Borc San Rocsia pure cauta, nota di colore e qualche sot-tolineatura architettonica, a cui ha...

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Borc San Roc [18] novembre 2006 Centro per la conservazione e per la valorizzazione delle tradizioni popolari di Borgo San Rocco - Gorizia

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Borc San Roc

[18]novembre 2006

Centro per la conservazionee per la valorizzazionedelle tradizioni popolaridi Borgo San Rocco - Gorizia

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Centro per la conservazionee per la valorizzazionedelle tradizioni popolaridi Borgo San Rocco - Gorizia

Presidente

Edda Polesi Cossàr

Vicepresidente

Martino Mazzoni

Consiglieri

Bruno CampiEmilio CarelliEnzo CoccoloRuggero DipiazzaMattia FajdigaGiuseppe MarchiJosè Nadaia FranchiMauro PisaroniPietro SossouFabiola Vitturelli CampiDario Zoff

Autorizzazione del Tribunale di GoriziaReg. n. 292 del 25 ottobre 1999

Editore

Centro per la conservazionee per la valorizzazionedelle tradizioni popolaridi Borgo San Rocco - Goriziavia Veniero, 134170 Gorizia

Direttore responsabile

Dalia Vodice

Comitato di redazione

Olivia Averso PellisGiuseppe MarchiEdda Polesi CossàrSergio TavanoDalia Vodice

Progetto grafico

Ettore Concetti

Stampa

Grafica GorizianaGorizia 2006

Il volume è stato realizzatocon il contributo delCredito CooperativoCassa Rurale ed Artigianadi Lucinico Farra e Capriva.

La direzione si riserva di decideresull’opportunità e sul tempo dipubblicazione degli articoli.Chi riproduce anche parzialmentei testi è tenuto a citarne la fonte.

Ringraziamenti

Franco Dugo, Antonella Gallarotti, Carlo Sclauzero, Franco Spanò

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Nico Di StasioLa Sagrada Familia. IL PADRE

IN COPERTINA

La Sagrada Familia. IL PADRE2006acrilico su telacm100x100

Nico Di Stasio è nato nel 1954 a Gorizia,dove vive e lavora.Ha frequentato l'Accademia di Belle Arti diBrera a Milano.Partecipa a numerose esposizioni d'arte.

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PRIMO PIANO

Sergio TavanoLeopoldo Perco. L’arte al servizio della devozione pag. 5

Laura Madriz Macuzzi - Vanni FeresinUna storia lunga sessant’anni pag. 9

Celso Macor“Quando costruire una piccola sala era impresa enorme...” pag. 19

Dalia VodiceIncontrarsi a San Rocco pag. 20

RICERCHE STORICHE

Paolo SlugaDue ferrovie, un centenario pag. 23

Sergio TavanoUn goriziano cristiano ed europeo: Vittorio Peri pag. 35

Diego KuzminLa strada dei Lantieri pag. 45

Luana de FranciscoRitratto di Cassandra, paladina di Gorizia redenta pag. 53

Vanni FeresinL’Arcidiocesi di Gorizia tra Ottocento e Novecento pag. 61

Giada PianiTradizione e innovazione, il mondo sacro di Orlando Dipiazza pag. 73

RACCONTI E POESIE

Anna BombigStoriutis di paîs pag. 82

Paolo ViolaContis furlanis pag. 87

IL TEMPO DEL BORGO

Dalia Vodice“Ogni uomo appartiene alla sua storia” pag. 91

SOMMARIO

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La volta del presbiterio della chiesa di San Rocco dipinta da Leopoldo Perco (1925).

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PRIMO PIANO

Sergio TavanoLeopoldo Perco. L’arte al serviziodella devozione

Nella festa di San Rocco di quest’anno è sta-ta benedetta la ridipintura della chiesa par-rocchiale: questa aveva perduto la decora-zione originaria, eliminata sia perché giudi-cata ridondante e retorica ma anche anacro-nistica, sia perché si voleva che prevalessel’immagine di una chiesa “povera”, addirit-tura scialba.Ora invece si è voluta riproporre qualche,sia pure cauta, nota di colore e qualche sot-tolineatura architettonica, a cui ha pensato,con la nota finezza misurata e opportuna,l’architetto Mariateresa (“Tuti”) GrusovinPicotti.Nella precedente scialbatura, di più di tren-t’anni or sono, era stato conservato soltantoil soffitto del presbiterio, dipinto da Leo-poldo Perco nel 1925: ora questo, adeguata-mente “rinfrescato”, non appare in fin trop-po stridente contrasto con le rimanenti su-perfici tinteggiate in modo uniforme, comeavveniva prima dell’ultimo intervento.Al Perco, nato a Lucinico nel 1884 e mortonel 1955, Lucinico aveva voluto dedicareuna mostra molto ampia, aperta a Gorizia

nel Palazzo Attems tra il 17 dicembre 1972e il 28 febbraio 1973. Il catalogo relativo,edito nel 1972, recava molte firme autore-voli (tra cui Antonio Morassi e Sergio Mo-lesi) con giudizi storico-critici e con ricordisempre utili: Leopoldo Perco, pittore e re-stauratore, Gorizia 1972. Se ne parlò, tral’altro, in “Iniziativa “Isontina” (57, 1973,pp. 44-49): lo scritto è riutilizzato qui, dopoessere comparso nelle pagine 153-155 diGorizia e il mondo di ieri, Udine 1991.Quella mostra invitò a scoprire un artistache fu tale nel vero senso della parola, im-pegnato cioè in una severa ricerca formale,in un’adesione moralmente e umilmenteconvinta a strutture formali tutt’altro cheestemporanee, coraggiose nei tempi attuali,benché allineate con le tendenze, di per séanacronistiche, dell’arte sacra contempora-nea.Questo impegno civile e morale è caratteredi fondo comune alla maggioranza dei pit-tori goriziani e regionali tra i due secoli: peril Perco fu altresì un impegno al serviziodella tradizione, della tradizione di una co-

Nel soffitto del presbiterio della chiesa di San Rocco un dipinto sipropone per i valori storico-formali ma soprattutto per le esigenzedi una comunità che vive anche nelle tradizioni culturali

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Sergio TavanoLeopoldo Perco. L’arte al servizio della devozione

PRIMO PIANO

munità, che vi si riconosceva e che forse visi può riconoscere ancora.Il Perco poté conoscere e frequentare ancheartisti “rivoluzionari”, come lo Spazzapan,capace di costruirsi una sua lingua e una suasintassi, come soltanto i grandi sanno fare,al servizio di un’idea.Avrebbe saputo manon volle echeggiarli.Egli fu attivo nella pri-ma metà del Novecen-to con l’entusiasmodello scopritore, quasiautodidatta, e con laprudenza sapiente del-l’artigiano che sa la fa-tica del rispetto versocerte norme e la serie-tà di una ricerca for-male accessibile, senzache l’esito fosse ovvioo banale. Pur essendovissuto in un periodotormentatissimo, perle mode e per le trova-te apertamente e libe-ramente soggettive, ilPerco, come bene hanotato il Morassi, eb-be “la forza di resistenza alle facili tentazio-ni artistiche e talvolta pseudoartistiche”.In quest’ordine di idee il Perco si tennedunque lontano dall’espressionismo, pro-paggine avanzata di un soggettivismo esa-sperato: è noto infatti che per l’espressioni-smo “non ci sono regole fisse” nell’uso deimezzi espressivi: “Le regole per l’opera sin-gola si formano durante il lavoro, attraversola personalità del creatore” (E.L. Kirchner),sfidando il naturalismo (apparentementeoggettivo) e coltivando, nella brama di ori-ginalità a tutti i costi, atteggiamenti ribelli,

pur senza compiacersi nel titanismo.Il Perco fu invece docile, rispettoso di sche-mi e di lezioni e addirittura spersonalizzatonell’adesione a modelli antichi. A prima vi-sta infatti egli appare seguace rispettosodell’eclettismo tardoromantico e dell’acca-

demismo ottocente-sco.Del romanticismo per-mane in lui e nella suapittura, forse, la com-mozione pacata da-vanti alla verità delmondo esteriore o deldocumento variamen-te umano, il che nonesclude una partecipa-zione riflessiva: a que-sto proposito si veda-no i tanti disegni da luidedicati alla distruzio-ni belliche di Lucini-co, delineati con manotanto ferma ma nonassente. La commozio-ne, si sa, non è prero-gativa soltanto roman-tica. A quel romantici-smo che ancora si ri-

fletteva nella sua personalità erano state dalui mozzate le punte d’inquietudine o di ac-cesa emotività e ogni velleità di sondare lezone meno definibili dell’inconscio o del so-pra-reale.Il Perco insomma fa suo anzi rinnova unclassicismo di maniera, lo colora di realismoelegante, ma sa insinuare anche note esoti-che, bilanciate tra un romanico asciutto esoluzioni sempre nobili, derivate per lo piùda modelli rinascimentali. Prevalgono dun-que delicatezze sinuose, filtrate dalla ripro-posta della raffinatezza del “barocchetto”.

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La chiesa di San Rocco durante i lavori esegui-ti tra la primavera e l’estate del 2006.

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Può essere valido per il pittore il richiamo aun raffaellismo di segno cristiano, in sensoantiaccademico e fors’anche anticlassicheg-giante, nell’opposizione a forme agnostiche,quantunque eleganti. Dal preraffaellismosarebbe stato facile per lui passare allo Ju-genstil, non tanto peròper l’imitazione delpassato, quanto perl’accentuazione e perla liberazione di figureallungate, sciolte e si-nuose: ciò accade tut-tavia molto raramentee in minima misuranell’arte del Perco,che pare piuttostoguardare a un purismoeclettico, nella scia,per esempio, di un Se-gantini, di un Previatio anche di un Santo-rio, ma certamente pereffetto degli insegna-menti giuntigli dalloScomparini, un tardis-simo tiepolesco, cheesitò davanti alle cor-renti nuove. Con lui ilPerco ebbe in comune, oltre all’amore per ilTiepolo (moderando tuttavia lo sfarfalleg-giare delle pennellate ma salvando una lu-minosità che può ricordare Makart), l’usodi un colore pastoso e denso, limitatamenteai primi anni, come fa vedere la “Veduta diLucinico” del 1909.Dovunque attinga, il Perco interviene conun’azione semplificatrice nella preferenzaper segni precisi, fluidi e non sdolcinati.L’arte chiesastica aveva fatto suo un baroc-chetto di maniera, talora immergendolo inun clima classicheggiante e talvolta asciu-

gandolo con torniture nazarene. Il suo “me-stiere” è un atto d’amore verso il naturali-smo dei secoli passati e verso le esigenze de-vozionali della sua gente. Osserva molto be-ne il Morassi che la pittura del Perco “al po-polo era destinata e con la voce del popolo

doveva esprimersi al-l’animo dei fedeli. Lachiarezza, l’immediatacomprensibilità dellesue figurazioni eranopostulate dall’impe-gno preso dall’artista,subconsciamente, ver-so i suoi committenti”.La Chiesa ha dovutofare propria un’arteche non corre paralle-la alla cultura contem-poranea, dovendo ri-farsi a modelli spessoimpersonali, ormaisorpassati: il distaccoda quell’arte che lastessa Chiesa avevasempre promosso e dicui si era fatta per se-coli ispiratrice e solle-citatrice, almeno fino a

tutto il Settecento, ha finito per proporremodelli anacronistici, sia pure riempiti dipossibilità di significati attuali.Nel quattro Evangelisti e nelle volute vege-tali anticheggianti della volta nella chiesa diSan Rocco si leggono i più chiari indizi del-le preferenze dell’arte sacra nel Novecento,ma anche i limiti derivati da quella diffiden-za verso il mondo “nuovo” che si sottraevaalla “libertà” istintiva.

Si ringraziano per le fotografie Renzo Crobee gli architetti Picotti e Grusovin.

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Il presbiterio, appena conclusi i lavori di restau-ro delle pareti.

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PRIMO PIANO

Laura Madriz Macuzzi-Vanni FeresinUna storia lunga sessant’anni

“Finalmente si può ritenere conclusa que-st’opera per la gioventù, che per tanto tem-po è stata desiderata e voluta. Non è quindifuori luogo che oggi sia un rappresentantedei giovani (...) a ringraziare tutti coloro checon il loro aiuto, con il loro impegno hannopermesso questa considerevole realizzazio-ne. Al grazie s’accompagna anche un salutodi benvenuto a tutte le autorità, religiose ecivili, a tutti i rappresentanti delle varie as-sociazioni cittadine, che con la loro presen-za qui hanno elevato la festa di un borgo, lafesta di un rione a qualche cosa di più im-portante. A noi pare che tutta la città oggigioisca, che tutta la città oggi sia in festa pernoi e con noi.” Era il lontano 22 agosto1965, il giorno dell’inaugurazione del nuo-vo oratorio, e questo era l’inizio del discor-so ufficiale letto da un giovanissimo Arman-do Obit, davanti alle autorità civili e religio-se della città. Queste parole così calorosa-mente solenni ci sembrano a quarant’annidi distanza anacronistiche ma non sono poicosì lontane. Solo oggi possiamo ritenereconclusa un’opera che sarà utile ai giovani,

che ha visto l’impegno di tutta la comunitàe che la città di Gorizia guarda già con inte-resse. La strada è stata lunga e per giungerealla meta del Centro Culturale “Incontro”ci sono voluti sessant’anni.Nel 1946 don Francesco Marega (Parrocodal 1930 al 1960) ebbe l’occasione di eredi-tare dal Governo Militare Alleato (MP), cheaveva sede distaccata in via della Bona eprecisamente nel giardino dell’attuale “Vil-la San Vincenzo”, una costruzione di legno,passata alla storia come “la Baracca”, che fusistemata nel cortile sul lato sinistro dellachiesa e costituì una nuova sede per le riu-nioni teatrali, per l’Azione Cattolica, peruna squadra di ping pong e per la Squadradi Calcio “Alma - Juventus”. Prima di quel-l’anno le attività parrocchiali si svolgevanoin sacrestia o nella stanza sovrastante, o nel-la sala polivalente dell’Asilo San Giuseppe esolo dopo il 1940 la parrocchia ebbe la pos-sibilità di prendere in affitto due stanzettedi fronte alla chiesa dove, nei freddi inverni,solo il calore e lo slancio dell’educatore An-ton Zakrajsek (1904 - 1946) riusciva a dare

Dalla “Baracca” al Centro culturale “Incontro”: gratuità, continuitàdel volontariato, attenzione educativa e promozione umana

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Laura Madriz Macuzzi-Vanni FeresinUna storia lunga sessant’anni

PRIMO PIANO

un minimo di tepore. Fu S.A.R (Sua Altez-za Reverendissima) il Principe Arcivescovomons. Carlo Margotti, il 14 maggio del1949, a benedire solennemente il piccoloteatrino parrocchiale chiamato amichevol-mente “la Baracca” durante la sua terza vi-sita pastorale al Borgo. Don Francesco Ma-rega nei suoi trent’anni a San Rocco dovet-te far fronte alle difficoltà finanziarie e bu-rocratiche per la ricostruzione della Chiesa,gravemente danneg-giata durante il primoconflitto mondiale, la-voro iniziato già dalsuo predecessoremonsignor Carlo deBaubela (Parroco dal1895 al 1927). I duegrandi sogni cheavrebbe voluto realiz-zare, e ci riuscì in par-te, furono quelli di do-tare la Chiesa di unnuovo organo, chevenne inaugurato do-menica 9 giugno del1940 a poche ore dal-l’inizio della SecondaGuerra Mondiale, ecostruire un nuovooratorio: ciò si notaleggendo il questiona-rio preparatorio alla seconda visita pastora-le di mons. Margotti nel quale don Maregadiceva che sarebbe “un gran bene se la par-rocchia disponesse di una bella sala parroc-chiale, di cortili con un oratorio per i fan-ciulli e le fanciulle e dell’aiuto di un sacer-dote cooperatore giovane che potesse dedi-care almeno parte del suo tempo alla par-rocchia”, questo sogno diventerà realtàmolti anni più tardi. Dalle cronache si ritro-

va e si desume che il problema dell’oratoriodivenne sempre più impellente tanto che, ilprimo dicembre del 1953, si riunì in canoni-ca un gruppo di borghigiani per procederealla costituzione di un comitato promotore“pro Oratorio”. Questi gli intervenuti: donFrancesco Marega, dott. Giovanni Verbi,Evaristo Lutman, Giovanni Covassi, Anto-nio Piciulin, (assente giustificato CorradoLarise), fungeva da segretario Guido Bisia-

ni. Dopo una discussione sulla scelta del-l’area per l’attuazione del progetto e sulla ri-chiesta dei relativi contributi e dopo averascoltato una relazione del Covassi si proce-dette alla costituzione del Comitato che ri-sultava formato da tutte le persone soprac-citate. Circa il reperimento dell’area, il dott.Verbi e Guidi Bisiani si incaricarono di con-tattare il barone Levetzow - Lantieri (areatra le vie Lantieri e Lunga). Venne proposto

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Il vecchio oratorio e l’orto della famiglia Bressan (foto Crobe).

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anche di contattare il Presidente della Pro-vincia Angelo Culot (per l’area di proprietàprovinciale in via Vittorio Veneto, a fiancodell’ex Asilo Nido). Si esaminarono poi lemodalità per la richiesta del contributo dachiedere allo stato “pro Oratorio”. Nellariunione successiva, il 10 dicembre, si do-vette, purtroppo, constatare l’inattuabilitàdelle due soluzioni proposte, a causa del-l’indisponibilità dei proprietari terrieri. Nel

corso di alcune sedute svoltesi nel gennaiodel 1954, il Comitato si orientò verso un’al-tra possibilità: l’eventuale acquisto di unfondo retrostante la chiesa, di proprietà del-la famiglia Bressan. Il direttore dell’ufficioamministrativo diocesano don Luigi Ristits,su invito dello stesso Comitato, partecipòad una riunione per fornire delucidazionicirca la possibilità di ottenere il contributostatale. Nella seduta del 18 febbraio 1954 si

dovette prendere atto che anche la famigliaBressan non aveva alcuna intenzione di ce-dere il terreno, per ragioni di carattere squi-sitamente economico. Nella riunione del 22aprile 1954 si continuò a discutere sui falli-ti tentativi esperiti presso la Provincia e ilproblema si trascinò per anni senza concre-te vie d’uscita. Nel 1959 don Marega si am-malò seriamente e fu costretto a rinunciarealla parrocchia. Il 20 dicembre del 1962

moriva all’ospedaleFatebenefratelli di viaDiaz.Il 18 settembre 1960nel suo discorso comenovello Parroco, donOnofrio Burgnich(Parroco dal 1960 al1967), ebbe a promet-tere che “il mio impe-gno sarà per la realiz-zazione della sede del-l’Oratorio di San Roc-co”. Accanto a se volleun Comitato di par-rocchiani che lo consi-gliasse e lo aiutasse. Ilcomitato lavorò perpiù di quattro anni enon venne mai menoalle aspettative delParroco, scrive l’Obit:

“(...) tutti ascrivono il merito della nuovacostruzione all’ottimismo di don Onofrio ealla simpatia che egli ha saputo suscitarenell’animo dei parrocchiani; ma noi pensia-mo che se quel sorriso, se quell’ottimismonon sono mai venuti meno ciò è dovuto inbuona parte, al Comitato che con compe-tenza e buon senso ha sempre appoggiato econsigliato l’uomo di tutti”. Per la costru-zione dell’oratorio però c’era la necessità

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L’esterno della nuova sala.

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PRIMO PIANO

del fondo e del denaro, problemi quantomai essenziali e sufficienti a bloccare ogniiniziativa. Nell’aprile del 1961 la situazione,che era in fase di stallo, si sbloccò: si era af-facciata la prospettiva di acquistare la casasita al n.2 di via Lunga di proprietà deglieredi Pecorari. Quella casa “ridotta pocopiù di un rudere, brutta e malsana, disab-belliva la piazza e in più con la sua posizio-ne ostacolava la visuale per la circolazionestradale”. La questione dell’acquisto si ri-solse per merito di un contributo del comu-ne e precisamente il 18gennaio del 1962 datain cui venne stipulato ilcontratto di compra-vendita. L’impresa“Lorenzutti” si prestògratuitamente per lademolizione. Unico ci-melio che si conservòdalle macerie fu la fa-mosa “Zata” o “Zampadel leone” o “ZampaLeonina” o “Talpa dalleon” o “la Talpa delleon di San Marc” o “laZata dal leon di Vene-sia” che per diverse vi-cissitudini rimase in at-tesa di un degno collo-camento in qualchemuro dell’Oratorio, ma un giorno, a causadi un grande fuoco acceso da alcuni giova-ni, forse per far rivivere una antica usanza,la Zampa si polverizzò e un raro e impor-tante cimelio veneziano del Borgo conclusela sua lunga e gloriosa storia. Quella zampa,vecchia di secoli, aveva suscitato l’interessedi alcuni “signori” che avrebbero volutocomprarla, ma i sanroccari si opposero sem-pre tenacemente poiché essa proveniva,

nientemeno, dal leone, che, durante il brevedominio veneto, montava la guardia sul pri-mo portone del castello. Quando l’Austriasi riapproprò di Gorizia l’aquila bicipite fuinnalzata sul portone e il leone fu schiodato.Cadendo si ruppe la zampa e la leggendavuole che i castellani l’affidarono agli abi-tanti della villa di San Rocco a ricordo delbreve governo veneziano: “Custoditela, co-sì almeno qualche cosa del nostro leone re-sterà”. Per onorarne la memoria il primoperiodico stampato in parrocchia, sotto la

guida dell’Obit, ne riprese il nome, “La Sa-ta dal Leon” o “La Zata dal Leon”, il primonumero uscì nel 1962 e collaborarono al-l’iniziativa Pierluigi (Gigi) Augeri, MarianCefarin, Enzo Cividin, Guido Bressani, eArmando Obit. Il giornalino venne pubbli-cato fino a tutto il 1965.La demolizione della casa Pecorari e delmuro di cinta segnarono le ultime ore an-che della “Baracca” che per diciotto anni

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Casa Pecorari e la “Baracca” poche settimane prima della demolizione nel 1962.

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era servita da ritrovo per i giovani e i ragaz-zi del rione come cinema, teatro, sala daballo. La “Baracca” fu acquistata dall’im-presa edile “Caselgrandi” che provvide arimontarla nel Bellunese dopo la tragediadel Vajont.Il 19 febbraio del 1962 si riuniva il comita-to parrocchiale, sotto la presidenza deldott. Verbi, che prendeva atto del passo inavanti e vista la difficoltà di espandersi ver-so altri fondi confinanti, studiava la possi-bilità di acquistare parte della proprietà del

signor Codeglia. Avviata a buon fine la so-luzione per la compravendita del fondo ri-maneva il problema del finanziamento del-l’opera. Don Onofrio non perse tempo e il25 febbraio convocò tutti i capi famiglianella sala maggiore dell’Asilo San Giusep-pe (se ne contavano più di centocinquanta)e lì caldeggiò fortemente l’iniziativa, tutticapirono e da quella riunione uscì qualcosadi concreto: ogni famiglia sottoscrisse un

impegno mensile “pro oratorio”. Questaassunzione di responsabilità, che dovevadurare inizialmente un anno, proseguì finoa tutto il 1965 e fu così grande il cuore deisanroccari che lo stesso don Onofrio definì“provvidenziale questa generosità e santepersone sono quelle anime zelanti che dimese in mese picchiano alla porta e fannoin modo che la parola data venga mantenu-ta”. Tra le zelatrici del nuovo oratorio ri-cordiamo le signore Margherita Zittaiani,Pina Madriz, Maria Visin e Albina Negu-

santi.La strada per ottenereaiuti e sovvenzioni delGoverno fu lunga e ac-cidentata. La cosa si ri-solse dopo quasi dueanni quando la comu-nità incominciava or-mai a disperare e si ri-teneva di dover inizia-re i lavori con le pro-prie forze. Già da tem-po l’Architetto Riavis(Guglielmo Riavis natonel 1918 a Klagenfurt,la sua famiglia dovetterifugiarsi in Austria acausa della PrimaGuerra Mondiale, fuuomo intelligentissi-

mo, artista e pittore, suonava la chitarra e lafisarmonica, conosceva numerose lingue,laureato in Architettura a Venezia insegnòper molti anni educazione artistica, vienericordato come un “meraviglioso gentiluo-mo”, ancora oggi possiamo ammirare il suogenio in numerosi edifici goriziani, tra iquali ricordiamo la Sede Centrale dellaCassa di Risparmio di Gorizia, in CorsoVerdi, progettata insieme agli architetti

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Progetto della sala cinematografica disegnato dall’architetto Guglielmo Riavis e mairealizzato per mancanza di fondi.

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Laura Madriz Macuzzi-Vanni FeresinUna storia lunga sessant’anni

PRIMO PIANO

Malni) aveva preparato il progetto del nuo-vo Oratorio come pure quello della sala ci-nematografica, che doveva essere realizzatadalla parte sinistra della chiesa, ma che perla mancanza di fondi non venne mai alla lu-ce.La mattina del 7 agosto 1964 si sparse nelBorgo la notizia che i lavori del nuovo ora-torio erano iniziati. Dopo alcuni giorni sipoterono vedere operai del cantiere di la-voro intenti a livellare il terreno e a demo-lire il muro che delimitava la proprietà del-la chiesa con quella dei Bressani. I lavoriprocedevano velocemente e il Comitato,riunitosi dopo il successo della prima pescadi beneficenza “pro erigendo oratorio”,stabilì che la posa della prima pietra simbo-

lica avvenisse la prima domenica di ottobredopo la tradizionale processione della Ma-donna del Santissimo Rosario che si cele-brava a San Rocco già dal 1884 (il comitatoper la costruzione dell’oratorio era compo-sto dal Presidente dott. Giovanni Verbi,dall’amministratore Posa, da Rocco Ma-driz, Evaristo Lutman, Pietro Protto, RemoCaselgrandi e Armando Obit). Quel gior-no, il 4 ottobre, ad attendere in chiesa lapopolazione che, con preghiere e cantici,aveva percorso le strade del rione c’eral’Arcivescovo mons. Andrea Pangrazio eterminata la funzione il cortile della canoni-ca si riempì di una folla, festante e caloro-sa, che attendeva il grande momento. Dopoalcune parole di circostanza il Parroco invi-tò le autorità presenti ad apporre la propriafirma sulla pergamena, redatta per l’occa-sione nel rigoroso latino di don FiorettoZbogar, cooperatore parrocchiale dal 1953al 1969, e manoscritta dal giovane PieluigiAugeri, nella quale erano già state appostele firme di tutte le personalità del Borgo, lastessa venne murata nella prima pietra as-sieme ad una moneta d’oro (scudo) com-memorativa del Concilio Vaticano II ed auna 500 lire d’argento. L’Arcivescovo bene-disse e pose la “Pietra Auspicalis” e chiu-dendo la breve ma pur simbolica cerimoniaricordava ai presenti che “agli effetti dellacostruzione la più importante non era laprima ma l’ultima pietra”. Quelle parolefurono un monito per tutti noi, raccontal’Obit: “siamo stati lenti e cauti nell’inizia-re ora le tappe dovevano essere bruciate”.Il 30 gennaio del 1965 a pochi mesi dall’ini-zio dei lavori si festeggiò l’usuale “licoff” inoccasione dell’avvenuta copertura del tet-to. Domenica 22 agosto 1965, in coinciden-za con la seconda sagra del Borgo, alla pre-senza di tutte le autorità cittadine, a dieci

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Copertina del primo numero de “La Sata del Leon” data-to 1962.

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mesi di distanza il nuovo oratorio si presen-tava nella sua interezza e il dott. AntonioTripani poteva tagliare il nastro. Dalle cro-nache dell’epoca si evince che “il modernoedificio è sorto nel cortile attiguo al tempioparrocchiale, parzialmente addossato almuro maestro retrostante il presbiterio e lasacrestia. Progettista ne è l’architetto “san-rocchese” Guglielmo Riavis, i calcoli per ilcemento armato dell’ing. Giorgio Ciani,collaudatore l’ing. Leonardo Cristiani.L’edificio ha tre piani: al pianoterra trovanoposto una sala per riunioni e conferenze,aule per giochi, i servizi e un atrio; al primoe secondo piano ciascuno tre aule, terrazzee servizi. Il tutto modernamente arredato emolto accogliente. Due pannelli decoranol’edificio: uno nell’atrio principale realizza-to dallo studente Pierluigi Augeri; l’altronella saletta destinata ai “Lupetti” del-l’ASCI, dallo studente Luciano de Giron-coli”. Alla realizzazione dell’opera si giunsegrazie al contributo dello Stato e dell’am-ministrazione comunale e ai contributi delVaticano, della locale Cassa di Risparmio edella popolazione di San Rocco che corri-spose con generosità ed entusiasmo. Unacollaborazione preziosa la fornirono l’im-presa Lorenzutti, e le ditte Olivieri, BrunoPecorari e Cataldo Simone. l’Oratorio an-cora oggi si presenta come una strutturadallo stile moderno, attento alla tradizionelocale, sobrio e decoroso con un numerosufficiente di piccole sale per la catechesi euna saletta più grande per gli incontri dimaggiore affluenza; ma i concerti, le assem-blee, gli incontri formativi si facevano e,oggi più che mai, si fanno sempre in chiesae per il gruppo teatrale bisognava chiedereospitalità ad altre sedi cittadine.Fin dai tempi del Parroco don FrancescoMarega era chiaro che l’unico spazio dispo-

nibile per la sala bisognava ricercarlo nel-l’orto dei Bressan, ma allora la famiglia vive-va di quell’area verde coltivando verdure distraordinaria genuinità; questo orto era ilvanto della famiglia poiché era coltivato ecurato come fosse un giardino e contribui-va, inoltre, a tenere alto il buon nome degliagricoltori “sanroccari”. Con la morte diSilvio, l’ultimo agricoltore della famiglia,l’orto smetteva la sua funzione di sostegnoeconomico e diventava area verde e di servi-zio. A questo punto si inserisce il ConsiglioAffari Economici ed il Parroco don Rugge-ro Dipiazza (parroco dal 1967) i quali deci-sero di muoversi su due livelli per poterprocedere all’acquisto: al Comune vennechiesto di dichiarare una parte dell’area ri-

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Particolare architettonico dell’interno della nuova sala.

