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Bollettino della Società Filosofica Italiana Rivista Quadrimestrale Nuova Serie n. 192 - settembre/dicembre 2007 INDICE CORPO VS. ANIMA E. Berti, Che cos’è l’anima? p. 5 G. Bonaccorso, Corpo e anima oggi p. 17 M. De Caro, “Mens sive anima”. Filosofia analitica e cartesianismo p. 30 Studi e interventi M. Biscuso, Hegel critico della fisiognomica p. 39 G. Castagnoli, Il Socrate metafisico di Michele Federico Sciacca p. 47 Didattica della filosofia A. Grotti, Il reticolo delle idee p. 58 Convegno SFI 2008 p. 70 Convegni e informazioni p. 72 Le Sezioni p. 79 Recensioni p. 84

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Bollettino dellaSocietà Filosofica Italiana

Rivista QuadrimestraleNuova Serie n. 192 - settembre/dicembre 2007

INDICE

CORPO VS. ANIMA

E. Berti, Che cos’è l’anima? p. 5G. Bonaccorso, Corpo e anima oggi p. 17M. De Caro, “Mens sive anima”. Filosofia analitica e cartesianismo p. 30

Studi e interventiM. Biscuso, Hegel critico della fisiognomica p. 39G. Castagnoli, Il Socrate metafisico di Michele Federico Sciacca p. 47

Didattica della filosofiaA. Grotti, Il reticolo delle idee p. 58

Convegno SFI 2008 p. 70

Convegni e informazioni p. 72

Le Sezioni p. 79

Recensioni p. 84

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Ci scusiamo con i lettori per questo spiacevole errore.

CORPO VS. ANIMA

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In attuazione di quanto deliberato dal Consiglio direttivo, il terzo fascicolo di ogni anna-ta avrà carattere monografico e sarà dedicato a un tema di notevole rilevanza nell’attualedibattito teorico. Il tema qui affrontato è Corpo vs. anima.

La Redazione

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Che cos’è l’anima?

Enrico Berti

L’anima costituisce oggi un problema. Le persone colte, che hanno un minimo di fa-miliarità con la filosofia e la scienza contemporanee, evitano di parlare di “anima”, anche sefanno largo uso di parole come “psiche”, “psichico”, “psicologico”, e ammettono scienze co-me la psicologia – una delle facoltà universitarie più frequentate d’Italia –, la psichiatria e, siapure con qualche controversia circa il suo statuto epistemologico, la psicanalisi. Veramente,a proposito di quest’ultima si va sempre più diffondendo l’abitudine di chiamarla semplice-mente “analisi”, come quando si dice “da qualche tempo sono in analisi”, forse per allonta-nare il sospetto che essa abbia a che fare con l’anima. La gente comune, invece, continua aparlare di anima, ma quasi sempre in un contesto religioso, come quando si preoccupa di “sal-varsi l’anima”, o considera la morte come un “rendere l’anima”, o prega per le “anime dei de-funti”. Naturalmente l’anima è esplicitamente menzionata dalla teologia, o meglio da una cer-ta teologia alquanto tradizionale, la quale parla di creazione immediata dell’anima da parte diDio e di sopravvivenza dell’anima al corpo, ovvero di immortalità dell’anima.

Ma che cosa si intende per “anima”, sia quando se ne parla, sia quando si evita di par-larne? La domanda non deve essere rivolta agli scienziati, i quali, se parlano da scienziati, ten-dono a non riconoscere l’esistenza dell’anima, probabilmente perché ne hanno un concettoche, come vedremo tra poco, la sottrae ad ogni possibile considerazione scientifica. Rivolgia-mola allora ai filosofi, lasciando in pace, per il momento, i teologi, i quali, come vedremo, so-no tutt’altro che concordi al riguardo. I filosofi, benché siano tradizionalmente la categoriapiù litigiosa che si conosca, sono oggi abbastanza d’accordo nel dichiarare che l’anima è unmito del quale bisogna liberarsi.

Uno dei più influenti filosofi del Novecento, l’inglese Gilbert Ryle (1900-1976), pa-dre, insieme con J. L. Austin, di quella corrente della filosofia analitica che, rifacendosi al-l’insegnamento dell’ultimo Wittgenstein, si è dedicata all’analisi del linguaggio ordinario, èdiventato famoso soprattutto per il libro The Concept of Mind (1949), tradotto in italiano daF. Rossi-Landi col titolo Lo spirito come comportamento (Einaudi 1955 e Laterza 1982), cheè una forzatura, ma non del tutto ingiustificata1. In esso infatti Ryle sostiene che, quando par-liamo di “anima”, o di “mente”, siamo vittime del “mito di Descartes”, cioè di credere che lamente sia una “cosa” distinta dal corpo, ma appartenente alla stessa categoria (quella di so-stanza), che da “dentro” il corpo ne determina e ne guida le azioni. Poiché per Descartes il

1 Esso è stato recentemente ritradotto da G. Pellegrino col titolo Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007.

corpo non era altro che una “macchina”, questa credenza può chiamarsi anche il mito dello“spettro nella macchina”. In effetti Descartes considerava l’anima come una res, la cui essen-za consiste unicamente nel pensiero, per cui si chiama res cogitans, e che può esistere indi-pendentemente dal corpo, cioè è una “sostanza”. Secondo Ryle, Descartes avrebbe professa-to questa dottrina allo scopo di conciliare la sua fiducia di scienziato nel meccanicismo dellarealtà materiale con la sua fede di cattolico nell’immortalità dell’anima.

In realtà il “mito di Descartes” si era già dissolto al tempo di Kant, il quale, come giàaccennato, osservò che dell’anima non abbiamo alcuna esperienza scientificamente control-labile, quindi non abbiamo nessuna scienza, anche se l’idea di anima resta un’idea della ra-gione, indispensabile per dare unità alla totalità dei fatti psichici, ma come idea regolativa,non produttrice di effettiva conoscenza. Il ragionamento di Descartes, che dalla necessità diammettere un soggetto logico del cogito inferisce la necessità di un soggetto reale, cioè di unasostanza, secondo Kant è un “paralogismo”, cioè un ragionamento sbagliato.

Dopo Ryle, e talvolta dimenticandone il contributo, i filosofi contemporanei, nella se-conda metà del Novecento, hanno sviluppato un famoso dibattito sul cosiddetto Mind-BodyProblem, cioè il problema di quale rapporto vi sia tra mente e corpo, problema che almenoapparentemente sembra riproporre il “mito di Descartes”, anche se per lo più i filosofi lo han-no risolto in maniera disastrosa per l’anima, o per la mente, dapprima riducendola alla stre-gua di un semplice software per computer, cioè per il corpo, inteso come hardware (il cosid-detto “funzionalismo”, teoria sostenuta, ad esempio, da H. Putnam ad un certo punto del suoitinerario filosofico2), e poi riducendola senz’altro al funzionamento del cervello umano, con-siderato a sua volta come un semplice prodotto dell’evoluzione biologica, e quindi oggetto diindagine da parte delle scienze neurologiche (il cosiddetto “naturalismo”, professato ad esem-pio da D. C. Dennett3).

Il realtà il “mito di Descartes” è molto più antico della filosofia e della scienza moder-na, perché risale al culto di Dioniso, importato dalla Tracia in Grecia nel VI secolo a. C. e ividiffuso da poeti mitici come Orfeo e Museo, o realmente esistiti come Ferecide, Epimenidee Onomacrito, secondo i quali l’anima sarebbe un demone, cioè un essere intermedio tra l’uo-mo e il dio, che preesiste al corpo e si incarna in esso per un certo tempo, reincarnandosi suc-cessivamente in altri corpi, umani o anche animali, a seconda dei meriti o delle colpe acqui-siti in questa vita. A questa credenza aderirono anche alcuni filosofi greci, come il pitagoricoFilolao, Empedocle e, soprattutto, ma non completamente, Platone. Questi infatti nel Fedo-ne sostiene, come gli Orfici, che l’anima si trova nel corpo come in un carcere, o in una tom-ba, da cui aspira ad uscire con la morte, per tornare nel mondo delle Idee, da dove proviene.Nel più tardo Timeo, però, Platone formula una dottrina meno pessimistica, dicendo che l’ani-

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2 Cfr. H. Putnam, Mind, Language and Reality, Cambridge 1975, trad. it. Adelphi, Milano 1987.3 Cfr. D. C. Dennett, The Mind’s I: Fantasies and Reflections on Self and Soul, Basic Books, New York 1981, tr. it.Adelphi, Milano 1992.

ma si trova nel corpo come in un veicolo, cioè uno strumento, del quale essa si serve per i suoifini. Al “mito di Descartes”, che quindi sarebbe più giusto chiamare semplicemente “duali-smo”, tuttavia soggiacquero in una certa misura anche i filosofi “fisici” (come diceva Aristo-tele), che concepivano l’anima come formata dagli elementi, cioè aria (Anassimene), fuoco(Eraclito), atomi (Democrito), e quindi come una cosa fra le altre.

L’unico filosofo greco che reagì al dualismo fu Aristotele, ma ciò dovette costargli unacerta fatica, perché nelle sue opere giovanili, di cui abbiamo solo qualche frammento, egli pa-ragonava l’unione tra l’anima e il corpo al supplizio che i pirati etruschi infliggevano ai propriprigionieri, legandoli ciascuno ad un cadavere sino a farli morire per il contagio con la putre-fazione di questo. Nel più maturo De anima, invece, Aristotele concepì l’anima non come unasostanza, o una cosa, distinta dal corpo, ma come la forma, cioè la struttura, l’organizzazione,del corpo, e non di un corpo qualsiasi, bensì di un corpo “avente la vita in potenza”, cioè ca-pace di vivere. Più precisamente, Aristotele definì l’anima come “atto primo” di tale corpo, in-tendendo con questa espressione il possesso, o la presenza, di una capacità, non ancora il suoesercizio (“atto secondo” o attività). Poiché la capacità in questione è la capacità di vivere, l’ani-ma, intesa come presenza di tale capacità, è semplicemente la vita, ossia ciò che distingue uncorpo vivente, ovvero un “animale” (in greco zoon, vivente, da zoe, vita), da un corpo morto,cioè da un cadavere. Se la scure avesse un’anima, dice Aristotele, la sua anima sarebbe la ca-pacità di fendere, e se l’occhio avesse un’anima, questa sarebbe la vista. Una scure incapacedi fendere non è una scure, o lo è solo di nome (per esempio quando è dipinta), come un oc-chio incapace di vedere non è un occhio, o lo è solo di nome (per “omonimia”).

Naturalmente per Platone l’immortalità dell’anima non è un problema, mentre lo è perAristotele, perché l’immortalità può appartenere solo a qualcosa di indipendente dal corpo, el’anima per Aristotele non è indipendente dal corpo. Anche la capacità di pensare, che distin-gue l’anima umana da quella degli animali o delle piante, secondo Aristotele per un verso habisogno del corpo, che le fornisca attraverso i sensi le immagini in cui cogliere le forme in-telligibili, e per un altro verso ha bisogno di un principio superiore, sempre in atto, che le fac-cia cogliere le forme intelligibili. Perciò Aristotele distingue un “intelletto passivo”, propriodell’uomo, che è mortale, e un “intelletto attivo”, forse superiore all’uomo, cioè divino, cheè immortale. In tal modo il singolo individuo è destinato a morire completamente, e l’unicasopravvivenza a cui può aspirare è quella di sopravvivere nei propri figli, trasmettendo loro,se è padre, attraverso il proprio seme una serie di impulsi che ne determinano la forma, cioèl’anima (mentre la madre fornisce loro, col proprio sangue, il corpo).

Queste due concezioni dell’anima, quella “dualistica” di Platone e quella unitaria diAristotele, si incontrarono, tra il I secolo a. C. e il I secolo d. C., con la concezione dell’ani-ma presente nella Bibbia, cioè la Bibbia ebraica, contenuta in quello che i cristiani chiamanoVecchio Testamento, e quella cristiana, contenuta in quello che gli stessi chiamano Nuovo Te-stamento. L’incontro avvenne dapprima ad Alessandria d’Egitto, dove la Bibbia fu tradotta ingreco dai Settanta, e poi nei vari centri dell’Impero romano, dove si diffuse il cristianesimo.

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Nel Vecchio Testamento l’anima è detta nefesh (più raramente ruach), che significa “soffio”,respiro, vento (come il greco anemos), e indica il soffio vitale, il respiro, che è posseduto daiviventi e che si “esala” con la morte. L’anima è dunque la vita (singolare coincidenza con laconcezione aristotelica, ma del tutto casuale, perché i rispettivi autori si ignoravano) e cessacon la morte. Nessuna traccia di immortalità dell’anima, se non nei libri più recenti, influen-zati dalla filosofia greca (per esempio la Sapienza), che gli Ebrei non considerano canonici,cioè ispirati. In compenso, il Vecchio Testamento presenta come destino dell’uomo la resur-rezione, cioè il ritorno alla vita dell’uomo intero, corpo e anima.

Il cristianesimo primitivo, nella sua parte prevalente, sviluppatasi in Palestina, restòsostanzialmente fedele all’uso vetero-testamentario, secondo il quale l’anima è la vita, e neconservò l’idea della resurrezione dell’uomo intero, intesa come evento da collocarsi alla fi-ne del mondo, col ritorno sulla terra del Cristo. Tuttavia qualche influenza del dualismo gre-co, di origine platonica, entrò anche nel Nuovo Testamento. Gli esegeti infatti sono concordinel riconoscere che il termine “anima”, ancorché tradotto in greco con psyche, sia nei Vange-li che nelle Lettere degli Apostoli significa quasi sempre “vita”, o essere vivente, o uomo, as-sumendo il valore di un pronome personale, spesso riflessivo4. Solo in Matteo 10, 28 sembradi scorgere una traccia di dualismo, dove Gesù dice: «non abbiate paura di quelli che uccido-no il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il pote-re di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna». Mi permetto tuttavia di osservare che inquesto passo si parla anche di morte dell’anima, sia pure come forma estrema di dannazione,dunque non si ammette l’immortalità dell’anima.

Nei secoli successivi, mentre nella filosofia antica non cristiana trionfò il neoplatoni-smo, con la dottrina dell’immortalità dell’anima, nella filosofia cristiana si cercò una sintesidi platonismo e cristianesimo, ammettendo, ad esempio con Giustino (II secolo) e con Gre-gorio di Nissa (IV secolo), sia l’immortalità dell’anima che la resurrezione, anche se solo que-st’ultima fu recepita ufficialmente dalla Chiesa nel Credo attribuito agli Apostoli e nel Credoniceno-costantinopolitano. La dottrina di Tertulliano (III secolo), che per reagire all’eccessi-vo spiritualismo degli gnostici sostenne la generazione dell’anima insieme con il corpo adopera dei genitori, fu condannata col nome di “traducianesimo” due secoli più tardi (nel 498).Ma il vescovo Nemesio di Emesa, vissuto tra il IV e il V secolo, pur ammettendo con Plato-ne la sostanzialità dell’anima, affermava l’unità dell’uomo in senso aristotelico.

Lungo tutto il medioevo la concezione platonica dell’anima si impose nella filosofiae nella teologia cristiana, finché Tommaso d’Aquino non vi introdusse un certo aristotelismo(fortemente influenzato dal neoplatonismo), concependo l’anima come forma del corpo, maal tempo stesso affermandone l’immortalità con la rivendicazione dell’appartenenza dell’in-

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4 Cfr. Centre Informatique et Bible-Abbaye de Maredsous, Dictionnaire Encyclopédique de la Bible, Brepols,Turnhout 1987, trad. it. Borla, Roma 1995, voce “anima”.

telletto attivo all’anima umana. Tommaso tuttavia si trovò di fronte al grosso problema di con-ciliare la dottrina aristotelica, secondo cui l’anima viene trasmessa dal padre, sia pure attra-verso impulsi meccanici, con la dottrina ormai impostasi nella teologia cristiana, secondo laquale essa viene creata immediatamente da Dio. Egli se la cavò sostenendo che il padre ge-nera l’anima vegetativa prima e sensitiva poi, mentre Dio crea direttamente l’anima intellet-tiva, cioè propriamente umana. Ma, dovendo ammettere con Aristotele che l’uomo possiedeuna sola forma, e quindi una sola anima, Tommaso fu costretto a supporre un mutamento so-stanziale del feto da pianta ad animale e da animale a uomo, collocando quest’ultimo, e con-seguentemente la creazione dell’anima da parte di Dio, nel quarantesimo giorno dello svilup-po del feto (per i maschi, e nel novantesimo per le femmine)5. Tommaso ammise poi la so-pravvivenza dell’anima al corpo, cioè la sua separazione dal corpo con la morte, sia pure con-siderando tale separazione una condizione innaturale, perdurante sino al recupero dell’unio-ne naturale dell’anima col corpo nella resurrezione6. Quest’ultima dottrina fu fatta propria dal-la Chiesa cattolica con un decreto del papa Benedetto XII nel 1336.

Come sono andate le cose nella filosofia moderna, l’abbiamo già visto: il dualismoplatonico è risorto col “mito” cartesiano dello spettro nella macchina, ma è stato seriamenteminato da Kant con la sua critica alla sostanzialità dell’anima. È interessante, ora, constatarecome nel Novecento, in seguito alla demolizione del mito cartesiano ad opera di Ryle, si ètornati ad una concezione dell’anima che è sostanzialmente quella aristotelica. Ryle non citaquasi mai Aristotele, così come non cita, secondo lo stile dei filosofi analitici, nessun altro fi-losofo, ma lo conosceva bene, per averlo studiato nella sua formazione e per avere collabo-rato con Austin ad Oxford negli anni ’40 e ‘507. In The Concept of Mind egli concepisce la“mente”, cioè l’anima, come un’“abilità” o una “disposizione”, o “un complesso di disposi-zioni”, cioè come “un fattore il cui genere logico non è quello delle cose che si possono ve-dere o no, registrare o meno”8. Egli parla di “disposizioni specificamente umane”, che nonsono semplici, o a senso unico, come i riflessi o le abitudini, ma “si possono esercitare in ma-niere indefinitamente eterogenee9, le cui “attualizzazioni” sono “attività” come il ragionare inmaniera intelligente10.

Ora, poiché l’esistenza di tale disposizione si manifesta nelle sue attività, le quali so-no attività del corpo, anzi dell’uomo, la posizione di Ryle è stata interpretata come una for-

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5 Thomas Aquinas, Summa Contra Gentiles II, 75, e III, 22. L’allusione al quarantesimo giorno è in Thom. Aq., Su-per Sent. III, , d. 3, q. 5, a. 2, e risulta dall’interpretazione erronea di un passo di Aristotele, Hist. an. VII 3, 583 b 1-30, dove il filosofo dice soltanto che i primi movimenti del feto di sesso maschile vengono percepiti dalla madre in-torno al quarantesimo giorno. 6 Thomas Aquinas, Summa theologiae I, q. 76, a. 1, ad 6; I, q, 89, a. 1.7 Per le notizie al riguardo devo rinviare al mio libro Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992.8 G. Ryle, Il concetto di mente cit., p. 28.9 Ivi, pp. 39-40.10 Ivi, pp. 42-43.

ma di “comportamentismo”, come risulta dal titolo del suo libro adottato da Rossi-Landi, Lospirito come comportamento. Ryle ha accettato questa traduzione, precisando però che il suoè un comportamentismo “logico”, cioè che riguarda il linguaggio con cui descriviamo la men-te, senza ridurre la mente ai suoi comportamenti11. In realtà la sua concezione dell’anima cor-risponde alla lettera a quella di Aristotele. La “disposizione” è infatti quello che Aristotelechiama “atto primo” (entelekheia prote), cioè presenza, o possesso attuale, di una capacità12,che può essere di tipo vegetativo (respirare, nutrirsi, crescere), sensitivo (percepire, desidera-re, muoversi), o intellettivo (pensare, volere, deliberare). Quelle che Ryle chiama le disposi-zioni specificamente umane, cioè non a senso unico, corrispondono a quelle che Aristotelechiama le “potenze razionali”, che si distinguono da quelle “arazionali” (alogoi) perché sonopotenze dei contrari13. Infine quelle che Ryle chiama le “attività”, o le “attualizzazioni delladisposizione”, cioè i comportamenti, corrispondono alle “attività” (energeia), cioè all’“attosecondo”, di Aristotele, ossia le diverse forme di vita in cui si esplicano le potenzialità cheformano l’anima14.

Ma è ancora più interessante constatare come ad un certo punto del dibattito sul Mind-Body Problem, che ha dato vita addirittura ad un nuovo tipo di scienze, le “scienze cognitive”,ha fatto irruzione in esso la filosofia di Aristotele, costringendo i partecipanti a prendere posi-zione nei confronti di questa. Ciò era giusto e forse inevitabile, ma si è manifestato in una for-ma così vistosa e macroscopica da risultare sorprendente. Già nel corso degli anni ’50 e ’60del Novecento Aristotele era stato usato, per esempio da H. Feigl, T. Slakey, W. I. Matson, asostegno di posizioni di tipo fisicalistico o comportamentistico15; poi, nel corso degli anni ’70e ’80, la sua concezione dell’anima fu usata, per esempio da H. Putnam e Martha C. Nussbaum,a sostegno di posizioni di tipo funzionalistico; infine, negli anni ’90, gli stessi sostenitori delfunzionalismo – in polemica con interpretazioni della psicologia di Aristotele ispirate alla teo-ria dell’intenzionalità di F. Brentano (J. Barnes, M. Burnyeat), da loro giudicate platonizzzan-ti perché sostenitrici dell’immaterialità dell’anima – rivendicarono la stretta unità e insepara-bilità dell’anima non da un corpo qualsiasi, come può essere l’hardware di un computer, mada un corpo vivente, aderendo in tal modo completamente all’ilomorfismo di Aristotele16.

In particolare Martha Nussbaum e Hilary Putnam nel saggio Changing Aristotle’s Mindripudiano il loro precedente funzionalismo e si dichiarano senz’altro “Aristotelians”, cercan-

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11 Cfr. F. Rossi-Landi, Scritti su Gilbert Ryle e la filosofia analitica, con lettere inedite di Ryle, a cura di C. Zorzella,Padova, Il Poligrafo, 2003.12 Aristotele, De anima II 1, 412 a 27-28.13 Aristotele, Metaph. IX 2.14 Aristotele, De anima II 2.15 Ho cercato di ricostruire l’intera vicenda nell’articolo Aristotele e il “Mind-Body Problem”, «Iride. Filosofia e di-scussione pubblica», 11 (1998), n. 23, pp. 43-62.16 Documento di questo dibattito è il volume Essays on Aristotle’s De anima, edito da Martha C. Nussbaum e Amé-lie Oksenberg Rorty, Clarendon Press, Oxford 1992.

do persino di riscattare Tommaso d’Aquino dal platonismo mediante la sottolineatura dellasua fede nella resurrezione, da loro ritenuta molto più facilmente conciliabile con la filosofiaaristotelica che con quella platonica17. Anzi Putnam nel suo libro Words and Life, del 1994,non solo intitola il primo capitolo The Return of Aristotle, ma vi inserisce il suddetto saggioscritto in collaborazione con Nussbaum, aggiungendovi un paragrafo intitolato Aristotle af-ter Wittgenstein, in cui sostiene che il concetto aristotelico di anima come forma, capace diassumere in sé le forme degli oggetti senza la loro materia, spiega la conoscenza umana mol-to meglio della nozione wittgensteiniana di “forma logica”18. Anche nel suo più recente libro,The Threefold Cord: Mind, Body and World, Putnam difende il “realismo diretto” o “natura-le” di Aristotele, d’accordo con W. James e J. L. Austin, contro ogni forma di rappresentazio-nismo e materialismo19.

Contemporaneamente al dibattito filosofico si è sviluppato nella Chiesa cattolica undibattito teologico sull’anima, che è interessante segnalare per il significato anche religiosoche, come abbiamo visto, viene comunemente attribuito alla nozione di anima. Il ConcilioVaticano II (1965), dal quale si suole datare lo sviluppo della teologia cattolica più recente, siè espresso al riguardo in maniera molto sobria. Nella costituzione pastorale Gaudium et spesesso ha ricordato che l’uomo è «unità di anima e corpo», che anche il corpo è buono e degnodi onore perché «creato da Dio e destinato alla risurrezione nell’ultimo giorno», e che l’uo-mo riconosce «di avere un’anima spirituale e immortale»20. Inoltre ha aggiunto che la fede«dà la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già strappati alla morte, col daresperanza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio»21.

Il cosiddetto Catechismo olandese (1966), considerato espressione della teologia piùdi avanguardia, tratta dell’anima a proposito della generazione dell’uomo e della sua morte.Esso afferma, quanto al primo punto, che l’espressione tradizionale, secondo la quale Dio creaogni volta immediatamente le anime individuali, tiene troppo poco conto del fatto che corpoe anima sono inseparabili. Pertanto sembra preferibile esprimersi in modo diverso e dire che«l’apparizione di un nuovo essere umano è un istante molto santo in cui la potenza creatricedi Dio si manifesta in un modo molto particolare», perché i genitori vogliono genericamenteun figlio o una figlia, ma «me, è solo Dio che mi ha voluto». Dunque «l’eredità umana e lamano di Dio agiscono insieme in una sola attività» e «una coppia umana che genera un figliosi vede dare in questo atto il potere di cooperare con Dio»22. Su richiesta della delegazione ro-

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17 Ivi, pp. 27-56.18 H. Putnam, Words and Life, ed. by J. Conant, Cambridge, Harvard University Press, MA-London 1994, pp. 3-83.19 Columbia University Press, New York 1999, trad. it. di E. Sacchi, Il Mulino, Bologna 2003.20 Gaudium et spes, 14.21 Ivi, 18.22 C. Ehlinger (dir.), Une introduction à la foi catholique. Le nouveau catéchisme pour adultes réalisé sous la respon-sabilité des évêques des Pays-Bas, édition française, IDOC-France, Paris 1968, pp. 489-490 (traduzione mia, corsi-vo nel testo).

mana incaricata di esaminare il testo, la nuova redazione del Catechismo olandese (1967) haaggiunto: «qualcosa di nuovo è apparso, che non può essere derivato dai due esseri umani chel’hanno procreato, un nuovo qualcuno che è in relazione diretta con Dio». Ma la Commissio-ne di cardinali incaricata di valutarlo si è dichiarata insoddisfatta ed ha chiesto che si dicessechiaramente che «nel suo essere spirituale e personale l’uomo è causato da Dio»23.

Quanto al secondo punto, il Catechismo olandese osserva che la Scrittura parla di re-surrezione dell’uomo tutto intero, corpo e anima, e non dice dove si trovano i morti in attesadella resurrezione; esso osserva inoltre che la maniera tradizionale di parlare di separazionepura e semplice dell’anima dal corpo non tiene conto del fatto che la Bibbia non consideramai l’anima come esistente al di fuori di ogni materialità; perciò preferisce attenersi alla Bib-bia e dire che i morti «si sono addormentati» (I Cor. 15, 6) in attesa della resurrezione. La fra-se detta da Gesù in croce al buon ladrone: «da oggi sarai con me in paradiso», significa checon la morte qualcosa è già cominciato, e non senza che il corpo vi abbia parte, per cui «l’esi-stenza dopo la morte è già qualcosa della resurrezione del corpo nuovo»24. Ma la delegazio-ne romana e i teologi nominati dalla Commissione dei cardinali hanno ritenuto falso dire chela Bibbia non pensa mai all’anima come separata da ogni corporeità e hanno chiesto che simettesse in maggiore rilievo lo stato di visione beatifica che precede la resurrezione25.

Un ritorno alla formulazione tradizionale si trova nella Professione di fede di PaoloVI (1968), che a proposito dell’affermazione del Credo sulla vita eterna afferma: «Noi cre-diamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia del Cristo, sia che esse abbianoancora da essere purificate nel purgatorio, sia che dall’istante in cui lasciano il loro corpo Ge-sù le accolga in paradiso come ha fatto per il buon ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nel-l’al di là della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risurrezione, quan-do queste anime saranno riunite ai propri corpi»26. Negli stessi termini si esprime il Catechi-smo della Chiesa cattolica, pubblicato da Giovanni Paolo II nel 1992, che dice: «Con la mor-te, separazione dell’anima dal corpo, il corpo dell’uomo cade nella corruzione, mentre la suaanima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere riunita al suo corpo glorificato»27, e«con la morte l’anima viene separata dal corpo, ma nella resurrezione Dio tornerà a dare lavita incorruttibile al nostro corpo trasformato, riunendolo alla nostra anima»28. Come testi bi-blici a conferma di tale separazione si citano la parabola del povero Lazzaro e la parola det-ta da Cristo in croce al buon ladrone. Anche il Compendio del catechismo, pubblicato da Be-nedetto XVI nel 2005, ripete: «Con la morte, separazione dell’anima dal corpo, il corpo ca-

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23 C. Ehlinger, Les grands points discutés du Catéchisme hollandais, ivi 1968, pp.46-47.24 C. Ehlinger, Une introduction cit., pp. 597-598.25 C. Ehlinger, Les grands points cit., pp. 47-48.26 Ivi, pp. 67-68.27 Catechismo della Chiesa cattolica, Libreria Editrice Vaticana, 1992, p. 265.28 Ivi, p. 270.

de nella corruzione, mentre l’anima, che è immortale, va incontro al giudizio di Dio e atten-de di ricongiungersi al corpo quando, al ritorno del Signore, risorgerà trasformato»29.

La ricerca teologica tuttavia non ha cessato di approfondire il problema dell’anima,come è provato dal Nuovo Dizionario Teologico di Herbert Vorgrimler, allievo di Karl Rah-ner e suo successore nella cattedra di dogmatica all’università di Münster, collaboratore delcardinale König e membro del gruppo di lavoro della Conferenza Episcopale Tedesca sui pro-blemi dell’ebraismo. Questi sostiene infatti che la teologia ufficiale cattolica, a differenza dal-le affermazioni della fede popolare e della predicazione, si oppone al dualismo platonico. «Se-condo la tradizione cattolica – scrive Vorgrimler – l’anima è un principio ontologico dell’uo-mo, insieme con un secondo, quello materiale. Ciò significa che l’anima non è qualcosa diautonomo, unito all’elemento materiale per formare un’unità estrinseca, ma forma con essoun’unità indissolubile. L’anima, infatti, rappresenta insieme con l’altro principio ontologicodell’unico uomo […], un ente, in maniera tale che i due principi insieme costituiscono, in uni-tà sostanziale, l’unico uomo»30. Da ciò consegue una certa concezione dell’immortalità del-l’anima, così spiegata: «Per quanto la coscienza fisico-biologica dell’uomo sia radicalmentecolpita dalla morte, l’individualità di un uomo, e con ciò l’identità della storia della sua vita,non cessano di esistere in Dio, perciò la dottrina cattolica attribuisce all’anima l’immortalità,che nella teologia più recente non è pensata come un ‘continuare a vivere’ nello stesso modocome nella vita precedente, ma è intesa come compimento transtemporale di ciò che nella vi-ta terrena forse è stato posto soltanto come germe».

Secondo Vorgrimler, «la distinzione greca fra corpo mortale e anima immortale nonha nessuna importanza nel Nuovo Testamento, nonostante le risonanze linguistiche […]. Adifferenza dal pensiero greco la Chiesa antica si attenne alla fede nella resurrezione». Egli ri-corda poi che la teologia medievale introdusse la dottrina dell’immortalità dell’anima, rispet-to alla quale la risurrezione del corpo fu posta in una situazione d’attesa, mentre Lutero so-stenne un’immortalità “dialogica” (costituita dal dialogo dell’anima con Dio), non “natura-le”. Nella teologia del Novecento, mentre Bultmann, nel suo programma di “demitizzazio-ne”, inserì la risurrezione tra i “miti”, Karl Rahner rinnovò il pensiero corpo-anima di Tom-maso d’Aquino, rendendo superflua la concezione di un’anima separata dal corpo, mantenu-ta artificiosamente da Dio, e l’idea di una “stadio intermedio” tra la morte e la risurrezione31.«In ogni caso – scrive Vorgrimler – poiché i principi ontologici dell’uomo, secondo la dottri-na ecclesiale altrettanto vigente, costituiscono un’unità sostanziale, ogni asserzione sull’ani-ma deve necessariamente essere anche un’asserzione sul corpo, e viceversa. Un defunto, per-ciò, non può essere pensato come spirito completamente senza corpo […]. Inoltre, va preso

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29 Catechismo della Chiesa cattolica, Compendio, Libreria Editrice Vaticana, 2005, p. 59.30 H. Vorgrimler, Neues theologischer Wörterbuch, Herder , Freiburg i. B. 2000, trad. it. (leggermente modificata) diL. Mariconz, Edizioni Dehoniane, Bologna 2004, pp. 49-50 (corsivo nel testo).31 Ivi, pp. 605-606.

altrettanto in considerazione che il compimento della storia dell’umanità nel suo insieme e diquella della creazione, “significano qualcosa” anche per i defunti individuali. Nell’ambito delrapporto non chiarito tra escatologia individuale e universale, nella dogmatica cattolica si par-la […] di una ‘risurrezione nella morte’, il che è meno equivoco del discorso di un’anima pu-ramente spirituale»32.

Anche la teologia dunque, oltre alla filosofia, va riscoprendo l’unità sostanziale del-l’uomo, di origine aristotelica, al di là del dualismo platonico o del “mito di Descartes”. Maquello che è più sorprendente è il fatto che alla riscoperta del concetto aristotelico di animacome forma del corpo ha contribuito la scienza contemporanea, in particolare la biologia mo-lecolare, con la scoperta del DNA. Questa è avvenuta, come è noto, nel corso degli anni ‘50del Novecento, ad opera di James Watson e Francis Crick, i quali riuscirono a descrivere, av-valendosi anche delle ricerche di altri scienziati, la struttura dell’acido desossiribonucleico(DNA), cioè di uno dei due acidi di cui è formato il nucleo delle cellule. Watson e Crick sco-prirono che le molecole di DNA sono formate da due catene di nucleotidi, disposte a formadi eliche intrecciate tra di loro, per cui al momento della divisione della cellula le due elichesi separano e su ciascuna di esse se ne costruisce un’altra, in modo da ricostituire la strutturaprimitiva. In tal modo il DNA può riprodursi senza cambiare la sua struttura, salvo che pererrori occasionali, o mutazioni. Per questa scoperta Watson e Crick ottennero nel 1962 il pre-mio Nobel per la medicina.

La rilevanza filosofica di questa scoperta fu messa in luce qualche anno più tardi, ol-tre che da Jacques Monod nel suo famoso libro Il caso e la necessità33, da un biologo ameri-cano di origine tedesca, Max Delbrück (1906-1981), che ottenne a sua volta nel 1969 il pre-mio Nobel per la medicina per le sue ricerche sui virus batteriofagi, in un articolo dedicato adAristotele dal titolo ironico, allusivo ad una nota cantilena tedesca, Aristotle-totle-totle, cheindica il continuo riproporsi di un nome34. In esso Delbrück sostenne che, se fosse possibiledare un premio Nobel alla memoria, esso dovrebbe essere conferito ad Aristotele per la sco-perta del principio implicito nel DNA. Nelle sue opere biologiche, infatti, Aristotele sostieneche il germe da cui si sviluppa l’embrione, che per lui è solo il seme maschile (Aristotele nonaveva il microscopio per vedere l’ovulo femminile), non è un mini-uomo, come credeva Ip-pocrate, bensì un principio formale, cioè un “piano di sviluppo”, un “programma”, contenen-te una serie di informazioni (così Delbrück traduce i termini aristotelici eidos e morphe, cioè“forma”). Questo principio agisce come una causa motrice, cioè trasmette alla materia, costi-tuita dal sangue mestruale fornito dalla madre, una serie di impulsi meccanici, cioè di movi-menti, i quali fanno sì che la materia si organizzi in modo da formare l’uno dopo l’altro i va-

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32 Ivi, p. 704.33 J. Monod, Le hasard et la nécessité, Editions du Seuil, Paris 1970, trad. it. di A. Busi, Mondadori, Milano 1972.34 M. Delbrück, Aristotle-totle-totle, in J. Monod and E. Borek (eds.), Of microbes and life, Columbia University,New York-London 1971, pp. 50-55.

ri organi, a cominciare dal cuore, sino all’individuo completo che si presenta al momento del-la nascita35.

Secondo Delbrück, il pensiero di Aristotele in generale è stato completamente frain-teso a causa del modo in cui esso è rientrato nella cultura occidentale, cioè attraverso la teo-logia della scolastica cristiana (e prima ancora, aggiungo io, musulmana), la quale ha creatouna totale barriera di incomprensioni fra teologi e scienziati, da Tommaso d’Aquino alla mi-stica di oggi, cattolica, protestante e legata all’LSD (così si esprime lo scienziato americano).Un nuovo sguardo sull’Aristotele biologo – conclude Delbrück – può portare ad una più chia-ra comprensione dei concetti di fine, verità e rivelazione, e forse a qualcosa di meglio che «lamera coesistenza tra noi, studiosi di scienze naturali, e i nostri colleghi delle altre facoltà».

Ebbene, spero di non scandalizzare nessuno se avanzo l’ipotesi che oggi, nel linguag-gio della scienza e della filosofia contemporanea, l’anima possa essere identificata con la for-mula del DNA o, meglio, con la struttura del genoma proprio di ciascuna specie di esseri vi-venti e, a quanto pare, persino di ciascun individuo. Come è noto, gli organismi viventi sonocomposti di cellule, il cui nucleo è formato da cromosomi, cioè da corpuscoli costituiti da unfilamento a doppia elica di DNA e da proteine attorno alle quali lo stesso filamento si avvol-ge. I cromosomi a loro volta contengono i geni, i quali dirigono lo sviluppo fisico e compor-tamentale dell’organismo. Essi sono segmenti di molecola di DNA, i quali determinano la se-quenza amminoacidica delle proteine. Ogni cambiamento nella sequenza del DNA costitui-sce una mutazione e può causare alterazioni come le malattie o altre caratteristiche dell’orga-nismo36. La sequenza del DNA è, come qualsiasi formula, forma, non materia (la materia so-no gli elementi chimici di cui il DNA è costituito), perciò viene chiamata anche, con metafo-ra desunta dalla scrittura, “codice” o “programma” genetico. Se essa corrisponde, come hasostenuto Delbrück, a quella che per Aristotele era la forma dei corpi viventi, si può dire cheessa è ciò che Aristotele intendeva per anima.

Anche l’uomo, come tutti gli organismi viventi, ha un suo genoma, composto da cir-ca 30.000 geni, di cui nell’anno 2000 è stato ricostruito il sequenziamento37. A quanto si è let-to nei giornali, risulta che esso è simile per più del 98% a quello dello scimpanzè, ma esisto-no somiglianze fortissime col genoma di tutti gli esseri viventi, compreso quello dei mosce-rini, per cui a questo punto sono più significative le differenze che le somiglianze. Grazie alsuo meno di 2% di differenza dallo scimpanzè l’uomo, infatti, parla, legge, scrive e svolgetutte le altre attività che consideriamo tipicamente umane, per cui nessuna donna, ad esem-pio, si sceglierebbe come compagno uno scimpanzè maschio, né alcun uomo come compa-gna uno scimpanzè femmina, ed è dubbio che l’eventuale accoppiamento tra l’uomo e lo scim-

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35 Aristotele, De generatione animalium I 18 e 21-22.36 Cfr. E. Boncinelli, A caccia di geni, Di Renzo, Roma 1996.37 E. Boncinelli, Genoma: il grande libro dell’uomo, Mondadori, Milano 2001.

panzè potrebbe essere fecondo. Dunque il DNA umano corrisponde a quella che, nella con-cezione di Aristotele, era l’anima intellettiva, o tipicamente umana. Infine pare che ciascunindividuo abbia un suo proprio DNA, presente in tutte le sue cellule, comprese quelle dei ca-pelli e dei peli, per cui dall’analisi di qualsiasi cellula è ricostruibile l’identità del suo posses-sore, come è confermato dall’uso di tali analisi per i riconoscimenti di paternità o per indivi-duare l’autore di un delitto. Anche questo corrisponde alla concezione che Aristotele avevadell’anima, per cui ciascuna anima umana è specificamente identica alle altre, ma individual-mente diversa.

Particolarmente interessante, in relazione al problema della generazione dell’anima,è la spiegazione che la genetica offre della formazione dell’embrione. Se, infatti, il genomadel nascituro è formato per metà da cromosomi, e quindi da geni, provenienti dal padre, e permetà da cromosomi e geni provenienti dalla madre, esso sarà al tempo stesso generato da en-trambi i genitori, e tuttavia del tutto nuovo e imprevedibile rispetto ai genomi di quelli, per-ché nuova e imprevedibile è la combinazione di tali genomi, la quale varia anche per ciascunfiglio della stessa coppia. Chi non è credente può pensare che tale novità, con l’identità per-sonale che essa comporta, sia dovuta semplicemente al caso, mentre chi è credente può pen-sare che sia voluta da Dio, e quindi in questo senso l’anima del nascituro è creata da Dio. Inol-tre chi è credente può pensare che tale identità personale, in quanto voluta da Dio ed a lui no-ta, non si dissolva con la morte, ma si conservi nella mente divina sino al momento di darevita ad un corpo non più corruttibile, mediante la cosiddetta risurrezione.

Mi rendo conto che questa mia ipotesi, di identificare l’anima umana con la sequen-za del genoma umano, può essere accusata di biologismo, e poiché la spiegazione biologicaè stata intesa, da parte degli stessi scopritori del DNA, come una forma di riduzionismo, ilbiologismo può essere considerato una forma di materialismo38. Ma la cosa non mi preoccu-pa, perché ritengo che l’uomo sia anzitutto un essere vivente, e quindi che anche il suo carat-tere spirituale dipenda dalla sua realtà biologica, la quale non è affatto pura materia, ma è ma-teria organizzata da una certa forma. Naturalmente alla realtà biologica dell’uomo si aggiun-ge poi tutto il patrimonio di esperienze derivanti dalla sua biografia, dall’educazione, dallacultura, dai rapporti interpersonali, dalla vita sociale, che arricchisce, ma non cancella, il da-to biologico, e contribuisce con esso a formare la personalità di ciascuno. Non intendo, ov-viamente, negare tutto questo, ma solo ricordare che alla base di tutto c’è una capacità speci-ficamente umana e persino individuale di sviluppare tutte queste potenzialità, la quale corri-sponde a ciò che comunemente si può chiamare “anima”.

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38 Mi riferisco ad un’affermazione di Francis Crick, secondo cui «lo scopo ultimo dell’indirizzo biologico modernoè in realtà quello di spiegare tutta la biologia in termini di fisica e di chimica» (riportato in D. R. Hofstadter e D. C.Dennett (a cura di), L’io della mente, Adelphi, Milano 1985, p. 46). In realtà la riduzione alla fisica e alla chimicanon è espressione di materialismo, perché la fisica e la chimica ammettono l’esistenza non solo della materia, ma an-che delle formule, che sono “forme” e sono irriducibili a materia.

