Biodemografia

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serie «on line» di antropologia a cura di Gianfranco Biondi e Olga Rickards Università di L’Aquila Università di Roma Tor Vergata 2.a BIODEMOGRAFIA Gianfranco Biondi Anno accademico 2004-2005

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serie «on line» di antropologia

a cura di Gianfranco Biondi e Olga Rickards

Università di L’Aquila Università di Roma Tor Vergata

2.a

BIODEMOGRAFIA

Gianfranco Biondi

Anno accademico 2004-2005

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BIODEMOGRAFIA

1. INTRODUZIONE Il termine demografia deriva dal greco «demos», cioè popolo o popolazio-

ne, e «graphein», cioè scrivere o disegnare, ed indica lo studio statistico delle popolazioni. Ovvero, i suoi fenomeni di stato − quindi il numero degli abitanti che in un certo momento storico incidono su un territorio e la loro suddivisione per sesso e classe d’età − e quelli di movimento − quindi i flussi migratori e i ri-cambi generazionali. Il suo atto di nascita può essere fatto risalire al 1662, quan-do l’inglese John Graunt (1620-1674) ha pubblicato il libro Natural and Political Observations. Mentioned in a Following Index, and Made upon the Bills of Mortality, in cui erano riportati i suoi studi sulla mortalità a Londra. Il termine «demogra-fia», però, è stato introdotto dal francese Achille Guiliard solo nel 1855, allorché ha dato alle stampe il volume Eléments de statistique humaine ou démographie com-parée. Nel corso dei cento anni successivi al lavoro di Graunt, gli studi demogra-fici sono stati rivolti prevalentemente alla mortalità − non tanto per indagare scientificamente il fenomeno, quanto per riuscire a definire l’ammontare delle rendite vitalizie − e per avere la prima vera sistemazione scientifica della mate-ria è stato necessario attendere la seconda metà del Settecento, quando lo sviz-zero Jean-Louis Muret (1715-1796) ha definito gli «indici demografici» relativi alle nascite, ai matrimoni e alle morti ed ha assunto il ruolo di pioniere nell’uso dei rispettivi tassi. Un ulteriore contributo all’affermarsi della demografia come scienza è stato fornito dal tedesco Johann Peter Sùssmilch (1707-1767) e dall’inglese Thomas Robert Malthus (1766-1834), il cui libro Essay on the Princi-ples of Population as It Affects the Future Improvement of Society, pubblicato nel 1798, ha fortemente influenzato il pensiero di Charles Robert Darwin e Alfred Russell Wallace: cioè, ha fortemente influenzato e condizionato la teoria dell’evoluzione organica ed ha enucleato il rapporto inscindibile che esiste tra lo studio biologico, o antropologico, e quello sociologico delle popolazioni umane. Dopo Malthus, la biodemografia ha assunto il compito di analizzare le popola-zioni sotto il profilo della loro numerosità, della loro organizzazione e distribu-zione territoriale, dei loro spostamenti, o correnti migratorie, e della loro strut-tura − per età, per sesso, per condizioni economiche, per livello di istruzione, per tratti etnico-religiosi e per caratteristiche biologiche.

Compito precipuo del biodemografo è quello di raccogliere i dati relativi ai comportamenti demografici delle popolazioni attuali e di quelle del passato e di elaborare delle proiezioni e previsioni sul futuro delle popolazioni. La proiezio-ne estende al futuro l’andamento che un qualsiasi fenomeno ha nel presente, o che ha avuto in un periodo passato più o meno lungo e più o meno lontano, e permette di immaginare cosa potrebbe avvenire ad una certa data se il trend di quel fenomeno fosse di un certo tipo: per esempio, se la immigrazione nel paese A dal paese B si mantenesse al tasso attuale x allora tra n anni la comunità B

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raggiungerebbe la dimensione y; mentre la previsione fornisce un modello in cui è possibile inserire delle variabili per disegnare gli scenari futuri.

I dati relativi ai fenomeni demografici sono raccolti dagli uffici anagrafici dei comuni − mediante le registrazioni anagrafiche e di stato civile − e dall’ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica, che effettua ogni dieci anni il censi-mento generale della popolazione (2001, 1991, 1981, ecc.); per i dati precedenti la metà dell’Ottocento si deve ricorrere invece agli archivi parrocchiali. La nostra società, come le altre società occidentali, mantiene da alcuni secoli le registra-zioni scritte dei tre eventi demografici fondamentali che riguardano la vita bio-logica, emozionale e sociale degli individui e, quindi, della popolazione: la na-scita, il matrimonio, che corrisponde a quella che può essere definita l’organizzazione sociale della perpetuazione della specie, e la morte. Queste re-gistrazioni sono dei veri e propri documenti, sono cioè testimonianze dell’esistenza e dell’operato degli uomini, e sono raccolte, specialmente per gli ultimi tre o quattro secoli, nei registri degli stati delle anime, dei battesimi, dei matrimoni e dei funerali conservati negli archivi ecclesiastici o parrocchiali. Gli archivi rappresentano così la memoria storica delle identità collettive locali e come tali costituiscono delle banche dati indispensabili per ricostruire la struttu-ra delle società a cui si riferiscono.

2. SELEZIONE NATURALE E BIODEMOGRAFIA La selezione naturale, che ha carattere qualificante nella teoria evoluzioni-

stica darwiniana, esplica praticamente la sua funzione mediante l’azione di due meccanismi demografici: la «sopravvivenza differenziale», che garantisce agli individui idonei di rimanere in vita fino all’età della riproduzione e consegna gli inidonei alla morte (questo meccanismo può essere letto anche al contrario e al-lora si parla di «mortalità differenziale»); e la «fecondità differenziale», che con-sente ai più idonei di lasciare una prole più numerosa e ai meno idonei di lascia-re meno figli o di non lasciarne affatto. Per misurare il livello della selezione na-turale, quindi, si devono stimare la sopravvivenza e la fecondità differenziali dei genotipi considerati e si tenga ben presente che la sopravvivenza e la fecondità sono definibili quantitativamente, cioè misurabili, solo se sono riferite ad un preciso ambiente. La selezione naturale, infatti, interviene sugli individui come conseguenza dalle condizioni ambientali e se queste mutano, possono cambiare sia la pressione che il segno della selezione: cioè, un genotipo può essere favori-to in un certo ambiente e sfavorito in un altro.

