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BIBLIOTHECA SARDAN. 78

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In copertina:Filippo Figari, Pastore sardo, 1930

MICHELE BOSCHINO

prefazione di Carlo Alberto Madrignani

Giuseppe Dessì

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7 Prefazione26 Nota biografica33 Nota bibliografica

MICHELE BOSCHINO

PARTE PRIMA

41 Capitolo I46 Capitolo II54 Capitolo III58 Capitolo IV62 Capitolo V68 Capitolo VI77 Capitolo VII87 Capitolo VIII95 Capitolo IX

101 Capitolo X112 Capitolo XI118 Capitolo XII125 Capitolo XIII132 Capitolo XIV

145 PARTE SECONDA

INDICE

Riedizione dell’opera:

Michele Boschino, Milano, Mondadori, 19752.

© Copyright 2002by ILISSO EDIZIONI - NuoroISBN 88-87825-41-6

Dessì, GiuseppeMichele Boschino / Giuseppe Dessì ; prefazione di Carlo Alberto Madrignani. - Nuoro : Ilisso, c2002. 237 p. ; 18 cm. - (Bibliotheca sarda ; 78)I Madrignani, Carlo Alberto853.914

Scheda catalografica:Cooperativa per i Servizi Bibliotecari, Nuoro

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IL SILENZIO DI MICHELE

A Giuseppe Dessì è toccato un destino letterario “stra-no”: accolto con ammirazione all’apparire delle prime ope-re è diventato col tempo uno di quegli autori di cui è faciledimenticarsi. Contini – che pure fu tra gli scopritori di SanSilvano – non lo cita nel suo Novecento; lo ignora la recen-tissima storia letteraria dell’editore Motta; pochissimo, unamezza paginetta, si legge nella Letteratura Garzanti. Va det-to che Dessì non è autore facile e la sua Sardegna rompecon molti degli stereotipi antropologici e letterari. Già nel’39 Pancrazi nel tracciare un ritratto intelligente e positivo,parlava di un autore «difficile a sé stesso».1 Non bisogna la-sciar cadere l’opportunità di comprendere questo narratorechiaro, complesso e inquietante e di collocarlo nella storiadel gusto narrativo novecentesco. La prima difficoltà nascedal confrontarsi con uno stile narrativo fluido e teso ad ef-fetti di piena comprensibilità, che contrasta con l’apprezza-mento canonico per l’incomunicabilità di autori preziosi eoscuri. Il limpido racconto di Dessì richiede al lettore dicollaborare con un testo che nella fermezza classica dellalingua nasconde un sottosuolo di situazioni narrative nonpredisposte a una ricezione lineare e di superficie.

Si pensi a San Silvano, il primo romanzo, che colpì al-cuni eminenti critici, e si veda quale aderenza ricostruttivapretenda dal fruitore il lungo sinuoso periodare di un di-scorso rivissuto di ampio raggio e quanta attenzione psico-logica e narratologica sia necessaria per accompagnare lavicenda del protagonista stretto nei nodi irrisolti dei propriaffetti e nelle misteriose ragioni di un turbato attaccamento

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1. La recensione di Pietro Pancrazi a San Silvano fu accolta nel IV volu-me di Scrittori d’oggi, Bari, Laterza, 1946, e ora la si legge in Ragguaglidi Parnaso. Dal Carducci agli scrittori d’oggi, a cura di Cesare Galim-berti, vol. III, Milano-Napoli, Ricciardi, 1967, p. 110 ss.

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che molti giovani di valore si siano ritrovati in una comuneesperienza di rinnovamento culturale, che fu poi, non sem-pre, preambolo di successive maturazioni politiche, comecapitò a Dessì che dall’interno del suo tragitto mentale eartistico è potuto passare da Primato al Ponte. Se Dessìpuò sembrare, per alcuni aspetti, un narratore tout court, lasua motivazione culturale avvenne nel mezzo di un am-biente carico di fermenti politici e filosofici; lontano daqualsiasi atteggiamento di artista neutrale o estetizzante,egli fu partecipe della cultura idealistica della metà deglianni ’30 studiando all’Università di Pisa, in cui emergevaprepotente la figura di Giovanni Gentile. Qui le premessedi gusto letterario dell’autodidatta si emancipano alla scuo-la di due maestri, Momigliano che definisce studioso di im-pronta strettamente estetica, e Russo portatore di un «severostoricismo». Se Pisa ha funzionato come distacco dalla pri-ma giovinezza e come acclimatamento con la cultura conti-nentale, nella collaborazione a Primato si esprime l’entusia-smo filosofico di un giovane chiamato a interpretare unmomento cruciale di rinnovamento e di apertura al futuro:non a caso Pisa verrà ricordata come un «bagno di moder-nità».3 Il motivo della modernità è al centro di alcuni inter-venti apparsi sulla rivista: ad esempio, nella sfumata e acutarecensione ai Ragguagli di Pancrazi; nella quale l’argomen-to di fondo si riallaccia al Leitmotiv di tanta parte di Prima-to, la teorizzazione di un nuovo romanticismo di cui la rivi-sta si proponeva di dimostrare la centralià e la necessità.All’interno del patrimonio idealistico e nel tentativo di me-glio precisare in che cosa consista la categoria del moder-no il giovane collaboratore mette a fuoco alcuni temi dellarivista senza attestarsi su formule intonate a un idealismofascistizzato. Nel tracciare il profilo del nuovo giovane scrit-tore Dessì ribadisce sì la validità del patrimonio idealistico

Prefazione

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3. Per i ricordi e i giudizi sull’ambiente pisano, cfr. l’articolo apparso suPrimato il 15 aprile 1941, p. 6, come contributo all’inchiesta Le univer-sità e la cultura.

alla sorella. Si aggiunga poi che chiamare in causa, come ègiusto, Proust non rende piena giustizia a quel misteriosoconvergere di un’analisi sostanziata di penetrazione psico-logica e insieme di angoscia morale. A modo suo, Dessì èscrittore morale; la sua opera s’incentra, più di quanto ap-paia, sul motivo della responsabilità individuale e dei rap-porti con la società: già in San Silvano il tema della famigliaha una centralità problematica e dolorosa. Dessì è scrittoreamaro e riflessivo, la sua vena soggettiva non implica il ri-fiuto del reale, così come l’autobiografismo non è una resaa pulsioni narcisistiche; vale come la spinta a indagare sulleragioni ambientali ed esistenziali di un malessere diffuso eimpalpabile. Se il suo speciale pseudoautobiografismo lodistingue da molti scrittori realisti degli anni ’30 e ’40, piùche mai ispirata alla logica realistica è la passione a tessereuna trama dentro alla quale i rapporti dei personaggi conl’ambiente sono il fulcro del plot intimistico.

San Silvano, più che le prime novelle, fu recepito co-me un’esperienza nuova e quasi sconvolgente e pose ilgiovane autore tra le figure emergenti di una rinnovatanarrativa a tal punto che un critico potè parlare di una «for-ma nuova di romanzo».2 Negli anni che seguirono il suc-cesso di San Silvano, Dessì si fece notare come critico edebbe la possibilità di contribuire variamente a quella rivistaintelligente e ambiziosa che fu Primato. C’è motivo di pen-sare che egli sia stato fin dai primi numeri il letterato mo-derno che l’entourage di Bottai andava cercando e a cuidiede particolare fiducia per più anni (la collaboraziones’interrompe il 15 ottobre del ’42). Per capire l’adesione delgiovane scrittore così come per cogliere il significato diPrimato sarebbe deviante affidarsi ad uno storicismo posthoc che valuta gli ultimi anni del fascismo nella prospettivadei vincitori, e fuori luogo sarebbe meravigliarsi del fatto

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2. Cfr. la recensione di Claudio Varese a San Silvano, apparsa su L’orto,luglio 1939, p. 223 ss.

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duplice angolazione mette il lettore di fronte a due diversiplot con la conseguenza di provocare un effetto di spiazza-mento. La prima, e permanente, difficoltà è scorgere il trait-d’union fra i due Boschino così come risulta arduo capireper quale logica artistica la figura di Filippo, e le sue vicen-de interne ed esterne, siano ricollegabili alla storia di Mi-chele. Si può parlare di una sorta di specularità fra i due“destini”, il primitivo e il borghese, entrambi con la loro dif-ficile educazione sentimentale e tutt’e due ribelli per moti-vazioni etiche. Rimane tuttavia lo shock di passare dal fina-le piano ed ordinato della prima parte, cioè dal momentoin cui Michele gode finalmente le gioie dell’intimità familia-re, a quell’incipit totalmente diverso dove si è sbalzati all’in-terno di una casa borghese, in cui uno studente di matema-tica si trova relegato in un letto con le gambe ingessate. Alquale, immobilizzato, arriva lo «squillo intermittente del te-lefono» – simbolo di una civiltà che ha “superato” il valoredel silenzio del “primitivo” Michele. È difficile trovare altreopere in cui la sfida del narratore alle abitudini consequen-ziali del lettore provochi una forma di disturbo di così diffi-cile ricomposizione.

Nel procedere del racconto, condotto con sapiente gra-dualità e intelligenza sospensiva, il lettore, a un certo pun-to, incontra il personaggio di Michele Boschino invecchiatodi trent’anni, caduto in uno stato di povertà e stagnazione,una figura imponente, anche nei tratti fisiognomici. Al po-sto del giovane e misurato contadino c’è un vecchio chevive rabbiosamente di rancori e accenna alle violente litifamigliari che hanno portato odio e miseria a sé e ai suoiconsanguinei. La storia di Boschino è, per così dire, in dif-ferita, cosicché le vicende del vecchio arrivano al lettorefiltrate dalle riflessioni di Filippo; e questa obliquità è riba-dita esemplarmente col ricorso al mezzo epistolare, attra-verso il quale la narrazione d’impronta autobiografica trovanuove, e a volte inaspettate, integrazioni. L’intenzione è dicreare un dittico narrativo in cui alla prima fase di rappre-sentazione oggettiva succeda una seconda di introspezione

Prefazione

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ma rifiuta ogni forma di universalismo: il che non solorappresenta un correttivo nei confronti dell’estetica ideali-stica ma è l’occasione per sottolineare la necessità delladimensione professionale, tecnica della scrittura da inten-dere come culto estetico della specializzazione e della con-cretezza. Nella recensione a Pancrazi egli insiste sulla no-vità di un oggi lontano dall’ideale di classicità del critico efa una dichiarazione significativa. Scrive: «Siamo ben lonta-ni oggi, e specialmente in Italia dal prevalere degli ele-menti affettivi e istintivi sulla intelligenza e sulla logica,anzi semmai l’intelligenza e la logica prevalgono, nelleforme razionalistiche in cui la critica idealistica ha sfocia-to»,4 dove, insieme al rifiuto della mistica fascista e dell’ir-razionalismo nazista, lo scrittore rivendica la radice razio-nale di un metodo narrativo che assume il limite comepunto di forza.

Su cosa s’intenda per razionalismo e sul nesso con leforme di un conoscere “passionale” l’autore tornerà a parla-re lungamente nella seconda parte del secondo romanzoMichele Boschino uscito nel luglio del ’425 (anticipato ap-punto su Primato). Lo scrittore dopo il felice esordio nonha abbassato la guardia né intende rinunciare allo spirito dinovità o rinnegare le acquisizioni raggiunte. Michele Bo-schino è un’opera di grande audacia, difficile e controcor-rente. Si può forse dire che la sua struttura ne fa un casounico, un hapax della narrativa novecentesca. Come egliebbe a scrivere in una lettera all’amico Claudio Varese,6 l’in-tenzione è quella di illuminare le vicende del protagonistaassumendo in successione due diversi punti di vista al finedi rendere più ricco e problematico il personaggio e la suastoria; più che raggiungere questo effetto di complessità, la

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4. La recensione a Ragguagli di Parnaso di Pancrazi appare su Primatoil 15 marzo 1941, p. 13 ss.5. Michele Boschino esce a Milano, presso Mondadori, nel luglio 1942con la dedica «A mio Padre».6. La lettera è citata da Varese nell’importante saggio su Michele Bo-schino posto come prefazione alla ristampa Mondadori del 1975.

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europeo e di narratore moderno. Il personaggio di Filip-po, la sua lenta maturazione sentimentale attraversata daquesiti filosofici ed esistenziali sono il «rovescio» (comenotò Augusto Livi)7 della precedente storia anch’essa at-teggiata eticamente e mettono il racconto sul solco dellopsicologismo di San Silvano, a cui si è aggiunta una con-notazione ideologica molto marcata. Michele e Filippo so-no gli attanti di una vicenda moralmente estrema, in cui siconsuma, con esiti diversi, l’insofferenza nei confronti del-le regole della buona società. Va detto tuttavia che all’attodella lettura, tale analogia rimane un dato intenzionale, nontale da superare lo iato della doppia struttura. I due perso-naggi hanno sviluppi autonomi e sollecitano ottiche di let-tura diverse. Di fronte al vecchio Boschino il lettore ritrovalo scenario della civiltà rurale della Sardegna che campeg-gia nella prima parte, ma quello che prevale è lo spazioborghese che accoglie, senza riuscire ad amalgamarlo, ildramma incomprensibile del vecchio contadino intrappola-to doppiamente dalla violenza atavica dei parenti e dall’in-ganno civile dell’avvocato e dell’amministratore. E così illettore scopre che il contadino, perduta la padronanza siapure passiva degli eventi, non ha potuto far valere il senti-mento di giustizia tipico della sua civiltà.

Il suo è un martirio senza sbocco; gli ultimi anni testi-moniano lo stato di annientamento seguito alla sconfitta sulcampo, nella lotta con i consanguinei. La sconfitta mette inluce un altro motivo, quello dell’incomprensione della cul-tura borghese nei confronti della società sarda. Il perso-naggio dell’avvocato è inserito per avvalorare narrativa-mente tale motivo, che è poi quello dell’estraneità e dellasuperiorità razzistica del civilizzato nei confronti del «sel-vaggio» (così lo definisce il paternalismo dell’avvocato). Ilritratto di seconda mano di Boschino, come immagine ri-flessa in chiave antropologica, confluisce nel ritratto della

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7. La bella recensione di Augusto Livi, col titolo “Il caso Boschino”, èapparsa su Lettere d’oggi, novembre-dicembre 1942, p. 54 ss.

psicologica e intellettuale, come se l’autore si sia propostodi allontanare il sospetto di aver voluto ridare credibilità al-le istanze artistiche e stilistiche del romanzo realista e natu-ralista come si presentava negli anni a cavallo fra Ottocen-to e Novecento. In opposizione ad ogni filosofia legataall’oggettivismo del pensiero positivo, viene riaffermato ilcredo modernista, il quale impone che il nuovo romanzoinglobi il principio della problematicità del reale alla lucedi quell’idealismo al cui centro è il volere assoluto delsoggetto. Di tale convinzione è testimonianza il fervore in-terrogativo di tante pagine in cui rifluisce l’entusiasmo me-todologico che attraversa molti articoli di Primato. Da unpunto di vista narrativo nella seconda parte arriva in super-ficie quel gusto di matrice europea che dà grande spazioalla riflessione dell’autore sulla propria opera e sui proble-mi collegati alla cultura e al pensiero esistenziale. E in ef-fetti la storia di Filippo è tutta incrostata di elementi riflessi-vi e il tono persuasivo così come gli argomenti di granparte della seconda parte (o meglio del secondo racconto)sono così coinvolgenti da dare a queste pagine la configu-razione di un piccolo vademecum dell’intellettuale ai tempidi Primato. Del tutto esplicite sono le lettere in cui Maria,la futura fidanzata, si fa portavoce dei giovani “ribelli” cheesaltano la stretta connessione fra i libri e i problemi dellavita, in aperto contrasto con l’uso esornativo e confortevo-le che i vecchi fanno della lettura. I due personaggi, avviatiad una solidale intesa d’intelletto e d’amore, illuminano ladimensione intellettuale (e intellettualistica) del racconto ela sua apertura sui problemi dell’attualità; a loro è affidatala testimonianza, divisa fra saggismo e narratività, di comefosse radicata, in certe zone del fascismo (cosiddetto di si-nistra), la fede nel rinnovamento etico e culturale, il qualesi configurava come un programma dell’intellettuale secon-do quella visione di Primato incentrata sul ritorno al “neo-romanticismo” e alle istanze di un «nuovo ordine».

In uno stile tutto intriso di introspezione l’autore affidaalla seconda parte il suo assillo problematico di intellettuale

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diventata gloria nazionale.9 La faziosità del giudizio va inte-sa come premessa passionale ad un manifesto di poeticanel quale lo scrittore ancora inedito esprime i suoi principistilistici e linguistici e vede in Deledda il suo alter ego nega-tivo, con la sottintesa ambizione di rappresentare un’alter-nativa in fieri. La Deledda è descritta come esponente diun verismo «allo stato di natura del tutto rozzo, elementareed incerto» e come tale inidonea a creare il corrispettivoestetico della “vera” Sardegna. Il saggio si propone di di-mostrare analiticamente l’incapacità della scrittrice di uscireda un generico immaginario “sardese” e di trovare una so-luzione estetica originale. L’atto di accusa punta impietosa-mente sul (supposto) rudimentale patrimonio culturale del-la scrittrice da cui discenderebbe l’impossibilità di parlareper la sua arte di romanticismo o simbolismo, come avevafatto Momigliano.

Da queste pagine, così programmaticamente ingenero-se, esce per contrasto il profilo del nuovo narratore la cuimodernità si fonda su una cultura raffinata in grado di rac-cordarsi con un panorama letterario aggiornato, che si tra-duce nel rovello ricorrente di come assimilare alla tradizio-ne patria gli elementi innovatori della narrativa dell’Europae degli Stati Uniti. Opera emblematica di un tale crogiuolodi ambizioni e di problemi Michele Boschino fu stimato daiprimi critici non solo per l’arditezza di un’ardua duplicità oper l’intellettualismo della seconda parte, ma anche per lasoluzione rusticana a cui è piegata, originalmente, la parteiniziale. Il giovane autore sardo sfida la Deledda nell’offrireal mondo culturale italiano l’immagine di una civiltà votataalla solitudine morale, tenendola fuori da ogni rettorica epi-ca o (melo)drammatica. Non meno ardita è la scrittura chia-ra e sciolta del quadro rurale attraverso il quale si offre un

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9. Il saggio “Il verismo di Grazia Deledda”, apparso su L’orto, gennaio1938, p. 35 ss., è stato opportunamente ripubblicato in Giuseppe Dessì,Un pezzo di luna. Note, memorie e immagini della Sardegna, a cura diAnna Dolfi, Cagliari, Edizioni della Torre, 1987, p. 161 ss.

Sardegna interpretata juxta principia sua – che è poi il fi-ne del primo articolo di Dessì pubblicato con grande ri-salto su Primato dove si cerca di restituire una visionenon stereotipata dell’isola (con risultati peraltro modesti)alla luce sia dei pregi dei nativi che dell’ammodernamen-to governativo (le bonifiche).8 Lo stile critico del raccontopermette di assumere la difficoltà di giudicare “corretta-mente” il mondo arcaico della ruralità sarda: il narratorenell’intento di non sopraffare illuministicamente il lettoretratteggia i percorsi mentali di Filippo e di Maria guardan-doli dal di dentro del loro mondo borghese, per il qualeil comportamento del vecchio Boschino rimane incom-prensibile, anche se c’è un alone di stima per il sensodell’equità e per il rifiuto dell’arricchimento, da cui pro-mana la leggenda, terribile e dolorosa, del contadino giu-sto e ribelle. Boschino nella sua solitudine disperata as-surge ad una esemplarità preborghese: con un tocco direalismo classista il destino del vecchio, che aveva accesol’interessamento dei giovani borghesi, appare legato adun passato civile e geografico irrevocabile, fisiologica-mente predisposto a scivolare nell’oblio, anche per chicome Filippo aveva mostrato un inconsueto interessa-mento affettivo e civile.

Per uno scrittore italiano degli anni ’30 si poneva il pro-blema di quali canoni artistici fossero garanti di nuove solu-zioni morfologiche; nel caso specifico di Dessì c’era l’ulte-riore difficoltà che insorge quando un autore sardo sioccupa artisticamente della sua terra. Il che comportava, inquegli anni, il confronto con lo stile e l’ideologia letterariadella scrittrice più famosa della Sardegna. Nel 1938, duran-te la stesura di San Silvano, Dessì scrive un saggio moltoimpegnativo, accesamente ostile, su Grazia Deledda, sorret-to dalla volontà di smitizzare la più famosa scrittrice sarda

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8. L’articolo sulla Sardegna apparve su Primato il 1 aprile 1940, p. 2 ss.col titolo “Appunti per un ritratto”.

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questo periodo di attese e di progetti, all’uscita di MicheleBoschino Giansiro Ferrata salutò l’autore definendolo «tra imigliori ingegni di una narrativa che cominciava a prende-re coraggio dopo tante discussioni e incertezze, ed era vi-cina a estesi successi, a garanzia d’ordine e di durata».11 Ilromanzo suscitò alcune recensioni, tutte positive pur nellaribadita difficoltà di giustificare il doppio percorso narrati-vo. Di fronte alla seconda parte vi fu chi, come Falqui,espresse stupore e disagio12 mentre il sodale Varese si mo-stra più preoccupato per l’oggettivismo della prima parte eben disposto nel recepire le ragioni della seconda parted’impronta critica e riflessiva, un vero tour de force di tec-nica narrativa e compositiva.13 La quale, con la sua innatu-rale deroga alla regola della consequenzialità, si presentacome un progetto di audacia “rivoluzionaria”, in cui si ri-specchia la voglia di modernità della generazione degliscrittori dei primi anni ’40. I recensori, benevoli e attenti agiustificare in vario modo la storia di Filippo, propendonoper un giudizio positivo sulla prima parte, dove ci si con-fronta con quel verismo regionale che sembrava morfolo-gicamente esaurito. Su Primato in una recensione del 15gennaio ’43, con cui forse si vuol trattenere un collaborato-re in fuga, Francesco Squarcia evoca i nomi di Comisso edi Moravia ed elogia questa zona del romanzo «animata daun rapido e pieno realismo». Il giudizio è condivisibile; ri-mane da approfondire quali sono le ragioni artistiche chehanno indotto l’autore di San Silvano a provarsi sul terrenodel realismo “puro”, libero cioè da inserti riflessivi. Dal tito-lo si evince che l’intera opera vuol narrare la storia delprotagonista eponimo colto nel suo elementare evolversi

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11. Cfr. Giansiro Ferrata in Il Tempo, Roma, 19 novembre 1942.12. Le perplessità circa la seconda parte di Michele Boschino sonoespresse da Enrico Falqui in Novecento letterario, serie VI, Firenze, Val-lecchi, 1961, p. 124.13. Il giudizio di Varese si legge in Lettere d’oggi, maggio 1941, p. 30 ss. cheporta il titolo “Dal romanzo inedito di “Michele Boschino” (con una nota diClaudio Varese)”, in cui è anticipato il brano conclusivo del romanzo.

modello di sobrietà e severità artistiche che veicolano valoriprimigenii di rinuncia e di sofferenza (che è quanto di piùestraneo alle ideologie ufficiali di quei terribili anni). Qui ilnarratore si confronta con un verismo moderno che si fon-da sulla «rinuncia al pittoresco» ed assume in proprio la le-zione verghiana. Egli non vuole riprodurre «la Sardegna talequale essa è», come voleva (così a lui sembra) Grazia De-ledda. L’ambizione è di rinnovare la lezione di Verga inchiave antideleddiana. Alle spalle c’è una presa di posizio-ne di grande lucidità; egli afferma che «se per Verga i conta-dini, i pescatori, il dialetto di Sicilia, sono una realtà e un’al-tra realtà distinta quella dei romanzi, in quanto arte, per laDeledda invece bisogna dire che i suoi romanzi sono sol-tanto in funzione di quella realtà che è il mondo moraledell’isola, mondo barbaro ed elementare quanto si vuolema pur sempre mondo vero e proprio, mondo morale».

Negli anni a cavallo fra il ’30 e il ’40 si è creato unostato di attesa nei confronti di una letteratura protesa al rin-novamento e all’aggiornamento, di cui Dessì era partecipeanche a livello critico, come dimostrano le recensioni ap-parse in Primato. Si tratta di interventi che rivelano l’aper-tura culturale del giovane letterato e la sensibilità di un let-tore acuto ed esigente, attraverso cui lo scrittore affinava lesue ragioni artistiche. Quando il critico guarda con sospet-to alla prosa spregiudicata di Malaparte, affiora un precisogusto ideologico che rimanda all’impostazione pudica e ra-zionale dello scrittore. Anche la simpatia per le opere diMarino Moretti, così poco omogenee al pensiero del recen-sore, ha la sua ragion d’essere in una comune predilezioneper l’ordine, la chiarezza e la non-violenza di una scritturache si limita a far emergere la trama segreta di esistenzechiuse in un pudico rapporto con i propri sentimenti.10 In

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10. Cfr. la recensione a Donna come me di Malaparte apparsa su Pri-mato il 15 luglio 1940, pp. 12-13 e quella alla Vedova Fioravanti di Ma-rino Moretti su Primato il 15 dicembre 1941, p. 9.

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così, di sbieco, il tema sardo della giustizia, che avrà un si-gnificativo sviluppo). Il nesso più evidente fra le due partidel dittico è l’episodio solo in apparenza dispersivo, in cui,attraverso la figura equivoca dell’avvocato, emerge il rap-porto di Michele con un tipo di giustizia lontana dall’idealepaterno dell’equità e del disinteresse. La figura del padre in-cide fortemente sulla crescita del figlio, e non in termini deltutto positivi: rappresenta un modello a cui è impossibileadeguarsi così come non lo si può rifiutare. Senza ricorreread ambivalenze freudiane Dessì mette in scena, secondo lalogica oggettiva del miglior realismo, un conflitto di terribi-le positività che schiaccia la personalità del figlio e ne faun emarginato. Rimasto orfano, Michele si rifugia in un si-lenzio prolungato che neppure le invettive della madre rie-scono ad incrinare (il triangolo familiare affiora un po’ pervolta come un microcosmo di rapporti difficili, cellula pri-maria dell’ingiustizia). Il suo appartarsi sta a significare lavita segreta dell’isola, la sua morale chiusa e solitaria: è ilveicolo che permette al lettore borghese di penetrare nelcuore di una Sardegna che si ritrae di fronte alla sua stessaviolenza, e cerca dal proprio interno di dotarsi di un cor-rettivo fatto di dignità e riserbo.

Michele reagisce sia al duro colpo dell’inganno amoro-so sia alla violenza del crimine chiudendosi in una forma didistacco silenzioso e tenace che la madre interpreta comel’incapacità operativa di uno sciocco. In tale atteggiarsiprende corpo una sorta di ribellione pacifica, che non siesprime ripetendo il modello paterno della saggezza verba-lizzata, ma con il silenzio e l’isolamento, attraverso cui egliarriva al padroneggiamento dei propri impulsi. Difeso dalsilenzio il giovane vive una latente crescita aiutato da unacultura del silenzio tutta sua, tipica di chi non accetta le leg-gi della collettività e insieme non vuole sfidarle né provocar-le. Viene così tracciato il profilo di una terra di (anti)eroi delsilenzio che crescono nella solitudine consapevoli di viverea contatto con i costumi di una società violenta. Se si fa unconfronto con l’altra isola, la Sicilia, e con il suo narratore

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verso una personale e quasi imperscrutabile maturità; in-somma una sorta di bildung roman rurale e “primitivo”.Nel calarsi con abbandono pieno e congeniale nell’am-biente sardo, la sfida è ovviamente con la Deledda, ma,mentre ci aspetteremmo uno scontro di stili e intenzioni ar-tistiche, si deve constatare che lo sdegnato rifiuto del criti-co si è trasformato nella ripresa obliqua di motivi e tonalitànon privi di consonanze.

Dessì crea un personaggio, e con esso il suo ambiente,non in nome di un’adesione totale ma di una distanziazio-ne intrisa di passione analitica e visiva. La Sardegna chequi emerge è un paesaggio psichico, con cui si identifica ilprotagonista chiuso in una vita interiore intensa e vigile.Nei diari di recente pubblicati l’autore mette Boschino sot-to l’egida della sofferenza e, parlando di un «dolore rasse-gnato», eleva il personaggio a simbolo di un’estetica esi-stenziale, in nome della quale l’unico «rifugio» per l’artista èofferto dalla «forza di pensare il dolore» (e qui si rivela ilfondo autobiografico dell’interessamento di Filippo per Bo-schino).14 Il personaggio del protagonista è costruito comeuna giovane vita che cresce a contatto con il lutto e la vio-lenza provocati dalla morte del padre e dalla avventura cri-minosa in cui si è trovato involontariamente coinvolto. Glistilemi del distacco verista tracciano un ritratto della Sarde-gna cattiva e brutale, alla quale si affianca l’altra Sardegna,rappresentata dalla figura del padre Giuseppe che alla cat-tiveria dei parenti e dei conterranei oppone una biblicarassegnazione fatta di consapevolezza e di serenità. Giu-seppe è un Giobbe che sopporta su di sé la storia dellasua gente e assume il carattere simbolico di una saggezzapopolare, che si riassume nell’invito alla concordia comebene assoluto. Anche di fronte all’ingiustizia della giustiziache lo condanna al carcere Giuseppe mantiene la superio-rità di chi accetta il male senza farsene coinvolgere (appare

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14. Cfr. Giuseppe Dessì, Diari 1931-1948, a cura di Franca Linari, vol.II, Roma, Jouvence, 1999, p. 80.

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creativa si traducono in un ammodernamento del codiceverista, rinnovato ed ingentilito, da cui è stato eliminatol’imperioso richiamo a un tipo di narrazione compatta econsequenziale. Non si può non ammirare la tenuta stilisti-ca del récit, la sua morbida coesione; ma il narratore reali-sta non si affida ad una strategia univoca: non va sottovalu-tata la capacità di giocare con i tempi del racconto, laricerca della chiarezza e della semplicità non esclude la raf-finatezza di alcuni spostamenti di dati informativi attraversoi quali viene infranta la cronologia strettamente lineare de-gli eventi. Secondo gli stilemi di San Silvano lo studio psi-cologico segue vie misteriose e si appoggia a episodi diper sé insignificanti. Dessì è fin dalle origini un artista cheassume ed elabora il disagio esistenziale, il misterioso as-sillo che investe l’oscuro mondo degli affetti. La doppiaangolatura di Boschino tende a valorizzare i due momentidell’esperienza travagliata del protagonista: dapprima ilnarratore studia la fenomenologia del dolore dall’interno,nei suoi meccanismi inconsci; poi racconta per bocca di al-tri le reazioni del personaggio sconfitto ed estraniato. Quiopera la lezione di Tozzi (su cui ha insistito Anna Dolfi)15

reinterpretata attenuando i toni drammatici ed escludendoogni scontro frontale. Michele sembra dapprima di viverepassivamente l’evolversi degli eventi successivi alla mortedel padre; quasi d’improvviso, non si sa per quali ragioni,decide di coltivare un inselvatichito campo lontano dalpaese. È una scelta autoterapeutica che sfugge alla logicamaterna della ragionevolezza e si riversa in una sorta diabbandono ai valori dell’ascetismo e della solitudine; se-guendo un impulso inspiegabile Michele trova il suo mo-do di venire incontro al bisogno di interiorizzazione e diisolamento. Nella capanna di frasche in cui si è ritirato eglivive in simbiosi con l’arida terra che cura con passione e

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15. Per il rapporto Dessì-Tozzi, cfr. Anna Dolfi, La parola e il tempo.Saggio su Giuseppe Dessì, Firenze, Nuove edizioni Enrico Vallecchi,1977, pp. 203-204.

più congeniale, Verga, nella Sardegna così delineata non c’èspazio per la solidarietà neppure negativa, mentre è previ-sto uno sviluppo positivo per chi riesce a inventarsi difesetali da permettergli un modo di vivere autosufficiente. Mi-chele è l’isola che lui esprime, specie nel momento più du-ro della sua parabola esistenziale, quando scopre l’effettoterapeutico che deriva dall’identificarsi con la sua terra. At-traverso un processo di subliminale autocoscienza, egli cor-regge il suo doloroso smarrimento concentrandosi sulla terraa cui sente di appartenere, e a cui è legato da un rapportocarico di una latente silenziosa affettività. Nel rapporto conla terra trovano senso la storia di Michele, il suo riserbo e ilmodo di reagire. La vita pulsionale annidata nelle profon-dità in cui l’ha spinta l’autorepressione si traduce nel lin-guaggio di un lavoro carico di passione, da cui consegueun effetto di rassicurazione compensatoria e rasserenante.Nelle pagine più intense della prima parte si collocano, alpunto più alto di una narrazione nitida e carica di sospen-sione, il momento del ritiro dal mondo, e quello stato diconcentrazione silenziosa calato nello sguardo innamoratodi chi scruta con pazienza appassionata e fiduciosa le fasidei lavori agricoli.

Michele Boschino rappresenta la formula antiromanticadi una riflessione artistica sulla Sardegna, sorretta da unaconoscenza “viscerale” del comportamento dei conterranei:il metodo gnoseologico e narrativo è quello di un’antropo-logia intesa non come disciplina “scientifica” ma come ilprodotto di un accumulo di esperienze formative primarie– una sorta di autobiografia collettiva legata alla memoriapoetica dello scrittore che si è nutrito fin dall’infanzia dellemodalità e del linguaggio del paese natale. Per riuscire adare il corrispettivo estetico di tale patrimonio memorialeil narratore si avvale di un metodo che trae forza dall’in-crocio fra esattezza visiva e coerenza dell’introspezione,mentre sul versante espressivo domina la pacatezza di unascrittura che evita ogni manifestazione di esteriorità dram-matica. La ricchezza di questa soluzione, la sua genialità

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San Silvano e nella seconda parte) e ci parla direttamentedella civiltà del lavoro opposta a quella della violenza –che è poi la situazione narrativa centrale in cui il protago-nista “buono” è messo al centro di un paesaggio morale, lostesso che accompagna, con minore intensità, i ricordi e irancori del vecchio Boschino.

Il motivo della crescita subisce una svolta quando ilgiovane si trova a superare la vecchia delusione amorosaattraverso un nuovo innamoramento. Qui il racconto purmantenendosi pacato e lento acquisisce una dinamica spa-ziale. Alla staticità del coltivatore subentra una silenziosamarcia di avvicinamento: gli incontri con Severina hannouna gradualità, sono le tappe di un vigilato viaggio chesfocerà nell’incontro carnale dentro alla capanna. Ed è lasola occasione, in cui, pur nella castigatezza del linguaggio,si esprime quell’eros primordiale attraverso il quale si liberala repressa vitalità del personaggio. Tale carica, tacita e re-pressa, è una presenza latente nella storia del giovane, chetrova nella donna la compensazione ultima, la prova defini-tiva della riconquistata sanità. Il lento cammino verso taleesito avviene in una scansione di momenti sapientementecadenzati: nel racconto del cauto e sagace corteggiamentoc’è una sospensione degli eventi fatta di alcuni sguardi, dipoche parole, fedele a quel codice dell’essenzialità che re-gola la vita del personaggio e i rapporti con gli altri. Anchein materia sentimentale l’autore sembra voler suggerire il fa-scino misterioso e lontano di una civiltà autarchica, di unluogo dello spazio dove ogni evento della vita si consumadal di dentro. Attraverso un gioco di sfumature e di elegantiscorci il racconto narra il passaggio dall’iniziale atonia diMichele fino alla rinascita, che si completa con la crescitasentimentale, anch’essa stretta entro i limiti della segretezzae della marginalità: riaffiora alla memoria la definizione diun «bisogno di solitudine ordinata e sicura» formulata a pro-posito della Vedova Fioravanti di Moretti.

Quando i nodi si sciolgono il punto di vista si sposta equello che era il discorso continuato sul protagonista subisce

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con una precisione di alta gratuita professionalità. Quandola pioggia inaspettatamente cade benefica è come se cosìsi esprimesse una forma di approvazione, attraverso laquale si esprime il valore simbolico dell’avvio del proces-so rigenerativo.

Nelle pagine dedicate alle fasi di questa imperscrutabi-le rinascita, che è il momento di svolta del plot rusticanocome di quello psicologico, il narratore affina i mezzi stili-stici: dove ci aspetteremmo una prosa connotata da una ag-gettivazione sentimentale o romanticheggiante, troviamo ilmomento più alto di una espressione aliena da eccessi stili-stici, una prosa nitida di semplicità classica, di candida evi-denza (quanto mai diversa dallo stile del ruralismo fascista).Si capisce in rebus ipsis che quando Dessì parla di culturaprofessionale, di specializzazione e di senso del limite con-trario ad ogni universalismo, egli fa riferimento a un idealestilistico più che ideologico. E in effetti lo stile dice più emeglio di ogni programma: la poetica del limite si traducenel trattamento spazio-temporale in cui il tempo procedecosì lentamente da sembrare immobile e lo spazio è rac-chiuso entro le coordinate della casa o nel rilevamento da-to al chiuso del campo e di piccoli lavori agresti. Il raccon-to avanza in maniera distesa, quasi si direbbe au ralenti,senza che intervenga nessun tipo di interferenza esterna alprocesso della narrazione. La cifra del personaggio, e dellasituazione romanzesca, è il silenzio di chi nel lavorare laterra lavora e cura se stesso, alla conquista di una nuovaidentità messa a dura prova da quando è venuta a mancarela protezione del padre. La resa stilistica del silenzio, intesocome nucleo poetico del racconto, si avvale di una linguasempre vigilata, soppesata e attenta a riprodurre particolariconcreti, estranea ad ogni ruralismo sentimentale. Il lavorodella terra è descritto passo dopo passo da una lingua dimassima precisione, che accoglie anche il lessico tecnico erifugge da quel paesaggismo tanto denigrato nella prosadella Deledda. La felicità espressiva di tale oggettivismo di-ce di più di ogni inserto riflessivo (come se ne trovano in

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sue storie di passioni e di rinuncia con un distacco stilisticopoco gradito al recensore di Primato. Dessì, un intellettualeimpegnato a collaborare per il rinnovamento della culturadei primi anni ‘40, come artista è estraneo ad ogni forma dipropaganda ed elabora un tipo di narrazione ispirata ad unrealismo rarefatto in cui l’assillo dell’introspezione si appro-pria di un codice linguistico intonato alla precisione e arric-chito di sfumature limpide e tenui. Se nelle novelle scrittefra il ’41 e il ’42 la Sardegna appare con aspetti fortementecaratterizzati, con Michele Boschino ci si avvia per la stradadi un realismo dai toni bassi e sereni che, a livello intro-spettivo, fa affiorare zone psichiche segrete senza farsicoinvolgere nel dramma del récit psicanalitico. Con questaseconda prova lo scrittore approfondisce e potenzia gli sti-lemi di un raffinato realismo, che segna emblematicamenteil passaggio a quella poetica del neorealismo determinanteper orientare l’arte del racconto negli anni immediatamentesuccessivi al dopoguerra sia nel cinema che nella narrativa.Più che mai Dessì si rivela scrittore difficile, fuori da solu-zioni collaudate e politicamente ben accette. Il suo verismoben temperato rifiuta ogni versione dura e volgare così co-me sfugge al formulario di una gradevole classicità: parlaredi esiti lirici significa sminuire la tensione di un racconto chesi cala in uno stile morbido e insieme intenso, lontano daogni soluzione elegiaca. La complessa cifra stilistica rivela unpotenziale di contenimento e di padroneggiamento cheaffonda le radici nella zona più valida della tradizione delverismo regionale e del racconto psicologico: la lezione diVerga e di altri maestri del romanzo come Flaubert e Tolstojaiutano a configurare un modello narrativo in cui il rapportofra uomo e ambiente trova una nuova, dolente persuasività.

Carlo Alberto Madrignani

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una deviazione e un arricchimento (queste pagine furonoanticipate sulla rivista Lettere d’oggi). Severina viene assimi-lata al mondo segreto del marito, anche lei è incapace dispiegarsi i modi e le ragioni del suo trepido gioire coniuga-le oscuramente timorosa di irrazionali insidie (sapremo poi,indirettamente, della sua precoce morte). È una gioia chetrasale a contatto con quanto la circonda e quasi la spaven-ta. Ancora una volta Dessì si rivela il narratore di situazionidi latenti emozioni al limite dell’inesprimibile, abile nel sug-gerire un’atmosfera di sensazioni e trasalimenti che sfuggo-no al dominio razionale. Severina ha la funzione di siglareun tipo di narrazione fatta di allusioni e sensazioni attraver-so le quali si esprime il turbamento dell’esistere: a lei è affi-data la clausola conclusiva in cui si esalta il gusto per il rac-conto sensitivo e subliminale. La gioia coniugale non èappagamento, è una forma di timido, incredulo interrogarsisu quanto le sta accadendo: non «avrebbe saputo dire per-ché – si legge – quei monti, quei boschi, lo stormire delvento a lunghe ondate, quando il paese dormiva le desseroquel turbamento di gioia». L’ansia interrogativa induce ladonna a razionalizzare ingenuamente lo stato di benesseree ad ipotizzare che «forse era la vita più riposata, a farla starbene, e l’acqua buona, l’aria salubre, il cibo abbondante enutriente». Nell’approfondimento di tale complesso di sen-sazioni sotterranee si fa strada un concetto dell’amore inte-so come «un sentimento della carne, profondo e solitario»,che è una definizione in armonia con la psicologia dei per-sonaggi, con la loro cultura della segretezza e della solitudi-ne, come se i sentimenti riposassero in una lontananza psi-chica a cui le parole non possono accedere.

Il romanzo del giovane Michele segue il tracciato in cuisi cadenza una vita ispirata alla mitezza e al silenzio; il pu-dore dei sentimenti, la loro logica inspiegabile si esprimo-no in uno stile oggettivo, quasi neutro, lontano dai fervorie dai drammi d’obbligo nel racconto amoroso. Non si puònon notare la consonanza con la maniera pudica, pulita eintensa con cui Cassola stava incominciando a narrare le

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NOTA BIOGRAFICA

Giuseppe Dessì nacque a Cagliari il 7 agosto 1909,ma le sue «radici» – come da lui stesso in più occasioni af-fermato – erano a Villacidro, cittadina alle pendici delMonte Linas dove da generazioni viveva la sua famigliad’origine e dove trascorse gran parte della sua infanzia eadolescenza, rese difficili dalle frequenti assenze del pa-dre, ufficiale di carriera le cui partenze per la guerra, dap-prima quella libica e poi quella del ’15, erano continuafonte di angoscia per la moglie e i piccoli figli.

Pessimo studente ma affascinato dal mondo della cul-tura e dei libri («per conto mio ero stato un ragazzo indi-sciplinato ma avido di letture – scrisse in un articolo di ri-cordi scolastici apparso in Belfagor nel maggio del 1967 –e m’ero confuso la testa con libri che non ero in grado dicapire, pescati in una vecchia biblioteca di famiglia chemio nonno aveva prudentemente murato e che io avevoper caso riscoperto … l’Origine delle specie di Darwin, ilCorso di filosofia positiva di Comte, l’Etica di Spinoza, laMonadologia di Leibniz – opere che ricordo di aver lettoin uno stato di lucido sonnambulismo, ma che sconvolse-ro la mia vita dalle fondamenta»), il giovane Dessì ap-prodò già ventenne al Liceo classico “Dettori” di Cagliari– il Liceo che era stato anche di Gramsci – dove avvenneun incontro decisivo per la sua vita di scrittore e di intel-lettuale. Insegnava allora al “Dettori” il giovane storicoDelio Cantimori, che notò quell’allievo ritardatario ma ec-cezionale e lo ammise alla sua biblioteca privata, offren-do una disciplina a quella disordinata curiosità intellettua-le. Anche per consiglio di Cantimori, rafforzato dallesollecitazioni di un altro giovane d’eccezione, Claudio Va-rese, conosciuto a Cagliari in casa di Cantimori e amicofraterno di tutta una vita, Dessì scelse di frequentare la

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Facoltà di Lettere a Pisa, dove si laureò nel ’36 con unatesi su Manzoni discussa con Attilio Momigliano. A PisaDessì, che non era “normalista”, frequentò tuttavia quel-l’ambiente, in forte odore di antifascismo; ne facevanoparte, oltre a Varese, Aldo Capitini, Carlo Ludovico Rag-ghianti, Carlo Cordié, tanto per citare i più noti: un grup-po di intellettuali influenzati dal lato filosofico da Gentile(meno da Croce) e dal lato politico dal liberalsocialismodei Rosselli e di Guido Calogero, del quale anche Dessìsentirà a lungo il richiamo.

Uomo di scuola, dapprima professore di Lettere e poiProvveditore agli studi in varie sedi della Penisola, Dessìesordì come scrittore nel ’39, con i racconti della Sposa incittà, ma la sua firma era già apparsa su varie riviste, tra lequali quella di Bottai, Primato, che ospitava contributi deimaggiori letterati e poeti del tempo. Lo stesso anno il pri-mo romanzo, San Silvano, viene accolto con favore dai cri-tici migliori e salutato dal più autorevole e acuto tra loro,Gianfranco Contini, con un saggio dal titolo impegnativo:“Inaugurazione di uno scrittore”. Contini, oltre a insisteresul respiro europeo dello scrittore sardo, indicava in Proustil primo dei suoi numi tutelari e certo coglieva nel segno.Ma altri autori hanno forse contato di più per Dessì, chetra gli scrittori di lingua italiana del nostro secolo si distin-gue per un’autentica e non dilettantesca passione per ilpensiero filosofico della modernità, da Spinoza ad Husserl(in una lettera a Claudio Varese del 27 febbraio 1964, affer-mava: «Credo sia abbastanza facile trovare nei miei libriqualche ascendenza filosofica – il che è abbastanza raro inItalia. I pochi filosofi che ho letto mi sono serviti perché liho amati come si amano i poeti, e forse anche di più»).Ciò spiega l’interesse vivissimo di Dessì per una letteraturacome quella tedesca del Novecento, particolarmente riccadi scrittori nutriti di pensiero filosofico. Thomas Mann,Hermann Hesse e Rainer Maria Rilke – autori che entraro-no nella cultura letteraria italiana intorno agli anni Trenta –

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Negli anni del neorealismo e della battaglia politico-cul-turale condotta dal gruppo dirigente del PCI per un’arterealista (non immune spesso da quel tipo di dogmatismoche va sotto il nome del delfino di Stalin, Zdanov), Dessìcontinua la sua ricerca letteraria, del tutto immune da tenta-zioni populiste o da facili ottimismi storicistici. L’idea di rea-lismo che lo scrittore matura in questi anni non ha nulla ache fare con l’ortodossia pseudomarxista di cui si tentava diimporre l’egemonia. La sola realtà rappresentabile per Dessìè quella che matura nella coscienza, senza che siano am-missibili barriere tra il soggetto e l’oggetto: «Tutto è internoe tutto è esterno per l’uomo d’oggi», ammoniva Montaleproprio in quegli anni; e Gadda, uno scrittore lontanissimoda Dessì ma come lui cultore profondo di Spinoza e diLeibniz, respingeva del neorealismo la pretesa di obbietti-vità e l’incapacità di far avvertire dietro il fatto il misteriosopulsare di una realtà più profonda. Dessì, pur lontano poli-ticamente da Montale e da Gadda, sta dalla loro parte inquesta affermazione del primato della coscienza sulla nudarealtà fattuale. L’alternarsi della terza e della prima personain Michele Boschino («Ci sono due punti di vista che interfe-riscono, quello oggettivo e quello soggettivo … ma il rac-conto è solo apparentemente continuato: in realtà è ripetu-to», lettera a Claudio Varese del 1947); il quasi totale ripudiodel racconto “in presa diretta” a favore del racconto filtratoattraverso il monologo interiore dei personaggi, tipico delDisertore (pubblicato da Feltrinelli nel 1961), si fondano sulprincipio che l’unica realtà accessibile all’artista è quella si-tuata al punto d’incontro tra il soggetto e l’oggetto, senzaabdicazioni del primo dalla sua responsabilità di giudicare esenza per converso confinare il secondo nei limiti di unamera «rappresentazione». Secondo Dessì, il mondo dellapossibilità per l’artista è altrettanto concreto e palpabile diquello ritenuto reale. «Ogni tanto – leggiamo nelle “Paginebianche” del ’58, in Come un tiepido vento – mi capita di va-gheggiare con l’immaginazione cose che avrebbero potuto

Nota biografica

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costituiscono una triade assai influente nella formazioneculturale di uno scrittore che in quegli autori (sono paroledi Varese) «cercava soprattutto la meditazione congiuntacol racconto, la riflessione filosofica al limite della saggisti-ca come una garanzia della possibilità, della difficoltà, delvalore e della ricchezza interiore della persona umana».

Agli anni pisani, così fervidi di dibattiti e di letture, se-guirono quelli dell’insegnamento a Ferrara, dove allora(siamo tra il 1939 e il 1941) risiedeva anche Varese e doveDessì strinse amicizie nuove, tra le quali importante quellacon Giorgio Bassani, che lo stimava molto e che a suotempo avrebbe accolto nella collana dei narratori di Feltri-nelli, da lui diretta, Il disertore.

Nominato Provveditore agli studi nel ’41, Dessì fu tra-sferito a Sassari, dove restò per tutti gli anni della guerra(nel 1946, lasciata la Sardegna, esercitò tale professione invarie sedi del Continente, fino al definitivo trasferimento aRoma, avvenuto nel 1954). Gli anni trascorsi a Sassari, de-dicati alla stesura di un nuovo romanzo, Michele Boschino,furono anche anni di intenso impegno politico. Crollato ilFascismo, Dessì fu tra i fondatori della sezione sassaresedel ricostituito Partito Socialista. Nel luglio del ’44 fece par-te del gruppo di intellettuali e politici di sinistra che dette-ro vita a Riscossa, un settimanale «politico, letterario ed’informazione» il cui primo numero fu aperto da un suoarticolo di fondo intitolato “Amammo un’immagine segretadella libertà”. In seguito, per un certo periodo di tempoegli non svolse attività politica in un partito, sebbene dellavita civile non si sia disinteressato mai, né delle cose dellaSardegna. Nel 1960 accettò di essere presentato come indi-pendente nelle liste del PCI per il Consiglio comunale diGrosseto, dove soggiornò come Provveditore (in prece-denza era stato nella stessa veste a Ravenna). Fu eletto epartecipò alla vita di quel Comune come consigliere dal’60 al ’64, anno in cui fu colpito dalla malattia che lo ac-compagnerà fino alla morte. Nel 1974 si iscrisse al PCI.

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titolo abbastanza ambiguo di Racconti drammatici dato al-le sue cose teatrali), Dessì disse: «[Intendevo] arrivare adun’oggettività più sostanziale dalla quale non si possa ritor-nare indietro »; e aggiungeva: «Il massimo dell’oggettività èil dialogo, raccontare attraverso il dialogo, far parlare i per-sonaggi, rappresentarli, farli vedere muoversi, far vederegli avvenimenti agli spettatori così come si svolgono, sen-za intermediari, senza interventi». Così I passeri, previa po-tatura di alcuni personaggi, non a caso i più introversi, di-verrà Qui non c’è guerra, pubblicato da Feltrinelli nel 1959assieme all’altro “racconto drammatico” La giustizia (giàapparso però nel ’57 su Botteghe oscure); e L’uomo al pun-to (trasmesso dalla RAI sulla terza rete nel ’61) ha un lonta-no riferimento nel racconto La frana. Il successo dellaGiustizia – radiotrasmessa in Italia e dalla BBC nella tradu-zione di David Paul e poi messa in scena dal Teatro stabiledi Torino nel gennaio del ’59 con la regia di Giacomo Collie giunta in molte città italiane – è probabilmente all’originedella decisione della RAI di far inaugurare il secondo cana-le televisivo nel 1962 con un “originale” del nostro scritto-re, La trincea, nel quale è in scena, senza mitizzazioni, laBrigata Sassari, incunabolo per Dessì del sardismo più au-tentico, ossia meno incline a chiudere la Sardegna nel re-cinto del regionalismo («Ci ho messo dentro un intero re-parto di fanteria con armi, bagagli, fango e pidocchi – haprecisato lo stesso Dessì. – Ho rappresentato una battagliae la conquista d’una trincea sotto il fuoco nemico, il ba-gliore degli scoppi, la luce spettrale dei razzi illuminanti»).Infine, nel 1964, l’anno infausto in cui Dessì fu colpito daun’emiplegia, vide la luce, nella collana “Quaderni dei nar-ratori italiani”, diretta da Nicolò Gallo per Mondadori, l’ulti-mo “racconto drammatico”, Eleonora d’Arborea. Con sceltasignificativa, il dramma (che purtroppo non è stato mairappresentato) si intitola all’eroina più famosa della storiasarda, tenendosi però alla larga dalla visione mitica che neebbero gli intellettuali romantici (gli stessi che furono autori

Nota biografica

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avverarsi e che non si avverarono. E mi domando se ciò siadovuto a un capriccio della sorte oppure sia la risultante diuna serie di cause e di effetti che si perde al di là delle no-stre possibilità di conoscenza. L’immagine che risulta daquesto mancato inveramento del possibile, la proiezione dei“se”, a cui qualche volta mi abbandono, lungi dall’essere untotale capovolgimento di questo nostro mondo reale, non èche una modificazione, in apparenza insignificante, di esso,una saggia, prudente e perfino astuta messa a punto».

