«Borsellinononvolleespatriare» · mattinata di domenica 19 luglio 1992, ... di comodo imbarcato...

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2 in primo piano DOMENICA 11 OTTOBRE 2009 LA MAFIA E LO STATO «Borsellino non volle espatriare» I carabinieri del Ros: il giudice fu informato del pericolo di un attentato imminente 23 maggio 1992 Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta muoiono nell’attentato di Capaci, lungo uno svincolo dell’autostrada A29 fra Punta Raisi e Palermo 16 luglio 1992 Un’informativa dei Ros dei carabi- nieri lancia l’allarme: nel mirino della mafia ci sono altri due magi- strati. Sono Paolo Borsellino e An- tonio Di Pietro. Il primo indaga sulle cosche siciliane, il secondo sulle tangenti politiche al nord. I ca- rabinieri sostengono di aver infor- mato i due giudici del pericolo. 19 luglio 1992 Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta muoiono nell’atten- tato di via D’Amelio. 23 luglio 1992 Il Secolo XIX riporta la notizia dell’informativa dei Ros che aveva preannunciato nuovi attentati. 4 agosto 1992 Antonio Di Pietro, sollecitato dallo stesso capo della polizia, lascia l’Ita- lia con un passaporto di copertura intestato ad un falso nome e rag- giunge il Costa Rica. 19 dicembre 1992 Vito Ciancimino, ex sindaco di Pa- lermo, “organico a Cosa Nostra” se- condo le dichiarazioni del pentito Buscetta, viene arrestato. 15 gennaio 1993 Totò Riina, indicato come il capo della cupola mafiosa, viene arrestato a Palermo. 14 maggio 1993 Un’autobomba esplode in via Fauro, a Roma. Obiettivo dell’attentato il giornalista Maurizio Costanzo che però resta illeso. 27 maggio 1993 Un’autobomba esplode in via dei Georgofili a Firenze. Cinque morti, 48 feriti e danni ingenti a pa- lazzi e perfino alla Galleria degli Uf- fizi è il tragico bilancio dell’atten- tato. 27 luglio 1993 Nei pressi di San Giovanni in Late- rano e San Giorgio al Velabro, a Roma, esplode un’autobomba che provoca feriti e danni. 20 novembre 2002 Vito Ciancimino muore a Roma dove era agli arresti domiciliari. 20 dicembre 2007 Prime rivelazioni di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, a un gior- nalista di Panorama: fra Mafia e Stato era in corso una trattativa se- greta. Sul “papello”, un foglio di carta scritto da Totò Riina, c’erano le ri- chieste delle cosche allo Stato: depo- tenziare il pentitismo, disseque- strare i beni dei mafiosi, abolire il re- gime di carcere duro e l’ergastolo oltre a revisionare il maxiprocesso del 1992 ai boss. In cambio sarebbe cessata la stagione delle stragi. 16 luglio 2009 Massimo Ciancimino dice di aver consegnato il “papello” alla magi- stratura che però nega. 8 ottobre 2009 Alla trasmissione Rai “Annozero” Di Pietro conferma quello che il Secolo XIX aveva scritto 17 anni prima: cioè l’informativa dei Ros che metteva in guardia su imminenti attentati con- tro Borsellino e lo stesso Di Pietro. 19 luglio 1982: via D’Amelio, a Palermo, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta IL SENATORE Antonio Di Pietro non sapeva. Nessuno lo aveva infor- mato che anche Paolo Borsellino, come l’ex pm di Mani Pulite, era stato avvertito il 16 luglio di 17 anni fa dai carabinieri del Ros del rischio che stava correndo. Della possibilità di es- sere una delle due vittime predesti- nate della mafia. A Palermo, tra gli atti custoditi negli uffici dei carabinieri del Ros, ci sono ancora tutte le copie di quei documenti relativi alle segna- lazioni fatte al giudice Paolo Borsel- lino. Quella mattina del 16 luglio 1992, Borsellino aveva letto l’informativa degli investigatori dell’Arma. E all’in- vito pressante a spostarsi più che ve- locemente da un territorio che scot- tava, avrebbe detto: «Questa è la sede dove svolgo regolarmente il mio la- voro. Io da questo ufficio non ho nes- suna intenzione di muovermi». Una decisione che ha pagato con la vita. Non si esclude che i carabinieri del Raggruppamento operazioni speciali abbiano, in quella determinata occa- sione, effettuato