Pur se parliamo della selezione in relazione ai genotipi, è evidente tuttavia che essa agisce sugli individui, sul loro fenotipo, perché sono questi che soprav-vivono o muoiono o si riproducono, non certo i geni. Dire che un certo genotipo è vantaggioso, o svantaggioso, in un certo ambiente vuol dire solo che lo è il fe-notipo da esso controllato. E, inoltre, se è vero che la selezione naturale esplica la sua funzione sui singoli individui, è altrettanto vero che è la popolazione che si evolve e non gli individui: l’unità elementare dell’evoluzione, infatti, è proprio

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la popolazione. L’«idoneità (più correttamente l’adattabilità), o fitness, darwiniana» non è

altro che il numero medio di figli che gli individui portatori di un certo genotipo lasciano alla generazione successiva. E, quindi, l’idoneità di un gene in un de-terminato ambiente si valuta semplicemente a partire della numerosità delle co-pie che il gene lascia di sé stesso alle generazioni future. La costruzione di una generazione di figli da parte di una generazione di genitori si basa sull’interazione che avviene all’interno della popolazione tra i comportamenti demografici e i «fattori esterni». Come è mostrato in Tabella 1, infatti, la biolo-gia, l’ambiente, l’economia, la sociologia e la tecnologia influenzano il compor-tamento demografico dei singoli individui; che a sua volta determina i valori dei parametri demografici: la fecondità, la natalità, la nuzialità, la mobilità e la mor-talità; che a loro volta modulano le caratteristiche della popolazione: la sua nu-merosità, la sua struttura per sesso e classe di età e la sua distribuzione geografi-ca. I parametri demografici e le caratteristiche della popolazione, poi, interven-gono in retroazione sul primo blocco − biologia, ambiente, economia, sociologia e tecnologia − e in questo modo si determina uno schema di flusso.

Tabella 1. Schema delle relazioni biodemografiche

BIOLOGIA genotipo

morfologia fisiologia malattia

AMBIENTE clima

geologia

ECONOMIA sviluppo

lavoro ricchezza

SOCIOLOGIA cultura

istruzione classe

famiglia

TECNOLOGIA agricoltura industria

abitazione trasporto

sanità Comportamento

demografico della

persona

NASCITA MATRIMONIO DIVORZIO MIGRAZIONE MORTE Numerosità

della popolazione

Struttura della

popolazione

Distribuzione territoriale della

popolazione

3. I FENOMENI BIODEMOGRAFICI LA FECONDITÀ − (vedi Appendice I) − La capacità di procreare è definita in

biologia «fertilità» e la sua manifestazione concreta o «fecondità», cioè la reale riproduttività di una donna (ma anche di una coppia o di una popolazione), è misurata sul numero delle nascite. Il comportamento riproduttivo dipende cer-tamente dalla effettiva possibilità che hanno le coppie di procreare, ma è condi-zionato anche da altri fattori − di tipo ambientale, culturale, economico e sociale − che determinano un vero e proprio controllo delle nascite, volontario o meno. Tra questi, il livello nutrizionale, la diffusione di alcune malattie, l’età al matri-monio e l’esistenza di tabù sessuali esercitano un’influenza rilevante sulla pro-creazione; così come la esercitano le pratiche contraccettive e le tecniche di fe-

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condazione artificiale. Fino a tempi recenti, le società occidentali regolavano la fecondità prevalentemente agendo sulla nuzialità, ma oggi quest’ultima ha per-so molta importanza, dato che non poche nascite avvengono fuori dal matrimo-nio. Inoltre, l’enorme sviluppo della tecnologia applicata alla riproduzione con-sente attualmente di superare il limite superiore, o menopausa, del periodo fe-condo delle donne: che è compreso tra 14 e 49 anni. E si tenga anche presente che il limite inferiore del periodo fecondo, o menarca (cioè la comparsa della prima mestruazione nella pubertà), si è abbassato notevolmente in Europa e nel Nord Amarica nel corso dei secoli XIX e XX, soprattutto per il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie e nutrizionali: in Norvegia l’età media al me-narca superava i 17 anni verso la metà dell’Ottocento e un secolo dopo era scesa sotto i 13 anni e mezzo; e valori più o meno analoghi sono stati rilevati in Dani-marca, Finlandia, Svezia, Germania, Inghilterra e Stati Uniti. In molti paesi in via di sviluppo, un efficace controllo delle nascite è esercitato dell’allattamento, che di solito è protratto piuttosto a lungo nel tempo per la scarsità di altro cibo e durante il quale sono vietati spesso i rapporti sessuali.

La fecondità è diminuita notevolmente in tutte le società occidentali a par-tire dalla fine dell’Ottocento, ma è l’Italia (insieme alla Spagna) che sta cono-scendo la denatalità più accentuata, con 1,26 figli per donna, anche se negli ul-timi anni si assiste ad una leggera ripresa.

Numero me-

dio di figli per donna in Italia

Numero medio di figli per donna in Europa

nel 2002 anno n stato n

1995 1,18 Austria 1,29 1996 1,19 Belgio 1,65 1997 1,20 Danimarca 1,74 1998 1,21 Finlandia 1,73 1999 1,22 Francia 1,90 2000 1,24 Germania 1,29 2001 1,25 Grecia 1,29 2002 1,26 Irlanda 1,98

Lussemburgo 1,70 Paesi Bassi 1,69 Portogallo 1,42 Regno Unito 1,63 Spagna 1,25 Svezia 1,57

La fecondità è una delle componenti che concorrono a determinare la di-

namica demografica delle popolazioni e il «tasso di fecondità totale» stima il numero medio di figli che ciascuna donna genera nel corso della sua vita fecon-da. Il «TFT» consente di valutare il comportamento riproduttivo delle popola-zioni nel corso di ogni anno e quindi di interpretare il meccanismo del ricambio

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generazionale. Un valore del tasso di fecondità inferiore a 2,1 (o «tasso di sosti-tuzione», che è quello necessario per rimpiazzare nella generazione successiva i due partner della coppia) indica un invecchiamento e un calo della popolazione, mentre valori superiori a 2,1 garantiscono il progressivo aumento e ringiovani-mento della popolazione.

LA NATALITÀ − (vedi Appendice I) − Misura la frequenza delle nascite in

una popolazione in un dato periodo di tempo, che generalmente coincide con un anno di calendario. Si tratta di un fenomeno particolarmente rilevante, se osser-vato nel suo sviluppo diacronico, in quanto permette di valutare l’evoluzione di una popolazione: quindi la sua crescita o diminuzione e il suo invecchiamento. Il «tasso di natalità» è definito dal rapporto tra il numero totale dei nati vivi nel periodo di tempo considerato e l’ammontare della popolazione media nello stesso periodo, moltiplicato per 1.000.