Tra Michele Boschino e Il disertore si collocano nume-rose opere: le raccolte di racconti Isola dell’Angelo (poicol titolo Lei era l’acqua) e La ballerina di carta, entram-be del 1957, e i romanzi – tutti e due pubblicati a puntatesul Ponte, rispettivamente nel 1948 e nel 1953 – Introdu-zione alla vita di Giacomo Scarbo e I passeri; il primo de-dicato esplicitamente a quel fantasmatico e virtuale alterego («un mio possibile coetaneo», l’ha definito lo stessoscrittore) che, dalla prima apparizione nella premessa del-la Sposa in città sotto le spoglie del pittore pazzo ai capi-toli a lui dedicati nel postumo La scelta, sarebbe stato unapresenza costante nella narrativa di Dessì; mentre il secon-do, che in anni ancora gravati dalla polemica sul realismo«continua ad obbedire alle leggi più tipicamente dessianedella relatività della conoscenza» (A. Dolfi), fa scaturireuna viva immagine dell’ultimo dopoguerra in Sardegna,tra occupazione tedesca e sbarco delle truppe statunitensi,attraverso le storie intrecciate di due donne travolte cometanti dai marosi della storia.

Proprio al fine di salvaguardare le ragioni più profondedella sua poetica di narratore, Dessì volle ad un certo puntoconfinare (o forse meglio, sperimentare) l’esigenza di auto-nomia dei personaggi in una loro trasposizione per la sce-na, divenendo anche drammaturgo di indubbio successo, edi notevole mestiere. Rispondendo alla domanda di un cri-tico sul perché di questa sua esperienza di autore per il tea-tro (ma va notato il compromesso raggiunto dall’autore col

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NOTA BIBLIOGRAFICA

ROMANZI, RACCONTI E POESIE

La sposa in città, Modena, Guanda, 1939 (contiene: La sposain città, Un ospite di Marsiglia, La città rotonda, Giuoco in-terrotto, I piedi sotto il muro, Il cane e il vento (dialogo), Leamiche, La rivedremo in Paradiso, Una collana, Inverno,Cacciatore distratto).

San Silvano, Firenze, Le Monnier, 1939; Milano, Feltrinelli,1962; Milano, Mondadori “Oscar”, 1981.

Michele Boschino, Milano, Mondadori, 1942, 1975 e “Oscar”,1977.

Racconti vecchi e nuovi, Torino, Einaudi, 1945 (contiene:Giuoco interrotto, Inverno, Una collana, La rivedremo in Pa-radiso, Un ospite di Marsiglia, Cacciatore distratto, Incontronel buio, Ricordo fuori del tempo, Un bambino quieto, L’in-sonnia, Suor Emanuela, Vigilia, Ritratto, Le aquile, Gli aman-ti, Saluto a Pietro Quendespuitas, Lebda, Paesaggio, Inno-cenza di Barbara, La cometa).

Storia del principe Lui, Milano, Mondadori, 1949 e 1969.

I passeri, Pisa, Nistri-Lischi, 1955; Milano, Mondadori, 1965.

Isola dell’Angelo, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1957 (contie-ne: Isola dell’Angelo, I segreti, La cometa, La mia trisavolaLetizia, Lei era l’acqua, Il bacio, La capanna, Black, La frana).

La ballerina di carta, Bologna, Cappelli, 1957 (contiene: La ma-no della bambina, I violenti, La ballerina di carta, La magnolia,Fuga di Marta, La paura, Il fidanzato, La verità, Succederà qual-cosa, Paese d’ombra, Giovani sposi, La rondine, Le scarpe nere,Caccia alle tortore, Oh Martina, La ragazza nel bosco, L’uomodal cappello, Lo sbaglio, Il colera, La felicità, Un canto, La cles-sidra, L’utilitaria, Il grande Lama, La bambina malata).

Introduzione alla vita di Giacomo Scarbo, Venezia, Sodaliziodel libro, 1959; Milano, Mondadori, 1973.

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delle false Carte d’Arborea). Certo ha agito nella fantasia diDessì, oltre la famosa tesi di Lussu sulla Sardegna come«nazione mancata», una visione alquanto leggendaria delperiodo dei giudicati, e specie di quello d’Arborea, comedi un periodo ricco di contenuti di autogoverno. Ma il cen-tro di gravità del dramma risiede nella consapevolezza po-stuma della sconfitta che serpeggia anche nei momenti dimaggiore tensione euforica e troverà alla fine un simbologlobale nella peste bubbonica che piega le ultime resisten-ze dell’esercito di Eleonora, restituendo la giudicessa – nel-la quale rivive, in circostanze tanto mutate, il dramma dellamadre del Disertore – al suo popolo falcidiato dalla morte.

Nell’ultimo decennio della sua vita Dessì ha convissutostoicamente con la malattia, ma non se ne è lasciato travol-gere. Tra il 1965 e il 1966 escono le antologie Scoperta del-la Sardegna, con un importante saggio introduttivo, e Nar-ratori di Sardegna (in collaborazione con Nicola Tanda),ed il volume di racconti Lei era l’acqua. Ma il culmine deldecennio è toccato nel 1972 con la pubblicazione di Paesed’ombre, romanzo di respiro epico centrato sulla figura diun notabile sardo, riformista e modernizzatore, sullo sfon-do del periodo che va dall’Unità d’Italia alla prima guerramondiale. Il premio Strega, assegnatogli quell’anno, valse ariproporre al pubblico l’opera di uno scrittore costretto dadiversi anni al silenzio.

Dessì attendeva alla stesura dell’ultimo romanzo, Lascelta, che sarebbe apparso postumo e incompiuto quandomorì, il 6 luglio 1977. Postumi sono stati pubblicati inoltre,a cura di Anna Dolfi e con la collaborazione della vedovaLuisa Babini (e sempre con il vivo interessamento di Clau-dio Varese, l’amico fraterno che ha tra l’altro dettato unabellissima prefazione alla Scelta) la raccolta di saggi e arti-coli Un pezzo di luna e il volume di racconti Come un tie-pido vento. Completano l’elenco dei libri postumi il volu-metto delle Poesie, a cura di Neria de Giovanni, ed i Diari1926-1931 e 1931-1948, entrambi a cura di Franca Linari.

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SAGGISTICA

Sardegna una civiltà di pietra, in collaborazione con FrancoPinna e Antonio Pigliaru, Roma, Edizioni de “L’Automobile”,1961.

Narratori di Sardegna, in collaborazione con Nicola Tanda,Milano, Mursia, 1965.

Scoperta della Sardegna, Milano, Il Polifilo, 1966.

La leggenda del Sardus Pater, Urbino, Stamperia Posterula,1977.

Un pezzo di luna. Note, memorie e immagini della Sardegna,a cura di Anna Dolfi, Cagliari, Edizioni della Torre, 1987 (con-tiene: Scoperta della Sardegna, Paese d’ombra, Le due faccedella Sardegna, Sale e tempo, La donna sarda, La leggendadel Sardus Pater, Proverbi e verità, Io e il vino, Taccuino diviaggio, Nostalgia di Cagliari, Carnevale con diavoli rossi, Belliferoci e prodi, Noialtri, Un’isola nell’isola, I sogni dell’arcidu-ca, Il frustino, Il castello, Una giornata di primavera, Solitudi-ne del popolo sardo, “Riscossa”, Il verismo di Grazia Deledda,Grazia Deledda cent’anni dopo, L’uomo Gramsci, Ricordo diEugenio Tavolara, Come sono diventato scrittore).

BIBLIOGRAFIA CRITICA ESSENZIALE

G. Contini, “Inaugurazione di uno scrittore” (1939), ora inEsercizi di lettura, Torino, Einaudi, 1974.

N. Gallo, “La narrativa italiana del dopoguerra”, in Società,giugno 1950.

G. Barberi Squarotti, “Narrativa di Dessì” (1959), ora in Poe-sia e narrativa del secondo Novecento, Milano, Mursia, 1967.

A. Leone De Castris, in Decadentismo e realismo, Bari,Adriatica, 1959.

E. De Michelis, in Narratori al quadrato, Pisa, Nistri-Lischi,1962.

P. Ragioneri Sergi, “Breve storia di Giuseppe Dessì”, in Bel-fagor, n. 2, 1962.

Nota bibliografica

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Il disertore, Milano, Feltrinelli, 1961; Milano, Mondadori,1974 e “Oscar”, 1976; Nuoro, Ilisso, 1997.

Lei era l’acqua, Milano, Mondadori, 1966 (contiene: Isoladell’Angelo, I segreti, La cometa, La mia trisavola Letizia, Leiera l’acqua, Il bacio, La capanna, Canto negro, Il giornaledel lunedì, Il distacco, Commiato dall’inverno, Fuochi sulmolo, Black, La frana, Vacanza nel Nord).

Paese d’ombre, Milano, Mondadori, 1972 e “Oscar”, 1975;Nuoro, Ilisso, 1998.

La scelta, a cura di Anna Dolfi, Milano, Mondadori, 1978.

Come un tiepido vento, Palermo, Sellerio, 1988 (contiene: Il ba-stone, Risveglio, Eucalipti, La sposa in città, Il figlio, Le scarpenuove, L’offerta, Il risveglio di Daniele Fumo, Ellisse, La fidu-cia, Il pozzo, La serva degli asini, Un’astrazione poetica, Giro-scopio, Tredici, Signorina Eva, La strada, È successo a Livia, Ildestino di Numa, Breve diluvio, Il disastro, Coro angelico, Fu-ga, La certezza, Claudia, I cinque della cava, Come un tiepidovento, Il battesimo, Lettera crudele, Il giorno del giudizio).

Diari 1926-1931, a cura di Franca Linari, Roma, Jouvence,1993.

Poesie, a cura di Neria de Giovanni, Alghero, Nemapress,1993.

Diari 1931-1948, a cura di Franca Linari, vol. II, Roma, Jou-vence, 1999.

TEATRO

Racconti drammatici (La giustizia, Qui non c’è guerra), Mi-lano, Feltrinelli, 1959.

“L’uomo al punto”, in Terzo programma, 1961, 1, pp. 240-283.

“La trincea”, in Teatro Nuovo, marzo-aprile 1962; poi inDrammi e commedie, Torino, ERI, 1965.

Eleonora d’Arborea, Milano, Mondadori, 1964; poi, a cura diNicola Tanda, Sassari, EDES, 1995.

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MICHELE BOSCHINO

A mio Padre

G. Debenedetti, “Dessì e il golfo mistico”, in Intermezzo, Mi-lano, Mondadori, 1963.

C. Varese, in Occasioni e valori della letteratura contempo-ranea, Bologna, Cappelli, 1967 (raccoglie scritti dal 1940 al1961; ma di Varese sono da vedere anche le prefazioni aSan Silvano, Milano, Feltrinelli, 1962; Paese d’ombre, Milano,Mondadori, 1975; Michele Boschino, Milano, Mondadori,1975; nonché i saggi raccolti in Sfide del Novecento. Lettera-tura come scelta, Firenze, Le Lettere, 1992).

M. Tondo, in Storia della letteratura italiana. I Contempora-nei, III, Milano, Marzorati, 1969 (poi ampliato in “Lettura diGiuseppe Dessì”, in Sondaggi e letture di contemporanei,Lecce, Milella, 1974).

N. Tanda, in Realtà e memoria nella narrativa contempora-nea, Roma, Bulzoni, 1970.

M. Miccinesi, Invito alla lettura di Giuseppe Dessì, Milano,Mursia, 1976.

A. Dolfi, La parola e il tempo. Saggio su Giuseppe Dessì, Fi-renze, Nuovedizioni Vallecchi, 1977 (vedi anche, di AnnaDolfi, gli interventi raccolti nel volume In libertà di lettura.Note e riflessioni novecentesche, Roma, Bulzoni, 1990).

G. Trisolino, Ideologia, scrittura e Sardegna in Dessì, Bari,Milella, 1983.

La poetica di Giuseppe Dessì e il mito Sardegna, Atti del Con-vegno svoltosi nella Facoltà di Lettere dell’Università di Ca-gliari nel settembre 1983, Cagliari, 1986 (si segnalano in par-ticolare le relazioni di G. Barberi Squarotti, N. De Giovanni,M. Dell’Aquila, A. Dolfi, C. Lavino, G. Manacorda, L. Muoni,G. Petrocchi, G. Pirodda, N. Tanda, M. Tondo, G. Trisolino,C. Varese).

C. Lavinio, in Narrare un’isola. Lingua e stile di scrittori sar-di, Roma, Bulzoni, 1991.

N. Rudas, “«Il disertore»: il romanzo del segreto”, in L’isola deicoralli. Itinerari dell’identità, Roma, La Nuova Italia Scientifi-ca, 1997.

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PARTE PRIMA

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CAPITOLO I

Michele Boschino aveva imparato da suo padre a col-tivare la terra.

Quando suo padre morì, si trovò in possesso di unpiccolo patrimonio che gli permetteva di lavorare quasiesclusivamente sul suo.

Aveva trent’anni.Il suo temperamento lo avrebbe portato ad abbando-

narsi a una pericolosa fiducia negli uomini, ma fin dabambino aveva sentito ripetere da suo padre, che contapiù un nemico solo che cento amici; e, per quanto Giu-seppe, suo padre, fosse ben voluto da tutti, a Sigalesa,Michele ebbe presto la conferma di questa verità.

Per un difetto costituzionale mise i primi denti solo adodici anni suonati, e per questo non fu mandato a scuola.Crebbe, ciò non ostante, sano e forte, seguiva suo padre incampagna o aiutava la madre nei lavori domestici. Era sve-glio e pronto, imparava a lavorare senza fatica. Per la stes-sa ragione per cui non fu mandato a scuola, sua madre lotenne anche lontano dagli altri ragazzi, così, benché fossedi temperamento socievole, non ebbe amici e neppurecompagni di giuoco. Altri fatti che sopravvennero reseroabituale questa solitudine. Nei primi anni della sua fanciul-lezza, forse a causa della sua bocca sdentata di vecchiettofacile al riso, la simpatia che tutti manifestavano a suo pa-dre si ravvivava e si faceva più cordiale quando c’era lui.Le sole persone che imparò, fin d’allora, a considerare co-me nemici, erano gli zii paterni Salvatore e Benedetto.

Alcuni anni prima che Michele venisse al mondo,Giuseppe aveva avuto da uno zio una piccola ereditàche, secondo Salvatore e Benedetto, avrebbe dovuto ve-nir divisa in tre parti uguali: un vecchio giogo di buoi,che Giuseppe vendette per poche decine di scudi. Poca

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I due stettero ad ascoltarlo con la faccia incantata; poigli saltarono addosso e cominciarono a menar botte, chese continuavano ancora un poco lo lasciavano morto. Perfortuna accorse un vicino a metter pace. Giuseppe stettea letto qualche giorno, e non volle denunciare i fratelli,come qualcuno gli consigliava. Cacciati a spintoni dagliamici, i fratelli andarono a chiedergli scusa di quel cheavevano fatto, ma quando poi furono lì se ne stettero se-duti in disparte senza saper cosa dire, e Giuseppe, comese niente fosse, continuò a chiacchierare con gli altri ami-ci che gli tenevano compagnia. – Povero Beppe – disseuna vecchia dopo che quei due se ne furono andati – for-se son più i colpi che ti hanno dato quei due giovanottiche gli scudi che ti sono venuti da quei buoi! –. – È pro-prio come dite, zia Lica – rispose Giuseppe. – Ma non so-no quei pochi scudi che stanno sullo stomaco ai miei fra-telli. Se io lavorassi ancora a giornata e non avessi legnaper scaldare il bambino d’inverno, non ci penserebberopiù, a quegli scudi. Ma ora sentono che c’è un po’ di cal-duccio, nella mia casa, che non si tira più la cinghia, e mivogliono male per questo.

Nei paesi del Centro, anche oggi – e tanto più a queitempi – la vita del contadino è così grama che le perditegli nuocciono assai meno di quanto non lo avvantaggi ilbenché minimo guadagno. Il bisogno ha indurito la suatenacia: la prosperità lo trova con lo stesso animo diffi-dente con cui accoglie la gente forestiera, con le stessemani infaticabili di quando lotta con la carestia. Abituato amangiar pane e olive secche per mesi e mesi, non si con-cede nulla di più nelle annate buone: e mette da parte ilresto per le cattive, che succederanno a quelle infallibil-mente. Ogni pugno di grano sparagnato è un guadagno.

Giuseppe Boschino, col ricavo dei buoi ereditati, econ qualche piccolo risparmio, ne aveva comprato ungiogo di buona razza, forte e grande, come se ne vede-vano di rado nei paesi del Centro; e aveva cominciato a

Capitolo I

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roba, ma quanto bastava per alimentare un rancore cheforse aveva origini più lontane.

Secondo i due fratelli questa piccola somma avevadato origine al modesto patrimonio che Giuseppe, primasolo, poi con l’aiuto della moglie e del figlio era andatoarrotondando; e non se ne davano pace, anzi il loro astiocresceva col passare degli anni. Giuseppe aveva cercatotante volte di far capire ai fratelli che quell’eredità glispettava perché aveva assistito lo zio, negli ultimi tempi,quand’era vecchio e ammalato; e c’era anche uno scritto.Parenti e amici comuni cercarono inutilmente di convin-cere i due testardi a desistere.

Un giorno Salvatore e Benedetto andarono a trovarlonel suo podere di Spinàlva e lo affrontarono di nuovo conminacce. Giuseppe, seduto su un sasso, stava aggiustandole tirelle dell’asino, e non si mosse neppure. Li lasciò sfo-gare, poi disse: – Non lo sapete neppure voi perché grida-te così. Sedetevi qui all’ombra e ragioniamo. Voi siete piùarrabbiati ora di prima. Ogni anno siete sempre più arrab-biati. Ogni sasso che butto nella callaia vi fa arrabbiare. Eperché? La mia terra è come un albero. Se io, il seme diquell’albero, lo facevo andare a male, voi a quest’ora nonci pensavate più. Saremmo amici. Voi due avreste capitola ragione. Invece ho piantato il seme nel terreno buono,e il mio albero è cresciuto. Voi eravate in malafede, quan-do avete cominciato a litigare con me. Oggi forse anchevoi ci credete davvero, di avere ragione. No? Ecco cos’è lavostra: invidia. Dimenticatevi di quest’albero. Pensate cheio qui nella mano abbia ancora un seme soltanto. Ora chesono passati tanti anni, forse non vi sentite più di esserein malafede come quando eravate giovincelli e io vi face-vo da padre. Pensate al seme, non all’albero; l’invidia la-sciatela da parte, che non v’accechi. E ricordatevi semprequesto: voi due potreste passare la vostra vita a gridarecontro di me: fareste scappare gli uccelli dal mio grano, edi questo vi ringrazierei; ma di più non potrei fare.

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di corbezzolo da cui doveva cavare un manico per il pic-cone. Giuseppe non lo perdeva d’occhio. Quando videche stava per saltargli addosso, fece un passo all’indietroe gli diede della zappa sulla testa. Benedetto cadde lun-go disteso in mezzo all’insalata. Giuseppe gli lavò la feri-ta con l’acqua del pozzo, lo fasciò alla meglio con unpezzo di camicia, poi lo portò in paese col carro, e andòa mettersi sotto la protezione dei gendarmi, perché Salva-tore e i figli di Benedetto minacciavano di fargli la pelle,se lo trovavano. Fu trattenuto, e dopo alcuni mesi di car-cere preventivo condannato a tre anni di reclusione. Mad-dalena per pagar l’avvocato, che non aveva fatto niente diniente, dovette vender la vigna. Ma non si scoraggiò. Treanni passano presto, diceva. Vendette uno dei due gioghidi buoi, affittò il terreno da semina, e lei stessa, con l’aiu-to di Michele, si mise a coltivare l’orto. Michele avevaquindici anni, ma lavorava come un uomo. Era avvedutoe cauto come suo padre. Fu lui che le consigliò di vende-re anche l’altro giogo di buoi, e di comprare un mulettoper portare i prodotti al mercato.

Passarono due anni duri e tristi; e il ragazzo, vedendola madre arrabattarsi senza posa e i guadagni diminuiresempre, rimpiangeva la calma e la serenità di suo padre.

All’inizio del terzo anno ci fu un’amnistia e Giuseppetornò a Sigalesa. L’aria e il sole fecero scomparire in pocotempo dal suo viso le tracce della prigionia. I buoi furonoricomprati, tutto tornò come prima.

Quando gli dicevano che aveva subìto una grave in-giustizia, – e anche Maddalena glielo ripeteva sempre,perché voleva che facesse qualcosa, che si prendesse unarivincita – Giuseppe osservava che se era un’ingiustizia,la cosa non riguardava lui: per lui era stata come una ma-lattia, e il danno che ne aveva avuto nessuno glielo pote-va ripagare. Pensava alla vigna perduta, alla bella vignadel Faraone. E subito cominciò a metter da parte i danariper ricomprarla.

Capitolo I

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lavorare a giornata per conto d’altri. In qualche annoaveva messo da parte quanto bastava per comprare alcu-ni ettari di terra a Spinàlva. La casa ce l’aveva già, e Mad-dalena gli aveva portato in dote cinque o sei filari di vitein collina. Poteva tirare il fiato. Fu allora che venne almondo Michele. Quando il ragazzo fu in grado di lavora-re anche lui, Giuseppe comperò un altro giogo di buoi ecominciò a far trasporti di carbone e legname dalla fore-sta. Questi trasporti rendevano molto di più della solitagiornata di aratura. Il poderetto di Spinàlva fu accresciutocon nuovi acquisti, grazie a quei guadagni. Allora Giu-seppe scavò un pozzo che risultò ricco di acqua anche inpiena estate. Quando si fu accertato della ricchezza diquella vena, fece accanto al pozzo una vasca in muratu-ra, ci mise una noria, e impiantò un orto. I fratelli, chepassavano di là spesso per andare a un loro podere diNadòria, entravano nell’orto con la scusa di farsi dare unpo’ d’insalata o di ravanelli da mangiare col pane. Si la-mentavano della loro miseria; e ogni tanto lasciavano ca-dere qualche parola sull’eredità, tanto per mostrare chenon se n’erano dimenticati. – Vedete come siete vigliac-chi – diceva Giuseppe appoggiato alla zappa. – Se ionon ero sempre così paziente con voi, quest’idea vi sa-rebbe uscita dalla zucca una buona volta! –. Un giornoche non c’era Salvatore, Benedetto fece una proposta aGiuseppe. Era disposto, diceva, a venire a patti, purchéGiuseppe lo prendesse come socio nell’orto. Giuseppe simise a ridere. Rispose che lui il socio ce l’aveva già, ave-va suo figlio Michele, per socio. Poi, siccome l’altro insi-steva, si rimise a zappare senza più dargli retta. Esaspera-to dalla sua calma, Benedetto cominciò a minacciarecome l’altra volta che l’aveva picchiato assieme con Sal-vatore. Erano soli, nell’orto, Michele essendo andato inpaese con un carico di cavoli da vendere al mercato.Molti anni erano passati, dall’altra volta, ma Benedettoaveva gli stessi occhi d’allora, e teneva in mano un ramo

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CAPITOLO II

Sui vent’anni Michele s’innamorò di Angela Ghiani, fi-glia d’un compare dello zio Teodoro, del rione di Tuinas.In questo rione erano quasi tutti caprai, ma Agosto Ghia-ni aveva anche, oltre le capre, una vigna e alcuni ettari diterreno da semina. Viveva solo, con le due figlie, Angelae Carmela, essendo rimasto vedovo, e passava per unodei caprai più ricchi di Sigalesa.

Quando si seppe che i due giovani amoreggiavano, ilfatto fu accolto con stupore dalla gente. Nessuno si sarebbeaspettato che Michele Boschino potesse pretendere a unaragazza come Angela, e tanto meno che lei ci si mettesse.

Giuseppe s’accorse subito di questa sorda ostilità, chedifficilmente avrebbe ceduto al tempo senza prendersiuna rivincita; e temeva per il figlio. Sapeva che certi statid’animo diffusi sono come la siccità. Senza tempeste digrandine e di vento, le foglie degli alberi avvizziscono ecadono, l’erba inaridisce sulla terra secca. Allora basta unfiammifero a distruggere una foresta. Allo stesso modouna parola distrugge la fama d’un uomo, se la gente èostile. Lui stesso, in fondo, non era contento della sceltadi Michele. Non che Angela non fosse una brava ragazza:si sapeva ch’era una buona massaia, com’era stata suamadre, sana, forte, lavoratrice instancabile, ma era troppobella, per Michele. Giuseppe non osava dirlo al giovane eneppure a Maddalena, ma ci pensava: Angela era troppobella, e lui diffidava di tutto ciò che è appariscente, diogni cosa che promette di più di quello che la naturasuole concedere a ognuno. Michele non era un bruttogiovane, anzi si poteva affermare il contrario; e non erané stupido né povero, eppure gli mancava qualcosa peressere l’uomo che ci voleva per Angela. Che cosa, Giu-seppe non avrebbe saputo dirlo, non lo sapeva: forse solo

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l’abitudine di trattar con la gente, coi giovani suoi coeta-nei, e quella sicurezza che solo quest’abitudine può dare.Michele era stato sempre solo, e a Giuseppe pareva chequesto non si confacesse a uno che doveva sposare unadonna sulla quale gli occhi di molti si erano soffermaticon desiderio.

Siccome era orfana di madre e non aveva parenti pros-simi, Angela prese a frequentare la casa. Così poteva starcon Michele senza sospetto ed evitare le chiacchiere. Conlei veniva spesso anche sua sorella Carmela; e tutte e dueaiutavano Maddalena nei lavori, come se fossero ormai dicasa: facevano la farina con lei, il pane, andavano a lava-re al fiume. Piano piano Giuseppe cominciava ad abituar-si alla loro bellezza; ma, ogni tanto, gli nasceva dentrouna specie di timore superstizioso, e allora, più che altroper scrupolo di coscienza, diceva a Michele o a Maddale-na, o anche ad Angela, che la buona moglie dev’esserecome il lume a olio, che fa una luce giusta, né troppo de-bole né troppo viva, e sta dove lo mettono, in cucina co-me nella stalla, e non attira gli occhi, non riempie di sé lacasa. La giovane prendeva queste parole come una lode,e solo Maddalena ne capiva il vero significato. Da tempos’era accorta della muta diffidenza di Giuseppe, e sicco-me s’era affezionata ad Angela, ed era lusingata dal fattoche Michele sposasse una bella ragazza, aspettava il mo-mento di chiedere una spiegazione al marito. Intanto bi-sticciava con lui per cose insignificanti che non avevanonulla a che fare con l’argomento che le stava a cuore.

Nel frattempo Michele aveva cominciato a costruiredue camere accanto al granaio, aveva seminato un po’ diterra per suo conto, e metteva da parte qualche soldo;Angela finiva di tesser la tela per il corredo. All’infuori diquesto, i due giovani vivevano più come fratello e sorel-la che come fidanzati; e spesso qualcuno chiedeva a Mi-chele o a Giuseppe, chi fosse la promessa sposa, Angelao Carmela.

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Un giorno Michele sorprese Maddalena e Giuseppeche bisticciavano tra loro sottovoce. Tacquero non appenas’accorsero di lui, senza riuscire a nascondere un certo im-barazzo. La cosa si ripeté parecchie volte a distanza ditempo, e sempre con più frequenza. Poi, improvvisamen-te, quando Michele chiese di anticipare le nozze, non soloqueste dispute cessarono ma i due vecchi non erano maistati d’accordo come allora. Maddalena mai come allora siera mostrata così docile e remissiva con Giuseppe. – Ionon c’entro – diceva a Michele. – È tuo padre che devedecidere –. E Giuseppe aveva bell’e deciso: le nozze nondovevano essere anticipate neppure d’un giorno. Sapevach’era inutile insistere, Michele, e si sarebbe adattato, co-me sempre, alla volontà di suo padre, se Angela lo avesselasciato in pace. Era lei che voleva affrettare le nozze. Di-ceva che Carmela doveva fidanzarsi, e che il padre non loavrebbe permesso se non dopo le loro nozze; non volevadue uomini in casa in una volta sola. Giuseppe aveva dis-cusso a lungo della cosa con Maddalena, che, in un primotempo, era propensa ad accondiscendere. Avrebbe volutoalmeno che Angela ne parlasse apertamente con lui stessoo con Maddalena: invece, in loro presenza faceva l’agnel-la, e quando poi era sola con Michele non gli dava unmomento di respiro. Maddalena propendeva a credereche ci fosse un’altra ragione nascosta, che la ragazza nonvoleva dire. Forse la ragazza era incinta e si vergognava.Giuseppe diceva che non c’era motivo, in tal caso, di na-sconder la cosa anche a Michele. Disse di averli sentitiparlare di nascosto tra loro, e sapeva che le ragioni di An-gela erano sempre quelle. Proprio da quei discorsi s’eraconvinto che Michele era puro come un bambino.

Una volta che erano soli in casa, la discussione traGiuseppe e Maddalena diventò violenta. Giuseppe avevaripetuto almeno dieci volte lo stesso ragionamento senzariuscire a convincer la donna.

– Ma allora – disse a un certo punto Maddalena – c’è

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un’altra ragione che la ragazza non dice neppure a Mi-chele, una ragione che sa soltanto lei.

– Lei e un’altra persona! Sì, ora me l’hai fatto dire: leie un’altra persona!

Maddalena diventò pallida pallida, e gli si appressòtrascinandosi dietro lo scanno, come se avesse paura.

– Cos’hai detto? – balbettò.Giuseppe aveva preso la paletta, che era appoggiata a

un angolo del camino e s’era messo a esaminarla. Le ma-ni gli tremavano.

– Ho detto una cosa che non avrei voluto dirti mai.Raccontò in poche parole come, alcuni mesi prima,

Raimondo Manchìa, un vecchietto che incontrava ognigiorno sulla strada di Spinàlva gli aveva chiesto se Miche-le fosse fidanzato con Angela o con Carmela. Dopo alcunigiorni lo aveva fermato di nuovo per chiedergli se Angelaera quella di statura più piccola. Giuseppe gli aveva dettoche quella era Carmela. Il vecchio era rimasto perplesso:aveva fatto un cenno di saluto con la mano e aveva ripre-so la sua strada. Una terza volta era stato Giuseppe a fer-marlo. Aveva un sospetto: gli pareva che il vecchio gliavesse nascosto qualcosa. A bella posta disse che s’erasbagliato, che non aveva ben capito la sua domanda, cheAngela era la più bassa delle due sorelle. Allora il vec-chio, sorridendo maliziosamente, aveva detto che lo sape-va, perché l’altra, la più alta, faceva l’amore di nascostocon un vicino di casa, un certo Antonio Taras, e andavaanche a trovarlo in casa, di notte. Lui stesso l’aveva vistadalla sua legnaia. Senza disingannare il vecchio, Giuseppel’aveva fatto parlare a lungo di questi incontri, che avveni-vano sempre quando Agosto era all’ovile. Il vecchio si di-vertiva a raccontare, e diceva che faceva bene, la ragazza,a ingannare suo padre, che non le permetteva di fidanzar-si con quell’uomo. Da molti particolari Giuseppe avevacapito che si trattava di Angela, non di Carmela, il cuipretendente non era Antonio Taras.

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– Anch’io lo avevo sentito dire, molto tempo fa – so-spirò Maddalena.

Lacrimava senza singhiozzi, avvolgendosi alle dita lacocca del fazzoletto, disperatamente.

– A volte – disse dopo un poco con la voce che letremava – a volte la gente non sanno quello che dicono.Cosa ci vuole a diffamare una ragazza?

– Neanch’io ci volevo credere. Ma ora l’ho sentito ri-petere anche da un’altra persona, e anche tu lo sapevi!Chi sa in quanti sono, a saperlo! Ora stanno zitti, aspetta-no che Michele si sposi, perché non è lei che guardanomale, ora! Aspettano che si sposi; e poi… lo sai anche tuquello che succederà. E se anche non lo sapesse nessu-no, non è lo stesso?

Maddalena assentiva in silenzio. Voleva bene alla ra-gazza, e le dispiaceva ora di dover credere una cosa tan-to brutta, le dispiaceva quasi più per lei che per Michele.Era così laboriosa, così buona.

– E se non è vero? – chiese piano, tra le lacrime.Giuseppe la guardò senza rispondere.– E se non è vero? se non è vero?… – insistette la

donna.– Può anche darsi che non sia vero; ma è brutto che

lo dicano.Stettero un pezzo in silenzio, fino a che si sentì aprire

il cancello, e le voci dei tre giovani che rientravano. Eranostati all’orto a cogliere i fichi, e li portavano a casa delica-tamente assolati nelle corbe con erba e foglie. Avevanofatto la strada a piedi perché i frutti non si ammaccasseroagli urti del carro.

Si fecero un segno per esortarsi reciprocamente al si-lenzio; e da quel momento era cominciata tra i due vec-chi quell’intesa che aveva tanto meravigliato Michele.

Maddalena parlava sempre a voce bassa, sfuggendo losguardo di Michele, e sospirava; e anche con Angela nonera più quella di prima. Restava lì imbarazzata, le offriva

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la sedia come a un’estranea, e se Angela, com’era avvez-za, voleva far qualcosa, le strappava quasi gli oggetti dimano. Giuseppe, per suo conto, se n’andava sotto il log-giato o nella stalla. Anche col figlio parlava poco. Quandoandavano in campagna insieme, rispondeva distrattamen-te alle sue domande, senza mai dargli modo di affrontarel’argomento delle nozze, canticchiava e s’interrompevasolo per dare una voce alle bestie, di tanto in tanto. Mi-chele non sapeva spiegarsi questo contegno, e Angelacominciava a sospettare che ci fosse sotto qualche cosa.Fu lei che lo spinse a chiedere una spiegazione ai genito-ri: senza questo, chi sa quando si sarebbe deciso. Le pro-mise che ne avrebbe parlato a sua madre quel giornostesso. Di sera si sedette anche lui accanto al fuoco,aspettando che Giuseppe uscisse, per parlare più libera-mente con Maddalena, che nell’affare del matrimonio gliera sempre stata favorevole. Ma Giuseppe pareva chenon avesse intenzione di muoversi di là. Se ne stavanotutti e tre zitti, come se fosse capitata una disgrazia. Allafine Michele disse:

– E allora?Né Giuseppe né Maddalena gli risposero. Si alzò e ac-

cese la lanterna per andare nella stalla a pestare le faveper i buoi. Aveva voglia di piangere.

– Michele – disse Giuseppe – credi che se non ti vo-glio accontentare lo faccio per puntiglio?

Il giovine si fermò sulla porta.– Vieni qua.Michele richiuse la porta e posò in terra la lanterna,

senza avvicinarsi. Guardò sua madre per chiederle aiuto,ma il viso di lei era duro, immobile nel riflesso dellafiamma. Non lo guardava neppure.

– Dimmi sinceramente, credi davvero che sia per unpuntiglio?

– No, un puntiglio no.– E allora perché credi che lo faccia?

Capitolo II

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Michele indugiò un poco. Gli venne l’idea assurdache suo padre stesse per cedere.

– Perché non hai simpatia per lei – disse a bassa voce.Erano le stesse parole di Maddalena, quelle parole

che egli non aveva mai osato dire a suo padre, e glielediceva ora che, per la prima volta, si trovava solo di fron-te a lui. S’accorse che sua madre piangeva zitta zitta. An-che lui stava per piangere.

– Non è per questo – disse Giuseppe.Batté con la paletta sulla scarpa ferrata del giovine co-

stringendolo a guardarlo in faccia.– Non è per questo.– Non è per questo? E allora cos’è? – disse Michele

singhiozzando. – Allora perché non lo dite? Tante voltene abbiamo parlato, e voi non la dite mai, la ragione.

– A tua madre gliel’ho detta – disse accennando aMaddalena, che scoppiò in singhiozzi anche lei. – E lo di-co anche a te, ora.

Il giovine non capiva, poi, a un tratto, gridò:– Non ditemi niente di brutto, di lei! Non ditemi niente.Nel pianto, la sua voce sembrava persino minacciosa.– Se la prendi così, è meglio lasciar le cose come

stanno. Sposati anche domani, se vuoi.– Non ditemi nulla – continuava a singhiozzare Mi-

chele.Si chinò, prese la lanterna, e uscì sempre ripetendo

quelle parole.Quando fu solo, sotto la tettoia della stalla, si buttò

bocconi sulla paglia. Pianse a lungo, disperatamente, sen-za ritegno. Quando cominciò a calmarsi sentì lì accantoun fruscio leggero. Riconobbe il rumore che suo padre fa-ceva respirando quando portava un peso. Lo sentì sedersia gambe larghe accanto al ceppo che serviva per pestarele fave. Certamente il vecchio lo aveva guardato piangere.

– Non ditemi nulla – ripeté a bassa voce.

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Il vecchio cominciò a pestare le fave a una a una colmaglio canterellando una nenia, come soleva quand’eraoccupato in quell’operazione.

Dopo un poco, s’interruppe, e disse:– Però bada che quello che non vuoi sapere da me

potresti sentirtelo dire da una bocca estranea, e allora sa-rà peggio.

Riprese a canterellare e a battere col maglio.Quella nenia monotona e i tonfi regolari del maglio lo

calmavano. Che cosa c’era da dire, ormai, che già non sa-pesse? «Allora era vero ciò che dicevano» pensava. Si ri-cordava certe allusioni, certe mezze parole, certi sogghi-gni che non aveva creduto rivolti a sé e a cui non avevamai fatto caso, prima.

Capitolo II

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CAPITOLO III

Alcuni anni dopo, sul finir dell’inverno, Giuseppe cad-de ammalato. Cos’avesse, non lo seppe dire neppure ilmedico. In poche settimane sembrava invecchiato. Dovet-te stare a letto, e mandar giù una quantità d’intrugli chenon servivano che a farlo star peggio. Finalmente si ribel-lò, non volle più medicine, e si sarebbe anche alzato sene avesse avuto la forza. Allora il riposo cominciò a gio-vargli; e dal letto seguiva i lavori che Michele mandavaavanti nel podere e nell’orto con l’aiuto di un servo. Glibastava chiuder gli occhi per vedere ogni albero che il fi-glio potava, ogni zolla a cui dava il sugo, ogni broda cheannaffiava; sentiva gli effetti di ogni minimo cambiamentodi tempo sui peschi riparati dalla siepe di cipressi o sulleterre seminate; e quando la pioggia cominciava a farsi de-siderare, inoltrandosi la primavera, la sete ardeva in ognisua fibra, egli era terra secca distesa e arida. Michele stavalunghe ore seduto accanto al suo letto e gli rendeva contodi tutto minuziosamente. Gli pareva che tutto ciò che fa-ceva non sarebbe servito a nulla, se non ne parlava primacon lui. Non che avesse bisogno di consigli, ché ormai sa-peva fare da sé. Ma non voleva togliere al vecchio l’illu-sione di essere ancora tanto necessario, e amava, in que-st’illusione, riposarsi egli stesso. E che cosa era, lui, infine? Era come una mano che Giuseppe allungasse a occhichiusi, una mano che aveva conservato la forza giovaniledi un tempo.

Avvicinandosi il tempo della fiera di Santa Croce, Giu-seppe cominciò a preoccuparsi dei buoi. Bisognava ven-derne un giogo diventato troppo vecchio e comperarneun altro giovane. Questo cambio di solito lo faceva ognitre o quattro anni; e quell’anno appunto toccava. Il vec-chio parlava come se alla fiera dovesse andarci lui stesso.

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Dapprima Michele non ci fece caso, perché Giuseppe, an-che quando si trattava dei lavori dell’orto e del podere,parlava allo stesso modo, come se dovesse farli con le suemani; ma presto s’accorse che non era un semplice mododi dire, e ne parlò con Maddalena perché cercasse lei diconvincerlo che era una pazzia pensarci. Ma il malato,quando si parlava di questo, non ragionava più. S’eramesso in testa di star meglio, che quei dolori insopporta-bili era il letto che glieli dava, che la vera medicina per luiera l’aria della campagna; e voleva farla finita una buonavolta, se no ci lasciava la pelle davvero. – Sei vecchio! –diceva Maddalena – mettiti in testa che sei vecchio, e deviaverti riguardo, benedetto! –. A ogni costo volle alzarsi,ma a stento riusciva a reggersi seduto su una sedia. Ripetéil tentativo per parecchi giorni, ostinatamente, e con gran-de meraviglia di Michele e Maddalena, prese a miglioraredavvero. Non parlava che della fiera di Santa Croce, dellagente che ci andava ogni anno da tutti i paesi del Centro,dal Gocèano e da Parte d’Ispi, dei gran danari che si ma-neggiavano in quel mercato, che neppure si sapeva dadove uscissero. Si vedevano sacchetti di scudi e di maren-ghi passare per quelle mani terrose, come se li avesseroscavati la sera prima sotto qualche vecchio muro. E quan-to più il danaro correva, tanto più cresceva l’avidità deldanaro. Perché alla fiera, oltre le persone che, come lui,non cercavano altro che un bel giogo di buoi da lavoro oun buon cavallo, ce n’erano poi di quelle che in una solagiornata compravano e rivendevano anche tre o quattrogioghi col solo scopo di guadagnarci su. Bisognava starecon gli occhi aperti, perché lì anche i galantuomini si di-menticavano di esser galantuomini. Le cose più strane ca-pitavano alla fiera. Lui aveva conosciuto un tale che avevavenduto la moglie per cinquanta scudi, come una gioven-ca. Eppure era sempre stato un bravo giovane, e nessunoaveva mai potuto dir male di lui, prima d’allora. Per cin-quanta scudi aveva lasciato la moglie tutta la notte sul suo

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carro con un vecchio proprietario di F., e se n’era andatoa dormire nel fosso. Michele ascoltava questi discorsi e ri-maneva pensieroso, senza saper cosa dire. Non aveva maisentito suo padre parlare così. Pensava perfino che deli-rasse; ma invece era fresco e il polso batteva regolarmen-te. Il vecchio si lasciava toccare la fronte e tastare il polsoe lo guardava con un sorriso malizioso, come un ragazzoche sappia che finirà per averla vinta. Un giorno che Mi-chele aveva attaccato il muletto per andare all’orto, Giu-seppe montò sul carro, gli strappò di mano le briglie e la-sciò Maddalena a strillare in cortile. Michele non lo avevamai visto così allegro. Ma quando fu poi nell’orto, fu pre-so da una grande stanchezza. Si sdraiò all’ombra del per-golato, accanto alla vasca, con la testa sul basto del muloe si addormentò beatamente allo scroscio del ritrecine. Mi-chele gli mise accanto una brocchetta d’acqua fresca, perquando si svegliava, e andò a zappare i cavoli. Ogni tan-to, parendogli di sentirlo parlare, tornava; ma lo trovòsempre addormentato. Alla fine, impensierito di quel son-no, lo svegliò. Il vecchio disse che gli pareva di scenderetra le rive boscose di un fiume, lungo il filo della corrente,ma camminava sull’acqua come su una strada, e udiva tragli alberi della riva voci di uomini. Michele tornò al lavo-ro, e il vecchio rimase di nuovo solo. Nello scroscio del ri-trecine, che gli aveva generato, nel sonno, quell’immaginedi acqua scorrente, distingueva ora il rumore ben notoche faceva la zappa urtando un sasso, lo schiocco dellecesoie, il cigolio lungo del cancello di legno, e questi ru-mori gli facevano bene come l’aria della campagna. A untratto si ricordò che da quando si era ammalato non man-giava più pomodori crudi, e subito gli venne voglia dimangiarne. Si alzò, e appoggiandosi al manico di una zap-pa, andò a cercarne nella gora, dove Michele soleva met-terli al fresco, sotto l’erba. Ma non ce n’erano. Allora andòa coglierne dietro la vasca con l’intenzione di metterli luistesso in fresco. Invece li mangiò così come erano, caldi e

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pieni di polvere. Li mangiò avidamente, sporcandosi disucco le mani e la camicia, preoccupato solo di non farsiscorgere da Michele. Poi si distese di nuovo sotto la per-gola e si riaddormentò.

Di sera, si mise di nuovo a letto con la febbre alta e idolori al fegato. Ma non delirava. La paura di morire, ora,teneva desta la sua ragione. Ritornò savio, non fece piùdiscorsi sconclusionati né parlò di andare alla fiera. Fudeciso che ci sarebbe andato solo Michele; e lui gli davaconsigli assennati sul modo di sceglier le bestie, sulle per-sone dalle quali avrebbe dovuto comprare e su quelle al-le quali avrebbe potuto rivolgersi per chiedere qualcheparere, lì, sul momento. Sulla capacità di Michele a sce-glier le bestie, non aveva dubbi, ma temeva che lo imbro-gliassero sul prezzo. Però, quando venne il giorno dellapartenza, gli tornò la febbre alta e il delirio, e voleva al-zarsi dal letto e partire anche lui. Michele non si sentì dilasciarlo solo. Così la fiera passò e i buoi, per quella vol-ta, non furono venduti.

Capitolo III

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CAPITOLO IV

Nell’ottobre di quello stesso anno Antonio Màsala,amministratore e poi appaltatore della foresta di Cantòria,fu assalito nella sua casa, che si trovava appunto nella fo-resta stessa, da una banda di uomini armati. Costui, cheera stato avvertito, non si sa come né da chi, accolse gliassalitori a colpi di fucile, ne abbatté uno e mise in fugagli altri, i quali, prima di allontanarsi finirono a coltellateil caduto. Le indagini fatte dalla gendarmeria di Sigalesa edi Fòrri non diedero nessun risultato. Furono interrogatee trattenute in arresto decine di persone: tutto inutile. Maera cosa certa che si trattava di gente di Sigalesa, ancheperché, pochi giorni dopo la tentata grassazione, fu assas-sinato Giovanni Boschino, figlio di Benedetto, sul qualepare vi fosse qualche sospetto. Era opinione comune, aSigalesa, che anche Giovanni avesse preso parte alla gras-sazione, e che i compagni, sapendolo sospettato, lo aves-sero tolto di mezzo per maggior sicurezza, come avevanofatto con quello ferito da Antonio Màsala. Altri interroga-tori e arresti seguirono, ma sempre inutilmente.

Eppure, a Sigalesa, c’era chi sapeva, chi era informatominutamente e conosceva le persone. Tra questi eranoMichele e un suo vicino di casa, Cosimo Aneris, proprie-tario di terre, nipote di Antonio Màsala.

Avendo saputo che Cosimo doveva recarsi ad Arci,nelle montagne del Gocèano, per comprare un torello,Michele, che come suo padre aveva l’idea fissa dei buoinon venduti alla fiera, gli chiese d’accompagnarlo. Giu-seppe non era molto propenso a questo lungo viaggio(da Sigalesa ad Arci ci sono due buone giornate di caval-lo), ma Michele insisteva. Non c’era bisogno di viaggiarecoi buoi, all’andata: i buoi vecchi si potevano fare ingras-sare e vendere come carne da macello. Questo dispiaceva

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a Giuseppe. Lui non aveva mai venduto al macellaio isuoi buoi, li aveva sempre cambiati. Alla fine Cosimo an-dò da lui, una sera, e lo convinse. Il cambio, in un modoo nell’altro, bisognava pur farlo, se non si voleva che lebestie si deprezzassero. Cominciò a parlargli delle bestiebellissime che si vedevano ad Arci, dove s’aspetta la fieradella Madonna del Carmelo e si possono fare ottimi ac-quisti per tutto il mese d’ottobre. Erano proprio le bestieche piacevano a Giuseppe, grandi di taglia, di mantellochiaro e con le corna piccole e robuste. Cosimo lo rassi-curò anche sui pericoli del viaggio. Danari addosso nonne avrebbero portato: quando viaggiava, Cosimo, i danariusava spedirli per posta. Eppoi li avrebbe accompagnatianche Pietro Lubina, un cacciatore di professione che an-dava in un paese vicino ad Arci a prendere un cane daferma per conto del medico condotto di Fòrri.

Si misero in viaggio una sera, con la luna nuova di ot-tobre, coi sacchi pieni di provviste legati all’arcione. Mi-chele aveva chiesto in prestito il cavallo allo zio Teodoro.Era il primo viaggio che faceva senza suo padre; ed eracontento.

Abbeverati i cavalli alla fonte dietro il macello, preserola carreggiabile che, girando il fianco di Monte Grinu, por-ta a Fòrri. – Passerai davanti alla nostra vigna – gli avevadetto Giuseppe sospirando. Ormai non sperava più di ri-comprare la vigna prima di morire.

Dal suo letto Giuseppe di solito, da quando era am-malato, dormiva poco, la notte, seguiva col pensiero ilviaggio del figlio, passo per passo. Michele e Cosimo do-vevano camminare tutta la notte, approfittando della lunapiena, fermarsi all’alba a Fòrri per far riposare i cavalli, eproseguire dopo qualche ora.

La sosta invece non la fecero a Fòrri ma nella forestadi Cantòria. Ed ecco come.

Sul ponte del Faraone, poco dopo la vigna, trovaro-no, invece di Pietro Lubina, Angelo Malìga e Domenico

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Vacca, a cavallo anch’essi e col fucile a tracolla. Disseroche Pietro Lubina doveva far con loro una partita di cacciaal cinghiale nella foresta, e invitarono anche Cosimo e Mi-chele. Insistevano tanto che Cosimo si lasciò convincere, eindusse anche Michele ad accettare. Avrebbero proseguitopiù tardi il viaggio in compagnia di Pietro, che ora, assie-me agli altri cacciatori, tutte persone conosciute di Sigalesae di Fòrri, a quel che dicevano Vacca e Malìga, li aspettava-no nella capanna di un pastore, dove stavano cenando.Dovevano appostarsi alla sorgente di Giana: ce n’eranodue, di cinghiali, che andavano a bere al chiaro di luna.

Cosimo e gli altri due presero su per il letto secco deltorrente. Michele li seguì di malavoglia.

Nel punto di convegno, una radura all’imbocco dellavalle di Giana, trovarono un gruppo di persone armate,tra le quali non c’era nessuno di quelli che Vacca e Malìgaavevano nominato, e neppure Pietro. C’erano invece Pe-donca, il padrone della capanna, Giovanni Boschino, BoreLisca e due forestieri che Michele e Cosimo non avevanomai visto. Vacca disse che erano i battitori: gli altri aspetta-vano nei pressi della sorgente. Cosimo non ebbe tempo difare molte domande. Non aveva neanche messo il piede aterra, che Bore Lisca e Pedonca gli saltarono addosso e lodisarmarono; gli altri tirarono giù dal cavallo Michele. Inun attimo il giovane si trovò bocconi con la faccia tra l’er-ba. Fu legato e imbavagliato. Era inutile opporre resisten-za, e lasciò fare. Cosimo invece lottava con tutte le sueforze gridando e sbuffando; ma presto fu ridotto all’impo-tenza anche lui. E non si sentì altro che il suo respiro af-fannoso soffocato dal bavaglio. Michele fu lasciato vicinoai cavalli sotto la guardia di Pedonca: e gli altri si avviaro-no per un sentiero del bosco spingendosi avanti Cosimo.

Michele seppe solo più tardi, da Cosimo, quel che eraaccaduto durante le due ore che aveva passato nella ra-dura con le mani legate dietro la schiena. L’intenzione diVacca e dei suoi compagni era di andare ad appostarsi

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non proprio alla sorgente di Giana per bloccare i cinghiali,ma accanto al cancello del muro di cinta della casa di An-tonio Màsala, costringere Cosimo a bussare e a farsi aprireda suo zio, e quando poi il vecchio avesse aperto, precipi-tarsi tutti dentro. Erano certi che Antonio teneva in casa isoldi per la paga dei carbonai. Ma prima che potessero av-vicinarsi al muro (la casa era poco discosta dal limite delbosco) un colpo di fucile partì dal tetto; il secondo colpoprese Angelo Malìga alla schiena. Cadde muggendo comeun toro. Si trascinò a stento fino al bosco, dove gli altri sierano appiattati dietro gli alberi. Erano rimasti lì un poco,poi pensando che non era il caso d’arrischiarsi a un nuovotentativo, se n’erano tornati verso la radura, dov’erano icavalli. Vacca era rimasto indietro col ferito, che fu trovatopoi sgozzato come un agnello.

A Cosimo e a Michele fu intimato, sotto la minacciadei fucili spianati, di continuare il viaggio come se nullafosse accaduto.