Corpo e anima oggi

Giorgio Bonaccorso

Una questione così ampia come quella concernente il rapporto anima-corpo, sia purenel contesto delle riflessioni più recenti, non può essere affrontata che operando scelte di cam-po. Nel presente intervento la scelta cade sulle scienze cognitive e in particolare sulle neuro-scienze, che hanno aperto un dibattito in costante espansione e verso tutte le direzioni. Non èdifficile immaginare che in tale dibattito l’ “anima” appare raramente, mentre ciò che più lesi avvicina, ossia la “mente”, è strettamente connesso al “cervello” e al “corpo”. Il dualismoontologico anima-corpo è decisamente abbandonato, ma, allo stesso tempo, ne emerge unometodologico, che vede fronteggiarsi l’approccio oggettivo della mente collegata al corpo, el’istanza soggettiva di un corpo che ha esperienze mentali. Il desiderio di rimanere entro i li-miti di un radicale monismo porterà alcuni autori a eliminare il secondo aspetto, mentre lareazione a tale riduzionismo porterà altri a sostenere una qualche nuova forma di dualismo.La proposta probabilmente più interessante si trova nei pensatori che tentano di mantenereuna posizione antidualista evitando, allo stesso tempo, quei riduzionismi che non rendono ra-gione di alcune fondamentali esperienze umane. Sarà quindi utile puntualizzare quali sianole provocazioni provenienti dalle neuroscienze per affrontare, successivamente, il dibattitosviluppatosi sull’onda di quelle provocazioni.

1. La mente come corpo: l’anima scomparsa

La prima osservazione da fare è che nel pensiero filosofico occidentale (e non solo)la questione dell’anima e del corpo è strettamente intrecciata con la sfera della vita e con quel-la capacità di pensare che viene ricondotta alla mente. Questo quadrilatero è stato compostoe ricomposto sulla base di una prospettiva fondamentale, quella della ricerca dei principi sem-plici, che è stata infranta dalle ricerche più recenti, coinvolte nell’elaborazione di funzionicomplesse. Le scienze cognitive si muovono in questa direzione sia per i loro presupposti siaper i loro sviluppi1.

1.1 Dai principi semplici alle funzioni complesseIl modo classico di esaminare e descrivere l’uomo, almeno a partire dalla ricerca gre-

ca sul principio di tutte le cose, è caratterizzato dalla teoria della semplicità, con la quale si ten-

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1 Si può vedere orientativamente S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica alla filosofia della mente,Laterza, Roma-Bari 2002.

de a ricondurre la molteplicità dei fenomeni a una spiegazione unitaria che coincide con unprincipio semplice. Il corpo presenta diverse componenti che operano in modo armonico gra-zie a quel principio (tendenzialmente) semplice che è l’anima. In tale prospettiva si colloca an-che la mente, ossia il principio pensante, che per un verso domina il corpo e per un altro svi-luppa potenzialità estranee alla sfera sensibile. L’epoca moderna ha ripensato le relazioni tral’anima, la mente, la vita e il corpo, conservando però il desiderio di spiegare il complesso colsemplice, soprattutto nelle proposte sostanzialmente dualistiche (Descartes) o idealisticamen-te monistiche (Hegel). Il recupero, in tempi più recenti, della centralità del singolo nel suo trac-ciato esistenziale e del corpo nelle sue potenzialità vitali (Kierkegaard, Schopenhauer, Nietz-sche) ha contribuito a un cambiamento di direzione; in modo particolare la fenomenologia, oalmeno una determinata linea fenomenologica (Husserl, Merleau-Ponty), ha posto le basi perun incrocio tra filosofia e scienze, che tende ad abbandonare la teoria della semplicità.

Le scienze della mente, che si sono andate sviluppando soprattutto in questi ultimi cin-quanta anni, sono un caso emblematico di tale abbandono. Esse sono caratterizzate da un ap-proccio tendenzialmente funzionalista, ossia da una spiegazione della realtà basata sulla com-plessità delle relazioni fisiche e mentali che si scorgono negli animali e soprattutto nell’uo-mo. Secondo la teoria della complessità, implicita nelle scienze cognitive, l’anima e la men-te non sono più assunte in modo aprioristico come principi semplici della vita e del pensiero,ma ricondotte alle molteplici dinamiche dell’organismo e dell’ambiente. In tale prospettiva ilcorpo assume un ruolo sempre più rilevante, vuoi per i suoi rapporti esterni, verso l’ecosiste-ma, vuoi per le sue dinamiche interne, soprattutto in ordine allo sviluppo del cervello. Comeintendere la mente in questa prospettiva ecologica e neurologica? Soprattutto come intende-re la “coscienza”, ossia quella capacità mentale che, da secoli, ha svolto un ruolo centrale nel-la definizione dell’io umano? Per procedere su questi interrogativi è bene precisare alcunipunti che costituiscono le premesse fondamentali delle scienze cognitive.

In primo luogo, l’incrocio semiotico tra il corpo e la mente: la svolta linguistica ha por-tato a una stretta relazione tra la forma espressiva o “significante”, che ha una valenza corpo-rea, e il contenuto semantico o “significato”, che ha una valenza mentale (F. de Saussure). Que-sta prospettiva è elaborata sulla base della funzione semiotica, capace di organizzare la com-plessa rete dei segni, e porta alla tesi secondo la quale vi è un stretta interdipendenza tra corpoe mente. In secondo luogo, la separazione psico-biologica tra la mente e la coscienza: in am-bito biologico, la prospettiva evoluzionistica ha fatto affiorare l’esistenza di molteplici funzio-ni mentali precedenti l’emergere della coscienza (C. Darwin); in ambito psicoanalitico, si so-stiene che la sfera mentale ha componenti inconsce, ossia che vi sono operazioni mentali na-scoste alla coscienza (S. Freud). Queste prospettive implicano la funzione bio-psichica che or-ganizza le complesse dinamiche tra fattori mentali extracoscienti e fattori mentali coscienti, ecomunque portano alla tesi secondo la quale vi è distinzione tra “mente” e “coscienza”. Le duetesi, dell’incrocio semiotico mente-corpo e della separazione psico-biologica mente-coscien-za, compromettono la possibilità di fare riferimento a un’anima, tanto sotto il profilo ontolo-

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gico, poiché non sembra esservi posto per un principio semplice autosufficiente, quanto sottoil profilo metodologico, dato che alla ricerca della causa sottostante ai fenomeni, per cui l’ani-ma/mente causa i movimenti del corpo, si sostituisce l’elaborazione della loro valenza funzio-nale, per cui ciò che è costantemente in gioco è la complessità delle relazioni: complessità cheimplica il riferimento costante ad alcune componenti che possiamo raccogliere in due trilogie2.

1.2. Le due trilogieLa neurologia classica è interessata prevalentemente alle dinamiche bio-fisiche della

rete neurale e alla loro capacità di causare i pensieri e i sentimenti. La difficoltà di esplicarequesto nesso causativo ha portato a un nuovo atteggiamento, teso a non considerare i rappor-ti tra le dinamiche cerebrali e le funzioni mentali come se si trattasse di una regione autono-ma dell’uomo e dell’ambiente. In tempi recenti, molti neuroscienziati si sono convinti che oc-corre superare lo studio isolato del cervello collocando il suo complesso funzionamento al-l’interno del lungo processo evolutivo della vita sulla terra: solo in tal modo è possibile spie-gare come dalle reti neurali nascano le diverse funzioni mentali e la stessa coscienza3. Que-sto inserimento del cervello nel processo filogenetico implica lo stretto legame del cervellostesso con l’organismo che lo contiene, ossia col corpo. Si ha così il passaggio dalla relazio-ne cervello-mente alla relazione corpo-cervello-mente. Il corpo è anzitutto un organismo chetende ad adattarsi all’ambiente che lo circonda attraverso la selezione naturale. Nel percorsodell’evoluzione biologica il corpo ricorre a quel fenomeno complesso che è il cervello, le cuifunzioni mentali favoriscono l’adattamento dell’organismo. La mente nasce dal cervello e ilcervello risponde alle condizioni ecosistemiche del corpo.

Uno dei primi scienziati che si sono mossi nella direzione appena esposta è stato E.Edelman col suo darwinismo neurale. Per comprendere la mente e in particolare la coscien-za, occorre studiare il cervello; «ignorare il resto del corpo, però – osserva Edelman –, sareb-be un errore, poiché c’è un rapporto stretto tra le funzioni animali (in particolare il movimen-to) e lo sviluppo del cervello»4. La selezione naturale, il sistema immunitario e le altre com-ponenti evolutive degli organismi e delle specie sono elementi decisivi per decifrare il lega-me tra le dinamiche neurali e la sfera cognitiva presente in tanti animali e in particolare nel-l’uomo. In questo processo bio-neurologico svolgono un ruolo centrale non solo le capacitàcognitive, ma anche le esperienze emotive5. Altri neuroscienziati, come R. Damasio e J. Le-

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2 Per le referenze di quanto qui esposto mi permetto di rimandare a G. Bonaccorso, Il corpo di Dio. Vita e senso del-la vita, Cittadella, Assisi 2006.3 Cfr. Scienze della mente, a cura di A. M. Borghi-T. Iachini, Il Mulino, Bologna 2002, pp. 85-159.4 Ivi, p. 24.5 Esperienza la cui valenza è stata messa in evidenza in diversi ambiti di ricerca e di riflessione; cfr., ad es., R. Buck,The Communication of Emotion, The Guilford Press, New York-London 1984; O. H. Green, The Emotions: A Phi-losophical Theory, Kluwer, Dordrecht-Boston-London 1992; J. Elster, Alchemies of the Mind. Rationality and theEmotions, Cambridge University Press, Cambridge 1999.

Doux, si sono interessati a quest’altro aspetto, sottolineando lo stretto legame filogenetico eneurologico tra la sfera cognitiva e la sfera emotiva. Damasio mette in evidenza come tale le-game si instauri nel corpo6. Le emozioni, regolando il rapporto organismo-ambiente, raffor-zano la dinamica interno-esterno che è alla base del Sé e della coscienza, per cui si può affer-mare con LeDoux che «una mente senza emozioni non è affatto una mente»7. L’esperienzadel confine e la possibilità di provare emozioni sono strettamente connesse al corpo, che an-che sotto questo aspetto risulta correlato alla mente e alla coscienza.

Le due sfere, emotiva e cognitiva, ne implicano una terza, ossia quella motivaziona-le-attiva. Anzitutto, le emozioni sono strettamente connesse alle azioni, sia perché le motiva-no sia perché ne sono condizionate. Vi è, inoltre, una stretta relazione tra l’azione e le funzio-ni mentali legate alla conoscenza e alla coscienza, perché il confronto attivo ed emotivo conl’ambiente circostante stimola quelle funzioni. Siamo così di fronte alla «trilogia mentale»conoscenza-emozione-azione che secondo LeDoux è al centro della questione del Sé8. Comevedremo, le azioni e le loro implicanze neurali hanno una grande rilevanza anche per il rap-porto con l’Altro, ossia col Sé dell’altro. Intanto è fondamentale tenere presente che l’indivi-dualità non è una realtà semplice (l’anima, la mente, il corpo) che si manifesta in azioni, emo-zioni, pensieri, conoscenze, ma è l’organizzazione estremamente complessa di diverse com-ponenti, dimensioni, ambiti e operazioni. È evidente l’incidenza che queste prospettive han-no sull’antica questione del rapporto anima-corpo: un’incidenza che appare particolarmenteevidente in alcuni ambiti delle ricerche neuoroscientifiche.

1.3. La coscienza anticipataI risultati sperimentali di alcune ricerche neurologiche, svolte da B. Libet e i suoi

collaboratori, «conducono con ogni evidenza a una scoperta sorprendente, direttamentecontrapposta alla nostra personale intuizione e percezione: il cervello ha bisogno di un pe-riodo relativamente lungo – fino a circa mezzo secondo – per attivarsi in modo appropria-to e indurre la consapevolezza dell’evento! L’esperienza cosciente o la consapevolezza deldito che tocca il tavolo appare così solo dopo che le attività cerebrali si sono attivate perprodurre la consapevolezza»9. L’atto di toccare il dito è elaborato dal cervello mezzo se-condo prima di averne coscienza. La tesi emergente è che, «se la consapevolezza di tuttigli stimoli sensoriali è ritardata di circa 0,5 sec, allora la nostra consapevolezza del mon-do sensoriale è sostanzialmente ritardata rispetto al suo effettivo verificarsi. Ciò di cui di-ventiamo consapevoli è già accaduto circa 0,5 sec prima. Non siamo coscienti del reale

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6 Cfr. A. R. Damasio, Emozione e coscienza, tr. it., Adelphi, Milano 2000, p. 30.7 J. LeDoux, Il cervello emotivo. Alle origini delle emozioni, tr. it., Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003, p. 27.8 Cfr. J. LeDoux, Il Sé sinaptico. Come il nostro cervello ci fa diventare quelli che siamo, tr. it., Raffaello Cortina,Milano 2002, pp. 34, 45, 241.9 B. Libet, Mind Time. Il fattore temporale nella coscienza, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2007, p. 37.

momento del presente»10. Il tempo della coscienza non è il momento iniziale né la mente (co-sciente) è il soggetto autonomo e indipendente da cui osservare il mondo. Nel cervello, av-viene qualcosa che anticipa la coscienza, rendendo possibile il suo darsi operativo.

Il processo di anticipazione riguarda anche la volontà. Infatti, «il cervello mostra unprocesso di iniziazione che comincia 550 msec prima dell’atto liberamente volontario. Inve-ce, la consapevolezza della volontà cosciente a compiere l’azione appare solo fra 150 e 200msec prima dell’azione stessa. Il processo volontario inizia quindi inconsciamente, circa 400msec prima che il soggetto diventi consapevole della sua volontà o intenzione a compierel’azione»11. Ciò pone dei problemi circa il libero arbitrio, dato che non coincide con l’azionevolontaria: questa infatti inizia prima che si attivi il libero arbitrio12. Con ciò non si intendenegare che ognuno di noi possa fare delle scelte consapevoli e quindi essere libero, ma soloche la libertà, come la coscienza, non è un evento originario e indeducibile rispetto al cervel-lo. La questione principale, però, è un’altra e riguarda la pertinenza della scienza quando cisi trova di fronte a esperienze che coinvolgono la sfera personale.

Il rapporto mente-cervello, che fin qui è stato affrontato da Libet in un’ottica “ogget-tiva”, può venire considerato anche dal punto di vista dell’esperienza “soggettiva”. In questocaso emergono nuove questioni. Il punto essenziale è che i riferimenti soggettivi, ossia il sen-tire del soggetto in prima persona, non sono rilevabili con un’analisi del cervello. Come os-serva lo stesso Libet, «il mentale può mostrare fenomeni non evidenti nel cervello neurale chelo ha prodotto»13. Ciò significa che non sembra potersi sostenere la tesi della radicale identi-tà mente-cervello. Per non ignorare la specificità dell’esperienza soggettiva senza cadere invecchi o nuovi dualismi, Libet propone la teoria del campo. «Si potrebbe concepire l’espe-rienza soggettiva cosciente come se fosse un campo, prodotto da appropriate, per quanto mol-teplici e multiformi, attività neurali del cervello [...]. Un tale campo permetterebbe una for-ma di comunicazione all’interno della corteccia cerebrale, senza passare attraverso le connes-sioni e le vie corticali. Un campo mentale cosciente (CMC) potrebbe costituire il mediatoretra le attività fisiche delle cellule nervose e la comparsa dell’esperienza soggettiva. Offrireb-be, quindi, una risposta alla domanda di come il mentale, il non-fisico, si origini dal fisico»14.La soluzione proposta, per quanto problematica, rappresenta un caso tipico di quei tentatividi concepire il rapporto mente-corpo evitando tanto il dualismo quanto il riduzionismo.

L’aspetto più rilevante è che questo monismo non riduzionista si avvale della teoriadella complessità: la possibilità, infatti, di rendere ragione della non fisicità (neurologica) del-la mente in quanto esperienza soggettiva (in prima persona), senza postulare una realtà diver-

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10 Ivi, p. 73.11 Ivi, p. 128.12 Ivi, p.141.13 Ivi, p. 89.14 Ivi, p. 171.

sa da quella fisica, si avvale della “complessità” del campo. Qui si può postulare la centrali-tà del corpo, sia perché la fisicità a cui si fa riferimento è somatica, dato che il cervello appar-tiene a un organismo vivente, sia perché le dinamiche sensomotorie di tale organismo, comesi è visto sopra, incidono sui percorsi neurali. Se queste osservazioni sono corrette, si può af-fermare che il passaggio dal corpo alla mente (o all’anima) non è il trapasso da una realtà aun’altra (dalla materia allo spirito), ma da un livello di complessità a un altro livello di com-plessità del corpo. La teoria della complessità consente di non abbandonare mai il corpo sen-za perdere di vista (come fanno gli eliminativisti) l’esperienza in prima persona. In ogni ca-so, il percorso delle neuroscienze riconduce la mente al corpo, decretando, in forma implici-ta ma evidente, la scomparsa dell’anima. A essere più precisi occorrerebbe dire che a scom-parire è l’ontologia dell’anima, ossia la pretesa di legittimare un principio vitale e mentale,spirituale e cosciente, originario e autonomo rispetto al corpo. Ciò non toglie che dalla «men-te come corpo» non si possa passare al «corpo come mente», e approdare a una nuova com-parsa, o apparizione, dell’anima, a una fenomeno-logia dell’anima.

2. Il corpo come mente: l’anima apparsa

Le questioni emergenti sono due. Per un verso, occorre vagliare i rapporti tra la pro-spettiva in terza persona (oggettiva), rivolta alla mente così come può essere osservata dal-l’analisi del corpo (cervello, organismo, ambiente), e la prospettiva in prima persona (sogget-tiva), rivolta a ciò che la mente prova (con l’essere coscienti, col sentire dolore) grazie al-l’esperienza di avere e/o essere corpo (emotivo e attivo). Per un altro verso, occorre condur-re il confronto sul piano epistemologico, considerando se al rigore della ricerca in terza per-sona, come avviene nelle neuroscienze, possa corrispondere una ricerca altrettanto rigorosaper quanto concerne l’esperienza in prima persona.

2.1. Il confronto filosofico tra i livelli dell’esperienzaLe ricerche neuroscientifiche hanno portato alcuni filosofi ad abbracciare un moni-

smo radicale, ossia riduzionista, identificando le capacità della mente con la fisiologia del cer-vello. Un caso tipico è rappresentato dalla teoria neurocomputazionale di P. Churchland, se-condo il quale anche le più complesse elaborazioni dell’intelligenza umana e della coscienzasono riconducibili alle capacità computazionali del sistema neurale. In tale prospettiva tuttociò che è legato alle esperienze in prima persona non hanno alcuna valenza specifica e devo-no essere eliminate dalle preoccupazioni della scienza15. Una posizione opposta al monismo

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15 Cfr. P. M. Churchland, La natura della mente e la struttura della scienza. Una prospettiva neurocomputazionale,tr. it., Il Mulino, Bologna 1992.

riduzionista di Churchland è costituito dal dualismo, sia pur moderato, di T. Nagel, che parte,provocatoriamente, dall’interrogativo su cosa si prova a essere pipistrelli16. L’esperienza in pri-ma persona interna alla coscienza non ha un corrispettivo nell’osservazione in terza persona,esterna alla coscienza e condotta dallo scienziato sul cervello. La coscienza ha uno statuto pro-prio, che una lunga tradizione filosofica ha identificato con la ragione, mentre la scienza pro-cede secondo metodi che, anche quando sono applicati alla ragione (alla coscienza), dipendo-no da quest’ultima. Il confronto tra la ragione e la scienza è interessante proprio sotto il profi-lo di ciò che si deve intendere “soggettivo” e ciò che si deve intendere “oggettivo”. La scien-za pretende di avere una sua conoscenza oggettiva e relega nel soggettivo tutto ciò che appar-tiene ai pensieri interiori della ragione, dimenticando che anche i pensieri scientifici dipendo-no dalla ragione, che quindi è da intendersi come oggettiva. Con un esplicito riferimento alleriflessioni cartesiane, Nagel osserva che la ragione è insuperabile, sia per la certezza dello scien-ziato sia per il dubbio dello scettico17. Non si può studiare la ragione dall’esterno, ma solo dal-l’interno, dato che è sempre la ragione a studiare la ragione. Per questo motivo la teoria evo-lutiva che studia il cervello non è sufficiente a spiegare la razionalità18. Per Nagel, la ragione ela coscienza sono una realtà diversa e comunque irriducibile al cervello e al corpo.

Le proposte di Churchland e di Nagel non sono condivise da alcuni filosofi che voglio-no mantenere una posizione monista, strettamente legata alle ricerche in terza persona (comenelle neuroscienze), senza cedere, però, all’eliminazione dell’esperienza in prima persona. Unodegli esponenti più significativi di questa via intermedia è J. Searle. Secondo il suo “naturali-smo biologico” bisogna evitare qualsiasi dualismo e spiegare la mente, che per Searle è stret-tamente legata alla coscienza, con una ricerca che rimane ancorata al corpo19. Tale ricerca, pe-rò, non può chiudere gli occhi sulla complessità dell’esperienza umana, e in particolare sul-l’esperienza soggettiva, in prima persona, di cui l’unico testimone è chi la vive. La coscien-za, in quanto esperienza in prima persona, non è indipendente dal soggetto cosciente. In talsenso essa si differenzia dal corpo che invece è indipendente rispetto a chi lo rappresenta20.Occorre, quindi, spiegare la mente (la coscienza) in termini biologici ma senza ignorare le suepeculiarità21.

Un punto nodale della questione è il modo di intendere il corpo. Vi è indubbiamenteun’asimmetria tra la “mente”, intesa come esperienza cosciente in prima persona, e il “cer-

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16 Cfr. T. Nagel, What Is It Like to Be a Bat?, in Readings in Philosophy of Psychology, I, ed. N. Block, CambridgeUniversity Press, Cambridge 1980, pp. 159-168.17 Cfr. T. Nagel, L’ultima parola. Contro il relativismo, tr. it., Feltrinelli, Milano 1999, pp. 24-25.18 Ivi, pp. 132-134.19 Cfr. J. R. Searle, La riscoperta della mente, tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1994, pp. 30-31, 106, 130; Id., Il mi-stero della coscienza, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 1998, pp. 4, 14.20 Cfr. J. R. Searle, La riscoperta della mente, cit., pp. 114-115.21 Cfr J. R. Searle, Mente, linguaggio, società. La filosofia nel mondo reale, tr. it., Raffaello Cortina, Milano 2000,p. 56.

vello” esaminato dalla scienza in terza persona. Per rendere ragione di tale asimmetria, però,non bisogna prescindere dal “corpo”, ossia dalla sfera somatica intesa in tutta la sua comples-sità. Qui Searle ricorre all’“immagine corporea”, o più precisamente alla relazione tra «il miocorpo» e «l’immagine che il mio cervello ha del mio corpo»22. Dal fatto che pizzicandomi nonsolo sento dolore, ma so anche individuare la parte del corpo coinvolta, risulta che il cervel-lo ha l’immagine del corpo a cui appartiene, ossia opera secondo un auto-riferimento, una ri-flessione, una coscienza, che è strettamente connessa al corpo. L’immagine corporea impli-ca che la qualità autoreferenziale (riflessa) della coscienza è una modalità operativa connes-sa alla sfera somatica. Searle conclude affermando che «dovremmo pensare all’esperienzadel nostro corpo come al punto di riferimento centrale di qualsiasi forma di coscienza. La ri-levanza teoretica di questo argomento credo stia nel fatto che qualsiasi teoria della coscienzadeve dare ragione del fatto che l’intera coscienza ha inizio con la coscienza del corpo […].Quindi il corpo è essenziale per la nostra coscienza sin dall’inizio»23.

La strategia adottata da Searle è quella di non trascurare le osservazioni di Nagel con-cernenti l’esperienza “in prima persona” della coscienza, ma rimanendo strettamente ancora-to al corpo. La condizione di tale operazione è di concepire il corpo non come materia iner-me, bensì come parte attiva, insieme alla mente, del processo di rappresentazione. In tal mo-do la coscienza non è isolata dal corpo, ma in una situazione “circolare” di cui il corpo è par-te integrante. L’esperienza in prima persona e la prospettiva circolare sono presenti anche nel-la filosofa americana L. R. Baker, che tenta una via «alternativa al dualismo cartesiano e alriduzionismo animalista»24. La tesi è posta fin dall’inizio: «il pensante – la cosa che pensa,che ha una vita interiore – non è né una mente immateriale né un cervello materiale: è la per-sona»25. Così come, fin dall’inizio, essa precisa che, secondo la sua concezione, la persona ècostituita da un corpo umano ma non si identifica con esso, dato che il solo riferimento al cor-po nella sua fisicità non rende ragione dell’esperienza in prima persona26.

Per spiegare in che modo l’uomo sia “corpo” e “più che corpo”, senza che questo por-ti a un dualismo, la Baker ricorre all’idea di “costituzione”, con la quale intende una «cate-goria intermedia fra l’identità e l’esistenza separata»27: una realtà, per esempio B, può esserecostituita da un’altra, per esempio A, con la duplice conseguenza che per un verso B non è se-parabile da A, e per un altro verso B non si identifica con A. Si prenda l’esempio della scul-tura: il David di Michelangelo è costituito da un Blocco di marmo da cui non è separato, ma

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22 Relazione messa in evidenza da I. Rosenfield: cfr. J. R. Searle, Il mistero della coscienza, cit., p. 151.23 Ivi, p. 154.24 Cfr. L. R. Baker,, Persone e corpi. Un’alternativa al dualismo cartesiano e al riduzionismo animalista, tr. it., Bru-no Mondadori, Milano 2007, p. 74 n.3.25 Ivi, p. 3.26 Ivi, pp. 4 e 7.27 Ivi, p. 35.

col quale per altro non si identifica. L’aspetto fondamentale della teoria è che la relazione dicostituzione non avviene tra una materia generica e una sua realizzazione specifica, ma tracose individuali, con la conseguenza, tra l’altro, che vi sia un’asimmetria dato che, ad es.,«Blocco costituisce David» ma «David non costituisce Blocco»28. La teoria della costituzio-ne è importante per definire il rapporto tra persona e corpo: la persona è costituita da un cor-po, ossia è un’entità non separata dal corpo che la costituisce e un’entità non identica al cor-po che la costituisce29.

Il rapporto persona-corpo, come ogni rapporto di costituzione, è asimmetrico, dato cheil corpo costituisce la persona ma non ne è costituito. L’asimmetria, però, deve essere intesaanche nel senso del rapporto di dipendenza: la persona ha alcune proprietà dipendenti dal fat-to di essere costituita dal suo corpo, ma ha anche proprietà non dipendenti dalla relazione dicostituzione col suo corpo. Qui emerge la distinzione tra “corpo (organismo) umano” e “per-sona umana”: «Ciò che rende le persone umane umane è il fatto che sono costituite da corpiumani biologici, dove un corpo umano biologico è un animale, un organismo. Sebbene un or-ganismo umano non possa diventare un essere non biologico e continuare a esistere, una per-sona umana (originariamente costituita da un organismo umano) potrebbe venire a essere co-stituita da un corpo non biologico [sostituendo per esempio gli organi naturali con dei pro-dotti meccanici] e continuare a esistere»30. Questa conclusione deriva dal fatto che per la de-finizione di persona umana il punto decisivo è l’esperienza in prima persona. Così, «io e ilmio corpo potremmo avere incominciato a esistere in tempi differenti»31, dato che vi sono si-tuazioni, come quelle del feto e del cadavere, nei quali il mio corpo esisteva o esisterà senzache io abbia un’esperienza cosciente32.

«Io non sono esistita – scrive la Baker – prima di avere la capacità di una prospettivain prima persona»33. L’interrogativo che può sorgere è se affermazioni come questa e la teo-ria che le sostiene non pongano le basi per una nuova (o forse ancora antica) forma di duali-smo. Il fattore tempo, che è una componente importante nell’idea di costituzione, rischia difavorire la rottura più che la continuità tra il corpo e la mente: vi è, infatti, un “prima” (comepure un “poi”) che vede l’esistenza del corpo umano e non l’esistenza della persona umana.Il dualismo sembra essere escluso dal fatto che si tratta sempre di realtà fisica, materiale: «Sela teoria della costituzione è corretta, allora io sono un essere materiale ma non sono identi-ca al mio corpo o a qualunque sua parte»34. Abbiamo così un monismo basato sulla natura ma-teriale della persona che non garantisce l’unità costante della mente (della coscienza) con il

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28 Cfr. ivi, pp. 40-41.29 Cfr. ivi, p. 113.30 Ivi, pp. 131-132.31 Ivi, p. 142.32 Cfr. ivi, pp. 142-144.33 Ivi, p. 250.34 Ivi, p. 261.

corpo. Sarebbe opportuno chiedersi se, alla luce di indagini condotte in altri ambiti della ri-flessione filosofica, e in particolare della fenomenologia (si pensi alla fenomenologia dellapercezione elaborata da Merleau-Ponty), non sia da mantenere una concezione più ampia di“corpo”, limitando semmai il concetto di “materia”. In tal caso, invece di affermare che «iosono un essere materiale ma non sono identico al mio corpo», si potrebbe forse dire che «iosono il mio corpo, ma non sono identico a un essere materiale».

2.2. La proposta neurofenomenologica.La scienza cognitiva è sempre più una “scienza cognitiva incorporata” (embodied co-

gnitive science), perché conduce le sue indagini sulla mente rivolgendo l’attenzione alle di-verse dimensioni del corpo. Come si è visto sopra, le stesse neuroscienze tendono a inserirela ricerca sul cervello nel più ampio quadro della vita dell’organismo, ossia nel quadro strut-turale e funzionale dell’intero corpo. L’aspetto più problematico rimane l’esperienza in pri-ma persona, riconosciuta ormai da molti come rilevante per la comprensione della mente, maspiegata con teorie piuttosto vaghe e scientificamente poco pertinenti. Dall’esigenza di cor-reggere questa situazione e di indicare un’analisi rigorosa dell’esperienza in prima persona,coniugandola con la rappresentazione in terza persona, è nata la proposta di rivolgersi alla fe-nomenologia, ossia a quella linea di pensiero che si è costituita, fin dall’inizio, come ricercasulle dinamiche intenzionali della coscienza. Se le neuroscienze procedono secondo un’inda-gine in terza persona, ma si rendono sempre più conto dell’esperienza in prima persona sen-za avere gli strumenti per esaminarla rigorosamente, la fenomenologia viene in loro soccor-so, proponendo un approccio diverso ma altrettanto valido per l’esperienza in prima perso-na35. La neurofenomenologia, elaborata da F. J. Varela e altri studiosi, propone questo connu-bio tra prima e seconda persona, tra soggettivo e oggettivo.

Sarebbe impensabile, però, l’incrocio tra neuroscienze e fenomenologia se in essesi scorgessero solo dei metodi di analisi appartenenti a sponde opposte. La fenomenologia,in modo particolare con Husserl e Merleau-Ponty, è un’analisi della coscienza in quanto ri-volta intenzionalmente a ciò che la trascende: come ribadisce Varela, il metodo fenomeno-logico consiste anzitutto nell’indagare il rapporto tra la coscienza e la realtà mettendo traparentesi i preconcetti teorici, tra i quali, anzitutto, l’opposizione soggetto-oggetto36. Si puòquindi affermare che anche «la tradizionale opposizione tra analisi in prima e in terza per-

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35 «La fenomenologia è considerata capace di fornire al quadro sperimentale in terza persona una metodologia disci-plinata (cioè riduttiva) in prima persona che si scopre avere un carattere esemplare» (N. Depraz, Mettere al lavoro ilmetodo fenomenologico nei protocolli sperimentali. “Passaggi generativi” tra l’empirico e il trascendentale, in Neu-rofenomenologia. Le scienze della mente e la sfida dell’esperienza cosciente, ed. M. Cappuccio, Bruno Mondadori,Milano 2006, p. 250). 36 Si tratta della famosa “riduzione fenomenologica”: cfr. F. J. Varela, Neurofenomenologia. Un rimedio metodolo-gico al “problema difficile”, in Neurofenomenologia, cit., pp. 77-80.

sona è fuorviante»37. Il punto forse più rilevante è che il luogo concreto in cui è dato supera-re questa opposizione è il corpo: Husserl e soprattutto Merleau-Ponty hanno mostrato comeil corpo sia non solo un oggetto rappresentato, ma anche il “corpo proprio”, che in quanto ta-le consente le esperienze soggettive. Proprio su questo punto si rende possibile l’incontro conle neuroscienze, che, pur perseguendo uno studio in terza persona, sono avvertite dell’impor-tanza fisiologica e filogenetica delle emozioni e delle motivazioni (per agire), ossia delle espe-rienze in prima persona strettamente connesse al corpo38. Il tentativo di superare l’opposizio-ne soggettivo-oggettivo è quindi presente, sia pure in modo diverso, tanto nella fenomenolo-gia quanto nelle neuroscienze, e per entrambe a partire dalla rilevanza del corpo per le fun-zioni mentali.

La neurofenomenologia prende le mosse da questa centralità del corpo, capovolgen-do le impostazioni tradizionali tanto della scienza quanto di alcune rilevanti linee filosofiche.In effetti si è spesso ritenuto che la mente fosse il luogo dell’esperienza in prima persona co-me pure il soggetto che conosce il mondo e il corpo, riducendo quest’ultimo a un oggetto, os-sia a una rappresentazione in terza persona. Già col “corpo proprio” di Husserl e di Merleau-Ponty, ma anche con il concetto di “enazione” di Varela, la prospettiva si capovolge. In mo-do particolare, «Varela e collaboratori fanno risalire tutta la conoscenza a una messa in scena(enation) da parte di “percezioni-azioni incarnate”. Ogni atto cognitivo nasce dall’intrecciar-si di milioni di brevi cicli co-determinati di sentire-agire nel corpo [...]. La rete cognitiva èuna rete di esperienze corporee interdipendenti, interne ed esterne al corpo»39. Non la mentee neppure il cervello, ma il corpo è il soggetto pensante e il luogo dell’esperienza in primapersona. La neuorofenomenologia incrocia fenomenologia e neuroscienze là dove entrambericonoscono non alla mente o al cervello, ma al corpo, la qualifica di soggetto conoscente ol-tre che oggetto conosciuto, luogo dell’esperienza in prima persona oltre che realtà rappresen-tabile in terza persona.

Il tragitto neurofenomenologico, però, non è ancora compiuto finché non si conside-ra la via “pratica” della suddetta mediazione corporea tra soggettivo e oggettivo40, ossia laconcreta capacità del soggetto (corpo-cervello-mente) di cogliersi, in prima persona, nel mo-mento in cui conosce (in terza persona) la realtà. Dal punto di vista fenomenologico si deveosservare che un soggetto addestrato a questo compito «da una parte non è mai solo, e d’al-tra parte non è neanche riducibile alle tracce osservabili esternamente. Dalla praxis dell’ex-pertise emerge così una forma di seconda persona, anche se da un certo punto di vista è im-proprio chiamarla “seconda persona”, che risponde in ogni caso a tutte le forme d’implica-

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37 Ivi, p. 79.38 Cfr. ivi, pp 81-87.39 F. Bertossa-R. Ferrari, Meditazione di presenza reale per le scienze cognitive. Pratica del corpo e metodo in pri-ma persona, in Neurofenomenologia, cit., pp. 273-274.40 Cfr. N. Depraz, Mettere al lavoro il metodo fenomenologico nei protocolli sperimentali, cit., p. 259.

zioni interpersonali, sociali e comunitarie»41. Qui emerge il tema dell’empatia, dato che il rap-porto con l’altro è tale (ossia è in seconda e non in terza persona) se non ci si limita a rappre-sentarlo, ma se si tenta di condividere la sua esperienza dall’interno42. L’aspetto più rilevanteè che l’esperienza in prima persona, dell’io con se stesso, non si può realizzare senza rappor-tarsi all’altro come soggetto portatore di un’esperienza in prima persona, ossia senza un rap-porto empatico in seconda persona. L’altro ha un valenza oggettiva in quanto osservabile dal-l’io, e una valenza soggettiva in quanto rilevabile empaticamente come un io. Il rapporto sog-getto-oggetto, che implica l’eterno conflitto tra prima persona e terza persona, viene così me-diato dalla relazione intesoggettiva io-altro, ossia dalla seconda persona.

L’aspetto interessante è che questo tracciato fenomenologico trova un possibile corri-spettivo neuroscientifico nella scoperta dei cosiddetti neuroni specchio. Alla base di tale sco-perta sta il superamento della concezione secondo la quale il sistema motorio avrebbe solo unruolo esecutivo rispetto alle aree corticali responsabili della percezione. La dipendenza neu-rologica dell’azione dalla percezione è smentita dalla scoperta che l’azione ha una sua auto-nomia e originarietà sul piano corticale. L’atto di tendere verso un oggetto, prenderlo e spo-starlo non è solo conseguente all’averlo visto, ma anche un modo di vederlo. Ciò significache i processi cerebrali implicano un modo diverso di percepire le cose a seconda delle azio-ni compiute sulle cose. L’aspetto più importante, però, è che anche l’azione dell’altro, ossiail suo movimento, e l’intenzione che l’accompagna non vengono compresi solo sulla base diun lavoro riflessivo. Vi sono neuroni che si attivano non solo quando io compio un’azione,ma anche quando la vedo compiere da un altro. Si tratta dei neuroni specchio che, come rile-vano G. Rizzolatti e C. Sinigaglia, sono alla base «del riconoscimento e della comprensionedel significato degli “eventi motori”, ossia degli atti, degli altri»43. L’intersoggettività ha unavalenza esperienziale originaria (non derivata) non solo sotto il profilo fenomenologico, maanche sotto il profilo neuroscientifico44, come viene confermato dallo studio, ad es., del tattoo contatto. Si è infatti notato che viene attivata la stessa regione corticale «sia quando espe-riamo in prima persona la sensazione tattile localizzata a una parte del nostro corpo che quan-do siamo testimoni di un’analoga esperienza sensoriale esperita da qualcun altro»45. Il feno-meno dei neuroni specchio nell’azione e nella sensazione mostra che vi è un rapporto preri-flessivo tra l’io e l’altro, un rapporto più vicino all’empatia intersoggettiva che alla rappre-sentazione oggettiva.

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41 Ivi, p. 260.42 Cfr. L. Boella, L’empatia nasce nel cervello? La comprensione degli altri tra meccanismi neuronali e riflessionefilosofica, in Neurofenomenologia, cit., pp. 327-339.43 G. Rizzolatti-C. Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Raffaello Cortina, Milano2006, p. 96.44 «Percepire un’azione – e comprenderne il significato – equivale a simularla internamente» (V. Gallese, Neurofe-nomenologia, cit., p. 304).45 Ivi, p. 308.

La relazione intersoggettiva implica che l’esperienza in prima persona, ossia quantovi è di più intimo alla mente/coscienza, non possa prescindere dalla seconda persona; ma, poi-ché la relazione intersoggettiva è fenomenologicamente e neuroscientificamente legata al cor-po, allora quanto vi è di più intimo alla mente è strettamente connesso al corpo. In tale con-testo il corpo non è solo la materialità osservabile, ma la possibilità di vivere esperienze chesuperano tale materialità, compresa l’esperienza in prima persona: «io sono il mio corpo manon sono identico a un essere materiale». L’asimmetria tra corpo e materia, tra corpo vissutoe materia osservata, è il luogo della mente, della coscienza: non la mente come corpo, quin-di, ma il corpo come mente. L’asimmetria tra corpo e materia è l’apparire dell’anima: nonl’ontologia dell’anima che si esprime attraverso il corpo, ma la fenomenologia del corpo chesi esprime come anima.

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“Mens sive anima”.Filosofia analitica e cartesianismo

Mario De Caro

Nonostante il giudizio contrario di molti, vi sono ottime ragioni per pensare che, al dilà delle apparenze, la tradizionale discussione filosofica sull’anima individuale – in partico-lare riguardo alla sua relazione ontologica con il mondo fisico – sia in un solido rapporto dicontinuità con la discussione contemporanea, così come essa si è andata svolgendo negli ul-timi decenni nell’ambito della filosofia della mente di matrice analitica. Nel seguito di que-sto contributo difenderò nel merito tale tesi; preliminarmente è però necessario replicare aun’assai diffusa interpretazione di carattere generale relativa alla natura della filosofia anali-tica, che a mio giudizio deriva da un fraintendimento, peraltro assai diffuso (non soltanto trai critici della filosofia analitica, ma anche tra alcuni dei suoi difensori).

Secondo un’opinione molto diffusa, dunque, la filosofia analitica, soprattutto quellacontemporanea, presupporrebbe un canone metafilosofico sostanzialmente incommensurabi-le con i canoni passati, tanto dal punto di vista metodologico quanto rispetto alla determina-zione dell’oggetto dell’indagine filosofica. Alla luce di questa interpretazione, non avrebbesenso dire che i filosofi analitici discutono degli stessi temi, e negli stessi modi, dei filosofidel passato – e meno che mai, ci viene detto, in riferimento a un tema teoreticamente demo-dé come quello dell’anima, che è quello che qui ci interessa. A mio giudizio, tuttavia, questatesi, per quanto apparentemente plausibile è sostanzialmente erronea. In generale, per quan-to riguarda il metodo, i filosofi analitici contemporanei – con la loro insistenza sulla tesi chel’indagine filosofica si incentri su argomentazioni rigorose, chiare e coerenti – vanno consi-derati, a vario titolo, come i continuatori non solo di Frege e di Russell ma, risalendo all’in-dietro, anche di Peirce e di Brentano, di Kant, di Hume e di Leibniz, di Spinoza e dei maestridella tarda scolastica, nonché di Aristotele (come ha rilevato, con duplice competenza, Enri-co Berti1), e forse anche di Socrate, dei sofisti, degli storici e degli scettici antichi. Analoga-mente, a parte pochi specifici casi, dal punto di vista dei contenuti dell’indagine, la filosofiaanalitica non si caratterizza certo per un cesura netta con la tradizione filosofica – e, anzi, inquesto senso, i veri tentativi di radicale rottura rispetto ai modi e ai contenuti dell’indagine fi-losofica si sono piuttosto avuti in ambiente continentale (si pensi, in questo senso, a Derridae a Deleuze, a Butler e a Irigaray, a Debord e a Foucalt). Al contrario, se si scorrono oggi lepagine di una qualunque delle riviste internazionali di impostazione analitica, si noterà che

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1 Cfr. E. Berti, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma- Bari 1992.

esse contengono ampi dibattiti sul libero arbitrio, l’identità personale, lo statuto ontologicodelle proprietà (ovvero gli universali), la logica modale, la pretesa di universalità dei princi-pi etici, il significato delle entità linguistiche, i limiti della libertà politica, la possibilità delloscetticismo. In una parola, i temi classici della tradizione filosofica.

Aquesta tesi continuista, tuttavia, qualcuno potrebbe voler muovere un’obiezione. An-che concedendo che il richiamo alla chiarezza e alla coerenza argomentativa non sia specifi-co della filosofia analitica, infatti, si potrebbe ancora affermare che lo strumentario logico-concettuale utilizzato dai filosofi di questa corrente è così difforme da quello delle altre scuo-le che le questioni trattate, pur se nominalmente invariate, assumono in realtà una natura deltutto nuova. Si tratterebbe di un vero e proprio nuovo paradigma filosofico – un po’come, se-condo l’interpretazione kuhniana, avvenne nell’ambito della storia della scienza quando lamatematizzazione e la sperimentazione resero la fisica del Seicento incommensurabile conquella aristotelica. E, come esempio di questo cambiamento degli strumenti del filosofare(tanto radicale che si trasmetterebbe anche ai suoi contenuti dell’indagine), qualcuno potreb-be forse voler indicare il ruolo centrale giocato dalle formalizzazioni logiche nelle argomen-tazioni dei filosofi analitici.