Tasso di natalità (t)=[N(t)/Pmed(t)]x1.000 in cui: (t)=periodo di tempo considerato (un anno) N(t)=numero dei nati nell’anno t Pmed(t)=[P(1.1.t)+P(31.12.t)]/2 − La popolazione media è data dalla media tra la popolazione presente al 1 gennaio dell’anno (t) e la po-polazione presente al 31 dicembre dello stesso anno. LA SPERANZA DI VITA ALLA NASCITA − (vedi Appendice I) − Indica il nume-

ro medio di anni che una persona di una certa società può aspettarsi di vivere al momento della sua nascita ed è stimata a partire dai tassi di mortalità registrati nell’anno considerato. La speranza di vita alla nascita costituisce, insieme con la mortalità infantile, uno dei parametri più significativi delle condizioni sociali, economiche e sanitarie di una comunità o di un paese e si configura, quindi, non solo come un indicatore demografico ma anche come un indicatore del livello di sviluppo di un paese.

La durata massima della vita di noi umani si aggira sui 120 anni; tuttavia, la lunghezza della vita varia molto da persona a persona, essendo legata non so-lo all’informazione contenuta nel genoma di ognuna di esse ma anche all’ambiente in cui vivono le popolazioni e al loro stile di vita. La demografia è in grado di stimare statisticamente la speranza di vita di un neonato, ovviamen-te, però, non può indicare quanti anni in concreto vivrà quel bambino. Nel corso del XX secolo la «speranza di vita» nelle società occidentali è aumentata drasti-camente, passando dai 50 agli 80 anni, ed oggi la speranza di vita maggiore si osserva nelle donne giapponesi: circa 83 anni. I popoli più longevi sono quello giapponese, con 81,9 anni, e quello del Principato di Monaco, con 81,2 anni; ed è anche interessante osservare che si sta riducendo la differenza tra maschi e femmine: negli Stati Uniti, per esempio, la differenza tra i due sessi era di 7,8 anni a favore delle donne nel 1979, ma nel 2002 essa è scesa a 5,4 anni. All’aumento della speranza di vita hanno contribuito sia la possibilità che hanno

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avuto le popolazioni di soddisfare i propri fabbisogni nutrizionali, che il miglio-ramento imponente verificatosi nelle condizioni igieniche e i notevoli progressi della medicina.

LA MORTALITÀ INFANTILE − (vedi Appendice I) − È la mortalità che colpi-

sce i bambini tra la nascita e il primo compleanno ed è imputabile a due tipi di cause: quelle «endogene», legate alla gravidanza, al parto e ai difetti congeniti del bambino; e quelle «esogene», dipendenti dalle malattie infettive, dalle con-dizioni igienico-sanitarie inidonee e dalla scarsa alimentazione. Le prime cause determinano la morte dei bambini nei primi giorni o nelle prime settimane di vi-ta e sono quelle che ancora oggi fanno registrare circa 10 decessi ogni 1.000 bam-bini nati nei paesi sviluppati. Per contro, negli altri paesi si arriva mediamente a 8 bambini su 100 che non raggiungono il primo compleanno. La mortalità infan-tile ha condizionato pesantemente lo sviluppo demografico dell’Italia fino alla «transizione demografica», tanto che ancora all’inizio del XIX secolo ben il 25% dei nati moriva nel corso del primo anno di vita e non più del 50% arrivava alla pubertà. Ecco perché livelli anche elevati di fecondità non riuscivano a garantire che una crescita decisamente modesta della popolazione.

La mortalità infantile si ottiene rapportando il numero dei bambini morti entro il primo anno di vita e relativamente all’unità di tempo considerata, gene-ralmente un anno, al numero dei bambini nati vivi nello stesso anno, moltiplica-to per 1.000. Il «tasso di mortalità infantile» è un parametro molto importante in quanto costituisce un indicatore essenziale del livello di sviluppo di un paese in relazione alle sue caratteristiche sanitarie, sociali ed ambientali.

Tasso di mortalità infantile (t)=[M0(t)/N(t)]x1.000 in cui: (t)=periodo di tempo considerato (un anno) M0(t)=bambini morti entro il primo compleanno nell’anno considera-to N(t)=bambini nati vivi nell’anno considerato LA MORTALITÀ − (vedi Appendice I) − L’intensità con cui la morte colpisce

le popolazioni realizza il principale fattore negativo del loro «movimento natu-rale» e l’osservazione delle sue cause rende conto dell’azione della stessa sele-zione naturale: nel passato, nell’attualità e nell’avvenire. Tra i determinanti della mortalità si possono individuare quelli legati all’ambiente ecologico (dal clima alle infezioni parassitarie ed alimentari) e quelli socio-economici, culturali e poli-tici; e c’è, infine, l’evento a cui facciamo comunemente riferimento con il termine «morte per vecchiaia». Dal punto di vista demografico è possibile dividere la nostra vita in due fasi: dal concepimento fino al primo anno di età − e di cui il «tasso di mortalità infantile» rappresenta la stima dell’evento morte − e poi tut-to il resto dell’arco dell’esistenza. Il «tasso di mortalità» è definito dal rapporto tra il numero totale dei decessi nel periodo di tempo considerato e l’ammontare della popolazione media nello stesso periodo, moltiplicato per 1.000.

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Tasso di mortalità (t)=[M(t)/Pmed(t)]x1.000 in cui: (t)=periodo di tempo considerato (un anno) M(t)=numero dei decessi nell’anno t Pmed(t)=[P(1.1.t)+P(31.12.t)]/2 − La popolazione media è data dalla media tra la popolazione presente al 1 gennaio dell’anno (t) e la po-polazione presente al 31 dicembre dello stesso anno. IL TASSO DI CRESCITA − (vedi Appendice I) − Misura la percentuale di cui

una popolazione aumenta o diminuisce la sua numerosità in un periodo di tem-po definito, generalmente un anno. Attualmente, la popolazione dei paesi svi-luppati si accresce con un tasso annuo di circa 0,25%, mentre i paesi in via di svi-luppo crescono sei volte di più. Dato il basso tasso di fecondità che si osserva in Italia, si prevede che la popolazione totale possa scendere nei prossimi 50 anni di circa il 20%.

4. LA NUMEROSITÀ DELLA POPOLAZIONE La specie Homo sapiens si è originata in Africa circa 150.000 anni fa e nel

corso della sua storia ha attraversato tre fasi principali di espansione demografi-ca. Al momento della migrazione verso l’Eurasia, iniziata attorno a 100.000 anni fa, il genere umano doveva contare circa 50.000 persone e da allora ha preso l’avvio la prima fase espansiva. E nel suo corso, che è durato fino all’avvento delle pratiche agricole (nella «mezzaluna fertile» l’agricoltura è stata inventata circa 11.000 anni fa; Tabella 2), la numerosità della popolazione è salita a circa 5 milioni di persone. Successivamente, e fino alla «rivoluzione industriale» che è iniziata in Inghilterra verso la fine del secolo XVIII, si è realizzata la seconda fa-se di espansione demografica, che ha fatto salire la numerosità della popolazio-ne del mondo a circa 800-900 milioni di persone. Noi oggi stiamo vivendo la terza fase di espansione demografica, che in soli due secoli ha portato la popo-lazione dell’intero globo a superare i 6 miliardi di persone e che, secondo le pre-visioni dell’ONU, dovrebbe farla aumentare ancora nei prossimi decenni, fino a raggiungere la cifra di circa 9 miliardi di persone nel 2050 (Tabella 3).

