Boccaccio e La Tradizione Arturiana (1)
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FILOLOGIA ROMANZA:
BOCCACCIO E LA LETTERATURA ARTURIANA
QUESTIONE I: Boccaccio scrive opere in latino, e critica fortemente la decisione
di Dante di scrivere la Commedia, opera di argomento tanto alto, in volgare e
non in latino: ma anche lui affida quello che diventerà per i posteri il suo
capolavoro, il Decameron, al volgare. Perché? Qui entra in ballo un tema molto
importante, cioè la volontà/consapevolezza di un autore di superare la barriera
del tempo grazie alla fama raggiunta con il proprio lavoro. Nonostante le forti
critiche al volgare, e nonostante sicuramente Boccaccio dia l’autorità linguistica
al latino, non possiamo non pensare che egli contasse molto sul Decameron: la
sua attenzione dedicata alla struttura dell’opera, frutto di una forte e pensata
volontà compositiva *, la scelta di un volgare fortemente latineggiante, nonché la
cura dedicata all’inventiva di questa opera (a cui lavorerà per tutta la vita) non
lasciano dubbi sull’importanza e la considerazione per il suo progetto –
Decameron, è come se ci fosse un forte senso di responsabilità dietro la sua
dedizione a questa opera.
*questa volontà compositiva la troviamo in tutte e tre le grandi opere
trecentesche in volgare: nel Decameron, appunto, nella Commedia, e nel Rerum
Vulgarium Fragmenta.
QUESTIONE II: Boccaccio è un artista e letterato a tutto tondo, perché è scrittore,
copista, disegnatore (recentemente il prof. Curzi ha riportato alla luce, grazie
all’utilizzo della lampada di Wood, un disegno attribuito al Boccaccio e
raffigurante Omero, poi pubblicato sulla rivista “Critica del testo”),
commentatore e compilatore (conserviamo due suoi zibaldoni). Di lui abbiamo
numerosi autografi, e sappiamo che avesse a disposizione una fornitissima
biblioteca: il suo attaccamento ad essa, segnale di un umanesimo fortemente già
sentito, è testimoniato dal suo testamento, in cui Boccaccio affida ad un monaco
tutto ciò che della sua biblioteca è scritto in latino o in greco. Non sappiamo che
fine abbiano fatto i suoi libri in volgare, e soprattutto ci è sconosciuto il motivo
di questa sua attenzione esclusiva per la parte classica della biblioteca.
Il binomio Boccaccio–Dante è tra i più proficui e ricchi di stimoli nella storia
della letteratura italiana. Boccaccio ha commentato i primi 17 canti dell’Inferno
della Commedia, cercando di sciogliere quanto di ambiguo o implicito ci fosse: e
la scelta di accompagnare alla Commedia un commento, significa compararla
alle grandi opere classiche, perché fino ad allora erano degni di commento e
chiosatura solo i grandi testi dell’antichità e non di certo gli scritti in volgare.
Questa scelta ci dice che Dante, già nel XII secolo, era considerato un classico.
Leggere il Boccaccio commentatore di Dante vuol dire tener ben presente tutti i
commentatori che prima di lui si sono cimentati nell’impresa di spiegare i versi
della Commedia; e bisogna anche tenere ben presente che, prima di essere un
commentatore, Boccaccio è un autore – novelliere: spesso, nel commentare,
costruisce novelle, parte dal commento per novellare gli argomenti di Dante, ed è
questo ad esempio il caso di Paolo e Francesca. Dal commento di Boccaccio al V
canto dell’Inferno (Esposizioni sopra la Commedia) si capisce che l’autore
conoscesse bene i personaggi del ciclo arturiano, nonché i lais di Maria di
Francia (XII secolo): tuttavia non conosciamo il modo in cui Boccaccio ha
conosciuto questi testi, e soprattutto in quali versioni. Un canto come il V
dell’Inferno dà l’occasione (la “scusa”, per così dire) a Boccaccio di poter
parlare dei temi più svariati: il binomio amore-morte, per esempio, e Boccaccio
nel commento sa andare oltre quelli che sono i due grandi protagonisti del canto
(Paolo e Francesca) per attingere ad altri personaggi della classicità e non che
sono morti per amore. Mettendo a fuoco in particolare la tradizione arturiana,
Dante (e dopo di lui quindi Boccaccio) nomina Tristano (verso 67):
«Vedi Parìs, Tristano. (…)»
- Commedia, Inf. V, 67 -
(Tristano chiude l’elenco che Dante fa dei morti per amore, e apre la strada al
racconto di Paolo e Francesca: unico personaggio medievale dell’elenco, fa da
tramite, da ponte tra i personaggi della classicità e i due amanti contemporanei di
Dante).
Nel commento al personaggio di Tristano Boccaccio fa una sintesi quasi estrema,
ma si sofferma un po’ di più nella descrizione della sua MORTE: proprio gli
elementi di questa descrizione ci permettono di escludere alcune tra le fonti della
tradizione di Tristano. Ci dice Boccaccio, infatti, che i due amanti, proprio come
Paolo e Francesca, muoiono insieme, e cioè contemporaneamente. Ma sono gli
elementi della modalità in cui questa morte avviene che ci danno indizi
importanti per escludere alcune delle fonti della materia tristaniana come fonti
del Boccaccio, perché nel commento a Tristano viene accolta la versione più
“brutale” di questo avvenimento: quella, cioè, in cui è Tristano morente che
“uccide” Isotta stringendola a sé in un ultimo abbraccio, soffocandola, ed è
questa la versione dei romanzi arturiani in prosa e in francese. Nei
volgarizzamenti italiani questo episodio (che poteva essere considerato brutale,
perché in un certo senso si tratta di un delitto, un omicidio – anche se Isotta
acconsente, è felice di morire con il suo Tristano) viene per così dire “addolcito”,
e in un certo senso stravolto: perché non è Tristano a soffocare Isotta, ma è Isotta
stessa che muore di dolore, è una morte voluta e causata dall’incapacità di
continuare a vivere senza il suo amante (come nel Tristan di Thomas c’è l’idea
della morte di dolore di fronte alla morte dell’amato).
TESTI TRISTANIANI
La critica si è a lungo interrogata sul perché della fortuna particolare della storia
di Tristano e Isotta all’interno del ciclo arturiano, soprattutto se paragonata alla
vicenda di Ginevra e Lancillotto. Le risposte possono essere molteplici, ma due
ragionevoli ipotesi sono senza dubbio quella secondo cui ad attirare il grande
pubblico sarebbe stato l’alone di tristezza che circonda il personaggio di
Tristano, destinato fin dal momento della nascita a un futuro di sofferenza e
infelicità, e quella che tira in ballo la grande “santità” di questo personaggio
nonostante sé stesso: anche se si macchia di un peccato grave come l’adulterio,
Tristano resta sempre il migliore dei cavalieri, il più nobile e coraggioso,
valoroso e onorevole, che espierà con la morte tutte le sue colpe. In molti dei
manoscritti che riportano la storia di Tristano e Isotta c’è la tendenza a
giustificare il comportamento di Tristano soprattutto grazie all’espediente del
filtro d’amore che funge da “scusa”, e alla riabilitazione della sua persona.