Anche questa obiezione, tuttavia, è plausibile solo ad un livello di analisi molto super-ficiale. In primo luogo, infatti, non si deve dimenticare che l’intera storia della filosofia è sta-ta segnata da riorientamenti metodologici, spesso assai accentuati, che tuttavia non sono statiaffatto interpretati come mutamenti radicali dei contenuti del filosofare. Si pensi, in proposito,al passaggio dalle prime indagini logico-linguistiche della sofistica alla rigorosa sistematizza-zione aristotelica oppure al trapasso dalla filosofia tardo medioevale e rinascimentale a quellamoderna o, ancora, all’avvento delle filosofie romantiche. Così, mentre Aristotele irrideva i ra-gionamenti dei sofisti, Galileo e Locke, a loro volta, si facevano beffe dei limiti della logicaaristotelica e Goethe e Schelling schernivano quanti tentavano di ricondurre l’indagine filoso-fica all’esattezza logico-scientifica: e certo gli elementi di discontinuità, in questi casi, non era-no minori di quelli della filosofia analitica verso le altre tradizioni. Non per questo, tuttavia,oggi si interpretano quei momenti come nette coupure rispetto ai contenuti del filosofare. Ilpunto, insomma, è che da epoca ad epoca, da contesto culturale a contesto culturale, lo stru-mentario concettuale dei filosofi si è costantemente trasformato – non di rado in modo radica-le e consapevole –; e tuttavia noi non diremmo che l’unità contenutistica di fondo della filoso-fia è andata smarrita. Né sarebbe corretto esagerare il ruolo che nella filosofia analitica svol-gono le formalizzazioni: molti filosofi di questa scuola, anche di prima grandezza, in effetti, viricorrono molto limitatamente o non vi ricorrono affatto (si pensi alla scuola del linguaggio or-dinario, alla corrente wittgensteiniana, alla maggior parte dei filosofi pratici o a un pensatoreoggi molto influente come McDowell). Né, d’altra parte, si può dimenticare che anche in pas-sato molti pensatori, per esempio nella tradizione stoica o in quella tardo-medievale, riconob-bero alla logica (seppure, ovviamente, in una forma non rigorosamente formalizzata) un ruo-lo argomentativo del tutto centrale nello studio delle questioni filosofiche.

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Vero è, naturalmente, che vi sono casi in cui la filosofia analitica studia questioni cheeffettivamente i pensatori del passato non conoscevano. Si pensi, per esempio, alle implica-zioni filosofiche dei progressi della scienza, della matematica e della logica (per esempio ri-spetto alla meccanica quantistica, alla teoria della relatività generale, ai teoremi di Gödel o al-la sintesi neo-darwiniana). Oppure si pensi, ed è il caso più interessante in questa sede, ai nuo-vi interrogativi sorti in sede di analisi strettamente filosofica (relativamente, per esempio, alrapporto tra eventi ed azioni, alla questione del seguire una regola, al problema di Gettier oalle indagini semantiche della metaetica). Persino in quest’ultima categoria di casi, tuttavia,la discontinuità con la tradizione filosofica è in genere assai meno accentuata di quanto si sa-rebbe tentati di pensare a prima vista; e comunque, di nuovo, anche in passato assai spesso sisono verificati casi simili. In un suo articolo ancora inedito (Science and Philosophy), ancheil più grande dei filosofi analitici viventi, Hilary Putnam, insiste fortemente sugli elementi dicontinuità metodologica e contenutistica tra la filosofia analitica e la tradizione filosofica. Inquesta luce, egli critica anche un ideale regolativo molto ottimistico, enunciato per esempioda Bertrand Russell, secondo il quale, potenzialmente, la filosofia analitica è in grado di ri-solvere tutti i problemi filosofici, almeno quelli sensati. Scrive Putnam: «Le questioni dellafilosofia sono in realtà “irresolubili”, nel senso che esse rimarranno sempre con noi. Ciò tut-tavia non è qualcosa di cui lamentarsi, ma una cosa bellissima»2.

Per verificare la sostanziale continuità tra la filosofia analitica e la tradizione filosofi-ca, possiamo dunque volgerci alle fiorenti discussioni che sono state sviluppate negli ultimidecenni nell’ambito della filosofia della mente. Da una parte, sembrerebbe che questo sia unambito di studio del tutto nuovo. Nello scorrere i numerosissimi libri ed articoli prodotti inquesto ambito negli ultimi cinquant’anni dai filosofi di formazione analitica si possono nota-re, in effetti, frequenti riferimenti all’aritmetica computazionale, all’indeterminismo quanti-stico, ai risultati acquisiti dalle neuroscienze e dalla scienza cognitiva, nonché a nozioni filo-soficamente innovative, e anche un po’ esoteriche, come quelle di sopravvenienza, di ester-nismo, di spettro invertito o di legge ceteris paribus. In realtà, però, la filosofia della mente èproprio uno degli ambiti in cui gli elementi di continuità tra la discussione contemporanea equella tradizionale sono più significativi, anche se forse meno evidenti, degli elementi di di-scontinuità. E in questo senso è ragionevole sostenere che non solo il dibattito odierno sullafilosofia della mente è debitore della grande discussione che, in epoca moderna, fu iniziatadalla rivoluzione cartesiana, ma addirittura che, per molti aspetti, i dibattiti contemporanei ri-mandano, sia pure indirettamente, alle trattazioni ontologiche ed epistemologiche, soprattut-to di ambito aristotelico ed ellenistico, che prima della Modernità furono dedicate, al concet-

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2 H. Putnam, Science and Philosophy, inedito. Per un’analisi dettagliata della relazione tra filosofia analitica eimpostazione storico-filosofica, cfr. T. Sorrell-G.A.J. Rogers (eds.), Analytic Philosophy and History of Philo-sophy, Clarendon Press, Oxford 2005.

to di anima individuale3. Qualche dettaglio storico (sia pur succinto, dati i limiti di spazio)può essere utile a chiarire questo punto.

Nel lessico filosofico, al termine “anima” corrisponde un alto livello di polisemicità.Senza pretese di esaustività, si può in proposito ricordare che, nel corso della storia del pen-siero, questo termine è stato di volta in volta interpretato come sinonimo di soffio vitale, dientelechia dei corpi che hanno la vita in potenza, di coscienza, di principio immateriale del-la vita cosciente, di principium individuationis della persona, di spirito, di intelletto, di spa-zio dell’interiorità, di locus della capacità intenzionale, nonché di condizione di possibilitàdel libero arbitrio, della responsabilità morale, della razionalità, della trascendenza. Tuttaviale due proprietà che tradizionalmente hanno connotato l’idea di anima nel modo più chiaro,almeno al livello del senso comune, sono l’immortalità e l’immaterialità ovvero la sua indi-pendenza ontologica dal mondo fisico: due proprietà centrali, ovviamente, per le concezioniontologiche dualistiche. D’altra parte, com’è ben noto, le filosofie di matrice analitica tendo-no a guardare al concetto di mente da prospettive radicalmente o almeno moderatamente na-turalistiche – e dunque tendono a rifiutare decisamente tanto l’idea dell’immortalità dell’ani-ma individuale tanto quella della sua immaterialità (e, con loro, tendono a rifiutare il duali-smo ontologico nel suo complesso). Ma allora, si potrebbe chiedere, ciò non basta forse, giàdi per sé, per concludere che l’attuale discussione filosofica sulla mente ha di fatto assai po-co a che fare le discussioni che, nella tradizione filosofica, hanno riguardato l’anima?

Questa osservazione, ancorché a mio giudizio infondata, è importante, e su di essa tor-nerò tra breve. Prima occorre ricordare che quando, a cominciare dalla filosofia cartesiana, iltermine “mente” sostituì il termine “anima” nel suo ruolo di nozione metafisicamente centra-le, a tale trasformazione lessicale non corrispose una trasformazione altrettanto radicale sulpiano semantico. Già a livello di analisi etimologica, d’altra parte, il nesso tra i significati dianima e di mens è chiaro.4 Originariamente, infatti, la parola latina mens, dalla quale il termi-ne italiano “mente” deriva, denotava l’anima rationalis aristotelica, e in tal modo rimandavaal termine greco psyche. Il significato di mens, d’altra parte, era anche legato strettamente aquello della parola anemos che, rimandava invece al greco pneuma, ovvero “spirito”, che ètermine che evidentemente denota un aspetto diverso della galassia concettuale legata al ter-mine “anima”5.

Ciò che è più importante, lo stretto nesso tra i significati dei termini “anima” e “men-te” fu particolarmente chiaro nell’impostazione filosofica cartesiana. In quel quadro, infatti,il concetto di mente aveva esattamente la stessa valenza semantica del concetto di anima ra-

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3 Cfr. J. Annas, Hellenistic Philosophy of Mind, University of California Press, Berkeley & Los Angeles 1992(ringrazio Emidio Spinelli per avermi segnalato questo testo).4 Utilissimo in questo senso (e anche in generale) S. Nannini, L’anima e il corpo. Un’introduzione storica allafilosofia della mente, Laterza, Roma-Bari 2002. 5 L’affinità tra i termini “mente” e “spirito” si può inferire anche dal fatto che in inglese e in tedesco sono tradot-te dalle stesse parole, rispettivamente mind e Geist.

zionale, inclusa le idee di immortalità e di immaterialità. Ciò è testimoniato, per esempio, dal-l’uso da parte di Descartes del sintagma “mens sive anima”, nel senso dell’anima razionale,già usato nel Medioevo e poi agli inizi dell’età moderna6. In seguito, “l’endiadi ‘anima-men-te’” si andò progressivamente sciogliendo, a vantaggio del secondo membro della coppia: conil tempo nel dibattito filosofico il concetto di mente assunse il ruolo centrale che una volta erastato proprio del concetto di anima (anche se quest’ultimo non è affatto scomparso dallo sce-nario filosofico contemporaneo). È cruciale notare come, durante questo processo di sposta-mento dell’asse lessicale, il significato principale del termine “mente” si sia andato secolariz-zando; come abbiano cioè perso centralità e rilevanza i due attributi fondamentali dell’imma-terialità e dell’eternità. E ciò ci riporta all’obiezione ricordata prima, secondo la quale la di-scussione contemporanea sulla mente non ha rilevanti nessi di continuità con la tradizionalediscussione sull’anima, proprio perché la mente, così com’è concepita oggi, viene concepitacome saldamente vincolata al corpo del soggetto e la gran parte degli autori non ritiene pos-sa sopravvivere alla morte del corpo medesimo. Ma questo è sufficiente a sostenere che lamente contemporanea è un concetto radicalmente diverso da quello tradizionale di anima? Amio giudizio, no.

Tanto per cominciare, nella storia della filosofia, persino di quella antica, non è af-fatto vero che tutti gli autori abbiano concordato sulla tesi che l’anima individuale degli es-seri umani sia immortale. Di grande rilevanza, in questo senso, è stato il millenario dibatti-to sul De anima aristotelico, secondo il quale, com’è noto, la componente razionale o intel-lettiva dell’anima presiedeva alla conoscenza, alla deliberazione e alla scelta, ovvero allefunzioni superiori della vita (laddove l’anima vegetativa e quella sensitiva presiedevano al-le funzioni inferiori). Nel sistema di Aristotele, in effetti, la questione dell’immortalità del-l’anima individuale veniva lasciata impregiudicata. E se la tradizione successiva aderì lar-gamente all’idea dell’immortalità, non mancarono filosofi di scuola aristotelica (da Alessan-dro di Afrodisia ad Averroè sino a Pomponazzi) i quali difesero invece l’idea che l’anima in-dividuale fosse mortale. Né si deve dimenticare la scuola democriteo-epicurea che, sebbenemeno influente della tradizione aristotelica, non mancò di ispirare per molti secoli una for-ma di naturalismo filosofico che non lasciava spazio per idee come l’immaterialità o l’im-mortalità dell’anima.

Quando poi, con la decisiva mediazione cartesiana di cui si è detto, il termine “men-te” prima si appaiò a quello di “anima” e poi, sostanzialmente, ne prese il posto, il dibattitosulle proprietà dell’immaterialità e dell’immortalità continuò, come ben si sa, molto acceso:e qui basterà menzionare il radicale materialismo di Thomas Hobbes e quello di molti philo-sophes. Insomma – e questo è il punto cruciale – già assai prima della filosofia analitica, al-

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6 Importante in questo senso, per esempio, è la testimonianza offerta da una lettera di Descartes a Regius delmaggio 1641 (Oeuvres de Descartes, éd. Ch. Adam - P. Tannery, III, J. Vrin, Paris 1973, p. 372).

l’endiadi mente-anima non necessariamente vennero attribuite le due proprietà dell’immor-talità e dell’immaterialità, messe radicalmente in questione oggi.

Tuttavia la continuità tra la discussione analitica sulla mente e quella tradizionalesull’anima, o sulla mente-anima, è testimoniata soprattutto dal profondo debito che la di-scussione contemporanea ha verso l’impostazione che Descartes diede allo studio della rescogitans. In primo luogo, se è vero che quasi tutta la filosofia analitica della mente contem-poranea si caratterizza per il reciso rifiuto del dualismo ontologico, non mancano autore-voli propugnatori di concezioni dal carattere apertamente neocartesiano, come RichardSwinburne, John Foster e Howard Robinson7. Questi autori hanno sviluppato argomentazio-ni molto dettagliate, ancorché molto controverse, a difesa dell’esistenza di una mente im-mortale e ontologicamente indipendente dal mondo fisico; ovvero, precisamente, l’animadella tradizione filosofica, con tutte le sue proprietà. In secondo luogo, e questo è il puntoprincipale, nonostante il suo radicale antidualismo, anche il dibattito analitico mainstreamsulla mente è debitore, in diverse maniere, ma in modo comunque assai rilevante, del mo-do in cui il cartesianismo definì lo spazio logico della discussione su proprietà, natura e pre-rogative della mente/anima.

L’analisi di alcuni esempi chiarirà questo punto. Iniziamo dunque con la posizione for-se più radicalmente anti-cartesiana, ovvero quella sviluppata da Gilbert Ryle nel suo classi-co The Concept of Mind8. In una prospettiva che spesso, nonostante le proteste dell’autore, èstata interpretata come una versione del comportamentismo, Ryle obiettò con decisione aldualismo cartesiano, asserendo che esso implicava l’assurda idea che la mente fosse una sor-ta di entità omuncolare, misteriosamente situata nel corpo, che ne verrebbe diretto, così co-me le marionette sono dirette dal burattinaio. Nello stesso giro di anni, con modalità più sot-tili – che sarebbe illegittimo ricondurre a una matrice comportamentistica –, anche Wittgen-stein (soprattutto nelle Ricerche filosofiche e nel Della certezza) attaccò con vigore concezio-ni dal chiaro carattere cartesiano, come quella della possibilità di un linguaggio essenzialmen-te privato o quella secondo la quale l’epistemologia deve porsi il compito di fondare il siste-ma delle conoscenze sul mondo esterno a partire dalle credenze certe sulla nostra vita men-tale. Recentemente, infine, una posizione di esplicita ascendenza ryleana è stata sviluppata apiù riprese da Daniel Dennett, che ha polemizzato con asprezza contro alcune versioni delmaterialismo, che a suo giudizio non fanno che fisicalizzare l’idea del Teatro Cartesiano, af-fermando che nel cervello ci sarebbe un luogo in cui noi diveniamo spettatori (ovvero dive-niamo coscienti) delle nostre esperienze. Per questo, Dennett parla esplicitamente di “mate-

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7 Cfr. R. Swinburne, Evolution of the Soul, Oxford University Press, Oxford 1997; J. Foster, The Immaterial Self:A Defence of the Cartesian Dualist Conception of the Mind, Routledge, London 1996; H. Robinson (ed.), Ob-jections to Phisycalism, Clarendon Press, Oxford 1993, nonché (per una presentazione complessiva del duali-smo in una prospettiva contemporanea), Id., “Dualism”, http://plato.stanford.edu/entries/dualism/.8 Trad. it. Il concetto di mente, Laterza, Roma-Bari 2007.

rialismo cartesiano” (e, analogamente, Putnam critica il ‘Cartesianism cum materialism’ dimolta filosofia contemporanea)9.

Già il fatto che si possa parlare di qualcosa come il “materialismo cartesiano” dà, amio avviso, un chiaro segnale di quanto l’influenza del grande pensatore di La Haye, e dellasua concezione della mente, sia avvertibile ancora oggi. D’altra parte, la pervasività di taleinfluenza si dimostra anche per il fatto che, dopo quattro secoli, tanti ottimi filosofi ancorasentano ancora il bisogno di denunciare il fallimento del cartesianismo – denuncia non nuo-va, peraltro, se già Hobbes, e legioni di altri dopo di lui, si sono industriati a svilupparla.

Ci sono peraltro anche altri sensi in cui il cartesianismo è oggi termine di riferimentopolemico delle discussioni nella riflessioni analitiche sulla mente. Si pensi, per esempio, allacelebre tesi del funzionalismo semantico (uno dei fondamenti teorici della scienza cogniti-va), proposta da Hilary Putnam all’inizio degli anni Sessanta, secondo la quale le condizionidi individuazione di un determinato stato mentale sono date dal “ruolo funzionale” di quellostato ovvero dal complesso delle relazioni causali in cui esso si trova con gli altri stati e conil mondo esterno10. Di contro alle concezioni riduzionistiche e a quelle eliminazionistiche del-la mente (di matrice tanto comportamentistica quanto fisicalistica), il funzionalismo mira dun-que a preservare l’intuizione dell’autonomia e della specificità del mentale declinandola insenso esplicativo-concettuale, ma senza le implicazioni ontologiche dualistiche proprie delsistema cartesiano.

Un analogo dualismo di carattere concettuale epistemico, ma non ontologico, inter-medio tra il dualismo ontologico di Descartes e il monismo dei fisicalisti contemporanei, èil cosiddetto “monismo anomalo” di Davidson11. Pur sostenendo che esiste una sola sostan-za, infatti, Davidson ritiene che le proprietà di questa sostanza possano essere di due tipi:fisiche e mentali. Tra questi due insiemi di proprietà, come tali, non intercorre una relazio-ne di identità, che tuttavia occorre tra ogni concreta esemplificazione di una proprietà men-tale e una concreta esemplificazione di proprietà fisiche: è questa la cosiddetta teoria del-l’identità delle occorrenze (token identity theory). In questo modo tra il livello del menta-le e quello del fisico, secondo Davidson (che in proposito riprende un prezioso strumentoconcettuale usato prima di lui da Richard Hare e prima ancora da G. E. Moore, in ambitomorale) c’è una relazione di sopravvenienza12. Ciò significa che ogni qualvolta due indivi-dui hanno le stesse proprietà fisiche, essi avranno anche identiche proprietà mentali, mentrenon è detto il contrario.

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9 D. Dennett, Coscienza. Che cos’è, Rizzoli, Milano 1993; H. Putnam, Mente, corpo, mondo, Il Mulino, Bolo-gna 2003. 10 H. Putnam, Menti e macchine, in Mente, linguaggio, realtà, Adelphi, Milano 1987, pp. 392-415. 11 Cfr. i saggi della terza parte di D. Davidson, Azioni ed eventi, Il Mulino, Bologna 1992. 12 Cfr. M. De Caro, Dal punto di vista dell’interprete. La filosofia di Donald Davidson, Carocci, Roma 1998,cap. 3.

Nelle ambizioni di Davidson, il monismo anomalo conserva ciò che c’è di importan-te nella concezione cartesiana, ossia la specificità delle proprietà mentali (legata al fatto cheesse sono determinate da vincoli olistici e normativi) e la loro conseguente irriducibilità alleproprietà fisiche; ciò, tuttavia, senza incorrere nelle difficoltà del dualismo, in particolare nel-la sostanziale impossibilità di spiegare come la res extensa e la res cogitans possano intera-gire causalmente tra loro. C’è dunque dell’ironia nel fatto che il monismo anomalo è statotacciato, con un sottile argomento presentato da Jaegwon Kim, di epifenomismo: è stato ac-cusato cioè di privare le proprietà mentali di ogni efficacia causale.13 E questa, si noti, è unariformulazione della classica obiezione elevata contro il dualismo di matrice cartesiana: ov-vero che non riesce a spiegare le interazioni causali psicofisiche.

Un’altra concezione contemporanea che rimanda al cartesianesimo in modo critico èil cosiddetto “esternismo semantico” o “esternismo del contenuto mentale”, originato dallariflessione del già citato Putnam (con il suo famoso esperimento mentale della “Terra gemel-la”) e di Saul Kripke, e poi fatto proprio dalla grande maggioranze dei filosofi analitici dellamente e del linguaggio, da Donald Davidson a Tyler Burge, da Jerry Fodor a Ned Block(un’eccezione rilevante è, in questo senso, John Searle, che non a caso è frequentemente de-scritto come un cartesiano). Per dare un’idea della rilevanza della proposta esternistica in fi-losofia della mente e del linguaggio, si può citare una frase di John Heil, secondo il quale «Laconcezione esternista della mente è … nulla di meno che rivoluzionaria. Si tratta, a mio giu-dizio, del contributo filosofico più importante della seconda metà del Novecento»14.

Il presupposto fondamentale della corrente esternista è dunque il rifiuto dell’assunzio-ne cartesiana e neo-cartesiana secondo la quale il contenuto degli stati intenzionali è intera-mente determinato dalle proprietà non-relazionali, interne, della mente. Secondo gli esterni-sti, al contrario, almeno in parte il contenuto è causalmente da fattori (fisici e/o sociali) ester-ni al sistema mente/cervello. Ciò ha, naturalmente, imponenti implicazioni epistemologiche.Da una prospettiva esternalistica, fortemente polemica con il cartesianismo, scrive per esem-pio Donald Davidson15:

A partire da Descartes l’epistemologia è stata quasi interamente fondata sulla conoscen-

za in prima persona. Il suo punto di partenza – ci viene detto di solito – non può che es-

sere quanto abbiamo di più certo: la conoscenza delle nostre sensazioni e dei nostri pen-

sieri. In un modo o nell’altro, risaliremo poi, se mai ci riuscirà, verso la conoscenza del

mondo oggettivo, esterno; infine ci sarà l’ultimo timido passo verso la conoscenza delle

altre menti.

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13 J. Kim, The Myth of Nonreductive Materialism, «Proceedings of the American Philosophical Association», 63(1989), pp. 31-47.14 J. Heil, The Nature of True Mind, Cambridge University Press, Cambridge 1992, p. 24. 15 D. Davidson, Epistemology Externalized, «Dialectica», 45 (2-3) (1991), p. 191.

Secondo la proposta davidsoniana, invece, la conoscenza va concepita come un tripo-de, in quanto poggia necessariamente su tre sostegni, ognuno dei quali presuppone l’altro: laconoscenza in prima persona (soggettività), quella delle altre menti (intersoggettività) e quel-la del mondo esterno (oggettività). In questa luce, la concettualizzazione e il giudizio, ovve-ro il pensiero pleno iure, sono inestricabilmente connessi alla condivisione, mediante il lin-guaggio, del nostro pensiero con il pensiero altrui:

Avere il concetto di oggettività – il concetto di oggetti ed eventi che occupano uno spazio

condiviso, di oggetti ed eventi le cui proprietà e la cui esistenza sono indipendenti dal nostro

pensiero – presuppone la consapevolezza della condivisione con gli altri dei pensieri e di un

mondo16.

In questa prospettiva, dunque, il rovesciamento del cartesianismo è radicale: ma pro-prio per questo la filosofia di Descartes si presenta come il fondamentale termine a quo del-la riflessione di Davidson. In questo senso, il vigore con cui Davidson e gli altri esternalistirifiutano la concezione cartesiana della mente – e tutta l’enfasi con cui essi, come fa Heil,identificano i segni di una rivoluzione anti-cartesiana – dimostra quanto la discussione con-temporanea sulla mente vada vista in continuità, sia pure dialettica, con quella tradizionale.Cos’è, in fondo, la storia della riflessione sulla mente/corpo a partire dal Seicento, se non unacostante, reiterata, mai definitiva polemica contro l’impostazione cartesiana?

In conclusione, la continuità che esiste tra le discussioni filosofiche contemporaneesul concetto di mente e quelle della tradizione filosofica dedicate al concetto di anima, e piùspecificamente a quello di ‘anima razionale’, mostra nel modo più chiaro come siano in er-rore quanti, ora in prospettiva critica ora in prospettiva apologetica, insistono sull’idea che lafilosofia analitica rappresenti un paradigma del tutto nuovo nella storia del pensiero – un mon-strum per gli uni, un prodigio per gli altri.

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16 Ivi, p. 201.

STUDI E INTERVENTI

Hegel critico della fisiognomica

Massimiliano Biscuso

Introduzione

Nel mio intervento intendo chiarire i motivi che portarono Hegel nella Fenome-nologia dello spirito a criticare in modo ampio e dettagliato la fisiognomica e cogliere lastruttura argomentativa della critica. Per far ciò sarà indispensabile comprendere, alme-no nelle linee generali, l’ampia architettura della Ragione osservatrice, nella quale la cri-tica alla fisiognomica rappresenta, insieme alla critica alla craniologia, il momento con-clusivo.

1. Dalla natura inorganica alla fisiognomica

1.1 L’osservare Finora non mi sembra che sia stata adeguatamente intesa l’importanza dell’ampia trat-

tazione della Ragione osservatrice, la prima figura della Ragione nella Fenomenologia dellospirito1, e in particolar modo della sua terza e conclusiva sezione, l’Osservazione del rappor-to dell’autocoscienza con la sua effettualità immediata; fisiognomica e craniologia. Gli in-terpreti hanno cercato di spiegare l’ampiezza della trattazione hegeliana ricordando «l’impor-tanza che i contemporanei avevano accordato ai lavori di Lavater e Gall»2, ma in genere han-no dedicato scarsa attenzione a queste pagine. A ben guardare, però, questa sezione della Fe-nomenologia riveste un’importanza ben maggiore di quanto la critica sia disposta a conce-derle, in quanto in essa Hegel, da un lato, prende in considerazione il problema più generaledelle «relazioni fra l’individualità spirituale e la sua espressione più immediata, il corpo»3,dall’altro, nella critica a queste due «pseudoscienze», gioca la partita decisiva del rapporto frala filosofia speculativa e la scienza moderna.

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1 G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes (1807), in Werke. Theorie-Werkausgabe, hrsg. v. E. Moldenhaueru. K.M. Michel, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1969 ss. (d’ora in poi TW); Fenomenologia dello spirito, trad. it.di E. De Negri, La Nuova Italia, Firenze 1973 (d’ora in poi Fen.).2 J. Hyppolite, Genèse et structure de la «Phénoménologie de l’Esprit», Aubier, Paris 1946; Genesi e strutturadella «Fenomenologia dello spirito» di Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1972, p. 317.3 Ibidem.

Il fatto che qui vengano prese in considerazione due pseudoscienze non deve quindisminuire l’importanza di questa sezione: a parte il fatto che la craniologia mostra aspetti cheimpediscono una valutazione liquidatoria, fisiognomica e craniologia appaiono a Hegel i ten-tativi più avanzati della scienza empirica moderna di penetrare ciò che fino ad allora sembra-va precluso alla osservazione scientifica: l’interiorità spirituale umana, l’invisibile. Così «og-getto dell’osservare» sarà «la visibilità come visibilità dell’invisibile» (TW 3, 241/Fen. I, 266),perché solo rendendo visibile l’invisibile la ragione può conoscere nella modalità sua propria,che è quella di cogliere gli oggetti «nella forma dell’essere e del restare» (202/221). Ma perfar ciò deve tradurre il rapporto visibile-invisibile nel rapporto segno-significato: così nellafisiognomica lo spirito viene conosciuto «nel suo proprio esterno come in un essere costituen-te il linguaggio, – la visibile invisibilità, – dell’essenza spirituale» (244/269). Si tratta, a benconsiderare, di una mossa teorica mutuata dalla medicina, perché è proprio della medicina,fin da Ippocrate, cercare di risalire, attraverso segni visibili, agli invisibili processi che avven-gono all’interno dell’organismo, per diagnosticare la malattia e ristabilire la salute. Rapportosemeiotico questo della medicina, rapporto semiotico quello della fisiognomica e della cra-niologia.

1.2 Le leggi della ragione osservatrice L’ampia sezione dedicata da Hegel alla ragione osservatrice (Beobachtende Vernunft)

è di fatto un confronto con le scienze della natura, con la loro metodologia e con alcuni dei lo-ro più significativi risultati, soprattutto le scienze del vivente e le scienze dell’uomo, in cui ilprocedere intellettualistico della ragione osservatrice appare decisamente inadeguato.

Non intendo qui analizzare in tutta la sua complessità le pagine in cui Hegel esponee al tempo stesso discute la classificazione e la descrizione, l’esperimento, le scienze dellanatura inorganica, e poi quelle della natura organica, dalla biologia all’anatomia e alla fisio-logia. Una discussione che di fatto coinvolge non solo la scienza moderna, ma anche la«scienza romantica» della natura, così strettamente connessa alla filosofia kantiana e soprat-tutto alla Naturphilosophie. Vorrei invece attirare l’attenzione sulle due leggi che regolanoil rapporto dell’organico e dell’inorganico, o come anche dice Hegel dell’interno e dell’ester-no –, intendendo per inorganico non tanto il non-vivente, quanto ciò che è altro dall’organi-smo e con cui l’organismo entra in una relazione determinata – in quanto tali leggi si ritro-vano poi, a più alto livello, nella psicologia, nella fisiognomica e nella craniologia.

Quando i due lati sono «la natura organica e la natura inorganica nel loro reciprocorapporto» (196/215), allora la legge esprime la determinazione dell’organico da parte del-l’inorganico, una determinazione che, però, risulta «superficiale, né riesce ad andare oltre ilgrande influsso» (197/215)4.

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4 Cfr. G.R. Treviranus, Biologie, Göttingen 1803, Bd. II, p. 171.

Quando invece i due lati sono propri dell’intero organico, il «fine e l’effettualità», cioèl’organizzazione finalistica dell’essere vivente e la sua attività concreta e reale, allora «il lo-ro rapporto genera la legge: l’esterno è l’espressione dell’interno» (202/221).

Sia nel caso in cui l’esterno (= inorganico) influisca sull’interno (= organico), sia inquello in cui l’esterno esprima l’interno, non si tratta in effetti di leggi, perché manca al rap-porto proprio il carattere specifico della legge, cioè la necessità. E la necessità manca in pri-mo luogo perché «l’osservare cerca i momenti nella forma dell’essere e del restare», sicchéla coscienza osservatrice trasforma l’opposizione, tra organico e inorganico, tra esterno e in-terno, «in un’opposizione tale che sia conforme al suo punto di vista» (202/221), un’opposi-zione tra realtà estranee l’una all’altra.

Così, nel primo caso, la legge dovrebbe esprimere l’influenza dell’ambiente sull’or-ganismo che vi fa parte: «gli animali appartenenti all’aria sono della natura degli uccelli; quel-li appartenenti all’acqua sono della natura dei pesci; gli animali delle regioni artiche hannopelame folto ecc.». Una legge che confligge con la «libertà organica», cioè con la capacitàdel vivente di autodeterminarsi, sicché quella legge deve convivere con «ogni sorta di ecce-zioni» (197/215). Nel secondo caso, invece, la legge riguarda «un’opposizione puramente for-male», in quanto interno ed esterno non sono più, come in precedenza, cose indipendenti, ma«lati reali [che] hanno a loro essenza un medesimo in-sé». Lati che nell’osservare appaionocome un diverso essere, ciascuno con un contenuto peculiare; eppure, al tempo stesso, lati diuna medesima sostanza, cioè di contenuto identico: «al che la coscienza osservativa accenna,dicendo l’esterno essere soltanto espressione dell’interno» (203/222).

La psicologia ricercherà la legge nel grande influsso del mondo sull’individuo (cfr.231/254), la fisiognomica e la craniologia nell’espressione dell’interno nell’esterno (rispetti-vamente: 234/258 e 254/281).

1.3 La fallacia della psicologia osservatriceIntroducendo la craniologia, la seconda delle «relazioni nelle quali è possibile osser-

vare l’individualità autocosciente rispetto al suo esterno», Hegel riassume così il percorso ap-pena compiuto dalla ragione osservatrice dalla psicologia alla fisiognomica:

[a] Nella psicologia è l’effettualità esterna delle cose che deve avere nello spirito il suo stam-

po autocosciente e rendere comprensibile lo spirito medesimo. [b] Nella fisiognomica, inve-

ce, lo spirito deve venire conosciuto nel suo proprio esterno come in un essere costituente il

linguaggio, – la visibile invisibilità, – dell’essenza spirituale (244/269; paragrafatura M.B.).

Senza entrare nel dettaglio della analisi fenomenologica della psicologia osservatrice,si può dire che questa fallisce sotto due punti vista. Da una parte trova intellettualisticamen-te ed enumera «numerose facoltà, inclinazioni, passioni», eterogenee e accidentali l’una al-l’altra; dato però che «il ricordo dell’unità dell’autocoscienza non si fa reprimere», le pone

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insieme «quasi in un sacco». Si tratta, sembra quasi superfluo sottolinearlo, di una spiegazio-ne quanto mai inadeguata, priva di spiritualità, della realtà psichica dell’uomo, dove entranoin contraddizione il modo di rappresentarle come «cose inerti e morte» e il loro manifestarsi«come inquieti movimenti» (230/253).

Dall’altra parte la psicologia osservatrice crede di trovare la legge dell’individualitànell’effetto e nell’influsso (Wirkung und Einfluß) che «le circostanze, la situazione, le abitu-dini, i costumi, la religione ecc.», ciò che per l’uomo costituisce «la sua generale natura inor-ganica», esercitano sull’individuo. Ma tale individualità consiste appunto sia nel conformar-si pienamente a tali circostanze, sia nell’opporsi ad esse fino a invertirle, sia, infine, nell’es-sere perfettamente indifferente rispetto ad esse. «Che cosa debba allora avere influsso sull’in-dividualità, e quale influsso debba avere, il che propriamente si equivale, dipende solo dallastessa individualità» (231/254). Il mondo è tanto la situazione che l’individuo trova già data,quanto il mondo suo, che l’individuo fa proprio e trasforma. «Ma così la necessità psicologi-ca diviene una parola talmente vuota, da esser possibile che ciò che dovrebbe aver subito que-sto influsso, possa anche non averlo subito» (232/255-6).

2. Fisiognomica: identità del fare vs. identità dell’essere

2.1. La mano e la boccaCiò che dunque ha decretato il fallimento della psicologia osservatrice, l’insussisten-

za della legge che voleva le circostanze esercitare il loro grande influsso sull’individualità co-me uno stampo, è la sua concreta libertà; concreta, perché l’individualità si è rivelata «unitàdell’essere in quanto già dato, e dell’essere in quanto costruito» (232/256); libera, perché ca-pace tanto di accogliere le influenze del mondo e conformarsi ad esse, quanto di invertirne emodificarne il corso, facendolo mondo suo. E sarà ancora la libertà a impedire alla fisiogno-mica di poter affermare la sua legge, che l’esterno, la figura corporea, è espressione dell’in-terno, del carattere interiore e dello spirito.

Obiettivo polemico di Hegel è la fisiognomica di Johann Kaspar Lavater. Vissutotra il 1741 e il 1801, il pastore zurighese aveva pubblicato nel 1772 Von der Physiogno-monik (Sulla fisiognomica), che poi aveva ampliato nei Physiognomische Fragmente(Frammenti di fisiognomica), apparsi in quattro volumi tra il 1775 e il 1778. Lavater cer-ca di fondare la fisiognomica, definita «la conoscenza del rapporto che lega l’esterno al-l’interno, la parte visibile a ciò che nasconde di invisibile»5, come scienza, una scienzanon puramente matematica, ma qualitativa quanto la fisica, la medicina, la teologia e la

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5 J.K. Lavater, Physiognomische Fragmente zur Beförderung der Menschenkenntnis und Menschenliebe, Win-terthur 1775-78; trad. it. parz. La fisiognomica, a cura di F. Gallo, Atanòr, Roma 1984, Frammento III, p. 9.

letteratura. E la fisiognomica è una scienza, perché «ha norme precise che si possono in-segnare ed apprendere, esporre agli altri, trasmettere e percepire». Certo, si affrettava adaggiungere Lavater per giustificare l’arbitrarietà e la vera e propria Schwärmerei di tantesue analisi, «come tutte le scienze dovrà molto lasciare al genio, al sentimento e, su mol-ti punti, non offrirà regole precise, caratteri determinati o determinabili»

6. Ma non era que-

sta per lui una vera preoccupazione. Ciò che Lavater trovava entusiasmante nella fisio-gnomica era che essa gli sembrava essere davvero «la scienza delle scienze»

7, perché scien-

za dell’uomo nella sua concreta totalità, unica forma di sapere in grado di cogliere non so-lo la sua triplice vita (animale, intellettuale e morale), ma anche il legame tra corpo e ani-ma. Strumento per accedere dal visibile (il corpo) all’invisibile (l’anima), dall’esterioritàall’interiorità, è l’osservazione attuata tramite la mediazione dei sensi. Non si potrà infat-ti mai conoscere l’uomo

nella sua totalità se non osservando ciò che di lui è visibile, il corpo, la sua esteriorità. Per

quanto spirituale, per quanto incorporea possa apparire la sua intima natura, quale che sia la

distanza che lo separa dai sensi, non è meno vero che ciò che rende visibile l’uomo dal di

fuori, è la sua armonia, l’indissolubile legame con il corpo che abita, dove vive, dove si po-

ne come nel suo elemento. Questa parte materiale è dunque il punto in cui si deve concen-

trare l’osservazione, e tutto ciò che si può conoscere dell’uomo, lo si conosce attraverso la

mediazione dei sensi8.

D’altronde lo studioso di fisiognomica non fa che applicare al più eccellente di tuttigli esseri visibili, quello formato a immagine e somiglianza di Dio, il medesimo procedimen-to che l’uomo attua quando conosce.

L’uomo non potrebbe che errare in una completa ignoranza di tutto ciò che lo circonda e di

se stesso, se ogni forza, ogni vita non si manifestasse in una esteriorità sensibile, se ogni co-

sa non portasse in sé un’impronta che indica la sua intima natura e il suo sviluppo, un’im-

pronta speciale che la fa conoscere per ciò che è e la distingue da ciò che non è9.

Occorrerà tenere presenti queste dichiarazioni di principio per cogliere l’andamen-to della critica hegeliana. Mentre nella psicologia la ragione osservatrice aveva preso inconsiderazione l’opposizione tra esterno ed interno in quanto opposizione di mondo e au-tocoscienza, nella fisiognomica l’osservazione vorrebbe prendere in considerazione l’indi-

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6 Ivi, Frammento VI, p. 33.7 Ivi, p. 36.8 Ivi, Frammento II, p. 4.9 Ivi, p. 5.

viduo e l’opposizione tra il suo «libero operare», il suo per sé, e il suo «determinato, ori-ginario essere», il suo in sé (TW 3, 233/Fen. I, 256). Tuttavia, non è possibile alla coscien-za osservatrice distinguere così nettamente i due lati dell’individualità: «qui oggetto d’os-servazione è l’intera individualità determinata; e ogni lato della sua opposizione è a suavolta l’intero». Infatti il corpo non è soltanto essere originario dell’individuo, ma ancheespressione di sé da lui prodotta; viceversa, l’interiorità non è soltanto formale, ma ha uncontenuto determinato, è effettuale.

All’intero esteriore non appartiene dunque soltanto l’essere originario, il corpo congenito

[der angeborene Leib, il corpo che ci è dato, col quale siamo nati], ma anche la formazione

[Formation], di esso, e questa appartiene all’attività [Tätigkeit] dell’interno; il corpo è l’uni-

tà dell’essere non formato [ungebildeten] e di quello formato [gebildeten], ed è anche l’ef-

fettualità dell’individuo compenetrata dell’essere-per-sé. […] Quest’interno non è più dal

canto suo autoattività formale priva di contenuto o indeterminata […] anzi è un carattere ori-

ginario, in sé determinato, la cui forma è soltanto l’attività.

L’intero esteriore, che comprende tanto «i lati determinati, originari e saldi» quanto «itratti che sorgono solo mediante l’operare», è, «e tale essere è espressione dell’interno»(234/258).

In un primo momento l’esterno rende visibile l’invisibile interiorità, o, detto al-trimenti, la coscienza crede di poter osservare l’interiorità, nell’organo, in particolar mo-do in quelli che devono essere considerati gli strumenti per eccellenza dell’espressioneumana, la mano e la bocca. «La bocca che parla, la mano che lavora […] sono gli orga-ni attuatori e fattivi che hanno in loro l’operare come operare [Thun] o l’interno come ta-le». Ma né la mano né la bocca riescono a trattenere in se stessi l’interno, a rendersi suosegno, perché

l’esteriorità a cui, mediante gli organi, perviene l’operare, è l’operazione [That] come effet-

tualità separata dall’individuo. Linguaggio e lavoro sono estrinsecazioni nelle quali l’indi-

viduo non si conserva né si possiede più in lui stesso, anzi fa uscire l’interno completamen-

te fuori di sé e lo lascia in balia di altro (235/258-259).

Bocca e mano esprimono al tempo stesso troppo e troppo poco. Troppo, perché nonesprimono l’interno, ma danno immediatamente l’interno stesso. Troppo poco, perché dive-nendo l’interno qualcosa d’altro rispetto all’individualità, esso è abbandonato all’elementodella trasmutazione, viene distorto e non è più riconducibile a quell’interno che l’ha genera-to. Così l’operare «come opera [Werk] compiuta» (235/259) ha un duplice e opposto signifi-cato: o è l’individualità interna, ma non la sua espressione; o è una realtà effettiva, ma com-pletamente diversa dall’interno stesso.

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2.2. Il volto e la figura corporea È necessario perciò rinunciare a cercare nell’organo il segno visibile dell’invisibile in-

teriorità; segno dell’interno sarà piuttosto «il movimento e la forma del volto e della figura ingenerale – movimento e figura non capaci di condurre a compimento qualcosa» (238/263),cioè non capaci propriamente di operare. Solo in quanto i tratti e il movimento del volto e del-la figura corporea sono un «operare trattenuto», essi possono essere espressione dell’interno.

Così sembra essersi finalmente istituito un rapporto tra esterno e interno tale che il pri-mo sia espressione del secondo, segno che rimanda all’interno e lo rende visibile alla ragio-ne osservatrice. Ma proprio la natura semiotica del rapporto espressivo è affetta da costituti-va contraddittorietà. Infatti, affinché si istituisca un rapporto semiotico, è necessario chel’esterno sia arbitrariamente posto in relazione con l’interno: la figura esterna può esprime-re l’individualità interna solo comportandosi

come una cosa sussistente che accoglie tranquillamente nel suo passivo esserci l’interno come un

estraneo, divenendone così il segno: esterna espressione accidentale, il cui lato effettuale sarebbe per

sé privo di significato, – linguaggio i cui suoni e i cui aggruppamenti di suoni, lungi dall’essere la co-

sa stessa, le sono congiunti mediante il libero arbitrio, restando per essa accidentali (236/260; cors.

