegiare, la celebrazione assumerà una particolare configu-razione, di cui l’omelia dovrà tener conto. Per questo le decisioni che riguardano la regia liturgica van-no prese in stretta connessione con quelle che riguardano la composizione dell’omelia.

Accanto al Messale si troverà anche il repertorio dei canti liturgici che l’assemblea è in grado di eseguire. Una volta inseriti nel processo celebrativo tali canti saranno rivestiti di dignità liturgica. La loro scelta, basata sulla qualità dei testi e della musica, dovrà tener conto di questa loro collocazione.

c. Il Catechismo “maggiore” Consigliamo di porre tra gli strumenti a disposizione anche il Catechismo “maggiore” della Chiesa

che è in Italia, La Verità vi farà liberi, per la catechesi con gli adulti. Questo testo, a differenza degli altri che lo precedono, offre un’ esposizione completa e organica della fede, garantita dalla vigilanza dei Ve-scovi. E l’omileta, nella sua predicazione, non a caso riservata ad un ministro ordinato, è costituito te-stimone dell’insegnamento ufficiale della Chiesa. La sua predica, dunque, non è il luogo in cui esporre dottrine singolari, sulla base di pareri individuali, come invece può legittimamente avvenire in una conferenza, durante una lezione o in una pubblicazione.

Poiché quello che chiamiamo Catechismo “maggiore” rappresenta una sintesi autorevole della fe-de, sotto la responsabilità dei Vescovi e con un linguaggio integrato nella cultura del nostro Paese, può costituire uno strumento valido per chi prende la parola. Non per trasformare l’omelia in una lezione di catechesi, ma perché, una volta individuato il tema, egli possa verificare come è esposto in questo testo. Non sarà necessario riprenderlo alla lettera, ma basterà tenerne conto per avere un riferimento ed un orientamento sulla esposizione dei contenuti della fede ecclesiale corrente.

Più in generale l’omileta dovrà ricordare che nel luogo in cui predica la fede c’era già, e da lungo tempo, prima che egli vi giungesse come pastore, e che la tradizione della fede è destinata a continuare anche dopo che egli non vi opererà più. La preoccupazione di integrare la sua predicazione con la sto-ria concreta della fede della comunità dovrebbe guidarne le scelte. Come ha un contesto liturgico, così l’omelia ha anche un contesto pastorale, teologico e storico. Già altrove abbiamo notato che il signifi-cato della predica è quello che si forma nella mente di coloro che ascoltano. Esso dipende dalla realiz-zazione concreta operata dal predicatore, ma anche dalla “enciclopedia” conservata nella memoria dell’uditorio. Chi ascolta questa predica è probabile che contemporaneamente stia ascoltando, attra-verso ciò che è depositato nella sua memoria, molte altre prediche. Per il predicatore conoscere la sto-ria della fede e la prassi della comunità a cui predica è molto importante.

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d. Strumenti per la conoscenza del contesto pastorale Le ultime riflessioni fanno comprendere come sia necessario per il predicatore avere una perce-

zione chiara della situazione pastorale e culturale nella quale vivono le persone a cui si rivolge. Esi-stono pubblicazioni, a volte frutto di accurate indagini socio-religiose, che cercano di cogliere ed in-terpretare il vissuto religioso attuale. Ma anche i giornali descrivono ed esprimono pareri sulla condi-zione religiosa e i suoi contesti. Più in generale, un’attenzione appassionata, animata da simpatia ver-so ciò che succede alla gente, permetterà di cogliere tutta una serie di stimoli che aiutano ad essere maggiormente consapevoli della situazione culturale e religiosa in cui siamo immersi.

Le stesse mansioni pastorali costituiscono una “scuola” insostituibile, dalla quale il predicatore può e deve imparare molto. A patto che non assuma sempre e solo il ruolo di chi deve insegnare, cor-reggere, replicare, ma anche quello umile di chi ha tanto da ascoltare ed apprendere.

2. Lo studio preliminare

a. Lo studio delle letture bibliche Sulla base dei documenti della riforma conciliare, l’omelia ha come riferimento principale le lettu-

re bibliche. Non è escluso tuttavia che, sia pure senza ignorare del tutto le letture bibliche, il tema pos-sa essere desunto dal sacramento celebrato, dal particolare momento liturgico, da un testo del Messa-le, da un’azione rituale. Nella maggior parte dei casi, però, il riferimento basilare sarà determinato dal-le letture bibliche.

Il Lezionario è stato composto in maniera tale che la lettura del Vangelo costituisca il cardine della Liturgia della Parola. Di conseguenza è consigliabile iniziare lo studio proprio dal brano evangelico, per coglierne il significato letterale.

Come è noto la prima lettura, per lo più anticotestamentaria, è stata scelta normalmente col crite-rio dell’armonizzazione con il testo evangelico, così che appaia chiaramente il dispiegarsi di una storia della salvezza guidata da Dio. È alla prima lettura che si passerà dunque subito dopo, per comprender-la nel significato che ha in sé e poi per approfondire la relazione che essa stabilisce con il brano del Vangelo. Le due letture danno così vita ad una sorta di circolo ermeneutico mediante il quale si chiari-scono a vicenda, secondo un metodo già presente nello stesso Nuovo Testamento.

Nei tempi liturgici forti la seconda lettura è in relazione con le altre due. Anch’essa va compresa prima in sé e poi in rapporto con le altre. Molto spesso può fornire contenuti alla parte parenetica, e-sortativa dell’omelia. Nel tempo ordinario, invece, la seconda lettura segue un criterio di lettura semi-continua degli scritti apostolici: in questo caso non si devono operare delle forzature per ricondurla ad ogni costo ad una unità tematica. L’inconveniente è che non raramente l’omelia finisce per trascu-rarla del tutto. In un programma omiletico che abbracci più anni pastorali si dovrebbe prendere in considerazione di dedicarle esplicitamente un ciclo di omelie.

Non va trascurato poi lo studio del salmo responsoriale perché invita ad un atteggiamento di pre-ghiera, indispensabile per la comprensione nella fede del messaggio biblico. Poiché l’omelia raramen-te valorizza il salmo responsoriale, suggeriamo di ispirarsi ad esso nel comporre qualche monizione o le invocazioni della preghiera dei fedeli. Potrà anche fornire qualche criterio per le scelte da operare nel Messale, a proposito dell’eucologia.

Nello studiare le letture bibliche va tenuto presente – lo abbiamo appena evocato – il funziona-mento del “circolo ermeneutico”. Noi non siamo una lavagna completamente sgombra: ci muoviamo verso i testi biblici portando con noi tutto il nostro mondo interiore, con le sue precomprensioni, i de-sideri e le intenzioni, la nostra storia e le nostre pulsioni. Insomma, guardiamo verso quei documenti a partire dai nostri interessi, cercandovi risposte e conferme. Normalmente, data la nostra conoscenza della Bibbia e la nostra appartenenza ad una tradizione di fede, i testi biblici corrisponderanno almeno parzialmente a ciò che cerchiamo, ma diventeranno anche una specie di contro-domanda che ci co-stringerà a dilatare i nostri orizzonti, e dunque le nostre domande, per tornare verso la pagina biblica con una più ampia disponibilità ad imparare. Il primo problema, infatti, per una corretta ermeneutica dei testi biblici consiste nel porre ad essi domande adeguate, così che possano donarci tutta la ric-

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chezza di cui sono portatori. L’omileta studierà, dunque, le letture bibliche, disposto a interrogare e a lasciarsi interpellare, e questo in un circolo che si ripeterà più volte, fino a quando egli non raggiunge-rà la persuasione di aver appreso in misura sufficiente quanto le letture gli potevano dire.

b. Individuazione e scelta del tema principale

Lo studio delle letture porterà a individuare diversi temi, alcuni principali, altri secondari. Si trat-terà a questo punto di operare una scelta, poiché è consigliabile che la celebrazione abbia un solo cen-tro focale e, di conseguenza, che l’omelia si concentri su un solo tema principale. Naturalmente nella scelta non ci si lascerà guidare da ciò che piace di più o crea meno problemi al predicatore, ma si opte-rà basandosi sul contesto liturgico e pastorale: ciò che è più adatto per questa celebrazione, ciò che è pastoralmente più utile a questa assemblea.