«Tristan en prose» (1235): Se già la leggenda di Tristano e Isotta è tra le più
conosciute e amate dal pubblico italiano tra quelle dei “romanzi franceschi”, il
Roman de Tristan en prose gode a sua volta di una fama particolarmente estesa
rispetto ad altri testi che narrano questa stessa storia. Ha quindi avuto larghissima
fortuna in Italia (in particolare al nord e in Toscana), ne è testimonianza
l’esistenza di moltissimi manoscritti qui prodotti che riportano il testo in lingua
francese. La tradizione questi testi in lingua francese (copiati in Italia da copisti
italiani) è molto diffusa: si pensi che molti manoscritti appartenenti a questa
categoria sono precocissimi, risalgono già al XII secolo. Successivamente ne
sono stati prodotti molti volgarizzamenti in lingua italiana, ma noi sappiamo –
proprio attraverso il particolare del finale della morte di Tristano – che
sicuramente Boccaccio non si servì di questi ma di un testo in lingua originale.
Nel Tristan en prose ci si sofferma a lungo sull’episodio della morte di Tristano,
narrato e descritto come un lungo momento di agonia in una modalità che
ritroveremo anche in molti luoghi del Decameron. È la versione più brutale e
selvaggia, quella secondo cui è Tristano a uccidere Isotta soffocandola in un
ultimo abbraccio, ed è la stessa che Boccaccio accoglie nella novella che
costruisce a proposito dei due amanti più famosi della materia arturiana, nel suo
commento al V dell’Inferno. La tradizione italiana dei manoscritti del Tristan en
prose è fortemente TRISTANOCENTRICA/BIOGRAFICA: mentre nei
manoscritti francesi la storia di Tristano e Isotta è costellata di molte altre
avventure che precedono, accompagnano e seguono la vicenda di Tristano i
manoscritti italiani risultano al contrario epurati da queste storie-satellite, e si
concentrano maggiormente sul racconto biografico della vicenda di Tristano.
L’UNICA GROSSA NOVITÀ DI CONTENUTO È IL COLLEGAMENTO DELLA STORIA
DI TRISTANO CON LE VICENDE ARTURIANE: LA SECONDA PARTE DEL ROMANZO
VEDE TRISTANO DIVENTARE CAVALIERE DELLA TAVOLA ROTONDA. È costituita
da una serie di avventure e di peripezie che coinvolgono, in un inedito
compagnonnage accanto al protagonista, Yvain, Lancillotto, Perceval e Galvano:
queste avventure non sono inserite in alcun disegno compositivo, ma c’è il gusto
per l’avventura in libertà, per il “romanzo nel romanzo”. Grazie alla tecnica
dell’ENTRELACEMENT, caratteristica di questo tipo di “romanzo a incastro”,
serve proprio a inserire in una cornice narrativa più o meno ampia dei racconti
autonomi. Il Tristan en prose finisce per diventare modello delle più tarde
compilazioni romanzesche di materia bretone, anche dei Tristani italiani e della
Tavola Ritonda. PROLOGO: i nomi fittizi di autori presenti nel prologo
testimoniano una certa necessità di legittimare e di dare una “marca autoriale” al
testo. Chi scrive sente anche la necessità di legittimare la storia nella sua
veridicità (l’ espressione “sanz doutance” sottolinea la volontà di dare alla storia
realismo)attribuendone l’origine a un manoscritto latino: si insiste sul significato
di TRADUZIONE, la storia è stata riportata in francese per poter essere
comprensibile e quindi conosciuta da tutti: tradurre significa si portare la storia
ad un livello più “basso”, ma la traduzione nasce da un’attività di lettura e
rilettura con l’affermazione della quale l’autore si conferisce una certa erudizione
– in modo indiretto – , e si autodefinisce anche un “cavaliere amoroso e
bramoso”, ribadendo l’antica credenza secondo cui per parlare d’amore sia
necessario aver conosciuto Amore. L’autore inoltre afferma e sottolinea la
COMPLETEZZA della sua opera: completo significa esaustivo riguardo a un
argomento, si vuole che il romanzo raccolga tutto lo scibile esistente di una
determinata materia o personaggio, c’è ricerca di totalità. Si vuol fare di questa
materia romanzesca un libro unitario, quasi enciclopedico, che abbracci tutto ciò
che riguarda la materia arturiana: infatti, Tristano diventa qui uno dei Cavalieri
Celesti della Tavola Rotonda, la sua storia si lega quindi a quella di Artù, di
Lancillotto, e del Graal. Tristano viene spesso considerato un alterego di
Lancillotto proprio a causa delle comuni storie d’amore adultere; sono i due
personaggi più famosi e conosciuti del ciclo romanzesco oltre a Galaad (figlio di
Lancillotto e di una fanciulla con cui si è ritrovato a giacere a causa di un
equivoco, pensando che fosse la regina Ginevra), unico fra i tre a poter diventare
il cavaliere “senza macchia” proprio perché l’unico che non si macchierà con il
peccato dell’adulterio. Nelle parole dell’autore del Tristan en prose, Galaad serve
a creare il legame tra la vicenda del Graal e quella di Lancillotto e Tristano.
EPISODIO DEL RAPIMENTO DI LANCILLOTTO/TRISTANO DA PARTE DI MORGANA:
Morgana, per contrastare Artù, imprigiona Lancillotto tenendolo lontano da
Ginevra per un anno e mezzo. Durante questo periodo, lui dipinge sulle pareti
della sua prigione gli episodi più significativi della sua storia d’amore con
Ginevra. Quando anche Tristano sarà rapito dalla stessa Morgana, che ne è
innamorata, e rinchiuso nella stessa prigione, si commuoverà guardando le
avventure dipinte di Lancillotto e Ginevra: questi due episodi creano un legame
tra i due cavalieri, e un parallelismo tra rappresentazione visiva e scrittura (che
erano tra loro molto legate nell’era del manoscritto). EPISODIO DELL’INCONTRO
TRA LANCILLOTTO E TRISTANO: in questo breve brano entrambi i cavalieri si
collocano in un livello di “eccellenza assoluta”, entrambi vorrebbero rinunciare
all’onore della vittoria per concederla all’altro – gesto che simboleggia la
fratellanza fra stimabili cavalieri d’onore . Ricorre nelle loro parole il prefisso
entre- : i due sono alla pari, si parlano insieme, si abbracciano insieme, sono
come fratelli (e noi sappiamo qual è la più importante loro analogia, ovvero i
loro amori “peccaminosi”). Questo è il primo incontro tra questi due personaggi,
ma i due si conoscono già per fama perché sono i due più valorosi cavalieri della
Tavola Rotonda, la loro eccellenza li precede. DINADAN: questo personaggio,
che diventerà uno dei migliori amici di Tristano nel romanzo, si può definire un
personaggio-chiave perché incarna una visione del tutto particolare, la sua è una
voce alternativa. Rispetto alla comune esaltazione dell’amore, Dinadan si
discosta, e ne sottolinea la pericolosità: lui fugge l’amore perché da sempre è la
causa della caduta, della rovina anche dei più valorosi. Nel dialogo con Tristano
fa l’esempio di Kahedin, uno dei tanti valorosi cavalieri morti per amore (tra
l’altro, nella leggenda, è cognato di Tristano perché fratello di Isotta dalle
bianche mani, innamorato anche lui della regina Isotta la bionda) che, se non
fosse caduto nella rete della passione, sarebbe ancora vivo: Tristano gli risponde
presentando la visione dell’amore tipica del romanzo cortese, quella secondo cui
è solo questa grande passione la vera spinta che dà la forza ai cavalieri di
compiere le più grandi imprese. Un altro degli argomenti di cui Dinadan si serve
