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Sommario

scrizioneformazioni e ringraziamentipyrightmmario

castello e la cappella palatina - Guida breveastellostoria

emessa sulle origini della fortificazione bosanancastellamento

castellocinta murariaorrione maestrodimora del castellano

cappella palatinachiesantrofacciatarete sinistrate bibliografichechiesa castellana di Bosa - Monografiachitettura e ciclo pittoricostoria medievaleletteratura precedente

edificio chiesasticorancescani in Sardegna

emi della spiritualità francescanamodanologia e iconografia degli affreschi

approdo criticoossariobliografia essenzialeonologia dei giudici Di Arborea

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Descrizione

ibro fornisce una rilettura aggiornata sulla fortificazione della città di Bosa e sulla chiesastellana, cappella palatina dei giudici d’Arborea, sotto il profilo architettonico e artistico.rticolare attenzione e rilievo sono stati posti sulla presenza all’interno del sacro edificio di unlo pressoché interamente conservato, esempio unico in Sardegna, di affreschi trecenteschi sui

egnanti della spiritualità francescana.

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nformazioni e ringraziamenti

tore: Fernanda Policumentazione fotografica: Rossella Faddasistente fotografo: Adolfo Pizzarriitor: Rossella Faddaafica di copertina: Franco Fadda

paginazione e sviluppo software: Giovanni Faddaaduzioni: Anna Maria Pisanuitore: Dhuoda edizionita di pubblicazione: Ottobre 2012

cumentazione fotografica pubblicata su autorizzazione della Diocesi di Alghero-Bosa� Uffiocesano per i Beni Culturali Ecclesiastici Direttore Don Antonio Nughes.

ringraziano Mons. Antonio Francesco Spada, Don Antonio Nughes, Don Franco Oggianu. Inol

mo grati per la collaborazione agli amici della Societ� Cooperativa�L’�Antico Tesoro�sa.

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opyright

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uoda edizioni e/o di terzi e sono protetti dalla normativa vigente in materia di tutela del di

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lazioni si applicano le sanzioni previste dalla suddetta LdA.

BN 978-88-98984-00-8

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ommario

castello e la cappella palatina - Guida breve

castellostoria

emessa sulle origini della fortificazione bosana

ncastellamentocastellocinta murariaorrione maestrodimora del castellano

cappella palatinachiesantrofacciata

rete sinistra

te bibliografiche

chiesa castellana di Bosa - Monografia

chitettura e ciclo pittoricostoria medievaleletteratura precedente

edificio chiesasticorancescani in Sardegnaemi della spiritualit� francescanamodanologia e iconografia degli affreschi

approdo critico

ossariobliografia essenziale

onologia dei giudici d’Arborea

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l castello e la cappella palatina - Guida brev

castello

a storia

studio della castellologia medievale in Sardegna si limita a catalogazioni risalenti ai primicenni del Novecento e si fonda soprattutto sull’opera di Foiso Fois, seguita da un breve rendicRoberto Coroneo (1). Nessuno di questi lavori ha potuto servirsi, se non in casi eccezionali, dultanze di scavi archeologici eseguiti e pubblicati da medievisti, mirati alla conoscenza delleende architettoniche di un castello. Per quello bosano abbiamo la fortuna di possedere uno stu

onografico del Fois (2) che, oltre ad un esame tecnico/militare delle strutture murariepravvissute, pubblica rilievi grafici completi degli elevati: gli unici che abbiamo potuto consua cui abbiamo ricavato le diverse misure citate nel testo.

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bassa collina di Serravalle, che si eleva per una ottantina di metri sulla destra idrografica delme Temo non lontano dal mare, è un bastione naturale affacciato sulla fertile vallata fluviale ela cittadina di Bosa (Oristano), ancora oggi uno dei centri storici più importanti della Sardeg

gione da sempre connotata da una debole presenza urbana. La sua posizione era altamente idonessere sfruttata per il controllo contemporaneo della costa mediterranea, del fiume e della va

conseguenza, nonostante le limitate potenzialità difensive, appare assai difficile accettareffermazione di storici e archeologi che il luogo non sia stato interessato da intervento umano stardo Duecento (3). A nostro avviso è quanto mai probabile che ab antiquo vi esistesse un posvistamento. Osserviamo infatti che il colle era in collegamento visivo con l’antico abitato posla riva sinistra del fiume, verso il quale potevano essere inviati segnali di allerta (4) captabilla torre militare [forse di origine romana, come è stato supposto], poi trasformata in campanilla cattedrale di San Pietro esistente sin dall’Altomedioevo nella ‘villa-capoluogo’ della diocsana, suffraganea di quella di Torres. Di qui potevano essere ritrasmessi con sistemi sonori (vmpane) ai contadini al lavoro nei campi, i quali riuscivano così a riparare abbastanza velocem

interno di una qualche rudimentale cinta difensiva. Infatti, nonostante l’attuale vuoto documenrcheologico sull’argomento, si dovrà ragionevolmente ammettere che almeno l’insula episcopuartiere residenziale del vescovo], ma fors’anche il villaggio di pianura fossero stati fortificatnzione difensiva e non militare in senso proprio sia pure con sistemi precari, ancor prima del Mausa dell’eccesso di esposizione ai pericoli che venivano dalle periodiche scorrerie saracene

gistrate in tutto il Mediterraneo.

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nsiderazione lapalissiana è quella secondo cui ogni reticolo viario/fluviale, se favoriva da unsvolgimento dei commerci, dall’altro facilitava l’arrivo di predoni (5). Il Temo ancora oggi èvigabile con barche a basso pescaggio per cinque-sei chilometri ed è facile immaginare che larcorribilità fosse di gran lunga superiore nell’età antica e ancora nel Medioevo. Di conseguencessitava di una sorveglianza serrata, poiché consentiva di raggiungere agevolmente lo scalo

viale e di qui addentrarsi nei territori più interni sia ai razziatori provenienti dal mare come iraceni (spesso aiutati da guide indigene); sia ai latrones che, spinti dalla loro incurabile miserdicavano a veloci e devastanti scorrerie in villaggi e monasteri; sia a quei mali Christiani rico

documenti che si identificavano nei potenti e riottosi maggiorenti locali (6).

l caso di Bosa viene respinta senza appello dagli storici contemporanei l’affermazione di Gioancesco Fara, ‘padre’ della storia sarda (1580) (7), che il colle di Serravalle fosse stato fortifr la prima volta intorno al 1110-20 dai marchesi Malaspina, provenienti dalla Lunigiana (8), eun momento storico in cui non si può parlare di declino politico del regno, anche solo ricordan

e il Logudoro avrà il suo più grande sovrano in Gonario di Torres (1127 - post 1178). In veritcumentazione d’archivio superstite non consentirebbe di accettare questa informazione, poichéo a fine Duecento, quando cioè il giudicato di Torres-Logudoro era travagliato da una grave c

nastica, i Malaspina risultano presenti in Sardegna come dòmini a tutti gli effetti. La città di Bcora priva di castello, era entrata a fare parte delle loro proprietà nel 1232 circa quando vennrtata loro in dote matrimoniale da una donnicella turritana, insieme ad altri territori sardi: quete costituì la maggior parte del loro patrimonio nel giudicato.

giustificazione della necessità della costruzione del maniero bosano da parte della famiglia

rchionale a fine Duecento non potrà essere tenuta in nessun conto la paura del ‘diverso’ che inrdegna dopo la sconfitta definitiva dell’arabo Museto intorno alla metà del Mille non aveva p

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lto della ‘nefandissima gente saracena’ (9): quel popolo non costituiva ormai un pericolo tale hiedere l’erezione di nuove fortezze. Ma, a fronte di questa relativa tranquillità verso nemiciovenienti dal mare, si moltiplicarono le guerre intestine tra nuovi potentati non indigeni cheofittavano dell’indebolirsi dei giudicati locali avviati al tramonto. Le alleanze mutevoligravarono lo stato endemico di belligeranza: il bisogno di essere ma anche ‘apparire’ forti fecscere o riattare nell’isola numerose sedi incastellate.

Santa Sede estromise la famiglia Malaspina dai grandi giochi di potere negando loro nel 126

arìa pontificia in Sardegna. L’isola, dopo la creazione di un inaspettato Regno di Sardegna ersica, venne infeudata nel 1297 agli Aragonesi da papa Bonifacio VIII: questa sconfitta portò ecento al declino della dinastia malaspiniana.

fortezze di Bosa e Osilo risultano documentariamente in mano ai marchesi Malaspina solo da01; nel 1309 le ebbero confermate in feudo da Giacomo II d’Aragona. Nel 1317 castellani di no ancora sicuramente gli inquieti marchesi (nella seconda metà del Duecento alleati-vassallPisa, ora di Genova). Ma in quello stesso anno il territorio passò nelle mani dei giudiciArborea, l’ultimo regno sardo a perdere l’indipendenza a fine Quattrocento. La resa dei march

alaspina agli Aragonesi, cui avevano reso formale omaggio nel 1323 (atto che sembra non abbmportato pesi vassallatici), era ormai definitiva: nel 1326 furono costretti a cedere ai vincitorstello di Osilo e non riottennero più quello di Bosa (10): dopo il 1365 la dinastia toscana averso definitivamente possedimenti e potere politico nell’isola.

sa’[dal paleosardo ‘foce del fiume’; E. Blasco Ferrer], territorio ben strutturato sotto il profilro-pastorale (senza dimenticare l’apporto economico del fiume), non correva il rischio, comuolti castra, di collassare per mancanza di aree adatte alla coltivazione e all’allevamento delstiame, perché insufficienti a nutrire la popolazione. Il surplus della produzione poteva/dovev

ere esportato e raggiungere in un breve arco di tempo i diversi mercati grazie sia alla navigazviale, sia ad un buon reticolo stradale. La vecchia città sembra sia rimasta (almeno fino alecento inoltrato) un insediamento fisso praticamente senza soluzione di continuità.

anziamento nucleato in buona efficienza sotto il profilo abitativo, si può ipotizzare che Bosa focentro tanto importante nell’economia locale da essere restìo ad accettare ‘angarie’ [= prestassatorie di servizi diversi, tasse eccessive] da parte dei Malaspina. Non si può neppure negare, così come si verificò in molti centri toscani, i nuovi padroni abbiano provveduto in primarsona a fiaccarne le velleità indipendentiste distruggendo la sua realtà urbana ed obbligando,

rrebbe il Campus, la gente (piccoli e medi proprietari terrieri, mercanti, artigiani etc) ad inurbun progettato nuovo borgo allo scopo di esercitare un controllo più incisivo sulle attivitàonomiche, magari sostituendo in parte gli autoctoni con soggetti alieni. Ma questo borgo nuovoe del Duecento era ancora tutto da costruire ed il fenomeno, a giudizio degli storici, ebbe unarata non inferiore a due secoli, dunque di nessun vantaggio immediato per la dinastia marchione vide tramontare il suo potere già nella prima metà del Trecento.

evoluzione in senso urbano di Bosa fu dovuta alla famiglia giudicale degli Arborea e non aialaspina, che mostrarono la tendenza alla conservazione tipica delle signorie fondiarie mediev

ninsulari, basata sul mero esercizio del diritto signorile di sfruttamento delle risorse esistentibuti in denaro, in natura, redditi da locazione di terre, uso dei mulini, etc) piuttosto che ad un

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remento dei traffici commerciali. In sintesi, come scrive il Soddu, il livello di produttività eralizzato principalmente all’autoconsumo e al prelievo di tributi.

iché a nostro avviso non è da pensare che all’interno dell’area castellana potesse essere accolta la popolazione residente nel piano, i Malaspina iniziarono a lottizzare a vantaggio di piccoloprietari o contadini ricchi (compreso in genere anche il vescovo) appezzamenti di terreno vearissimo prezzo situati ai piedi e lungo le prime pendici del colle (11). I meno abbienti rimasnfinati nel piano probabilmente in dimore mono/pluricellulari a coltivare i campi al servizio d

miglia signorile. Dunque ci troviamo di fronte a una pianificazione urbanistica decisa a tavolingli ideatori non videro il compimento. Il nuovo agglomerato urbano sorse strutturato a schemncentrico seguendo le curve isometriche del colle, ma non si salderà mai sotto il profilo edilize strutture del castello, così come non avveniva in Lunigiana e come non avvenne a Porto Torril quartiere fortificato del vescovo sul Monte Agello e lo scalo marittimo.

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rasferimento avrebbe avuto inizio solo a fortificazione ultimata (fine Duecento-primi Trecentoa lunga durata (quasi due secoli), accogliendo l’offerta di maggiori opportunità economiche come aprendosi alla speranza di un miglioramento delle condizioni di vita dei residenti, cui la ccchia era forse diventata inadeguata. È ipotizzabile ma niente affatto certo un lento declino deutture abitative del primitivo nucleo abitato, anche volendo tralasciare le tradizionali

ustificazioni sull’aumento della diffusione della malaria (12) a causa delle ricorrenti esondazigionali del Temo e del conseguente impaludamento delle sue rive. Non è comunque da esclude, a causa di un progressivo deterioramento della regimentazione idraulica, si sia verificato unorno allo stato acquitrinoso delle aree pianeggianti e delle sponde marine e fluviali.

lla Sardegna conquistata dagli Aragonesi, pur costretti a qualche concessione di privilegiprattutto nelle ‘città regie’ (tra cui Bosa), le libertà comunali vennero soffocate: fu introdotto erpetuato il sistema feudale spagnolo sino al loro allontanamento dall’isola nel 1720. Bosa, ‘vile’, era una città ‘libera’ (titolo riconosciutole solennemente nel 1499) che aveva lottato perc

sero riconosciuti gli statuti concessi sin dall’età giudicale, ma rimase sempre sotto il controllfeudatario aragonese residente nel castello. A quei privilegi il vivace popolo borghese chebitava, il cui dinamismo aveva prodotto anche importanti effetti politici, non volle rinunciare rciò si trovò spesso in contrasto con il castellano. Ancora nel Quattrocento si registranombardamenti della città dalla fortificazione: la presenza di armi da fuoco pesanti nel castello,raltro in uso sin dalla metà del Trecento, giustifica gli adattamenti subìti dalla cinta muraria peguarla alla nuova artiglieria.

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emessa sulle origini della fortificazione bosana

n ci è noto se si sia mai riflettuto sulla possibilità che una qualche struttura difensiva sia stataprestata sul colle di Serravalle prima del Mille, quando le incursioni saracene erano veramenvastanti allo scopo di difendere, insieme alla chiesetta d’altura (oggi dedicata a N.S. de Sosgnos Altos) (13), i contadini della piana e i loro beni, compresi gli animali, sotto ripari più ono improvvisati apprestati entro una rudimentale cinta fortificata in materiali deperibili in caslungo assedio. Oltre a non essere affatto certa per queste prime apparecchiature di difesa una

nzione abitativa stabile, la presenza di più punti difensivi in una stessa area era abbastanza comsecoli altomedievali. Dunque la nostra ipotesi non confligge con quella dell’esistenza

ntemporanea di un recinto difensivo vescovile.

gnori locali, quali essi fossero ma sicuramente i sovrani del giudicato in nuce di Torres-gudoro, potrebbero avere provveduto a munire il colle di una ridotta [= opera fortificata diattere stabile o provvisorio] costituita da palizzate, fossato, aggere [= bastione in terra battutaella di risulta dallo scavo dei fossati], muri a secco, torri in legno (in realtà ancora molto raresecolo), integrati da boscaglie e siepi spinose vive, insieme a baraccamenti per soldati, in gen

numero assai ridotto. Tutte strutture precarie di cui sembra essersi persa traccia forse a causamerose fasi successive di occupazione del sito (14). Qualunque sia stata in quei secoli la realtediativa sul colle di Serravalle (si trattasse anche soltanto di un faro di segnalazione per viganti), allo stato nulla vieta che possano essersi conservati, a livelli stratigrafici inferioripetto a quelli indagati, segnali di una vita precedente, tenendo conto che in ogni insediamento mmità la fase in muratura delle strutture (non anteriore al XII secolo) è stata preceduta da queno, sebbene ‘nessun apparato difensivo del X secolo sia noto come tale nella sua integritàteriale’ (15).

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incastellamento

Sardegna è a nostro avviso da rifiutare l’ipotesi dell’esistenza nei secoli X-XI del fenomeno dbanizzazione chiamato ‘primo incastellamento’ che si verificò nella penisola, dovuto molto spsurpazioni ad opera di signori locali. Infatti proprio in quei secoli si erano imposti nell’isolateri politici assai forti. Quando la Sardegna si staccò di fatto da Bisanzio, un impero sempre pattento alle vicende mediterranee, si divise in quattro entità statali scardinando l’ordinamentobblico bizantino centralizzato (16), è innegabile che fu proprio grazie a questa ripartizione e a

esenza costante dei regnanti sul territorio che il controllo militare-amministrativo dei nuovi staamati giudicati, si rafforzò anziché indebolirsi. Almeno a partire dall’XI secolo, ma sicurame

che prima, l’isola era saldamente in mano ai giudici indigeni di Torres-Logudoro, Arborea,llura, Cagliari, una nobiltà funzionariale bizantina di grande intraprendenza che fonderà dinasstinate a durare a lungo. Il loro potere, fortemente centralizzato sebbene formalmente controllale ‘corone de logu’ [= assemblee di tutti i cittadini abbienti], era tanto solido che neppure le

miglie più ricche, spesso imparentate con gli stessi sovrani e frequentemente in concorrenza pnquista del trono, o gli enti ecclesiastici riuscirono a strappare concessioni per costruire dimotificate come ad esempio avveniva nell’Italia padana. Venne così impedito il frazionamento

lviscolare del territorio in signorie di castello, come avvenne nel resto della penisola. Il privigio di fortificazione rimase sempre nelle mani dei giudici ed ogni tentativo di violarlo senza trupoli legalitari a difesa di proprietà private o di offesa verso il sovrano fu combattuto concisione. In sintesi nell’XI-XII secolo tutti i castelli strategici sardi appartenevano al demaniobblico e i più muniti si trovavano in genere alle frontiere dei regni, poiché le aggressioni estercui difendersi non provenivano più soltanto dal mare, bensì dai bellicosi regni contermini (17

iché il giudicato di Torres-Logudoro mantenne intatto il suo potere di controllo sul territoriomeno fino alla seconda metà del Duecento, neanche la prima fase del cosiddetto ‘secondo

astellamento’, fissato dagli studiosi al XII-XIII secolo, di modello peninsulare, che vide lafinitiva affermazione dei poteri signorili proliferatisi per gemmazione dai maggiori feudi ai picoli e apparentemente insignificanti, poté qui realizzarsi ad opera di privati.

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castello

biamo già detto della possibilità che il colle di Serravalle fosse già dotato sin dall’Altomediostrutture difensive semipermanenti e sfruttato come posto di osservazione. È anche ipotizzabiletà protogiudicale sia diventato un recinto fortificato che potesse accogliere uomini e animali so di pericolo e di assedio, in cambio di servizi di sorveglianza o pagamento di un censo: duncora una struttura poco resistente sotto il profilo ossidionale [= relativo all’assedio].Altomedioevo, che aveva disimparato la perfetta tecnica edificatoria dell’età romana, nella

struzione delle sue mure difensive faceva uso di ciottoloni di fiume, malte scadenti di grandeessore, materiali di reimpiego usati con scarsa attenzione (18). Di queste fasi non abbiamo a onferma storica o archeologica, ma le due ricerche non sono state ancora completate.

ù sicure le informazioni sul sito dopo l’occupazione da parte dei Malaspina. Il nostro castelloerire nella seconda fase del cosiddetto ‘secondo incastellamento’ di fine XIII-XIV secolo, eraidenza signorile fortificata dove come altrove risiedeva solo la famiglia marchionale e il suoourage. Infatti non nacque come centro di popolamento: la Bosa vecchia, posta sulla riva sinifiume Temo intorno alla chiesa di San Pietro, era una realtà urbana attivissima e fiorente anc

a fine del Duecento. Di conseguenza la fortificazione deve essere stata pensata e poi realizzatame dimora signorile così che non prevedeva al suo interno un abitato (si veda, tra le innumereuazioni simili, il castello di Caprona in Toscana).

flettendo sulla consistenza edilizia dell’elevato visibile coincidente con le risultanze di storicheologi medievisti, il fortilizio che oggi vediamo non sarebbe anteriore alla fine del XIII secando l’ormai avanzata decadenza del giudicato di Torres permise ai Malaspina di ampliare amisura i propri possedimenti isolani pur non contigui tra loro incuneati tra quelli dei Doria a ell’Arborea a sud, tanto da diventare padroni di una parte cospicua della Sardegna settentrion

nostro avviso non appare fondata la prima ipotesi di Alessandro Soddu secondo cui il nostrostello non sarebbe stato ancora costruito alla metà del Duecento sulla base di un atto del 1254n viene ricordata la presenza di un castellano (19). Più valida l’alternativa proposta dallo stesdioso e cioè che a quella data i Malaspina non esercitassero ancora prerogative signorili nel

udicato di Torres: il potere giudicale resisteva ancora, almeno formalmente. Purtroppo, strapaostro avviso ingiustamente il Fara, non è stato rintracciato alcun documento che ci informil’erezione della fortificazione bosana. Ma in ogni caso potremo consolarci pensando che le cfondazione di castelli sono in ogni caso rarissime nel nostro paese (20).

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a cinta muraria

mancanza di una aggiornata documentazione grafica e soprattutto stratigrafica, è difficile uscirgli schemi consueti di lettura di una fortificazione medievale. Comunque potremo fortunatamenarci ai rilievi pubblicati nel lontano 1981 dallo storico sardo dei castelli Foiso Fois. Non semervi dubbio che, come sempre accadeva, il circuito murario abbia seguito passivamente sinl’origine l’isometria del terreno a disposizione sulla cima del colle, evitando per quanto posgamenti angolari, assai più vulnerabili rispetto a murature curve perché presentavano punti d

servazione nascosti, e comunque ove presenti protetti con l’erezione di torri. Sappiamo che laesa nel Medioevo era intesa quasi sempre come difesa passiva, in particolare difesa piomban’interno di perimetri fortificati (rare le battaglie campali) e che le modalità tattiche nongistrarono variazioni di rilievo fino alla nascita delle artiglierie moderne. A questa osservazionerale si adegua anche la fortificazione bosana.

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uo perimetro, realizzato in muratura a sacco, misura circa m 352 e racchiude un altopiano in pificiale di circa 8000 mq (21), in leggera pendenza onde evitare per quanto possibile il ristagle acque meteoriche. Fatta salva l’esistenza/sfruttamento di strutture anteriori, la sua costruzioebbe da assegnarsi ai Malaspina, che avrebbero costruito il castello alla fine del Duecentopiegando manodopera specializzata fatta venire dalla Lunigiana. Del castello risultanocumentariamente proprietari nel 1301 e lo tennero fino al 1317, quando passò nelle mani dei

udici di Arborea. Altri adeguamenti legati all’introduzione delle armi da fuoco sono addebitabi Aragonesi, che se ne impossessarono definitivamente nel Quattrocento.

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perimetro murario fu protetto da scarpate artificiali utili ad attuare una difesa integrata con lartina. Sebbene gli scavi archeologici non si siano ancora estesi all’esterno del castello, riteniarosimile l’esistenza sul lato di levante di un fossato (oggi colmato), ovviamente asciutto e piùofondo delle fondazioni delle mura per evitare che fosse facilmente riempito e che il nemicotesse scavare gallerie di mina [= cunicoli sotterranei], che consentivano di indebolire le murao a farle crollare ma anche di penetrare all’improvviso nello spazio interno del castello. Inolt

veva essere abbastanza largo da non consentirne il superamento con ponticelli volanti.

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torri rompitratta (anch’esse in muratura a sacco) sono tutte a gola, cioè prive del lato versonterno, come ad esempio nella pisana Iglesias o nella senese Monteriggioni (ma vedi anche le biche di Rieti): il modello proviene dalla Toscana, ma lo ritroviamo anche in Lombardia (adempio Vimercate) a confermarne la validità difensiva. All’interno di queste torri furono inserini a diversi livelli in corrispondenza delle feritoie: il primo poggiava su una volta a botteassata posta all’altezza del cammino di ronda, al quale si accedeva tramite aperture architrav

legamento (camminamento passante); quelli superiori erano a travatura e tavolato lignei. Lerette più antiche (in origine quattro) sono strutture di irrobustimento della cinta muraria; sporg

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pena dal recinto ed hanno forma quadrangolare. Il resto della cortina, che guarda a occidente vcittà vecchia e il fiume, è interrotto da una torre scarpata a tre spigoli (nord-ovest), datata ai pcenni del Trecento, di altezza pari a m 11 circa, realizzata a fasce di conci di trachite rossa. Enserva la merlatura guelfa/aragonese, scomparsa in ogni punto del percorso murario dove in anti (a nord) restano tracce di bocche da fuoco. La torre a quattro spigoli di sud-ovest, anch’esarpata e forse ancora trecentesca, non sopravvanza l’altezza massima dell’attuale cinta murarirca m 5,70) (22).

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mura bosane sono assai poco robuste tranne nei pressi della torre-maestra dove raggiungono essore di m 1,50 (come le mura di Iglesias), mentre a settentrione si aggirano sui 60 cm (il chebitare una esecuzione in muratura piena). Secondo Raimondo Carta Raspi (1933) esisteva unabusta pusterla ora murata’ (23), posizionata sul muro di cinta di levante appartenente all’edife egli chiama caserma (‘forse l’antico donjon [= lo stesso che cassero]’), poggiato alla cortina

uraria dove ‘i muraglioni superstiti si mostrano alti e fortemente massicci, luogo senza confronù robusto d’ogni altro del castello’. In altri termini l’edificio, oggi identificato ipoteticamente ma residenza signorile e datato al XIII secolo dagli archeologi, sarebbe stato in realtà una strustinata alla guarnigione di stanza nel castello (funzione che peraltro non esclude l’altra: al pianreno i soldati, le cucine; a quello superiore le stanze riservate alla famiglia del castellano).

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questo versante orientale affacciava un corpo di fabbrica di forma curvilinea, chiamato anch’ellino dal Fois (24) con probabile camminamento di ronda integrato nella cortina muraria, che

mbra fosse il posto di guardia al ponte levatoio. Si tratta di un ambiente rettangolare (circa m3,50; spess. murature a sacco m 1,70; altezza non superiore a quella della ‘caserma’ di circa otri) coperto da volta a botte, anch’esso oggetto di parziali rimaneggiamenti e restauri. L’ingreerno al palazzo fiancheggiava questo edificio ed era frazionato da tre aperture ravvicinate forunite di saracinesche (25). Si trattava di uno sperimentato stratagemma che consentiva un’opererdizione abbastanza agevole, considerato che le milizie castellane erano costituite in genere ettivi alquanto ridotti. Infatti la rocca castri doveva essere in grado di opporre l’ultima resistecaso di cedimento delle difese esterne: in altri termini, come scrive Pierre Toubert (26), il pal secondo perimetro interno fortificato.

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primitivo ingresso principale alle mura era munito di ponte levatoio ‘di cui sopravvivono lensole di arresto dei travi bilancieri’ (Foiso Fois). Collocato tra ‘posto di guardia’ e ‘casermaacciava su uno spazio quadrangolare interno che, a giudicare dal rilievo pubblicato dallo stesis, sembra troppo vulnerabile, aperto come appare verso la dimora signorile. In realtà all’estela cinta, proprio in questo punto, esistono tratti di muratura (molto restaurati) ed altri sommer

le sterpaglie che farebbero pensare ad una struttura avanzata e dunque forse ad un rivellino pifesa del ponte levatoio non dissimile, ad esempio, da quello del noto castello di Vigolenoacenza; XIII-XIV secolo) che si cita non casualmente perché eretto da maestranze provenientila Lunigiana (27). L’ipotizzato complesso difensivo fossato-ponte levatoio-rivellino venneminato (o comunque parzialmente obliterato) quando nel Trecento l’originario accesso al castmurato, verosimilmente perché ritenuto ormai inservibile sul piano difensivo ed in sua vece fuerto, verso la perduta torre est, un nuovo ingresso, che oggi si presenta come un ampio quantoicuro portale ad arco, molto restaurato, datato nelle sue forme attuali alla prima metà delattrocento (28).