Tabella 2. Sviluppo dell’agricoltura Area geografica Periodo

Mezzaluna fertile 11.000 a.fa Bacini dello Yangzi e del Fiume giallo 9.000 a.fa Nuova Guinea 9.000-6.000 a.fa Africa sub-sahariana 5.000-4.000 a.fa Messico e America meridionale 5.000-4.000 a.fa America settentrionale 4.000-3.000 a.fa

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La fase di espansione demografica in corso è avanzata assai più rapida-mente di quanto non fosse avvenuto con le due che l’hanno preceduta e nel 2050 dovrebbe registrare un incremento della popolazione totale del pianete di ben dieci volte maggiore rispetto a quella dell’età pre-industriale e di poco meno del doppio rispetto all’inizio del terzo millennio. E un simile evento si tradurrà nella necessità di dover raddoppiare da oggi ad allora la «capacità portante» della Terra, in modo da garantire la sopravvivenza di un numero così elevato di per-sone. Ma fino a che punto potremo spingerci e fino a che punto l’umanità potrà crescere? Nonostante l’enorme sviluppo delle conoscenze scientifiche, non ab-biamo ancora delle risposte soddisfacenti a questa domanda. Sappiamo, invece, perché nel corso degli ultimi due secoli l’incremento demografico ha subito un cambiamento tanto radicale: le cause vanno ricercate soprattutto nel migliora-mento delle condizioni nutrizionali e igienico-sanitarie che sono state realizzate nei paesi industrializzati e che poi si sono diffuse, almeno in parte, anche in altri paesi. L’eccezione a questa tendenza è rappresentata dall’Africa, dove il rischio della malnutrizione e delle malattie è assai alto e dove l’organizzazione sociale e politica espone le popolazioni ad un alto pericolo di morte.

Tabella 3. Sviluppo demografico della popolazione mondiale

Periodo Popolazione (in milioni)

Note

150.000 a.C. 0,05 Origine dell’Homo sapiens 10.000 a.C. 5 Invenzione dell’agricoltura nel Neolitico 4.000 a.C. 15

500 a.C. 153 0 252 Nascita di Cristo

500 207 1000 253 1340 442 Peste nera 1500 461 1600 578 1700 771 1800 900 1900 1.610 1950 2.504 2000 6.122 2025 8.205 2050 9.000 Previsione ONU

La popolazione mondiale non è stata e non è omogeneamente distribuita

nelle varie aree geografiche del mondo. Dal Cinquecento ad oggi, l’Asia è stata il continente che ha assorbito oltre la metà dell’intera popolazione mondiale, con una fluttuazione decisamente contenuta: dal 53% del 1500 al 66,2% del 1800. Anche l’Europa, abitata più o meno da un quinto della popolazione mondiale, non ha subito forti fluttuazioni: dal 18,2% del 1500 al 25,8% del 1900; mentre nei

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cinque secoli che sono passati dalla scoperta delle Americhe, avvenuta nel 1492, l’Africa ha visto addirittura dimezzare la sua popolazione (Tabella 4).

Tabella 4. Evoluzione percentuale della popolazione

per continente dal 1500 al 1950 Continente 1500 1600 1700 1800 1900 1950

Africa 18,9 19,6 13,5 10,7 8,4 8,8 America 9,2 2,2 2,3 2,5 10,1 13,2 Asia 53,0 58,5 64,9 66,2 55,3 54,7 Europa 18,2 19,2 18,9 20,4 25,8 22,8 Oceania 0,7 0,5 0,4 0,2 0,4 0,5

In Europa, dal III al VII secolo d.C. la popolazione è diminuita da 44 a 22

milioni di persone a causa delle guerre legate alle «invasioni barbariche» ed alla peste del 541-544 d.C. Inoltre, la peste del 1348, cioè la «morte nera», ha elevato il tasso di mortalità di oltre dieci volte, uccidendo 25 milioni di persone in soli due anni. Oltre oceano, la conquista europea delle Americhe si è tradotta in un genocidio della popolazione nativa, che è passata nel nord da 5 milioni a 600 mi-la individui dal 1500 al 1900, mentre in Messico la popolazione nativa è scesa di oltre 5 milioni di persone dal 1548 al 1605.

5. LA TRANSIZIONE DEMOGRAFICA Il concetto di «transizione demografica» identifica il passaggio demografi-

co, o successione di fase, che caratterizza la storia di tutte le popolazioni coin-volte nel cammino verso la «modernità». In particolare, si tratta di una transi-zione da un equilibrio a crescita nulla o ridotta, legato ad alti tassi di fecondità e mortalità, ad un altro equilibrio sempre a crescita nulla o ridotta, ma in questo caso legato a bassi tassi di fecondità e mortalità. E i due equilibri sono anche in-dicati come «equilibrio pre-transizione» ed «equilibrio post-transizione».

L’intera storia della vita di una popolazione può essere divisa in tre periodi temporali: nel primo sia la natalità che la mortalità sono elevate, ma la natalità è leggermente più alta e così la numerosità della popolazione si mantiene costante o cresce leggermente; nel secondo i due fenomeni demografici decrescono en-trambi, ma la mortalità scende molto rapidamente mentre la natalità tende ad abbassarsi più lentamente nel tempo e così la popolazione va incontro ad un ac-crescimento decisamente rapido, entrando nella fase della «transizione demo-grafica»; nel terzo sia la natalità che la mortalità sono mantenute a tassi molto modesti e la popolazione può rimanere più o meno stabile per un certo tempo, ma finirà poi per scivolare lungo una condizione di declino.

In molti paesi europei, la mortalità ha iniziato a diminuire con l’avvento del secolo XIX, soprattutto grazie ai progressi effettuati in campo agricolo; ed ha poi continuato nella sua discesa per merito dei miglioramenti che hanno interes-sato la medicina: a partire dagli studi di Louis Pasteur (1822-1895), indirizzati al-

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la ricerca biomedica per la cura delle malattie mediante i prodotti chimici, e fino all’avvento degli antibiotici, realizzatosi nell’arco temporale che va dal 1928, quando fu scoperta la penicillina, ai primi anni dopo la Seconda Guerra Mondia-le. La natalità, per contro, ha iniziato ad abbassarsi in modo rilevante solo a par-tire dalla metà dell’Ottocento ed è stato proprio questo scarto che ha determina-to la «transizione» nelle nostre popolazioni.