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Laura Madriz Macuzzi-Vanni FeresinUna storia lunga sessant’anni

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servata al servizio in unione con la parroc-chia e la famiglia venne contattata per l’ac-quisto del terreno. Tutto questo avvenivanel 2004 mentre gli Architetti Giorgio Pi-cotti e Maria Teresa Grusovin elaboravanoil progetto. Nel maggio del 2005 iniziaronoi lavori realizzati dall’impresa “Erretre diMaurizio Romanut, domenica 5 giugno2005 l’Arcivescovo mons. Dino De Antonibenediceva solennemente la prima pietra eil 14 maggio 2006, a poco più di un annodall’inizio dei lavori, davanti alle massimeautorità cittadine, civili e religiose, iniziavaufficialmente l’attività del nuovo CentroCulturale “Incontro” della Parrocchia diSan Rocco.Un tempo l’oratorio era un cortile per gio-chi all’aria aperta, un campetto per partite apallone, in compagnia di un prete o di unragazzo più grande o semplicemente diqualche adulto che sapeva giocare o sapeva

ascoltare. L’oratorio era quindi, nella tradi-zione delle parrocchie, espressione del desi-derio di accogliere; significava fiducia e in-teresse per le nuove generazioni e volontà didare una visione più ampia alla vita guar-dando agli altri con amore, solidarietà, ri-spetto ed educazione.Oggi una sala multifunzionale è indispensa-bile perché in questo tempo di individuali-smo e relativismo la presenza della chiesadiventa attenzione educativa, cioè amoreper la crescita di libere coscienze adulte ecome ricorda don Ruggero “ciò che per noidà valore all’oratorio non sono le struttureadeguate ma le persone qualificate. Gratui-tà e continuità del volontariato, diversitàterritoriale, attenzione educativa e promo-zione umana: queste sono le coordinate chesostengono un’esperienza che si configuracome bene per tutti”.

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“Allegoria dello studio e del lavoro”: bozzetto dell’affresco realizzato da Pierluigi Augeri nel 1965 su commissione di donOnofrio Burgnich.

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A sinistra, planimetria dei fabbricati esistenti prima della costruzione della nuova sala. A destra, un particolare dell’in-terno come si presenta oggi.

26 agosto 1966, una “vernice” nelnuovo oratorioScriveva Fulvio Monai (pittore goriziano):“Una mostra di pittori sanrocchesi”.A Gorizia ogni anno il borgo di San Rocco èin festa subito dopo Ferragosto. Balli all’aper-to, mostra di vini e prodotti tipici, giochi e al-legria caratterizzano la sagra, ma finora nonsi era mai pensato all’arte. È stata perciò unasorpresa per tutti la mostra organizzata nellesale attigue alla chiesa parrocchiale. E poichénon mancano fra i pittori di San Rocco pro-fessionisti di riconosciuto valore, si deve am-mettere che l’iniziativa è stata opportuna: es-sa ha consentito non solo ai borghigiani di co-noscere da vicino l’opera dei propri artisti,ma a chiunque si interessi d’arte di constata-re che l’impiego del tempo libero nell’eserci-zio della pittura può rivelare a volte insospet-tabili qualità. Si son visti ad esempio tre di-pinti di Pasquale Krischan, insegnante che

assai raramente ha esposto in sale pubbliche:realizzati con pennello disinvolto e sicuro, isuoi fiori sembrano usciti dallo studio di un“fauve” e certamente indicano, oltre ad unabella padronanza del mestiere, gusto del colo-re e sapienza compositiva. All’attenzione delvisitatore si sono imposti poi i due acquerellidell’Architetto Guglielmo Riavis che, purpossedendo evidenti doti artistiche, non usapresentarsi in pubblico in collettive o perso-nali. Qui egli ha inviato due immagini grade-si ambedue di quell’atmosfera chiara e cri-stallina che è propria del paesaggio lagunarenelle belle giornate primaverili. Il segno rapi-do, senza pentimenti, il colore fresco anche semeditato, stanno ad indicare qualità tali dagiustificare un’attività ben più intensa, nelsettore della pittura, da parte di un architettoche già ha dato prova di sensibilità e di gustoraffinato nel suo lavoro. Norma Silli, cono-sciuta per le sue frequenti apparizioni nelle

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Laura Madriz Macuzzi-Vanni FeresinUna storia lunga sessant’anni

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sale isontine, si è presentata con sei acquerel-li, tra i quali “squillanti gialli”, “alcuni narci-si” ed una veduta carsica morbida nei tonibruciati. Vittorio Pettarin ha esposto naturemorte che riecheggiano i modi della pitturametafisica mentre Leone Gaier si è presenta-to con quattro dipinti e quattro sculture li-gnee. I primi ripropongono alcuni temi cariagli “informali”, mentre le seconde si rifannoalla tendenza dell’oggetto “trovato” che arti-sti di molto nome hanno seguito con variosuccesso. Si tratta in sostanza di legni e ceppinaturali, modificati ad arte in vista dei finivoluti dall’artista, di bell’effetto. In tre picco-

le tempere il giovanissimo Pierluigi Augeriha rivelato un gusto raffinato della composi-zione che, rifacendosi a motivi religiosi, si at-tua in un’immaginazione di segni simboliciinseriti in un tessuto prezioso. Milvia Riavisha esibito due ottimi saggi, un bassorilievo euna immagine sacra, mentre Sara Di Mauroha presentato una garbata composizioneastratta.Sono state esposte infine alcune opere dipin-te con umiltà da un pittore recentementescomparso, Bruno Paulin, che per molti annisi è dedicato alle immagini concepite in sen-so popolaresco, a edificazione dei fedeli.

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RingraziamentiA Guido Bisiani per la lucida memoria storica e per aver messo a disposizione il proprio archivio, ad ArmandoObit e Pierluigi Augeri per aver messo a disposizione i loro preziosi materiali inerenti la “Baracca” e l’Oratoriodi San Rocco, a Roberto Elifani e Lorenzo Crobe per il supporto tecnico e la fotografia.

Fonti archivisticheArchivio di Stato di Gorizia, della Parrocchia di San Rocco, della Biblioteca Civica di Gorizia, della Curia Arci-vescovile di Gorizia, di Guido Bisiani, della famiglia Armando Obit, della famiglia Pierluigi Augeri, di Cirillo Ma-cuzzi.

Quotidiani e settimanaliIl Gazzettino (1940, 1949), Il Piccolo (1949, 1961, 1964, 1965, 1967), Il Messaggero (1964), Voce diocesana(1962, 1963), Voce Isontina (1964, 1965, 1967).

Bibliografia essenzialeBorc San Roc n. 6, Mons. Carlo de Baubela “plevan di San Roc”, pag. 41 e segg, Mauro Ungano, Gorizia, 1994;Borc San Roc n. 9, La “talpa dal leon”, pagg. 65 - 66, Walter Chiesa, Gorizia, 1997;Borc San Roc n. 10, Don Francesco Marega il parroco e l’educatore, pagg. 40 - 42, Anna Madriz Tomasi, Gori-zia, 1998;Borc San Roc n. 11, I 50 anni di sacerdozio di don Onofrio Burgnich, Storia di una vocazione, pagg. 79 - 80, Ren-zo Boscarol, Gorizia, 1999;Borc San Roc n. 13, Antiche osterie a S. Rocco, pag. 68 - 69, Anna Madriz Tomasi, Gorizia, 2001;Borc San Roc n. 14, Don Francesco Marega, sacerdote e testimone del tempo, pag. 86 - 88, Domenico Di Santo-lo, Gorizia, 2002;Borc San Roc n. 15, Dal 1906 al 1960, Visite Pastorali a San Rocco, pagg. 25 - 26, Mauro Ungaro, Gorizia, 2003;La Diocesi di Gorizia 1750 - 1947, Luigi Tavano, Edizioni della Laguna, Gorizia, 2004;Musica e sentimento religioso, la Corale del Borgo e la sua storia, Vanni Feresin e Laura Madriz, Gorizia, 2005;Sotto la Torre, 1497 - 1997: 500 anni della Chiesa di San Rocco, pagg. 127, 129 - 131, Mauro Ungaro, Gorizia,1997.

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La Sala Incontro si apre alla comunità di San Roccoe della città come spazio per l’aggregazione e per lacultura nelle sue più varie forme. Anche per il tea-tro. In questa occasione, proponiamo alcune righe diCelso Macor (1925 - 1998) che figurano nel volu-me “Versa: cinquant’anni con il Circolo” edito dalCircolo Ricreativo Sportivo Filodrammatico di Versanel 1996. La voce di Macor risuona in una breve ri-flessione per ribadire l’importanza dell’apertura diuna sala - fondamentale ieri come oggi, anche sesono mutati i tempi come altro è il contesto - e persottolineare il valore e la funzione del teatro che perMacor “era chiamata, era raduno, era approccio al-la cultura; era sì finzione della vita, ma anche presadi coscienza dei problemi esistenziali, era scuola dilingua e di comportamento; era educazione alleidealità ed al sentimento”.

Educare la gioventù era cura primaria. Eravamo ne-gli anni di guerra e subito dopo, quando tutto era dainventare, quando costruire una piccola sala doveriunire la gente era impresa enorme: eppure eraquello il luogo dove avviare i ragazzi alla cultura, at-traverso il teatro, che offriva la possibilità di capire,parlare, esprimersi, di liberare una sensibilità artisti-ca che era anche scuola spirituale e di vita. C’eramolto teatro in friulano in quei primi anni. L’autenti-cità e l’allegria di quelle serate sono rimaste indi-menticabili. Non c’era ancora la televisione né l’au-tomobile a togliere alle famiglie il gusto di stare in-sieme in cambio di un’autonomia a volte importan-te ma spesso solo consumistica che arricchiva diartificiosità ed illusioni ed impoveriva di socialità e diumano nello stesso tempo. Erano stagioni, soprat-tutto autunnali ed invernali, di incredibile festa per ilpaese: serate con una commedia come il vecchio“Test di sâr Pieri Catùs”, con qualche poesia, con unpo’ di musica restano nella memoria come quelle diun tempo inimmaginabilmente felice.

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“Quando costruire una piccola sala era impresa enorme...”

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Dalia VodiceIncontrarsi a San Rocco

L’inaugurazione della Sala Incontro, avve-nuta domenica 14 maggio 2006, ha corona-to non soltanto dodici mesi di lavori - la pri-ma pietra dell’edificio veniva posata il 5 giu-gno 2005, come riportava Borc San Roc loscorso anno - ma anche l’intero arco di qua-si un decennio, dovuto alla complessità del-l’iter amministrativo. Come ricordano gliarchitetti Mariateresa Grusovin e GiorgioPicotti, cui si deve la nuova struttura, lastrada per la realizzazione della Sala Incon-tro si apriva nel 1996, con l’avvio formaledelle procedure per ottenere la legittimitàurbanistica, la concessione edilizia, le auto-rizzazioni relative alla sicurezza e alla pre-venzione incendi e, quindi, l’accesso al con-tributo regionale per il finanziamento del-l'opera.Il progetto della Sala Incontro è saldamenteancorato al concetto di sala polifunzionale.Uno spazio pensato per ospitare iniziativediverse e soddisfare quindi le molteplici ri-chieste della comunità, ma anche un impor-tante inserimento nell’insieme di costruzioniesistenti che si riconducono all’attività dellaparrocchia di San Rocco: la chiesa seicente-sca, l’oratorio risalente al 1964, la canonicadatata 1990.“Il fatto che l'area resasi disponibile per lanuova sala si trovi a ridosso della facciatadell'oratorio, posta ad est e priva di finestre,non ci ha condizionato nella progettazioneper legare la nuova architettura a quelle esi-

stenti della Parrocchia”, spiegano gli archi-tetti Ricotti e Grusovin. Il risultato che l’oc-chio dell’osservatore coglie all’esterno ri-specchia la perfetta rispondenza degli am-bienti che si trovano all’interno. La linea si-nuosa della copertura consente di garantireuna maggiore altezza dell’area scenica all’in-terno; i portici perimetrali esterni realizza-no, sì, una adeguata protezione dalle intem-perie ma permettono al contempo di apriregli spazi interni della sala proiettandoli di-rettamente, in una sorta di continuità, versoil verde che circonda l’edificio.L’ampio spazio individuato all’interno è sta-to progettato espressamente per soddisfarenecessità diverse: incontri, concerti, confe-renze, proiezioni, spettacoli, appuntamentidi aggregazione per grandi e piccini, occa-sioni conviviali, come bene si addice a unospazio a disposizione di una comunità cheha sempre fondato sul fare insieme la cifradistintiva del suo operato. La sistemazionedelle sedie permette di fare accomodare uncentinaio di spettatori nella sala sulla qualesi affaccia una balconata-cantoria, pensataspecificamente per alcune particolari esecu-zioni musicali. Al piano interrato dell’edifi-cio, cui si accede per mezzo di una scala in-terna e di una rampa, si trovano altri spazicon ambienti ad uso magazzino e di servizio.La predilezione per una certa elegante es-senzialità voluta dagli architetti si riscontraanche nei materiali impiegati: “Abbiamo

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scelto il legno per le pannellature interne,poste in opera in modo particolare per ri-spondere ai migliori criteri acustici - rileva-no Grusovin e Picotti -, e ancora il legno perparte dei rivestimenti esterni. Abbiamo scel-to l’intonaco rustico a complemento delle

parti lignee, per le superfici interne ed ester-ne. Dentro e fuori, l'edificio si proponequindi con due materiali, legno e intonaco,quali elementi di richiamo alla materia checontraddistingue l'architettura rurale delborgo”.

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Sala polifunzionale ”Incontro”Parrocchia di San Rocco

Dati tecnici a opera realizzata

Superficie del lotto (p.c. 518/2): mq. 931Superficie coperta realizzata: mq. 236Superficie per manovre e parcheggi: mq. 450Superfici utili:

- piano interrato mq. 175- piano terra (sala e atrio) mq. 177- piano terra (portici esterni) mq. 21- piano primo mq. 49- totale mq. 422

Altezza massima: ml. 7,7Volume fuori terra realizzato: mc. 1.600

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RICERCHE STORICHE

Paolo SlugaDue ferrovie, un centenario

Negli ultimi mesi ben due centenari ferro-viari si sono succeduti nella nostra zona omeglio in quelle terre che hanno fatto parteo fanno tuttora parte della provincia di Go-rizia, il cui territorio fu parzialmente erededella Contea di Gradisca e Gorizia. Non so-no stati i soli anniversari in Italia; alcuni, an-zi, sono stati celebrati con particolare enfa-si, come quello della Ferrovia della Val Ve-nosta, al quale la Provincia di Bolzano, giu-stamente fiera del ripristino della linea do-po ampi lavori di ammodernamento, ha at-tribuito particolare risalto. Senza dimenti-carli, ci soffermeremo sui due centenari chehanno interessato più da vicino il nostroterritorio: le Ferrovie dello Stato italiane ela Transalpina, anch’essa statale, anche seallora absburgica; frutto, entrambe, diun’evoluzione della gestione ferroviaria che,allora, diede risultati importanti e significa-tivi. I due centenari sono stati collegati traloro dalle vicende storico-economiche chedeterminarono la sorte e la gestione delledue linee ferroviarie principali facenti capoalla città di Gorizia.

Dalla Meridionale alle Ferrovie delloStato, attraverso la SFAI e la ReteAdriatica

La Contea di Gorizia, all’inizio del XX se-colo faceva parte dell’Impero absburgico,ma ben due località erano collegate con larete del Regno d’Italia. La prima era Cervi-gnano, dove si incontravano la I.R.Societàper la Ferrovia Friulana che gestiva, dopoaverla costruita, la linea proveniente daMonfalcone e la Società Veneta che gestivala tratta proveniente da Portogruaro; la se-conda stazione, di gran lunga, allora, piùimportante, era Cormòns dove si incontra-vano la Società Adriatica, erede della SFAI,Società per le Ferrovie dell’Alta Italia, chegestiva la linea da Udine-Venezia e la Meri-dionale, KK Priv. Südbahn che gestiva la li-nea da Nabresina/Aurisina (Trieste) e Vien-na. Una particolarità era costituita dal fattoche entrambe le società erano private edavevano lo stesso azionista di rilievo, la fa-miglia Rotschild, conseguenza, questa divi-sione, di una serie di avvenimenti storici

La rete statale e la Transalpina sono il frutto di una significativa evo-luzione della gestione dei trasporti su rotaia

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Paolo SlugaDue ferrovie, un centenario

RICERCHE STORICHE

culminati dopo la III guerra d’indipenden-za nel passaggio del Veneto e del Friuli alneonato Regno d’Italia[1]. Le vicende che portarono alla nazionalizza-zione della rete ferroviaria italiana e di con-seguenza alla presenza delle Ferrovie delloStato in Cormòns, stazione di confine, nonfurono facili, veloci e neppure esenti da cri-tiche. La rete italiana, al momento dellaproclamazione in Torino dell’Unità Nazio-nale, rappresentata dal neonato Regnod’Italia presentava aspetti ben diversi: eraeccellente quella ligu-re-piemontese, volutacon grande lungimi-ranza economica estrategica da Cavour,con un autentico fittoreticolo che univa iprincipali centri; buo-ne ed in fase di espan-sione erano quella to-scana e quella lombar-da, ma era inveceestremamente mode-sta quella dell’ex Statopontificio e pratica-mente nulla quellaborbonica, dove pureaveva preso l’avvio laprima ferrovia italiana,la Napoli Portici.Nelle zone del Venetoe nella Venezia Giuliaimperiali c’erano ledue grandi direttrici: la Ferdinandea da De-senzano a Venezia, con la diramazione ver-so il Brennero ed il proseguimento su Auri-sina/Nabresina, e la Trieste-Aurisina-Vien-na. Imponente fu lo sforzo del Regno d’Italiaper ampliare la rete con una serie di collega-

menti anche strategici, tra i quali vale la pe-na ricordare l’intera Bologna-Ancona-Bari-Brindisi, realizzata in un paio di anni anchecon la costruzione di palizzate provvisoriesulle spiagge per velocizzarne l’iter.Le spese per le guerre d’indipendenza,quelle pesanti anche sul piano umano, comeevidenziò il grande patriota MassimoD’Azeglio, per la repressione del cosiddettobrigantaggio (che non sempre era tale), e lanecessità di fornire all’ex regno borbonicoun minimo di infrastrutture di comunica-

zione portarono inevitabilmente a problemifinanziari destinati a ripercuotersi sulle retiferroviarie. Le diverse concessioni ferrovia-rie istituite con la legge 2279 del 1865, pri-mo tentativo di portare ordine ed organiz-zazione coordinata sortirono effetti di mo-desto rilievo che si cercò di risolvere con

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La stazione di Cormòns come appariva tra maggio e giugno nel 1915. In piedi, per-sonale italiano sanitario in servizio.

[1] La Meridionale meriterebbeda sola un intero libro, ma perle nostre vicende basterà ram-

mentare, a completamento diquanto già evidenziato in re-

centi numeri di Borc San Roc(nn.12, 15 e 16) che la societàaveva acquisito dallo Stato Ab-

sburgico la rete ferroviaria prin-cipale che collegava Vienna con

il Sud ovest dell’Impero, dopovicende che avevano visto pri-

ma la gloria e poi l’estromissio-ne di Carlo Ghega ed in prece-

denza di Lugi Negrelli. Nellanostra zona, dopo aver assuntol’esercizio della Trieste-Vienna,la Meridionale aveva completa-to la Mestre-Udine-Gorizia, do-ve era giunta nell’ottobre 1860per proseguire su Aurisina. Do-po il 1866, dalla Società venne

separata la rete italiana perconsentire che la stessa venis-se gestita da una società di di-ritto italiano, fermo restando ilcontrollo azionario di maggio-

ranza da parte della Meridiona-le.

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una serie di interventi, culminati, dopo ac-cese discussioni parlamentari, nella legge 26aprile 1885 che ripartiva la rete nazionale intre grandi concessioni private: la Mediterra-nea, l’Adriatica e la Sicula, oltre ad alcunelinee minori. L’Adriatica giungeva così a Cormòns, chedal 1866 era divenuta punto di confine tra ilRegno d’Italia e l’Impero Absburgico e fuproprio la società che gestiva le linee che ar-rivavano a Cormòns e, sulla linea del Bren-nero ad Ala, a creare i maggiori problemi.

Preso atto del nuovo confine la famigliaRotschild provvide a scorporare dalla ancorgiovane Meridionale, la gestione delle lineeitaliane, creando una società di diritto italia-no divenuta dopo diverse trasformazioni laSFAI. La fusione della SFAI, dopo il 1885,nella Società Adriatica non fu facile; i Rot-

schild, con il cui ramo francese lo Stato ita-liano intesseva vaste relazioni finanziarieerano un osso piuttosto duro e per ovviarealla spesa prevista si preferì operare un con-cambio azionario che lasciò il controllo dirilievo della nuova Società alla Meridionalee che fu, per il suo carattere particolarmen-te oneroso, severamente censurato e critica-to in Parlamento.Il punto d’incontro tra le due reti rimase ov-viamente in Cormòns, favorendo così loscambio di tecnologie ma anche di “sovver-

sive” idee sindacali epatriottiche tra il per-sonale. Nel frattempo,al di fuori della Con-tea di Gorizia, ma conampi e prevedibili ri-flessi sui futuri colle-gamenti ferroviari del-la stessa, era stata co-struita la Pontebbana.Nel trattato di pacedel 1866, oltre a deci-sioni strategico-milita-ri, quali lo stabilire chela tratta Casarsa-Mon-falcone fosse ad un so-lo binario per evitaremobilitazioni ostili,venne prevista la co-struzione di una ferro-via che avrebbe colle-gato Udine alla co-struenda linea Rudol-

fiana (Lubiana-Villaco) a Tarvisio. Recepitoin toto il progetto dell’ingegnere Cavedalis,la SFAI (Società per la Ferrovia Alta Italia)realizzava tra il 1873 ed il 1878 la miticaPontebbana, destinata a lasciare il segno,con il suo secolare, vecchio e pittoresco, maestremamente valido tracciato, nelle popo-

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Inizio ‘900 alla stazione di Cormòns. Sullo sfondo a destra è visibile il deposito lo-comotive.

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RICERCHE STORICHE

lazioni friulane. Da parte austriaca si realiz-zò, con criteri peraltro più restrittivi pertortuosità e pendenza il tratto da PontebbaConfine/Pontafel fino a Tarvisio.Questa situazione portò ad un nuovo orien-tamento degli studi in materia ferroviaria,studi che culminarono nella costruzionedell’altra ferrovia di cui si celebra il cente-nario: la Jesenice/Assling-Gorizia-Trieste,meglio nota come Transalpina. La incontre-remo più avanti. Nel frattempo, nel Regno d’Italia, il dibatti-to parlamentare continuò a svilupparsi, inquanto la situazione ferroviaria, pur sensi-bilmente migliorata, non era ancora ottima-le, neppure sotto l’aspetto della sicurezza,ma fu necessario attendere l’arrivo sulla sce-na politica dello statista Giolitti, l’uomo delsuffragio universale maschile, per vedereavviato a soluzione il problema. Con la leg-ge 22 aprile 1905, attuata con il Regio De-creto 259 del primo luglio successivo, ven-ne decisa la nazionalizzazione della rete fer-roviaria principale, collegata mediante ri-scatto oneroso delle concessioni. Rimaneva-no, al momento, estranee al provvedimentola Veneta, le Nord Milano, le Laziali e qual-che altra rete minore. Ancora una volta laStazione di Cormòns cambiava uno dei duetitolari e la Contea di Gorizia, in quel perio-do, poteva vantare il singolare record di ve-der operare sul suo territorio ben sette so-cietà ferroviarie: la Meridionale, le Ferroviedello Stato italiane, le Ferrovie dello Statoimperiali (che stavano avviando a completa-mento la Transalpina), la Veneta, la Societàper la Ferrovia Friulana, la Società per laFerrovia del Vipacco e l’Adriatica in fase diassorbimento dallo Stato.Il salto di qualità delle neonate Ferrovie del-lo Stato fu evidente da subito; sotto l’atten-ta guida di Riccardo Bianchi[2], venne avvia-

to un programma di sviluppo ed ammoder-namento senza precedenti: furono unificatele diverse Direzioni generali, i sistemi di si-curezza e si procedette anche alla progressi-va omogeneizzazione dei mezzi di trazione;venne istituito, in Firenze, il Servizio mezzie trazione dal quale uscirono i progetti dilocomotive all’avanguardia, quali la 740, ve-ro e proprio mulo da traino, rimasto in ser-vizio fino quasi ai giorni nostri e che tuttoraesplica un prezioso servizio ai treni storici;successivamente fu la volta delle 680 e delle690, oltre alle prime locomotive elettriche.Non si dimenticarono le esigenze del perso-nale con numerose provvidenze, tra le qua-

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[2] Riccardo Bianchi, nato aCasale Monferrato il 20

agosto 1854, morto a Romail 4 novembre 1936, laureato

in ingegneria, si distinseanche per la progettazione di

impianti di sicurezzaall’avanguardia sulle linee già

prima della nomina aDirettore Generale della

nuova azienda. Nominato peri suoi meriti Senatore del

Regno, non esitò a dimettersiper contrasti con il Primo

Ministro per un problema diappalti ritenuti troppo

onerosi.

[3] Antonio Marco Marceglianase a Pinguente il 25 luglio

1852 da Francesco originariodi Marceglia di Castua e da

Marianna de Agapito,discendente da un’antica

famiglia cretese ivi stabilitasidopo la caduta di Creta in

mano turca e beneficata dallaSerenissima per la sua

indiscussa fedeltà a SanMarco (Borc San Roc n.17).

Assieme ai fratelli va aprecetto dallo zio don

Giacomo Marceglia,poliglotta, conservatore e

apostolo della culurapopolare. Assunto alla

Meridionale, presta servizio aTrieste e Monfalcone pertrasferirsi poi a Cormòns

dove rimane inserendosi nellavita cittadina; contribuisce a

fondare la Cassa rurale ediventa deputato comunale.

Muore nella cittadinacollinare alla fine del 1919.

Personale sanitario e cavalieri dell’Ordine di Malta in sta-zione a Cormòns. Al centro, il professor Santarelli.

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li i treni per il mare ed un primo nucleo diassistenza mutualistica. La differenza si videa tal punto che, secondo tradizioni familiaritrasmesse dal bisnonno Antonio Marceglia,venuto dalla natia Pinguente d’Istria a pre-stare servizio, come dipendente della Meri-dionale, a Cormòns[3], i pur ben trattati fer-rovieri della stessa iniziarono a guardarecon ammirazione ed invidia, mezzi e tratta-mento del personale delle Ferrovie delloStato. Nel comune di Cormòns, le FFSS co-struirono per il proprio personale una ca-setta rimasta identificabile per decenni peril suo recinto caratteristico ed anche un de-posito locomotive[4]. Secondo memorie fa-

miliari, che peraltro non hanno trovato pro-va documentale, in talune circostanze qualivisite ufficiali di rilievo, i mezzi della FFSSraggiungevano Gorizia e quelli della Meri-dionale raggiungevano Udine.Su questa situazione piombò, come un ful-mine, la prima guerra mondiale che videCormòns capolinea di un vasto traffico mi-litare; in questo periodo vi prestò servizio,presso il centro di assistenza istituito dal So-vrano Ordine di Malta, il noto latinista ro-mano Raffaelo Santarelli che alla cittadinafriulana rimase sempre legato, ritornandovinumerose volte fino agli anni ’50 e facendopervenire agli amici ed ai maggiorenti anchesaggi della sua attività[5].