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ridosso del fortilizio non si costruirono mai abitazioni, poiché con il loro ingombro avrebberotuto consentire ad eventuali assalitori movimenti non controllabili dalle soldatesche asserragll’area munita: la fascia di rispetto, integrata probabilmente da una palizzata lignea, non dovevere inferiore al campo di tiro delle balestre [= armi da lancio di frecce e dardi]; un tratto direno libero veniva risparmiato anche all’interno per consentire il veloce movimento delle trup

ifornimento delle munizioni agli uomini in difesa sulle mura. Infatti il rione ‘Sa Costa’, costitupo l’erezione del castello e frutto di una lenta migrazione dalla città vecchia verso la collina, ciato ben scoperto il terreno che abbraccia la fortificazione (29).

cortine murarie dovevano essere in origine alte all’incirca 10 metri (cioè l’altezza di due scavrapposte: a Iglesias m 10,50), ma oggi si elevano soltanto fino a una altezza massima di circa0. Si conserva ancora (restauri a parte) lungo il perimetro fortificato parte del camminamento

nda (largh. ca. 90 cm). Ovviamente non quello medievale, poiché si dovrà presumere che, a sel’introduzione delle armi da fuoco nel Quattrocento, mura e torri siano state abbassate al fine

n fornire bersagli troppo facili alla nuova artiglieria. In età aragonese vennero realizzati gli sprapienati di cui vi è traccia per consentire ai nuovi armamenti di raggiungerne la sommità.

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torrione maestro

orrione maestro, pesantemente restaurato da Dionigi Scano nel 1893 (30), risale ai primi anniecento e venne eretto per iniziativa dei Malaspina. Si presenta simile alle torri portaiegliaritane, fatte costruire dai Pisani dall’architetto Giovanni Càpula, denominate di San Pancra) e dell’Elefante (32), così come a quelle di Oristano e Iglesias. Tuttavia il torrione bosano, ferenza delle strutture citate, non sembra fosse munito di più porte affrontate e di saracinescheno o ferro, poste a protezione dell’ingresso alla cinta fortificata: dunque la somiglianza è solo

rfologica fatti salvi interventi di ricerca in tal senso. Come quasi sempre accadeva, anche querione fu inserito successivamente alla prima costruzione delle mura sul lato di nord-est e fusizionato a fianco del palazzo, anch’esso fortificato: in considerazione dell’angustia dei pochazi vuoti, non doveva essere destinato ad abitazione, bensì solo a deposito del tesoro e magazr provviste e munizioni.

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to circa m 20 (secondo i disegni del Fois), ha pianta a U (m 10,30x7,70), il quarto lato era apotetto forse in origine da balaustrate in legno come nella ricostruzione proposta dallo Scano neri cagliaritane, per consentire la difesa dall’alto in caso di irruzione nella cinta fortificata degedianti. Costruito in trachite chiara con inserti casuali di conci scuri, ha una copertura piana

otetta da parapetto anch’esso di restauro. Lo spessore delle murature a sacco è di m 3,50 circala base la cortina muraria è costituita da pietre bugnate con nastrino (come ad esempio ad

istano) in trachite rossa, mentre i piani superiori sono in blocchi di pietra lisci accuratamenteuadrati (molti di restauro). Il piano terreno è stato rinforzato staticamente nel corso dell’interv

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1893 da fodere interne in pietra ed è coperto da un solido solaio in muratura posto a 8 m diezza dal piano di campagna per ovvii motivi di sicurezza: un arco rampante in mattoni di rinfotico venne costruito nel corso di detto restauro. Questo solaio è posato alla stessa altezza degoggiamenti, ricavati nel muro di cortina, per accogliere le travi sorreggenti il tetto della ricordserma’, con cui il torrione doveva essere collegato. Al piano intermedio esisteva un soppalconeo, di cui sono ben visibili i fori per le travi di sostegno. Vi si aprivano tre ingressi archivolraverso i quali si accedeva a vani coperti da volte a botte, ricavati nello spessore murario, chnsentivano di raggiungere le strettissime feritoie di difesa, che permettevano il tiro di fianco. A

razzo superiore si giungeva con ogni probabilità attraverso scale a pioli. Nel giro di colmoganti mensole o gattoni (per la maggior parte di restauro) in trachite rossa, di disegno trecententico a quelli delle torri cagliaritane, reggevano un tavolato utile per la difesa piombante e fo

a bertesca (33).

modello per il torrione bosano è facilmente individuabile nelle terre di Toscana ma, nella ricedovrà tenere presente che per la maggior parte o sono a livello di rudere, oppure il lato apertorso l’interno è stato tamponato in tempi più o meno recenti (come del resto era accaduto per qgliaritani, poi liberati da queste chiusure in muratura a cura dello Scano) per rendere la struttu

tabile. Si vedano, ad esempio, le torri superstiti di Iglesias o quelle di San Gimignano.

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a dimora del castellano

trattasi, come sembra, di costruzione malaspiniana, partiamo dall’esame del cassero (34) diffprattutto in Lunigiana (regione storica divisa oggi tra la provincia di Massa Carrara e quella dezia) a partire dai primi decenni del Duecento. Ci riferiamo alla fortezza interna alle mura destello, posta a nord, che accoglieva il palatium castri circondato da mura difensive e collegatoere fisse o ponti mobili al torrione.

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edificio a due piani che oggi osserviamo è una struttura abitativa che potrebbe risalire nelle sume attuali al Trecento, oltre che essere stata successivamente plurimodificata (35): un tempo cui il bisogno di maggiore confort portò ad aumentare la superficie a disposizione dei signorimai residenti fissi all’interno del castello. Il lato esterno settentrionale coincide con la stessa craria e ne costituisce rinforzo. Poiché il costo della costruzione di una fortificazione era

vatissimo (cui dovrà aggiungersi la disponibilità non sempre ampia di risorse umane e tecnicesso erano le abitazioni a fare da muro.

nsiderata l’alta improbabilità sopra segnalata di una originaria funzione abitativa del castelloargata alla popolazione, il ritrovamento di unità disposte a pettine (36) non testimonia a nostroviso con certezza che esistesse all’interno del recinto murario un nucleo demico, bensì che civiamo di fronte al ritrovamento di locali legati alle esigenze della presenza signorile e dellaarnigione. Infatti il centro abitato era giù nella piana, prima sulla riva sinistra del Temo e poi ndici del monte e, come già detto, mai unitosi al castello a riconferma della sua funzione

mbolico/rappresentativa (senza negare ovviamente quella difensiva).n nota è l’organizzazione di una struttura fortificata che, oltre alla casaforte del signore, dovev

frire spazio a strutture di rappresentanza, foresteria, locali di servizio (magazzini, forno, stalleuderie, fienili, granai ecc.), abitazioni per i funzionari amministrativi, alloggiamenti per i soldgioni (in genere sotterranee, così come cantine, ghiacciaie e discariche). Alcune aree dovevan

manere disponibili per coltivare piccoli orti che, in caso di assedio o scorrerie, distrutti i raccle campagne circostanti, assicuravano un minimo di sussistenza ai residenti. Dovevano ancheere presenti spazi liberi per accogliere provvisoriamente le popolazioni minacciate, insieme

o beni mobili giudicati indispensabili e al bestiame. Ma nel caso di Bosa la città vecchia fuobabilmente a lungo in grado di autodifendersi perché, come sopra ipotizzato, doveva disporr

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mpo di una propria cinta di protezione (37). Fino all’introduzione delle armi da fuoco questegenze primarie restarono invariate per secoli: la difesa è difesa passiva, le battaglie campaliissime e di conseguenza ci si doveva attrezzare a resistere.

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casaforte signorile bosana era essa stessa ‘un castello nel castello’, che conosciamo pressocho a livello planimetrico: un fortilizio di forma rettangolare con quattro torri angolari alte ingine, secondo il Fois, una decina di metri (sopravvivono in discreto stato di lettura i resti di qlo spigolo ovest, mentre è stata inglobata nel torrione maestro quella di nord-est). Uno

erone/rivellino a pianta triangolare (38) fu costruito secondo lo stesso Fois nel XIV secolo a d

accessi, dei quali non distinguiamo più le tracce: la struttura consentiva il tiro di difesa lateral’alto.

iversi ambienti d’abitazione si disponevano intorno ad uno spazio distributore interno, dove ete ricavate due cisterne (non sappiamo se già ispezionate dagli archeologi) ma di cui non ci ristata stabilita né la cronologia né la tipologia (39). Erano destinate alla raccolta delle acque

ovane e, se possibile, di quelle percolanti dai tetti, ovviamente a pendenza verso l’interno delrtile. L’acqua di cisterna era spesso migliore di quella di un pozzo, bisognoso di maggiori conventuali infiltrazioni di acque inquinate) e di continua manutenzione. La loro presenza era vital

sopravvivenza dei residenti: quando rimanevano a secco per mancanza di piogge, gli assediatno costretti alla resa. Un’altra cisterma esiste (ma non visibile perché compresa in un ambienn visitabile) presso la chiesa castellana di N.S. de Sos Regnos Altos, forse a conferma di una stenza anteriore e indipendente dall’attuale castello. Poiché la cisterna a nord, relativamenteina alla cinta muraria, era protetta da una struttura muraria indipendente, oggi scomparsa, èssibile non fosse tale e che nascondesse invece un passaggio sotterraneo, non più praticabile aomento, che conduceva all’esterno. Si veda, a titolo di esempio, simile stratagemma presente ntello di Romena nel Casentino o in quello Aghinolfi a Montignoso (Massa). Sulla fronte nordrione sono presenti due stemmi di difficile collocazione cronologica e identificazione, forse

eriti in tempi relativamente recenti. Quello palato potrebbe essere indifferentemente assegnatoagonesi o ai Villamarì, dal 1468 feudatari di Bosa, i cui scudi si differenziano solo nei colori

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si in campo giallo/oro per i primi; pali rossi in campo bianco/argento per i secondi]. Per l’alto ipotizzato che si tratti dell’arma dei Malaspina dello Spino Secco (la famiglia si divise nei

mi principali dello Spino Secco e dello Spino fiorito nel 1221), ma il disegno non coincide codello araldico conosciuto.

partire dal Duecento e definitivamente dal Trecento in poi, i castelli si trasformarono in dimonorili sempre più confortevoli e meno blindate ma, per quanto è possibile giudicare allo statouale delle ricerche, non sembra che qui a Bosa si fosse attenuato il bisogno di sicurezza dei

tellani almeno per tutto il Quattrocento, fino a quando cioè continuò l’estenuante guerra traborensi e Aragonesi. Sicuramente l’affidamento del castello a feudatari aragonesi, spesso in anflitto con la Bosa Nuova, città regia con proprio statuto, nata sulle pendici del colle, non favoma di distensione: come già detto, il centro fu oggetto di attacchi violenti nel Quattrocento da castellano di turno a testimonianza di una aperta conflittualità tra i due poteri.

fortificazione di sommità cominciò ad essere smantellata nella seconda metà del CinquecentoSeicento ne iniziò l’occupazione da parte di povera gente, che vi risiedette fino all’Ottocento

seri caseggiati realizzati usando i conci strappati alle mura castellane.

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a cappella palatina

a chiesa

a i fortunati ritrovamenti sardi di affreschi medievali si colloca il ciclo pittorico pressochè intla chiesa castellana di Bosa (Giudicato di Torres poi Arborea, in origine uniti sotto un unico

vrano), intitolata nel tempo prima a San Giovanni (dunque come d’uso legata al nome delmmittente), poi Sant’Andrea e infine (dedicazione attuale) a N.S. Signora de sos Regnos Altosnne in luce inaspettatamente nel 1974 in occasione dei lavori architettonici di restaurol’edificio e su cui si intervenne per la prima volta nel 1975-76 sotto la direzione di chi scrive

no a quel momento l’unica testimonianza affrescata nell’isola era il ciclo con storie cristologicl’abside di Saccargia: via via nel tempo si sono aggiunti Galtellì, Trullas, Bonorva (conosciu

mpre ma restaurato solo in anni relativamente recenti) ecc. grazie ad una maggiore attenzione dgani statali preposti, da molti decenni rassegnati a considerare Saccargia testo unico in Sardepittura murale.

committente fu il donnicello Giovanni d’Arborea (†1376), sfortunato proprietario del manieroando il ciclo venne realizzato intorno al 1340 da un pittore toscano probabilmente pisano, vicituralmente al celebre Buffalmacco, autore nel Camposanto di Pisa del ciclo del ‘Trionfo dell

orte’. Il castello sembra sia stato eretto dai marchesi Malaspina nei primi decenni del XII, ma ecento era stato ceduto insieme alla città di Bosa agli Arborea. Crediamo che una chiesettaaltura esistesse sul colle prima dell’erezione del castello, che la inglobò entro le sue mura,venendo poi una cappella privata destinata eclusivamente ai signori del luogo.

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visita inizia dall’ingresso di facciata.

piccolo edificio consiste di una sola navata quadrangolare coperta a capriate prolungata alla fl’Ottocento verso est, intervento che comportò la distruzione dell’originaria abside medievalnque anche dei dipinti murali che sicuramente la decoravano. Tre pareti conservano gli affresccenteschi sopravvissuti pressoché integralmente: non una serie di tabelle votive come ad esemOrosei (chiesa di Sant’Antonio Abate) ma un programma dottrinale ben meditato da un fratencescano, che forse era il consigliere del principe. La presenza dei Francescani in Sardegna epiamente attestata soprattutto nel regno di Torres e Arborea.

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n sapendo che nel Medioevo le serie di figure sacre dipinte all’interno di una chiesa sono speettiche e apparentemente inspiegabili, tuttavia Bosa sembra in qualche modo fare eccezione a

gola. Infatti tutti i santi rappresentati possono essere accolti in una sorta di pantheon francescanrché rfilettono le virtù più amate e predicate dai Minori. Queste figure non sono certo una loroclusiva ma, guardando alle intitolazioni delle loro chiese e alle virtù che personificano, non

mbra possibile negare una scelta mirata dell’iconografo.destra dell’ingresso (parete destra), partendo dal registro superiore, incontriamo i Dottori

hiesa Ambrogio, Girolamo, Agostino, Gregorio Magno, cui segue forse l’evangelista Giovannire figure non più leggibili o scomparse.

gue la raffigurazione dell’Ultima Cena, momento della istituzione dell’Eucarestia, indispensar la salvezza eterna. Gli Apostoli (identificati da una lunga iscrizione di base), benché siano secapitati’ per i danni subìti dall’affresco e pur con quelle mani così poco espressive, mandano

gnali del loro disagio di fronte all’annuncio del tradimento imminente grazie a quei piedi prenmmieschi che si agitano sotto la mensa. Si riconoscono comunque bene Pietro (corta barbagia), Giuda (il suo profilo dimezzato [fatti salvi interventi falsificatori di restauro] è di grandlezza: evidentemente per il nostro pittore la malvagità non è sinonimo di bruttezza fisica) coltntre pone la mano sinistra (mano infausta) nel piatto, e Giovanni, il discepolo più giovane e

ediletto, che china la testa verso il petto di Gesù: il viso efebico dall’ovale delicato è simbolorginità. A quel che è dato supporre il volto di Cristo era di profilo, una rappresentazione che otto (Padova, Cappella degli Scrovegni, 1303-05) era riservata solo ai malvagi o alle figureondarie. Il nostro frescante sembra dunque essere aggiornato sulla novità iconografiche della

tura trecentesca. Il Redentore calza, non casualmente, sandali francescani (come il Bambino d

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dorazione dei Magi’).

ontriamo come ultimo pannello sopravvissuto, di assai mediocre qualità, la Adorazione dei M

maggio dei potenti della terra alla divinità. La figura della Madonna, in particolare il viso, è frun restauro integrativo e fantasioso che ne ingentilisce i tratti; i Magi sono figure elementari mn altro hanno il pregio di essere quelle originali.

endiamo al registro inferiore (dunque dalla presunta abside originale per evitare al visitatore

rcorso complesso) incontriamo una teoria di sante e santi tutti legati in qualche modo allaritualità francescana.

sante (raramente con i loro atttributi, ma individuabili grazie ai tituli identificatori) simbolegprimo luogo la castità, e quasi tutte hanno una precisa ‘specializzazione’ nel soccorrere ifferenti. Indossano una semplice sopravveste dagli orli serpeggianti (una eredità duccesca):riano solo i colori), Le capigliature sciolte sono segno di umiltà e purificazione (anche di lutto

una nicchia ricavata successivamente la statua lignea di Sant’Andrea, probabile opera

/quattrocentesca.ontriamo per prima (dopo una lacuna) Lucia di Siracusa, simbolo della carità poiché distribu

uoi beni ai poveri. Regge con la mano sinistra una lucerna accesa, allusione alla parabola delrgini sagge e delle vergini folli. Invocata contro le malattie degli occhi, è patrona dei ciechi.

gue il riquadro di Maria Maddalena, simbolo della penitenza e della redenzione, patrona deimacisti e delle prostitute. Unica nella processione sacra, non è dipinta in posizione stante comre protagoniste contro il fondo simbolico a due fasce colorate blu e gialla (che annullano temp

azio), bensì inginocchiata, coperta dai lunghi capelli irti sul capo secondo un diffuso stilema cntraddistingue le figure degli eremiti e indossante il mantello di pelle di capra: l’aureola è ragellittica (invenzione giottesca). Sullo sfondo un paesaggio roccioso simboleggiante da secoli serto degli anacoreti dove sboccia un ramo gigliato, allusione all’Aldilà sin dall’età pagana: ilo precipite scende a nutrirla l’angelo del Signore. Dunque un racconto sia pure abbreviato mampre un racconto.

a incontriamo Marta, sorella di Lazzaro, simbolo della vita attiva come quella dei Francescava di attributi; patrona degli albergatori.

apparizione di Giacomo il Maggiore, patrono nazionale spagnolo, aveva fatto indirizzare laerca verso quella regione, ma i riferimenti stilistici proposti nonché le circostanze storiche sovi di fondamento. L’Apostolo Giacomo, venerato da secoli nel nostro paese (per esempio èrono di Pistoia, che ne conserverebbe una reliquia) come protettore dei pellegrini e delle

nciulle, ricevette da Francesco un culto fervente, poiché il Santo di Assisi individuava nella vinerante la vera vita apostolica: la strada è immagine della precarietà e provvisorietà dell’esis

mana. Indossa l’abito dei pellegrini di Santiago (mantello su tunica ad ampie maniche, berrettasante sul capo, bastone, petaso con il simbolo che lo contraddistingue della conchiglia).

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gue Eulalia di Barcellona (già presente a Ravenna nel VI secolo): nessun attributo, visoidamente frontale da antica matrona romana. Viene impetrata contro la siccità.

i incotriamo Agata di Catania, invocata contro le malattie del seno, i fulmini, gli incendi, il fupurgatorio. Attributo, anziché le mammelle amputate, un fuso che ricorda il fatto che come

nelope, per non doversi sposare, tesseva una tela di giorno per disfarla la notte.

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nese di Roma, simbolo della castità cui allude l’agnellino da cui il suo nome, martire all’età dici anni. Viene invocata tra l’altro contro i pericoli del mare.

rbara, santa orientale, protettrice dei soldati e dei vigili del fuoco, lottò contro il padre degene la rinchiuse in una torre e poi la uccise. Suoi attributi la torre a tre finestre (allusione alla Trpenne di pavone (trasformazione delle verghe con cui venne fustigata), la pisside con ostie pe

vocata nel momento della morte.

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ttoria di Roma, compagna di Anatolia (qui non raffigurata); è priva di attributi.

parata di Cesarea merita un cenno particolare. Co-patrona di Firenze e Pisa, è l’unica a reggle mani un ramo fogliato: non la palma del paradiso ma comunque un sempreverde (alloro o u

e nel Medioevo alludevano alla pace raggiunta attraverso le armi). Il suo culto è poco diffuso rdegna (ricordiamo la chiesa di origini romaniche di Usellus): si tratta sicuramente di una

portazione toscana (vedi la Baia di Santa Reparata a Santa Teresa di Gallura).

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argherita di Antiochia: il suo nome significa perla, umiltà, protettrice delle partorienti e invontro la sterilità. Suo attributo è il drago, che qui appare di grandi dimensioni con la codaorcigliata che invade parte della figura che segue.

cilia di Roma: è priva di attributi, protettrice dei musicisti.

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vina di Troyes, greca di Samo, in genere raffigurata in veste di pellegrina ma qui non abbigliaversamente dalle altre.

sula, britannica, invocata contro la peste e pregata pro felici morte. Non è contraddistinta da ributo.

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gue un’altra santa non identificabile.

corteo prosegue in controfacciata per cui continuiamo lo stesso percorso.

ontriamo (forse) Scolastica, sorella di San Benedetto, ma non indossa la consueta tonacaonacale. Viene invocata per ottenere la pioggia e contro fulmini e uragani.

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iudono il corteo l’imperatore Costantino (con chiodi e lancia della Crocifissione) e la madreena, leggermente invecchiata rispetto alle altre figure femminili perché in realtà aveva un’ottananni quando ritrovò la croce miracolosamente a Gerusalemme.

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ontrofacciata

gue la descrizione dei dipinti murali di controfacciata.

frontati araldicamente sono raffigurati a sinistra a cavallo Martino, legionario romano poiscovo di Tours, mentre dona la metà del suo mantello al povero, che si rivelerà essere Cristo,orgio che uccide il terribile drago-demonio: il suo cavallo (un bellissimo pomellato grigio dada annodata a fiocco secondo la moda del tempo) si impenna per permettergli di dare più forz

po di lancia.

a loro occupa l’intera altezza del muro la gigantesca figura apotropaica di Cristoforo, un brige, convertito, sarebbe morto martire in Licia. La raffigurazione (monca nella parte alta), è quensueta dell’attraversamento del fiume impetuoso mentre porta sulle spalle il Bambino Gesùomparso), il cui peso cresceva ad ogni passo rischiando di fare crollare il gigante buono. Qugenda fece sì che divenisse il protettore dei viandanti e dei pellegrini.

tto il San Giorgio si conserva una raffigurazione enigmatica anche a causa dei danni subiti. Un

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gelo (rimasto a mezzo busto) che impugna con forza una lancia e una figura femminile che lanco sguardo attento verso di lui. Si tratta a nostro avviso della raffigurazione dell’Arcangelo

chele intento nel giorno del Giudizio a cacciare con l’asta i demoni che insidiano i risorti, men il braccio sinistro sorregge la bilancia per la pesatura della anime (o meglio dei peccati). Laura femminile è la Madonna in veste di advocata, ruolo attribuitole da secoli.

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arete sinistra

ziamo dal registro superiore, quello dove più chiaramente si manifesta la mente ordinatrice dmbro dell’Ordine dei Minori.

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po vistose lacune, troviamo i santi francescani più noti con tonaca e cordiglio (amputatiaticamente dal busto in su): Chiara (canonizzata nel 1255); Antonio di Padova (ca. 1232: reg

mani la raccolta dei suoi sermoni sulla Vergine); Ludovico di Tolosa (ca. 1317: la corona ai di e il seminato azzurro con i gigli di Francia lo identificano con certezza).

seguire uno dei momenti più commoventi della vicenda terrena del Santo di Assisi, cioè l’epile Stigmate. Nonostante il grave stato di degrado distinguiamo ancora sul fondo i monti dellarna dove avvenne il prodigio e vediamo Francesco inginocchiato che volge le palme al serafiomparso). La traiettoria dei raggi dolorosi, che gli trafiggeranno mani e piedi è interrotta matinguibile: il suo volto estatico è volto verso l’osservatore nell’invito a condividere la sua

fferenza.

guono figure non più identificabili.

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gistro inferiore. Dopo altre figure poco leggibili la parte più importante dell’intero ciclo e pma trattato e per la qualità pittorica molto alta.

nteresse maggiore è sempre stato rivolto alla scena raffigurante la vanità del vivere (una leggse di origine orientale) e cioè l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti, tema francescano (ma a

menicano) per eccellenza, di cui esistono numerosi esempi nel Continente europeo. In Italia ilico è quello conservato nella cattedrale di Atri (1240-50); il più giustamente famoso quello dmposanto pisano atttribuito a Bonamico Buffalmacco (1336 circa). Se nel primo avvertiamo uta di terrore superstizioso, in quello toscano (un secolo dopo) la morte sembra essersi laicizz

zi possiamo cogliere qualcosa di irriverente in quelle figure eleganti che si turano il naso embrano non comprendere l’avvertimento di meditare sulla caducità dell’esistenza, che rivolgemonaco Macario. Questo è il tempo in cui, diminuita nella società medievale la fatica del vivù difficile diventa l’accettazione rassegnata della fine. Vestito di una tonaca di tessuto grezzo capolare munito di cappuccio come i monaci della Tebaide del Camposanto pisano, il ruolo di

acario è quello di spiegare il significato morale dell’apparizione ai tre cavalieri dei loro stessdaveri entro sarcofagi nei diversi stadi della decomposizione. Il cartiglio posto accanto al mon facilmente leggibile riassume la formula eritis quod sumus. Accenniamo appena al paesaggindo: oltre all’albero centrale a foglie d’edera (come ogni sempreverde allusione all’eternità) spinti arbusti che affondano le radici nelle bare dunque una scelta non casuale del pittore. Forseno cornioli carichi di frutti rossi, sin dall’antichità legati al tema della morte.

mane da esaminare il Martirio di San Lorenzo la cui vita fu simbolo di carità e umiltà, tipichtù francescane. Lorenzo è posto prono sulla graticola del suo martirio: l’affresco è molto rovi

nque poco leggibile.

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tutto lo zoccolo degli affreschi è dipinta la palea giallo-rossa d’Arborea (ma anche d’Aragonn scudi gotici abrasi e a sinistra pelli di vaio.

dubbi i segnali di contatti diretti con la pittura toscana dei primi decenni del Trecento e punto erimento certo è proprio Buffalmacco, un fiorentino dissidente attivo ad Arezzo e a Parma, chea ha lasciato il suo capolavoro: il ‘Trionfo della morte’, di cui l’Incontro è parte. A questomidabile affresco guarda il pittore bosano: vedi in particolare l’Arcangelo Michele e l’adozicolori come scelta estetica in sintonia con la tradizione francescana che prediligeva un

matismo quieto, sommesso quale manifestazione di modestia ma non influenzata da questa. Innostro frescante illumina improvvisamente la scena (e questo non succedeva a Buffalmacco) coati, i gialli dorati, gli aranciati quali inaspettati scoppi di gioia. Segnale a nostro avviso di un

noscenza certa delle opere di Pietro Lorenzetti.

ll’umanesimo gotico il pittore bosano esprime uno dei tratti più originali: il risvegliol’interesse verso l’uomo, verso il destino del corpo, che rende la sua opera nuova e moderna

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mmittente del ciclo fu Giovanni d’Arborea: l’opera è stata eseguita tra il 1338, anno del suoorno in Sardegna dalla Catalogna, e il 1340-45: oltre ai segnali che vengono dalla moda di qumpo storico nell’abbigliamento e dalle stoviglie posate sulla mensa dell’‘Ultima Cena’,possibile pensare ad una data più bassa poiché già nel 1346 Giovanni chiedeva al sovranogonese di tornare stabilmente in Catalogna preoccupato della sua sorte e di quella dei famigli

eoccupazione concreta considerato che fu presto imprigionato (1349) nel maniero bosano daltello giudice Mariano IV, dove morirà probabilmente di peste nel 1376, lo stesso anno del soborense.

messaggio che tuttora ci giunge da questo ciclo pittorico è malinconico e laico sulla caducità eorte degli esseri umani e colpisce ancora la nostra sensibilità, nonostante ogni tentativo diontanare problemi irrisolvibili come le ragioni del vivere e morire su questa terra.