tutti i controlli di si- curezza alla ricerca di esplosivi nell’ufficio della procura dove il magi- strato lavorava. Così come nella sua casa palermitana. Perquisizioni molto approfondite, come quelle che gli investigatori di polizia, carabinieri e Finanza erano abituati a svolgere ogni volta che scattavano segnali d’al- larme pesanti. La stranezza, casomai, è che dal mi- nistero, dopo il no di Borsellino ad al- lontanarsi, nessuno abbia predispo- sto ulteriori misure eccezionali di si- curezza. Certo, il giudice era seguito in tutti i suoi spostamenti dagli agenti della scorta, ma forse poteva essere maggiormente protetto. Tantopiù che non aveva nessuna intenzione di abbandonare l’ufficio della procura palermitana per non interrompere le indagini sull’attività di Cosa Nostra in alcune zone nel territorio nazionale, lontane dalla Sicilia. E assai probabile che, come era già successo per Giovanni Falcone (prima di saltare in aria con la moglie a Capaci), anche Paolo Borsellino fosse stato più volte minacciato di morte. Certamente quando vennero prelevati - con le famiglie - e traspor- tati quasi a forza all’Addaura, dove venne poi trovata una borsa piena di esplosivo. E dove qualcuno ipotizzò che se la fossero messa addirittura i due magistrati. Che comunque, seb- bene amareggiati per quella gravis- sima insinuazione, erano abituati a ri- cevere informative che li indicavano come possibili vittime della mafia. Un po’ scuotevano la testa con fata- lità, un po’ venivano costretti - come per l’Addaura - a spostarsi. Mai, però, cambiando ufficio o cambiando meta delle ferie. Falcone era abituato ad usare tal- volta la sua villa al mare come base del lavoro da svolgere lontano dagli occhi indiscreti e anche l’amico Borsellino utilizzava un appartamento per svi- luppare indagini con i suoi più stretti collaboratori. Dopo la morte di Giovanni Falcone, era cambiato il lavoro anche per Bor- sellino, costretto a svolgere tutta l’at- tività investigativa nell’ufficio di pa- lazzo di Giustizia. Peraltro protetto da un assiduo e costante servizio di sorveglianza, con quegli agenti di scorta poi morti insieme a lui. Tutto ciò nonostante i tentativi di allonta- narlo dall’Italia, come venne fatto con Antonio Di Pietro. Il mattino del 16 luglio di 17 anni fa, Paolo Borsellino viene scortato, come sempre, nel suo ufficio. Poco dopo lo raggiungono i carabinieri del Ros. Le facce sono più cupe del solito. D’al- tronde, la notizia - l’allarme - è più grave e serio del solito. Borsellino in- forca gli occhiali e legge. Con atten- zione. Forse intuisce che stavolta il ri- schio è pesantissimo. L’informativa del Ros sfrutta i canali delle indagini sul narcotraffico. Gli infiltrati nella banda vengono a sapere che alcune famiglie emergenti di Cosa Nostra vo- gliono uccidere i giudici Borsellino a Palermo e Di Pietro a Milano. Gli investigatori del Raggruppa- mento operazioni speciali tentano di convincere Borsellino che stavolta la situazione è davvero grave, più del so- lito. La minaccia arriva da nomi di spicco della malavita organizzata. Ma Borsellino non recede. Scuotendo il capo, dice che lui da lì non si muove. tantomeno ha intenzione di cambiare ufficio o di sottostare a ulteriori mi- sure di sicurezza: quelle che ha, già gli bastano. Nelle stesse ore, sempre uomini del Ros, riescono invece a convincere l’altro bersaglio della mafia: Di Pietro. Che con un passaporto falso finisce in Costarica con la moglie. La “ normalità” finisce nella tarda mattinata di domenica 19 luglio 1992, quando il giudice Paolo Borsellino va a casa della madre per pranzare con lei. Come ogni domenica. E come non accadrà più. MANLIO DI SALVO PARLA IL FIGLIO DEL MAGISTRATO «Mio padre avrebbe denunciato chiunque avesse trattato con i clan» PALERMO. Un uomo inquieto, preoccupato, incupito. Questo è il ri- cordo ancora nitido, dopo 17 anni, che Manfredi Borsellino ha del padre in quei giorni di luglio che precedettero la strage di via D’Amelio. Certo, Bor- sellino era