Il mito della Linea di CostanzaUn mito più di ogni altro lega, oltre al co-mune centenario, la linea o meglio le due li-nee facenti capo a Cormòns con l’evoluzio-ne che avrebbe portato alla costruzione del-la Transalpina ed è un mito che si chiamò“Linea di Costanza”, così definita dal capo-linea ideale di una grande direttrice destina-ta a collegare Est ed Ovest a nord delle Al-pi, un’antesignana dei moderni corridoi eu-ropei.La costruzione della Meridionale aveva pla-cato numerose lamentele di Trieste per i ri-tardi con i quali era stata completata rispet-to alle linee congiungenti Vienna con i por-ti anseatici, ma le sue tariffe, senza dubbioesose in quanto destinate a remunerare gliazionisti, avevano sollevato nuovi dibattiti,discussioni e progetti per ovviare a questasituazione. Lo scopo di tanto fervore aveva,coinvolgendo anche Gorizia, un solo comu-ne denominatore: trovare il migliore collega-mento e la migliore società di esercizio percollegarsi con le linee facenti capo a Costan-za, ritenuta allora il centro nevralgico per ac-

[4] Questa volta non fupossibile un concambioazionario e, per rimborsarel’anticipata revoca dellaconcessione, lo Stato siimpegnò a pagare un importoannuo in franchi svizzeri oroalla Meridionale. Lo scoppiodella prima guerra mondialeportò ad una svolta radicale:trattandosi di societàgiuridicamente situata in unoStato nemico,l’amministrazione italianasospese il pagamento delrateo annuo. La conclusionedella guerra portò nuovisviluppi, tra i quali il tentativodi creare la Società “Danubio-Sava-Adriatico”compartecipata da Italia,Austria, Ungheria e Regno diJugoslavia, per gestire le lineeafferenti ai porti di Trieste eFiume. Il tentativo non andò abuon fine, le linee furonoriscattate e gli Stati siaccollarono il prezzo di questaanticipata revoca con notevolipagamenti in franchi svizzerioro: la Meridionale, ultimatequeste procedure e liquidatele pendenze, cessò l’attività aVienna alla fine del 1968.

[5] Tra questi, si ricordal’intervento in latino perl’anniversario della nascita diRoma, il 21 aprile del 1927,letto all’Anfiteatro Flavio(Colosseo) e le cui parti inizialie conclusive erano: ”Haudsane scio, Quirites, quoopportuniori loco diem Urbisnatale latine celebrari liceat,quam hic, ubi Christi nomineomnes Romanae Civitatissentiunt se esse participes etunde Romanum Nome,Martyrum virtute, iterumitemque latius gentibusprolatum est.... Per Labarummilites ad victoriam deductisunt: ad preclara Christianaevitae facinora patriaequelaudem per Crucemdeducamur cuncti.”

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La stessa porta, ritratta nella foto a fianco, come apparesettant’anni dopo con le scritte di allora rivelate dall’elimi-nazione della tettoia.

sistemare note

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RICERCHE STORICHE

cedere ai pingui traffici settentrionali. Le di-scussioni inizialmente vertevano soprattuttosu due direttrici, quella di Pontebba e quel-la del Predil o dell’Isonzo, ma il confine aCormòns e la costruzione della Pontebbana,ottima ma inutile proprio per la presenza diben due valichi confinari a servire gli inte-ressi di Trieste, indirizzarono gli sforzi versoaltre direzioni. Questa situazione modificòradicalmente gli orientamenti generali. Giànel 1872 erano stati predisposti nuovi pro-getti per importanti collegamenti da Triesteverso Nord (si veda lo studio allegato ripro-dotto per la cortesia degli Archivi provincia-li di Gorizia). Vennero individuate soprattutto, tra una mi-riade di iniziative, due possibilità principali:una linea che, lungo il Vallone, risalisse lavalle dell’Isonzo, ricalcando quello cheavrebbe potuto essere il tracciato della pri-ma linea per Trieste, ed un’altra che da Trie-ste puntasse verso la Carniola e successiva-mente verso Stiria e Carinzia. Quest’ultimoprogetto, che dal nome della località toccatavenne detto del Laak (oggi Íkofia Loka),

non incontrò grandi favori e gli fu preferitoun collegamento con la parte occidentaledell’Impero e quindi con la Baviera.Successive chiare direttive di natura politicae strategica vincolarono ogni ipotesi ad untracciato che escludesse la possibilità di per-correre il Vallone, attraversare Gorizia conun’ipotetica stazione nella zona oggi occu-pata dall’ospedale e seguire la Valle del-l’Isonzo fino a Tarvisio. Il percorso previstoera troppo vicino al confine e la prima guer-ra si incaricò di confermare la validità diquesta decisione negativa e gravida di conse-guenze future. Annessa la Venezia Giulia al-l’Italia dopo il Trattato di Rapallo, sarà pro-prio questo itinerario a decidere, prima ildeclassamento della linea o successivamen-te, come già visto in precedenti numeri diBorc San Roc, a determinare il confine neisobborghi orientali di Gorizia.La TransalpinaOggi la tratta che da Jesenice porta a NovaGorica (già Gorizia Montesanto) e successi-vamente a Trieste Campo Marzio, con unadiramazione da Duttogliano/Dutovlje a Se-

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Nelle due pagine, una serie dei numerosi studi pubblicati in relazione alla nuova ferrovia verso il Nord.

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sana, viene generalmente definita e cono-sciuta con il nome di Transalpina ma inizial-mente questo nome designò in realtà unprogetto integralmente realizzato di benmaggiore rilievo. La legge imperiale del 6giugno 1901 autorizzava la costruzione, conesercizio diretto da parte dello Stato, di unalinea suddivisa in più tratte: la (Salisburgo)Schwarzach-Spittal (ove si collegava alla li-nea della Pusteria proveniente da Fortez-za/Franzenfeste-Lienz per proseguire suVillaco), la Klagenfurt-Jesenice e la nostratratta, il tutto collegato con la linea del Pyrnche, via Ceske Budejovice/Budweis, porta-va a Praga. Tre i trafori importanti: quellodei Tauri a Mallinz, quello delle Caravanchetra Rosenbach e Jesenice e quello del Wo-chein o Bohinj, divenuto poi più noto cometraforo di Piedicolle.Cessate le discussioni, dopo la citata leggedel 1901, ebbero inizio i lavori per la nuovalinea[6]. Incredibili gli ostacoli che si presen-tarono ai costruttori, tanto che ad un certopunto, per le difficoltà dell’alta Val di Bac-cia, si pensò di abbandonare il tutto. Fu la

tenacia dell’impresario friulano Ceconi avincere e concludere l’opera i cui dati tecni-ci sono veramente di rilievo. Tra le operespiccano, oltre alla galleria di valico, il via-dotto della Baccia a Santa Lucia, parte sumuratura e parte su travate di acciaio, ed ilmitico ponte di Salcano con l’arco in pietrapiù grande del mondo[7]. Particolarmenteattiva fu l’opera del Comune di Gorizia edella Dieta provinciale perché il deposito of-ficina delle locomotive venisse ubicato incittà e così fu anche per ragioni di estremalogica: da Gorizia partivano le due rampe,quella carsica a quella alpina con la necessa-ria doppia o tripla trazione. L’abilità dellemaestranze fu tale che, anche dopo il declas-samento della linea, le Ferrovie italiane vol-lero mantenere la struttura al massimo livel-lo, formando personale di tutta Italia. Il deposito non fu l’unico interesse di Dietae Comune che, negli anni delle lunghe e de-fatiganti discussioni, posero mano con l’aiu-to di azionisti privati a due opere di rilievolocale: la Monfalcone-Cervignano nel 1894e la Gorizia-Aidussina nel 1902; validissimo

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I documenti sono conservati all’Archivio Storico Provinciale di Gorizia.

[6] Il tracciato realizzato risaleda Jesenice sulla ferroviaRudolfiana, (località destinatacollegarsi alla Carinzia tramitela galleria delle Caravanche),lungo la Valle della Sava fino aBohjni/Wochein e da questalocalità con un lungo traforo aPodbrdo/Piedicolle, scendefino a Santa Lucia di Tolmino,prosegue su Gorizia e daquesta località, anzichéprocedere come logico, lungoil Vallone, infila la Valle delVipacco, utilizzando fino aPrevacina il percorso dellaferrovia di Aidussina (conpagamento di un riccopedaggio), sale quindi con unarampa arditissima fino a SanDaniele. Da questa localitàattraversa l’altopiano carsico edopo aver raggiunto lamassima altitudine aMonrupino arriva ad Opicina escende su Trieste con unarampa che costituisce uno trai più bei tracciati panoramici inferrovia.

[7] Il ponte avrebbe dovutoessere più corto, ma uncedimento delle spondeconvinse il progettista,l’ingegnere Orley, ad unamodifica; accortosi che conpoco avrebbe battuto il recordmondiale per l’arco in pietra,impostò l’arco centrale conuna campata di ben 85 metri.Il ponte saltò in aria la nottedell’8 agosto 1916 e vennericostruito dopo Caporetto contravate metalliche. Neldopoguerra, fortunatamente,nelle ferrovie dello statoprevalse l’idea di ricostruirlo inpietra sia pur con alcunemodifiche. La pietra usata fuquella di Chiampo e, sotto ladirezione dell’ingegnereCeradini, l’impresa Ragazziconsegnò il nuovo ponte l’8agosto del 1926.

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RICERCHE STORICHE

in questo campo fu il supporto di due gran-di friulani, Dreossi ed Antonelli, il cui stu-dio di progettazione assunse rilievo interna-zionale. Il successo della nuova ferrovia, inauguratasolennemente il 19 luglio 1906, anche per letariffe concorrenziali praticate, fu di rilievo,nonostante le notevoli asperità ed il traccia-to irrazionale, ma fu un successo di brevedurata, perché, solo otto anni dopo, il tre-mendo flagello della guerra mondiale si ab-batteva su gran parte dell’Europa.La guerra, pur nella sua immane tragicità,mise in luce, sul piano strategico, la lungi-miranza di chi aveva voluto quel tracciato:le vicende belliche fecero arretrare i capoli-nea a Piedimelze da un lato ed a Prevacinadall’altro, venne anche costruito un raccor-do tra Rifembergo e Batuje sulla linea di Ai-dussina per rifornire questo centro evitandoi bombardamenti.

La ricostruzione ed il diverso sviluppodelle due lineeTerminato il conflitto, l’esercizio riprese afatica tra innumerevoli difficoltà anche po-litiche. Per quanto riguarda la Transalpinaera interesse sia austriaco sia italiano che lacontinuità politica della linea non venisseinterrotta, ed ogni sforzo fu fatto in sede ditrattativa a Versailles perché il “triangolo diAssling (Jesenice)” rimanesse austriaco, mainvano. Si riuscì ad ottenere che una partedella Carinzia, ma non la bassa Stiria, espri-messe con un plebiscito, garantito anchedalla presenza di truppe e Carabinieri italia-ni, fin dal 1919 schierati a protezione dellalinea tra Villaco e Klagenfurt, la sua volontàche fu quella di rimanere austriaca. Il tratta-to di Rapallo pose fine ai problemi territo-riali, ma le tensioni rimasero anche per lediverse evoluzioni politiche; mentre, sia pur

precariamente, il valico di Postumia era ri-masto aperto, si dovette attendere pratica-mente il 1922 per riaprire prima Piedicollee poi Fusine. Fondamentale apparve il nuo-vo ruolo della direttrice Trieste-Udine-Pon-tebba-Tarvisio, destinata a divenire di granlunga prevalente sulle altre linee di valico.La Transalpina non ritrovò più i suoi splen-dori, ma mentre la tratta da Gorizia a Piedi-colle rivide un sia pur limitato traffico inter-nazionale ed uno militare più accentuatoper ragioni strategiche, quella da Gorizia eVilla Opicina venne declassata, per l’irra-zionalità del tracciato altimetrico che la sfa-voriva rispetto all’itinerario via Monfalcone,al rango di linea locale. La tratta da Triestea Villa Opicina conservò la sua importanzaal servizio del porto, venendo anche neglianni ’30 elettrificata, analogamente alle al-tre direttrici importanti della regione. Pur senza trascurare la variazioni e gli am-pliamenti dei quali ebbe a beneficiare, persole ragioni strategiche, il nodo di Gori-zia[8], la sorte della ferrovia apparve inelut-tabile e rimasero nel mondo dei sogni anchei progetti di un prolungamento da San Da-niele del Carso verso Prevallo/Razdrto ePostumia, che avrebbe potuto modificarnele sorti.Un risveglio sembrò profilarsi nel secondoimmediato dopoguerra, quando, anche perragioni legate alle ipotesi di nuovo confine,l’Italia cercò di rilanciare con decisione la li-nea dell’Isonzo per arrivare a Tarvisio, masenza che la proposta venisse accettata dagliAlleati. Analoga sorte ebbe ad incontrarel’estrema proposta di aggirare più ad orien-te la periferia di Gorizia, e la ferrovia segnò,senza aspirazioni di glorie future, il confinedi GoriziaInterrotta bruscamente, anche sul pianomateriale, la tratta che univa le diverse sta-

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[8] Alla fine degli anni ’20 ilnodo di Gorizia fu interessato

da una mole imponente dilavori. Venne costruito un

nuovo binario inaffiancamento al vecchio trala due stazioni di Gorizia con

un nuovo traforo allaCastagnavizza, mentre da

Gorizia San Marco (Vertoiba)fu costruito un nuovo tratto

fino a Valvolciana, con lasingolarità di avere una tratta

a tre binari per non più diuna decina di coppie di treni

al giorno. Venne ancheprevista una linea che da

Portogruaro si dirigesse conun ramo su Udine e conl’altro, via Palmanova su

Gorizia e Valle del Vipacco.Questa tratta, costruita fino

quasi a Udine e sull’altrotratto fino al Torre, fu

abbandonata negli anni ’60anche nel tratto udinese.

Oggi costituirebbe il Corridoio5 già pronto per congiungere

Udine, la Pontebbana ed ilvalico di Gorizia alla pianura

padana.

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zioni cittadine, la linea rimasta in territoriojugoslavo fu collegata direttamente alla retenazionale jugoslava con la costruzione di uncollegamento tra Duttogliano (Creplje) eSesana per evitare Opicina. All’inizio deglianni ’60 vi fu un tentativo di inoltrarvi perun periodo il “Dalmazia Express” direttodai porti del Mare del Nord a Fiume, ma iltentativo rimasto senza seguito non riuscì atogliere quella patina di carattere locale che

la linea aveva assunto e che gli sviluppi suc-cessivi, che oggi la vedono stretta tra la nuo-va Pontebbana e la potenziata Jesenice-Lu-biana, confermano anche i nostri giorni.Vi furono, dopo il Dalmatia Express altrimomenti di gloria in questa fase di “lineasuccursale”: il primo nel 1968, quando il ce-dimento del ponte di Dogna costrinse leferrovie italiane a deviare buona parte del

traffico via Piedicolle; il secondo per l’inter-ruzione della Pontebbana a seguito del ter-remoto del 1976 e nel 1998 quando il rifaci-mento delle gallerie a sagome intermodale,tra Monfalcone e Trieste, fece deviare viaGorizia-San Daniele del Carso perfino ilprestigioso “Simplon Express”.Oggi si parla di chiusura o ridimensiona-mento, nonostante i buoni risultati del tra-ghetto ferroviario attraverso la galleria di

Piedicolle e sono attivi alcuni comitati perla salvaguardia della linea, ma finalmentenuovi spazi e nuove speranze si sono aperticon il turismo ferroviario, che ha visto i tre-ni a vapore per Bled attestarsi a GoriziaCentrale con un successo al di sopra di ogniaspettativa. Diversa la sorte, ben più favorevole, dell’exMeridionale, la cui gestione dopo le turbo-

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Carta di circolazione agevolata per Carolina Cumini, moglie di Antonio Marceglia. Nella parte destra del documento èriportato l’elenco delle linee convenzionate.

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PRIMO PIANO

lenze iniziali venne assunta in toto dalleFerrovie dello Stato, pure per il tratto cheda Cormòns andava fino a Trieste: agli inizidel XX secolo, anche per ovviare alla con-correnza della Transalpina e per favorire inuovi traffici che la Monfalcone - Cervigna-no Confine di Stato avevano portato neicollegamenti diretti con Venezia, era stataaperta la breve galleria di Aurisina che evi-tava le manovre di regresso nella preceden-te stazione di congiunzione. Nel quadro deipotenziamenti decisi per il porto di Trieste,si provvide prima a completare il raddoppiodel binario tra Gorizia ed Udine, con mo-derni impianti nelle stazioni di Sagrado eRubbia San Michele oltre a Redipuglia, lacui stazione fu interamente rinnova. A metàdegli anni ’30 il salto di qualità con l’elettri-ficazione mediante il nuovo moderno siste-ma a 3kv, modernizzazione che segnò lacancellazione di ogni possibile gara tra ledue tratte Trieste-Gorizia.Il secondo dopoguerra, oltre alla ricostru-zione degli impianti ed alle diatribe pereventuali correzioni dell’ansa di Gorizia,con la completa costruzione delle opere ci-vili tra Redipuglia e Cormòns (ma senzal’armamento), ha visto il completamento, inanni recenti, del doppio binario sull’interalinea, l’istituzione dei treni passanti che col-legano più volte al giorno Trieste con Vene-zia via Gorizia-Udine e l’instradamento sul-la linea di una coppia di treni internaziona-li da Venezia a Salisburgo-Vienna. Forte evivace il traffico merci, al quale non sembradare fastidio lo scalo di Cervignano conl’inoltro su quella linea di alcuni convogli,mentre è attestato su un paio di coppie mer-ci il servizio sulla tratta da Gorizia a NovaGorica (già Gorizia Montesanto e prima an-cora Gorizia KK St.Bahn).Nonostante le recenti trasformazioni del-

l’azienda ferroviaria (oggi le infrastrutturefanno capo a RFI e l’esercizio a TreniItalia)con conseguenti nuovi orientamenti ancheeconomici - a tutti gli utenti sono note leconseguenze ed i disservizi portati da talunevaste economie in materia di manutenzioneed acquisizione di nuovi rotabili -, sembrache la linea gestita dalle FFSS non abbiaproblemi di futuro e ci auguriamo che siacosì, anche se una maggiore attenzione peril valico di Gorizia potrebbe portare nuovalinfa alla linea italiana e prezioso ossigeno aquella slovena.Due cenni di circostanza: come si addice adistinte signore che vogliano nasconderel’età, le Ferrovie dello Stato italiano, paghedi un francobollo e di un solenne e presti-gioso concerto, non hanno ritenuto di cele-brare in altro modo l’anniversario; diverso,pur in una veste forse troppo ufficiale e so-lenne, l’anniversario della Transalpina allaquale però hanno recato lustro e pubblico,da parte italiana, una serie di manifestazio-ni a larga diffusione, iniziate a Gorizia con“La Storia in Testa” nel maggio 2006 e tut-tora in corso con mostre e pubblicazioni.

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Bibliografia:AAVV. “Geschichte der Eisenbahnen Oesterreichisch-ungarischen Monarchie” Band 1898-1908, Vienna 1908;AAVV. “Transalpina-Un binario per tre popoli”, Ed.della Laguna, Monfalcone 1990;AAVV. “Transalpina-100 anni, 1906-2006. Un binario per tre popoli in immagini d’epoca” Ed. della Laguna,Mariano del Friuli, 2006;AAVV. “1918 E la Contea di Gorizia e Gradisca si ritrovò italiana-Gli ultimi anni degli Absburgo” Ed. dellaLaguna, 1998;AAVV. “Monfalcon”, a cura della Società Filologica Friulana, 2006;Briano L. “Storia delle Ferrovie in Italia”, voll. 3 Ed. Cavalotti Milano, 1977;Lacchè C. nmerose opere documentate di storia e divulgazione ferroviaria;Muscolino Ing. P. Numerose opere documentate di storia e divulgazione ferroviaria;Pavone G. “Riccardo Bianchi-Una vita per le Ferrovie italiane” Ed.CIFI, Roma 2004;Rampati A. “Carlo Ghega, il cavaliere delle Alpi” Ed. Italo Svevo, Trieste, 2002;Roselli G. “Trieste e la ferrovia Meridionale”, Ed. SAT Trieste, 1977;Sluga P. “Scorci di Ferrovie isontine” da ”I Treni” Ed. Trasporti su Rotaie, Salò;Sluga P. “Un centenario: la Transalpina” in “Sot la Nape”, n.1/2006, Società Filologica Friulana.Numerose le fonti archivistiche, in particolare il Fondo Giunta Provinciale dell’Archivio storico provinciale diGorizia, i cui curatori si ringraziano in modo particolare; sono state consultate, oltre alla stampa periodica, lecollezioni di “Borc San Roc” e di “ I Treni”, e fonti familiari.

Deposito e officina locomotive di Gorizia-Montesanto (Nova Gorica).

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Vittorio Peri a passeggio in corso Verdi: con lui Bruno Calderini, Giuseppe Finizio e Guido Marziani (novembre 1947).

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RICERCHE STORICHE

Sergio TavanoUn goriziano cristiano ed europeo:Vittorio Peri

La Società Filologica Friulana si è ricorda-ta di Gorizia in anni recenti almeno in duecircostanze notevoli: nel settantesimo e nel-l’ottantesimo anniversario della sua fonda-zione, avvenuta a Gorizia il 23 novembre1919: l’omaggio fu reso quando la “Filolo-gica” tenne appunto due volte il suo Con-gresso annuale proprio a Gorizia, con pro-lusioni tutte goriziane. Il 21 novembre1999 fu invitato a parlare Vittorio Peri chetrattò il tema Un friulano cristiano ed euro-peo: Luigi Fogar (v. “Ce fastu?”, 76, 2000,pp. 7-36).Il titolo scelto ora in questo periodico, peresprimere un ricordo ammirato e fraternodella grande figura di studioso e della suaopera, ricalca esplicitamente quello che eglidettò per fare conoscere e riflettere sullagrande figura di Fogar che, per la sua cul-tura e per la sua mentalità goriziane gene-rosamente vissute, finì per subire un esiliodi trentacinque anni a Roma, dal 1936 allamorte, seguita nel 1971.Si sa che ogni scritto che abbia un minimodi personalità riflette scelte e toni propri e

cari a ciascun autore: in questo caso lo stes-so Peri si riconosce nella figura affascinan-te di mons. Fogar, ne rileva il carattere pro-fondamente cristiano nella chiarezza delleidee, nella carità generosa, nelle solide con-vinzioni, nell’impegno con la gioventù (eradetto “il vescovo della muleria”), nel con-cetto di Stato che non si identifica necessa-riamente con una nazione ma che si inseri-sce in una visione dinamica e plurima e nel-la collocazione dello stesso vescovo gorizia-no in un orizzonte ampiamente europeo.Negli anni della sua formazione e della suaprima attività pastorale, mons. Luigi Fogar,definito a Innsbruck “amico di tutte le na-zioni”, si mosse con intelligenza e aperturacordiale in un panorama come quello gori-ziano, intrinsecamente e strutturalmentecomposito, senza prendere parte a una tesiche, secondo le tendenze nazionalistiche,fosse pregiudizialmente opposta ad un’al-tra coltivata da altri gruppi nello stessocontesto culturale e storico.Non a caso Vittorio Peri volle citare, inquel suo discorso del 1999, qualche passo

Una personalità ricca di intelligenza e di convinzioni con cui ha costrui-to un sapere storico innovatore, fondato sul dovere della giustizia

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esplicito dello stesso Fogar, al quale, anco-ra tredicenne, un goriziano “di pochissimacultura ma di grande fede e di spiccata per-sonalità” disse: “La più pericolosa eresiadei nostri tempi è il nazionalismo esageratoe (si) vedrà quanto danno esso recherà allaChiesa”. Il Fogar aggiunse: “Ne rimasi col-pito e impressionato” (p. 22). Divenuto ve-scovo, qualche decennio dopo, difendendola figura e l’opera dell’arcivescovo di Gori-zia mons. Francesco B. Sedej, echeggiò e ri-badì il medesimo concetto: “La storia delpassato ha dimostrato il danno enorme cheproduce alla Religione e alla Patria il nazio-nalismo esagerato trapiantato in Chiesa”(p. 23). Prima che le scuole, anzitutto lo Staatsgym-nasium di Gorizia, aprissero al Fogar gliorizzonti dietro alle varie lingue che stavaapprendendo, la sua frequentazione dellostesso clima culturale e mentale di Goriziagli aveva fatto sperimentare visioni e con-vinzioni altamente nobili e in particolare gliavevano fatto conoscere, coltivare e amareil friulano: “Il giovanetto aveva imparato aparlare e a pregare in friulano, secondo lalingua del cuore e della pietà: quella del ro-sario serale, delle litanie dei santi, della ViaCrucis, della confessione e del catechismo.Era la lingua tradizionale e comune dellapastorale popolare nelle parrocchie del cle-ro friulano delle diocesi di Gorizia e diUdine, fino a quando la politica del nuovoStato nazionale non ne contrastò virulente-mente l’uso” (p. 34). E poco oltre (p. 35)Vittorio (“Vichi”) Peri precisa il concettoin base a una confidenza espressa dallostesso Fogar al padre che lo aveva avuto“amatissimo catechista” dello Staatsgymna-sium tedesco: “La lingua della devozioneintima e del colloquio personale con Dio ri-maneva spontaneamente per Fogar quella

materna”. E qui piace ricordare che fin dal-l’Ottocento, e ben oltre, la lingua con cui iGoriziani hanno amato esprimersi più sen-titamente e quasi soltanto in versi è stata (eforse lo è ancora) ogni parlata di famiglia,fosse pure dialettale, anche per evitare unapartecipazione letterariamente artefatta.Peri non era friulano di nascita, essendo fi-glio di padre sloveno (il padre aveva dovu-to cambiare il suo cognome nel 1935, daPeriz in Peri) e di madre triestina, ma ilfriulano volle impararlo frequentando icoetanei a Borgnano di Cormons, dove lamamma insegnava: V. Peri, Vittoria FieglPeri; mamma e insegnante. Un’ondata di ri-cordi, in Borgnano: la scuola racconta, Chejdal Pòz, Cormons 2003, pp. 46-50. Nel vi-vace ritratto che il figlio traccia della madresi ritrova più di una nota che vede quella fi-gura continuata in lui stesso: “Estroversa,socievole, di intelligenza mobilissima ed in-tuitiva, spontaneamente generosa, fin daglianni giovanili non concepì la propria vitaaltrimenti che come impegno di lavoro perguadagnarsi di che vivere e per svolgere unservizio agli altri, specialmente ai bambini.Non seppe insomma pensarsi mai altrimen-ti che come insegnante ed educatrice. Fucosì per vent’anni maestra, finché venneposta nelle condizioni di dover abbandona-re la carriera, ritirandosi anzitempo in pen-sione in uno Stato unitario che nella realtàsi divideva ancora in ‘vecchie’ e ‘nuove’province e distingueva le regioni e i cittadi-ni a ‘redenzione’ nazionale variabile, trat-tandoli cioè come più o meno integrati difatto nel nuovo regime totalitario e sciovi-nista. Durante e dopo la prima guerra mon-diale insegnò nelle scuole elementari tede-sche di Trieste, di Pontebba; in quelle ita-liane di paesi friulani e sloveni del Circon-dario scolastico di Gorizia, e negli ultimi

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tre anni in paesini dell’Appennino toscano:vi era stata trasferita, con due figli in tene-ra età e a centinaia di chilometri dal luogodel lavoro e residenza del marito, perun’appolicazione oggettivamente arbitrariae soggettivamente malevola, ovviamentesollecitata da colleghi e superiori scolasticiisontini, dei decreti legislativi e provvedi-menti amministrativi emanati dal regimefascista contro i cittadini definiti allora ‘al-logeni’” (p. 46).Più tardi “Vichi” seguì nell’amore verso ilfriulano l’amatissimo don Guido Maghet,che lo introdusse più che alla parlata gori-ziana o sonziaca, a quella prossima alla koi-né. Eppure in taluni ambienti non gorizianiè dispiaciuta questa sua collocazione fuoridi un’”etnia” friulana convenzionale, senzache venisse dunque apprezzato non soltan-to il suo impegno nell’apprendere quellaparlata, ma soprattutto l’impegno nell’in-dagine e nell’approfondimento dei valori edei significati storici e civili della cultura dicui quella parlata era portatrice e strumen-to.Analogo all’atteggiamento di mons. LuigiFogar verso la sua cultura goriziana è statoquello di Vittorio Peri, quantunque eglinon fosse da sempre e fatalmente immersoin una cultura esclusivamente friulana, evi-tando con intelligenza sensibile le tautolo-gie facili: Vittorio Peri capì e perciò scelseanche lo studio del friulano per i suoi signi-ficati e per i valori cristiani ed europei chene costituivano storicamente la base e il tes-suto, non dunque come segno o motivo diseparatezza e di chiusura verso gli “altri”.Le sue scelte non state dettate dall’ovvio af-fetto verso la propria terra, cosa scontata inun frequente orgoglio egoistico, se non an-che acritico, ma dalla lucida e responsabilevisione di significati forse velati ma in fon-

do esemplari, ancorché difficili da accetta-re e da vivere, richiedendo esse un atteggia-mento civilmente aperto tanto sul mondoprossimo quanto su quelli diversi.Nel 1998, presentando a Udine la traduzio-ne della Bibbia in friulano, reso omaggio achi non ha “dimenticato o disconosciuto”le sue origini friulane, confessò: “Ho impa-rato decenne il friulano di Borgnano, nellemie prime vendemmie, e lo trovai subitopiù armonico e ricco di quello goriziano(…); in città non osai quasi mai parlarlo perpaura di sbagliare. Ripresi saltuariamente afarlo nel corso della lunga amicizia con preGuido, dal 1951 alla sua morte, per farglipiacere. Insomma, come testimone friula-no, sono un abusivo cosciente di esserlo manon per questo mi sento estraneo o forèst.”Amò firmarsi Pieri Pujûl, che era stato il so-prannome di Piero Pinausig, citato da luialtrove.Non è raro che un goriziano, specialmentese vuole inserirsi o figurare in alte sfere, sisenta indotto a tacere delle due origini co-me di un riferimento angusto, cosa moltofrequente se è vero che la risonanza (nonl’importanza) di qualsiasi fenomeno finisceper essere direttamente proporzionale alledimensioni e alla notorietà del luogo in cuiil fenomeno è collocato.Il Peri, come non moltissimi altri, quasi tut-ti di livello intellettualmente alto, non sol-tanto non ha voluto schermare mai la suagorizianità, animata dalle varie componen-ti, friulane, italiane, slovene, austriache, maoltre ad esserne orgoglioso, se n’è servitospesso per mettere in risalto i caratteri diun’originalità singolare e altamente respon-sabile in senso storico, culturale, civile e,appunto, etico (non etnico), a cui ogni con-siderazione sull’identità dovrebbe attener-si. È stata anzi precisamente la sua autorità

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scientifica e morale che infine ha potutoconferire prestigio ai più profondi e validisignificati della gorizianità.