È qui che va posto in atto il discernimento pastorale. Il tema va scelto perché appare particolar-mente prezioso per affrontare una situazione pastorale che ha bisogno di un preciso ed esplicito in-tervento. Le domande guida potrebbero essere le seguenti: Quale dimensione dell’esistenza cristiana viene messa a fuoco da questo tema biblico? Rispetto ad una situazione ideale che risulterebbe in per-fetta armonia con quanto il tema biblico insegna, qual è la situazione reale della comunità? Quali in-comprensioni, quali resistenze, quali inadeguatezze, quali fragilità e insicurezze… vengono messe in risalto? La celebrazione intera evocherà tutto questo e l’omelia si farà carico di un intervento volto a cambiare la situazione nella direzione indicata dal tema biblico.

3. Il contesto della celebrazione e l’omelia

a. Le scelte di regia liturgica

Il tema così individuato è da considerare, in primo luogo, come il motivo della celebrazione liturgi-ca. Fornirà i criteri in base ai quali operare le scelte che la regia liturgica richiede. Un programma ritu-ale, infatti, dipende dalle persone convocate e dal motivo che le riunisce. Non ci si comporta allo stesso modo in una festa di laurea o al compleanno di una persona anziana, ad una commemorazione pubbli-ca o in un raduno familiare. Sarà il tema scelto, visto come motivo, che guiderà a decidere i contenuti e lo stile della celebrazione.

La regia liturgica riguarda la scenografia entro la quale il rito si svolgerà e gli elementi simbolici da utilizzare, i testi di varia natura da utilizzare, gli interventi di chi presiede e di altri ministri, le azioni rituali, i canti, il ritmo, compresi i momenti di silenzio. È proprio necessario che prima di intraprende-re la preparazione dell’omelia ci si faccia una qualche idea d’insieme riguardo alla impostazione della celebrazione. Man mano che si procederà nella preparazione dell’omelia, vi sarà un’interazione tra le scelte riguardanti l’omelia stessa e quelle sul programma celebrativo.

Una parola riguardo alle monizioni presidenziali previste dal Messale: sono interventi di

parola lasciati alla creatività del celebrante e perciò hanno una qualche affinità con l’omelia e vanno preparate con una cura particolare e coordinate con essa. Il loro stile, però. Deve essere diverso da quello dell’omelia. Non possono essere concepite come una specie di mini-omelia, e in particolare non le si caricherà del compito di spiegare verità di fede o di offrire esortazioni morali. Le monizioni devono avere un compito e uno stile mistagogico, e cioè favorire una par-tecipazione viva. Ecco perché si addice loro uno stile poetico ed evocativo. In ogni caso devono essere brevi – consigliamo di non superare le tre frasi, normalmente – e non troppo numerose, per evitare un protagonismo esagerato di chi presiede la celebrazione.

b. La preparazione diretta dell’omelia

Arrivati a questo punto si è in grado di intraprendere la preparazione diretta dell’omelia. Potrebbe

rivelarsi molto utile cercare di riassumere il tema prescelto in una sola frase, come se si dovesse com-

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porre il titolo di un articolo di giornale. Lo sforzo per dire tutto e solo l’essenziale, in maniera com-prensibile ed efficace, aiuterà a vedere con maggior chiarezza i confini e il centro della predica.

Ma prima di cominciare ad articolarla è necessario definire chiaramente quale sarà lo scopo che si vuole raggiungere. Ne abbiamo già parlato: dovrà consistere in un cambiamento che si vorrà determi-nare in coloro che ascoltano. Potrà essere un cambiamento nel campo delle idee, delle motivazioni, delle decisioni, dei comportamenti, dei sentimenti e altro ancora. Il discernimento pastorale fornirà le indicazioni necessarie a fissare lo scopo. E sarà proprio lo scopo la bussola che indicherà il cammino di preparazione dell’omelia, indicando, davanti alle tante possibilità che si presenteranno, quale dovrà essere la scelta più opportuna.

Non bisognerà mai perdere di vista coloro ai quali l’omelia sarà rivolta. Bisognerà chiedersi: C’è in loro un interesse al riguardo che può essere dato per certo fin dall’inizio? Per quale motivo gli ascolta-tori dovrebbero provare il desiderio di star ad ascoltare un tale argomento? Quale beneficio ne ricave-ranno se lo faranno? Nel caso che l’interesse di partenza non possa essere dato per scontato, bisogne-rà dedicare la parte iniziale dell’omelia a provocarlo e motivarlo.

Ora, e solo ora, abbiamo tutto quanto serve, contenuti e criteri, per operare le scelte che permette-ranno di comporre l’omelia.

Ricordiamo che fin dall’inizio la preparazione dell’omelia deve avvenire in un clima di preghiera, alla presenza consapevole di Dio e del Signore Gesù, sotto la guida dello Spirito. L’omelia, infatti, è me-diazione offerta a Dio e a Gesù perché possano parlare ad una assemblea di battezzati. La preghiera del predicatore è apertura di ascolto, invocazione di saggezza spirituale, disponibilità a non irrigidirsi sulle proprie posizioni e a lasciarsi cambiare. É anche vivere in prima persona la comprensione delle verità di fede e gli inviti alla conversione che saranno offerti, nella consapevolezza che si parlerà di Dio e del Signore Gesù alla loro presenza. La preghiera è anche rinvigorimento della “carità pastorale”, dell’amore per la comunità a favore della quale esercita il suo ministero. Ed è anche purificazione delle intenzioni e dei desideri. Preparare l’omelia stando consapevolmente sotto lo sguardo di Dio e di Gesù offrirà luce per una comprensione più profonda dei messaggi da trasmettere e un indispensabile o-rientamento “spirituale” nelle scelte da fare.

LO SCOPO DELL’OMELIA

Quando ci si propone di fare qualcosa, a meno che non si agisca per puro gioco, bisogna fissare con chiarezza lo scopo che si vuole raggiungere. Si pensi ad un arciere durante una gara: se a causa di un abbassamento della vista o di un qualunque ostacolo non distingue bene il bersaglio è del tutto proba-bile che lo manchi. Se chi prepara l’omelia non stabilisce con chiarezza quale sarò lo scopo del suo par-lare, difficilmente la sua predicazione sarà efficace. Non solo non indirizzerà in maniera adeguata l’attenzione dell’uditorio, ma egli stesso non avrà un criterio per operare le scelte che riguardano il percorso, le modalità e i contenuti dell’omelia. A guidare le scelte saranno motivi disparati: ciò che ri-sulta più comodo o familiare al predicatore, lo stato d’animo del momento, una preoccupazione occa-sionale o altro ancora. Il discorso risulterà contorto e inutilmente sovraccarico, oppure passerà sopra le teste, lasciando la situazione immutata. Verrà mal sopportato e sperimentato come noioso e inutile.