è quello della follia d’amore (elemento che scaturisce dal fatto che l’amore nasce
e si sviluppa nel pensiero, e quando ci si innamora si diventa folli perché si viene
fuori dalla mente, si diventa irrazionali). Dinadan rappresenta una visione
dell’amore che è scomparsa nel romanzo in versi, ma che aveva dominato nei
romanzi in prosa del ciclo arturiano: la sua presenza dà quindi occasione per
riflettere sulla questione amore nobilitante/amore forza distruttrice, e c’è chi si è
chiesto se la sua visione non rappresenti quella dell’autore. RE MARCO: questa
figura viene non a caso introdotta immediatamente dopo un lungo discorso sul
virtuoso ruolo del cavaliere valoroso. Non a caso, perché re Marco, marito di
Isotta e zio di Tristano, è nel Tristan en prose l’ ANTICAVALIERE per eccellenza,
figura antitetica rispetto a quella di re Artù, uomo vile e codardo connotato con
forte negatività che nella sua vita non ha saputo conquistare onore con nessun
gesto di coraggio se non quello (che di certo coraggioso poi non è) di uccidere
Tristano, il migliore dei cavalieri. SCENA DELLA MORTE DI TRISTANO: in questa
scena molti elementi riconducono alla forte codardia di re Marco, che colpisce
tristando quando è disarmato e do spalle, e che fugge poi, abbandonandolo
morente, perché lo teme anche se ferito. Alcuni manoscritti presentano la
variante del ferimento di Tristano «nelle anche», e non alla coscia: è interessante
perché le anche erano pensate come custodi degli organi genitali, quindi è come
se Tristano venisse colpito proprio nel luogo, in un certo senso, dell’origine e
causa della sua colpa. Mentre nei testi in versi la morte di Tristano aveva luogo
nella totale solitudine, nel Tristan en prose i suoi compagni e amici piangono
insieme a lui durante la sua agonia. Quando entra in scena Isotta, c’è nel Tristan
en prose la dichioarazione della scelta della regina di morire con il suo Tristano,
perché non può continuare a vivere pervasa da un dolore così grande: concetto
che sarà ripreso da Boccaccio nell’Elegia di madonna Fiammetta. Non solo
Isotta sceglie deliberatamente di morire, ma cerca e desidera fortemente la
condivisione della morte: un altro punto che suggestionerà estremamente
Boccaccio. L’amore si intreccia fortemente alla morte in questa scena, così come
anche l’onore: Tristano morente chiede ai suoi compagni che le sue armi
vengano esposte a Kamelot, i suoi ultimi pensieri sono quindi per il suo amore e
per il suo onore di cavaliere, simboleggiato dalle sue armi.
Il Tristan en prose è costruito sulla falsariga del Lancelot en prose (ma non solo:
il riferimento serve più che altro come “scusa” per far incontrare nella storia i
due eroi, Tristano e Lancillotto, ma in realtà questo romanzo ha come
background probabilmente tutti i libri sul ciclo arturiano): i due protagonisti
presentano moltissime analogie, ma anche numerose differenze. La più vistosa è
forse l’elemento della FATALITA’ dell’amore tra Tristano e Isotta (metaforizzato
nel filtro d’amore) che manca totalmente nell’innamoramento tra Ginevra e
Lancillotto. Un’altra differenza sostanziale è senza dubbio l’epilogo delle due
storie: l’uno finisce in tragedia, nell’altro c’è un pentimento e una ricerca di
riscatto e di redenzione da parte dei due amanti che cercano di espiare le loro
colpe ritirandosi in convento.
Il Tristan en prose presenta poi forti differenze anche con i romanzi in versi, nei
quali troviamo una visione dell’amore dalla forte connotazione negativa: è
deleterio per le sorti dei grandi cavalieri che, quando cadono nella sua trappola,
perdono il loro onore e spesso anche la vita; la versione in prosa è invece più
affine alla visione cortese/trobadorica di un sentimento visto come forza motrice
dell’onore del cavaliere, stimolo positivo per l’uomo che sotto la sua spinta
compie le migliori delle imprese.
Era usanza nei manoscritti francesi della storia di Tristano esordire con una
parentesi sugli antenati del protagonista, usanza che non trova un riscontro nei
volgarizzamenti italiani, ma che troviamo invece in Boccaccio.
«Tavola ritonda» (metà XII sec./inizi XIII sec.): in questa versione italiana della
materia arturiana salta subito all’occhio la mancanza dell’intreccio tipico del
romanzo francese (ma nel testo della Meneghetti si dice che la tecnica
dell’entrelacement riprende nella Tavola Ritonda un certo vigore). La Tavola
Ritonda sembra più una sorta di INDICE ANALITICO degli argomenti della storia
che verrà narrata. La Tavola Ritonda costituisce la prima grande opera narrativa
italiana in grado di uscire dalla condizione servile della traduzione, e il primo
tentativo italiano di creare un « sapere enciclopedico», nel senso di vastamente
rappresentativo, di un ambiente, dei suoi ideali, della sua cultura. Da notare è
come tutto ciò che riguarda Tristano sia qui rappresentato come superlativo, fino
al punto di definire perfino il suo innamoramento “perfettissimo”. Tristano viene
ricordato come il cavaliere per eccellenza, nella tradizione italiana assistiamo
alla più totale e completa assoluzione e giustificazione di questo personaggio: il
FILTRO D’AMORE gli ha costretto il CUORE, sede di tutte le volontà, e il pensiero
stesso. L’autore anonimo di questo famoso cantare arturiano in lingua italiana
cambia e “addolcisce” il finale della leggenda di Tristano, narrando come la
regina Isotta si lasci morire di dolore insieme all’amato; manca del tutto, quindi,
l’episodio del soffocamento riportato invece nel Tristan en prose.
COMMENTI ALLA «COMMEDIA»
Ottimo commento (1330) in questo commento, le vicende di Paolo e Francesca e
di Tristano e Isotta sono bollate non come semplici episodi di ADULTERIO, ma,
molto peggio, come casi di INCESTO, cosa che Boccaccio non sottolinea mai, in
nessuno dei due casi. Al contrario, si può sicuramente affermare che Boccaccio
sia uno dei primi che giustifica e difende Francesca nel suo essere “peccatrice
nonostante sé stessa”, e , attraverso di lei, filtra anche la difesa di Tristano e di
Isotta. L’Ottimo commento è molto dettagliato, riporta particolari che Boccaccio
omette nelle sue Esposizioni (come la SCELTA di Isotta, che accondiscende a
morire con Tristano); a proposito dei due amanti del ciclo arturiano, poi, l’autore
dell’Ottimo commento ci dice che la loro vicenda è talmente nota, che Dante non
ha sentito il bisogno di soffermarsi nel raccontarla (limitandosi, come è noto, alla
sola menzione di Tristano). La stessa affermazione la ritroviamo nel commento
di Guido da Pisa (in latino). Soffermandoci un momento sul personaggio di
Paolo, vediamo come nell’Ottimo commento venga fuori una caratteristica della
sua persona topica del ritratto dell’amante-tipo così come è descritto nel trattato
De Amore di Cappellano: e cioè, il fatto che per essere dei grandi amatori, per
dedicarsi all’amore, non si debba essere troppo presi da altre attività (come la
guerra, ad esempio); infatti Paolo è secondo l’autore dell’ Ottimo commento
«(…) acconcio più a riposo, che a travaglio». Il libro, in fine, e la lettura in
genere quindi, sono la spinta secondo questo commento a venire all’atto della
lussuria.