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ote bibliografiche

D. SCANO, Storia dell’arte in Sardegna dall’XI al XIV secolo, Cagliari 1907; R. CARTA RAstelli medioevali di Sardegna, Cagliari 1933; F. FOIS, Castelli della Sardegna medioevale,lano 1992 (stampa postuma); R. CORONEO, Architettura romanica dalla metà del Mille al pr

00, Nuoro 1993.

F. FOIS, Strutture e perimetri difensivi, in ‘AA.VV., Il castello di Bosa’, Torino 1981, pp. 45

Bosa dal 2000 sono in corso scavi archeologici non ancora ultimati sia in estensione sia inofondità: in altri termini non sappiamo se si sia raggiunto in ogni punto della fortificazione ilello sterile. Di conseguenza la possibilità di illustrare il castello, situato nell’antico giudicatorres-Logudoro (curatoria della Planargia), può fidare soprattutto sulla tendenza alla ‘tipizzazile funzioni’ di ogni gruppo umano e al ‘perdurare dell’eccellenza tattica della posizione’.

A. SODDU – F.G.R. CAMPUS, Le curatorìas di Frussia e Planargia, dal giudicato di Torres arlamento di Alfonso il Magnanimo (1421): dinamiche istituzionali e processi insediativi, in ‘Suo territorio’, Suni 2003.

Castello e campanile interagivano grazie alla possibilità di segnalazioni notturne a mezzo diacieri accesi, mentre di giorno ci si serviva di fumo, che si otteneva facilmente e in abbondanzndo fuoco a fascine bagnate, o a mezzo di specchi di bronzo lucidato.

Si pensi ad esempio agli affluenti del Po un tempo tutti navigabili, che costituivano una reteviale commerciale pari e forse più comoda di un reticolo stradale, bisognoso di continuanutenzione: i documenti medievali ricordano l’esistenza di pirati del Po sconfitti da Matilde dnossa.

Se all’ostruzione parziale della sua foce nel 1528 ad opera degli Spagnoli in guerra con i Frapiranti al possesso della Sardegna, si sommano le maree e le correnti marine, oltre al naturaleerramento dell’alveo fluviale dovuto agli apporti alluvionali e alla necessità (evidentemente nmpre affrontabile) di una continua manutenzione per tenerlo sgombro da detriti ingombranti, nombra esservi dubbio che la situazione attuale del Temo non corrisponda più a quella dei secoldievali.

Giovan Francesco Fara, nato a Sassari nel 1543, fu vescovo di Bosa, dove rimase in carica so

mesi e vi morì nel 1591. Fu uno storico colto e preparato non incline a nazionalismi rivendicuna claustrofobica cultura isolana autoctona, priva di antenati. Lo studioso dichiarava di esserirato ad ‘antichi codici’, oggi probabilmente scomparsi. Vedi Opera (a cura di E. Cadoni), I (rdiniae Chorographiam – Biblioteca); II (De rebus Sardois, libri I-II); III (De rebus Sardois –agonenses Sardiniae reges, libri III-IV), Sassari 1992 (ristampa).

Il soprannome Malaspina, poi trasformato in cognome, ne ricorda la provenienza da strati basla popolazione: insomma, come ebbe a scrivere Bruno Andreolli, erano dei parvenus.

Dopo la sconfitta nel 1015-16, grazie all’aiuto congiunto delle flotte pisana e genovese, dell’useto, signore di Denia e delle Baleari, che occupò l’isola o parti di essa per pochi mesi e ne

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ebbe stato definitivamente allontanato forse una decina di anni dopo, il pericolo saraceno divqualche modo ‘controllabile’, nonostante gli assalti alle coste sarde siano continuati anche a Bo all’Ottocento ad opera di pirati barbareschi provenienti dalle coste africane (ma questo è unro tempo e un’altra storia).

) A. SODDU, I Malaspina e la Sardegna, Cagliari 2005.

) Le nuove unità abitative verranno a costituire l’odierno rione ‘Sa Costa’ o Bosa Nuova (ver

sud-ovest), un insediamento poi fortificato che conserva ancora le caratteristiche di borgodomedievale, oggetto di studi recenti ma non incisivi.

) Malattia endemica in Sardegna, già in età romana chiamata ‘isola malsana’.

) Rientrava nella norma intorno al Mille che una chiesa fosse presente all’interno di un castelluni casi l’edificio sacro preesisteva al castello stesso (in provincia di Lucca ricordiamo; San

aria ad Montem, not. VIII secolo; Barga, X secolo: entrambe fortificate nei secoli successivi). no poi casi in cui le chiese rimasero fuori dal recinto munito come a Buriano (Grosseto, pievelle) e, in Sardegna, il primitivo edificio (munito di pozzo indipendente) che dopo il Mille

venterà la chiesa palatina dei giudici ad Ardara.

) Di fronte alla chiesetta del castello sono state ritrovate rovine di ambienti al momento (cimbra) non datati né individuati sotto il profilo tipologico.

) Cfr. A.A. SETTIA, Castelli e villaggi nell’Italia padana. Popolamento, potere e sicurezza fraXIII secolo, Napoli 1984; ID., Proteggere e dominare, Roma 1999; ID., I caratteri edilizi di caalazzi, in ‘Arti e storia nel Medioevo’, II: ‘Del costruire: tecniche, artisti, artigiani, committerino 2003. Per la Sardegna vedi in generale: J.J. POISSON, Castelli medievali di Sardegna: drici e dati archeologici, in ‘Lo scavo archeologico di Montarrenti e i problemil’incastellamento medievale’, Firenze 1990.

) I suoi sovrani si firmavano almeno a partire dalla fine dell’XI secolo Grazia Dei rex, cioèonomi da qualsiasi altro potere terreno.Vedi ad esempio la stessa espressione in atti di Matildnossa.

) La fortificazione bosana, almeno fino all’arrivo dei Malaspina, non potrà identificarsi comestazione di frontiera poiché, come ricorda una cronaca redatta nel XIII secolo nota come Cond

San Gavino in cui trova posto un riassunto di avvenimenti precedenti, per segnare i confini degno di Torres si indicano il ponte sul fiume Mannu a Porto Torres e quello di Oristano, anzichmo, che rimase in territorio logudorese sino alla caduta del giudicato nella seconda metà delecento.

) A. CASSI RAMELLI, Dalle caverne ai rifugi blindati, Bari 1996 (ristampa).

) Atto (forse sopravvalutato poiché unico) redatto nel 1254 in palacio episcopatus Sancti Petrsa contenente la richiesta, poi accolta, dei consoli marsigliesi residenti a Bosa rivolta al vica

giudicato di Torres e Gallura in nome di Enzo di Hohenstaufen e della consorte Adelasia di

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rres [‘prigioniera’ più o meno volontaria nel castello del Goceano, dove morì], per ottenere dudicessa libertatem et franchisiam per tutti i corallari e i mercanti marsigliesi nell’esercizio deo attività in Bosa et in omnibus (la concessione sarà riconfermata con atto stilato in palacio si‘o a meglio dire’; Cic.] in ecclesia Sancti Petri de episcopatu Bose: l’endiade è estremamentenificativa, poiché fa coincidere episcopio e chiesa). Nelle argomentazioni del Soddu mancanre considerazioni. Nel Medioevo le chiese (e non solo quelle cattedrali) così come le abbazieolgevano un importante ruolo tanto religioso quanto pubblico. Al loro interno si rogavano atti,ministrava la giustizia, ci si rifugiava in caso di pericolo, erano luoghi con diritto d’asilo per 

ercati dalla giustizia. Spesso la redazione di documenti, la gestione della giustizia o anche gliambi commerciali avvenivano nei loro cimiteri, anch’essi con diritto di asilo e fortificati non gioni pie ma come difesa integrata della chiesa. Per converso atti solenni potevano venire rogaro castelli senza che ciò fosse in connessione con l’esercizio di poteri signorili. Cfr. R. Farin

stelli nella Toscana delle ‘città deboli’. Dinamiche del popolamento e del potere rurale nellascana meridionale (secoli VII-XIV), Firenze 2007. Si dovrà invece riflettere attentamente sullssibilità che il documento esaminato possa testimoniare che nella città vecchia risiedesse forsbilmente il potere giudicale, mentre nel castello avesse sede quello signorile malaspiniano, anvo di diritti di tipo feudale, peraltro assai rari, come ebbe a scrivere Marco Tangheroni, in

rdegna prima dell’avvento degli Aragonesi (si pensi al caso Santa Gilla-Castello di Castro agliari). Dunque la scelta della sede episcopale, anziché dell’eventuale fortilizio, da parte delario dei giudici di Torres, che probabilmente non disponeva qui di una residenza urbana e du

avvaleva del diritto (risalente ad età carolingia) di essere ospitato dal vescovo, potrebbe rivea precisa volontà di tenere separati i due poteri, o almeno un tentativo di riconfermare il diritttale di controllo in un momento storico difficile per la traballante vita del regno. Ricordiamo ltima giudicessa Adelasia morirà intorno al 1259 ed il marito Enzo nel 1272, rispettivamente la fine di fatto e di diritto del regno

) La sfortuna ha voluto che un inafferabile Condaghe della Chiesa di San Pietro di Bosa, cherebbe forse aperto spiragli di conoscenza sull’argomento, risulti perduto già nel XIII secolo. Ltizia è contenuta nel ricordato Condaghe di San Gavino, una cronaca la cui redazione è stataegnata dagli studiosi al Duecento. Cfr. G. MELONI, Il Condaghe di San Gavino, Sassari 2004

) Gli archeologi attivi nel castello bosano hanno stimato l’area cintata in circa un ettaro e mez4000 mq) , ma i calcoli da noi effettuati sulla base di planimetrie pubblicate, messe a confrontevi eseguiti nel corso dei restauri della fine dell’Ottocento, non confermano tale dato. Un casdievale copriva in genere una superficie che andava dal mezzo ettaro ad un ettaro e mezzo: ad

empio quello di Ardara si aggirava intorno ai diecimila mq ed è stato giudicato sufficiente (for eccesso) ad accogliere provvisoriamente in caso di pericolo tutta la popolazione residente nno, che peraltro disponeva forse di altri recinti fortificati con strutture precarie nei luoghi vicamati San Pietro e San Paolo.

) Le torri poligonali a scarpa o salienti apparvero già nel XIV secolo e sono da considerarsi uinamento della tecnica tesa a offrire una maggiore copertura difensiva. Infatti, oltre a rendere ide le cortine, consentivano un più ampio campo visivo per gli assediati annullando angoli mtiro, minimizzando la possibilità di avvicinamento del nemico e l’escavazione di gallerie di m

MASTINO, intervenendo nel citato volume miscellaneo Il castello di Bosa (1981), ritiene ch

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elle bosane siano state erette dagli Aragonesi all’atto dell’ampliamento della cinta verso ovesattrocento.

) La pusterla o postierla era una porticina in genere solo pedonale (vi poteva passare una solarsona per volta) secondaria e nascosta, più facile da difendere, distante dalle porte principali nsentire l’arrivo di rifornimenti e permettere attacchi di sorpresa da parte degli assediati; erach’essa munita di ponte levatoio sul fossato.

) Il termine rivellino viene usato per indicare una serie di opere avanzate spesso tra loro diveede dell’antiporta tardoantica e bizantina, nel Medioevo i rivellini hanno pianta triangolare (snoscono databili al Mille), quadrata e anche semicircolare, ma assumeranno presto una tipoloolto complessa. Si diffonderanno e perfezioneranno insieme al ponte levatoio a partire dalla m

Trecento. Si trattava di una struttura difensiva simile ad un piccolo castello che costituivampliamento turrito del battiponte [il pilastro centrale costruito nel fossato su cui poggiava il patoio], staccata per ovvie ragioni di sicurezza dalle mura castellane. Costruita a protezionel’ingresso alla fortificazione, oltre a impedire l’avvicinamento del nemico e delle macchine

assedio, consentiva il tiro di fiancheggiamento e proteggeva le sortite degli assediati.

) La saracinesca era ‘una specie di grossa imposta di legno o di ferro sostenuta da catene o darde avvolte in un verricello, che non appena svolte o tagliate lasciavano cadere con impeto iltente guidato entro apposite scanalature laterali ricavate alle spalle dell’apertura’ (CASSI

AMELLI). L’uso di più saracinesche permetteva di intrappolare in questi punti gli assalitoristretti ad entrare in fila indiana.

) P. TOUBERT, Dalla terra ai castelli. Paesaggio, agricoltura e poteri nell’Italia medievale,rino 1995.

) Come scrive il CASSI RAMELLI (cit.), la pratica di costruire fossati riprende in Italia dallaonda metà del XII secolo; questi erano larghi non meno di otto/dieci metri (arrivavano fino a

r impedirne una facile colmata con fascine o altro materiale nonché il valico con semplicisserelle. Spesso servivano come rifugio di persone in fuga con il loro bestiame, che pointribuivano nolenti o volenti alla difesa.

) Resti di un bastione circolare sono visibili a contatto con la distrutta torre sud: secondo il Fstato eretto a protezione di una cisterna, come peraltro era spesso in uso. Fonti acquifere este

e mura di un castello erano destinate all’abbeveramento dei cavalli.

) A partire dal Trecento anche per il nuovo borgo che si veniva costituendo alle pendici bassela collina si realizzò una cinta fortificata, abbattuta nell’Ottocento per consentire un più agevoluppo edilizio della città verso il mare.

) Cfr. A. INGEGNO, Storia del restauro dei monumenti in Sardegna dal 1892 al 1953, Oristan93.

) Torre di San Pancrazio: 1305; pianta a U, tre lati chiusi spessore murature a sacco 3 m; uno

erto verso l’interno; protetto da muraglia ‘barbacane’, fossato, tre portoni e due saracinesche.

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) Torre dell’Elefante: 1307; tre lati chiusi, uno aperto verso l’interno, porta difesa da sbarramstituiti da tre portoni e due saracinesche.

) La bertesca era un’opera difensiva accessoria costruita tra le merlature o in aggetto alle murpire gli assalitori dall’alto stando coperti. Si veda la complessa struttura di protezione in fig.ricordato ed ancor oggi insostituibile volume del CASSI RAMELLI.

) Dal XII secolo così è chiamato in Toscana il palazzo fortificato con torre spesso con ingress

dipendente da quello del circuito murario, mentre nell’Italia padana è detto dongione.) Non sembra potersi riscontrare oggi in questa dimora la povertà architettonica dei primi palabitazione, costituiti in genere da stanzoni plurifunzionali sovrapposti.

) Case-bastione poste a rinforzo delle mura castellane sono documentate sin dal secolo VIII. Nstro caso, se dovesse trattarsi del noto schema urbanistico tipico solo dei grandi castelli di seI-XIII, si dovranno cercare testimonianze di attività di mercato, viabilità, sistemi di adduzionele acque, cimitero etc.

) Come ricorda il CASSI RAMELLI, per il Medioevo non dobbiamo quasi mai pensare a strutensive estremamente sofisticate e robuste. D’altra parte è ovvio che la difesa era direttamente

oporzionale alle capacità di offesa del nemico, anch’esse tutt’altro che eccezionali. Per di piùbbiamo aggiungere che scrivere di dimore ‘sontuose’ in questo contesto e in questo tempo nonpare osservazione storicamente accettabile.

) Di rivellini, strutture di difesa avanzata, a pianta triangolare si ha notizia come già detto sin lle. La pianta triangolare permetteva di sfruttare al meglio la possibilità di un tiro fiancheggiale feritoie. Si veda a titolo di esempio quello presente nelle mura del castello di Scarlinorosseto, seconda metà XII secolo; curtis nel 973). Sottolineiamo tuttavia che nel nostro caso qnte del palazzo tardomedievale doveva necessariamente essere frazionata da opere murarie

mpitratta per rendere l’alzato più resistente alle offese in considerazione del suo esiguo spess

) In genere erano stanze a pianta quadrangolare, costruite sotto terra per reggere meglio la forznta dell’acqua, coperte da volta a botte, sulla cui sommità si aprivano botole per il rifornimen

prelevamento; le murature interne erano protette da uno strato di malta idraulica.

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La chiesa castellana di Bosa - Monografia

rchitettura e ciclo pittorico

rta nella fertile vallata del fiume Temo a pochi chilometri dal mare, la città di Bosa (Oristanonserva nel suo ‘Rione sa Costa’, posto alle pendici del colle di Serravalle (m 81 slm), uno deempi superstiti in Sardegna di borgo tardomedievale nato sotto la protezione di un castello. L’ve sorgeva la città vecchia (Bosa Vetus), posizionata sulla riva sinistra idrografica del corsoacqua, risulta abitata senza soluzione di continuità dall’età preistorica fino al Bassomedioevo.

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a storia medievale

lla base di nuove considerazioni storiche e di scavi archeologici, peraltro incompiuti e limitaati superficiali dell’area castellana, viene oggi rifiutata la tradizione risalente a Giovanniancesco Fara (1580) che attribuiva ai marchesi Malaspina, originari della Lunigiana, lastruzione ex novo della fortificazione bosana nei primi decenni del XII secolo. La casata avevquisito in proprietà, grazie a una dote matrimoniale, i territori di Osilo e Bosa sin dal 1232, msistenza di un loro castello a Bosa è attestata documentariamente solo nel 1301. Di conseguen

a della sua erezione sarebbe da spostare alla fine del XIII secolo quando, profittando della oreversibile decadenza politica del giudicato di Torres-Logudoro cui Bosa apparteneva, la poteMalaspina crebbe a dismisura nell’isola. Il declino ebbe inizio con il rifiuto nel 1268 di pap

emente IV di concedere loro la vicarìa pontificia su tutta la Sardegna. L’isola, entrata a fare pl’appena istituito ‘Regno di Sardegna e Corsica’, fu concessa nel 1297 ai Catalano-Aragones

pa Bonifacio VIII. Dopo alterne vicende e fortune, nel 1317 la famiglia marchionale dovette cpegno al giudice d’Arborea Mariano III (1309-21) Bosa e il suo castello: non ne rientrerà piùssesso. Nel 1326 il tramonto politico dei Malaspina in Sardegna può dirsi compiuto.

figlio del sovrano arborense, Ugone II (1321-35), ottenne l’investitura feudale del giudicato ne23 dall’Infante Alfonso d’Aragona: a garanzia dell’accordo Ugone cedette in pegno i castelli sa, del Goceano e del Monteacuto. Il titolo gli verrà riconfermato nel 1328 dallo stesso Alfon’atto della sua incoronazione: tra le altre concessioni tornarono al giudice arborense come feutà e il castello di Bosa, territorio extragiudicale e cioè appartenente al patrimonio privato dela famiglia. Nel 1331 i figli, Mariano e Giovanni, furono mandati presso la corte di Barcellonampletare la loro educazione, quando avevano all’incirca dodici e dieci anni. Mariano divennenore del Goceano e della Marmilla e il fratello Giovanni del Monteacuto e di Bosa, titoliegnati loro dal padre nel 1335 e poi confermati dal sovrano aragonese Pietro IV nel 1339. L’

etto di Ugone, Pietro III, morirà senza eredi nel 1347 e sarà Mariano a succedergli sul trono, la ‘corona de logu’ [assemblea del regno] quando aveva appena ventotto anni.

ariano IV, che aveva sposato (1336) la nobildonna catalana Timbora di Rocabertì, tornerà inria nel 1342-43. Dopo la sua elezione a giudice nel 1347 i rapporti politici con gli Aragonesi

evano ormai conquistato l’isola, tranne il giudicato di Arborea, si fecero altalenanti tra periodce e di guerra. Nel 1349 gettò in carcere il fratello Giovanni, sordo ad ogni invito alla clemenn crediamo per pura ferocia poiché probabilmente l’intento del nuovo giudice era quello diendere l’integrità dello Stato dalla possibilità di un definitivo cedimento verso l’Aragona da

Giovanni, che al sovrano di quella nazione era rimasto sempre fedele. Mariano, divenuto padBosa, ne farà il suo quartier generale nella guerra lunga ed estenuante iniziata nel 1353 controtalano-Aragonesi e durata sino alla morte nel 1376, forse di peste: questo agguerrito castello

venterà la sua tomba.

ovanni d’Arborea, più giovane del fratello forse di due anni, aveva sposato (1337) la catalanbilla di Montcada ed era tornato in Sardegna nel 1338. Signore illuminato, governò sulla cittàstiera fino al 1349, un tempo più che sufficiente per restaurare/affrescare la piccola chiesastellana dedicata in origine al santo di cui portava il nome: il legame onomastico-devozionale

olto sentito nel Medioevo. Fissata la residenza principale a Sassari, Giovanni si era dato al

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mmercio dei cereali ed in breve tempo si era arricchito in maniera abnorme, impadronendosi 38 e il 1349 di tutta l’alta Gallura: divenne così il più potente feudatario isolano, fedele vassala Corona aragonese. Una situazione di fatto che evidentemente non lo garantiva in riferimenturezza personale se nel 1346 chiedeva senza successo al re d’Aragona di potersi trasferire pe

mpre con la famiglia in Catalogna. Le divergenze politiche tra i due fratelli sfociarono nell’arrGiovanni, imprigionato a Bosa (1349), e del figlio Pietro (ad Oristano, 1355). I due languironcere per decenni: risultano deceduti verso la fine del 1376 (lo stesso anno della scomparsa d

ariano), anch’essi probabilmente di peste.

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a letteratura precedente

attenzione degli studiosi verso questo modestissimo edificio si risvegliò al momento della scociclo di affreschi, ritrovato e restaurato da chi scrive nel 1974-75. I dipinti murali hanno vagQuattrocento ispanico [Rossella Sfogliano, 1981] alle consonanze o addirittura incontri dire

n il ‘Maestro di Offida’ (ante 1370 circa) [Ferdinando Bologna – Pierluigi Leone de Castris,84]; dai parallelismi possibili fra il ciclo bosano e quelli della Catalogna e dell’Italia meridioconda metà del XIV secolo) di Renata Serra (1990) alla pittura italo-meridionale di cultura

nco-sveva, con datazione anche qui alla seconda metà del Trecento [Roberto Coroneo, 1993]tonino Caleca (1983 ss) ha sostenuto che il nostro frescante potrebbe essere portatore di queltura pisano-senese peculiare a pittori che egli chiama della ‘terza via’ o ‘tendenza’, né giottecimabueschi, attivi nella Toscana occidentale come Memmo di Filippuccio o il lucchese Deolandi, per cui l’esecuzione dell’opera dovrebbe collocarsi nei primi anni del XIV secolo:azione in verità inaccettabile vista la presenza tra i santi di Ludovico da Tolosa, canonizzato 17. Daniele Pescarmona (1987) ha nuovamente riferito a ‘provincia spagnola’ gli affreschi bor rifiutando l’attribuzione al secolo XV. Attilio Mastino (1991) pubblicò una breve monografidicandosi in particolare alla situazione storica: molto interessanti le sue impressioni che il pit

Bosa appartenesse alla cerchia di pittori attivi intorno a Francesco Traini e a Bonamicoffalmacco. Segnaliamo ancora un breve intervento di Angelo Tartuferi (1995) che ne riconoscmbito toscano ed assegna i dipinti (a suo parere di modesta qualità, ma confessa di non averliti) alla metà del Trecento. Nel 1999 chi scrive diede alle stampe la prima ampia monografia lo affrescato bosano e sulla sua chiesa.

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edificio chiesastico

odierna dedicazione della chiesa castellana a Nostra Signora de sos  Regnos Altos non sembraere anteriore all’Ottocento [Giovanni Spano, 1870] e sarebbe legata alla leggenda delovamento di una immagine della Vergine tra le rovine del castello, ma l’intitolazione primitiv

e compare in una carta del XV secolo, doveva essere a ‘San Giovanni del Castello’. Nei regisastali l’edificio è ancor oggi indicato come ‘Chiesa di Sant’Andrea’, una intitolazione che tro

stegno nell’esistenza all’interno dell’edificio, conservata in una nicchia aperta in rottura degli

reschi, di una statua lignea dell’apostolo pescatore con croce decussata e in mano l’attributo dsce (secolo XIV-XV: tipico l’hanchement ancora gotico della figura; piedistallo moderno, rifame quasi sempre avveniva a causa dell’usura cui erano sottoposti; ricostruita fors’anche la croopera, pesantemente ridipinta e bisognosa di restauro, appare estremamente interessante per laità, non solo in Sardegna, di simulacri in legno medievali/tardomedievali sopravvissuti per 

gioni devozionali al cambiamento del gusto e alle offese del tempo.

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notizie d’archivio che ci sono pervenute sulla fortificazione bosana non citano direttamente laesa, ma ne danno per scontata l’esistenza. Stante la sua posizione non organicamente inserita n

rcorso delle difese, non si può escludere che, come tante altre chiesette d’altura assai venerateesenti nel nostro paese, preesistesse alla fortificazione sul colle di Serravalle. Arcaico è il temla montagna come dimora divina e tramite tra cielo e terra.

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tti salvi gli studi di Foiso Fois (1981), sono pochissime e generiche nella letteratura sarda leazioni della nostra chiesa, una semplice costruzione che, escludendo lo spazio necessario per rridoi di passaggio, non poteva accogliere più di una ventina di posti sicuramente riservati aimbri della famiglia castellana: qualche soldato e qualche servitore, come d’uso, potevanotemarsi in piedi al fondo dell’edificio. Non dimentichiamo comunque che la cappella è operaarte sacra caratteristica del XIV secolo, quando cioè la pratica religiosa diventa sempre più unto privato, chiuso, egocentrico, così che un principe o un qualunque uomo ricco potevanormettersi il lusso di costruirsene una. Prospezioni archeologiche effettuate all’interno dell’edirebbero individuato la presenza di probabili sepolture, per le quali peraltro non è stato possib

bilire una cronologia. Nel corso dell’ultimo restauro è stato demolito il banco perimetraledievale per ragioni non comprensibili (vedi oltre).

edificio (misurato all’interno) ha le dimensioni di m 20,25x5,70 e si presenta oggi come una lua rettangolare a seguito del prolungamento ottocentesco verso oriente. Il corpo anteriore (XII-olo) misura m 8,40x5,70 (prima fase). Le murature perimetrali vennero realizzate con filari d

nci di trachite. All’interno, in corrispondenza delle tracce dell’arco di fondo, è ancora visibileadino (alto circa 6 cm) dell’antico presbiterio. Non si ha memoria documentaria della presenzabside, che potrebbe comunque avere conservato le sue fondazioni sotto il pavimento del blo

lizio più recente. Non sembri azzardato prevederne l’esistenza stante l’assenza dal ciclo di

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reschi delle consuete scene raffiguranti la divinità, che trovavano tradizionalmente posto nellanca absidale. L’abside semicircolare (scomparsa) era preceduta, alla maniera lombarda, da unlta a botte di scarsa profondità, di cui restano tracce di ammorsature sulle murature perimetralnto di giunzione con le strutture d’ampliamento. La copertura dell’edificio medievale erauramente a tetto su capriate. In origine esisteva un portale di accesso situato in asse con laciata; una piccola monofora strombata è ancora visibile all’interno sulla parete settentrionalelemento più antico appartenente alla prima configurazione della chiesa.

una seconda fase , situabile intorno al 1340, la cappella fu affrescata ponendo mano solo a picattamenti quali la chiusura di monofore; lo spostamento del portale di facciata verso destrauardando dall’interno) per recuperare la superficie necessaria a collocarvi la gigantesca figuran Cristoforo; la realizzazione di quello laterale come ingresso privilegiato. Tutti interventinzionali alla realizzazione del programma figurativo: è possibile sia stata necessaria anche quera di consolidamento e restauro delle strutture anteriori.

a terza fase, collocabile durante la dominazione aragonese a partire dal Quattrocento, vide lcorazione del timpano di facciata con tre sfere litoidi; l’apertura nel prospetto occidentale di u

estra quadrangolare, intervento che danneggiò gravemente gli affreschi retrostanti così come lsa in opera di due catene lignee di cui restano i monconi, ingentilite da mensole (tre in legnoginali ed una sostituita da una moderna in pietra). Sappiamo che, in una supplica datata 1882etta al governo sabaudo, la chiesetta risultava ancora ‘angusta malandata indecorosa’, per cuichiedevano le riparazioni e l’ampliamento.