In una lunga e documentata intervista del2000 (apparsa in: Largo Gemelli, 1. Studen-ti, docenti e amici raccontano l’UniversitàCattolica, Vita e Pensiero, Milano 2003; latestimonianza di Vittorio Peri è intitolataDa Gorizia con i ragazzi che uscivano dallaguerra, pp. 189-222), nella precisione e nel-la sicura chiarezza delle idee e delle parole,Vittorio Peri dice delle premesse per il suoingresso nell’Università Cattolica di Milano,a cui lo incoraggiò suo padre: “Pervenni alliceo pubblico dalla scuola dei salesiani, fre-quentata dalla quarta elementare fino allaquinta ginnasio, ed ero vicino, per amicizie

giovanili e personali interessi, all’ambientedell’Azione Cattolica, ma più ancora a dueeccezionali sacerdoti, che incontrai comecatechisti al liceo statale. Subito dopo, dal1950 in poi, analoga vicinanza trovai spon-taneamente, quando rientravo per le vacan-ze, nella locale sezione della FUCI. (…) Lasituazione, anche religiosa, di Gorizia appa-riva allora complicata da esasperazioniideologiche e politiche, come per molti ver-si continua anacronisticamente a esserlo an-cora negli ultimissimi tempi. (…) Il razzi-smo, con le leggi discriminatorie sui cittadi-ni ‘allogeni’, colpirono in regione decine dimigliaia di persone e di famiglie ben primadelle leggi razziali introdotte nelle regionidell’’impero’ africano e poi per i cittadini dirazza non ariana”.

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La classe di Vittorio Peri (I liceo, 1947-1948). Da sinistra in basso: Maria Gregorig, Marisa Belli, Gianna Torregrossa,Maria L. Carloni, Lucia Medeot, Enrica Saletti, Anna Borgheresi, Maria De Luca. Nella fila di mezzo: cinque insegnanti(I. Leopardi, G. Menghini, G. Tuzet, B. Grignaschi, N. Scuz), Antonio Scarano, Ugo Dalmasson, Sergio Altieri. Nella fi-la superiore: L. Bressan, Lionello Trombini, Guido Marziani, Pietro Sadofski, Bruno Calderini, Vittorio Peri, Lamberto Ter-zuoli, Lucio Rigonat, Giuseppe Finizio, Antonio Bin, Giobatta Serravalle.

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Laureatosi nel 1955 con Giuseppe Lazzatidiscutendo una tesi sulle omelie origenianesu Geremia, fu assistente volontario con lostesso professore ma contemporaneamenteinsegnò tanto a Milano quanto a Gorizia,dove dunque ritornò nello stesso liceo suoper l’insegnamento del latino e del greco.Nella stessa università milanese e nella stes-sa cerchia, accanto a Ezio Franceschini, co-nobbe Francesca Minuto con cui si sposò il19 luglio 1959: furono testimoni i ricordatiprofessori Franceschini e Lazzati.Rapidissima fu la sua carriera, sostenutaprincipalmente dalla severità di un’intelli-genza brillante e dalla vastità degli studi: giànel 1961 fu invitato a coprire il posto presti-giosissimo di scriptor graecus nella Bibliote-ca Apostolica Vaticana, dove rimase fino al-

la quiescenza. Quest’accettazione, dettatadal desiderio di condurre ricerche scientifi-che nei vasti e anche intricati spazi della sto-ria, soprattutto di quella ecclesiastica, com-portò la rinuncia all’insegnamento universi-tario, quantunque nel 1969 avesse ottenutola Libera Docenza in Storia della Chiesa ene avesse depositato il decreto ministerialepresso l’Università “La Sapienza” di Roma.È impossibile ricordare qui tutta la biblio-grafia di Vittorio Peri, che si aggira sul mez-zo migliaio di unità. I temi principali, piùspesso approfonditi con originalità feconda,riguardano il concetto di ecumenicità, iconcili, il cristianesimo tra le popolazionislave e nelle terre bizantine (gli scritti, spes-so molto ampi, che trattano questo tema so-no stati raccolti nel 2002 da Mirella Ferrari

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Classe III A, aprile-maggio 1958. Seduti da sinistra: Edda Polesi, Anna Chiandit, Mariagrazia Sussi, Laura Cassanego,il preside Emanuele Fabbrovich, Maria Pia Minca, Lucia Calligaris, Michela Burba. In piedi da sinistra: Giancarlo Movia,Mario Carruba, Paolo Tonzar, Paolo Sluga, il professor Vittorio Peri, Alfio Fontanot, Giovanni Bressan, Maria Teresa Ve-lisig. Nella foto mancano Dino Angeli, Sergio Bramo e Cadeddu (foto Sluga).

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in due volumi di più di mille pagine, intito-lati Da Oriente e da Occidente. Le Chiese cri-stiane dall’Impero romano all’Europa moder-na, Antenore, Padova, Roma-Padova: vi èinserita anche un’avvertenza “al lettore vir-tuale” in cui lo stesso autore delinea unadensa autobiografia intellettuale), ampietrattazioni sulla patristica (storia, esegesi, fi-lologia, teologia, ecc.), liturgia (Pasqua, bat-tesimo, cresima ecc.), agiografia (molti scrit-ti sugli apostoli Cirillo e Metodio: constache per l’enciclica di Giovanni Paolo II Sla-vorum Apostoli uno dei consulenti principa-li fosse proprio lui), cristianesimo antico,archeologia cristiana, lingue minoritarie.Tra le biografie egli andò sempre più allar-gando le sue ricerche su tre figure fonda-mentali per l’Italia contemporanea: Giusep-pe Lazzati, Giuseppe Dossetti e Giorgio LaPira. Su di essi Peri scrisse molte pagine, mail volume La Pira, Dossetti, Lazzati. Nel si-lenzio la speranza (Ed. Studium, Roma1998) acquista speciale valore in prossimitàdel Convegno ecclesiale di Verona di que-st’anno. E non è senza significato le posizio-ne assunta da Peri quale postulatore dellacausa di beatificazione di La Pira (1983):egli poté fare in tempo ad osservare tuttaviache si è andata sempre più affievolendo lariconoscenza verso questi grandi ispiratori;e non è detto che egli non dovesse infinescontare in più di un modo questa sua azio-ne. Nella commemorazione che si è tenuta aUdine il 28 marzo 2006 è stata presa in con-siderazione, sia pure ancora indirettamente,l’azione di Peri verso queste personalità (neparlò Cesare Alzati: v. Sandro Piussi nel“Messaggero Veneto” del 28 marzo): a Go-rizia invece, almeno per ora, questi teminon sono stati toccati nemmeno dall’Istitu-to di Storia Sociale e Religiosa con cui Pericollaborò tanto e spesso.

Verso le grandi personalità con cui si incon-trò e spesso collaborò, incominciando daPaolo VI e da Giovanni Paolo II, egli nutrìun grande rispetto; rivolse poi viva ricono-scenza verso modelli e maestri, tra i quali,oltre a quelli già citati, come Dossetti, Fran-ceschini, La Pira, Lazzati, sono rimasti perlui fondamentali Marie-Dominique Chenue Yves-Marie Congar (Peri trascorse un an-no accademico a Parigi, iscritto presso l’In-stitut Catholique ad un corso di filosofia eteologia), Louis Bouyer, H. Jedin, Carlo Co-lombo, Emilio Guano, Carlo Maria Martini,Domingo Ramos-Lisson, Walter Brandmül-ler e così via. Ebbe modo di conoscere an-che don Giussani, del quale ricordò “l’ap-passionata e vitalistica idiosincrasia per ognimodo di pensare ideologico che non fossequello soggettivo suo, anche in materie deltutto estranee alla sua sensibilità e prepara-zione culturale” (Largo Gemelli, 2003, cit.,pp. 201-202).La sua autorità, esercitata sempre con for-me equilibrate e precise, lo introdusse inmoltissime istituzioni e in molti organismi,tra i quali è giusto ricordare la Commissio-ne Mista Internazionale per il Dialogo tra laChiesa Cattolica e la Chiesa Ortodossa, del-la quale fu il solo laico fra i trenta membricattolici (ne parlò agli studenti anche a Go-rizia nel 1982).

Nell’”esilio” romano (il paragone conmons. Fogar qui non regge, non foss’altroperché in un caso c’era un’imposizione enell’altro una scelta) Vittorio Peri seguì concuriosità e con affetto le vicende goriziane eanzitutto le ricerche e i problemi storiogra-fici delle terre comprese tra l’Adriatico e ilDanubio (e anche oltre). L’affetto non loautorizzò a sopravvalutare i personaggi négli eventi della sua terra: era sempre guida-

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to dal bisogno e dal dovere dell’obiettività ecioè della giustizia.“Vichi” ha lasciato qui un ricordo molto ap-prezzato e simpatico, derivato dalla sua in-telligente chiarezza, dall’autorità morale escientifica ma anche dalla serenità cordiale,pronta alla risposta lucida e scherzosa (manon disincantata), in questo caso proprioperché ritornava nella sua terra. Eppure sa-peva suggerire solu-zioni e proporre cor-rezioni, attento a nonricorrere ad accentiche potessero appari-re correttivi.La personalità vivacee aperta di Peri riflet-teva senza dubbio erendeva più nobilequella cultura e quel-la mentalità, seria-mente civili e guidate(ma anche tormenta-te) da una grandesensibilità etica, incui Gorizia, nono-stante la sua ritrosia ela sua insicurezza, si èrivelata severa e spiri-tualmente feconda.Da ciò poté derivareanche la fattiva suapartecipazione a ini-ziative goriziane divalore in cui egli credette perché l’esempiostorico e culturale della città e della sua ter-ra si proponeva quale prefigurazione re-sponsabile di un modello veramente euro-peo.Nel ricordato profilo che egli ha tracciato diLuigi Fogar si proietta anche l’immagine ra-gionata della città e della sua cultura e, co-

me già anticipato, dello stesso autore.Peri allora osservò che dopo la “grandeguerra” qui si scontrarono due concezioniculturali e istituzionali dello stato e dellapersona: quella antica e sacrale dell’Imperoe delle monarchie cristiane europee e quel-la moderna e laica, in origine democraticarepubblicana degli Stati/Nazione.Sullo sfondo del primo dopoguerra, dram-

matico per la rinun-cia goriziana alla pro-pria vera identità,balza appunto la figu-ra di mons. Fogar (seun goriziano dovessesalire all’onore del-l’altare, egli disse,questo dovrebb’esse-re proprio il Fogar),modello intimamenteeuropeo, perché radi-calmente cristiano eanche friulano ma nelsignificato che questedefinizione avevaavuto a Gorizia pri-ma di allora e che lacittà ha perduto inun’alterazione gretta-mente nazionalistica,addirittura in un sen-so molto provinciale.Vittorio Peri avevaun acuto senso delle

proporzioni che lo induceva a non attribui-re ai fatti e alle figure, specialmente se re-gionali, un significato maggiore di quelloche la storia autorizza a vedervi. I momenti,le figure e i nodi storici sono stati da lui pro-posti e interpretati nella visione di una spe-cificità storica, in senso etico e con un’arti-colazione dinamica. I suoi contributi scien-

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Vittorio Peri presenta un volume dell’Istituto distoria sociale e religiosa di Gorizia.

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tifici hanno però risonanza più spesso lonta-no da qui.Senza dimenticare i molti suoi scritti appar-si in vari periodici e in miscellanee regiona-li: in “Studi Goriziani (notevole, per esem-pio, Note sulla formazione dell’identità cul-turale friulana. Il ruolo del clero autoctono edella catechesi popolare, 63, 1986, pp. 35-71:riproposto nella seconda edizione di Cultu-ra friulana nel Goriziano, ISSR, Udine 2003,pp. 265-303; ma altre volte è tornato sul te-ma dei vescovi tra Friuli e Venezia Giulia:Margotti e Fogar, in “Voce Isontina”, 24,1987, p. 4; L’avvicendamento dei vescovi nel-la regione friulano-giuliana tra le due guerremondiali, in “Memorie Storiche Forogiulie-si”, 67, 1987, pp. 157-161), in “IniziativaIsontina” (250 anni della diocesi di Gorizia.La Chiesa al passo con il Vangelo e con i tem-pi, 123, 2002, aprile 2002, pp. 37-40) e nel-le manifestazioni promosse dall’Istituto pergli Incontri Culturali Mitteleuropei, special-mente nel volume Le “minoranze” nella Mit-teleuropa (1900-1942), Gorizia 1991 (pp. 7-14, 15-25, 375-378); La dimensione pluriet-nica della comunità politica europea. I venti-cinque anni dell’Istituto per gli incontri cul-turali mitteleuropei di Gorizia, in “Stu-dium” (88, luglio-agosto 1992, pp. 483-508). Nel 1991 egli parlò di “confortantecrescita della comprensione e del consensointorno all’intuizione lungimirante dei suoifondatori e alle sue finalità istituzionali: laricreazione, a partire da Gorizia, di quellacultura indigena della convivenza civile edello scambio pacifico di conoscenze e divalori umani tra le genti, lingue e culturepresenti nella regione, cultura iscritta findalle origini (…) nel genio e nel sentimentopropri di questa città e del suo territorio.Qui l’intolleranza e lo sciovinismo sono sto-ricamente generi d’importazione o di con-

trabbando” (pp. 15-16).Non meno chiaro e preciso il suo pensiero aproposito dei rapporti tra Nazione e Statonell’Europa centrale (Gorizia 2003), nella ri-vendicazione dei diritti civili e nazionali edei doveri degli stati (pp. 61-76: il contribu-to si apre con un simpatico squarcio sullasua giovinezza goriziana, nel canto del po-meriggio delle domeniche: Laudate Domi-num omnes gentes).Gli orizzonti di studio semre più vasti nonhanno mai offuscato la prima scelta di ricer-ca e cioè quella sul cristianesimo antico, cheriaffiora nell’interesse anche per il primocristianesimo aquileiese. Qui egli ha sugge-rito interpretazioni e soluzioni con una vivasensibilità per i fenomeni storici nella lorocostante specificità. Tra le moltissime pagi-ne che egli ha scritto sull’antico cristianesi-mo aquileiese spiccano quelle affidate alprimo volume della Storia della cultura ve-neta (Neri Pozza, Vicenza 1976, pp. 167-214), con riferimenti e aneddoti personali,nello scoprire qui tuttora tracce antiche: peresempio, nelle consuetudini della zia Ursu-la nel sabato santo.Le manifestazioni che accompagnarono isedicesimo centenario del concilio aquileie-se del 381 (e in primo luogo il volume delle“Antichità Altoadriatiche” edito nel 1982)sono state da lui impiegate per una serie diacute osservazioni davanti alle scolareschegoriziane ma sono anche servite per ridiscu-tere, in base ai documenti che riguardanoquel concilio, il formarsi del concetto e deicriteri di un concilio ecumenico (“Annua-rium Historiae Conciliorum”, 15, 1983, pp.41-78; cfr “Memorie Storiche Forogiuliesi”,64, 1984, p. 227).Peri inoltre redasse uno studio molto pre-zioso sull’origine del titolo patriarcale in sée su quello aquileiese in particolare: La pen-

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tarchia: istituzione ecclesiale - IV-VI secolo -e teoria canonico-teologica (Bisanzio, Roma el’Italia, Cisam, Spoleto 1988, pp. 209-311);Aquileia nella trasformazione storica del tito-lo patriarcale (“Antichità Altoadriatiche”,38, 1992, pp. 41-63): da allora risulta defini-tivamente escluso che il titolo patriarcalefosse giustificato da pretese e presunte ori-gini apostoliche del Chiesa di Aquileia edella predicazione di San Marco ad Aquile-ia.Si colloca poi in questa dimensione medi-terranea e intimamente cattolica la sua rico-struzione del “simbolo” della Chiesa diAquileia attraverso la testimonianza di Rufi-no di Concordia: Rufino e il simbolo dellaChiesa di Aquileia. La tradizione culturaledel simbolo apostolico nella “stilizzazionestorica” occidentale (“Antichità Altoadriati-che”, 47, 2000, pp. 223-245).Con pronta disponibilità egli affidò inoltreil testi per le pagine di apertura (Nel segnodi Giona, pp. 15-19) e per quelle di chiusu-ra (Continuità: memoria e coscienza, pp.409-411) al catalogo della mostra Patriarchi.Quindici secoli di civiltà fra l’Adriatico el’Europa Centrale (Skira, Milano 2000). An-che qui egli respinse e corresse taluni “mitiretorici o irrazionali del sangue, della nazio-ne, della razza bianca”, aggiungendo che lastoria non vuole proporre idealizzazioni di“eroi improponibili”, di cui ci si compiacetroppo spesso, perché la storia “concorreinvece a cercare e riconoscere in sé espe-rienze e valori, così come li hanno sentiti,vissuti, interpretati nel costume originariodella loro vita coloro che possiamo conside-rare nostri padri, nella storia civile e nellafede dell’antica Chiesa di Aquileia” (p.411).A Gorizia e precisamente all’Istituto di Sto-ria sociale e religiosa, con cui Peri ha colla-

borato in vari modi, egli ha donato uno deisuoi contributi “spoletini”, L’ingresso degliSlavi nella cristianità altomedievale europea,riedito in La cristianizzazione degli Slavi nel-l’arco Alpino orientale (secoli VI-IX), Gori-zia-Roma 2005, pp. 11-76. Ed è un altro ri-torno alla sua terra intesa sia come anello dicongiunzione col mondo centroeuropeo,con implicazioni civili, sia per la sua com-plessità di cui vive e per cui si identifica,senza rifiuti pregiudiziali degli altri che sitrasformerebbero in rifiuti di se stessi.

Vittorio Peri, che tante volte era venuto aGorizia per offrire la sua collaborazione eche a Gorizia aveva ricevuto nel 1982 il si-gillo d’oro della Città e poi nel 2002 il pre-mio “Sant’Ilario”, è scomparso il 1° genna-io di quest’anno ed è ritornato per riposareaccanto ai Suoi ma non ci ha lasciato deltutto, rimanendo con la sua bella personali-tà, con la nostra stima affettuosa e con i mo-delli che ha voluto definire e che ci ha affi-dato con il suo insegnamento e con i suoiscritti.Riprendendo i riferimenti iniziali a mons.Luigi Fogar e trovando confermata una se-rie di parallelismi, anzitutto morali, con lostesso “Vichi”, piace chiudere il discorsoapplicando a Vittorio Peri ciò che egli stes-so dice del grande vescovo goriziano: “Friu-lano di cuore, il suo animo rimase quello diun grande cristiano europeo, legato alla tra-dizione e in notevole anticipo sui tempi” (p.35).

Si ringrazianole signore Enrica Saletti Calderini

(per le prime due fotografie)ed Edda Polesi Cossar

(per la terza fotografia).

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Estratto dalla Mappa Suppletoria della Città di Gorizia - 1822. Settore Gestione Urbanistica del Comune di Gorizia.

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RICERCHE STORICHE

Diego KuzminLa strada dei Lantieri

La costruzione della ferrovia Meridionaleprima e quella della Transalpina poi, a cau-sa della relativa lontananza delle rispettivestazioni dal centro cittadino (dovuta a moti-vazioni tecniche provocate dalla situazioneorografica) determinarono un deciso incre-mento dello sviluppo urbano, proiettandoai primi del novecento Gorizia verso la suaforma attuale, estesa lungo la promenadedel Corso e la strada di Salcano, ben oltre ilimiti dimensionali che la città presentavaun secolo prima e che a lungo aveva conser-vato.La nuova condizione di facile collegamentotra il centro e i quartieri allora periferici,non ebbe a verificarsi nel riguardo del bor-go San Rocco, il cui abitato continuò a ri-manere separato dalla città storica e da que-sta diviso da quell’ostacolo rappresentatodalla vasta pertinenza agricola di PalazzoLantieri. Come racconta Luisa Codellia[1],per raggiungere la piazza Sant’Antonio(luogo dove si trovava il Mercato copertoprogettato dal de Claricini) era necessariopercorrere la androna del Pozzo, una stra-

dicciola che dalla via Lunga portava alla vil-la Boeckmann (grosso modo il tracciato del-la via Svevo) e da qui imboccare l’attualestrada che, costeggiando la villa, collega ilSeminario-Università con la via Dreossi (og-gi Alviano) e quindi con la piazza.Un percorso alternativo, era rappresentatodal tragitto che dalla piazza Duomo condu-ceva a piazza San Rocco attraverso le vie Ra-batta, Vogel (poi Baiamonti) e Parcar, anchequesto però disagevole a causa della relativalontananza rispetto il sistema costituito dal-le tre principali piazze cittadine Sant’Anto-nio, Duomo e il Travnik, per il tramite dellavia Rastello. Emergeva quindi il bisogno diindividuare un collegamento più breve,concretizzatosi poi nel 1913 con la realizza-zione della via Lantieri a dividere in dueparti l’ampia Braida, rendendone così pos-sibile anche l’utilizzazione a scopo edifica-torio della medesima, come si evince dalpiano parcellare dell’area, redatto nel lugliodel 1910 dall’ingegnere edile e geometraPippan, che prevedeva ben 56 lotti da circa800 metri quadrati l’uno, proposta rimasta

[1] Borc San Roc n.11 -novembre 1999.

Tra le ultime grandi opere urbanistiche realizzate in città prima delgrande conflitto mondiale, il collegamento diretto tra la piazza SanRocco e la piazza Sant’Antonio

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Diego KuzminLa strada dei Lantieri

RICERCHE STORICHE

poi sulla carta.Com’è noto, la costruzione della strada èstata resa possibile sacrificando parte note-vole della Schönhaus che prospettava sullapiazza Sant’Antonio, nonché due edifici ru-stici che affacciavano alla piazza di San Roc-co dei quali, di quello abitato dalla famigliaZottig, ancora oggi si conserva un vecchiogelso bicentenario sull’angolo con la viaLunga, una pianta che come Liliana Mlakarauspicava ancora tre anni fa[2], va potata,curata e tutelata come un monumento, a te-stimonianza di quel passato contadino che ècaratteristica del Borgo.Nel tempo, su questi campi resi finalmenteaccessibili, trovò posto nel primo dopo-guerra lo stadio cittadino, ben presto corre-dato dalla tribuna attrezzata, elegantementeprogettata dall’ing. Ghira nel 1930 e co-

struita in soli tre mesi dal Municipio. Il nuo-vo campo sportivo del Littorio è stato poioggetto nel 1979 di un intervento di restau-ro, eseguito con ammirevole coerenza dagliUffici tecnici comunali, in occasione delquale è stato anche perfezionato l’acquistodel terreno che ancora risultava in proprie-tà al Conte Carlo Ermanno Levetzow Lan-tieri.Il primo atto ufficiale circa la realizzazionedella nuova viabilità, va riferito alla deliberadel Consiglio Comunale del 28 dicembredel 1907, nella quale veniva decisa la demo-lizione del Mercato coperto di piazza San-t’Antonio, la realizzazione appunto di que-sta nuovo asse viario e l’accensione di unmutuo di 50.000 corone a coprirne le spesedi costruzione. Passa il tempo e il dibattitosulla nuova strada si fa sempre più animato,

[2] Borc San Roc n.15 -novembre 2003.

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Campo sportivo di via Lantieri prima del nuovo stadio Littorio. Fototeca dei Musei Provinciali di Gorizia

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di tale fervore ben percepibile nella relazio-ne portata al Consiglio Comunale il 30 no-vembre del 1910, dove si illustrano partedelle vicende che hanno accompagnatoquesto collegamento stradale, ma ancor dipiù ci fa capire del carattere orgoglioso, ca-parbio e pugnace della Contessa Clementi-na di allora (*15.9.1838 +post 1916)[3],nonna della Clementina attuale.Notevole importanza presentano oggi i di-segni[4] che stanno a corredo della querellerelazionata, uno studio redatto da AugustoCostantini, che Emanuela Uccello ci descri-ve quale progettista piuttosto noto in cittàper la sua vasta produzione di eleganti villi-ni di abitazione[5]. Gli elaborati, datati giugno del 1910, eranoutili a rappresentare una situazione alterna-tiva rispetto alla demolizione dell’immobile

fin dall’inizio ipotizzata, mediante il ricavodi un sottopasso in luogo delle stanze alpian terreno. E’ un documento interessante,in quanto essendo frutto di un rilievo del-l’epoca, ci permette di conoscere come sipresentava la Schönhaus prima della suaparziale demolizione. La corte “alta” delpalazzo era infatti edificata sui tre lati equello che occupava l’attuale sede stradale,presentava al pianterreno un ampio loggia-to dotato, come i vani al piano terra e quel-li sotterranei, di volte incrociate di notevolefattura.Nell’adattamento progettuale, la conserva-zione al pian terreno della struttura portan-te di spina longitudinale, necessaria al finedi sostenere la costruzione sovrastante, hapredeterminato un sottopasso suddiviso indue settori dei quali, volgendo le spalle alla

[3]www.sardimpex.com/Files%203/LANTIERI.htm.

[4] Archivio Storico Gorizia -Fondo del Comune - busta1520.

[5] Consorzio “Svoj Dom” inOttocento Goriziano - EditriceGoriziana, 1991.

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Il nuovo recinto della Schönhaus dopo l’apertura di via Lantieri. Foto dell’autore.

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Diego KuzminLa strada dei Lantieri

RICERCHE STORICHE

piazza Sant’Antonio, quello sulla destraavrebbe avuto una larghezza di mt. 4,30 (diquesti 2,00 riservati al marciapiede), mentrequello di sinistra largo 7,50 avrebbe dovutoconsentire il traffico carrabile nei due sensi.Tale diverso dimensionamento, avrebbe poideterminato nella costruzione della nuovafacciata verso la piazza, la realizzazione alpianterreno di due arcate di diversa lar-ghezza, abbastanza stridenti rispetto l’im-posta simmetria del prospetto al primo pia-no, col relativo coronamento posticcio delprogetto del Costantini. Tutte le volte deisoffitti sarebbero poi state sacrificate e rim-piazzate con un solaio orizzontale, capacedi permettere un agevole passaggio di circaquattro metri d’altezza.Alla fine il lungo braccio di ferro tra la Con-

tessa Clementina e il Municipio rappresen-tato dal podestà Giorgio Bombig, sfociatoormai in aspro contenzioso, si conclude al-l’udienza del 25 ottobre 1911 con una tran-sazione tra le parti, che permette al CivicoUfficio Edile di approntare una nuova pro-gettazione nel febbraio dell’anno successi-vo. Effettuata la gara d’appalto, i lavori sisvolgono durante il 1913 a cura della dittaCucchi Giovanni, che nel gennaio del ‘14 sivede liquidate le spettanze di competenza.Dei quattro grandi archi che guardavano algiardino, oggi rimangono superstiti e mutitestimoni gli evidenti pilastri in repen chia-ro, inglobati nel muro in pietra a vista dellanuova recintazione sulla via Lantieri.

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Piano di Parcellazione della Braida Lantieri - 1911. Settore Gestione del Territorio del Comune di Gorizia.

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RELAZIONE N° 22135/1910

Inclito Consiglio

Con dichiarazione impegnativa assunta nel protocollo municipale dd. 1 Aprile 1909 al N° 930la signora Clementina baronessa Levetzow, nata contessa Lanthieri, in relazione al conchiu-so consigliare del 28 dicembre 1907, giusta il quale venne in massima deliberata la costruzio-ne, per opera del Comune, di una strada attraverso i fondi Lanthieri che da P.S.Antonio met-ta al borgo di S.Rocco, sopra area da porsi all’uopo gratuita disposizione da parte di essa si-gnora, quale iscritta proprietaria, la medesima si obbligava di ceder gratuitamente le particel-le di suoi fondi che occorrevano per costruire la mentovata strada, particelle specificatamenteindicate nel suddetto protocollo e graficamente delineate nel piano annesso al protocollo stes-so.Si obbligava in pari tempo di cedere pure gratuitamente della part. Di fabbrica 1059/1 quel-la porzione di fondo che era necessaria per l’imbocco della via da P.S.Antonio, previo abatti-mento a carico e spese della signora cedente del fabbricato che attualmente si trova eretto sudetta particella in quanto il piudetto fabbricato occupi la porzione da cedersi ed uguale obbli-

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Piano dell’appendice al Castello Lanthieri, in Piazza S.Antonio a Gorizia - 1910. Archivio di Stato, Gorizia.