distrutto dallo strazio per la morte di Giovanni Falcone, l’amico d’infanzia e il collega con cui aveva condotto le inchieste più importanti sulla mafia. Ma ad agitarlo era anche altro. «Sto vedendo la mafia in di- retta», disse nel pomeriggio del 17 lu- glio, due giorni prima dell’attentato, alla moglie Agnese. Erano solo loro due, ricorda ora il figlio. «Come faceva qualche volta, mio padre era sfuggito alla scorta. E aveva voluto fare una passeggiata in incognito con mia madre. Andiamo, le aveva detto, ho bisogna di stare con te». Cosa si siano detti in quei momenti è ancora un piccolo grande segreto in- vestigativo. Agnese Borsellino ne ha parlato questa estate, a Cefalù, al pro- curatore di Caltanissetta, Sergio Lari, che ha riaperto le inchieste sulle stragi del 1992 per approfondire tante zone d’ombra e per muovere altri passi verso i mandanti senza volto e i depistatori. Come quegli uomini dei servizi segreti che hanno fatto scom- parire l’agenda rossa del magistrato. Quando Borsellino confidò alla moglie di avere visto la mafia «in di- retta» sapeva che pezzi dello Stato avevano avviato, con la mediazione di Vito Ciancimino, una trattativa con i grandi latitanti? L’altra sera ad “Anno zero” l’ex ministro della giustizia Claudio Martelli ha rivelato che sì, Borsellino sapeva della trattativa. Gliene aveva parlato Liliana Ferraro, direttore degli Affari penali del Mini- stero, che ne era venuta a conoscenza dall’allora capitano del Ros Giuseppe De Donno. Allora era magari una rive- lazione, ma oggi non si tratta più di una notizia inedita visto che ne hanno parlato, in sedi giudiziarie, lo stesso De Donno e il capo di allora del Ros, quel generale Mario Mori coinvolto nell’oscuro affare della mancata per- quisizione del covo di Riina dopo l’ar- resto del boss. SE È VERO che Liliana Ferraro in- formò Borsellino dei colloqui con Ciancimino e della disponibilità del sindaco del sacco di Palermo a me- diare tra lo Stato e il clan dei corleo- nesi si può allora comprendere me- glio il senso di quell’indignazione consegnata dal giudice alla moglie due giorni prima di morire. Se abbia aggiunto altro è probabile ma il figlio Manfredi è un funzionario di polizia e tiene a rispettare il riserbo sul lavoro dei magistrati di Caltanissetta. «Si tratta di un segreto investigativo che non posso violare», sottolinea. Ma su- bito aggiunge: «Mio padre era un uomo aperto e leale. Però era anche preoccupato di proteggere i collabo- ratori e i famiglia». E infatti in fami- glia non aprì bocca per non accendere ancora un clima infuocato dalla strage di Capaci in cui era morto Fal- cone. «Una sola cosa posso comun- que dire con assoluta chiarezza - ag- giunge Manfredi - Mio padre non avrebbe mai accettato, tantomeno avallato, una trattativa di quel genere. Si sarebbe attivato perché non an- dasse avanti. Non avrebbe guardato in faccia nessuno: né chi la stava con- ducendo né il garante politico che la stava coprendo. Lo avrebbe anzi rite- nuto complice di una deviazione fa- cendo esplodere il caso». Forse non fece in tempo ma aveva lanciato segnali di irrequietezza e di apprensione. «Sono stato tradito», aveva detto, in quei giorni che prece- dettero la strage, ad Alessandra Ca- massa, uno dei giovani sostituti a cui Borsellino si era legato come un padre al tempo in cui aveva diretto la Pro- cura di Marsala. Tradito da chi? E in che modo? Talpe e veleni sono stati i fattori detonanti delle trame che hanno preparato le stragi. Di questo Borsellino aveva da sempre perfetta consapevolezza, ma stavolta sapeva qualcosa di più. «Sapeva – ricorda il fi- glio – che era arrivata in Sicilia una partita di esplosivo destinata proprio a lui». Forse era questa informazione ad avere indotto il Ros, ancora il Ros, a fare scattare l’allarme. Ne ha parlato ad “Anno zero” Antonio Di Pietro, l’altro obiettivo dell’attacco immi- nente, subito dotato di un passaporto di comodo imbarcato su un aereo e spedito in Costarica. Borsellino ri- mase invece al suo posto. Per