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conseguenza l’atto conclusivo (quarta fase), che ha determinato le attuali dimensioni del sacficio, fu eseguito verso la fine dell’Ottocento in muratura irregolare per materiali e dimension

utando profondamente il volume primitivo soprattutto perché si demolì l’abside e la piccola boistante per dar luogo al prolungamento. Il nuovo vano venne coperto con volta a botte lunettataobustita da archi traversi. Il modestissimo vano di servizio adibito a sacrestia (m 9,40x4,30),poggiato sulla fronte meridionale della chiesa nuova, fu costruito nei primi decenni del Novecn una muratura in trovanti più sottile di quella del resto della chiesa.

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Francescani in Sardegna

rappresentazione preponderante di temi francescani sulle pareti della chiesa castellana ci indapprofondirne le ragioni, nonostante non sia attestata la presenza di conventi dell’Ordine a Bo

eonardo Pisanu).

presenza dell’Ordine dei Frati Minori [nome voluto da San Francesco perché minores erano overi] in Sardegna fu precoce e capillare: presenza religiosa ma anche di notevole peso politi

r in assenza di fonti storiche coeve, gli studiosi della materia sono ormai certi che provenissera (in realtà solo nel 1228 avevano ottenuto in quella città la primitiva chiesa di Santa Trinita)mi francescani stabilitisi in Sardegna intorno al 1220, quando Francesco era ancora vivo. La

pendenza dalla Provincia Madre di Toscana (1217) della ‘Custodia’ della Sardegna è attestatacumentariamente dalla seconda metà del XIII secolo fino al secondo decennio del Trecento, psformata in ‘Vicaria’ nel 1319. Dopo l’occupazione catalano-aragonese dell’isola (1323-149agna fu padrona della Sardegna fino al 1718-20), nel 1329 i conventi sardi furono assegnati aerici ma, come scrive lo storico Leonardo Pisanu, il loro strapotere ‘non fu mai pacificamentecettato e i Frati Sardi aspireranno sempre alla loro autonomia e identità politico-culturale sard

liana’.

l 1230 i Minori avevano ricevuto dall’Opera della Cattedrale di Pisa la chiesa romanica di Saria del Porto a Cagliari (oggi ricordata solo da fotografie e scarsi resti), poi trasferitisi aampace (1275). La loro presenza dal 1236 presso la giudicessa Adelasia di Torres è attestata cumenti: suo consigliere fu il toscano Giovanni Parenti, successore di Francesco come Ministnerale dell’Ordine (1227-32) che, dopo un periodo trascorso in Corsica, si era trasferito inrdegna per diffondervi l’Ordine: forse morì nel convento di Monte Rasu nel Goceano, da luindato. I documenti ricordano anche altri frati presenti nella capitale giudicale: Pietro di Ardar

rafino assisteranno ininterrottamente la regina turritana fino alla sua morte (1259 circa). A Sarancescani erano giunti intorno al 1250 e si erano stabiliti presso la chiesa oggi intitolata a Saaria di Betlem. A Oristano, capitale dell’Arborea dal 1070 circa, un loro convento con chiesadicata al Santo d’Assisi è attestato già nel 1253: la loro presenza nel giudicato arborense fu pcoli politicamente e socialmente rilevante.

l Trecento si scatenarono movimenti ereticali che dilaniarono l’Ordine dei Minori. I dissidenirituali, già indicati come pericolosi sin dal 1285 quando venne aperto anche in Sardegna unquisitionis Officium, sostenevano la povertà assoluta di Cristo e degli Apostoli. Annoveraron

loro file esponenti come frate Elia, ideatore della basilica assisiate (scomunicato), Pietro diovanni Olivi, Ubertino da Casale, Jacopone da Todi. Giovanni XXII (un papa filoangioino)hiarò eretica la loro posizione in modo definitivo nel 1323: non mancarono vere e proprie

rsecuzioni nei confronti dei suoi membri (roghi, torture, prigione, tombe profanate, esili). Ancrdegna ne fu toccata, poiché ancora negli anni 1328-29-33 ben tre bolle papali ricordano endannano la dissidenza verificatasi nell’isola, con richiesta nel 1333 all’arcivescovo d’Oristadomenicano Guido Cattaneo, di accertare fatti e colpe. La sua azione portò all’assoluzioneessoché immediata dei Minori sardi, che si sarebbero fatti fuorviare per ‘ignoranza’: la maggirte di essi optarono per il conventualismo. Ma l’ansia del ritorno al rispetto della severa Rego

ginaria dettata da San Francesco [1209: approvazione papale orale; 1221 e poi definitivamen

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23: ‘Regola bollata’ approvata da papa Onorio III, che travisava fortemente gli intendimenti dnto] non cessò e l’Ordine si divise intorno al 1334 in Osservanti (eredi degli Spirituali) enventuali (ligi ai dettati del Papato). Una separazione non indolore: tra successi e sconfitte, s1517 dopo lunghe e violente persecuzioni gli Osservanti, che poterono contare nelle loro filepresentanti di grande prestigio come Bernardino da Siena, Giovanni da Capestrano, Giacomola Marca, vinsero la loro battaglia per la ‘perfetta povertà’ francescana. Il primo convento deegolare Osservanza’ nacque in Sardegna nel 1459 a Silì presso Oristano. Nel Cinquecento veuce anche il ramo francescano ancora più rigorista dei Cappuccini (circa 1520).

verità il XIV secolo fu un momento difficile anche per la Chiesa di Roma. Ricordiamo la cattignonese (1309-77) e il Grande Scisma d’Occidente (1378-1427), quando ben tre papi furonominati contemporaneamente. La lunga assenza da Roma e il declino spirituale (comunque nonlitico-economico) del papato, posto sotto l’influenza della monarchia francese, furono motiviatenanti dei movimenti ereticali e mistici. Nel periodo del ‘Grande Scisma’, durato unarantennio (1378-1427), nacquero movimenti fedeli all’antipapa Clemente VII, sostenuto daancia, Regno di Napoli e soprattutto da quello catalano-aragonese, di cui la Sardegna faceva pn tutti i conventi francescani appoggiarono l’antipapa, ma fermenti contro la politica della Ch

mana non mancarono. Numerosi furono i prelati, i nobili e i popolani partigiani dell’antipapa:une sedi vescovili vennero da loro occupate. Tra queste citiamo Oristano, ma non Bosa, cittàondo Leonardo Pisanu non sarebbero esistiti conventi francescani.

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si guarda alla iconografia rappresentata sui muri della nostra chiesa, la presenza negli affrescstantino il Grande, considerato dagli Spirituali la ‘causa della secolarizzazione della Chiesa,

a burocratizzazione, del suo paganesimo e della sua decadenza’ (Frederick Antal, 1960) ed amvece moltissimo dalle gerarchie ecclesiastiche, sembra denunciare l’appoggio chiaro allaodossia ufficiale romana da parte del committente sia esso Giovanni d’Arborea oppure il bel

ariano IV, del quale si conserva un ritratto ‘ufficiale’ nel polittico di Ottana, dove è raffiguratocanto al vescovo Silvestro (†1344), un francescano eletto in anni in cui nessun pontefice, a parGiovanni XXII (1316-34) che dichiarò eretica la dottrina degli Spirituali in ordine alla assoluvertà di Cristo e degli apostoli, e i suoi successori (Benedetto XII, 1334-42, e Clemente VI, 1), ebbe atteggiamenti di benevolenza nei confronti dei Francescani. Silvestro sottolinea, è veroa appartenenza all’Ordine facendosi ritrarre con un saio trasformato forse successivamente inviale di colore bruno a bordure dorate, ma a nostro avviso il particolare non autorizza una lett

senso di una adesione del presule (e implicitamente anche di Mariano) alla dottrina degliirituali-Osservanti, come vorrebbe il Bologna (1969), poiché viene chiaramente contraddetta

l’eleganza, lunghezza e ampiezza delle maniche della sua tonaca, lontanissima da quelle corteiminzite e rappezzate adottate dai dissidenti come una vera e propria bandiera a testimonianzala loro scelta, che stava diventando politica più che religiosa nei confronti della Chiesa di Ron si dovrà dimenticare che la maggior parte dei frati minori sardi optarono per il conventualissanu).

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emi della spiritualità francescana

r comprendere a pieno il contenuto dottrinale dei nostri affreschi, è necessario richiamare permmi capi non tanto la vita e l’opera del Santo di Assisi, quanto la dottrina e l’esperienza mistestate dai suoi scritti.

cora oggi i Frati Minori portano sul saio il cingolo annodato in tre punti a simboleggiare i loroti fondamentali di povertà, castità e obbedienza. Ma ben più ampio è il novero delle virtù

ncescane tutte sorelle della ‘regina’ sapienza, e cioè la semplicità, l’umiltà, la carità, cui si dgiungere la discrezione (per esempio il rispetto del ‘fratello corpo’ soprattutto quando è malatesperienza del mondo porta Francesco a condannare le vanitates huius saeculi (Ep. I),cheggiando così le meditazioni disincantate ma non disperate del biblico Qohèlet ed il suo mola ‘vanità immensa’ del vivere. Tuttavia sconfinato è il suo amore per il prossimo e per l’univto, cui lo unisce un dolore cosmico che potrà essere medicato solo da una buona morte: il perifinire nelle grinfie del Maligno in caso di morte improvvisa senza confessione fu tra le paure fuse nel Medioevo. Al centro della sua visione cristiana dell’esistenza è dunque la salvezzaraterrena; i mezzi per raggiungerla sono Cristo, la Santa Croce, il Vangelo e l’Eucarestia.

ancesco praticava e predicava anche una grande devozione verso gli Angeli Custodi qui nobisacie sunt  ed amava particolarmente San Michele Arcangelo (cui il Santo fu spesso paragonator il suo ufficio di psicopompo e di presidio contro i demòni tentatori sempre in agguato: a lui olgevano i morenti nell’ora del trapasso.

cerchiamo nel santorale raffigurato a Bosa, sono più d’uno i santi cui i credenti indirizzavanoltima preghiera in caso di morte senza confessione: Giacomo, patrono dei pellegrini, veniva

vocato nel momento supremo; Agata proteggeva contro il fuoco del Purgatorio; a Barbara ci siolgeva contro la ‘mala morte’. Essa era il pendant  femminile di Cristoforo presente in

ntrofacciata, cui i fedeli riconoscevano il potere di salvare il corpo da una morte accidentale nima da quella eterna grazie ad una tempestiva confessione; e poi Ursula che si pregava pro f

rte. Dunque un tema francescano largamente illustrato grazie alla presenza di questi tutori.oseguendo il nostro cammino dentro l’iconografia bosana, vediamo che la virtù della carità ègnamente rappresentata da Martino, Giorgio, Lorenzo, Lucia, Cecilia. Maria Maddalena è larsonificazione della penitenza per questo fu tanto amata dai Frati Minori. Non mancano Agnes

mbolo della castità, e Margherita, il cui nome allude all’umiltà. Considerato che il ciclo nonconta storie di Cristo, la scelta di rappresentare l’‘Adorazione dei Magi’ è giustificata dal sunificato simbolico e cioè l’omaggio dei potenti della terra alla divinità, dunque l’umiltà.

rs’anche quel Costantino appiedato (il cavallo era uno dei simboli del potere temporale) che,ieme alla madre Elena, chiude la processione potrebbe alludere a questa virtù. La venerazion

ancesco per l’Eucarestia è espressa nella scena dell’‘Ultima Cena’, che per la dottrina cristianstituisce il momento dell’istituzione di questo sacramento salvifico da parte di Cristo nella not

venne tradito.

conografia dei dipinti murali bosani non è una creazione (almeno non esclusiva) del pittoreamato a dipingere i muri della chiesa del castello: egli ha semplicemente tradotto nella sua linle pareti dell’edificio il programma figurativo preparato, come accadeva nella maggior parte

i, da un religioso. Qui a Bosa ne è stato sicuramente l’autore un frate francescano esperto di

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ttrine religiose, forse quello stesso cui era stata affidata la chiesa per la celebrazione dei sacrfici: con ogni probabilità svolgeva anche il ruolo di consigliere del principe, specie se si consrdire con cui ammonisce i signori del regno nel riquadro dell’‘Incontro’. Un francescano bennscio che l’immagine dipinta aveva una forza comunicativa tale da contribuire (e non poco) aforzare le parole del predicatore per condurre il fedele lungo un percorso spirituale di conosc

meditazione sul proprio essere cristiano, a prescindere, grazie alle figure dipinte, dal loro livecultura e dalla loro adesione più o meno fervente alla pratica religiosa.

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a moda

servando gli affreschi, cercheremo i segnali del tempo storico in cui vivevano il pittore e la gcastello, le tracce del loro vivere quotidiano che, in un secolo come il Trecento quando si

ziava a guardare le cose che ci circondano e a tentare di rappresentarle così come sono, nonssono mancare. Ci riferiamo in particolare sia agli abiti dei vivi, dei morti e dei santi, sia alleviglie poste sulla tavola dell’‘Ultima Cena’.

rtiamo dai costumi indossati dagli attori della sacra rappresentazione: dopo i successi ottenuticiano Bellosi (1974/77) per datare intorno al 1336-41 gli affreschi del Camposanto pisanofiguranti il ‘Trionfo della Morte’ seguendo come indicatore cronologico la moda del tempo, lidità del metodo non ci pare possa essere messa in discussione.

certo che il modo di vestire degli italiani subì un improvviso cambiamento negli anni tra il 1331340, cambiamento che le arti figurative cominciarono a registrare solo dopo il 1345. Seconduni cronisti scandalizzati che scrivevano intorno al 1340 [il domenicano milanese Galvanoamma, il fiorentino Giovanni Villani, l’anonimo autore della ‘Vita di Cola di Rienzo’] la nuov

oda veniva per lo più considerata come importata dalla Catalogna. Andavano scomparendo lenache larghe comode e ‘oneste’, lunghe fino ai piedi con colli alti e rigidi del buon tempo andao da secoli. Al loro posto si cominciarono a preferire quelle scandalose gonnelle che scoprivaasi le natiche con cinture molto basse rispetto al punto della vita: inutile fu ogni tentativo dipedirne la diffusione. Abbandonate le ‘orme dei loro padri’ i giovani, che per primi le adottarquistarono così ‘aspetti alieni’ ed equivoci almeno dal punto di vista dei benpensanti. Ad ognon conto nessuna grida poté fermare il nuovo gusto e solo gli anziani e i personaggi di riguardntinuarono ancora per qualche tempo a indossare le vecchie palandrane: verso la metà delecento le giovani generazioni avevano ormai adottato senza eccezioni, e forse anche senza più

andalo, la foggia del vestire ‘alla catalana’: gli incredibili ‘becchetti del cappuccio’ della corntellina; i ‘manicottoli’ orlati di vaio lunghi fino a terra; le ‘calze solate’ dalle punte

verosimilmente lunghe e sottili, imbottite di crine perché non si piegassero con l’uso. Ma ciò cù faceva sobbalzare di indignazione era il ritorno, dopo decenni di abbandono, della barba: unrbetta corta curata raffinata che spuntava di nuovo sulle guance dei ragazzi ricordando aicchettoni gli ‘uomini di penitenza’. Alcuni protagonisti dell’‘Incontro tra vivi e morti’ delmposanto pisano se la sono già fatta crescere senza tema di somigliare agli eremiti, che proprla stessa composizione la portano in realtà lunga e incolta. La moda femminile aveva da temp

minciato ad adottare fogge straniere importate da mariti o padri mercanti, ma certamente le ve

erenti al corpo, con cinture portate basse [vedi la Santa Caterina di Giovanni da Milano circa54; Prato, Galleria Comunale] e le scollature vertiginose che facevano vibrare di indignazionù severi conservatori si affermarono decisamente in questi anni, tanto che anche le sante verginstessa Madonna venivano raffigurate con timidi scolli in omaggio alla moda. In conclusione do1340-45 solo gli anziani portavano ancora ‘vestimenta larghe e oneste’. Secondo il Bellosi furoprio gli anni Quaranta il decennio di crisi in cui probabilmente la nuova moda non si era anc

tutto generalizzata: si vedano gli affreschi nel palazzo pubblico di Siena di Ambrogio LorenzEffetti del buon governo’, 1338-39] dove, tra i cittadini senesi che sfilano verso il Bene comuninua, tra vesti lunghe e serie, un personaggio ‘dissidente’ con mantello alle ginocchia e barbetrta.

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a i principi sardi Giovanni e Mariano avevano vissuto a Barcellona negli anni tra il 1331 e il ca, grosso modo quando si era verificata la rivoluzione della moda soprattutto maschile, per cn sembra possibile che, giovani com’erano, non l’avessero adottata. Sappiamo dell’elaboratoimoniale in uso presso la corte arborense mediato da quello catalano: possiamo immaginare sero vestiti all’ultima moda quei paggi e quei musici, mimi e danzatori che allietavano, con

curata regia, la tavola del giudice Mariano IV. La presenza di due giullari siciliani è documensa alla metà del Trecento, ma trovatori e giullari provenzali e italiani insieme a menestrellialani allietavano da tempo le corti isolane da Sud a Nord. Tutte queste notizie parlano di luss

gante e raffinato e di vita culturale vissuta secondo ritmi e modelli europei. Anche i giovanil’‘Incontro dei tre vivi e dei tre morti’ possono definirsi eleganti con quei bottoncini e quelleffie alla francese slacciate con noncurante trascuratezza sotto una corona regale; con quei guanmbolo di status sociale) bianchi a vistose impunture nere che portano anche i vescovi bosanieganti sì, ma come si poteva essere eleganti non oltre il quinto decennio del secolo. Ricordiammunque che la nuova moda fu accolta nelle opere dipinte solo dopo il 1345: nel nostro caso,cettata la più che probabile presenza di un iconografo francescano (conosciamo bene il pesoeponderante dei Francescani e dei Domenicani nella scelta dei temi da rappresentare nelle lorese a prescindere dalla volontà del patrono/proprietario del bene), si dovrà presumere che qu

n vedesse di buon occhio le bizzarrie del nuovo modo di vestire.

servando i saî marroni dei frati per capire se sia possibile scorgervi i segni di una precisaologia, dobbiamo ancora una volta prendere atto che quanto resta a Bosa testimonia a sufficie

e sono di foggia assai diversa da quella delle povere vesti dipinte dal dissidente ‘Maestro delmpere francescane’, nome suggerito dal Bologna quale autore del polittico di Ottana e dei nostreschi. Cuciti con spreco di tessuto, sono lunghi fino ai piedi e caratterizzati da grandi piegheenti e maniche molto ampie che raggiungono i polsi. Si allontana sempre di più la possibilità onoscere in questi affreschi la presenza di una fronda francescana.

merose sono le figure femminili raffigurate nel ciclo oltre alla Madonna dell’‘Adorazione delagi’, ma nessuna appartiene al secolo, per cui la foggia del vestire appare improntata allanservazione di modelli codificati nella pittura dei decenni anteriori. Le sante, che muovono inocessione devota verso la divinità sicuramente dipinta nell’antica abside oggi scomparsa, pornnelle di ampiezza contenuta, vita stretta e arricciata a sbuffo sotto il seno, galloni dorati a picami intorno alla scollatura appena accennata all’apertura sul petto, a nascondere le cuciture do delle maniche aderentissime e delle loro costure esterne e infine a rifinire i polsini. È facileordare le sante giottesche dipinte entro compassi mistilinei nelle fasce ornamentali della capp

gli Scrovegni a Padova o il gruppo delle elette nel ‘Giudizio Universale’ (1303-5), così comeelle della cappella della Maddalena ad Assisi (1308-9). Questi stessi abiti appaiono ancoradossati negli anni Venti dalle sante dei medaglioni nei fregi di Pietro Lorenzetti e aiuti ad Assi

braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore, anche se intorno al 1330 era ormai dansiderare una moda antiquata. Le acconciature sono assai semplici. I lunghi capelli appena ondno divisi sulla fronte in due bande; pettinati all’indietro, nascondono quasi sempre le orecchieendono sulle spalle, un po’ spioventi. I capelli sciolti erano segno di umiltà e purificazione o dto.

ando le somme alla fine di questo percorso, dobbiamo constatare che nel nostro ciclo mancan

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gnali della nuova moda per cui si dovrà pensare ad una data anteriore al 1345: non dimentichiae la Peste Nera che infuriò anche in Sardegna già a partire dal 1347, falcidiando più del quarar cento della popolazione, difficilmente avrebbe favorito intraprese di carattere artistico comeffrescatura di una cappella.

ffermiamoci ora sulla tavola della Coena Domini per osservare gli oggetti d’uso domestico chno rappresentati. Scrive Pietro Torriti (1993) che tovaglie in lino bianco con bande brune alleremità vengono tessute ancora oggi a Siena: un tipo di tessuto che ha ricoperto buona parte de

nse dipinte (ma raro ne era l’uso nella realtà quotidiana) per tutto l’arco del XIV secolo. Ichieri apodi sono di un modello standardizzato rimasto in uso per tutto il Trecento; le alzate csci hanno una forma piuttosto semplificata, praticamente immodificata per secoli. Le caraffetalliche per il vino meritano invece la nostra attenzione: che si tratti di oggetti in metallo èaramente indicato dal pittore nella cerniera che unisce il coperchio al corpo del boccale.roveremo queste stoviglie identiche nel polittico di Ottana: stesse caraffe, posate (a Bosa manucchiai perché inutili in quella particolare occasione), coltelli dal manico di legno disposti inmero sulla tavola. Ricordiamo che questa posata era assai rara specie tra i poveri e lo rimarràavanzato Quattrocento: vedi proprio ad Ottana quel brano del convito dei poveri che il Bolog

finito goyesco.

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i ha apparecchiato la mensa divina aveva come modello una tavola signorile dove il cibo, ancqui forzatamente ridotto a due sole pietanze, compariva in abbondanza. Vi sono bicchieri ma ntti individuali per ogni commensale, un costume quest’ultimo che cominciava appena ad impola prima metà del Trecento e solo ovviamente tra le classi privilegiate. Ogni piatto da portataviva almeno due persone e si usavano ancora largamente le dita per portare il cibo alla bocca

me fa Giuda nei nostri affreschi. I pani rotondi, disposti ordinatamente in primo piano, e quellettati appartengono a un modulo ripetitivo comune alla pittura di questi decenni.

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onologia e iconografia degli affreschi

ciclo affrescato fu scoperto nel 1973-74 e restaurato per la prima volta l’anno successivo sottezione di chi scrive. Vent’anni dopo, nel 1995, subì un nuovo intervento (in alcuni punti si era

gistrate infiltrazioni d’acqua piovana), che ha parzialmente modificato la materia pittoricapesantendo profili e colori e procedendo anche a integrazioni arbitrarie di talune figure.

qualità tecnica della preparazione degli affreschi è molto alta e perciò le riprese del supporto

no state assai limitate; la pellicola pittorica ha sofferto a causa dell’umidità per capillarità: alori come i rosacei e gli aranciati hanno resistito meglio al tempo, i bianchi di calce sono ancobaglianti. Gli azzurri conservano il loro colore originario solo nel fondo gigliato del San LudoTolosa perché è stato qui usato il costoso e praticamente indistruttibile lapislazzuli, mentre i flizzati con la più economica azzurrite sono diventati verdi o si sono persi in un magma scuro

distinto. L’uso di cartoni per realizzare le figure del ciclo è evidente nel ripetersi delle fisionobase, ottenute semplicemente cambiandone la posizione.

estauri hanno messo a vista una serie numerosa di ‘graffiti’ eseguiti sulla superficie dipinta pe

ggior parte nel Cinquecento come si può desumere sia dall’esame dei ‘rosoni’ di disegnoometrico piuttosto evoluto (forse modelli per decori ornamentali), sia soprattutto da quello destumi indossati dai tre uomini che, su una sorta di ponte navale, combattono tra loro [cappelloagnolesco ad alta cupola e larga tesa, calze attillate a strisce, farsetto imbottito forse a manichnciate etc]. Un tempo in cui, con ogni probabilità, gli affreschi erano scomparsi sotto uno deimerosi strati di intonaco, di cui erano stati ricoperti in occasione delle ripetute epidemie di pericordi ad esempio che quella del 1376 aveva ucciso sia Mariano IV, sia il fratello Giovannigioniero a Bosa).

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nsieme presenta unità tecnica e stilistica ed appare fondamentalmente omogeneo nonostanteparenti cadute di qualità: unitario è ad evidenza il risultato sotto il profilo estetico, perché è bda nelle mani del capo-bottega la regìa dell’operazione. Egli, oltre ad intervenire in primarsona, progetta, guida e coordina tutto il lavoro per un certo numero di aiuti con specializzazioverse (disegno, colori, gradazioni tonali, fondali, particolari varî) e alla fine garantisce la

cessaria omogeneità formale che verifichiamo anche qui a Bosa.un fondo a due fasce orizzontali di eredità duecentesca (giallo carico l’inferiore, blu quella

periore), che come scrive Raymond Oursel (1980) sortisce il duplice effetto di sacralizzarezione e di sopprimere ogni limite fisico, una processione di sante vergini, dai corpi dispostintalmente, è quasi poggiata sul bastone giallo che sostiene la palea a fasce giallo-rossechiamante i pali catalani) appesa ad anelli di metallo. Su questo tendaggio si inseriscono scudtici oggi privi dei disegni interni che contenevano. In particolare ci interessa la cortina a pellio della parete destra, cortina che ritroviamo anche nel duomo di Pisa (primo ordine della trib

cui sono inseriti simboli araldici, assegnata ad artisti pisani della prima metà del XIV secolo.nendo il punto di vista nell’abside originaria come d’uso nel Medioevo, il sacro corteo occupto il registro inferiore della parete sinistra (sud) secondo l’antico allineamento ieratico di eantina, quando i testimoni della fede venivano raffigurati sulle pareti lunghe delle basilichel’atto di procedere verso Cristo o la Vergine per rendere loro omaggio, come nei noti mosaicnt’Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo) dove sono rappresentate due distinte teorie, i masuna parte, le femmine dall’altra. A Bosa invece la galleria delle sante (non esattamente prece

me a Ravenna dai Magi, che comunque si trovano subito sopra nell’ordine alto in adorazione daria e del Bambino) è interrotta dall’apostolo Giacomo il Maggiore e conclusa dall’imperator

stantino e dalla madre Elena. A causa dei rari attributi, il loro riconoscimento è in alcuni casinsentito solo grazie alla presenza a fianco delle figure delle iscrizioni identificatorie in lettere

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tiche (purtroppo lacunose) dipinte in bianco su fondo blu, disposte su due file e precedute daimpendi SCS/SCA con tratto abbreviativo superiore. I tituli non mancavano mai anche quandodentificazione del personaggio era inequivocabile e servivano in ogni caso a ‘prolungare ilomento devozionale’ (Guglielmo Cavallo). Ricordiamo, insieme all’ancora diffuso analfabetise rendeva indispensabile la presenza di un mediatore tra immagini e testo cioè in generefficiante, la credenza nel carattere magico della scrittura.

a vasta lacuna precede la prima figura Lucia, vergine martire di Siracusa (in realta di origine

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entale, il cui corpo incorrotto giunse a Siracusa e poi trafugato dai Veneziani fu trasferito in laDuecento) nel IV secolo, simbolo della carità poiché distribuì tutti i suoi averi ai poveri: è

vocata contro le malattie degli occhi. Oltre che dal titolo posto in alto a sinistra, la santa èonoscibile perché regge con la mano sinistra (la destra poggiata al petto, gesto di devotatomissione) una lucerna accesa di terracotta, appesa a un filo: è uno dei suoi attributi [allusiona fiaccola delle Vergini Sagge del Vangelo di Matteo, 25, 1-13], meno comune di quello con lppa contenente gli occhi che i carnefici le avevano strappato, ma che la Vergine le aveva resticora più belli. Morirà per un colpo di pugnale alla gola dopo infinite torture: neppure una cop

buoi era riuscita a trascinarla in un lupanare [la legge romana vietava di condurre al patibolonciulle vergini]. La forma standardizzata del lume è già presente in dipinti e miniature del XII II secolo e, a titolo di esempio illustre, ricordiamo gli affreschi giotteschi di Padova (cappellgli Scrovegni, 1303-05). Oltre a questo riscontro iconografico, importante per noi è una tavolaestro di Palazzo Venezia’, raffinatissimo collaboratore di Simone Martini. Datata intorno al20, vi è raffigurata a mezzo busto la nostra Santa che, insieme alla palma del martirio, regge lassa lucerna accesa (Harvard University, Collezione Berenson).

n il suo lume Lucia sembra illuminare la via delle altre figure sopravvenienti, ma il corteo è

errotto dal quadro, isolato da due linee di separazione (una rossa e una bianca), di Mariaaddalena penitente, una vicinanza forse legata alla tradizione sacra secondo cui Lucia era inv

Medioevo dalle donne di malavita pentite. In questa figura, come noto, nel Medioevo si fusernfusero tre donne ricordate dai Vangeli: la peccatrice anonima che sparge profumo sui piedi disto, li bagna con sue lacrime e li asciuga con i capelli in casa del fariseo (Lc 7, 36-46); Mariaddalena, posseduta dai demòni e poi guarita da Cristo (Lc 8, 2) e che fu la prima a vederlo ric 16, 9); Maria di Betania, sorella di Marta e di Lazzaro, che preveggendo la futura passione isto sparse sul suo capo profumi durante la cena di Betania (Mt 26, 6-13) (Chiara Frugoni).perta dalla melote e dai lunghissimi capelli, irti sul capo come quelli che caratterizzano le fig

gli eremiti, ha la testa circondata da un’aureola raggiata ed è inginocchiata sullo sfondo di unesaggio roccioso [simboleggiante da secoli il deserto degli anacoreti], che si apre per lasciarsto alla rappresentazione di rami gigliati. Maddalena viene nutrita da un angelo, che piomba dlo a soccorrere la prediletta del Signore: il suo volo precipite spezza la banda rossa di

parazione dalla santa siracusana quasi a costituire una sorta di trait d’union tra le dueotagoniste. Il giglio allude ab antiquo all’Aldilà per il riferimento a Proserpina che, quando fupita da Plutone, era intenta a raccogliere gigli e narcisi: in epoca cristiana rose (simbolo del s

martiri) e gigli (simbolo delle anime pure) diventeranno i fiori del Paradiso. E qui si alludeuramente al Paradiso conquistato con la penitenza.