Capitolo IV

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CAPITOLO V

Quando Michele tornò a casa coi grandi buoi bianchicomprati ad Arci, vide da lontano un gruppo di donne fer-me davanti al cancelletto del cortile. Pensò che qualcosadoveva essere accaduto. Era pronto a tutto. Non si sarebbemeravigliato di trovare i gendarmi in casa ad aspettarlo.

Come s’avvicinò, le donne lo salutarono e si strinseroal muro per lasciarlo passare coi buoi. Egli rispondeva aisaluti, e cercava di leggere in quelle facce serie, in quegliocchi che s’abbassavano al suo passaggio. Certo qualcosadi molto grave era accaduto. Smontò e spinse i buoi den-tro il cancello. – Quello che Dio vuole – disse una delledonne. – Quando il Signore chiama, il servo non si voltiindietro –. Pensò subito a suo padre: ma il sospetto chefosse morto o che fosse in pericolo non s’affacciò neppurealla sua mente. Pensò al dolore di suo padre, se lo avessesaputo coinvolto nella faccenda di Antonio Màsala. Non ri-spose nulla alla donna, e tirando per le briglie il cavalloentrò anche lui dietro i buoi. Beniamino gli corse incontro,levandogli di mano le briglie, ripeté le parole di rassegna-zione della donna.

– Gli hanno portato ora l’Olio Santo – disse. – Il pretese n’è andato adesso.

In quei quattro giorni Michele non aveva mai pensatoalla malattia di suo padre; o meglio ci aveva pensato co-me a una condizione naturale; e mentalmente aveva ra-gionato con lui, durante il viaggio, mentre Cosimo gli ca-valcava accanto in silenzio; era ritornato mille volte suiparticolari di quella sua avventura; mentalmente avevaascoltato la voce pacata del vecchio che lo rassicurava egli faceva coraggio.

– Su – disse lo zio Teodoro – non farti vedere a pian-gere da tua madre.

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Maddalena, come lo vide, gli si buttò tra le bracciapiangendo. Lo chiamava per nome e si premeva le manidi lui sul viso lacrimoso. Egli la tenne stretta per calmarla,la condusse nella stanza del telaio e la fece sedere. C’eratanta gente intorno, parenti, vicini di casa. Lo zio Teodorofaceva cenno agli estranei d’allontanarsi. Michele si trovòinginocchiato accanto a sua madre, in mezzo a quel cer-chio di persone, che lo guardavano. – Babbo se ne sta an-dando – balbettava la donna. – Babbo se ne sta andandosenza neppure guardarmi in faccia. Vai da lui, che ti stachiamando da ieri, vai! –. Si scioglieva dal suo abbraccio,ora, e con un gesto debole e insistente lo respingeva.

Lo zio Teodoro lo prese per mano come un bambino,lo fece alzare e lo condusse via.

Nella stanza accanto al granaio, dove suo padre s’erafatto portare il letto da quando aveva cominciato a nondormire più la notte, per non disturbare Maddalena, c’era-no la zia Luisa e Aurelia. Su un tavolino avevano distesouna tovaglia, con una grande immagine della Sacra Fami-glia appoggiata al muro, e due ceri. Il vecchio, nella pe-nombra, sembrava dormire, come dormiva sotto la pergo-la il giorno che era voluto andare all’orto per forza. Legrosse mani abbandonate sul lenzuolo di bucato sembra-vano ancora sporche di terra.

La zia s’avvicinò al letto, si chinò sul morente e disse:– Giuseppe! guarda chi è venuto, Giuseppe!

Anche Michele si chinò e lo chiamò. Come se il suo-no delle voci gli desse fastidio, il vecchio voltò la testasul cuscino a destra e a sinistra un paio di volte, biascicòqualche parola incomprensibile, aprì un momento gli oc-chi, poi tornò ad assopirsi.

– Ti ha chiamato tutto il giorno, ieri – disse la zia. Etornò a sedersi al suo posto, col rosario in mano. Lei e lafiglia avevano quell’aria di lindura e di pulizia delle don-ne che s’apprestano a fare il pane. Tenevano le pezzuolebianche annodate dietro la nuca e le maniche un poco

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rialzate lasciavano vedere la camicia candida. Certamenteerano state loro che avevano ricevuto il prete, poco pri-ma, e avevano fatto quei preparativi che non avevanoniente di funebre, del resto. I ceri erano stati spenti subitodopo. Restava nella stanza un lieve odore d’incenso chericordava vagamente il profumo dello spigo che si mettenelle cassapanche con la biancheria pulita.

Michele sedette accanto al letto e pensò: «Forse tuttisanno dove sono stato l’altra notte. E non sanno che mi cihanno portato a forza, che mi hanno picchiato e legato».Ma una convinzione più profonda, segreta, toglieva ognivalore a queste parole. Le mormorava dentro di sé, piùche pensarle. Chiuse gli occhi, si rivide nel sentiero che dalfiume porta alla radura davanti alla capanna, rivide lagroppa dei cavalli e le casacche dei tre uomini che lo pre-cedevano, su cui, attraverso il fogliame degli alberi, piove-vano come fiocchi di neve i raggi della luna; e ogni tanto,in quel fugace e continuo piovere di scaglie di luce, intrav-vedeva la faccia barbuta di Angelo Malìga, che si voltava aguardarlo per assicurarsi che li seguiva. Così, a occhi chiu-si, gli pareva di lasciarsi ancora portare dal cavallo ches’arrampicava faticosamente per la viottola scoscesa. Forse,per un attimo, immaginandosi di secondare nella salita ilmovimento del cavallo, s’addormentò appoggiato alla spal-liera della sedia. Si riscosse, aprì gli occhi. Più che sonnoera stato un attimo di angoscia più intensa: per un attimoaveva cessato di pensare, di sentire la presenza degli altriintorno a sé, e se stesso. Lo zio Teodoro, la zia Luisa e Au-relia sedevano dall’altra parte del letto, alquanto discosti.Non si udiva neppure il bisbiglio delle preghiere. Certo loguardavano. Sentì la loro presenza come se prima non fos-sero stati altro che ombre e a un tratto avessero preso for-ma e sostanza. «Ecco», pensò «noi siamo in questa stanzachiusa, e fuori c’è ancora luce, e la gente parla, e parla an-che di quel che è successo l’altra notte nella foresta diCantòria». Tutti, entrando in casa sua, ora, prendevano

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quel tono sommesso: ma ognuno pensava ad altro, comelui; ad altro, non al vecchio che moriva lì. «Nessuno puòsapere nulla di quello che è accaduto», pensò «nessunoparlerà». E immaginò la faccia barbuta di Angelo Malìga,come doveva essere dopo che Domenico Vacca lo avevafinito col coltello da caccia. Oh! quello non avrebbe par-lato di certo. Questo pensiero gli dava piacere, non sape-va staccarsene. Si sentì, per un momento, solidale conquegli uomini che lo avevano trascinato fin quasi a pren-der parte a un delitto, unito ad essi dalla stessa sorte, dal-lo stesso silenzio.

Si sentì su per le scale un passetto leggero e la vocet-ta di Caterina, la bambina più grandicella di Aurelia:

– Zio Michele, zio Michele, – chiamava a voce alta –Beniamino vuol sapere se deve riportare il cavallo a casanostra o se deve dargli una misura di biada.

– Zitta Cateri’! Zitta! – disse Aurelia.Michele s’alzò, diede un’occhiata a Giuseppe, e seguì

la bambina ch’era scappata via svelta e faceva schioccarei piedi nudi sull’ammattonato. La seguì con sollievo, equando giunse in fondo alla scala la chiamò. Al suonodella sua voce tutti si voltarono verso di lui, ed egli ne fuimbarazzato, nel primo momento; poi guardò in facciauna dopo l’altra tutte quelle donne, e avrebbe voluto sa-pere di che cosa avevano parlato tra loro fino a quel mo-mento, che cosa pensavano, che cosa sapevano di quelch’era successo nella foresta di Cantòria. Ma le donne ri-prendevano a bisbigliare tra loro, o abbassavano gli occhiper non incontrare i suoi. Solo la moglie di Anacleto, cheaveva la bottega di faccia (e standosene dietro il bancopoteva vedere tutto ciò che accadeva nel cortile), lo guar-dò con la solita espressione d’invito che Michele cono-sceva. Chiamò di nuovo la bambina, e facendo finta dicercarla uscì in cortile.

Beniamino aveva legato i buoi alle poste di quellich’erano stati sciolti al pascolo nel chiuso, e se ne stava

Capitolo V

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seduto con Anacleto a chiacchierare. Ogni tanto andava aspargere una manciata di fave peste sulla paglia dei truo-goli, la rimescolava, poi tornava a sedersi. Michele capìche stavano parlando della grassazione. Rispose appenaal saluto di Anacleto e disse al servo di dar la profenda alcavallo e di portarlo poi a casa dello zio Teodoro.

– Che età hanno? – chiese Anacleto indicando i buoi.Michele fece cenno con le dita: tre.Avrebbe voluto che Beniamino e Anacleto continuas-

sero a parlare tra loro della grassazione, sapere cosa si di-ceva in paese, ma non voleva far domande.

– Belle bestie – disse Anacleto.«Proprio come piacevano a lui» pensò Michele. Accan-

to agli altri, sotto la tettoia della stalla, i buoi di Arci sem-brava che ci fossero sempre stati. Aveva avuto cura di sce-glierli somiglianti a quelli che dovevano esser venduti: soloche erano più grandi e magri. Lentamente alzavano daltruogolo il grosso muso umido ficcandosi la lingua nellenarici. Erano bestie giovani ma già dome, e questo si capi-va dall’immobilità della grande impalcatura ossea, dalla ri-gidità della testa, in cui spiccava, a tratti, il bianco dell’oc-chio, come di bestie accapate al giogo. A tratti la pelle erapercorsa da un brivido dall’occhio alla spalla, o lungo lagamba o sotto la ventraia. Michele pensò che presto avreb-be dovuto rivenderli. Sarebbe rimasto solo e li avrebbe do-vuti rivendere. Sentì la voce dello zio Teodoro che sgrida-va Marietta perché aveva portato lì Caterina. Non era ilmomento di tener bambini tra i piedi, diceva lo zio.

La casa era piena di gente estranea. Erano venuti lìproprio perché Giuseppe moriva. Così si usa. Ma non s’in-teressavano che delle cose della vita, che continuava comeprima. Ma era quasi notte, e presto tutti se ne sarebberoandati. Sarebbero rimasti lo zio Teodoro e la zia Luisa, for-se. Avrebbero vegliato tutti assieme. Gli sarebbe piaciutopotersi stendere lì, sulla paglia, tra le mangiatoie dei buoi,dire a Beniamino che se n’andasse al chiuso, e dormire,

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come aveva fatto tante volte; addormentarsi subito, dimen-ticare subito la presenza di quegli estranei, dimenticare tut-to. Si rammentò di sua madre, del suo pianto disperato; esentì che anche lui, da un momento all’altro, poteva co-minciare a soffrire così. C’era qualcosa che non riusciva acapire, in ciò che stava succedendo, e anche in ciò che gliera successo quattro sere prima; qualcosa che la sua mentenon penetrava, e che pure avrebbe finito per capire.

La zia lo chiamò dalla porta di cucina, dove avevanoacceso un lume. Egli, passando, tirò da parte lo zio Teo-doro e gli disse che Marietta aveva ragione. Che bisognoc’era di strapazzarla così? Lasciasse pure la bambina, chenon dava noia a nessuno. Ma il vecchio, ostinato, ripetéche quello non era luogo da portarci bambini.

Quando fu entrato in cucina, la zia Luisa gli versò unpiatto di minestra di fave:

– Vieni – disse – che tua madre ti ha tenuto in caldola cena.

Egli sedette accanto al camino col piatto sulle ginoc-chia e cominciò a mangiare.

La zia aveva chiuso la porta e la finestra perché nes-suno lo vedesse.

Capitolo V

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CAPITOLO VI

Il vecchio spirò il giorno dopo, all’alba. Michele Mad-dalena lo zio Teodoro e la zia Luisa lo avevano vegliatotutta la notte.

Verso le due, Giuseppe aveva aperto gli occhi e avevadato un lento sguardo intorno, come se cercasse qualcu-no. Maddalena s’alzò e spinse Michele verso il letto senzaosare avvicinarsi lei stessa, e cominciò a tremare e a batte-re i denti. Le altre due donne la costrinsero a sedersi dinuovo. Michele s’avvicinò al letto, si chinò sul morente, lochiamò. Il viso del vecchio ebbe una contrazione penosa.Allora Michele si sedette al capezzale e stette lì zitto.

Di tanto in tanto gli occhi del vecchio s’aprivano, e sic-come aveva voltato la testa dalla sua parte, pareva cheguardasse proprio lui. Il viso s’era rifatto sereno come fos-se sul punto di svegliarsi; ma al primo bisbiglio che s’udissenella camera, la piega della bocca, che si vedeva sotto i ra-di baffi spioventi, si faceva più dura. Allora Michele alzavala mano, faceva cenno alle donne di tacere; e nella beatitu-dine del silenzio il viso del vecchio tornava a distendersi.Forse pensava qualcosa, chi sa. Forse il silenzio intorno,nella stanza, gli dava l’illusione che durasse ancora il sopo-re che lo aveva tenuto fin allora. Michele, quando quegliocchi s’aprivano su di lui, s’abbandonava, quasi contro lapropria volontà, a una speranza assurda, che il vecchioavrebbe superato la crisi e sarebbe guarito. E immaginava,come aveva fatto durante il viaggio, di parlare con lui diquel ch’era successo nella foresta di Cantòria. Ne avrebbeparlato con lui solo. Nessuno, all’infuori di suo padre,avrebbe saputo nulla da lui, mai. Il desiderio di silenzioche il vecchio manifestava con quell’impercettibile contra-zione della bocca, alimentava la volontaria illusione di Mi-chele, le dava consistenza. Ma quando le palpebre grinzose

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si riabbassavano a metà velando i grossi occhi a fior di te-sta, Michele si sentiva di nuovo solo e l’illusione svaniva.Sarebbe stato sempre così solo, ormai. Non avrebbe avutoche estranei, intorno a sé, e si sarebbe dovuto tenere quelsegreto per sempre. Avrebbe visto per tutta la vita Domeni-co Vacca tirar lo spago sulla porta della sua bottega di sel-laio, Pedonca passare davanti al macello col suo branchet-to di capre, Giovanni tornare dall’ovile coi bidoni di latteattaccati al basto. Cosimo Aneris gli aveva detto: – Ricorda-ti che noi due non sappiamo nulla. Neppure tra noi dob-biamo parlarne. Io e te dobbiamo dimenticarci di quelloche ci è successo. Neppure a tuo padre, sai! –. E così sa-rebbe stato: non ne avrebbe parlato neppure a suo padre.Si sentiva crescere dentro un’avversione, un odio sordo pertutta la gente tra la quale avrebbe dovuto vivere portando-si quel segreto odioso. E la gente? Era possibile che nontrapelasse mai nulla, mai nessun sospetto? Avrebbero fattocongetture, col passare del tempo, forse qualcuno avrebbeparlato, forse quello stesso che aveva avvertito AntonioMàsala; e si sarebbe saputo che quella notte c’era anchelui, a Cantòria. Sarebbe stato un semplice sospetto, nientepiù che un sospetto; ma avrebbe pesato sempre, sempresu di lui. Questi pensieri, che non l’avevano mai abbando-nato durante quei quattro giorni, rimanevano sospesi, stati-ci, senza soluzione. Ma del resto, che cosa poteva impor-targli di quello che la gente avrebbe detto o pensato di lui?La gente poteva fare e dire ciò che meglio credeva. Quan-do suo padre, tanti anni prima, era stato arrestato, tutti,tranne i pochi amici di Salvatore e di Benedetto, s’eranomessi dalla sua parte, tutti dicevano che aveva fatto bene adifendersi. Nella disgrazia, lui e sua madre s’erano sentiticonfortati da quel consenso, da quella solidarietà dellagente. La gente allora era molto importante per lui. Gli pa-revano tutti amici. Non solo la zia Luisa e lo zio Teodorocon Aurelia e Marietta venivano a sedersi in cucina, la sera,a tener compagnia a Maddalena, ma anche i vicini di casa.

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In quei giorni di lutto, in tutto il rione, le donne non canta-vano più, quando si mettevano al telaio o a far la farina.Sedute in crocchio davanti alla porta, nel vicolo, lo saluta-vano quando passava coi buoi per portarli all’abbeverata, eparlavano sottovoce della disgrazia che aveva colpito Giu-seppe. Anche le persone che conosceva soltanto di vista,con un saluto, con un sorriso, o anche tacendo, mostrava-no di sapere, gli testimoniavano la loro solidarietà. In queigiorni trovava facce amiche dappertutto, anche fra gli estra-nei. La certezza che suo padre venisse messo in libertà do-po il processo s’era fondata soprattutto su questa solidarie-tà della gente. I giudici non avrebbero dovuto fare altroche chiedere a tutto il paese com’erano andate le cose, chiera Giuseppe Boschino. Ma proprio al processo si vide poiche cosa valesse questa simpatia e fin dove arrivasse que-sta solidarietà. Tutti quelli ch’erano stati chiamati a testimo-niare in favore di Giuseppe non avevano saputo sostenere,là nell’aula, ciò che avevano sempre pensato; nessuno dis-se la cosa più semplice, quella che i giudici stessi forse am-mettevano, che Giuseppe era un uomo mite, che avevacolpito per difendersi, mentre i fratelli erano violenti e ca-parbi e già altre volte lo avevano picchiato a sangue. Da-vanti al banco, si limitavano a rispondere secchi secchi alledomande che venivano loro rivolte da quei signori togati, iquali sorridevano tra loro inchinandosi ma facevano la fac-cia severa e grave quando si rivolgevano ai testimoni. Ave-vano la faccia severa della legge, della legge sconosciuta,terribile, della legge che può colpire un uomo che fino algiorno prima arava pacificamente il suo campo, della leggeche può prendere tutti come un colpo d’accidente. Non erala prima volta che si vedeva incriminare un testimonio soloper essersi contraddetto. Bisogna stare attenti a non dire laverità tutta intera, ma solo quei fatti che s’accordano conaltri già provati e accettati. I testimoni della difesa non sipreoccupavano di Giuseppe, badavano a mettere al riparose stessi, a evitare domande pericolose, e quando potevano

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si limitavano a rispondere soltanto sì e no, per non tirarsiaddosso guai. La loro opinione era una cosa, la Giustiziaun’altra. Anche l’avvocato difensore, in mezzo a quell’appa-rato di toghe e di gendarmi, aveva la stessa faccia severa diquegli altri signori, e disse sul conto di Giuseppe cose stra-nissime. Disse, per esempio, che Giuseppe era un uomofiero, di quegli uomini di tempra antica che formano il fio-re della razza del Centro; mentre Giuseppe, in realtà erasoltanto mite e saggio. E Michele, quando poi restò solocon Maddalena, che non poteva patire l’ingiustizia subita econtinuamente imprecava contro l’avvocato, che aveva vo-luto i suoi onorari benché non fosse riuscito a far nulla, econtro i giudici, e contro i testimoni, e contro i falsi amici,cercava rifugio e conforto nel ricordo di quella saggezza.La colpa non era dell’avvocato, egli lo sapeva bene. Se n’erareso conto subito, di questo. Neanche a lui i testimoni del-la difesa avevano detto le sole cose che importava dire:non osavano accusare apertamente Salvatore e Benedetto.Sapevano che l’avvocato si sarebbe valso delle loro parolee li avrebbe costretti a ripeterle nell’aula. Ora, con Salvato-re e Benedetto Boschino non c’era tanto da scherzare. Nonerano uomini di buona pasta come Giuseppe, quelli. Eccocosa avevano fatto i testimoni della difesa, la gente!

Cosa sarebbe accaduto ora, se dalla deposizione diAntonio Màsala, o da qualche altro indizio, si scopriva chec’erano anche Cosimo Aneris e lui, quella sera? O se lastessa persona che aveva avvertito Antonio Màsala facevala spia? Chi lo avrebbe difeso? Chi avrebbe creduto che luistesso aveva subìto una violenza? Meglio non pensarcineppure. Non contava nulla essere onesti e miti come suopadre. Nulla! Quando Giuseppe era stato portato lontano,in una città del Continente, per scontare la sua pena, men-tre Salvatore e Benedetto continuavano pacificamente laloro vita di sempre, non si parlava più, in paese, dell’inno-cenza di suo padre. La gente, che pure non credeva allaGiustizia, aveva finito per accettare la sentenza come una

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cosa giusta, e si stancavano dei piagnistei e delle recrimi-nazioni di Maddalena. Persino i parenti se ne stancavano.E loro due erano rimasti soli come un orfano e una vedo-va, tra l’indifferenza di tutti, sempre sul chi vive, come be-stie selvatiche. – Aspetta che tuo padre rimetta piede inpaese, e poi vedrai che fine fanno quei cani – dicevaMaddalena. – Anche se poi me lo riportano via per sem-pre non me ne importa, ma la devono pagar cara –. Maquando suo padre, dopo due anni di carcere, era tornato,Michele lo aveva ritrovato sereno e tranquillo come untempo, e persino allegro, come se la disgrazia non l’aves-se neppure sfiorato. Che sollievo era stato quel ritorno,per Michele! Com’era ridiventata subito facile e serena lavita! – Cosa ci possono fare, la gente? – diceva Giuseppe.– Se io mi rompo una gamba, cosa ci possono fare gli al-tri? Il male non l’ho fatto a Benedetto, quando gli ho spac-cato la testa, l’ho fatto a me, a te, poveretta, e a questo in-nocente –. Non serbava rancore. Era lui il primo a salutarele persone che incontrava, anche i testimoni che, per pau-ra di Salvatore e di Benedetto, non avevano osato direuna parola in suo favore; si fermava a parlare, chiedevanotizie della salute, della famiglia, degli affari. E quelli, al-legri, espansivi, amici come prima; e con la stessa cordiali-tà salutavano Michele, come se anche lui fosse stato viadal paese in quei due anni e lo rivedessero per la primavolta. Così era fatta la gente. Solo i fratelli non aveva volu-to rivedere, Giuseppe, benché gli avessero mandato a direpiù volte che desideravano salutarlo; non perché serbasserancore, ma per prudenza. Era pericoloso parlare con lo-ro. Una parola, anche innocente, poteva tirarne un’altra,non si sapeva mai dove s’andava a finire. Meglio ognunoper suo conto, una volta per sempre.

Così era cresciuto, all’ombra di questa tranquilla sag-gezza, la cui luce gli pareva di scorgere ancora negli occhidel morente che ogni tanto si volgevano a lui dal viso im-mobile. Era cresciuto come un pollone giovane ai piedi di

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un grande albero. Lavorare in campagna con lui, comequando era bambino, trattare con le persone con cui luitrattava, ritrovare sempre, dovunque, in tutti, la sicurezza, lafiducia, la simpatia perfino che venivano da lui, rendevala vita agevole e lieta a Michele. Non cercava amicizie eneppure gli svaghi dei giovani della sua età. Si sarebbedetto che avesse la stessa età di suo padre, tanto era similea lui anche nei gesti. Ora egli riandava con la memoria aquegli anni uguali e tranquilli; e, con dolore, pensò allaprima volta che s’era trovato a contrastare con suo padre.Era stato quando s’era innamorato di Angela. Eppure nean-che allora la sua fiducia era venuta meno. Ciò ch’era segui-to, i fatti inesplicabili che avevano interrotto lo svolgersitranquillo della sua giovinezza, invece di scuoterla, quellafiducia, l’avevano rafforzata, l’avevano resa necessaria allasua vita. Suo padre arrivava a vedere ciò che non vedevalui, sapeva leggere nell’animo degli altri, ne conosceva iriposti pensieri. Un vago senso di timore s’impadroniva dilui quando era lontano da Giuseppe, come se il ricordodi quei due anni passati in paese tra l’ostilità della gente siridestasse dal profondo del suo essere. Quando il vecchionon c’era, sentiva, come allora, tutti ostili intorno. Forse glialtri sapevano di lui più di quanto egli non sapesse di loro.Sapevano che Angela lo aveva tradito. Lo sapevano anchequando egli, ignaro di tutto, era stato sul punto di sposarla.Forse, se suo padre non gli apriva gli occhi, non avrebbemai sospettato di nulla; lui solo, mentre tutti gli altri sape-vano. Da allora, proprio come un bambino, aveva cercatosicurezza e rifugio in suo padre, di nuovo. Era stato suopadre che l’aveva indotto a romperla con la ragazza, edegli s’era assoggettato a questo soffrendone: aveva chiusogli occhi e s’era lasciato guidare. Considerava suo padrecome una parte di se stesso a cui avesse affidato la sua co-scienza più profonda, una facoltà segreta e dolorosa di ve-dere dentro le cose e dentro l’animo degli uomini, unaconsapevolezza di cui non voleva risvegliare la possibilità

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dentro di sé. Ciò che il padre gli aveva detto della relazio-ne di Angela con quell’altro, lo aveva sentito dentro comeun ferro penetrato nelle carni per un momento solo; eglien’era rimasta la ferita: ma la certezza, la logica del ra-gionamento di suo padre le aveva dimenticate. Quelle pa-role erano appassite come foglie nella sua memoria. Nonaveva più chiesto nulla, non aveva neppure più volutosentirne parlare. E quando un dubbio l’assaliva improvvi-samente, o anche gli tornava il suo ricordo di Angela, fa-cendolo soffrire, di Angela che continuava a vivere senzadi lui, e pensava che non le avrebbe mai più parlato, chetutto tra loro era finito senza rimedio, solo la serenità disuo padre poteva ridargli pace. Solo in quella saggezza,lontana, irraggiungibile, era la giustificazione dell’atto cheaveva compiuto a occhi chiusi. Allora passava lunghe orecol vecchio e lo ascoltava parlare. Il vecchio parlava dellacondanna, della vigna perduta, del tempo passato in car-cere; e la giustezza delle sue parole lo guariva. Il vecchiodiceva che quando si perde una cosa bisogna far contod’averla restituita a Chi ce l’aveva data per sua bontà; enon tocca a noi giudicare se colui per mani del quale Eglice la toglie, è un nostro nemico. Michele riferiva a sé que-ste parole, come se il vecchio raccontasse un apologo, ecercava di non pensare all’uomo per mano del quale An-gela gli era stata tolta, di dimenticarlo subito, prima chequel volto odioso risorgesse chiaro dalla memoria. Angela,come se fosse morta, se l’era presa quell’Altro. Così eglis’affidava a suo padre, senza chiedere nulla, come unosmemorato; in lui era la ragione della sua stessa vita. An-che l’arte di coltivare la terra, con tutti i suoi segreti, glipareva che suo padre non l’avesse appresa, a sua volta,da altri, ma che l’avesse scoperta da sé, come il primo uo-mo. E quest’idea fanciullesca, nata dal bisogno di trovarein suo padre la ragione di tutti i propri atti, anche quandofu da lui, non risolta, con gli anni, in un modo più maturodi veder le cose, ma come messa in disparte, dimenticata,

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come accade di molte idee dell’adolescenza, i suoi effetticontinuarono a durare in lui, gliene rimase ancora il senso.Ma era una fiducia che, quand’era lontano da suo padre,poteva venir meno a un tratto; come un nuotatore inesper-to che s’accorge con terrore di non toccare più il fondocon la punta del piede. Gli accadeva anche quand’era conBeniamino. Il servo lo guardava coi suoi occhi impenetra-bili di pastore, e forse vedeva quel che stava accadendodentro di lui, chi sa! Forse sapeva che sarebbe bastata lamano di un bambino a stenderlo a terra, in quei momenti,benché lui continuasse a parlare del prezzo dei terreni dasemina o dei danni che, la notte prima, avevano fatto lecapre del vicino. Parlava, ascoltava, ma le parole, a un trat-to, perdevano il loro senso, non avevano più valore, eranovuote. Allora si sentiva nudo e trasparente come un gecoche ha la pancia piena di mosche; gli pareva che quel ra-gazzo chiacchierone e maligno potesse vedere la vergognache, ecco, improvvisamente si riaccendeva, la vergogna e ildolore di quando suo padre, nella stalla, pestando col ma-glio le fave per i buoi, gli aveva detto il nome di quell’uo-mo col quale Angela lo tradiva. Non udiva più le paroledel suo interlocutore ma le parole di suo padre, rinasceva-no i pensieri che quelle parole avevano alimentato per tan-to tempo, e ciò che in quel momento aveva visto con l’im-maginazione e aveva cercato disperatamente di cancellarsubito dalla memoria, quelle immagini che invece ritorna-vano sempre con lo stesso vigore, quando la fiducia lo ab-bandonava, anche ora che di Angela non gl’importava piùnulla. Dopo questi turbamenti, era come uno che si destada un incubo: si ritrovava seduto sul muricciuolo dell’orto,o a camminare accanto alla ruota del carro col pungolosulla spalla, a fianco del servo che nel frattempo, vedendo-lo assorto in altri pensieri, aveva preso a canterellare qual-cosa. Pensava a suo padre, gli pareva di essere non lui masuo padre stesso; e come per incanto tornava a sentirsi si-curo, padrone di sé, anche lui come tutti gli altri; e gli altri

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CAPITOLO VII

Quell’anno Michele affittò quasi tutta la terra che avevapreparato e seminò solo il grano che bastava per la provvi-sta di casa e la paga del servo. Dopo il raccolto, licenziò ilservo e rivendette i buoi di Arci alla fiera di Santa Croce.Fece tutto questo contro il parere di Maddalena, che dice-va: – Tuo padre la terra l’ha comprata per seminarla, nonper darla in affitto agli altri come la gente ricca –. Micheleinsisteva che conveniva di più far così. La terra affittatarendeva meno sì, ma rendeva ogni anno nella stessa misu-ra, e lo svantaggio veniva compensato. Il servo era statonecessario tenerlo durante la malattia di Giuseppe, perchénon si potevano vendere definitivamente i suoi buoi senzadargli un grande dolore; ma ora no, non conveniva più.Michele non era convinto di quel che diceva, anzi, in cuorsuo, doveva riconoscere che Maddalena aveva ragione, eche, per mettere assieme i seicento scudi che ci volevanoper ricomprare la vigna, bisognava continuare a lavorar laterra come sempre aveva fatto suo padre. Era il chiodo fis-so di Giuseppe, la vigna. Gliel’aveva portata in dote Mad-dalena, e lui poi, ci aveva lavorato tanto. Avrebbe volutoricomprarla, prima di andarsene. Anche la sera della gras-sazione Michele c’era passato davanti, con Cosimo Aneris,e s’era ricordato di suo padre, che ogni volta che passavadi là voltava la faccia dall’altra parte sospirando. Nella lucedella luna, la vigna, già spoglia, tra le quattro siepi di fichi-dindia, sembrava anche più grande di quando l’avevanovenduta. A quel tempo le viti innestate sui vecchi ceppinon avevano dato ancora frutto. Le aveva innestate con lesue mani, Giuseppe, un poco per volta; e ora se la gode-vano gli altri. Anche Michele, passando di là, aveva sospi-rato come suo padre, quella sera. Ma ora, cosa gliene im-portava della vigna? A sua madre non osava dirlo, ma non

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si spogliavano del loro mistero, e vedeva che i pensieri chenascondevano non erano molto diversi dalle parole che di-cevano o che avrebbero potuto dire. Tutto era naturale, tut-to era semplice. Pensava anche, qualche volta, alla mortedel vecchio; ma come a una possibilità lontana, indetermi-nata; pensava che in quel tempo, sarebbe stato diverso, piùforte, più sicuro, più uomo. Ed ecco che invece la morteera arrivata improvvisamente, e lui era lo stesso di prima;era arrivata proprio quando aveva più bisogno di aiuto.Come avrebbe voluto ascoltare ancora quella voce amica esaggia! Come avrebbe voluto poter credere che per il vec-chio non c’era nulla d’impreveduto, e che anche la cosache era capitata a lui qualche sera prima non era né straor-dinaria né terribile, e che lui, Michele, era innocente, e chefaceva bene a tacere, a confessarsi solo con lui, suo padre;sentirsi dire che quell’avvenimento sarebbe rimasto nasco-sto sempre a tutti gli altri.

E invece, quando gli occhi di suo padre si chiudeva-no, e il viso immobile sembrava immerso in un silenziopiù grande del sonno, gli pareva di sentire che in quell’av-venimento c’era qualcosa che sfuggiva anche al vecchio,che preferiva andarsene così, senza dir nulla.

Si ricordò di questo tre giorni dopo, quando si sparsela notizia che suo cugino Giovanni era stato trovato nelpodere di Nadòria con due palle nella schiena.

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gliene importava più nulla. Della vigna non sapeva chefarsene, lui. Si sarebbe accontentato di lavorare quanto ba-stava per il pane. Tutto il resto era in più. Ma una ragione,per Maddalena, bisognava trovarla, e Michele diceva: – Ve-dete, mamma, con la vendita dei buoi e del carro del po-vero babbo abbiamo fatto centoventicinque scudi. Anchegli altri verranno –. La donna s’accorava: – Sì, verranno!Verrebbero se tu lavorassi la terra con le tue mani come fa-ceva Giuseppe, invece d’affittarla. Certo che verrebbero!Era l’unica cosa che mi restasse di casa mia. Così l’aspette-remo un pezzo, la vigna del Faraone –. Per tutta la vita suopadre aveva avuto un solo scopo: accumulare pezze, realie scudi, come una formica accumula chicchi di grano.Quando ne aveva messo da parte un bel po’ comprava unpezzetto di terra. Così aveva ingrandito il piccolo poderedi Spinàlva, aveva impiantato l’orto e acquistato il chiusoper sciogliere al pascolo i buoi, e la terra di Monte Ulìa,che voleva mettere a mandorli. Pensava a Michele, ai figlidi Michele, e ai figli dei figli. Ma lui? Lui era solo al mondo,e solo sarebbe sempre rimasto. Anche lui, prima, aveva fat-to come suo padre, fin da ragazzo, per quanto inconscia-mente, senza nulla sapere della sua vita. Quando s’era fi-danzato con Angela, questo desiderio della proprietà eradiventato fortissimo, come un istinto che si fosse maturatocon la virilità. Il suo amore per Angela era unito a questobisogno di guadagno e di possesso: accrescere la roba delpadre, che era roba sua, ingrandire la casa del padre, chepure era sua, lavorare per la famiglia futura. Ma quandoaveva detto ad Angela che al matrimonio non c’era più dapensarci, e lei se n’era andata senza chiedergli nessunaspiegazione, anche questo desiderio era caduto. Per lui, daallora, era come se la vita si fosse fermata. Se lavorava co-me prima, se come prima era attento e avveduto, non erapiù il suo stesso interesse che lo spingeva, alimentato daquell’istinto profondo, ma il bisogno di secondare il desi-derio di suo padre, senza mai chiedersene la ragione.

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– Per te le mie parole non contano niente – soleva ri-petere Maddalena quando cercava di convincerlo a non af-fittare la terra. Le parole di Maddalena, da quando suo pa-dre era tornato in paese dopo aver scontato la condanna,non avevano più contato nulla per lui, neanche quand’erachiaro il vantaggio, in ciò che sua madre diceva; mentreGiuseppe poteva chiedergli il sacrificio più doloroso ed erasempre ascoltato. Ora Michele era come un albero a cuiavessero tagliato le radici più profonde; e non aveva altrodesiderio che d’abbandonarsi senza resistere alla stanchez-za che gravava su tutto il suo essere. Come avrebbe potutodire a Maddalena che aveva licenziato Beniamino perchéBeniamino era come un occhio aperto e vigile sul suo tor-pore, un occhio che avrebbe finito per vedere, per pene-trare quel segreto che avrebbe dovuto portarsi con sé persempre, che avrebbe voluto affidare a suo padre per poidimenticarlo? Non voleva nessuno attorno a sé, voleva starsolo. E quando era costretto ad avvicinare qualche perso-na, aveva paura di tutto, delle parole, degli sguardi e persi-no del silenzio che il suo impaccio causava. Non volevache alcuna cosa lo strappasse a quel molle torpore, a queldesiderio continuo di stendersi a terra e dormire.

Ma in quanto a dormire veramente, i suoi sonni nonerano più quelli d’un tempo. Gli accadeva d’assopirsisdraiato bocconi sul carro oppure sulla stuoia di sala get-tata fra le mangiatoie dei buoi, ma non dormiva mai vera-mente. Allora la sua atonia abituale si colorava di unainesplicabile felicità. Il suo sopore era un trascorrere dibuio e di sereno, come nuvole in un cielo lunare, un pal-pito lungo, un profondo respiro d’ombra; e quando quelpalpito si faceva più trasparente, era come se, attraversoil velo del sonno, vedesse i buoi, il timone del carro, lalegnaia, il tetto, il cielo stellato: tutte cose presenti, reali,a cui lo teneva avvinto il terrore d’abbandonarsi ai fanta-smi che popolavano la sua angoscia. Eppure quel velosottile bastava a separarlo dal presente, divenuto per lui

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così deserto. Ogni tanto gli pareva di udire, tra gli altri ru-mori, la voce del padre, il maglio con cui il vecchio pe-stava le fave, gli pareva di dover fare qualcosa con lui,l’indomani: ma non gli accadeva mai di vedere suo padrein sogno. Quando dormiva nella stanza accanto alla cuci-na, d’estate, con la porta spalancata sul cortile, il suoorecchio avvezzo alle notti all’addiaccio, vigilava istintiva-mente i buoi che ruminavano nella stalla; anche nel son-no distingueva il tintinnio, a volte appena percettibile, deicampani delle sue bestie da quelli delle stalle vicine, sa-peva quando si leccavano sotto la coscia, quando si grat-tavano contro il pilastro di granito della tettoia, seguiva iloro movimenti lenti e grevi, vedeva le loro grandi om-bre. E nella gioia inesplicabile che quel sopore gl’infon-deva, era anche l’orgoglio, sempre condiviso con suo pa-dre, per quel giogo di buoi di cui non si trovava l’ugualein tutta Sigalesa.

Invece i risvegli erano oppressi da un’oscura dispera-zione. Erano le ore più angosciose della giornata, quelledel risveglio – ore o forse anche soltanto brevi istanti; egliene rimaneva poi la sensazione penosa per tutta la gior-nata, come un peso da cui non potesse più liberarsi.Quando, prima dell’alba, portava i buoi all’abbeverata fi-schiando come tutti gli altri boari un’aria di quattro noteche accompagnavano il passo delle bestie, quelle stesseombre amiche che prima erano entrate nella gioia del suosonno, ora si staccavano dalle altre più piccole in fila al-l’abbeveratoio, l’opprimevano come un incubo. Continua-va a fischiare come gli altri, la piazzetta e la scarpata sco-scesa si riempiva di suoni acquatici, ma lui non riusciva avincere quell’angoscia. Avrebbe voluto che i suoi buoi fos-sero simili a tutti gli altri di Sigalesa, piccoli, rossi di man-tello e con la testa gravata da corna enormi, e lui stessoavrebbe voluto essere un servo, come i boari che fischia-vano accanto a lui, non possedere nulla, obbedire a qual-cuno come prima aveva obbedito a suo padre.

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Il grano lo aveva seminato nel campo di Monte Ulìa,tenuto a maggese, isolato in una distesa di lentischi e diolivastri. Maddalena aveva avuto da ridire anche per que-sto, non parendole conveniente che Michele scegliesseproprio quel campo fuori mano mentre avrebbe potuto te-nersi un pezzo di terra accanto all’orto, e badare così auna cosa e all’altra. Invece, per andare a Monte Ulìa, coibuoi, ci voleva un’ora buona di strada. Michele diceva chele altre terre erano stanche, mentre quella, quasi vergine,avrebbe dato un raccolto migliore. La ragione vera peròera questa, che essendo il campo così fuori mano pocaera la gente che ci passava, e poi aveva la scusa di star lìanche quando non c’era da scerbare o zappare il grano,per far la guardia. S’era fatto un capanno a ridosso di unaquercia e di là, essendo il campo su un pendio digradan-te, poteva abbracciarlo tutto con l’occhio.

Quando cominciò a spuntare, il grano pareva stento, edal modo d’accestire si vedeva il segno della gittata del se-me, un po’ incerto, come se l’avesse seminato il debolebraccio di una donna. Quei pochi che passavano per lastrada lungo il campo, pastori per lo più, carbonai, cerca-tori di funghi, o gente che andava a far legna, si fermava-no e scrutavano a lungo, come se volessero veder quantichicchi erano nati in ogni solco. Michele, se era nel capan-no, non si muoveva di là neanche quando il passante, sco-prendolo finalmente, gli faceva un cenno di saluto. Se poicapitava a portata di voce doveva sentire anche i commen-ti. – Se non piove, il tuo grano va male – gridavano. – Co-testi sono terreni asciutti. Qui ci andrebbe una vigna. Unavigna sì che andrebbe bene –. Anche Maddalena volle an-dare a vedere il grano, e disse la stessa cosa. – Questo èterreno da mettere ad alberi. Tuo padre aveva compratoquesto terreno per metterlo a mandorli. Una volta sola ciseminò grano.

– E quella volta andò bene – disse Michele.– Ma quell’anno ne venne dal cielo dell’acqua!

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– Anche quest’anno verrà.– Quest’anno? Vedrai quest’anno! Non farai fatica a

mieterlo quel grano.– Io vi dico che verrà – insisteva Michele. – Ho visto i

buoi giocare anche stamattina.Ma in realtà non gliene importava nulla che piovesse o

no. Gli piaceva star nel capanno a fabbricare cesti di giun-chi, a guardar crescere l’erba tenera del grano, a lasciarspaziare l’occhio per la cupa distesa di cisti, fino alla pia-nura già verdeggiante. – Quelle sì che son terre buone –diceva qualche volta a voce alta, come concludendo un ra-gionamento interiore – quelle sì che ripagano il lavoro delpovero contadino. Sono terre che danno anche il sediciper seme –. Non erano idee sue, erano parole che avevasentito ripetere tante volte da suo padre, che pur essendoaffezionato alle terre di Spinàlva, vagheggiava così quellealtre più ricche. Allo stesso modo, oziosamente, cercavache cosa mancasse al suo grano, come se non lo sapesseanche lui che tutto dipendeva dal terreno troppo asciutto.Il terreno era riposato, ingrassato dal bestiame, arato in pri-mavera, intraversato a settembre; ma era asciutto.

Una mattina i buoi, sciolti al pascolo, cominciarono agiocare davvero, cozzando tra loro. Era un indizio sicuroche stava per piovere. Michele lasciò che prendesseroqualche boccata di grano, e solo dopo un poco lanciò unsasso per farli allontanare.

La notte, cominciò a piovere; e ai Santi il grano nac-que tutto, e veniva su nel campo folto e uguale che pare-va seminato con la macchina.

– Avete visto, mamma, che avevo ragione – disse Mi-chele quando Maddalena andò a Monte Ulìa per aiutarlo azappare il grano. La donna, dal carro, scuoteva la testasenza rispondere. Non voleva ancora darsi per vinta, eneppure far l’uccello di malaugurio, però, di fronte a tuttaquella grazia di Dio venuta su come per miracolo, esposta

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ai pericoli delle secche, della stretta, degli incendi, delicatacome il pane che lievita in un canto della stanza più calda.Ora che il grano era nato non bisognava più dir nulla e af-fidarsi alla volontà di Dio. Proprio come quando si fa il pa-ne, che basta nulla a farlo andare a male: basta che duran-te la notte cambi il tempo, basta un pensiero cattivo, avolte; e allora l’abilità e l’attenzione non contano più nulla.Bisogna farsi il segno della croce, prima di cominciare, epensare a cose buone. Così anche per il grano in erba, peril grano da mietere e da trebbiare. Per questo i pensierid’odio, anche se covati in silenzio, finiscono per mandarein rovina le famiglie. Lei stessa ora si sentiva pesare comeuna colpa il rancore che l’aveva staccata dal figlio dopo lamorte di Giuseppe. S’erano trovati una contro l’altro, ma-dre e figlio, senza sapere neppure perché: come se unmalinteso fosse nato tra loro e ci fosse bisogno d’unaspiegazione che nessuno dei due si risolveva ad affronta-re. Lei era scontenta di tutto ciò che lui faceva, e Michele,da parte sua, non l’accontentava neppure nelle piccole co-se, sempre ostinato, sempre chiuso in se stesso. A volte lepareva che Michele soffrisse più di lei per la morte di Giu-seppe, e ne era gelosa. Ora, per la prima volta, dopo tantimesi, vedendo il grano folto e lucente, quel groppo d’astiole si scioglieva dentro; ma stava zitta, senza riuscire a dirgliquelle parole che gli avrebbero fatto piacere. Zappava chi-na, con la zappa dal corto manico di corbezzolo, strappan-do ogni tanto qualche ciuffo di cuscuta o di medica chegettava nella gora dopo averne scosso la terra dalle radici.Le pareva di esser tornata ai tempi lontani, quando lei eGiuseppe scerbavano il grano nel piccolo campo di Spinàl-va, più piccolo anche di questo di Monte Ulìa, allora, o an-davano a lavorare a giornata nelle terre di Serra Lisone, diMérula, di Ìscia Ìspina, dove li chiamavano, senza curarsidella fatica. Così avevano cominciato, e non avevano dascegliere la terra, allora. Dovevano accontentarsi del loropiccolo podere, che era una terra povera, argillosa, che

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quando pioveva non s’asciugava mai, e quando non piove-va si spaccava come la crosta del pane: ben diversa daquella che avevano comprato tutt’intorno, più tardi. Eppuredava il suo frutto, perché Giuseppe era contento, e anchelei, e lavoravano d’amore e d’accordo. Ora si pentiva deisuoi rancori, dei suoi pensieri ostili; e benché le reni le do-lessero, continuava a zappare senza riposarsi. Anzi queldolore fisico la rendeva tranquilla. «Come sarebbe belloora» pensava «se Michele sposava Angela!». Era un pensie-ro, questo, che le tornava sempre anche quando ce l’avevacol figlio: solo che, allora, era un motivo di più per stimar-lo un buono a nulla. Tornava sempre e si colorava diversa-mente secondo la disposizione del suo animo. Quando sidimenticava del presente, e si lasciava andare a fantastica-re, pensava ad Angela. Com’era stata bene nei pochi mesiche Angela aveva frequentato la sua casa! La bella compa-gnia che le aveva fatto! L’aiuto che le dava in tutto! Era at-tenta, svelta, operosa come un’ape. Ecco com’era Angela,nella casa: come un’ape nell’alveare. Essere lì, a MonteUlìa, con Michele, e sapere che in casa c’era lei, Angela.Tornare e trovare tutto in ordine, il cortile scopato, la pen-tola sul fuoco, il telaio coperto col panno di lino, e riceve-re il saluto di quella voce simpatica e allegra. E invece An-gela non la salutava neppure, ora, quando la incontrava afaccia a faccia per la strada, come se non si fossero mai vi-ste né conosciute. Non era più la ragazza di prima. Avevasposato un vedovo con tre figli, s’era fatta più bianca egrassa, perché essendo il marito falegname, non andavapiù in campagna; e forse non gliene importava niente cheMichele non l’avesse sposata. Eppure aveva tanto deside-rio di fermarla, di chiederle dei figli. Non aveva mai avutonulla, contro di lei, e non aveva mai voluto credere a ciòche la gente maligna aveva detto. Per quanto era dipesoda lei, non aveva mai fatto nulla per distogliere Michele.Lei aveva sempre pensato che Michele avrebbe fatto la suafortuna con una moglie come Angela. Sarebbero nati dei

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figli, e Michele avrebbe lavorato per loro. Sarebbe stato co-m’era Giuseppe da giovane, Michele, quando anche lorosperavano di avere molti figli che li aiutassero nella vec-chiaia. Perché, a che cosa serve essere un buon lavoratore,come Michele, se non ci sono figli? per chi si lavora? È cosìche passa la voglia di far bene. Guardava ogni tanto il fi-glio chino davanti a lei sul solco, e capiva ora perché ama-va quel campo solitario, e voleva starsene sempre lontanodalla gente. E sentì pietà per lui. Era come un vedovo, co-me un vecchio che non dovesse aspettarsi più nulla dallavita. Tale e quale come lei.

Michele amava quel campo. Amava la strada che por-tava a Monte Ulìa, il capanno a ridosso della quercia, gliolivastri che crescevano qua e là in mezzo ai lentischi eai cisti, il monte boscoso, che pure non guardava maiperché gli dava tristezza con le sue cupe ombre e le suerocce a picco. Quel campo era suo, ne conosceva ognizolla, ogni sasso. Più suo di tutta l’altra terra che il padregli aveva lasciato; e non sapeva egli stesso perché. Ama-va l’ombra del monte che, a sera, s’allungava fino allapianura, fino ai grani verdeggianti in lontananza.

Mentre il grano cresceva, lì sotto i suoi occhi, chequasi gli pareva di vederlo venir su e srotolare le foglietenere dei cimoli, egli andava maturando nella sua menteun progetto: mettere a mandorli quel campo, come vole-va fare suo padre. E sapeva quante piante ci avrebbemesso. In due anni le piantine sarebbero cresciute e lui leavrebbe innestate. Misurava il suo lavoro nel tempo. Sa-peva le diverse qualità che avrebbe innestato sulle man-dorle amare. Avrebbe innestato mandorle di Medàdos,che hanno le foglie larghe come quelle del pesco e ilmallo verde, quelle di Sant’Àlvara, che danno un fruttopiù piccolo, di forma allungata, dal mallo violaceo e con-sistente, le forestiere, dal frutto piccolo e tondo che sischiaccia tra le dita. Ci pensava tanto che quando il grano

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CAPITOLO VIII

Un giorno, dopo il raccolto, andò da lui lo zio Bene-detto. Michele stava dando la profenda ai buoi nella stalla.Rispose al saluto del vecchio senza mostrare alcuna mera-viglia, e lo invitò a entrare in casa. Ma Benedetto disseche preferiva star lì, e si sedette accanto alle mangiatoie,dopo aver dato un’occhiata intorno come per riconoscerequel luogo, nel quale non metteva piede da tanti anni.Non s’erano mai incontrati, dopo la morte di Giuseppe edi Giovanni, e la disgrazia che li aveva colpiti quasi con-temporaneamente rendeva superflua ogni spiegazione diquella visita inaspettata.

Dapprima il vecchio parlò del raccolto, scarso, quel-l’anno, a causa delle piogge che avevano allagato i semi-nati. Disse che si vedeva che la fortuna aiutava Michelecome aveva sempre aiutato Giuseppe. Chi mai gli avevasuggerito l’idea d’andare a seminare il grano in quel terre-no di collina? A nessuno sarebbe venuto in mente. Miche-le avrebbe voluto rispondergli ch’era andato a Monte Ulìaper non imbattersi mai nella sua brutta faccia né in quelladei suoi figli; ma invece continuò a tacere aspettando cheBenedetto arrivasse al sodo; perché certo era venuto dalui con uno scopo preciso, e per quanto, con quella bar-ba grigiastra che s’era lasciato crescere dopo la morte diGiovanni, sembrasse anche più vecchio, Michele sapevache non c’era da fidarsene.

– Scommetto ch’era la prima volta che lo seminavi,quel campo.

Michele disse che il campo di Monte Ulìa era già statoseminato un’altra volta, da Giuseppe, e anche quell’annoera piovuto tanto che le terre della pianura erano rimasteallagate per tutta la primavera.

Il vecchio scosse la testa con un mezzo sorriso nellabarba.

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cominciò a mettere le spighe, il mandorleto era già cre-sciuto nella sua mente.

In questi pensieri ritrovava pian piano l’amore del la-voro, disinteressato, senza alcun fine. Per chi lo piantava, ilmandorleto? Questo non se lo chiedeva neppure. Lo pian-tava perché amava quel campo, quel luogo nel quale ritro-vava, giorno per giorno, la sua pace.

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– Avete sempre avuto una fortuna da porci, voialtri!Anche Michele si trovò a sorridere compiaciuto, come

se fosse davvero merito suo aver scelto la terra di MonteUlìa per la semina proprio quell’anno. Ma si riprese subi-to. S’alzò e aggiunse una manciata di fave peste in ognitruogolo. Intanto guardava il vecchio che continuava ascuoter la testa per suo conto. Ora che la barba gli na-scondeva il mento e la bocca, la sua somiglianza conGiuseppe risaltava vieppiù nella parte superiore del viso.S’era alzato la berretta sulla fronte e sembrava assorto inpensieri che certo non avevano se non una relazione lon-tana con la pioggia e col raccolto del grano.

– Tutti e due, io e te, siamo stati toccati dalla mano diDio – disse quando Michele tornò a sedersi.

«Ora mi parla di suo figlio Giovanni» pensò Michele.E non disse nulla, deciso a non aprir bocca fino a chenon avesse scoperto che intenzioni aveva. Il vecchio eravenuto per far la pace con lui, ma la pace era una cosasecondaria: certo mirava ad altro.

– A me mi hanno ammazzato il figlio. Era uscito dicasa contento, e non è più tornato.