Commento dell’Anonimo fiorentino (fine XIV sec.): in questo commento
troviamo un dettaglio che ancora accomuna le due vicende di Paolo e Francesca
e di Tristano e Isotta, e cioè il fatto che entrambe le coppie di amanti vengano
scoperte mentre si stanno dedicando, per così dire, all’ARTE in genere (Paolo e
Francesca stanno leggendo, Tristano sta suonando un’arpa). Questo commento
non si sofferma invece sulle circostanze esatte della morte di Isotta, non ci dice
cioè se è morta di dolore, o per l’intervento di Tristano, ma si limita a dire che
“morirono l’uno nelle braccia dell’altro”: è possibile che l’autore fosse a
conoscenza ancora di altri finali, attraverso altri testi che riportano la stessa
vicenda.
Commento di Francesco da Buti (1394): questo commentatore scrive una ventina
d’anni dopo il Boccaccio. Cogliamo nel suo commento alcuni elementi da
sottolineare, come la premeditazione dell’omicidio di Tristano da parte di re
Marco (che utilizza una lancia avvelenata), così come narrano anche i Cantari
arturiani, e il fatto che i due amanti vengano scoperti mentre si trovano soli in
una CAMERA: quindi non intenti in attività nobili come detto precedentemente
(leggere, suonare l’arpa), ma colti proprio nell’atto del tradimento. Secondo
questo commentatore, poi, la morte di Tristano non sarebbe immediatamente
successiva all’agguato, ma avverrebbe dopo del tempo.
Dall’analisi di questi testi viene fuori la grande fortuna della materia arturiana in
Italia, e la grande diffusione quindi dei testi francesi che la riportano, avvenuta
soprattutto tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo (basti pensare che almeno
25 dei 100 manoscritti di materia arturiana sono si scritti in lingua francese, ma
realizzati in Italia da copisti italiani). Viene anche fuori il fatto che Boccaccio
abbia sicuramente letto la storia di Isotta e Tristano nella lingua originale, e non
in qualche volgarizzamento. Sappiamo poi che Boccaccio abbia riflettuto
“poeticamente” sulla letteratura a lui precedente, a partire dai classici fino ai
romanzi francesi. Egli mostra, rispetto alle sue fonti, di essere influenzato e
guidato da Dante. Una delle questioni che sicuramente più affascina Boccaccio, e
la seduzione esercitata dal fascino emulativo del LIBRO: il problema della
letteratura sono anche le emozioni e sensazioni che essa suscita, le riflessioni che
da essa scaturiscono. Proprio questa è una delle questioni su cui maggiormente
l’autore si sofferma nell’ Elegia di madonna Fiammetta.
ELEGIA DI MADONNA FIAMMETTA
INTRODUZIONE
L’incipit di questo testo di Boccaccio, risalente agli anni ’43-’44, è
espressamente indirizzato alle donne perché sono coloro che per eccellenza
hanno “intelletto d’amore”. C’è un continuo richiamo alle LETTURA, e, a
proposito dei generi letterari, si dice che il testo che segue non è fittizio, non
riguarda guerre o battaglie, ma è un testo che parla di amore. Il tema del
DESIDERIO che qui spesso ricorre è topico della tradizione amorosa medievale
più che di quella classica, perché risente della spiritualità e dello spirito della
cristianità. Tipica della visione romanzesca è invece la descrizione della FISICITÀ
dell’amore, una passione che si manifesta in modo evidente in una
sintomatologia che diviene topica in questo periodo (perdita della fame e del
sonno, inerzia e pigrizia, sospirare continuo, …).
Fiammetta fa una sorta di invocazione all’inizio del suo discorso, chiede aiuto
affinché la sua memoria venga sostenuta e la sua mano stimolata: è questo un
esplicito rifacimento a Dante, particolare perché la stessa invocazione che
inaugurava un poema sulla salvezza umana (in Par. XXXIII vv. 67-72 Dante la
fa affinché riesca a ricordare e raccontare degnamente la sublimità di ciò che ha
visto in Paradiso) inaugura qui un testo frivolo, che parla di amore, un amore per
giunta adultero. Si tratta contemporaneamente di un capovolgimento del senso, e
di un abbassamento drastico del livello.
Uno dei grandi temi elaborati dal Boccaccio in questa sua opera è quello della
FATALITÀ dell’amore: l’autore si discosta anche un po’ dalla grande tradizione,
perché Fiammetta non rappresenta esattamente lo stereotipo della
MALMARITATA (visto che si è sposata per amore e con un uomo giovane e bello
che le vuol bene e la rispetta); in un certo senso, manca una legittimazione
all’adulterio.
La figura della BALIA è topica della letteratura classica: anziana, di lunga
esperienza, ha conosciuto l’amore e di conseguenza sa riconoscerlo negli altri.
Infatti, legge in Fiammetta la MALINCONIA, sintomo della malattia amorosa che
si manifesta attraverso l’apatia, i sospiri, la mente afflitta dai pensieri. La scena
del dialogo tra Fiammetta e la balia riprende quella dell’Eneide in cui Didone
confessa alla sorella Anna la sua tormentata passione per Enea: C’È UNA FORTE
SEDIMENTAZIONE DI FONTI CLASSICHE E NON IN BOCCACCIO. Altra citazione
virgiliana, questa volta quasi letterale, è quella che riprende del IV libro
dell’Eneide, sempre nel dialogo tra Anna e Didone, l’esclamazione della regina
che dichiara di preferire che il Tartaro la inghiotta, piuttosto che tradire il caro
marito Sicheo e il giuramento fatto. La parola “sciocchezza” che la balia riferisce
all’amore di Fiammetta per Panfilo ha qui un senso più forte di ciò che sembra,
vuol dire errore, sconvenienza, non frivolezza. Nelle parole della balia il campo
semantico allude fortemente alla servitù/schiavitù dell’amore, che è un crudele
TIRANNO. Quando colpisce non c’è scampo: qui il riferimento esplicito è a
Petrarca, ma anche alla tradizione romanzesca provenzale, in cui tema
fondamentale è quello della SCELTA dell’amore e la capacità di esercitarla o
meno, nonché l’utilizzo della RAGIONE dopo il manifestarsi della passione
amorosa (c’è ancora qui molto del V dell’Inferno, in cui i dannati sono
condannati perché hanno sottomesso la ragione al desiderio).
Infine, c’è ancora una ripresa del De Amore di Cappellano: ciò che alimenta
l’amore, dice Boccaccio, sono i LUNGHI PENSIERI. Sottolinea poi che l’amore è
una malattia, un’ossessione mentale, una follia, un eccesso portato alle sue
estreme conseguenze.
CAPITOLO VIII
In questo capitolo Fiammetta, temendo che il suo amato Panfilo l’abbia
dimenticata e sia ora innamorato di un’altra donna, fa un elenco di tutti i
personaggi della letteratura, sia classica che romanza (arturiana, provenzale,
medievale), che hanno sofferto per amore. La donna sottolinea come solo chi ha
amato può parlare d’amore o comprendere il parlar d’amore. Un nuovo elemento
messo in luce da Fiammetta in questo capitolo è quello del TEMPO: l’amore non
dà tempo, perché la passione consuma, brucia, ed è fuori da ogni ragione.
Boccaccio dà grande importanza alla letteratura arturiana: fa ricordare a
Fiammetta la vicenda di Tristano e Isotta, amanti esemplari secondo l’autore,
eccezionali nella loro scelta di una MORTE PER DILETTO, cioè una morte scelta,
consapevole, voluta e comune.