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endiamo ora in considerazione la prima figura dello scomparto seguente, Marta, patrona deglergatori. Sorella di Maria di Betania e di Lazzaro, simboleggia la vita attiva (come era quella

ancescani) poiché, mentre la sorella ascoltava la parola del Signore, ella era molto prosaicamaccendata nelle cure domestiche. Poco rappresentata forse a causa della non eccezionalità dela vita, qui indossa una veste verde (il suo è l’unico abito senza apertura sul petto). Il verde èore virginale per eccellenza e contraddistigue in genere le sante che furono martirizzate per n

ere voluto perdere la loro verginità. Sulle spalle porta un manto bicolore rosso soppannato dillo che sorregge con la mano sinistra e nessun attributo che possa identificarla se non il nome

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stra è alzata contro il petto, la palma volta verso l’esterno nel gesto della testimonianza dellaopria assoluta adesione alla volontà divina.

asi a guidare il gruppo seguente delle vergini il pittore bosano ha collocato il patrono nazionaagnolo Giacomo il Maggiore. Dopo un periodo di soggiorno in quella regione votato aangelizzare le popolazioni locali, sarebbe tornato a Gerusalemme su ordine di Erode Agrippaerso il 42 d.C.) dove subirà il martirio per decapitazione. Il suo corpo, trafugato dai seguaci eicato su un battello senza nocchiero, sarebbe approdato per volere divino sulle coste galizian

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genda cominciò a strutturarsi nell’VIII secolo quando la sua tomba fu ritrovata su un altipianosertico dell’estrema Galizia. Sin dall’età altomedievale questo Santo, patrono dei pellegrini evalieri, era venerato in tutto l’Occidente, che gli dedicò chiese, ospedali e opere d’arte figuragrande numero. Giacomo ha il viso segnato da rughe profonde a ‘zampe di gallina’ edespressione molto dolce nonostante le spesse sopracciglia e gli occhi bistrati; porta una barb

ra e folta, simbolo di dignità secondo la tradizione iconografica che lo contraddistingue (forseche allusione alla consuetudine che i pellegrini se la lasciavano crescere fino al termine dellegrinaggio al santuario di Santiago di Compostela), ed ha la bocca semiaperta, sicché mostra

arezza i denti: il richiamo agli affreschi assisiati di Pietro Lorenzetti è quanto mai evidente (snsi soprattutto all’‘umanità neocimabuesca’ dell’‘Ingresso di Cristo a Gerusalemme’). Sulla vrrone indossa un manto giallo molto elegante e non la rozza schiavina; in testa ha una cuffia

sante per difendersi dai rigori del clima. Il pètaso è ornato da piccole croci e da un pettine dilizia: esplicita l’allusione al pellegrinaggio a Santiago di Compostela, uno dei più frequentati

ntuari medievali. I piedi sono scalzi come prescrivevano i Vangeli per gli Apostoli; con la maistra regge una bisaccia, contenente il viatico necessario per il viaggio, e il bordone, utile perpoggiarvisi quando la stanchezza si faceva pesante ma anche per difendersi da briganti e animvatici. Il Santo ha grandi mani (la destra è alzata con palma rivolta all’esterno, ancora un gest

timonianza della fede, che si ripeterà più volte nel corteo come quello di sottomissione): lanica lascia parzialmente scoperto l’avambraccio per cui è visibile l’articolazione del polsotamente segnata con una rientranza come (ma non è l’unico esempio possibile) nelle figure diffalmacco. che la sottolinea addirittura dipingendovi anelli di grasso (ma troviamo lo stessoema anche in Pietro e Ambrogio Lorenzetti). Ad ogni buon conto anche a Bosa, ove sia in vis

odo dei polsi è sempre ben evidenziato dal nostro pittore. Uno svolazzo irrispettoso delle leggavità, di eredità duccesca, caratterizza l’orlo della sua veste e di quella di altre figure.

lla pittura medievale le serie di santi sono spesso eclettiche e non sempre spiegabili le ragion

echetiche che hanno condotto a determinate scelte, ma la presenza di Giacomo nel corteomminile potrebbe essere legata al ruolo di protettore di fanciulle che la leggenda spagnola gli hervato. Infatti tra i miracoli compiuti post mortem vi sarebbe quello dell’aiuto fornito con la sparizione all’esercito asturiano per sconfiggere i Musulmani, che pretendevano ogni anno unbuto di cento fanciulle (di qui il soprannome di Matamoros). La tradizione iberica era conoscche nel nostro paese (vedi l’affresco bolognese, datato intorno al 1320, attribuito dubitativameo Pseudo Jacopino di Francesco; Bologna, Pinacoteca Nazionale). In Sardegna poi può essereunta insieme alle mogli catalane dei nostri principi. Per di più, se accettiamo l’ipotesi che il vma conduttore del ciclo sia il Santo di Assisi, sappiamo che Francesco avrebbe compiuto un

legrinaggio a Santiago di Compostela tra il 1213 e il 1215 come affermato dai suoi primi biolegrinaggio controverso anche se attestato dalla tradizione in varie località tra Jaca e Puente ina. Non controverso è comunque il culto fervente del Santo verso l’Apostolo, senza dimentice proprio Francesco individuò nella vita itinerante la vera vita apostolica: è proprio la strada,magine della provvisorietà e della precarietà dell’esistenza umana, che invita ad affidarsimpletamente a Dio.

Apostolo è seguito da una santa spagnola di nascita e perciò molto venerata in quella regione,lalia di Barcellona, vergine martire sotto Diocleziano, che appare già tra le vergini del

nt’Apollinare Nuovo di Ravenna a testimonianza dell’antichità del suo culto. Viene invocata

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ntro la siccità. Del martirio della vergine barcellonese mediante l’uso dell’eculeo e delle fiace le furono applicate sui fianchi (venne infine crocifissa e decapitata), nulla è richiamato in quura vestita di verde e con manto bicolore come Marta. È l’unica disposta in posizione rigidamntale ed ha un viso da antica matrona dai tratti somatici rudi, il naso forte e diritto, il mentoondo, le mascelle robuste come potevano esserlo in una scultura romano-barbarica.

cino a lei troviamo Agata di Catania (martire orientale le cui reliquie giunsero a Catania nel Xcolo, trafugate da soldati occidentali) nel suo bell’abito cosparso di graziosi frutti gialli dispo

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appoli di tre, attaccati al loro peduncolo e lavorati a chiaroscuro con accuratezza, anche sedentemente eseguiti mediante l’uso di stampini. Fu martirizzata, dopo essere stata condotta in stribolo ed avere conservato miracolosamente la verginità, sotto l’imperatore Decio nel 251. nta, invocata contro le malattie del seno, i fulmini, gli incendi e il fuoco del Purgatorio, è quipresentata secondo una rara iconografia. Infatti, anziché mostrare le mammelle amputate, regg

n la destra un fuso da cui pende un lungo filo. Una tradizione popolare vuole che, come Peneloche Agata per non essere costretta a sposarsi tessesse di giorno una tela e provvedesse a disfanotte.

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segue Agnese di Roma, simbolo della castità, individuata dalla presenza di un agnellino reggvessillo cruciato entro un disco, a ricordare il suo nome. Era venerata a Roma già prima del IVcolo: topos di quasi tutte le ‘Passioni’, anche Agnese fu condotta in un lupanare dove, come nant’Ambrogio, subì il duplice martirio della purezza e della fede alla tenera età di dodici anni.ene invocata, tra l’altro, contro i pericoli del mare.

fedele in meditazione sugli esempi di coraggio ‘virile’ di queste donne avrebbe ora incontratorbara, santa orientale divenuta famosa in Occidente solo verso la fine del XIII secolo (il suo

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rpo-reliquia non fu oggetto di furta sacra ma dote nuziale agli inizi del Mille e trasferito anezia) grazie alla diffusione della Legenda Aurea del beato Iacopo da Varazze. Protettrice dedati, lottò con grande coraggio contro il padre degenere che la chiuse dentro una torre e morìdiante il taglio della testa per mano del suo stesso genitore dopo atroci torture durante lersecuzioni di Massimino il Trace o di Massimiano. Suoi attributi sono la torre a tre finestrelusione alla Trinità], una apertasi miracolosamente, le penne di pavone [picchiata dal genitorle verghe queste si trasformarono in penne di pavone] e soprattutto la pisside contenente le os

nsacrate contro la ‘mala morte’ cioè la morte improvvisa, quella morte per folgorazione che c

genitore mentre le assestava l’ultimo colpo. Qui a Bosa tiene nella mano sinistra una pisside (torre come è stato scritto); chiaramente si vedono poi le tenaglie con cui le strapparono i seni

bito dopo troviamo Vittoria, altra vergine romana, vestita di verde (la stoffa è decorata daglissi frutti a grappolo dell’abito di Eulalia) ed a mani giunte nel gesto della preghiera e dell’umgiovane perì vittima di atroci supplizi quali il taglio della lingua ed è venerata insieme alla

mpagna Anatolia (qui non raffigurata), con cui appare tra le martiri più illustri dell’Occidente ordati mosaici di Ravenna. Non ha nel nostro ciclo attributi particolari.

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segue Reparata, co-patrona di Firenze e Pisa. Sotto l’imperatore Decio, quando aveva dodicni, fu uccisa forse a Cesarea in Palestina mediante decapitazione dopo infiniti tormenti chedavano dal piombo fuso cosparso sul corpo al forno acceso in cui fu gettata, allo strappo dei sle viscere. Il suo culto non sembra anteriore al IX secolo. Qui a Bosa regge tra le mani, unicate, una fronda vegetale. Non si tratta della canonica palma, albero caratterizzato da grandi fognnate e non lanceolate come nel nostro caso (e perciò non rimanda al martirio), ma un ramosce

alloro o d’ulivo che, come tutti gli alberi sempreverdi, alludono all’immortalità. Il primol’antichità indicava la vittoria sui nemici, il secondo in età medievale simboleggiava la pace

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ggiunta dopo una guerra vittoriosa. In Sardegna il culto di Reparata è in realtà poco diffuso: unesa a lei dedicata di origini romaniche si trova nella cittadina di Usellus, antica colonia roma

mpresa poi nel giudicato di Arborea, ma questo culto non sembra essersi conservato almeno audicare dalla sua assenza tra le figure femminili (molto poche in assoluto) che appaiono nei rerici del Quattrocento e del Cinquecento. Dunque è più che probabile che si tratti di unaportazione toscana poco collegabile all’agiografia sarda [anche la baia di Santa Reparata a Sresa di Gallura ha avuto tale nome dai Pisani].

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ll’identificazione di Margherita di Antiochia, protettrice delle partorienti e invocata contro lrilità, non ci sono dubbi grazie alla presenza di un bel drago che, a causa dello scarso spazio posizione, si arrotola su se stesso quanto più può allungando verso l’alto (fino quasi alle menonometriche) la sua lunghissima coda: come spesso accadeva davanti a presenze demoniacheto pesantemente sfregiato dalla superstizione dei fedeli sempre coinvolti emotivamente da ognmagine dipinta. La fanciulla fu appesa a un cavalletto e straziata con pettini di ferro; fiaccolecese furono accostate al suo corpo, poi venne immersa in un calderone di acqua bollente. Vinsn un semplice segno della croce il diavolo-drago che l’aveva visitata in carcere e inghiottita.

capitata. Il nome della vergine significa perla: dunque purezza per il candore ed umiltà per lecole dimensioni. Prototipo del suo racconto agiografico in Occidente si trova nel San Vincenlliano (1007).

cora una santa romana è la nobile fanciulla Cecilia, protettrice dei musicisti, il cui nome vorre secondo Iacopo da Varazze Coeli gilia, per altri verrebbe da caecus. È vestita di un abito v

motivi gialli. Sposa del giovane pagano Valeriano, lo avrebbe convinto nella notte di nozze allstità e alla nuova fede nel Dio cristiano. Dopo inenarrabili torture, tra cui l’immersione in acqllente, fu colpita al collo per tre volte dalla spada del carnefice, ma riuscirà a sopravvivere p

orni [la legge vietava di percuotere il condannato più di tre volte] e a dispensare ai poveri tuttoi beni come aveva fatto il marito, già martirizzato.

n è distinta da particolari attributi Savina di Troyes. Giovane greca di Samo, era stata battezzma e nella città francese era capitata alla ricerca del fratello scomparso: appreso che era statortirizzato, cadde morta. Rara la sua rappresentazione in genere comunque in veste di pellegrin

n mantello, cappello a larghe tese, bordone e bisaccia: qui indossa il solito abitino di un bel cato e con l’indice alzato della mano destra sembra indicare le compagne che la precedono. Ilto è sconosciuto in Sardegna, ma non si può escludere che si tratti invece di Sabina [lo scamb

v era assai frequente per influenza fonetica del volgare: d’altra parte ‘savina’ è termine disusavore di ‘sabina’ laddove si voglia fare riferimento all’alberello simile al cipresso alto fino aattro metri, a foglie sempreverdi e bacche rosse, alludenti queste ultime al sacrificio di Cristortire romana veniva invocata contro le emorragie e molto venerata nell’isola: ricordiamo la c

otoromanica di Silanus a lei dedicata.

sula, principessa britannica, volle compiere un pellegrinaggio a Roma insieme a undicimilargini [in realtà undici fanciulle che per un errore del copista della loro ‘Passione’ si sonooltiplicate per mille]: al ritorno fu massacrata con loro sotto le mura di Colonia dagli Unni.

poggia la destra sulla spalla della vicina, mentre con la sinistra sembra indicare le compagnevocata contro la peste e pregata pro felici morte. Il suo abito conserva tracce di lumeggiaturerate.

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guono a questo punto altre due sante, una pressoché scomparsa mentre dell’altra si è conserva

o il viso e poche lettere del titulus, dopodiché la processione continua in controfacciata doveviamo una prima figura il cui titolo, posto sulla destra, è stato letto come Scolastica: anziché bside primitiva si volge verso le figure che la seguono o meglio verso la Santa Croce sorrettaena. Ha le mani alzate e le palme rivolte all’esterno forse nell’antico gesto delle orantieocristiane in preghiera perpetua come attestato nell’Antico Testamento. A prescindere da erscrittura [una ‘t’ al posto della ‘c’ nell’ultima sillaba] non inconsueti in opere medievali, restbbio il riconoscimento in questa figura della sorella di San Benedetto, poiché non indossa lanaca da badessa secondo una radicata consuetudine iconografica, bensì una veste uguale a quele altre vergini, sia pure di colore più scuro. La figura seguente porta un vistoso abito giallo-

nciato costellato da piccole bacche bianche munite di peduncolo, la cui sfericità è ottenuta pezzo di un leggero chiaroscuro; con l’indice della mano destra indica la Croce di Cristo: non

esenta né attributi né titolo, per cui non siamo in grado di identificarla.

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ultime due presenze del corteo portano le insegne della Passione. L’imperatore Costantino stla mano sinistra i tre chiodi della Crocifissione e nella destra la lancia con cui Longino colpì

stato di Cristo. È volto verso la madre Elena, che sostiene la vera Croce da lei ritrovata seconeggenda a Gerusalemme. Ha un viso dall’ovale allungato su cui spiccano il naso leggermente

uilino, le sopracciglia pesanti e i soliti occhi bistrati. Porta una barba nera molto curata (menota di quella di San Giacomo), ma il riferimento non sembra alla moda che iniziò ad affermars

orno agli anni 1335-40, bensì al rango sociale e all’età adulta: non si tratta infatti di quella coda che comincia ad apparire negli affreschi del Camposanto di Pisa. Ha sul capo una leggera c

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nca retinata a trattenere i capelli arrotolati in un unico rollo volto all’esterno; porta una coronmanto in origine rosso con soppanno di vaio sulla sopravveste verde lunga fino alle caviglie:tana di colore rosa è visibile solo grazie al colletto alto e rigido; i calzari sono moderatamentpuntiti.

ena è vestita come le altre figure femminili ma non ha lo stesso aspetto giovanile. I santi neledioevo erano alieni da vecchiaia o morte, ma il nostro pittore ha voluto evidentementetolineare l’età adulta della madre dell’imperatore solcandone la fronte con rughe profonde:

mperatrice aveva circa ottant’anni al tempo del ritrovamento della Vera Croce. La Santa Crocteva mancare in un ciclo francescano, conoscendo la fervente devozione dell’Ordine verso ilisto e le sue sofferenze attestata dalle numerose chiese che le furono intitolate.

lla lunga teoria di personaggi sembra regnare la legge dell’uniformità, ma la tipizzazione dellure sacre è un dato comune alla pittura di soggetto religioso costretta a rappresentare immaginalizzate incorporee, almeno fino alla metà del Trecento. In alcuni casi le labbra, caduto il colso, hanno conservato il bianco della preparazione e, insieme a quelle orbite oculari bianchissottolineate dal segno d’ombra delle occhiaie, conferiscono alle figure un aspetto fantasmatico

ndo si stagliano gli stessi abiti a pieghe di poco volume con bordi a piccoli ricami, gli stessipelli biondi appena ondulati, le stesse semplicissime acconciature (lontane da quelle arricchittose trecce posticce che caratterizzano, ad esempio, le bellissime sante di Pietro Lorenzetti), sse grandi mani chiaroscurate su cui le unghie spiccano nette, i medesimi visi anche se taluni ti di fronte, altri di trequarti; alcuni tenerissimi e piccoli, altri ancora larghi e grassottelli. Innerale i colli sono piuttosto tozzi e la mascella è robusta così come la ritroviamo in molte figue affollano gli affreschi del Camposanto pisano. La posizione diversificata delle iridi fa sì chentalità venga spezzata dagli sguardi di sbieco. Margherita ha un viso commovente da bambinantre Reparata mostra una bocca piuttosto danneggiata che forse vuole alludere ai due supplizi

rtiri venivano più frequentemente sottoposti, e cioè lo strappo dei denti e il taglio della linguapplizi a cui farebbero pensare quei punti neri da sutura chirurgica che le chiudono la bocca. Hapressione severa con occhiaie ammaccate di nero, così come Agata, Vittoria e in origine tutte lure: quest’altra osservazione le avvicina ancora una volta agli stilemi di Buffalmacco, cui lecomuna anche il grande orecchio di cui sono fornite Marta e la santa anonima di controfacciataieme ad altri protagonisti bosani. Emerge per ‘anomalia’ di disegno la figura della Maddalenappresentata realisticamente di tre quarti. È volta verso l’angelo: le braccia sono appenavrapposte e, ad accentuare una ricerca di prospettiva reale, l’aureola raggiata si deformaitticamente come in Giotto.

gliamo sottolineare una considerazione di tipo statistico: quasi tutti i santi raffigurati a Bosa huto un loro culto in Sardegna, in qualche caso molto vivo ed anteriore agli affreschi bosani; mnno continuato ad apparire nei polittici dei secoli successivi. Nessuno dei numerosi santi isolad esempio Santa Giusta, sotto la cui protezione era posta una delle porte della città) è presenteesto ciclo forse per l’estraneità dell’iconografo alla tradizione religiosa locale.

l registro superiore della stessa parete sinistra sono stati affrescati due episodi fondamentalilo, e cioè l’‘Adorazione dei Magi’ e l’‘Ultima Cena’. Esaminiamo la scena dell’Adorazione

agi, il cui valore simbolico è quello di omaggio dei potenti della terra alla divinità, non

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menticando che la vicenda è anche strettamente legata all’idea del viaggio penitenziale inrrasanta. L’affresco, piuttosto danneggiato, mostra il fianco di un trono ligneo giallo-dorato, suMadonna è seduta di trequarti e offre la visione del proprio Bambino dal viso di adulto ai tre nuti dall’Oriente, seguendo una stella fino a Betlemme per adorare il re dei Giudei. Nel nostroresco sono raffigurati secondo l’iconografia che era andata ormai affermandosi stabilmente needioevo. Il primo mago inginocchiato, Melchiorre [i nomi sono del tutto leggendari], che tienemani un cofanetto contenente l’oro dovuto ai re, ha barba e capelli bianchi a simboleggiare lacchiaia. Dietro di lui si intravede al centro, in piedi, Baldassarre, privo dei connotati della

dizione e cioè barba e capelli neri (allusione all’età matura), che porge al Cristo il vasol’incenso a testimoniarne la divinità. Gaspare, imberbe, còlto nell’atto di genuflettersi,mboleggia la giovinezza (quasi completamente distrutto): dona al Bambino la mirra, sostanzammoresinosa usata per imbalsare i defunti, dunque annuncio di morte. I nostri Magi indossanotane bianche a collo alto e sopravvesti verdi su cui portano manti rossi (in origine) foderati do come tutti i personaggi maschili del ciclo. Sul capo hanno cuffie trasparenti che trattengono

nsuete acconciature a rollo sormontate da corone, sotto le quali si intravedono grandi orecchieano probabilmente sacerdoti persiani seguaci di Zoroastro, nella cui dottrina era predettovvento di un salvatore partorito da una vergine che avrebbe fondato sulla terra il regno del be

sua venuta sarebbe stata annunciata dall’apparire di un astro luminoso.

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Vergine, il capo adorno dal velo bianco simbolo di purezza, appare ormai individuata soltante grandi macchie di colore, quella del manto un tempo azzurro (di cui si è conservata solo la

eparazione grigio-celeste di fondo: quella dell’azzurrite era qualche volta di questo colore, piquentemente era nera) e quella della tunica rossa nella più tipica tradizione senese (Duccio,mone Martini), caratterizzata da una leggera scollatura bordata d’oro come i polsini, secondo dello già descritto degli abiti delle sante in processione. È una figura solida e concreta, giottese ma con qualche delicatezza in più: il viso dolcissimo è di restauro. Delle due mani chettengono il Bambino dal nimbo cruciato, decorato a stilizzati e incerti racemi che ricordano lanica della bulinatura dei fondi oro, la sinistra è poggiata con dolcezza sulla spalla del piccolo

pollice alzato richiama inevitabilmente sigle lorenzettiane. Per San Francesco la Vergine era lrsonificazione per eccellenza di una delle virtù da lui più apprezzate, cioè l’humilitas. Insiem

’Arcangelo Michele e alla Santa Croce, fu uno dei riferimenti fissi delle sue meditazioni e de

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etto, al pari dell’Incarnazione di Nostro Signore, così che la festività più amata fu proprio iltale. Dunque ancora una conferma che ci troviamo di fronte a un ciclo di ispirazione francesc

Bambino (dagli occhi strabici; di restauro) indossa una tunichetta gialla con i consueti bordi dcollo e ai polsi: calza gli stessi sandaletti che porterà anche nel quadro dell’‘Ultima Cena’. Qoi capelli a parrucchetta e ondulati mediante linee rosso-nere, tipici di tutti i personaggi del ci

mandano ai bambinelli che strappano rami d’olivo nell’‘Ingresso di Cristo a Gerusalemme’,rescato da Pietro Lorenzetti nel braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore ad Assisi315-19). Il gesto di benedizione e l’espressione severa del volto sono caratteri che ci privano

ei segnali infantili che arricchiscono di umanità tanta pittura e scultura gotica, rivelando inveco destino di morte. Oltre alla mancanza/perdita della stella che ha guidato a Betlemme i Magi, ò passare inosservata una assenza iconografica importante, e cioè quella di San Giuseppe, peresso mancante nell’iconografia più antica e bizantina a riconferma della sua estraneità alncepimento. Fermo restando che nel nostro caso può trattarsi della consueta lacuna pittorica (f

posto dietro il trono, come in altri esempi), ricordiamo che la stessa licenza è riscontrabile nena di identico soggetto dipinta nella basilica inferiore di Assisi dal cosiddetto ‘Parente di Gi310-15) e in opere di Taddeo Gaddi.

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ssiamo ora al riquadro dell’Ultima Cena, che denuncia subito la sua appartenenza ad unadizione tutta italiana di tavole imbandite con bianche tovaglie e stoviglie tipiche della prima mTrecento. I partecipanti al convito sono identificabili grazie alle iscrizioni identificatorie dip

la fronte della predella (Cristo [forse l’acronimo IC …], Giovanni, Giuda, Pietro, Andrea,ippo, Giacomo il Maggiore, Taddeo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Simone, Giacomo ilnore). Non sono disposti intorno alla mensa ma stanno al di là del tavolo come affacciati allacca di un palcoscenico, entro un invaso spaziale cui è stata tolta la quarta parete (Federico Zouramente il modo più semplice per disporre in profondità un gruppo di figure ed evitare la

ficoltà di doverne dipingere alcune viste di schiena. Purtuttavia, se lo schema può sembrareiquato, i piedi nudi dei commensali sono concretamente poggiati su una predella di lieve aggela cui fronte sono iscritti i loro nomi. La predella è retta a sua volta da una fila di mensolerallele viste dal basso: la loro sporgenza è indefinita ma reale, perché esiste il suggerimento dofondità rappresentata in assonometria. Una tovaglia bianca, le cui estremità sono caratterizzala presenza di coppie di bande decorative a disegno reticolare, è stesa sulla tavola e si articoe piani: l’uno frontale appena drappeggiato da pieghe a V, l’altro a formare la mensa vera eopria resa con un disegno assonometrico che tenta di descriverne la profondità. Ci troviamo inell’ambito di sperimentazione dello spazio che nel XIV secolo ebbe in Giotto il suo massimo

ponente, anche se non proprio di spazio geometrico si dovrà parlare ma di illusionismo pseudospettico. I pani sono perfettamente circolari e cioè visti dall’alto pur poggiando sul pianolinato della tovaglia, le caraffe metalliche per il vino sono disegnate frontalmente mentre ungero accenno prospettico, utile a definirne il volume, si riscontra nei bicchieri di vetro e nelleate, forse di legno, con i pesci. Le mani degli Apostoli si muovono liberamente nello spazio,ntre i piedi sono ordinati secondo un modulo ripetitivo nell’atto di toccarsi o sovrapporsi. Pi

ensili, scimmieschi, ‘parlanti’, che si affacciano sotto la tavola, appartenenti a uomini resispressivi perché quasi tutti privati della testa. Piedi nudi così come i Vangeli prescrivevano aostoli (Mt 10,10) e ai discepoli (Lc 10, 4) inviati a predicare nel mondo. Solo il Cristo, posto

’estrema sinistra della tavola, è calzato con sandali come il Bambino dell’‘Adorazione dei M

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ntici a quelli che porta il Santo di Assisi in questo stesso ciclo, così come nel dossale di Ottagenere tuttavia era sempre rappresentato scalzo come gli Apostoli).