Ne abbiamo già accennato: quando si parla di questo argomento ai preti non manca mai

chi osserva come i frutti della predicazione li operi lo Spirito Santo e siano dunque imprevedi-bili, non programmabili. É vero: chi predica non è il signore assoluto dei frutti della sua predi-cazione, che dipendono da tanti fattori dei quali solo alcuni sono sotto la sua responsabilità. Ma non occorre disturbare la lunga e tormentata riflessione sul rapporto tra grazia e collabo-razione umana per capire che lo Spirito Santo non può essere invocato come paravento alla mancanza di competenza e di impegno del predicatore!

É necessario, dunque, fissare con chiarezza uno scopo, e naturalmente dovrà essere congruo con

quello che sarà il “tema” dell’omelia e il “motivo” della celebrazione, come vedremo oltre. A questo proposito possiamo distinguere tre tipi di predicatori:

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-il predicatore centrato su se stesso; -il predicatore centrato sull’omelia; -il predicatore centrato sull’assemblea a cui si rivolge. Probabilmente questi sono anche i passi del percorso di un omileta che, via via, è diventato un

buon predicatore. All’inizio l’ansia e altro lo portavano a preoccuparsi del giudizio degli ascoltatori; una volta acquisita una certa sicurezza e maturità l’attenzione si concentra sul contenuto; quando la piena consapevolezza si sarà fatta strada l’attenzione verrà rivolta ai partecipanti all’assemblea.

Va detto fin d’ora che l’atteggiamento corretto è il terzo. L’omelia è un ministero: per sua natura, dunque, deve essere pensata e svolta come un servizio reso ai destinatari. Lo scopo non va collocato né nell’omileta – in ciò che ne viene a lui stesso, che è il servo – , né nei contenuti – che sono gli stru-menti del servizio, i mezzi di cui il ministro dispone per essere utile ai suoi “padroni” – , quanto piut-tosto in coloro che ascoltano: i destinatari del servizio, ai quali deve tornare utile.

Questo aspetto è di importanza capitale. L’esperienza dimostra che quando un predicatore si met-te in quest’ottica, avverte un notevole cambiamento, una sorta di chiarificazione del suo lavoro, e con-stata un deciso miglioramento nell’efficacia comunicativa.

Osserviamo ora le cose in maniera più analitica. 1. L’omileta incentrato su se stesso

Non è frequente che un omileta sia tutto incentrato su se stesso, ma che lo sia in modo più o meno marcato non è proprio raro. Per quanto sia fastidioso, giova riconoscerlo: il protagonismo a cui, inevi-tabilmente, è consegnato chi presiede una celebrazione liturgica può far emergere e gonfiare il narci-sismo e l’egocentrismo. L’egocentrismo è «l’atteggiamento di chi tende a porre se stesso al centro di ogni evento, per cui la propria percezione delle cose e i propri giudizi assumono un valore pressoché assoluto rendendo difficile l’accettazione del punto di vista degli altri e quindi la comunicazione socia-le». Utilizzando questa lucida definizione, presa dal vocabolario Treccani, si può affermare che il pre-dicatore, quando cade nel tranello dell’egocentrismo, è prigioniero di se stesso. Non si preoccupa suf-ficientemente della situazione umana e culturale delle persone che ha davanti, ignora le esigenze o-biettive del rito e le sue regole, chiude gli occhi sulle condizioni reali di chi ha di fronte, ignora i segnali non verbali di reazione. Vede solo la sua predica, o meglio, vede unicamente se stesso e il suo ruolo, avverte solo la gratificazione del suo bisogno di autostima. È per questo che il predicatore egocentrico non comunica, ma straparla; non suscita interesse, ma fastidio e noia; non serve la situazione ma la strumentalizza, piegandola alle sue esigenze e alle sue fisime.

L’omileta incentrato su se stesso mentre si prepara si “vede” al centro dell’attenzione e, più o me-no consciamente, ha cura che il suo discorso serva a mantenerlo in questa collocazione. Nel rapporto con gli ascoltatori tende ad assumere un ruolo che gli studiosi della comunicazione chiamano “del se-duttore”. Naturalmente è necessario che chi parla ottenga l’attenzione di coloro che lo ascoltano, ma egli deve indirizzare quell’attenzione oltre se stesso, verso il contenuto del messaggio che offre. Per l’oratore incentrato su se stesso è stata coniata una frase non proprio gentile: “Si parla addosso”.

Non è difficile cogliere i “segnali” di questo auto-incentramento dell’omileta. Citiamo, come esempio, frasi tratte da trascrizioni di omelie registrate. La prima frase pro-

nunciata da un predicatore è stata la seguente: «Vorrei raccontarvi un fatto che mi è accaduto tempo fa». Il messaggio inviato può essere così trascritto: «IO voglio raccontarvi un fatto che è accaduto a ME tempo fa». Quella frase non ha altra utilità se non di permettere all’omileta di mettere se stesso al centro della scena. Sarebbe stato preferibile iniziare immediatamente, senza preamboli, con il racconto: gli ascoltatori avrebbero certamente compreso che l’episodio riguardava colui che predicava e, naturalmente, che egli desiderava raccontarlo!

Un’altra omelia inizia così: «Il brano di Vangelo che vi ho letto mi è sempre piaciuto tantis-simo e perciò voglio spiegarvelo». Questo predicatore è riuscito a mettere in una sola frase, e la prima, ben tre “IO” (in forma indiretta)! Una domanda: e se il brano di Vangelo non gli pia-ceva, cosa sarebbe accaduto? Che volesse spiegare il Vangelo non era necessario dirlo, e che

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quel brano avesse per lui un grande significato l’assemblea poteva comprenderlo benissimo dall’entusiasmo messo nella spiegazione.

É accaduto anche (è un caso limite, ma è reale, non si tratta di una barzelletta) che durante la predica della Passione un prete se ne uscisse con questa frase: «E allora portarono Gesù al Calvario, che ora si trova nella basilica del santo Sepolcro a Gerusalemme, proprio lì dove il vostro parroco l’anno scorso ha perso un bottone della sua veste talare mentre cercava di toc-care la roccia su cui era stata issata la croce».

Una forma più sottile di questo difetto consiste nel concentrarsi non tanto su di sé, ma sul proprio

ruolo, così come esso è previsto dalle norme liturgiche apprese in forma scolastica. Nella preparazione dell’omelia e nella sua esecuzione chi parla non si misura con gli ascoltatori, con le loro concrete ne-cessità, ma con un modello formale di omelia a cui cerca di attenersi con cura, come se dovesse supe-rare un esame. É come se il predicatore fosse costretto ad entrare in un ruolo che non ha interiorizza-to, ma che sente di dover rappresentare. Basta notare il grado di alterazione del tono della voce e delle altre modalità del parlare: si ha proprio l’impressione che stia recitando un copione. Certamente il ri-spetto dei canoni dell’omelia è indispensabile, ma una tale disciplina suggerisce anche di non trascu-rare affatto le necessità pastorali dei destinatari: quelle reali, concretissime che essi hanno. Una predi-ca corretta solo dal punto di vista formale non è una buona predica e normalmente viene percepita come fredda, incapace di sostenere l’interesse. È come se il predicatore facesse intendere: “Io faccio il mio dovere, quanto a voi, non è affar mio!”.

2. L’omileta incentrato sull’omelia

Molto più frequente rispetto alla situazione sopra descritta, tanto da essere data quasi per sconta-ta dalla maggioranza dei predicatori, è quella dell’omileta incentrato sull’omelia, e cioè sui contenuti concettuali del suo discorso. La cosa risulta evidente anche nelle celebrazioni riprese dalla televisione o nelle liturgie ufficiali, la cui risonanza pubblica va oltre quella di una normale assemblea locale. Chi ascolta si rende conto che il predicatore non ha preparato il suo accurato discorso per i fedeli che ha davanti agli occhi, ma per un uditorio ideale astratto o per la pubblicazione negli atti ufficiali.