una scelta precisa e convinta, ha sempre detto il Ros. La famiglia Borsellino non ne seppe mai nulla. Per Manfredi è «ve- rosimile» che il padre non abbia vo- luto lasciare la Sicilia. Lui era fatto così: coerente, riservato ma anche de- terminato fino all’inverosimile. Non per questo lo Stato può sentirsi però privo di colpe. Nel 1985 Falcone e Borsellino vennero portati, con gli altri colleghi dell’ufficio istruzione, all’Asinara per completare la stesura dell’ordinanza di rinvio a giudizio per i 475 imputati del maxiprocesso alla mafia. Manfredi Borsellino ricorda che solo sull’aereo giudici e familiari conobbero la destinazione del volo. Perché, si chiede ora, non si fece la stessa cosa anche nel 1992? FRANCO NICASTRO Manfredi Borsellino rivela un particolare inedito. Due giorni prima di morire suo padre confidò: «Ora vedo la mafia in diretta» Giovanni Falcone Paolo Borsellino Totò Riina Vito Ciancimino Massimo Ciancimino Antonio Di Pietro CHI INDAGA La procura di Caltanissetta: sulle novità emerse a proposito di via D’Amelio in base alle testimonianze di Massimo Ciancimino e del nuovo pentito Gaspare Spatuzza che si è autoaccusato dell’attentato. Le procure di Firenze e di Milano: sui mandanti delle stragi di Milano, Firenze e Roma. Spatuzza avrebbe svelato nuovi particolari. La procura di Palermo: sulle trat- tative fra pezzi dello Stato e di Cosa Nostra che fecero da sfondo alla sta- gione stragista del 1992-’93. DI PIETRO «DEL COLLEGA NON HO SAPUTO NULLA» n «IO NON SO se al- lora i carabinieri, oltre a me, avevano avvertito anche il giudice Paolo Borsellino a Palermo...». A parlare è il senatore Antonio Di Pietro che abbiamo raggiunto telefonicamente nel pomeriggio di ieri. Ecco il suo racconto. «Io, il 16 lu- glio del 1992, ho avuto modo di leg- gere con attenzione l’informativa dei carabinieri del Ros che erano venuti a trovarmi nel mio ufficio della procura. I militari, svilup- pando le indagini informative nel periodo successivo alla morte del giudice Giovanni Falcone nella strage di Capaci, erano venuti a sa- pere che Borsellino e il sotto- scritto erano le due nuove vittime predestinate della mafia». «Dopo la strage di domenica 19 luglio, in cui morirono Paolo Bor- sellino e la sua scorta - prosegue Di Pietro - era stato deciso di attuare un programma di ulteriore sicu- rezza nei miei confronti, proprio perché ero io l’altro giudice indi- cato come la possibile vittima delle cosche. Per quel motivo era stato perquisito il mio ufficio alla pro- cura di Milano, la mia abitazione ed era stata rinforzata la scorta». «Nel frattempo - continua l’ex magistrato di Mani Pulite - era stato predisposto anche il mio al- lontanamento da Milano. Non è vero, come hanno scritto alcuni giornali oggi (ieri per chi legge ndr) che io sono “espatriato” con un passaporto falso: ho utilizzato un passaporto di copertura che mi è stato fornito dalle autorità compe- tenti». Il ministero dell’Interno, a insa- puta dello stesso senatore, aveva sviluppato tutte le pratiche ur- genti per far allontanare l’allora giudice dai rischi di essere giusti- ziato dalla mafia. Il capo della poli- zia Arturo Parisi ha diretto perso- nalmente la pratica e poi ha infor- mato il questore di Bergamo di adoperarsi per convocare Di Pie- tro e consegnargli il passaporto di copertura intestato a Marco Ca- nale, un personaggio sconosciuto a chiunque. Il senatore Di Pietro, che si ri- corda bene quei momenti vissuti allora, aggiunge: « Il 4 agosto 1992 ero stato avvertito dallo stesso capo della polizia Parisi che do- vevo raggiungere la questura di Bergamo e rivolgermi al questore per ritirare il passaporto di coper- tura. Poi sono partito insieme a mia moglie verso la Costarica. Ini- zialmente abbiamo raggiunto Francoforte e poi, siccome in quei momenti non mi fidavo neppure di coloro che dovevano proteg- germi, abbiamo fatto un giro di- verso da quello che ci era stato in- dicato. Abbiamo così volato per 23 ore prima di arrivare a destina- zione». M. D. S.