Michele non disse nulla neanche questa volta, e so-stenne lo sguardo del vecchio.

– Perché è successo questo? Di notte, quando tutti glialtri dormono, io non chiudo occhio. Perché è successo?Chi è stato? Sua madre almeno piange. Io non riesco nep-pure a piangere, sempre con quel pensiero fisso. Vorreisapere chi è stato. E non lo vorrei sapere per appostarmidietro una siepe e pagare il debito con le mie stesse ma-ni. Farei anche questo, perché la mano non mi trema; manon è questa la cosa che m’importa di più. Se sapessi chiè stato sarei più tranquillo, non avrei nessuna fretta, e riu-scirei anche a dormire. Poi arriverebbe anche il momentogiusto, e non me lo lascerei scappare.

Michele continuava a tacere, pur sentendo che il suosilenzio, se il vecchio aveva qualche sospetto e faceva

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assegnamento sul suo aiuto, non era meno compromet-tente delle parole.

– Ma non è questo che volevo dirti – disse Benedetto.– Queste son cose che interessano solo me. Basta! Volevodirti che per tanto tempo, sempre con quel pensiero chenon mi lascia, non mi sono neppure accorto della mortedi Giuseppe. Lo sapevo, che era morto, ma non ci facevocaso. Avevo un pensiero solo, e non pensavo ad altro,mai. Una notte, faccio un sogno. Mi vedo nella strada diNadòria, e davanti a me c’è uno con una bisaccia. Mi av-vicino e guardo: la bisaccia era piena di carciofi. Alloraquello si volta, ed era Giuseppe. «Ah», dice «sei tu. Ti seidimenticato di me. Io lavoro per tutti, ma a voi di menon ve ne importa nulla». Allora mi ha dato la bisaccia,che sembrava piena di sassi, e le spine dei carciofi mipungevano la schiena. Aveva in mano il gambo di un car-ciofo e lo stava pulendo col coltello, e ogni tanto se nemetteva un pezzetto in bocca e mi guardava. «Dammeneanche a me» dico. «No», risponde lui «a te non te ne do».Da quella notte ci ho sempre anche quest’altro pensierofisso nella testa, che lui è morto inquieto con me. Poteva-mo far la pace, quando ero ancora a tempo; e invece no.Se io venivo da lui, come ora sono venuto da te, non mirimandava indietro. Non mi chiudeva la porta in faccia, sevenivo da lui. Ma era tanto tempo che non ci parlavamo.E sai come succede: tra fratelli queste cose si rimandanosempre. Sembra che ci sia sempre tempo. Tra fratelli tuttosi può accomodare, basta che uno voglia, se è in buona fe-de. Ma si rimanda da un giorno all’altro, e alla morte nonci si pensa, neanche quando siamo vecchi. Ora, stammi asentire, Michele: quello che si può fare tra fratelli non sipuò far più tra cugini; ed è così che si tramandano gli odidi generazione in generazione, che non si sa più nemme-no come si è cominciato. Dopo quel sogno ho semprepensato a questo: queste che ci hanno colpito sono dis-grazie grandi. Giovanni lo sai come è morto. E sai anche

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quello che dice la gente. Io, che lui avesse a che fare conla banda d’Angelo Malìga, non ci credo. Gli altri però lo di-cono, e ci guardano tutti con sospetto, ora, me e i miei fi-gli. Giuseppe è morto senza che ci siamo detti una parolabuona per metter fine a questo rancore di fratelli; e i nostrifigli, tu, e Pasquale, e Pietrino, e i figli di Salvatore vi porte-rete dietro questa eredità. E sarà un peso anche più grandedi quello che abbiamo portato noi, e non ve lo potrete to-gliere dalle spalle, voialtri. Voi siete giovani, e il vostro odiosarà giovane come voi, forte come voi. Noi lo abbiamo vi-sto nascere e crescere, voi no; e non lo potrete ammansire.Allora ho pensato che c’eri tu, e che forse tra me e te si po-teva ancora parlare. Tu somigli a Giuseppe, quand’era gio-vane, e abitavamo tutti nella nostra casa. Allora ho detto:vado da lui a sentire cosa ne dice. E sono venuto.

Il vecchio aprì le braccia, come a dire: sarà quel chesarà. E aspettò.

Le sue parole sembravano sincere, e se anche nonerano sincere fino in fondo, il ragionamento era giusto.Michele si sentiva rassicurato dal fatto che suo zio crede-va che Giovanni non facesse parte della banda. Ma locredeva veramente? O non voleva far la pace proprio colfine di approfondire un possibile sospetto?

– Non mi dici niente? – chiese dopo un poco il vecchio.– Vedete! – disse Michele lasciando cadere un po’ di fa-

ve peste sulla lingua di uno dei buoi, che protendeva ver-so di lui il muso umido. – Vedete! quello che dite è giusto,zio Benedetto, ma fa un effetto curioso a sentirlo dire davoi. Mi sembra di sentire parlare un altro, non voi.

Il vecchio lo guardò un poco, poi abbassò la testa.– Un anno fa voi siete andato dall’avvocato sempre

per quel vecchio affare dell’eredità – continuò Michele. –Dopo tanti anni, dopo tutto quello ch’era successo, allavostra età, voi siete tornato ancora su quel vecchio affare.Ora parlate di pace.

– Sapevo che mi avresti risposto così – disse il vec-chio. – Però, se credi che ci sia andato io dall’avvocato, ti

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sbagli. Mi dispiace di dover incolpare uno che è già terra.Giovanni ci andò.

– Giovanni?Michele rivide suo cugino. Erano giunti alla capanna

di Pedonca, e uno dopo l’altro li avevano visti uscire dal-la stretta apertura che faceva da porta, curvi. Come sidrizzavano, la luna illuminava in pieno il loro viso. Perultimo era uscito Giovanni; e vedendo Michele accanto aCosimo aveva detto con aria beffarda: – Ah! ci sei anchetu. Ho piacere che ci sei anche tu!

– Sì, Giovanni. Era lui che voleva vederci chiaro, inquella faccenda. Dopo tutto quello che c’era stato, tra mee mio fratello, lui voleva farsi spiegare da uno che sapes-se la legge come stavano le cose.

– Anche noi, io e il povero babbo, ci siamo andati, incittà, dopo di voi, come abbiamo saputo la cosa. Perchéio non so chi sia stato! qualcuno di voi andava dicendoche mio padre vi doveva non so quante centinaia di scu-di, a voi e a vostro fratello Salvatore, tra capitale e inte-ressi. Ci sono ragazzi e donne, in casa vostra, zio Bene-detto, sentono parlare di queste cose e le riportano fuori.

– Chi sa quante sciocchezze hanno riferito – disse ilvecchio – e quante aggiunte ci hanno fatto poi gli altriche le hanno riportate a voi.

– Beh! poco importa. Anche noi siamo andati dall’av-vocato. Noi sapevamo già come stavano le cose, ma, nonsi sa mai, poteva esserci qualche sbaglio, nella legge,qualche sbaglio che potesse darvi ragione, un buco dovevoi, coi vostri intrighi potevate infilarvi. Eh già! Era am-malato, mio padre, quando ha dovuto fare quel viaggio.

L’antico rancore ora tornava a ribollirgli dentro, il ran-core di sua madre che non perdonava a nessuno.

– State a sentire, zio Benedetto, – disse gettando conviolenza le fave che gli erano rimaste in mano nella man-giatoia dell’altro bue, che si ritrasse soffiando – state asentire: voialtri non siete andati dall’avvocato per saperese la ragione era dalla vostra parte, perché l’avete sempre

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saputo di avere torto e siete sempre stati in malafede, cisiete andati per vedere se vi riusciva…

Non disse il resto, e anche queste parole le pronunciòcon una calma che contrastava col loro senso. S’era subi-to pentito del gesto violento col quale aveva gettato le fa-ve nella mangiatoia, contrario al costume suo e di suopadre d’essere sempre pazienti con le bestie; e questo gliricordò, di suo padre, l’umana mitezza.

– T’ho detto che io non c’entro – disse il vecchio, cal-mo anche lui. – Io non ci sono andato dall’avvocato, e an-zi glielo dicevo sempre a Giovanni di non pensarci più.

Tacquero tutti e due per un poco; e si sentiva solo ilrumore che facevano i buoi masticando la paglia e le favecol muso nei truogoli. Poi il vecchio disse:

– Dammi retta, Michele. Togliamo di mezzo tutti i cat-tivi pensieri che sono tra le nostre famiglie. E non chie-diamoci chi di noi ha ragione: questo lo sa il Signore.

Michele lo guardò in viso, e stava per dire: «Lo so an-ch’io, e anche voi, chi di noi ha ragione», ma il vecchio al-zò le mani.

– Lo sa il Signore – ripeté.Una volta Giuseppe aveva detto a Michele: – Stai sicuro

nel tuo diritto come se tu fossi in chiesa –. Ora Michele nonpoteva dar torto a suo padre fingendo d’ignorare chi avevaragione e chi aveva torto: e fece un cenno di diniego.

– Pensaci bene, Michele. Tutti possiamo avere sba-gliato. Lo so quello che pensi. Io non voglio dare la colpaa tuo padre. Io, quando me la sono presa con tuo padre,credevo di avere ragione io. Che possa cadere fulminato,se non è vero! Poi sono successe tante cose, si sono det-te tante parole pazze, e tra fratelli si fa presto a mettersile mani addosso. Ci eravamo sempre picchiati, tra noi,fin da ragazzi, Sempre! Tra fratelli, è facile l’ira e il per-dono. Credi che quando io e Salvatore abbiamo picchia-to tuo padre, a Spinàlva, lo abbiamo fatto con altro ani-mo? E quando mi ha picchiato lui? Il fatto è che ci si

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sono messi in mezzo gli estranei, e in queste cose anchei figli sono estranei; e poi ci si è messa la Giustizia. E lecose sono andate come sono andate. Quando ci si mettedi mezzo la Giustizia, allora non si perdona più. Anche ifratelli non sono più fratelli. Non ci si guarda più in fac-cia. È così.

Sorrise tra sé, poi alzò gli occhi, e il suo sorriso, da in-teriore e segreto che era, s’appuntì maliziosamente. Si ca-vò la berretta, chinò la testa sulle ginocchia e mostrò coldito, tra i capelli grigi, la cicatrice lunga e profonda. Poi sicoprì di nuovo, come uno che nasconda in fretta qualcosadi prezioso. E continuava a sorridere maliziosamente.

– Certo il danno che ha avuto Giuseppe è stato piùgrande di quello che ne ho avuto io. Tu lo sai meglio dime. Ma a che cosa serve parlare di questo?

L’aria maliziosa era scomparsa dal suo viso. Ora loguardava col viso serio. E Michele pensava che ciò che ilvecchio diceva era giusto. Ci fosse o no un secondo fine,era giusto. Era lui che doveva decidere, adesso. Quellalunga contesa che aveva angustiato suo padre per tutta lavita, poteva risolverla lui. Chi sa! forse anche Giuseppeavrebbe preferito morire in pace coi fratelli, lasciare lapace tra quelli che rimanevano. Si tira avanti, si trascinaun rancore per anni ed anni, ma si pensa, in fondo alcuore, che è meglio finirla, e poco importa se con una ri-vincita o col perdono. Quante volte si vorrebbe la pace!Anche chi odia, pensa con rimpianto, qualche volta: «Ah!se non avessi detto quella parola!, se non avessi fatto latal cosa!, se tutto questo non fosse successo!». E in certimomenti non sappiamo neanche più che cosa ci separaveramente dal fratello offeso. E ancora meno lo sanno inostri figli, se tramandiamo a loro il nostro odio. Pensòanche che suo padre non aveva mai odiato i fratelli. – Mifa pena vederli così arrabbiati – diceva. Perché l’odio ècome un malaugurio che non ci lascia mai. E allora? Farla pace con Benedetto e Salvatore?… Maddalena avrebbe

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CAPITOLO IX

Quando Michele parlò per la prima volta a Maddalenadella sua intenzione di prender moglie, due anni eranotrascorsi dalla morte di Giuseppe. Dopo l’interrogatorio,Michele non aveva più avuto noie, e così anche CosimoAneris, che incontrava ogni tanto sulla strada di Spinàlva.Una volta fecero anzi un pezzo di strada assieme, senzamai parlare però dell’avventura di quella notte ormailontana, benché, tutti e due, tacendo, non pensassero adaltro. Del resto, alla grassazione di Antonio Màsala e al-l’assassinio di Giovanni nessuno più ci pensava, in paese.I morti marcivano sotterra e sopra ci cresceva l’erba. Dome-nico Vacca lavorava nella sua bottega di sellaio, Bore Liscabadava alle sue capre, Pedonca ai maiali. I due forestieriche lo avevano tempestato di pugni e legato, Michele liaveva riconosciuti alla fiera di Santa Croce: erano di F.,servo e padrone ma aveva fatto finta di nulla. A raccontarequei fatti ora ci sarebbe stato da farsi ridere dietro. Chi ciavrebbe creduto? Anche Michele aveva ripreso la vita diprima. Aveva seminato le terre di Spinàlva, tranne un pic-colo tratto ceduto contro un canone minimo allo zio Bene-detto, aveva dato l’orto a mezzadria a un bravo ortolano diOrriga, s’occupava di tutto con molta diligenza, ma soprat-tutto amava starsene a Monte Ulìa a curare i suoi mandor-li. Là c’era sempre qualcosa da fare, come in un giardino.Anche dopo terminata l’aratura, e sparso il letame sotto glialberelli, andava attorno strappando ciuffi d’erba, racco-gliendo sassi che gettava nelle callaie. Non poteva soffrireneppure i bachi e i ragnateli tra gli esili rami, dove era ap-parsa, quell’anno, la prima fioritura lieve ed effimera. Co-me il pastore conosce una per una le sue pecore da segniche lui solo è in grado di distinguere, così Michele cono-sceva i suoi mandorli. Tra i filari seminava fave ceci fagioli

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detto ch’era un’offesa alla memoria del morto. Michelesapeva tutto ciò che Maddalena avrebbe detto.

– Se noi parliamo sempre serenamente come oggi,tutto è chiaro, tra noi – disse.

Forse non tutto ciò che aveva detto il vecchio erachiaro, forse il vecchio non era del tutto sincero, e avevaun fine nascosto; ma per conto suo Michele sapeva chesuo padre, se fosse stato in vita, avrebbe fatto la pace,come lui faceva. Di questo era sicuro.

Andò a prendere un fiasco di vino, e a Maddalenache lo fermò sulla porta con un cenno interrogativo e im-perioso, rispose con un altro cenno che voleva dire: «Vispiegherò poi!».

– Dio te ne guardi! – disse a voce alta Maddalena, per-ché anche Benedetto sentisse.

Senza curarsi di lei, bevettero solennemente auguran-dosi salute e fortuna; poi parlarono dei buoi che Micheleaveva rivenduto alla fiera, del raccolto, delle terre cheaveva affittato. Michele sapeva che il vecchio avrebbe fini-to per chiedergli in affitto qualche ettaro di terra, e lui,benché avesse deciso di non affittare più, quell’anno, glie-l’avrebbe data, e a prezzo di favore, per giunta. Si ricordòche suo padre gli aveva detto di non cedere mai d’un pal-mo, con Salvatore e Benedetto. Lui non cedeva, ma la pa-ce esigeva un suggello.

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e altri legumi che cedono alla terra sostanze giovevoli almandorlo e lo fanno prosperare, rinfrescava la terra consovesci, e in autunno bruciava l’erbe secche e ne spargevala cenere al pedale di ogni piantina, dove la terra era puli-ta e sottile come quella di un’aiuola. Se la terra di MonteUlìa avesse avuto un odore particolare, quello sarebbe sta-to l’odore di Michele. Maddalena però era come se glielosentisse nei panni, quell’odore, e non gli perdonava la suapredilezione, benché non avesse motivi seri di dolersi dilui. Coi parenti diceva che Michele, dopo quei mesi di tri-stezza seguiti alla morte di Giuseppe, cominciava a rimet-ter le foglie, poveretto; ma col figlio invece si trovava sem-pre a contrastare per ogni inezia.

Quando il giovane le diede quella notizia inaspettata,e le disse che s’era già messo d’accordo col muratore perfabbricare un’altra stanza accanto a quella dove era mortoGiuseppe, Maddalena, che pure a ogni occasione gli rin-facciava di non averle ancora portato una nuora, gli ri-spose che non era il momento di mettersi a fabbricare, eche in ogni modo, prima di prendere impegni col mura-tore, avrebbe dovuto chiedere il permesso a lei. Micheledisse che, se lei non permetteva che si fabbricasse lastanza era sempre a tempo a rimandare; e che non glieneaveva parlato prima perché già un’altra volta aveva avutoil permesso da suo padre e da lei stessa, e aveva anchecominciato i lavori. Infatti la stanza dove era morto Giu-seppe era stata fabbricata allora.

– Ora sei tu il padrone, e puoi fare quello che vuoi –concluse dispettosamente Maddalena.

Per quel giorno tutto finì lì, e Michele andò via senzadare altre spiegazioni. Ma la donna, rimasta sola, si pentìdelle parole amare che aveva detto. Non aveva neppurechiesto al figlio chi fosse la donna; perché certamente, seMichele aveva deciso di fabbricare, doveva aver già mes-so gli occhi addosso a qualche ragazza. Conosceva Mi-chele, e sapeva che per un pezzo non sarebbe più tornato

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sull’argomento. Forse lei lo avrebbe saputo prima dagliestranei. E si mise a pensare chi poteva essere, passandomentalmente in rassegna tutte le ragazze del paese; mapiù ci pensava più s’accorgeva che nessuna aveva le dotidi quell’altra che era stata sul punto di diventare sua nuo-ra. Non pensava alla donna grassa e bianca che Angela eradiventata, ma alla bruna e forte ragazza di un tempo, ben-ché di lei, com’era allora, potesse ricordarsi distintamentesolo la voce. Ciò che di Angela le aveva detto suo marito,le chiacchiere corse allora sul suo conto e per le quali leistessa aveva finito per chiuderle la porta in faccia, non sele ricordava più. Se Angela se n’era andata, la colpa era diGiuseppe e di Michele. E ora chi sa chi le portava in casa.Chi poteva esser mai la donna a cui Michele pensava, senon avvicinava mai nessuno in paese, e di donne non ve-deva altro che le contadine che prendeva a giornata perspargere il letame a Monte Ulìa? E su chi poteva metter gliocchi, lui, se non era qualche poveretta che non aveva daportare in dote nemmeno un paio di camicie?

Covò in silenzio questi pensieri per alcuni giorni, poi,all’improvviso chiese a Michele:

– E lei, chi è?L’ostilità della madre faceva rinchiudere sempre Mi-

chele nel suo riserbo abituale. Benché ogni volta si propo-nesse di parlarle dei suoi nuovi progetti, finiva sempre perdirle le cose quand’eran già belle e fatte; e questo perchéla vecchia cominciava subito a contraddirlo con un tonocosì aggressivo che a lui passava la voglia di continuare. –A me chiedi pareri? – diceva Maddalena. – E cosa vuoiche sappia io di quel che ti passa nella testa? –. Il silenziodi Michele finiva per renderla allora più suscettibile. An-che quella volta la semplice domanda: – E lei, chi è? –portava con sé l’amaro di tante considerazioni poco bene-vole, di tante prevenzioni, di tanta diffidenza. Quelle pa-role furono pronunziate con un tono di voce così aspro erisentito che Michele non si sentì di dire quel nome che a

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lui ispirava sentimenti tanto diversi. Disse che non lo sa-peva ancora nemmeno lui chi era la donna, che non ave-va ancora pensato a nessuna donna, che ciò che importavaera di preparar tutto; poi sarebbe venuto il momento difar la scelta. Maddalena pensò che dopo tanti anni di soli-tudine non era possibile che Michele avesse deciso disposarsi senza aver trovato una donna che gli avesse fattodimenticare l’amaro di quell’altra.

– Non ci hai neanche pensato? – chiese con voce mu-tata.

Michele scosse la testa, tutto assorto in se stesso.Da quel momento Maddalena non pensò ad altro. I suoi

sospetti s’aggiravano sempre intorno alle ragazze che ave-vano lavorato a giornata nel mandorleto. Le vedeva chinedavanti a lui, per farsi aiutare a mettersi sul capo la gerlacolma, drizzarsi sulle reni con uno sforzo che lei stessa co-nosceva bene, equilibrare il peso, allontanarsi col busto er-to e le braccia incrociate sotto i seni. Sapeva che le donne,nella fatica, sono impudiche anche senza volerlo, e chel’occhio dell’uomo, pur senza volerlo, le segue, le cerca.Sapeva come si stabilisca così, tra uomo e donna, nella li-bera solitudine della campagna, un’intimità che non haneppure bisogno di parole per manifestarsi, un’intimità fisi-ca anche più grande di quella che nasce tra le pareti dellacasa. Le vedeva sedute in cerchio davanti al capanno,quelle donne, nell’ora del riposo o del pasto, immaginava iloro discorsi, gli scherzi, i motti pungenti suscitati dal silen-zio di Michele; le seguiva fino a quando, al tramonto, an-davano a infilarsi le gonne e a rassettarsi i capelli e le vestidietro la siepe, e poi s’avviavano a piedi dietro il carro conla loro sporta infilata nel braccio, fino a che Michele non neprendeva su quante ce ne stavano. E di nuovo immaginavai loro discorsi, le allusioni, i doppi sensi; e i pensieri di Mi-chele. Queste eran le sole donne che il giovane avvicinava,e certamente una di queste le avrebbe portato in casa. Chemotivo c’era, altrimenti, di tacere? Se fosse stata una ragazza

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come Angela, figlia di un piccolo proprietario, una dellasua stessa condizione, non ci sarebbe stato motivo di fartanti misteri. Giuseppe non aveva voluto che sposasse An-gela; e ora chi sa chi le portava in casa! E per quanto cer-casse di distogliersi da questi sospetti, subito ci ritornava,suo malgrado. E trovava sempre nuovi argomenti che liconfermavano. Qualche volta, più che altro per stanchezza,si lasciava andare alla speranza che veramente Michele nonavesse ancora fatto la sua scelta, e allora pensava alle ra-gazze tra le quali il giovane avrebbe potuto scegliere. Cen’erano tante, a Sigalesa, di buone e brave ragazze, né trop-po ricche né troppo povere. Ora Maddalena le consideravacon una indulgenza insolita. Per suo conto, gliel’avrebbescelta non più tanto giovane, perché quando un uomo hapassato la trentina, specie se non è ricco, bisogna che sposiuna donna sui venticinque anni. C’erano, per esempio, lefiglie di Pasquale Marchesa, una di ventisette e una di tren-t’anni. C’era la figlia di Bore Lisca, quella di Pietro Memùna.Ma più ci pensava più crescevano, ai suoi occhi, i pregi, ledoti di quelle giovani, e le pareva che non si sarebbero de-gnate di accettare una proposta di matrimonio da parte diMichele. E ritornava ancora ai pensieri di prima.

– Chi sa cosa diranno, la gente – diceva quando Mi-chele rientrava per la cena. – Diranno che sei pazzo afabbricarti la casa prima d’esserti trovato la donna.

– E voi lasciate che dicano – rispondeva Michele.Però i vicini, quando videro il muratore che impastava

la calcina in cortile e alzava le impalcature, cominciaronodavvero a incuriosirsi. Maddalena dava alla gente le stessespiegazioni che il figlio aveva dato a lei, lasciando crederedi saperne di più ma di non voler parlare, per il momento.

– Sai cosa dicono, in paese? – gli disse un giorno. –Dicono che ti sei messo con una poco di buono.

In realtà Maddalena non aveva sentito dir nulla intor-no a suo figlio, da nessuno. Nessuno, in paese, parlava dilui, tranne i vicini di casa. E mentre diceva quelle parole

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CAPITOLO X

Fin da quando aveva seminato il grano a Monte UlìaMichele s’era accorto di Severina.

Passando davanti al cortile della Cantoniera avevasempre l’impressione che qualcuno lo guardasse. Certouna donna, perché allontanandosi, sentiva che riprendevaa lavare in un mastello. Se cercava di vederla tra le paledei fichidindia, la donna riprendeva subito a sbattere e asfregare i panni sull’asse, forse credendo che anch’egli lavedesse. Alcune volte la sentì anche cantare: era una vocegiovane, di ragazza. Passarono mesi, prima che gli riuscis-se di vederla: ma neppure ci pensava, veramente, e nonaveva nessuna curiosità. La vide per la prima volta versola fine dell’inverno, sulla porta della Cantoniera. Tenevaper mano un bambino che tese il dito per indicarle i buoie alzò il viso a guardarla. Era una ragazza magra, piuttostoalta, e la lunga gonna scura a pieghe faceva risaltare lasua statura. Portava lo stesso costume della moglie delcantoniere, che Michele conosceva, e benché non le somi-gliasse molto, essendo bruna di capelli, mentre quella tira-va un po’ al rosso, si vedeva ch’eran sorelle.

La ragazza rispose al saluto e lo seguì con gli occhicome faceva quand’era dietro la siepe. Forse guardava ibuoi, che per le proporzioni e per il colore del mantellonon eran bestie comuni, nel Centro. Per un buon tratto distrada egli si sentì addosso lo sguardo di quegli occhichiari, diversi dagli occhi delle donne di Sigalesa, comediversa era anche la voce. Egli notò che, nel saluto, la vo-ce della ragazza era la stessa di quando cantava. Avrebbepotuto riconoscerla anche solo alla voce. Ma pur senten-dosi guardato non si voltò.

Da quel giorno, gli accadeva di pensare a lei anchequando non andava a Monte Ulìa; poi si accorse che la

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le tremò il cuore, pensando quanto Michele avesse soffer-to per Angela, e alzò timidamente gli occhi su di lui perdirgli che non era vero nulla. Ma Michele sembrava nonaver neppure sentito. Se ne stava a cavalcioni della sedia,con le braccia incrociate sulla spalliera e il mento appog-giato al pugno, e guardava la fiamma nel camino. Col vi-so un poco schiacciato e gli occhi socchiusi somigliava aGiuseppe. La donna non disse nulla.

La sera appresso, mentre stava mondando le lenticchieper la cena sul davanzale della finestra che dava sul corti-le, guardando di tanto in tanto Michele che aiutava il ma-novale a segare un trave, le venne in mente una ragazzache abitava a Matta Romana, sulla strada di Monte Ulìa,sorella o cognata – non sapeva bene – del cantoniere. Fi-no a quel momento non ci aveva mai pensato. La Canto-niera era una casona a due piani, dipinta di rosso dallozoccolo alle finestre del piano superiore, di bianco dallacornice sotto le finestre al tetto, con quattro grandi pinisul davanti. Si ricordò che passando di là, una mattina,con Michele, aveva visto sulla porta la moglie del canto-niere, e accanto a lei una donna più giovane. Tutte e dueportavano il costume di Mamusa, con la sottana a pieghe,la cintura alta sotto il seno e un fazzoletto di seta giallaintorno al collo. Le pareva di ricordare il viso malarico diquelle donne, – o era il colore del fazzoletto? – e un sen-so di lindore che emanava dalle loro persone. Con sollie-vo pensò che la più giovane delle due poteva esserequella che Michele aveva scelto: una ragazza magra, piut-tosto bruttina. Guardò il figlio. I gesti di lui nel segare iltrave, nel raccogliere da terra il pezzo segato, nella curacon cui ungeva la sega, così giusti e misurati, conferma-vano il pensiero che aveva fatto. Doveva essere una bra-va ragazza, ordinata e laboriosa.

In questa convinzione si placò, e si mise ad aspettarequietamente che fosse giunto, per Michele, il momento diparlargliene.

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ragazza non doveva esser più alla Cantoniera. Non la sen-tiva più lavare dietro la siepe, né gli accadde più di sentir-la chiamare per nome dalla sorella, né sentì lei chiamare iragazzi. Essendo la Cantoniera isolata in mezzo alla cam-pagna, le donne e i ragazzi non s’allontanavano mai dallacasa e dal cortile: ma Severina non c’era. Vedeva più spes-so la moglie del cantoniere, e fu tentato anche di chiedernotizie della ragazza. Si meravigliava lui stesso della persi-stenza di questo pensiero, giacché non gli pareva di avereuna particolare simpatia per quella sconosciuta, come delresto, dacché aveva lasciato Angela, non aveva provato laminima simpatia o il minimo interesse per nessuna donna.Ma s’era abituato a sentire la presenza della ragazza inquella casa isolata in mezzo alla campagna, e ora ci pen-sava perché non la sentiva più. Se avessero abbattuto unodei grandi pini davanti alla Cantoniera, passando di làavrebbe sempre pensato a quel pino, non sarebbe più riu-scito a levarselo di mente.

Erano passati alcuni mesi, quando la rivide affacciataa una delle finestre laterali, col suo fazzoletto giallo, a ca-po scoperto. Aveva i capelli lisci e abbondanti, divisi indue bande che le ricadevano fin sul collo. Alzando gli oc-chi aveva incontrato quelli di lei, chiari, che lo guardava-no. La ragazza rispose al saluto e al sorriso. Pareva chevolesse dire: «Sì, sono tornata».

In quel tempo il grano cominciava a ingiallire e le spi-ghe a piegarsi, mentre in tutte le altre terre di Sigalesa ilraccolto si presentava assai scarso. Ma per tutta la lungainvernata, la vita di Michele non era stata altro che stan-chezza e avvilimento. Se pure era rimasto, in fondo a que-sta stanchezza e a questo avvilimento, un istinto tenaceche lo legava alla vita, egli non lo aveva sentito che comeun torbido e indeterminato bisogno di rivolta. E controchi? Forse contro la gente di Sigalesa, forse contro suo pa-dre stesso, che se n’era andato così, in silenzio, portandosivia il meglio della vita. Quando, allontanandosi pian piano

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nel tempo, dietro le piogge e le nebbie dell’inverno, que-gli avvenimenti che l’avevano sconvolto, sentì ripullularela vita, non dentro ma fuori di sé, in quel campo che ave-va arato e seminato senza fiducia, nel quale s’era rifugiatocome un animale ferito che cerca un luogo solitario per la-sciarsi morire in pace, in quel grano che veniva su rigo-glioso nonostante la cattiva annata, un senso di salute e dicalma cominciò pian piano a ristorarlo, qualche cosa cheera ancora fuori di lui, nel vento che passava sulle spighecome una mano, nel tepore dell’aria. Amava già, allora, ilpodere di Monte Ulìa, ma come si ama un luogo che biso-gna lasciare.

La gioia di rivedere Severina si confuse con questosenso di salute e di calma della stagione. Egli non l’avvertìneppure. Pensava invece ad Angela. Anche con lei aveva-no cominciato a salutarsi e a sorridersi senza nessuna ra-gione al mondo. Immaginò come sarebbe stato bello se,al posto di quella sconosciuta, ci fosse stata Angela, mavenuta anche lei di fuori, da un paese lontano, e che nes-suno di Sigalesa l’avesse mai vista prima, che nessuno po-tesse dire d’averle sfiorato una mano.

Severina non era bella. Michele lo vide anche meglioquando, un giorno, si fermò con la scusa di dare acquaalle ruote del carro, che scricchiolavano per la gran calu-ra. Lo vide quando, prendendo il secchio dalle sue mani,la guardò da vicino. Aveva il naso sottile e la gota delica-tamente incavata sotto lo zigomo. Ma gli occhi sì ch’eranobelli. Michele versò con cura l’acqua sui raggi e sul moz-zo di una delle ruote, e tornò a guardarla. Lei, preso ilsecchio, corse via a riempirlo ancora. Il suo era il coloredella gente che ha avuto la malaria fin da piccola. Con unsenso di desiderio e di pena Michele indovinò sotto lagonna pesante il suo fianco giovine e magro – di penanon per lei ma per sé. Quando la ragazza tornò col sec-chio colmo stringendo tra i denti il labbro per la fatica,

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egli sentì crescere smisuratamente quel senso di pena e didesiderio così nuovo per lui, e non poté fare a meno dichiederle perché portasse al collo quel fazzoletto giallo.Gli pareva che levando il fazzoletto il colore del viso sa-rebbe mutato da un momento all’altro. Sorridendo lei glirispose che quella era la moda del suo paese, di Mamusa.Aveva la carnagione delicata. Aveva preso poco sole enon conosceva il vento della montagna. E anche gli occhi,larghi acquosi e chiari, erano occhi di pianura, non dimontagna. Lei sembrava vergognarsene e li abbassava, masubito, malgrado la timidezza, tornava a guardarlo. E siabbassavano ancora, e ancora tornavano a guardarlo, que-gli occhi, con la stessa naturalezza con cui si abbassano ealzano le palpebre. Aveva le anche larghe; e i piedi, nudi,che spuntavano appena dalla larga e scura gonna, infilatinelle corregge degli zoccoli, erano sottili e bianchi, nontocchi dal sole. «È di quelle donne che invecchiano pre-sto», pensò Michele senza sapere perché: poi gli parve diriconoscere, nella memoria, la voce di sua madre: «Dopo ilprimo figlio invecchiano».

Prima di versare l’acqua sul mozzo dell’altra ruota, al-zò il secchio al viso per prenderne un sorso.

– Badate che è cattiva – lo prevenne la ragazza. – Voidi Sigalesa siete avvezzi all’acqua buona. Questa è cattiva.È pesante come il piombo, e salata.

– E voi cosa bevete? – chiese Michele sempre tenendoil secchio alto alla bocca e guardando lei.

– Noi? Di questa beviamo. Ma voi siete avvezzo all’ac-qua buona – ripeté sorridendo, e forse voleva che il gio-vine le chiedesse come conosceva l’acqua di Sigalesa.

Mentre lei parlava, Michele bevette alcuni sorsi diquell’acqua, benché avesse un sapore veramente sgrade-vole; e lo fece perché non voleva parere più delicato dilei che era costretta ad abitare a Matta Romana.

– È proprio cattiva – disse. – Fate male a berne.

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S’era fatta sulla porta, in quel mentre, la moglie del can-toniere col bambino più piccolo in braccio; e sempre cul-landolo aveva salutato con la testa. Anche Michele salutò.

– Le stavo dicendo dell’acqua – disse accennando aSeverina. – È cattiva, quest’acqua.

– L’acqua è cattiva, lo so – disse la donna. Continuò acullare il bambino per un poco guardando davanti a sé,oltre il carro e i buoi, poi disse:

– Da quando siamo qui, i bambini sono sempre am-malati. Hanno una pancia che sembrano idropici.

Michele guardava la donna, sciupata nel viso, benchénon dovesse avere molti anni più della sorella, e di nuo-vo gli pareva di sentire sua madre: «Ecco, questa è unarazza di donne che invecchiano presto». Versò con cura,lentamente, l’acqua sul mozzo e sui raggi anche di quellaruota lavandola dalla polvere.

Dal modo come parlava, la donna, sembrava che fos-se rassegnata a bere acqua cattiva per tutta la vita.

– Perché non venite a prender l’acqua da bere allasorgente d’Orèsula? – disse Michele.

E spiegò dove questa sorgente si trovava. Era pocodiscosta dal suo podere, verso il monte, e si poteva farela strada carreggiabile, oppure una scorciatoia nel bosco.

– Vostro marito, può fare la scorciatoia. In meno diun’ora va e torna.

La donna si strinse nelle spalle e sospirò.Michele guardò Severina, che abbassò gli occhi un at-

timo, poi da lui li volse alla sorella. Ora non pareva più ti-mida, quasi che quell’argomento dell’acqua la mettesse alriparo.

– Anche noi potremmo andarci. Noi donne. È vero,Anna? – disse.

– Anche noi donne potremmo andarci – ripeté Anna.– Tutto sta a vedere la strada una volta. E quell’acqua diteche è buona?

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– Se la beve lui ch’è di Sigalesa! – disse Severina, earrossì improvvisamente.

– Questa d’Orèsula è anche migliore dell’acqua di Si-galesa. Trasparente e leggera come l’aria, e fresca anche.

– Tutto sta a vedere la strada una volta – ripeté Anna– perché Raffaele non credo che abbia voglia di fare tan-ta strada con una brocca sulle spalle. Noialtre invece cisiamo avvezze.

– Quando volete, io ve la insegno – disse Michele. Ediede una voce ai buoi, che si mossero lentamente. Era ilmomento giusto d’andarsene. Michele lo sentì come unuccello sente l’orientamento. Così, né troppo presto nétroppo tardi. Non c’era più niente da dire, per quel gior-no. Si mise a camminare accanto alla ruota del carro, su-bito come fosse solo.

Michele aveva già cominciato ad affossare il terrenoper i mandorli, quando il cantoniere andò a farsi insegna-re la strada per la sorgente. Conosceva il cantoniere peraverlo visto lavorare nello stradone, o, più spesso, sedutoa far nulla accanto alla carriola. S’erano scambiati soloqualche saluto, ma aveva capito che doveva essere unodi quegli uomini pigri pronti sempre a lamentarsi perniente e altrettanto pronti a dimenticarsi le difficoltà sen-za porvi rimedio.

Siccome stava mangiando, lo invitò a sedersi e gli of-frì del suo pane. Ma l’altro, posata a terra la damigianavuota, s’alzò sulla fronte la visiera del berretto e diedeun’occhiata intorno, poi guardò Michele come se fossecolpa sua se aveva dovuto fare tutta quella strada per ar-rivare fin là.

– Vi state riposando – disse. Sorrise, e sbadigliò.– Già – fece Michele.Riprese a guardarsi attorno, ma il suo occhio non si

fermava sul lavoro che Michele aveva fatto nel campo.Un contadino non avrebbe fatto a meno di chiedere ache cosa servivano quei fossi scavati di fresco, che alberi

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aveva intenzione di piantare nel campo: il suo era un sor-riso di ragazzo pigro, senza curiosità.

Michele ripose il pane nella bisaccia, appese la bisac-cia a un piuolo dentro il capanno; l’uomo si rimise inspalla la damigiana.

– Non è lontano – disse Michele prevenendo la do-manda che si aspettava.

Il sentiero s’insinuava tra alti cespugli di lentischio sa-lendo verso il monte, dove le querce e gli olivastri diven-tavano sempre più folti, si perdeva in una pietraia dietrola quale era una larga chiazza di verde. L’odore acutodella menta selvatica annunciava la presenza dell’acqua.

– È lunga! – disse il cantoniere. – Sarà che io non cisono abituato a camminare in montagna, ma è lunga!

– Voi siete abituato alla pianura – disse Michele.– Eh! il mio mestiere era un altro. Non sono avvezzo

né alla montagna né alla pianura.– E allora?– Ero marinaio.Disse che aveva viaggiato su un veliero mercantile

per alcuni anni, poi era sbarcato in un porto francese,aveva fatto diversi mestieri. Era stato minatore, manovale,imbianchino. Infine era tornato a casa con le tasche vuotecome quand’era partito. Ma il suo vero mestiere era quel-lo del marinaio.

– E perché non fate il marinaio? – chiese Michele.– Perché? Perché le miniere mi hanno mangiato i pol-

moni. E poi mi sono sposato. Non bisogna sposarsi, se sivuol fare quel mestiere lì.

Da una parete di roccia l’acqua sgorgava e si perdevain mezzo al crescione, all’apio, alla sala, ai giunchi checrescevano dalla terra umida. Ma pochi passi più oltre ilterreno era di nuovo arido e secco. L’acqua che stillava agocce dal muschio della roccia veniva raccolta da leggericanali di canna, e confluendo in un tegolo rovesciato for-mava un rivoletto e una cascatella. Intorno ai piccoli canali

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di canne fesse, una mano paziente aveva disposto innu-merevoli fili d’erba che formavano come una fitta rete dicanali capillari. Il cantoniere osservò questo lavoro, chesembrava fatto da un insetto, con lo stesso sorriso pigro eironico con cui aveva guardato i fossi per i mandorli.

Bevette abbondantemente, e si dispose a riempire ladamigiana.

– Ora che sapete dov’è – disse Michele – potete veni-re quando volete.

– Eh! se non avessi altro da fare verrei anche tutti igiorni. Ma ci vuole mezza giornata a venire qui.

– Anche meno – disse Michele.– Come, anche meno! E per riempire la damigiana?– Beh! mentre si riempie vi riposate. Attento a non

smuovere il tegolo, se no addio acqua.– Ho capito. Ci vogliono le donne, qui. Loro hanno le

mani delicate.Tornarono assieme al capanno, e Michele pensò che

avrebbe potuto portare lui la damigiana fino alla cantonie-ra, quando fosse venuto a Monte Ulìa col carro. Ma nondisse nulla, pensando di fare alle donne l’offerta. Infatti inseguito andarono per l’acqua Anna e Severina, un giornosì e uno no, con due damigiane. Ma dovette durar nonpoca fatica a convincerle che per lui era una cosa da nullafermarsi un momento alla Cantoniera per scaricare i reci-pienti pieni, o prenderli vuoti al mattino. Dopo tanto, ac-consentirono; e andavano a riempire le damigiane sul tar-di, quando Michele stava per aggiogare i buoi. Montavanoanch’esse sul carro, e facevano chiacchierando la strada fi-no alla Cantoniera. Spesso lo invitavano a bere un bic-chier di vino, ma lui ringraziava dicendo che non bevevamai a digiuno. Accadeva anche che andasse per l’acquauna sola delle donne, o Anna o Severina, se Raffaele nonera ancora rientrato, per non lasciar soli i bambini. Poi,crescendo la confidenza tra loro, finì per andarci sempreSeverina. Michele la faceva parlare di Mamusa, dei parenti

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che aveva laggiù. Severina raccontava della sua vita di ra-gazza, quando con Anna aiutavano la madre a fare i dolciche poi andavano a vendere nei paesi vicini; raccontavacome sua sorella aveva sposato Raffaele, dopo il suo ritor-no dalla Francia, e come lei, dopo che la sorella avevaavuto il secondo bambino, non l’aveva più lasciata. A Ma-musa ora andava di tanto in tanto per rivedere i suoi vec-chi. Seguiva la sorte della sorella, ma volentieri sarebbetornata a Mamusa, perché era stanca di stare in mezzo aquelle campagne desolate. Solo le dispiaceva separarsi daibambini. A sua volta Michele, che pure non parlava maivolentieri di sé, le raccontava di Giuseppe, di Salvatore, diBenedetto, le disse che con Benedetto aveva fatto da po-co tempo la pace perché credeva che quella fosse, in fon-do, la volontà di suo padre. Severina ascoltava attenta efaceva molte domande intorno a quei parenti, così che inbreve tempo li conosceva tutti attraverso i discorsi di Mi-chele. Egli le disse anche ch’era stato fidanzato, e non lenascose nulla, né i suoi dubbi né quanto aveva sofferto.Contrariamente al suo solito, Severina non fece nessunadomanda: disse solo che aveva fatto male a dare retta cie-camente a suo padre, se non era sicuro che Angela lo tra-diva. Egli le chiese se veramente era convinta che avevafatto male a lasciare Angela. – Certamente – disse la ragaz-za. Egli s’accorse che cercava di nascondere il rossore delviso con la cocca del fazzoletto, e glielo disse. Allora lei silevò il fazzoletto e rimase in capelli, col viso in fiamme.Erano seduti uno di fronte all’altro, sul carro. Mancava po-co alla Cantoniera. Michele avrebbe voluto chiederle s’eraadirata con lui perché aveva lasciato quell’altra donna; manon s’attentava, temendo il suo giudizio. Quando giunseroalla Cantoniera, Severina saltò giù svelta dal carro e rian-nodandosi il fazzoletto si chinò davanti a lui per farsi aiu-tare a mettersi la damigiana in testa. Rapidamente, comeper toglier via una foglia secca o un insetto, egli le sfioròla guancia con una mano. Gli parve di vederla vacillare;

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ma subito pensò che doveva essere una sua impressione,perché si sentiva il cuore in tumulto e il sangue gli battevaalle tempie. Severina sollevò con tutte e due le mani ladamigiana, se l’aggiustò meglio sul capo guardando in su,poi, lo guardò in viso un momento, e, senza sorridergli, losalutò a voce bassa. Anche lei era turbata. Michele se n’ac-corse, ma non pensò alla fuggevole carezza che le avevafatto sulla guancia, pensò a ciò che le aveva raccontato diAngela. Ora gli pareva che lei non lo riprovasse, ma chesentisse pietà per quel suo dolore, le leggeva questa sim-patia nel viso serio. Solo quando fu lontano dalla Canto-niera si ricordò della carezza e fu preso dal timore che laragazza non si fidasse più a andare sola a Monte Ulìa; e fupreso dal desiderio di parlarle del fatto ch’era accadutonella foresta di Cantòria pochi giorni prima che morissesuo padre, come ci s’era trovato in mezzo, come si fossetenuto quel segreto per tanto tempo.

Severina tornò il giorno dopo, e i seguenti; e lui cova-va sempre il pensiero di aprirsi con lei, di liberarsi final-mente da quel peso che l’opprimeva e che in certi mo-menti ora diventava insopportabile. Ma quando Severinaera presente, il coraggio gli veniva meno. Vagheggiavaquesta confessione quando era lontano da lei, come un in-namorato che fantastica per suo conto senza mai decidersi.

Un giorno, mentre stavano per montare sul carro, ac-canto al capanno, Michele le prese una mano.

– Devo dirvi una cosa – disse.Tremava in tutta la persona e non riusciva a continua-

re. Anche lei tremava, e con la mano, che le si era fattacome di ghiaccio, stringeva forte quella di lui. Egli l’attiròa sé e la baciò in viso, nella bocca. La sollevò tra le brac-cia e la portò nel capanno.

Per questo, quando sua madre fece quell’insinuazionemaligna attribuendola alle chiacchiere della gente, Michelefinse di non aver sentito. Cosa potevano sapere, la gente esua madre, di Severina? Chi la conosceva meglio di lui?

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Eppoi capiva bene che era tutto un trucco di Maddalenaper farlo parlare. Nessuno sapeva nulla, nessuno. «Eh no!»disse egli tra sé come se rispondesse a sua madre, «Eh no!Lo saprete quando vorrò dirvelo io. Domani, forse. Forseanche domani, forse tra una settimana. Ma ora no». Eraestranea a questo proposito l’intenzione di punirla perquelle parole imprudenti. Non voleva parlare di Severinacon nessuno, non poteva. Era certo che Severina non ave-va ancora detto nulla neppure a sua sorella; e anche luivoleva fare lo stesso con sua madre. Non solo gli estraneinon dovevano sapere nulla prima del tempo, ma neppurela gente di casa. Voleva continuare a pensare tutto solo aquel fatto ch’era accaduto. Era padrone di tenersi ancoraquel segreto, di nutrirlo dentro di sé. E questa possibilitàgli dava un piacere intenso.

Capitolo X

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fatta sotto il naso. Altro che acqua! L’acqua è pulita, e lim-pida; ma la cosa che avevano fatto loro due faceva vergo-gna anche a lei che non ne aveva saputo nulla fin allora.Cos’avrebbe detto sua madre, che gliel’aveva affidata? eRaffaele? e la gente, cos’avrebbero detto? Con che facciasarebbero tornate in paese?

Michele non aveva avuto il coraggio di difendersi. Eravero che Severina non gli aveva mai detto nulla, ma inrealtà chi meglio di lui poteva sapere lo stato in cui si tro-vava? Aveva lasciato che Anna si calmasse, poi le avevadetto che se anche non aveva parlato di nozze, fino aquel giorno, con la ragazza, in quel frattempo aveva fattotutti i preparativi. Non si potevano sposare anche subito?A lui non importava niente se la ragazza non aveva il cor-redo pronto: avrebbe avuto tempo dopo, di farselo. Suamadre aveva tanto lino, in casa! Se la ragazza gli avessedetto come stavano le cose, non avrebbe aspettato fino aquel giorno. Poteva esserne certa, Anna. Non aspettava al-tro, lui. Ma siccome gli pareva che non ci fosse fretta, cosìaveva rimandato di giorno in giorno; e non sapeva nep-pure lui perché.

Calmatasi, Anna aveva detto che avrebbe fatto veniresua madre da Mamusa, e si sarebbero poi incontrate conMaddalena alla Cantoniera, oppure in paese, come me-glio credeva Michele. Michele aveva detto che era meglioalla Cantoniera, e si erano lasciati in pace.

Ora Michele doveva parlare di questo con sua madre,e farle fretta, e non voleva, d’altra parte, dirle la ragionedella fretta: perché anche con Anna erano rimasti d’accor-do di non dire che Severina era incinta, finch’era possibile.E si pentiva di non essersi confidato prima con sua madre.

Il mucchio delle fave da scegliere intanto diventavasempre più piccolo. Tra poco Maddalena si sarebbe alza-ta, avrebbe scosso dalle vesti la polvere e lo avrebbe la-sciato solo con la sua incertezza. Dopo tanta ostinazione,era lui che temeva che sua madre non volesse ascoltarlo.

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CAPITOLO XI

Una sera Maddalena aiutava Michele a sceglier le faveper la semina. Se ne stavano tutti e due, al lume della lu-cerna, in ginocchio davanti al mucchio. Michele si sentivapesare addosso quel silenzio che durava da più di un’oraormai, e guardava sua madre, che lavorava svelta. Nel-l’ombra che la lucerna proiettava sul muro la mano dellavecchia sembrava una gallina che becca rapida in un muc-chietto di grano. Anche in se stessa la mano richiamaval’immagine di una gallina. Come la gallina ogni tanto alzala testa e stira il collo per inghiottire, così la mano, quandoaveva scelto un certo numero di fave, le faceva passarenell’altra mano e procedeva a una scelta più accurata,scartando quelle bacate o imbozzacchiate che v’erano ri-maste, gettava quelle buone in un sacco; poi ricominciava.I movimenti rapidi e sempre eguali formavano un gestosolo, il cui ripetersi era segnato dal rumore che facevanole fave cadendo nel sacco aperto. Bisognava parlare, or-mai era giunto il momento, e non si poteva rimandare più;eppure Michele non sapeva decidersi. Anna era andata aMonte Ulìa e gli aveva chiesto che intenzioni aveva, se vo-leva rovinarla, sua sorella; e non aveva voluto credere cheMichele non sapeva nulla dello stato in cui Severina si tro-vava. Incinta, era. Michele, era lui che si meravigliava,questa volta. Incinta? Ma se proprio quella mattina era ve-nuta da lui, tranquilla come sempre! Ancora, Michele, a ri-pensarci, la vedeva salire verso la sorgente con la damigia-na vuota poggiata all’anca, col suo passo lungo e agile; esi turbava, al pensiero del corpo di lei, nudo sotto la lungagonna. Anna s’era messa a imprecare contro la sorella chesi mostrava tranquilla con lui mentre in casa non facevache piangere. Lei sì, Anna, non aveva saputo nulla, fin al-lora, ma loro due!… L’avevano ingannata, gliel’avevano

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Finalmente si fece forza, e disse:– E allora, mamma, cosa ne pensate voi di questa spo-

sa?La voce gli tremava.Maddalena indovinava i timori del figlio e voleva rifar-

si, ora che aveva bisogno di lei. Non rispose subito. In tut-te quelle settimane lo aveva sentito assorto in un pensierodi cui non aveva voluto farle parte; e benché, da quandoaveva indovinato che si trattava di Severina, si fosse tran-quillizzata, ora le pareva di aver molto sofferto per quelsilenzio.

– Io non so di che cosa parli – disse.Egli sentì l’ostilità di sua madre, e, per un momento,

fu sul punto d’alzarsi e andarsene nella stalla; ma pensòquanto sarebbe stato difficile poi far la pace e tornarecon animo mutato su quell’argomento.

– Via! non ditemi che non avete capito di chi si tratta– tentò.

Forse sua madre aveva ragione di essere inquieta conlui. Di nuovo si pentì di non aver parlato prima, sentì unrimorso acuto, una grande pietà per la solitudine di suamadre. Avrebbe dovuto cedere, rinunciare al piacere chequel segreto gli dava; non avrebbe neppure dovuto teme-re l’asprezza di sua madre. Sapeva che quell’asprezza erainnocua; e solo ora, e solo per colpa sua, poteva diventa-re pericolosa. Aspettò col cuore sospeso, deciso a soppor-tare in pace qualunque cosa sua madre dicesse.

Maddalena continuava a sceglier le fave senza neppu-re alzare gli occhi. Il fazzoletto bianco che s’era messa intesta per ripararsi dalla polvere le nascondeva la faccia. Lesue vecchie dita mezzo rattrappite avevano annodato quelfazzoletto dietro la nuca. Lei era vecchia, e sola come tuttii vecchi. Michele si ricordò di Anna e di Severina. Nonpensava, in quel momento, alle parole aspre di Anna, allesue imprecazioni, ma invece alla reciproca tenerezza chesempre egli aveva scoperto in ogni gesto delle due sorelle,

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o quando una parlava dell’altra; come si capivano, comes’aiutavano a vicenda nei lavori della casa; e paragonavatutto questo alla lunga solitudine di sua madre. Avrebbeavuto pazienza, l’avrebbe lasciata sfogare. Anzi desideravache sua madre fosse aspra con lui, ora, che fosse aspra elo punisse.