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RICERCHE STORICHE

go assumeva rispetto la part. Di fabbrica 1068/3, vale a dire doveva essa abbattere a propriespese la casetta colonica prospettante la P.S.Rocco per permettere lo sbocco da quella parte del-la progettata nuova strada.Il Comune dal canto suo proprio si obbligava di costruire a regola d’arte la strada progettata,a proprie spese ed in conformità al piano; di canalizzarla e d’illuminarla; d’iniziare i lavori to-sto provata la cancellazione degli aggravi sui fondi da cedersi e con ciò che il lavoro sia ulti-mato entro il 1910.Codest’Inclito Consiglio approvava nella seduta del 16 Decembre 1909 il progetto di detta-glio elaborato sulla base del premesso convegno placidando all’effetto della costruzione la spe-sa di Cor. 32927.90.La baronessa Levetzov con decreto del 22 Decembre 1909 venne invitata di mettere tosto adisposizione gli appezzamenti di terreno che essa si era impegnata di cedere e la stessa non so-lo si oppose al decreto, ma anzi non potendo tosto provvedere alla cancellazione delle ipote-che che aggravavano gli appezzamenti stessi, onde render possibile il pronto inizio dei lavoririlasciava un’interinale dichiarazione colla quale si obbligava d’indennizzare il Comune diogni eventuale danno che egli avesse potuto derivare dalle susistenti ipoteche, la cancellazio-ne delle quali in ogni caso diceva di conseguire per il 1 luglio 1910.Dalla premessa dichiarazione, da ripetute ulteriori estrinsecazioni scritte e verbali, dal fattoche la baronessa Levetzov mise effettivamente a disposizione gli appezzamenti di fondo inter-ni sui quali doveva esser costruita la strada; dal fatto che, con adesione della prelodata signo-ra il Comune potè eseguire, come eseguì nell’interno lo sterro, la livellazione del piano stra-dale e la costruzione di 3 tombini, dimostrano all’evidenza che Essa era pienamente consen-ziente colla costruzione giusta le pattuite condizioni.Senonchè alli 18 agosto 1910 la baronessa Levetzov presentava un’istanza con la quale rile-vando gli enormi danni che le sarebbero derivati dalla demolizione delle due case, una inP.S.Antonio, l’altra nella P.S.Rocco ed accentuando come essa contribuì già in modo largo al-l’apertura della nuova strada chiedeva che si prescindesse dalla demolizione della casa diP.S.Antonio e si volesse permetterle di costruire in luogo della demolizione un sottopassaggioprovvisorio per la casa, sottopassaggio che avrebbe dovuto aver la durata massima di 10 anni.Quantunque ciò non corrispondesse né ai patti né alle convenienze estetiche della nuova stra-da, pur pure sulla istanza si avrebbe potuto eventualmente trattare e vedere se forse almenoparzialmente non si avesse potuto farvi luogo.Ma prima che venisse presa una decisione qualsiasi la producente ritirava l’istanza ed a mez-zo d’avvocato faceva pervenire altro atto con cui contestava la validità delle impegnative del? 1909, dichiarandosi però pronta ad una regolazione amichevole della vertenza, proponendocon successivo atto, l’apertura del sottopassaggio, però a tempo indeterminato e con ciò che lespese per lo sgombero del materiale derivante dalla demolizione stieno a carico del Comuneed in quanto alla casa colonica di P.S.Rocco, che tanto la demolizione, quanto lo sgombero deimateriali sia pure effettuato a spese del Comune e che questo abbuoni il prezzo di stima del-la casa stessa.Rescrittole che sulle prefate basi non si avrebbe potuto trattare ed, eccitata a fare eventual-mente altre condizioni accettabili, la baronessa Levetzov evitò una dichiarazione diretta col

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chiedere la comunicazione da parte del Comune di una controproposta.Poiché da tutte le premesse tergiversazioni chiara apparisce l’intenzione della baronessa di vo-lersi sottrarre ad impegni formalmente presi, non resta altra via che d’impetirla per manuten-zione di contratto.Col voto pertanto della Commissione legale mi onoro di proporre che codest’Inclito Consigliovoti:Nei riguardi della costruzione della progettata strada di congiunzione dalle P.S.Antonio eS.Rocco attraverso i fondi Lanthieri, in conformità al progetto approvato nella seduta consi-gliare del 6/XII 1909, è adottato d’insorgere in via petitoria contro la bar.Clementina Levet-zov punto manutenzione degli impegni dalla stessa assunti col protocollo d.d. 1 aprile 1909,esibito municipale N° 930.Gorizia, 30 novembre 1910

Il Relatore:(firma assente)

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Prospetto e sezione del sottopassaggio alla nuova via Lantieri - 1910. Archivio di Stato, Gorizia.

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RICERCHE STORICHE

Luana de FranciscoRitratto di Cassandra,paladina di Gorizia redenta

Un temperamento ardente, colmo di pre-murosa attenzione verso i bambini che edu-cava nella sua attività di insegnante, mapronto anche a slanci improvvisi e appas-sionati di fronte ai temi che le stavano più acuore e che investivano la storia e le sortidella sua cara patria. È così che Jolanda Pi-sani “Cassandra” si presenta agli occhi dichi, a quasi trent’anni dalla sua morte, cer-ca di accostarsi alla sua vita di maestra,giornalista, scrittrice e poetessa, ma ancorprima di fervida patriota, nel tentativo ditratteggiarne la complessa figura ed esami-narne la parte di lavoro che la vide impe-gnata dal 1945 al 1947. Ricostruita attraver-so i suoi scritti e i ricordi attinti tra alcunidi coloro che la conobbero, l’immagine chedi lei si configura non fatica a imporsi sullascena cittadina come una delle icone delNovecento goriziano, martoriato da dueguerre mondiali e dai rispettivi dopoguer-ra, ch’ella descrisse e cantò sempre, nellaprosa così come nella poesia, con toni vi-branti e fede patriottica[1]. Morta senza eredi, Jolanda Pisani conservò

sempre un velo di mistero sulla propria fa-miglia e la vita privata. Proprio lei, che tan-ti “medaglioni” aveva dedicato ai perso-naggi illustri della città di cui fieramentevantava i natali, preferì tramandare di sésoprattutto l’immagine pubblica che le de-rivava dall’attività di pubblicista, scrittricee poetessa, oltre che di militante nel Parti-to Repubblicano e di instancabile sosteni-trice degli ideali nazionali. Fu lei a decide-re che, dopo la sua morte, i manoscritti, gliarticoli (quelli pubblicati e quelli rimastisui fogli dei suoi quaderni), gli appunti e lealtre notizie sparse raccolte in anni di stu-dio e ricerca, sarebbero stati donati all’Ar-chivio storico provinciale di Gorizia, peressere conservati in un Fondo denominato“Cassandra”, lo pseudonimo che ella stessascelse per firmare gli articoli di giornale.Una sezione espressamente dedicata allasua vita privata (corrispondenza, documen-ti finanziari-amministrativi, tessere, foto-grafie, diari e altro ancora), in realtà, è con-fluita nel Fondo ma, proprio perché si trat-ta di materiale personale, dovranno tra-

[1] Il suo nome figura sia inDonne per Gorizia, a cura diAntonella Gallarotti, pp.95-96,sia nel volume Personaggigoriziani del Millennio, diAntonella Gallarotti, pp.81-82.

Giornalista, scrittrice e maestra, figlia di genitori sloveni, Iolanda Pi-sani si battè per l’italianità del capoluogo isontino

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Luana de FranciscoRitratto di Cassandra, paladina di Gorizia redenta

RICERCHE STORICHE

scorrere ancora diversi anni (settanta dalladata di morte della titolare degli incarta-menti) prima di poter essere utilizzato co-me fonte primaria di studio ed analisi.Nata a Gorizia, nel borgo San Rocco, l’11giugno 1915, Jolanda Pisani frequentò lascuola magistrale delle Orsoline. Una ricer-ca condotta nell'archivio dell'Ufficio Ana-grafe del Comune di Gorizia ha permessodi risalire alle origini dei suoi genitori. Ilpadre, che di cognome faceva Pusner (mache su alcuni documenti compare nella va-riante Punar e in altri senza la “pipetta”sulla lettera “s”), era nativo di San Floria-no, una frazione a una decina di chilometrida Gorizia. La madre si chiamava inveceStergar ed era originaria di Volzana (oggiVolce, una località nei pressi di Tolmino).Entrambi i cognomi denotano l’origine slo-vena sia della famiglia paterna, sia di quellamaterna. Il cognome del padre, che fu poiquello con cui fu battezzata Jolanda, fusuccessivamente italianizzato in Pisani.Della famiglia facevano parte anche tre fi-gli, tutti maschi: i primi due, morti prema-turamente (uno a undici giorni dalla nasci-ta e l'altro a sei mesi), il terzo, ancora celi-be, nel 1941. Anche Jolanda, come il fratel-lo, invecchierà senza sposarsi, lasciando co-sì la stirpe senza discendenti.Dal 1937 al 1967 prestò servizio come mae-stra alle scuole materne comunali. Del suoimpegno all'asilo infantile di via Codelli,nel 1950, resta memoria in un articolo digiornale dedicato alle qualità didattichedelle insegnati e alle attività artistiche deglialunni, nel quale “la signorina Jolanda Pisa-ni” era indicata come la maestra “dei piùgrandicelli, con età variabile tra i 5 e i 6 an-ni e mezzo, che avevano allestito una mo-stra di disegni colorati”[2]. Diversi anni piùtardi, un altro quotidiano locale ricorderà

invece il periodo trascorso dalla Pisani al-l'asilo di Straccis. “Un’assistenza davveromaterna - si legge - essa aveva prodigato aipiccoli durante i duri, difficili anni dell'ul-tima guerra. E quando sinistre ululavano lesirene d'allarme, sua prima cura era quelladi riaffidare subito i bimbi alle famiglie o,in caso estremo, portarli al rifugio; non sen-za trascurare peraltro, nel frattempo, lapreparazione della colazione per tutti”[3].Tale e tanta fu la cura con la quale svolse ilproprio lavoro, che all’atto della quiescen-za il sindaco di Gorizia, Michele Martina,la insignì della medaglia d'oro assegnatadall'amministrazione comunale ai dipen-denti benemeriti. Il suo amore per il mon-do dei bambini è testimoniato anche da unaltro articolo di giornale sulla visita ai pic-coli orfani ospiti dell'Istituto Lenassi, inqualità di rappresentante dell’Associazionedella Stampa.La sua attività di giornalista sui quotidianie i periodici locali cominciò nel 1945. Esor-dì sulle colonne de “Il Lunedì” e ben pre-sto allacciò collaborazioni anche con “LaVoce Libera”, il “Giornale di Trieste” e il“Messaggero Veneto”, cioè con i principaligiornali d'impianto nazionale. Seguirono lepubblicazioni su “Il Gazzettino”, “Il Gaz-zettino del Lunedì” e, una volta reintegratonelle sue funzioni di quotidiano di riferi-mento del capoluogo giuliano, con Triestedi nuovo sotto l'amministrazione italiana,“Il Piccolo”. L’elenco delle collaborazioni,sparse e discontinue, contiene numerose al-tre testate. E si tratta di giornali anche mol-to diversi tra loro per carattere e tendenza:da quelli democratici, come “L’emancipa-zione” e “L’idea repubblicana”, a quellireazionari, appunto come il “MessaggeroVeneto” e “Il Piccolo” dei primi anni, aquelli dichiaratamente fascisti come “Il Se-

[2] Agli occhi dei nostribimbi tutte le cose sembrano

belle, in “MessaggeroVeneto”, 23 giugno 1950.

[3] Medaglia del Comune aIolanda Pisani, in “Il Piccolo”,

4 aprile 1967.

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colo d'Italia” e “Primalinea”, a quelli d'im-pianto nazionale come “Il Lunedì” e “L’In-formatore”. Sua l’ideazione, nel marzo del1950, de “La Scuola”, quindicinale editodalla scuola media femminile di viale XXSettembre, per offrire “una palestra cultu-rale aperta alla collaborazione degli studen-ti e degli insegnanti”[4]. Accanto agli artico-li di cronaca, per la verità i meno numero-si, Cassandra, che divorava libri ed eraun’assidua frequentatrice di biblioteche,proponeva soprattutto approfondimenti le-gati alle vicende e ai personaggi della storialocale.È il caso della serie di profili (26 per l’esat-tezza) di goriziani caduti per la causa italia-na e per l’italianità della loro terra nel cor-so della Grande guerra, che fu inserita nelvolumetto Gorizia 1916-1956, edito a curadella Sezione di Santa Gorizia della Com-pagnia volontari giuliani, fiumani e dalma-ti, in occasione del 40° anniversario dellaLiberazione della Città martire (8 agosto1956). Altrettanto dicasi per Ricordo di Od-done Lenassi, stampato nel 40° anniversariodella morte del benefattore goriziano, nel1967. Suoi anche La stampa a Gorizia dal1800 ai giorni nostri, pubblicato sul XIXvolume della collana “Studi goriziani”, del1956, e Un illustre scienziato dimenticato:Pietro Blaserna, uscito invece sul XXIII vo-lume della stessa collana, nel 1958. Diverse,inoltre, le ricognizioni condotte nel campodell'urbanistica e dell'architettura cittadinee che il Comune fece confluire nei propriBollettini di statistica: Toponomastica citta-dina, del febbraio 1960, Antiche case e pa-lazzi goriziani, del settembre e del novem-bre 1966, Le chiese di Gorizia, del dicembre1966. Fu invece su espresso incarico dellaGiunta della Camera di commercio, indu-stria e agricoltura che la Pisani raccolse e

riordinò le informazioni e i dati concernen-ti la storia dell'ente camerale dalla sua co-stituzione, nel 1850, fino al 1920.A segnalarsi, nella sua produzione lettera-ria, fu soprattutto il diario Gorizia dalla cro-ce uncinata alla stella rossa, rimasto ineditoe tuttavia utilizzato da più d’uno storiogra-fo d’età contemporanea per la ricostruzio-ne delle vicende goriziane del periodo bel-lico[5]. L’opera, come ebbe a spiegare la Pi-sani stessa in risposta a un cronista nel1962, “descrive nei minimi particolari tuttigli avvenimenti che si svolsero a Gorizia eanche in altre località del Friuli e della Ve-nezia Giulia dall’8 settembre 1943 al 12giugno 1945. Una copia del dattiloscritto -spiegava ancora Pisani - è conservata nel-l'archivio della Deputazione regionale perla storia del Movimento di Liberazione Ita-liana nella Venezia Giulia. Un’altra è depo-sitata nella biblioteca provinciale e la terzaè stata consegnata un mese fa al professorGuido Manzini, direttore della bibliotecagovernativa e civica e della rivista “Studigoriziani”. Il lavoro per le ricerche è dura-to più di un anno, si è svolto nelle provincedi Gorizia, Trieste e Udine. Sono stati in-tervistati Enti e Associazioni e una settanti-na di persone che hanno avuto una notevo-le posizione politica e militare nei più di-versi e contrastanti settori della tragica bar-ricata: esponenti della Rsi e della Resisten-za, degli slavi bianchi e rossi, dei tedeschi edei badogliani, generali, sacerdoti, il contePace, prefetto di Gorizia dal 1943 al 30aprile 1945, ecc”[6]. I nuclei tematici attorno ai quali ruota l’in-teresse pubblicistico della Pisani, in parti-colare nel periodo compreso tra la cessazio-ne delle ostilità e le prime elezioni ammini-strative a Gorizia, nell'ottobre del 1948, so-no essenzialmente tre. Innanzitutto, la que-

[4] La Scuola, in “Il Giornale diTrieste”, 31 marzo 1950.

[5] Cfr, in particolare, LucioFabi in Storia di Gorizia, cit.,pp.175-177, 181-182, 185-189, 191-192, 196.

[6] Lettere al cronista, in “IlGazzettino”, 21 giugno 1962.

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Luana de FranciscoRitratto di Cassandra, paladina di Gorizia redenta

RICERCHE STORICHE

stione nazionale e dell’italianità di Gorizia,per le quali Cassandra scrisse pagine cari-che di enfasi e amor di patria, spingendosispesso fino ai limiti con la forma poetica.Vale la pena di ricordare che la città de-scritta e gli anni che la incorniciano sonoquelli difficili che la videro subire prima i“quaranta giorni” dell’occupazione jugo-slava e, poi, i circa due anni di amministra-

zione militare alleata. Il ricongiungimentoall’Italia o, come in molti la definirono, la“seconda redenzione” di Gorizia (dopoquella del 1916), arriverà soltanto nel set-tembre del 1947, con la ratifica del Tratta-to di pace di Parigi, un accordo peraltro ac-colto senza entusiasmo e, anzi, nella gene-rale convinzione di essere stati mutilati diuna parte significativa del proprio territo-

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I frontespizi di due opere curate da Iolanda Pisani e conservate nella Biblioteca Civica di Gorizia.

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rio.Al filone sullaquestione nazio-nale si collega eintreccia il temadell’antislavismoe dell’inimiciziatra l’Italia e laJugoslavia, cheanche dopo l’al-lontanamentodell’esercito ju-goslavo dalla cit-tà continuerà afomentare pole-miche e scontripolitici e a tra-scinare in piazzala popolazione.Nonostante learmi, almenof o r m a l m e n t e ,fossero state de-poste, infatti, nelperiodo che videle Grandi poten-ze lavorare alladefinizione delnuovo assettogeopolitico dadare all’Europa,a Gorizia e lun-go tutta la fascia

confinaria la tensione restava alta. E ad ali-mentarla, oltre agli episodi di violenza e aisoprusi che continuavano a puntellare la vi-ta quotidiana della città e che erano spessomanovrati dalle organizzazioni costituitesi(Agi e Divisione Gorizia) o ricostituitesi(Lega Nazionale) proprio al fine di argina-re e contrastare le rivendicazioni jugoslave,erano i numerosi articoli di giornale che la

stampa locale apertamente schierata perl’una o per l’altra parte volentieri ospitavaper cavalcare e aizzare l’odio etnico esacer-bato dal conflitto e dall’occupazione italia-na della Jugoslavia prima e jugoslava dellaVenezia Giulia dopo. Jolanda Pisani era tracoloro che scrivevano per l’affermazionenazionale italiana e, in particolare, per ildefinitivo riconoscimento del carattere ita-liano di Gorizia. Ma questa posizione leaveva spesso attirato contro le critiche dilettori appartenenti allo schieramento poli-tico o a una tradizione culturale diversi daisuoi. Quelli adoperati da Cassandra, d’altraparte, erano toni veramente duri: una sortadi monito contro il pericolo che la popola-zione italiana, a suo avviso, correva a causadi quello che definiva “il mai riposto impe-rialismo slavo”. Infine, inserendosi in uno dei dibattiti piùsentiti in quel particolare momento storico,la Pisani affronta anche la questione legataalla concessione dello Statuto di autonomiaalla Regione Friuli-Venezia Giulia, chel’Assemblea Costituente maturò su consi-derazioni legate alla forte presenza di unaminoranza linguistica slovena sul territorioe all’esigenza di garantire la possibilità difuturi accordi con i Paesi confinanti, mache larga parte dell’opinione pubblica, leicompresa, paventava potesse portare a unindebolimento dello Stato proprio laddove,in presenza di un confine tanto delicato edi uno Stato (la Jugoslavia) deciso a riven-dicare la “paternità” delle vicine terre abi-tate da una numerosa comunità di sloveni,la sua presenza sembrava tanto più necessa-ria.Sensibile alle diffuse difficoltà e ai tanti ca-si di indigenza che vedeva crescere attornoa sé, ma diremmo anche pronta a coglierepure in una situazione di generale stagna-

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La cronaca de “Il Piccolo”diede conto dei funerali diCassandra.

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Luana de FranciscoRitratto di Cassandra, paladina di Gorizia redenta

RICERCHE STORICHE

zione economica il pretesto per scaricaresull’avversario di sempre - gli slavo-comu-nisti - le colpe di un dissesto in sé e di persé oggettivo, Cassandra dedicò un buonnumero di articoli anche alla materia eco-nomica. Lo fece sul finire del '47, ma ancordi più all’approssimarsi delle elezioni poli-tiche, trovando sempre una sponda favore-vole nei giornali che sostenevano tesi assaisimili alle sue. L’Isontino descritto è quellouscito economicamente prostrato dallaguerra, anche a seguito della perdita deidue terzi del territorio sul quale la città,prima della ridefinizione dei confini, avevaesteso la propria amministrazione e dalquale aveva tratto risorse preziose allo svi-luppo della propria popolazione. I fattoridi criticità, comuni a qualsiasi altra parted’Italia - disoccupazione, aumento deiprezzi, penuria di alloggi -, a Gorizia assun-sero, quindi, proporzioni più vaste che nelresto della penisola, comportando la richie-sta al governo di Roma di interventi strut-turali ancora più mirati (come per esempiol’introduzione della Zona franca).Menzionata nel Dizionario delle scrittriciitaliane contemporanee del 1958[7], Jolan-da Pisani si dilettò anche nell’elaborazionedi alcuni componimenti poetici, riscuoten-do plausi dentro e fuori città. Tra gli altri,quello di Clelia Garibaldi, congiunta del-l’Eroe dei due mondi, alla quale la Pisaniaveva inviato alcune poesie di ispirato pa-triottismo. Un omaggio al quale, nel 1952,da Caprera, la signora Garibaldi risposecon parole di gratitudine. “Le poesie cheLei mi ha mandato - scrisse - hanno trova-to profonda eco nel mio cuore, che arden-temente altro non brama che rivedere Trie-ste italiana e il ritorno di tutta l'Istria allaMadrepatria, oggi più che mai in lotta peril riscatto dei suoi più sacrosanti diritti

usurpati e calpestati da iniqua gente e davolgari assassini”.Attiva su più fronti, la Pisani occupò diver-si incarichi. Per quel che riguarda l’attivitàgiornalistica, fece parte del Consiglio diret-tivo del Circolo della Stampa di Gorizia,funzionante dal 1945 al 1947 e presiedutodal professor Mario Digiannantonio, men-tre nel 1971 l’Accademia tibertina di Romadecretò di annoverarla tra i propri membri(scrittori, artisti, uomini politici e prelati),in qualità di accademico associato. Appas-sionata paladina dell’italianità di Gorizia,radicalmente anticomunista e, come conse-guenza di ciò, antislava, Cassandra si di-stinse anche sul piano dell’impegno politi-co, che palesò esponendosi pubblicamentesia attraverso gli articoli di giornale, sia at-traverso la militanza all’interno del Comita-to di Liberazione Nazionale di Gorizia peril Partito d’Azione, tra il 1946 e il 1947.Vissuta sempre a Gorizia, per un certo pe-riodo Jolanda Pisani divise la propria resi-denza tra piazza San Rocco, dove occupavaun alloggio posto sopra il forno del panet-tiere, e un appartamento di via Garibaldi,dove si trasferiva di preferenza nei mesiestivi. Persona schiva e, agli occhi dei vici-ni, talvolta stravagante nei modi e nel com-portamento, era conosciuta sia per la suaattività d'insegnante (chi l’ha avuta comemaestra, in via Codelli, ricorda ancora le“pagelline” che compilava durante l’annoper valutare i progressi dei propri alunni),sia per i suoi articoli di giornale (che peral-tro la Pisani stessa non mancava di segnala-re a vicini e conoscenti, ogniqualvolta neveniva pubblicato uno). Da una parte, dun-que, la maestra Pisani e, dall’altra, la gior-nalista Cassandra, come volle soprannomi-narsi ella stessa, prevedendo forse che lapropria voce, pregna di moniti e raccoman-

[7] Il giornale letterario,febbraio 1958: “Dizionario

delle scrittrici italianecontemporanee”

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dazioni contro gli “attentati” all’italianità,sarebbe rimasta inascoltata, proprio comeil dio Apollo decise per la propria sacerdo-tessa troiana. Jolanda Pisani morirà nel1978, nella stessa città che l’aveva vista na-scere. Al suo funerale, celebrato il 15 apri-le, parteciperanno numerosi estimatori econoscenti e l’assessore regionale Gino Co-cianni. Sulla sua tomba, tumulata nel cimi-tero centrale di Gorizia, nella quinta filadel primo campo di sinistra, accanto al no-me di battesimo è stato scolpito anchequello di fantasia: Cassandra, appunto, im-mortale come gli ideali per i quali si batté

per tutta la vita. Nessuna traccia, invece,del cognome originario, che denota la“contaminazione” slava delle sue origini(padre Pusner, nativo di San Floriano, emadre Stergar, originaria di Volzana) e cheil regime fascista impose alla famiglia d’ita-lianizzare. Una “macchia” - quella dell’ap-partenenza alla tanto vituperata “genia sla-va” - della quale evidentemente Cassandravolle liberarsi, vista l’assenza, a ventennioconcluso e democrazia riabilitata, di unasua qualsiasi iniziativa volta a ottenere il ri-pristino dell’originaria forma del cognomepaterno.

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La firma della giornalista e scrittrice nata a San Rocco così come è riportata in calce ad alcuni scritti conservati nellaBiblioteca Civica di Gorizia.

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Stemma cardinalizio di Monsignor Jakob Missia.

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RICERCHE STORICHE

Vanni FeresinL’Arcidiocesi di Goriziatra Ottocento e Novecento

Il 25 marzo 1906 mons. Francisek BorgiaSedej veniva solennemente consacrato Arci-vescovo di Gorizia per mano di Lorenz Ma-yer, Rettore dell’Augustineum (Collegioistituito a Vienna nel 1817, anche dettoFrintaneum dal nome del suo fondatore, alquale sino al 1918 ogni diocesi inviava i suoichierici intellettualmente più dotati) e daiVescovi Franz Xaver Nagl di Trieste, AntonJeglic di Lubiana e Anton Mahnic di Veglia.Guiderà la diocesi per 25 anni passando at-traverso la grande vitalità culturale dei pri-mi del secolo, la prima guerra mondiale, ilfascismo, le pesanti critiche e le forzate di-missioni del 1931. Una figura controversache fin dall’inizio del suo mandato episco-pale farà parlare di sé: troppo giovane permolti (solo 51 anni) ma già con una lungaesperienza di parroco della cattedrale e dicollaboratore e segretario del cardinal Gia-como Missia, destinatario di pesanti attac-chi e di minacce di morte nel 1921 perchéritenuto filo austriaco.Per giungere, però, a quel giorno di cento

anni fa è necessario guardarsi un po’ indie-tro e precisamente alla fine del XIX secoloquando, dopo la morte di Mons. Zorn, 8 lu-glio 1897, divenne Arcivescovo di Gorizial’eminente e straordinaria personalità di Ja-kob Missia (nacque a Mota, Santa Croce diLuttemberg, in Stiria il 30 giugno del 1838,venne nominato vescovo di Lubiana nel1884, promosso alla diocesi di Gorizia il 28marzo 1898, creato cardinale il 19 giugnodel 1899, morì a Gorizia il 24 marzo 1902).La sua nomina è stata meta di vivaci discus-sioni e spesso si è detto, erroneamente, chefu solo per le strategie politiche di Viennache egli fu eletto Arcivescovo di Gorizia. Lascelta di Missia invece fu meditata a lungo erifletteva l’assoluta stima che egli godeva daparte dell’Imperatore, di Roma e di tutti ivescovi dell’Austria. Questa nomina, anchese criticata dagli ambienti patriottici, (Mis-sia fu definito a chiare lettere nemico delpopolo sloveno e filo austriaco) era la chia-ra risposta alla complessa situazione religio-sa e nazionale che viveva in quegli anni la

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Missia e Sedej, straordinari pastori di un’epoca esaltante e tragica

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Vanni FeresinL’Arcidiocesi di Gorizia tra Ottocento e Novecento

RICERCHE STORICHE

nostra diocesi. Sicuramente, dopo la tragicafine dell’episcopato di Zorn (dovette rasse-gnare le dimissioni a causa di una malattiamentale), Gorizia avrebbe ricevuto beneficidalla fermezza e dalla riconosciuta autoritàdi Missia. I soli quattro anni del suo episco-pato aprirono una nuova fase che si conclu-derà, sotto l’abile governo di Sedej, con latragedia della prima guerra mondiale.Missia riprese interamente la sua esperienzadi Lubiana (1884 - 1898) e la portò a Gori-zia. Il suo breve governo fu caratterizzatoda una grande spiritualità e dal caratteresquisitamente pastorale del suo agire, ciò sinota già dalla sua prima lettera alla diocesiquando mise a tema il S. Cuore di Gesù, fis-sandone anche la solenne consacrazionedell’Arcidiocesi per il 24 luglio 1898; inquell’ anno era sorto anche un movimentoper la costruzione di una cattedrale dedica-ta al Sacro Cuore, che doveva sorgere nel-l’area urbana a sud della città di Gorizia,proprio durante il giubileo imperiale diFrancesco Giuseppe I (cinquant’anni di re-gno). Missia fu un uomo sensibile sia allacultura che all’arte e ciò è dimostrato anchedalla costruzione della nuova ala del palaz-zo arcivescovile (1900), al cui centro collo-cò la cappella neoromanica, come del restofece già a Lubiana. Fu proprio lui a darel’avvio alla costruzione dell’imponente edi-ficio del seminario minore acquistando ilfondo e l’annessa Villa Boekmann (già At-tems - Sembler). Il momento più interessan-te del suo episcopato si ebbe quando PapaLeone XIII lo elevò alla dignità cardinalizia,il 19 giugno 1899, con il titolo di S. Stefanoal Monte Celio. Ieratico nel portamento,principesco e signorile nello stile, cercò disvolgere un ruolo di moderatore attento alcomplesso bene spirituale della diocesi;chiara e netta fu la sua opposizione al nazio-

nalismo che definì “paganesimo”. Il 29 set-tembre 1900 accolse con il canto del “TeDeum”, nella chiesa di Sant’Ignazio, l’Im-peratore Francesco Giuseppe I, per il quar-to centenario del passaggio della Principe-sca Contea agli Asburgo. Il suo instancabilelavoro si concluse prematuramente nel 1902e due ali di folla commosse, in una freddagiornata di marzo, lo accompagnarono nelsuo ultimo viaggio. La salma, per desideriodello stesso presule, fu inumata nel Santua-rio di Monte Santo, nell’antica cappella diSan Michele, dove fu collocato un altorilie-vo in marmo bianco raffigurante, in gran-dezza naturale, il porporato in ginocchio

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Rescritto imperiale a Monsignor Sedej della nomina dicappellano di corte.