Quando in un corso di omiletica, dopo aver considerato le letture bibliche e il tipo di as-

semblea, si chiede a qualcuno dei partecipanti di assegnare uno scopo alla sua eventuale pre-dica, quasi sempre la risposta comincia con: «Cercherò di spiegare…». Certamente uno dei compiti dell’omelia è anche di offrire delle spiegazioni: «Con l’omelia, il ministro competente annuncia spiega e loda il mistero cristiano che si celebra, perché i fedeli lo accolgano intima-mente nella loro vita e a loro volta si dispongano a testimoniarlo nel mondo» (C.E.I., Il rinno-

vamento della catechesi, n. 29). Ma il ricorso ad una spiegazione è uno dei mezzi a disposizione dell’omileta – ve ne sono, infatti, molti altri – e non può essere confuso con lo scopo. Una spie-gazione non può costituire il fine dell’omelia: eventualmente lo sarà il cambiamento delle con-vinzioni dei destinatari che si vorrà ottenere con tale mezzo. Rispetto al cambiamento, la spie-gazione sarà uno dei mezzi a cui il predicatore fa ricorso.

«Cercherò di spiegare…»: una frase che inizia così non è adatta a indicare lo scopo dell’omelia. Essa descriverà lo sforzo dell’omileta e lo strumento che intenderà usare. Ma se questi non ha chiaro lo scopo, in base a che cosa applicherà il suo impegno e deciderà che qui è opportuna una spiegazione? Non potrebbe essere più congrua una narrazione, una testimo-nianza, una esortazione…?

Il pericolo è che la comunicazione diventi fine a se stessa e così non ottenga risultati degni di considerazione.

Uno dei difetti più frequenti nella predicazione, quando è pensata da chi confonde il fine con i

mezzi, è quello che abbiamo qualificato come didatticismo. Esso risulta problematico sotto due aspet-ti.

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Il primo è l’eccesso di spiegazioni dottrinali rispetto ad altre “funzioni” di parola, che in tal modo vengono mortificate o del tutto ignorate.

Un esperimento mentale. Il lettore immagini di prendere in mano la Bibbia, di sfogliarla e

di togliere tutte le pagine che hanno a che fare con una narrazione. Che cosa gli resterà fra le mani, oltre alla copertina e qualche raro brano sapienziale?

Ora registri la sua predicazione di un anno, la trascriva e rileghi in volume, faccia scorrere i fogli così ottenuti e ripeta l’operazione, quella di togliere i fogli che hanno a che fare con una narrazione: che cosa gli resterà fra le mani? Quasi tutto!

La clamorosa diversità di risultato è un sintomo di qualcosa che non va. Dovrebbe far riflettere, anche, il fatto che tutti i libri che studiano le condizioni di una buona co-

municazione in pubblico, consigliano di variare gli ingredienti del discorso e mettono in guardia dalla predominanza dell’astrazione. Come abbiamo già accennato, dopo essersi sorbito una spiegazione a-stratta, chi ascolta spontaneamente pensa tra sé: “Fammi un esempio!”. E, ottenuto l’esempio, formula un altro interrogativo: “E quale importanza ha tutto ciò per me? Perché e come dovrebbe riguardarmi? Che cosa chiede concretamente a uno come me?”.

Quest’ultima domanda segnala un secondo aspetto problematico del didatticismo. Un messaggio non reca una rilevanza pratica dentro di sé, ma la ottiene dal suo inserirsi entro un dato ambiente di significati di cui sono portatori coloro che ascoltano. Un elemento della fede cattolica può essere in sé importante, ma se chi ne parla non ha cura di mettere in risalto il senso che assume nell’esistenza dell’uditorio, l’omelia risulterà poco fruttuosa.

Questo non significa ridurre la predicazione entro i limiti degli interessi già esistenti: non rara-mente si deve andare controcorrente e rischiare di essere importuni, come ricorda anche S. Paolo (cfr. 2Tm 4,2). Ma se non si può dare per certo l’interesse verso un certo contenuto che si vuol proporre, bisognerà per prima cosa mettere in atto una azione comunicativa che apra a quell’interesse. Quando l’omelia cade nel didatticismo le si può applicare ciò che ha stigmatizzato una certa cattiva teologia: “É un considerevole sforzo per rispondere a domande che nessuno si pone”.

Il difetto del didatticismo è inevitabile quando l’omelia viene concepita come una breve lezione di teologia (dogmatica, morale, esegetica…), e non come il servizio reso ad un Dio che vuole parlarci qui ed ora.

3. L’omileta incentrato sui destinatari

Quando si vuol fissare l’obiettivo dell’omelia, non si deve dunque guardare verso di sé, né conside-rare i contenuti dell’omelia come il fine, poiché essi sono uno dei mezzi a disposizione. É indispensabi-le, invece, volgere lo sguardo su coloro che saranno i destinatari del discorso. «Che cosa mi propongo di provocare in coloro che mi ascolteranno, in base a questo contesto liturgico di cui la mia omelia è parte? Quale percorso omiletico, fedele al funzionamento liturgico, è il più adatto perché questo acca-da?». Queste due semplici domande possono indirizzare correttamente lo sforzo di chi prepara un’omelia.

Ecco una buona regola utile per costringere se stessi ad essere rigorosi nell’individuare

l’obiettivo. Lo scopo va dichiarato con una frase che deve sempre cominciare con: «Coloro che mi ascolteranno…», e deve continuare descrivendo qualcosa che dovrebbe accadere a loro e in loro.

Nulla vieta che lo scopo possa essere così descritto: «Coloro che mi ascolteranno com-prenderanno meglio…», e al posto dei puntini collocherò le verità che ritengo necessario e uti-le spiegare. Ad esempio: «Coloro che mi ascolteranno comprenderanno con chiarezza perché per loro è importante partecipare alla Messa della domenica». Ma i cambiamenti da ottenere negli ascoltatori non possono essere solo di questo tipo: essi sono molti, come abbiamo indica-to altrove.

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Con questo accorgimento sarà più difficile, mentre scelgo i percorsi dell’omelia, dimentica-re coloro a cui mi rivolgo e il senso che può avere per loro quello che andrò spiegando.

Dunque, si tratta di guardare verso coloro che ascolteranno. Ma, si badi bene, l’assemblea non può

essere considerata una massa anonima. Essa è il risultato del convergere di molti individui, ciascuno con la sua personalità e le sue caratteristiche. Non basterà dunque aver riguardo dell’assemblea in ge-nerale. Altrimenti il predicatore non sarà in grado di rispondere a domande di basilare importanza, quali: «Questo argomento provocherà l’interesse di chi ascolta? E per quale motivo potrebbe provo-carlo? Che cosa lo alimenterà e terrà vivo? Quali resistenze incontrerà il mio discorso nella mente de-gli interlocutori e come posso affrontarle in modo efficace? Quali domande desidererebbero porre, se potessero interloquire? Quali vantaggi ne verranno se mi staranno ad ascoltare?». Si dovrà avere co-scienza che l’assemblea è composta da individui, sia pure radunati dalla medesima fede, e da individui concreti: questi qui e non altri.

Un suggerimento. Mentre prepari l’omelia, evoca il volto di alcune tra le persone che normalmente frequen-

tano la celebrazione. Scegli cinque o sei di esse, rappresentative della maggioranza dei parte-cipanti. Quelle domande, e altre simili, rivolgile a ciascuno dei volti che hai evocato: «Quali re-sistenze proverà Roberto in questo passaggio dell’omelia, e quali obiezioni mi farebbe? Perché Annalisa dovrebbe starmi ad ascoltare, e con quale vantaggio? E Loris si sentirà coinvolto?». E poiché il contatto visivo tra chi parla e coloro che ascoltano è di rilevante importanza, Roberto, Annalisa e Loris saranno anche i volti reali verso cui guarderai mentre predichi, per cogliere eventuali reazioni.