Invece Maddalena disse:– A me sembra una brava ragazza, e anche adatta alla

tua condizione.Lo disse con voce acuta e dispettosa, ma lo disse. Ci

aveva pensato tanto, in tutto quel tempo, che questa ri-sposta, che era stata la conclusione dei suoi lunghi solilo-qui, le venne alle labbra spontanea.

Si guardarono senza dir nulla, per un momento.– Non ve n’ho parlato prima perché sapevo che lo

avevate indovinato – disse Michele. E in quel momento cicredeva davvero. Maddalena si strinse nelle spalle col suosolito gesto di scontrosa rassegnazione. Egli si sentì ilpianto in gola. Si piegò sul sacco e s’abbandonò. Sin-ghiozzava forte, con quello strazio che è nel pianto degliuomini, ma anche con voluttà segreta, come accade quan-do si è certi che il pianto porterà pace. Maddalena gli po-sò una mano sulla spalla e prese a scuoterlo dolcemente.

– Cosa dovrei fare io, allora! Quante pene ho patito!quante brutte cose ho pensato, prima di capire che era lei!

Michele si calmò, per ascoltarla.– Tante cose pensavo. E dicevo: «Chi sa chi è! chi sa

chi mi porta in casa!». Poi mi sono ricordata che passavisempre davanti alla Cantoniera, col carro. E allora dicevo:«Dio mio, fate che sia vero, fate che sia quella!». Perchénon ero ancora sicura e tu non dicevi nulla. Hai voluto fa-re tutto come se io non ci fossi più.

Michele aveva ripreso a sceglier le fave, e lacrimavain silenzio. Non solo le sceglieva, ma le contava anche,oziosamente, prendendone cinque per volta. Le rivoltavaa una a una col pollice nel palmo della mano prima di

Capitolo XI

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gettarle nel sacco. Maddalena, anche lei ogni tanto siasciugava una lacrima con la cocca del fazzoletto.

– È vero ch’è magrolina e alta?– Sì, è magrolina, ma non tanto alta – rispose Michele.– Le ragazze che conoscevo le passavo tutte una per

una, e dicevo: «Questa non può essere, per questa e questaragione; e questa nemmeno; questa potrebbe essere, maDio voglia che non sia». Così per tutte. A lei non ci pensa-vo. Tu invece eri tranquillo, e non te ne importava nulla.

– Sì, ero tranquillo.– Ma dopo tutti i brutti pensieri che avevo fatto, an-

che se l’avevo vista una volta sola ero contenta lo stesso.Michele le disse come l’aveva conosciuta, come avesse

sentito subito simpatia per quella forestiera che lo guarda-va di dietro la siepe, le disse come aveva indicato alledonne della Cantoniera la sorgente d’Orèsula quel giornoche aveva chiesto l’acqua per le ruote del carro; raccontòtutto, quasi per ripagare sua madre del lungo silenzio,tranne ciò ch’era avvenuto nel capanno, anzi parlò in mo-do d’allontanare ogni sospetto; ma la vecchia non lo ascol-tava già più, e sospirava seguendo un suo pensiero. Pen-sava ad Angela. Forse non sarebbe stata una buona moglieanche Angela? Ora tutto era passato, dimenticato, eppurelei la rimpiangeva anche in quel momento.

– Certo è sempre meglio prendere una del propriopaese – disse dopo un poco; ma subito aggiunse: – Nonper altro: per le abitudini diverse. In ogni paese ci sonoabitudini diverse e cambiarle è difficile. Da paese a paesecambia anche il modo di maneggiare lo staccio.

– Non ci sarà niente di male se maneggia lo staccio asuo modo – disse Michele.

– Sarà d’indole buona – disse Maddalena.

Alcuni giorni dopo andarono a Monte Ulìa a seminarle fave, e passando davanti alla Cantoniera si fermaronosotto i pini. Severina si fece sulla porta, e vedendo che

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Michele era con sua madre corse dentro a chiamare Anna.Maddalena stette seduta sul carro e, secondo l’uso, lasciòche le due giovani s’avvicinassero. Allora scese e baciòprima Anna e poi Severina.

– Se vuoi venire a Monte Ulìa – disse a Severina – og-gi seminiamo le fave. E siccome speriamo di mangiarceleinsieme, l’inverno che entra…

Il viso di Severina, solitamente pallido, s’era fatto difiamma e gli occhi sembravano azzurri nel viso animato.Maddalena pensava, guardandoli, agli occhi di Angela,ch’erano scuri come gli occhi di tutte le donne di Sigalesa;occhi familiari, nei quali si potevano leggere i pensieri.Questi invece erano sconosciuti e spauriti; occhi di bambi-na spaurita, ma chi sa quali pensieri nascondevano. S’ac-corse, guardandoli, che non erano celesti, come le eranosembrati un momento prima, ma grigi. «Sono donne chesfioriscono presto» pensò.

– Speriamo che diano buon frutto – disse Anna.Entrarono. Tutto era in ordine, nella stanza. C’era un

buon odore di caffè, e i mattoni del pavimento annaffiatidi fresco.

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CAPITOLO XII

A Sigalesa, come del resto in tutti i paesi del Centro, diParte d’Ispi e del Gocèano, è costume che l’uomo che sisposa provveda alla casa, la donna alla biancheria e allemasserizie, il cui trasporto vien fatto con grande pompacon carri a buoi adorni di canne fresche; ed è una speciedi corteo prenuziale. Tutto il paese sa quel che la sposaporta nella nuova casa. Di qui lo scrupolo con cui tutti,compresi i più poveri, s’attengono a certi usi, che varianodel resto secondo la condizione degli sposi. Ma la roba diSeverina stava comodamente in un canestro. Anna s’eramessa a cucirle in gran fretta un paio di camicie, mentrelei per vincere la trepidazione dell’attesa continuava a ba-dare ai lavori di casa senza concedersi un minuto di ripo-so. Dopo la visita di Maddalena alla Cantoniera, ancheAnna e Raffaele erano andati a Sigalesa, e siccome Annadisse che sua madre era indisposta e non poteva muoversida Mamusa per il momento, avevano deciso di affrettarele nozze il più possibile, ed erano andati dal prete per lepubblicazioni. Michele, visto che sua madre era del pareredi Anna, lasciava fare alle donne e aspettava pazientemen-te il giorno delle nozze continuando a occuparsi dei suoilavori. Già si facevano vivi con maggior cordialità nel salu-to e nell’interesse premuroso che mostravano nell’infor-marsi della sposa quelli che presumibilmente sarebberostati invitati alle nozze. È una cosa a cui tutti tengono co-me dovuta, amici e conoscenti. Con la stessa pazienza concui squadra da sé le pietre per fabbricar la casa o impastae fa seccare al sole i mattoni crudi, il contadino mette an-che da parte gli scudi da spendere per la festa di nozze.In un solo giorno spende una somma che basterebbe amantenere la nuova famiglia per buona parte dell’inverna-ta; ma questa prodigalità lo ristora nella vita di stenti che

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continuamente conduce. A pensarci, pare strano che, do-po questa prodigalità che si direbbe l’inizio di una nuovaera, più prospera e libera, possa riprendere senza fatica lavita parsimoniosa e lenta di prima. Molto per tempo ilcontadino si chiude nell’idea della casa che deve costruireo che sta costruendo o che ha già costruito, e aspetta ladonna. Si chiude in questa idea come l’esquimese nellasua casa di ghiaccio. Non disperde neppure una caloria.Pone tra sé e gli altri l’egoismo legittimo dell’ape che fab-brica le cellette di cera e le riempie di miele. Le nozze poirisvegliano in lui una fierezza, un orgoglio che ha bisognodi un riconoscimento, sia pure momentaneo.

Lo zio Teodoro, visto che le cose più importanti dove-vano essere tralasciate, volle che almeno la festa riuscissebene, e s’incaricò lui di far tutto secondo le regole. MandòCaterina dai parenti, compresi Benedetto e Salvatore, daicompari e dalle comari di Maddalena e del povero Giusep-pe, dagli amici, dai conoscenti, dai vicini di casa e di cam-pagna. Un certo numero di queste persone doveva pren-der parte al pranzo di nozze, le altre solo al corteo nuzialee al ballo. Fu comprata una botte di vino per gli ospitid’occasione, e ce n’era per mezzo paese. I testimoni dove-vano essere Giovanni Battista Asara e Cosimo Aneris. Mi-chele, che fin allora aveva lasciato fare, cercò di opporsi,ma gli saltarono addosso tutti: Cosimo Aneris era il piùvecchio compare della buonanima Giuseppe, che gli avevatenuto a battesimo un figlio, e non poteva esser lasciato daparte. Che ragione c’era di lasciarlo da parte? Tutti eranod’accordo con lo zio Teodoro, in questo, la zia Luisa, Mad-dalena e anche Anna. Così Michele dovette andare con lozio a invitare Cosimo. Dal tempo della grassazione s’eranovisti di rado, e, per quanto agli occhi della gente passasse-ro per buoni amici, avevano sempre cercato di non incon-trarsi, per quanto potevano. Ognuno temeva il ricordo chel’altro conservava di quella notte lontana che doveva rima-nere sepolta per sempre nella memoria. Non si vedevano

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con piacere. Anche Cosimo rimase meravigliato, quandolo zio Teodoro, con frasi fiorite adatte alla circostanza glidisse la ragione della loro visita; ma solo Michele s’accor-se di questa meraviglia. Da parte sua, Cosimo, conoscen-do le usanze, capì che Michele non aveva potuto far nullaper evitare la cosa, che aveva dovuto adattarsi, e fece lostesso anche lui.

– E così ti sposi – gli disse mettendogli una mano sul-la spalla e scuotendo la testa come se dentro di sé disap-provasse quel fatto. – Ti auguro buona fortuna.

Lo zio Teodoro prese a parlare animatamente facendogli elogi della sposa e del paese della sposa; parlò in ter-mini poetici dell’amore dei due giovani, della casa inmezzo alla pianura, dove la colomba s’era posata primadi spiccare il volo verso i boschi di Monte Grinu. Cosimosi limitava a sorridere ogni tanto, per cortesia, scuotendola testa, come a significare che lui era ormai lontano datutte quelle pazzie. In quegli ultimi anni, dopo lo spaven-to della Cantòria, s’era ingrassato ancora di più, tanto chenon poteva più montare a cavallo e aveva dovuto com-prare un calessino per andare a sorvegliare i lavoranti incampagna. Le disgrazie che lo avevano colpito non ave-vano potere sulla sua grassezza; era una disgrazia anchequella. Un anno gli avevano incendiato l’aia, un altro, levacche s’erano abbeverate a un acquitrino ed erano statecolpite dalla moria; un’altra volta suo figlio Gavino erastato trovato in una siepe di fichidindia con le mani e ipiedi legati come un capretto e il viso tagliato da una col-tellata, dall’occhio al mento. Chi fosse stato a sfregiarlocosì non s’era mai saputo; il ragazzo non aveva mai volu-to parlare, tanto grande era stato il suo spavento e cosìterribili le minacce che gli avevan fatto. Era un ammoni-mento che davano a Cosimo, e solo lui sapeva da doveveniva – lui e Michele.

– Ti auguro di aver più fortuna di me e di tuo padre –disse.

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– Eh! fortuna! fortuna! Vedrai che tutto andrà bene, perquesto giovanotto – gridava allegramente lo zio Teodoro,a cui suonava male il replicarsi dell’augurio. – L’ha giàavuta la fortuna, l’ha trovata alla Cantoniera di Matta Ro-mana, lui!

– La fortuna – diceva Cosimo lentamente, senza rivol-gersi né a Michele né al vecchio, ma quasi parlando persuo conto – è come la volpe. Bisogna prenderla nella suastagione, perché conservi il pelo, se no il pelo se ne vanella concia. Noi la stagione della volpe la conosciamo, eil laccio lo mettiamo al tempo giusto. Ma la stagione dellafortuna chi la conosce? Credi di averla in mano, e invecehai una pelle tignosa.

– Bisogna aver pazienza – disse Michele. – La vitanon la facciamo noi.

– Se lo sapevo – disse lo zio Teodoro quando si fu ti-rato il portello dietro le spalle – non ci mettevo piede,nella tana di quel cinghiale. Hai visto che faccia da noz-ze! Mi ha fatto passar l’allegria.

Per fargliela tornare ci volle la vernaccia di GiovanniBattista Asara.

Il giorno fissato per le nozze, lo zio Teodoro venneper tempo a casa di Michele; e mentre le donne, in attesadel corteo della sposa, preparavano il caffè in cucina, sisedette in cortile sotto la vite e cavata la zampogna di sot-to la casacca cominciò a suonare. All’improvviso l’aria siriempì del ronzio armonioso di tutte le canne insieme, poinel suono grave e uniforme del bordone serpeggiarononote lunghe e chiare, una cantilena tremula di molte voci.A quell’ora gli invitati cominciavano a uscire per andare inchiesa, le donne coi loro scialli a fiori, gli uomini con lacamicia candida che veniva fuori a sbuffi dalla spaccaturadelle maniche, unico segno di festa.

Ma non ostante la confusione, fu una magra festa, agiudizio degli invitati e di quanti s’affacciavano alla porta

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per veder la sposa e bere un bicchier di vino alla sua sa-lute. Dopo il pranzo, che, secondo il costume, si protrasseper alcune ore, la fisarmonica d’Anacleto s’aggiunse allazampogna dello zio Teodoro, e cominciarono i balli. An-che Severina dovette ballare. Si sentiva girar la testa e te-meva che la gente, accorgendosene, attribuisse il suo ma-lessere a chi sa quali cause e ci fantasticasse su. Tre voltedovette aprire il ballo: la prima volta con lo sposo, la se-conda con Cosimo Aneris, la terza con Giovanni BattistaAsara; e in cuor suo, vedendo – siccome ballavano in cor-tile – il cielo nuvoloso, diceva: «Almeno piovesse! SantaBarbara mia, fate che piova!». Nella valle di Nadòria, sisentiva il brontolio lontano del tuono, e gli uomini, alzan-do la testa a guardare le nuvole, dicevano: – Ci vuole,quest’acqua! Vero Michele che ci vuole, quest’acqua? –.Michele, che ballava serio e composto tenendo la mano diBarbara Asara, sorrideva senza rispondere nulla; e il pen-siero della pioggia lo rallegrava e lo portava lontano dallafesta. Ballando cercava di non guardare Cosimo Aneris,che dopo aver fatto il giro d’obbligo era tornato a sedersisul muricciuolo delle brocche accanto alla finestra con lalarga cintura di cuoio slacciata sul ventre. Gli sembravache la presenza di quell’uomo fosse di malaugurio, nellasua casa, in quel giorno, e attraverso l’impassibilità del vi-so grasso e triste di Cosimo gli pareva di sentire il rancoreche quell’uomo doveva nutrire per lui, ch’era stato rispar-miato dalla sorte. Dalla sorte o dagli uomini? Perché nonavevano lasciato tranquillo anche Cosimo come avevanolasciato tranquillo lui? Tante volte Michele, quel giorno, siera fatto questa domanda; ed ecco che finalmente la ri-sposta gli era venuta. Non l’avevano molestato per via diGiovanni, perché suo cugino Giovanni era della banda,anche se si eran dovuti sbarazzare di lui; e così anche Mi-chele si poteva dire che appartenesse alla banda. Eppoi lafine di Giovanni era stato un ammonimento abbastanzaforte. Egli scacciò subito questo pensiero. Era contento, e

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non voleva che nulla potesse turbare la sua gioia; né ilchiasso della festa, né la gente, né la presenza di Cosimo.Tante volte Severina, quando andava da lui a Monte Ulìa,vedendolo assorto in se stesso, gli aveva chiesto perchéera triste; ma lui non era triste: era contento, anche se nonsapeva comunicarla a lei, la sua gioia. Perché era conten-to, non lo sapeva neppure lui. Si sentiva bene dentro. Ilbenessere che sentiva prima intorno a sé, nell’aria, nelgrano, negli alberi, lo penetrava, se lo sentiva rinascereproprio dal di dentro. Se ci pensava, attribuiva la sua con-tentezza a qualcosa che gli riusciva bene – di solito picco-le cose senza importanza – o la prendeva come un augu-rio di buona riuscita per qualche cosa che si era propostodi fare o che, in quel momento stesso, si proponeva di fa-re. Occupava così la sua contentezza, che altrimenti resta-va sospesa in aria, senza ragione e senza scopo. Non so-spettava quali origini avesse quel sentimento, che eglisentiva subito il bisogno di limitare, di unire a fatti e og-getti vicini, noti. Come ora egli univa, ballando, la suagioia al pensiero che tra poco gli invitati se ne sarebberoandati e avrebbero lasciato la casa di nuovo vuota. Le nu-vole, il brontolio del tuono, le folate di vento fresco chespazzavano a tratti il cortile e i tetti, erano l’aspetto e lavoce di questa gioia sconosciuta anche per lui.

Era venuto anche lo zio Benedetto. S’era ficcato incucina e aveva voluto arrostire lui gli agnelli e i porchetti.Michele vide con meraviglia che Maddalena lo lasciavafare e rispondeva scherzando alle sue battute spiritose.Certamente c’erano state altre feste di famiglia alle qualiMaddalena e Benedetto avevano preso parte, in gioventù;forse, in altri tempi, tutti erano stati così d’accordo, e ora idue vecchi avevano ripreso a scherzare come a quei tem-pi lontani, come se nulla fosse stato. «E neanche lui nonsa niente di me e di Cosimo» pensava Michele. «E io nongli dirò mai nulla, mai. Lui può dimenticarsi di suo figlio;io non potrò dimenticarmene mai».

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CAPITOLO XIII

Quando, dopo le nozze, Maddalena non seppe resiste-re alla tentazione di riferirgli certe chiacchiere che la genteaveva fatto sul matrimonio, Michele, invece di adirarsene,come sua madre s’aspettava, disse che non gliene impor-tava nulla. Dicevano che s’era sposato come un vedovo,che Severina era povera e lui poteva aspirare a qualcosadi meglio, che non valeva la pena di andare a cercare tan-to lontano una ragazza come Severina quando in paese cen’erano tante dieci volte meglio. La gente poteva dire quelche voleva: cosa ne sapeva di Severina? Ciò ch’era avve-nuto tra lui e Severina nel capanno di Monte Ulìa, lo sape-vano solo lui e Severina. La gioia che lui ne aveva avuto,forse non l’aveva indovinata neppure lei, poveretta, cheaveva fatto tanti pianti di nascosto, in casa della sorella.Nessuno poteva penetrare nella sua vita; avrebbero finitoper tacere. Che poi la gente dicesse che Severina non erabella, non gli dispiaceva. Severina era diversa dalle donnedi Sigalesa. Non era come tante altre sulle quali anche alui era capitato di metter gli occhi con desiderio; tante,delle quali i giovani parlavano tra loro. Era contento chequelli di Sigalesa avessero visto Severina soltanto allora enon l’avessero trovata bella. Severina era come il campodi Monte Ulìa: prima che lui lo diveltasse con l’aratro nes-suno ne dava un soldo. Lui solo ne conosceva i segreti e ipregi. Era contento di lei, anche se la vedeva un po’ smar-rita, ora, nella nuova casa.

Severina passava la maggior parte del tempo sola incasa con Maddalena, tranne quando Michele la portavacon sé a Monte Ulìa, o quando venivano, la sera, la ziaLuisa e Aurelia. Parlava poco, le piacevano i lavori quieti.E come tutte le persone che si trovano all’improvviso in

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A un tratto le ginocchia di Severina si piegarono, eGiovanni Battista Asara fece appena a tempo a sorregger-la. I balli cessarono subito. Fu portata in casa dalle donne;poi, quando la zia Luisa disse che non era niente di grave,gli invitati cominciarono a sfollare. Rimasero solo la ziaLuisa, lo zio Teodoro e i parenti di Severina; poi anche lo-ro se n’andarono, ch’era già notte e piovigginava. Le vocidelle donne facevano uno strano effetto a Michele, nelbuio. Gli pareva di udire la voce di Severina moltiplicatasu bocche diverse, perché quelle donne venute da Mamu-sa avevano tutte la stessa cadenza un po’ strascicata. Glipareva di sentir Severina che salutasse dalla carretta; men-tre invece lei se ne stava silenziosa accanto a lui e salutavacon la mano, come se quelle, nel buio, potessero vederla.Poi gridò: – Addio Stefania, addio Greca, addio Rosaria!…Salutatemi tutti!… –. Allora Michele s’accorse come la vocedi lei fosse diversa dalla voce di tutte quelle altre donne, eanche questo gli diede gioia.

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una condizione nuova, fantasticava per suo conto. Tuttoper lei era mutato nel volgere di poche settimane, e face-va fatica a rendersene conto. Fin allora non aveva maiavuto desideri e bisogni suoi propri, dimenticandosi tuttanelle urgenti necessità della casa allo stesso modo di An-na. Da quando Anna aveva avuto il secondo bambino, erastata sempre con lei, aveva patito le sue gravidanze, i suoiparti, i suoi puerperi. Aveva adeguato la sua vita a quelladi Anna e dei bambini che venivano su; e i sentimenti ma-terni suscitati in lei da questa dedizione erano più assolutidi quelli della sorella non essendo nati dai patimenti delcorpo, che insegnano la moderazione e la sapienza dellanatura, ma dall’istinto più vergine e profondo del suo es-sere. Nel suo animo non c’era posto per altro, oltre que-st’amore che la soggiogava, che guidava tutti i suoi pen-sieri e annullava la sua fatica. Dall’alba al tramonto era infaccende; tutti i lavori più pesanti della casa erano i suoi,e in mezzo a tutte queste fatiche trovava il tempo di starecon i bambini, di giuocare con loro. A se stessa pensavasolo di rado e vagamente; quand’ecco che era entrato nel-la sua vita Michele. Se anche, prima d’allora, aveva pensa-to qualche volta che anche lei un giorno si sarebbe sposa-ta e avrebbe lasciato la casa della sorella, poneva tuttoquesto in un avvenire lontano, indeterminato. E invece ec-co ch’era sopraggiunta quell’improvvisa stanchezza, quelbisogno d’abbandono. Anna se n’era accorta anche primadi lei, e ci aveva scherzato su, dapprincipio, poi era diven-tata aspra, aveva preso a rimproverarla per delle cose danulla, a tempestarla di domande strane a cui lei non sape-va rispondere. Un giorno, ch’era stata come al solito aMonte Ulìa per l’acqua, le aveva tolto dai capelli un ra-metto secco, gliel’aveva messo sotto il naso sul palmo del-la mano. Severina aveva capito il significato di quel gestosolo più tardi, quando Michele l’aveva presa nel capanno.Allora aveva desiderato ardentemente di andar via, di la-sciare la casa di sua sorella, di tornarsene da sua madre, a

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Mamusa. Ed ecco che invece si trovava in una casa nuova,estranea, quasi senza sapere come. Tutto s’era risolto peril meglio.

Tra i quattordici e i quindici anni era stata a servire incasa di un possidente di Mamusa. Era una casa ricca, pie-na di roba e di gente. C’erano molti servi e molto lavoro.La sera si radunavano tutti in cucina, e stabilivano tuttid’accordo, padroni e servi, quel che si doveva fare il gior-no dopo. I nomi dei poderi, delle vigne, degli orti, dellelocalità dov’erano i terreni da semina ricorrevano di con-tinuo nei loro discorsi, e i servi, parlando della roba delpadrone, dicevano anche loro, la nostra vigna, il nostrooliveto, il nostro orto, le nostre vacche. Il mandriano, ilpastore, il porcaro, i compartecipanti dell’aia, delle vignee degli orti eran tenuti in considerazione come se facesse-ro parte della famiglia e avevano sotto di sé i servi piùgiovani e i braccianti che lavoravano a giornata; ma tuttiindistintamente dicevano, come loro, il nostro orto, la no-stra vigna, le nostre vacche. A tutti pareva così di godere,per quanto potevano, del benessere della famiglia. Ma alei, quel dover dire il nostro parlando della roba dei pa-droni faceva tristezza. Era la nostalgia della sua casa, dellamamma, delle sorelle (era ancora al mondo Carmela, allo-ra), delle lunghe serate d’inverno passate col padre nellapiccola cucina, intorno al focolare, del cortile, dove ognitanto una di loro (a turno e disputandosi il diritto di restarseduta per non perdere il filo dei racconti del padre) do-veva andare a prendere una bracciata di legna o un cioc-co d’aggiungere al fuoco. Tutto ciò che fin allora avevachiamato nostro era unito alle persone care che, la sera,sedevano accanto al fuoco nella cucina di casa sua. Eranole brocche allineate sul muretto fuori della porta, gli sga-belli di ferula fabbricati da suo padre, le conche dove im-pastavano il pane o i dolci che poi, la domenica, andava-no a vendere ad Acquapiana, a San Silvano, a Gaia, lapala del forno, le ceste per la farina, il mortaio, la bilancia,

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tutti quegli oggetti che servono ora per ora alla vita, che sipossono anche prestare e ritornano a casa con quei lorosegni che li fanno riconoscibili come persone. Nostro erail telaio, piantato sotto il portico, vecchio e liscio come unbanco di chiesa. In quel mezzo anno che aveva passatofuori di casa a servire, s’era sviluppato in lei, dalla sua tri-stezza, quel senso geloso della proprietà che è così fortenella gente povera costretta a vivere in mezzo all’abbon-danza in case estranee. E ora, in casa del marito, dove tut-to doveva essere veramente anche suo, le rinasceva lostesso senso di mortificata soggezione; e pensava a Ma-musa e alla casa di sua madre, come allora. Anche qui,come in casa del possidente, le sue mani ricusavano d’as-suefarsi agli oggetti che toccavano, il suo occhio agli og-getti sui quali continuamente si posava. Tutto era vecchio,consunto, levigato dal contatto di altre mani. Non era tri-stezza, la sua, e forse neppure nostalgia, ma una specie distupore che arrestava improvvisamente i gesti più consue-ti, come se risorgesse in lei sempre la stessa domanda:«Dove sono? perché sono qui?».

Quasi ogni giorno Michele partiva all’alba e tornavadopo il tramonto. Andava a Monte Ulìa, a Spinàlva, oppu-re a caricar legna e carbone in foresta per conto dei To-scani. Qualche volta portava a Monte Ulìa Severina, unavolta ogni quindici giorni passavano dalla Cantoniera aprendere Anna e i bambini; e le donne andavano a fare ilbucato in un torrente che scorreva, in quella stagione, sot-to Orèsula, mentre Michele lavorava nel mandorleto. All’oradel pranzo Severina mandava i bambini a chiamarlo emangiavano tutti assieme vicino all’acqua. I bambini giuo-cavano tutto il giorno in mezzo agli oleandri, andavano afunghi nel bosco, e la sera arrivava sempre troppo prestoper tutti. A casa invece le giornate non avevano mai fine.Se il filo delle sue fantasticherie si rompeva, un senso disolitudine mai provato prima la gelava. Le più piccole co-se l’angustiavano, come più tardi, quando si trovò incinta,

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certi odori o il sapore di certi cibi le davano nausea. Co-me una donna incinta, aveva trasalimenti improvvisi. Ilmestolo di castagno col quale separava la crusca dal tritel-lo, si faceva pesante, all’improvviso, di pietra; il setaccio,che fino a quel momento aveva frullato come una trottolaal tocco leggero e abile delle sue dita scorrendo e treppi-cando sugli staggi levigati, perdeva il suo ritmo. Allora,per non farsi vedere a piangere scioccamente – ché leistessa non avrebbe saputo dirne la ragione, se Maddalenagliel’avesse chiesta – s’allontanava con una scusa, andavain cortile a versarsi una ciotola d’acqua fresca dalla broc-ca, oppure saliva in camera da letto, apriva la cassapanca,ne toglieva la biancheria, la riponeva con cura, raddrizza-va le coperte del letto. E così l’angoscia passava.

In questa camera da letto c’era una piccola finestradalla quale si vedeva il campanile della chiesa. Dietro,Monte Grinu coi suoi castagneti già spogli e i boschi diquerce, sempre uguali in ogni stagione. Accanto e dietro aquello, altri monti di cui non sapeva il nome. L’occhio di-stingueva chiaramente tra i rami nudi dei castagni, le stra-de che salivano con ampie curve verso i boschi di quercedove sparivano e l’intrico minuto dei sentieri. Se lo sguar-do distratto si fermava in un punto, ecco che si scopriva-no, proprio là dove il nudo bosco sembrava già immersonella deserta quiete dell’inverno, piccole truppe di donnee di ragazzi che salivano in fila o scendevano sparsi facen-do rotolare i fasci di legna da albero a albero. Sparivano,riapparivano su, nei canaloni pietrosi più vicini alla cima,come insetti nel vello d’una bestia addormentata. Si levavaqua e là il fumo di qualche fuoco e restava sospeso trabalza e balza. Severina, che era vissuta sempre in un pae-se di pianura, si meravigliava a vedere quelle montagnecosì vicine, animate e silenziose. L’angoscia si scioglieva,s’addolciva in un senso vago di rimorso. Rimorso di che?Rimorso d’aver lasciato Anna nella casa sperduta in mezzoalla pianura malarica, con quei bambini da tirar su, con

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tutta quella roba da lavare? rimorso di non avere rivistosua madre da tanto tempo? rimorso per la gioia che le da-va quel paese nuovo? Il suo vecchio paese, la sua pianuratornava a viverle nella memoria; bastava che ci pensasseun poco perché tutta la vita trascorsa laggiù si animassecome quelle montagne che dalla Cantoniera apparivanouniformi e deserte. Di tante persone dimenticate ricorda-va il viso, la voce, come se le vedesse e le sentisse parlare.E Michele era l’unica persona presente e reale che vivesseanche tra quei ricordi lontani. Qualche volta fantasticavadi essere con lui a Mamusa, in casa di sua madre, e dire asua madre quanto fosse felice del suo nuovo stato. Solocosì anzi riusciva a sentire Michele distintamente, ponen-dolo fuori dal confuso presente. Benché ogni sera egli tor-nasse a casa, Severina pensava a lui come si pensa a unapersona lontana. Ma bastava un ago appuntato al capolet-to, un ago che, con la gugliata bianca, le facesse pensarealla camicia che aveva rammendato il giorno prima, basta-va la roncola lasciata da Michele dietro la porta di cucina,o il solco della ruota del carro vicino al cancello nella sab-bia del cortile, perché tutto il suo essere balzasse e fossepieno di lui. Non lo vedeva né lo pensava distintamente,come quando faceva di lui un abitante di Mamusa; lo sen-tiva come sentiva l’aria sottile della montagna. Allora quel-la casa, che un momento prima l’era sembrata estranea,era anch’essa tutta piena di lui. E il suo sangue, al ricordodi una gioia acuta, intensa, e al tempo stesso lontanissima,scorreva vivace, e tutti gli oggetti che toccava erano vivinelle sue mani, animati dalla forza del suo sangue. Menod’ogni altro avrebbe saputo dire da che cosa nasceva que-sta gioia, che viveva, come la sua angoscia, nelle cose chela circondavano. Anche l’acqua di Sigalesa le dava gioia,quell’acqua cristallina e leggera come aria, che lei bevevaavidamente. Non avrebbe saputo dire perché quei monti,quei boschi, lo stormire del vento a lunghe ondate, quan-do il paese dormiva, le dessero quel turbamento di gioia.

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Pensava che forse era la vita più riposata, a farla star be-ne, e l’acqua buona, l’aria salubre, il cibo abbondante enutriente. E se ne vergognava. Era una gioia di cui gli altrinon potevano accorgersi, a volte offuscata, a volte più vi-va, come una stagione al suo inizio, quando non è ancoradel tutto passata quella che l’ha preceduta. Di fuori si ma-nifestava appena in una maggior floridezza, che solo An-na notava, quando s’incontravano, e a cui Michele s’assue-faceva senza farci caso. Era un sentimento della carne,profondo e solitario. Lei stessa forse non sentiva la suagioia intera e compiuta se non quando s’abbandonava aMichele. Allora la sua gioia continuava nel sonno. Al mat-tino, quando, nel dormiveglia, non lo sentiva più accantoa sé, e vedeva sull’impannata i riflessi della lanterna dellastalla, s’avvolgeva in uno scialle e correva a raggiungerlo.Si svegliava nell’aria diaccia del mattino, si trovava im-provvisamente sveglia in mezzo al cortile, nell’aria freddache le penetrava sotto i panni, e si vergognava. Allora simetteva a raccogliere la biancheria stesa la sera prima, econ la stessa avidità con cui beveva l’acqua, aspirava ilvento che l’aveva asciugata al sereno.

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atroce e quasi incredibile. Le sembrava impossibile cheavessero potuto infierire con tanto accanimento e senzanessuna ragione al mondo contro quell’uomo così mite etranquillo, che ci potesse essere tanta perseveranza nelmale, da una parte, e dall’altra tanta pazienza. Una voltacercò anche di difendere Michele spiegando che avevafatto la pace con quei parenti perché, volendo acquistareun terreno a Nadòria, doveva stabilire con loro rapporti dibuon vicinato. La suocera le saltò agli occhi inviperita:non era una sciocchezza anche questa? Perché andare acomprare un terreno proprio a Nadòria? Perché andarsi amettere proprio nella tana di quelle volpi? Anche Aureliadiede ragione a Maddalena. Dopo la condanna, Giuseppenon aveva più voluto avvicinare i fratelli ed era semprevissuto in pace: Michele avrebbe dovuto seguire l’esempiodi suo padre e star lontano da quella gente.

Il terreno che Michele voleva comprare a Nadòria ap-parteneva a una vedova che, non potendolo mettere a vi-gna, lo affittava a pascolo per poco prezzo, e per poco loavrebbe venduto. Michele ne aveva parlato a lungo conSeverina, non attentandosi di parlarne con sua madre, e leaveva detto anche l’unico inconveniente a cui s’andava in-contro, con quell’acquisto. Nel catasto, una piccola parte diquel terreno era stata intestata, per errore, a quanto pare-va, allo zio Salvatore, il quale pagava le tasse a ogni sca-denza e si faceva poi rimborsare dalla vedova. Micheleaveva fatto la pace con lo zio anche per mettersi d’accordocon lui sull’affare del terreno. Ma siccome Maddalena nonsapeva nulla di tutto questo, Severina si limitò a ripetereuna frase che Michele diceva spesso quando si parlava deitorti subiti dal padre, che erano cose lontane e che non bi-sognava pensarci più, se si voleva vivere in pace con tutti.

– In pace con tutti! – disse Maddalena. – Io che me neandrò sì che starò in pace. Ma voi resterete. Altro che pa-ce! Non si può vivere in pace, con quella gente, mettete-velo in testa.

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CAPITOLO XIV

Ogni volta che s’incontravano, Anna le faceva semprela stessa domanda ansiosa. Ma della gravidanza che suasorella aveva tenuto come certa prima del matrimonio oranessun segno si manifestava. Anche la zia Luisa e Aureliaaspettavano di giorno in giorno; ma Severina era contentadi rispondere a tutti che non c’era nulla di nuovo, per ilmomento, sentendosi riscattata, in certo senso, dai fasti-diosi sospetti dei maligni. – Meglio così – diceva la ziaLuisa. – Meglio così. Ora riposati. Quando comincerai,non la finirai più di far figliuoli. Guarda Aurelia! Uno al-l’anno! –. Aurelia, che aveva tre bambini, presso a pocodella stessa età di quelli di Anna, ed era di nuovo incinta, aquesti discorsi della madre arrossiva, e scuotendo la testadiceva: – Lasciate che vengano, se il Signore li manda –.Da quando c’era Severina, le due donne andavano piùspesso in casa di Maddalena, e così passavano interi po-meriggi a lavorare tutte assieme nella stanza del telaio.A Severina piaceva ascoltarle parlare, benché non capisseancora bene il loro dialetto e ogni tanto dovesse, pergiunta, chiedere spiegazioni sulle persone che nominava-no. Dapprima faceva una gran confusione tra i parenti diMaddalena e quelli di Giuseppe, vale a dire tra i parentibuoni e i parenti cattivi. Se ne parlava molto, in quei gior-ni, perché anche lo zio Salvatore e suo figlio Amedeo ave-vano voluto far la pace con Michele. Maddalena, che disolito agucchiava in silenzio, quando il discorso cadevasui parenti del marito si animava e raccontava per la mille-sima volta i torti che gli avevano fatto, e se la prendevacon la dabbenaggine di Michele che si lasciava adescaredalle loro parole false. Severina aveva sentito raccontare lestesse cose da Michele: erano gli stessi fatti e le stesse per-sone, eppure nel racconto di Maddalena tutto sembrava

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Non avrebbe mai parlato d’altro, Maddalena, se la ziaLuisa non avesse cercato, ogni tanto, di cambiare argo-mento. Mentre per Maddalena la famiglia di Severina sem-brava non esistesse neppure, la zia le faceva sempre tantedomande sui parenti, la faceva parlare di Mamusa, volevasapere come si facevano certi dolci, una specie di sgon-fiotti famosi in tutto il Campidano. Così Severina raccontòche sua madre faceva questi dolci per venderli, e non soloquesti, ma anche la pasta reale, i savoiardi, e molti altri; epromise anche alla zia d’insegnarle come si facevano.

– Ah! se lo sapesse mia madre che vi dico queste co-se, non avrebbe più pace! – diceva ridendo.

Sua madre non si serviva, per fare i dolci, dell’acquache gli acquaioli vendevano per le strade di Mamusa a unsoldo la brocca, e neppure dell’acqua delle cisterne –giacché a Mamusa non c’erano pozzi – ma dell’acqua diNòrbio o di San Silvano, che prendevano quando anda-vano a vendere gli sgonfiotti, la domenica. Questo era ilsuo segreto. Nessuno l’aveva mai indovinato, e nessunoriusciva a fare gli sgonfiotti buoni come i suoi. Facevanoore e ore di strada tra i boschi. Andando non facevanonessuna fatica perché i dolci pesavano poco, ma al ritor-no, con quei bidoni d’acqua nascosti nelle corbe! C’erada piangere per la stanchezza.

In poco tempo la zia Luisa e Aurelia conoscevano Ma-musa meglio di quanto Severina non conoscesse Sigalesa.Perché Severina usciva di rado, e solo in compagnia diMaddalena. L’acqua la prendevano da un pozzo vicino acasa e il grano lo portavano a macinare dalla zia Luisa, cheaveva la mola in una stanza dietro la cucina. Tutto il giornoun piccolo ciuchino bendato girava intorno alla mola e ma-cinava per tutti i parenti, che poi, in compenso, portavanoalla zia uova frutta olio o le lasciavano una misura di farina.E la zia aveva la dispensa sempre piena. Una volta alla set-timana Maddalena e Severina andavano anche loro dalla ziaa portare il grano e poi a riprendersi la farina ancora calda.

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A Severina piaceva andare in casa della zia speciequando Maddalena aveva da fare e ce la lasciava andar so-la. Sentiva che la zia l’accoglieva diversamente, quando arri-vava sola, e anche Aurelia. Quando non c’era Maddalena sisentivano tutte e tre più libere, più allegre. E Severina pen-sava come sarebbe stato bello avere una casa come quella,col pozzo nel cortile tutto coperto da un gran pergolato, euna grande cucina e la mola; ma in fondo non desideravaaltro che una casa dove potesse vivere sola con Michele,senza Maddalena. A volte questo pensiero si faceva anchetroppo chiaro nella sua mente, e allora lei lo respingeva,parendole di desiderare così qualche cosa d’illecito.

Un giorno che era in casa della zia e cuciva, in attesache il ciuchino avesse terminato di macinare il grano, fupresa, a un tratto, da una gioia intensa che le saliva didentro come un calore benefico. Mai prima d’allora avevaprovato un senso di gioia così calmo e così pieno. Eracontenta, contenta di tutto, come se nulla mancasse allasua vita. Se qualcuno l’avesse guardata, in quel momento,forse avrebbe potuto vedere nel suo viso il riflesso di que-sto sentimento incomunicabile. Pensava tutta assorta e ac-coglieva nella sua gioia tutto ciò che la circondava. La ziaLuisa e Aurelia cucivano, la più piccola delle bambinedormiva su una stuoia di sala ai piedi della nonna, Cateri-na, la più grandicella, cuciva anche lei imitando sua ma-dre, l’altra, Luisicca, staccava ogni tanto un boccone dauna fetta di pane e un chicco da un grappolo d’uva passa,e sembrava assorta come una persona grande in qualchepensiero. Era uno di quei momenti di silenzio che passa-no sulle case e prendono tutti, vecchi e bambini.

Sempre pervasa da quel vivo senso di gioia che l’eranato, Severina abbassò di nuovo la testa e riprese a cuci-re. Dalla stanza accanto veniva il rumore monotono dellamola. Di quando in quando il ciuchino si fermava, poi,senza che nessuno si fosse preso la briga di dargli unavoce, riprendeva a girare. Si udivano campani di buoi in

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una strada lontana, scatti rovinosi e lenti di un carro caricosull’acciottolato, la voce dell’uomo che li incitava cantandoi loro nomi, come faceva anche Michele. La zia Luisa so-spirò, e anche Aurelia sospirò, poi tutte e due assiemesbadigliarono.

– Che giornata! – disse Aurelia. – Non passa mai.– Sta per mettersi a piovere. Domani pioverà – disse

la zia.Si ristabilì il silenzio di prima; e Severina pensava che

tra poco avrebbe dovuto andarsene, e le dispiaceva.– Vincenza ha i capelli biondi – disse a un tratto, chi-

nandosi sulla bambina che dormiva. Mentre prima le bam-bine di Aurelia non le ispiravano nessuna simpatia, ricor-dandole quelli lontani di Anna, sempre soli, laggiù allaCantoniera, in quel momento invece si sentiva di amarle.

– Anche Caterina e Luisicca avevano i capelli biondi.Poi si sono scurite. Non ci durano i capelli biondi, a que-st’aria – sospirò Aurelia.

– Anche Aurelia e Marietta avevano i capelli biondi.Tutti i bambini, in casa nostra hanno i capelli biondi, poicambiano colore. Perdono il primo pelo come i ciuchini.Ma è meglio così. Dicono che gli angeli sono biondi, magli uomini e le donne biondi, Dio ce ne liberi! è meglionon avercene in casa!

Aurelia e Severina scoppiarono a ridere, a quest’uscita.– Oh, cos’avete detto, mamma! Non lo sapete che la

sorella di Severina ha i capelli biondi? – disse Aurelia.Severina faceva cenno di no, sempre ridendo.– Guardala bene, un’altra volta – disse sicura la zia

Luisa. – Anna ha i capelli castani, non biondi.Severina assentì, e quando Aurelia si fu calmata, disse

che i capelli di Anna erano castani, come diceva la zia,ma con riflessi rossastri come di rame, secondo i giorni.

– Come, secondo i giorni? – chiese Aurelia.– Sì, secondo i giorni.– Che gente strana siete, voialtri di Parte d’Ispi! Anche

i tuoi occhi cambiano colore da un momento all’altro.

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E Aurelia accostò il suo viso a quello di Severina, chearrossì; e non guardava i suoi occhi, ma la sua pelle – laguardava davvicino come si guarda il tessuto di una stoffa.

– Sono bellissimi capelli, quelli di Anna – disse sco-standosi.

– Sì, ma non sono biondi – disse la zia Luisa.Di nuovo risero, senza ragione.– Ce n’è molte, a Mamusa, che hanno i capelli come

Anna? – chiese Aurelia.Severina disse che a Mamusa solo Anna aveva i ca-

pelli di quel colore, e la loro nonna materna. Tutte le al-tre erano brune.

A Severina piaceva sentir lodare i capelli di Anna. AdAnna non era rimasta altra bellezza, da quando s’era spo-sata: solo i capelli.

– Anche quando hanno gli occhi come i tuoi? – chie-se Aurelia.

Poi guardò sua madre maliziosamente e disse:– Ma sapete, che non avevo mai visto occhi di questo

colore?Sembrava che solo allora se ne fosse accorta.Luisicca s’era addormentata con la sua fetta di pane in

mano e il raspo vuoto. Caterina ascoltava attentamente idiscorsi delle tre donne, come una piccola donna anchelei, composta e seria. A un tratto disse:

– Puh! a me non mi piacciono no, quegli occhi. Sonoocchi di capra – e storse la bocca.

Aurelia le diede uno schiaffo. Glielo diede forte, conrabbia. Severina si portò la mano alla guancia come se loschiaffo l’avesse ricevuto lei, poi, quasi con violenza, pre-se la bambina tra le braccia e allontanò le mani di Aurelia.

– Ma perché? – chiese. – Perché la picchi?– Faremo i conti più tardi – disse Aurelia, che era di-

ventata pallida dalla rabbia.Ma la bambina non piangeva. Guardava anche lei sua

madre con ira e cercava di svincolarsi dalle braccia di Se-verina.

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– Siete voi che lo avete detto, e ora mi picchiate.Aurelia cercò di strapparla dalle braccia di Severina,

ma Severina la stringeva forte.– Non voglio! – gridò. – Non voglio che tu la picchi.– La picchio perché ho ragione di picchiarla. Così im-

para a raccontar bugie.Per un attimo le due donne si guardarono negli occhi.

Severina lasciò la bambina, che rimase tra loro due, senzacercar di scappare.

– Di’ la verità, – disse Aurelia raddolcendo la voce ecercando di farle alzar la testa – io ho detto quelle parole?

La bambina non rispondeva nulla, ostinata.– Vattene! – disse Aurelia. – Vattene! Che non ti voglio

più vedere.La bambina s’allontanò in silenzio e andò a sedersi

sugli scalini della porta.– Dopo faremo i conti, con te – disse Aurelia.Stettero un pezzo senza dire una parola, tutte e tre,

poi, siccome s’era fatto tardi, Severina trovò la forza di al-zarsi per andar via. Aurelia andò a prender la corba dellafarina e l’aiutò a mettersela sulla testa.

– Lasciala stare – disse piano accennando a Caterina.– Bisogna che impari a stare al suo posto – disse Au-

relia a voce alta perché Caterina sentisse. Ma la bambinanon si mosse neppure.

– Ti aspetto mercoledì per fare i biscotti – disse la ziaLuisa. – Ti aspetto! Ti aspetto! – ripeté e le strinse forte ilbraccio come per esortarla a non far caso a quant’era ac-caduto.

Uscì ch’era buio. Camminava diritta, con la corba sullatesta. La strada era piena di gente essendo quella l’ora incui tutti tornano dal lavoro. Incontrandosi, si chiamavanoper nome, uomini e donne si salutavano. Ogni tanto unozolfanello illuminava il viso di un uomo intento ad accen-dere il sigaro o la pipa. Nessuno poteva vederla piangere.

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Le lacrime le scendevano giù per le guance, lungo il collo.Non sentiva nessun rancore verso Aurelia. Non gliene im-portava nulla, come a Michele non importava nulla deitorti che avevano fatto a suo padre. Nulla. Si ricordò chesua madre diceva sempre che il suo umore cambiava daun momento all’altro come il colore dei suoi occhi.

A un tratto si sentì prendere per mano. Era Michele, esi mise a camminarle al fianco. L’affare del terreno di Na-dòria era concluso; s’era messo d’accordo con lo zio Sal-vatore, che, dopo il rimborso delle tasse che aveva pagatonegli ultimi tre anni, avrebbe fatto la voltura. Era contento,e ogni tanto stringeva la mano di Severina. Anche lei eradi nuovo contenta – contenta di sentirselo vicino, del con-tatto della sua mano ruvida e calda. Gli disse solo:

– E tuo zio Salvatore sarà sincero?Sentì che Michele faceva un gesto come per dire che

questo fatto non aveva importanza.– Ho trovato due sole persone sincere – disse Miche-

le. – Te e mio padre.– E nessun altro, prima di me?– No, nessuno.Ogni tanto rispondeva a un saluto. Tutti quegli uomini,

nel buio, si riconoscevano. Salutava e continuava a parlaredell’affare del terreno: ripeteva ciò che la vedova gli avevadetto e ciò che lui aveva risposto. Ce n’era voluto a con-vincerla che le tasse di quei tre anni dovevano essere de-tratte dal prezzo!

Così arrivarono a casa. Egli le levò di peso la corbadalla testa, e la posò sul tavolo, poi accese la lucerna sul-lo sporto del camino, e tutti e due si guardarono in fac-cia, contenti di rivedersi, dopo la strada fatta insieme albuio.

Maddalena era in cucina che finiva di preparare la ce-na; e dopo un poco, non sentendoli parlare s’affacciò al-l’uscio.

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Severina non disse nulla né a Michele né a Maddale-na di quel ch’era accaduto in casa della zia, e continuòad andarci, benché non provasse più lo stesso piacere diprima. Di sé e di Mamusa non parlò più se non con Mi-chele, e la zia Luisa non le parlò più di farsi insegnare ilmodo di far gli sgonfiotti.

Un giorno che la zia stava facendo il pane, Severina,ch’era sul ponte, sentì da lontano l’odore, e provò unsenso di nausea. Dapprima non credette che fosse l’odoredel pane. La casa della zia era sulla costa del monte. Bi-sognava attraversare il torrente su un ponticello di legnoe prendere un vicolo erto e sassoso. Il vento continuava aportarle l’odore del pane, e lei si accorse con meravigliach’era proprio quell’odore che le chiudeva la gola. Le pa-reva di sentirci dentro una puzza di capelli bruciati. Sitappò la bocca e il naso con la cocca dello scialletto, masi sentiva il passo legato, le gambe pesanti; e dovette ap-poggiarsi al muro di una casa. Era un malessere mai pro-vato, terribile, come se stesse per morire. Qualcuno lasorresse, la portarono in una casa vicina.

La gravidanza coincise con la luna nuova; e il tempocambiò. Quando l’inverno comincia così, a Sigalesa, è se-gno che la stagione dura costante, senza sbalzi. Ci si puòfidare. Alle piogge di dicembre succedono le secche digennaio; poi riprende ancora a piovere, ma sono pioggeleggere che non allettano i grani. L’inverno è breve. A feb-braio si comincia a vedere qualche mandorlo fiorire, quae là, per la campagna ancora spoglia. Allora c’è la paurache l’inverno, prima d’andarsene, faccia qualche bruttoscherzo. Guai se i venti caldi fanno anticipare la fioritura:allora basta un po’ di freddo a far morire i fiori sui rami.Sono giorni di trepidazione; ma se passano, a suo tempola fioritura si spiega sui colli, avanza come la spuma diun’onda insinuandosi tra i vecchi boschi, tra gli oliveti, trale vigne spoglie, invade tutto, e la campagna sembra ungiardino. Il profumo di tutti quei fiori dà un’illusione di

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tepore. E il tepore c’è in realtà, ma così leggero che solo ifiori e le gemme degli alberi lo possono sentire.

Per questo i contadini, durante le lunghe giornate dipioggia del principio dell’inverno, se ne stanno sotto latettoia delle stalle a studiare con attenzione in cielo la for-ma delle nuvole, che segnano come bandiere, sui monti,la direzione del vento. Cercano in questi segni, relativi al-le previsioni della giornata, la conferma di previsioni piùlontane. Intanto trascorrono quelle settimane di pioggia edi riposo. Sembra impossibile che sia già passato tantotempo da quando hanno finito di seminare. Eppure se sistrappa una pianticella di grano non c’è più neppure latraccia del seme da cui è scoppiata fuori. La pianticella selo è mangiato, le radici sono forti, abbarbicate alla zolla.Mentre s’aspetta che le terre s’asciughino per erpicarle,cominciano i lavori negli oliveti. Si fanno le piazzole sottoogni pianta, si strappano con cura le erbe dalla barbicaiaperché le olive cadute non ci si nascondano dentro amarcire, si staggiano i rami troppo carichi, si dibruca ilpedale sotto gli innesti, dove crescono i polloni selvatici.Poi, quando le olive cominciano a nereggiare tra le fo-glie, e qualcuna a cadere, i guardiani vegliano perché ibranchi di pecore e di capre non sconfinino negli oliveti.Non c’è anima viva. Si sente solo il tonfo delle olive checadono e ruzzolano per il pendio. Di mattina si vedonoscendere dalle strade dei monti gruppetti di donne, di ra-gazzi e di vecchi, a due, a tre, che portano sulle spalle osulla testa sacchi e sporte di olive. I guardiani tirano aitordi, che anche loro, come i poveretti, sono i primi a co-minciare il raccolto.