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sposti ora frontalmente, ora di tre quarti, ora di profilo, i partecipanti alla Cena sono vestiti dniche e manti di foggia classicheggiante, come del resto tutti i personaggi sacri nelle opere diesto periodo, resi in qualche caso con abilità pittorica. Le loro emozioni ci sono rivelate anchguaggio delle mani segnate da un grosso contorno e caratterizzate dal disegno preciso delle unme tutte quelle del ciclo: una afferra un coltello, un’altra un pane, un’altra ancora ne prende un

ta. Filippo appoggia la mano destra (rachitica) sulla spalla di Andrea e allarga l’altro braccioeggiamento sconcertato, Giacomo il Maggiore compie il gesto oratorio [due dita indicano ilisto], Taddeo punta l’indice in direzione di Tommaso che tiene nella sinistra un coltello.

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uda, di cui vediamo solo il mento e parte della bocca in un profilo dimezzato che appare tuttavande bellezza, è seduto vicino a Pietro, il cui viso è canonicamente coperto da una barba grigiosa (in buona parte di restauro). Egli tiene il coltello sollevato a mezz’aria sorpreso dalle paMaestro, mentre Giuda, vestito di una tunica rosa e forse di un manto giallo [colore che nella

tura medievale contrassegnava i traditori ed era anche simbolo dei beni mondani, ma che qui

mbra usato con intenti negativi poiché, ad esempio, anche la tunica di Matteo appare dello stesore], mette la mano sinistra (mano infausta, quella che contraddistingue nella pittura medievalami: nel ricevere i trenta denari Giuda usa quasi sempre la sinistra) nel piatto dei pesci e si risì come il traditore annunciato. All’estrema sinistra della tavola Giovanni tiene tra le mani ilolo del suo Vangelo e china il capo verso il petto del Redentore (il particolare è solo in Gv 1), gesto che sta ad indicare che la conoscenza del mistero della divinità di Cristo si conquistatrance. Ha un viso efebico, imberbe di giovane uomo, segno di verginità. Entro un ovale allunelicato spiccano grosse labbra carnose, le palpebre sono abbassate ad esprimere il suo abbanCristo. Della parte superiore del corpo del Salvatore (vestito di verde, il colore predominante

to il ciclo) si conservano solo parte del braccio e la mano destra con medio e indice tesi (gestla parola) nell’annuncio del martirio e insieme nell’atto di accusa che sconvolgono i commennteressante riflettere sul fatto che probabilmente il suo viso era dipinto di profilo, come quelluda. Come noto, nella pittura medievale la posizione di profilo era riservata ai malvagi (carnei traditori (Giuda appunto) o a figure di secondo piano, mentre quelle sacre rispettavano una

essoché rigorosa frontalità. Poiché il recupero pittorico del profilo privato di connotazionigative è una conquista giottesca (si pensi alla scena del ‘Bacio di Giuda’ agli Scrovegni didova), dobbiamo pure ammettere che il nostro pittore non fosse digiuno delle innovazioninografiche che venivano dal Nord e si diffondevano in tutta la penisola.

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periamo il riquadro della Coena Domini e fermiamoci ad esaminare le figure che seguono giàntificate con Ambrogio, Girolamo, Agostino e Gregorio Magno, padri e dottori della Chiesina. Nella loro iconografia il numero di quattro si è venuto affermando in analogia a quello deangelisti Marco, Matteo, Giovanni e Luca cui si accoppiano nell’ordine indicato nelle unghie ociere, dopo che alla fine del Duecento il loro culto fu equiparato a quello degli Evangelisti. Imi quattro personaggi, stagliati sul consueto fondo a due fasce, vestono abiti vescovili: camicori che vanno dal verde, al giallo, al bianco, impreziositi nella parte bassa da tablia; e poi piate, rosse, nere; calzari, guanti [o meglio ‘chiroteche’, per preservare la mano consacrata da

ntatti impuri]. L’ultimo dei quattro è quello più riccamente vestito: oltre al pastorale rivolto vsterno (dunque un vescovo) porta guanti bianchi impunturati di nero, con placca circolare dordorso e calzature da cerimonia particolarmente belle di foggia bizantineggiante (le stesse che

dossa la Madonna dell’‘Adorazione dei Magi’). Si tenga conto in ogni caso che le vesti sacerdno rimaste praticamente immutate per secoli. La presenza del pallio a sei crocette, riservato adivescovi metropoliti e pontefici, potrebbe permettere l’identificazione di Gregorio Magno.rtroppo i danni subìti dalla parte superiore del ciclo non permettono di conoscere quali fosserpricapo di queste figure, circostanza che ci avrebbe aiutato molto (si scorgono comunque le trdue mitrie aureolate pertinenti alle prime figure; di restauro). Personaggio riconoscibile con

tezza potrebbe essere Agostino, perché sul camice bianco indossa sempre una sopravveste scordo del suo ruolo di fondatore di un ordine monastico: nella destra tiene il pastorale e con laistra regge il libro della sua Regola. Delle rimanenti figure la prima si distingue a fatica; la

guente indossa una pianeta rossa su una tunica gialla: il loro colore variava a seconda delletività in calendario, dunque non ci aiuta. Questa zona dell’affresco è particolarmente importanrché vi si conserva traccia della decorazione superiore del ciclo costituita da una semplice facolore chiaro, all’interno della quale corre una linea ondulata rossa, che rimanda a decorazioniate e che ritroviamo sulla lancia retta da Costantino. I quattro teologi latini sono seguiti da dure scalze (la terza è pressoché scomparsa, la quarta è completamente cancellata) nelle quali

ti indicati gli Evangelisti. La prima indossa una veste marrone di foggia monacale e un manto

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aro, di cui restano solo le linee del disegno preparatorio. Regge con la mano sinistra un libron la destra un lembo del manto. Accettando l’ipotesi che ai Dottori della Chiesa seguano gliangelisti, qui schierati sul piano in assenza di coperture voltate, il primo di questi potrebbe esn Giovanni perché caratterizzato, secondo una consuetudine iconografica che ne ricorda la tarddel momento della redazione dell’Apocalisse, da una lunga barba bianca, che lo accomuna a

atteo, per distinguere gli Evangelisti più anziani che hanno conosciuto il Salvatore, dai più gioca e Marco che questa fortuna non hanno avuto. Il secondo personaggio indossa manto e tunicanca (le linee verdi del chiaroscuro sono state eccessivamente enfatizzate) e regge un rotolo co

istra, mentre la destra è alzata contro il petto nel gesto della testimonianza. Della terza figurastita di giallo e marrone si intravedono parte del busto e le braccia; della quarta (la sua presenotizzabile perché lo spazio residuo sulla parete sarebbe stato sufficiente ad accoglierla) nulla o sapere.

spostiamo ora in controfacciata, dove abbiamo già seguìto nel registro inferiore la processiosanti bloccata dalla presenza apotropaica di Cristoforo, il cui grande corpo abbraccia tutta

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ltezza della parete: è l’unico fra i Santi a condividere con la Vergine il privilegio di sostenereicamente il Bambino. La figura è stata irrimediabilmente mutilata nella parte superiore a causala apertura, nel timpano di facciata della cappella, di una finestra quadrangolare: si sono perd

testa del Santo, il Bambino che portava sulle spalle, la sommità del bastone. La sua leggenda èta infarcita da tali particolari fantastici che si è dubitato a lungo della sua esistenza storica: lassio trova nel San Vincenzo di Galliano (1007) la più antica e ampia illustrazione in Occidento è attestato sin dal V secolo (era presente in Santa Maria Antiqua a Roma) ed ha avuto largafusione soprattutto nel XIV grazie alla Legenda Aurea, ma la sua popolarità declinò rapidame

ovane gigante (e brigante) convertitosi al Cristianesimo, volendo esercitare la carità, si sistema capanna presso un fiume impetuoso e, in virtù della sua alta statura, riusciva ad aiutare indanti in difficoltà che dovevano attraversarlo. Un giorno Cristo gli si manifestò sotto le

mbianze di un bambino, che il pover’uomo faticò non poco a traghettare al di là del fiumertandolo sulle spalle, perché il peso del fanciullo andava crescendo a tal punto da diventareopportabile anche per un individuo della sua forza. Cristoforo, compresa la prova cui era stattoposto, finirà i suoi giorni martire per decapitazione in Licia. Grazie a questa leggenda divenore dei viandanti e dei pellegrini, ma anche il santo da invocare contro la morte improvvisa chvava della possibilità di una salvifica confessione. Era sufficiente guardare le sue grandi imm

temate nei crocicchi, scolpite agli ingressi delle chiese o dipinte sulle controfacciate per esseuri di non morire durante il corso della giornata: Christophorum videas, postea tutus eas (Emâle, 1986). Già raffigurato nel X secolo in Santa Maria Antiqua a Roma e nel San Vincenzo dilliano (1007-13), lo ritroviamo nel XIII all’interno del duomo di Modena e all’esterno del Sa

arco veneziano. In Sardegna è stato rappresentato con gusto popolare e ingenuo nel XIII secoloanus nella chiesa di San Lorenzo, a fianco di San Biagio [ricordiamo che Cristoforo, come Biinvocato anche contro la peste] e San Benedetto. A Bosa è dipinto in controfacciata come ne

nta Pudenziana di Visciano (XIV secolo). Meno frequente sembra essere la sua presenza nell’ridionale. Il nostro Cristoforo indossa, su una tunica di colore verde, un elegante manto

ppannato di vaio lungo fino a mezza tibia; si appoggia ad un tronco d’albero per aiutarsil’attraversamento di un fiume dalle acque verdissime abitato da pesci voraci, che mettono ben

ostra i loro robusti denti: sono gli stessi che abbiamo trovato sulla mensa dell’‘Ultima Cena’. Pva della testa e del Bambino sulle spalle, è questa una delle figure più straordinarie del ciclovrà escludere che sia stato qui dipinto ad uso di viandanti o pellegrini poiché ci troviamo nellesa di un castello. Semmai sarà da riconfermare il suo valore di tutore contro la morteprovvisa.

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maniamo nel registro inferiore per incontrare, dopo avere superato il portale, il riquadro dellasatura delle anime (in verità delle colpe) [si corregge Poli 1999]. Le modificazioni delleginarie dimensioni subìte dal vano di accesso alla chiesa insieme a cadute di brani d’affrescocorse prima dei restauri, oltre ad avere danneggiato in parte il San Cristoforo, hanno martoriache la scena seguente, di cui si è persa tutta la zona inferiore. A sinistra è dipinto, su un fondo angelo nimbato dalle grandi ali a penne lunghissime e oggi pressoché monocrome, del quale s

no conservati solo la testa e il busto. Il braccio destro alzato impugna con energia la parte alta’asta, che interferisce con il registro superiore andando a sfiorare la coda a spirale del drago d

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n Giorgio, ma di cui in basso non si vede la fine. Quello sinistro piega verso l’interno del corputilato a metà circa dell’avambraccio. Di fronte, separata da una banda bianca e stagliata su unndo oggi di colore violaceo, sta una evanescente figura femminile aureolata, che indossa una tuorigine rossa priva dei consueti bordi ricamati e un manto giallo. La sua struttura facciale puòparire a prima vista atipica all’interno del nostro ciclo per via di quell’ovale allungatissimo, nto enorme e quella bocca carnosa, ma sono tratti che caratterizzano altri personaggi bosani:esto viso si apparenta strettamente a quello del San Giovanni dell’‘Ultima Cena’ e solo la cadle finiture a chiaroscuro (è rimasta unicamente la tinta piatta color carne) li fa sembrare diver

bbiamo escludere che si tratti dell’Arcangelo Gabriele che annuncia alla Madonna il suo divincepimento: la figura angelica è volta con sguardo interrogativo verso la donna, che ne osservvimenti mentre punta l’indice verso il basso e si stringe al petto con il braccio destro unluminoso lembo del manto. Poiché la Vergine veniva spesso raffigurata accanto a Michele comvocata delle anime da giudicare, ruolo attribuitole da secoli (si pensi alla bizantina Dèesis =eghiera, intercessione), l’interpretazione più plausibile appare quella della rappresentazionell’Arcangelo Michele intento, nel giorno del Giudizio, a cacciare con l’asta i demòni cheidiano i risorti, mentre col braccio (qui amputato) sorreggeva la bilancia per la pesatura delleme.

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sciando i problemi iconografici, guardiamo ora al nostro affresco per trovarne se possibile ierenti stilistici. A nostro avviso non v’è dubbio che questo arcangelo dimezzato sia un parenteetto degli angeli raffigurati nel ‘Giudizio Universale’ del Camposanto di Pisa, opera di Bonamffalmacco (1280/90-1342 ca.), pittore famoso nella Firenze del Trecento tanto da essere ricor‘Decamerone’ del Boccaccio e nel ‘Trecentonovelle’ del Sacchetti. L’angelo di Bosa è vesti

me quelli pisani, di una tunica manicata strettissima, confezionata con un tessuto a disegnimboidali sui quali sono stati successivamente impressi a stampino fiori quadripetali (a Pisa qutivo varia in disegni più o meno complessi); ha la loro stessa robustezza e le stesse rughe sullnte; soprattutto compie lo stesso gesto atletico. Certo la scena oltre che mutila è semplificata, co spazio per distendervi troppi particolari; certo il viso è più anonimo, il gesto più rigido, mandi ali e il modo di impugnare l’asta non mentono: qualcuno indubbiamente, certo meno abileffalmacco, è stato a Pisa in quegli anni e si è trasferito poi in Sardegna a lavorare al ciclo di B

l registro superiore della controfacciata, diviso in due specchi dalla figura di Cristoforo, son

pinti in posizione araldica due santi che apparivano di frequente in tutti i cicli francescani, e cartino e Giorgio: soprattutto il primo perché consentiva di mettere in scena i poveri. Infatti nelvertà i seguaci del Santo di Assisi riconoscevano una condizione spirituale che accomunava tcreature di fronte a Dio. I fondali a due fasce (giallo carico l’inferiore, blu la superiore) di quene sono gli stessi che accolgono la teoria di santi della parete sinistra. In questo riquadropravvivono in alto resti di pannellature dipinte, motivo abbastanza diffuso nel XIII secolo (salpitolare dell’abbazia di Pomposa; ospedale della Misericordia a Prato; canonica del duomoano; sottotetti della cattedrale di Modena): spesso decorazioni a riquadrature a finto marmo dattere provvisorio venivano eseguite in attesa delle futura affrescatura. Qui a Bosa ne abbiam

vato altre tracce all’altezza dell’antico presbiterio (parete sud), sotto la nicchia che accoglie tua di Sant’Andrea e sotto la figura di Lucia.

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sinistra è raffigurata la Carità di San Martino. Quasi tutto il campo è occupato dalla sagoma ande cavallo biondo, probabilmente un avelignese, razza che presenta ancora oggi criniera e condissime e zampe corte, dall’occhio dilatato che spicca netto sul fondo un tempo rosso: i finippena più vistosi quelli dell’animale di San Giorgio) sono di una grande semplicità, come nonrificherà più nel secolo successivo. Il Santo, che l’iconografia più corrente vorrebbe su un ca

nco (in realtà si tratta sempre della razza dei grigi), è il legionario romano Martino ritratto mna al povero, che gli si rivelerà poi essere Cristo, la metà del suo mantello da ufficiale foderao. Di lui restano la gamba destra con il piede infilato nella staffa, calzari con speroni, gualdralla sotto la sella; la parte inferiore della cotta verde ha l’orlo appena ondulato ed arriva pocoto del ginocchio; la cinghia sottopancia del cavallo è a disegno reticolare come in numerosiss

empi del tempo. I danni hanno anche risparmiato la mano guantata che regge la spada a lama lamplice elsa a croce e pomo tondo. Il mendicante seminudo è conservato pressoché interamenteo viso barbato dalle guance infossate ha un’espressione sofferente. Le lunghe gambe sono scopntre il busto è già protetto dal mantello del Santo. Inesistente ogni ambientazione della scena,

ito raffigurante la porta delle mura di Amiens da cui Martino usciva quando incontrò ilndicante. Figlio di un soldato e nato in una stazione di frontiera ai confini con la Pannonia,artino visse nel IV secolo e si convertì presto al Cristianesimo, ma abbandonò il mestiere dellmi solo dopo circa vent’anni di servizio, intorno al 354. Eremita e poi vescovo di Tours a par

370, morirà nel 397. La sua vita e la sua leggenda ebbero ampia diffusione sin dal V-VI secoi soprattutto grazie alla Legenda Aurea, che nell’iconografia medievale farà testo per tutti i pirché arricchiva di particolari facilmente traducibili in termini figurativi le vite dei santi. Loviamo già presente, pur senza particolari attributi, tra i confessori nella basilica dint’Apollinare Nuovo a Ravenna a testimoniare la precocità del suo culto, che si diffuse

idamente in tutto l’Occidente.

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ndant di questa scena (superato il gigantesco Cristoforo) è la raffigurazione di San Giorgio e

ago, allusione alla salvezza dal peccato attraverso la fede. L’esistenza di questo Santo, cheebbe stato martirizzato sotto Diocleziano e il cui capo sarebbe stato ritrovato e portato a Romla madre di Costantino Elena, non è mai stata sicura, ma in passato la sua presenza nell’agiogtata fondamentale grazie forse alla bella favola del cavaliere senza macchia e senza paura cheera la principessa dall’assalto di un drago assassino. Numerosissime chiese gli furono dedicanedettini gli erano molto devoti; i Francescani riconoscevano in lui un simbolo della fede e de

ità perché aveva distribuito ai poveri tutti i suoi beni, compreso il compenso promesso dal regli avesse salvato la figlia dalla morte (prima di lei molte fanciulle erano state sacrificate alstia, affinché lasciasse vivere in pace gli abitanti della città). La scena è più complessa di quepena descritta. Un bellissimo drago giallo e verde [nel Medioevo due colori di connotazioneevalentemente negativa], munito di ali e orecchie appuntite (simbolo del peccato), barbetta, il ncellato da mani superstiziose, zampe piumate con artigli da rapace e coda di serpente, così cve essere un vero drago medievale, metafora dell’infedele e dell’eretico, poggia gli unghioni gante fregio classicheggiante a palmette (= immortalità = Paradiso) di disegno miniaturistico,ti sono collocati sopra il vano del portale: lo stesso motivo si ripete nella parete destra in

rrispondenza dell’architrave dell’accesso laterale. L’enorme coda attorcigliata ha già avvinghricolosamente le zampe posteriori del cavallo, che si è impennato per la spinta impressa dalvaliere allo scopo di vibrare con maggiore forza il colpo nel collo dell’animale, il quale per ggiungere il suo avversario ha dovuto arrampicarsi sulla breve erta del terreno brullo e ondulaserpente per difendersi non può che bloccare le zampe dell’avversario. Se il cavaliere ha per

me l’altro, buona parte del corpo (restano il piede nella staffa, calzari con speroni a rotella sumbo molto corto, tipici della prima metà del XIV secolo, gualdrappa gialla sotto la sella e parla cotta), qui non troviamo più neanche le braccia e non riusciamo a seguire il percorso alto dcia che infilza la bestia (dalla ferita scende un rivolo rosso di sangue): brandita con la destra

ppone dovesse passare dietro il collo del cavallo. L’animale è la bella rappresentazione di un

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mellato grigio dalla folta criniera, zampe corte e robuste, occhi spiritati per la fatica volti versservatore. E soprattutto una bella coda annodata a fiocco secondo la moda del tempo diffusaprattutto in Lombardia: per un palafreno da torneo o da parata montato da un cavaliere, la citacostume era d’obbligo (in quello del soldato Martino la coda ondeggia invece libera). Riteniae la frequenza con cui sin dall’Altomedioevo viene dipinta questa razza equina dipenda dal fate pittoricamente dia risultati eccezionalmente vivaci. Nel Trecento la incontriamo sempreprezzatissima dai pittori e dai miniatori: un pomellato grigio è dipinto in primo pianol’‘Incontro’ di Pisa. Alla metà del XIV secolo troviamo il nostro santo nel polittico di San

acomo a Bologna di Paolo Veneziano: qui come a Bosa la scena ha come pendant la ‘Carità dartino’ e, come a Bosa, mancano lo stendardo crociato e la principessa, particolari di cui è statata l’assenza ma evidentemente non indispensabili nell’economia dell’episodio.

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sulla sinistra le mensole erano rivolte verso l’ingresso, sulla parete destra (nord) sono dipinnso contrario e cioè guardano verso la zona dell’abside primitiva, poiché gli affreschi (e quesa riprova) sono stati dipinti per un osservatore in movimento che, partito dall’antico presbiterrcorsa tutta la lunghezza dei muri perimetrali, avrebbe compiuto il suo viaggio fisico e spiriturovandosi infine al punto di partenza, cioè dal Creatore al Creatore.

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parete presenta lacune assai estese. Gli affreschi della zona posta tra lo spigolo di controfaccl portale laterale sono andati quasi totalmente distrutti fatti salvi alcuni brani del registro

eriore (figura femminile mutila vestita di giallo, che tiene il manto con la destra ed è volta vebside; figura maschile di cui resta una mano uscente da una manica e reggente forse un bastone rocchelli).

l registro superiore (dopo un’ampia lacuna) sono rappresentati i più noti santi francescani.

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iara (1193/94-1253) canonizzata nel 1255, figura che, a differenza delle altre, indossa sullanaca mantello e soprattutto calzari, per cui si può pensare alla fondatrice dell’Ordine dellearisse. La sua vicenda terrena inizia quando, nata da nobile famiglia, appena quattordicennebandona status e ricchezze per seguire gli ideali di povertà predicati da Francesco, poi seguita sorella Agnese. Non risparmiò il suo corpo da sofferenze fisiche ricercate (cilicio, la nuda tr giaciglio, digiuni) che mitigò appena su ordine esplicito dello stesso Francesco. Il miracolo

to e rappresentato è la fuga dei Saraceni che al servizio di Federico II assediavano nel 1243sisi, messi in fuga alla vista della Santa, ormai gravemente malata, apparsa fuori dalle mura d

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nvento con in mano la pisside contenente l’ostia consacrata, oggetto che insieme al giglio e al la Regola è diventato uno dei suoi attributi. Antonio di Padova (1190/95-1231, canonizzato n32) veste un ampio e comodo saio ma è scalzo, regge tra le mani il libro dei suoi sermoni sullrgine (altri attributi come il ramo di gigli e il Bambino entro una gloria di luce compaionol’iconografia solo dopo la metà del Quattrocento). Nato a Lisbona da nobile famiglia, entrò aindici anni nell’Ordine dei Canonici Regolari di Sant’Agostino, nel 1219 venne ordinato saceanno successivo chiese e ottenne di entrare nell’Ordine dei Minori; dopo un lungo peregrinar

arocco alla Sicilia, ad Assisi incontrò San Francesco nel 1221. Nell’Italia settentrionale, in E

magna in particolare, dopo un’esperienza eremitica, prese a predicare, un’arte in cui eccelseche per il coraggio dimostrato nell’affrontare gli eretici sulle pubbliche piazze, mostrandosirticolamente attivo in questa lotta che minacciava gravemente la Chiesa in Italia e Francia (Cabigesi, Patarini). Uomo di immensa cultura, pose le basi della Scuola teologica francescana edegnò a lungo nelle università francesi. Nel 1229 fece ritorno a Padova dove aveva soggiornatre volte e dove, malato da tempo di idropisia, morì nel 1231. Numerosi i miracoli attribuitiglia e rappresentati nell’arte (in particolare quello della mula che si prostra di fronte all’ostiansacrata, convertendo un ebreo) ma soprattutto quelli post mortem della guarigione di ciechi sralitici e persino due resurrezioni.

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dovico di Tolosa (1274-1297; canonizzato nel 1317), anch’egli con saio e privo di calzari,dividuabile con sicurezza per la presenza di una corona regale ai suoi piedi, sottolineatura deltù francescana dell’umiltà [nel 1296 aveva rinunciato al trono di Napoli a favore del fratelloberto]: alle sue spalle il seminato di gigli dorati degli Angioini dipinti su fondo azzurro (forseislazzuli). Nato probabilmente a Nocera Inferiore da Carlo II d’Angiò e Maria d’Ungheria, si

vicinato ai Minori grazie ai suoi precettori francescani che lo misero in contatto con Pietro di

ovanni Olivi durante il soggiorno in Catalogna (1288-95), dove insieme ai fratelli era trattenuaggio al posto del padre, fatto prigioniero dagli Aragonesi. Di sentimenti pauperistici e dunqu

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ino alla fazione francescana degli Spirituali, prese gli ordini sacerdotali nel 1296 e riuscì adrare nell’Ordine dei Minori (condizione da lui posta per accettare la mitra vescovile): BonifaII lo investì dopo pochi giorni dell’episcopato di Tolosa, una diocesi che resse per soli sei merante il viaggio a Roma, intrapreso con l’intenzione di deporre la carica a lui sgradita di presrì di stenti a Brignoles (Provenza) nel 1297 a soli ventitré anni. Rari sono i cicli pittoricifiguranti questo Santo, che appare in genere, come qui a Bosa, in chiese francescane all’interno santorali.

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gue il quadro raffigurante le Stimmate di San Francesco, episodio avvenuto nel 1224. Sebbensieme sia ridotto in condizioni tragiche di conservazione, è ancora leggibile la figura del Sanginocchiato, vestito di un saio che appare di un tenue colore marrone. Francesco è rappresental’atto di ricevere i raggi dolorosi lanciati dal Cristo-Serafino ormai scomparso verso il suo

vero corpo macerato da digiuni e privazioni (le traiettorie luminose sono diventate discontinutore coglie Francesco nel momento del mistico abbandono, entrambe le ginocchia a terra secomodulo ancora duecentesco specie nella miniatura; il piede destro avanza e poggia su una delnsole nel tentativo di proporre una profondità spaziale. La testa, circondata da un’aureola doratterizzata dalla presenza dell’ampia chierica; il viso estatico, stravolto, sembra guardare versservatore. Le mani sono levate all’altezza del petto e mostrano le palme al Serafino come inotto e Pietro Lorenzetti; i piedi calzati con sandali (in realtà la Regola originaria dettata daancesco prevedeva che i frati camminassero a piedi nudi) portano impressi i segni neri dellemmate. Sullo sfondo si intravedono i resti di un edificio, cui si accedeva tramite una brevealinata, caratterizzato da una muratura di conci a filari alternati, evidenziati con un disegnoenziale che richiama gli schematismi di tante tavole duecentesche; a sinistra è collocata la rocudente al monte della Verna dove avvenne il prodigio, ma a destra, dove in genere siede la figfrate Leone, intento alla lettura del Vangelo ed in veste di testimone necessario per confermarutenticità del miracolo, non riusciamo a distinguere più nulla.