Naturalmente se, almeno ogni tanto, potrai parlare a quattrocchi con Roberto, Annalisa e Loris, o con altri abituali destinatari della tua omelia o con alcuni collaboratori parrocchiali particolarmente sensibili, disposti a raccontare con sincerità le loro reazioni, tanto di guada-gnato.

Può essere utile anche far registrare, almeno talvolta, una propria omelia e riascoltarsela dopo un paio di settimane, mettendosi il più possibile dalla parte di chi l’ha ascoltata. Si tratta di una severa forma di penitenza… ma che non mancherà di alleviare quella degli ascoltatori!

Tutto ciò è possibile a chi ha una buona conoscenza di coloro che compongono l’assemblea: il parroco, il viceparroco, il prete che regolarmente esercita il ministero in una comunità. Diverso è il caso del predicatore occasionale. Ma non dovrebbe chiedere e ottenere da chi lo invita delle informazioni di massima in merito all’assemblea? Diversa, almeno in par-te, è anche la situazione di chi tiene l’omelia in una grande chiesa cittadina o in un santuario. Ma in quest’ultimo caso all’omileta è possibile farsi un’idea del profilo medio del frequentatore di quel dato santuario: stando al confessionale o accettando o provocando qualche colloquio, la cosa non sarà poi così difficile.

Coloro che si abituano a lavorare con questo metodo si renderanno conto che chi parla ad

un’assemblea numerosa e composita tenderà a privilegiare una parte di essa. Bisognerà essere co-scienti di questo fatto e saperlo gestire. Sarebbe deleterio privilegiare sempre la stessa parte dell’assemblea, abbandonando del tutto le altre. Ciò vale anche per eventuali messe con ampia parte-cipazione di bambini. Un’omelia rivolta esclusivamente a loro finisce per trasmettere agli adulti un’immagine infantile della fede, e l’entusiasmo sentimentalistico di alcuni di essi non dovrebbe costi-tuire un incentivo per l’omileta. Non solo, ma non occorrono grandi competenze pedagogiche per ac-corgersi che gli stessi bambini provano viva attenzione per discorsi “da grandi”. Un giovane prete si è sentito dire da un bambino: «La tua predica era troppo da bambini».

E sarebbe ancora più dannoso se il criterio, più o meno esplicito, di selezione della parte a cui de-dicare particolare attenzione non corrispondesse a quelli proposti da Gesù, con il suo esempio e il suo insegnamento. Privilegiare, ad esempio, i più colti rispetto ai meno istruiti, i più devoti rispetto ai più tiepidi, i più attenti rispetto a quelli meno interessati (gli adolescenti…), coloro che danno sempre ra-

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gione al parroco piuttosto che i critici, coloro che frequentano sempre rispetto agli occasionali (nelle grandi feste), i giusti rispetto ai peccatori, e così via.

Chi prepara e tiene l’omelia deve, dunque, essere tutto orientato verso l’assemblea che lo ascolterà per stabilire l’obiettivo del suo impegno ministeriale. In questa luce la sua predica sarà destinata a trasformare gli ascoltatori. La cosa non stupirà chi ha riflettuto sulla funzione “performativa” o “illocu-toria” del parlare. La parola non è solo constatazione e informazione, ma anche azione che, in misura più o meno incisiva, modifica la realtà. Anche la predica inutile trasforma la realtà: diminuisce la pro-babilità di un ascolto interessato nel futuro!

Di questo non si stupirà chi conosce la forte caratterizzazione dinamica e attiva che ha la parola (dabar) nella Scrittura, come risulta, tra l’altro, dal notissimo e già citato testo di Isaia: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fe-condata e fatta germogliare, perché dia il seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della paro-la uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55, 10-11).

C’è, al riguardo, una folgorante frase di S. Agostino: «Se non mi rendi migliore di quello che ero, perché mi parli?». Colui che parla deve proporsi di esercitare un’azione trasformante in chi ascolta. Del resto ciò corrisponde anche ai più recenti studi sulla comunicazione: essa consisterebbe nel pro-durre e inviare “una differenza che fa la differenza”, come ha formulato Gregory Bateson”. In termini più chiari: si ha comunicazione ogni volta che un emittente produce un intervento (ad es., rompe il si-lenzio e inizia a parlare) che avrà come risultato un cambiamento nel ricevente (ad es., un orienta-mento dell’attenzione, un arricchimento delle conoscenze di chi ascolta, o una modifica delle sue con-vinzioni, o altro ancora). Va ribadito che la trasformazione da ottenere non dovrà essere sempre e solo quella che guarda all’intelligenza e ai concetti.

L’omelia come un’azione trasformante, dunque. E allora può esserci utile la metafora de-

sunta da chi vuole spostare un corpo – pesante! – da un luogo ad un altro. É importante che l’oggetto sia ben individuato e afferrato nella maniera più adatta allo spostamento da attuare; è altrettanto importante sapere con chiarezza dove si vuole collocarlo e, infine, avere la com-petenza necessaria per valutare strumenti e percorso.

Chi prepara l’omelia riceve dalle letture bibliche, dal contesto liturgico, dal contesto pasto-rale una data prospettiva (il motivo della celebrazione e il tema dell’omelia). Ora deve chieder-si: rispetto a questa prospettiva dove si trova la comunità a cui rivolgerò la mia parola? E verso dove è augurabile che venga indirizzata, spostata? E ancora: come aiutare questa comunità a comprendere l’importanza del valore illuminato da questa prospettiva? Come renderla co-sciente della situazione attuale? Come ottenere un qualche spostamento nella direzione augu-rabile?

Ponendosi queste domande il predicatore verrà sostenuto nella fatica di pensare e mettere in atto un percorso omiletico efficace. Efficace perché rimane strettamente aderente alla real-tà, perché ha a cuore un risultato e non lo perde di vista, perché così facendo sarà dotato dei mezzi retorici più adatti a conseguire lo scopo.

LA STRUTTURA DELL’OMELIA

Esaminando alcune omelie registrate e trascritte ci si imbatte in una carenza piuttosto diffusa: una percentuale molto alta di predicatori sembra ignorare che l’omelia deve avere una struttura ben arti-colata e che essa deve essere percepibile agli ascoltatori.

Durante i corsi di formazione sulla predicazione è sempre interessante far ascoltare una di

queste registrazioni al gruppo dei corsisti: il primo ascolto serve per una presa di contatto immediata; il secondo avverrà dopo aver affidato come consegna due semplici questioni:

-Secondo voi, quale obiettivo si proponeva il predicatore? -Provate a ricostruire lo schema di questa omelia.

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É evidente che se, su quindici partecipanti, emergono otto o dieci risposte diverse il predi-catore non è stato abbastanza chiaro e perciò, con tutta probabilità, non è stato neanche molto efficace.

Del resto, lo si voglia o no, un discorso che non sia puro vaneggiamento ha comunque una sua

struttura. Che sia adatta o non adatta alla circostanza è un altro discorso: la struttura comunque c’è. Non fosse altro che per il semplice motivo che la prima frase viene al primo posto e l’ultima all’ultimo. E chiunque capisce che una frase acquista il suo senso anche dal contesto in cui è inserita, da ciò che la precede e da ciò che la segue. Insomma dal suo inserimento in una logica. Il predicatore non può tra-scurare di impegnarsi per dare una buona struttura al suo discorso, poiché essa concorre, con le paro-le e le frasi, a comporre il messaggio che viene inviato a chi ascolta.