Severina passava lunghe ore seduta sulla porta del cor-tile. Si ripeteva spesso un fatto di cui non aveva mai parla-to neppure con Michele. In certi momenti i suoi occhi ac-quistavano una sensibilità particolare per i colori. Non glioggetti attiravano il suo sguardo, ma i colori. E quandoguardava da vicino una stoffa, nel colore di questa stoffa

Capitolo XIV

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scorgeva i fili di colore diverso, tanti colori diversi, neiquali l’azzurro o il verde della stoffa si scomponeva. E co-sì era tutto: il paese, la campagna era una congerie di filimulticolori. S’incantava al rosso dei corpetti delle donne,alle loro ampie sottane dogate di amaranto e di celeste,come se per la prima volta s’accorgesse di quei costumisgargianti così diversi da quelli di Mamusa. Anche quandochiudeva gli occhi, le rimaneva dentro il fiammeggiareconfuso di quei colori. Un vaso di gerani la faceva trasali-re di gioia; e tutte le case di Sigalesa, costruite con la nerapietra dell’Isola ne avevano alle finestre. Se le accadeva disognare Mamusa, non vedeva, nel sogno, Mamusa, ma unpaese pieno di colori vividi come fiamme; e il cielo eraanch’esso acceso di viola o di azzurro intenso.

In questo tempo, dopo i primi mesi di gravidanza,s’era rimessa in carne. Sembrava un’altra, bella e floridacome non era mai stata.

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PARTE SECONDA

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Il ricordo più preciso che mi rimane di quei giorni è losquillo intermittente del telefono, lontano, in fondo al cor-ridoio. Avevo ripreso coscienza lentamente, e mi ero trova-to a letto, con le gambe ingessate. Potevo muovere solo lebraccia e la testa, che pian piano mi si liberava come daun peso enorme. Seppi più tardi che in quelle prime ore,o forse giorni, di semi-lucidità, il pericolo della commozio-ne cerebrale non era ancora cessato. Eppure, oltre questopeso alla testa, non sentivo nessun dolore, anzi, a mano amano, come il mio cervello si snebbiava, un senso di be-nessere e di leggerezza s’impadroniva di me. Non ricorda-vo nulla, e non sapevo neppure dove mi trovavo. Intornoa me era buio e silenzio, e io non facevo nessuno sforzoper ricordare, né per sapere se ero in un ospedale o a ca-sa mia; come non facevo nessuno sforzo per parlare conla persona che sedeva accanto al mio letto, e di cui senti-vo la mancanza quando, per brevi istanti, se ne allontana-va. Credo di aver sempre saputo, fin da principio, perquanto era possibile sapere nelle condizioni in cui mi tro-vavo, che quella persona era mia madre. Ma del resto nonsaprei dire con precisione quali sensazioni provassi, per-ché, in realtà, ho l’impressione di aver ripreso coscienzaall’improvviso dopo un lungo sonno ristoratore, sveglian-domi nella mia stanza. Al mio stato di incoscienza e di tor-pore mi lega solo la memoria fisica di quella sensazionedi benessere che ho detto, offuscato appena come da om-bre: l’allontanarsi di mia madre dal letto, il peso alla testa,e la nausea che mi dava lo squillo lontano del telefono.La mia vita ricomincia da quel risveglio, quando ogni pe-ricolo era passato, e la sola preoccupazione di mia madre– cosa che mi pare anche ora incredibile – era il gran nu-mero di ragazze che chiedevano notizie della mia salute.

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Non supponeva neppure che io ne conoscessi tante; e ri-cordo che Alberto, col quale ne parlava, durò molta faticaa convincerla che erano tutte nostre compagne. Infatti lafacoltà di matematica era frequentata in numero preponde-rante da donne; e questo particolare era sempre sfuggito amia madre. – Ai miei tempi – diceva lei ancora incredula –eravamo in due in tutta la facoltà: gli altri erano uomini –.Inoltre molte studentesse di chimica e di scienze naturalifrequentavano i nostri corsi; e tutte, da quando ero a letto,s’interessavano della mia salute. Mia madre si rifiutò di cre-dere che queste ragazze mi conoscevano appena di vista;e accolse le mie proteste con un sorriso tra ironico e mali-zioso. Del resto, io stesso mi meravigliavo che quelle ra-gazze mostrassero, tutto a un tratto, tanto interesse per me.Un giorno Alberto mi disse che probabilmente, se fossi ri-masto storpio per la vita tutte quelle brave persone avreb-bero girato al largo. Rimasi colpito lì per lì dal cinismo diquesta affermazione, ma mi guardavo bene dall’approfon-dirla. Spesso le osservazioni di Alberto hanno qualcosa dicrudele e di astratto, e sono vere come certi assiomi – diuna verità limitata e priva di contenuto fuori dal campodella matematica. Alberto non si abbandona più al gusto difilosofare sugli uomini, come qualche anno fa, eppure èsempre implicito, nel suo modo di ragionare, questo at-teggiamento mentale. Si potrebbero dedurre dai suoi dis-corsi, dalla conversazione più banale una serie di principiche stanno alla base del suo modo pessimistico di consi-derare le cose. Nello stupore di quel mio risveglio trovavoAlberto e mia madre come li avevo lasciati. La vita avevaripreso, anche per lei, il suo corso abituale, e in esso miamadre si riposava dall’angoscia e dallo spavento di per-dermi che l’aveva sconvolta qualche giorno prima. Io in-vece dovevo ancora rendermi conto di tutto. Il pensierodella morte, così vivo nel benessere fisico che mi inondavae si tramutava in un senso di intima gioia, mi separava dalei. Mentre prima, nello stato di semi-incoscienza, soffrivo

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quando s’allontanava dalla stanza o forse solo dal mio ca-pezzale, ora ero contento quando potevo rimanere solo; easpettavo con impazienza che uscisse per le sue lezioni.Benché fossi continuamente occupato da questo pensieroch’era diventato un sentimento, mi faceva uno strano effet-to sentir dire dagli altri ch’ero salvo per miracolo. Arrivavoa desiderare la visita di persone estranee per sentirmi ripe-tere questa cosa di cui ormai le persone di casa e gli amicinon parlavano più. Le visite degli estranei m’interessavanosoltanto per questo; poi avrei voluto che quelle persone sen’andassero subito e mi lasciassero solo con quel mio pen-siero costante, o sentimento che fosse, ringiovanito di pu-dore. Io non avrei potuto parlarne, per esempio. E credoche le parole degli estranei mi facessero quello strano ef-fetto proprio per questo, perché eccitavano un sentimentovivissimo di pudore. Un giorno un’amica di mia madre michiese se avessi sofferto nella caduta. Non sono stato capa-ce di dirle la verità, che non avevo sentito nulla, e che nonavevo sentito nulla neanche dopo, che non soffrivo ma cheanzi provavo un senso di piacere; come non riuscii mai adire a mia madre ch’ero contento di starmene a letto conle gambe ingessate. Ho sempre lasciato credere a tutti diaver sofferto molto. In realtà, della mia caduta non ricordoaltro all’infuori di questo: le grida dei miei compagni, in al-to, sulla mia testa. Tutti erano rimasti così colpiti dalla de-scrizione impressionante che essi fecero della mia caduta edello stato in cui mi avevano raccolto, che mi sembravauna fatica improba e inutile tentare di disingannarli.

Dopo che le visite cominciarono a diradare, la mam-ma mi faceva un po’ di lettura ogni giorno, ma per lo piùsedeva accanto al mio letto a lavorare, in silenzio, perchéil medico le aveva detto di non affaticarmi. Non ho maiamato la solitudine e il silenzio come in quel tempo, edovetti insistere perché non pregasse Alberto di venire atenermi compagnia quando lei usciva per andare al Col-legio Carlo Felice. Allora potevo starmene solo per tre o

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quattro ore; e siccome mia madre dava di sera le sue le-zioni, erano le ore più belle e più quiete della giornata.Quando Linda entrava nella stanza per attizzare il fuocodel caminetto, chiudevo gli occhi e fingevo di dormire.Stavo bene, così. Ma era difficile convincere mia madreche non avevo bisogno di nessuno. Dopo la lezione, tor-nava a casa in fretta, si precipitava nella stanza senza le-varsi la pelliccia; salendo le scale s’era già sfilata il guantoper toccarmi la fronte e il collo. Io rabbrividivo al contat-to della sua mano sottile e fredda. Il medico le aveva dettoche l’assoluta immobilità non avrebbe mancato di procu-rarmi qualche disturbo intestinale. Ma anche la dieta rigo-rosa mi piaceva, confacendosi appunto alla mia immobili-tà. A lei invece tutto sembrava terribile, e la mia stessatranquillità la spaventava. Forse da quand’ero bambinonon ero mai stato tanto contento come allora.

Dalla mia stanza, quando la mamma era a scuola, senti-vo i rumori della cucina: l’acciottolio dei piatti, il macininodel caffè, e Linda che mugolava una specie di canzonementre sfaccendava. Pensavo spesso a Montaigne, quandose ne stava chiuso nella sua torre e ascoltava i rumori chevenivano dalle stanze a terreno: vagheggiavo una solitudinedi meditazione e di studio come la sua, regolata sulla vitaquieta di una casa di campagna. Fantasticavo che la nostracasa fosse in mezzo alla campagna, e i rumori della cucina,isolati nel silenzio, m’aiutavano a immaginarmi i rumori del-la campagna. Ma fuori di questa illusione, potevo udire ilbrusio uniforme e confuso della città, sempre presente, del-la città che vive per suo conto, anche se non ci penso, ecresce, si estende, inghiotte pian piano le borgate intorno algolfo allargando il suo continuo ronzio d’alveare, che nondisturbava, d’altronde, il mio profondo bisogno di silenzio.

– La gran differenza tra la città e la provincia – mi disseuna sera Alberto – è che in provincia ogni tanto, se si vuo-le, ci si può fermare. Tu sei stanco? Vuoi startene tutto solo

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con i tuoi pensieri? Puoi ritirarti nella tua casa tranquilla-mente senza bisogno di far credere che sei partito o che seiammalato. La campagna si concede ogni giorno il suo ripo-so. La campagna lavora, dorme, si sveglia secondo il corsodel sole: gli uomini e le bestie là fanno altrettanto –. Mi rac-contò di un paesino dove suo fratello fa il pretore da quasiun anno. La prima settimana non sapeva adattarsi a quellavita, poi gli regalarono un cane, e a mano a mano che ilcane cresceva e diventava amico degli abitanti del paese,anche lui imparava ad amare quella gente. Io cercavo di fi-gurarmi la scoperta della campagna da parte di questo cit-tadino ostile, pensavo ai paesi sparsi sulla costa dei montio nascosti nella pianura, quei paesi che s’addormentano altramonto, come diceva Alberto, e si svegliano all’alba, alprimo diffondersi della luce, pensavo alla nostra piccola ca-sa di Ultra, che non è altro che una casa di contadini, allapineta. Avrei voluto essere là, nella mia stanzetta con le pa-reti scialbate e le travi di ginepro. Il pensiero che avrei po-tuto andarci a passare la convalescenza mi riempiva digioia. Trovandomi però nell’impossibilità di andarci subitomi facevo questa domanda: «È proprio vero che ci sia tra lavita di campagna e la vita della città questa gran differenzache diciamo noi cittadini? E che cos’è, in fondo, la vita del-la città se non il continuo sovrapporsi e complicarsi e mol-tiplicarsi della vita elementare della campagna?». Arrivavo adue conclusioni completamente opposte: 1) che non c’ènessuna differenza; 2) che v’è una differenza enorme. Manon erano pensieri, erano fantasie, immagini di quel miobisogno di solitudine. Ritornavo continuamente con l’im-maginazione a Maria, a Donato, a Isabella, al Capitano, alvecchio che abitava nella rimessa degli Almerio, ai cuginidi mia madre, coi quali ero stato anche l’estate scorsa acaccia di tortore nelle aie vicine al paese. Ricordavo il cam-po nel quale eravamo rimasti appostati in attesa che le tor-tore si levassero dai boschetti ai piedi della collina per ve-nire a pascolare nelle aie. C’eravamo andati la sera prima,

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al tramonto, senza fucili, con una roncola e un mazzo digiunchi per farci le capannucce tra i cespugli. Era un cam-po tenuto a maggese. Le spine secche dei cardi coprivanole tracce delle stoppie brucate dalle pecore, e le leggerecorolle dondolando sugli steli mi sgraffiavano gli stivali emi pungevano il ginocchio. Mi pareva di risentire, nellamia immobilità, queste punture velenose e dolorosissime.Proprio in mezzo al campo, sul terreno duro e secco cherisuonava sotto i nostri piedi, cresceva un’erba fitta, sottilecome lino, tra la quale si vedevano le caccole nere dei co-nigli e le tracce dei loro giuochi qua e là, come di manipassate su un velluto. Grandi ulivi mutilati e radi cespuglidi lentischio, sulla linea della siepe, di cui non v’era piùtraccia, delimitavano il campo dalla parte della strada fer-rata. Ma dalla parte opposta i cespugli erano più alti e piùfolti. Là i cugini decisero di preparare i nascondigli per ilgiorno dopo. Ci tagliammo ciascuno una specie di nidonel folto dei cespugli, a una certa distanza l’uno dall’altro,e su ogni nido intessemmo coi rami tagliati e i giunchi unaleggera tettoia, in modo da poter stare là dentro senza es-ser visti dalle tortore. Io entrai nel mio nido per prova, e imiei abiti conservarono poi l’odore aspro del lentischio.Ce ne tornammo per una stradicciola sprofondata tra lesiepi e gli alberi che crescevano sui margini. Era quasi not-te, ma a ripensarci dal mio letto mi pareva che la nottefosse solo sui monti di Ultra, verso i quali andavamo, eche riempivano tutto il cielo. Il giorno dopo partimmo pri-ma dell’alba, perché solo alle prime luci le tortore volanoalle aie in cerca di cibo e poi, quando il sole comincia alevarsi se ne stanno appollaiate tra i rami. Appena alzato,bevvi un bicchiere d’acqua, e m’accorsi che, da quello cheavevo bevuto prima d’andare a letto, la luna aveva fattoben poca strada nel cielo. Avevo dormito circa quattro ore.Era la prima volta che mi decidevo ad andare a caccia ditortore, quell’anno. Ci andavo, un poco per non distaccar-mi del tutto da un’abitudine giovanile, un poco per non

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far dispiacere ai cugini, che m’invitavano. Ma quella voltaero contento d’andarci, e con gioia, quando m’era parso disentire un sassetto rimbalzare contro la gelosia della miafinestra, m’ero affacciato per dire a Riccardo che in un mo-mento sarei stato pronto. La strada era scura, scuri i monti,per quel poco che se ne vedeva sopra i pini, ravvivati gliodori della campagna nel vento fresco che s’era levato.Durante quelle poche ore era piovuto. Per questo il miosonno era stato così riposato e pieno: un sonno autunnale.L’autunno è, a Ultra, una stagione forestiera. Giunge im-provvisa, estranea a tutte le nostre previsioni di villeggiantirassegnati alla monotonia dell’estate troppo lunga, allarga igiorni, accende una trasparenza nuova nella campagna, ri-leva i colori nell’indefinita e aspra cupezza. Nei monti, lerocce, che prima erano color di cenere, si fanno di un rosadolomitico, e ti accorgi che emergono dal folto di boschiprofondi. Attraverso l’aria vedi o indovini, nel monte, ca-naloni, spaccature, anfratti, e ti meravigli del grande silen-zio che li circonda; e percorrendoli con l’occhio, quasi liguardassi attraverso la lente di un cannocchiale, misuri lavastità di questo silenzio. Gli ulivi della pianura, che s’èbevuta tutta la pioggia, si possono contare a uno a uno,tanto appaiono distinti, sul ciglio dei fossi su cui si sporgo-no, o al limite di una radura. Anche lì scopri strade, viotto-le, il letto del torrente, come una fiumana di pietre grigie,mille accidenti del terreno fin allora sommersi nella luceeguale delle stoppie, nella tua abitudine ai colori invec-chiati dell’estate.

Montammo in quattro su un calesse sgangherato e agran trotto c’infilammo per la strada sassosa del giornoprima, a rischio di rompere le balestre o di ribaltarci.

Le frasche con cui avevamo coperto i nostri cespuglisi distinguevano da lontano per una maggior compattezzadelle foglie. I cespugli bagnati odoravano come bestie vi-ve. Ci cacciammo ognuno nel suo nido e aspettammo,col fucile carico tra le ginocchia. I cugini si chiamavano

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con fischi leggeri, per dirsi che tutto andava bene. Ma nu-vole azzurre immobili nella profondità del cielo ritardava-no l’alba. Gli uccelli non lasciavano ancora i loro alberi. Sene stavano là, tra le foglie, nel silenzio notturno che tiene,per loro, luogo del sonno. Dalla finestra di foglie del mionido vedevo l’albero che mi era stato assegnato, e dietroquello altri ulivi, cespugli, siepi, folte macchie d’alberichiari stretti ai piedi della collina. Là appunto dovevanostarsene le tortore, in attesa dell’alba. Dopo un certo tem-po, una schioppettata lontana ne fece levare tre che per-corsero una lista chiara di cielo tra il crinale del colle e lenuvole, e sparirono in cerca d’altri alberi silenziosi. A untratto sentii il loro rapido sfrascare d’ali dietro le mie spal-le. Dai cespugli partirono fischi leggeri, cenni d’intesa.Nello stretto pertugio della feritoia si perdeva ogni cogni-zione della prospettiva e della distanza. Un moscerino chemi passava davanti agli occhi poteva sembrarmi una torto-ra tra gli alberi lontani, uno stelo di biada piegato dal ven-to che si raddrizzava coi suoi chicchi sospesi a filamentiinvisibili simulava un ordinato stormo poggiante nel cielo.

Ecco che, rasente terra, una tortora viene al mio albe-ro. Vedo il suo petto bianco. Con un colpo d’ala si leva,si posa su un ramo più alto guardandosi intorno sospetto-sa. Sembra sul punto di riprendere il volo. Ma Riccardol’abbatte con una schioppettata che si srotola rabbiosanella pianura. Mi sembra d’aver sentito il tonfo di quelcorpo divenuto a un tratto pesante, e nel tonfo mi sem-bra di aver sentito un suono curioso, come se l’uccelloavesse un fischietto dentro. Ne viene un’altra, sempre almio albero. Fischi leggeri mi chiedono perché non sparo.

Ma anche per gli altri la caccia fu scarsa. Queste gior-nate improvvisamente autunnali sono poco propizie al-l’agguato.

Durante il ritorno i cugini parlarono della prossimaapertura della caccia alla pernice. Dicevano che in unagiornata come quella sarebbe stato bello uscire coi cani,

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che seguono infallibilmente, sulla terra umida, la tracciadella selvaggina. Dicevano che solo dal modo che hannoi cani di procedere e di fermarsi, di voltarsi a guardare ilpadrone e di puntare con una zampa alzata, il cacciatorecapisce se si tratta d’una quaglia o d’una pernice.

A un tratto, mentre ero immerso in questi ricordi, equasi impregnato di odori campestri, pensai che anche aMaria il tonfo che fa cadendo l’uccello colpito deve dareun brivido, come succede a me al solo pensarci; e desi-derai ardentemente di rivederla.

Rivedo Linda entrare nella mia stanza. Non bussa pernon svegliarmi. Passa lontano dalle sedie per non urtarle,s’accoccola davanti al camino. Sento solo la fiamma che siravviva, qualche schiocco, qualche scoppio. Nella sua sor-dità, il ricordo dei rumori dev’essersi decuplicato, se ponetanta cura a evitarli: perché anche prima che io fossi am-malato era così silenziosa. È cosa stranissima un sordo chesi porta intorno un alone di silenzio. Così è Linda: riversail suo silenzio fuori di sé.

Prima che le morisse l’unica figlia vestiva ancora il co-stume di un paese del Centro che in seguito ho individua-to: una lunga gonna dogata d’amaranto e d’azzurro, il cor-petto di broccato rosso, lo scialletto e il grembiale di seta.Allora teneva la portineria di casa nostra, e suo marito la-vorava tutto il giorno nello sgabuzzino a risuolare scarpe.Dopo la morte della figlia ha smesso il costume e porta gliabiti smessi di mia madre ritinti di nero. Da allora è entra-ta al nostro servizio, e mia madre dice di non aver maiavuto una donna così pronta fidata e discreta. Non hanessuna di quelle qualità che si richiedono a una buonacameriera come era Marcella, per esempio, e io dovettidurare non poca fatica ad abituarmici, da principio. Servemale a tavola, non sa preparare il tè, non sente il telefono.Quando qualcuno suona, è suo marito che accompagna ilvisitatore su per le scale col cappello in testa, il grembiale

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di pelle e le mani sporche, e brontola perché dice chequesto è un servizio a cui non è tenuto. Ma la mamma ècontenta. Io, a lungo andare, ho scoperto in Linda altripregi completamente estranei alla sua vera funzione in ca-sa nostra. Mi piace il suo dialetto, il modo espressivo emisurato di gestire, l’attenzione animalesca con cui guardagli altri parlare. La mamma non alza mai la voce, quandole rivolge la parola, ché tanto sarebbe inutile. La chiama asé con un cenno. Se la mamma è seduta, Linda piega unginocchio a terra, poggia sull’altro le braccia in croce conle mani penzoloni, e ascolta, cioè guarda attentamente lelabbra della mamma. Sua figlia è morta di tubercolosi inte-stinale, e può darsi che anche lei sia affetta dalla stessamalattia. Non so se mia madre abbia chiesto consiglio aldottor Vernieri sulla convenienza o meno di tenere in casaquesta donna, o se non abbia voluto approfondire la cosa:io per conto mio ci penso qualche volta. Quando la guar-do stare così in ginocchio davanti a mia madre, in una at-titudine che non ha niente di servile e che è comune allagente di campagna, me la figuro vestita del suo vecchiocostume un po’ logoro, nella sua casa di paese. È diventa-ta sorda da ragazza, in seguito a un raffreddore preso du-rante il raccolto delle olive. Me la figuro così, china, conla sporta posata per terra e le mani che cercano le olivetra i sassi, rapide, come uccelli che beccano e inghiottonosenza tregua. La sua sordità dev’essere popolata del ricor-do dei rumori distinti e vari della campagna. Non ha maisentito tromba d’automobile, o scampanellare di tram, ofischio di treno. Quando le sirene dei piroscafi alzano illoro grido che sale nel cielo come una vertiginosa trombamarina, lei forse continua a sentire lo sgocciolio di unagronda della sua casa, le raffiche della pioggia sul tetto,l’abbaiare di un cane in una notte serena, un grillo, qual-che piccolo rumore d’allora; e forse solo questi rumorihanno serbato le loro proporzioni reali, legati come sonoa tanti altri ricordi precisi: quei rumori che ricordo di aver

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udito anch’io a Ultra, e che mi sono rimasti nella memo-ria, come la voce di una donna, per esempio, che ogni se-ra, quando s’accendevano i lumi del paese, chiamava suofiglio Antonio.

Anch’io mi sono abituato a parlare con lei. Basta stac-car bene le parole e guardarla in faccia, come fa la mam-ma. Mi ha detto di sé cose che sapevo già dalla mamma:la causa perduta da suo padre, il sequestro della loro ter-ra, della casa. Secondo lei, la colpa di tutto è di un loroparente, di cui non dice mai il nome. Questo parente èlui, oppure quello scellerato. Tutto ciò ch’è avvenuto didoloroso, nella sua vita, l’ha causato lui, su di lui si river-sa l’odio di questa creatura. Se lei ha dovuto lasciare ilpaese e venire a servire in città, se i fratelli sono andati afinire uno in carcere e uno in America, se sua madre havissuto, negli ultimi anni, di quello che lei, povera serva,poteva mandarle dalla città, la colpa è sempre di quel-l’uomo che non nomina.

Le ho chiesto dove si trovasse quest’uomo: mi ha ri-sposto che non lo sa. Aveva venduto tutto e se n’era an-dato anche lui. Chi sa dove!

Attraverso quei ricordi ho cercato di ricostruire quellontano paese del Centro. L’ho riconosciuto per induzione,perché Linda parlava di quei luoghi come se io già li cono-scessi. Nominava fiumi boschi montagne brughiere, e pianpiano, a furia di sentirli ripetere, si generavano da essi im-magini vaghe di montagne di boschi, di brughiere e di fiu-mi, si disponevano entro una prospettiva, che prendevanorma dai fatti che mi raccontava. Quante volte nominavail campanile! Questo campanile, col suo orologio e le cam-pane, io lo vedo. Un torrente attraversa il paese, e sul tor-rente devono essere tre ponti, uno in pietra e calce e duedi legno. Le strade sono scoscese, strette, tortuose, tra pic-cole case di pietra nera, e ognuna, come quelle di Ultra –che sono però costruite in mattoni crudi – con la sua le-gnaia, il cortile e la tettoia per le bestie e il carro. Bisognava

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lasciarla parlare, non insistere troppo su particolari chenon avessero rapporto col suo racconto, perché se no s’in-sospettiva, si faceva restia. Io ho indovinato questo paesesconosciuto. Sentivo che doveva trovarsi, presso a poco,nella stessa posizione di Ultra, ai piedi di un monte; e sic-come sapevo che dai paesi del Centro vengono i venditoridi castagne e nocciole, facevo il monte folto di boschi dicastagni e di noccioli. Ricostruivo il paese intorno ai suoigesti di contadina, ascoltando il suo dialetto così sonoro,risentito, e tanto in contrasto con la personcina secca e mi-sera di lei, che fa pensare a certi alberelli storti e maltrattatiche sembrano dover cedere alla prima raffica di vento einvece vengono su da un ceppo che affonda nella terra ra-dici centenarie. Ma solo quando lei parlava potevo illuder-mi di farlo rivivere, questo paese. Viveva in certe parole, incerti nomi, in certi toni della sua voce, e nei gesti; e se neandava con lei. Era lì, esisteva ai piedi di quel monte bo-scoso, lontano centinaia di chilometri; ma quando Lindausciva dalla mia stanza e io ci ripensavo da solo, queglistessi particolari che prima aiutavano la mia fantasia mi da-vano il senso di una realtà desolata, ferma, impenetrabile.

Col passare dei giorni, la possibilità di chiudere gli oc-chi e di essere improvvisamente solo non era più una con-dizione uniformemente felice. Ci ritrovavo dentro, a volte,un disagio, una pena ancora vaga di cui cercavo invano laragione. Era la vita che entrava nella mia solitudine. A ma-no a mano si trasferiva in essa interamente. Ero nella con-dizione di uno che sia arrivato in un luogo nel quale desi-derava di andare da lungo tempo, o che finalmente si siariunito con una persona amata; e nella gioia di ritrovarsi inquel luogo, o in compagnia di quella persona, comincia avedere, dopo un poco, quasi in trasparenza, la vita con-sueta, che non può mutare mai. Ora bastava l’impossibilitàdi conoscere il paese di Linda, di penetrare la realtà diquesto paese lontano, per generare, nella mia gioia, unsenso di pena. Allora il paese di Linda viveva dentro di me

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non con la ricchezza di boschi e di acqua che il suo dialet-to suggerisce, ma squallido, morto: una desolazione senzacorpo. Dove mai avevo provato queste sensazioni? Quan-do mai avevo sentito la disperazione d’essere fatalmentelegato a misere cose del tutto estranee a me, alla mia vita?Perché non era il dolore di Linda che io sentivo, ma undolore mio, solo mio. Se avessi potuto, sarei partito, sareiandato a vedere quelle quattro case, quel monte, mi sareiliberato da quel senso di pena. Non avrebbe avuto piùnessuna importanza per me, o avrei potuto continuare apensarlo, ma come un luogo beato, come i luoghi creatidalla fantasia, che non hanno in sé il limite duro, insupera-bile della realtà sconosciuta, farci sorgere e tramontare ilsole a mio piacimento.

In quei giorni mi ritrovavo spesso a pensare al vec-chio ortolano che abitava nella rimessa dell’ingegnere Al-merio. Più ci pensavo e più mi convincevo che il paesedel vecchio doveva essere lo stesso paese di Linda. Ed ec-co che il paese morto di Linda, che stava in fondo alla miafantasia come un cumulo di macerie, si animava, si rivela-va, con la stessa precisione e la stessa vivezza del vecchio.Ora non era più il paese che si scopriva a stento attraver-so i discorsi della sorda, ma il paese del vecchio. L’ombradei muri s’allungava sull’erba delle cunette. I rumori dellaelegiaca campagna che mi figuravo prima, ora si sovrap-ponevano, si confondevano come i rumori reali della città;e il paese viveva in questi rumori. Tutti i ricordi di Ultra,della campagna e della gente di Ultra, prendevano nellamemoria la forma, la consistenza del vecchio. Era lui, ilpaese. Era vivo, esisteva. Quando Linda entrava a rattizza-re il fuoco nel caminetto e io fingevo di dormire, certonon sospettava che il suo paese era nei miei occhi chiusipiù vivo forse di quanto non fosse mai stato per lei stessa.

Quando lo vidi la prima volta, a Ultra, in casa del Capi-tano, poteva avere una sessantina d’anni. Era ancora forte

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e vegeto. Una sera il pallone, col quale io, Donato e altriragazzi nostri amici giuocavamo nel cortile, era cadutonell’orto degli Almerio schiantando un tralcio della vitedel pergolato. Riodo le grida di quei ragazzi. La signoraAmelia s’affaccia alla veranda e chiede, con la sua bellavoce un poco velata, cos’è successo. Chi avrebbe detto al-lora che appena due anni più tardi quella voce si sarebbespenta per sempre? – Sta’ attento, Filippo, sta’ attento percarità! – supplicò quando io m’arrampicai al muro che di-vide il cortile dall’orto. Le faccio un cenno con la mano,per tranquillizzarla. Cos’era veramente quel sentimentomisto di ammirazione e di tenerezza che provavo in queltempo per la madre del mio amico Donato? Era solo am-mirazione e devozione sconfinata? E perché non osavoparlarne né con Donato né con mia madre e lo covavonel segreto? In quel tempo l’amore per mia madre rimasecome offuscato da questo sentimento che io cercavo conogni cura di nascondere. La semplicità di modi di mia ma-dre, la sua acutezza di giudizio, il suo piglio un po’ virilem’allontanavano da lei. Non c’era neppure l’ombra, in lei,della femminile dolcezza della signora Amelia. Non avevosimpatia, per mia madre. E lei stessa lo disse un giorno aldottor Vernieri. La mamma e il dottore erano nel salotto, enon s’erano accorti che io ero tornato da scuola. La portadell’andito era socchiusa. Il dottore sedeva davanti allamamma in una poltrona bassa, col mento appoggiato alpomo del bastone. – Lo sento che Filippo non ha simpa-tia per me – diceva la mamma. Mi fermai dietro la portasocchiusa, credendo che la mamma m’avesse sentito, evolesse indirettamente rimproverarmi di qualche cosa; maquando fui certo che diceva sul serio, e parlava così dime credendomi assente, me ne andai in punta di piedi.Me ne andai, ma avrei voluto correre a buttarmi nelle suebraccia e gridarle che quel che aveva detto al dottore nonera vero, che s’ingannava. Per la prima volta avevo co-scienza della mia solitudine e della sua, di qualcosa che ci

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separava. Lei parlava così di me con un estraneo. E iosoffrivo. Improvvisamente, mentre andavo verso la darse-na, mi venne un pensiero, feci una congettura che m’ap-parve subito assurda e cattiva, ma che non respinsi comeavrei dovuto: «Ecco com’è» mi dicevo «ecco com’è. Un pic-colo idillio borghese tra la mamma e il dottor Vernieri».Come se avessi bevuto una droga, tutto divenne lucido efalso. I marinai, a quell’ora, cenavano sul ponte dei basti-menti ancorati. Era quasi estate. C’era un buon odore dizuppa di pesce misto all’odore del mare. I lumi ad acetile-ne rischiaravano le mense, e tutto intorno era già buio.Nella luce delle lampade gli uomini stavano come in unastanza chiusa, parlavano forte. Su un rimorchiatore, stava-no litigando tra loro. Erano voci ben marcate di livornesidi genovesi di napoletani. Mi figurai d’essere in una cittàlontana, e che mia madre soffrisse per la mia lontananza.Pensai di partire, di andarmene davvero. Sono passati de-gli anni prima che imparassi ad amare mia madre comel’amavo da bambino, come l’amo ora. Si sono bruciati,consumati tutti i torbidi pensieri dell’adolescenza…

Vidi sotto di me, dal muro, il piccolo orto. Formavauna specie di terrazza sul fianco della collina. Più sottoc’era il vasto agrumeto dei Catello che occupa tutto ilfondo della valle. Ma il pallone non poteva essere arriva-to fin là. Mentre cercavo di vedere attraverso il pergolatosottostante, una voce si levò di tra le foglie.

– Sta’ lì, ragazzo, che la palla te la riporto io a casa.Sta’ lì! Fermo! Che se scivoli poi ti ripescano col cucchiaio.

Sentii i passi dell’uomo, poi di nuovo la voce:– E un’altra volta state attenti, voialtri, con la vostra

palla, che mi rovinate l’insalata.L’uomo camminava sotto il pergolato, al di là delle fo-

glie della vite, dalle quali saliva la sua voce. Era un dialet-to diverso da quello di Ultra, quello stesso degli uominiche vengono dai paesi boscosi del Centro coi loro magricavallucci pelosi a vendere castagne, nocciole e pale da

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forno; un dialetto che di quei boschi conserva la frescacupezza. Il dialetto di Linda.

Ridiscesi dal muro senza dir nulla, e tornai nel cortile.– Il pallone ce lo riporta un uomo ch’è laggiù – dissi

ai ragazzi.Quando furono bussati al portone tre o quattro colpi

discreti, riprendemmo tutti i nostri posti, divisi in due squa-dre. Infatti era il vecchio. S’affacciò al portello col pallonesotto il braccio, entrò, e stette lì un poco senza preoccu-parsi della nostra impazienza; poi, tenendo il pallone conuna sola mano, lo gettò in mezzo al cortile col gesto d’ungiocatore di bocce. La partita riprese con schiamazzo. Sen-za perdere d’occhio il pallone, io osservavo il vecchio.Non portava il costume sgargiante e sudicio dei venditoridi castagne, ma una lunga casacca nera stretta alla vita, ilgonnellino e le uose pure nere, la camicia e le larghe bra-che di lino bianco. La berretta ripiegata sul capo facevapensare a un elmo e gli conferiva un’aria di misurata fie-rezza. Quando andò via, continuai a sentire la sua presen-za, là sotto il volto del portone, e ripensavo alla sua voce.Non alle parole e al loro senso, ma alla voce ch’era salita ditra le foglie come se mi stesse aspettando, al tono di bene-volo e scherzoso ammonimento e al sorriso con cui s’erafermato a guardarci giuocare. Anche nei giorni seguenti ilvecchio rimase presente alla mia fantasia. Pensavo, chi saperché, a frutti dalla scorza consistente e lucida, di formaben definita, come le castagne o le ghiande. Lo vidi poi al-tre volte, quell’estate, e ogni volta fui colpito da qualcosach’era in lui – qualcosa d’indefinibile che m’attirava comeda bambino m’attiravano le castagne, non per desiderio dimangiarle, ma per sentire il loro peso, la loro forma, lascorza dura e liscia. Pareva che fosse arrivato, invecchian-do, a una perfezione di consistenza e di levigatezza nei ge-sti sicuri e misurati. Di sera, quando i contadini tornavanodal lavoro con la bisaccia in spalla, preceduti dai loro asi-nelli carichi di fasci di legna o d’erba fresca, vedevo spesso

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il vecchio passare davanti alla casa dei miei amici. Aveval’aria di un benestante che fa la sua passeggiatina serale.Una volta lo incontrai dal tabaccaio. Sul banco, davanti alui, c’era un sigaro, una candela stearica avvolta per metàin un pezzo di carta gialla, una scatola di zolfanelli. Si fre-gava lentamente le mani dure e brune come se se le lavas-se, e considerava i suoi acquisti. Prese il sigaro, l’annusò,lo spezzò in due, lo annusò di nuovo, prima un pezzo poil’altro, ne provò la morbidezza tra l’indice e il pollice. Cer-cò un sacchettino di pelle nella tasca del panciotto, sciolsele corregge, mise sul banco le monete, una accanto all’al-tra, premendole forte col pollice. E tutto questo senza fret-ta. Con la stessa calma salutò dando un’occhiata, e andòvia. Una volta lo vidi che portava in mano uno sverzinocon due o tre foglie verdi in cima; e sembrava che non siaccorgesse neppure d’averlo, che gli fosse cresciuto nelpugno, tanta era la sua gravità, in contrasto con quell’attodi portare lo sverzino. Non ricordo d’averlo mai visto fu-mare per istrada. Quando incontrava il Capitano o la si-gnora Amelia, salutava toccandosi rispettosamente la fron-te. Qualche volta il Capitano si fermava a parlare con lui.Noi forestieri non ci salutava. Ma un giorno che la mammateneva per mano la piccola Isabella Monti, si fermò a guar-dar la bambina, e i suoi piccoli occhi brillavano nel visorugoso. Da allora prese a salutare anche la mamma. Forseun anno più tardi (io ero ospite dei Monti essendo lamamma rimasta in città per certe lezioni), una notte, dopoche tutti gli altri furono andati a letto, mi venne la fantasiad’andare a distendermi in cortile su una catasta di tronchidi pioppo che i contadini del Capitano avevano abbarcatocontro il muro dell’orto, proprio davanti alla vecchia rimes-sa. Sdraiato supino con le mani dietro la nuca, su queitronchi, guardavo il cielo lunare, dove appariva appenaqualche stellina. I tronchi erano stati tagliati qualche giornoprima, e mi pareva che l’aria, fin lassù, fosse piena dell’odo-re della loro linfa. Ricostruivo mentalmente una partita a

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dama che Silvio Catello m’aveva vinto, e rifacendo tutte lemosse avevo trovato quella che mi aveva rovinato il giuo-co. A un tratto mi parve di udire due voci poco lontane.Non mi ricordavo più del vecchio ortolano, e mi parevaimpossibile che quelle voci venissero dalla casa disabitatadegli Almerio. Non so più che cosa fantasticai, in quel mo-mento: forse di ladri appiattati nelle stanze cadenti. Non di-stinguevo le parole. Tra le foglie della vite balenava il vagoriflesso di una luce rossastra, fioca, palpitante, come di unlume che sta per spegnersi. Strisciai carponi sui tronchi fi-no al muro – nel mio corpo immobile si desta il ricordodei movimenti cauti, la sensazione del muro freddo e sca-bro sotto il palmo della mano, un odore di terra umida edi legna bruciata che si confondeva con quello dei tronchiancora freschi. Un focherello di sterpi era acceso davantialla porta della rimessa. Il vecchio stava seduto su unapanchetta bassa e lo attizzava oziosamente con un pezzodi fil di ferro ripiegato a uncino. Non certo per scaldarsi,perché era piena estate. Faceva quest’operazione tutto as-sorto nelle parole che diceva, cambiando di volta in voltail tono della voce, così che pareva che due persone parlas-sero. E una di queste due voci era acuta, inquisitrice, l’altrasommessa, quasi supplichevole.

– E tu allora perché non gliel’hai detto, a quei signori,quando te l’hanno chiesto? Perché non gliel’hai detto su-bito?

– E io, cosa ne sapevo, allora? Cosa ne sapevo? Potevoentrare nella tua testa, io? Lo sai come succede: si cominciada un nulla, da un cece! e questo cece diventa grosso comeuna botte e ti prende sotto che nemmeno te ne accorgi.

– No, no e no! Tu e tuo fratello Amedeo lo sapevateche io non volevo farvi del male. Maledetti tu e lui! Lo sa-pevate. Eravate voi che volevate la mia rovina. E venire dame, bussare alla porta della mia casa e dire: «Michele, ab-biamo sbagliato», questo non l’avete mai voluto fare. Laporta della mia casa vi bruciava le mani, le sedie della mia

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casa vi bruciavano il sedere. Eppure c’eravate venuti, a ca-sa mia, quando si trattava di chiedermi in affitto la terra. Ec’eravate venuti per chiedermi di pagare l’anno prossimo,perché avevate avuto troppe spese. Quali spese? Impostori!È il sangue cattivo che avete nelle vene. Maledetti voi e tut-ta la vostra razza. Anche se mi avevate fatto del male, losapevate che io ero pronto a tornare in pace con voi. Forsevi ho denunziato, quando m’avete rubato i buoi dal chiuso?E potevo farlo. Avevano mandato te, che eri il piccolino dicasa. Ma io avrei potuto farvi mettere le manette a tuttiquanti eravate. Perché eravate tutti d’accordo, eravate!

Il dialogo continuava. Le parole d’ira erano pronun-ciate pacatamente, lentamente, come se il vecchio ripor-tasse il discorso di un’altra persona. Io non capivo chifosse “il piccolino di casa” né quale fosse l’oggetto diquella specie di requisitoria. Capivo solo che la voce in-quisitrice era quella del vecchio stesso, forse molto piùgiovane, forse più vecchio di quanto allora non fosse,fuori comunque dal presente, in un tempo di rivendica-zione e di potenza.

– Cattiva volontà! – diceva. – Anche tu sapevi cosa bi-sognava fare per accomodare tutto, senza spingermi aquel passo. Lo sapevi, carogna puzzolente, sterco rinsec-chito al sole! E hai lasciato fare! Hai lasciato fare agli estra-nei, che sono entrati in casa tua, e anche in casa mia, ehan fatto quello che han fatto. È così o no? Ah, è così! Oralo dici? Ma ora è tardi. È tardi per te, e anche per me.

Tacque, e si mise a mugolare piano piano, come seimitasse il vento. Come il vento, il suo mugolio era conti-nuo e modulato. Tacque del tutto, e dopo un poco la vo-ce sommessa disse:

– La disgrazia è come il vento. Quando comincia a sof-fiare l’uomo non può farci nulla.

Riprese a mugolare, e gettò nel fuoco una manciata difoglie umide. Il fumo, denso e acre, m’investì in pieno vi-so, e io feci uno sforzo per non tossire, ma non mi mossi.

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Un sassolino rotolò giù dal muro. Il vecchio levò il viso esi mise a guardare fisso verso di me, poi s’alzò e cammi-nando un po’ curvo, con le mani dietro la schiena, s’avvi-cinò al muro. Alzò di nuovo il viso, pian piano, quasi se-guisse lungo il muro, con l’occhio, la strada che avevafatto il sasso cadendo. Il suo viso, per metà illuminato,palpitava alla fiamma. Pareva immerso nell’acqua. Vedodistintamente, anche ora, se ci ripenso, il suo naso cortoe minuto, la pelle chiazzata di rosso sotto la barba grigia-stra. Ma lui non vedeva me. E io, me ne stavo nascostotra le foglie della vite, tutto raccolto in me stesso, comeun uccello sul punto di frullar via.

Quando lo rividi erano passati quasi due anni. La si-gnora Amelia era morta. Molte cose erano mutate, in casadei miei amici. Anche quell’estate, essendo la mamma ri-masta in città per le lezioni, io ero loro ospite. Occupavola camera di Donato, che faceva un campeggio sulle Alpi.Quando non leggevo, passavo il mio tempo con le ragaz-ze o col Capitano, andavo in campagna con lui, lo aiutavoa far le cartucce. La sera, giuocavamo a dama. Un giorno,mentre stavamo riparando, in cortile, le arnie che doveva-no accogliere i nuovi sciami in primavera, il vecchio s’af-facciò al muro. Mi ero dimenticato completamente di lui.Ma egli salutò anche me come se ci fossimo visti il giornoprima.

– State lavorando? – chiese.– Lavorando! – rispose il Capitano facendo la voce

grossa per dare scherzosamente importanza alla afferma-zione.

– Vedo che vi state guadagnando la giornata – disse ilvecchio, continuando nello scherzo.

Il Capitano s’arrabattava intorno a un chiodo arruggi-nito che non riusciva a tirar via da un’assicella.

– Noi ci guadagnamo la nostra giornata, mentre voistate lì a far nulla tutto il giorno.

– Eh! – disse il vecchio – io ho già fatto la mia parte.

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Poi disse:– Ho parlato con quel tale. Mi ha detto che gli innesti

ve li darà lui, quando sarà tempo. Che non andiate a cer-carli altrove.

Il Capitano, non riuscendo a tirar via il chiodo, buttòin un canto l’assicella. Il vecchio seguiva attentamentetutti i suoi movimenti, e benché avesse lasciato lo scher-zo, continuava a sorridere per suo conto.

– Credete che ci si possa fidare? – chiese il Capitanoriprendendo l’assicella. – E se poi, quando dovrò inne-stare le viti, quel tale non mi dà gli innesti? Allora biso-gnerà che mi accontenti della qualità che trovo qui. Lasolita roba.

– Uva di poveri – disse il vecchio.– Anche voi avete imparato a conoscerla, la gente di

qui, in vent’anni che ci siete, no?– Dodici anni.– Dodici?– Dodici. Ma la gente è la stessa in tutti i paesi. Fa le

cose quando ha interesse a farle.Il Capitano lo guardò. Il vecchio sorrise maliziosamen-

te, poi disse:– Ha un figlio sotto le armi. E per Natale vorrebbe far-

lo venire in licenza. E poi anche qualche altra volta. Se ilCapitano vuole, con un bigliettino a qualche suo amico…

– Ah!Il vecchio rise e si strinse nelle spalle.– Ma io gli innesti glieli voglio pagare. Che non creda…– Questo è a parte.Il vecchio tossì, si chinò, tirò su qualcosa, non senza

fatica. Era un grosso fascio di foglie di cavolo, che posòsul muro.

– E ora ditemi che sono un poltrone – disse riprenden-do lo scherzo di prima. – Queste sono per i vostri conigli.

A un cenno del Capitano, io corsi sotto il muro, e rice-vetti tra le braccia il mazzo di foglie. Erano fresche, pesanti

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e mandavano un forte odore. Stetti lì, col fascio tra le brac-cia, e il vecchio mi guardava.

– Ma chi è questo signorino? – disse rivolgendosi alCapitano.

Pronunciò in un modo curioso la parola “signorino”,ma non c’era neppure in questo niente di poco rispettoso,niente di troppo confidenziale.

Dopo che il Capitano gli ebbe detto il mio nome e lamia qualità di amico e di ospite, il vecchio mi invitò adandare nel suo orto.

– Io dico il mio orto, ma non è mio – mi spiegò. –L’orto è dell’ingegnere, ma finché ci sto, come dovrei di-re? dico: il mio. Non porto via niente a nessuno.

Gli dissi che sarei andato da lui con piacere a vederl’orto.

– E perché non venite ora?– Entro la settimana verrò di certo.– Eh! Io so invece che se non venite ora non verrete

più. Tutti facciamo promesse: farò, andrò, verrò… Ma èdifficile mantenere una promessa, se si lascia passar tem-po. Una piccola cosa, se la facciamo subito, non ci pesa,ma se promettiamo di farla e ci pensiamo, allora diventadifficile…

– Entro la settimana verrò di certo. Ora devo aiutare ilCapitano.

Il vecchio fece un cenno di saluto, e tenendosi aglistaggi della scala, ridiscese e sparì dietro il muro.

Aveva ragione lui: io non mantenni la promessa. Ma laprimavera dell’anno dopo, per le vacanze pasquali, chiesiil nome del vecchio, una sera, e appoggiata al muro lascala a piuoli della legnaia, mi affacciai all’orto, e chiamai:

– Boschino! O Boschino!Quel nome suonava familiare al mio orecchio. Dall’al-

to del muro rivedevo il piccolo orto mezzo nascosto dalpergolato, e sotto, il grande agrumeto dei Catello punteg-giato di frutti maturi. Veniva di là uno scroscio di acqua.

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Quella piccola valle che s’insinua profondamente nel pae-se col suo verde era animata dalla stessa voce che animaanche ora, nel mio ricordo, tutta la campagna di Ultra.Nessuno rispondeva. Chiamai ancora. Poi, siccome dall’al-tra parte del muro c’era pure un’altra scala a piuoli, discesinel piccolo cortile quadrato della rimessa. La porta erasocchiusa. La spinsi e entrai. Di faccia c’era un’altra gran-de porta a due battenti, sormontata da una lunetta a vetri,spalancata su un breve terrapieno limitato da una ringhie-ra di ferro, dal quale si scendeva nell’orto per una strettascala di pietra. Il grande stanzone della rimessa era attra-versato da una corrente d’aria fresca che faceva tremolare,sulla soglia, i fili d’erba secca. Due sedili da giardino, dighisa, con la spalliera di legno rosa dai tarli e dall’umidità,addossati alla parete, ai lati della grande porta, erano in-gombri di pale zappe rastrelli rotoli di corda. In un angoloc’era un grande orcio di terra incrinato dal fondo fino al-l’orlo, dal quale spuntava un gran fascio di canne secchetutte tagliate a punta per esser piantate facilmente in terra.C’era un tavolino appoggiato al muro, una branda, una se-dia, due panchette di ferula, e, dietro la branda, un gran-de scaffale carico di bottiglie boccette ampolle barattolicoperti di polvere e di ragnateli. In uno scomparto stava-no allineati con cura dei sacchetti di sementa.

Cavai di tasca un pacchetto di sigari che avevo com-prato per il vecchio, e lo misi sul tavolino, bene in vista,e senza neppure affacciarmi all’altra porta me ne andaiper la stessa via da dove ero venuto. Partivo appunto lamattina seguente.

Quando tornai a Ultra, alcuni mesi dopo, d’estate, miaffacciai di nuovo al muro e chiamai il vecchio, che si af-facciò alla porta della rimessa e mi fece un cenno di salu-to senza dir nulla. Avevo gridato a gran voce il suo nome,perché mi sentisse dall’orto. Persisteva sorridendo nel suocenno di saluto, che era anche un invito a scendere dallasua parte.

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– Sono qui – disse. – Mi dispiace che non mi abbiatetrovato, l’altra volta. Ero al mercato. Vi ho cercato, il gior-no dopo, ma voi eravate venuto da me proprio all’ultimomomento.

– Al mercato?– Sì, al mercato. Ma non al mercato di Ultra. Al merca-

to di Acquapiana.– Ad Acquapiana?– Sì, ad Acquapiana. Lì non ci sono né aranci né man-

darini né limoni. Si vende bene, al minuto. Un mandarinolo pagano anche tre reali. I mandarini primaticci, s’inten-de, e quelli di fine stagione.

Tutto, nella rimessa, era come quando c’ero stato inprimavera. Prima d’andare nell’orto, vedendo che m’inte-ressavo, il vecchio mi disse che le canne dell’orcio servi-vano per incannare i fagioli rampicanti e le aveva portateda Colgianus l’anno prima. Due ore di strada. Mi chieses’ero mai stato a Colgianus, e io gli dissi anche dove cre-scevano le canne. Poi mi mostrò il contenuto dei sacchet-ti di sementa: ceci fagioli lenticchie… se li versava nelpalmo e li spargeva col pollice. Aprì uno dopo l’altro an-che i sacchetti più piccoli, che erano di carta. Imparai aconoscere i semi dei ravanelli, delle lattughe, delle rape,e in che stagione si seminano. In uno di questi sacchettic’erano dei grossi fagioli bianchi picchiettati di macchiescure come le uova dei carderini.

– Questi – disse – me li ha regalati vostro suocero.– Mio suocero? – chiesi meravigliato.Il vecchio sorrise maliziosamente. Capii che voleva

scherzare, e non replicai. Uscimmo sul terrapieno e scen-demmo nell’orto per la scaletta di pietra. Il vecchio conti-nuava a parlare senza aspettare le mie domande. Mi disseche in primavera aveva seminato delle fave nelle aiuoledel terrapieno e le aveva vendute fresche in baccelli, almercato d’Acquapiana, ricavandone dieci scudi. Non eracerto una somma. Ma quando mi disse che del pacco di

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sigari che gli avevo portato gliene rimanevano ancora tre,capii che per lui il danaro aveva un valore diverso che pernoi, o meglio, più che il danaro, le cose che col danaro siprocurano. Tutto durava di più, nelle sue mani: un chiodoun fuscello un sigaro diventava prezioso.

Gli spiegai che la mia famiglia e la famiglia Monti era-no legate da una vecchia amicizia, che il mio povero bab-bo era stato compagno di studi del Capitano, e io di Do-nato, e che per conseguenza ero amico anche di Maria edi Isabella.

– Meglio così – disse il vecchio. – Meglio che vi cono-sciate bene, se dovete passare assieme tutta la vita.

Trovai necessario dirgli esplicitamente che non c’eranulla tra me e Isabella, che era ancora una bambina, eanch’io ero troppo giovane per pensare a queste cose.Forse, dicendo questo, arrossii; ma il vecchio mi spiegòche non si trattava d’Isabella ma di Maria. Allora il mioimbarazzo cessò, e risi di cuore, perché Maria aveva qual-che anno più di me, e sapevo che Silvio Catello era inna-morato di lei, mentre io non ci avevo mai pensato.

– Somiglia a sua madre – disse il vecchio senza parte-cipare alla mia improvvisa allegria. – Com’era buona! Vela ricordate? Se mi dite che ogni anno venite a Ultra, ve ladovete ricordare.

Non so come avvenisse, ma gli occhi mi si riempironodi lacrime, e non potei più parlare per paura di scoppiarein singhiozzi. Eppure non avevo mai pianto per la mortedella signora Amelia, neanche quando, alla notizia, avevovisto piangere mia madre.