Qui come nell’Amorosa Visione Boccaccio, nominando le celebri morti d’amore
o semplicemente i famosi amanti della letteratura, costruisce un CANONE di
personaggi, proprio come quello di Inf. V. Nella rassegna di Fiammetta ci sono
moltissimi personaggi della letteratura e del mondo classico, riscontrabili
soprattutto nelle Metamorfosi di Ovidio (autore cha ha dal XII secolo in poi una
straordinaria fortuna pari quasi a quella di Virgilio). Anche lo stile della prosa è
latineggiante. Nel canone di Boccaccio c’è molta letteratura, ma attentamente
filtrata da una scelta mirata e consapevole che deriva da una grande conoscenza:
Fiammetta infatti usa il verbo «ricercare». Quando inizia il suo elenco dice
proprio che «figura», cioè vede chiaramente, con l’occhio interiore della
memoria, ripercorre dentro di sé le storie che racconta. Anche andando avanti,
Boccaccio insiste sulla VISUALIZZAZIONE dei personaggi («mi si para
davanti»), ma tutto ciò di cui Fiammetta parla è costantemente riportato a sé
stessa e alla propria esperienza personale, c’è un continuo scambio tra la storia
dei personaggi e ciò che è capitato a lei (c’è una grande presenza di
aggettivi/pronomi possessivi).
Dopo Io e Giove, che aprono la rassegna, Fiammetta parla di Mirra, Biblis e
Canace: tre personaggi, tre donne, macchiatesi del peccato dell’incesto che solo
nella MORTE hanno trovato la pace. Come loro, così anche tutti gli altri
personaggi del canone di Fiammetta hanno dalla loro parte questo vantaggio, e
cioè che la loro sofferenza seppure insopportabile ha trovato presto una fine nella
morte: Fiammetta invece, mantenuta in vita dalla labile speranza di rivedere un
giorno, anche nella vecchiaia, il suo Panfilo, non ha il coraggio di spezzare la sua
esistenza e di porre quindi fine ai suoi tormenti. È destinata a una lunga agonia, e
si sente quindi di gran lunga più sfortunata. Quando Fiammetta parla di queste
tre eroine della classicità accomunate dal peccato dell’incesto, l’aggettivazione
si fa fortemente negativa, e da ciò traspare la condanna di Boccaccio a questi
amori peccaminosi.
Nel narrare in seguito la vicenda di Piramo e Tisbe (ripresa anche nella
letteratura romanza in un poemetto del 1160), Boccaccio insiste molto, questa
volta, sul forte coinvolgimento di Fiammetta che sente, si identifica nel
sentimento dei due amanti che sembrano prendere vita nel suo racconto. Altra
amante con cui si identifica particolarmente è Didone: nel passo in cui si parla
della regina di Cartagine forte è la ripresa del libro IV dell’Eneide di cui è
protagonista (alcuni passi sono ripresi fedelmente, come l’incipit che vede la
regina prima imponente, impegnata nell’edificazione della città, e poi vittima
quando si lascia trasportare dalla forza distruttrice di amore; oppure il passo in
cui Didone guarda allontanarsi la flotta di Enea, prima di uccidersi) e anche qui
risalta la sintassi fortemente latineggiante. L’amore che Didone prova per Enea è
una forza dirompente ma negativa, distruttrice: questa è un’idea tipica della
letteratura romanza d’amore. Le impedisce di dedicarsi al suo regno, la rende
adultera, fedifraga, spergiura nei confronti di Sicheo, infine la porta al suicidio: e
qui come in altri casi Fiammetta invidia nel personaggio di cui parla la morte
che, giunta prontamente, cessa le sofferenze d’amore che invece lei è destinata a
patire a lungo. L’espressione qui usata “essere presa della sua forma”, riferita a
Didone, è chiaramente un calco di Inf. V, 101 “prese costui de la bella persona”:
continua il costante riferimento al canone dantesco degli amanti.
Fiammetta passa a narrare le vicende di Ero e Leandro, che precedono quelle di
Tristano e Isotta di cui anticipano alcuni elementi: ad esempio, il MARE come
grande METAFORA DELL’AMORE, la morte che è una morte scelta e che
“abbraccia” i due amanti insieme, contemporaneamente. Nel pensiero Fiammetta
si immedesima in questa storia: il PENSIERO è il luogo dove l’amore nasce,
cresce e si alimenta, nonché il luogo appunto dell’immedesimazione.
Tristano e Isotta sono, come in Dante, gli unici due personaggi presenti nel
canone e non appartenenti alla letteratura classica. Dopo di loro l’elenco si
allarga letterariamente e geograficamente (ciclo troiano, ciclo tebano, ciclo
bretone, mondo della romanità): vediamo Giocasta e Fedra, con le quali si
ripropone il tema dell’incesto, poi Ecuba, Sofonisba, Cornelia e Cleopatra.
Ma perché in tutto il canone Boccaccio sceglie di uscire dal mondo classico solo
attraverso la citazione di Tristano e Isotta (esattamente come aveva fatto Dante)?
La risposta risiede nel fatto che questa vicenda presenta alcune somiglianze con
un certo tipo di vicenda amorosa classica (la fatalità di un amore non voluto e
non cercato, impossibile da contrastare; la morte comune, contemporanea,
consapevole voluta e cercata; …), ma anche, più semplicemente, nel fatto che
Boccaccio volesse nobilitare questi materiali volgari da lui considerati all’altezza
dei classici. Ne è una conferma il fatto che nei suoi commenti, quando scrive a
proposito dei testi volgari da lui amati, lo fa in LATINO (come Dante che, nel De
vulgari eloquentia, inserisce il ciclo bretone e quello carolingio tra i classici) .
AMOROSA VISIONE (anni’40 del Trecento)
Si tratta di un poema allegorico diviso in 50 canti e scritto in terza rima. Molte
sono le analogie che lo fanno sembrare una sorta di «mezza Commedia», come
ad esempio il fatto che a fare da guida al protagonista che visita le sale i un
nobile castello sia una donna gentile. Sia a livello di macrostruttura che a livello
di microstruttura c’è un continuo riferimento a Dante e alla Commedia, che
sembra trapelare in ogni punto: ne è un esempio la tecnica ripresa da Dante di
mettere in RIMA i nomi di persona e i toponimi; spesso, proprio come in Dante,
si tratta di nomi su cui Boccaccio vuole porre una certa rilevanza ed evidenza.
Nell’elenco dei personaggi Boccaccio si rifà a Dante quando descrive i
personaggi epici, soprattutto nella descrizione della loro andatura. In questa
opera Boccaccio gioca molto con il tema dell’APPROCCIO VISIVO (vedi il titolo,
in cui c’è la forte componente figurativa implicitamente esposta dal Boccaccio):
il protagonista visita le sale affrescate del castello osservando i vari trionfi. Fa
parte della concezione del libro di Boccaccio la forte figuratività, l’importanza
del dato visivo; non dimentichiamo che lui stesso è stato un abile disegnatore.
Nell’ Amorosa visione c’è molto dei Trionfi di Petrarca, del rapporto stretto che
intercorreva tra i due autori, c’è molto di ciò che li accomuna (come il dualismo
latino/volgare). La critica ha anche ipotizzato che le due opere si siano
influenzate a vicenda: i Trionfi del Petrarca sono stati scritti tra la prima e la
seconda redazione dell’Amorosa visione del Boccaccio, si è creato perciò una
sorta di andamento circolare per cui la prima redazione dell’Amorosa visione ha
influenzato in qualche modo l’opera del Petrarca, la quale a sua volta ha messo
del suo nella seconda redazione del Boccaccio. Da notare è che la seconda
redazione dell’Amorosa visione non è conservata oggi in nessun manoscritto, ma
solo in alcune cinquecentine: a lungo si è anche ritenuto che la versione rivista
nelle cinquecentine non fosse del Boccaccio, ma fosse opera di qualche revisore
dell’epoca della stampa, ma non è di sicuro così.