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tre il quadro delle ‘Stimmate’, dopo un’ampia lacuna, sopravvivono i resti di tre personaggi, dello centrale è un prelato mentre gli altri non sono più identificabili.

l registro inferiore, una nicchia è stata ricavata dalla occlusione di una monofora, fatto questattesta l’esistenza anteriormente all’opera di affrescatura tenuto conto che le scene vicine non

no state danneggiate. È interamente coperta da una puntinatura rossa su fondo bianco a testimontenzione di alludere a un qualche materiale pregiato di rivestimento. Al di sopra è stata dipina sorta di lacunare in prospettiva assonometrica: un abile gioco di luci e ombre ne rivela laofondità come se la fonte luminosa provenisse dall’apertura di facciata. Ai limiti della paretedievale sono posti una finta nicchia rettangolare verticale a fondo verde imitante il marmo,uadrata dal consueto fregio ondulato che ritroviamo con frequenza nell’arte miniatoria, ed un

positorio per oggetti liturgici di forma quadrangolare con resti anche qui della decorazionentinata rossa.

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parte superstite del tendaggio dello zoccolo presenta un disegno a pelli di vaio. I documentiniati testimoniano ampiamente l’uso di drappi/arazzi caratterizzati da tale motivo disposti sullreti delle stanze, a fungere da cortina per i letti oppure usati come coperte, tappeti o rivestimesedie e mobili (vedi, ad esempio, Assisi, braccio sinistro del transetto della chiesa inferiore,etro Lorenzetti, circa 1319: panca ricoperta da un drappo di vaio). Dopo la demolizione per m

rsi imperdonabile del sedile perimetrale medievale come mostrano i lacerti in vecchie fotogramotivo a pelli di vaio (a destra entrando: vedi foto in Mastino cit. 1991, ed anche 1981in voscellaneo a cura di S. Spanu cit.) sono apparsi nella parte bassa della stessa parete ampi restila palea a fasce giallo-rosse (quelle che abbiamo trovato nella parete di fronte). Di consegue

dovrà pensare ad un intervento successivo dovuto forse a Mariano IV, che in guerra aperta contalano-Aragonesi a partire dal 1353, eliminò i pali catalani dallo stemma del regno. La presena sorta di arboscello in questo punto della parete sinistra, interpretato come stemma degli Arb risultato di una forzatura di restauro, che non ha tenuto neppure conto della forma dello scud

tico adottato in quel tempo per gli emblemi. Posizionato com’è quasi a livello del pavimento,

trova ad una altezza adeguata rispetto all’occhio dell’osservatore riconfermando così il nonsela sua presenza: le figurazioni degli zoccoli, che avevano funzione didascalica e dovevanossedere grandi capacità comunicative, non cominciano mai troppo in basso. Al contrario, su uato di intonaco soprapposto dunque posteriore, sono state pressoché cancellate tracce, poste po, della raffigurazione di un babbuino con gambe e piedi umani, come la troviamo in miniaturecentesche (Londra, British Library). La scimmia era simbolo del demonio o del peccatore:ordiamo che negli zoccoli venivano spesso raffigurati Vizi e Virtù.

l registro inferiore, dovremo ora esaminare con attenzione i due riquadri raffiguranti l’‘Incon

tre vivi e dei tre morti’ e il ‘Martirio di San Lorenzo’.

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presenza del primo è legata strettamente al tema conduttore del ciclo e cioè l’ammonimento pa buona morte, che ricorreva costantemente nelle prediche dei Minoriti, insieme all’invito aettere sulla vanità dell’esistenza terrena e sulla ‘democraticità’ di sorella morte, che nonparmiava neppure i re.

entimento del macabro apparve nell’arte cristiana dell’Occidente nel corso del XIII secoloando lo sviluppo economico favorì uno stile di vita laicamente lussuoso, contrastato invano daedicazione dei Mendicanti: come sempre, il tema della morte si diffonde quando si fa maggior

urezza sociale, mentre in tempi di crisi si ha la rimozione del problema. La sua prima traduziotorica fu l’Incontro dei tre vivi e dei tre morti. Alberto Tenenti (1986) ritiene che un sentimelacerazione tra abbandono fiducioso in Dio e attaccamento al mondo si affacci alle coscienzeggiore chiarezza nella prima metà del Trecento, anteriormente comunque allo scatenarsi dellaste Nera (1347-50; anno di peste fu anche il 1340) che, proveniente dalle pianure dell’Asiantrale, ricomparve in Europa dopo un millennio di latenza (cioè dopo quella del 542 detta diustiniano) e si ripeterà altre due volte nel secolo. La pandemia, che si diffuse a partire dalle crtuali, falcidiò forse il cinquanta per cento della popolazione europea ed ebbe, come effetto pumatico, una scontata svolta psicologica verso la lussuria e l’amore per la vita. La morte era s

allora la francescana ‘sora nostra morte corporale’ o, per un poeta, il ‘soave e dolce mio ripoante, ‘Vita Nuova’, 1292-93). Ma già Jacopone da Todi (†1306) parlava di ‘dura morte’, menlaudi delle confraternite italiane avevano evocato spesso la ‘solitudine del cadavere, preda dermi nel buio della fossa’. Con Francesco Petrarca l’atteggiamento dell’uomo nei confronti dela cambia: quanto più la morte disvela agli esseri viventi la fugacità dei beni terreni vanificansì ansie e ambizioni (‘L’Africa. Morte di Magone’, iniz. 1338 circa: ‘Morte, la più bella dellese, tu [...] sgombri i sogni in che è scorsa la vita’), tanto più l’attaccamento ad essi si faràaziante.

conografia dell’‘Incontro’ o ‘Contrasto’ appare verso la metà del Duecento, un tempo in cuiuramente la paura della morte si andava facendo più concreta e lo stesso Francesco, pur inciton temerla, non aveva potuto evitare di definirla inquietante. Il tema si ripeterà per più di un

colo (con qualche eco tardiva ancora nel Quattrocento), segno che il suo impatto psicologico smmittente, pittore e fruitori era ancora notevole. Se nella raffigurazione di Atri (1240-50)gliamo una sorta di superstizioso terrore, a un secolo di distanza (1336-41) nella stessa scenautturata secondo gli schemi tipici del teatro religioso medievale a luoghi deputati (le voci degori sostituite dai cartigli), del Camposanto di Pisa avvertiamo qualcosa di blasfemo (non solonia come è stato scritto) o comunque il rifiuto di soffermarsi a riflettere sulla drammaticità

l’evento: in una città borghese come Pisa anche la morte sembra essersi laicizzata. A Bosa inme cercheremo di dimostrare, una pena malinconica traspare nell’attenzione insistita con cui itore tratteggia i volti dei giovani defunti sottolineandone la bellezza fragile e vana, segno che

ma, proposto forse come meccanica ripetizione dall’iconografo francescano, conservava intattenza di incontro individuale con la morte fisica. Come ebbe a scrivere Georges Duby (1977)rte è ormai diventata un evento privato e la rinuncia alla terra sempre più difficile: ‘il mondono di delizie, e lo scandalo è venirne strappati’.

condo Jurgis Baltrušaitis (1973) la leggenda, popolarissima in Occidente, avrebbe origini ori

calcherebbe esperienze del Buddha) e potrebbe essere stata introdotta in Europa proprio dai

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noriti, che avevano loro missioni a Pechino e, a parere del Bologna, a cominciare dalle terredericiane, da cui poi sulle orme degli stessi frati si sarebbe diffusa in molte regioni italiane. Inltà, pur senza negare la possibile trasmigrazione di temi e simboli orientali, l’Occidentedievale possedeva già una sua radicata tradizione ascetica sul tema doloroso ma non disperatmento mori e della corruzione del corpo. La predicazione dei Mendicanti ne aveva rafforzato

egnanza di segno della inesorabilità del tempo e, pur indirizzando verso la speranza della vitarna, non era riuscita tuttavia a sradicare il laico, umanissimo, desiderio di vivere hic et nunc

l racconto sotto il profilo letterario e pittorico si occupò con grande acutezza sin dal 1950 Lilerry riconoscendo che la prima apparizione del tema è pittorica e non letteraria, in contrasto canto affermerà poi Chiara Frugoni (1967). In realtà sembra possibile a nostro avviso pensare erscambio tra discipline artistiche negli stessi anni e sugli stessi temi.

alasciando le testimonianze pittoriche esistenti fuori del nostro paese (per le quali si rimanda dio della Guerry), sembra che il più precoce esempio italiano sia quello della cattedrale di A

240-50), un affresco risarcito in antico almeno due volte, opera di un pittore meridionalencesizzante (Francesco Aceto, 1998). Due scheletri si presentano in posizione eretta ed un ter

posto in un sepolcro ad arcosolio (ne restano solo tracce). A seguire ricordiamo lappresentazione di Melfi (cripta di Santa Margherita) datata al 1290 circa, e l’affresco lacunosostro dell’abbazia di Vezzolano, collocabile negli stessi anni [sono rimasti solo i cavalieri

aventati e la scritta soprastante O res orida, res orida et   stupenda]. Il tema è presente anche nn Paolo a Poggio Mirteto (inizi XIV secolo), nel San Flaviano a Montefiascone (inizi XIV secolto danneggiato a causa di modifiche architettoniche quattrocentesche: San Macario regge iltiglio: Pensate quod estis et quod non vitare podestis), nel Broletto di Como (1320-24: un s

ovane, abbigliato grosso modo come i cacciatori bosani, ed uno scheletro in piedi con il cartigo fui talis sicut tu. Et tu debes venire sicut ego), nel Sacro Speco di Subiaco (1335 circa), an

Vezzolano (1354 circa), a Cremona nella sacrestia di San Luca (secolo XIV), a Lucignano (Areribuito a Bartolo di Fredi, verso il 1370. Il più noto si trova nel Camposanto di Pisa (1336-41rte del più ampio affresco, di committenza arcivescovile e consulenza domenicana, raffiguranrionfo della Morte’ attribuito a Buffalmacco (alias ‘Primo Maestro del Trionfo’: l’ipotesi critla presenza di due diversi pittori al Camposanto pisano viene qui trascurata per oggettive

cessità di semplificazione, ma sull’argomento si rimanda ad ogni buon conto al testo della Tesistiani). Rare le rappresentazioni del tema su tavola: ricordiamo Bernardo Daddi, ‘Leggenda vivi e dei tre morti’, ca. 1340 (predella del dittico della ‘Crocifissione’; Firenze, Galleriel’Accademia), e soprattutto di Ambrogio Lorenzetti l’‘Allegoria del Peccato e della Redenzio

st 1343 (Siena, Pinacoteca Nazionale), mentre numerose furono le apparizioni nella miniaturaquali rimandiamo allo studio della Frugoni (1967).

Incontro nelle opere sopra ricordate presenta varianti come il numero degli scheletri o deicciatori; la posizione distesa (‘tipo italiano’) o verticale (‘tipo francese’, cioè dei morti ‘vivenppresentati cioè nell’atto di dialogare con i vivi); l’essere appiedati o a cavallo dei cacciatorindicazione della loro condizione sociale. L’iconografia si amplia, negli affreschi italiani, conpparizione di un monaco individuato tradizionalmente con San Macario, eremita egizianocepolo di Sant’Antonio abate, che sarebbe vissuto nel IV secolo dimorando per autopunizione

opri peccati nel deserto della Tebaide. Il suo ruolo è quello di spiegare ai vivi il significato

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rale dell’apparizione, come faceva lo storico nei drammi liturgici. Lo troviamo già ad Atri, rna figuretta a mezzo busto vagolante nell’aria; non compare a Melfi, ma è presente a Vezzolan

ontefiascone e via via a Pisa e qui a Bosa. L’affresco sardo si pone iconograficamente tra queù canonici del repertorio figurativo italiano. Se una prova andavamo cercando che il nostro pin si è educato in Catalogna è proprio qui che la troveremo, nell’assenza di ‘loquacità narrativla lentezza del raccontare che caratterizza i dipinti bosani: come scrive l’Oursel, discrezioneerbo non sono tratti tipici dell’appassionato temperamento spagnolo.

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un fondo oggi di colore verde malachite, sono raffigurati tre nobiluomini intenti alla caccia,piedati e vestiti secondo una moda che si deve considerare adottata non oltre gli annienta/Quaranta del XIV secolo. Per quanto ci è consentito di vedere dato il cattivo stato dinservazione di parte dell’affresco, i cavalieri indossano una sottana a maniche strette e lungheasi ai polsi bordati di giallo [si veda quanto resta del braccio destro dell’ultimo dei tre, dove ete il motivo dei frutti a grappolo che abbiamo trovato sugli abiti delle Sante in processione]esta sottana termina a giro di collo ed è arricchita da un’alta pistagna a bordure gialle allaccia

n bottoncini. Su di essa, come d’uso, portano una sopravveste a larghe maniche aperta sul davrtire dal petto, su cui è poggiato il mantello con soppanno di vaio con collaretto, salvo nel terzvaliere che ne è privo. Ad indicare la loro alta posizione sociale (cui alludeva già il vaio) porrone dorate di forma piuttosto sommaria sulle cuffie a rete tipiche del Trecento, a fermare un gcapelli robusti e ondulati piegati in dentro a forma di rollo grazie all’aiuto di un calamistro, inodo da lasciare la nuca scoperta. Per questa acconciatura (più diffusa è la variante del rotolo dpelli arricciati verso l’esterno che porta l’imperatore Costantino) si vedano già taluni deiotagonisti della ‘Rinuncia agli averi’ nella basilica superiore di Assisi (Giotto, 1296-1300) opaffreschi dipinti forse tra il 1326 e il 1330 da Ambrogio Lorenzetti nelle sala capitolare del S

ancesco di Siena, dove nella scena dell’‘Incontro tra Bonifacio VIII e Ludovico di Tolosa’ ècontrabile la varietà delle acconciature adottate dai laici: dai capelli sciolti sulle spalle allezzere piuttosto corte, ai rolli piegati in fuori o in dentro.

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primo giovane trattiene con la mano elegantemente guantata, a mezzo di geti bianchi, uno stupecone, probabilmente un falco pellegrino con il capo fieramente retrospiciente e tratteggiatolisticamente: si noti il piumaggio bianco a striature nere sul petto dell’uccello attentamente ripvero. Si confronti il nostro rapace con il falcone che appare nel ‘Buon Governo’ di Ambrogi

renzetti (1338-39) o con quello amico di Francesco nella scena delle ‘Stimmate’ di Pietro

renzetti ad Assisi (1320 circa): ci torna in mente Buffalmacco, il suo ‘Incontro’ pisano e illissimo uccello trattenuto da uno dei falconieri. Annotiamo per inciso che la Sardegna era famMedioevo per l’allevamento di questi rapaci.

entre i corpi dei cavalieri sono pressoché frontali, il viso del primo è di profilo; quello delondo è ripreso in un deciso tre quarti; quasi di fronte quello del terzo. Non esprimono emoziorore per la macabra apparizione è già rientrato, i visi dei tre gentiluomini si sono ricomposti ipressione di pensosa meditazione sulle parole dell’eremita. Solo le mani tradiscono il timoressato, ma i cavalieri sanno ormai che si tratta solo di una visione, prefigurazione di uno stato f

ale per tutti, e non c’è dunque bisogno né di fuggire, né di turarsi il naso. Ad Atri la paura si èsformata in una sorta di danza scaramantica, a Pisa sono colti realisticamente i gesti di sorpreribrezzo dei cavalieri colpiti dall’odore sgradevole della morte, dunque nel momento di masssione e disorientamento quando la riflessione è ancora lontana. Buffalmacco dipinge con gustincantato tre cadaveri di potenti della terra o forse, come è stato scritto, scegliendomocraticamente un ricco borghese, una testa coronata e un plebeo. Come nell’‘Ultima Cena’, iscante bosano si affida al linguaggio delle mani, che formano una sorta di catena rassicurante valieri: il primo a proteggere quello seguente, che poggia la sinistra con il consueto pollice alla spalla del compagno; il più giovane invece intreccia le proprie nel gesto della meditazione

no tutti ben rasati ad attestare una datazione non posteriore agli anni Quaranta del secolo, quangazzi inizieranno a farsi crescere la barba in disuso da decenni. Il disegno dei visi è caratteriz

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pesanti profilature nere (in origine di colore rosso cupo, peraltro previste nei trattati di pitturdievali) che ne accentuano l’espressività: nasi lunghi e segnati da ombre fonde con naricitemente evidenziate, occhi lanceolati sottolineati da occhiaie scure, sopraccigli ravvicinati eaccature dei capelli a parrucca sulla fronte senza rughe; le guance sono larghe, gli zigomi noncennati, mentre i menti grassocci e rialzati e le mandibole robuste sono rilevati con un decisoaroscuro; i colli appaiono forti ma lunghi anche per la presenza dell’alto bavero a bottoncini.

n Macario è affiancato da un cartiglio a fondo rosso/ocra di contenuto didascalico di difficile

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cifrazione sia per le ripetute integrazioni di restauro (non giudicabili nella loro correttezza), sr lo stato oggettivo di evanescenza di talune lettere (evidentemente in parte tracciate su intonaasi asciutto). Queste rivelano tuttavia una relativa sicurezza esecutiva dell’operatore, il qualeviamente copiava un testo manoscritto fornitogli dall’autore che deve molto alla tradizioneteraria e probabilmente alla scrittura libraria con i derivati segni abbreviativi. Non vediamo pee dell’ordinatio, ma sappiamo che potevano essere tracciate con il filo battuto sporcato dilvere e poi cancellate: tuttavia il testo appare discretamente allineato su file parallele. Le letteno state dipinte con qualche attenzione all’effetto pittorico, premendo il pennello più o meno f

l’intonaco in modo da ottenere una certa modulazione del colore (si distingue un solo segno derpunzione a metà circa del testo). Sulla tavola era certo ricorresse la formula di biblica memracide, 38, 23) tipica di questo tema più o meno ampliata: Eritis quod sumus [Sarete ciò chemo], già presente in volgare nel sarcofago strigilato di Biduino nel Camposanto pisano (Testiistiani): i messaggi dei cartigli sono infatti riferiti alle parole recitate dal personaggio dipintoaffianca. L’eremita, vestito di una tonaca di tessuto greggio (ricordare che nel Medioevo ognitura era considerata menzogna) con scapolare scuro munito di cappuccio come i monaci dellabaide del Camposanto pisano, sta al centro della scena e regge nella sinistra il bastone a formu, mentre con l’indice dell’altra mano (mani molto grandi: la sinistra è informe) addita ai

cciatori tre sarcofagi in marmo scoperchiati in cui sono deposti i defunti. Mentre il corpo è insizione frontale, il bel viso da asceta è posto di tre quarti; le spalle sono un po’ spioventi a focupola come quelle di Buffalmacco; la testa è piuttosto piccola, la fronte è solcata da rughe nolistiche, solo pure sigle che tuttavia alludono alla tensione del lungo combattimento spiritualetenuto dagli eremiti. Un’ombra profonda gli affossa le guance mentre una grossa ruga parte da

so e si perde tra la barba bianca e lanosa come i capelli: è stempiato come si conviene a unrsonaggio di alto pensiero. L’orecchio visibile appare sproporzionato rispetto alle dimensionlto; il collo forte è segnato da pieghe appena accennate. L’immagine è quella del saggio che hanquistato l’autorità morale necessaria per indicare ai suoi simili la via della salvezza eterna n

ntimento e nella penitenza. È vero che è passato all’incirca un secolo da quando ad Atri venivfigurato come un sorta di mostricciattolo minaccioso, ma anni luce separano quella sensibilitàcora pienamente medievale dal sentimento moderno del vivere e del morire che si affaccia qusa anche attraverso la figura pensosa di questo eremita. Notiamo ancora che, almeno in questolo francescano, la presenza di Macario si caricherebbe di un ulteriore significato nel senso chtrebbe vedere in lui un alter ego del Santo di Assisi in quanto, racconta la leggenda, anche ilonaco egiziano sarebbe stato trasportato su una montagna da un cherubino che gli avrebbe preda crocifissione ascetica (Chiara Frugoni, 1993).

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e cadaveri giacenti sono stati rappresentati nei diversi stadi della decomposizione dopo la moprimo defunto (in alto) è verosimilmente sceso nel sepolcro da poco tempo: coperto da un abor vinaccia molto aderente, indossa guanti bianchi (come già detto simbolo di alto status socle mani incrociate e abbandonate, segnale della morte, eleganti calzari con speroni ed ha al fispada dal fodero ageminato; due giri di riccioli sono ancora intatti e la cuffia slacciata è ferm

una corona. La bella testa, segnata da una espressione di insofferenza per la propria condiziove una bocca piccola, carnosa, femminea rimanda a certe immagini di sante di Memmo diippuccio o di Pietro Lorenzetti, è irrimediabilmente abbandonata su un cuscino frangiato a disn fiori quadripetali bianchi. Sono disegni di modello miniaturistico, realizzati a mezzo di stamntici a quelli della tovaglia stesa sul tavolo delle ‘Nozze di Cana’ nella Maestà di Duccio (13). Soprattutto sono ancora gli stessi che decorano la stoffa che ricopre il lungo sedile su cuidono la figura senile simboleggiante il Comune di Siena e le Virtù nell’affresco del ‘Buonverno’ di Ambrogio Lorenzetti (1338-39). Altri esempi potrebbero proporsi (piemontesi,

mbardi, riminesi) che tuttavia finirebbero per attestare semplicemente un fiorente commercio d

suti toscani in quest’arco di tempo. Sappiamo bene che pittori quali Duccio, i Lorenzetti o Simartini disegnavano modelli per la decorazione di stoffe, oltre a riprodurli nei loro dipinti.

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questa prima bara esce un lungo serpente che divora le viscere del secondo defunto seminuda porta ancora i guanti), che si trova nello stadio intermedio di decomposizione. È aggredito achi da un altro rettile, mentre un topo è poggiato sulla sua gamba destra. Il topo è un essere ctonque in contatto col sacro e simboleggia in qualche caso l’anima che fugge non vista come lorito vitale dell’uomo quando muore. Il cadavere, che ha piedi delicati come quelli di un angeccio (cfr. la ‘Madonna Rucellai’), porta ancora la corona, la cuffia e i guanti, ma l’espressiono si è fatta più sofferente, le palpebre più pesanti; i capelli sono tutti spettinati come quelli dennati nel girone dei pigri e degli accidiosi nell’Inferno del ‘Trionfo della Morte’ a Pisa o que

naufraghi salvati dalle acque della Garonna da San Domenico nel polittico di Francesco Tra344-45): anche il cuscino ha perso la frangia e i suoi eleganti disegni. È questa, a nostro avvismmagine più bella in assoluto dell’intero ciclo. Il terzo defunto è ormai uno scheletro, la testgermente quasi malinconicamente ripiegata, le braccia conserte nella positura della disperazioluta, i piedi divaricati, vermi e serpi scavano ancora le sue ossa alla ricerca di nutrimento; l

unture degli arti hanno qualcosa di meccanico come quelle di una marionetta senza fili.

aminiamo ora il paesaggio che fa da sfondo alla scena. Asse centrale della composizione è unero con vistose potature nel tronco (come quello di San Cristoforo o quello del riquadrofigurante il salvataggio dei tre innocenti da parte di San Nicola nella pala d’altare di Ottana) a chioma a foglie d’edera, allusione all’eternità e dunque alla morte, di una forma circolare chmpicante molto difficilmente può assumere in natura anche tra le mani del più abile dei giardinbusti a piccole bacche rosse (peraltro assai comuni nella pittura pisana dei primi decenni delecento), alludenti spesso al sacrificio di Cristo, e un ramo gigliato coprono interamente il fonde in questa zona è di colore blu: nessuna esplorazione dello spazio viene annunciata, né curiosuralistiche in senso lombardo. Non meriterebbero forse più di un cenno ai modi della miniatu

derivano se non fosse per il fatto che queste essenze arboree crescono direttamente nel primocofago in alto e dunque riteniamo abbiano un valore simbolico. Gli arboscelli carichi di frutt

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si potrebbero essere cornioli, arbusti sin dall’antichità legati al tema della morte el’immortalità [Virgilio, Eneide, XI, ‘Funerali di Pallante’, vv. 64-65]. Anche il giglio, solitam

costato alla purezza, in realtà è (come detto sopra) uno dei fiori che indicano l’Aldilà e nonualmente il deserto della Tebaide del Camposanto pisano ne è disseminato. Un certo gustol’arazzo ha portato il nostro pittore a chiudere la scena sopra i tre cadaveri con una fitta distende. Indubbiamente egli ha voluto rappresentare un paesaggio simbolico, i cui referenti stilistroveranno agevolmente in alcuni brani delle ‘Storie dei Santi Padri’ del Camposanto pisano cApparizione di Cristo a Sant’Antonio abate’ o in quell’albero posto, come a Bosa, a dividere

e parti l’episodio di ‘Sant’Ilarione e il drago’ che, nonostante i rifacimenti seicenteschi, consemunque lo schema compositivo originario. In generale nel Medioevo quando la natura venivappresentata in tutta la sua bellezza alludeva quasi sempre al piacere dei sensi, come in letteratardino dilettevole’ del Boccaccio o in pittura il verziere dell’affresco pisano del ‘Trionfo delorte’, cui altrettanto bene si può rimandare per il confronto con il nostro fondale vegetale anchrché la tecnica usata nel rappresentare i particolari del fogliame ricorda quella lenta e meticoun illustratore di codici. Poiché il tema del ciclo bosano è quello dell’invito al pentimento e anitenza, crediamo non possa essere disconosciuto il valore simbolico di questa vegetazioneabitata che ignora il puro godimento delle apparenze: proprio l’assenza dei suoi ospiti natura

celli, finisce per porre l’accento sull’aspetto allegorico del testo, così come del resto a Pisa ilrziere dei gaudenti dentro il quale volano solo putti reggenti fiaccole abbassate, simbolo di lu

sembra di cogliere qui a Bosa, rispetto ad opere raffiguranti lo stesso tema, un senso piùuggente della vanità dell’esistenza; uno sconforto incurabile in quelle teste reclinate e in quei maccati ancora troppo legati alla terra. Crediamo di individuare in questa composizione un seiciale (dunque eterodiretto), cioè il Memento mori certamente oggetto dei sermoni dell’icononcescano che ha progettato la scena, e un senso nascosto (introdiretto), quello del pittore che este bare ha sepolto i doni più fragili che la natura offra all’uomo, la giovinezza e la bellezza.

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mane da esaminare l’affresco del Martirio di San Lorenzo. Ricordiamo che la rappresentaziole pareti delle chiese delle più atroci torture inflitte ai cristiani aveva una precisa funzioneartica: il fedele partecipava delle loro stesse sofferenze e acquistava così qualche merito in vla sua personale salvezza. Il diacono-tesoriere Lorenzo, che la leggenda vuole originario diesca in Spagna, visse a Roma nel III secolo e in questa città morì dopo atroci torture nel 258,

osto, sotto l’imperatore Decio, per non avere voluto rivelare ai carnefici il luogo in cui eranoscosti i tesori della Chiesa, che come primo diacono gli erano stati affidati e che aveva giàtribuito ai poveri per volere di papa Sisto II. Carità e umiltà [lava i piedi ai poveri] sono tipitù francescane e Lorenzo le incarna entrambe. Sullo sfondo di un cielo blu tutto stellato,mperatore Decio è seduto ‘alla francese’ [gamba sinistra poggiata sul ginocchio di quella destsizione che simboleggia la stabilità] su un trono ad altissimi gradini, di cui è rimasto solo ilofilo; porta corona cuffia e mantello con collaretto foderato di vaio (ormai li conosciamo benea la mano destra guantata per dare ordini ai due carnefici (non vediamo più se la sinistra eraggiata al ginocchio, altro segno di autorità), quello in basso intento ad attizzare il fuoco, quell

o incaricato di rivoltare il corpo del santo sulla graticola. Lorenzo giace prono sullo strumenttura, e (lacune permettendo) sembra torcere orgogliosamente il busto per rivolgere a Decio iloico invito ad essere rigirato perché già perfettamente cotto da una parte. Quel povero corpobandonato sullo strumento di tortura, martoriato dalle bruciature che lo avvolgono come undario, è realisticamente legato alla graticola da catene: il Santo sta per concludere la sua vicenrena, nonostante l’arrivo di un angelo dalle ali multicolori (vere ali di uccello) che si precipitlo (con l’aspersorio o il flabello) per alleviarne il dolore. La scena bosana è stata messa inazione con l’affresco dipinto nella cripta della chiesa di Santa Margherita a Melfi (1290 circave in realtà i protagonisti (angelo compreso) appaiono scarsamente interessati all’avveniment

r tenendo conto dei decenni trascorsi tra quell’opera e la nostra, non riusciamo a cogliere con

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onanze, poiché il dipinto bosano rivela un senso della sofferenza del corpo che denuncia un ccologico ormai ben dentro le conquiste umanizzanti del Trecento.