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con la cappa magna; oggi tutto questo nonesiste più a causa dei gravi danni subiti dalsantuario mariano durante il primo conflit-to mondiale.

Alcune cronache dall’Eco del Litorale21 giugno 1899La presentazione dello zucchettoOggi a mezzogiorno il Conte Camillo Pecci,Guardia Nobile e nipote del S. Padre incari-cato da Lui a portare il zucchetto Cardinalizioa Sua Eminenza il nostro Principe Arcivesco-vo, muoveva dall’Hotel della Südbahn doveiersera avea preso alloggio, non potendo eglipresentarsi a Sua Eminenza prima d’aver

compiuto la Sua alta missione. Nella carrozzadi gala del Principe Arcivescovo sedeva il Sig.Conte e appresso il Segretario di S. Eminen-za. Seguiva un altro equipaggio dov’eranodue Camerieri del S. Padre mons. Kravanja emons. Gabrieucic. Giunte le carrozze al Pa-lazzo, al capo della scala attendeva il Came-riere d’onore del S. Padre, mons. Alpi, che in-trodusse il Conte Pecci negli appartamentidel Cardinale. S. Eminenza circondato dalRev.mo Capitolo, Professori del Seminario eclero cittadino, ricevette il Conte Pecci nellasala del trono. Si avanzò allora l’illustrissimaGuardia Nobile, tenendo in un piatto d’ar-gento lo zucchetto Cardinalizio. S. Eminenzaprende dal piatto lo zucchetto e se lo mettesul capo. Allora il Conte Pecci tiene una bre-ve allocuzione in cui dice che è incaricato dalS. Padre Leone XIII di presentare a Sua Emi-nenza il zucchetto di Cardinale come ora fa,porgendo insieme le sue più vive felicitazioni.S. Eminenza risponde che a quest’alto onorea cui venne destinato Egli china il capo allavolontà dell’augusto Gerarca della Chiesa esente tanto più il dovere di esprimere a Lui lasua più viva riconoscenza. Dipoi venne lettoil decreto di nomina della Segreteria di Stato.La cerimonia è compiuta. (…) All’una poi cifu il pranzo di gala e S. Eminenza fece unbrindisi a Sua Santità insieme a S. Maestà.

28 giugno 1899L’imposizione della berretta cardinaliziaOggi (27 giugno ndr) col più splendido ceri-moniale ebbe luogo nella Chiesa Parrocchia-le del Palazzo di Corte per mano dell’Arcidu-ca Francesco Ferdinando d’Este, in rappre-sentanza di S. M. Imperiale ancora impeditoper disposizione reumatica, la solenne impo-sizione della berretta Cardinalizia all’Arcive-scovo di Gorizia, cardinale Giacomo Missia.La chiesa era tutta parata di damasco rosso a

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Decreto dell’ufficio del capo cerimoniere di corte colquale a Sedej viene concesso il titolo di imperial-regiocappellano di corte ad honorem con stipendio annuo di900 fiorini il 5 novembre 1889.

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Vanni FeresinL’Arcidiocesi di Gorizia tra Ottocento e Novecento

RICERCHE STORICHE

fregi d’oro. A sinistra dell’altare maggiore eraeretto il trono a baldacchino per l’Imperato-re. Dalla parte medesima scendendo verso ilfondo della chiesa stava in prima linea l’ingi-nocchiatoio con sedile per il neoeletto Cardi-nale. Immediatamente dopo eravi un altroinginocchiatoio per l’Ablegato Pontificiomons. Giulio Celli seguivano quindi i banchie sedili per le alte dignità di Corte e Stato,Ministri, Consiglieri Intimi, Generali(…) Dopo la lettura della “Breve” ilCardinale è inginocchiato sull’estremogradino del trono; l’Arciduca si copre ilcapo, si alza, stende la mano alla ber-retta e la impone in capo al Cardinale.Allora questi si alza, e, ritto di fronte alrappresentante sovrano si leva la ber-retta nell’atto stesso in cui quello delpari si scopre. Il Cardinale va all’altaredove viene circondato dal clero cele-brante ed assistente ed intona il “Te-deum”. Finito il canto il Cardinaleascende all’altare, recita il “Benedica-mus”, si copre colla berretta e, volgen-dosi prima al trono, poi al pubblico im-parte la benedizione alla quale tutti siinginocchiano meno il Vescovo cele-brante. (…). Il giorno appresso (28 giu-gno ndr) S. Maestà ha ricevuto in udienzaprima di mezzogiorno il Cardinale Missia.

5 luglio 1899L’arrivo di Sua EminenzaCome ricevemmo ieri l’annunzio telegraficoda Vienna, Sua Eminenza il nostro Veneratis-simo Pastore arrivava qui quest’oggi alle 10.8ant. Alle stazioni di Monfalcone di Sagrado ilClero, guidato dai rispettivi decani, s’era rac-colto ad offrire il proprio omaggio all’Emi-nentissimo Principe. A quella di Monfalconeera anche il clero decanato di Fiumicello. Al-la nostra stazione felicitarono S. eminenza,

sensibilmente commosso, le Loro Eccellenzeil Conte Carlo e Francesco Coronini Cron-berg, nelle loro splendide uniformi, il Consi-gliere Aulico Cav. Bosizio, il signor PodestàDr. Venuti, il sig. Colonnello di guarnigionenob.le de Leeb, nob. De Chalaupka, il Consi-gliere Aulico Defacis Presidente del Tribuna-le, il Procuratore di Stato sost. Dr. Jeglic,l’amministratore sup. post. Augscheller, i

Consiglieri Scolastici Dr. Schreiber e Krizniced altri capi ed ufficiali dei diversi dicasteri,tutti nelle loro uniformi di gala, il Conte Si-gismondo d’Attems, il Conte Lanthieri, ilCav. de Baubela, il Capitolo Metropolitano,il Collegio dei professori di Teologia (…) S.Eminenza si trattenne specialmente colle Lo-ro Eccellenze ed ebbe verso tutti parole di be-nevola soddisfazione. Nella sala di primaclasse scoppiò un fragoroso “Evviva il nostroCardinale”! Sua Eminenza montò nella suacarrozza benedicendo il popolo accorso. Apri-va il corteo l’equipaggio del Cons. Aul. deBosizio col Commiss. sup. Contin. Dopo la

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21 febbraio 1906: notificazione, al clero dell’Arcidiocesi, delvicario capitolare che Sedej è stato eletto e nominato Arcive-scovo di Gorizia.

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carrozza di Sua Eminenza seguiva quella delsig. podestà e poi di seguito, 52 carrozze, sinoal palazzo, dove erano schierati i teologi delseminario. All’ingresso nella città tutte lecampane suonavano a festa. Nelle vie percor-se dal corteo molte case aveano adornato lefinestre con tappeti, fiori e bandiere. La piaz-za grande era specialmente addobbata al po-sto di guardia furono resi gli onori militari al-

l’Eminentis-simo Principe EVVIVA!

Alcune cronache dal borgoQuesti furono anni intensi anche per il Bor-go, dal maggio del 1895 il nuovo parroco eradon Carlo de Baubela, nel 1897 iniziarono ilavori per attuare il tanto atteso completa-mento della facciata della chiesa che verràbenedetta nell’agosto del 1899 da mons.Luigi Tomsig Decano del Capitolo: “sullafacciata della chiesetta di San Rocco viene po-sizionata una statua del Santo Patrono esegui-ta in fino marmo di carrara con grande mae-stria. Specialmente il volto del santo è molto

espressivo”. Anche a San Rocco si diedegrande rilievo al Giubileo Imperiale (cin-quant’anni di regno di Francesco GiuseppeI, agosto 1898) e come si legge dalle crona-che “il Borgo si distingue per patriottismo eper attaccamento alla augusta persona di S.Maestà”. Ma i festeggiamenti furono inter-rotti immediatamente quando la popolazio-ne venne a conoscenza che, il 10 settembre,

l’Imperatrice Elisabetta era stata bru-talmente assassinata. Il 17 settembrevenne officiata una liturgia funebre “lachiesa era zeppa di devoti. Nei primi po-sti i bravi militi in congedo, i quali assi-stettero con contegno edificante alla sa-cra funzione”. Questi anni a cavallo delsecolo furono anche segnati dalle po-lemiche fra la parte slovena e quellaitaliana: ogni occasione, anche la piùfutile, era valido motivo per scontriideologici ai quali era legata spessouna gratuita violenza che sfociava an-che in risse mortali. Il 1900 fu l’annodella visita dell’Imperatore alla cittàma anche della Prima Messa a SanRocco di don Carlo Piciulin, ultimosacerdote di antica origine sanroccara.Nel 1902 il Borgo venne illuminato a

gas sostituendo l’antiquata illuminazione apetrolio e nel 1910 si aprì finalmente la viadei Lantieri così il Borgo poteva essere col-legato alla piazza Sant’Antonio.

Chi meglio di mons. Andrea Jordan (Gorizia1845 - Gorizia 1905), Preposito del Capito-lo, poteva degnamente succedere a Mons.Missia: fu suo fidato collaboratore e ammi-nistrò già la diocesi dopo la morte di mons.Zorn. Egli costituiva una garanzia per tuttiinfatti, con il suo episcopato, la continuitàsarebbe stata garantita. Pur non possedendograndi titoli accademici egli cercò di mante-

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Inno dedicato a Missia per la sua elezione cardinalizia e ap-parso sull’Eco del Litorale del luglio1899.

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PRICERCHE STORICHE

nere la strada segnata da Missia, mante-nendo salda l’identità multietnica di Gori-zia: italiana, slovena, friulana e tedesca.Anche la parabola del suo apostolato siconcluse ben presto, nell’ottobre del1905, a soli tre anni dell’inizio del suo go-verno; lascerà un amabile ricordo del suolavoro. Ed è proprio a questo punto che sifa innanzi la figura di mons. Sedej, nato ilgiorno di San Francesco Borgia (10 otto-bre 1854) a Cerkno, Circhina centro mon-tano vicino al limite orientale della Princi-pesca Contea, venne mandato a Gorizianel 1863 per frequentare la scuola di pre-parazione al ginnasio. Fu lo zio materno aindirizzare il giovane Francesco agli studiecclesiastici (è una tradizione molto anticaquella che uno zio sacerdote indirizzi unproprio nipote al sacerdozio). Nel 1866entrò nel ginnasio tedesco di Gorizia evenne ammesso al Seminario Minore, nel1873 entrò nel Seminario Maggiore doveincontrò in qualità di Rettore il futuro Ar-civescovo di Gorizia mons. Zorn.Mons. Andrea Gollmayr lo consacrò sa-cerdote nel 1877 e per un certo periodo ri-tornò nel suo paese di origine per intra-prendere l’esperienza di Cappellano. Lesue capacità vennero alla luce ben presto:un anno dopo la consacrazione sacerdotaleriuscì ad ottenere l’ambito posto (uno solospettava alla Diocesi di Gorizia) all’Augusti-neum dove si laureò nel 1884. La sua carrie-ra prese ben presto il via: prima Cappellanoper gli sloveni a Sant’Ignazio, poi catechistadalle Orsoline e Prefetto della Biblioteca delSeminario (nel contempo continuava la suaattività di direzione corale). Per nove anni ri-coprì la carica di cappellano dell’Augusti-neum a Vienna e nello stesso periodo ebbela possibilità di viaggiare attraverso l’Europae di continuare i suoi studi sulle lingue

orientali, che aveva iniziato a Vienna. Nelsettembre del 1898 mons. Missia lo richiamòin Diocesi e gli affidò la Cattedrale di Gori-zia e il titolo di Decano del Capitolo. A Go-rizia proseguì la sua opera di insegnamentopresso le scuole slovene, tedesche e in semi-nario. Il 20 gennaio del 1906 venne sceltodall’Imperatore quale nuovo Principe Arci-vescovo di Gorizia e il 25 marzo successivo,nel Duomo di Gorizia, la consacrazione e lapresa di possesso della Diocesi. L’episcopa-to di Sedej coincise, nei suoi primi dieci an-ni, con il momento più alto di quella stagio-

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Ritratto e firma di Monsignor Jakob Missia (Palazzo Arci-vescovile).

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ne, da molti definita “esaltante”, vissuta aGorizia all’inizio del XX secolo. La “Princi-pesca Contea di Gorizia e Gradisca” era lapiù piccola delle 17 regioni che componeva-no il grande Impero Austro - Ungarico marisultava essere un ente giuridico di dirittopubblico e veniva considerata al pari deglialtri grandi regni. La Contea venne definitadal Czoernig “un campionario d’Europa”dove vivevano sloveni, italiani, friulani e al-tri gruppi minori. Per la popolazione tale re-altà trovava i suoi fondamenti nel patriotti-smo verso l’Impero, nella totale autonomia

amministrativa della Contea e nell’appar-tenenza alla diocesi di Gorizia. Tutta l’areadel Goriziano, anche per l’insostituibilepresenza formativa del suo seminario, erariconosciuta quale punto di riferimentocerto per le realtà del cattolicesimo italia-no, triestino e istriano e come già si puònotare dalla funzione costante che il quo-tidiano “L’eco del Litorale” svolgeva inquesta realtà. L’economia si era notevol-mente sviluppata grazie alla cittadina diGrado che fungeva da stazione di soggior-no balneare nel meridione dell’Impero. Lacittà di Gorizia era divenuta un centro peri commerci ma nel contempo ci si trovavadinanzi ad un grande slancio culturale eartistico. La popolazione cresceva e i col-legamenti si rafforzarono notevolmenteanche grazie alla costruzione della nuovastazione ferroviaria chiamata “Transalpi-na”, inaugurata il 19 luglio 1906 dall’Arci-duca Francesco Ferdinando. La culturarintracciava il suo cardine ideale nel semi-nario con gli studi teologici e la sua biblio-teca era visitata da sacerdoti e da studiosidi tutta la zona del Litorale, compresaTrieste. Segnale chiaro di questa vivacitàculturale era la presenza di ben sedici pe-riodici (otto italiani e otto sloveni); erano

gli anni di Carlo Michelstaedter, Max Fabia-ni, Biagio Marin, rappresentanti di quellastraordinaria generazione di intellettuali.I giovani sacerdoti si ritrovavano nel climaspiritualmente proposto da Papa LeoneXIII (1878 - 1903) ma questi erano i primianni di Pio X (1903 - 1910) e della scopertadella presenza sociale della chiesa che dove-va ritrovarsi nel rinnovamento delle parroc-chie e nella necessità di ricercare nuovi com-piti pastorali. In questa sorprendente e com-plessa situazione si trovava ad operare il neovescovo Sedej che già a partire dal suo mot-

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Ritratto e firma di Monsignor. F. B. Sedej (Palazzo Arci-vescovile).

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RICERCHE STORICHE

to “Instaurare omnia in Cristo” identifiche-rà le essenziali esigenze pastorali del suo go-verno. Nel primo messaggio alla Diocesi (16maggio 1906) dirà: “la lotta contro la religio-ne si fa ogni giorno più minacciosa. Dobbia-mo prepararci a questa lotta decisiva”. Eglisi inserì a pieno titolo nella tradizione di unclero e di una Chiesa che, pur nelle comples-se vicende politiche e nazionali degli ultimianni dell’Impero, conserverà una profondafedeltà alla dinastia degli Asburgo. Se pen-sassimo che questa fosse una Chiesa appiat-tita sullo Stato ci sbaglieremmo, anche se, edera una realtà non certo indifferente, la leal-tà restava una questione peculiare poichécome disse lo stesso Sedej “la maestà impe-riale è riflesso della maestà divina”. E’ da ri-cordare che fu l’unico vescovo della VeneziaGiulia, scelto dagli Asburgo, che non lasciòl’incarico dopo l’annessione di queste terreal Regno d’Italia, anche se ricevette innume-revoli pressioni per lasciare l’Arcidiocesi.Non era immaginabile una società senza or-dine e non era possibile avere l’ordine senzal’autorità e per Sedej, questo ordine, era ga-rantito dalla Chiesa Cattolica e fondato sul-la dottrina cristiana. Egli tenterà, come isuoi predecessori, di fare fronte comunecontro i nemici della Chiesa e dell’ordine;era infatti contrario a qualsiasi tipo di intro-missione della politica negli affari propridella Chiesa. Questi erano gli anni in cui PioX chiudeva le porte agli interventi del mon-do slavo nella liturgia, Papa Leone, prece-dentemente, aveva concesso moltissimo, adesempio il Messale glagolitico alla chiesa delMontenegro (l’alfabeto glagolitico fu intro-dotto nel regno del “Grande Moravia” nelIX secolo dai Santi Cirillo e Metodio perl’evangelizzazione dei popoli balcanici. Il ti-tolo del suo nome proviene da un’antica pa-rola slava “glagoljati” che significa “parla-

re”). Questo periodo fu caratterizzato, altre-sì, da un grande impulso e promozione cul-turale, Sedej partì da Aquileia definendola la“gloria artistica dell’Austria” e proprio cen-t’anni fa veniva costituita la Società per laConservazione della Basilica di Aquileia (4dicembre 1906); qui chiamò a collaboraregrandi personalità della nobiltà locale, comeSigismondo D’Attems e autorità ufficialidell’Impero (nel 1909 con sommo stuporedel mondo artistico vengono scoperti i mo-saici teodoriani alimentando studi e appro-fondimenti in proposito). Questo suo inte-resse per l’arte sacra, ed in particolare perAquileia, non fu dettato dal momento: egliistituì un corso di storia dell’arte nel semina-rio centrale chiamando studiosi di chiara fa-ma come Karl Drexler. Questa sua peculiareattenzione per l’arte e la storia lo porterà apubblicare sul “Folium” diocesano un grannumero di documenti inediti sull’erezionedell’Arcidiocesi. Tutto ciò deve considerarsicome parabola del suo mandato di vescovoe quindi come chiara espressione della re-sponsabilità pastorale che si era assunto. E’d’obbligo chiarire che il fervore culturaleche caratterizzò il suo episcopato è da ritro-varsi nell’indicazione iniziale che ci lasciò inprincipio del suo mandato di arcivescovoper cui “è necessario istituire società cattoli-che contro società antireligiose, giornalicontro giornali, gabinetti di lettura controgabinetti di lettura, biblioteche contro bi-blioteche”. E’ da ricordare che sotto il suoepiscopato si posò solennemente la primapietra della Chiesa del Sacro Cuore (il 2 di-cembre 1911) che sarebbe dovuta divenirela nuova cattedrale di Gorizia.Su questo modello di diversità ed eteroge-neità culturale che stava offrendo i suoimaggiori frutti, proprio in quegli anni, su uneconomia che stava dando segni di promet-

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tente sviluppo economico, industriale e turi-stico e su di una diocesi il cui prestigio erada ritrovarsi nell’imponente seminario sortosul patrimonio culturale aquileiese si stavaper scatenare una guerra che avrebbe lascia-to delle tracce indelebili sia sul piano mate-riale (il 40 per cento degli edifici distrutti ogravemente danneggiati, distruzione totaledell’industria e dell’artigianato, crollo del-l’economia) che su quello del substrato civi-le (gran parte della popolazione dovette la-sciare la città e una buona parte del patrimo-nio culturale e artistico scomparì sotto lemacerie). Quella eccezionale parabola ini-ziata con Missia e che aveva trovato il suoapice sotto l’episcopato di Sedej era definiti-vamente tramontata: il 26 luglio del 1915l’arcivescovo dovette lasciare la città di Go-rizia durante dei feroci combattimenti; vi fe-ce ritorno soltanto tre anni più tardi nelmarzo del 1918 per cercare di riprendere,per quanto possibile, la propria funzione pa-storale.

Dal Gazzettino del 26 marzo 1906Il Solenne insediamento di S. A. il principeArcivescovoCom’era da prevedersi già alle 9.30 di ierimattina la chiesa metropolitana rigurgitavadi gente convenuta per assistere alla solenni-tà dell’insediamento del neonominato princi-pe arcivescovo mons. dott. Sedej, per modoche da parte dell’autorità di polizia fu vietatol’ingresso al tempio ad un’altra folla conside-revole di persone che volevano pur esse en-trare. La chiesa era addobbata come di con-sueto con drappi rossi fiammanti nell’internoe con bandiere all’esterno. All’ora suindicatafecero il loro ingresso nel tempio S.E. il luo-gotenente principe Hohenlohe, il cap. di-strett. cons. aul. Conte Attems, S. S. il cons.int. gen. d’art. bar. De Teuffenbach, i ciam-

bellani di Corte conte Attems, conte Cristal-nigg, conte Pallfy, conte Claricini e bar. Loca-telli, nonché il sig. Podestà avv. dott. Maranied i congiunti di S.A. il principe Arcivescovo.Erano pure rappresentate numerose corpora-zioni, sodalizi e Società cittadine e, dai rispet-tivi sacerdoti, tutte le parrocchie della città edella provincia. Alle 10 precise fanno il loroingresso in chiesa - mentre dalla cappella ci-vica e dal corpo corale veniva eseguito l’”Ec-ce Sacerdos magnus” musica del valente mae-stro Cartocci, brano di effetto veramente sor-prendente, in specie nella chiusa all’unisono- il nuovo principe Arcivescovo mons. dott.Sedej, accompagnato da S.E. il cons. intimomons. dott. Lorenzo Mayer, parroco di Cortee vescovo titolare di Vienna, da mons. dott.Jeglic, vescovo di Lubiana, da mons. dott.Nagl vescovo di Trieste, da mons. dott. Ma-chnig, vescovo di Veglia, e da tutto il capitolometropolitano. Pontificante S.E. il vescovomons. dott. Mayer viene cantata una Messadi Witt, scritta in onore di San Francesco Sa-verio, con “graduale” ed “offertorio” di Mitte-rer, dopo di che ha luogo la solenne cerimo-nia dell’insediamento col solito rituale. Dopoil mezzodì la solenne cerimonia ha termine eS.A. il principe Arcivescovo, uscendo dallachiesa, impartisce la sua benedizione alla fol-la che si assiepa dinanzi al Duomo. Alle12.30 merid. S.S. il luogotenente principeHohenlohe si recò a far visita a S.A. il princi-pe Arcivescovo, il quale pure ricevette il dele-gato della Luogotenenza cons. di Governobar. Marenzi, che gli fece la consegna dei be-ni temporali. All’una e tre quarti il cap.distr.cons. aul. Conte Attems si recò in carrozza aprendere all’”Hotel Meridionale” S.S. il luo-gotenente principe Hohenlohe, per addurloal palazzo arcivescovile ove alle 2 del pome-riggio ebbe luogo il grande banchetto di 44coperti. Intervennero al pranzo fra le molte

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RICERCHE STORICHE

personalità, di parecchie delle quali ci sfuggeil nome, S.A. il principe Arcivescovo mons.dott. Sedej, S.S. il luogotenente principe Ho-henlohe, S.E. il vescovo mons. dott. Mayer, ivescovi Nagl, Jeglic, Machnig, il cap. distret-tuale cons. aulico conte Attems, il cons. diGoverno bar. Marenzi, il presidente del Tri-bunale circ. cons. Defacis, il procuratore diStato cav. Vidulich, il podestà avv. dott. Ma-rani, il colonnello Pivez, i ten. Col. Bartl eCsany, il preposito mitrato mons. Faidutti,mons. prof. Alpi, l’On. cav. dott. De Egger inrappresentanza del capitano provinciale, ilprof. Svoboda, decano della facoltà teologicadell’Università di Vienna, il podestà di Cire-bina, luogo di nascina di mons. dott. Sedej, enumerosi prelati.Durante il banchetto suonò il corpo musicalecivico sotto la direzione dell’abile suo mae-stro Corrado Cartocci, svolgendo uno scelto ecopioso programma. Allo “champagne” S.A.il principe Arcivescovo portò un “toast” a S.S.il papa e all’Imperatore, chiudendo con untriplice “Evviva”, ripetuto in coro dai presen-ti, mentre il civico corpo musicale intonaval’inno popolare. S.E. il cons. int. mons. dott.Mayer tenne a sua volta una brillante e nellostesso tempo emozionante allocuzione sulla

virtù ed i grandimeriti del neono-minato principeArcivescovo.S.S. il luogotenenteprincipe Hohenlo-he leva il bicchierebrindando al nuovopastore della dioce-si di Gorizia, augu-randogli ottimariuscita nella suaopera di pace. Infi-ne il cav. dott. Ca-

millo de Egger, parlando in italiano, porta ilsaluto, quale rappresentante della provincia aS.A. il principe Arcivescovo, ripromettendosiche le sagge opere di mons. dott. Sedej abbia-no ottimo risultato nei rapporti amichevolifra l’autorità ecclesiastica e quelle autonome.Allorché la mensa viene levata sono quasi lecinque del pomeriggio ed i presenti si allonta-nano per recarsi alla conferenza tenuta dalprof. Svoboda nel salone dell’”Hotel Cen-tral”.Per debito di cronisti dobbiamo registrare chedurante la funzione in chiesa parecchie furo-no le persone colte da malore causa la calca:nulla però di grave. Il servizio d’ordine erafatto dalle guardie di p.s. e da quelle munici-pali, sotto i rispettivi comandi, in piena tenu-ta da parata.

Alcune cronache dal borgoLo studente serbo Gavrilo Princic oltre amettere fine all’esistenza terrena dell’Arcidu-ca Francesco Ferdinando e a sua moglie So-phia mandò in pezzi un mondo che già pre-sentava gravi segni di decadenza. Molti gio-vani sanroccari vennero mandati a combatte-re su fronti lontani, la chiesa di San Roccosubì, come grande parte delle abitazioni cit-

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Il piazzale dove sorgerà la nuova chiesa del Sacro Cuore. In basso, si nota il legnameper l’impalcato.

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tadine, danni in-genti: il soffittocrollò totalmente egli affreschi raffigu-ranti la vita di SanRocco andaronodefinit ivamenteperduti, la cantoriae l’archivio dellacorale furono di-strutti e la quasi to-talità degli antichispartiti bruciati;anche l’archivioparrocchiale fu distrutto si salvarono solo i li-bri parrocchiali delle nascite e dei morti. Il17 agosto del 1916 venne levato dalla chiesail Santissimo e da quel momento i neonatidel Borgo ricevettero il battesimo nella cap-pella dell’Immacolata mentre i matrimoni sicelebravano nella chiesa dei frati Cappucci-ni. Nel gennaio del 1917 don Baubela fuchiamato a reggere, oltre quella di San Roc-co, anche le altre tre parrocchie della città.

Molti sanroccari (bambini e adulti) morironovittime di granate sparate dai due eserciti,problema che persisterà anche dopo la finedella guerra a causa delle bombe inesplose. Il17 ottobre del 1917 gli Austriaci sfondaronole posizioni italiane a Caporetto e dilagarononella pianura friulana, don Baubela fu co-stretto a lasciare la città e a rifugiarsi a Via-reggio, farà ritorno a San Rocco nell’apriledel 1918.

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Ringraziamenti:Roberto Elifani per il supporto tecnico e la fotografia.

Fonti archivistiche:Archivio di Stato di Gorizia, della Curia Arcivescovile di Gorizia, della Bibilioteca Civica di Gorizia, della Par-rocchia di San Rocco, di Guido Bisiani, della famiglia Feresin, della famiglia Madriz Macuzzi.

Quotidiani:L’Eco del Litorale (1898, 1899, 1906), Il Gazzettino (1906), Il Piccolo (1906), Voce diocesana (1962).

Bibliografia essenziale:Borc San Roc n.6, Mons. Carlo de Baubela “plevan di san Roc”, pag. 41 e segg., Mauro Ungaro, Gorizia, 1994;La Diocesi di Gorizia 1750 - 1947, Luigi Tavano, Edizioni della Laguna, Gorizia, 2004;Musica e sentimento religioso, la Corale del Borgo e la sua storia, pagg. 26 - 29, Vanni Feresin e Laura Madriz,Gorizia, 2005;Pastore dei suoi popoli, Mons. Sedej e l’Arcidiocesi di Gorizia nel primo dopo guerra, Ivan Portelli, Ronchi, 2005;Sotto la Torre, 1497 - 1997: 500 anni della Chiesa di San Rocco pag. 79, 80, 85 - 87, 90, 94 Mauro Ungaro, Go-rizia, 1997.

Sedej presiede alla benedizione della prima pietra della nuova chiesa del Sacro Cuoreil 2 dicembre 1911.