CANTO XI
C’è una sorta di ordine intrinseco nell’elenco dei personaggi: Boccaccio nomina
prima personaggi dell’antichità classica, greca e romana, poi i personaggi dei
romanzi arturiani, infine personaggi storici “moderni” dell’epoca carolingia:
troviamo quindi insieme personaggi storici e fittizi, o protagonisti della
letteratura, insieme, e c’è la volontà di elevare e nobilitare i personaggi del ciclo
arturiano. In questo canto, il Boccaccio fa “sfilare” tutti i cavalieri della tavola
rotonda, qui simbolo sì del romanzo francese e arturiano, ma anche di parità, di
giustizia, dei valori della cavalleria. Quando Boccaccio dice che Perceval e
Galeotto seguivano Bordo «a picciol passo insieme ragionando», fa un
riferimento forte a Inf. IV, 97 («Da ch’ebber ragionato insieme alquanto»,
riferito a Omero, Orazio, Ovidio e Lucano), assimilando i personaggi del
ciclo arturiano agli spiriti magni del limbo dantesco. Lancillotto si presenta
armato (simbolo del suo essere cavaliere), grazioso (come tutti coloro toccati da
amore) e soprattutto ansioso di stare al passo con Ginevra; anche «sanza far
motto», espressione riferita a Lancillotto, è una citazione dantesca. La Ginevra di
Boccaccio contrasta con quella del romanzo francese perché è descritta come
pietosa, mentre incede lentamente e parla sottovoce: somiglia più a uno spirito
magno dell’Inf. IV che alla Ginevra del ciclo arturiano. L’elenco continua con
tutta una serie di personaggi arturiani, fino ad arrivare a Tristano, apostrofato
come «’l buon Tristan» in una concezione erede della tradizione italiana. Una
ripresa del V canto dell’Inferno sta nell’aggettivo «offesa» riferito a Isotta: è
tipico di coloro che si sono macchiati del peccato di LUSSURIA, anche Francesca
lo rimanda. Come sempre quando Boccaccio nomina Tristano e Isotta sottolinea
il forte senso della carnalità/fisicità dell’amore. Seguono i personaggi dell’epoca
carolingia. Li vediamo associati a sintagmi piuttosto fissi, simili agli epiteti tipici
dell’epica classica, che servono a creare una certa unione, una catena di
personaggi accomunati dal loro essere grandi cavalieri. È un fatto particolare che
i personaggi del ciclo arturiano siano inseriti tra due schiere di personaggi storici,
quelli dell’epoca classica prima, quelli dell’epoca carolingia poi. Nella memoria
del Boccaccio agiscono contemporaneamente spunti dalle sue opere e dalle opere
arturiane. Da molti elementi possiamo dedurre che Boccaccio voglia mettersi
sulla scia dei romanzi francesi. La ricezione tristaniana è notevole e particolare
perché si mescola con i personaggi arturiani: il mondo tristaniano e quello
arturiano si sovrappongono in Boccaccio.
IL CORBACCIO
È un testo del periodo della maturità del Boccaccio, in cui si fa e si sente più
marcata la sua misoginia. Anche in questa opera si riflette sul libro come veicolo
di relazioni, di atti e di gesti; Boccaccio qui si colloca nuovamente sulla scia
dantesca, ripartendo ancora una volta dal canto V dell’Inferno. Oltre alla
misoginia, altro tratto caratteristico delle opere della maturità boccacciana – e
quindi anche del Corbaccio – è il forte moralismo. È un testo particolare della
tradizione boccacciana, proprio perché la misoginia che qui si scatena è in forte
contrasto con altre ideologie manifestate in altre opere del Boccaccio: ad
esempio, con la sua strenua difesa della Francesca dantesca. Si tratta o di due
anime che convivono nello stesso uomo, o di una semplice misurazione di
Boccaccio con un genere della tradizione che però non gli appartiene, quello
della satira contro le donne e i loro vizi.
Datato intorno al 1365, il Corbaccio è la storia di un uomo innamorato di una
vedova. L’apparizione del defunto marito della donna aprirà all’innamorato gli
occhi sulla nefandezza della donna, e più in particolare di tutte le donne. La
vedova appare condizionata, corrotta da alcune sue LETTURE: si parla, in
sostanza, dell’utilizzo che si può fare della lettura di determinati libri. È questo
un discorso che si protrarrà fino alla narrativa ottocentesca.
Boccaccio insiste sempre sulla forza del pensiero: non c’è possibilità di amare se
non si pensa. C’è poi l’idea della SOLITUDINE, situazione grazie alla quale
l’uomo può ritornare in sé stesso o divenire facile preda dell’immaginazione: è la
solitudine che rende gli amanti pericolosi, e la CAMERA è l’ambiente per
eccellenza in cui si evocano i pensieri degli amanti. Nel pensiero del protagonista
innamorato c’è la manifestazione esterna dell’amore, c’è il pensiero dell’amore
carnale, c’è il tema della crudeltà dell’amore che NON viene scelto (come ne l’
Elegia di madonna Fiammetta), c’è il topos dell’amore che porta alla pazzia, che
è malattia, e quello dell’amore assoluto che porta ad amare l’altro più della
propria stessa vita. Si insiste molto sulla fenomenologia della sofferenza
d’amore, che causa non solo semplice “lacrimare”, ma anche il pianto, il battersi
il petto, … c’è poi l’idea della morte tanto attesa che tarda ad arrivare, come se
anch’essa fosse un’ “amante crudele” che fugge ed è rincorsa perché è l’unica in
grado di lenire il dolore dell’innamorato.
Quando il marito defunto si palesa e prende parola nomina i «ROMANZI
FRANCESCHI» (esaltati sia sul piano amoroso che su quello avventuroso). Nel
parlare del ruolo del libro, il Boccaccio abbandona la reticenza dantesca e dice
chiaramente ciò che la donna immagina leggendo di Lancillotto e Ginevra, e di
Tristano e Isotta: è forte il POTERE VISUALIZZANTE DELLA LETTERATURA. La
figura della vedova si rifà probabilmente a canzoni tardo-latine in cui era
fortemente presente lo stereotipo della “vedova lussuriosa”. Ci sono poi ricchi
riferimenti a libri molto diversi tra loro: «Ansalone», ad esempio, uno dei
numerosi amanti della vedova, è un personaggio biblico famoso per la sua non
comune bellezza.
Nel Corbaccio emerge l’idea della corruzione dell’animo dell’uomo, che è la
donna a scatenare. È questo un tema che nei romanzi francesi arriva fino alle
estreme conseguenze con l’idea che la colpa non si fermi all’atto del
tradimento, ma si allarghi e coinvolga più persone (ad esempio, nei romanzi
arturiani, Mordred, colui che ucciderà Artù e sarà causa della fine del suo regno,
è frutto di un tradimento e di un incesto, figlio del re e dei una sua sorellastra).