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2 in primo pianoDOMENICA11 OTTOBRE2009

LA MAFIA E LO STATO

«Borsellinononvolleespatriare»I carabinieridelRos: ilgiudicefu informatodelpericolodiunattentato imminente

23 maggio 1992Giovanni Falcone, sua moglieFrancesca Morvillo e tre uominidella scorta muoiono nell’attentatodi Capaci, lungo uno svincolodell’autostrada A29 fra Punta Raisi ePalermo16 luglio 1992Un’informativa dei Ros dei carabi­nieri lancia l’allarme: nel mirinodella mafia ci sono altri due magi­strati. Sono Paolo Borsellino e An­tonio Di Pietro. Il primo indagasulle cosche siciliane, il secondosulle tangenti politiche al nord. I ca­rabinieri sostengono di aver infor­mato i due giudici del pericolo.

19 luglio 1992Paolo Borsellino e cinque uominidella sua scorta muoiono nell’atten­tato di via D’Amelio.23 luglio 1992Il Secolo XIX riporta la notiziadell’informativa dei Ros che avevapreannunciato nuovi attentati.4 agosto 1992Antonio Di Pietro, sollecitato dallostesso capo della polizia, lascia l’Ita­lia con un passaporto di coperturaintestato ad un falso nome e rag­giunge il Costa Rica.19 dicembre 1992Vito Ciancimino, ex sindaco di Pa­lermo, “organico a Cosa Nostra” se­

condo le dichiarazioni del pentitoBuscetta, viene arrestato.15 gennaio 1993Totò Riina, indicato come il capodella cupola mafiosa, viene arrestatoa Palermo.14 maggio 1993Un’autobomba esplode in via Fauro,a Roma. Obiettivo dell’attentato ilgiornalista Maurizio Costanzo cheperò resta illeso.27 maggio 1993Un’autobomba esplode in via deiGeorgofili a Firenze. Cinquemorti, 48 feriti e danni ingenti a pa­lazzi e perfino alla Galleria degli Uf­fizi è il tragico bilancio dell’atten­

tato.27 luglio 1993Nei pressi di San Giovanni in Late­rano e San Giorgio al Velabro, aRoma, esplode un’autobomba cheprovoca feriti e danni.20 novembre 2002Vito Ciancimino muore a Romadove era agli arresti domiciliari.20 dicembre 2007Prime rivelazioni di MassimoCiancimino, figlio di Vito, a un gior­nalista di Panorama: fra Mafia eStato era in corso una trattativa se­greta. Sul “papello”, un foglio di cartascritto da Totò Riina, c’erano le ri­chieste delle cosche allo Stato: depo­

tenziare il pentitismo, disseque­strare i beni dei mafiosi, abolire il re­gime di carcere duro e l’ergastolooltre a revisionare il maxiprocessodel 1992 ai boss. In cambio sarebbecessata la stagione delle stragi.16 luglio 2009Massimo Ciancimino dice di averconsegnato il “papello” alla magi­stratura che però nega.8 ottobre 2009Alla trasmissione Rai “Annozero” DiPietro conferma quello che il SecoloXIX aveva scritto 17 anni prima: cioèl’informativa dei Ros che metteva inguardia su imminenti attentati con­tro Borsellino e lo stesso Di Pietro.

19 luglio 1982: via D’Amelio, a Palermo, pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba che ha ucciso Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta

IL SENATORE Antonio Di Pietronon sapeva. Nessuno lo aveva infor­mato che anche Paolo Borsellino,come l’ex pm di Mani Pulite, era statoavvertito il 16 luglio di 17 anni fa daicarabinieri del Ros del rischio chestava correndo. Della possibilità di es­sere una delle due vittime predesti­nate della mafia. A Palermo, tra gli atticustoditi negli uffici dei carabinieridel Ros, ci sono ancora tutte le copiedi quei documenti relativi alle segna­lazioni fatte al giudice Paolo Borsel­lino.

Quella mattina del 16 luglio 1992,Borsellino aveva letto l’informativadegli investigatori dell’Arma. E all’in­vito pressante a spostarsi più che ve­locemente da un territorio che scot­tava, avrebbe detto: «Questa è la sededove svolgo regolarmente il mio la­voro. Io da questo ufficio non ho nes­suna intenzione di muovermi». Unadecisione che ha pagato con la vita.

Non si esclude che i carabinieri delRaggruppamento operazioni specialiabbiano, in quella determinata occa­sione, effettuato tutti i controlli di si­curezza alla ricerca di esplosivinell’ufficio della procura dove il magi­strato lavorava. Così come nella suacasa palermitana. Perquisizionimolto approfondite, come quelle chegli investigatori di polizia, carabinierie Finanza erano abituati a svolgereogni volta che scattavano segnali d’al­larme pesanti.