La «transizione demografica» sembra essere associata soprattutto con lo sviluppo economico: infatti vi sono oggi notevoli differenze demo-grafiche tra i paesi sviluppati e i paesi in via di sviluppo. Nei primi l’igiene e la medicina sono state efficaci nel ridurre le cause di morte postnatale e quindi nell’allungare la vita media alla nascita1.

I paesi sviluppati, tuttavia, non sono stati affatto altrettanto efficaci nel controllo delle cause di morte prenatale: prevalentemente verso gli aborti spontanei. E in-fatti, mentre la mortalità nei periodi preriproduttivo (da 0 a 14 anni per le donne e da 0 a 20 anni per gli uomini) e riproduttivo si attesta nei paesi sviluppati a circa il 3% e il 6% e sale nei paesi in via di sviluppo a circa il 30% e il 20%, quella prenatale raggiunge circa il 20% in entrambi i blocchi di paesi.

La «transizione demografica» nei paesi europei è stata di lunga durata, cir-ca due secoli, ed ha fatto crescere la popolazione ad un tasso del 2% per anno; nei paesi in via di sviluppo, invece, il fenomeno si realizza il tempi molto più brevi, ma ad un tasso superiore, che va dal 2% al 4% per anno.

6. LA PARENTELA Gli allevatori di bestiame − ma ciò vale anche per le piante − accoppiano

parenti molto stretti per ottenere individui con particolari caratteristiche. Questo tipo di accoppiamento prende il nome di «inincrocio» e gli individui che da esso si originano costituiscono quelle che si chiamano linee «pure» o «inincrociate». Nell’uomo, per motivi culturali e sociali, i matrimoni tra parenti stretti sono molto ridotti, anche se non completamente interdetti, e tra quelli in genere am-messi ci sono gli accoppiamenti tra zio/a e nipote e tra cugini. L’effetto genetico dell’inincrocio consiste nell’aumento della frequenza degli omozigoti e, di con-seguenza, nella possibilità che si manifestino i fenotipi relativi a geni recessivi rari. Poiché molti di questi geni sono dannosi, nella popolazione aumenta quella parte della variabilità che determina patologie anche gravi e che in condizioni di accoppiamento casuale rimane nascosta.

Popolazioni geograficamente o socialmente isolate possono essere caratte-rizzate da alte frequenze di matrimoni tra parenti, tanto da essere definite «iso-lati genetici», e quando i componenti di tali comunità, per emigrazione o immi-

1 Bodmer W.F. & Cavalli Sforza L.L. Genetica, eveluzione, uomo, vol. II, Genetica di popola-

zione e genetica biometrica. Mondadori, Milano, 1977, p. 49.

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grazione, iniziano a contrarre matrimoni con membri di altre comunità si verifi-ca il fenomeno chiamato «rottura degli isolati».

Quando si tratta questo argomento, la parentela che viene considerata è quella «di sangue» e non quella acquisita attraverso il matrimonio, ovvero l’«affinità»; e pertanto è più appropriato parlare di «consanguineità» (inbreeding) che non di parentela e quindi di accoppiamento consanguineo, che coinvolge due individui che hanno almeno un antenato in comune. Questi individui sono geneticamente più simili, rispetto ad altri presi a caso dalla popolazione, perché possono avere, con una probabilità ben definita e che corrisponde al grado di consanguineità, alleli uguali che sono copie di quelli dell’antenato comune: cioè, essi possiedono alleli «uguali per discesa» (e sono detti «autozigoti»). La somi-glianza genetica tra due individui, X ed Y, è misurata dal coefficiente di consan-guineità F ed esprime:

la probabilità che due alleli estratti a caso dallo stesso gene in due in-dividui siano uguali per discesa.

Il coefficiente di consanguineità tra due individui fornisce anche: la probabilità che ha l’individuo nato dai due di essere omozigote in un gene per due alleli uguali per discesa.

Quando due alleli sono uguali ma non derivano da un antenato comune − o me-glio non derivano da un antenato comune identificabile, perché molto lontano nel tempo, o derivano da mutazioni identiche − si parla di alleli «uguali in stato» ed in questo caso l’individuo è detto «allozigote». Due alleli possono essere u-guali in stato ed anche per discesa se si trovano in uno stesso individuo omozi-gote e possono essere uguali per discesa e non in stato se sono copie dello stesso allele che si trovano in individui diversi (vedi Appendice II, Figure 1 e 2).

In Appendice III sono riportati gli alberi genealogici dei matrimoni con-sanguinei più comuni e per i quali si calcola usualmente il valore F della consan-guineità. Consideriamo, a titolo esemplificativo, il caso relativo alla progenie del matrimonio zio/a-nipote. I genitori A e B hanno per un certo gene due alleli cia-scuno, «a»/«b» e «c»/«d», e affinché I possa essere omozigote per l’allele «a» è necessario che A lo trasmetta sia ad X che ad Y, cioè ad entrambi i genitori di I. Ora, la probabilità che A lo trasmetta ad X è pari ad 1/2 ed è ancora pari ad 1/2 la probabilità che X lo trasmetta ad I. Inoltre, è pari ad 1/2 la probabilità che A lo trasmetta a C, ancora 1/2 la probabilità che C lo trasmetta ad Y ed infine 1/2 la probabilità che Y lo trasmetta ad I. Quindi, la probabilità che I sia omozigote per discesa per l’allele «a» è uguale al prodotto delle singole probabilità:

1/2x1/2x1/2x1/2x1/2=1/32

e il valore di F, cioè la probabilità totale e quindi relativa ai quattro alleli, è:

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F=4x1/32=1/8

Seguendo lo stesso metodo si può calcolare il valore di F per gli altri tipi di ac-coppiamenti consanguinei e per la progenie dei matrimoni tra cugini primi si ha:

F=4x1/2x1/2x1/2x1/2x1/2x1/2=1/16

ed è pari ad 1/64 il valore di F per la progenie dei matrimoni tra cugini secondi. Altri due tipi comuni di matrimoni consanguinei sono quelli detti «cugini primi e 1/2» e «cugini secondi e 1/2», per i quali il valore del coefficiente di consangui-neità risulta essere 1/32 ed 1/128. Come si vede, ad ogni passaggio di generazio-ne si dimezza la probabilità che entrambi i coniugi possiedano l’allele ancestrale, ovvero che il figlio sia omozigote per discesa per quell’allele.