DECAMERON
INFLUENZA DELLA MATERIA ARTURIANA NEL DECAMERON:
GIORNATA VII, NOVELLA 7
Anche se c’è tutto un filone di novelle che riprende il TEMA DELL’ADULTERIO
(in chiave comica), l’esempio più chiaro nel Decameron di una ripresa dalla
materia arturiana è la novella di Lodovico e Beatrice. Si tratta di una novella
dall’apparente struttura bipartita, composta da una prima parte di genere cortese-
cavalleresco, e da una seconda più comica- burlesca. In realtà però questa
bipartizione è solo apparente, perché un’attenta rilettura dell’intertesto
tristaniano della novella dà coesione e unità alla struttura: il filo rosso della
vicenda tristaniana conduce tutta la novella. Nella prima parte, volendo
comunque seguire questa apparente bipartizione, si coglie fin dall’incipit il
topico TEMA DELL’INNAMORAMENTO PER FAMA: il protagonista della novella,
Lodovico, sente parlare di Beatrice (la scelta dei nomi in Boccaccio non è MAI
casuale), una donna bolognese bella oltre ogni misura, e per la prima volta in vita
sua si innamora a tal punto da non poter resistere al desiderio di vederla (altro
motivo topico nella letteratura: il giovinetto che non ha mai conosciuto amore).
In tutto ciò c’è qualcosa dell’ ANALISI DELL’ANIMO UMANO propria di Jaufre
Rudels (1125-1148, poeta e trovatore francese) e delle sue canzoni, nelle quali si
insiste molto più sull’IMPORTANZA DEL DESIDERIO nell’innamoramento
che sulla sua realizzazione: anche Boccaccio insiste molto su questo tema del
desiderio («La qual cosa ascoltando Lodovico, che d'alcuna ancora inamorato
non s'era, s'accese in tanto disidero di doverla vedere, che a altro non poteva
tenere il suo pensiere»). Un riferimento molto più esplicito a Jaufre sta nel fatto
che Lodovico sente parlare di Beatrice da alcuni uomini che erano di ritorno da
un pellegrinaggio al Santo Sepolcro: nella vida in cui si narra la stroria della vita
di Rudels, si racconta che il poeta si era follemente innamorato della contessa di
Tripoli (anche stavolta, senza averla mai vista) e che spinto dal desiderio di
vederla era partito per la Crociata; ammalatosi durante il viaggio, poi Jaufre
riuscirà ad arrivare e a morire, felice, tra le braccia dell’amata. C’è quindi nella
novella un riecheggiamento del luogo del Sepolcro. Nella vida di Jaufre Rudels
ci sono molti elementi tristaniani: il tema del mare, la morte in un ultimo
abbraccio, … È quindi probabile che Boccaccio sia venuto a conoscenza della
vicenda di Jaufre dalle vidas provenzali, e non dalle sue stesse canzoni (che
hanno avuto una tradizione scarsa in Italia, e tarda rispetto a Boccaccio).
Quando Lodovico parte per Bologna, deciso a vedere l’amata Beatrice, cambia
identità e prende il nome di «Anichino» che, al solito in Boccaccio, non è un
nome sterile ma ha precedenti letterari nel genere però della letteratura comica,
bassa (molto più bassa sia del riferimento a Dante che di quello a Jaufre). Anche
cambiar nome è una ripresa di un espediente di cui sono ricchi i testi tristaniani:
lo fa Tristano quando deve avvicinarsi ad Isotta, e il TEMA DEL NOME si
mostra in questi romanzi anche nella ricorrenza e ripetizione degli stessi nomi
per diversi personaggi (ad esempio, ci sono tre Isotta: l’amante di Tristano, la
donna che poi sposerà, la madre stessa di Isotta, colei che fabbricherà il filtro
d’amore). Ma c’è un’importante differenza da sottolineare: Tristano cambia
spesso nome, mostrandosi sotto mentite spoglie, ma non lo fa mai
completamente, ricorrendo il più delle volte ad anagrammi («Tantris»); Tristano
cambia il suo nome ma non lo altera completamente, così come non rinnega la
sua identità e non cambia il suo destino soprattutto. Lodovico invece attinge il
suo nuovo nome da un contesto estremamente diverso dal suo, prende una nuova
strada, cambia vita, e passa dalla condizione di ricco cortigiano a quella di servo
per potersi avvicinare a Beatrice.
Si insiste molto nella novella di Boccaccio sul fatto che Lodovico stringa un
legame forte con il marito della donna, per potersi avvicinare a lei: entra come
servo nella casa di Egano (e qui la COMPONENTE PARODICA è forte, se si pensa
che nella visione cortese l’amore era visto come un “servizio”): il richiamo al
rapporto tra re Marco e Tristano è forte. Anche se in questo caso ad entrare in
ballo era un legame di sangue, sappiamo che tanta era la stima riposta nel
giovane nipote dal re da scatenare spesso le invidie dei baroni e degli altri
cavalieri: allo stesso modo Lodovico / Anichino con la sua ABILITÀ (tema caro
a Boccaccio quello della capacità dei suoi protagonisti di sapersi industriare, di
crearsi la fortuna con le loro abilità e capacità) sa entrare nelle grazie di Egano a
tal punto da diventare il migliore dei suoi servi, il suo servizio è indispensabile
ormai al padrone. C’è quindi un contrasto tra il legame di sangue e il legame di
servitù, ma tutto sommato le due situazioni che si vengono a creare sono
analoghe.
Dall’innamoramento per fama, si passa nella novella di Boccaccio a un continuo
tentativo di Lodovico di creare situazioni in cui può vedere, avvicinarsi e stare
con la donna amata: inizia il rovesciamento parodico della situazione tipica
dell’amor cortese, che diventa situazione tipica del genere comico-burlesco con
il tema della BEFFA.
Il GIOCO DEGLI SCACCHI è nella letteratura amorosa medievale METAFORA
DELLA BATTAGLIA D’AMORE: anche Tristano e Isotta si innamorano giocando a
scacchi, anche se nel loro caso la situazione è diversa a causa della presenza del
filtro d’amore. Mentre Lodovico/Anichino e Beatrice giocano a scacchi, la donna
ancora non sospetta minimamente di lui: come Paolo e Francesca, i due si
ritrovano a passare del tempo insieme «soli (…)e sanza alcun sospetto». Nel
narrare la partita a scacchi Boccaccio insiste molto sul tema dei SOSPIRI, topico
della narrativa d’amore così come quello della SEGRETEZZA DELL’AMORE, che
Lodovico chiede a Beatrice dopo essersi dichiarato; le chiede poi di avere PIETÀ
di lui, che umilmente si accontenterà anche se solo lei gli concederà di
continuare ad amarla senza essere corrisposto (tema quest’ultimo presente nella
lirica di Jaufre Rudels).
È interessante vedere come Boccaccio elimini totalmente nella sua novella
l’elemento principale e portante della vicenda di Tristano e Isotta, e cioè la
FATALITÀ dell’innamoramento concretizzata nell’episodio del FILTRO D’AMORE.
L’innamoramento nella novella è invece imbevuto di TEMPO: c’è un tempo per
innamorarsi, un tempo per dichiararsi, un tempo per i sospiri, un tempo in fine
per consumare l’amore.
Nelle parole di risposta a Lodovico, c’è in Beatrice un’insistenza sul fatto che in
«poco spazio» (vedi Francesca da Rimini: «(…) ratto s’apprende») – anche se in
realtà Boccaccio ci dice che Beatrice osservava Anichino già da un po’ –, cioè in
poco tempo, Anichino sia riuscita a farla diventare più sua che propria: e questo
è un altro topos della lirica trobadorica, il fatto cioè, che quando ci si innamora si
finisca per appartenere completamente alla persona amata. L’amore, viene detto,
si riceve “nella MENTE”: ancora qui riemergono punti-chiave della letteratura
amorosa trecentesca, come il fatto che l’amore nasca e si nutra nel pensiero.