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RICERCHE STORICHE

Giada PianiTradizione e innovazione,il mondo sacro di Orlando Dipiazza

Il Maestro Orlando Dipiazza (1929), origi-nario di Aiello del Friuli, può considerarsi apieno titolo una figura rilevante nel conte-sto musicale regionale. La sua attività nelcampo della musica è poliedrica: per moltianni è stato direttore di prestigiose forma-zioni corali, ha scrupolosamente salvaguar-dato il patrimonio del canto popolare friu-lano con le sue numerose elaborazioni divillotte e canti d’autore, ha vinto numerosipremi a concorsi di composizione indettidalle province di Udine e Trieste e in tuttaItalia e i suoi lavori vengono spesso eseguitiin concerti e rassegne corali.Autore molto prolifico, si è espresso (e siesprime tutt’oggi) in molti ambiti vocali,preferendo la musica corale a quella solisti-ca, di cui non si possono dimenticare perbellezza e suggestione le Tre Liriche friula-ne (1968) e l’inedito Alcesti (1969), trattoda Rainer Maria Rilke. Ha composto spessosu commissione, ma non mancano branifrutto dell’istinto e del gusto personale delmusicista. Come ricorda il musicologo Gio-vanni Acciai[1]: “la musica di Dipiazza non

deve essere vista come un sofisticato eserci-zio intellettuale, un lavoro concepito a tavo-lino. Al contrario, imbrigliati e trasfiguratinell’elaborazione formale, sono il tempera-mento vigoroso e la vitalità intellettuale diun uomo che vive intensamente l’arte, equella al servizio della parola di Dio in mo-do particolare, come esigenza primaria delproprio essere e non come sua narcisisticaostentazione”.Il numero molto elevato di opere scritte (sene contano più di 350) si muove tra la mu-sica popolare (con un importante corpusdedicato al canto friulano, sia sulla base del-le antiche villotte che attraverso musica ori-ginale su testi poetici d’autore), la musicaper la didattica (che conta canti popolari,operette vocali e brani di media difficoltà:tra le sue produzioni più diffuse in Italia enel mondo), la musica su testi poetici di va-rie epoche (prediligendo gli autori del pe-riodo medioevale, rinascimentale e moder-no, soprattutto del primo novecento) e lamusica sacra.Anche se gli ambiti musicali in cui produce

[1] Giovanni Acciai (1946),direttore di coro e musicologo.

Analisi delle opere del compositore friulano: dall’adesione al rito tri-dentino attraverso il canto gregoriano fino alla serialità

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Giada PianiTradizione e innovazione, il mondo sacro di Orlando Dipiazza

RICERCHE STORICHE

sono distinti tra loro e necessitano di tecni-che o espedienti compositivi differenti, lo sti-le di Dipiazza è facilmente riconoscibile neisuoi brani: un linguaggio frutto degli studicompiuti, delle passioni personali musicali eletterarie, delle esperienze vissute. Fondamentale per la sua formazione cultu-rale e musicale è stato il percorso di studiche l’hanno portato al diploma in Musicacorale e Direzione di coro nel 1966, sotto laguida del compositore e musicologo triesti-no Bruno Cervenca (1903-1986), al Conser-vatorio Tartini di Trieste. SuccessivamenteDipiazza ha svolto un tirocinio di due anni,sempre al Conservatorio di Trieste, per per-fezionare la scrittura strumentale. Tra i suoi

insegnanti figurano anche Mario Bugamelli(1905-1978) in lettura della partitura e Giu-seppe Radole (1921) in composizione.Cervenca era uomo molto colto: laureato ingiurisprudenza, diplomato in composizio-ne, di spiccate attitudini nella matematica;conosceva sei lingue anche grazie alla suaorigine boema. Appassionato della grandepolifonia cinquecentesca, ha sicuramenteinfluenzato il metodo compositivo di Di-piazza.Ciò si coglie in particolare nell’attenzioneper la costruzione formale: l’utilizzo di uncontrappunto vocale cinquecentesco, in cuiemerge l’equilibrio delle singole voci fusetra loro all’interno di un’armonia solida e

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I fratelli Orlando, Rina e Ruggero Dipiazza, il 25 luglio 2004, per il settantesimo compleanno di Ruggero (foto Crobe).

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perfetta come un meccanismo, nella qualenulla è lasciato al caso. Dipiazza utilizza fre-quentemente procedimenti imitativi che so-no distribuiti con equilibrio e non appesan-tiscono una scrittura sobria e scorrevole.Emerge così un linguaggio dotto e rigorosoin cui però compaiono elementi di moder-nità, ricercabili nelle frequenti dissonanze(per grado congiunto o tramite accordi disettima e nona), nella mancanza di una to-nalità d’impianto in alcuni brani, nella scel-ta di applicare la serialità ad alcuni testipoetici. Per questi caratteri “il genus com-positivo del musicista friulano è infatti trop-po ricco e molteplice per correre il rischiodi subire condizionamenti o contaminazio-ni di sorta, traendo esso le ragioni del suodivenire dalla vena ispirativa fervidissima edal rigore sorvegliato eppure appassionatodella sua scrittura, tanto solida quanto di-sinvolta, che lo rende scevro dai pericoli diuna dimensione periferica di certa musicad’oggi e lo colloca invece fra le espressionipiù autenticamente rappresentative dellamusica del nostro secolo”. Profondo conoscitore delle voci e dei cori,rispetta l’estensione vocale e la capacità me-lodica naturale di ogni singola voce; inoltrecostruisce l’impianto armonico tenendoconto di una lettura il più immediata e chia-ra possibile del brano da parte di ogni sezio-ne corale. Per queste qualità specifiche Di-piazza sceglie di indirizzare la maggior par-te della sua musica al coro amatoriale, riser-vando difficoltà interpretative particolarisolo ad alcune partiture dirette a cori diprofessionisti.Per molti anni ha affiancato l’insegnamentomusicale presso la scuola media di Gradiscad’Isonzo alla direzione corale. Tra le forma-zioni corali da lui dirette e fondate (il Coro"Veneziani" di Aiello, la Cantoria ed il Co-

ro "Giuseppe Verdi" di Ronchi dei Legio-nari, i Madrigalisti di Gorizia, il Coro "Jaco-po Tomadini" di Udine, il Coro femminile"Gabriel Fauré" di Romans d'Isonzo) spic-cano il Coro “Monteverdi” di Ruda e il Co-ro “Polifonico” di Ruda, rinomati entrambianche all’estero, con i quali ha ottenuto unlungo elenco di premi e prestigiosi ricono-scimenti sia in competizioni nazionali cheinternazionali.Il legame con la parrocchia di San Rocco aGorizia si evidenzia fin da subito nella pa-rentela con l’attuale parroco don Ruggero;ed è proprio per la prima messa del fratello,nel 1958, che Dipiazza compone il brano Tues Sacerdos. Il pezzo è stato riscritto negli

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Orlando Dipiazza è personalità illustre della coralità.

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Giada PianiTradizione e innovazione, il mondo sacro di Orlando Dipiazza

RICERCHE STORICHE

anni successivi più volte (subendo anchecambiamenti di tonalità e sperimentazionidovute agli studi in corso) per esigenze ese-cutive legate all’organico corale che dovevaeseguirlo (quattro voci, coro virile, ecc). Laprima partitura, a cui l’autore è maggior-mente affezionato pur nelle sue ingenuitàda compositore alle prime armi, come eglistesso ama dire, presenta l’indicazione ago-gica Andante con moto ed è per tre voci: so-prano, tenore e basso. L’originalità del bra-no si coglie subito nella scelta della tonalitàminore (in questo caso La minore, in unopiù recente il Sol minore) che risulta inu-suale in un canto di gioia: “Tu es Sacerdosin eternum secundum ordinem Melchise-dech. Allelluia”. Solo sull’Alleluia finale la tonalità diventamaggiore (La maggiore in questo caso), su-bito messa in rilievo dall’introduzione tema-tica dell’organo che precede le voci.Molto conosciuta nel Borgo è la sua attivitàcome Maestro di coro, per aver dato piùvolte una mano alla Corale durante le cele-brazioni più importanti dell’anno. Nell’ot-tobre 2004 ha dedicato un Tantum ergo perquattro voci dispari proprio al coro di SanRocco.L’ambito vocale nel quale Dipiazza si segna-la particolarmente rispetto ad altri composi-tori della regione è quello della musica sa-cra. L’originalità di un autore contempora-neo come Dipiazza, che si distingue da altrimusicisti anche precedenti per le sue sceltevolutamente anacronistiche, è l’aderenza alrito tridentino anziché alla liturgia nata do-po il Concilio Vaticano II (1962-1965). Icambiamenti fondamentali, operati dai Pa-dri conciliari, si possono riassumere in alcu-ni principi fondamentali: “si promuovanocon impegno il canto popolare religioso, inmodo che nei pii e sacri esercizi, come pure

nelle stesse azioni liturgiche, possano risuo-nare le voci dei fedeli”; “i musicisti, anima-ti da spirito cristiano, compongano melodieche possano essere cantate non solo dal co-ro ma che favoriscano la partecipazione at-tiva di tutta l’assemblea dei fedeli”. Pur re-stando il latino la lingua ufficiale della chie-sa, la partecipazione attiva dei fedeli alla li-turgia implica l’uso della lingua locale: l’ita-liano o il friulano sostituiscono così il latinosia nella messa cantata che nei mottetti ese-guiti durante i momenti principali della ce-lebrazione. Il mutamento si vede in molti compositoridella regione: monsignor Albino Perosa,monsignor Narciso Miniussi, Cecilia Se-ghizzi e don Stanko Jericijo. Perosa[2] aderi-sce immediatamente al rinnovamento, com-ponendo un ricco corpus che ha via via ag-giornato e perfezionato in modo da coprireogni momento dell’anno liturgico. Parlandodi adesione alla Liturgia, l’aspetto più evi-dente si ha nella scelta della lingua italiana:essa viene impiegata nella quasi totalità del-le sue opere. Temi semplici e diatonici han-no la funzione di unire coro e assemblea: lastruttura ritmica delle composizioni seguegli accenti tonici delle parole, come avvienenel repertorio gregoriano in cui il canto di-viene proclamazione della parola; ciò facili-ta maggiormente la vocalità dei coristi.Un’accurata e puntuale ricerca dei testi bi-blici e di autori contemporanei sottolineaancor di più una piena adesione alle nuovedisposizioni. È interessante notare come,tra le quattordici messe scritte da Perosa(cinque con testo friulano e ben nove in ita-liano), in otto di esse sia presente la vocedell’Assemblea, scritta in alto sopra il coro;ciò avviene anche nelle messe in latino, nel-le quali l’assemblea propone frammenti dalgregoriano alternandosi al coro.

[2] Albino Perosa (1915-1997), sacerdote, organista,

direttore di coro ecompositore udinese.

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Esemplare, per quanto riguarda monsignorNarcisio Miniussi[3], la Messa “Gaudete”(1985) composta per la celebrazione delventesimo anno della fondazione della Par-rocchia di San Giuseppe a Monfalcone, surichiesta della comunità. Scritta interamen-te in italiano copre tutti i momenti della li-turgia della terza domenica d’Avvento: dalCanto d’Ingresso alle Invocazioni peniten-ziali, dal Gloria al Salmo responsoriale, dal-la Presentazione dei doni al Santo-Benedet-to fino al canto finale di Ringraziamento. Leparti vocali sono semplici e di facile lettura,gli intervalli non sono troppo ampi e il rit-mo è molto lineare, tutte caratteristiche chelegano questi brani a un’esecuzione che av-

vicini Cantoria e Assemblea.Nelle composizioni sacre di Cecilia Seghiz-zi l’aderenza alla Liturgia si esplica nellascelta di utilizzare la lingua italiana e friula-na nelle sue due messe (Messe cul popul infriulano 1988, Messa breve in italiano1990). Nella Messe cul popul per quattrovoci virili si coglie pienamente il suo stilepersonale nella scelta di prediligere l’effettoprodotto dalle combinazioni e sovrapposi-zione di suoni lunghi e tenuti (si parla di ef-fetto coloristico) piuttosto di concentrarsisulla polifonia (cioè l’insieme complessivodel brano nell’articolazione delle singole vo-ci): questo elemento è importante perchéesso rappresenta uno dei capisaldi della tec-

[3] Narciso Miniussi (1920-1995) sacerdote, organista,direttore di coro e compositoregoriziano.

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Il brano Tu es Sacerdos, nell’originaria versione manoscritta, dedicato alla prima messa celebrata dal fratello nel 1958.

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[4] Stanko Jericijo (1928),sacerdote, direttore di coro e

compositore goriziano.

[5] Quirino Principe (Gorizia1935), musicologo.

Specializzato in germanisticae docente al conservatorio di

Milano, ha dedicato studistorico-critici alla musica

tedesca dell’Ottocento e delprimo Novecento, in

particolare a Beethoven (Iquartetti di Beethoven,

1994), a Malher e a RichardStrauss (due ampie

monografie, Milano 1983 e1989), a Wagner.

[6] Dipiazza da scoprire, in “IlSole 24 Ore”, domenica 14

aprile 2002.

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nica compositiva di Dipiazza.Lo stesso avviene nelle opere di don StankoJericijo[4]. Egli mantiene una sostanzialepropensione nei riguardi dell’antica liturgiaper quanto concerne la lingua latina (nontrascurando il friulano e lo sloveno che uti-lizza prevalentemente nella musica profa-na), ma l’uso di frammentare la linea melo-dica tra le voci e un interesse per un effettodi dissonanza simile al cluster (che determi-nano una struttura melodica non propria-mente trasparente e di difficile ascolto) so-no in antitesi con la predilezione di Dipiaz-za verso una costruzione formale di stampocinquecentesco.Il compositore di Aiello compone esclusiva-mente in lingua latina, fatta eccezione per laMessa feriale (1990) per canto e organo,espressamente commissionata in italiano,nella quale Dipiazza riconosce il pregio diuna buona cantabilità e la disposizione cor-retta degli accenti tonici.La propensione verso un linguaggio rinasci-mentale viene ancor più alla luce nella dedi-zione per il mottetto (se ne contano più dicinquanta nel suo catalogo), forma musica-le che ha visto il culmine espressivo in Pale-strina, personalità fondamentale della musi-ca sacra cinquecentesca. Quirino Princi-pe[5] dice a proposito dei mottetti di Orlan-do Dipiazza: “nei Motetti (1994) la lingualatina ritorna a splendere di luminosità me-dioevale eppure realizzando il miracolo diuna modernità in cui c’è tutta la vicendadell’armonia occidentale”[6]. Palestrina utilizzava nei mottetti la tecnica aparafrasi cioè sviluppando in modo libero ilmateriale tematico tratto dalle fonti grego-riane. Dipiazza tende invece a ricercarenuove soluzioni armoniche, distanziandosicosì da un’armonia giustificata solo dal mo-vimento delle parti (quindi creatasi dalle li-

nee orizzontali delle voci); egli studia conpiù attenzione i rapporti armonici (creatidalle linee verticali), per poter raggiungeregli effetti sonori desiderati. L’aderenza a questo stile si mantiene costan-te in tutta la sua produzione sacra; l’unicocarattere che ha subìto un’evoluzione nel-l’arco di quarant’anni riguarda la presenzadel canto gregoriano: mentre nelle primeopere ci sono solo alcuni accenni, rifletten-do così uno stile palestriniano, nelle operepiù recenti il canto gregoriano diventa pre-ponderante, tanto da trovarsi ovunque nel-le linee melodiche e tanto da essere rappre-sentato chiaramente all’inizio o in conclu-sione di alcuni brani, come avviene adesempio nei Quattro introiti su melodiegregoriane “Tempus Adventus” (2005) cheterminano con un Alleluia gregoriano.Ancora più esplicito il riferimento nel SalveMater e Salve Regina (2005) in cui il cantooriginale viene riportato sulla prima pagina,per un diretto confronto con la partitura.Un altro tratto distintivo che fa di Dipiazzaun compositore fortemente legato al rito tri-dentino è la scelta di comporre mottetti sutesti che facevano parte dell’antica liturgia.Attualmente essi non possono esprimere ilmomento liturgico per cui erano stati com-posti ma, come la grande polifonia classica(Palestrina, Gallus, Orlando di Lasso, ecc.)e il canto gregoriano, sono parte della tradi-zione più antica del rito romano e, datal’importanza del testo biblico (Parola diDio e dei Padri della Chiesa), la loro pre-senza nel rito attuale si rende necessaria,pur con le dovute accortezze: alcuni mottet-ti non sono più utilizzabili con la funzioneche assumevano ma si possono ugualmenteeseguire all’interno delle celebrazioni se-condo le esigenze della nuova liturgia. Uno dei testi da lui utilizzati che fanno par-

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te del rito tridentino è il Vexilla Regis(1995), un inno composto da sette strofeche faceva parte dell’antica liturgia del Ve-nerdì Santo. Il Vexilla Regis di Dipiazza,scritto per soli o coro femminile e archi, ècomposto da tutte le sette strofe dell’innooriginale più l’Amen in chiusura. L’aspettointeressante del brano, che lo rende sugge-stivo, è la mancanza di alterazioni sia inchiave che all’interno della partitura, carat-teristiche proprie della modalità (greco-ar-caica) che trasporta l’ascoltatore in un tem-po remoto. Tra la produzione sacra di Dipiazza si pos-sono ricordare le cinque messe, quattro inlatino e una (come citato) in italiano. LaMissa brevis (1989), per coro femminile acappella, ha vinto il secondo premio al“Concours de composition du Florilège Vo-cal de Tours” nel 1990; pur essendo scrittacon costruzioni tipicamente cinquecente-sche riscontrabili nell’andamento vocaleper imitazione e nel contrappunto, l’opera ècostruita sulla Messa cum jubilo gregoriana,della quale si riconoscono i temi. La messa

Virgo fidelis (1996), per coro femminile eorgano, è molto semplice ed è stata pensataper essere facilmente eseguita nelle celebra-zioni dai cori parrocchiali. La Missa Chora-lis, per coro misto a cappella, è stato an-ch’essa composta sulla base di una messagregoriana: super “Cuctipotens genitorDeus”, come indica il sottotitolo. La messapiù impegnativa per l’imponente organico(soprano, baritono, coro misto e organo) èstata scritta da Orlando Dipiazza su com-missione per celebrare il Santo Patriarcadella Sardegna, San Gavino. Il compositoreha preferito intitolarla Messa dei Patriarchi(2003) per legarla alla sua terra, la zona diAquileia, luogo di martiri e patriarchi. Co-me nel Te Deum (2001, per tenore, barito-no, coro e orchestra, opera di grande sugge-stione e complessità in cui la scelta di utiliz-zare solo voci virili riconduce all’originedelle melodie eseguite nei monasteri), l’at-mosfera si fa arcaicizzante per un uso dellamodalità e delle linee melodiche che ricor-dano molto il canto gregoriano, in cui l’an-damento vocale è sostenuto da lunghi peda-

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Orlando Dipiazza dirige la sua operetta “La luna” durante il saggio finale della scuola media di Gradisca nel 1985.

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li o accordi vuoti come negli antichi discan-ti.Tutto ciò unito a una predominanza dellatonalità minore, ad una forte ed essenzialeespressività, sia nel coro che nei solisti, aun’estensione vocale adeguata per ogni sin-gola voce, ad una costruzione prevalente-mente verticale. Questa severità, però, la-scia spazio ad un tono dolce e intimo checonferisce al brano un gran senso di pace edi fede: l’essenzialità e la mancanza di liri-smo rendono molto asciutta l’opera e ancorpiù diretta nel suo messaggio cristiano.Nel Gloria e nel Credo, che sono le partipiù lunghe e articolate della messa, il com-positore distingue le frasi più importanticon cambiamenti di tonalità (da maggiore aminore) e di tempo molto evidenti, retaggiodelle cerimonie in uso nel periodo pre-con-ciliare in cui le parole del testo cantato do-vevano combaciare con i diversi momentidella celebrazione liturgica, influenzandocosì durata dei tempi e cambi di tonalità al-l’interno delle singole parti della messa (traquesti il Piano e Lentamente in tonalitàmaggiore del “Et incarnatus est”; la tonalitàminore sul Mezzopiano del solo coro virilenel “Crucifixus” per tornare maggiore sulForte e Solenne “Et resurrexit” di tutto ilcoro).Un brano davvero particolare nella produ-zione sacra di Dipiazza è In Paradisum(2004). Il testo fa parte della messa esequia-le e si eseguiva nell’antico rito solitamentenel momento conclusivo della celebrazione,quando la salma viene condotta fuori dallachiesa verso il campo santo. Essendo statocomposto di getto, spinto da un’onda emo-tiva nell’indirizzarlo a una persona a lui ca-ra, questa musica assume una maggior liber-tà espressiva rispetto al resto del corpus sa-cro: ciò si nota fin dalle prime battute per-

ché è composto su una serie dodecafonica.La scelta è stata spontanea: il compositore,sillabando il testo, si è accorto che la primafrase è composta proprio da dodici sillabe esul pianoforte ha subito impresso le dodicinote. Il brano per soprano, coro misto e organo ècomposto in tonalità minore e trasporta su-bito l’ascoltatore in un’atmosfera carica didolore. L’iniziale alternarsi tra solista e corosi interrompe sulle ultime parole del testo“aeternam habeas requiem”, in cui l’assie-me vocale crea un’atmosfera di grande fa-scino in un’armonia altamente emotiva;l’accompagnamento strumentale tende araddoppiare le linee melodiche delle voci intutta l’opera, dando maggiore profondità aimomenti più drammatici. L’intensità del-l’ultima parte conduce quasi alla commo-zione: si colgono pienamente la spiritualitàe il dolore del momento, sentimenti chel’autore è riuscito a infondere con grandesensibilità. Solo alla fine, sulla lunga notadel solista, il coro s’addolcisce, lasciando suun accordo volutamente sospeso l’immagi-ne dell’ascensione in cielo dell’anima, rap-presentazione ideale della salvezza.Dice il musicologo Giovanni Acciai: “Unamusica, dunque, quella di Orlando Dipiaz-za, difficile da contestualizzare in una preci-sa categoria stilistica, proprio perché collo-cata in un tempo: che non appartiene né alpassato né al nostro presente. Una musicasospesa in una dimensione di straordinariaampiezza lirica ed emotiva, che poi, a benvedere, non è altro che la testimonianza diuna cifra stilistica personale, libera da qual-sivoglia demarcazione di tempo e di spa-zio”.

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Bibliografia Acciai Giovanni, presentazione a Polyphonia, Musica Sacra Corale n° 62, edizioni Carrara, Bergamo, annoXVI - fascicolo II, aprile - giugno 2006;Donella Valentino, Musica e Liturgia. Indagini e riflessioni musicologiche, ed. Carrara, Bergamo 1991;Lanza Andrea, Il secondo novecento, volume n° 12 della Storia della musica a cura della Società Italiana diMusicologia, Edt, Torino, 1991;Musica Sacram, Istruzione sulla musica sacra nella Liturgia della S. Congr. Dei Riti, 5 marzo 1967;Principe Quirino, Dipiazza da scoprire, in “Sole 24 Ore”, domenica 14 aprile 2002;Raffa Vincenzo, Liturgia Eucaristica. Mistagogia della messa: dalla storia e dalla teologia alla pastorale pratica,Edizioni Liturgiche-Roma, Roma, 1998;Sacrosanctum concilium, costituzione conciliare sulla Sacra Liturgia, 4 dicembre 1963;Sanson Virginio, La musica nella liturgia. Note storiche e proposte operative, ed. Messaggero di Padova, Pa-dova, 2002;Tallon Alain, Il Concilio di Trento, Ed. San Paolo srl, Milano, 2004.

Fonti musicali di Orlando Dipiazza:Tre Liriche friulane (In muart di none Dele; Sui clas de Fele; Sagre di ploe) per voce e pianoforte (1968), inedi-to;Alcesti (Rainer Maria Rilke), cantata per soli, coro, voce recitante e orchestra (1969), inedito;Tu es Sacerdos, tre voci e organo (1958), inedito;Tantum ergo, coro misto (2004), inedito;Messa feriale, canto e organo (1990), inedito;Motetti, raccolta del 1994, Suvini Zerboni, Milano;Quattro introiti su melodie gregoriane “Tempus Adventus” (Ad te levavi; Populus Sion; Gaudete in Domino; Ro-rate caeli), coro misto (2005), Polyphonia n.62, Carrara, Bergamo;Salve Mater, coro misto (2005), inedito;Salve Regina, coro misto (2005), inedito;Vexilla Regis, coro femminile e archi (1995), Pizzicato, Udine;Missa brevis, coro femminile (1989), editions A coeur joie, Tours;Messa “Virgo fidelis”, coro femminile e organo (1996), Edizioni Musicali Europee e Cartellina n°102-108 Suvi-ni Zerboni;Missa Choralis, coro misto (2003), Edizioni Musicali Europee e Chorus n°1;Messa dei Patriarchi, soprano, baritono, coro e orchestra (2003), Pizzicato, Udine;Te Deum, tenore, baritono, coro e orchestra (2001), Pizzicato, Udine;In Paradisum, soprano coro misto e organo (2004), Pizzicato, Udine.

Fonti di altri compositori:Perosa don Albino, Musica Sacra, revisione critica di Daniele Zanettovich, Rugginenti Editore, Milano, 2004;Miniussi don Narciso, Liturgia eucaristica- terza domenica d’avvento, alla Parrocchia di S. Giuseppe nel suoXX° anniversario 1965-1985, Largo Isonzo, Monfalcone;Seghizzi Cecilia, Musica per coro, Cassa Rurale ed Artigiana di Lucinico Farra e Capriva, 1993;Jericijo don Stanko, Missa Solemnis (1989) e”Concentus Ecclesiae” pezzi per organo, coro S. Ignazio, Gori-zia, 2002.

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Anna BombigStoriutis di paîs

UNA TRAGEDIA IN PAÎSGrant scjas a veva fat in chê lontana matinadal 1924 la teribile gnova che, di bocja inbocja, a veva fat intun lamp al zîr dal paîs. Viapa gnot la Lidya Wolff a si era cjolta la vitacuntun colp di rivolvar tal cûr. A veva sôl che18 agns e, oltre che a jessi siorona, a erabiela come ’l soreli. La int scaturida a no sidava pâs e no finiva plui di domandâsi ’lparzé di chê fin dal moment che no imancjava propri nuia a chê zovina e cjatavala spiegazion cu li’ suposizions plui stranis.Ancja jê, la plui zovina in famea, a chêdisgrazia a era restada scunida tal viodi sôsûr pi vecja rontâ come ’na disperada e a siera metuda a vaî cun jê. In chel dì lacjampana a no veva sunât di muart ma,otignuda la dispensa religiosa dopo ladiclarazion dal miedi cu la diagnosi“imbecillitatem mentis”, la vevin sapulida cula binidizion dal predi. La famea dai Wolf aera una das plui impuartantis dal paîs. Alcapofamea Filip, origjinari di Macarsca(Dalmazia), avocat di alt livel, al veva vût dal’19 al incaric di difindi i paîs balcanics bielch’al era in cors al trattât di pâs pa divisiondal imperi autro-ungaric rivât romai a la fin.Di cjasa a stavin pôc lontan da glesia intunabiela palazzina insiorada cuntuna toressach’a finiva adalt cuntuna altana di dulà ch’asi gjoldeva un panorama maraveôs. Lascuderia a dava su la strada e ’l mûr al eraguarnît cuntun biel crucifìs piturât di una manesperta che dispès al tirava l’atenzion di chêcuriosa di fruta co lava a cjatâ sô agna che astava difront. A era una das tantis imagjinis

devozionâls ch’a ornavin una volta li’ cjasissparidis purtrop, a vuera finida in timp diricostruzion dal paîs sdrumât da bombis.Dopo chê tragjedia, la famea non veva vût’na ora di ben fûr di un moment di ligria cuantche l’altra fia Vera a era lada nuvizza di un altuficiâl dal esercit talian. Insieme cui altris frutsa jera ancja jê là sul sagrât a curiosâ e aspietâ i confets. La cerimonia a era finida difûr sul sagrât da glesia cuntuna improvisadach’a veva lassât ducj cuancj di stuc difati, inuviz a erin passâts trionfalmentri sot di un

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La tomba dei Savio rovinata dal tempo. Vi riposano Lidyae Madalena Wolf, segnate dalle lastre di marmo alla basedel monumento (proprietà Bombig).

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arc di spadis biel incrosadis otignût dai amîsuficiâi. Duta di blanc cul vistît lunc guarnît diermelin, la nuvizza a someava ’naprincipessa. A erin simpri elegantis li’ feminisda famea Wolf: a fasevin rivâ par puesta icjapiei gnôfs di moda, fintramai di Parigi.Grampadis di confets a erin plombadis sulcjâf di chê sdruma di canais in spieta, prontsa butâsi “in picchiata” tra li’ gjambis dai

invidâts par gafâ chês pirulis blancjis senzastomeâsi se ancja sporcjis di tiara.Passât chel moment di ligrìa, disgraziis diogni sorta a vevin culpît chê famea.- Cjastic di Diu! a mormorava la int sotvôs.Bigna savê che a so timp, al avocat al erastât incaricât dai Savio, ch’a erin prima iparons da palazzina ocupada dopo dai Wolff,par difindi i lôr bens da pretesis vantadis diun parint ma, cuntuna causa iniusta, alavocat al era deventât lui invezit al paron diduta la proprietât.