M.B.).

Ma, d’altronde, affinché il rapporto abbia forza di legge, deve esprimere una «neces-sità» (239/263), il che è in contraddizione proprio con l’arbitrarietà del segno.

L’espressione dell’interno, perciò, è bensì espressione, ma in pari tempo è soltanto quasi un segno,

per modo che al contenuto espresso è assolutamente indifferente la costituzione di ciò, mediante cui

la cosa da esprimere viene espressa. In questa apparenza l’interno è certo un visibile invisibile, sen-

za che però sia collegato all’apparenza stessa; esso può ben essere in un’altra apparenza, come del

resto nella medesima apparenza può esservi un altro interno (239/263-264).

Ora, la fisiognomica non fallisce semplicemente perché cade nella contraddizione tranaturalità/necessità vs arbitrarietà/polivocità del segno, cioè nell’individuare la vera naturadel rapporto tra i due lati. Più radicalmente essa fallisce perché non sa cogliere l’aspetto ve-ramente essenziale tanto dell’interiorità quanto dell’esteriorità dell’individuo. È proprio in-fatti della fisiognomica (è suo «pensiero tipico») invertire il valore del rapporto tra operazio-ne e intenzione, tra attività e figura corporea. Per l’osservazione l’operazione e l’opera han-no il valore di un «esterno inessenziale», mentre «l’essere-entro-sé dell’individualità ha quel-lo dell’interno essenziale». Così la coscienza osservatrice «sceglie a vero interno il lato del-l’intenzione; nell’operazione questo interno avrebbe la sua estrinsecazione più o meno ines-senziale, mentre nella propria figura [corporea] avrebbe la sua estrinsecazione vera»(240/265). In tal modo, l’osservare fisiognomico crede di poter conoscere la vera interiorità

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dell’individuo, e dice: «Tu, è vero, agisci da persona per bene; ma io vedo dal tuo aspetto cheti fai forza e che in cuor tuo sei un birbante»10.

Una tale inversione è possibile in quanto la fisiognomica presuppone (anzi, è «la prin-cipale premessa di questa scienza dell’opinare») che l’effettualità dell’uomo sia il suo volto,il movimento e la figura corporea, che cioè l’identità dell’individuo sia un dato che si trattasolo di osservare, un essere statico e univoco. «Ben altrimenti, il vero essere dell’uomo è lasua operazione: [solo] in essa l’individualità è effettuale» (242/267)11. Infatti, se l’uomo puòmanifestare come nascondere la sua interiorità, far trasparire come mascherare quello che pro-va, impedendo appunto che dall’osservazione dell’esterno, della sua figura corporea e del suovolto, si possa cogliere l’interiorità, non può che rivelare se stesso nella sua operazione, in ciòche dice e che fa – operazione che entrando in relazione con l’operare degli altri uomini for-ma il mondo dello spirito, opera di tutti e di ciascuno.

L’uomo è ciò che fa, non ciò che è. Identità del fare contro identità dell’essere: questaè la posta in gioco nella critica hegeliana della fisiognomica.

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10 Qui Hegel cita un passo della critica di Georg Christoph Lichtenberg (Über Physiognomik wider die Physio-gnomen, Göttingen 1778) a Lavater; sulla quale cfr. L. Marino, I maestri della Germania. Göttingen 1770-1820,Einaudi, Torino 1975, pp. 129-145.11 Su questa capitale acquisizione hegeliana, cfr. F. Valentini, L’uomo è quel che fa. Considerazioni su: Hegel,Fenomenologia dello spirito, capitolo quinto, A, b, in “Pólemos. Materiali di filosofia e critica sociale”, I (2006),n. 0, La serie delle azioni. Percorsi della filosofia pratica hegeliana, pp. 9-25.

Il Socrate metafisico di Michele Federico Sciacca1

Giorgia Castagnoli

«Ogni epoca filosofica, ogni originale pensatore, quando si siano accostati a Socrate, lo han-

no sentito e fatto sentire secondo le esigenze del proprio peculiare spirito, mostrandone in ogni

caso l’inevitabilità nella storia del pensiero, l’impossibilità di sottrarsi al raffronto con lui»2.

scrive Giuseppe Semerari nel “Giornale Critico di Filosofia Italiana” del 1953, al ter-mine di una stagione di storiografia socratica3 italica particolarmente vivace come quella de-gli anni Trenta-Cinquanta del secolo scorso.

In uno Stato retto da un regime totalitario, dove il libero dialegesthai era fortementeostacolato dalla limitata libertà di parola, di stampa e di associazione, parlare di un uomo cherisvegliava la coscienza morale e costringeva gli uomini a misurarsi con una ragione criticaera già un messaggio forte; trasmettere i valori della tolleranza e della convivenza civile, inun momento in cui predominava la xenofobia e le leggi razziali erano all’ordine del giorno,diveniva allora funzionale a risvegliare il pensiero al fine di perseguire un agire autonomo. Inquesto periodo Socrate veniva considerato da molti intellettuali come un “faro” di luce in mez-zo a tanto oscurantismo e anche negli anni del secondo dopoguerra, quando gli animi oscil-lavano tra la volontà di ricostruire un paese lacerato dai conflitti sociali e politici medianteuna giustizia di tipo vendicativo e la tentazione contraria di relegare il passato all’oblio, eccoche l’Ateniese ritornava ad essere una figura viva e attuale, un Maestro da imitare, per il can-dore morale e l’attitudine “spirituale” che sembrava emanare dalla sua persona e per la suaapertura nei confronti dell’Altro.

Sulla cosiddetta “questione socratica”, non vi è ancora un accordo unanime tra glispecialisti sull’attendibilità delle fonti, così l’immagine di Socrate risulta sfuggente: egli ap-pare come una figura a metà tra il visibile e l’invisibile, una figura tratteggiata che può es-sere focalizzata in maniera “chiara e distinta” solo grazie ad un “processo di mediazione”operato da ciascun interprete, che, in base alle sue ricerche, e alle sue idee sociali e politi-che, raggiunge la sua “idea” di Socrate, e con lui la “sua” immagine di Filosofia. Se ogni ri-tratto socratico presenta certamente una sua unicità, dovuta alla fonte che ciascun autore haritenuto primaria e al proprio sentire, nondimeno vi sono degli elementi comuni che carat-

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1 Ringrazio il Prof. Emidio Spinelli per i suggerimenti di cui ho tenuto conto nella redazione di questo contributo. 2 Semerari 1953, p. 438. 3 Per una storia della storiografia socratica italica, oltre alla voce Socrate dell’Enciclopedia Italiana del 1936 a cu-ra di G. Calogero (= Calogero 1936), pp. 1024-1026, cfr. Rossi 1951; Spinelli 2006 e 2007; Stavru 2005 e 2006.

terizzano in modo peculiare questa stagione storiografica: in molti studi si riscontra spessola tendenza, tutta italiana, a “lasciarsi sfuggire” un accenno, un paragone, un’esclamazione,che operi un immediato collegamento tra la situazione di Socrate nell’Atene del V secolo, equella degli intellettuali nella più viva contemporaneità, mediante richiami di carattere pre-valentemente socio-politico.

L’altro elemento importante è la forte tendenza, caratteristica di alcuni pensatoricome Michele Federico Sciacca, Ernesto Buonaiuti4 e Carlo Mazzantini5, di avvicinare,mediante parallelismi e distinzioni, la figura di Socrate a quella di Gesù Cristo, dando luo-go ad un vero e proprio “filone cattolico” di storiografia socratica italiana, che si contrap-pone ad un filone interpretativo di stampo “laico”, atto a valorizzare il dinamismo di unaricerca, critica e dialettica, situata in un orizzonte rigorosamente terreno (tra i maggiori in-terpreti di questa seconda linea di pensiero possiamo collocare Guido Calogero6 e Anto-nio Banfi7).

Non potendo analizzare in questa sede un’intera stagione storiografica, proveremoqui a delineare, per sommi capi e senza alcuna pretesa di esaustività, un ritratto socraticoparticolarmente interessante perché inaugura la corrente interpretativa “cattolica”: il Socra-te “metafisico” dipinto nel corso degli anni Trenta da Michele Federico Sciacca8, (lo “stu-dioso cattolico” secondo le parole di Eugenio Garin9, esponente rilevante dello “spirituali-smo cristiano”10).

Lo scritto più importante per comprendere la sua percezione di Socrate è certamentel’articolo del 1937 Il significato e i limiti dell’ironia di Socrate, letto nella Regia Universitàdi Napoli l’11 Gennaio 1937 e poi pubblicato nella rivista trimestrale Logos, l’organo dellaBiblioteca filosofica di Palermo, diretto dal prof. Antonio Aliotta. In questo breve saggio, acui va certamente riconosciuta una notevole chiarezza espositiva e una grande coerenza con-cettuale, l’ironia diviene la nota distintiva, la “tonica” per usare un’espressione musicale, pervalutare la vita e la filosofia del pensatore ateniese.

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4 Cfr. Buonaiuti 1945. 5 Cfr. Mazzantini 1946. 6 Cfr. Calogero 1936, 1955, 1963, 1966. 7 Cfr. Banfi 1943.8 Cfr. almeno Ottonello 2006.9 Cfr. Garin 1985, p. 27. 10 La dizione “spiritualismo cristiano” è stata coniata dallo stesso Sciacca nel 1941, che però l’abbandonerà negli an-ni Cinquanta. Cfr. Bausola 1985, pp. 278-279. C.A. Viano, accomunando il pensiero di Sciacca a quello di Carlini,Guzzo e Pareyson, lo classifica un esponente della corrente dello “spiritualismo di origine attualistica” (cfr. Viano2006, p. 70) caratterizzata «oltre che dal suo legame con la politica religiosa intrapresa dal regime fascista negli an-ni successivi ai Patti Lateranensi, tendente a valorizzare il ruolo della riflessione teologica e spirituale nella culturae nell’educazione scolastica ed universitaria» anche dal fatto di «considerare la religione come l’unico aiuto per orien-tarsi nella Storia, e la riflessione sull’uomo la via di accesso privilegiata a un regno dello spirito che trascende l’uo-mo stesso culminando nella divinità» (Viano 2006, pp. 48-49).

Ma prima di arrivare ad analizzare queste pagine, così dense e al contempo sintetiche,in cui culmina la riflessione di Sciacca su Socrate, possiamo tentare di scorgere le sue tracceanche negli studi degli anni precedenti e più precisamente nei due saggi: Il problema dellagiustizia nel libro Primo della Repubblica, del 1930, e ne Il problema dell’immortalità del-l’anima e la metempsicosi in Platone, del 1934, entrambi raccolti nel volume sugli Studi sul-la Filosofia Antica, edito nel 1935.

Nel primo studio viene sostenuta la tesi che il primo libro della Repubblica sia un dia-logo completo in sé stesso, probabilmente intitolato Trasimaco, dal nome del sofista con cuiSocrate discute, appartenente ai cosiddetti dialoghi giovanili o socratici di Platone, quelli cioèin cui la filosofia socratica si trova «in polemica con le teorie sofistiche»11.

Nel primo libro della Repubblica, infatti, Socrate mette alla prova il vecchio Cefalo,dotato di «un certo sano moralismo empirico»12, convinto del fatto che la morale non vada de-dotta da condizioni esterne, ma ricavata da una costante educazione dell’anima alla «conti-nua, efficace collaborazione nella ricerca della verità»13.

La conversazione verte poi sul valore della ricchezza, ma «Il bene, per Socrate, comesi sa, s’identifica con la sapienza e siccome le ricchezze non danno la sapienza, non possonoessere un bene»14 scrive Sciacca sulla base della lettura di un passo di Senofonte nel quale So-crate pone l’accento sull’importanza dell’educazione e dello studio soprattutto per quelli chepossiedono mezzi maggiori, come ricchezza o doti naturali15. Ma il dialogo con Cefalo, co-m’è noto, ha vita breve, e ciò perché «Socrate può aver ragione sulla sofistica che è una filo-sofia, ma non sul senso comune16 di Cefalo»17.

Per continuare la ricerca sull’essenza della giustizia interviene a questo punto il se-condo interlocutore del dialogo, Polemarco. Egli sostiene che essere giusti significhi far be-ne agli amici e male ai nemici, tradendo un freddo utilitarismo. Ma per Socrate, che ritienel’ingiustizia un male non per chi la patisce ma per chi la commette, è impossibile che l’uomoveramente giusto faccia male ai cattivi, perché in tal caso egli stesso ignorerebbe la scienzadel giusto. Dunque la tesi iniziale viene confutata: «l’intellettualismo etico di Socrate ha pie-na ragione sull’empirismo di Polemarco»18 conclude perciò Sciacca.

Il momento più interessante però è certamente il dialogo con il sofista Trasimaco, con-vinto, in base ad un’analisi della realtà effettuale, che la giustizia sia da identificarsi con l’uti-

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11 Sciacca 1935, p. 97. Sulla questione cfr. almeno Adorno 1997; Giannantoni 1957; Vegetti 1998 e 2001. 12 Sciacca, p. 101.13 Ivi, p. 103. 14 Ivi, p. 104. 15 Sciacca cita a questo proposito Senofonte, Memorabili, IV, 1, 5. 16 «E’ il senso comune quello che afferma sempre e non nega mai, ma il senso comune è nemico dichiarato del-la filosofia», scrive Sciacca (Sciacca 1937, p. 83). 17 Sciacca 1935, p. 106. 18 Ivi, p. 110.

le del più forte19: la distanza con il modo di pensare di Socrate è profonda in quanto «Socra-te sa invece che il compito della filosofia è di modificare il dato, di elevare la realtà effettua-le ad un livello più alto; e questo perché Socrate ha la stoffa del profeta, che manca evidente-mente al sofista»20. Ciò che salta agli occhi in questa interpretazione è prima di tutto il fattoche Sciacca usi il verbo sapere riferendosi al compito della filosofia: egli non dice “Socratepensa che il compito della filosofia sia quello di…”, come fosse un’opinione, un modo pecu-liare di vedere la filosofia; egli dice “Socrate sa” ovvero il problema non è quello di riflette-re su quale sia il compio della filosofia, perché esso è dato (e consiste nel sublimare la realtàfattuale), ma di sapere se questo sia stato conosciuto o no da una serie di filosofi antichi.

Il secondo punto su cui vale la pena soffermare l’attenzione è l’accostamento di So-crate alla figura del profeta, un personaggio tipico delle religioni rivelate; egli infatti, al con-trario dei sofisti che, qui come altrove21, vengono fortemente criticati, si avvicina a questo per-sonaggio tipico delle religioni rivelate, ovvero a colui che ha la missione di rivelare agli uo-mini una realtà superiore. Su questo elemento il testo tornerà, ma rivestito di una terminolo-gia rigorosamente filosofica:

«Trasimaco muove dal particolare; Socrate non fa diversamente. Il sofista però dai partico-

lari inferisce il generale, Socrate il concetto universale. La differenza è rilevante: inferendo

il particolare dal generale si resta sempre sul terreno del dato sensibile; inferendo invece dal

particolare l’universale si salta dall’ordine empirico all’ordine razionale e universale»22.

Il “salto” in una dimensione razionale ed universale è stato il grande merito di Socra-te; non di meno la mancanza di un fondamento metafisico che potesse fare da surrogato allasua “fede” soggettiva è, secondo Sciacca, il suo grande “limite”.

«Qui è nello stesso tempo la grandezza e la debolezza della filosofia socratica: grandezza,

perché Socrate è il primo ad intuire che l’ordine soggettivo, lo spirito, la voce imperiosa del-

la coscienza è la misura dell’universo; debolezza, perché questa convinzione incrollabile re-

sta in lui semplice intuizione, fede, esperienza personale, esperienza di Socrate. Bisognava

dare a questa esperienza, che aveva avuto un martire nel suo stesso scopritore, un fondamen-

to metafisico. E questo è stato il compito di Platone»23.

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19 Cfr. Platone, Repubblica, 338c.20 Sciacca 1935, p. 112 nota.21 Cfr. Sciacca 1937, pp. 84-85. 22 Sciacca 1935, p. 120.23 Ivi, p. 121.

Sciacca parla di intuizione, di fede, di esperienza personale come di un sentimentosoggettivo individuale che però solo con Platone24 diverrà la base di un pensiero sistematico:dunque, secondo Sciacca, Platone supererà il suo “maestro” perché creerà un “sistema meta-fisico”, che Socrate invece “non era stato in grado” di edificare. Questa posizione sembra for-se risentire l’eco dei discorsi del Labriola, il quale, nella monografia La dottrina di Socratesecondo Senofonte, Platone ed Aristotele, aveva considerato il filosofare socratico non come«qualcosa di teoreticamente intenzionale» ma come «il risultato di un esame che egli ha eser-citato su sé medesimo, fino al punto di obiettivare in una intuizione etica dell’universo le esi-genze dell’animo suo»25.

«L’etica, la politica e la gnoseologia socratica restavano ancora sospese nel vuoto, erano più un

atto di fede, di personale e irresistibile convinzione, che di consapevolezza filosofica. Al proble-

ma etico-politico-gnoseologico mancava una metafisica. Qui Platone appuntò le sue critiche, per-

ché questo era il punto debole della filosofia di Socrate. Era necessario alla dottrina dei concetti

dare un fondamento metafisico»26,

scrive infatti Sciacca in sede conclusiva, senza forse problematizzare abbastanza ilfatto che, come mostra l’interpretazione di Guido Calogero27 – che ne ha fatto l’emblemadella ricerca incessante –, potrebbe non trattarsi di una mancanza di “consapevolezza filo-sofica” nell’animo di Socrate, ma di una mancanza di “volontà” di concepire una metafisi-ca di tipo “dogmatico”.

Il secondo saggio in questione, Il problema dell’immortalità dell’anima e la me-tempsicosi in Platone, analizza il problema dell’esistenza di una vita ultraterrena nella cul-tura greca, dai poemi omerici alla filosofia platonica. Da ciò consegue che i cosiddetti fi-losofi “presocratici” sembravano sentire profondamente l’influenza delle dottrine orfico-pitagoriche, mentre Socrate, in seguito alla lettura dei passi conclusivi dell’Apologia pla-tonica, in cui egli si interrogava su che cosa è la morte28, con l’unica convinzione che aibuoni non possa accadere nulla di male29, appariva invece uno “scettico sereno”. Socrate

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24 Per capire la posizione di Sciacca nei confronti di Platone ci viene in aiuto un altro saggio, dal titolo Il proble-ma della metafisica platonica, (in Sciacca 1935, pp. 131-144) in cui egli recensisce, e critica, un saggio omoni-mo del Grassi uscito nel 1932, in quanto «Negare quanto di innegabilmente religioso c’è in Platone, non è rimuo-vere un ostacolo perché il filosofo greco diventi attuale, come vuole il Grassi, ma è renderci estraneo Platone, cheabbiamo sempre amato e studiato come il pensatore classico dell’essere trascendente l’umana esperienza, comeil filosofo delle idee-realtà, come il divinatore di un mondo che non è il nostro, ma che sarà il nostro». 25 Cfr. Labriola 1961, p. 42. Sull’argomento cfr. Spinelli 2006. 26 Sciacca 1935, p. 129.27 Cfr. Calogero 1955; 1963; 1966. Sull’argomento cfr. Spinelli 2006. 28 Cfr. Apol. 40a e seg.29 Cfr. Apol. 48c-d.

non proclama nessuna dottrina sull’aldilà, in quanto, secondo Sciacca, egli non «ebbe unaconcezione chiara dell’essenza dell’anima, né una convinzione speculativa dell’immorta-lità di questa»30; tuttavia, nell’esaminare le alternative previste dalla religione greca in me-rito alla morte31, non vi è nemmeno un fremito nella sua voce. «Egli resta indifferente di-nanzi al dubbio e non manifesta nessun segno di spavento al pensiero di quel sonno eter-no che sarebbe la morte, annientamento completo del nostro essere, né la luce della spe-ranza gli brilla nel volto al pensiero dell’immortalità»32, nota Sciacca. E’ proprio questa«fermezza eroica»33 di fronte alla morte lo contraddistingue dagli altri uomini e che lo hareso grande nei secoli. Il suo fascino sta in quella serena tranquillità della sua anima difronte all’ignoto, e questa disposizione interiore è ciò che più ha inciso, secondo Sciacca,sulla speculazione platonica che «si arrovellò il cervello»34 sui problemi che Socrate ave-va dischiuso ma non risolto. La sua stessa “uscita di scena” mostra infatti come il proble-ma dell’al di là non fosse risolto perché egli sembra non avere alcuna certezza sul desti-no che lo attende; le sue ultime parole: «Ma ecco che è l’ora di andare: io a morire, e voia vivere. Chi di noi due vada verso il meglio è oscuro a tutti fuori che a Dio»35 esprimonoinfatti un “sereno dubbio”.

Per tentare di risolvere questi interrogativi, Platone cercherà di costruire una vera epropria metafisica, che però, secondo Sciacca, non riuscirà ad innalzarsi al livello di quellarivelata da Gesù Cristo. Nel saggio L’uomo, questo “squilibrato”, possiamo leggere:

«[…]la Parola ha rivelato Dio all’uomo. Bisogna però aggiungere anche che Essa ha rivela-

to l’uomo all’uomo stesso. […] Si considerino soltanto alcuni concetti, come quelli di “crea-

zione”, “persona”, “libertà”, “amore”, “spirito” e si vedrà come, nel loro significato profon-

do ed autentico, siano stati rivelati all’uomo di colpo, con una pregnanza di originalità che

non ha riscontri nel pensiero precedente. Se quei concetti li confrontiamo a quelli corrispon-

denti nel pensiero greco, anche di Platone e Aristotele, appare evidente come nel cristiane-

simo significhino ben altro e contengano maggiore ricchezza, a prescindere anche dal loro

significato teologico»36.

L’idea che la Parola sia donativa di un senso più profondo e di una comprensione piùautentica indirizzerà sempre il pensiero di Sciacca, che nel ventennio successivo tenterà di

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30 Sciacca 1935, p. 166. 31 Ovvero un sonno senza sogni, un oblio totale, o una vita in un altro luogo, in cui poter continuare a dialogarecon le grandi anime dei defunti (cfr. Apol. 40c-41c). 32 Sciacca 1935, p. 167.33 Ivi, p. 168.34 Ivi, p. 169. 35 Platone, Apol. 42a. 36 Sciacca 1963b, pp. 175-176.

trovare una conciliazione tra le due grandi correnti in cui era diviso il pensiero cristiano in Ita-lia: quella dei “neotomisti” e quella dei “neoagostiniani”37.

Michele Federico Sciacca, com’è noto, fonderà poi nel 1946 a Genova il “Giornale dimetafisica”, che, insieme a “Teoresi”, la rivista fondata a Messina da Vincenzo La Via, vole-va esprimere l’esigenza di comunicare, nel clima dell’entusiasmo post-bellico, un nuovo mo-do di filosofare, che riuscisse a legare indissolubilmente la riflessione filosofica a quella me-tafisica e poi a quella teologica, nella convinzione che:

«Noi non siamo di coloro che identificano la “filosofia” con la “cultura”, che cacciano in un

calderone le varie forme dell’attività dello spirito, dentro il quale tutto bolle e cuoce, e rispet-

to a cui la filosofia fa da combustibile: dà calore a tutto ma se ne resta fuori, di sotto, brucia

e incenerisce. Per noi, cultura e filosofia non s’identificano; la filosofia ha una sua autono-

mia, un suo metodo, una problematica propria»38.

come recita un passo del suo libro La Filosofia, oggi. Se per Sciacca la filosofia non coincide con la cultura generale, essa si presenta di-

rettamente legata alla metafisica ed alla teologia, e questo appare evidente anche nella con-siderazione del concetto di ironia socratica che egli interpreta, contrariamente ad Hegel incui essa era “semplicemente” il modo di porsi che caratterizzava l’Ateniese nelle sue con-versazioni con gli altri cittadini, come una sorta di «festosità compagnevole»39, nel senso del-la negazione di un mondo dominato dal costume borghese40 in vista di un’elevazione del-l’anima umana.

L’ironia, segno manifesto di quella “dotta ignoranza” che è alla base della ricerca fi-losofica tout court, diviene l’elemento costitutivo di chi si dice filosofo, in ogni tempo. «Nonc’è filosofia senza ironia»41 scrive Sciacca per sintetizzare l’esigenza di trascendere il viverecomune e raggiungere un’esistenza più piena, un’«intuizione superiore»42 di tutto l’universo.E se alcuni suoi colleghi, cercavano nell’«esperienza estetica» un orizzonte più ampio del vi-ver quotidiano, questo spiritualista individuava nell’anelito all’infinito il motore dell’indagi-ne sulla Trascendenza.

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37 Su questo punto cfr. Bausola 1985.38 Sciacca 1963a, p. 12.39 Cfr. Hegel 1964, p. 58-59.40 E’aspro il tono che contraddistingue questo passo dedicato alla monotonia della vita borghese, che non nutrealcuna pretesa, ma si accontenta del mondo empirico, uccidendo così il senso profondo del fare filosofia. «Il con-tentarsi di quello che si è, il vivere alla meglio, il cosiddetto oprare obliando, l’adattarsi all’ambiente: ecco il vi-vere comune, borghese, uniforme. E’ questa la morte della filosofia, perché manca l’assillo dell’insoddisfazio-ne, il coraggio di negare, la forza dell’ironia» (Sciacca 1937, p. 83). 41 Sciacca 1937, p. 82.42 Ivi, p. 83.

La nozione di ironia come negatività non è tuttavia da confondere con una negativitàdi tipo assoluto, che potrebbe risultare sterile, ma si presenta come una negazione che negaper poi affermare qualcos’altro43. Essa si rivela essere, in altre parole, l’incipit della ricerca,che parte da un’insoddisfazione generata dal “vivere comune”, quello cioè in cui l’uomo vol-gare «si appaga del sensibile e vi resta immerso»44, e si volge all’esistenza piena che caratte-rizza la vita del filosofo, il quale «confronta il sensibile con l’esigenza del metaempirico e dalconfronto sente l’insoddisfazione del mondo delle cose»45: ma il fatto stesso di ricercare qual-cos’altro implica necessariamente una precedente coscienza, sia pure implicita, che ci sia qual-cosa d’altro.

L’idea del “filosofo” portata avanti da Sciacca sembra richiamare alla mente un notopasso del Simposio platonico46 in cui la figura del filosofo appare una figura dinamica che, mos-sa dal desiderio di conoscenza, avanza verso la sapienza; ma questo desiderio, derivante da unsentimento di insoddisfazione, è proprio la condicio sine qua non per cominciare un lungo per-corso; inoltre, a guida dell’iter che conduce alla sophia viene in aiuto anche la celebre formu-la oracolare del “conosci te stesso”, sempre ripetuta da Socrate per invitare ogni uomo ad ave-re una maggiore autocoscienza di sé: essa viene interpretata dal filosofo siciliano come il fon-damentale richiamo a conoscere le proprie capacità, e soprattutto i propri limiti47.

«La conoscenza di sé genera imbarazzo, ma l’imbarazzo scaccia la presunzione e fa nasce-

re l’insoddisfazione. La coscienza del limite è la coscienza della propria ignoranza, cioè sem-

pre negazione di ciò che si è o si crede di essere. La negazione nasce perché l’autocoscien-

za ha generato l’esigenza di qualcosa che non si possiede, in forza di cui, ciò che prima sem-

brava tutto, ora sembra niente o soltanto un particolare»48.

A questo punto, l’autocoscienza fa sorgere nell’anima quella “dotta ironia” che si puòanche manifestare come un sentimento di stupore, di meraviglia, che ci fa improvvisamentevedere il mondo con altri occhi, come era accaduto anche a Teeteto nell’omonimo dialogo49.L’ironia di cui parla Sciacca è dunque strettamente imparentata con la meraviglia che è al-

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43 «L’ironia è negatività, non però negatività assoluta, che importerebbe un’ironia in senso assoluto. Ma un’iro-nia in senso assoluto è impossibile. Il negare ha significato rispetto a qualche cosa di più alto che si afferma»(Sciacca 1937, p. 82).44 Ivi, p. 83.45 Ibid.46 Platone, Simposio, 204a. 47 Vengono qui citati, a titolo dimostrativo: Senofonte, Memorabili, III, 6 e IV, 2; Platone, Alcibiade Maggiore,123a. Sull’interpretazione del motto delfico nel senso di una ricerca dei limiti della sapienza umana in relazio-ne a quella divina vi sono interessanti convergenze con il pensiero del filologo tedesco W. F. Otto (cfr. Stavru2006, pp. 107-110). 48 Sciacca 1937, p. 84.49 Cfr. Platone, Teeteto 155d; Aristotele, Metafisica, I 982b.

l’origine della ricerca filosofica. Egli ritiene inoltre che l’ironia di Socrate sia duplice, nel sen-so che si rivolge a due oggetti distinti: ai fisiologi presuntuosi nel ritenere di poter indagaresull’essenza di fenomeni conoscibili solo dagli dei; e ai sofisti, in quanto incapaci di elevarsiad una visione che andasse oltre il fatto empirico. Ma il punto fondamentale di questa inter-pretazione è il fatto che questa duplice ironia poggia su una esigenza etica e religiosa, che pe-rò non riesce a raggiungere un compimento adeguato: qui è il suo “limite”. Socrate rimaneinfatti legato fino all’ultimo alla «sfera ristretta dell’utilità collettiva»50, dato che identifica ilbene con l’utile sociale, ma non riesce a superare l’aporia di aver pensato un concetto, quel-lo del bene, che agisce “solo” come una norma di tipo etico-pedagogico, senza essere un’Ideaeterna e immutabile.

«Socrate, in una parola, non riesce a superare l’umanesimo della sofistica. Per lui i proble-

mi morali s’impostano come problemi sociali e politici. L’umanesimo individualista assu-

me in lui una forma spiccatamente sociale, si pone e si risolve come dottrina dello Stato, che

il filosofo consacrò con la sua morte eroica. Qui si fermò Socrate e questo è il limite della

sua ironia, che non mirò mai a svalutare la pienezza della vita mondana in forza di un prin-

cipio teologico trascendente il mondo degli uomini»51.

Socrate dunque rimane ancorato al mondo degli uomini, senza operarne una svaluta-zione in vista di un principio teologico trascendente; egli infatti sceglierà di dedicare tutta lasua vita a tentare di risolvere i problemi morali in vista di una loro diretta applicazione prati-ca nel vivere della propria comunità politica e sociale.

L’attenzione riservata all’agire etico nella dimensione del vivere civile è perciò il mes-saggio che, proprio alla vigilia del secondo conflitto mondiale, sembra inviare dalle profon-dità di un passato lontano il “Socrate metafisico” di Michele Federico Sciacca.

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50 Sciacca 1937, p. 87. 51 Ivi, p. 88.

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DIDATTICA DELLA FILOSOFIA

Il reticolo delle idee

Anselmo Grotti

1. “Esodo” dal pensare?

Qualcuno si è spinto a parlare di “mutazione antropologica”. Di uno strano popolo di“barbari”, o presunti tali. Gente che non comprendiamo. È come se animali che respirano coni polmoni avessero a che fare con animali che cominciano a respirare con le branchie. Lo hadelineato Baricco nel suo feuilleton in Rete I Barbari:

«Posso sbagliarmi, ma io credo che la mutazione in atto, che tanto ci sconcerta, sia rias-

sumibile interamente in questo: è cambiato il modo di fare esperienze. C’erano dei mo-

delli, e delle tecniche, e da secoli portavano al risultato di fare esperienza: ma in qualche

modo, a un certo punto, hanno smesso di funzionare. Per essere più precisi: non c’era nul-

la di rotto, in loro, ma non producevano più risultati apprezzabili. Polmoni sani, ma tu

respiravi male. La possibilità di fare esperienze è venuta a mancare. Cosa doveva fare,

l’animale? Curarsi i polmoni? L’ha fatto a lungo. Poi, a un certo punto ha messo su le

branchie. Modelli nuovi, tecniche inedite: e ha ricominciato a fare esperienza. Ormai era

un pesce, però. Il modello formale del movimento di quel pesce l’abbiamo scoperto in

Google: traiettorie di links, che corrono in superficie. Traduco: l’esperienza, per i barba-

ri, è qualcosa che ha forma di stringa, di sequenza, di traiettoria: implica un movimento

che inanella punti diversi nello spazio del reale: è l’intensità di quel lampo. Non era co-

sì, e non è stato così per secoli. L’esperienza, nel suo senso più alto e salvifico, era lega-

ta alla capacità di accostarsi alle cose, una per una, e di maturare un’intimità con esse ca-

pace di dischiuderne le stanze più nascoste. Spesso era un lavoro di pazienza, e perfino

di erudizione, di studio. Ma poteva anche accadere nella magia di un istante, nell’intui-

zione lampo che scendeva fino in fondo e riportava a casa l’icona di un senso, di un vis-

suto effettivamente accaduto, di un’intensità del vivere. Era comunque una faccenda qua-

si intima fra l’uomo e una scheggia del reale: era un duello circoscritto, e un viaggio in

profondità. Sembra che per i mutanti, al contrario, la scintilla dell’esperienza scocchi nel

veloce passaggio che traccia tra cose differenti la linea di un disegno. E’ come se nulla,

più, fosse esperibile se non all’interno di sequenze più lunghe, composte da differenti

“qualcosa”».

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Anche Dave Eggers punta a una sorta di nuova Genesi (però in sei giorni e mezzo an-ziché sette) in Conoscerete la nostra velocità. Due amici e un viaggio passato soprattutto ne-gli aeroporti e nelle hall degli alberghi. In Cile incontrano un antico popolo per il quale l’ani-ma è una montagna, l’insieme dei pensieri di tutti gli uomini. Anche il protagonista, statuni-tense, modernissimo, scopre che “non vuole più i suoi pensieri”, desidera essere come quel-la pianta gigante lacustre che si stende per miglia trovata in Minnesota. Sostiene che le fibreottiche non solo trasportano ma ospitano le informazioni.

È un emergere di nuovi paradigmi di percezione del mondo. Avvicinarsi a un nuovoparadigma non significa solo prendere le distanze da quello precedente, ma ridefinire distan-ze e prossimità con altri paradigmi precedentemente obliati. Lo ha detto con chiarezza Ongparlando di “seconda oralità”1.

C’è una difficoltà nell’organizzare il pensiero per come lo abbiamo conosciuto nel-la tradizione occidentale. La capacità di analisi, di concentrazione, di tallonare passo pas-so lo svolgersi del ragionamento pare difficile – tanto da poter parlare di una sorta di “eso-do dal pensiero”. Lo vediamo nelle nostre scuole, anche là dove si fa filosofia, e anchenelle nostre università. E spesso anche in discipline scientifiche la mancanza di logica, dipensiero astratto, di organizzazione delle idee rappresenta un pesante vincolo. Una neb-bia mediatica avvolge le menti e il nostro essere perennemente tecnologicamente inter-connessi pare accompagnarsi a un crollo nell’attitudine alla profondità. Sembrerebbe avolte che il nostro diventare sempre di più ipod-dotati si accompagni quasi a un divenireipo-dotati, almeno nell’affrontare i classici della tradizione filosofica ma in generale lastrutturazione della cultura che ci è familiare da molto tempo a questa parte. È come se unnuovo “pensiero” onirico, immersivo, povero di prospettiva e di distacco, emotivamenteconnotato prendesse possesso delle nostre menti, soprattutto nelle giovani generazioni cheincontriamo a scuola.

La modernità nasce con la gestione ordinata dello spazio. Nel Medio Evo non ci siscandalizza che la piuma dell’ala dell’arcangelo Gabriele si trovi contemporaneamente inmolto luoghi. O che i chiodi della croce di Cristo siano talmente numerosi da bastare per piùdi un crocefisso. Oppure che con il termine “le Indie” si intenda di volta in volta l’Arabia, laCina, un generico Oriente - qualche volta persino la stessa India… È solo gettandogli addos-so il reticolo delle coordinate geografiche che si applica allo spazio il principio di non con-traddizione, la logica, l’ordine. Colombo in qualche misura può scoprire un nuovo continen-te perché “getta” sul mondo un reticolo che lo ordina, lo rende padroneggiabile, controllabi-le. Ha una “kantiana” fiducia nel fatto che l’organizzazione mentale dello spazio strutturi ognifutura esperienza sensibile e la renda “scienza”.

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1 W. J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Il Mulino, Bologna 1986; dello stesso autore La presen-za della parola, Il Mulino, Bologna 1970; e Interfacce della parola, Il Mulino, Bologna 1989.

L’ordine, è contemporaneamente sia il reticolo segreto in cui si trovano disposte le co-se, che la griglia dello sguardo che le scruta. Lo “spazio d’ordine” entro il quale si è manife-stato il sapere ha incontrato negli ultimi secoli due grandi fratture: la metà del Seicento e l’ini-zio dell’Ottocento. Nel periodo compreso tra queste due date, che Foucault chiama età clas-sica, c’è stata una coerenza tra il linguaggio, la rappresentazione della realtà, la concezionedella ricchezza e del valore.

Il sistema di Linneo è quello di una nomenclatura binomia, che riprende la tradizionearistotelica: si ha definizione (“de-finizione”: stabilire un confine, un ordine, uno spazio delimi-tato, un insieme, una classificazione) quando si fa riferimento al genere prossimo e alla diffe-renza della specie. L’uomo è “animale” (genere) “dotato di parola” (differenza propria della suaspecie rispetto alle altre specie animali: dove “specie” ha proprio il valore di “aspetto”, “visio-ne intellettuale”). Linneo muore nel 1778: un anno prima un suo allievo, Beckmann, aveva pro-posto una tassonomia dei prodotti della tecnologia e quindi delle invenzioni, anch’essa binomia.

Tutto questo, per molti aspetti, sembra davvero molto lontano dal mondo mentale incui vive generazione di “mutanti”. Riprendiamo quanto scrive Baricco:

«Adesso mi chiedo se quello sia un fenomeno circoscritto, legato a uno strumento tecnolo-

gicamente nuovissimo, la rete, e sostanzialmente relegato lì. E so che la risposta è no: con le

branchie di Google respira ormai un sacco di gente, a computer spenti, nel tempo qualsiasi

delle loro giornate. Scandalosi e incomprensibili: animali che corrono. Barbari. Posso pro-

vare a disegnarli? Ero qui per questo».

Potremmo però suggerire alcuni dubbi. Forse non si tratta di un esodo dal pensare, mada una particolare forma di pensiero. Forse non si tratta di un congedo dalla tradizione filoso-fica, ma di una occasione per comprenderla sotto una luce differente (non necessariamente mi-gliore, ma per certi aspetti sorprendente). Si pensi soltanto alle grandi tematiche della filoso-fia della mente, della percezione del mondo e dell’io, dell’etica, della fisica, della politica.

Molto sta cambiando. Per certi aspetti siamo ancora una generazione di mezzo: gen-te che ha costruito il proprio brainframe nella società del libro, e che impara a muoversi an-che in quella della Rete. Una generazione interfaccia, che forse non ha molto tempo per crea-re dei ponti e per rendere significativo il sapere elaborato nei secoli precedenti. Il pensiero fi-losofico però è inclusivo, non ha un set predeterminato e condivide con il linguaggio natura-le l’estrema flessibilità, la capacità di trascendere ogni struttura o genere dati – nonché forseanche un po’ di imprecisione, a onta di tutti gli sforzi logici e sistematici.

2. Linguaggio e pensiero

Si può a ragione sostenere che quando scriviamo la punta della penna è un organo delnostro cervello. Ma la stessa scrittura è una forma particolare di linguaggio, così che è possi-

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bile sostenere che pensiero e linguaggio sono in intima connessione. A meno naturalmente dinon cadere nell’equivoco di restringere la definizione di pensiero e di linguaggio in ambititroppo angusti. Il nostro scopo invece è proprio quello di comprendere modelli “altri” di pen-siero e di comunicazione del pensiero. È la caratteristica del pensiero filosofico. Potremmo atale proposito riprendere la grande immagine omerica del confronto tra i moduli conoscitividi Polifemo e quelli di Ulisse. Polifemo ha una mente, poiché è in grado di organizzare l’am-biente attorno a sé, di produrre manufatti tecnologici, di raggiungere stabilmente degli scopi,di mandare e ricevere segnali. Ma non è in grado di percepire la realtà da un altro punto di vi-sta: letteralmente ha un solo occhio: il suo. Non sa “pensare” secondo altri modelli di pensie-ro. Ulisse invece sa pensare non solo come Ulisse, ma anche come Polifemo. Potremmo di-re che ha una “teoria della mente”, che manca del tutto al suo avversario.

L’esercizio della filosofia esplicita e rafforza la nostra “teoria della mente”: essere ingrado di percepire il mondo da un altro punto di vista. Con due conseguenze nella scuola: lacapacità di “accogliere” il punto di vista degli studenti, coinvolti nell’apparente “esodo dalpensiero” e trovare il punto di intersezione che permetta loro di fare un’esperienza conosci-tiva inedita. Senza dimenticare di fare filosofia, visto che già nell’antichità ci si interrogavadi come far comunicare tra loro i dormienti, “ognuno dei quali sogna un sogno privato”. Pertacere dell’esperienza archetipa del filosofo che scende nella caverna e cerca con estrema dif-ficoltà un elemento di comunicazione tra paesaggi mentali così diversi2. Siamo un mondo glo-balizzato, ma in cui comunicano senza problemi le merci e i capitali, molto meno le culture.Gli uomini sono sì coinvolti in esodi giganteschi, ma lo sono soprattutto in quanto merce emolto meno in quanto soggetti di cultura. Nella incomunicabilità delle culture e delle gene-razioni vince il surrogato della comprensione, l’omologazione.

Da quando si è pienamente dispiegata l’immane potenza ordinatrice della modernità?Nel 1793 si utilizzarono prefissi latini e greci per le varie suddivisioni: centimetro,

decametro, ecc. Il sistema metrico non è basato sulle lingue naturali e non ne dipende, è uni-versale, come l’alfabeto definitivo. Con quel gesto il monopolio signorile dei pesi e dellemisure scomparve assieme al feudalesimo. Scomparve la diversità legata alla geografia, al-la storia, ai riferimenti antropomorfici, al caos delle unità di misura, agli imbrogli dei mer-canti. La rivoluzione francese forse più duratura fu la sostituzione di questa galassia multi-colore con un sistema astratto, molto più efficiente e globalizzante, potremmo dire immate-riale. Forse non è un caso che i rivoluzionari ebbero pieno successo in tutte le unità di mi-sura (con gli inglesi no, ma si sa che non correva buon sangue…) tranne che con una: quel-

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2 Un elemento che ha davvero costituito un archetipo fondamentale, non solo nella filosofia ma anche nella lettera-tura, nell’arte e anche nel cinema. Ricordo, a questo proposito, la scena del film Metropolis di Fritz Lang (1926) nel-la quale il protagonista, figlio del Signore di Metropolis, comprende la complessità del reale quando riesce ad ab-bandonare i giardini pensili dei grattacieli per scendere nella città sotterranea e mettersi, in senso letterale, “nei pan-ni” di un operaio.

la del tempo. Braccia, piedi, staio, sono scomparsi. Le unità di misura del tempo hanno re-sistito: o meglio, si sono divaricate. Quelle utilizzate dalla scienza hanno accettato la basedecimale. Quelle utilizzate nella vita quotidiana hanno ripreso velocemente il sopravvento.Non ci suonano “esotici” i nomi di metro, chilo, litro; esotici ci suonano nomi come “fiori-le”, “brumaio”, “termidoro”. Il tempo quotidiano non ha accettato la “razionale” base dieci:24 sono le ore del giorno, 7 i giorni della settimana, 28, 29, 30, 31 i giorni del mese, 12 i me-si… In Italia soltanto nel secondo Ottocento si è introdotta l’ora “legale”3. La misura del tem-po ha subito quindi anche recentemente molte oscillazioni. Non così invece per la “misura”del linguaggio: la scrittura.