Un riferimento esplicito al Lancelot en prose sta nell’episodio del bacio dato
come PEGNO D’AMORE, e nel fatto che sia la donna a baciare l’uomo, come nel
caso di Lancillotto e Ginevra: qui però, l’iniziativa della donna si fa molto
esplicita e assume tratti comico-parodistici perché con insistenza Beatrice non
offre solo il suo amore, ma offre proprio il suo corpo ad Anichino, e lo fa in
maniera sfacciata (gli promette in sostanza di farlo gaudente per ricompensarlo
delle sue fatiche d’amore). Il patrimonio della letteratura d’amore che qui
Boccaccio riprende viene completamente capovolto e rovesciato, fino ad arrivare
alla parodia del romanzo di quête, per cui la ricerca del Graal diventa ricerca
dell’ “amore” della donna: Beatrice “giudica” Anichino degno, tutto ciò che ha
fatto per lei e per poterla incontrare e avvicinare rappresenta l’ “impresa” del
cavaliere, la sua avventura, e quindi la donna decide che ora merita la sua
ricompensa, il suo premio (saltando così la fase del corteggiamento). Ancora una
rovesciamento parodico dell’amor cortese sta nel fatto che, mentre i due amanti
attendono l’ora concordata per il loro incontro, si dedicano tranquillamente alle
loro solite attività: non c’è quel forte sconvolgimento che rendeva i cavalieri e le
loro dame incapaci di fare o pensare ad altro in assenza dei rispettivi amanti, ma
c’è un forte senso di PRATICITÀ nei gesti dei personaggi.
Il TEMA DELLA BEFFA si fa esplicito e raggiunge il suo apice nel momento in cui
i due amanti si incontrano, di nascosto, ma in presenza del marito di lei che
dorme. Anche in questo punto si insiste fortissimamente sull’iniziativa che è
tutta femminile: Beatrice, nel momento in cui il marito si sveglia perché ha
avvertito dei rumori, ha la forza, la capacità e la grande prontezza d’animo di
trattenere fisicamente Lodovico che cerca di darsela a gambe, e di trattenere il
marito inventando per lui una storia che scioglierà l’intreccio della novella.
Come in altre novelle del Boccaccio, è grazie all’astuto intervento delle donne
che si trova una soluzione per lo svolgimento e l’esito positivo della storia. Nel
discorso di Beatrice c’è il chiaro ed esplicito riferimento all’EPISODIO
DELL’APPUNTAMENTO SPIATO nel Tristan di Béroul (seconda metà del XII
secolo): di questo testo abbiamo un unico manoscritto, mutilo dell’inizio e della
fine. Da quello che ci è pervenuto comunque emerge che, più del tema dell’amor
cortese e dell’adulterio, a Béroul interessava mettere in evidenza altri elementi
della storia: la descrizione degli intrighi e delle dinamiche di corte, l’intelligenza
e la prontezza degli stratagemmi con cui di volta in volta i due amanti sanno
difendere la segretezza del loro amore; l’ignavia di re Marco, incapace in ogni
caso di prendere delle decisioni. Un particolare della storia di Bèroul che di
discosta dagli altri testi tristaniani è che la durata del filtro d’amore è limitata a
tre anni: allo scadere del tempo, i due amanti, dopo un breve periodo di
lontananza, scelgono poi deliberatamente di continuare ad amarsi; la scelta del
loro amore diventa consapevole, cosciente, non è imposta.
Recandosi ad un appuntamento concordato con Isotta (sotto un pino, proprio
dove nella novella di Boccaccio Beatrice manderà Egano), Tristano si accorge
della presenza di re Marco – che è stato avvertito dell’appuntamento dei due, e si
è recato di persona per cogliere i due amanti sul fatto – e riesce a farlo capire ad
Isotta; la donna attraverso un discorso pregno di AMBIGUITÀ riesce a sbrogliare
la situazione e a salvare le apparenze agli occhi del marito, e lo fa con un’astuzia
e un ingegno incredibili, utilizzando un linguaggio ambivalente, senza dire mai
menzogne, ma mantenendosi sul piano di una verità relativa alla lettura che se ne
fa, a seconda di chi ascolta (re Marco capisce una cosa, Tristano sa la verità che
c’è dietro l’apparenza). C’è un labile scarto tra vero e falso, tra apparenza e
realtà. Nell’episodio dell’appuntamento spiato, Béroul esordisce con un richiamo
esplicito al lettore/ascoltatore, accorgimento retorico spia di un’epoca in cui
c’era ancora una certa tradizione orale del romanzo. Il discorso di Isotta poi, si
apre con un’invocazione a dio: altro particolare che in Béroul è caratteristico,
innovativo ed esclusivo, è il fatto che dio sia dalla parte degli amanti, nonostante
siano dei peccatori, perché sta dalla parte dei “buoni”; li appoggia, e li aiuta
anche in alcuni casi, ed è rappresentativo del pensiero di chi scrive che in questo
modo si schiera anche lui dalla parte di due innamorati. La scena è quasi
interamente occupata dal discorso di Isotta che, non diversamente da Beatrice,
“fa sembiante”, cioè finge, attraverso un gioco di parole che si fa tutto nella loro
LETTURA/INTERPRETAZIONE: ciò che lei dice è tutto vero, ma per il re, ignaro del
suo rapporto con Tristano, che solo sospetta, le parole di Isotta hanno una diversa
chiave di interpretazione. Non solo, quindi, Isotta salva sé stessa e Tristano da
quella particolare situazione in cui rischiavano di essere scoperti, ma addirittura
con le sue parole si scagiona completamente davanti al re riconquistando la sua
fiducia e allontanandolo dai suoi sospetti. Isotta nel suo discorso utilizza anche
una certa saggezza proverbiale e delle verità assolute, che con stratagemmi
retorici fanno sì che la credibilità del discorso aumenti gradualmente.
Anche lo SPAZIO in cui si svolgono le due scene, quella tra Isotta-Tristano-re
Marco e quella tra Beatrice-Anichino-Egano, è analogo: si tratta del
GIARDINO, e c’è in entrambi i casi la presenza dell’albero sotto il quale ci si dà
appuntamento. Unica differenza è che Anichino, dopo il discorso di Beatrice, si
reca pronto all’appuntamento con Egano, sa come stanno i fatti e cosa deve fare,
mentre per Isotta e Tristano l’episodio dell’appuntamento spiato è un evento
inaspettato che li costringe a improvvisare completamente.
Il testo del Boccaccio insiste nella conclusione sul più che si ottiene, dopo il
rischio corso dai due amanti di capitolare: Egano ne esce convinto di avere la più
fedele donna e il più fedele servitore che ci siano, e i due amanti avranno d’ora in
poi più occasioni per i loro incontri. I due amanti ridono molto insieme di questo
epilogo, che è dissacrante in un certo senso, anche perché si sottolinea che
Anichino rimarrà a dimorare a Bologna presso Egano finché “gli piacerà”, il che
non rappresenta di certo un “e vissero per sempre felici e contenti” ma
un’ulteriore conferma di come questa novella sia un rovesciamento comico e
parodistico dell’amore cortese.
Quella che Boccaccio compie in questa novella non è una semplice ripresa della
materia arturiana/tristaniana, ma una ripresa dell’intera STRATEGIA RETORICO-
NARRATIVA del discorso di Isotta nel testo di Béroul.