La stranezza, casomai, è che dal mi­nistero, dopo il no di Borsellino ad al­lontanarsi, nessuno abbia predispo­sto ulteriori misure eccezionali di si­curezza. Certo, il giudice era seguitoin tutti i suoi spostamenti dagli agentidella scorta, ma forse poteva esseremaggiormente protetto. Tantopiùche non aveva nessuna intenzione diabbandonare l’ufficio della procurapalermitana per non interrompere leindagini sull’attività di Cosa Nostra inalcune zone nel territorio nazionale,lontane dalla Sicilia.

E assai probabile che, come era giàsuccesso per Giovanni Falcone(prima di saltare in aria con la mogliea Capaci), anche Paolo Borsellinofosse stato più volte minacciato dimorte. Certamente quando venneroprelevati ­ con le famiglie ­ e traspor­tati quasi a forza all’Addaura, dovevenne poi trovata una borsa piena diesplosivo. E dove qualcuno ipotizzòche se la fossero messa addirittura idue magistrati. Che comunque, seb­bene amareggiati per quella gravis­simainsinuazione,eranoabituatiari­cevere informative che li indicavanocome possibili vittime della mafia.Un po’ scuotevano la testa con fata­lità, un po’ venivano costretti ­ comeper l’Addaura ­ a spostarsi. Mai, però,cambiando ufficio o cambiando metadelle ferie.

Falcone era abituato ad usare tal­volta la sua villa al mare come base dellavoro da svolgere lontano dagli occhiindiscreti e anche l’amico Borsellinoutilizzava un appartamento per svi­luppare indagini con i suoi più stretticollaboratori.

Dopo la morte di Giovanni Falcone,era cambiato il lavoro anche per Bor­sellino, costretto a svolgere tutta l’at­tività investigativa nell’ufficio di pa­lazzo di Giustizia. Peraltro protettoda un assiduo e costante servizio disorveglianza, con quegli agenti discorta poi morti insieme a lui. Tuttociò nonostante i tentativi di allonta­narlo dall’Italia, come venne fatto conAntonio Di Pietro.

Il mattino del 16 luglio di 17 anni fa,Paolo Borsellino viene scortato, comesempre, nel suo ufficio. Poco dopo loraggiungono i carabinieri del Ros. Lefacce sono più cupe del solito. D’al­tronde, la notizia ­ l’allarme ­ è piùgrave e serio del solito. Borsellino in­forca gli occhiali e legge. Con atten­zione. Forse intuisce che stavolta il ri­schio è pesantissimo. L’informativa

del Ros sfrutta i canali delle indaginisul narcotraffico. Gli infiltrati nellabanda vengono a sapere che alcunefamiglie emergenti di Cosa Nostra vo­gliono uccidere i giudici Borsellino aPalermo e Di Pietro a Milano.

Gli investigatori del Raggruppa­mento operazioni speciali tentano diconvincere Borsellino che stavolta lasituazione è davvero grave, più del so­

lito. La minaccia arriva da nomi dispicco della malavita organizzata. MaBorsellino non recede. Scuotendo ilcapo, dice che lui da lì non si muove.tantomenohaintenzionedicambiareufficio o di sottostare a ulteriori mi­sure di sicurezza: quelle che ha, già glibastano.

Nelle stesse ore, sempre uomini delRos, riescono invece a convincere

l’altro bersaglio della mafia: Di Pietro.Che con un passaporto falso finisce inCostarica con la moglie.

La “ normalità” finisce nella tardamattinata di domenica 19 luglio 1992,quando il giudice Paolo Borsellino vaa casa della madre per pranzare conlei. Come ogni domenica. E come nonaccadrà più.MANLIO DI SALVO

PARLA IL FIGLIO DEL MAGISTRATO

«Mio padre avrebbe denunciatochiunque avesse trattato con i clan»

PALERMO. Un uomo inquieto,preoccupato, incupito. Questo è il ri­cordo ancora nitido, dopo 17 anni, cheManfredi Borsellino ha del padre inquei giorni di luglio che precedetterola strage di via D’Amelio. Certo, Bor­sellino era distrutto dallo strazio perla morte di Giovanni Falcone, l’amicod’infanzia e il collega con cui avevacondotto le inchieste più importantisulla mafia. Ma ad agitarlo era anchealtro. «Sto vedendo la mafia in di­retta», disse nel pomeriggio del 17 lu­glio, due giorni prima dell’attentato,alla moglie Agnese. Erano solo lorodue,ricordaorailfiglio.«Comefacevaqualche volta, mio padre era sfuggitoalla scorta. E aveva voluto fare unapasseggiata in incognito con miamadre. Andiamo, le aveva detto, hobisogna di stare con te».