Tabella 5. Valori dei coefficienti di consanguineità F in

varie parentele Tipo di accoppiamento Valore di F Grado di paren-

tela secondo il codice canonico

zio/a-nipote 1/8 I in II cugini primi 1/16 II cugini primi e 1/2 1/32 II in III cugini secondi 1/64 III cugini secondi e 1/2 1/128 III in IV cugini terzi 1/256 IV cugini terzi e 1/2 1/512 IV in V cugini quarti 1/1.024 V

La misura del livello di consanguineità per una popolazione, a , corrispon-

de alla media dei coefficienti dei suoi membri: a =S piFi in cui: pi è la frequenza degli individui consanguinei ed Fi è il rispettivo co-efficiente di consanguineità

e si calcola sui valori di F dei matrimoni contratti dai componenti della popola-zione. Per esempio, se consideriamo una popolazione formata da 100 coppie, delle quali 2 sono di zii-nipoti, 5 di cugini primi e tre di cugini secondi, il valore totale della consanguineità nella popolazione è:

a =2/100x1/8+5/100x1/16+3/100x1/64=0,0025+0,0031+0,0005=0,0061

In generale, nelle grandi popolazioni il valore di a è al disotto dell’1‰ e rag-giunge valori superiori all’1% solo in alcuni isolati.

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7. I COGNOMI IN BIODEMOGRAFIA I cognomi si sono affermati in molte società in quanto hanno risolto in ma-

niera estremamente efficace il problema sociale dell’identificazione delle perso-ne. E sebbene la loro origine sia abiologica, derivando dalla professione, dai tratti somatici, dalla toponomastica geografica, dal patronimico e da altro anco-ra, la struttura della loro trasmissione alle generazioni successive è legata al comportamento riproduttivo degli individui, proprio come avviene per i geni. I cognomi, cioè, sono trasmessi ereditariamente ed identificano delle relazioni genetiche.

L’uso dei cognomi per stimare la proporzione di matrimoni tra cugini pri-mi e per valutare gli effetti biologici della consanguineità fu introdotto nel 1875 da George Darwin2, figlio del famoso naturalista Charles. L’interesse di Darwin per la consanguineità era dovuto al fatto che il padre e la madre, appartenente alla famosa famiglia di produttori di ceramiche Wedgwood, erano cugini primi. Egli suppose che il matrimonio tra persone con lo stesso cognome, che non fos-sero cugini primi, dovesse essere proporzionale alla frequenza di quel cognome nella popolazione e, pertanto, quel tipo di matrimonio poteva essere frequente solo per cognomi comuni. Darwin calcolò la frequenza dei 50 cognomi più co-muni negli atti relativi ai matrimoni pubblicati in Inghilterra nel 1853 e dalla somma dei quadrati di quelle frequenze stimò che i matrimoni isonimici attesi tra persone non imparentate dovevano essere circa l’uno per mille. L’eccesso os-servato di matrimoni tra persone con lo stesso cognome doveva essere causato, quindi, dalle unioni tra parenti e Darwin utilizzò quel valore per stimare la per-centuale dei matrimoni tra cugini primi nella popolazione Inglese, che risultò es-sere pari a circa 4,5% nell'aristocrazia, 3,5% nella borghesia, 2,5% nella popola-zione rurare e 2% nella popolazione urbana.

L’idea di utilizzare i cognomi in biologia umana fu ignorata per circa trenta anni. Infatti, solo nel 1908 Arner3 riprese il metodo di Darwin per stimare la fre-quenza dei matrimoni tra cugini primi a New York, nel XVIII secolo, e nella con-tea di Ashtabula nell'Ohio, nel XIX secolo. Le frequenze che Arner calcolò risul-tarono pari a circa 3% ed 1% rispettivamente nelle due popolazioni. Ma anche questo secondo studio fu ignorato. Nel 1960 l’argomento fu riproposto per la terza volta da Shaw4 che, senza fare cenno ai lavori di Darwin e Arner, fece no-tare come l’uso regolare di due cognomi, quello del padre e quello della madre del padre (questo secondo cognome viene cambiato ad ogni generazione), nelle

2 Darwin G.H. Marriages between first cousins in England and their effects. Journal of the Sta-

tistical Society, vol. 38, pp. 153-184, 1875. 3 Arner G.B.L. Consanguineous marriages in the American population. Columbia University

Studies in History, Economics and Public Law (XXXI) 3. Longman Green & Co., New York, 1908.

4 Shaw R.F. An index of consanguinity based in the use of the surname in Spanish speaking countries. Journal of Heredity, vol. 51, pp. 221-230, 1960.

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nazioni di cultura spagnola poteva fornire l’opportunità per calcolare il grado di consanguineità in queste popolazioni. Infatti, l’identità dei due cognomi in un individuo rivelerebbe un matrimonio isonimico, e quindi consanguineo, nei nonni paterni.

Finalmente, a partire dal 1965 i cognomi sono diventati di uso comune nel-lo studio della struttura genetica delle popolazioni umane. In quell’anno, infatti, Crow e Mange5 pubblicarono un lavoro, ormai diventato classico, in cui era ri-portato il modello matematico per la stima della consanguineità a partire dai cognomi. I due autori utilizzarono l’isonimia matrimoniale (Im, marital isonymy), cioè il numero di coppie di coniugi in cui entrambi i partner hanno lo stesso co-gnome, per stimare la frequenza dei matrimoni consanguinei, che sono una mi-sura diretta del livello di consanguineità di una popolazione. Essi definirono la consanguineità totale, Ft, stimata a partire dalla isonimia matrimoniale, e le sue componenti casuale (random), Fr, e non-casuale (non-random), Fn, seguendo il modello gerarchico che Sewall Wright6 aveva utilizzato per descrivere l’effetto della suddivisione di una popolazione in entità discrete: cioè la deviazione dall’accoppiamento casuale (random mating). In quel modello Wright aveva de-finito FIT (individui-totale) il valore totale della consanguineità e FST (suddivisio-ni-totale) e FIS (individui-suddivisioni) le sue componenti. Pertanto, i coefficienti di consanguineità dei due modelli sono collegati nelle seguenti relazioni:

Ft=FIT Fr=FST Fn=FIS

Alti valori di Fr indicano che nella popolazione sono presenti pochi cognomi di-versi ed il contrario si osserva quando Fr si attesta su bassi valori. Esattamente come avviene per i geni, l’effetto della «deriva» sui cognomi è proporzionale al tempo e bassi valori di Fr sono legati anche ad immigrazione recente.

Il cognome è ereditato per linea paterna e si comporta, quindi, come un gene legato al cromosoma Y con migliaia di alleli, ma che si esprime sia nei figli maschi che nelle figlie femmine. Per questa ragione si deve assumere che, per ogni livello di relazione di parentela, la linea paterna sia rappresentativa anche della linea materna. E altre due assunzioni sono indispensabili: 1. i cognomi so-no monofiletici e condividere il cognome significa condividere l’antenato dal quale esso deriva; 2. i due sessi sono ugualmente rappresentati nei migranti7.