– Quanti buoni consigli mi ha dato! – disse il vecchio. –Veniva qui, ogni tanto. Passava dalla porta però – soggiun-se sorridendo – non dal muro, come fate voialtri ragazzi.

Penso che abbia aggiunto questa spiegazione così ov-via per non darmi a vedere che s’era accorto delle mie la-crime, e lasciarmi il tempo di riprendermi. Poi mi disseche la signora Amelia amava l’orto perché sia l’orto che la

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rimessa, un tempo, avevano appartenuto alla casa, che leiaveva portato in dote al Capitano.

L’orto era quasi interamente occupato dal pergolato edagli alberi: un paio di filari di aranci e mandarini, due li-moni, un fico castagnolo, in un angolo. L’acqua per irri-gare, il vecchio la tirava su a braccia dal pozzo. Anche lepiante bisognava irrigare, se si voleva che portassero amaturazione i frutti. I mandarini erano già grandi comeuna noce, le arance un po’ di più. Di limoni invece, chematurano in varie stagioni, ce n’erano già grandi e gialli.Il vecchio ne staccò uno e me lo diede. Sembrava di cera,e odorava solo a guardarlo.

– È un peccato che lo abbiano venduto – dissi.– Venduto? Ma allora voi non sapete niente.Infatti io non sapevo neppure che l’orto, come diceva

il vecchio, avesse appartenuto un tempo alla casa dei mieiamici.

– Altro che venduto! – disse. – Il padre dell’ingegnereAlmerio, un bel giorno, cosa fa? Chiude con un tramezzol’entrata, e diventa padrone dell’orto e della rimessa.

– Così!– Così. La signora me lo ha raccontato tante volte. La

famiglia della signora ha passato brutti momenti. Non èvergogna dirlo. Tutte le famiglie passano brutti momenti.Poi il vento cambia di nuovo. Questa casa – e indicava lefinestre del Capitano – fu presa da una banca. La signorami ha detto il nome della banca, ma io non me lo ricordo.Forse ora non c’è più, quella banca. In quel tempo, chiera il padrone? La banca. Ma la banca aveva altre cose perla testa. Affari grossi! Cosa gliene importava, alla banca, sel’ingegnere s’era preso l’orto? Il debito era piccolo, e la ca-sa valeva molto di più. Poi passò il tempo, la casa la ri-comprarono i vecchi padroni, ch’erano andati a stare incittà, e dopo l’atto di vendita bisognava andare in curia, sesi voleva riavere l’orto e la rimessa. Il padre dell’ingegnereè morto, sono morti i parenti della signora, e anche lei se

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n’è andata, e le cose stanno ancora così. Non è prudentefar causa all’ingegnere Almerio. Gli avvocati lo temono.Bisognerebbe andare dal Procuratore del Re, e dire: «Illu-strissimo, le cose stanno così e così», spiegargli tutto. Edirgli che gli avvocati sono una lega di birbanti.

– Gli avvocati – riprese dopo un poco a bassa voce –dipendono tutti dal Procuratore del Re, e lui è un uomogiusto. E se sapesse le cose, farebbe giustizia. Io, se fossicome il Capitano, ci andrei, dal Procuratore del Re.

Dal muretto si vedeva, oltre la valle, la pianura fino almare, lo stagno di Santa Gilla, il castello di San Michele, eil profilo delle torri della città. A Est, lontanissimi colli,montagne, e l’altopiano della Giara.

– Questo – disse il vecchio – è un orto da ridere. Nonè nemmeno un vero orto. Ma può essere un orto di si-gnori che vogliono avere un po’ di verdura in casa, unpo’ d’uva, un po’ di mandarini e aranci, qualche limone.La signora diceva sempre: «Ah, Boschino, se avessi ancorail mio orto! Invece non è né mio né tuo. È di uno chenon se ne fa nulla». Ed è vero. Cosa volete che sia, que-st’orto, per l’ingegnere. Lui se ne sta in città. Lui ha in cit-tà la sua bella casa, i suoi affari, i suoi danari… E coi da-nari si fa tutto. Sapete dove li tengono, i danari, questisignori della città? Non sono come noi poveretti che li te-niamo sotto il pagliericcio, quando ne abbiamo. Loro litengono nella banca. E fruttano. È come avere dei poderi.

Si chinò e scelse un cocomero. Prima di staccarlo, cibatté su con le nocche.

– È bianco – disse – ma non ci fate caso. È la qualità.Quando i semi sono neri, è segno ch’è maturo. Quando loaprirete, vedrete che i semi di questo sono neri.

– E voi lo capite dal suono.Fece cenno di sì, gravemente.Pochi giorni dopo tornai ancora da lui e cercai di por-

tare il discorso sull’ingegnere Almerio. Gli chiesi se si fa-ceva vedere spesso, a Ultra.

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– Prima veniva spesso – disse. – Veniva anche con lamadre, la sorella e la cognata. Ma ora si lascia vedere dirado qui. E viene sempre solo. Quando viene, si porta unmazzo di chiavi e gira tutta la casa. Un tempo doveva es-sere una bella casa, messa bene. Ci stavano tutta l’estate.Veniva anche il fratello. Un bell’uomo, grasso. Io mi ricor-do di averli visti qui tutti. Allora non abitavo in questa ca-sa. Stavo in casa di Cristoforo Usùla, dietro il Monte Gra-natico. Quella casa nera, dietro la chiesa di Sant’Ermì. Nonci siete mai passato? Beh, è lo stesso. Avevo ancora i buoi.Io abitavo lì, allora. E vedevo passare davanti alla chiesaquesto branco di signori grassi. Ogni giorno andavano asedersi sotto i pini. E si portavano delle gran borse. Com-pravano uova pollastri frutta… Entravano persino nelle ca-se, per cercare le uova fresche. Sembravano tante anatre,per la strada. Le donne con un sedere così. Lui, quandogli ho parlato la prima volta, pareva la bocca della giusti-zia. Sono passati tanti anni. Ora, quando viene, parla po-co. Tutto il tempo lo passa nella stanza dove tiene lo stru-mento, e suona. Non fa altro che suonare, quando viene.Qualche volta s’affaccia al balcone, là, poi torna dentro, ericomincia. E se ne va senza dir nulla.

Un giorno, tre o quattro anni prima, e forse anche dipiù, perché io ero un bambino, la mamma e la signoraAmelia stavano sedute sulla veranda a lavorare. A un trattos’era sentito un suono, come di chitarra. Dove io fossi, nonme lo ricordo. Forse ero seduto accanto alla mamma, forsegiuocavo con Donato. Non ricordo altro, ma ricordo benis-simo il suono. Le note, staccate le une dalle altre, facevanopensare a palline di cristallo; e non si limitavano a un accor-do sempre ripetuto, ma anzi formavano nuovi accordi, e unaccordo usciva dall’altro, uno si generava dall’altro. A quelsuono la mamma e la signora Amelia avevano alzato la te-sta, erano rimaste in ascolto. Doveva essere una domenicasera, perché non c’erano in casa neppure le serve. Ma nonmi resta altro ricordo sensibile del silenzio della casa se

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non il muro dell’orto, dove sembrava riflettersi. Il suono ve-niva di là dal muro. Ogni tanto la signora Amelia dicevaqualche parola alla mamma, sommessamente. Solo più tardi– ma non saprei dire quando, né in quale occasione – seppiche non si trattava di una grossa chitarra, come avevo cre-duto, ma di un clavicembalo; e più tardi ancora mi parve diriconoscere quegli accordi in una sonata di Scarlatti. Certo èche una sonata di Scarlatti è rimasta unita, nella mia memo-ria, al ricordo del muro in quel silenzioso pomeriggio do-menicale, e dei due verdi diversi della vite e del pesco.

– Io, quando gli ho parlato la prima volta, mi è sem-brato un uomo giusto, sincero – diceva il vecchio.

Gli chiesi se gli avesse fatto qualche torto in seguito.Mi guardò un poco, poi si strinse nelle spalle con un ge-sto rassegnato, e disse:

– Non parliamo di questo.Rientrammo nella rimessa.– Nel mondo – disse a un tratto – c’è gente buona e

cattiva. Per conto mio non so se sono buono o cattivo. Io,per me, non avrei voluto far mai male a nessuno. Se poi èvenuto, non è venuto solo addosso agli altri, il male. Ma ame mi giudicherà Quello che vede tutto e sa tutto. Anchese mi fa marcire come un cane in quel letto non me neimporta nulla. Sconterò in terra il mio purgatorio. Di me,non so nulla. Ma nel mondo c’è gente buona e gente cat-tiva. Io li conosco all’odore, e mi sono sbagliato pochevolte. Mi sono sbagliato coi signori. Quelli sono di altrarazza. Ma ora ho imparato a conoscere anche quelli.Quand’ero giovane ho fatto la pace con quelli che poi mihanno tradito; ma non è che mi sia sbagliato: il cuore melo diceva. Ma io mi dicevo: «Tu, Michele, sei di una razzadura. Solo tuo padre era di un legno diverso dagli altri,nella famiglia». Perché mio padre, nella famiglia, era comeun ramo d’olivo in una pianta d’olivastro. E io mi dicevo:«Tu, Michele, devi essere come lui, non devi avere il cuoredi cinghiale come gli altri parenti. Bisogna avvicinarli,

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questi parenti». Non l’avessi mai fatto! Non era il mio cuo-re duro che aveva parlato prima e mi aveva avvertito, erail cuore giusto. E mio padre, che era giusto, e non volevamale a nessuno, mi aveva sempre detto: «Non cominciaremai per primo a litigare, con quelli lì, ma lasciali andareper la loro strada, e se ti vengono a cercare, a vantare di-ritti su questo e su quello, tu non cedere neanche di unpalmo, stai sicuro nel tuo diritto come se tu fossi in chie-sa». Invece loro non chiedevano niente, volevano solo farla pace con me. Cosa avreste fatto voi? Bisognava star lon-tani da loro come si sta lontani dai cani arrabbiati. Ora loso, ma non serve a nulla.

Intanto ci eravamo seduti, il vecchio sulla branda e iosulla seggiola. Parlammo di Donato. Il vecchio si meravi-gliava che ci volessero tanti anni di studio per diventaremedico, avvocato, ingegnere, o anche semplicemente peravere un impiego. Secondo lui, non doveva esser difficileper il figlio di un medico, di un avvocato, di un ingegne-re imparare la professione del padre. Gli dissi che solo dirado si sceglie la professione del proprio padre, che anzigeneralmente si sceglie una professione diversa.

– Ma poi si guadagnano molti danari? – chiese.– Non sempre – risposi tanto per non apparire igno-

rante anche delle cose della città.– Allora è una specie di commercio, – disse il vecchio

– può andar bene e può andar male.– Presso a poco è come un commercio – risposi.Volle sapere chi amministrava i beni della mia fami-

glia; e si meravigliò quando io gli dissi che non possedia-mo beni, all’infuori della casa che abitiamo in città e dellacasetta di Ultra; che la mamma lavora per vivere.

Il vecchio non capiva. Era difficile spiegargli che lamamma è professoressa di matematica. Gli dissi che inse-gnava a far di conto ai giovani delle scuole superiori.

– Perché, questi giovani, dopo tanti anni che studiano,non sanno neppure far di conto?

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Gli dissi che si trattava di calcoli molto complicati edifficili.

Si fece assorto e non chiese altro. Era già buio, e lo sa-lutai. Come l’altra volta avevo dovuto accettare il limone eil cocomero, non potei rifiutare un cestello di pomodori,che mi porse dal muro.

– Conditeli con olio e sale – disse – senza aceto.Tornai altre volte dal vecchio, quell’estate e dopo. Ma

che cosa so veramente di lui? Isabella cresceva, Maria s’erafatta donna, Donato non era più l’amico inseparabile diun tempo, la tristezza lasciata dalla scomparsa della si-gnora Amelia si dissipava pian piano, e la vita tornava se-rena, benché non avesse più l’incanto degli anni passati,che era l’incanto dell’infanzia e della prima adolescenza;il Capitano, che aveva passato la cinquantina, non era piùl’instancabile cacciatore di un tempo, si appesantiva e fa-ceva i capelli grigi: tutto mutava: solo Boschino restavasempre lo stesso. Il vecchio costume d’orbace e di lino glisi logorava addosso, cadeva in brandelli, veniva sostituitocon abiti smessi del Capitano, ma lui non cambiava mai.Le cose si muovevano intorno a lui, invecchiavano, cre-scevano, e lui solo era fermo. La decrepitezza non lo toc-cava. Credo che, allora, solo questa sua consistenza, que-sta sua incorruttibilità gli facessero avere un posto nelmio spirito e nel paesaggio di Ultra. Quand’ero in città,me ne ricordavo solo raramente; e se qualcuno m’avessechiesto di lui, ben poco avrei saputo rispondere. Ma nonappena ritornavo a Ultra, non appena sentivo l’aria di Ul-tra, ecco che la figura del vecchio si ravvivava. Neancheallora avrei saputo dirne nulla di preciso, se avessi dovutoparlarne, ma forse avrei saputo parlare come lui, gestirecome lui, applicare a qualunque discorso il tono di fami-liarità e di conoscenza, per esempio, con cui parlava dellepiante, del modo di coltivarle, o delle persone, che egliconsiderava, come le piante, soggette a leggi immutabili.Sentivo la concretezza che avevano per lui le cose che lo

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circondavano, o che avevano comunque un rapporto conla sua persona e col suo lavoro, come gli oggetti logoratidalle sue mani, che ogni giorno tornavano agli stessi ge-sti; e non solo gli oggetti necessari al suo lavoro, ma an-che quelli di cui si serviva oziosamente, come un piccolotemperino di madreperla con una lama spezzata, che te-neva in una tasca del panciotto, col quale, quand’era se-duto, tagliava stecchi, li raschiava, li affilava, sia quandoparlava con me, sia quando se ne stava solo davanti alfuoco, la notte, immerso nei suoi soliloqui interminabili.Ma non avrei potuto dire in che cosa consistesse questaconcretezza che io stesso sentivo nelle cose attraverso ilvecchio. Tutti i suoi gesti io potevo immaginarli, sentirlinel mio corpo immobile. Se immaginavo di alzarmi, mivedevo camminare come lui, sedermi come lui sulla spon-da del letto. E non perché i suoi gesti si fossero impressinella mia memoria, ma perché sentivo in lui qualche cosache dava la misura a questi gesti lenti, sempre uguali. Ri-cordo che un giorno, affacciandomi al pozzo sotto il per-golato, e guardando nella gola buia dalla quale ventavaun alito freddo, chiesi:

– È profondo?– Quaranta braccia di corda – rispose.Ora, io non l’avevo mai visto attingere acqua dal poz-

zo, ma se ci pensavo, era come se lo vedessi. Poteva tirarsu venti secchi, trenta (non ce ne vogliono di meno per ir-rigare l’orto nella stagione calda), e le bracciate con cui ti-rava su l’ultimo secchio erano uguali a quelle con cui ave-va tirato su il primo. La misura e la lentezza annullavanola fatica.

Una volta, a Ultra, avevo sentito le serve del Capitanoche ridevano in cucina.

– E tu cosa gli hai risposto? – diceva una.– Io gli ho risposto: «E i vostri parenti cosa ne diran-

no?». E lui: «I miei parenti? Qualche cane avrà rosicchiatole loro ossa, a quest’ora!».

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Questa frase riportata dalle donne era ben lontana dalcarattere e dal tono solito dei discorsi che avevo sentitofare al vecchio; eppure capii che si trattava di lui, che sololui poteva avere parlato così alla serva: una frase qualun-que, con la quale poneva tra sé e quella donna una di-stanza insormontabile. Era il suo modo di trattare gli estra-nei. Certo a me avrebbe risposto ben diversamente, se gliavessi chiesto qualche cosa della sua vita: ma io non ave-vo curiosità, nei suoi riguardi, come se il suo passato nonesistesse. Era come quegli alberi che si conoscono vecchinell’infanzia e vecchi rimangono per tutta la nostra vita, diuna vecchiezza senza età. Per me Boschino era tutto alpresente. Anche quando mi parlava di certi fatti, avvenutitanto tempo prima nel suo lontano paese del Centro, dellasua casa, dove sua moglie era morta poco dopo le nozze,degli alberi che curava anche lì con tanto amore, dei buoiche ogni tanto andava a vendere o a comprare alla fiera, eche poi domava lui stesso per i lavori dei campi. Tuttiquesti fatti io non li ponevo nel passato. Esistevano nelsuo racconto, fuori del tempo, in un fantastico e inaltera-bile presente. Erano lui stesso, come era lui il paese di cuinon mi era mai venuto in mente di chiedergli il nome.Una sola volta, e con un senso acuto di disagio, ebbi lapercezione del tempo passato, quando mi parlò di suopadre, che era stato condannato ingiustamente a due annidi carcere. Ebbi il sospetto assurdo che questo raccontonon si riferisse a suo padre, ma a lui stesso. Che cosa loaveva strappato al suo paese? Che cosa lo aveva portato aUltra? Come aveva perduto tutto ciò che aveva? In un mo-mento mi posi tutte queste domande, e me le spiegai conla sua ipotetica condanna. Poteva aver commesso un de-litto, e forse ora mentiva. Ma il disagio stesso in cui mi mi-se questa ipotesi, mi portò a rigettarla. Trovai più semplicecredere all’ingiusta condanna di suo padre; e Boschinotornò per me quello di prima – quale lo avevo visto la pri-ma volta in casa del Capitano, con la lunga casacca nera

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avvitata e le brache bianche, come doveva essere presso apoco, quando aveva lasciato il suo paese. La causa dellesue disgrazie non me l’aveva mai detta. Forse era super-fluo conoscerla. Io ignoravo tutti i fatti che costituivano,nella sua vita, quella relazione di causa e di effetto che dànon tanto il senso del tempo quanto il senso irrimediabiledel passato. Dimenticai il dubbio momentaneo, che poi ri-tornò sotto altro aspetto quando presi a ripensare a luinella mia solitudine di malato. Ci pensavo come si pensaa un sogno fatto durante la notte e che al mattino sfuggee si cancellerebbe del tutto se non si insistesse a pensarci.Un ricordo incerto, di un fatto che potrebbe anche esseresoltanto una mia fantasia, completamente privo di ognilegame con altri ricordi, con la realtà, o riferirsi a qualchealtra persona: una lettera che Maria, poco dopo la mortedi sua madre, era stata pregata di scrivere da Boschino.La particolarità di questa lettera era che Boschino avevavoluto dettarla lui stesso parola per parola, insistendo per-ché fosse scritta in dialetto. Boschino si rivolgeva al Pro-curatore del Re e chiedeva giustizia. Affermava che uncerto avvocato e un’altra persona, forse l’ingegnere Alme-rio, avevano abusato di una sua procura appropriandosi[di] una grossa somma che gli apparteneva.

Non sapevo neppure io quando ero venuto a cono-scenza di questo fatto, ch’era rimasto isolato, fuori da quelpresente in cui sempre avevo visto Boschino: era il richia-mo di un altro tempo, del tempo reale, su cui nulla hapotere. Altri fatti potevano aggiungersi a questo. E Boschi-no avrebbe preso a vivere staccato da me, animato dalsuo passato sconosciuto, che appariva confusamente e ur-geva come un fuoco nascosto; non sarebbe stato più ilvecchio albero fermo, immutabile, avrebbe riacquistato lasua età, sarebbe invecchiato di colpo.

Da molto tempo io non lo rivedevo. Che n’era statodi lui? Era ancora al mondo? Mi ripetevo spesso questadomanda che prima non m’era venuta neppure in mente.

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Constatai con meraviglia che la mamma non si ricor-dava più di Boschino.

Quella sera stessa scrissi a Maria Monti. La ringraziavoper la lettera d’auguri che avevo ricevuto alcuni giorniprima, le chiedevo notizia di tutti e, come incidentalmen-te, anche del vecchio ortolano degli Almerio.

Caro Filippo,ti rispondo solo ora perché anch’io sono stata a letto qua-si una settimana. Un po’ d’influenza, come ogni anno alprincipio dell’inverno.

Ora che stai meglio, posso dirti che ho pensato sem-pre a te con molta pena, tutto questo tempo. Non mi ave-vi neppure scritto che tra qualche giorno ti leveranno l’in-gessatura: l’ho saputo dal poscritto della signora Bianca.Non puoi immaginare che importanza abbia avuto per mequesta notizia. Non potevo sopportare l’idea di sapertisempre immobile, giorno e notte. Era una cosa ossessio-nante, specialmente quando ho dovuto stare a letto an-ch’io. In certi momenti cercavo di stare anch’io immobilecome te, ma non resistevo più di qualche minuto. Ora so-no felice di sapere che tra qualche giorno sarai libero.

A letto ora c’è Isabella, che ha preso da me l’influenza,poi toccherà al babbo e alla signorina Airoli, come succedesempre in questi casi. Le sole persone che la passeranno li-scia saranno Lavinia e le altre donne di servizio. Quellenon s’ammalano mai. Eppure non devono essere di unarazza diversa dalla nostra. Di Donato non abbiamo notizieda due settimane e più, mentre noi gli abbiamo scrittopuntualmente. Abbiamo saputo da Silvio Catello che stabene e che aveva intenzione di venire a passare il Natalecon noi, quest’anno. Almeno fosse! Ho tanto desiderio distare con lui un poco, di fare qualche passeggiata sui mon-ti, come un tempo. E anche te ho desiderio di rivedere.Vorrei parlare con te di tutto quello che penso. Tu sei piùindulgente di Donato, e quando dico qualche sciocchezza

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non ti arrabbi come fa lui. Mi accontenterei di sentirti par-lare dei film che hai visto in questi ultimi mesi. Ho propriovoglia di sentir la vostra voce, di te e di Donato. Da quan-do è ripartito, tutti i giorni passano uguali, monotoni, equeste serate, coll’avvicinarsi dell’inverno, diventano sem-pre più lunghe. Tu dici che l’inverno qui è bello. Sì, è bel-lo per chi viene dalla città, per chi, dalla città, che presso apoco è sempre la stessa estate e inverno, con un’ora di tre-no si trova in mezzo a questa bella campagna. Ma per chista qui i mutamenti avvengono che nemmeno te n’accorgi,e si arriva con monotonia a questa monotonia dell’inverno.Per me non ha niente di pittoresco e me lo sento dentro.Ma tu, ora che sei diventato una specie di fachiro, non ca-pirai questo – il solito argomento di noialtre ragazze confi-nate in campagna. Sai che ho smesso di leggere e rileggereEstaunié perché la tristezza di quella sua provincia mi os-sessionava? Mi sembra che la monotonia della mia vita, seci penso, possa trasformarsi in una tristezza della stessa na-tura di quella dei personaggi di Estaunié, che avvolge tuttocome una sensibilità dolorosa. Qui ogni più piccolo fatto,ogni oggetto – un cestino da lavoro dimenticato sulla tavo-la – ti dà pena. Non mi vergogno di dirti che il desiderio divederti e di parlare con te si confonde col desiderio disfuggire alla monotonia. Ma vorrei non vedere altre perso-ne all’infuori di te e di Donato. Così ben poco ho da rac-contarti, come vedi. Le piccole cose che accadono tutti igiorni e tutti i giorni si ripetono, interessano così poco an-che me. È vero che tu le vedresti con altri occhi. Ti ricordiquella donna alta, vestita di nero, che veniva a portarci illatte ogni sera con una bella bambina in braccio? Ti ricordicome t’interessavi al suo viso, al suo portamento così com-posto e nobile? Io avevo sempre visto quella donna, ho vi-sto crescere la sua bambina – ma in realtà non mi ero maiaccorta di lei, non m’ero accorta che ci fosse in lei qualco-sa di particolare. E così forse accade per tutti gli aspettidella vita. Io qui, a furia di rivedere sempre le stesse cose,

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le stesse facce, di sentir sempre le stesse voci, divento in-sensibile e ottusa. Non è forse la sorte di tutti quelli che vi-vono qui? Insensibili a tutto quanto li circonda. E questeragazze sempre tese alle più piccole insignificanti novitàche vengon di fuori? È una sorte che mi fa paura. Forsetutte sentono come me, più o meno chiaramente, questopericolo; ma è inutile lottare, come poi sarà inutile, a unacerta età, lottare contro gli anni. Io sento come sfiorisconodentro, queste ragazze. Guarda Ada Catello, Concetta Pa-sca, e tutte le altre qui. Ma per me ora si tratta forse solo diquella debolezza e di quel disgusto che lascia l’influenza.Avrei bisogno di muovermi, di camminare, ma piove sem-pre – e poi, con chi potrei uscire? Io riesco a pensare soloquando mi muovo e cammino. Tutto il contrario di quelche accade a te ora. Raccontami ancora di te. Cosa leggi?Cosa fa la signora Bianca? Mi sembra di vedervi tutti e due,tu a letto, lei seduta a lavorare vicino a te, nella stanza del-l’arcata. Vorrei esserci anch’io! Salutala anche a nome delbabbo e di Isabella. A te molti auguri, ecc. ecc.

Caro Filippo,grazie del libro. Ho cominciato subito a leggerlo, e mi pia-ce molto. È vero, non bisogna lasciarsi influenzare, nei giu-dizi, da uno stato d’animo passeggero. Non bisogna, nonbisognerebbe… Ma io non ho gusto. Un libro m’interessaproprio perché ci ritrovo un mio stato d’animo. E allora?…È giusto quel che dici dell’avvocato Majuri. Mi hai fattomolto ridere. Ridevo tanto che ho dovuto mostrare la lette-ra a Isabella e anche il babbo ha voluto leggerla, ma nonè rimasto, mi pare, molto entusiasta – forse perché anchelui appartiene a quel tipo di lettori, per quel poco che leg-ge. Eppure l’avvocato Majuri è sempre una persona simpa-tica, e quando ti parla di un libro ti fa venir la voglia dileggerlo. Io credo che un tempo leggessero tutti così. Perloro, un libro, per essere un vero libro, deve poter durare,dev’essere un classico. Come nei classici, bisogna poterci

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trovare tutto – quello che essi chiamano la vita, cioè un’ideamorale. Poi esiste, per loro, una seconda categoria di libri,che sono quelli degli scrittori moderni (essi pongono tragli scrittori moderni Zola, Manzoni, Capuana, De Mar-chi…), e in questi ci vogliono vedere la vita così com’è…Sì e no arrivano a D’Annunzio, a France: il resto non esi-ste. Ed è strano vedere come i lettori del tipo del babbo edell’avvocato, persone che noi stimiamo e alle quali chie-deremmo consiglio nei casi più gravi della vita (ma è poivero?…) quando prendono in mano un libro si lascinosempre guidare non dal senso della vita che essi hanno,non dalla esperienza, ma da un concetto astratto che se neson fatti, Majuri dalle sue ideologie democratiche e umani-tarie, e il babbo dal suo patriottismo. Il senso della vita,che pure hanno, la loro esperienza, la loro sensibilità mo-rale più genuina, è estranea alla loro cultura. E dov’è allorache trovano quell’aiuto, quel conforto, quella guida chenoi troviamo proprio nei libri? Dico noi, ma voglio dire tu,Donato, e io solo in quanto mi piace ascoltare quello chevoi dite. Forse non sanno mai uscire dagli affetti familiari,dall’amicizia, dal senso di benessere morale che dà loroquesta vita quieta. Questa è l’idea che me ne son fatta. Madentro la loro testa poi, come li capiranno, i libri? È possi-bile che non riescano a vederci nulla, nulla all’infuori delleidee che hanno già accettato una volta per sempre? Io pen-so che forse, nella solitudine della lettura, si lascino pren-dere anche loro da un’onda d’idee e di sentimenti scono-sciuti, che si abbandonino forse al libro come facciamonoi. Non credi? Staccati dalla lettura, poi, chiuso il libro, ri-tornano quelli di prima, con le loro abitudini e la loro edu-cazione, nelle quali le opinioni più opposte si compongo-no e si placano, proprio perché non sono vere opinionima solo abitudini. È curioso vedere come l’educazione ab-bia tanta importanza per gli uomini della loro età, più cheper noi giovani. Non è la loro educazione che limita le lo-ro letture a un diletto senza conseguenze, che confina tutto

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ciò che è essenziale in un libro nella parte più infantile delloro spirito, dove stanno tutti i loro desideri inconfessati,tutto ciò che essi chiamano sogni? Io, fantasticando perconto mio, penso che proprio questo distingue noi giovani– voialtri giovani – da loro: una maggior fiducia nelle idee.Voi non fate differenza fra i sogni e la realtà. Ti faccio tuttaquesta chiacchierata perché ho avuto una discussione colbabbo proprio su questo argomento, ma non sono riuscitaa spiegarmi, perché io stessa, in fondo, resto al di qua delmistero. Si trattava, non di voi in particolare, ma degli scrit-tori nuovi. Per farti capire il mio stato d’animo: io tengo incamera mia quella riproduzione della natura morta di Mo-randi che mi portasti tu l’anno scorso. Io amo quella ripro-duzione, ma ti confesso che non saprei dire perché; e nonlo so dire quando il babbo me lo chiede. Invece saprei di-re, a modo mio, perché mi piace Renoir, Monet, Cézan-ne… L’ho messa vicino a quelle altre e aspetto, aspettoche a furia di vederla si animi, come un paesaggio dietroun vetro su cui si scioglie il ghiaccio. Un bel giorno vedrò“luce, spazio, volumi”, come dici tu, anche nella naturamorta di Morandi.

Ma l’anno scorso, che gioia, a Venezia, la mostra delTintoretto!

Caro Filippo,per la terza volta mi chiedi notizie di Boschino. M’ero sem-pre dimenticata di risponderti; forse anche perché è penosoparlarne, benché non passi giorno senza che, volere o no,debba occuparmi di lui. È una delle tante cose poco allegredella vita di qui. È un pezzo che non si alza più dalla suabranda. Pare si tratti di una malattia al fegato. Fino a unmese fa si ostinava ad alzarsi. Io e Lavinia gli facevamopromettere di stare a letto, secondo le prescrizioni del me-dico, ma quando ci affacciavamo al muro, Boschino nonc’era. Anche in quelle condizioni continuava il suo piccolocommercio di frutta, che ormai era la sua unica risorsa.

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Comprava la frutta qui e andava a rivenderla ad Acquapia-na. Figurati con che vantaggio! Il carico di frutta era quelloche poteva portarsi sulle spalle, nella sua bisaccia. Primafaceva la strada a piedi, ma poi, coll’aggravarsi del male, fucostretto ad andarci in treno: così il guadagno si riduceva auna lira o due. Quel tanto, del resto, che gli bastava percomprarsi il pane e l’olio per una minestrina, come dicelui. Solo ora si è adattato ad accettare da noi qualche aiuto– da noi perché dice che siamo suoi amici. Le “Damine” leha cacciate via in malo modo dopo una settimana. Laviniaha preso ad assisterlo assiduamente, e tutto ciò che primaveniva dato agli altri poveri, viene convogliato verso la ri-messa. Lavinia mi fa pensare a un grosso uccello che portiai suoi piccolini tutte le briciole che trova. Il babbo, vistoche non voleva accettare l’elemosina dalle “Damine”, hacercato di fargli avere un sussidio dal Comune. Ma non èstato possibile, perché Boschino non è di Ultra. Il Comuneavrebbe tutt’al più potuto pagargli il viaggio fino al suopaese, e lì, con la “carta dei poveri”, avrebbe avuto il sussi-dio o sarebbe stato mandato all’ospedale o in un ospizio.Ma Boschino ha dichiarato che non vuole andar via da Ul-tra. Non vuol saperne né del suo paese né dell’ospizio. E,poveraccio, ha le sue buone ragioni. Mi ha raccontato, co-me in confessione, una lunga storia. Tutta una storia di so-prusi patiti, e di rancori, che lui vorrebbe dimenticare “permorire in pace”. Eppure anche adesso quei vecchi ricordinon gli danno tregua. Non avrei mai immaginato che tantoodio potesse nascondersi sotto un’apparenza così pacifica.Dal giorno che, per mia disgrazia, mi ha raccontato la suastoria (dice di averla raccontata solo a me e alla poveramamma, perché vuole che qualcuno almeno sappia “comesono andate le cose”), con me non parla più d’altro. Se civado con Lavinia, diventa irascibile, si chiude in un silen-zio pieno di dispetto. Allora io, con una scusa, allontanoLavinia per un momento, e lui si rasserena. Gli basta di fa-re anche un breve accenno a quei fatti, e d’assicurarsi che

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sono ben vivi nella mia memoria. Ma se ci vado sola, epuò parlare, allora, senza neppure accorgersene, poveret-to, perde il controllo, e inveisce contro quei parenti che luistesso ha involontariamente rovinati, contro l’avvocato chegli ha fatto fare ciò che non voleva, contro se stesso, con-tro l’ingegnere Almerio. Ti ricordi com’era circospetto,quando parlava dell’ingegnere? Forse lo sarà ancora con glialtri, ma con me ne dice tutto il male che si può dire di unuomo. E tutta questa agitazione mi fa male. Allora, per dueo tre giorni, mi riesce impossibile metter piede nella rimes-sa. Ma soprattutto impreca contro se stesso e contro Dio,che non lo ha illuminato a tempo. Dice che Dio, che hatanto sofferto in terra, doveva insegnare anche a lui a sop-portare in pace tutte le offese. Quando ritorno da lui, dopoqueste sfuriate, ritrovo il Boschino di un tempo, sereno etranquillo. Allora parla dell’odio che lo tormenta. Ne parlacome di una malattia da cui bisogna guarire. Dorme po-chissimo. Dalla mia camera lo sento lamentarsi e borbotta-re tutta la notte. Dopo la scenata contro le povere “Dami-ne” è stato di nuovo malissimo, e il prete gli ha portato laComunione. Poi ha avuto ancora un miglioramento. Io gliho chiesto: «Come state ora, Boschino?». «Male» mi ha rispo-sto lui «proprio male». Gli ho fatto notare ch’era stato moltopeggio pochi giorni prima. «Appunto per questo» ha rispo-sto. «Sto male perché non finisce ancora». Ho detto le solitecose che si dicono in queste circostanze, le solite frasi stu-pide; perché sono convinta anch’io che sarebbe meglioper lui finir di soffrire. Ma anche con un uomo che deside-ra sinceramente la morte non si può ammettere una veritàcosì semplice. È un pensiero che mi tormenta. Mi pare chelui debba accorgersi di ciò che penso veramente. T’imma-gini la solitudine di un uomo che sentisse dire dagli altriuna cosa simile? Anche se sa quello che io penso veramen-te, Boschino è sicuro che io non glielo dirò mai, che anzilo sgriderò ogni volta che lo dirà lui. Così parla della suamorte tranquillamente. Si sente meno solo. «Vedete», mi ha

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detto l’altro giorno «stavo per addormentarmi e mi sonosvegliato di colpo». Dapprima ho creduto che intendesseparlare delle sue coliche epatiche, e gli ho detto che gliavrei portato una pastiglina che lo avrebbe aiutato a dor-mire. «Eh! So io che pastiglina ci vorrebbe» ha detto. «Unadi quelle pastigline che si danno alle volpi in primavera,quando hanno la pelliccia tutta fiorita. Ma io sono una vol-pe tignosa». Come il solito, ho cominciato a sgridarlo. Luiscuoteva la testa senza ribattere alle mie parole. Vorrei po-terti descrivere l’espressione del suo viso tra ironica e di-vertita. Capivo, parlando, che stavo dicendo delle scioc-chezze. Allora lui si è messo a parlarmi dei sonni chefaceva quand’era sano, o meglio del sonno. Era un elogiodel sonno, quello che faceva, e senza nessuna retorica.Disse che dormiva con la porta spalancata, e la luna nongli dava nessun fastidio. Ricordo queste parole: «Il sonnoscende bello, scende sugli occhi, sulla fronte, qui, pianpiano, quel sonno che ristora, ed ecco, mi sembra che mipiantino un coltello qui». Si toccava la fronte, gli occhi, e ilfianco dove il dolore si risvegliava. C’era in lui un tale de-siderio di ristorarsi col sonno che ho fatto una cosa chenon mi accadeva più da moltissimo tempo: ho pregatoperché potesse dormire. Intanto lui continuava a parlare, emi sono accorta che non parlava più del sonno che ci ri-stora ogni notte, ma – come diceva lui – di quello che ciristora da tutti i mali. Così almeno mi parve di capire; per-ché, essendomi distratta per pregare, molte sue parolem’erano sfuggite. Del resto credo che anche lui non faces-se una distinzione molto precisa tra l’uno e l’altro sonno.Diceva che dopo la visita del prete che gli ha portato laComunione stava per addormentarsi tranquillamente mache a un certo punto, un pensiero cattivo l’aveva assalito.«Addio sonno» ha detto. Gli ho detto ch’era bene cercar didimenticare questo pensiero, ma siccome lui scuoteva latesta, e si vedeva che anche in quel momento il molestopensiero non lo lasciava, gli ho chiesto se poteva dirmelo.

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Mi ha detto che pensava a quel maledetto che si gode isuoi danari e quelli dei suoi parenti, mentre lui muore co-me un cane, ridotto a chieder l’elemosina. Poi ha detto:«Che Dio l’uccida!». Dalla violenza con cui ha pronunciatoqueste parole ho capito come un pensiero d’odio possaimpedire a un uomo di morire in pace, e forse anche sem-plicemente di morire. Ma si calmò subito; e ha detto checrede che il Signore non gli farà la grazia di accoglierlo«nel suo ristoro» fino a che non dimenticherà questo pen-siero. «E io come faccio, se non riesco a dimenticarlo? Co-me faccio?» ha detto.

Così quando è calmo. E non so se avrò il coraggio distare ancora a sentirlo. Ora sono tre giorni che non ci va-do. All’infuori del babbo e d’Isabella, che però hanno fi-nito quasi per disinteressarsene, Lavinia è l’unica personache sia riuscita a farsi tollerare. Ma con lei non parla chedel suo male al fegato, oppure le dà consigli sul modo difare il pane, figurati! Con lei è un altro uomo, insomma, èil Boschino esemplare che conoscevamo. Scherza, persi-no. Io ho la disgrazia di godere della sua confidenza.

E ora chiudo questa lunghissima lettera. Tieni presen-te però che non mi sarei tanto dilungata se tu stesso nonavessi insistito e se non avessi, come dici, fin troppo tem-po disponibile…

Caro Filippo,la storia che Linda ti ha raccontato non corrisponde a ve-rità – o meglio risponde a verità solo in parte. Inutile dirtiche Boschino è proprio la persona che Linda non nomi-na, lo scellerato. Se tutto ciò che Linda dice fosse vero,questo vecchio non meriterebbe altro nome. Tu mi fai,del racconto di Linda, una relazione oggettiva; e non ri-esco a capire qual è la tua vera opinione. Ma non vorreiaver contribuito anch’io, parlandoti dei suoi rimorsi, a fartiun’opinione sbagliata. Bisogna che per la verità t’informidi alcuni fatti che certamente ignori. Bada che mi sono

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stati confermati dall’avvocato Majuri, che li ha saputi dal-l’avvocato che trattò la causa intentata da Boschino con-tro i parenti – e che non è altri che Antonino Colliva. Tra-lascio tutti i particolari inutili e mi limito all’essenziale.

Il dissidio nacque molto prima di quel che mostra disapere Linda. Boschino era ancora bambino, quando suopadre cominciò a essere in urto coi fratelli, a causa diuna piccola eredità che essi non volevano riconoscergli.A quanto ho capito, si trattava di un giogo di vecchi buoi.Questi fratelli, zii di Boschino, non avevano nessun dirittoall’eredità, tanto è vero che ricorsero a minacce e finironoper passare alle vie di fatto: più volte picchiarono a san-gue il padre di Boschino. Finché costui, stanco, un giornoreagì e spaccò la testa a uno dei fratelli. Fu denunciato econdannato a due anni di reclusione… Con tutto questo,Boschino dice che suo padre, dopo scontata la pena, nonserbava rancore né contro i fratelli, né contro i testimoniche con le loro deposizioni ambigue avevano confuso leidee dei giudici. (Bada bene che queste sono le testualiparole che traduco dal dialetto. Boschino ha un altissimoconcetto della legge e di chi l’amministra: il Procuratoredel Re è per lui una persona quasi sacra). Il padre di Bo-schino era un uomo mite, che smentiva il suo sangue vio-lento e cruccioso. Nella famiglia, era «come un ramo d’oli-vo in un albero d’olivastro» dice Boschino. Conoscendobene i fratelli, esortò sempre suo figlio a evitare con loroogni relazione, per l’avvenire, anche se avessero mostratodi essergli amici. Boschino invece, dopo la morte del pa-dre, si riconciliò con loro. Aveva comprato un terreno damettere a vigna. Se ho ben capito, una parte di questo ter-reno, che apparteneva a una vedova, era intestato, forseper errore, a uno degli zii, che ne pagava anche le tasse; ela vedova lo rimborsava anno per anno. Da alcuni anniperò, quando Boschino comperò il terreno, questo rim-borso non veniva fatto. Boschino detrasse questa esiguasomma dal prezzo del terreno che pagò alla vedova, per

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versarla allo zio, che già precedentemente s’era impegnatoa far la voltura a suo favore. Lo zio però trascurò, in buo-na o in mala fede, di far la voltura, e i figli, dopo la suamorte, non vollero più sentire ragioni e pretendevanod’impadronirsi della parte intestata a loro, che era al cen-tro del terreno comprato da Boschino. Ci fu una primacausa, perduta, naturalmente, dai cugini. Rinasceva così,sotto altra forma, l’antica contesa, che finì per assumeretutti gli aspetti di quell’altra, perché i cugini non si davanopace, e chiedevano a loro volta un risarcimento dei dannidella causa, riportando anche in ballo la questione dell’an-tica eredità! Qui, nella vicenda, considerata da un punto divista oggettivo c’è un punto oscuro, che solo io forse sonoin grado di spiegare. A un certo punto tutte e due le fa-miglie degli zii si trovano coinvolte nella contesa, mentrela causa era stata fatta contro gli eredi di uno solo di essi.A me è sembrato di capire che Boschino, per metter ter-mine alla cosa, abbia promesso di dare – cioè di regalare– un giogo di buoi al più giovane dei cugini, figlio di Sal-vatore, quello che strepitava più di tutti. È meno strano diquanto può sembrare. Perché Boschino era rimasto vedo-vo, senza figli, e con un patrimonio discreto. Secondo lamia idea, gli altri parenti quando seppero che Boschinoaveva deciso di regalare i buoi al giovane, accamparonoanche loro dei diritti. Allora Boschino ritirò la promessafatta. Tu ti chiederai perché. È molto semplice: Boschino,cedendo i buoi, non intendeva riconoscere il diritto deiparenti sull’antica eredità, ma comporre la lite presente.Intendeva fare un dono al cugino, un dono che fosse an-che il prezzo, il suggello della pace – e che aveva la formadell’antica pretesa dei parenti: un giogo di buoi. Le preteseavanzate dagli altri trasformarono questo giogo di buoinell’oggetto stesso della contesa primitiva, ormai conchiusacon gli zii morti. Si trattava di ammettere il torto del padre,il proprio, di rimangiarsi tutto, di toglier valore alla riconci-liazione avvenuta con quegli altri due che non c’erano più.

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Niente di strano dunque se Boschino non mantiene lapromessa fatta. Poco tempo dopo, il giovine a cui eranostati promessi i buoi, se li prese dal chiuso di nascosto:era un furto, Boschino avrebbe potuto denunciarlo: ma in-vece non lo fece neanche quando si seppe che i buoi era-no stati portati via, in un paese del Gocèano. Minacciò pe-rò di sporgere denunzia, e allora i parenti del ragazzo glipromisero di fargli restituire i buoi o di rimborsarlo inqualche modo, e di pagargliene intanto il fitto. Per moltianni Boschino portò pazienza, e sempre, a chi gli chiede-va dei buoi, diceva di averli dati in affitto al cugino. Costuiperò andava dicendo che non gli avrebbe mai pagato unsoldo, perché, secondo lui, Boschino era sempre debitoreverso suo padre per via della vecchia eredità, e per giuntacominciò a metterlo in ridicolo. I parenti lo secondavano,e siccome Boschino, con la sua tolleranza, s’era fatto la fa-ma di un buono a nulla, tutti credevano di poter approfit-tare della sua roba. Allora gli fu consigliato di rivolgersi aun avvocato. Antonino Colliva, che cominciava in queltempo la sua carriera lavorando in provincia, gli offrì dipatrocinarlo. Esaminata la questione gli assicurò che sa-rebbe riuscito a fargli restituire i buoi senza ricorrere alTribunale. Era quel che desiderava Boschino. L’avvocato sifa fare una procura generale, interroga i testimoni, minac-cia di denunciare il giovane per furto. I parenti protesta-no, affermano di aver avuto in affitto i buoi, si compro-mettono tutti quanti. Era lo scopo dell’avvocato, cheintenta subito la causa per la restituzione dei buoi e per ilpagamento del fitto di tutti quegli anni. Boschino ormaidoveva accettare ciò che l’avvocato imponeva, e forse nonsi rendeva conto delle precise richieste del suo difensore.La causa è vinta. Capitale, interessi, spese della causa,onorario degli avvocati raggiungono una cifra incredibil-mente alta. La roba dei disgraziati parenti viene messa al-l’asta. Non so dirti come si siano trovati tutti implicati nellacausa, ma è un fatto che si rovinarono tutti per cercare di

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salvarne uno. Questa fu una vera disgrazia anche per Bo-schino. Ormai non poteva più vivere nel suo paese. Inca-ricò l’avvocato di vendere anche la sua roba e se n’andòcol carro e i buoi. Si diresse verso Parte d’Ispi, dove lochiamava il ricordo della moglie, che era di Mamusa. E sistabilì qui a Ultra.

Ti ho inflitto questa lunga storia (ci ho messo una sera-ta intera a scriverla, e per molti giorni ci ho pensato) per-ché mi dispiacerebbe che tu giudicassi duramente Boschi-no. Bada che anch’io sono stata tentata di farlo – ancheper liberarmi dalla pena delle sue sofferenze, per poterpensare che, in certo senso, se le fosse meritate. Diffida diquesta tentazione. Io sono certa che se noi pure lo giudi-chiamo male, lo teniamo inchiodato alle sue sofferenze.Le colpe che lui stesso si attribuisce quando si dispera,sono immaginarie, o per lo meno ingigantite dalla suaimmaginazione. Noi dobbiamo vederci più chiaro di lui,ricondurlo a quell’esemplare equilibrio che era la sua ca-ratteristica di un tempo, quando l’abbiamo conosciuto.Altrimenti non s’addormenterà mai in pace. Tu sai che iocredo al Paradiso, all’Inferno e anche al Purgatorio, anchese questo fa sorridere Donato e forse anche te, no? Io cicredo. Credo a questa distinzione tra i Santi e i Reprobi.Facciamo in modo che quest’uomo muoia in grazia diDio. Lui che sconta qui, in terra, il suo Purgatorio. Io nonne dubito; purché muoia in grazia di Dio, questo tormen-to è già una purificazione. E se muore in grazia di Dio,continuerà a purificarsi nel nostro spirito, perché nel no-stro spirito è il Purgatorio delle anime. Nel nostro spiritoritrovano la coerenza loro più profonda, fino a che sicompongono in pace. E che cosa sono le preghiere, senon lo sforzo che noi facciamo per aiutarli a chiarirsi? Noipensiamo con loro, facciamo nostri i loro dubbi, soffria-mo dei loro errori, e stiamo saldi senza lasciarci prenderedalla passione, con gli occhi fermi alla perfetta misura, al-la perfetta coerenza.

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Io vorrei che tu cercassi di convincere quella buonadonna sorda che avete in casa, a fare una scappata a Ultra(naturalmente noi le pagheremmo il viaggio), dopo averlespiegato che la responsabilità di Boschino è minima. Biso-gnerebbe ragionare con lei, farle lasciare ogni astio. Nellamia lettera puoi trovare tutti gli elementi per dimostrarleche fu l’avvocato a far gl’interessi del suo cliente al di làdelle intenzioni del cliente stesso. Boschino ha perdutotutto, come gli altri, né più né meno: perché non ha maiavuto un soldo della somma riscossa dall’avvocato.

Tutto, ora, è in mano dell’ingegnere Almerio, che nedispone a suo piacimento. Si tratta di un centomila lirecirca, e forse più. Non c’è niente da fare, ormai, perchésono troppi anni che l’ingegnere ha una procura generale– nulla da fare, voglio dire, per un ricupero, anche par-ziale, della somma – ma si può cercar di ottenere una ri-conciliazione tra questi due superstiti. Ci ho pensato tan-to in tutti questi giorni, e ora che sono arrivata a questaconclusione, mi sento meno sola di prima. Ho bisogno diqualche cosa che non sia soltanto l’affetto del babbo ed’Isabella, che questa mia continua tensione logora. Nonbisognerebbe vivere sempre con le persone a cui si vuolbene. Come tutto si riduce, si semplifica, si immiserisce!Sono fatta male, e ho paura, ho paura di lasciarmi pren-dere da questa sensazione. Forse per questo mi fa paurala solitudine di Boschino. Pensa a quel che t’ho detto, erispondimi subito in proposito. L’idea è meno assurda diquel che può sembrare. Certo, se il babbo lo sapesse, miprenderebbe per pazza. Ma non è necessario spiegargli lavera ragione della venuta di Linda.

Caro Filippo,al tuo posto non sarei così sicura della inutilità del tentativo.Prova a parlare con quella donna. Anch’io non riesco facil-mente a parlare con i contadini. Preferisco lasciar parlare

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loro, e stare ad ascoltarli. Noi ci ostiniamo a vederli soltantocome paesaggio. Perché dobbiamo pensare che non possa-no capire ciò che pensiamo noi? Credi che mio padre siamolto più vicino di loro ai nostri pensieri? Eppure fra noi elui non sentiamo questo fatto come una barriera insormon-tabile. Tu andavi a caccia con lui, facevi con lui delle partitea dama… Queste cose uniscono come il linguaggio, diven-tano linguaggio. Se Linda viene in camera tua e s’inginoc-chia vicino al tuo letto per parlarti di Sigalesa, e accendenel caminetto il fuoco con gesti che ti fanno pensare allagente di quel paesino sconosciuto, se lei porta così franca-mente tutte le sue abitudini nella tua casa, e prende incon-sciamente certe intonazioni di voce di tua madre – lei sor-da! – non credi di esserle diventato, senza accorgertene,abbastanza familiare anche tu? È gente che s’affeziona, cheha bisogno di noi, e che noi a torto ignoriamo. Sì, quandole parlerai, sentirai dapprima un tono falso, nella tua voce,ma poi le parlerai con naturalezza; e lei se n’accorgerà. Tunon puoi sapere di che risorse dispone questa donna percapirti. Essa ha fiducia in te; e tu te ne puoi valere: lo fai afin di bene. Se poi proprio non ti senti di vincere questa in-tima resistenza, o se credi che la tua parola sarebbe ineffi-cace, prega tua madre di parlargliene lei, di convincerla.Son certa che la signora Bianca capirà subito.

Se questa donna verrà qui, senza far finta di nulla, e sisiederà vicino alla branda di Boschino, come una personaamica, Boschino non la respingerà; si sentirà pacificatocon quel mondo lontano, sommerso, col quale ha perdutoi contatti, con quel mondo che per lui è di irreparabilecolpa. Lo sentirà di nuovo vicino, potrà parlargli, ascoltar-lo. Sarà di nuovo un mondo vivo. E liberatosi dal suo tor-mento, si riconcilierà con quel vecchio mondo perduto eriacquistato, si riconcilierà con se stesso. Che importanzaavrà allora per lui l’ingegnere Almerio e tutte le altre mise-rie? Ah Filippo, cosa devo fare per convincerti?

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No, vedi, ti sbagli. Sai bene del resto che per me an-dare in Chiesa è una cosa molto delicata. Io credo all’In-ferno, al Purgatorio, al Paradiso, credo nella Vita Eterna,credo nel Padre, nel Figliolo e nello Spirito Santo, credonella Resurrezione della Carne. Eppure per me andare inChiesa non è una cosa semplice. Credo nelle stesse cosein cui credono gli altri che ci vanno, ma ci credo diversa-mente. Non dico più profondamente, ma diversamente. Cicredo pensandoci. E ci sono dei momenti in cui questo midà una gioia intensa. Ho l’impressione precisa che solo untravaglio quasi infinito del pensiero può essere arrivato alsigillo del dogma. Tu sbagli, se credi che si possa arrivarea credere queste cose solo attraverso il rapimento asceti-co, l’annullamento del pensiero. Tu dici che per passaredal campo della filosofia a quello della teologia, bisognaattraversare un abisso incolmabile nelle condizioni diDante che viene rapito dall’aquila. A me non pare. Certo èche molti potrebbero rimproverarmi di vedere nei lorodogmi delle allegorie che adombrano verità che tu chia-meresti filosofiche. Ma io credo che, in fondo a ogni dog-ma, il mistero sia uno solo. E questo mistero lo accettatanto il filosofo quanto il teologo, alla stessa maniera, ecosì anche tutti gli uomini che vivono e operano; perchéin fondo a ogni minimo atto morale c’è questo mistero.