L’alfabeto latino è l’unico ad essere rimasto in uso nel mondo occidentale: sono mil-lenni che non viene modificato, eppure è sempre uno strumento costantemente funzionale,anche in contesti molto diversi da quelli in cui è nato e si è sviluppato. Neppure la geometriaeuclidea è stata altrettanto longeva. È servito da base per l’alfabetico fonetico internazionale,la trascrizione dal cinese e dal giapponese, nonché per la scrittura dei testi e delle grammati-che delle lingue in precedenza solo parlate. Alcuni potrebbero dire che ciò è avvenuto comeconseguenza di una supremazia occidentale sul mondo, cosa non sbagliata ma parziale. Altrialfabeti si sono comportati diversamente. Si noti che mentre le popolazioni che si sono con-vertite all’Islam hanno utilizzato l’arabo (come lingua “ufficiale” di Allah, nella quale è sta-to “dettato” il Corano), l’alfabeto latino è stato declinato nelle lingue nazionali per i popoliche si sono convertiti al cristianesimo (non esistendo “una” lingua della Bibbia, e neppure unama quattro versioni dei Vangeli), mentre esistono traduzioni autorizzate anche per l’uso litur-gico in scritture non latine. La piena comprensione del Corano presuppone la conoscenza di-retta dell’arabo (e tra poco accenneremo ad alcuni motivi). Nel cristianesimo storicamentequalcosa del genere è avvenuto anche per il latino (si ricordi che a un certo punto sono finitenell’Indice dei libri proibiti le traduzioni in volgare della Bibbia): tuttavia si è trattato di uncaso estremo, all’apice della Riforma protestante, mentre nel lungo periodo è prevalsa la tra-duzione e l’inculturazione, sia pure non senza difficoltà, anche in culture lontane (si pensi al-la diatriba sui riti malabarici). La storia delle traduzioni della Bibbia comincia da lontano: dal-la versione della Torah in greco cosiddetta “dei Settanta”, quando il re Tolomeo fece veniread Alessandria d’Egitto 72 traduttori, assieme a dei Leviti di Gerusalemme. Era il III secoloa.C. e quasi più nessuno parlava l’ebraico: eppure non si trattò di una operazione indolore,anche se coronata da grande successo. Il popolo parlava l’aramaico e le classi colte il greco:ma gli ebrei non ellenizzati giudicarono blasfemo chiamare YHWH con nomi di dèi del-

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3 Che non è, come molti pensano e scrivono, l’ora che c’è d’estate, quando “si va avanti” di un’ora rispetto all’orainvernale. L’ora “legale” è quella convenzionalmente stabilita in un Paese, che è artificiale perché, ad esempio, l’11ottobre i baresi vedono sorgere il sole alle 7.01, mentre i torinesi sono al buio sino alle 7.41. Questo non ha creatoproblemi per millenni, ma da quando ci sono treni che vanno da Bari a Torino si è dovuto utilizzare un orario con-venzionale, “legale” appunto, valido in tutta Italia (in realtà vigente in tutto il fuso orario di appartenenza).

l’Olimpo greco. Lo sdegno derivava dal ritenere che si trattasse di un vero e proprio tradi-mento della rivelazione del Nome, che non è un nome generico ma un nome proprio di per-sona. La traduzione “dei Settanta” ha reso YHWH (pronunciato per rispetto Adonai) – “Elo-him” con “Kyrios Theos”, aprendo la via a tutte le altre traduzioni di quello che sarà la Bib-bia (Primo e Secondo Testamento) nelle altre lingue. È un vero e proprio record: 2.260 ver-sioni tra lingue e dialetti. Il 98% delle persone nel mondo oggi può leggere la Bibbia nellapropria lingua. Il problema della traduzione, che tanto scandalizzò i giudei non ellenizzati, siè posto certamente anche nel cristianesimo, sia pure per motivi non del tutto simili. Nel 1550san Francesco Saverio ad esempio si chiese come parlare di Dio ai giapponesi. Come sem-pre, l’alternativa era tra l’uso di un nome locale, che è comprensibile ma rischia di creare equi-voci, o di un nome non tradotto, che garantisce in apparenza l’ortodossia ma può essere in-comprensibile o frainteso. Francesco Saverio all’inizio scelse la prima strada, annunciandoCristo con il termine giapponese Dainitchi, che indica il Buddha. Una scelta che provocò nonpoca confusione, tanto da fargli preferire in un secondo momento l’espressione latina Domi-nus Deus, perfetta per un occidentale ma incomprensibile per un giapponese o, peggio, “ag-giustata” all’espressione sino-giapponese simile come suono che significa “una grande men-zogna”. Si possono facilmente immaginare i risultati. Venne quindi scelto il termine Tenshu,che significa “Signore del Cielo”. Nel 1960 fu infine scelto il termine Kami, nome che signi-fica “superiore”, una traduzione abbastanza sufficiente ma di compromesso, poiché è usatotradizionalmente anche per designare ben otto milioni di divinità scintoiste. Anche per unareligione universalista che ha sempre scelto la strada dell’inculturazione rimane l’improntadella prima forma di scrittura utilizzata. Recentemente lo stesso papa Benedetto XVI, nel suocontroverso discorso a Ratisbona del settembre 2006, ha detto che il Nuovo Testamento è sta-to scritto in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco – un contatto cheera maturato nello sviluppo precedente dell’Antico Testamento.

L’alfabeto si porta dietro d’altra parte delicate questioni non solo religiose ma anchepolitiche: si pensi all’utilizzo dei caratteri latini al posto di quelli arabi nella Turchia della ri-voluzione nel 1928, o l’imposizione del cirillico nelle repubbliche asiatiche e caucasiche del-l’ex Unione Sovietica.

Nella definizione del linguaggio è importante non solo la storia, ma anche la geogra-fia. I gauchos argentini hanno 200 nomi per indicare i colori dei cavalli, così come sono nu-merosissimi per gli inhuit i nomi che classificano le diverse tipologie di precipitazioni atmo-sferiche, da noi sbrigativamente rubricate con il termine “neve”. La suddivisione di Linneo èun potente tentativo di mettere ordine nel mondo della vita, ma risponde a esigenze e a cor-nici mentali tipicamente alfabetizzate. I soliti gauchos argentini, così ricchi di parole per i co-lori equini, non seguono Linneo: per loro le piante si dividono in soli quattro gruppi, e per dipiù scelti con criteri molto diversi da quelli del grande naturalista: Pasto sono le piante adat-te per il foraggio; Paja quelle adatte per fare la paglia; Cardo per quelle adatte come legno;Yuyo è un termine “residuo” che copre tutto il resto delle piante. Una simile classificazione,

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che contempla anche una categoria di “rimanente” ci ricorda più la tassonomia fantastica diBorges e della sua “enciclopedia cinese” che Linneo. L’ecniclopedia cinese proposta da Bor-ges divide gli animali in:

appartenenti all’Imperatore,imbalsamatiaddomesticatimaialini di lattesirenefavolosicani in libertàinclusi nella presente classificazioneche si agitano follementeinnumerevolidisegnati con un pennello finissimo di peli di cammelloet caeterache fanno l’amoreche da lontano sembrano moschePerché alcuni criteri ci sembrano “ovvi”, altri “abbastanza comprensibili”, ed altri dav-

vero “strani”?Foucault scrive che la scrittura alfabetica occidentale suggerisce percorsi lineari e sta-

bili, quella iconografica invece propone una visione in cui le cose sono “coricate”, “posate”,“disposte” in luoghi tanto diversi che è impossibile trovare per essi uno spazio che li accol-ga. Lo spazio c’è, ma non segue le coordinate. È mobile, continuamente ristrutturato, sotto-posti a criteri diversi.

Non è il reticolo, è la Rete.

3. Filosofia come ristrutturazione dei propri saperi

L’apprendimento filosofico avviene quando le nuove conoscenze trovano un punto dicontatto con il pregresso, stabilendo un rapporto vitale e significante con quanto lo studentegià conosce. Il che non esclude la generazione di opportune “dissonanze cognitive” e la con-tinua ristrutturazione del sapere. Si tratta di concepire l’apprendimento filosofico certo comeacquisizione del nuovo ma soprattutto come trasformazione di sé (con il primo aspetto funzio-nale al secondo). Detto in altri termini, non si tratta tanto di conoscere “cose nuove” (per quan-to questo sia evidentemente necessario), quanto di imparare a porre uno sguardo nuovo sullecose che si presume di sapere già. Saper riorganizzare i propri saperi rappresenta una “compe-tenza” indispensabile. Se qualcosa è mutato rispetto al classico “sapientis est ordinare” è chel’equilibrio da raggiungere non è più quello gerarchico e statico espresso ad esempio dalle cat-tedrali gotiche, ma piuttosto quello precario e in continua ristrutturazione del funambolo che

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si muove in stretta correlazione con l’ambiente, una sorta di “reticolo” delle idee. Quello cherimane immutato è il valore dell’equilibrio, come percezione di unitarietà della cultura di con-tro alla semplice frammentazione dell’esperienza non resa consapevole di sé. A maggior ra-gione se ci confrontiamo con il mutamento di paradigmi conoscitivi generato dal paesaggiomentale digitalizzato nel quale siamo immersi, che pone molte domande, spesso feconde, allafilosofia. E la filosofia ha da offrire a tale proposito un contributo di grande importanza.

Ha scritto Porfirio che la memoria non è archivio di immagini, ma riproduzione del-le cose che hanno formato oggetto delle nostre cure. C’è una continua ristrutturazione nellamemoria, un lavoro attivo, una necessaria consapevolezza di cosa conosciamo. Ma in ciò checonosciamo hanno una enorme importanza le conoscenze implicite. Ce lo hanno ricordato glistudi sull’intelligenza artificiale e l’immensa mole di saperi non codificati che anche un bam-bino possiede.

Minsky conferma l’aneddoto della visione artificiale ingenuamente affidata come com-pito estivo nell’estate 1956. Il libro La società della mente, costituito da 270 saggi a volte diuna sola pagina, sostiene che si può costruire una mente assemblando piccole parti, ciascunapriva in sé di una mente”. È “razzista” chiunque si ostini a vedere differenze tra l’uomo e lemacchine.

«Se si capisce una cosa solo in un modo, allora non la si capisce affatto, perché se capita un

inconveniente si resta paralizzati in un pensiero che se ne sta lì nella mente senza sapere do-

ve andare. Il segreto del significato che ha per noi una qualsiasi cosa dipende da come l’ab-

biamo collegata alle altre cose che sappiamo. Ecco perché quando qualcuno ‘impara a me-

moria’ diciamo che non capisce veramente. Invece quando si posseggono parecchie rappre-

sentazioni diverse, se un metodo fallisce se ne può provare un altro. È ovvio che troppi col-

legamenti indiscriminati trasformano la mente in una zuppetta. Ma con rappresentazioni ben

collegate tra loro è possibile far circolare le idee nella mente e considerare le cose sotto mol-

te prospettive, finché si trova quello che fa al caso nostro. Ecco cosa significa pensare!»4

Percepire il dibattito filosofico che emerge da queste considerazioni (e dalla loro even-tuale contraddizione) ci permette di recuperare pienamente, ma su di un altro piano, il ruolocentrale del pensiero.

4 . Serendipità: alternativa alla causalità e alla casualità dell’apprendere

Nella Scuola si parla da qualche tempo di “depotenziamento dell’idea di programma-zione”, ovvero di programmazione a bassa definizione. Più in generale si fa riferimento a un

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4 Marvin L. Minsky, La società della mente, Adelphi, Milano 1989, p. 172

diverso contesto di apprendimento, nel quale emergono termini come “bottega artigiana”, svi-luppo prossimale, valorizzazione del sapere implicito e di quello procedurale. Si impara piùper “immersione” che per “esplicitazione formale”. A maggior ragione quando si utilizzanoprocedure informatiche e tecnologie di Rete l’apprendimento si sviluppa per esperienze e at-tività. È stato anzi coniato un termine: “serendipità” che indica quel particolare evento per cuisi trova qualcosa che non si riteneva di cercare, qualcosa che non era stato “programmato”.Navigando in Internet questo capita molto spesso. Tuttavia occorre in realtà molta disciplinae consapevolezza dello scopo da raggiungere per poter effettivamente sperimentare questostadio. Senza aver ben fermi i propri scopi la navigazione in Rete si limita facilmente ad es-sere una serie di porte che si aprono su altre porte e una serie di promesse non mantenute. Ècome andare al cinema e passare due ore non a vedere un film, ma a vedere decine di titoli ditesta, di trailer, di spezzoni di tanti film. Si tratta di una metafora valida anche per l’insegna-mento filosofico. Un certo modo di intendere la programmazione poteva portare a un irrigi-dimento dei passaggi. Una salutare reazione ha portato a valorizzare l’occasione educativa,l’utilizzo “creativo” dello spunto dello studente, di un evento, di una particolare situazione,quello che si dice in greco kairos, il “momento opportuno”. Ogni buon insegnante sa però chequesta attitudine apparentemente spensierata è frutto di grande disciplina e competenza. Sache gli studenti possono e devono passare da esperienze molteplici, non meccanicamente ri-petute: ma sa anche che tale molteplicità deve trovare un senso, un orizzonte di significato.Non si tratta di fare un happening e una improvvisazione continua.

Nella metafora qui proposta del “reticolo delle idee” si deve tenere ben presente l’eti-mologia stessa di “Inter-Net”: una “rete di reti” che ha elaborato appositi protocolli per met-tere in comunicazione documenti presenti in qualsiasi tipo di computer, indipendentementedal tipo, luogo fisico, caratteristiche tecniche. Si tenga presente che la straordinaria inven-zione del web ha permesso di immaginare l’intero sapere presente in Rete come un unicogigantesco ipertesto. Di nuovo possiamo utilizzare questa immagine come metafora sia delsapere che del suo apprendimento: un unico ambiente del sapere, che richiede però di cono-scere le “tecniche di navigazione”, la capacità di distinguere ciò che è significativo da ciòche non lo è.

Riassumendo: occorre muoversi nel reticolo delle idee senza essere né causali (il pro-gramma da svolgere come una catena di montaggio, indipendentemente da tutto quello chesuccede), né casuali (l’improvvisazione, la mancanza di un asse epistemologico dei saperi):e dunque ci scopriamo “serendipici”.

Una attività filosofica che intende essere significativa deve porre attenzione alla fase“postattiva”, agli esiti del processo di apprendimento, attraverso la valutazione e l’accerta-mento delle competenze riguardo all’intero di apprendimento. Il che implichi attività di do-cumentazione del percorso e di produzione di materiali.

L’asse portante dovrà essere la percezione di lavorare su settori magari particola-ri, ma nella progressiva consapevolezza di un orizzonte unitario. Finora il sapere era con-

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tenuto nelle rassicuranti classificazioni del manuale (e già il manuale stesso, delimitandouna particolare disciplina, era una classificazione). Adesso occorre la consapevolezza chel’apprendimento proviene da fonti molteplici, si sviluppa in modo non lineare, ha più chemai bisogno di un contesto che lo renda possibile ed efficace. Occorre aiutare l’organiz-zazione degli apprendimenti: alla fine tutto sommato viene riaffermata l’esigenza che fi-nora veniva risolta con il manuale, mettere ordine e relazioni nel sapere. Solo che adessoil manuale non è più “prima” del processo di apprendimento, ma sostanzialmente “dopo”(il che implica naturalmente la consapevolezza di crearlo “durante”). Che cos’altro vuoldire “documentare il percorso”? Occorre abbandonare il paradigma del prodotto definiti-vo e autosufficiente, tipico della documentazione cartacea. Se ben intese sono le tecnolo-gie di Rete a venirci in aiuto, proprio in virtù delle loro caratteristiche intrinseche, non perun fatto marginale.

Non si porta nessuno dove non siamo stati prima noi, per cui non riusciremo facilmen-te a comprendere il punto di vista di coloro cui chiediamo di svolgere certe attività se primanon ne abbiamo fatto esperienza noi. Nell’utilizzo delle tecnologie questa regola è ancora piùstringente: non pochi fallimenti o comunque delusioni derivano dall’illusione che il suppor-to tecnologico sia di per sé esplicativo, di per sé in grado di far giungere a determinati risul-tati. Così non è, occorre fare molta esperienza in prima persona per gestire gli “imprevisti” ele oscillazioni che ogni attività “reticolare”, con supporto tecnologico di tipo laboratoriale ocomunque collaborativo comporta. Occorre imparare a gestire le situazioni incerte, i moltipiccoli “incidenti” che possono capitare; e saperli gestire non solo per porvi riparo, ma perfarne occasione formativa.

L’elemento decisivo per il successo delle attività laboratoriale che fanno uso di tecno-logie informatiche è il prodotto finale. Come fare per far percepire l’unitarietà del sapere, lastruttura epistemologica della disciplina, la caratteristica di percorso articolato ma unitario delproprio processo di apprendimento filosofico? Come fare per evitare la semplice discarica dimateriale dalla Rete (dove “discarica” evidentemente suona sia come download sia come cian-frusaglia caotica e inutile)?

Ciascuno di noi deve sempre percepire dove si trova, cosa c’è nel sovrainsieme piùgrande e quali specificazioni possono essere affrontate nei sottoinsiemi più piccoli. Nessunainformazione vive di vita propria. Essa appartiene sempre a un insieme più vasto, e il sapereconsiste in quale classificazione porla. D’altra parte nessuna informazione è esaustiva, e sot-to di sé trova moltissimi altri possibili sottoinsiemi. Come si trova scritto in certi grandi edi-fici, occorre che sia chiaro in ogni momento il “voi siete qui”.

In che modo è possibile far assimilare questo concetto? In un modo non teorico, malaboratoriale e capace di utilizzare le caratteristiche profonde delle tecnologie, non quelleestemporanee. Occorre far comprendere che ogni concetto, che ha al suo interno molte sud-divisioni, è anche suddivisione di un concetto più grande.

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5. Verso una “eCICLOPAIDEIA”

Incontrare gli studenti, offrire loro la possibilità di tematizzare le forme di comunica-zione e di organizzazione del mondo in cui sono immersi richiede una percezione globale, disistema. Si tratta di interrogarci sui tre punti fondamentali:

- l’insegnamento e la ricerca a livello universitario .Quale base di preparazione vie-ne assicurata dall’Università a chi desidera intraprendere la professione docente?

- l’insegnamento (e la ricerca) nella scuola. Le forme attuali d’insegnamento assicu-rano realmente un’esperienza culturale forte ,tale da orientare positivamente il percorso di for-mazione del giovane sulle questioni di senso e di verità?

-la formazione del docente è in grado di svolgere un’azione di collegamento tra il mon-do della progettazione teorica –della ricerca –e gli interrogativi esistenziali dei giovani?

Le “questioni di senso e di verità” vanno affrontate a partire dagli interrogativi dei gio-vani che, aiutati dalla Scuola, incontrano i grandi testi della tradizione filosofica attraverso lamediazione universitaria, delle Ssis, delle Associazioni.

Ne deriva la produzione di materiali di vario genere (testi, blog, forum, foto, video,eventi, musica…) che vengono messi in rete secondo modalità molteplici di tagging, di eti-chettatura plurima in modo da costruire percorsi variabili per costellazioni di significati, esplo-rabili e utilizzabili per generare ulteriori dibattiti e riflessioni. È l’invito alla pratica della se-rendipità, come in precedenza è stato accennato. Quella che qui possiamo chiamare eCICLO-PAIDEIA non è l’enciclopedia illuminista, disposta in cartesiano ordine alfabetico, neppurequella barocca, con mille rimandi metaforici e stabili, neppure quella scientifica con struttu-re al albero (dagli esseri viventi di Linneo ai libri di Dewey) o quella postmoderna con rizo-mi al posto degli alberi. È una struttura mobile, che vive in quella che Baumann definisce “so-cietà liquida”, che è consapevole dei tempi nei quali vive ma non rinuncia a generare senso esignificato.

Passiamo da un apprendimento sequenziale a uno immersivo, ma serendipità non vuoldire casualità. Il lavoro in Rete ci può aiutare: abbiamo bisogno di formalizzare, rendere espli-citi, coscienti molti passaggi che diamo per scontati. È come un esercizio di autocoscienzache ha un valore importante dal punto di vista formativo - se l’insegnante se ne accorge. Ilpunto delicato in effetti è la formazione dei docenti: dovrebbero essere in grado di lasciareuna certa libertà di movimento assieme alla saggezza di non far perdere la rotta, di aiutare laconsapevolezza del cammino percorso, di individuare le tappe attraversate e i progressi fatti.Dobbiamo passare dalla metafora del treno che percorre le rotaie a quella della nave che se-gue la rotta (e non diciamo “navigare” in Rete?). chi segue la rotta è sottoposto a venti ancheinaspettati, ma sa gestirli per arrivare nel porto che desidera.

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BIBLIOGRAFIA

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SOCIETÀ FILOSOFICA ITALIANASFI - Sezione di Francavilla al Mare

MUSICA E FILOSOFIAConvegno nazionale

22 febbraio - 24 febbraio 2008Chieti - Teatro Marrucino

Programma

Venerdì 22 febbraioore 15,30Presiede: Elio Matassi (Univ. di Roma Tre)

Saluti delle autorità

Relazioni:Fabrizio Desideri (Univ. di Firenze), Affinità del comprendere: Wittgenstein su musica e linguaggio Ferdinando Abbri (Univ. di Siena-Arezzo), Epistemologia del gender ed estetica musicale: Su-san McClary e la nuova musicologiaStefano Catucci (Univ. di Camerino), Nuove estetiche per nuove musiche?Francesco Peri (Univ. del Salento), Storia dell’estetica e storia della critica: il problema delpensiero musicale

Discussione

Sabato 23 febbraioore 9,00Presiede: Fabrizio Desideri (Univ. di Firenze)

Relazioni:Enrica Lisciani Petrini (Univ. di Salerno), Risonanze del corpo: verso un nuovo ascoltoEleonora Negri (Univ. di Firenze), Musica e filosofia naturale nel RinascimentoPiero Giordanetti (Univ. di Milano) , Kant e la musicaClementina Cantillo (Univ. di Salerno), Hegel e la musicaFulvio Papi (Univ. di Pavia), Schopenhauer e la musica

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Discussioneore 16,00Presiede: Enrica Lisciani Petrini (Univ. di Salerno)

Relazioni:Paolo D’Iorio (Institut des Textes et Manuscrits Modernes-CNRS/ENS-Parigi), Nietzsche traTristano e CarmenAnnalisa Caputo (Univ. di Bari), Dal moderno al post-moderno: la musica come introduzionealla filosofiaLuca Aversano (Univ. di Roma Tre), La filosofia secondo i musicistiRiccardo Martinelli (Univ. di Trieste), Suono. Appunti per un lemma filosofico

Discussione

Domenica 24 febbraioore 9,00Presiede: Stefano Poggi (Presidente della S.F.I.)

Relazioni:Emidio Spinelli (Univ. “La Sapienza” di Roma), Sesto Empirico contro i musiciElio Matassi (Univ. di Roma Tre), L’estetica musicale come filosofiaGabriele Scaramuzza (Univ. di Milano), Questioni di fenomenologia della musica

Discussione

ore 11,30Assemblea annuale della Società Filosofica Italiana

Il convegno è organizzato in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, il Comu-ne di Chieti, l’Assessorato alla Cultura della Provincia di Chieti.

Iscrizioni al Convegno: La quota di partecipazione al Convegno è di euro 20 e dà diritto a riceve-re gratuitamente il volume degli Atti. Il versamento va effettuato direttamente a Chieti, prima del-l’apertura dei lavori del Convegno. Chi volesse, può effettuare il versamento anche sul c.c.p.43445006, intestato a Società Filosofica Italiana, c/o Villa Mirafiori – Via Nomentana 118 – 00161Roma, indicando nella causale “Convegno Nazionale SFI 2008”.

Esonero: Il convegno rientra nelle attività di formazione svolte dalla SFI quale Ente qualificato dalMinistero della Pubblica Istruzione per la formazione a livello nazionale (DM 177/2000, art. 3-c 5,e in particolare il Decreto del 10.01.2002, Dipartimento per lo sviluppo dell’istruzione, DirezioneGenerale per la formazione e l’aggiornamento del personale della scuola, Ufficio III, prot. n.2549/E/1/A).

Ulteriori informazioni si potranno ottenere consultando il nostro sito internet (www.sfi.it) e con-tattando il prof. Carlo Tatasciore ([email protected])

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CONVEGNI E INFORMAZIONI

La persona come dialogo

In ricordo di Paul Ricoeur (1913-2005) si è svolto l’11 gennaio 2007 nella sede della Fonda-zione Faraggiana a Novara il Convegno “La persona come dialogo”, organizzato dalla sezione di No-vara della SFI, in collaborazione con l’Istituto di Scienze Religiose di questa città. Nel suo interventodi apertura il Presidente, prof. Ennio Galli, ha messo in evidenza la finalità del Convegno, teso a sot-tolineare il cammino compiuto da Ricoeur oltre il personalismo. Ricoeur stesso aveva espresso così ilsuo allontanamento da E. Mounier: «Muore il personalismo. Ritorna la persona». Questa nuova pro-spettiva intendeva arricchire la concezione del soggetto delineato dal personalismo alla luce della suaintrinseca relazione con l’altro da sé (“Sé come un altro”), con esiti fecondi soprattutto nella visionedell’etica personale e pubblica. Nella nuova direzione il cammino di Ricoeur si è avvalso in seguitodell’apporto offerto dalla metodologia ermeneutica, indagando con originalità il significato del lin-guaggio simbolico e fornendo importanti contributi nella spiegazione di testi religiosi, mitici, narrati-vi, storici.

Il Convegno si è proposto di sviluppare in altrettante relazioni tre aspetti significativi del pen-siero di Paul Ricoeur. Nella prima relazione, Il soggetto e il suo altro, Giovanni Ferretti (Università diMacerata) ha innanzitutto esplicitato le ragioni che lo hanno portato alla scelta del tema del “sogget-to”. Pur in presenza di una complessità del metodo e di una poliedricità di temi affrontati, il centro fo-cale della riflessione di Ricoeur risulta essere la questione del soggetto (del sé), tema quanto mai at-tuale in questa nostra epoca che oscilla tra moderno e postmoderno. Il titolo intende quindi sintetizza-re la doppia dialettica tra il «soggetto esaltato» e il «soggetto umiliato» (tra moderno e postmoderno)e tra il «primato dell’io» e il «primato dell’altro» (caratteristica del postmoderno). Ferretti ha in segui-to sviluppato la sua riflessione soffermandosi dapprima sul «problema del soggetto» e quindi sul «pro-blema dell’altro». Riferendosi all’opera Soi même comme un autre (1990), Ferretti ha individuato nel-la prospettiva ricoeuriana di una «ermeneutica del sé» una sorta di terza via tra le alternative del «sog-getto che si pone» (Cartesio) e del «cogito infranto» (Nietzsche). L’ermeneutica del sé è la lunga viadella mediazione riflessiva a partire dalle molteplici oggettivazioni dell’io nel sé. Il sé è l’io quasi al-l’accusativo, ossia l’io che non si conosce nell’immediatezza e trasparenza del cogito, bensì attraver-so le proprie oggettivazioni. La mediazione riflessiva, che tenta di raggiungere l’identità concreta del-l’io tramite le sue oggettivazioni, implica allora un intenso lavoro di interpretazione delle varie attivi-tà o azioni dell’io (come il parlare, l’agire, il raccontarsi, l’essere soggetto di imputazione morale), chedeve infine confluire nel domandarsi chi è che parla, chi è che agisce, chi si racconta, chi è il sogget-to della imputazione morale. Questo chi è possibile individuarlo non tanto lungo la linea dell’idem,della medesimezza (è la linea che individua il soggetto sotto l’aspetto del che cosa piuttosto che delchi, in quanto fa riferimento a qualifiche che sono molto simili a quelle delle cose, come il giorno del-la nascita, l’avere un certo carattere o note riscontrabili nel documento di identità) quanto piuttosto lun-go la linea dell’ipse, dell’ipseità (il chi profondo, il centro fontale del soggetto, il soggetto che si rico-nosce identico nel tempo della propria storia).

L’ermeneutica del sé, pur presentandosi frammentata o polisemica, sia per la divaricazione del-l’identità come idem e ipse sia per la molteplicità di attività diverse attraverso cui occorre passare per

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giungere a riconoscersi nella propria ipseità, trova in realtà il suo filo conduttore in quella che è la ba-se unitaria del sé, ossia l’essere il soggetto un soggetto agente, capace di. Alla base del sé c’è questosoggetto capace bensì di molteplici atti (il soggetto è capace di parlare, di agire, di narrare, di essereresponsabile e, inoltre, capace di memoria, di promessa, di perdono, di riconoscimento), ma con unapotenzialità fontale unitaria di agire in cui è possibile identificarlo e che si identifica come ipse. In que-sto modo l’ermeneutica del sé mette capo a una certezza che non è l’evidenza del cogito, bensì quellache Ricoeur definisce «attestazione di sé», che corrisponde a un sapere basato sulla fiducia in una te-stimonianza autorevole: la testimonianza che le nostre azioni danno di noi stessi, di chi siamo, ma an-che la testimonianza che noi possiamo dare a noi stessi. Nonostante che io abbia tutta una serie di ca-ratteristiche permanenti che fanno la mia medesimezza, io sono in fondo un ipse, sono io stesso in tut-te le mie azioni e, nonostante che sia in rapporto con gli altri e debba molto agli altri, io sono questamia fontale individua ipseità. Nel cuore stesso dell’ipseità si incontra – è questo il tema finale della re-lazione di Ferretti – la dialettica con l’alterità. Il rapporto del sé con il suo altro si realizza in moltepli-ci esperienze, ricondotte da Ricoeur alle varie forme che viene ad assumere l’esperienza fondamenta-le della “passività” che inerisce a tutte le forme dell’agire umano.

Tre sono in particolare le forme di alterità analizzate in Soi même comme un autre: l’alteritàdel proprio corpo, l’alterità dell’altro da sé, l’alterità della coscienza. La prima forma originale di al-terità che costituisce il nostro sé è l’alterità del corpo proprio, che viene vissuto secondo una dupliceappartenenza: da un lato, in quanto corpo fisico (Körper), come appartenente al mondo delle cose chemi sono esterne, dall’altro, come corpo vivente o “carne” (Leib), come appartenente al sé, tanto che ioposso dire «il mio corpo».

La seconda forma è l’alterità dell’altro, la quale – afferma Ricouer – «appartiene alla costitu-zione intima del mio senso» perché è implicata in tutte le forme in cui si dispiega il soggetto capacedi. Nella sua ricca fenomenologia delle capacità di agire che costituiscono l’ipse implicando già sem-pre gli altri, Ricoeur giunge nella sua ultima opera, Parcours de la reconnaissance (2004), a parlareanche del «potere di dare e di ricevere», non solo nella forma della parità economica (do ut des) maanche e soprattutto nella forma di scambio di doni, secondo quella formula di mutualità irriducibiletanto alla reciprocità dello scambio mercantile quanto al mutuo riconoscimento che prende forma nel-la «lotta per il riconoscimento» (Hegel). Il mutuo riconoscimento si può avere anche in quelli che Ri-coeur definisce «stati di pace» come, ad es., l’amicizia, l’eros, l’agape, in cui il dono richiede di esse-re ricambiato non per un obbligo di tipo restitutivo, ma perché donando ad altri io lo riconosco capa-ce come me di donare in forma gratuita. L’alterità, già presente in tutto il percorso dell’uomo capacedi, è presente in modo massimo nella mutualità: nel mutuo riconoscimento il sé viene assicurato dal-l’altro addirittura di essere capace di dono gratuito. Nonostante che la reciprocità giunga fino alla mu-tualità, rimane sempre in ogni caso una «dissimmetria originaria tra l’io e l’altro»: il soggetto non èmai senza il suo altro, ma il soggetto non è mai l’altro, e l’altro non è mai l’io stesso. La dialettica del-la reciprocità e della mutualità è senza sintesi.

La terza forma di alterità è l’alterità della coscienza che – nel senso di Gewissen, coscienzamorale, distinta da Bewusstein, coscienza di sé o coscienza dei propri atti – apre non solo al discorsoetico ma anche ad una nuova dialettica tra ipseità e alterità. La coscienza non può essere disgiunta dauna «ingiunzione» e da una «convinzione», di cui si mette in luce il carattere di «passività» e di «alte-rità» di natura etica: la passività propria del nostro essere «ingiunti a vivere bene con e per gli altri al-l’interno di istituzioni giuste e di stimare se stessi come portatori di questa aspirazione». Il “vivere be-

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ne”, in tutte le sue dimensioni, non è solo espressione della mia spontaneità, ma anche di un qualchecomando che mi giunge da altrove. Questo altrove, sulla cui natura la filosofia deve – ad avviso di Ri-coeur – rimanere in una certa equivocità, attesta di un’alterità in me e sopra di me che mi caratterizzanella mia stessa ipseità. Le tre modalità dell’alterità non sono affatto unificabili e non sono privi di am-biguità anche al loro interno. Per questo, ha concluso Ferretti, l’ermeneutica del sé non può in alcunmodo esaurire una volta per tutte la ricchezza e la profondità del soggetto; e quindi non dovrà cessaredi indagarlo secondo quei molteplici percorsi cui Ricoeur ci ha introdotti e che ci invita nuovamentea riprendere.

L’intervento di Santo Arcoleo (Università di Parigi) ha successivamente messo in luce quelloche Ricoeur ha definito essere «il [suo] problema», ossia il tema della Storia, «compito grandioso pernutrire gli uomini». La meditazione sulla storia da un lato abbraccia una miriade di problemi, che Ri-coeur padroneggia mettendo in evidenza il suo modo di lavorare costantemente in dialogo con la tra-dizione tanto filosofica quanto storica, dall’altro rimane un problema dilatato ed approfondito nel cor-so degli anni, in rapporto anche alle diverse prospettive teoretiche di cui si è arricchito il pensiero diRicoeur. Riferendosi ai saggi Histoire et Vérité (1955) e La Mémoire, l’histoire, l’oubli (2001), Arco-leo ha seguito in particolare il problema della conoscenza storica nel suo porsi come complementarealla conoscenza della verità. L’obiettività che si attende dalla storia nel suo significato prettamente epi-stemologico non potrà che essere comune a quella delle scienze fisiche e biologiche. Ma, dal momen-to che la scienza storica è caratterizzata dal fatto che è storia di uomini, lo scritto dello storico può tro-vare il suo compimento nella lettura filosofica.

L’itinerario proposto da Ricoeur è chiaro: comincia dall’oggettività della storia, che è compi-to dello storico, si rivolge alla soggettività dello storico, nel cui lavoro si condensa una volontà di ren-contre ed una volontà di explication proprio perché lo storico è interessato ai valori degli uomini di untempo ed ha con essi una affinità profonda, per raggiungere la sua completezza nella soggettività fi-losofica. Il filosofo completa in se stesso il lavoro dello storico in quanto «fa coincidere la sua propria‘presa’ di coscienza con una ‘ripresa’ della storia», al fine di formare la soggettività non di un io pri-vato, ma dell’uomo, di un me che coinvolga «l’ umano», come ha insegnato Husserl. La storia vienecosì restituita alla sua piena autonomia in quanto scienza umana collocandola in un sentire filosofico,dedicato non solo «all’autonomia epistemologica della scienza storica, ma all’autosufficienza del sa-pere in sé della storia». La storia propone un grande impegno morale: non solo evita la dispersione del-l’umano, ma genera la nascita dello storico, uomo di scienza e cittadino, che “fa” la storia scrivendo-la, in unione con gli altri attori della scena pubblica. La storia vive nel tempo e per il tempo e il datoche evidenzia il carattere della modernità è la sua dimensione onnitemporale: «la storia è storia del-l’umanità e quindi storia mondiale dei popoli. L’umanità diventa nello stesso tempo l’oggetto totale eil soggetto unico della storia nello stesso tempo in cui la storia si fa collettivo singolare».

Il seminario è stato poi arricchito dalla relazione del prof. Giannino Piana (Università di Ur-bino). Nell’affrontare il tema della Responsabilità verso l’altro, giustizia e carità, Piana ha esorditosottolineando come l’etica in Ricoeur da un lato trovi il proprio radicamento nella problematica gene-rale del soggetto (ipseità) e, dall’altro, rappresenti una dimensione costitutiva della sua personalità ecentrale della sua opera. In tale contesto il relatore ha messo particolarmente a fuoco due figure inte-ragenti della responsabilità: la «responsabilità verso l’altro» e la «responsabilità di qualcosa». Fonda-mento costitutivo dell’etica, intesa come «ricerca della vita buona con e per l’altro, all’interno di isti-tuzioni giuste», è la relazione con l’altro. Una relazione che non si esaurisce nel rapporto io-tu, ossia

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nel rapporto intersoggettivo basato sulla dialettica tra stima di sé e sollecitudine verso l’altro, ma chia-ma in causa la mediazione istituzionale, che consente di raggiungere “il terzo”, ossia il prossimo lon-tano. Il terzo lo si raggiunge solo attraverso l’esercizio della giustizia che promuove la nascita di isti-tuzioni giuste, volte a salvaguardare i diritti di tutti e a riconoscere la dignità di tutti. È dunque l’agirepolitico la via mediante la quale è possibile raggiungere quel terzo, che è prossimo anche se lontano;è il “ciascuno” come persona distinta che possiede un volto e un nome, che io non conosco ma che in-terpella la mia responsabilità. La responsabilità è dunque di ciascuno verso tutti, aperta a una prospet-tiva diacronica, attenta alle generazioni future.

L’etica di Ricoeur non si accontenta di elaborare una concezione dell’alterità come quella pro-posta, ma – ha sottolineato Piana – è anche un’etica che si misura con il discorso più tradizionale del-la responsabilità, quello weberiano, cioè con la questione delle conseguenze, pur in una prospettivaoriginale rispetto allo stesso Weber. Anche per Ricoeur la responsabilità è «rispondere di qualcosa»,cioè delle azioni concrete e del loro peso reale. L’etica, a partire dalla presa di coscienza dell’oggetti-va materialità del corpo, è un’etica «situata», che si misura concretamente con le esigenze reali deisoggetti, che sono sempre esigenze limitate e circoscritte: l’agire umano si configura allora come «con-senso a una necessità vissuta». Nasce così un modello di «etica del possibile», un’etica che, pur misu-randosi con i principi, tende a mediarli nella realtà concreta, ricercando ciò che è possibile attuare inquella situazione, o ciò che corrisponde alle esigenze della vocazione di quel soggetto colto nella suasingolare irripetibilità. Nel contesto di questa visione, ha concluso Piana, si colloca il discorso di Ri-coeur sul versante teologico, quello relativo al rapporto relativo tra giustizia e carità. La dialettica traregola d’oro («Non fare all’altro quello che non piace sia fatto a te») e l’annuncio della carità, intesanel senso forte di agape, deve mettere in evidenza la reciprocità che sussiste tra queste due virtù e l’esi-genza che la carità ha, in quanto valore metaetico, di incarnarsi nel valore etico della giustizia, richia-mando costantemente quest’ultima ad oltrepassarsi per non incorrere nell’equivoco di un pericolosoriduzionismo: summum ius summa iniuria.

Lorenzo Borelli

Il positivismo italiano: una questione chiusa?

In tempi in cui nel dibattito filosofico sembrano prevalere le categorie interpretative di pen-siero negativo, pensiero debole e postmoderno, un convegno sul positivismo può apparire come unascommessa azzardata, tanto più se ad essere oggetto della discussione è il positivismo italiano. Eppu-re i risultati delle 4 giornate del congresso “Il positivismo italiano: una questione chiusa?”, organizza-to a Catania dall’11 al 14 settembre grazie all’impegno dei professori Francesco Coniglione del Dipar-timento di Processi Formativi dell’Università di Catania, Giuseppe Bentivegna e Giancarlo MagnanoSan Lio della Facoltà di Lettere e Filosofia e al contributo dell’Assessorato Regionale alla Cultura del-la Sicilia, consentono di poter dire che la riflessione su tale stagione del pensiero filosofico e scienti-fico italiano si configura ancora oggi come una linea di ricerca feconda e capace anche in futuro di of-frire prospettive interpretative originali. Sulla domanda posta dal convegno si è interrogato un nume-ro cospicuo di relatori, rappresentativi della comunità degli storici della filosofia italiani e dei pensa-tori nostrani che maggiormente hanno esaminato il rapporto tra filosofia e pensiero scientifico. Dopo

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i saluti delle autorità rappresentate dal prorettore dell’Università di Catania Antonio Pioletti, che haportato gli auguri del rettore Antonino Recca, dalla preside della Facoltà di Scienze della FormazioneFebronia Elia, dal preside della Facoltà di Lettere Enrico Iachello e dal presidente nazionale della SFIStefano Poggi, si è entrati subito nel vivo dei lavori con la relazione di Giuseppe Cacciatore, il qualeha sottolineato l’attenzione per la storia e per la dimensione etico-politica e civile del positivismo ita-liano. Attraverso l’analisi del pensiero dei maggiori pensatori positivisti italiani Cacciatore ha messoin luce il nesso tra teoria e metodi della storia da un lato ed economia e politica dall’altro, sottolinean-do la presenza di un «positivismo degli storici» capace di attenuare le rigidità dogmatiche del positi-vismo classico. Grazie all’opera di figure quali Marselli e Gabelli e soprattutto con la distinzione diVillari tra positivismo come metodo e positivismo come sistema, secondo Cacciatore il positivismoitaliano ha potuto evitare l’appiattimento in una concezione rigidamente deterministica della storia de-clinata a realizzare un felice incontro tra la scienza nuova sperimentale di Galileo e la scienza nuovacivile di Vico.

Subito dopo la relazione di Cacciatore l’intervento di Paolo Parrini ha messo in luce fin dallaprima giornata le coordinate principali del dibattito, che ha visto una felice contaminazione tra gli stu-diosi maggiormente orientati verso l’indagine storiografica e quelli con un’inclinazione principalmen-te teoretica, intesa a ricondurre la vicenda del positivismo italiano nel più comprensivo alveo della fi-losofia scientifica. Parrini, discutendo su «spirito positivo e filosofia italiana» ha dato una prima rispo-sta ai quesiti posti dagli organizzatori sulle ragioni dell’eclisse del positivismo italiano, andando oltrela semplicistica ed unilaterale spiegazione che ha visto unicamente nella celebre stroncatura del neoi-dealismo la ragione principale del mancato connubio tra filosofia e scienza nel panorama italiano. Larelazione ha sottolineato come una delle componenti fondamentali del positivismo europeo, ossia l’ana-lisi critico-metodologica delle trasformazioni delle scienza postnewtoniana, fosse fragile o del tutto as-sente nel positivismo nostrano. Così, mentre le riflessioni di Hertz, Duhem, Mach, Poincaré gettava-no i semi che avrebbero fruttificato in maniera rigogliosa nella riflessione del Circolo di Vienna, que-sti fermenti culturali non ricevevano la dovuta attenzione nel dibattito italiano.