I Savio, pari e fi di non Franz Joseph e FranzLeopold, a erin inteletuâi famôs e, ducjdoi,magjistrâts di alt livel cundiplui, stimâtscultôrs di sienza e di art ch’a vevin dât lustria la citât di Guriza. In paîs gi orevin ducj bene ju stimavin pa lôr onestât e moralitât di vita.Dal 1793 al pari al era stât judiz tal tribunâlpena discreât di Guriza e, podopo, di chel diClanfurt in Carinzia. Un so scrit sul misteriôsflun Timâf al veva fat colp tant biel ch’al era.Al fi invezit, poeta e scritôr sorafin di stamptodesc ’na vora preseât, al si era distintcome mediatôr tra li’ dôs culturis: todescja etaliana. Cumò a riposin intal cimiteri di Faraintuna biela tomba segnada romai dal timp,insieme cu la Lidya e cun sô mari Madalenaclamada cun afiet Mandina, muarta dal ’29 asôl 48 agns. Al fi Ton@i al è sapulît a Romama, no si sa invezit, dulà ch’al è lât a finîla alavocat.La cjasa dai Wolf a no je plui e cun jê a jesparida tanta storia. Un’altra cumò cun pluiapartaments a fâs dal 1980 biela mostra disé in via Roma. Tal fratimp ancja chê frutadeventada granda, a jera vignuda a savê lavera causa di chê muart violenta: la biela esfurtunada zovina a veva piardût al cjaf,senza nessuna speranza, daûr dal morôs disô sûr Vera.

PRINS DÎS DI SCUOLA.MALAN SENZA CJASTICRivât setembar a vin viodût ancja chist an, unmâr di fruts inviâsi a scuola puntuâi cui plendi ligrìa, cui ingusît e cui rassegnât. A viodiju,nus son tornâts subìta a gala i ricuarts danestra infanzia di scuelârs e, insieme li’ musisdi tancj compagns e di mestris piardûts divista cul lâ dai agns. A vin sintût ancja ungrop in font al cûr biel ch’a vignivin devantdai voi fats e moments particolârs benstampâts ta memoria. Ricuarts che us vueicontâ daurman.Co jeri fruta, la scuola elementâr di Fara aveva sôl che doi plans cun cuatri aulis

Casa Wolf a Farra d’Isonzo negli anni Ottanta al tempodella sua demolizione.

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grandis scjaldadis d’inviâr cu li’ stuis a lens.Dura la vita da bidela a chei timps! Za dimatina prest prin ch’al cricâs al dì, a veva unlavoron di impiâlis e di mantignî al fûc simprivîf. I scuelârs a erin tancj sistemâts tai bancsin ria di cuatri e a vevin di stâ atents cui voipontâts sul mestri in cattedra che a jerapoiada suntuna pedana in mût di viodilu parcapî miôr la lezion. A la fin da prima rampa discjalis, una puarta a veris a dava suntunateraza di dulà ch’a si podeva viodi la tesa: unparadîs justa ben par tindi uiscjadis pai uzeio par cjapâ sù flôrs di prât oben par rodolâsijù pa rivis libarsi di vignâi.Sôl dal 1955 alzada la scuola di un plan,chista a veva podût contignî dutis li’ clas alcomplet. Sin inalora laprima e la seconda a sicjatavin a jessi logadisinta vizina cjasa diricovar pai puars dalpaîs. Culì, insieme cuiviei a ’ndi capitavin dicrudis e du cuetis. A sisa che, di co ’lè mont,i fruts a son in gjenardispietôs e, se maipodin, a si la gjoldin acjoli via al prossim e untant a capitava culTelio, che nol era justdi cjâf par via ch’alfaceva dut se che giordenavin i pluismaliziâts dai mascjos.Al contrari di lui, ’nafemenuta strissinida eminudina che par ognipôc a nus coreva daûr cu la scova e nôcanaiatis, par fâla lâ plui in bestia a tacavin acjantâ: “La Sesa pìfara marcjava in chèbarascrpis di patina gi va benon. La fiesta dopo,tanta miseria mangiava rucola par gulizion ose bon!”.Al timp di ricreazion al era al moment just etant suspirât par sbrocâsi di chês oris di

atenzion. Tant ben che al curtîf da scuola alconfinava di una banda cul roiat: un ruiuzch’al ingrumava dutis li’ aghis dal ronc parstrucjâlis ta roia dal mulin. Dispès e discuindon, nô a si calavin jù pa riva sapulidadi glaudinariis, urtiis e baraz ch’a nussgrifavin li’ gjambis a sanc, par curiosâ col’aga a era in secja, chel trat di jet inglereâtch’al spariva intal scûr sot dal puint. Sebenplena di paura, ancja jo a vevi uarût lâ daûrdai plui coragjôs. Varìn cjaminât par un trentametros dopo dal puint jentrant intun canâl, esin saltâts fûr suspirant di solêf, tal ort dal bar“Sport” e mancumâl che nissun al si erainacuart di nô che cussì la vevin fata francja.Par chei minûts di libertât se grum di zûcs

ch’a vevin a disposizion! I mascjos cu lafionda inta sacheta a si la gjoldevin a zuiâ di“guardie e ladri” e po di paca, di pindulpandul, di platâsi, di balon imbastît cuipezzots, di bando, di scjinchis, disacaburaca. Chist ultin, al era veramentripericulôs par via ch’a saltavin un a la volta acavalot da schena pleada di un compagn.

In quarta classe con il maestro Marcello Salvini. Anna Bombig è la quarta seduta inprima fila da sinistra.

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Par furtuna che al è lât dut simpri slìs. Cundut chel saltâ però, la mirinda a nus rivava taipîts intun marilamp. Altris i zûcs di noaltrisfrutis par natura plui cuietis. Ancja nô azuiavin di platâsi e po di cuatri cjantons, dicjampanon. Fasevin vulintîr al ziratonttignintsi par man e, intant, a cjantavinfilastrocjis, a componevin figuris alegorichis osaltavin di cuarda, o zuiavin di colôrs, di“fazzoletto peo peo” e di cjasuta cui crepspuartâts di cjasa insieme cu la pipina (pupadi pezzot). Cul zuiâ insieme ogni dì a sicreavin rapuarts di afiet di lungja durada.Di chê sdruma di mestris ben preparâts cunrigôr didatic, vignûts fûr da inomenadisMagjistrâls di Gardiscja e di Capodistria, nus

resta vuê doma un biel ricuart. A erin mestrisdi tirâgi jù tant di cjapiel. Viodi ancjamò lafigura eleganta e di bielis manieris daTausani, la disponibilitât e l’impegn daDomini, la serietât e ’l mût garbât da BonClemente, la creanza e la bontât dal mestriSalvini e la severitât dal Aragni specialist talfâ jentrâ i conts tal cjâf dai plui zucons. In

mût particolâr però, mi riguardi cuntun agrâtla mê prima mestra Tomasi Nicolosi,diplomada di profuga in Carinzia ch’acognosseva al todesc e scriveva cuntunagrafia ch’a sommava ’na pitura. A jera jê chêch’a mi faceva fâ la solista di cjant e da albenvignût a li’ autoritâts di Roma in visita aGuriza cuant che a passavin sot dal arctrionfâl preparât tal borc Mulin. A jè chê, cheà vivût ancja plui a lunc dai sioi coleghis.Cjârs mestris ch’a vevin di tignî cont di unasdrumeria di arlêfs: quaranta o cinquanta parvolta di istruì e di educâ pa vita. Coventava’na vora di disciplina par no piardi li’ peraulisdal insegnant ch’al si iudava par fâsi sintî,cuntuna bacheta ch’al bateva sul taulin. La

nestra, a era la stagjonindulà ch’a si usava ’lmetodo “Pestalozzi”,non ricavât di chel dalgrant pedagogjist, parsignificâ ’l meti in vorala uiscja, metodo lâtromai in dismentia.Un’altra particolaritât diuna volta a era ancjachê, che in câs dibisugn par lâ taiservizis, a bastava alzâal poleâr in aiar e almestri al capiva a volola domanda.Ogni matina unacjampanuta cul so denden a clamava a lunc ifrûts a scuola. Intacjasis, sì e no ch’a sicjatava ’na svea e chel

riclam al era ’na vera mana dal zîl. Di solit avigniva sunada da bidela ma, invezit acapitava dispès e vulintîr che trê scuelârs,amîs pa piel, a ti rivavin a scuola a buonoracun chê di sunâla lôr tant ch’a i plaseva. Laspietavin saldo fûr da puarta e co jê a rivavae biel che a stava toregant tor das stuis, atacavin svelts a sunâ ducj imburîts. Una

In prima classe, nella foto scattata sul retro della scuola. Anna Bombig è la primaseduta a sinistra. Sullo sfondo la Tesa.

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Anna BombigStoriutis di paîs

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matina però, la jàn petada bengruessa. E tirae tira ch’a ti tiri la cuarda e via jê lacjampanuta fûr dal sostegn e, cuntun fracasche Diu nus vuardi, colâ sui cops dal cuviart.Tun lamp ribaltada ancja la situazion parzèche a erin dopo lôr a jessi tirâts di jè. Cui pîtssfrontâts sul teren a procuravin di tignîlaferma ma a no gi la fasevin plui a cundurâ pia lunc. A erin romai sfinîts e alora sberlant asi incitavin un cul altri. Ducj ros comepapavars a pensavin za al cjastic. A un cjartmoment a gi sbrissa fûr di man la cuarda e tisintin un rodolament jù pai cops e lacampana petâ un plomp jù par tiara dulàch’a finìs in mil bocons. Par furtuna che di

sot nol era nissun! Blancs cumò di pauracome ’l mûr e cu li’ gjambis ch’a clopavin, ano savevin plui se scjampâ in aula o difûr talcurtîf tant, prima o dopo, a vevin di incuintrâal mestri Aragni cognossût come “il castigamatti”. E di li un pôc eco ch’al stava rivant evignût a savê dal malan cumbinât di chei trêbirbants cun savietât e bon sens al sbotàcjalant chei meschins ch’a spietavin lasentenzia cul cjâf bas e ’l baticur: - Ma viavia, per venire a scuola un bravo scolaro nonha bisogno della campanella!Un suspiron liberatôrj e i voi di Aldo, di Nini edi Ettore a son tornâts serens come prima.

Lancûr

Se biel podê tornâ fruts,zujâ cui prins compagnsda nestra infanzia.Lancûr di un passâtch’al rivoca tal vueitsimpri plui larc intor.Scueluta viva intun nûldi fruts senza pinsîrs,musis di mestris smamidiscul vêl dal timp.Di lôr, nus resta doma’na cjara olma in font ’l cûr.

(1982)

Da sinistra: le maestre Maria Tomasi Nicolosi, Irma Tausani, Maria Domini ed Elena Bon Clemente (foto di Anna Bom-big e Mandina Castellan).

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RACCONTI E POESIE

Paolo ViolaContis furlanis

MURÎ DÔS VOLTISUne scugne lungje agnorums.Cui pes Merichis cui pes Gjermanis, duc’sa che i furlans a’ lavin pal mont a cirîlavôr-di-braz par cuistasi il pan, ustu parlôr ustu par chei di famee restâs in vile.Dutis lis fameis de nestre Furlanie, par viedi chist’eterne scugne garbe, a ’nd’an un odôi a tôr pal marimont.A’ tornavin cjase sot Nadâl par tornâ-viesubit dopo, altris si sistemavin tal forest ea’ sposavin feminis ch’a no jerin nostranis,pôc par volte a’ dismenteavin ancje discrivi ai parinc’ restâs chenti, altris ancjmò,a’ no davin segno di jessi in vite o notornavin plui, bielplanc a’ lavin indismentie.Pieri, fî unic di un uzzefuarfis, come duc’chêi da sô famee al jere simpri scunît disachete. Ancje la polente ’e jere curte incjase di chêl ch’al comedâve ombrenis ech’al lave torvie pes cjasis cuntunebiciclete fodrade di argains dal sô mistîr.Apene ’zovin al à scugnût lâ, cul barbe, inminiere in Belgio.Disredrosât senze rimission dal sô mont difrut.

Anche per il 2006 la rivista “Borc San Roc” ospita miei scritti in friulano. Il racconto “Mu-rî dôs voltis” tratto dalla raccolta “Nassût in ostarie” è, per l’argomento che tratta, di re-cente e discussa attualità. La breve riflessione “In vuê” che chiude il racconto è un richia-mo alla reciproca convivenza e ospitalità che, oltre ad essere una nostra tradizione, è puredovere civile. Figura significativa e sempre presente nei racconti è mia nonna, religiosissi-ma e ricca di saggezza popolare, sempre disposta a pregare un rosario per tutti e prodigadi consigli. La grafia e la grammatica con cui scrivo sono quelle del movimento letterariodi “Risultive”, per me ancora punto di riferimento.

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Borc San Roc

Paolo ViolaMurî dôs voltis

RACCONTI E POESIE

Mont di braidis verdis e di rivai sflurîs, fât discjepulis par lâ a tindi cui reclams, fât dirascjs d’aur rubadis tai vignai e mangjadisplatat daûr di un mûr blanc in rices di soreli.La miniere, un mont neri e cence lusôr, scûrancje vie pal dì, un mont sporc fât diblestemis di sudôr e platât sotiare.Quan’ ch’al vignive fûr al restave inceât dallusôr, chel lusôr ch’al jere la sô vite di frutplen di salût e ligrie e… miserie.Muart pa prime volte il nestri Pieri.

Dopo agn di miniere, al jere tornât par uarî nodome dal mâl dai minadôrs, ma ancje damaluserie madrissude ta sô anime di frut robâtdal mont vert e lusorôs da sô ’zoventût esepulît vîv in un poz’ fond neri, scûr e fâtd’infiâr. Quan’ ch’al vignive in ostarie, al si sentâvasimpri in bande e cui comedons sule taule altigniva cun lis mans il cjâf bass par cjalâ fisdentri la tazze dal vin.Ae none j faseve dûl:Cemût al jere in Belgio, Pieri? J domandavepar no lasalu di bessôl tal cidinôr dal sômalincûr. Se no tornavi svelt ’o murivi, al rispuindeve,cjalant salt fis te tazze dal vin e senze alzâ ilcjâf. Poben cumò ’o sesu in cure, par chel ch’o sai.Si… si… ma no par vie dai polmons ch’osares muart, al rispuindeve, al mi mancjave ilmê mont fât di lûs e di cîl celest… di gjonde divivi come par duc’ i fruz… fat di voe di cori…di ridi… di lâ a violis... di lâ cjrî nîz… di ’zujâ. ’O capîs... ma cumò ’o seis tornât, diseve lanone, ’o seis tornât tal vuestri mont piardût!Salt cjalant fis la tazze e cence mai alza il cjâf,cjacarant plui par lui che par rispuindi aldiseve: Piardût, piardût par simpri, cumo ’omur una seconde volte. Chel mont ch’osperavi tant di tornâ viodilu nol’è plui, chi dut ’lè gambiât, no jê plui la int di une volte, no micjati, la cjampagne no jê plui chê, ne i savôrsne i odôrs… nuje come prime. Tigni dur paragn par tornâ une dì tal mont lassât daûr...

tornâ e no cjâtalu plui. No zornin plui, vie pagnot, i rusignui, no si mangje plui fritae sulcjavez dai cjamps aras a tir di cubie, no pluisentasi soresere sui scjalins di cjase e sintì liscontis di robis lontanis…Si rimpinave su pal veri des memoriis di unevolte, salt cjalant fis ta tazze dal vin, ma dibotal sbrissave-ju, tan’che un plomp, ta veretât diun mont cambiât par simpri, al no savevacapilu, no oleve, o miôr, no ’l podeve capilu, altirava indenant aromai fur dal timp, no ’l veveplui fuarze di scombati.Al jere muart una seconde volte il nestriPieri.

Tal ajar frescje e limpide glons grevis dicjampanis, a’ sunavin di muart chê matine.Cui nus àjal lassât? ’E domandà la none.Pieri dal uzzefuarfis tornat dal Belgio par uarì,rispuindè un aventôr.In chestis ocasions la none, cun la man tasachete, la che in vite ’e veve la corone,sgragnolave sòt vôs un rosari. Chiste volte aljere pal Pieri sepulit viv ’za ’zovin e muart dôsvoltis prin di lâ, par da bon e in pâs, sot tiare!La gjatute rodolade, come spes, sui sôi zenoipar tignigiju cjalz, ’e zujave cun la ’zatutecuintri la sachete, la che sot si movevin i dezpar une sfilze di “Pater e Ave”. Finit il Requie ’etornave a rodolâsi e, cun voi di sun, a ronfâ.

IN VUÉIn dì di vuê, quant ch’o viôt un “Vu-cumprà” neri di pielcuntun borson plen di mercanzie ch’al vâ tôr pes cjasisa cirî di vendî alc, no mi ven inamenz un cramâr cuntant di crassigne, come ch’al sares just par nô furlans,ma ’o viôt Pieri fî dal uzzefuarfis, al mi somee apenevignût fur da miniere, inceât e neri insfrusignât dicjarbon.Forsit par chist, ancje se jo no j compri nissun di cheistrafaniz ch’al vent, j doi la man, j domandi ce nomch’al à, dontri al ven e cemût ch’al stâ, e se ’l ul, j paiun taj di vin o alc atri.Cui sa s’o lu judi a no murî pa prime volte?Sot il sflandôr dal soreli duc’ i ùmign a’ son fradis tafan, ta sêt… e ta voe di cjase.

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Troi di mindusiis

Daspò velu cirùt la mê frute’e ja intivât un troi’l è toscan rizzot, verz i voi.

Jenfri i nui, adalt sot l’arc di san Marcal và chel troi di gjonde, lizer e larc,’l è dolz sicu mîl unevore final nûl di basili, melisse e rosmarin.

Cence parcè si rît, si cjantela robe di nuje ’e conte,dulinvie paveis di cènt colôrse musiche cence sunadôrs.

Lu côr contente la frutatechel no ’l è luc di bausìisal è un troi di mindùsìis.

Stà ’nacuarte, frute, chel troi pol voltassi si po’ sbrissâ, colâ inbardeassi,di rubide pò’ jessi intrigât e sporce puartâti drete tun gorc.

Ma dentrivie la me taviele, pol dassi,ch’al si slungi o al passi,tal câs ores dâti una man, se ’l ocôr,par tornâ nulî des mindùsìis ’l bonodôr.

Avost ’98, to pari.

Tutti i genitori sentono il bisogno di parlare ai propri figli quando questi si trovano ad af-frontare le meraviglie, coinvolgenti e inebrianti, della vita. Quando ho saputo che mia fi-glia si era innamorata, quasi in punta di piedi ho pensato di avvicinarmi a lei e al suo nuo-vo delicato momento con una poesia. Spiegandole così cosa pensavo dell’essere innamora-ti e nel contempo assicurandole sostegno nel caso in cui…

Troi: sentiero, via o stradaMindusiis: erbe aromaticheArc di San Marc: arcobalenoMîl: mieleRubide: rovi, cespugli di roviGorc: gorgo, vorticeTaviele: campagna pianeggiante e coltivataNulî: odorare

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Borc San Roc

IL TEMPO DEL BORGO

Dalia Vodice“Ogni uomo appartienealla sua storia”

La radice è goriziana: “Mi riconosco radica-to nei caratteri della gorizianità. Sono figliodi genitori friulani con nonna materna slo-vena della Benecia, cresciuto “sotto la Ca-pela” fra la scuola elementare “Fumagalli” ei frati della Castagnavizza, alunno del Gin-nasio goriziano e poi del Seminario minorefino alla formazione teologica del Centraledove sloveni, istriani, friulani, triestini con-vivevano nello stile della Chiesa cattolica edella tradizione mitteleuropea”. Don LuigiTavano sintetizza così l’impronta della suaesistenza. Nato il 22 dicembre 1923, ordina-to sacerdote nel 1946, don Luigi appartienealla generazione di preti che hanno vissutola feconda stagione di creatività del dopo-guerra, “sia in campo strettamente religiososia in ambito culturale-sociale, con ItaloBrandolin, Pietro Cocolin, Ennio Tuni, Lui-gi Pontel, ma anche insieme al gruppo digiovani di formazione cattolica impegnatinella vita pubblica, da Celso Macor a Mi-chele Martina, da Rolando Cian a PasqualeDe Simone”, ricorda Tavano.Nell’ambito della vita diocesana, è stato re-

dattore dal 1946 al 1957 dell’edizione gori-ziana del settimanale triestino Vita Nuova,infaticabile animatore dello scoutismo, ca-techista e segretario dell’Ufficio catechisticodiocesano, fra i promotori di Voce Isontinanel 1964, anno dal quale si dedica alla for-mazione dei giovani secondo la modernitàdell’esperienza di Gioventù Studentescache esprime a Gorizia l’esigenza di una pre-senza educativa con caratteri di identità cri-stiana e di creatività sociale. L’impegno pro-segue, poi, dal 1967 nella città di Bolzano,dove don Luigi anima vita studentesca euniversitaria ed è tra i fondatori del Centroculturale “Guardini”.A Gorizia rientra su richiesta dell’arcivesco-vo Cocolin nel 1982: può dedicarsi a tempopieno all’interesse storico, già coltivato co-me docente di storia ecclesiastica nei corsiteologici. Sulla scia dell’opera di CamilloMedeot, è nel 1982 tra i fondatori dell’Isti-tuto di storia sociale e religiosa, che presie-de dal 2003 - oggi al secondo mandato - e dicui è stato a lungo segretario. “Al rientro aGorizia ho ritrovato una certa vitalità cultu-

Il Premio San Rocco 2006 viene assegnato a don Luigi Tavano,storico e studioso goriziano

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Dalia Vodice“Ogni uomo appartiene alla sua storia”

IL TEMPO DEL BORGO

rale attorno alla scuola storica del maestroMedeot, con cui venne fondato l’Istituto in-sieme ad alcuni storici come Italo Santeusa-nio, Fulvio Salimbeni, Ferruccio Tassin edEttore Fabbro”, ricorda Tavano. L’Issr na-sce con obiettivi precisi: “Le caratteristicheoriginarie dell’Istituto erano improntate aprendere sul serio la multiculturalità e ilpluralismo culturale, perché questi non so-no orientamenti frutto di una certa modaeuropeista. E poi l’attenzione costante per-ché l’Istituto non avesse identità prevalente-mente istituzionale o politica, ma guardasseagli aspetti sociali, intendendo perciò

l’aspetto religioso non in senso clericale,bensì sociale”. Ed ecco il coinvolgimento distorici austriaci e sloveni - come soci e comecollaboratori dell’Istituto - per affrontarecorrettamente le questioni del Gorizianonella sua complessità storica e nazionale, lapromozione di convegni internazionali incampo storico. “Anche la collana di volumisulle culture del Goriziano, friulana, slove-na, ebraica, veneta e tedesca, risponde allamulticulturalità propria del nostro conte-sto”, rileva lo storico.L’attività di ricerca di don Luigi Tavano siesplica in una bibliografia di un centinaio di

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Gorizia, 20 gennaio 1984: il convegno internazionale di studio su Stefano Kociancic, una delle prime iniziative promos-se dall’Istituto di storia sociale e religiosa.

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saggi e interventi su volumi e riviste, nellacollaborazione richiesta ad opere edite aBerlino, a Vienna, a Lubiana, a Roma. Nel-la sua attività storica, don Tavano si è dedi-cato alla ripresa e allo sviluppo della tradi-zione locale di studi storici in campo stori-co-religioso, rivolti alla ricostruzione criticadella ricca vita religiosa della diocesi, sia alivello di fonti sia di temi e di personalità.Fra i lavori più importanti, spiccano il Pro-getto Attems sulla prima arcidiocesi gorizia-na (1751-1788), gli approfondimenti sullagrande stagione goriziana del primo Nove-cento, i problemi della diocesi tra le due

guerre e nel periodo della guerra e, in parti-colare, della Resistenza. Un lavoro intenso eappassionato, che sfocia nel 2004 nella pub-blicazione della prima storia della diocesi,“un lavoro esemplare per accuratezza meto-dologica e vigore di sintesi” rileverà il notostorico Iginio Rogger.Il mese di novembre del 2006 si lega, perl’Istituto di storia sociale e religiosa, allapresentazione a Vienna del Dizionario bio-grafico degli alunni del Frintaneum, un am-pio lavoro di ricerca in lingua tedesca pro-posto dall’Issr, lavoro che ha impegnato de-cine di storici tedeschi, italiani, sloveni e

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La presentazione del volume dedicato alla cultura friulana nel Goriziano. Alla destra di don Luigi Tavano siede Ferruc-cio Tassin, tra i fondatori dell’Issr.

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Dalia Vodice“Ogni uomo appartiene alla sua storia”

IL TEMPO DEL BORGO

croati. “Nel Frintaneum viennese tra 1818 e1918 l’imperatore accoglieva un certo nu-mero di giovani sacerdoti, provenienti daun’area che si estendeva dal Veneto a Varsa-via. Il progetto ha permesso non solo diidentificarli, ma soprattutto di analizzare ecapire quale riflesso può avere avuto la for-mazione viennese nell’operato dei singolisacerdoti in zone molto diverse. È il segnodi come anche dalla periferia si possa met-tere in moto qualcosa di grande”, commen-ta don Tavano. La consapevolezza è cheGorizia si inserisce nelle linee di ricerca chesi aprono intorno al centro paleocristiano diAquileia e si spingono verso la Mitteleuro-pa. “Sono figlio di questa cultura - affermacon consapevolezza don Luigi - con tutti ilimiti di ogni circostanza”. La certezza, in-fatti, è che “ogni persona appartiene allasua storia”.Don Tavano è membro delle Deputazioni distoria patria di Udine e Trieste, dell’Istitutodi storia sociale e religiosa di Vicenza, del-l’Accademia di scienze, lettere e arti di Udi-ne. “Il gusto della storia? Risale al piacere dileggere da ragazzo i romanzi storici fino al-la conoscenza del mondo aquileiese, sco-perto attraverso insegnanti che mi hannofatto amare questa disciplina”, rileva.In ambito locale - “ma mai localistico”, amasottolineare con orgoglio don Tavano -l’Istituto cura una serie di importanti archi-vi. Fra gli interventi più recenti in ordine ditempo, vanno citati quelli che hanno inte-ressato il Capitolo metropolitano di Gori-zia, l’archivio Faidutti, il fondo del primopresidente della Provincia Angelo Culot, si-no all’intervento sull’archivio che raccoglietutte le associazioni operanti a Gorizia fra il1866 e il 1918.Di maggiore valenza scientifica, la trascri-zione e pubblicazione in corso dell’Historia

Collegii S. J., la schedatura della bibliotecadi quel collegio (la prima di Gorizia), non-ché la pubblicazione della cinquecentescavisita pastorale di Bartolomeo da Porcia.“La storia senza documenti è una ripetizio-ne di luoghi comuni”, non ha dubbi lo sto-rico. E guardando alla sua “piccola” città ri-leva con una punta di amarezza: “La politi-ca culturale appare piuttosto insufficiente.Dal mio punto di vista, ritengo che sia giu-sto e doveroso valorizzare le tradizioni per-ché sono espressione di cultura da coglieredietro la vita sociale dell’uomo”.Ai giovani che guardano con interesse allaricerca storica, anche con l’intenzione di ar-ne una professione, don Luigi consiglia di“amare la propria identità culturale, acqui-sire gli strumenti scientifici per studiare ilcontesto storico e diffidare dalla storiogra-fia dipendente da ideologie”. Spiega Tava-no: “Bisogna affidarsi alla ricerca storica in-tendendola come passione per l’uomo neisuoi percorsi storici, senza ricercare unaspecializzazione particolaristica ma inse-guendo piuttosto il modello di una ricercache si muova nel grande alveo della storia”.Modello, questo, che Tavano riconosce astorici come Gabriele De Rosa, France Do-linar di Lubiana e Franz Frankl di Vienna,fino a Liliana Ferrari di Trieste e Andrea Ti-latti di Udine, “personalità qualificate perl’Istituto, per me punti di riferimento”, e aun bel gruppo di giovani ricercatori, italianie sloveni, che collaborano attualmente conl’Istituto.Dall’accostare l’esperienza educativa e lapassione per la ricerca, nasce anche l’inte-resse per le visite culturali che trovano inTavano un instancabile animatore. “È fon-damentale la capacità di coniugare i daticulturali, di leggere il luogo che si visita nel-la sua matrice culturale attraverso la storia”,

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spiega il presidente. Convinzione che portal’Istituto a guidare gli appassionati in visitain Italia e all’estero, ma che al tempo stessospinge don Tavano a offrirsi quale guida achi vuol conoscere Aquileia.Storia, ma non solo. C’è un’altra passioneche resta sullo sfondo di una intensa attivi-tà. La musica. Sorride don Tavano e sischermisce: “Attraverso la musica usufrui-sco solo della bellezza dell’arte. È una pas-

sione coltivata a Bolzano per anni, in unacittà che conta sulla grande tradizione mu-sicale del Premio Busoni e dell’Orchestragiovanile legata al nome di Claudio Abbadoe che si trova poco lontano dalla magia mu-sicale di Salisburgo. Chiaro che, una voltarientrato a Gorizia, io abbia cercato un“contentino” andando all’opera, ai concer-ti…”. Ma questa è un’altra storia.

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Don Luigi Tavano presiede l’Istituto di storia sociale e religiosa di Gorizia dal 2003. Il premiato svolge un’intensa attivi-tà di ricerca storica. Numerose sono le sue pubblicazioni e le collaborazioni a iniziative editoriali straniere.

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Centro per la conservazionee per la valorizzazionedelle tradizioni popolaridi Borgo San Rocco - Gorizia

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