Isonimia vuol dire semplicemente possedere lo stesso cognome e la sua proporzione nella popolazione (isonimia intrapopolazione) non è altro che la

5 Crow J.F. & Mange A.P. Measurement of inbreeding from the frequency of marriages between

persons of the same surname. Eugenics Quarterly, vol. 12, pp. 199-203, 1965; Crow J.F. The estima-tion of inbreeding from isonymy. Human Biology, vol. 52, pp. 1-14, 1980.

6 Wright S. Coefficients of inbreeding and relationship. American Naturalist, vol. 56, pp. 330-338, 1922.

7 Lasker G.W. Surnames and genetic structure. Cambridge University Press, Cambridge, 1985.

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frequenza di coppie in cui entrambi i coniugi hanno lo stesso cognome. L’isonimia può essere stimata anche tra popolazioni diverse (isonimia interpo-polazione) ed in questo caso si considera la frequenza dei cognomi condivisi dalle popolazioni. Crow dimostrò, nel lavoro scritto con Mange, che moltipli-cando l’inverso della probabilità che entrambi i componenti di una relazione consanguinea abbiano lo stesso cognome per il valore della consanguineità di quella relazione si ottiene la costante 1/4:

il che significa che il tasso di consanguineità in una popolazione è pa-ri ad 1/4 il valore della frequenza dei matrimoni tra persone dello stesso cognome, cioè F=I/4 In una coppia fratello-sorella (vedi Appendice IV, Figura 1) i due partner

hanno sempre lo stesso cognome (pobabilità=1) e la progenie ha un coefficiente di consanguineità pari ad 1/4, pertanto: 1x1/4=1/4; una coppia zio/a-nipote (vedi Appendice IV, Figure 2a, 2b, 3a e 3b) ha una probabilità pari ad 1/2 di condivi-dere lo stesso cognome e la progenie ha un coefficiente di consanguineità pari ad 1/8, anche in questo caso: 2x1/8=1/4; una coppia di cugini primi (vedi Appen-dice IV, Figure 4a, 4b, 4c e 4d) condivide lo stesso cognome una volta su quattro ed il suo coefficiente di consanguineità è pari ad 1/16 ed anche per questa rela-zione consanguinea si ottiene: 4x1/16=1/4. La stessa regola vale per le altre rela-zioni consanguinee.

Di seguito sono riportate le formule per il calcolo della consanguineità ba-sato sull’isonimia matrimoniale (vedi Appendice V):

Im=S Sii/N in cui: Sii indica il numero di coppie con lo stesso cognome ed N il numero totale di coppie Fr=S Si1Si2/4S Si1S Si2 in cui: Si1 ed Si2 indicano il numero di volte che l’iesimo cognome è presen-te nelle due liste dei coniugi, maschi e femmine, ed S Si1 ed S Si2 i due totali, cioè N1 ed N2 Fn=(Im-S Si1Si2/S Si1S Si2)/4(1-S Si1Si2/S Si1S Si2) Ft=Fr(1-Fn)+Fn Analogamente a quanto detto per la consanguineità, F, anche l’isonimia

generale, I, può essere scomposta in due componenti: Ir, o isonimia casuale, ed In, o isonimia non-casuale. E la frazione casuale è stimata dalla probabilità che, all’interno di una popolazione, coppie casuali di cognomi siano uguali. Nel caso

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in cui le frequenze dei cognomi siano uguali nei due sessi risulterà: Ir=S pi2 in cui: pi è la frequenza dell’iesimo cognome

Se invece le frequenze dei cognomi sono diverse nei maschi e nelle femmine, al-lora la formula assumerà la forma:

Ir=S piqi=S Si1Si2/S Si1S Si2 in cui: pi è la frequenza dell’iesimo cognome nei maschi e qi è la frequenza dell’iesimo cognome nelle femmine La componente casuale del coefficiente di consanguineità, Fr, stima i co-

gnomi condivisi dai mariti e dalle mogli all’interno di una stessa comunità, ma il medesimo ragionamento può essere utilizzato per analizzare le relazioni geneti-che tra popolazioni diverse. In questo caso, però, è necessario definire una nuo-va costante che leghi l’isonimia ai geni condivisi da due individui. Cioè, che met-ta in relazione la proporzione di geni condivisi dai partner degli accoppiamenti consanguinei più comuni con la proporzione di casi di isonimia presenti nelle stesse relazioni. In particolare, i due membri di una relazione zio/a-nipote con-dividono 4 alleli su 16 (1/4) ed il valore dell’isonimia, I, è pari ad 1/2 e così se si moltiplica I per 1/2 si ottiene appunto la quota degli alleli condivisi; analoga-mente, due cugini primi condividono 2 alleli su 16 (1/8) e l’isonimia vale 1/4 ed anche in questo caso moltiplicando I per 1/2 si ottiene la frazione di geni condi-visi. Un mezzo, dunque, è la costante che mette in relazione la genetica con l’isonimia (vedi Appendice VI) e la formula per analizzare le relazioni tra le po-polazioni è:

Ri=S Si1Si2/2S Si1S Si2

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APPENDICE I

DISTRIBUZIONE MONDIALE DI ALCUNI PARAMETRI DEMOGRAFICI (www.globalgeografia.com)

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APPENDICE II

ALLELI UGUALI «PER DISCESA» E «IN STATO» (il quadrato indica il maschio e il cerchio la femmina; il rombo indica un indivi-

duo del quale non interessa il sesso)

Figura 1. Nell’individuo omozigote I i due alleli «a» sono uguali in stato e per discesa, essendo stati ereditati entrambi dall’antenato A

Figura 2. Negli individui C e D ci sono due alleli «a» uguali per discesa ma non

in stato

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APPENDICE III

ALBERI GENEALOGICI

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APPENDICE IV

INCIDENZA DELLA ISONIMIA NEI MATRIMONI CONSANGUINEI

Figura 1. Fratello-sorella maschio ROSSO

femmina

maschio ROSSO

femmina ROSSO

Figura 2a. Zio-nipote maschio ROSSO

femmina

maschio ROSSO

maschio ROSSO

femmina

femmina

ROSSO

Figura 2b. Zio-nipote maschio ROSSO

femmina

maschio ROSSO

femmina ROSSO

maschio

femmina

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Figura 3a. Zia-nipote

maschio ROSSO

femmina

femmina ROSSO

maschio ROSSO

femmina

maschio

ROSSO

Figura 3b. Zia-nipote maschio ROSSO

femmina

femmina ROSSO

femmina ROSSO

maschio

maschio

Figura 4a. Cugini-primi maschio

ROSSO femmina

femmina maschio

ROSSO maschio ROSSO

femmina

maschio

ROSSO femmina

ROSSO

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Figura 4b. Cugini-primi

maschio ROSSO

femmina

femmina maschio

ROSSO femmina maschio

maschio

ROSSO femmina

Figura 4c. Cugini-primi maschio

ROSSO femmina

maschio femmina

ROSSO maschio ROSSO

femmina

maschio femmina

ROSSO

Figura 4d. Cugini-primi maschio

ROSSO femmina

maschio femmina

ROSSO femmina ROSSO

maschio

maschio femmina

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APPENDICE V

ESEMPIO DI CALCOLO DELL’ISONIMIA E DELLA CONSANGUINEITÀ (formule)