La successiva relazione di Francesco Coniglione ha inteso orientare la discussione lungo unasse metafilosofico capace di mettere in circuito positivismo italiano e filosofia scientifica europea. Seinvece che sulle dottrine particolari dei positivisti italiani, invero spesso deficitarie sul piano della pro-posta e manchevoli di un saldo statuto teoretico, si sposta l’attenzione sulla riflessione intorno al rap-porto tra filosofia e scienza ci si accorge che il positivismo italiano può esser fatto rientrare nel pro-getto di una filosofia scientifica che, con inclinazioni diverse, veniva maturando in Europa. Così, men-tre Ardigò voleva mutuare il metodo proprio delle scienze sperimentali per applicarlo all’oggetto pe-culiare della riflessione filosofica, dal pensatore padovano identificato con l’«indistinto», ovvero tut-to ciò che non è ancora spiegato dalle scienze, Morselli e Cesca sulle pagine della «Rivista di filoso-fia scientifica» intendevano la filosofia come una riflessione di secondo grado che doveva applicarsiai risultati delle scienze, al fine di generalizzarli in una visione del mondo complessiva. Due linee dipensiero che possono essere ricondotte, rispettivamente, la prima al progetto russelliano di una filoso-fia scientifica in grado di conservare un oggetto autonomo d’indagine alla speculazione filosofia, laseconda al progetto spenceriano volto a limitare il compito della filosofia alla generalizzazione deiprincipi delle singole scienze.

Le relazioni seguenti hanno costituito l’ideale momento di continuità tra i lavori della primagiornata e gli studi delle giornate successive, dando l’avvio alle sessioni dedicate ai «protagonisti del

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positivismo» e al «positivismo e le scienze speciali». Piero Di Giovanni ha ripercorso la produzionescientifica di Salvatore Tommasi, mettendo in luce l’iniziale formazione idealistica del medico abruz-zese prima dell’approdo al naturalismo e al positivismo; Santo Di Nuovo ha invece affrontato la pro-blematica inerente a «vecchio e nuovo positivismo in psicologia», evidenziando come nonostante l’ope-ra di personaggi quali Ardigò, Sergi e Buccola, la psicologia positivistica in Italia non ebbe il seguitoottenuto in altri paesi, anche per l’influenza della teoria dell’intenzionalità di Brentano, particolarmen-te presente nel nostro paese a partire dalla sua venuta a Firenze nel 1896. Nei tre giorni seguenti le pro-blematiche presentate nella prima giornata dei lavori sono state analizzate a fondo grazie agli interven-ti, tutti pregevoli, dei relatori. Luciano Malusa si è concentrato sulla storiografica filosofica del posi-tivismo italiano ponendo in evidenza il contatto stretto in Italia tra neokantismo e positivismo, nonchél’approccio evoluzionistico di Morselli inteso a proporre una selezione dei concetti filosofici tra i qua-li solo i più forti e capace di fruire dei risultati delle scienze sarebbero stati in grado di sopravvivere.Girolamo Cotroneo ha ripercorso in maniera critica le ragioni della «liquidazione crociana del positi-vismo». Luigi Punzo ha tratteggiato i termini del complesso rapporto di Labriola con il positivismo.Giuseppe Speciale ha messo a disposizione la sua competenza di storico del diritto al fine di esamina-re gli apporti del positivismo alla cultura giuridica, sottolineando l’importante funzione da esso svol-ta nel promuovere la contaminazione tra i saperi e l’apertura agli apporti di discipline diverse. Gian-carlo Magnano San Lio ha ricostruito l’opera di Tito Vignoli, figura quasi misconosciuta in Italia macapace di ispirare l’opera di personaggi centrali della cultura tedesca quali Aby Warburg ed Ernst Cas-sirer. Mario Alberghina, docente di biochimica alla Facoltà di Medicina, ha felicemente proseguitol’intreccio di riflessione storiografica sulle figure del positivismo e attenzione per i contributi dellescienze speciali, con un intervento sul «positivismo radente dei naturalisti siciliani di formazione ot-tocentesca». Giuseppe Giordano ha concentrato la propria attenzione sul giudizio di Vailati su Mach ePoincaré, mettendo in luce la predilezione del filosofo di Crema per il primo e la sua avversione per ilsecondo, a testimonianza ulteriore della differenza della cultura italiana rispetto al contesto internazio-nale. È d’uopo infatti ricordare come Philipp Frank, ovvero uno dei protagonisti del Circolo di Vien-na, sottolineasse, al contrario del filosofo di Crema, che il neopositivismo sia nato proprio con l’inten-to di mediare il fenomenismo estremo di Mach con l’attenzione per gli aspetti teorici della scienza pro-pria del convenzionalismo di Poincaré. Giuseppe Bentivegna ha proseguito con acume la galleria dipersonaggi del positivismo siciliano con una relazione su Cosmo Guastella, muovendosi sulle traccedegli studi del suo maestro, l’indimenticato Corrado Dollo. Mario Quaranta ha ribadito la continuitàtra illuminismo e positivismo messa già in evidenza da Ludovico Geymonat nella monumentale Sto-ria del pensiero filosofico e scientifico, di contro al giudizio di Abbagnano sulla relazione stretta traromanticismo e positivismo. Santo Burgio ha proposto una relazione su Ippolito Isola e la “Critica delRinascimento”, mentre Fabio Minazzi ha centrato la discussione sulla valutazione del positivismo da-ta da Ludovico Geymonat, ricordando il ruolo cruciale di Geymonat e della sua battaglia culturale vol-ta a superare l’annosa divisione tra cultura umanistica e cultura scientifica presente nel nostro paese.Nell’ultima giornata dei lavori Giuseppe Gembillo ha posto l’accento sulla nuova idea di razionalitàche emerge dalla riflessione metodologica più recente, mostrando come grazie agli apporti delle teo-rie della complessità e di studiosi quali Prigogine e Lovelock sia possibile superare l’oggettivismo pro-prio del modello meccanicistico della scienza newtoniana. Davide Bigalli ha presentato l’opera di Pao-lo Mantegazza, medico e antropologo della seconda metà dell’Ottocento, che con il romanzo L’anno3000: sogno di Paolo Mantegazza immagina una società futura dominata dal trionfo della scienza e

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da un’organizzazione politica ad essa ispirata, offrendo così un documento delle tendenze culturali del-l’epoca, improntate a un darwinismo sociale di chiara matrice positivistica. Angelo D’Orsi ha rintrac-ciato l’influenza del clima culturale positivistico della Torino a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’ini-zio del Novecento in pensatori di estrazione diversa quali Gramsci, Pareto, Sraffa e Bobbio. Infine,Mauro di Giandomenico ha compiuto un excursus sull’«ideologia della vita nella medicina e nella fi-losofia positivistica italiana».

Le quattro giornate di studi sono state inoltre arricchite dalla presentazione del volume di scrit-ti in onore di Anna Escher Di Stefano, dal titolo La filosofia generosa, a cura di Francesco Coniglio-ne e della compianta Rosaria Longo, nonché dalle comunicazioni di Ennio De Bellis, Letterio Toda-ro, Emanuele Coco, Salvatore Vasta, Maurizio Martirano, Cinzia Rizza, Santi di Bella, MichelangeloCaponetto, Simon Villani, Rosella Faraone, Luigi Ingaliso, Antonino Di Giovanni, Emilia Scarcella.Da menzionare è inoltre la partecipazione nel ruolo di chairmen di studiosi prestigiosi quali GiuseppeGiarrizzo e Fulvio Tessitore. Quest’ultimo ha preso parte insieme a Luciano Malusa, Girolamo Cotro-neo, Paolo Parrini e Fabio Minazzi, alla tavola rotonda conclusiva presieduta da Stefano Poggi. In que-sta occasione i partecipanti, rispondendo al quesito posto dalla domanda iniziale, hanno ribadito l’op-portunità di non considerare il positivismo italiano come una questione chiusa, sottolineando l’impor-tanza della riflessione su un momento della storia della cultura italiana che, sebbene costituisca un og-getto del quale non è facile inquadrare in maniera precisa i contorni storiografici, ha indubbiamentecontribuito a forgiare l’identità nazionale del nostro paese. È stata quindi data particolare attenzioneall’attualità della battaglia positivistica per la laicità della cultura, a partire dall’ordinamento scolasti-co, e si è rintracciato nell’apertura ad apporti di discipline diverse il lascito più importante del positi-vismo italiano. Eredità che, come è emerso dalla discussione, potrebbe trovare oggi nuova linfa nelprogetto di una storia della cultura italiana capace di superare gli steccati disciplinari ed aprirsi ad unadimensione europea. Un’impresa ambiziosa della quale la pubblicazione degli atti del convegno, chegli organizzatori intendono portare a compimento in tempi rapidi, può costituire un primo tassello.

Michelangelo Caponetto

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LE SEZIONI

Lecce/Salentina

La Sezione salentina della SFI, nell’arco di tempo compreso fra l’inizio dell’Anno Socia-le e il mese di luglio 2007, ha patrocinato due eventi culturali.

La prima iniziativa, che la Sezione Salentina della SFI ha patrocinato insieme alla Facol-tà di Lettere e Filosofia, al Corso di Laurea in Filosofia, al Corso di Laurea Specialistica in Sto-ria della filosofia, al Dipartimento di Filologia classica e di Scienze filosofiche e al Dottorato diricerca in Discipline Storico-Filosofiche dell’Università del Salento, consiste nel Sesto ciclo se-minariale di filosofia, dal titolo Problemi aperti del pensiero contemporaneo, organizzato da Fa-bio Minazzi, Professore Ordinario di Filosofia Teoretica presso l’Università del Salento.

Il programma dei seminari, che sono stati tenuti presso l’Aula Corsano del Palazzo Parlan-geli dell’Università del Salento e presso il Castello Aragonese di Copertino, è stato il seguente:

Venerdì 9 marzo 2007, Alberto Peruzzi (Università di Firenze) ha relazionato sul temaUna teoria naturalistica del pensiero. Dalla semantica formale alla logica degli schemi.

Venerdì 16 marzo 2007, Giorgio Lanaro (Università di Milano) è intervenuto su Etica edevoluzionismo nel dibattito moderno.

Venerdì 23 marzo 2007, Mario Botta (Architetto, Lugano) ha parlato di Architettura e cit-tà: progetti recenti.

Venerdì 13 aprile 2007, in mattinata, Mariano Bianca (Università di Siena) ha relaziona-to su Neurofilosofia e rappresentazioni mentali.

Venerdì 13 aprile 2007, nel pomeriggio, Fabio Minazzi (Università del Salento) ha discus-so su Pensare Auschwitz: la filosofia della Shoah.

Venerdì 20 aprile 2007, Claudio Garola (Università del Salento) ha parlato dei Fondamen-ti della meccanica quantistica: problemi aperti.

Venerdì 27 aprile 2007, Arcangelo Rossi (Università del Salento) è intervenuto sul temaCosimo De Giorgi tra scienza e cultura umanistica.

Venerdì 4 maggio 2007, Riccardo Petrella (Università Cattolica di Lovanio) ha relaziona-to su Lo scandalo mondiale dell’acqua. Come concretizzare il diritto alla vita di tutti?

Venerdì 11 maggio 2007, Giovanni Carrozzini (Università del Salento) ha concluso la se-rie dei seminari con una relazione dal titolo Filosofia della Tecnologia: Gilbert Simondon e Gün-ther Anders.

La seconda iniziativa, che la sezione salentina della SFI ha patrocinato insieme alla Fa-coltà di Lettere e Filosofia, al Corso di Laurea in Filosofia, al Corso di Laurea Specialistica inStoria della filosofia, al Dipartimento di Filologia classica e di Scienze filosofiche e al Dottoratodi ricerca in Discipline Storico-Filosofiche dell’Università del Salento, consiste in una giornatadi studi organizzata da Gabriella Sava, Professore Associato di Storia della scienza presso l’Uni-versità del Salento, nell’ambito delle attività dell’Accademia Pugliese delle Scienze, dal titolo Latradizione scientifica nel Salento.

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Mercoledì 16 maggio 2007, presso il Monastero degli Olivetani, una delle sedi a Leccedell’Università del Salento, i lavori sono stati aperti da Vittorio Marzi (Presidente dell’Accade-mia Pugliese delle Scienze), il quale ha anche proceduto alla consegna dei diplomi ai Soci del-l’Accademia Pugliese delle Scienze.

Successivamente, Federico Di Trocchio (Università di Roma “La Sapienza”) ha parlatode Gli studi medici di Giorgio Baglivi, Arcangelo Rossi (Università del Salento) ha esposto Lameccanica animale di Donato Granafei, Livio Ruggiero (Università del Salento) ha relazionatosu Giuseppe Candido vescovo e scienziato, Guido Cimino (Università di Roma “La Sapienza”) èintervenuto su Le ricerche biologiche di Salvatore Trinchese, Gabriella Sava (Università del Sa-lento) ha parlato di Martino Marinosci tra medicina e botanica, Ennio De Simone (Liceo Scien-tifico G. Banzi Bazzoli di Lecce) ha discusso degli Aspetti inediti della personalità di Cosimo DeGiorgi, Mario Castellana (Università del Salento) ha esposto Gli scritti matematici di GiuseppeBattaglini, Diego Pallara (Università del Salento) è intervenuto su Ennio De Giorgi: matematicae filosofia.

La giornata si è conclusa con Alessandro Laporta (Direttore della Biblioteca Provinciale“N. Bernardini” di Lecce) che ha presentato il volume Giuseppe Candido. Edizione anastaticadegli scritti, a cura di A. Calabrese, A. Laporta, L. Ruggiero, Lecce, Edizioni Del Grifo, 2007 econ Mario Spedicato (Presidente della Società di Storia Patria per la Puglia – Sez. di Lecce) cheha presentato il volume Giuseppe Candido, tra pastorale e scienza, a cura di L. Ruggiero, M. Spe-dicato, Galatina, Edipan, 2007.

Ennio De Bellis

Messina

Nella riunione del 5 luglio 2007 la sezione messinese della SFI ha eletto come nuovo pre-sidente il Prof. Giuseppe Giordano (associato di Storia della filosofia nella Facoltà di Lettere eFilosofia dell’Università di Messina). Nella carica di segretario è stata confermata la dott.ssa Ro-sella Faraone. Nella riunione, il presidente uscente, prof.ssa Giusi Furnari Luvarà ha stilato il bi-lancio di un triennio di attività tra le quali si ricordano i convegni Hanna Arendt tra filosofia epolitica (ottobre 2004), Per i cento anni della teoria della relatività (marzo 2005), Caos e com-plessità (luglio 2006), I diritti umani oggi (ottobre 2006), Mandelbrot e i frattali (marzo 2007); icicli di conferenze su temi di storia della filosofia, filosofia della scienza, etica e politica, tenuteda docenti e ricercatori dell’Università di Messina e di altre università italiane, tra i quali Girola-mo Cotroneo, Giusi Furnari, Giuseppe Gembillo, Giuseppe Giordano, Michele Maggi, AnielloMontano; il ciclo di seminari e proiezioni Filosofia e cinema (giugno 2007), i seminari tenuti nel-la scuole della città e della provincia.

Si tratta di un programma intenso, ricco e perfettamente riuscito, con notevoli apertureanche al territorio e a un pubblico interessato a problemi filosofici più ampio di quello dei solispecialisti del settore.

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Il nuovo Presidente si è poi augurato di poter seguire la via tracciata dalla prof.ssa Furna-ri, che ha in certo qual modo a sua volta continuato una tradizione di particolare vivacità, che hacaratterizzato l’attività della sezione messinese della SFI a partire dalla fine degli anni Settantadel secolo scorso.

Romana

Dopo il Caffè filosofico con Maurizio Ferraris e Paolo D’Angelo sul tema Che cosa di-stingue l’opera d’arte dagli altri oggetti?, di cui Anna Stoppa ha dato ampio conto sul nostro«Bollettino» (n. 191, pp. 84-86), l’attività della Sezione Romana è proseguita con l’“Invito agliStudi filosofici”, rivolto agli studenti degli ultimi due anni di liceo, interessati a continuare lo stu-dio della filosofia a livello universitario. Il 23 e il 24 aprile le aule della Facoltà di Lettere del-l’Università Roma Tre sono state aperte a giovani “filosofi” che si sono interrogati e hanno inter-rogato docenti universitari su Le parole di sofia, che nello specifico sono state felicità, dolore,amicizia, mente, linguaggio, libertà e potere, traduzione, che sono state presentate rispettivamen-te dai Proff. Chiaradonna, Matassi, Landolfi, Marraffa, Ferretti, De Caro e Pujia.

Il 9 maggio si è svolta, all’interno del “Festival della filosofia di Roma”, la giornata con-clusiva della III edizione del progetto “Roma per vivere, Roma per pensare”, svolto in collabora-zione con l’Assessorato e il Dipartimento XI–Politiche educative e scolastiche del Comune di Ro-ma. Hanno aderito oltre quaranta licei della città, per un totale di circa 90 classi; i docenti non so-lo di Filosofia e Storia, ma anche di Lettere, Lingua straniera, Matematica, Storia dell’arte, han-no sinergicamente lavorato in maniera interdisciplinare sul tema dei Confini, e hanno condotto ipropri alunni attraverso articolati percorsi reali, nella città, con la visita a particolari siti (archeo-logici, museali), e metaforici, con la lettura di testi filosofici e letterari. Gli studenti inoltre han-no assistito a concerti, proiezioni cinematografiche, conferenze e lezioni accademiche, di straor-dinaria varietà ed eccezionale qualità. Hanno avuto la possibilità di interrogarsi, sulle questionidi senso che investono veramente il loro vissuto, e hanno sperimentato un modo di lavorare e stu-diare veramente interdisciplinare. I lavori prodotti sono stati di vario tipo, dai classici dossier eipertesto, fino alla sperimentazione di nuovi “generi filosofici” come cartelloni, quadri (eccezio-nali le tele prodotte dai licei artistici), reportages fotografici, piccoli sketches teatrali e di danza.Gli sketches sono stati presentati proprio il giorno di apertura del Festival, in una gremitissima“Sala Sinopoli”, mentre tutti gli altri prodotti sono andati in mostra presso la Casina delle Rosedell’Auditorium, riscuotendo un grande successo di pubblico. Molti ragazzi dell’ultimo anno han-no inoltre presentato il lavoro fatto in sede di esame di stato, ricevendo in generale grande apprez-zamento dalle commissioni.

Dopo la pausa estiva, l’attività della sezione è ripresa con una delle iniziative più attese,la Scuola estiva di Filosofia, organizzata in collaborazione con il Dipartimento di Filosofia dellaFacoltà di Lettere dell’Università Roma Tre, quest’anno dedicata a I generi della scrittura filoso-fica. Il 6,7, e 8 settembre nella calma e meditativa cornice del convento dei Carmelitani di S. Sil-vestro a Montecompatri, da cui tra l’altro si può godere di una suggestiva vista della città di Ro-

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ma, docenti della scuola secondaria, dottorandi, laureati, laureandi e studenti hanno approfondi-to e dibattuto sui seguenti generi: Proposizione, dimostrazione, definizione ed Enciclopedia (il si-stema hegeliano) trattati rispettivamente da V. Michele Abrusci e Elio Matassi; Carla Guetti hainvece parlato de La scrittura come nascondimento in Kojeve; Germana Ernst ha tenuto un’ap-passionante relazione su La poesia in Campanella, mentre Eugenio Canone ci ha condotto attra-verso Il dialogo in Bruno; Gabriella Farina ha approfondito Il teatro in Sartre; Paolo D’Angeloha affrontato il tema dell’Autobiografia in riferimento a Benedetto Croce; Claudia Dovolich hainvece presentato La scrittura come traccia in Derrida; Nadia Boccara e Francesca Crisi hannoofferto al pubblico i risultati di un lavoro sperimentale condotto presso la Facoltà di Lingue del-l’Università della Tuscia di didattica della filosofia attraverso la letteratura (Dalle immagini delromanzo alle parole della filosofia); la Presidente Prof.ssa Maria Teresa Pansera ha sottolineatole particolarità de La scrittura al femminile: Arendt, Zambrano, Hillesum, ed infine Riccardo Chia-radonna ha concluso i lavori con una relazione su Trattato e commento. Aristotele e la tradizionearistotelica.

Il 25 e 26 ottobre presso la Facoltà di Lettere dell’Università Roma Tre si sono tenute legiornate di formazione per i docenti della scuola secondaria che aderiranno alla IV edizione delprogetto “Roma per vivere, Roma per pensare” e da quest’anno anche per ascoltare, visto che an-che l’Opera di Roma ha voluto dare il suo contributo al nostro progetto. Il tema scelto per questaedizione è Roma tra incanto e disincanto, e si inserirà all’interno del III “Festival della Filosofiadi Roma”, che si svolgerà il prossimo aprile e che a quaranta anni dal ’68 inviterà a riflettere sul-l’esperienza fatta in quegli anni, sulle speranze, le attese, gli ideali e il disincanto di una genera-zione che voleva veramente cambiare un sistema. Il progetto è ormai un appuntamento consoli-dato nei licei della nostra città, che lo inseriscono con vanto nei loro Piani dell’Offerta Formati-va: le scuole che hanno chiesto di partecipare a questa edizione sono oltre cinquanta, e le classiiscritte oltre 120. Le giornate di formazione sono state aperte dall’Assessore Maria Coscia, cheha anche portato il saluto del Sindaco Veltroni (che ha fin dall’inizio seguito da vicino il nostroprogetto), dal nostro Presidente Prof.ssa Maria Teresa Pansera, che ha poi tenuto una relazionedal titolo Dalla riscoperta dell’eros alla fine dell’Utopia. Marcuse ispiratore del cambiamentopolitico, sociale e di genere, e dal Preside della Facoltà Prof. V. Michele Abrusci, che ha poi illu-strato La crisi delle certezze e lo sviluppo della scienza contemporanea. Gli altri relatori sono sta-ti: il Prof. Giacomo Marramao che ha parlato de Il ’68 tra incanto e disincanto, il Prof. EugenioLecaldano, che invece ha illustrato Il disincanto dell’utilitarismo e la riflessione morale in Ita-lia; il Prof. Emidio Spinelli che ha ripercorso Il disincanto nell’antichità: attualità della propo-sta scettica; il Prof. Elio Matassi insieme ai Dott. Francesco Ernani e Luca Aversano hanno af-frontato il tema dell’Incanto e disincanto nel melodramma novecentesco: Puccini e Roma; il Prof.Mario De Caro ha declinato il tema in riferimento alla complesso rapporto filosofia-scienza-reli-gione, chiedendosi se si tratti di Un conflitto inevitabile? Le Prof.sse Patrizia Cipolletta, ClaudiaDovolich e Gabriella Farina hanno animato una vivace tavola rotonda su La crisi della metafisi-ca e del soggetto: Fenomenologia, Ermeneutica, Esistenzialismo e Psicanalisi. Le Prof.sse Car-la Guetti, Giulietta Ottaviano e Anna Stoppa hanno invece coordinato Il laboratorio filosofico,introducendo alcune piste di lavoro da svolgere successivamente con gli studenti. La Prof.ssaFrancesca Brezzi ha presentato una relazione su Dalla secolarizzazione alla ricerca del sacro. Ildisincanto in Max Weber; con Il viaggio di un pittore: ermeneutica nel territorio cifrato dell’es-

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sere Pier Augusto Breccia ha proiettato le immagini di alcune sue opere, illustrando l’incanto e ildisincanto visti attraverso l’occhio di un artista contemporaneo; i lavori sono stati conclusi dallaProf.ssa Gabriella Bonacchi che ci ha condotto attraverso Il sogno e la veglia nel pensiero: unconfine mobile?

Francesca Gambetti

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RECENSIONI

A. Stavru, Socrate: mito ed etica della conoscenza, Studio sugli scritti socratici di Walter FriedrichOtto, Bulzoni Editore, Roma 2006, pp. 391.

Il libro si presenta come una sintesi ragionata dei circa 1800 fogli manoscritti dedicati da Wal-ter Friedrich Otto alla figura di Socrate.

Questi studi, concepiti dal filologo svevo per corsi universitari o come appunti per alcuni sag-gi e per la costruzione di una monografia mai portata a termine, sono ancora per la maggior parte ine-diti (ne sono stati pubblicati finora solo circa 150 fogli), perciò il lavoro si presenta particolarmente in-teressante in quanto raggruppa ordinatamente, in capitoli tematici, un materiale vastissimo, contestua-lizzandolo all’interno della tradizione di storiografia socratica europea degli ultimi due secoli. Nel ric-co apparato di note a piè di pagina, oltre ai richiami di carattere bibliografico, vi sono spesso tra vir-golette le parole del filologo, a controprova e approfondimento dei temi trattati nel testo vero e pro-prio; infine vi è un’ampia e aggiornata bibliografia che chiude il volume.

Il testo è composto da un’introduzione in cui vengono esaminati due problemi preliminari madi fondamentale importanza ovvero la questione della complessità, inorganicità e frammentarietà de-gli “scritti socratici” di Otto, che viene affrontata dall’autore «attraverso un confronto teorico con l’in-terpretazione di Otto, che entrasse nel merito delle questioni poste al centro delle sue riflessioni socra-tiche e privilegiasse il contesto generale dell’argomentazione» (p. 17) e l’ineliminabile “questione so-cratica” in merito alle fonti da privilegiare per poter ricostruire il Socrate storico e il suo pensiero fi-losofico. Otto sembra seguire la corrente interpretativa inaugurata dalla Scuola scozzese, contrappo-nendosi decisamente agli studi tedeschi e in particolare allo scetticismo di Gigon, prediligendo Plato-ne su tutte le altre fonti, senza però svalutare anche la testimonianza di Senofonte. Otto sottolinea laprofonda coincidenza tra la vita e la dottrina di Socrate e il carisma che doveva emanare la sua perso-na, tanto che, conclude Stavru, «è indispensabile riavvicinarsi al significato originario dell’insegna-mento socratico muovendo dalla magia con cui Socrate seppe incantare i suoi seguaci e plasmare ilpensiero filosofico dell’intera civiltà occidentale» (p. 39).

Il primo capitolo, intitolato La “novità di Socrate”, sulla scia delle Lezioni sulla storia dellafilosofia hegeliane e del manuale di storia della filosofia di Zeller, mostra come Socrate rappresenti unvero e proprio “punto di svolta” (Wendepunkt) nella determinazione del rapporto dell’uomo greco conla realtà circostante: se nella religione omerica l’uomo si elevava al divino e al contempo la divinità simostrava in forma antropomorfa, con Socrate, dalla sfera mitica dell’esistenza, dimensione «intrinse-camente poetica», si passa ad una sfera logica, ovvero ad un pensiero che, attraverso esercizio e disci-plina, si eleva a metodo scientifico. «Se in “epoca mitica” vera è ogni manifestazione divina dell’es-sere, a partire da Socrate la legittimità degli ideali etici risiede unicamente in ciò che può essere giu-stificato da un punto di vista logico-razionale. La conoscenza diventa una conquista dell’uomo, indi-pendentemente dall’intervento divino» (p. 45). La novità del personaggio Socrate sta inoltre nel fattodi essere, secondo Otto, egli stesso sintesi di apollineo e dionisiaco, olimpico e titanico, emblema del-l’intera civiltà greca.

Il suo peculiare carattere a-dogmatico e a-didattico poi, faceva sì che egli instaurasse con isuoi interlocutori un rapporto di amicizia, nel quale i «due individui non erano legati da rapporti ge-

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rarchici, ma potevano interagire da pari a pari, liberi da vincoli e convenzioni di “dottrina” o di “fe-de”» (p. 78).

Il secondo capitolo, dal titolo Il fondamento religioso del pensiero socratico, ancora tutta laspeculazione socratica ad un fondamento religioso: il rapporto individuale, personale e privato, cheSocrate intratteneva con il divino, che si manifestava in quel segno demonico che lo dissuadeva dalcompiere qualche azione, diviene allora il senso stesso del limite, che l’uomo deve riconoscere e chelo caratterizza davanti alla divinità. Secondo Otto questo aspetto è fondamentale per comprendere ilcomportamento di Socrate e ciò che irritò gli ateniesi, al punto di sancire la sua condanna a morte, fuproprio la sua “superiorità religiosa”, interiore, quel “surplus di fede” che poteva essere pericoloso edestabilizzante per la religione ufficiale e le tradizioni cultuali della città.

Il terzo capitolo è forse il cuore del testo e della riflessione di Otto sul vero messaggio di So-crate all’umanità; intitolato L’etica della conoscenza, è permeato da un’eco heideggeriana ed è incen-trato sul concetto dell’anthropine sophia che connette l’uomo all’essenza oggettiva delle cose: questa«non istituisce un nuovo rapporto con l’essere, ma si limita a riportare alla luce l’originaria prossimi-tà e apertura dell’uomo alla realtà. Più precisamente, essa si configura come dis-velamento di un’in-trinseca appartenenza alla verità dell’essere» (p. 118).

«L’assoluta fiducia nella possibilità di entrare in rapporto con l’accadere cosmico» (p. 144) fi-no a cogliere l’agathon, che si presenta sia come arche che come telos, e che porta l’uomo al raggiun-gimento dell’eudaimonia, vista come una «forma di felicità coincidente con la conoscenza oggettivadell’agathon-ophelimon» (p. 223), è il perno su cui si muove tutta l’etica socratica e la chiave per re-interpretare il cosiddetto intellettualismo socratico non come un freddo ragionamento logico ormaiinattuale ma al contrario come un’apertura al mondo nella convinzione che vi sia una vera e propriacomunione di senso tra l’uomo e l’universo.

Il percorso conoscitivo si presenta al contempo come un percorso interiore (il quarto capitolonon a caso è intitolato L’interiorità della conoscenza) che si sviluppa grazie all’anamnesis che «ac-cade nel “luogo” del dialogo» (p. 254) quindi nel corso di un processo che modifica il proprio Sé mache è imprescindibile da una dimensione sociale dell’abitare dell’uomo perché si svolge insieme ad unaltro individuo.

Il quinto capitolo, Le etiche della volontà, è composto da una sintetica panoramica di sei eti-che diverse da quella socratica quali la dottrina dell’ethos aristotelico, la voluntas romana, la hamar-tia cristiana, il Wille kantiano, il Mitleid schopenhauriano e infine il Trods kierkegaardiano. Il confron-to con queste altre etiche, basate per la maggior parte sul concetto di volontà, sono funzionali ad un in-quadramento critico dell’etica socratica, che, dopo un confronto con queste posizioni, si rivela in tut-ta la sua pregnanza e attualità.

Nel capitolo conclusivo infatti, L’attualità dell’interpretazione socratica di Otto, Stavru ci mo-stra come Otto, alla luce delle vicende storiche della prima metà del Novecento, consideri il fallimen-to delle etiche della volontà responsabili delle dottrine politiche «che hanno incendiato il mondo». Ilproblema dell’uomo moderno risiede proprio nella sua incapacità di comprendere il mondo contem-plando un kosmos dall’aura divina come avveniva nella civiltà greca: l’uomo moderno ha creato unaprofonda frattura tra la propria soggettività e il mondo delle cose e questa scissione lo getta nell’ango-scia che diviene distruttiva.

In un mondo in cui la natura, privata della sua propria “essenza vitale”, è ormai asservita agliscopi della tecnica, riscoprire il Socrate di Otto significa «ispirare l’agire a un’etica contemplativa, non

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volontaristica e non coercitiva» (p. 350), riscoprire una realtà permeata da una potenza divina a cui sideve rispetto e venerazione, ritrovare il fondamento originario dell’essere e orientare la prassi non nelsegno di un volontarismo etico malato di particolarismo ma al contrario porre a fondamento dell’agi-re una concezione gnoseologico-teoretica della morale che riesca a condurci verso l’agathon.

Giorgia Castagnoli

P.L. Donini, La tragedia e la vita. Saggi sulla “Poetica”di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria2004, pp. 136.

Raccolta di saggi editi (Introduzione alla “Poetica”, 1997; L’universalità della tragedia in Ari-stotele (e in Platone), 1997; La tragedia, senza la catarsi, 1998; La funzione della tragedia secondo Ari-stotele, 2000) ed inediti (La tragedia più bella; La tragedia e la vita: necessità e coincidenze; Il passa-to e il futuro nella “Poetica”), questo eccellente volume di Donini ha il particolare pregio di confron-tarsi sistematicamente – sia nel corpo del testo che nelle note – con la fondamentale letteratura criticanovecentesca sulla Poetica, in special modo con quella degli ultimi venti anni, nel tentativo di dirime-re le questioni più controverse sollevate dal trattato alla luce di una sua sintonia, spesso non adeguata-mente sottolineata, con le altre opere del corpus aristotelico, e di una più attenta analisi filologica.

Con estrema finezza argomentativa l’A. sostiene energicamente l’idea, non nuova ma nean-che unanimemente condivisa, che «la Poetica non poteva nascere nella mente di Aristotele se non incollegamento con il problema politico e morale, come parte di un complesso progetto educativo» (p.69), sgombrando così il campo da inadeguate letture edonistiche o estetiche ma senza ricadere nellealtrettanto inadeguate interpretazioni della tradizione moralistica. Se nel trattato aristotelico non si leg-ge mai nessun chiarimento esplicito e non equivoco circa la pertinenza delle sue tematiche ad un’areadisciplinare più comprensiva, ciò è dovuto probabilmente al fatto che tale pertinenza era sentita comeovvia oltre che dall’autore anche da chiunque vi si imbattesse (cfr. p. 69). Inoltre, dato che la poesia èuna forma di mimesi avente l’azione come oggetto e l’azione è analizzata nella Poetica con gli stessistrumenti concettuali tipici delle Etiche, «il punto di vista da cui Aristotele si colloca nell’esaminarela poesia dovrebbe essere lo stesso delle Etiche e la trattazione del libro dovrebbe ricondursi perciò fi-nalmente alla filosofia pratico-politica» (p. 68). Del resto, sottolinea l’A., l’Etica Nicomachea stessainforma che la politica è l’arte suprema cui nella comunità cittadina sono subordinate tutte le altre ar-ti – dunque anche quella poetica (cfr. eth. nic. I 1, 1094 a 27 sgg.), mentre la Politica istituisce espli-citamente con la Poetica un rapporto di continuità rinviando ad essa per una più chiara spiegazione delconcetto di catarsi (cfr. pol. VIII 7, 1341 b 38-40).

Riconoscere alla Poetica un valore etico-politico, tuttavia, non significa per Donini ammette-re la validità di quelle interpretazioni, molto diffuse non solo in passato (l’esempio più recente è quel-lo di R. Janko, 1992), che attribuiscono alla tragedia – forma compiuta della poesia – la funzione dicontribuire alla formazione della virtù etica e della medietà delle passioni (cfr. p. 71). Che la poesiatragica, in altre parole, avesse a che fare direttamente con la formazione del carattere ossia con il con-solidamento dell’abitudine a rispettare il giusto mezzo nelle passioni e nelle azioni, sembra all’A. unacosa da escludere assolutamente (cfr. p. 72). Proprio la Politica ne fornirebbe la prova nella misura incui il programma educativo dei libri VII e VIII non prevedeva la partecipazione dei giovani alla trage-

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dia, la quale, evidentemente, era deputata ad una «formazione diversa e più avanzata che avesse perscopo precisamente la maturazione della phronesis» (p. 81) – virtù, quest’ultima, della parte raziona-le dell’anima e come tale più lenta ad acquisirsi – in accordo con il principio generale che «bisognaeducare prima le abitudini che la razionalità» (pol. VIII 3, 1338 b 4). È alla phronesis, allora, che laPoetica attribuirebbe la difficile operazione di integrazione di emozioni e conoscenze relative alla vi-ta umana richiesta dalla tragedia. E che quest’ultima dovesse coinvolgere tanto il lato emotivo chequello cognitivo dell’uomo sembra un dato largamente acquisito dalla critica più recente (vengono ci-tati, in particolare, tutti i lavori di S. Halliwell e di M. Nussbaum). Donini sottolinea con vigore il ca-rattere di mathesis della mimesis tragica e del relativo piacere. Ciò che essa farebbe conoscere, “dicen-do l’universale”, è la forma degli eventi umani, cioè il fatto che «tutti gli uomini agiscono sempre perraggiungere la felicità» (p. 47) e che lo fanno, inoltre, nei modi che sono loro dettati dal proprio carat-tere morale. Sarebbe poi proprio la comprensione della struttura necessaria della vicenda umana a for-nire un piacere in grado di soverchiare le emozioni di pietà e paura suscitate nello spettatore.

A legittimare tale interpretazione è, a ben guardare, la trattazione della nozione da sempre con-siderata una delle più oscure dell’intera Poetica, quella di catarsi. L’unico passo che la menziona, in-fatti, non ne fornisce alcuna spiegazione – «tragedia è imitazione di un’azione seria e compiuta […]che attraverso la pietà e la paura compie la catarsi di siffatte passioni» (poet. 6, 1449 b 24-28) – e perquesto motivo molto spesso i critici, seguendo la lezione del filologo tedesco Jacob Bernays (1858),sono ricorsi alla dissertazione di Politica VIII sulla catarsi musicale – letta come cura medica – alloscopo di far luce su quella tragica. Il che da un lato ha, secondo l’A., il merito di non aver considera-to la Poetica come un’opera a sé stante, dall’altro l’insormontabile difetto, per tacerne altri (in primisquello di considerare le passioni come qualcosa di completamente nocivo da evacuare), di sottovalu-tare, se non di ignorare del tutto, «quello che dal testo e dalla struttura concettuale della Poetica risul-ta l’esito davvero importante della tragedia, cioè il sicurissimo suo effetto di acquisizione intellettua-le e il suo valore universale e quasi filosofico» (p. 57), che dagli studi di Leon Golden (1976) in poipare a Donini esser diventato un punto quasi irrinunciabile. Ciò non deve indurre, tuttavia, a commet-tere l’errore opposto, quello, cioè, di considerare la catarsi una mera chiarificazione intellettuale, di-menticandone, così, l’incontestabile aspetto irrazionale. Una soluzione plausibile potrebbe essere, per-ciò, quella di ritenere che la tragedia abbia l’effetto di suscitare emozioni di pietà e paura che sarannobilanciate dalla comprensione della razionalità dell’azione (che è la soluzione suggerita da S. Halli-well, 1992), e tuttavia tale interpretazione, pur riuscendo a dar conto sia dell’aspetto passionale che diquello intellettivo, non riesce a giustificare l’uso di un termine che nella Politica ha a che fare con unfatto patologico-musicale riguardante l’irrazionalità dell’uomo. Per questo motivo Donini propone diattribuire l’effetto catartico non tanto alla tragedia, quanto, piuttosto, ai canti sacri di cui Aristotele par-la in Politica VIII. Questi sarebbero capaci di produrre in tutti (giovani e anche adulti, quindi), una ca-tarsi simile a una cura medica per chi è facilmente preda dell’entusiasmo e comunque sempre una sor-ta di catarsi per le persone più o meno esposte a pietà e paura. La tragedia porterebbe poi quelli chehanno già conseguito la catarsi dei canti sacri, e che perciò provano passioni ormai depurate dai loroeccessi patologici (ma solo adulti), al «compimento» o «coronamento» di quella stessa catarsi «dan-dole in più l’intelligenza della situazione e la comprensione delle ragioni delle emozioni stesse» (p.60). In questo modo, oltre a rendere giustizia alla sfumatura di significato del verbo peirainein usatoda Aristotele nella famosa definizione della tragedia al capitolo 6 della Poetica – che è appunto nonsemplicemente quello di eseguire o produrre ma, piuttosto, quello di portare a compimento un proces-

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so, di far fare a esso l’ultimo passo –, risulterebbe ampiamente lecito attribuire alla tragedia la funzio-ne di educare alla più matura virtù della phronesis.

Affinché le emozioni siano compensate dalla comprensione razionale, però, bisogna anche chel’infortunio rappresentato dalla vicenda tragica che le ha suscitate sia «giustificato razionalmente e re-so comprensibile nelle sue cause» (p. 31), le quali dovranno essere, quindi, cause puramente umane.L’A. può così concludere che «non è certamente possibile riconoscere in questa lettura di Aristoteleuna guida corretta alla comprensione della tragedia; si può solo dare atto al filosofo di aver persegui-to con strenua coerenza il proprio obiettivo di ottenere dalla poesia una chiarificazione razionale delsignificato delle vicende umane» (p. 30). Di fronte al rigore di questa affermazione, tuttavia, sorge,inevitabile, un dubbio: possibile che la chiarificazione razionale dei fatti umani effettuata, secondo Ari-stotele, dalla tragedia non abbia veramente più nulla di “tragico”? Lo stesso Donini, infatti, ammetteche «la responsabilità originaria del corso degli eventi non è veramente chiarita» (p. 33), che «il filo-sofo è stato troppo breve, addirittura silenzioso» (ibid.) sulle cause dell’ignoranza o dell’errore degliagenti e che «aver reso tutta mondana la vicenda tragica non l’ha in realtà fatta più comprensibile; for-se essa potrebbe esser diventata perfino più minacciosa» (ibid.). E se tale minaccia derivasse proprioda un dio troppo lontano il cui potere di ordinare le cose decrescesse in misura proporzionale al suoallontanamento da esse, condannando, così, il nostro mondo alla contingenza e minando, di conse-guenza, alla base ogni rigido determinismo etico? – Certo l’A. dà conto della presenza dell’accidentenel mondo umano (cfr. pp. 107-123), ma sembra più interessato a ricondurlo a razionalità che a sotto-linearne l’aspetto problematico, come invece hanno fatto studiosi, che non vengono da lui mai citati,quali P. Aubenque (1963), F. Calvo (1984-85) e D. Guastini (1999, 2003) –. Tale divino, senz’altro,opererebbe in modo completamente diverso da quello tragico, e tuttavia, forse, potrebbe avere con es-so più affinità di quante non ne abbia concesse Donini. Se non è certamente possibile riconoscere nel-la Poetica una guida corretta alla comprensione della tragedia, ciò non implica anche che il suo signi-ficato sia andato in quella del tutto perduto. Compito difficile è stabilire in quale misura.

Roberta Costantini

E. Berti, Nuovi Studi aristotelici I. Epistemologia, logica e dialettica, Morcelliana, Brescia2004, pp. 445, e II. Fisica, antropologia e metafisica, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 592.