Una strutturazione naturale prevede, ovviamente, un’introduzione, un corpo centrale e una con-clusione. Ciascuna di queste parti, proprio per il posto che occupa, ha un compito proprio e diverso dalle altre, e va trattata di conseguenza. Molti predicatori, purtroppo, non dedicano la cura necessaria a confezionare una buona introduzione e una efficace conclusione: i confini tra queste due parti e il corpo centrale quasi non esistono. Il risultato? Introduzioni indecise, confuse e contorte che scorag-giano l’attenzione; conclusioni penosamente stiracchiate, che muoiono esauste dopo lunga agonia, op-pure inconcludenti.

Consideriamo qui di seguito queste tre parti del discorso omiletico, cercando di sottolinearne il compito e, di conseguenza, le caratteristiche che debbono avere.

1. L’introduzione (o esordio o proemio)

Già ai suoi tempi Quintiliano, uno dei capisaldi della retorica classica, si lamentava: «Ai nostri

giorni si crede sia proemio tutto ciò con cui si comincia, e qualunque cosa venga in mente, specie se è un pensiero che suona bene, lo si reputa un esordio». Non ogni materiale è adatto a costruire un buon inizio. L’introduzione ha alcuni compiti derivanti proprio dalla sua posizione cronologica: essi vanno rispettati. E si tenga presente che non viene offerta una seconda possibilità per l’inizio! Non solo, ma la prima impressione è quella che decide in maniera rilevante della quantità e qualità dell’ascolto che sa-rà accordato. Di solito poi accade, come l’esperienza anche personale dimostra, che si è più propensi a cercare una conferma alla prima impressione ricevuta che a rivederla, e ciò vale anche per chi ascolta la predica.

L’introduzione deve avere cura di stabilire un buon contatto tra chi parla e coloro che ascoltano. Chiunque abbia avuto a che fare con problemi di periferiche di computer sa che i cattivi contatti nei cavi impediscono la trasmissione del segnale e per questo nei dispositivi di buona qualità i contatti sono garantiti da una doratura! Stabilire un buon contatto significa coinvolgere fin dall’inizio gli ascol-tatori, attirando e facilitando la loro attenzione e innalzando la soglia del loro interesse per quanto verrà detto. Anche, ma non solo captatio benevolentiae, dunque.

Un paio di esempi. Un’omelia tenuta durante una riunione di operatori pastorali, preti e laici. La liturgia face-

va memoria di un santo della carità e i testi biblici del lezionario parlavano di amore fraterno. Il predicatore, forse condizionato dalla presenza di confratelli di cui temeva il giudizio, si im-barcò in una complicata esegesi dei testi biblici, con brandelli di spiegazioni dottrinali. Durò quasi un quarto d’ora, provocando diffusa insofferenza e distrazione. Poi il discorso ebbe un guizzo. Il predicatore evocò il suo ministero in una scuola, in mezzo ad adolescenti “difficili”, e affermò: «Sono maleducati, fanno soffrire e mi ascoltano poco. Ma io non me la sento di non amarli, e li amo più che posso. Poiché se sono così è perché sono stati poco amati. E io sento di dover pagare nei loro confronti un terribile debito d’amore, che ha provocato e sta provocando in loro tanta, troppa sofferenza».

Vien da chiedersi: ma perché non ha iniziato l’omelia con questo racconto-testimonianza, che gli avrebbe assicurato simpatia immediata e dunque anche attenzione? Dopo avrebbe po-tuto proseguire mostrando la sorgente della sua bontà, sincera e commovente, nei testi biblici,

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certamente da spiegare. Ma essi avrebbero brillato come colmi di una forza capace di ispirare un amore concreto e impegnato, e non solo come supporti ad una dottrina teologica.

É la domenica in cui si legge la cosiddetta parabola del figliol prodigo. Il prete ha letto con

partecipazione misurata ma percepibile il brano evangelico. Dopo aver detto: “Parola del Si-gnore”, non si inchina a baciare la pagina del lezionario. Attende che tutti siano seduti, lascia che si creino alcuni istanti di silenzio. Proprio l’inaspettato silenzio fa volgere lo sguardo di tutti verso l’ambone. Allora, con un gesto lento e solenne, egli si inchina per il bacio rituale. E inizia: «Come avete visto, ho baciato questa pagina di Vangelo. L’ho baciata anche a nome vo-stro, e se le circostanze lo permettessero, porterei davanti a ciascuno di voi questo santo libro, perché anche voi poteste fare altrettanto. Questa pagina, infatti, è immensamente preziosa. Preziosa per quello che ci rivela sull’atteggiamento di Dio verso di noi peccatori. Dio continua ad amarci anche quando in noi prevale la nostra cattiveria. Preziosa perché chi ce l’ha donata, il nostro Signore Gesù, l’ha pagata con il suo sangue…».

Era possibile notare un profondo coinvolgimento dell’assemblea, e un notevole interesse verso ciò che un simile esordio prometteva. Tra l’altro questa introduzione ha avuto anche un altro effetto, quello di accrescere la credibilità e l’autorevolezza dell’omileta, testimoniando la profondità e la sincerità del suo approccio di fede al testo evangelico proclamato.

L’introduzione ha un secondo compito, intuibile anche dagli esempi appena fatti, quello di orienta-

re fin dall’inizio gli ascoltatori verso il tema dell’omelia. Non è necessario, naturalmente, che nell’introduzione venga elencata la scaletta, i diversi punti dello schema, ma è opportuno far intuire quale sarà l’argomento centrale dell’omelia e soprattutto i motivi di interesse per gli ascoltatori. Troppo spesso, invece, i predicatori si danno da fare subito attorno alle letture, per poi giungere alle applicazioni pratiche. Ed è solo in seconda battuta che fanno riferimento al vissuto concreto degli a-scoltatori. Iniziare dalle Scritture sottolinea il primato della parola di Dio, e questo è certamente una opportunità da valorizzare, ma non va trascurata la possibilità di anticipare già nell’introduzione un accenno alla situazione esistenziale degli ascoltatori che si vuole illuminare. Il “chi di voi…” con cui Gesù esordisce diverse volte nei cuoi discorsi ha qualcosa da insegnarci.

Nell’ipotesi di un’omelia che duri dieci minuti, l’introduzione occuperà circa un minuto e

mezzo, e cioè il 15% del tempo circa. Rispetto ai due compiti appena delineati, si comprende anche che non ogni materiale, co-

me dicevamo all’inizio, è adatto. A questo proposito può funzionare meglio: -una domanda provocante piuttosto che un’affermazione perentoria (ma un’affermazione

sorprendente va benissimo); -un riferimento all’esistenza concreta invece che un riferimento “esterno” agli ascoltatori; -una paradosso rispetto ad un’ovvietà; -una novità al posto di una cosa risaputa e abitudinaria (“Fratelli, siamo qui riuniti…”); -un contrasto e una tensione rispetto a qualcosa di scontato; -qualcosa che provoca il sorriso (o la collera) invece che qualcosa di emotivamente neutro; -uno stile agile e piacevole piuttosto che concitato e subito impegnativo. Naturalmente si dovrà vigilare che l’introduzione sia congrua e non così “colorita” da atti-

rare su di sé l’attenzione, deviando di fatto l’attenzione da quello che sarà il contenuto del di-scorso successivo. Il “che cosa” dell’omelia andrà indicato chiaramente, e in una forma che lo faccia apparire fin da subito interessante e utile per coloro che ascoltano.

Non è da escludere, poi, che in certe circostanze proprio la “normalità” di una introduzio-ne sia significativa: quando, ad esempio, l’assemblea, a causa di un recente evento di cronaca, si aspetta una parola in proposito e invece l’omileta vuole attirare subito l’attenzione sulle let-ture bibliche proclamate.