Cosa si siano detti in quei momentiè ancora un piccolo grande segreto in­vestigativo. Agnese Borsellino ne haparlato questa estate, a Cefalù, al pro­curatore di Caltanissetta, Sergio Lari,che ha riaperto le inchieste sullestragi del 1992 per approfondire tantezone d’ombra e per muovere altri

passi verso i mandanti senza volto e idepistatori. Come quegli uomini deiservizi segreti che hanno fatto scom­parire l’agenda rossa del magistrato.

Quando Borsellino confidò allamoglie di avere visto la mafia «in di­retta» sapeva che pezzi dello Statoavevano avviato, con la mediazione diVito Ciancimino, una trattativa con igrandi latitanti? L’altra sera ad “Annozero” l’ex ministro della giustiziaClaudio Martelli ha rivelato che sì,Borsellino sapeva della trattativa.Gliene aveva parlato Liliana Ferraro,direttore degli Affari penali del Mini­stero, che ne era venuta a conoscenzadall’allora capitano del Ros GiuseppeDeDonno.Alloraeramagariunarive­lazione, ma oggi non si tratta più diuna notizia inedita visto che ne hannoparlato, in sedi giudiziarie, lo stessoDe Donno e il capo di allora del Ros,quel generale Mario Mori coinvoltonell’oscuro affare della mancata per­quisizione del covo di Riina dopo l’ar­resto del boss.

SE È VERO che Liliana Ferraro in­formò Borsellino dei colloqui conCiancimino e della disponibilità delsindaco del sacco di Palermo a me­diare tra lo Stato e il clan dei corleo­nesi si può allora comprendere me­glio il senso di quell’indignazioneconsegnata dal giudice alla mogliedue giorni prima di morire. Se abbia

aggiunto altro è probabile ma il figlioManfredi è un funzionario di polizia etiene a rispettare il riserbo sul lavorodei magistrati di Caltanissetta. «Sitratta di un segreto investigativo chenon posso violare», sottolinea. Ma su­bito aggiunge: «Mio padre era unuomo aperto e leale. Però era anchepreoccupato di proteggere i collabo­ratori e i famiglia». E infatti in fami­glia non aprì bocca per non accendereancora un clima infuocato dallastrage di Capaci in cui era morto Fal­cone. «Una sola cosa posso comun­que dire con assoluta chiarezza ­ ag­giunge Manfredi ­ Mio padre nonavrebbe mai accettato, tantomenoavallato, una trattativa di quel genere.Si sarebbe attivato perché non an­dasse avanti. Non avrebbe guardatoin faccia nessuno: né chi la stava con­ducendo né il garante politico che lastava coprendo. Lo avrebbe anzi rite­nuto complice di una deviazione fa­cendo esplodere il caso».

Forse non fece in tempo ma avevalanciato segnali di irrequietezza e diapprensione. «Sono stato tradito»,aveva detto, in quei giorni che prece­dettero la strage, ad Alessandra Ca­massa, uno dei giovani sostituti a cuiBorsellinosieralegatocomeunpadreal tempo in cui aveva diretto la Pro­cura di Marsala. Tradito da chi? E inche modo? Talpe e veleni sono stati ifattori detonanti delle trame che

hanno preparato le stragi. Di questoBorsellino aveva da sempre perfettaconsapevolezza, ma stavolta sapevaqualcosa di più. «Sapeva – ricorda il fi­glio – che era arrivata in Sicilia unapartita di esplosivo destinata proprioa lui». Forse era questa informazionead avere indotto il Ros, ancora il Ros, afare scattare l’allarme. Ne ha parlatoad “Anno zero” Antonio Di Pietro,l’altro obiettivo dell’attacco immi­nente, subito dotato di un passaportodi comodo imbarcato su un aereo espedito in Costarica. Borsellino ri­mase invece al suo posto. Per unascelta precisa e convinta, ha sempredetto il Ros.