Nuovi Studi aristotelici, che al momento consta di due volumi ma che nel progetto complessi-vo ne prevede altri due, raccoglie studi più recenti rispetto a quelli pubblicati da Berti circa trent’annifa nel volume Studi Aristotelici (Japadre, L’Aquila 1975). L’Autore ha distinto varie aree tematiche(Epistemologia, logica e dialettica nel primo, e fisica, antropologia e metafisica nel secondo), con l’at-tenzione di mantenere, all’interno di ciascuna partizione, l’ordine cronologico di pubblicazione dei va-ri contributi. Nella prefazione al secondo volume, chiarisce che questo intento è risultato più difficileda perseguire nella parte dedicata alla metafisica che, infatti, presenta un primo gruppo di articoli dicarattere generale, un secondo concernente questioni di ontologia e un ultimo riguardante argomentiche oggi chiameremmo di teologia razionale. Entrambi i volumi hanno un’appendice comprendentetre studi platonici, il primo ne ha anche una seconda che riguarda la dialettica antica. I due volumi so-no inoltre corredati di un preciso ed esaustivo apparato di note che offre al lettore fondamentali riferi-

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menti bibliografici, di un indice dei nomi moderni e, infine, di una nota ai testi che documenta la pre-cedente pubblicazione di ogni singolo articolo. Dal momento che i volumi raccolgono studi che co-prono più di un ventennio, evidentemente è possibile registrare alcuni mutamenti di opinione che l’A.non ha difficoltà ad ammettere, spiegandone e dimostrandone le motivazioni intrinseche.

Data la brevità dello spazio a disposizione, conviene forse rendere conto dei nuclei concettua-li cui l’Autore dedica maggior spazio e attenzione in ciascuna partizione, fatta salva la straordinariamolteplicità degli argomenti trattati, che in questa sede è impensabile esaminare in modo esaustivo.

Il primo volume si apre con un articolo sullo status quaestionis relativo agli studi aristoteliciin Italia alla fine degli anni settanta, seguito da un articolo riguardante le strategie di interpretazionedei filosofi antichi, con particolare riferimento a Platone e Aristotele, in cui Berti discute le posizioniermeneutiche di vari autori e studiosi, da Heidegger alla Scuola di Tubinga.

La seconda sezione si occupa di epistemologia e inizia con due contributi rivolti a spiegare lacomplessa relazione che secondo Aristotele intercorre fra pensiero ed esperienza, chiarificando la na-tura e il ruolo di quella facoltà, la phantasia, che ha sempre avuto un ruolo fondamentale nella storiadella filosofia fino all’epistemologia contemporanea. Berti sottolinea più volte che il processo di sma-terializzazione e di astrazione dell’universale dal particolare, nella gnoseologia aristotelica, concerneesclusivamente gli oggetti matematici, mentre in tutti gli altri casi il processo che conduce all’intelle-zione delle essenze è lungo e laborioso. La conoscenza infatti procede per successive induzioni, attra-verso le quali il pensiero unifica e universalizza l’elemento empirico, fino ad arrivare ai supremi ge-neri dell’essere, le categorie, non ulteriormente divisibili. L’inizio del processo è la percezione che,trattenuta nel ricordo, consente una prima stabilizzazione del dato immediato, a sua volta unificato inprima istanza mediante l’esperienza, definita negli Analitici Posteriori (981a 1-3) proprio come l’uni-tà di molti ricordi. L’immaginazione, facoltà intermedia che non esiste senza sensazione ed è a sua vol-ta il presupposto del pensiero, svolge un ruolo di primo piano in quanto, essendo in grado di produrreimmagini, si esplica nel giudizio (vero o falso), ed essendo “deliberativa” (de an. III 10-11), contri-buisce anche al cosiddetto sillogismo pratico, prospettando al pensiero le varie possibilità di azionestrumentalmente volte al raggiungimento del fine. Dopo essersi occupato dell’intellezione degli indi-visibili con riferimento a un brano del De anima (III 6), Berti esamina la concezione aristotelica del-l’analisi e della sintesi, concepite come le due “vie” del procedimento deduttivo, una “all’in su” e una“all’in giù”, percorribili in entrambi i sensi solo nel caso in cui le premesse del ragionamento sianoconvertibili fra loro, cosa che si verifica soprattutto nelle scienze matematiche.

La terza raccolta di studi, decisamente la più corposa, prende in esame logica e dialettica. Ber-ti in questa sezione affronta argomenti molteplici, dal parallelo fra la contraddizione hegeliana e i quat-tro significati aristotelici di opposizione, alla parentela fra il metodo dialettico aristotelico con quelloutilizzato da Platone nel Parmenide, al carattere propriamente dialettico della storiografia aristotelica,alle varie forme di argomentazione teorizzate da Aristotele, all’unità di significato e denotazione nel-la teoria aristotelica dell’essenza, all’uso scientifico che Aristotele fa della dialettica, al valore episte-mologico degli endoxa. Berti contro l’opinione di Lucio Colletti (Intervista politico filosofica, Roma-Bari 1974), secondo cui la contraddizione dialettica di Hegel sarebbe caratterizzata dalla negazionedel principio aristotelico di non contraddizione (PNC), sostiene che quello negato da Hegel non sia ilPNC aristotelico bensì la sua riformulazione moderna nella forma del principio di identità A=A. Il prin-cipio aristotelico infatti, non implica affatto l’identità fra soggetto e predicato, ma solo una relazionedi appartenenza.

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Il secondo contributo affronta il problema della storiografia filosofica di Aristotele che, secon-do Berti, non ha nulla a che fare con un approccio dialettico di tipo hegeliano, ma è fondata sulla dia-lettica socratico-platonica, finalizzata a stabilire la verità di un’opinione su un determinato argomento,non a fondare una concatenazione necessaria di momenti in cui ciascuno sia la sintesi dialettica dei pre-cedenti. Aristotele, infatti, non si limita a esaminare le opinioni storicamente espresse nella storia delpensiero a lui precedente, ma formula egli stesso delle opinioni da confutare, in modo da poter esami-nare tutte le alternative possibili circa l’argomento in questione. Berti inoltre torna più volte su un pas-so del XIII libro della Metafisica (4 1078b 23-30), in cui Aristotele dice che la dialettica socratica nonera in grado di indagare gli opposti a prescindere dall’essenza né di indagare se la scienza dei contrarifosse la stessa. Il procedimento dialettico capace di indagare gli opposti a prescindere dall’essenza con-siste nello sviluppare tutte le conseguenze a partire da opinioni contraddittorie, in modo da trarre la ve-rità di un’opinione appunto dalla confutazione della contraddittoria. Questo procedimento già attuatoda Platone, deve a sua volta accompagnarsi alla nozione aristotelica di multivocità dell’essere (l’anali-si linguistica è essa stessa un’operazione propria della dialettica) e alla “scoperta” del primato della so-stanza, presupposti entrambi ignorati dalla dialettica platonica. Berti, riferendosi al famoso passo deiTopici (I 2 101a 25-b 4) in cui si parla dell’utilità della dialettica, in più di un contributo sottolinea cheuno degli usi della dialettica aristotelica è di natura propriamente conoscitiva e la sua base epistemolo-gica, costituita dagli endoxa, ha un fondato valore di “verosimiglianza” nel senso letterale di vicinanzaal vero. Gli endoxa, che hanno una gradazione di autorevolezza in base alla reciproca coerenza con lamaggior parte di essi o con i più importanti, appartengono all’ambito del probabile, ossia di ciò che av-viene per lo più, e costituiscono le premesse non confutabili dei sillogismi dialettici (vi possono esseredei casi di falsità ma si tratta di eccezioni che non inficiano la regola). Berti sostiene che Aristotele di-stingue un uso “pubblico” della dialettica, legato all’ambito politico e giudiziario, da quello propriamen-te scientifico che, attraverso l’esame delle opinioni alla luce degli endoxa, consente di distinguere il ve-ro dal falso e di accedere ai principi indimostrabili delle scienze. Aristotele stesso nell’Etica Nicoma-chea (VII 4 1146 b 7-8) dice: «La risoluzione dell’aporia è scoperta della verità».

Nel secondo volume e più specificamente nella partizione dedicata alla metafisica, troviamoil caso più rilevante in cui Berti manifesta un mutamento di prospettiva rispetto al passato: l’argomen-to riguarda l’interpretazione della causalità che Aristotele attribuisce al motore immobile, tradizional-mente e per lungo tempo considerata, anche dall’autore stesso, esclusivamente di tipo finale. Berti aquesto proposito documenta il dibattito aperto su questo argomento fin da Alessandro di Afrodisia, pri-mo grande commentatore della Metafisica, passando attraverso il medioevo cristiano e arabo, fino al-le posizioni di studiosi contemporanei. Il fulcro dell’argomentazione di Berti è questo: il motore im-mobile, l’essenza del quale è l’atto puro, deve esercitare in atto la sua capacità di muovere, mentre ilfine non compie alcuna attività; dunque esso non costituisce il fine del cielo, di cui è causa efficiente,bensì il fine di se stesso. Identificare il motore immobile con dio, non significa identificarlo con l’es-se ipsum subsistens, come ha fatto Tommaso, perché questo, nella prospettiva aristotelica, significhe-rebbe ricadere nel tanto temuto monismo parmenideo. Aristotele fa coincidere l’essenza di dio con ilpensiero, cioè con la forma più alta e nobile di vita e di essere, evitando accuratamente il concetto diun ente che abbia l’essere per essenza e che, sulla base della cosiddetta analogia di attribuzione, fini-rebbe per costituire l’essenza di tutti gli enti, cosa che riporterebbe appunto all’univocità paralizzantedell’essere di Parmenide. L’interpretazione heideggeriana della metafisica aristotelica, secondo Berti,pecca esattamente in questo, ossia nel non riconoscere la multivocità dell’essere, attribuendo ad Ari-

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stotele quella che Heidegger chiama una “ontoteologia”. La polivocità dell’essere, che ha tanti signi-ficati quanti sono i tipi di predicazione cui si unisce, non equivale evidentemente alla pura equivoci-tà. Ogni genere di predicato, infatti, ha una diversa relazione con la categoria fondamentale di sostan-za, soggetto di ogni proposizione, non identificabile con il genere universale del quale le altre catego-rie costituiscono le specie, ma semplicemente con il primo genere dell’essere, connesso con gli altrisecondo quel rapporto “ad uno” che G.E.L. Owen ha chiamato focal meaning.

Nella sezione dedicata all’antropologia Berti approfondisce quel particolare significato del-l’essere, determinato e irriducibile agli altri, che è il pensiero. Il primo significato dell’essere aristote-lico è l’atto, il vivere è un atto, il pensiero è la forma più alta di vita, perciò la cosiddetta “ontologiadella vita” diventa una “ontologia del pensiero”. In questa sezione, viene affrontata anche l’interessan-te questione dell’identità personale in relazione alla nozione di anima come atto primo del corpo. Se-condo Aristotele, l’anima superiore contiene in sé quelle inferiori, quindi bisogna supporre che l’em-brione umano abbia già l’anima intellettiva, la quale comprende in sé, a uno stadio potenziale, sia l’ani-ma nutritiva che quella sensitiva. Inizialmente l’unica facoltà in atto è quella nutritiva, poi progressi-vamente con lo sviluppo degli organi corporei passano in atto prima l’anima sensitiva e infine quellaintellettiva. L’embrione è dunque “uomo in potenza”, la forma del quale si realizza nel tempo attraver-so lo sviluppo delle sue varie parti, che diventa un essere umano per virtù propria e in modo necessa-rio, a meno che non insorgano ostacoli. L’Autore non manca di sottolineare le evidenti e quanto maiattuali ripercussioni che questa teoria aristotelica dell’uomo in potenza può avere oggi in relazione al-le ben note questioni di bioetica concernenti i diritti e la tutela dell’embrione. Affrontando la più spe-cifica questione del soggetto individuale, strettamente connessa allo spinoso dilemma della sostanzaprima, che nelle Categorie è l’individuo singolo, mentre nel VII libro della Metafisica è la forma, Ber-ti ritiene che la contraddizione fra le due formulazioni sia solo apparente. Nell’uomo, infatti, la formacorrisponde all’anima, che è individuale tanto quanto il singolo tode ti definito sostanza prima nelleCategorie. In effetti, le anime sono uguali per specie ma diverse per numero, ossia differiscono per ilfatto di dare la forma a corpi diversi e in questo senso sono assolutamente individuali.

Nella parte dedicata alla fisica, l’Autore chiarisce innanzitutto l’origine della scienza della na-tura e la sua priorità “cronologica” rispetto alla filosofia prima. Come è noto, per Aristotele ogni scien-za è scienza delle cause e in particolare delle cause prime, ma le cause prime della natura non si tro-vano nella natura stessa, bensì la trascendono: ecco che la fisica “genera” la metafisica.

Anche in questa sezione vengono trattati argomenti specificamente tecnici, come la criticadi Aristotele alla teoria atomistica del vuoto e la nozione aristotelica di tempo. Nel de generationeet corruptione, l’atomismo di Leucippo viene presentato come un tentativo di conciliazione fra unateoria precedente, ossia l’eleatismo e l’attestazione dell’esperienza. Aristotele qui mostra di apprezza-re due cose dell’atomismo: l’attenzione all’esperienza e la capacità esplicativa della realtà. Nella Me-tafisica troviamo la più nota confutazione della dottrina atomistica del vuoto, secondo la quale Demo-crito e gli atomisti rientrano fra coloro che negano il principio di non contraddizione in quanto ammet-tono la coesistenza del pieno e del vuoto, due principi contraddittori. Nella Fisica viene operata, attra-verso il metodo dialettico, una confutazione altrettanto scientifica e certamente più sistematica. Ini-zialmente vengono addotti alcuni argomenti a favore dell’esistenza del vuoto, nel più importante deiquali esso costituisce la condizione imprescindibile del movimento dei corpi sensibili; poi Aristotelecritica la nozione stessa di vuoto come «luogo in cui non c’è nulla», dimostrando che in esso il movi-mento locale dei corpi non potrebbe avere nessuna direzione e nessuna velocità; infine confuta uno ad

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uno gli argomenti precedentemente esposti, dimostrando, contro gli atomisti, che l’esistenza del vuo-to non è affatto necessaria per dare ragione dei fenomeni naturali.

Il tempo, sebbene non si identifichi con il movimento, è in stretta relazione con esso: non so-lo con il movimento fisico, ma anche con il fluire degli stati di coscienza. L’anima percepisce fasi di-stinte di un movimento, fasi che potremmo chiamare “istanti” o “adesso”, misurabili attraverso il nu-mero, per cui il tempo viene numerato secondo l’ordine di successione del prima e del poi. L’A. sot-tolinea che il carattere peculiare della nozione aristotelica di tempo è proprio la relazionalità: infatticiò che viene misurato non è altro che il rapporto fra due tempi, ossia fra due istanti, che a loro voltasono in rapporto con altrettanti movimenti. Soltanto l’istante, in sé non numerabile, può esistere indi-pendentemente dall’anima che lo misura ed è identico in ogni luogo. Il tempo, inoltre, non può averené inizio né fine, altrimenti esisterebbe un tempo prima (o dopo) il tempo stesso. La sua eternità vie-ne intesa sia come durata temporale infinita, esattamente come quella del mondo, del movimento edelle specie viventi, sia come eternità extratemporale, appartenente soltanto alle verità necessarie e aimotori immobili.

Contestando il presupposto prima eleatico e poi platonico che il vero essere è sempre, Aristo-tele è convinto che anche enti immersi nella dimensione temporale posseggano l’essere nel senso piùpieno. Questo conduce Berti a ricordare nuovamente l’assunto fondamentale del pensiero aristotelico,che è poi anche il leitmotiv che emerge dall’intera raccolta di studi, ossia che l’essere, per Aristotele,non è più l’immutabile e sempre presente essere parmenideo, ma è un essere polivoco, che ha più si-gnificati e si dice in molti modi.

Giovanna Musilli

M. Onfray, Le saggezze antiche. Controstoria della filosofia I, trad. di G. De Paola, Fazi Editore, Ro-ma 2006, pp. 290.

Un celebre racconto di J. L. Borges raccolto ne L’Aleph si intitola I teologi; l’inizio del rac-conto è molto violento in quanto viene descritta l’irruzione degli Unni in un monastero dove i soldatidanno alle fiamme la maggior parte dei manoscritti conservati nell’annessa biblioteca, distruggendocosì un patrimonio bibliografico di inestimabile valore. Se ciò accadesse in tempi moderni ossia se ilpopolo unno riuscisse a eliminare tutti i testi di filosofia antica e rimanesse per puro caso solo questolibro di Onfray i posteri non conoscerebbero nulla né di Platone né di Aristotele. Il libro di Onfray è,infatti, il primo di sei volumi che costituiscono una “controstoria della filosofia”, in cui l’A. intendedare la parola a tutti quei filosofi o correnti filosofiche che non hanno avuto voce in capitolo nella sto-ria della filosofia e nella manualistica ufficiale e accademica. La storia della filosofia è stata scritta, in-fatti, dai ‘vincitori’, da quei filosofi che hanno definito e strutturato sistematicamente il corso del pen-siero non lasciando spazio a tutte le altre ‘voci’ a loro opposte, che pur hanno arricchito il panoramadel pensiero occidentale.

Per questo motivo l’A. ha deciso di eliminare figure come Pitagora, Platone, Aristotele e gliStoici per dare voce a tutti quei pensatori materialisti ed edonisti (da Leucippo a Diogene di Enoanda)che già la filosofia dominante dell’epoca (e successivamente il cristianesimo post-costantiniano) ave-va condannato all’oblio. La prospettiva del libro è, quindi, un’aperta e polemica critica contro la filo-

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sofia ufficiale dell’antichità da parte delle correnti edoniste e materialiste: non c’è traccia, infatti, nédi Pitagora, profeta dell’immortalità dell’anima, né di Platone che nel Fedone (64b) parla di «filosofimoribondi», intendendo la filosofia come ‘preparazione alla morte’.

Già nell’etica democritea si individua l’elogio del piacere, di quel benessere a-spirituale chesi configura come armonica struttura dell’impianto atomico di cui ogni essere è costituito. Con Ippar-co e Anassarco, discepoli dell’Abderita, inoltre, si definisce l’immagine del filosofo che ama il piace-re ma allo stesso tempo sa dominarlo senza rendersene schiavo, raggiungendo la completa beatitudi-ne. L’A., di seguito, dedica un capitolo alla Sofistica, attuando un vero e proprio ‘risarcimento dei so-fisti’; il capitolo si occupa in particolare di Antifonte che nella contrapposizione irriducibile fra nomose physis individua la spinta ad abbandonare la legge civilmente costituita come fonte di dolore e di ango-scia. L’arte sofistica, specificamente antifontea, è anche una terapia verbale e psicoanalitica ante litteram,in quanto grazie all’uso della parola riesce a guarire, anticipando, tra l’altro, il futuro modello lacaniano:se la parola non guarisce è bene ricorrere all’ironia e all’umorismo.

Il libro tratta, successivamente, dei cosiddetti “socratici minori”, specificamente Aristippo diCirene e Diogene di Sinope. Aristippo, mai citato nel Filebo platonico ma sicuro bersaglio del dialo-go, fa del piacere il cardine della sua filosofia; il suo è un piacere attivo, corporeo che conduce al go-dimento diretto ma non ad una dipendenza che porterebbe angoscia e turbamento. Aristippo, allora,prende come modello Odisseo che gode di Circe non divenendone schiavo. È la stessa autosufficien-za e indipendenza che ricerca Diogene di Sinope, girando per le vie della città per rintracciare nelle te-nebre platoniche l’uomo, la definizione ideale di uomo che non troverà mai; il piacere, allora, consi-ste nella sfrontatezza (anaideia) per quelle convenzioni sociali che incatenano l’uomo alla dipenden-za. Di qui la teatralità canina di Diogene che, con quelle che oggi sarebbero “oscenità pubbliche”, era-no in realtà efficaci modalità comunicative in virtù delle quali ogni uomo potesse regolare la sua vitapiù sulla natura che sulla civiltà: si pensi a quanto Rousseau farà proprie queste tematiche.

Dopo tre capitoli dedicati a Filebo (capro espiatorio dell’antiedonismo platonico), Eudosso (ilcui edonismo è ricostruibile in base a passi aristotelici) e Prodico di Ceo (con l’aneddoto di Ercole albivio), l’A. inizia la trattazione dell’A. chiave di tutta l’opera, insieme ad Aristippo, Epicuro e la tra-dizione epicurea. Il piacere e l’etica sono il nerbo centrale del sistema epicureo, un piacere, tuttavia,spesso travisato. Il piacere epicureo è il sommo bene e, tuttavia, ha un significato meramente negati-vo: è l’assenza di dolore, di quel turbamento che deriva non solo dalle vicende quotidiane, ma anchedalla morte e dall’incubo di divinità che determinano il destino dell’uomo, intervenendo continuamen-te nel bene e nel male. Nulla di tutto questo è nel sistema epicureo, un sistema gnoseologico, fisico edetico finalizzato a liberare l’umanità dal giogo della paura della morte e da divinità onnipotenti che li-mitano la libertà dell’individuo. Questo è il proponimento di Lucrezio che vede nella Venere del proe-mio l’allegoria poetica di quella blanda voluptas che muove senza alcun esito teo-teleologico l’interanatura e nella descrizione del clinamen la giustificazione ingiustificata della libera voluntas.

L’A., e questo è uno dei meriti indiscussi del testo, dando voce ad autori davvero dimenticatima decisivi, sottolinea come l’epicureismo abbia avuto una sua tradizione, un suo sviluppo storico so-prattutto nella Campania felix e a Roma. Da Properzio ad Attico, da Cesare a Plotina, da Tibullo a Vir-gilio, da Cassio a Orazio, da Alcio a Filisco e a Fedro, la filosofia di Epicuro arriverà a Roma e ad Er-colano. A Roma nel 173 a.C. alcuni filosofi epicurei verranno bruscamente cacciati a causa della pe-ricolosità della loro dottrina, eppure in Campania un filosofo siriano, allievo del ben più celebre Ze-none di Sidone, Filodemo di Gadara, impianterà ad Ercolano, sotto l’egida politica ed economica di

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Lucio Calpunio Pisone, una biblioteca e una scuola epicurea cui parteciperà anche Sirone, maestro diVirgilio. Dal Giardino di Epicuro in cui il piacere era l’assenza del dolore, dove l’austerità di un tetto,di un tozzo di pane e di una ciotola erano in grado di far gareggiare in felicità ogni uomo con Zeus, aduna Villa ricchissima. E, infine, da Ercolano sepolta dalle ceneri e dai lapilli del 79 d.C. in cui operedello stesso Epicuro e Filodemo si sono salvate, oltre a quelle degli epicurei Demetrio Lacone, Car-neisco e Polistrato, a Enoanda in Licia, dove un tale Diogene, nonostante il cristianesimo dilagante, ri-propone su un portico la dottrina epicurea, incidendola su blocchi di pietra, cosicché tutti i cittadini oi semplici passanti possano raggiungere l’immanente salvezza passeggiando semplicemente.

La Controstoria è un rovesciamento divulgativo di prospettive che mira a ledere un conformi-smo storico-filosofico, ampliando lo sguardo critico ad autori troppo dimenticati dalla tradizione. Lastoria della filosofia, tuttavia, esiste solo in virtù di un impianto criteriologico cui essa afferisce, siaquello edonista/materialista di Onfray o quello idealista di Hegel: non si dà mai una storia della filo-sofia neutra proprio perché, come amava ribadire Croce, non c’è storia senza filosofia e viceversa.

Al lettore, tuttavia, spetta l’arduo compito di giudicare un’opera senz’altro legittima ma, for-se, troppo “rischiosa” per la sua estrema parzialità. Il rischio non è certamente per la nostra “stanca”identità occidentale ma, piuttosto, nei confronti di un passato immutabile e incancellabile: cosa ne sa-rebbe, dunque, del passato se in futuro accadesse, come racconta Borges, che gli Unni dessero fuocoal Parmenide di Platone o alla Metafisica di Aristotele?

Francesco Verde

B. Croce, Saggio sullo Hegel, seguito da altri scritti di storia della filosofia, a cura di A. Savorelli, conuna nota al testo di C. Cesa, Bibliopolis, Napoli 2006, 2 tomi, pp. 723.

L’obiettivo di Benedetto Croce di distinguere Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofiadi Hegel (così suona il celebre volumetto che egli pubblicò a Bari per i tipi di Laterza nel 1907 e chefu ben presto tradotto in tedesco e pubblicato a Heidelberg nel 1909) è assurto a emblema di un cer-to modo, quello “teorizzante” o “speculativo”, di intendere e “fare” storia della filosofia. Non a casoHenri Gouhier, sostenitore di una “storia storica della filosofia”, recensendo nel 1942 un’opera di ÉmileBréhier rilevò che «pour entrer en société avec Platon ou avec Descartes, je n’ai pas besoin de savoirce qui est mort et ce qui est vivant dans le platonisme ou dans le cartésianisme: j’ai besoin de savoirexactement qui fut Platon et ce qu’a dit Descartes» (H. Gouhier, La philosophie et son passé, Vrin,Paris 19472, p. 124). E trent’anni dopo un altro studioso assai battagliero, Eugenio Garin, nel formu-lare un giudizio complessivo sulla più recente produzione storiografica italiana, denunciò con tono disconforto il persistente «giuoco del vivo e del morto» in cui indugiavano ancora molti storici della fi-losofia, con il duplice esito negativo di realizzare una «cattiva storia» ed una «cattiva filosofia»… (E.Garin, Discussioni di storiografia filosofica, «Rivista critica di storia della filosofia», 26, 1971, p. 342).

L’occasione per rivisitare l’interpretazione crociana di Hegel è ora offerta dall’edizione criti-ca del Saggio sullo Hegel, curata da Alessandro Savorelli (autore fra l’altro del volume L’aurea cate-na. Saggi sulla storiografia filosofica dell’idealismo italiano, Le Lettere, Firenze 2003) e accompa-gnata da una «Nota» (in realtà un vero e proprio saggio introduttivo) di Claudio Cesa. Dato alle stam-pe a Bari nel 1913, il Saggio sullo Hegel non si limitava a riproporre il Ciò che è vivo e ciò che è mor-

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to della filosofia di Hegel, ma presentava in appendice anche alcuni testi in parte anticipati sulla ri-vista «La Critica» nel 1912: uno studio su Il concetto del divenire e l’hegelismo e quattro Noterel-le di critica hegeliana (Il primo o il «cominciamento», La forma logica della Logica, La «Filosofiadella natura», La triade dello Spirito assoluto). La seconda parte del Saggio sullo Hegel (intitolata«Scritti vari di storia della filosofia») comprendeva invece una serie di sedici contributi che Croceaveva pubblicato in varie sedi fra il 1902 e il 1912: diversi erano gli autori presi qui in esame, daLeonardo da Vinci a G.B. Vico e all’abate Ferdinando Galiani, da Johann Georg Hamann a Kant,Schelling, Herbart, Nietzsche, Wundt; l’ultimo contributo era dedicato a Luigi Martinotti, singola-re figura di pensatore solitario che fu in rapporti epistolari con Croce dal 1905 al 1922 e che nel 1921avrebbe pubblicato a Genova una sintesi del suo pensiero nell’opuscolo Nuovo sistema cosmico-sociale (pp. 483-484).

Condotta dal Savorelli con esemplare acribia, questa edizione critica del Saggio sullo Hegel tiene come base il testo dell’ultima edizione curata dall’A. (1948), che viene collazionata conle edd. precedenti (1913, 1927), nonché con l’ed. 1907 del Ciò che è vivo e ciò che è morto della fi-losofia di Hegel: un lavoro tutt’altro che semplice, data l’ampiezza dell’apparato critico (pp. 493-601), che testimonia la cura minuziosa con cui Croce revisionò e corresse quest’opera. All’appara-to critico fanno seguito due utili sussidi: l’«Indice dei riferimenti, dei rinvii e delle citazioni» e l’«In-dice delle citazioni e dei riferimenti anonimi», con l’esplicitazione delle fonti usate da Croce. In ap-pendice (pp. 637-714) viene infine riportato, dopo un’adeguata revisione ortografica, anche il «Sag-gio di una bibliografia hegeliana» che in origine chiudeva il volumetto Ciò che è vivo e ciò che èmorto della filosofia di Hegel e che era stato poi omesso nel Saggio sullo Hegel sin dalla I edizio-ne: un repêchage non privo d’interesse, poiché ci offre un quadro dettagliato degli studi hegelianiin Europa agli inizi del Novecento.

Nella sua «Nota» introduttiva Claudio Cesa ricostruisce anzitutto la genesi dell’interesse diCroce per una «esposizione critica» del pensiero hegeliano. La prima testimonianza risale a una lette-ra ad Antonio Labriola del 22 marzo 1886, ma per parecchi anni l’attenzione di Croce si concentrò sul-la teoria estetica del filosofo tedesco, grazie alle suggestioni che gli venivano dall’opera letteraria diFrancesco De Sanctis. Una lettera di Croce a Giovanni Gentile del novembre 1898, in cui è dichiara-to l’intento di approfondire «tutta la filosofia» di Hegel, segna l’affermarsi di quello che Gennaro Sas-so ha definito l’«istinto sistematico» di Croce e che trovò poi una prima espressione nella memoriasulla logica di Hegel (presentata nel 1905 all’Accademia Pontaniana di Napoli) e nella comparsa incontemporanea nel 1907 del saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel e della tra-duzione della Enciclopedia delle scienze filosofiche, che il filosofo napoletano aveva iniziato nell’apri-le 1905. Definire Benedetto Croce un “hegeliano” sarebbe inesatto, dato che egli preferiva proclamar-si “idealista” o “neoidealista”; ed è significativo al riguardo l’articolo Siamo noi hegeliani?, apparsosu «La Critica» nel 1904 e in cui la filosofia di Hegel, intesa come «il compimento della filosofia clas-sica tedesca», viene posta quale punto di partenza per ogni progresso filosofico, ma viene espressa nelcontempo l’esigenza di «dare sepoltura cristiana» (!) alla «metafisica hegeliana» (p. 445).

È lo stesso schema che ispira il Saggio sullo Hegel, dove i primi tre capitoli sono un’esalta-zione della grandezza speculativa del filosofo tedesco, cui si riconosce il merito di aver posto per pri-mo la filosofia stessa come oggetto specifico del pensiero e di aver quindi elaborato una «logica del-la filosofia». Al centro di tale logica vi sono il concetto universale concreto (il quale «coglie la vita enon il cadavere della vita; dà la fisiologia e non l’anatomia del reale») e la dialettica, ossia quell’«uo-

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vo di Colombo» che consente di risolvere il «problema degli opposti» e di superare i dualismi e le an-tinomie che contrassegnano la storia dell’umano pensiero (p. 22)… Ma a questo elogi fa seguito – ne-gli altri sette capitoli – una critica serrata del sistema hegeliano, che muove dalla ben nota denuncia diaver confuso il «nesso dei distinti» (ossia la distinzione/unità fra i diversi gradi dello spirito) con la«dialettica degli opposti» (ossia l’opposizione dialettica che si coglie all’interno di ogni grado: bello-brutto, vero-falso, bene-male, utile-inutile). Di qui «l’errore di far la dialettica dei distinti» (la religio-ne, ad es., vista come «il non-essere dell’arte»), che fu «il primo grande caso di abuso della dialetti-ca», dal quale derivano tutti gli altri «errori» del sistema hegeliano (pp. 69-71 e 469-470). Le critichedi Croce investono così, con ondate successive, la «struttura della Logica», l’uso insistente e scolasti-co dello schema triadico, la concezione dell’arte e del linguaggio, la filosofia della storia, la filosofiadella natura, il panlogismo, il mancato superamento del dualismo Natura-Spirito (in quanto «il Lo-go», quale soggetto della Logica e «terzo termine» separato dalla Natura e dallo Spirito, «si svela co-me non altro che il fondo buio della vecchia metafisica» di Cartesio e Spinoza, di Schelling, di Scho-penhauer, nonché di Eduard von Hartmann…). Ed è da questo «dualismo non superato» che deriva,secondo Croce, la divisione della scuola hegeliana in un’«ala destra» (che identifica il «Logo» di Hegel con il Dio personale della tradizione teistica) e un’«ala sinistra», che respingendo ogni trascen-denza finisce per «accordarsi con il materialismo filosofico» (pp. 134-135).

Giunge a proposito, a questo punto, il richiamo di Cesa alla lettera che Karl Vossler aveva scrit-to a Croce il 7 ottobre 1905, dopo aver ricevuto in anteprima il testo del Ciò che è vivo e ciò che è mor-to della filosofia di Hegel: «I primi capitoli che trattano la parte positiva e buona sono fra le cose piùbelle […] uscite dalla vostra penna, che io conosca. Forse per l’effetto, ma soltanto per l’effetto, è pec-cato che la parte negativa e critica sopraggiunga poi a smorzare gli accesi fuochi. Se invece comin-ciavate con l’errore e finivate con la scoperta, il libro riusciva più drammatico» (p. 454). Sembra uninvito ad invertire il titolo del saggio in Ciò che è morto e ciò che è vivo della filosofia di Hegel, il chenon avrebbe comportato solo un jeu de mots, ma anche uno spostamento di prospettiva; e dopotuttoCroce, per quanto laico impenitente, avrebbe dovuto sapere che dopo la «sepoltura cristiana» ci sareb-be stata, a tempo debito, la resurrezione…

Gregorio Piaia

C. Bonaldi, Hans Jonas e il mito. Tra orizzonte trascendentale di senso e apertura alla trascendenza,Edizioni Mercurio, Vercelli 2007, pp. 334.

La presente monografia sul pensiero di Hans Jonas si caratterizza per alcuni indubbi pregi. In-nanzitutto, è assai interessante che, nel privilegiare il senso di continuità della riflessione jonasiana aldi sopra delle consuete e generiche periodizzazioni (studi sulla gnosi, biologia filosofica, etica dellaresponsabilità), Bonaldi prescinda dal porre primariamente e immediatamente in risalto motivazionidi carattere biografico, per dare maggiore spazio a ragioni più squisitamente filosofiche e teoretiche.Si spiega in tal modo la scelta di assumere, nell’ambito di un’idea interpretativa unitaria di fondo delpensiero jonasiano, il tema del mito e il concetto-guida dell’oggettivazione. In secondo luogo, oltre adimostrare un’ampia ed approfondita conoscenza dei testi editi e inediti dell’autore, Bonaldi dedicanel suo lavoro opportuno spazio a testi jonasiani generalmente (non solo in Italia) poco conosciuti e

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studiati, vuoi perché offuscati dal successo delle opere più celebri dell’autore, vuoi perché – a torto,richiama Bonaldi – ritenuti poco significativi per gli sviluppi filosofici del pensiero di Jonas, che pu-re nel corso degli anni non si stanca di meditare intorno alle tematiche filosofico-religiose ivi trattate,ribadendone in tal modo la rilevanza per la comprensione del suo pensiero.

Punto di avvio del saggio di Bonaldi è l’indicazione della centralità, nella riflessione del gio-vane Jonas, del concetto-guida di “oggettivazione” (Objektivation), in quanto carattere costitutivodell’esserci. Il che, se per un verso evidenzia come il pensiero jonasiano risenta dell’atmosfera esi-stenzialistica della Marburgo in cui operano Heidegger e Bultmann (di entrambi egli è appunto allie-vo), per altro verso ne evidenzia anche l’autonomo procedere, allorché tale concetto assume il piùampio significato di esplicazione della dinamica fondamentale e costitutiva dell’esserci «definita dal-la correlazione ontologico-esistenziale tra sé e mondo» (p. 28). Tale dinamica schiude il proprio ca-rattere originario e costitutivo, allorché la si interpreti non come movimento dualistico di distinti ocontrari, ma come relazione polare e duale di elementi e dimensioni co-implicantisi e co-originari,vale a dire come dialettica della libertà (cfr. p. 273). Sotto questo aspetto, dunque, l’utilizzo del con-cetto di oggettivazione consente a Jonas di guadagnare anche un altro risultato: di contro a Bultmanne ai neokantiani, egli può sostenere che l’oggettivazione non sia solo «prodotto della ragione, bensìl’attività razionale rappresenta soltanto uno stadio finale di oggettivazione, quale modalità ontologi-ca dell’esistenza» (p. 56). Questo è invero un punto di fondamentale importanza per l’interpretazio-ne del pensiero jonasiano, essendo – ad avviso di Bonaldi – in grado di mettere in luce il profondonesso esistente in Jonas tra il concetto di oggettivazione e il tema del mito. Ed, in effetti, nell’esami-nare le prime opere jonasiane edite (Agostino e il problema paolino della libertà – 1930 – e i due vo-lumi di Gnosi e lo spirito tardo-antico – 1934 e 1954) e alcune inedite (come, ad esempio, il testo ri-salente alla fine degli anni Venti intitolato Methodologische Einleitung. Zur Hermeneutik religiöserPhänomene, ora tradotto in italiano a cura dello stesso Bonaldi nel volume Conoscere Dio. Una sfi-da al pensiero), Bonaldi evidenzia come per il giovane Jonas l’esistenza – «intesa come esserci sto-rico complessivo, per cui essa si determina a partire da quel movimento dialettico di costituzione disé nella dimensione dell’oggettivo» (p. 53) – si caratterizzi per una tendenza simbolico-mitologicapropria, la quale costituisce un livello prioritario rispetto alla concettualizzazione e alla razionalità edevidenzia, al tempo stesso, la struttura fondamentalmente dinamica, ma anche ambivalente dello spi-rito come tale e della sua libertà, essendo sempre presente il rischio di smarrire tale origine simboli-camente custodita.

Del resto, questo è proprio quanto accade tanto nello gnosticismo tardo-antico, quanto nel-l’esistenzialismo heideggeriano come suo pendant moderno. Ad avviso di Jonas, entrambi i feno-meni (ma – osserva Bonaldi sulla scorta delle analisi jonasiane – il medesimo discorso potrebbe infondo valere anche per il cristianesimo paolino-agostiniano) rappresentano, per un verso, specificheoggettivazioni di una modalità di esistenza storicamente realizzata e consistente in una determina-ta interpretazione ontologica, ma, per altro verso, anche tentativi eminenti ed esemplari di negare eobliterare la dinamica oggettivante e il fondamento ontologico complessivo, cui si accede a partireda quella.

In che cosa consiste però propriamente il rischio di smarrire tale dimensione originaria? Checosa propriamente è qui in gioco? Sulla base di acute considerazioni in specie a partire dalle pagi-ne jonasiane dedicate al fenomeno religioso della gnosi tardo-antica, Bonaldi mette in luce comeproprio tali analisi jonasiane, evidenziando l’esistenza di un “mito fondamentale gnostico”, ipotiz-

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zino non solo che esso contenga e manifesti un elemento trascendentale comune ad ogni epoca sto-rica e fondamentale per la comprensione dell’umano in quanto tale, ma al tempo stesso che tale ele-mento altro non sia che l’oggettivazione, in quanto «dimensione teoretico-pratica del rapporto almondo e al sé che costituisce l’orizzonte trascendentale dell’essere-nel-mondo» (p. 103). Cancella-re dunque – come del resto avviene ad opera degli atteggiamenti demondizzanti studiati da Jonas esopra richiamati – l’oggettivazione e il suo carattere teoretico-pratico, così come cancellare la suaforma intrinsecamente dialettica e mitica significa smarrire il proprium dell’uomo, in quanto esi-stente storicamente impegnato in un processo di interpretazione dell’essere, che tende ad oltrepas-sarsi, manifestando un’ulteriorità e un’eccedenza di senso. La questione, a ben vedere, è di analiz-zare se e in quale modo il terzo elemento essenziale che compare nella dialettica tra sé e mondo, va-le a dire Dio o il divino, possa essere colto fenomenologicamente e con quali mezzi, non essendopiù sufficiente il linguaggio filosofico-esistenziale; se – infine – sia legittimo il passaggio dall’im-manenza trascendentale all’ulteriorità trascendente in quanto «elemento costitutivo dell’esperienzastessa» (p. 129). Se così fosse, sottolinea correttamente Bonaldi, ciò significherebbe, innanzitutto,«evidenziare come nel mito si intersechino una dimensione trascendentale e una trascendente»(ibid.), in secondo luogo, mostrare come il simbolo guadagni un ulteriore livello di senso, divenen-do non «più soltanto mezzo di espressione di un’esperienza umana, ma veicolo di manifestazionedel divino stesso» (p. 130) e, infine, comprendere come per Jonas il mito in quanto manifestazioneoriginaria di una dimensione di alterità attraverso la dinamica oggettivante ed ontologica fondantel’esistenza sia – a differenza di quanto sosteneva Bultmann – insorpassabile, oltreché indispensabi-le al fine di attingere e descrivere la condizione dell’uomo di fronte all’eterno (cfr. conclusioni delcapitolo 2).

Ai fini dell’interpretazione complessiva del pensiero jonasiano, la rilevanza di questi nodi fo-cali evidenziati da Bonaldi appare tanto più convincente e appropriata, se si considera come essi ri-tornino effettivamente ad attirare su di sé gli sforzi filosofici delle sue opere maggiori, vale a dire Organismo e libertà (1966 e 1973) e Il principio responsabilità (1979). La centralità della dinamicadell’oggettivazione per la comprensione del vivente e dell’essere umano, la rilevanza ontologicaed intrinsecamente etica di tale dinamica di oggettivazione, la connaturata tendenza della vita edella fenomenologia della vita a sorpassarsi e a trascendersi, il rapporto strutturale tra uomo, mon-do e Dio, la congenita insufficienza della ragione e dei suoi concetti a comprendere il senso del-la reale dinamica di trascendenza e del più ampio orizzonte di senso metafisico, la posizione diprimo piano – anche da un punto di vista etico – rivestita dal mito in quanto «forma metafisica dioggettivazione» (p. 199); questi nodi tematici fondamentali delle opere jonasiane “maggiori”, per unverso, ne testimoniano così la continuità con quelle precedenti e, per altro verso, vengono potente-mente sintetizzati e ricapitolati nel celebre “mito jonasiano” dell’origine del mondo in relazione a Dio(ed è significativo che di tale mito – sottolinea Bonaldi – Jonas proponga nell’arco di un trentenniosvariate edizioni; cfr. pp. 297-301).

In conclusione, si può certamente riconoscere all’ampio studio di Bonaldi di essere riuscito aevidenziare in maniera innovativa la rilevanza per la comprensione della proposta filosofica jonasia-na complessiva e la sotterranea continuità di «aspetti finora poco sottolineati in ambito critico – inquanto in apparenza marginali negli effettivi interessi di Jonas a partire dall’inizio della sua propostafilosofica originale negli anni Cinquanta» (p. 293). Ciò che, invece, ancora meriterebbe di essere in-terrogato è se non sia proprio a partire da tali evidenti ed effettivi interessi filosofici che si evidenzino

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e si sostanzino un metodo filosofico innovativo – di certo già precedentemente presente in nuce, maancora privo di quella plasticità teoretica che presupponeva la maturità filosofica e umana del pensa-tore – e il senso complessivo di un filosofare la cui specificità (da Bonaldi peraltro ben evidenziata)viene testimoniata dall’effettività dell’impegno esistenziale ed etico, che una mera ricostruzione bio-grafica non è in grado di cogliere.

Roberto Franzini Tibaldeo

A. Michelis, Libertà e responsabilità. La filosofia di Hans Jonas, Città Nuova Editrice, Roma 2007,pp. 359.

Finalmente compare anche in Italia una monografia completa dell’opera e della vita del gran-de filosofo Hans Jonas. La completezza, in effetti, si segnala proprio come uno dei pregi maggiori diquesto libro di Angela Michelis, che mostra tutta la propria competenza del percorso filosofico e bio-grafico del pensatore tedesco.