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Come si vede, l’introduzione, ha dei compiti che non si debbono trascurare. Anche per chi normalmente non scrive l’omelia, le prime e le ultime frasi dovrebbero essere pensate con tale cura da poterle ripetere praticamente a memoria.

2. La conclusione

La conclusione deve essere percepibile come tale. Con essa si segnala chiaramente che il discorso

sta per finire e si mantiene tale promessa. Ecco perché deve essere rapida. A tutti è capitato di soffrire a causa degli sforzi di un predicatore che, non avendo preparato la chiusura, la improvvisa seduta stante. Come un aereo che abbia problemi di atterraggio, egli, dopo un primo tentativo maldestro ri-prende quota imbarcandosi in un supplemento di spiegazioni, tra lo sgomento degli ascoltatori, che assistono ad un’operazione sgangherata… tale da compromettere ciò che di buono si era costruito fino a quel momento!

La conclusione serve a rafforzare il punto centrale dell’omelia e ad assicurarne la permanenza nel-la memoria. Bisogna dunque che il predicatore trovi modalità e contenuti che ottengano un tale risul-tato.

In un’omelia che dura dieci minuti, la conclusione dovrà occuparne solo uno, e cioè il 10%

del tempo a disposizione circa. Per fissare il messaggio nella memoria degli ascoltatori, il predicatore dovrà tenere presente

che: -è più facile memorizzare un’immagine che un concetto astratto (“occhio per occhio e dente

per dente” si ricorda meglio che “vendetta proporzionata”); -rimane più nella mente un detto che ha un “ritmo” che lo rende incisivo piuttosto che

un’affermazione espressa con una frase piatta (“chi di spada ferisce di spada perisce” si ricorda meglio che “se qualcuno fa del male prima o poi dovrà subirne anche conseguenze simili al male che compie”).

La conclusione è utile anche per orientare gli ascoltatori verso la realizzazione pratica di quanto si

è venuti esponendo. Nel corpo dell’omelia si sarà sviluppato tutto ciò che è necessario perché un invi-to o un’esortazione appaiano ben fondati e degni di essere presi in considerazione. Nella conclusione si deve trovare il modo di alimentare il desiderio di realizzare il valore presentato. Un buon esempio è il “chi ha orecchi per intendere, intenda”, di Gesù.

Talvolta può essere opportuno chiudere con una domanda ben congegnata, soprattutto se con essa si introduce un breve silenzio, uno spazio di riflessione, che è previsto dalla rubriche del rituale e non dovrebbe proprio mancare.

La conclusione deve anche tener conto che dopo l’omelia la celebrazione continua, e dunque deve restare aperta verso la grande preghiera eucaristica che seguirà. A tal fine può terminare con una pre-ghiera composta di due o tre frasi, già orientate verso il prefazio che sarà stato scelto.

Forse la cosa viene da sé, ma vale la pena di dirlo: sia la conclusione che l’introduzione dell’omelia vanno messe a punto alla fine, quando il progetto di omelia è già quasi del tutto a posto. Il tono da dare all’inizio e alla conclusione, infatti, dipende dalla sua parte centrale: solo quando quest’ultima è stata ben articolata si è in grado di fare le scelte più opportune.

3. Il corpo dell’omelia: le fonti a cui attingere

Si tratta ora di ragionare sul corpo dell’omelia, che dovrebbe occupare circa il 75% del tempo di-

sponibile. La buona vecchia retorica, come abbiamo già visto, affermava che il problema davanti a cui si trova un oratore che prepara il suo intervento si può riassumere in tre parole: inventio, dispositio,

elocutio. Quelle tre parole significano concretamente: trovare la materia che sia adatta per costruire il discorso, disporla in maniera opportuna rispetto al fine che ci proponiamo, darle una forma efficace in vista della comunicazione attraverso quel mezzo che è il discorso in pubblico.

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L’inventio riguarda le fonti a cui attingere per costruire l’omelia. Per quanto riguarda il contenuto vero e proprio vi sono chiare indicazioni nei documenti della riforma conciliare. In estrema sintesi tut-to è detto nel n. 35 della Sacrosanctum concilium: «Questa (la predicazione omiletica) poi attinga anzi-tutto alla sorgente della sacra Scrittura e della liturgia, come annunzio delle mirabili opere di Dio nella storia della salvezza ossia nel mistero di Cristo, mistero che è in noi sempre presente e operante, so-prattutto nelle celebrazioni liturgiche».

I contenuti dell’omelia vanno cercati anzitutto nelle letture bibliche del Lezionario; in secondo luogo nel contesto liturgico – testi dell’eucologio, festa celebrata, tempo liturgico, celebrazione di sa-cramenti – di cui l’omelia è parte integrante; in terzo luogo nella storia della salvezza, tenendo conto che essa è sempre operante nel “qui e ora” della liturgia, ma anche nella storia concreta di questa co-munità, e nella storia più generale. Il tutto tenendo conto delle necessità pastorali degli ascoltatori.

4. La disposizione dei contenuti

Attingendo dalle letture bibliche e dal contesto liturgico e guardando alla situazione pastorale del-la comunità, normalmente colui che sta preparando l’omelia si troverà davanti a una considerevole quantità di elementi e dunque di possibili temi dell’omelia. Se ne risultassero uno o due solamente, la cosa deve essere interpretata, normalmente, come un segnale che non sono stati dedicati un tempo sufficiente ed una cura adeguata. A questo punto il predicatore deve operare delle scelte, poiché il suo discorso dovrà avere, salvo eccezioni, uno e un solo asse centrale. Tenendo conto del tempo a disposi-zione per il discorso omiletico, che normalmente non dovrebbe superare i dieci minuti, mettere più temi significherebbe non poterli svolgere in maniera congrua ed efficace.

Sarà necessario organizzare il discorso dividendolo in parti, collegate in modo coerente tra loro. Queste parti, in uno schema o scaletta che le riassume, diventano dei punti. Quanti dovranno essere, normalmente, i punti? Tenuto conto del tempo a disposizione, da un minimo di due, poiché al di sotto di questa misura non si avrebbe alcuna organizzazione del discorso, ad un massimo di quattro: met-terne di più impedirebbe un adeguato sviluppo di ognuno di essi. Sembra che il numero tre corrispon-da ad una specie di predisposizione del nostro spirito: nelle fiabe, ad esempio, è comune il succedersi di tre eventi, di cui il terzo è il risolutore. Anche Gesù ha utilizzato la scansione ternaria nelle sue pa-rabole.

Non è possibile, né consigliabile, stabilire regole rigide per la disposizione dei contenuti:

ogni regola ha i suoi vantaggi e i suoi svantaggi. Ciò che non si deve dimenticare è che la stessa disposizione degli elementi influisce sul significato dei contenuti.

Uno dei criteri più ragionevoli consiste nel seguire l’ordine naturale. Se si propone un comportamento che prevede una scansione e una progressione di atti, si

seguirà la successione temporale: ad es., nell’esortazione al perdono, si comincerà invitando a rinunciare alla vendetta e all’odio, si proseguirà suggerendo di pregare per la persona che ha offeso, si giungerà a indicare come meta del cammino, che può essere anche laborioso, il per-dono totale con la riconciliazione.

Se si spiega una verità che ha diversi aspetti, normalmente è più efficace esporre quello principale all’inizio e nel prosieguo i derivati o secondari .

Se si vuole convincere gli ascoltatori mediante diversi argomenti, andrà valutato se sia più efficace iniziare con quello più forte, a cui seguiranno gli altri di supporto, oppure, al contrario, iniziare dai più deboli per arrivare in crescendo a quello decisivo. Normalmente è questa la scelta migliore.