Im=∑Sii/N in cui Sii indica il numero di coppie con lo stesso cognome ed N il numero totale di coppie

Im=3/40=0,0750

∑Si1Si2/N1N2=Ir=21/1600=0,0131 in cui Si1 ed Si2 indicano il numero di volte che l’iesimo cognome è presente nel-le due liste ed N1 (∑Si1) ed N2 (∑Si2) i due totali

Fr=∑Si1Si2/4∑Si1∑Si2 Fr=21/4x1600=21/6400=0,0033

Fn=(Im-∑Si1Si2/∑Si1∑Si2)/4(1-∑Si1Si2/∑Si1∑Si2) Fn=(0,0750-0,0131)/4(1-0,0131)=0,0619/3,9476=0,0157

Ft=Fr(1-Fn)+Fn=0,0033(1-0,0157)+0,0157=0,0189

Im [(1 De Santis x De Santis)+(1 Papiccio x Papiccio)+(1 Giorgetta x Giorgetta)]/40= =3/40=0,075

∑Si1Si2/∑Si1∑Si2=Ir [(1 Clissa x 1 Clissa)+(2 Cocciolillo x 1 Cocciolillo)+(2 De Santis x 1 De Santis)+(3 Giorgetta x 4 Giorgetta)+(1 Papiccio x 1 Papiccio)+(1 Piccoli x 1 Piccoli)+(2 Ro-magnoli x 1 Romagnoli)]/(40x40)= =[(1x1)+(2x1)+(2x1)+(3x4)+(1x1)+(1x1)+(2x1)]/(40x40)=21/1600=0,0131

Ri=∑Si1Si2/2∑Si1∑Si2

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Tabella 1. Elenco dei cognomi di 40 coppie 1 ZARA TANCREDA 2 PETRELLA STANISCIA 3 LISCIA TANCREDA 4 DI CROCE DI FLORO 5 COCCIOLILLO IORIO 6 LAURENZO PETTA 7 MASCIOTTA GLIOSCA 8 GRECO MARINO 9 IANIERI CLISSA 10 GIORGETTA VILLACI 11 CAPRI MANSO 12 LISCIA MASTRANGELO 13 DI LENA QUAGLIA 14 ROBERTO FERRANTE 15 DI CROCE DESIATO 16 DE SANTIS GIORGETTA 17 VETTA BUCCHIANICO 18 DE SANTIS DE SANTIS 19 SURIANI COLELLA 20 GALLO GABRIELE 21 D'AMBROSIO PICCOLI 22 BARTOLINO CIANFAGNA 23 ZARA FIORE 24 LAURENZO PETTA 25 OTTAVIANO GIORGETTA 26 MENNA LALLI 27 DANIELE STANISCIA 28 COCCIOLILLO BARISANO 29 PAPICCIO PAPICCIO 30 BARTOLINO ROMAGNOLI 31 PETRELLA STANISCIA 32 GIORGETTA PETTA 33 DANIELE STANISCIA 34 CLISSA PALUMBO 35 DI CROCE MARINO 36 GIORGETTA GIORGETTA 37 PICCOLI COCCIOLILLO 38 ROMAGNOLI GIORGETTA 39 MICHILLI PETTA 40 ROMAGNOLI CISTRIANI

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Tabella 2. Elenco ordinato alfabeticamente sui due cognomi 1 BARTOLINO BARISANO 2 BARTOLINO BUCCHIANICO 3 CAPRI CIANFAGNA 4 CLISSA CISTRIANI 5 COCCIOLILLO CLISSA 6 COCCIOLILLO COCCIOLILLO 7 D'AMBROSIO COLELLA 8 DANIELE DE SANTIS 9 DANIELE DESIATO 10 DE SANTIS DI FLORO 11 DE SANTIS FERRANTE 12 DI CROCE FIORE 13 DI CROCE GABRIELE 14 DI CROCE GIORGETTA 15 DI LENA GIORGETTA 16 GALLO GIORGETTA 17 GIORGETTA GIORGETTA 18 GIORGETTA GLIOSCA 19 GIORGETTA IORIO 20 GRECO LALLI 21 IANIERI MANSO 22 LAURENZO MARINO 23 LAURENZO MARINO 24 LISCIA MASTRANGELO 25 LISCIA PALUMBO 26 MASCIOTTA PAPICCIO 27 MENNA PETTA 28 MICHILLI PETTA 29 OTTAVIANO PETTA 30 PAPICCIO PETTA 31 PETRELLA PICCOLI 32 PETRELLA QUAGLIA 33 PICCOLI ROMAGNOLI 34 ROBERTO STANISCIA 35 ROMAGNOLI STANISCIA 36 ROMAGNOLI STANISCIA 37 SURIANI STANISCIA 38 VETTA TANCREDA 39 ZARA TANCREDA 40 ZARA VILLACI

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APPENDICE VI

ALLELI CONDIVISI

RELAZIONE ZIO-NIPOTE

A livello XC X, con genotipo a/c C, con genotipo a/d, si accoppia con un individuo di genotipo n/m A livello XY sono possibili i genotipi a/c − a/n a/c− a/m a/c − d/n a/c − d/m quindi 4 su 16 alleli (1/4) sono condivisi nella relazione tra zio e nipote ed I vale 1/2; se si moltiplica I per 1/2 si ottiene appunto la frazione di alleli condivisi: 1/2x1/2=1/4. Il risultato è identico se si usano gli altri genotipi possibili: b/c e b/d.

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RELAZIONE CUGINI PRIMI

A livello CD C, con genotipo a/c, si accoppia con un individuo di genotipo j/k D, con genotipo a/d, si accoppia con un individuo di genotipo v/w A livello XY sono possibili i genotipi j/a − a/v j/c− a/w k/a − d/v k/c − d/w quindi 2 su 16 alleli (1/8) sono condivisi nella relazione tra cugini primi ed I vale 1/4; se si moltiplica I per 1/2 si ottiene appunto la frazione di alleli condivisi: 1/4x1/2=1/8. Il risultato è identico se si usano gli altri genotipi possibili: b/c e b/d.