Se, infatti, nell’ambito della già ampia produzione della letteratura secondaria su Jonas dispo-nibile anche in lingua italiana sono presenti studi che approfondiscono tematiche specifiche, come labiologia filosofica, o l’etica della responsabilità, o le questioni di filosofia della religione, nessuno fi-nora ha saputo indicare la trama che lega tra loro le diverse questioni affrontate da Jonas in un lungoed articolato percorso di vita e di speculazione così come è stata in grado di fare Michelis.

Parte essenziale e preziosa del volume è la ricostruzione degli elementi biografici, indispensa-bili per conoscere e comprendere un filosofo più complesso di quanto spesso non lo si intenda comu-nemente. In effetti, oltre a quegli elementi già noti ai lettori e ai non specialisti di Jonas, il quadro bio-grafico è reso più articolato grazie alla ricostruzione degli anni giovanili e della formazione, anni di cuiera già nota l’influenza di grandi maestri come Husserl, Heidegger e Bultmann, ma molto meno l’insie-me delle conoscenze di personaggi importanti sia nell’ambito del sionismo in Germania, sia della filo-sofia tedesca prima e americana, in seguito. Nel caso, poi, di un pensatore come Jonas, in cui pensieroe pratica di vita appaiono indissolubilmente legati proprio a partire dalle fondamenta speculative, la par-ticolareggiata ricostruzione anche degli eventi biografici, solo apparentemente estrinseci, è utile ancheper lo studioso di filosofia che voglia avere a disposizione più elementi di analisi. In tal senso, i riferi-menti alle letture del giovane Jonas, l’iniziale militanza nel movimento sionista tedesco, le amicizie conpersonalità quali Arendt, Löwith, Anders, Scholem, Strauss e altri in Germania, come pure quelle conBertalanffy, Friedrichs, Magnus, Löwe, fra gli altri, nell’ambiente americano, risultano tessere prezio-se per costruire il mosaico del pensatore ebreo tedesco ma anche americano di adozione.

L’abbondanza di elementi biografici e la ricchezza dei testi considerati dalla Michelis è tale dacomporre un quadro variegato, tuttavia, il libro si segnala positivamente anche per saper enucleare, giàa partire dal titolo, il percorso tematico unitario della filosofia jonasiana rintracciabile al di là dellamolteplicità di spunti e di prospettive. Se “libertà” e “responsabilità” vengono, infatti, indicate comele categorie che è possibile rinvenire alla base di tutte le tappe del percorso jonasiano, anche laddoveciò non appaia evidente (gli studi sulla gnosi o le trattazioni di questioni scientifiche), tale ricostruzio-ne risulta sempre attenta a rispettare fedelmente la ricca produzione testuale del filosofo. In confrontoad altri testi critici su Jonas, però, vengono messi particolarmente in evidenza alcuni aspetti che riguar-

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dano le radici profonde del suo pensiero: il concetto di libertà viene considerato soprattutto alla lucedella sua genesi nel pensiero classico greco. Che la libertà necessitante, architrave della biologia filo-sofica jonasiana e della struttura ontologica della vita intesa come fenomeno organico, abbia i suoi an-tecedenti nella tradizione filosofica tardo ellenistica, soprattutto stoica, è un aspetto nient’affatto se-condario per comprendere a fondo l’intero sistema filosofico di Jonas, come pure risulta essenziale aifini della messa in discussione dell’impianto causalistico della scienza moderna. A tal proposito, An-gela Michelis tematizza in modo articolato il rapporto di Jonas con “la scienza” e le “scienze naturali,fisiche e matematiche”, in particolare, mettendo in evidenza l’atteggiamento equilibrato e ambivalen-te del filosofo: da una parte, di apertura, profondo interesse e conoscenza, dall’altra, di autonomia econsapevolezza dei limiti reciproci di filosofia e scienze. Da questo punto di vista, risultano ulterior-mente confutate quelle critiche ingiuste, spesso provenienti proprio da lettori italiani di Jonas, che nefanno un pensatore avverso alla scienza, dimenticando sia le sue grandi competenze in materia, sia ilfatto che obiettivo delle sue ricerche è la riflessione sulle questioni etiche poste dalla scienza stessa,non certo la sua demolizione.

Anche del concetto di “responsabilità”, invero già noto ad un pubblico meno esperto dell’ope-ra jonasiana, l’autrice del libro mette in evidenza alcune implicazioni teoretiche meno considerate inambito italiano, dove si tende a leggere il fondamento dell’etica della responsabilità esclusivamente intermini ontologici, privilegiando, quindi, la matrice heideggeriana; Michelis mette invece bene in lu-ce come la responsabilità sia geneticamente legata alla relazione e al rapporto di compartecipazionetra parte e organismo, individuo e essere sociale, soggetto e mondo e come tale rapporto di partecipa-zione e di relazione sia a sua volta un carattere dell’essere naturale delle cose e dell’umano. In questosenso, l’autrice ricorda che, se di ontologia si può parlare nel caso di Jonas, questa non è solo quelladi Heidegger, ma certamente anche quella di tipo antico, ed inoltre che la matrice fenomenologica hus-serliana svolge un ruolo essenziale nella genesi del concetto di relazione.

In tale quadro, l’unitarietà del discorso svolto dalla Michelis, che ricalca la coerenza argomen-tativa di Jonas, ha buon gioco nell’inserire il rapporto tra uomo e natura nel solco più ampio della re-lazione di compartecipazione parte-tutto, anche in questo caso evidenziando la posizione “classicheg-giante” di un filosofo ritenuto spesso fuori moda.

Certamente Jonas appare controcorrente, come rileva l’autore del libro, nella sua riproposizio-ne della “questione Dio” in un momento storico-culturale in cui essa appare superata (forse la sua lun-gimiranza lo ha portato a scorgere in largo anticipo che, invece, la questione teologica e religiosa sa-rebbe presto tornata d’attualità). Ma, come la Michelis mette bene in rilievo (anche se forse questa par-te avrebbe meritato uno spazio maggiore), la riflessione del filosofo su Dio assume i tratti metaforicidi chi si pone innanzitutto quesiti di ordine etico e antropologico, anche nel momento in cui fa proprii termini del linguaggio religioso. Il “Dio non-onnipotente” è un’efficacissima metafora della condi-zione umana nell’epoca tecnologica tutta dominata dal contrasto fra potenza dell’homo faber e limitedella potenza dettato dal senso etico della responsabilità. Grazie a tale lettura anche la questione teo-logico-religiosa viene collegata a quel filo conduttore annunciato dal titolo e realizzato concretamen-te nell’ampia trattazione di tutto il libro.

L’unico limite, che non compromette affatto l’impianto generale dell’analisi, risiede nel nonaver mosso qualche rilievo critico allo stesso Jonas, che appare a volte, come ogni pensatore d’altraparte e nonostante la sua grandezza, passibile di obiezioni. È il caso, ad esempio, delle questioni rela-tive alle applicazioni bioetiche del principio responsabilità, invero solo di sfuggita accennate nel libro

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in esame, ma che invece, se trattate in modo un po’ più ampio, avrebbero permesso di considerare lediverse implicazioni dei principi etici jonasiani.

La novità e l’utilità del testo di Angela Michelis risiede, infine, nella ricca bibliografia conte-nuta nel volume, certamente un utile strumento per chiunque voglia indagare su Hans Jonas.

Paolo Piccolella

F. Papi, Il lusso e la catastrofe, Ibis, Como-Pavia 2006, pp. 202.

In continuità con altri volumi pubblicati di recente da Fulvio Papi, anche quello che qui presen-tiamo si muove nel quadro di una riflessione sull’identità “autobiografica” del filosofo o, se si vuole, diuna forma aggiornata del “conosci te stesso”. Più che altrove, però, in questo caso stanno al centro lecondizioni mondiali del nostro presente globalizzato e l’impegno etico della scrittura filosofica di fron-te all’«agenda delle ingiustizie che dominano sul nostro pianeta». La perizia storico-critica e genealo-gica con cui Papi descrive nel corso del libro, con sintesi utili e convincenti, come si è giunti al nostropresente e come in esso si vive, anche alla luce di catastrofi più o meno lontane nel tempo, ha come sti-molo e finalità conclusiva un aperto faccia a faccia del filosofo con la sua stessa immagine personale epubblica, sulla base della maturata convinzione che la filosofia sia appunto un “lusso”, ossia «un con-sumo di intelligenza privo di potere». Come Papi ha già spiegato anche altrove, il filosofo, in una con-dizione comunque di marginalità, può solo «cercare di creare relazioni tra le tendenze in atto».

Mi limito a elencare le grandi problematiche a cui nel libro si dà spazio e da cui veniamo tut-ti raggiunti e scossi, anche se spesso inconsapevolmente, per introdurre così l’altro elemento del bino-mio scelto come titolo. La paura della “catastrofe” nasce dai rischi atomici, dagli insulti a “Gaia”, da-gli sconsolanti bilanci energetici, dagli scandalosi e pericolosi privilegi idrici, dagli agglomerati urba-ni che si allontanano da un modello vivibile di città, dalla desertificazione della terra, dagli squilibridemografici, ecologici e così via. Per capire che cosa accade alle persone intorno a noi e al filosofostesso, Papi introduce il concetto di “sentimento della vita”. Il sentimento della vita non coincide conla “coscienza”, né semplicemente con le emozioni. In esso invece vanno a stratificarsi gli effetti dellereazioni emotive primarie che accompagnano la presa di coscienza delle tendenze in atto: al momen-to soprattutto inquietudine e insicurezza dinanzi al fantasma della “catastrofe”, di cui filosoficamentesi parla piuttosto poco. Il sentimento della vita è definito come “il modo d’essere relativamente costan-te, entro margini limitati di tempo, di qualsiasi essere vivente”. Si struttura su base biologica, famiglia-re, educativa; da esso dipendono il senso di sicurezza o di insicurezza di ognuno, le simpatie o le an-tipatie, i comportamenti intraprendenti o timorosi con cui ci relazioniamo al mondo, i pregiudizi e ingenere gli atteggiamenti non risolvibili nel linguaggio argomentativo. Con questo sentimento della vi-ta va dunque collegato tutto ciò che arriva fino a noi, spesso casualmente, attraverso le finestre che divolta in volta ci vengono aperte sul mondo, anche se sarebbe difficile riuscire a «configurare come unacolpa» i legami pur esistenti e non percepiti con «destini che ci trascendono». Ineliminabile sembraormai nella prospettiva del futuro «il volto del timore».

Che cosa più del nucleare ha messo di fronte al terrore di una autodistruzione dell’umanità edel pianeta? Eppure bisognerà spiegare forse con l’incredulità verso la possibilità di una simile pro-spettiva, perché affidata comunque all’uomo (una speranza nella sua razionalità e responsabilità), il

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fatto che parallelamente la storia occidentale ha visto una trasformazione economica e sociale senzapari, smentendo ad esempio i secchi aut-aut del filosofo Jaspers. Alle catastrofi storiche del Novecen-to si è aggiunta poi una catastrofe intellettuale, quella della “fine dell’uomo”. Ma, si chiede Papi: «Aquali condizioni è possibile elaborare un pensiero del genere? E chi potrebbe far proprio questo pen-siero? E con quale criterio di verità?» (p. 126).

C’è in corso una «pericolosa gara di temporalità»: da un lato la dominante e ottimistica «coa-zione a ripetere» basata sul luogo comune che presenta l’equazione tra crescita economica e felicitàpubblica; dall’altro il pensiero della «durezza del reale» e dell’imprevedibile accompagnato da formedi “resistenza”, che cercano cioè di frenare «il concorso di elementi verso esiti catastrofici». Sono lescienze stesse a mettere in luce ormai gli elementi catastrofici, pur senza giustificare forme di deter-minismo. E se proprio quello delle scienze fosse il nuovo “grande racconto”, la differenza sta nel fat-to che ora «non esiste alcun “soggetto sociale” relativamente omogeneo rispetto al racconto che lo pos-sa tradurre nella propria identità», sebbene tutti gli abitanti del pianeta vi siano coinvolti.

Il fatto è che rispetto alle prospettive catastrofiche siamo immunizzati da una restrizione del-l’orizzonte di attesa, cioè del futuro, in generale della dimensione del progetto, che ha caratterizzatoinvece la modernità. Insieme con l’uomo è scomparso anche il filosofo come suo rappresentante; sem-mai è rimasto – dice Papi – il filosofo che si sente erede di un lusso.

Situazione curiosa, dunque, quella della filosofia, che eredita un’impotenza e tutt’al più trasfe-risce l’immaginaria potenza teoretica, che non ha, in un’attitudine morale, in un credere di poter fare,paradossalmente restando, pur nella emarginazione, un lusso. Tuttavia: «è meglio il naufragio che nonprendere mai il largo!». Certo, la grande tradizione del pensiero occidentale si è fatta della filosofia tut-t’altra immagine. Per altro verso, la filosofia ha visto persino dichiarare la sua fine, ma come specula-zione o travestimento della teologia, per poi rinascere in altre dimensioni fino ad arrivare all’oggi. Pa-pi non teme di guardare in faccia la realtà e di affrontare il senso di frustrazione; se siamo però consa-pevoli dell’eurocentrismo, per la filosofia è fondamentale interrogarsi non solo sul suo rapporto con laverità, ma anche su «per chi sia una verità»: «Si tratta di guardare quale relazione vi è tra il nostro farefilosofico che, quand’è degno, cerca di comprendere come sia possibile (a quali condizioni) porre do-mande di senso, e quelle vite per cui l’unico senso possibile non è in alcun pensiero, ma nel procurarsiil mezzo più elementare per sopravvivere» (p. 183). In altre parole, Papi intende allargare la domandasulla possibilità della filosofia alla dimensione spaziale del mondo, metterla in relazione con gli eventiche vi accadono «e riuscire a percepire così un senso che viene conferito alla filosofia dal mondo, piut-tosto che ascoltare il senso che deriva da una intelligente (e condivisa) collocazione delle parole del les-sico filosofico che abbiamo ereditato». Papi riesce come al solito a rendere con parole intense quantoavvertito in prima persona: «Se non si finge di essere “al di qua” o in un immaginario “oltre”, questo èquanto capita ad un filosofo che non si trova più di fronte alla galleria regia delle opzioni di pensiero ...ma in una situazione che viene parlata con una pluralità di linguaggi, in una grande varietà di descrizio-ni, in codici scientifici diversi, in emozioni che possono andare nel profondo ma poi vengono sommer-se nella quotidianità. È il disordine del mondo» (pp. 184-185). Ecco perché è necessario «ripetere ...grandi lezioni filosofiche» per cercare di non sprecare il lusso ereditato. La posizione sociale della fi-losofia si presenta agli occhi di Papi tutto sommato come quella di uno tra i “beni culturali” da conser-vare, che è protetto dalla sua istituzionalizzazione ed è accompagnato dai rischi di normalizzazione pro-pri della “corporazione” e nel contempo da una sorta di apartheid. La spettacolarizzazione in corso, daparte sua, non ha certo conseguenze per quanto riguarda «l’estensione del territorio di verità».

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Papi individua piuttosto due elementi dominanti: la specializzazione e la mimesi della formascientifica, rispetto ai quali: «Sarebbe completamente assurdo non riconoscere gli straordinari vantag-gi nella conoscenza cui ha condotto questa pratica della filosofia a cui peraltro siamo abituati e di cuinoi filosofi occidentali, vecchi comunque, non potremmo fare a meno. È il modo più sicuro di custo-dia della tradizione. E il “custode” deve conoscere bene il suo mestiere. Tuttavia non c’è nessuna ra-gione per non rivolgere una domanda filosofica a questo stato di cose...» (p. 189). In altre parole, quelche bisogna fare è cercare anche di contaminare il patrimonio prezioso delle parole filosofiche con lenuove esperienze impreviste, senza nemmeno accontentarsi di categorie morali come responsabilità egiustizia, ma tornando ad interrogarsi sul “pensiero” stesso. Infatti «abbiamo una esperienza sufficien-te per dire che “il pensiero” appare proprio quando questo perimetro è varcato e quando vengono sta-bilite relazioni tra oggetti che, prima di quel pensiero, non erano rese compatibili nell’unità di una raf-figurazione teorica» (p. 190). Questo appello al pensiero non è quindi un nuovo annuncio della finedella filosofia, bensì è un richiamo a fronteggiare le fantasmagorie mediatiche, a servirsi degli sguar-di scientifici sul mondo per ricavarne contenuti indispensabili, ad azzardare non la verità, ma la vero-simiglianza della “messa in scena” di un testo peraltro incompleto. Pensare, infatti, significa andareverso la realtà, e questa «è una modalità antropologica che appartiene alla nostra tradizione occiden-tale e che ha la sua forza culturale nella filosofia» (p. 196).

Sarà il lusso occidentale della possibilità di pensiero trasformato da volenterosi “nuovi filoso-fi”, aperti all’orizzonte dello spazio-mondo, in una obbligazione etica?

Carlo Tatasciore

A. Pirni (a cura di), Comunità, identità e sfide del riconoscimento, Diabasis, Reggio Emilia 2007,pp. 208.

La ricerca recente nell’ambito delle scienze umane si concentra con crescente intensità sullatensione tra eguaglianza dei membri della specie e affermazione della loro identità personale: tra que-sti due poli, quello dell’individuazione di ciò che ci è comune e di ciò che invece ci fa sentire unici,fornendoci la cifra del senso del nostro proprio essere, si muovono i dieci contributi qui raccolti da Al-berto Pirni, elaborati dagli autori nell’ambito della Scuola di Alta Formazione di Acqui Terme.

La serie dei saggi, che copre un arco temporale che va dalla monadologia di Leibniz – analizzatada Ballanti – all’attualità, si apre con il commento di Roberto Gatti a Rousseau e si spinge fino alla cogen-te contemporaneità dell’ermeneutica filosofica, nel cui alveo si situano con diversi accenti le considera-zioni di Camera, De Simone e Henry, che chiudono il volume. In questi ultimi interventi si getta inoltreuno sguardo ambizioso su una dimensione che si proietta nel prossimo futuro: quella di un’identità capa-ce di prestare ascolto all’irriducibile alterità.

L’emergere di un modello strutturalmente aperto dell’identità umana, costituito dall’incessan-te rielaborazione dei punti di orientamento nella realtà quotidiana, appare in questo volume come uncoerente sviluppo di motivi presenti già, in forma aporetica, nei pensatori del XVII-XVIII secolo, con unaconvergenza a partire dalla riflessione sull’identità e da quella sulla comunità. Lungo entrambe le li-nee di indagine colpisce nella successione dei saggi la forte sensazione di frammentarietà, la vertigi-ne causata dalla dissoluzione dei legami, con la quale la postmodernità deve confrontarsi, dopo che

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nella modernità il senso di vertigine è stato soffocato grazie alla fiducia nell’intervento di un deus exmachina, umano o divino. Sia che in epoca moderna la figura di Cristo subisca un processo di secola-rizzazione e venga ricollocata nella storia umana sotto la fattispecie di Legislatore (Gatti) o che l’in-cubo di un universo composto da individualità irrelate venga allontanato dalla mente attraverso il pa-radossale stratagemma dell’harmonia universalis (Ballanti) o infine che vi sia un essere assoluto a ga-ranzia dell’esistenza reale dell’individuo (G. Ghia), la contemporaneità prende le distanze da questometodo: sia il tentativo di secolarizzare che quello di appropriarsi della sicurezza fondata nella dimen-sione religiosa non sono più disponibili alla riflessione e l’interprete si avventura in uno spazio igno-to, privo di un’àncora abbondantemente sfruttata in passato.

Dalla componente drammatica insita nella presa in carico del compito di affrontare la vertigi-ne risulta pienamente giustificato il termine sfida per connotare l’impresa dell’approccio attuale al-l’identità: sfida concettuale per superare una nozione statica e monolitica di identità, ma anche sfidaquotidiana per ciascun individuo, posto di fronte al compito inedito di reinventarsi senza sosta (De Si-mone) e di ridefinire i confini della dimensione comunitaria (Pirni). Infine, come rimarca l’interventoconclusivo di Henry, sfida politica, che si concretizza nella necessità di valutare criticamente non so-lo il superato paradigma del melting pot, ma anche quelle policies che, scaturite da valide critiche adesso avanzate dai sostenitori del multiculturalismo, rischiano di trasformarsi in veicoli di reiterazionedi forme subdole di discriminazione.

La rilevanza politica dei temi trattati d’altro canto è chiara nel testo fin dall’inizio: già nelprimo saggio la vulnerabilità teoretica del concetto rousseauiano di communauté, evidenziata daGatti, conduce esplicitamente alla formulazione di un «giudizio sul politico moderno», al contem-po criticato e rappresentato dal filosofo francese. La tensione presente nella riflessione di Rousse-au tra vita politica e apolidia rimane così irrisolta, concludendosi in quella che lo studioso defini-sce una figura della coscienza infelice. Il senso di abbandono ed estraneità dell’individuo rispettoalla comunità è infatti un elemento che attraversa trasversalmente i contributi qui raccolti, accen-tuando il proprio peso con l’avvicinarsi all’attualità. Idealmente potremmo riconoscere un supera-mento teorico della figura del sé solitario (che condanna Rousseau alla struggente esperienza uma-na testimoniata dalle Rêveries) nella riflessione hegeliana sul soggetto morale, affrontata da Fran-cesca Menegoni nel secondo saggio. L’autrice restituisce un quadro della complessità della filoso-fia pratica hegeliana rivendicandone il carattere alternativo alla dicotomia singolo-comunità e po-nendo la dialettica del reciproco riconoscimento come portato principale della riflessione del filo-sofo tedesco. Centrale è il fatto che il soggetto hegeliano assuma consapevolezza di sé non grazieall’autoanalisi, bensì attraverso l’esperienza dell’alterità: Hegel decostruisce il soggetto morale nel-la serie delle sue azioni, facendo in modo che esso sia intrinsecamente inserito nella dinamica rela-zionale, all’interno della quale ogni volontà individuale assume concretezza nell’opposizione ad al-tre.

Tuttavia, non basta che il soggetto sia considerato costitutivamente parte di una rete di indivi-dui e che si tracci la via di un procedere complementare dei diritti del singolo e della comunità perchési possa negare la difficoltà del compito di «ritrovare se stessi ciascuno nel proprio altro», come met-tono in evidenza i saggi raccolti nella seconda sezione del volume. La disarmante complessità che que-sta esperienza raggiunge, ampiamente affrontata da diverse angolazioni, può essere qui brevementetratteggiata richiamando temi quali la moltiplicazione dei mondi nei quali il soggetto si trova a vive-re, o la polivalenza culturale dell’uomo contemporaneo (Czajka) o ancora la necessità di una coscien-

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za critica che vada ad integrare la coscienza storica dell’interprete in un approccio ermeneutico inter-culturale (Camera).

A fronte della ricchezza delle prospettive presentate, particolarmente pregevole è il costantesforzo di chiarificazione concettuale, sia negli interventi di carattere storico-filosofico, come nel casodel saggio di Francesco Ghia sul concetto di comunità religiosa in Weber, sia lì dove si procede ad untentativo teorico di ridefinizione dei concetti di comunità e identità sullo sfondo del fenomeno carat-teristico della contemporaneità – la globalizzazione –, come avviene rispettivamente nei contributi diPirni e De Simone.

Lucia Boschetti

A. Caracciolo, Opere II, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 639.

Alberto Caracciolo (1918-1990) è certamente uno dei pensatori del Novecento più significa-tivi per intensità e coerenza di pensiero, per profondità e ricchezza di cultura, un vero Maestro, cheha aperto prospettive di rara altezza spirituale, appellandosi alle attese di assoluto proprie dell’uomo.Di recente pubblicazione è il secondo dei cinque volumi previsti dell’opera omnia di Caracciolo, cheraccoglie scritti di anni diversi ed incentrati , come avverte il curatore Giovanni Moretto, su due deiquattro autori che hanno maggiormente attratto l’attenzione di Caracciolo: Kant e Jaspers. Tra le se-zioni relative a questi due autori è inserito uno studio su La persona e il tempo, dedicato al tema del-la corporeità e dell’arte. Segue infine una serie di profili estetici di poeti, scrittori e filosofi unitamen-te ad alcune recensioni, che completano il volume. Data la consistenza del volume è pressoché im-possibile darne una presentazione esauriente; ci limiteremo perciò a richiamarne alcuni punti per ri-levare come nel corso della lettura il pensiero caraccioliano emerga con riflessioni estetiche e filoso-fiche svincolate dagli autori trattati e spesso in contrasto con le loro posizioni.

Nella prefazione alla sezione dedicata agli Studi kantiani Caracciolo stesso avvisa che qui è rac-colto un ripensamento della Critica del Giudizio, sollecitato, più che da un intento di esegesi nel signifi-cato strettamente filologico del termine, da una richiesta di carattere teoretico, dovuta alla suggestioneprofonda e alla ricchezza dei temi di quest’opera kantiana. Nella sua linea fondamentale la Critica delGiudizio è vista da Caracciolo come una metafisica che nasce dalla insoddisfazione per le conclusionicui Kant era giunto nella prima Critica: una visione finalistica della natura viene così contrapposta ad unaspiegazione meccanicistica, fondata sul concetto universale intellettivo, che non basta a farne intenderela razionalità. Circa il giudizio sul bello e sul sublime, che occupa la prima parte della terza Critica, Ca-racciolo sottolinea il grande merito di Kant di aver identificato il tema della bellezza con quello dell’este-ticità, ma evidenzia anche il limite di una concezione del bello come armonia geometrizzante di caratte-re esclusivamente formalistico. In alcune definizioni kantiane ed esempi di simboli Caracciolo avverteperò un più alto concetto dell’arte, che si avvicina a quello del sublime, suggestivo di idee etiche e me-tafisiche, che ripropongono nel tempo il respiro di eternità proprio della grande arte.

Nelle considerazioni sul giudizio estetico di Kant ritorna il concetto portante del pensiero este-tico caraccioliano, già mirabilmente esplicitato nel volume L’estetica e la religione di Benedetto Cro-ce (19883, rist. nel I volume dell’opera omnia, apparso nel 2004), in cui l’arte è prospettata come li-berazione e trascendimento della realtà , ma anche come forza «recante in sé l’eco del mondo che sia-

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mo chiamati ad accettare, prima e forse più che a costruire», forza morale il cui fare ha una occulta ra-dice nel religioso. Nell’intuizione estetica l’oggetto o l’individuo, che sono stimolo all’attività rifles-siva della soggettività, rientrano per Caracciolo in un mondo diverso, che è quello dell’orizzonte poe-tico, proprio di tutte le arti, senza distinzione gerarchica, come avveniva invece in Kant.

Se il giudizio estetico è filosofia dello spirito, quello teleologico è metafisico, non al di fuoridella ragione, ma come ragione stessa vista nella sua insopprimibile autorità. Qualora la luce metafi-sica venisse meno, verrebbe meno non solo la certezza morale, che per fare delle scelte operative habisogno del riferimento all’incondizionato, ma la giustificazione stessa della vita. La vita va certamen-te accettata nei suoi momenti positivi e negativi , ma questo non ci può impedire di pensare ad una re-altà ultraterrena non solo corretta nelle sue ingiustizie, come sembra intendere Kant, ma anche ad unregno che sia altro da quello terreno. Quando lasciamo il mondo e ce ne distacchiamo bisognosi di ve-rità, di bontà, di felicità, non sappiamo come queste parole potranno avere senso in una realtà che tra-scende l’ultraterreno; «Ma – conclude Caracciolo – dimostra questo che sono senza senso e necessa-riamente fallaci?». La dignità dell’uomo, esaltata da Kant, non si deve esaurire in una assolutizzazio-ne della vita umana nei termini attuali perché nulla ci vieta di ammettere anche il ritrovamento di unlivello di consapevolezza superiore a quello di cui nel presente fruiamo.

Venendo ora alla sezione dedicata a Karl Jaspers, essa è introdotta da un interessante sag-gio sul tema della demitizzazione del cristianesimo nel dialogo intercorso fra lo stesso Jaspers eRudolf Bultmann, che offre spunti quanto mai utili anche per l’attuale dibattito sulla teologia liberale.Circa il processo di demitizzazione di Bultmann, operato sotto la spinta della cultura oggettivante tec-nica e scientifica, Caracciolo evidenzia come esso si ponga sostanzialmente lo scopo di cogliere laforza autentica del mito per confermare il valore salvifico del kerygma cristiano, ma nello stesso tem-po ne rileva anche la contraddittorietà, giacché l’antidogmatismo di Bultmann si fonda sul presuppostodell’atto di fede nella rivelazione. Pur condividendo con Jaspers la Liberalit?ät, che ravvisa nella co-scienza del singolo la scaturigine della fede nel porsi immediatamente di fronte alla Trascendenza, Ca-racciolo ritiene che i testi biblici debbano essere accostati in atteggiamento di ascolto storico, nel ten-tativo di un rivivimento autentico del cristianesimo. La religione quale Existenz «è in verità esigenzadi estrema chiarezza, di consapevole decisione, di ordine e di forma», che non va confusa con l’indefi-nito del mito.

Una particolare consonanza con Jaspers è avvertita da Caracciolo a proposito della teoria del-le “cifre”, per la quale Dio si rivela all’esistenza non per processo dialettico, ma in maniera solidalecon il mondo. E questo è quanto si riscontra anche nell’ultimo contributo degli studi jaspersiani, L’in-terpretazione di Leonardo, in cui la pittura di Leonardo da Vinci è considerata come una radicale espe-rienza di relazione con l’Essere: relazione che, contrariamente a quanto si deduce dalle monografietracciate da Jaspers in Die grossen Philosophen (1957), non è un modo distinto, ma una struttura ul-tima che investe tutti i momenti della coscienza.

Infine, sempre riguardo al problema della demitizzazione, nel volume è riportata la relazionedi Caracciolo “Demitizzazione e pensiero contemporaneo”, svolta dal filosofo nel 1961 presso l’Uni-versità di Roma, alla quale fa seguito una interessante discussione con contributi di noti studiosi. Inquesta relazione, che verte sugli aspetti della religiosità contemporanea, Caracciolo esamina anche iconcetti di Nulla e di Augenblick, concetti a cui ha poi dedicato molte pagine della sua riflessione inanni posteriori.

Paola Ruminelli

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J. Dupré, Natura Umana. Perché la scienza non basta, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. XX-228.

È uscito per i tipi dell’editore Laterza con una ricca e accurata prefazione di Mario De Ca-ro e Telmo Pievani, Natura umana. Perché la scienza non basta, di John Dupré. Dupré è filosofodelle scienze all’Università di Exeter, membro del prestigioso Egenis (ESRC Centre for Genomicsin Society), formatosi in quella “Scuola di Stanford” che fu di Nancy Carthwright (autrice di saggiepistemologici capitali come How the Laws of Physics Lie) e di Ian Hacking (Linguaggio e filoso-fia, Conoscere e sperimentare, Historical ontologies) già negli anni ’70 e ’80; in più egli indica inPaul Feyerabend la figura filosofica di riferimento principale del suo iter.

La traduttrice ha scelto, in ogni caso, di rendere il titolo originale del testo Human Natureand the Limits of Science, scegliendo una resa assai eufonica nella prosodia del titolo italiano, macambiando di non poco il tono nettamente “antiscientistico” della denominazione originale, che nonandrebbe frainteso come “antiscientifico” o “antinaturalistico” tout court. Come, infatti, mette inevidenza l’autore, «il tema centrale proposto da questo libro è quello del pluralismo, e più specifi-camente di un approccio pluralistico allo studio della nostra specie […] Il mio progetto è quello disostenere l’applicazione del pluralismo anche ai temi metafisici di base, come quello della causali-tà e del tipo di cose che esistono al mondo. Questa prospettiva metafisica fa apparire i limitati pro-getti scientifici che ho preso in esame come filosoficamente fuorvianti, in quanto poco soddisfacen-ti dal punto di vista empirico». Quali sono questi progetti scientifici? Quali teorie, largamente in-fluenti sui paradigmi teorici contemporanei di tante ed importanti “scienze speciali” (dalla biologiaall’economica politica) l’autore intende criticare da queste premesse? L’autore stende, in merito, unvero e proprio elenco, racchiudibile nei segunti punti (i-iv).

(i) L’evoluzionismo “ultra”-darwiniano e pan-adattazionista di G. Williams, R. Dawkins eD. C. Dennett. Natura umana mena, infatti, un netto “fendente” alla tesi, oggi già abbastanza clau-dicante, della filosofia della biologia “ultra-darwiniana” del pan-adattazionismo di questi due au-tori, mostrando, contro ogni possibile tentazione alternativa e opposta da “Intelligent Design”, chese vi è un modello metafisicamente inadatto a candidarsi a “campione laico” della visione plurali-sticamente naturalistica dell’evoluzione umana, questo è proprio il paradigma ultradarwiniano diautori come Dennett e Dawkins (Cap. IV), modello, semmai, tendente in maniera assolutamentenon laica a voler assoggettare tutto ciò che è descrivibile adattamentisticamente al proprio modusesplicativo.

(ii) La filosofia della mente e delle scienze cognitive strettamente legata alla filosofia notacome psicologia evoluzionistica, che per Dupré altro non sarebbe che una diretta filiazione della so-ciobiologia degli anni Settanta di autori come Edward O. Wilson; per Dupré essa sarebbe legata afilo doppio ad una visione “genocentrica” e “atavistica” (pp. 29-32) dell’evoluzione, mentre que-st’ultima, per Dupré, così come tanti altri autori che hanno criticato e che criticano Dawkins e Den-nett (S. J. Gould, N. Eldredge, R. Lewontin, P. Griffiths, ma anche E. Jablonka e Marion Lamb au-trici del fortunato Evoluzione a quattro dimensioni) non sarebbe un fenomeno puramente genomi-co, ma anche, ed essenzialmente, storico-culturale, comportamentale e simbolico (Capp. I-III). L’ideadi “atavismo”, l’ipotesi, cioè, per cui l’evoluzione (genomicamente e adattazionisticamente intesa)avrebbe di fatto modellato la nostra specie usando come unico “laboratorio diacronico” le ere bio-logiche anteriori all’olocene (quindi fino a 13.000 anni fa), viene rifiutata da Dupré come sintoma-tica di un paradossale “fissismo evoluzionistico”. Non si vede perché, infatti, la storia epigenetica,

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comportamentale, simbolica, e, in una sola parola culturale non debba essere considerata come unaprosecuzione realmente naturale dell’evoluzione genetica.

(iii) Il paradigma teorico “neo-classico” marginalista e monetarista dell’homo œconomicusin economia politica, e, sempre restando nelle scienze sociali, l’interconnesso modello economicodell’agente economico “perfettamente razionale” della rational choice theory (Cap. V). Dupré necritica le basi metafisiche, da lui considerate emblematiche di una concezione ontologica (l’indivi-dualismo metodologico) che, secondo lui, neppure il fondatore stesso del liberismo classico, AdamSmith avrebbe mai potuto sottoscrivere in toto.

(iv) Infine, guardando sinotticamente alla “concezione imperialista”, Dupré attacca la visio-ne, secondo lui biecamente determinista, del comportamento umano, insita nei metodi e nelle euri-stiche dello scientismo già presente nei punti (i-iii). Nel capitolo VI (conclusivo) del libro, così, èpossibile rintracciare il contributo (a parer nostro) più originale di tutto Natura umana, laddove sitenta di fornire i lineamenti di una vera e propria teoria difensiva del libero arbitrio. Tale ipotesi co-stituisce, in realtà, una decisa revisione dei concetti di causalità naturale e causalità intenzionale, do-ve la prima viene vista da Dupré come un’emanazione della seconda, considerata “la vera fonte” delfenomeno causale che l’ontologia riduzionistica vorrebbe abbassare, di contro, al rango di causazio-ne oggettiva nelle scienze fisiche. Inoltre, nelle intenzioni di Dupré – cosa che ne fa un teorico li-bertario a nostro parere tra i più coerenti in circolazione – le spiegazioni “compatibilistiche” del li-bero arbitrio sarebbero assolutamente da respingere, perché: o basate su ricostruzioni teoriche mol-to deboli (come l’equiparazione dell’indeterminazione dell’azione al caos quantistico) o su argo-mentazioni ormai superate, come la distinzione tra la “libertà del volere” (respinta dai teorici dellacompatibilità tra libero arbitrio e determinismo fisico) e la “libertà dell’agire”. Dupré rintraccia, dicontro, proprio nella coincidenza tra libertà di scelta e potere di dare “origine storica ad una nuovalinea causale” – non necessariamente “completa” come il determinismo vorrebbe – il tratto più ti-pico del libero arbitrio, tutto da riscoprire ed approfondire.

In generale Dupré ampliando lo spettro semantico di una “eredità lessicale” del giornalismopolitico del XX secolo, ovvero la parola “imperialismo” – coniata dall’editorialista inglese WalterLippman ai primi del ’900, per apostrofare il colonialismo vittoriano – sceglie con deliberato inten-to polemico di definire tale visione unificatrice delle metodologie naturalistiche della “scienza po-sitiva”, imperialismo scientistico (pp. 123-127), cioè come un’ideologia che mirerebbe a fare dellescienze “esatte” l’unico metodo descrittivo ed esplicativo corretto, completo e razionale per poterconquistare una visione “comprensiva” della natura umana (dalla psicologia all’economica politi-ca). Un monismo, in ultima analisi, non solo viziato da una metafisica del tutto discutibile, ma an-che e soprattutto da dei limiti di portata più deteriore, di tipo ideologico.

Stefano Vaselli

F. Riva, Partecipazione e responsabilità. Un binomio vitale per la democrazia, Prefazione di S. An-toniazzi, Città Aperta Edizioni, Troina (En) 2007, pp. 94.

La parola democrazia attraversa tanto spesso il dire quotidiano, dai discorsi informali aimezzi di comunicazione, che può sorgere il sospetto di un’inflazione del termine nell’apparente

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ovvietà del suo significato. Ma che cosa rende veramente tale la democrazia? Se lo chiede Fran-co Riva nell’agile ma denso saggio Partecipazione e responsabilità. Un binomio vitale per la de-mocrazia, in cui l’attenzione fenomenologica al reale si coniuga al rigore della riflessione teoreti-ca. L’Autore, «scoprendo le carte» fin dalle prime pagine, mette il lettore nella condizione di segui-re agevolmente un discorso che nella seconda parte imbocca un sentiero inaspettato ma in realtà ad-ditato già nelle prime pagine: «Per democrazia si intende, prima ancora di una forma della con-vivenza, un luogo umano, etico» (p. 20).

Il binomio partecipazione e responsabilità del sottotitolo costituisce la linfa vitale della de-mocrazia, senza la cui sinergia essa diventa un guscio vuoto e senza vita: «il divaricarsi dei signi-ficati della responsabilità e della partecipazione denuncia l’interruzione di un rapporto e la crisidella convivenza democratica» (p. 24). Questo il fulcro concettuale del libro, apparentemente sem-plice eppure straordinariamente nuovo e fecondo per il pensiero e, aspetto non secondario, perl’azione, a condizione di saperne cogliere le ricadute pratiche. Preoccupazione, questa, non estra-nea agli intenti di fondo dell’Autore, come dimostra anche il contesto in cui le riflessioni propostenel volume sono nate: una serie di incontri promossi dall’associazione “Comunità e Lavoro” di Mi-lano – che tra i suoi scopi ha anche quello di formare cittadini consapevoli e indipendenti.

Facendo emergere a più riprese, ma in un modo ogni volta nuovo e diverso, la connessio-ne dialetticamente vitale tra partecipazione e responsabilità, Franco Riva mostra in modo argo-mentato come in democrazia non si può partecipare senza essere responsabili, così come non sipuò essere responsabili senza partecipare. Infatti la partecipazione senza responsabilità «[…] è ri-dotta ai modi dell’assenso e dell’applauso, della dimostrazione di forza, delle marce trionfali, ediventa episodica, strumentale, e perfino anonima» (p. 21), mentre, di rimando, «[…] la respon-sabilità separata dalla partecipazione viene intesa sempre più in un senso tecnico, funzionale, cheoscilla di continuo, anche in modo intrecciato, tra la competenza e l’efficienza» (p. 23). In realtàsepararle si può, a caro prezzo però: una democrazia in cui partecipazione e responsabilità non sisostengano e alimentino a vicenda continua a esistere nei modi di un meccanismo vuoto, di unfantoccio senz’anima, come dimostrano le difficoltà attuali in cui, in un reciproco svuotamento,ci si trova di fronte nello stesso tempo alla crisi della partecipazione e alle retoriche della respon-sabilità.

Giunto a questo snodo del discorso l’Autore non si sottrae ad un confronto breve ma ser-rato con le teorie sulla crisi della democrazia, accomunate, pur nel loro porsi da punti di vista di-versi, dal fatto di confondere «[…] la difficoltà con una smentita teorica o progettuale» (p. 49).Facilmente riconoscibili anche senza nome e cognome, le critiche descrivono una situazione difatto e quindi non criticano nulla, girando a vuoto nel dare «[…] voce a ciò che in qualche modosta già accadendo. Plausibilità di ciò che è già plausibile» (p. 51).

Pensata fino in fondo, la democrazia si mostra come un luogo originario dell’umano, equindi come un luogo etico. È qui che il discorso dell’Autore svela la sua vera natura: non l’en-nesima teoria politica o sociologica, ma una lettura filosofica in senso forte, originaria, si potreb-be dire, perché rinvia ad un modo di stare insieme, di convivere, e soprattutto ad una concezionedell’umano. Perciò la democrazia non può essere una forma di governo né perfetta né compiuta,come accade (fortunatamente, si potrebbe aggiungere) per tutto ciò che riguarda la vita dell’uo-mo. «[…] nell’imprecisione e nell’imperfezione della democrazia c’è una memoria resistente,ostinata, dell’umano. Memoria di pluralità e di partecipazione, ricordo di una corresponsabilità»

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(p. 65). Un’indicazione etica preziosa che può servire al politico di professione ma anche al sem-plice cittadino per tenere a distanza gli idoli «[…] della precisione e della perfezione come equi-valenti di ciò che è ‘buono’» (p. 64), con tutti i relativi disastri e le relative forme di violenza.

La riflessione di Franco Riva non si prospetta come un elogio della finitezza, ma si fon-da sulla consapevolezza forte della fragilità della democrazia, che va continuamente custodita,sperimentata, reinventata nel suo essere aperta, plurale, dinamica. «[…] La democrazia vive fuo-ri dalla definitività intoccabile della propria configurazione. […] L’apertura, piuttosto, è la suapossibilità» (p. 71). Tale apertura, propria dell’umano, originariamente plurale, si nutre contem-poraneamente di ragione e passione, senza che l’una costituisca una smentita o un intralcio perl’altra. La passione per la democrazia è un altro nome della passione per l’umano, ma una passio-ne critica, poiché si nutre della vigilanza della ragione che teme i pensieri a senso unico, tutte leforme di monologo e di imposizione. Proprio ciò che dovrebbe essere reso possibile dalla convi-venza democratica, luogo della voce del singolo uomo tra le voci di altri uomini.

Maria Pastrello

Finito di stampare nel mese di dicembre 2007ad opera della tipografia FERPENTA s.r.l.via R.G. di Montevecchio, 17 - Romaper conto di Euroma - La Goliardica