Se una parte dell’omelia è di annuncio e l’altra è di esortazione, l’ordine evangelico vuole che prima venga l’annuncio dell’opera di Dio verso di noi e poi l’esortazione a rispondervi.

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5. Il coordinamento delle parti

Il corpo dell’omelia si va coagulando e si delineano le parti che dovranno scandirla. Ora sarà ne-cessario dare una propria consistenza a ciascuna di esse. Potrebbe essere utile attenersi a questo cri-terio: ogni parte va considerata come se fosse un breve discorso, dotato di una sua autosufficienza.

Di solito si parte da una affermazione: una frase-chiave del brano evangelico, o l’enunciato

di una verità di fede, o un aspetto della morale cristiana. Questa affermazione va rafforzata. A seconda dei casi bisognerà ricorrere a chiarimenti, ad argomentazioni di vario genere, a esem-plificazioni, a narrazioni.

É in questa fase che andrà tenuta presente con particolare cura la prevedibile reazione degli ascoltatori:

- di quali spiegazioni sentiranno la necessità - quali perplessità e resistenze proveranno - quali obiezioni sentiranno nascere dentro di sé - quali domande porrebbero se fosse possibile interloquire. L’omileta dovrà interrogarsi sul come rispondere in maniera onesta ed efficace a queste

esigenze dei suoi interlocutori e dovrà farlo con un linguaggio aderente al loro modo di e-sprimersi abituale.

Se si inizia a preparare l’omelia domenicale già nei primi giorni della settimana, non man-cheranno occasioni per saggiare direttamente quali potranno essere le reazioni dell’uditorio: una riunione di catechismo, un colloquio in famiglia, un confronto con un collaboratore pasto-rale e altre occasioni nelle quali gli interlocutori possono reagire direttamente a quello che stiamo dicendo.

Dopo aver dato consistenza a ciascuna parte, sarà necessario riflettere su come stabilire un colle-

gamento logico e organico tra loro, utile alla continuità del percorso omiletico e perciò alla sua effica-cia: un mero accostamento di argomenti staccati finirebbe per disorientare. È probabile che questa ri-cerca dei collegamenti richieda degli aggiustamenti nella trattazione dei singoli punti: per es., bilan-ciare con l’inserimento di un esempio o di una breve narrazione l’eccesso di spiegazioni razionali, ri-nunciare a trattare uno dei punti previsti per poter dare un respiro sufficiente ad altri, fare più spazio ai riferimenti alle letture bibliche. A volte saranno proprio le esigenze di coordinamento che suggeri-ranno come far procedere il discorso. Si tenga conto, anche, che sarà necessario contestualizzare l’omelia nell’insieme della celebrazione, con opportuni riferimenti a elementi rituali ed eucologici.

6. Uno schema

Non è consigliabile leggere l’omelia, anche nel caso che la si scriva integralmente. Se lo si fa, si ten-ga conto che la situazione di chi ha davanti un foglio e può leggerlo e rileggerlo è diversa da quella di coloro che dovranno inseguire le parole mentre vengono pronunciate. Va valutato anche il danno che la lettura arreca su due versanti: quello della freschezza e della vivacità dell’esposizione diretta e quel-lo del contatto visivo, che viene inevitabilmente indebolito da chi è costretto a tenere gli occhi sul fo-glio che ha davanti. Chi scrive la sua omelia dovrebbe conoscerla talmente bene da poterla pronuncia-re dando solo un’occhiata al foglio di tanto in tanto: una preparazione accurata normalmente produce anche una eccellente memorizzazione.

Nel caso l’omelia non venisse composta per iscritto sarebbe altamente consigliabile comporre uno schema con indicate la scaletta delle parti e il loro coordinamento, e quanto serve per non perdere il filo. Tra l’altro sarà proprio la stesura di questo schema a facilitare una verifica della composizione dell’omelia, della sua coerenza costruttiva, della proporzione delle parti, suggerendo molto spesso qualche mutazione.

Può essere utile, nella stesura dello schema, ricorrere a penne dai colori diversi: usare, ad

esempio, il nero per scrivere i punti che rappresentano l’ossatura portante dell’omelia, il rosso

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per evidenziare i punti di forza, il verde per segnalare, mediante frecce e rimandi, i collega-menti. I colori facilitano la memoria visiva e vengono colti più facilmente se lo sguardo deve essere rapido.

Lo schema toglie il timore di perdere il filo del discorso, e permette la piena concentrazio-ne su ciò che si sta dicendo e sul come dirlo. Andrà collocato davanti al predicatore in modo che egli, per vederlo, non debba abbassare la testa, ma solo lo sguardo, il che permetterà di mantenere il contatto visivo con l’assemblea.

PER VALUTARE UN’OMELIA

Impressioni generali

- Si capiva quale era lo scopo che il predicatore si era proposto? Ed era adatto alle persone a cui parlava? E’ riuscito ad ottenere lo scopo, utilizzando un percorso omiletico adatto ad esso?

- L’omelia era adatta alle modalità di comprensione dell’uditorio? Parlava solo alla mente, o an-che ai sentimenti e alla fantasia?

- Conteneva delle efficaci provocazioni all’azione? Era incoraggiante, scoraggiante o lasciava in-differenti?

- Aveva uno o più momenti di particolare intensità?

Il contenuto

- Teneva conto della collocazione dell’omelia nella celebrazione? Il rapporto con le Scritture, con il contesto liturgico più ampio era presente, adeguato e corretto?

- Dimostrava attenzione per la situazione di vita degli ascoltatori? Aveva un rapporto adeguato con il contesto sociale locale e più ampio?

- Conteneva il “vangelo” come parola di grazia del Signore rivolta a questa assemblea qui e ora? - Le idee espresse erano corrette e coerenti con il “simbolo” della fede? C’era un corretto equili-

brio tra dottrina e morale? - Il contenuto era solido o banale, aderente alla vita o astratto, arricchente o scontato? La sua

qualità religiosa era consistente e percepibile o debole?

La struttura

- Era possibile cogliere una struttura chiara e coerente nello svolgimento del discorso? - L’introduzione ha catturato l’interesse? La conclusione ha lasciato una traccia nella memoria? I

passaggi erano curati e logici? - Gli esempi, i chiarimenti, le illustrazioni, le narrazioni erano efficaci e sufficienti? - Le argomentazioni erano persuasive?

Linguaggio e stile

- Quando l’attenzione è stata sostenuta e quando l’attenzione si è indebolita? - I termini usati erano comprensibili? Le frasi erano troppo lunghe e difficili? Quali termini po-

tevano essere sostituiti con altre e più efficaci modalità d’espressione? - Il tono della voce era variato e adattato ai passaggi contenutistici? - C’erano elementi che rendevano pesante l’ascolto o distraenti? - Il predicatore manteneva un buon contatto visivo con l’uditorio e aveva una gestualità sciolta e

appropriata? - L’amplificazione era buona e gradevole, le parole erano udibili senza sforzo?

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Motivo della celebrazione e contenuto dell’omelia

- Quale “volto” di Dio e di Gesù viene “rivelato”? In quale “opera” a nostro favore è possibile ve-dere in atto le caratteristiche di Dio e di Gesù che ci vengono rivelate? E l’omelia aveva recepi-to con fedeltà ed efficacia qualcuno di questi elementi?

- L’omelia aveva fatto percepire tutto ciò come “buona novità”, “annuncio che suscita gioia” per l’assemblea?

- L’omelia ha mostrato a quale “conversione” chiama questo “vangelo”? Le indicazioni per il comportamento scaturivano dal “vangelo”? Ne sono stati mostrati i vantaggi?

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SUGGERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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