La famiglia Borsellino non neseppe mai nulla. Per Manfredi è «ve­rosimile» che il padre non abbia vo­luto lasciare la Sicilia. Lui era fattocosì: coerente, riservato ma anche de­terminato fino all’inverosimile. Nonper questo lo Stato può sentirsi peròprivo di colpe. Nel 1985 Falcone eBorsellino vennero portati, con glialtri colleghi dell’ufficio istruzione,all’Asinara per completare la stesuradell’ordinanza di rinvio a giudizio peri 475 imputati del maxiprocesso allamafia. Manfredi Borsellino ricordache solo sull’aereo giudici e familiariconobbero la destinazione del volo.Perché, si chiede ora, non si fece lastessa cosa anche nel 1992?FRANCO NICASTRO

Manfredi Borsellino rivelaun particolare inedito. Duegiorni prima di morire suopadre confidò: «Ora vedola mafia in diretta»

Giovanni Falcone Paolo Borsellino Totò Riina Vito Ciancimino Massimo Ciancimino Antonio Di Pietro

CHI INDAGALa procura di Caltanissetta: sullenovità emerse a proposito di viaD’Amelio in base alle testimonianzedi Massimo Ciancimino e del nuovopentito Gaspare Spatuzza che si èautoaccusato dell’attentato.

Le procure di Firenze e di Milano:sui mandanti delle stragi di Milano,Firenze e Roma. Spatuzza avrebbesvelato nuovi particolari.

La procura di Palermo: sulle trat­tative fra pezzi dello Stato e di CosaNostra che fecero da sfondo alla sta­gione stragista del 1992­’93.

DI PIETRO

«DEL COLLEGANON HOSAPUTO NULLA»

n «IO NON SO se al­lora i carabinieri,oltre a me, avevano

avvertito anche il giudice PaoloBorsellino a Palermo...».

A parlare è il senatore AntonioDi Pietro che abbiamo raggiuntotelefonicamente nel pomeriggio diieri.

Ecco il suo racconto. «Io, il 16 lu­glio del 1992, ho avuto modo di leg­gere con attenzione l’informativadei carabinieri del Ros che eranovenuti a trovarmi nel mio ufficiodella procura. I militari, svilup­pando le indagini informative nelperiodo successivo alla morte delgiudice Giovanni Falcone nellastrage di Capaci, erano venuti a sa­pere che Borsellino e il sotto­scritto erano le due nuove vittimepredestinate della mafia».

«Dopo la strage di domenica 19luglio, in cui morirono Paolo Bor­sellino e la sua scorta ­ prosegue DiPietro ­ era stato deciso di attuareun programma di ulteriore sicu­rezza nei miei confronti, proprioperché ero io l’altro giudice indi­catocomelapossibilevittimadellecosche. Per quel motivo era statoperquisito il mio ufficio alla pro­cura di Milano, la mia abitazioneed era stata rinforzata la scorta».

«Nel frattempo ­ continua l’exmagistrato di Mani Pulite ­ erastato predisposto anche il mio al­lontanamento da Milano. Non èvero, come hanno scritto alcunigiornali oggi (ieri per chi legge ndr)che io sono “espatriato” con unpassaporto falso: ho utilizzato unpassaporto di copertura che mi èstato fornito dalle autorità compe­tenti».

Il ministero dell’Interno, a insa­puta dello stesso senatore, avevasviluppato tutte le pratiche ur­genti per far allontanare l’alloragiudice dai rischi di essere giusti­ziato dalla mafia. Il capo della poli­zia Arturo Parisi ha diretto perso­nalmente la pratica e poi ha infor­mato il questore di Bergamo diadoperarsi per convocare Di Pie­tro e consegnargli il passaporto dicopertura intestato a Marco Ca­nale, un personaggio sconosciutoa chiunque.

Il senatore Di Pietro, che si ri­corda bene quei momenti vissutiallora, aggiunge: « Il 4 agosto 1992ero stato avvertito dallo stessocapo della polizia Parisi che do­vevo raggiungere la questura diBergamo e rivolgermi al questoreper ritirare il passaporto di coper­tura. Poi sono partito insieme amia moglie verso la Costarica. Ini­zialmente abbiamo raggiuntoFrancoforte e poi, siccome in queimomenti non mi fidavo neppuredi coloro che dovevano proteg­germi, abbiamo fatto un giro di­verso da quello che ci era stato in­dicato. Abbiamo così volato per 23ore prima di arrivare a destina­zione».M. D. S.