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cielo stellato dello sfondo non è un vero cielo astronomico: per vederne uno bisognerà aspettaasaccio, ma non mancano anticipazioni come in Pietro Lorenzetti ad Assisi (basilica inferiore,nsetto sinistro: ‘Cattura di Cristo’, 1315-19) dove è stato osservato che la disposizione delle rende quella effettiva delle costellazioni: un traguardo ad evidenza troppo alto per il nostrotore, così come l’intuizione delle ombre portate che saranno utilizzate sistematicamente solo n

attrocento (Giovanna Ragionieri). Il riferimento più calzante per noi dovrà essere all’arteniatoria in generale.

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approdo critico

l nostro percorso dentro l’iconografia del ciclo affrescato di Bosa sono stati inevitabili (e qulta necessari) i riferimenti di carattere stilistico nonostante l’intento difficile di tenere separatndagine iconografica e iconologica dal problema critico. Alcuni punti fermi ci sembra si sianoasi automaticamente offerti alla nostra attenzione e non sembrano suscettibili di oscillazioni trtose come la datazione intorno al 1340 e la provenienza toscana del pittore.

nostre affermazioni sono evidentemente in contrasto con quelle del Bologna e del Leone destris, che nel 1984 hanno affrontato il problema dell’attribuzione e datazione del ciclo bosanosate intorno al 1370. Se non un maestro ben individuato, hanno ritenuto di scorgere un comunemmino artistico che avrebbe visto percorrere le stesse strade in senso fisico e culturale alaestro di Offida’ e a quello attivo in Sardegna: tra i due è stato addirittura ipotizzato un inconrafrasando il parere dei due illustri studiosi, dovremmo dedurre che, ottant’anni dopo Melfi ecolo circa dopo Atri, pur trascinandosi dietro un mucchio di scorie di vecchia cultura italo-ridionale, il pittore di Bosa mostra di saperla rinnovare e riesce alla fine a produrre un risulta

e fa individuare la sua opera come un unicum, in quanto è impossibile trovare esempi di

erimento in Spagna o in Italia. In verità al pittore di Bosa manca in primo luogo l’aggiornamendati di costume e soprattutto quella grazia ‘cortese’ che caratterizzano le opere del frescanterchigiano, collocate tra la fine del 1350 e il 1370 circa.

viso bello e dolce di San Giacomo e quello affilato dell’imperatore Costantino ci avvertono dopensione a variare sia pure leggermente i moduli fisionomici: anche i volti delle Sante in corn sono così simili tra loro come potrebbero apparire ad un primo sguardo. In qualche casouramente lasciano a desiderare sul piano della bellezza, sempre soggettiva s’intende. Ma iltativo del nostro pittore era quello di fissare un tipo muliebre che potesse incarnare i valori d

elle eroine che per la fede avevano effuso il loro sangue. Sarà sufficiente riandare con la memvisi che si affacciano tra i fregi degli affreschi assisiati di Pietro Lorenzetti, visi che in qualchso, certo per opera di aiuti non troppo capaci, sono assai poco aggraziati e somigliano in modpressionante a qualcuno dei nostri: ad esempio quelli rigidamente frontali della Maddalena e re figure femminili, così come quello di Salomone, con i loro nasi a narici dilatate che richiamvicino la Santa Eulalia sarda.

poniamo attenzione alla tavolozza cromatica prescelta dal pittore attivo a Bosa, vediamo come preferenze vadano a colori freddi come i verdi, i blu o i viola. Poiché i rossi oggi purtroppo

nno virato verso il colore vinaccia, le apparizioni di rosati o di gialli dorati o aranciati cipiscono come scoppi improvvisi di gioia. La prevalenza dei marroni è invece dipendente piùro dalla presenza di tante tonache monastiche. Potremmo pensare a una scelta legata allaritualità francescana che prediligeva colori quieti, sommessi o comunque di timbro basso, intale manifestazione di modestia: e questa è sicuramente una parte di verità. Ma se guardiamo aere di Buffalmacco vediamo come anche lui, che certo non era un uomo di penitenza, amasse isi bruciati, i verdi carichi, i viola, i bruni: e questa è una scelta estetica, non morale. Seditiamo sull’opera di Pietro Lorenzetti non può sfuggirci che il suo colorismo segue il sentireeriore, specchio dei turbamenti dell’anima di questo grande senese: dalla vivezza del cromati

eredità duccesca passerà, a fasi alterne, alla mestizia della materia quasi povera, francescana

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vremo a questo punto interrogarci sulla presenza o meno in Sardegna di una lingua culturalemune, sia pure non autoctona, che consenta di rintracciare un corpus di opere legate al nostrotore o comunque che ne riflettano lo stile; oppure, al contrario, di cui il suo lavoro sia il riflesanto ci sia permesso non condividere le affermazioni del Caleca (1983) per cui l’assenza inrdegna di testimonianze affrescate non sarebbe dovuta a perdite e devastazioni ma ad una povginaria, che egli constata anche nelle chiese pisane e lucchesi. Pur guardandoci dal pensare chni chiesa medievale abbia potuto essere affrescata, forse una smentita può venire da quanto si oprendo nella nostra isola. Oltre agli affreschi tardo paleocristiani e altomedievali conservati

esa rupestre di Sant’Andrea Priu a Bonorva, si consideri ad esempio quella breve fascia diritorio del giudicato di Gallura in cui insistono Galtellì ed Orosei: nel raggio di pochi chilomstono pregevoli dipinti murali (rispettivamente quelli dell’ex cattedrale di San Pietro e dellaesa di Sant’Antonio abate), che testimoniano il perdurare di una tradizione di buon livello tecsecoli medievali. Se risaliamo verso Olbia anche nel San Simplicio non mancano resti di pit

rali: lo Spano (che scriveva nell’Ottocento) ricorda che l’abside era interamente affrescata.cora tracce si ritrovano a Viddalba e pochi ormai illeggibili lacerti nella Santa Maria di

esumundu a Siligo (abside del secolo XI). Sulle volte del San Nicola di Trullas a Semestenepravvive un ciclo di affreschi medievali illustrante temi apocalittici di qualità eccelsa.

stimonianze dipinte incontriamo anche nel San Lorenzo di Silanus. Un affresco trecentescofigurante il ‘Battesimo di Cristo’ è stato ritrovato nella chiesa di Santa Maria Iscalas a Cossorte superstite di un ciclo più vasto. Non tralasciamo Saccargia, dove purtroppo pesantintegrazioni hanno mascherato le lacune antiche e gravissime del testo originario affrescatol’abside (fine XII secolo), che già negli anni Trenta era stato dichiarato pressoché perduto. Anla chiesa di Santa Maria del Regno ad Ardara si ricordava ancora nell’Ottocento l’esistenza cce di dipinti murali romanici sulla fronte dell’arco absidale (forse una ‘Annunciazione’). Alle degli Anni Settanta già al primo saggio, individuammo un affresco raffigurante una Majestas

mini nell’abside della chiesa di Santa Maria de Orria Pithinna a Chiaramonti, purtroppo perd

e restano fotografie in b/n; se ne occupa ora A. Casula non riuscendo/potendo comunqueustificare l’ultraaventennale abbandono dell’opera che l’ha ridotta a labili tracce). Dipinti murlto deteriorati sopravvivono nella ex cattedrale di San Pantaleo a Dolianova (fine XIII secoloine nella stessa città di Bosa, all’interno della chiesa di San Giovanni al Cimitero (secoli XII

VIII), affiorano resti pittorici di cui resta solo una scena votiva. Considerato tutto ciò, crediamn essere lontani dal vero pensando più a grosse perdite che non ad assenze.

ttavia il confronto più pregnante dovrà farsi con il polittico del San Nicola a Ottana, opera diportazione eseguita su tavola intorno al 1340-44, il cui costo era di gran lunga superiore a que

un ciclo affrescato. Non possiamo certo affermare che un’opera di tale livello fosse passataosservata presso la vecchia critica d’arte o quella più recente. Tuttavia solo dopo l’intervento logna nel 1969 le sue alte qualità artistiche si sono imposte nel panorama culturale italiano, pnessuna ricerca successiva ha potuto evitare di ricordarla. Lo studioso ha attribuito il politticanonimo pittore che ha chiamato ‘Maestro delle tempere francescane’, artista di multiformi

perienze attivo tra il 1325 e il 1375 a Napoli e capace di un magico sincretismo tra Giotto, MaBanco, ricordi di maestri riminesi e innesti catalani, qualche assonanza con Ambrogio Lorenzttavia non bisogna dimenticare che la resistenza degli Spirituali-Osservanti nel regno di Napo

ù dura grazie alla protezione dei sovrani angioini e in particolare del fratello della regina illogo Filippo di Maiorca (†1340 circa), sostenitore della fazione rigorista francescana: in loro

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ssono individuare i committenti delle tele francescane di quel pittore. Come sopra detto, lauazione sarda fu meno complessa e di breve durata la dissidenza. Gli interventi critici successariano tra il confermare o negare l’attribuzione del Bologna.

tata sempre nostra convinzione la presenza di almeno due pittori nella realizzazione della palanese: l’uno, autore delle straordinarie figure dello scomparto centrale e forse delle storie di ancesco, l’altro di quelle di San Nicola, e cioè quella mano lorenzettiana segnalata da tempo dnata Serra e praticamente negata dal Bologna. Altre convinzioni ci dividono da quest’ultimo, c

esempio l’affermato carattere estetico-morale della bruttezza santificante: questa osservaziontrebbe forse valere per le scene francescane, ma non può in nessun caso definirsi brutto ilancesco raffinato ed elegante, con quella sua curatissima barbetta alla moda, affiancato allissimo San Nicola del pannello mediano. E poi ancora, pare impossibile conciliare ilmatismo luminoso e felice delle architetture dipinte nelle scene ottanesi se confrontato con la

verità e la cupezza dei colori usati nei particolari architettonici dal ‘Maestro delle temperencescane’, che riesce ad essere triste anche quando usa il rosso. A lungo si potrebbe parlare derimento proposto al teatro medievale messo in scena ad Ottana per allestire un grande misterlico; o di quel rimando, che ci sembra non sia stato mai rilevato, alle chiese del Nord (si pen

empio al Sant’Andrea di Vercelli) con due campanili francesizzanti a fiancheggiare una facciapanna ancora romanica arricchita da un rosone gotico nella scena del ‘Sogno di Innocenzo III’i ci fermiamo tornando invece agli eventuali raffronti possibili con gli affreschi bosani.

lle palmari analogie delle stoviglie rappresentate nel polittico ottanese con vassoi, caraffe,telli, pani, stoffe affrescati nel ciclo di Bosa abbiamo già detto più sopra ampiamente e non vneremo, anche se queste somiglianze per nulla occasionali indicano già di per sé un tempo di

ecuzione abbastanza circoscritto. Confronti che invece sarebbero stati importanti con le architepinte di Ottana per sondare le capacità di resa prospettica o meglio assonometrica del nostro

tore, non sono possibili perché il frescante di Bosa sembra avere evitato accuratamente dimentarsi in una prova forse per lui troppo ardua. I tratti fisionomici delle figure non aiutano peppo lontani le une dalle altre. Come nel polittico sardo non riusciamo a cogliere più di tanto ima di fronda minorita sottolineato dal Bologna, così siamo certi che manchi totalmente nellaesa del castello di Bosa ogni accento polemico nei confronti dell’autorità costituita, mancanz

me già detto testimoniata dalla presenza di una figura invisa agli Spirituali quale l’imperatorestantino. L’acceso clima religioso che indubbiamente è attestato dalle opere del maestropoletano è qui stemperato in una malinconica meditazione sulla fragilità dell’esistenza.

elemento che unisce il polittico di Ottana e il ciclo di Bosa non è il pittore, ma i committenti: pmo non esistono dubbi (grazie all’iscrizione identificatoria) che si tratti di Mariano IV d’Arbando ancora donnicello ma con qualche speranza di maggiori fortune, si fece ritrarre ai piedi dadonna insieme al vescovo Silvestro. Il secondo è da individuarsi in Giovanni d’Arborea, sigBosa, la cui vicenda terrena fu simile a quella del fratello ma non altrettanto fortunata. I duencipi sembrano misurarsi a distanza in munificenza e mecenatismo perseguendo, se non andiaati, un piano politico teso alla legittimazione del loro potere attraverso opere di pace capaci dre prestigio alla dinastia: non dimentichiamo che la produzione artistica era sempre e comunquermazione di potenza. L’uno commissiona un polittico di dimensioni e qualità probabilmente m

te sino ad allora in Sardegna; l’altro vuole rinnovare e abbellire il suo bel castello appena

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ditato trasformando una piccola e umile chiesa in una vera e propria cappella gentilizia graziciclo di affreschi come forse da molti decenni non si eseguivano più nel giudicato. E per farloolge a quello che era ancora uno dei cuori pulsanti della pittura del tempo, la Toscana. Certo ssiamo negare che Giovanni ha fatto cadere la sua scelta su un pittore in apparenza conservatosì come forse era il suo spirito. Ma, se l’autore o gli autori del polittico di Ottana possiedonoello tecnico più elevato rispetto al pittore di Bosa, alla fine il messaggio più nuovo, più proierso il futuro, viene proprio da quel frescante all’opera nel castello di Giovanni, che tra tanti staizzanti getta il nuovo seme umanistico teso alla riabilitazione dei valori dell’esistenza terren

Ottana la perizia tecnica non nasconde la stanchezza della ripetitività e dell’assuefazione aodelli riproposti troppo a lungo per non avere perso il vigore del messaggio etico ed espressivieme. Ad ogni buon conto questa gara al momento incruenta ci ha consegnato due delle più beere del Trecento italiano.

nque toscano, ed uno solo sia pure assistito come è ovvio da aiuti, fu il pittore all’opera nellaesa del castello di Bosa tra il 1338, anno del ritorno del donnicello Giovanni in Sardegna, e i40-45. Ragioni storiche impediscono di indicare una data più bassa, poiché già nel 1346 Gioviveva al re d’Aragona di concedergli il trasferimento in Catalogna perché la sua sicurezza

rsonale non gli sembrava più garantita nell’isola: dunque sembra difficile pensare che in tale sanimo per il momento difficile che stava vivendo (culminato con il suo arresto nel 1349) potedicarsi ad operazioni culturali quali l’affrescatura della propria cappella. Toscano allora percppi e martellanti sono stati nel nostro excursus i continui ritorni alla cultura artistica di quella

gione, al vocabolario pittorico lorenzettiano e a quello di un pittore originalissimo e indipendme il fiorentino Buffalmacco. Una personalità, quella del pittore di Bosa, del quale possediammento una sola opera per cui è difficile ricostruirne la ‘biografia spirituale’, ma trattandosi dlo di affreschi se non altro questo ci ha consentito di comprendere a pieno la sua capacità di

ndere due mondi pittorici, quello senese, sensibile e delicato, e quello fiorentino, realistico e

incantato, dei pittori non allineati: tollerati in patria fino agli anni Venti, poco dopo la lororodossia fu irrimediabilmente rifiutata da committenti e fruitori, costringendo i più tenaci allaigrazione in periferia [Enrico Castelnuovo – Carlo Ginzburg, 1979]. L’assenza assoluta dellatica, nervosa e inquieta, e delle sue eleganti calligrafie ci impedisce di inserire il nostro pittorisani gravitanti intorno alla bottega aperta a Pisa da Simone Martini e dal cognato Lippo Memva negli anni 1320-30 circa. I suoi referenti sono altri senesi, e cioè Ambrogio e soprattutto Prenzetti, i cui lavori assisiati sono, per il nostro, continua e diretta fonte di sollecitazione. Maa che si sono rafforzate le insofferenze verso la cultura giottesca vincente tanto da arrivare ad

primerne un’altra programmaticamente arcaizzante nel senso suggerito da Giovanni Previtali

974), cioè una volontà di conservazione e perpetuazione della tradizione ben chiara all’intellel’operatore artistico, scelta che poco o nulla ha a che vedere con arretratezza, arcaismo odeguatezza tecnica. Forse in questa volontà di non rinunciare alle proprie proposte legate ai vla pittura tardoduecentesca si devono cercare le ragioni dello spostarsi del nostro frescante in

riferia. Ed è a Bosa che ha potuto esprimere quell’urgenza di meditazione, inevitabile in un uose non più giovane che dell’umanesimo gotico riesce tuttavia ad esprimere uno dei tratti piùginali: il risveglio dell’interesse verso l’uomo, quel desiderio troppo a lungo represso dinfessarsi deboli e insicuri che rende la sua opera nuova e moderna. Due mondi culturali, il senl fiorentino, che finalmente la critica contemporanea ha riavvicinato abbattendo steccatiproponibili per le idee (artistiche e non) che hanno sempre viaggiato libere insieme agli artist

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e loro opere. Insieme ai riscontri iconografici, che ci sono stati di grande supporto, anche laannia della moda ci ha aiutato a rifiutare le datazioni proposte dal Bologna e dal Leone de Capo il 1345 le mutazioni sarebbero state evidenti anche sul piano figurativo e qui manca ognidizio di aggiornamento. Infine la storia dell’Ordine dei Francescani in Sardegna attesta intantossenza pressoché totale nell’isola della corrente pauperistica dissidente (comunque pressochéomparsa a partire dagli anni Venti del secolo), assenza confermata anche dalla iconografia degreschi bosani. Il programma figurativo del nostro ciclo forse è comunque venuto da Pisa, cittàibellina per eccellenza ma ormai doma in quegli anni: che a quel mondo culturale facesse

erimento basterebbe a confermarlo la presenza di una santa come Reparata.

l Medioevo e soprattutto in Sardegna sono quasi la norma le apparizioni improvvise in luoghcentrati di pittori che sembrano esaurire tutta la loro forza creativa in un unico prodotto (Raymrsel). Fenomeno dovuto secondo Giuseppe Sergi alla perdita dell’unità dell’Antichità classic

coli altomedievali. Invece secondo Xavier Barral I Altet sarebbe il risultato della non itinerangli artisti se non all’interno di territori ristretti, almeno in età romanica. Qui a Bosa siamo ormna età gotica, quando lo spostamento delle maestranze sarà assai più diffuso oltre che megliocumentato. Nel nostro caso la storia isolana conferma che ‘perimetro territoriale ristretto’ dov

nsiderarsi l’unione di Sardegna e Toscana.

rse il nome di maestro si potrebbe riconoscere al frescante di Bosa: almeno la scenal’‘Incontro’ è un brano pittorico di ottimo livello artistico. Per di più, considerato che la quanica dell’affresco è perfetta, si dovrà pur ammettere per il nostro artista unprendistato/frequentazione di cantieri di non secondaria importanza.

nque un pittore toscano, forse pisano, chiamato su commissione giudicale che fosse in grado dreggiare con un’opera in gestazione che si annunciava eccezionale come il polittico di Ottana.

ppiamo chi abbia vinto agli occhi dei contemporanei questa gara generosa, al momento incruenla nostra distanza temporale ci permette di apprezzarle entrambe nella loro bellezza e nei lorntenuti etici che, mentre appaiono improntati ad una conservazione inerziale (accettata o subìtase) nelle tavole ottanesi, negli affreschi bosani rispecchiano una sensibilità nuova. È soprattuesta ad esserci vicina con il suo malinconico e laico messaggio di caducità e morte: qui forse a maggiore modernità. Modernità che, se non è un valore in assoluto, è pur sempre il mezzovilegiato e infallibile per metterci in contatto con il nostro passato.

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lossario

side, struttura architettonica di forma semicilindrica coperta da volta pari a un quarto di sferanche catino o calotta).

fresco, tecnica pittorica consistente nella stesura su intonaco fresco di pigmenti stemperati inqua. Sfrutta il processo chimico della carbonatazione che si istituisce tra colore e superficie ace e che fissa il colore. Non consente correzioni né permette di apprezzare immeditamente il t

colori, percepibile solo a completa asciugatura dell’intonaco. Il supporto è costituito da duencipali: arriccio (grossolano) e tonachino (fine). Alcune parti dell’opera possono essere esegecco e a tempera, qualche volta anche olio. Il periodo ideale per realizzare un affresco va darile a ottobre.

iografia, studio di testi letterari contenenti le storie delle vite dei santi.

zurrite, minerale naturale a base di carbonato basico di rame, presente in Sardegna. Macinatemente è di colore azzurro-turchino, ma tende a trasformarsi in verde (malachite) in presenza

ro: nella pittura murale, a causa dell’umidità e della alcalinità degli strati preparatori, può vibruno. Al fine di risparmiare sui costi si stendeva su una preparazione grigio-celeste, rosso scù frequentemente nera, che assai spesso è quanto rimane a testimoniare la presenza dell’azzurr

rdone, robusto bastone in legno a due rocchetti con punta di metallo e munito in alto di un ganr appendervi la zucca o la borraccia dell’acqua: i pellegrini lo chiamavano ‘il nostro mulo’,iché il termine viene dal latino burdo. Era di aiuto durante il loro faticoso cammino, ma ancheumento di difesa contro animali selvatici e banditi.

linatura, lavoro di incisione eseguito a mano con il bulino su metalli, pelli, fondo oro delle tapinte.

lamistro, strumento per arricciare i capelli a due bracci metallici.

rtone, disegno preparatorio usato per trasferire su muro/tavola il progetto dell’opera.

nfessore, dal IV secolo d.C. il santo che non ha subito il martirio.

tta, sopravveste di seta o altro tessuto (detta anche ‘cotta d’arme’) senza maniche lunga fino nocchia, che i cavalieri portavano sopra l’armatura.

esis, preghiera/intercessione, raffigurazione del Cristo giudice affiancato da San Giovanni Baalla Madonna, in veste di intercessori.

nnicello (da dominus), principe, titolo spettante a figli o fratelli di giudici.

uleo, antico strumento di tortura costituito da un cavalletto con cui le membra venivano tirate

ezioni opposte e così disarticolate.

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eto, pastoia per uccelli rapaci, applicata per controllarne i movimenti.

udicato (anche rennu, logu), entità statale sovrana affermatasi in Sardegna per evoluzione degtuti amministrativi/militari bizantini, forse già in età altomedievale, con certezza documentaril’XI secolo.

onografia, individuazione e descrizione delle immagini.

onologia, interpretazione delle immagini.pislazzuli, pietra semipreziosa proveniente dell’Afghanistan di colore azzurro intenso: macinniva usata in ogni genere di pittura generalmente su preparazione di fondo nera. Era pressochédistruttibile.

meggiatura, tecnica pittorica che, attraverso sottili filamenti dorati, vuole rendere l’effetto dun panneggio.

uratura a sacco, si realizzava quando tra due cortine di conci in pietra o altro materiale simpiva l’intercapedine con un conglomerato costituito da calcestruzzo in pietrame, resti diorazione e malta.

mbo, disco luminoso, entrato nell’iconografia cristiana a partire dal III secolo, ad indicare lacralità del personaggio rappresentato.

agi, sacerdoti giunti dall’Oriente per rendere omaggio al neonato re dei Giudei. L’evangelistaatteo, l’unico a raccontare l’episodio (2,1 ss), li qualificò come ‘persone pie, degne di stima enerazione’. Il numero di tre è stato proposto per la prima volta nel III secolo d.C., così comeffermazione della loro regalità, ma l’iconografia se ne impadronirà solo a partire dall’XI seco

lea, arazzo che copriva le mura dei castelli.

llio, striscia circolare di lana bianca, ornata di sei crocette e frange nere, che nella liturgiastiana è riservata ai papi e agli archivescovi metropoliti.

taso, cappello a larghe tese legato sotto il mento che serviva a proteggere il viandante dallaoggia e dal sole: nei giorni di buon tempo, veniva lasciato pendere dietro le spalle.

ttine di Galizia, conchiglia a grosse striature disposte raggiera, che i devoti in visita al santuSantiago di Compostela raccoglievano a Finisterre, sull’Oceano Atlantico, e attaccavano in gecappello a memoria dell’avvenuto pellegrinaggio: il loro potere miracoloso comprendeva lapacità di allontanare i fulmini e le tempeste. Abili commercianti locali sfruttarono presto talensuetudine, raccogliendo essi stessi questi molluschi bivalve e vendendoli presso la cattedralà verso la fine del XII secolo furono sostituiti da distintivi in piombo della stessa forma, smerclero cattedrale. Presto da simbolo iacopeo passò ad indicare per tutti i pellegrini la mani te

r l’elemosina.

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aneta, veste liturgica usata dal sacerdote durante la messa.

sside, coppa con coperchio contenente le ostie consacrate.

stagna, bavero.

esbiterio, spazio sacro riservato al clero (davanti all’abside).

icopompo, guida delle anime dei defunti.apolare, sopravveste da lavoro indossata dagli appartenenti ad ordini monastici. Di formatangolare, si porta sulle spalle ed è munita di cappuccio.

hiavina, indumento tipico dei pellegrini medievali, detta anche sanrocchino o pellegrina.

blion, rettangolo di stoffa ricamato che si applicava sulle vesti sacerdotali, angeliche, imperibiliari in genere a scopo ornamentale.

u, lettera dell’alfabeto greco: nel nostro caso la croce egiziana simbolo della vita futura, cheatterizza l’iconografia di Sant’Antonio abate.

tulus, iscrizione.

io, ventre di scoiattolo siberiano usato (con il pelo rivolto verso l’interno) per ornare e rendeù caldi soprattutto i mantelli. La sua pelliccia, di colore chiaro come quella dell’ermellino, ebomento di massima fortuna nella prima metà del Trecento e caratterizzò il modo di vestire deibili come quello dei ricchi borghesi o delle persone che rivestivano alte cariche quali medici uristi: è noto che la scelta dell’abito non era libera come oggi, per cui ognuno doveva vestirecondo il proprio grado sociale. Questa moda tramontò nella seconda metà del secolo quando lssi privilegiate cominciarono a preferire pelli di colore più scuro come quelle delle martore ro degli zibellini, gusto che trionfò nel Quattrocento, cui si adeguarono subito, ad esempio, il rAragona e quello d’Inghilterra come lo stesso pontefice. Nel secolo successivo le élitesdividuarono il loro nuovo status symbol  non più nelle pellicce ma nelle stoffe di seta (damascluti, broccati intessuti di metalli preziosi).

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ronologia dei giudici Di Arborea

giudicato d’Arborea, posizionato tra il regno di Torres-Logudoro a nord e quello di Cagliari arese indipendente dal primo, allora governato dai Lacon-Gunale, a partire dalla metà del Millca, quando passò pacificamente alla dinastia dei Lacon-Zori. Nel corso del XII e XIII secolo no venne occupato dai Lacon-Serra e poi dai Bas-Serra, prima famiglia non indigena. Trasformgli Aragonesi in marchesato di Oristano nel 1410, l’Arborea perderà definitivamente la suaonomia nel 1478.

ariano I (de Lacon-Zori), not. 1065

zocco I (de Lacon-Zori), not. 1070-73

mita II (de Lacon-Serra), not. 1131

risone I (de Lacon-Serra), 1146-1185

risone II (de Lacon-Serra), not. 1175-1217etro II (de Bas-Serra), 1221-1241

ariano II (de Bas-Serra), †1297

ariano III (de Bas-Serra), 1309-21