Caro Filippo,non devi affatto preoccuparti delle difficoltà che potrebbeopporre mio padre o la signorina Airoli – cosa, in questomomento, non del tutto impossibile. Questi sono dettagliche risolveremo all’ultimo momento. C’è qui Ada Catelloche vorrebbe rimediare, per quanto è in lei, al male chehanno causato le “Damine” a Boschino con la loro man-canza di tatto. Non dirmi che difendo Boschino oltre il ra-gionevole. Boschino le ha cacciate via, ma non aveva poitutti i torti.

Ada ci aiuterebbe ospitando in casa sua Linda.

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E sì! purtroppo. «I vecchi hanno le loro idee», dici tu.Intanto il babbo non può dirsi vecchio, a sessant’anni, epoi non ha affatto le sue idee, in questo caso, ma quelledella signorina Airoli, che, da governante d’Isabella, è di-ventata governante di tutti noi, compreso il babbo. Checosa ci starebbe a fare, se no? Il suo compito sarebbe fini-to da un pezzo.

Il babbo – cioè la signorina Airoli – ha una concezio-ne della carità non molto diversa da quella delle povere“Damine” scacciate da Boschino. Il babbo, per esempio,non approva che io gli porti dei sigari, perché “non sonostrettamente necessari”. Si deve dare a un povero solo ciòche è “strettamente necessario”. Il povero pesa sulla socie-tà, no? e la società non è tenuta ad alimentare “i vizi” dichi pesa su di lei. Mio padre, che regalava i sigari a Bo-schino quando Boschino non viveva d’elemosina, ora nonvuole più dargliene. E non pensare che sia avarizia. Nean-che per sogno. È una questione di principio. O per lo me-no non è avarizia personale, ma avarizia… sociale. PerchéBoschino, per quanto avidissimo di fumare, consuma unmezzo toscano la settimana! Lo accende, tira due o treboccate, e lo spegne. (A me ha raccontato che ha presol’abitudine di fumare perché l’odore del sigaro piaceva asua moglie, quand’era incinta). A questo proposito si è ve-nuto creando in casa nostra, nei riguardi di Boschino, unostato d’animo particolare. La signorina Airoli, un bel gior-no, ha cominciato a dire che Lavinia esagera nelle premu-re per Boschino. Nota che, parlando di Lavinia, la signori-na allude indirettamente a me… Dice, per esempio, cheper una donna, è una cosa indecente scavalcare il murocome fa Lavinia (anch’io faccio lo stesso). Lavinia scavalcail muro anche quando ci sono in cortile gli operai chespaccano la legna o fanno qualche altro lavoro. È veroche gli operai spesso ridacchiano e lanciano frizzi, ma leinon se ne cura. Mostra le gambe con assoluta purezza dicuore. Può darsi che anch’io le mostri, ma non ci penso, e

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così credo faccia anche Lavinia. Mattina e sera porta unpiatto di minestra al vecchio: lo fa col mio permesso, mala signorina trova che non possiamo prendere Boschino anostro carico, e quando può dà il piatto di minestra riser-vato a Boschino, a qualche altro povero che viene a bus-sare al portone. Lavinia trova il modo di far saltar fuori lostesso un altro piatto di minestra. È evidente che Laviniaruba questo secondo piatto di minestra… E via di questopasso. L’altro giorno Lavinia, con una faccia tosta incredi-bile, ha chiesto al babbo, mentre eravamo a tavola, il per-messo di portare a Boschino un cuscino di lana. Senzaaspettare la risposta del babbo, la signorina è intervenutadicendo che se ne guardasse bene. Lavinia l’ha ascoltatasenza batter ciglio, poi, di nascosto, ha levato un po’ di la-na da tutti i cuscini di casa, compresi quelli della signori-na, e ne ha fatto uno per il vecchio. È venuta a mostrar-melo prima di portarglielo. Le “Damine”, prima di farsicacciar via, gli avevano fornito due paia di lenzuola di telagrezza, che ora, a furia d’esser lavate, sono diventate can-dide. È Lavinia che pensa a tenergliele sempre pulite. Cosìora Boschino ha un letto comodo e decente. E mi ringra-zia ogni volta, come se fosse merito mio. Il mio unico me-rito è quello di prendere le parti di Lavinia in casa. Ma tut-to questo è mortificante e io non ne posso più.

Vorrei poter parlare con Donato e con te, a lungo…

Caro Filippo,grazie dei consigli. Ma è difficile riuscire a sentirsi distac-cati da queste cose, che sono piccole, ma che occupanogran parte della mia giornata. La mia vita è un’altra? La vitainteriore? Parole! La vita è quella che è. Se io fossi venutaqui come istitutrice, se fossi in casa d’estranei, sì che po-trei fare come tu dici. Ma sono in casa mia. Tu sai che iopenso a fatica e difficilmente riesco a dimenticare ciò chemi sta intorno. Anche quando leggo, quando vado a pas-seggio con Isabella e fantastico per mio conto fingendo di

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ascoltare quello che lei mi dice, queste piccole miserie miperseguitano e immagino di parlarne con te. A proposito,Donato mi ha scritto una lunga lettera saggia, anche luimi dà dei consigli molto più saggi dei tuoi, quei consigliche solo un estraneo può dare. Io lo sento estraneo, inquesta lettera. Perché mi vuole ragionevole oltre il possibi-le? Perché io dovrei sopportare tutto, tutto, accettare tutto?Io non incolpo né il babbo né la sorte di esser costretta apassar qui la mia giovinezza. Al babbo piace questa vita.L’ha imposta alla mamma, che pure, di stare a Ultra, nonvoleva saperne, e ora l’impone a me e a Isabella. Dun-que… Ma Donato è quello che meno ne soffre. Anzi cre-do che, in fondo, sia un vantaggio per lui che il babbonon si sia stabilito in città. Se il babbo si fosse stabilito aC., per esempio, Donato sarebbe stato legato a C., avrebbefrequentato il liceo di C., l’università di C. Invece così è li-bero di stare dove più gli piace, ed è bene che sia così.Ora, io ammetto che Donato giustifichi il babbo, ma per-ché non si rende conto anche della situazione in cui mitrovo io, e in cui si troverà Isabella, tra qualche anno? Cre-di che basti un viaggio ogni tanto? Può, un viaggio, com-pensare la solitudine di mesi e mesi e mesi, la mancanzadi amici? Tu, come amico, sei un’eccezione, e poi non seisolo un amico. Per me sei come Donato, e capisci tantecose. Parlo di quegli amici che servono quasi a comunica-re col mondo senza mescolarsi col mondo. Io credo che ilbabbo stesso risenta di questo isolamento. Se si sentissemeno isolato, si sorveglierebbe di più. Questi signori dicampagna finiscono per essere come dei piccoli re, abitua-ti a vivere in mezzo a persone di cui non temono il giudi-zio, o che credono devote senza limiti. Per il babbo, la so-cietà si riduce all’avvocato Majuri e a qualche altro amico:gli altri non contano. Ma questi amici non sono più la so-cietà, la società che è pronta a giudicare, di fronte ad essabisogna mantenere una certa linea di vita. Questi pochiamici, che non sono amici come sei tu per me (ma hanno

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mai sentito, i nostri padri, l’amicizia come la sentiamonoi?…), non servono neppure di tramite per comunicarecol mondo. Sono tutti chiusi nello stesso isolamento. Que-sto credo che sia uno dei sintomi più terribili della vec-chiaia che s’avvicina. E noi, cosa dobbiamo fare, io e Isa-bella? Sacrificarci per chi? Per il babbo? O piuttosto per ibegli occhi della signorina Airoli? Non dirmi che sono ge-losa, come mi ha scritto Donato. La situazione assurda chesi è venuta creando, è la stessa, presso a poco, di quellache si crea in casa del vecchio principe Bolkonski, inGuerra e Pace. Ricordi? Non c’è assolutamente niente tra ilbabbo e la signorina, niente all’infuori di una simpatia, daparte del babbo, che passa certi limiti. E certi limiti bastapassarli; poi non c’è più misura. Non bisogna giudicare ilproprio padre? Se non lo giudicassi mi sembrerebbe di te-nerlo nel conto di un irresponsabile. È questo che nonvuol capire Donato, che “facendo finta di non vedere” siviene a dare un giudizio ancor più crudele. Donato mirimprovera di aver poca simpatia per il babbo – poca sim-patia, poca indulgenza; e forse è vero. Ma io non voglioperdermi in questo labirinto di ombre. L’unica cosa che miaiuti, in questa atmosfera morbida ed equivoca, è propriola chiarezza. Si potrà essere indulgenti poi. Oh! ce ne saràtanto bisogno. Ma non si deve cominciare col rinunciare acapire. Donato è molto ottimista. Lui dice che il babbo èsempre stato una persona così corretta, così aliena da ognitentazione che non c’è da allarmarsi per così poco. Io nonsono tranquilla. Ti ricordi quello che ti scrissi tanto tempofa sul modo di leggere del babbo e di tanti altri come lui?Limitano la lettura a un diletto. Le idee dei libri le accetta-no e le lasciano vivere solo in quella parte del loro spiritoin cui stanno le loro aspirazioni irraggiungibili, le rivinciteimpossibili, la carriera brillante che non hanno fatto, la ric-chezza che non hanno raggiunto, la libertà: il mondo deisogni insomma, dei romanzi. Là, in quel mondo, dev’esse-re fiorita, come un rametto di biancospino, la simpatia del

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babbo per la signorina Airoli. E là sarebbe rimasta, in quelmondo che tutta un’educazione e una tradizione segregaseveramente dalla vita – come ci saranno rimaste tante al-tre piccole tentazioni, passioni, simpatie – se il babbo nonvivesse ormai da troppi anni completamente isolato. Lasua abitudine a controllarsi si è rilassata come un vecchiotessuto. Come spiegheresti altrimenti che non gli venganeppure il sospetto che io vedo, che Isabella vedrà anchelei, presto o tardi? Se il babbo fosse meno legato alla parti-colare educazione della sua epoca, se avesse più persona-lità, agirebbe con più franchezza. Ma probabilmente lui,che fa alla governante la corte in modo così ridicolo,creando in casa una situazione insostenibile, forse con laconvinzione che nessuno capisca né veda, come se agissenel segreto della sua immaginazione, non ammetterebbeneppure lontanamente l’idea di sposarla o di vivere libera-mente con lei. Non ammetterebbe di poter tradire lamamma. Così siamo in questa strana situazione: non c’ènulla, tra il babbo e la signorina Airoli, eppure io mi sentoa disagio, e soffro. Gli estranei parleranno della cosa, nonci vedranno chiaro e chi sa mai cosa finiranno per inventa-re. Solo un amico potrebbe parlar al babbo francamente,aprirgli gli occhi; oppure Donato. Perché un pericolo c’è.Non si tratta solo del babbo: c’è anche un’altra personache capisce benissimo l’importanza che ha assunto, e giàne approfitta, e ne approfitterà sempre di più, in seguito, echi sa fino a che punto.

Eccoti spiegata la ragione della mia sofferenza. Manon ci far troppo caso. Forse tutto si dissiperebbe se tupotessi venire un poco qui da noi.

Caro Filippo,forse sarebbe meglio, come tu dici, che io non mi ostinassia ricercare la causa della mia inquietudine nelle persone enelle situazioni intorno a me. Forse è vero, come tu dici,che la tristezza e la gioia non hanno ragione alcuna, che si

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devono “romanticamente accettare come sentimenti assolu-ti”. Ma io soffro. Ecco tutto. Soffro. Dunque non parliamopiù di me. Scusami, e non parliamo più di me.

Caro Filippo,cerchiamo di restare fedeli ai patti. E non parliamo più dime.

Mi chiedi spiegazioni sulle “Damine”. Mi pareva diavertene già parlato. Come avrai capito, le “Damine”, sonoragazze di ogni ceto che, guidate da alcune signore delpaese, assistono i poveri. Non essendovi qui un ospizio,portano in casa delle persone bisognose buoni per il paneil latte lo zucchero il caffè, ecc. ecc. Il Comune e altri enti, eanche i privati, sono tassati per una certa somma. Fannoquello che possono. Ada Catello è una delle più assidue eattive “Damine”, ma riconosce che lo scatto di Boschino èpiù che scusabile. Boschino era molto diffidente fin daprincipio, a dir la verità. Non appena seppero che s’era am-malato e che non aveva di che vivere, le “Damine” capita-rono anche da lui, gli portarono latte e uova. Boschino nonha mai bevuto latte in vita sua, e le uova non può prender-le per via del fegato. Ma le “Damine” rimasero molto mera-vigliate vedendo che un povero diavolo, che non aveva diche sfamarsi, rifiutava il latte e le uova. Ci volle tutta la pa-zienza di Ada Catello per far capire la ragione alle sue com-pagne. Quando Boschino si aggravò, e il prete doveva ve-nire a portargli l’Estrema Unzione, le “Damine” prepararonosul tavolino appoggiato al muro una specie di altare conceri e immagini. Sul muro affumicato attaccarono una pagi-na di giornale con quattro puntine da disegno, e nel mezzoun Crocefisso di metallo nichelato. Dopo che Boschino fuunto, si portarono via le immagini e i ceri e lasciarono soloil Crocefisso. Una volta fattoci l’occhio, quel Crocefisso lu-cente non dava noia. Era un buon Crocefisso come tanti al-tri. Eppure quel segno aveva portato qualcosa di nuovo – oera entrato con qualcosa di nuovo nella rimessa. Si sentiva

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pesare quel senso di rassegnazione senza scampo che pre-cede la morte e accompagna tutte quelle cerimonie. Il pretese n’era andato, le immagini e i ceri erano stati portati via,ma quell’oggetto lucente ricordava l’odore dell’incenso e lesalmodie funebri. Boschino era diventato taciturno. E tene-va gli occhi chiusi, forse anche perché – ci ho ripensato poi– nella posizione in cui si trovava, da qualunque parteguardasse, aveva negli occhi quel luccichio. Anche al lumedella candela, il Crocefisso luccicava. Un giorno vado e lotrovo rasserenato. Stava già meglio da qualche giorno. Sem-brava rinato. Mi mostrò, con la mano, il giornale appuntatoal muro: le “Damine” erano venute per i buoni, e, visto chestava meglio, avevano portato via il Crocefisso… Inutilecommentare, vero? Questione di sensibilità.

Sul giornale ingiallito dal fumo era rimasta l’improntadel Crocefisso. Si notava appena; ma io e Boschino la ve-devamo bene. «Meglio così» disse. «Adesso sì che è Lui!».

Quando tornarono il giorno dopo, uscendo di Chie-sa, le “Damine” andarono da Boschino in gruppo, tre oquattro accompagnate da due studenti di C. loro amici.Sai come accade: quando si è in compagnia si chiacchiera,si ride. Così entrarono nella rimessa. I giovanotti feceroqualche apprezzamento spiritoso sui sedili da giardinoche erano appoggiati alla parete. Le ragazze risero. A uncerto punto Boschino si è alzato a sedere sul letto e li hacacciati via. Ada, che era nel gruppo, mi ha detto che so-no sfilati tutti in silenzio davanti al suo letto e se ne sonoandati senza una parola di protesta. Il putiferio è successodopo, quando la cosa è stata riferita alle altre “Damine” ealle anziane. Naturalmente non hanno più rimesso piededa Boschino e lo hanno “abbandonato alla sua sorte”, omeglio, a Lavinia, che sembra esserne felice.

Mio caro Filippo,grazie della lunga e cara lettera. Ma credo che sia propriomeglio non toccare più quell’argomento.

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Mi scrivi che, tra qualche giorno, ti leveranno l’inges-satura. Speriamo che non rimandino anche questa volta.Dunque potremo vederti presto. Di venire io in città èmeglio non parlarne neppure, per ora. La signorina Airoliandrà a passar le feste a casa sua e porterà con sé Isabel-la. Io devo restare qui col babbo e badare alla casa. Rin-grazia dunque la signora Bianca per l’invito. Sarà, spero,per un’altra volta. Tu invece dovresti cercare di venir quial più presto. Perché non con la signora Bianca a passarele feste con noi, che siamo così soli? È il babbo che m’in-carica di dirtelo, e non per ricambiare l’invito fatto a me –bada bene! – ma perché desidera avervi qui per un poco.Oh, che bella cosa sarebbe!

Non so precisamente quando sia stata discussa la se-conda causa. Lo chiederò a Boschino. Quella lettera alProcuratore del Re me la dettò appunto Boschino stesso.Io la spedii di nascosto contro il parere del babbo e diDonato. Avevano ragione loro, però. Sarebbe stato meglionon farne nulla. Boschino fu chiamato dal cav. D., e inter-rogato. Neppure una parola di quel che disse fu creduta.Lo presero per pazzo, e lo ammonirono, minacciandoloanche di denunciarlo per calunnia! Ma, a parte questo,credo che ci sia poco da fare. L’ingegnere ha in mano laprocura generale da troppo tempo, ormai.

E tua madre, non potrebbe tentar lei di convincereLinda?

Mi sono chiesto quale differenza passa tra la cono-scenza che ho di me stesso e la conoscenza che ho diquest’uomo che si chiama Michele Boschino.

Ho pensato a lungo a questo.Che valore hanno i fatti della sua vita? Io li conosco,

questi fatti, o perché lui stesso me li ha raccontati, o per-ché li ha raccontati a Maria, e poi Maria a me; o da altri.Se accetto questi fatti come se fossero la sua vita stessa, edo a questi fatti un valore assoluto (così, in fondo, li ho

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accettati finora) la sua vita si delinea chiarissima nel miospirito, coerente. Ciò che ho saputo da Maria, che non na-sconde la sua simpatia per Boschino, non è in contraddi-zione, anzi coincide con ciò che ho saputo da Linda chelo odia da quando era bambina. Perché non è la simpatiao l’odio che conta, ma i fatti, che si vestono di un senti-mento particolare che io ho di lui, che non è né simpatiané odio, ma che non so definire. È il sentimento che si pro-va tornando, con gli occhi, su un oggetto, su un luogo dalungo tempo familiare. I due racconti si confondono, o me-glio coincidono in un punto che è fuori di essi. Allo stessomodo, dalle descrizioni di Linda e dal ricordo delle descri-zioni di Boschino è risultato questo paese di Sigalesa, con-creto, visibile, noto come può esserlo Ultra, per esempio.

Se quest’idea che io mi son fatto di Boschino coincidecol Boschino reale, io conosco quest’uomo meglio di mestesso.

Ma è assurdo. Non si conoscono così gli uomini reali,ma i personaggi dei romanzi.

C’è dunque, dietro quest’uomo che io vedo muoversi,che sento parlare, che vive con me ormai tutte le ore, edel quale conosco il tormento fino a soffrirne, c’è un altrouomo vero, sconosciuto, impenetrabile alla mia coscien-za, un’inviolabile realtà morale.

Prima di risolvere questo dubbio non posso parlare aLinda di andare a Ultra, e cercare di convincerla. Ma con-vincerla a che? Ad andar lì, sedersi accanto alla branda diBoschino, ad operare con la sua sola presenza quella ri-conciliazione miracolosa che Maria vagheggia? Non è as-surdo pensarlo? Maria ci crede. Forse ciò che a me pareassurdo è una cosa di semplicità estrema. Ma io non par-lerò, per ora. Linda non sa dove Boschino si trovi, non miha neppure chiesto dove io l’ho conosciuto. Linda credeche tutti debbano conoscere le persone che conosce lei.Non ha dubbi su questo punto.

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Eppure la tentazione di dire a Linda «Boschino è a Ul-tra, bisogna che tu ci vada», è stata forte anche ieri. La ten-tazione di liberarmi dal dubbio senza risolverlo, la tenta-zione di affidarmi a questa realtà che io conosco, e chepotrebbe essere nient’altro che un’astrazione fantastica.

Ma non si deve. Non si deve.Se Boschino è l’uomo che io conosco, Maria ha ragio-

ne. Mi sono convinto di questo. Tutto è chiaro e moltosemplice, in realtà. Il Boschino che io conosco non cercaaltro che pace, non vuole sentire, ora che sta per lasciarla,la sua vita spezzata dall’odio, per lasciarla non aspetta al-tro che questo pacifico commiato. Ma se Boschino è soloin parte l’uomo che io conosco, che Maria conosce (se giàsi sta addormentando nell’oblio dell’antico odio, dell’anti-co dolore…) io potrei, facendo andare a Ultra Linda, ri-svegliare ancora una volta l’odio nel suo animo, chi sa,portarlo a una disperazione senza rimedio.

Allora Maria stessa lo vedrebbe inchiodato per sem-pre a questa disperazione.

E se anche Maria si fosse fatta di lui un’idea falsa? Ioe Maria potremmo avere di Boschino la stessa idea falsa.I nostri pensieri s’incontrano spesso, e tale incontrarsi ci dàla certezza della loro giustezza. La sua logica è così similealla mia che spesso mi disturba, e la contraddico, contrad-dicendo così me stesso. Ma quando il ragionamento logi-co, che è sempre del resto una giustificazione a posteriori,non appare, e lei parla e dice le cose con immediatezza,come le sente, e dice ciò che io stesso penso, questo fattomi dà una gioia intensa, una specie di ebbrezza. Così ac-cade anche a lei. Questo ci unisce e forse accadrà un gior-no ciò che Boschino mi disse tanti anni fa. Ma questa veri-tà che a un tratto appare a noi due, non potrebbe essereun’illusione comune? Nel caso di Boschino, per esempio.

Ho osservato che quando si pensa in solitudine il no-stro pensiero, anche sotto la veste di ragionamento logico,

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ha una forza fantastica che raramente poi riusciamo a tra-sfondere nelle parole, che sono destinate agli altri. Il valo-re del nostro pensare allora non sta nella sua verità soltan-to, o meglio nella sua verità razionale, ma anche nella suaforza fantastica. Noi veramente non facciamo allora questadistinzione. L’incanto affascinante, quasi ipnotico del no-stro solitario pensare, sta appunto nel fatto che noi nonfacciamo nessuna distinzione tra ragione e fantasia. È l’as-senza assoluta del dubbio. Quando il dubbio nasce, cessal’incanto. Il dubbio ci viene posto, anche nella solitudine– come da un’altra persona. Noi non siamo più soli. Daquel momento il nostro non è più un monologo ma undialogo. Il ragionamento più rigoroso e severo conserva ilsapore, quasi il sospetto del dubbio della solitudine; e noisiamo portati a cercare materialmente un interlocutore, achiamare dal segreto di un’altra coscienza la confermadella giustezza del nostro ragionamento.

Ma spesso non si tratta di ragionamento. Spesso nonsi tratta che di un pensare fantasticato, solitario; anchequando lo esprimiamo ad altri. Ed ecco che improvvisa-mente le nostre fantasie, o anche le nostre sensazioni ac-quistano il valore della realtà stessa solo perché le ritro-viamo in altri.

E così potrebbe essere accaduto a me e a Maria perBoschino. A parte la simpatia che Maria può sentire perlui, diversa dal sentimento particolare che io sento, c’èqualche cosa di comune nell’immagine che ce ne siamfatta – e più di qualche cosa, anzi: c’è un uomo, che ci dàl’illusione – forse solo l’illusione – di soffrire e vivere perconto suo, staccato da noi. Eppure esso è trasparente,chiaro, fa parte della nostra stessa coscienza.

Ma forse noi non sappiamo niente di lui. Forse dietrol’immagine chiara e trasparente c’è ancora un’altra realtàsconosciuta, impenetrabile.

Quando, l’altro giorno, stavo per parlare a Linda e pre-garla di andare a Ultra, una sorta di terrore mi ha trattenuto.

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Non uno scrupolo soltanto, ma proprio una sorta di terro-re. Non era la voce sommessa che dice: «Tu devi» oppure«Tu non devi», ma una voce di terrore. Ho tanto pensato aquesto uomo che ho terrore di ritrovare, ora, un voltosconosciuto. Ho terrore della tempesta di odio che po-trebbe scatenarsi da questa coscienza nascosta, come sedovesse travolgere me pure. Ho terrore di tutta la realtàche non conosco, nascosta nelle persone, nelle cose cheho intorno, nel mio stesso corpo – che potrebbe a untratto sostituirsi alla realtà che conosco e alla quale mi af-fido. Se veramente così fosse, io non potrei più alzareneanche una mano, non potrei fare il minimo gesto. Nonpotrei più – se non per un atto di disperazione o di fede.

Questo è certo: io posso agire, nei riguardi di Boschi-no, solo se lo considero come me stesso, se agisco versodi lui come potrei agire verso me stesso – e sicuro che ciòche faccio è bene.

Perché Maria attribuisce tanta importanza al Crocefissoche le “Damine” hanno portato via a Boschino? Il Croce-fisso ha lasciato l’impronta nel foglio di giornale ingiallitodal fumo. È un fatto della cui realtà non si può dubitare,eppure, per se stesso, non ha alcuna importanza. È unsimbolo? Se la conoscenza che Maria ha di Boschino fossepiù profonda di quella che appare dalle sue parole, unaconoscenza inesprimibile, di una realtà forse intuita perun istante e rimasta come ricordo e si fosse espressa inquesto simbolo?

Eppure non è solo un simbolo. Come se Boschino fos-se qui, davanti a me, io lo vedo e lo sento nell’atto di dire:«Meglio così. Adesso sì che è Lui». La luce, l’aria, il fumofaranno scomparire quel segno dalla carta ingiallita; il ri-cordo non si cancellerà mai. Boschino vive in quell’atto,come negli altri della sua vita che io conosco. E tutti que-sti atti diversi sono così puri e uniti in un carattere solo,che non v’è nessuna differenza, per me, tra quelli che co-nosco direttamente e quelli che conosco indirettamente.

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Lo vedo e lo sento pronunciare quelle parole a propositodell’impronta del Crocefisso, come lo vedo e lo sento at-tingere l’acqua del pozzo sotto il pergolato o attizzare ilfuoco con un ferro ricurvo, la notte che lo spiavo dal mu-ro, e dire al suo interlocutore immaginario: «Ma ora è tar-di, tardi! Tardi per te e anche per me!» e mugolare pianpiano imitando il vento.

Anche oggi mi sembra di conoscere Ultra meglio diogni altro, meglio dei nostri parenti, per esempio, che ra-ramente da Ultra si sono allontanati, i cugini e gli zii dellamamma, gente di campagna avvezza alle strade che porta-no ai loro poderi, agli itinerari obbligati della partita dicaccia grossa. Da ragazzo io m’accorgevo che i parenti diUltra non sapevano nulla delle loro montagne, e me nestupivo. Quei monti, quelle vallate, quelle gole boscosenon avevano in realtà alcuna importanza per loro, comeper i cittadini non hanno importanza molte strade e lepiazze della città – a meno che, allontanandosene essi, lanostalgia non li riporti a ripensarle e vagheggiarle. A furiadi viverci in mezzo, i nostri parenti quasi non vedono più iloro monti. Era un poco così anche per Maria e Donato,allora, e fui io che comunicai ai miei amici la passione del-le lunghe passeggiate e delle escursioni sui monti. Veden-doci partire coi nostri sacchi in spalla, tutti ci guardavanocon meraviglia, non arrivando a immaginarsi che gusto cifosse a far tanta strada sotto il sole senza uno scopo preci-so. Capivano che si potesse andare a consumare una me-renda in qualche bel sito ombroso, in riva a un torrente,ma le nostre lunghe marce non le capivano. Uscivamo dicasa all’alba, quando gli zii andavano a far la posta alletortore nelle aie dei dintorni, e tornavamo dopo il tramon-to impolverati, stanchi, abbronzati dal sole. Quando dice-vo dove eravamo stati, io e i miei amici, i cugini di miamadre scoppiavano a ridere. Non credevano che avessimopotuto fare tanta strada in una sola giornata. A sentir loro,non c’eravamo allontanati dalla pineta del Comune. Io non

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sapevo i nomi di quelle vallate e di quei monti, e non cicuravamo di consultare la carta del Touring che il Capita-no metteva nella tasca esterna del sacco di Donato; ma ap-punto per questo, dalle descrizioni precise che ne facevo,si dovevano convincere che c’eravamo stati veramente.Come ultima prova, mi chiedevano delle sorgenti. Se sipossono inventare, più o meno, le valli, che si somiglianotutte, perché dietro il Pulva non ci sono altro che boschi dilecci, fino al mare, non è possibile inventarsi le sorgenti,alcune delle quali, in quella stagione erano secche. Essi leconoscevano per sentito dire, per esserci passati vicino.Noi le scoprivamo tutte infallibilmente. Ci guidava la con-formazione stessa del terreno, i giunchi o le felci. I nomidei luoghi li imparavo dopo esserci stato, e rimangononella mia memoria anche ora che da tempo non faccio piùgite sui monti di Parte d’Ispi, uniti a quel profilo di montiche fin da bambino la mamma m’indicava quando mi con-duceva a passeggio sui bastioni o al castello di San Miche-le. M’indicava Ultra, dove aveva passato la sua fanciullez-za: una piccola macchia cenerognola sul fianco del MontePulva, tra i boschi. Ma quei nomi non avevano per i nostriparenti di Ultra, e forse nemmeno per Maria e Donato, lostesso significato che avevano per me. Per me Giarrana si-gnificava vento, spazio, e non in senso materiale soltanto;significava desiderio di altri paesi, desiderio di andarmenee poi desiderio di ritornare. Lontano da casa non ho maiamato nessun altro luogo come Giarrana. E tornandovi viriportavo quell’amore, non il ricordo della nostalgia, maproprio tutta la mia nostalgia, come il desiderio di possede-re meglio quel luogo, nel quale mi trovavo. Forse perchédi rado potevo starmene lì solo, e le persone che m’accom-pagnavano, che pure erano sempre Maria e Donato, nonpotevano sentire quel che io sentivo. Invano tante volte hotentato di comunicare ai miei amici questo sentimento.Neanche la mamma, che pure ama tanto Ultra, è mai riusci-ta a capirlo. Lei ama Ultra, il paese, la campagna, i ricordi

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della sua infanzia, e non può capire il mio amore perquella terrazza di roccia sulla costa del monte, il mio desi-derio di star lì seduto per ore e ore. Forse anche l’amoreper i luoghi è solitario e inesprimibile come l’amore per lepersone. Quando mi trovavo lontano da Ultra e dalla cittàe da mia madre (come per esempio l’inverno che passai aP.) in quell’intenso desiderio di ritornare s’apriva il ricordodella pianura che si vede dalla terrazza di roccia di Giarra-na. Quei villaggi rari e distanti visibili solo in certe ore delgiorno, di lassù, secondo che batte la luce, o di sera, comefuochi di accampamenti. Quei torrenti ciottolosi e secchi lamaggior parte dell’anno. Quei boschi di querce, tra i quali,a tratti, appaiono mandorleti e vigne. Quelle strade. Queisentieri. Oltre i boschi, terre seminate, simili alle striscie dicolore diverso che si vedono in mare dalla riva, quando ti-ra libeccio; poi, un colore uniforme, un turchino cupo ten-dente al viola: e questo colore uniforme – nient’altro chequesto colore – sollevarsi, profilarsi in colline, distendersinel preciso e diritto altopiano della Giara. Nella pianura cisono sì altri colli, più vicini, ma a me parevano di naturadel tutto diversa da quelli. Ci sentivo attorno l’aria. Potevoimmaginare o vedere un volo d’uccelli girarci attorno, spa-rire e ricomparire; la tortuosità dei sentieri sotto gli alberi,le siepi, le tane dei conigli, i cespugli. I colli all’orizzonteinvece erano posti al di là di quel limite entro il quale isensi operano concordi e dell’oggetto ti danno la cognizio-ne completa, immediata.

L’oggetto è davanti a te, esiste. Esistono gli alberi, gliuccelli, i sentieri, gli sterpi. Non un oggetto solo, o meglionessun oggetto isolato, ma tanti infiniti oggetti tutti assie-me, uniti in una forma e in un nome vago. Non un sasso,non un rametto secco o una foglia, ma un colle. E nessu-no dei tuoi sensi in particolare sente il colle, ma tutto iltuo essere sente l’esistenza del colle. Invece quegli altricolli lontani, solo lo sguardo li individua, solo lo sguardone intuisce la presenza, come in sogno, a volte, s’intuisce

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la presenza di una persona che non si riesce ad avvertirese non come un’ombra. Ripensando alla terrazza di Giar-rana, ora che sono qui immobile, in questo letto, mi paredi poter ritrovare tutta la mia vita in quel ricordo. E anchequesto sentimento è solitario, incomunicabile. Mia madreentra nella stanza, si siede accanto a me. Non sa quelloche penso, che sento. È inutile tentare di dirglielo, se leistessa non lo capisce, se dal profondo del suo essere nonè mosso lo stesso sentimento, lo stesso pensiero. Entroquell’orizzonte, nell’amore di quel luogo che è soltantomio, in quel bisogno di andarmene, di ritornare, nella no-stalgia che continuava a durare anche quando ero tornato,tutta la mia vita si delimita, si sistema, diventa comprensi-bile come se la leggessi narrata in un libro. Ma se perdo ilsenso di questo orizzonte, di questa prospettiva, e cercodi guardarla più da vicino, ogni fatto si riempie di altri fat-ti, all’infinito, è un brulichio infinito.

C’è stato un tempo in cui i fatti le persone i luoghierano come addormentati, in confronto a oggi. Io li ani-mavo di significazioni fantastiche. Li isolavo. Ne facevodei simboli. Le cose, la natura erano impenetrabili, perme, in quel tempo, nella loro essenza. Né io avevo il so-spetto, se non lontanissimo, inconscio, di questa impene-trabilità. Mi accontentavo di fermare su un oggetto, su unapersona, su un luogo le mie fantasie e i miei pensieri; co-me si àncora una nave al fondo sconosciuto del mare. Iostesso non riconoscerei ora una roccia, sopra Giarrana,che a un certo punto del sentiero sembrava, vista dal bas-so, un uomo seduto, un marinaio con un largo cappello ditela cerata dalla falda rialzata sulla fronte, come usano ipescatori del Baltico. A Maria invece sembrava una donnachina sul suo bambino. Salendo ancora, non era più pos-sibile riconoscere in quella roccia alcuna forma umana.Era una roccia come tutte le altre. Ma accanto ve n’erauna che per un foro che l’attraversava faceva pensare auno di quegli anelli che vi sono nelle darsene per legarci

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le gomene. E io mettevo in relazione la figura del mari-naio seduto con quell’anello, e pensavo che, un tempo,solo la cima di quei monti emergeva dal mare, e forsequalche ciclopica nave era stata ormeggiata a quell’anello.A ogni richiamo, la mia fantasia era pronta a lasciarsi atti-rare entro queste teorie d’immagini. Forse così accadevaanche a Maria e a Donato. Forse – e per me certamente –il piacere di quelle corse sui monti ci veniva in gran partedalla convinzione che ciascuno di noi aveva di poter fan-tasticare per proprio conto nulla lasciando trasparire delleproprie fantasie, come ora io faccio con la mamma; e par-lare di tutt’altro. Eravamo in quell’età in cui si ha semprepaura di dire e di pensare cose che agli altri possano sem-brare puerili. Parlavamo invece di cose che non avevanoper noi alcun vero interesse. Per me, almeno, era così. Maqualunque cosa dicessimo, eravamo animati dalla forza diquelle fantasie segrete. Quando tacevamo, marciavamotutti e tre con tanto impegno che la fatica non si facevasentire. Ci prendeva una specie di ebbrezza silenziosa, co-me appunto accade quando si cammina fantasticando. Fa-cevamo chilometri e chilometri senza accorgercene.

Come mi sembrava docile, allora, la natura! Come tut-to sembrava dover secondare, non dico la mia volontà,ma ogni moto del mio desiderio! Quando, per la festa diSanta Barbara, i razzi s’alzavano altissimi sulla cupola del-la chiesa, ero certo che non avrebbero scoppiato, solo cheio, chiudendo gli occhi, lo avessi voluto. Se non lo vole-vo, se non cedevo a questa tentazione, era per un vagoistintivo timore di penetrare un segreto della vita che do-veva restare ancora inviolato: il limite della mia volontà,del mio desiderio, la distanza infinita tra il mondo dellemie fantasie e quello della realtà, tanto più grande diquella che mi separava dal razzo che scoppiava nel cielo.L’adolescenza doveva ancora durare.

L’ultima volta che sono partito da Ultra, mentre anda-vo alla stazione con la carrozza del Capitano (e Maria era

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con me) ho visto una scala appoggiata a una catasta di le-gna. La catasta era in cima a un colle, e dietro il colle erail cielo chiaro. Saranno state le cinque del pomeriggio: iltreno della sera parte appunto verso le cinque e mezzo.La scala era precisa, sottile: un segno. Io non potevo ri-muoverla, non potevo spezzare un rametto di quella cata-sta di legna.

Eppure ora questo pensiero non mi dà più tristezza.

Ho pensato che forse ogni tanto Boschino bestemmia.Ho diritto di pensare questo?Quando qualche estraneo (noi non eravamo tra gli

estranei) gli chiedeva notizia dei parenti, rispondeva, chequalche cane randagio doveva averne rosicchiato le ossagià da molto tempo. Ma questa non è ancora una bestem-mia.

I contadini di Parte d’Ispi e del Centro non bestemmia-no mai. Imprecano. Ma l’imprecazione raggiunge talvoltauna violenza tale che la bestemmia del becero toscano ènulla, in confronto. La bestemmia del becero è abituale;l’imprecazione del contadino del Centro o di Parte d’Ispiè ragionata, terribile.

So positivamente che Boschino imprecava. Non po-trebbe essersi generata dall’imprecazione una bestemmia,che, una volta concepita, ritorna sempre, che egli ripetesempre?

Forse non ho diritto di pensare questo, anzi certamen-te non ne ho diritto.

In questo momento me ne assumo io stesso il peso ela conseguenza. Sono io stesso Michele Boschino. Sono io,disteso, non qui, nella mia camera, nel mio letto, ma sullabranda della rimessa. Ritrovo in me l’abitudine antica e te-nace. Se il secchio non viene su facilmente dal pozzo, sela zappa s’impiglia in una radice, e sono costretto a fareuno sforzo che fiacca la mia resistenza fatta di lentezza edi misura, se la porta non cede alla spinta della mia mano,

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ecco che la parola terribile si formula nel mio spirito epende minacciosa. Ed ecco che il secchio sale docile dalpozzo, la zappa si libera dalla radice, la porta si apre. Lecose si fanno sommesse e silenziose intorno a me in unvuoto di vertigine. Ma non è questa improvvisa e timorosadocilità delle cose che m’induce in tentazione e neppurel’ebbrezza leggera che mi dà, come un bicchier di vino adigiuno. È un bisogno di rivolta inutile e triste, una finzio-ne di calma, come chi, nella mente, rinuncia alla ragionepiù profonda e misteriosa dell’esistenza, ed esca e s’affaccial di fuori di se stesso. Per un attimo ho di nuovo trent’an-ni. Sono giovane. Tutto è ancora da cominciare. Se riuscis-si a trattenere la forza illusoria di quell’attimo, a fissarequel patto sacrilego, sentirei ancora il telaio battere sotto illoggiato, e la voce di Severina. Conterei mentalmente ildanaro nascosto sotto un mattone a piè del letto. Sapreiquanti scudi v’aggiungerei al nuovo raccolto, quanti me nemancano per comprare un altro pezzo di terra. I miei pen-sieri sarebbero pieni e fecondi. Avrei negli occhi chiusi ilgrano seminato, la fioritura dei mandorli, la vigna da arareal tempo giusto. E un bambino dovrebbe nascermi e io loaspetterei come si aspetta la maturazione di un frutto.

Invece tutto è fermo, tutto è arido, la leggera ebbrez-za se ne va e il presente si distende ancora intorno a mecome un campo pieno di sassi. E io sono un albero sradi-cato e non ancora morto.

Non ho nessun diritto di pensar questo di lui. Eppurein questo pensiero vive e si agita. Il suo tormento di oranon è più oscuro. I fatti della sua vita non sono più cosìesasperatamente coerenti, ma legati da altra forza, che an-cora dura. Non è il Boschino di Maria, il Boschino cheparla, e forse neppure il Boschino che monologa e mugo-la vicino al fuoco. È quello e questo, è anche un Boschi-no finora sconosciuto e solitario e disperato come solo sipuò esser nella solitudine della bestemmia. Il Boschino

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che accenna a Maria il segno lasciato dal Crocefisso sullacarta ingiallita, è un aspetto di Boschino, un modo di essere.Lo vedo salire dal profondo della solitudine e del tormen-to, comporsi davanti a lei, farsi chiaro, dimentico di tutti isuoi dolori. L’odio ribolle lontano – lontano dalle sue paro-le, lontano dai suoi gesti brevi, forse anche lontano dallesue stesse parole di odio, che in presenza a Maria suonanoa vuoto. Somiglia a me quando sono in presenza a Maria,questo vecchio che come me ama la purezza di Maria. EMaria non potrà sospettare mai l’esistenza di questo be-stemmiatore, lì, accanto a lei, separato da lei da un velo.

Mi sono alzato la prima volta venerdì, a mezzogiorno.Ho fatto subito qualche passo fino alla poltrona ac-

canto alla finestra appoggiandomi al dottor Vernieri. Tuttobene. In quindici giorni sarò a posto, potrò camminaresenza stampelle.

Fuori pioveva. Niente è cambiato. Ho rivisto dalla fi-nestra i giardini pubblici, i viali del Terrapieno, la chiesadi San Lucifero, la darsena. Sono debole come se avessifatto una lunga malattia, ma il dottore dice che le forzetorneranno presto, benché mi stanchi anche a star sedutoin poltrona e il letto m’attiri. Se non ci fosse la mamma aincitarmi, me ne starei a letto tutto il giorno. L’unico sollie-vo è di poter tenere, stando a letto, le gambe un pocopiegate. Piegate ma ferme. Gli esercizi che il medico miha ordinato mi costano una gran fatica. E non vorrei vedernessuno. Invece, dopo che siamo andati in carrozza alSantuario di Bonaria (ieri il tempo si è rimesso, verso sera)si è sparsa la voce tra i conoscenti, e sono cominciate letelefonate e le visite. Quando la mamma non è in casa, la-scio che il telefono suoni. Linda non c’è pericolo che ri-sponda. Ma non è più così piacevole come prima starsenea letto soli, a leggere. Non ho più voglia di leggere né dipensare. Ho voglia di uscire. Ma solo. Invece la mammavuole accompagnarmi sempre.

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Stamattina, mentre la mamma era a scuola, ho telefo-nato per un tassì e sono andato all’Università. Tutto chiu-so: le vacanze sono già cominciate da due giorni. Semprein tassì sono andato a Buoncammino, poi sono sceso peril viale Fra Ignazio fino alla darsena. Ho avuto la tentazio-ne di fare una passeggiata in barca, ma ci ho rinunciatoper non farmi aiutare dal meccanico a scendere, e pernon usare le stampelle in mezzo alla gente.

Sono passato davanti allo studio di Antonino Colliva,che un tempo lavorava col babbo.

Nel pomeriggio è venuto Alberto, che non si facevavivo da una settimana. Abbiamo passato il pomeriggio achiacchierare di cose insignificanti. E mi ha salvato dallealtre visite, che sono rimaste in salotto con la mamma.

Ho telefonato all’avvocato Colliva. Si ricorda benissi-mo di Boschino, ma non ha potuto darmi, lì per lì, i datiche gli chiedevo. Ha fissato un appuntamento per sabatoprossimo.

Maria mi scrive che, ora che ho parlato con l’avvocato,non dovrei aver più nessuna difficoltà a pregare Linda diandare a Ultra. Maria rimane sempre della sua idea: far in-contrare Boschino e Linda, e non cercar nemmeno di sa-pere che cosa l’ingegnere Almerio ha fatto dei danari diBoschino. Ma io ormai mi sono messo per questa strada,che ritengo l’unica da seguire. Mandando a Ultra Linda ioimpongo a Boschino qualche cosa che forse gli ripugna;cercando di farlo reintegrare nei suoi diritti allevierò i suoidisagi materiali, e gli darò la sensazione che qualcuno sioccupa di lui.

È impressionante constatare come Boschino si manife-sti a tutti nello stesso modo. Antonino Colliva me ne par-lava come se lo avesse lasciato ieri. A me pareva di veder-lo seduto davanti a lui, nello studio, col costume bianco e

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nero che poi, col passare degli anni, è stato sostituito convecchi abiti del Capitano. Ma quest’impressione è duratasolo un momento. Non riesco più a vederlo con la chia-rezza di prima, da quando non sono più a letto. Immobi-le, immaginavo di muovermi come lui, di gestire, di parla-re come lui. Ora il mio corpo si rianima come una piantadopo la pioggia; e vuol vivere, e riempie tutto di sé.

Colliva mi diceva dell’ostinazione di Boschino. Mi di-ceva che ha dovuto lottare per fare i suoi interessi. Nonha parlato di Boschino con quel disprezzo che hanno peri contadini gli avvocati che sono stati costretti a lavorarein provincia per tanti anni. Non lo ha trattato neppure daignorante. Secondo lui l’ostinazione di Boschino dipendedal fatto che Boschino ha una concezione preistorica deldiritto. Gli ho chiesto se non sarebbe stato il caso di se-condare il più possibile quest’idea preistorica del diritto,senza portare la contesa alle conseguenze estreme, cioèalla espropriazione delle povere case e dei piccoli poderidei parenti, all’asta, ecc. ecc. È rimasto un poco soprapen-siero, poi ha detto che in teoria forse si poteva. In teoria,non in pratica. Perché non bisognava dimenticare che luis’era trovato di fronte a un altro avvocato, il quale erapronto a valersi d’ogni sua debolezza. Cercare di venire apatti e accontentarsi di vincer la causa solo a mezzo, sa-rebbe stato lo stesso che riconoscere l’insufficienza deipropri argomenti. – Il diritto e la morale – ha soggiunto –non sempre coincidono. La morale, l’umanità, la tolleran-za, la pietà, tutti questi elementi che possono aiutare a ri-solvere una contesa nell’ambito della famiglia, non hannopiù voce quando ci s’affida al codice. L’ideale del codicesarebbe l’annullamento del codice stesso, nelle cause civiliper lo meno… il giudice di pace. Ma un giudice di paceseduto sotto un albero, in un paese abitato da tanti Bo-schini… –. Ho riso per cortesia, e gli ho chiesto se eraconvinto della buona fede di Boschino. – Assolutamente –ha risposto – Boschino si sarebbe accontentato di riavere i

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suoi buoi, limitandosi a mostrare ai parenti che avrebbepotuto toglier loro tutto ciò che avevano; avrebbe volutomostrare la sua potenza e la sua magnanimità –. Alloranon ho potuto fare a meno di chiedergli ancora perchénon avesse cercato d’aiutarlo. Gli ho detto le condizioni incui ora si trova il vecchio, ho accennato all’ingegnere Al-merio. Era già informato di tutto. – È andato a cadere inbrutte mani – ha detto. – Non volle fidarsi di me. Credevache io non l’avrei secondato nei suoi propositi –. Gli hochiesto di quali propositi intendesse parlare. Mi ha dettoche, visto che non si era potuti arrivare in nessun modoad un accordo a causa dell’ostinazione degli avversari, Bo-schino, dopo l’asta, voleva restituire ai parenti tutto ciòche era stato ricavato dalla vendita della loro roba.

– Boschino non ebbe subito questa idea – ha dettoColliva. – Gli venne solo dopo qualche tempo. Dopo l’astase ne andò da Sigalesa senza dir nulla. Già!, chiuse la casae se ne andò col carro a buoi. Per diversi mesi non ebbipiù notizie di lui. Poi seppi che era a Ultra, e andai a tro-varlo. Avevo riscosso circa sessantamila lire, che ormai gliappartenevano, tolte le spese e gli onorari. Viveva in casadi un contadino di Ultra…

– Cristoforo Usùla.– Precisamente. Aveva preso in affitto una stanza in ca-

sa di quest’uomo e teneva i buoi nella sua stalla. Era comeuno di casa. Mi disse che lui di quei danari maledetti nonsapeva cosa farsene, che io lo avevo rovinato, e che vole-va vivere del suo lavoro. Lavorava col suo ospite, o perconto di altri proprietari di Ultra, oppure per conto deicarbonai toscani, in foresta. Continuava, presso a poco, lastessa vita che aveva fatto fin allora al suo paese. E si tro-vava bene. Non riuscii in nessun modo a fargli capire laragione. Ma io capii che questa decisione non poteva nonessere definitiva, perché mi diede l’incarico di vendere an-che la sua casa di Sigalesa e i poderi. Cercai di convincerloche non era un momento buono per vendere, ma visto

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che insisteva, benché avessi la procura generale, mi feci ri-petere la cosa in presenza di testimoni. Questa mia diffi-denza gli dispiacque molto: disse che voleva trattare conme da uomo a uomo, e che gli estranei non dovevano sa-pere i fatti suoi. Io tenni duro, e gli accordai solo questo,che i testimoni non fossero di Ultra. Voleva che a Ultra sisapesse che viveva del suo lavoro e che era povero, equesto non per prudenza, ma perché era il suo sentimen-to. Io vendetti la casa e i poderi e ne ricavai altre venticin-quemila lire, e investii tutto il capitale in azioni della So-cietà Elettrica. Per tre anni Boschino non si fece vivo.

– Per tre anni?– Per tre anni. Non bisogna meravigliarsi neanche di

questo. Io ci ho pensato molto. Questa indifferenza per ildanaro deriva da una particolare concezione del danaro.Ci sono popoli selvaggi che contano solo sino a quattro.Gli indiani del Guarany, per esempio… Gli abiponi e idammara contano fino a tre. I popoli che possono conta-re al di là di cinque si servono delle dita, e fanno uso diuna notazione quinaria o decimale e vigesimale…

– Boschino non è un selvaggio – dissi ridendo.– D’accordo, non è un selvaggio. Non ci penso che sia

un selvaggio! Ma non è questo che voglio dire. Io ho unavecchia cameriera che conta solo fino a venticinque. Chisa perché fino a venticinque e non a ottanta! Ma è così.Fino a venticinque. Oltre questo numero si figura tantigruppi di oggetti come si vedono nelle illustrazioni dei sil-labari, ognuno di venticinque unità. Sì, ma astrattamente.Oltre il venticinque, gli oggetti, siano lire, scudi, patate,uova, non hanno più, per lei, realtà concreta. Voi matema-tici direste che sono entità ideali. Questi oggetti hanno va-lore per lei solo entro il gruppo di venticinque. Il valorestesso del danaro e i vantaggi che se ne possono trarre,sono condizionati, per lei, a questa concezione numerica.Questa donna è vecchia e quasi inabile, ma non ha nes-suna difficoltà a dare a suo fratello o ai nipoti i soldi che

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accumula da cinquant’anni a questa parte, mese per me-se, quando superano una certa somma, cioè, immagino…un multiplo di venticinque! Non è generosità, è assolutaindifferenza. Eppure questa donna è tutt’altro che stupi-da. Per Boschino deve essere stata presso a poco la stes-sa cosa. Non si è reso conto del valore della somma cheaveva a sua disposizione. Se avesse avuto la stessa som-ma investita in terre, mettiamo, allora avrebbe capito. Mail danaro no; il danaro, sono cifre…

Gli feci notare che, forse, anzi certamente Boschinonon voleva toccare quel danaro perché gli ripugnava.

– Può darsi; ma non bisogna dimenticare che una partedi quel danaro era suo, ricavato dalla vendita della sua ca-sa e della sua terra. Ora, pian piano, col passare del tem-po, il valore esatto della somma, si andò maturando nellasua testa. E solo allora, e sempre con perfetta coerenza, sidecise a servirsi di quel danaro. Fu un fatto esteriore chelo fece decidere, probabilmente. Un giorno, mentre torna-va dalla foresta con un carico di carbone, dopo una tem-pesta di vento, come se ne vedono in Parte d’Ispi, i buoigli morirono fulminati dalla corrente elettrica. Il vento ave-va abbattuto due pali della linea ad alta tensione. Alloravenne da me a chiedermi i danari per comprarsi un altrogiogo di buoi. Lui senza buoi non può vivere. Aveva deci-so anche di comprarsi un pezzo di terra a Ultra coi suoiquattromila scudi, come diceva lui. Ma gli altri? Gli altri vo-leva restituirli ai parenti. Io rimasi allibito. Lo conoscevo esapevo che non avrebbe più cambiato idea. Tuttavia erocontento di non poter disporre subito della somma, cheera investita in azioni della Società Elettrica, come ti hodetto. Bisognava aspettare… Gli spiegai la cosa; ma rimasemolto meravigliato quando gli dissi che la stessa SocietàElettrica era tenuta a pagargli i buoi ch’erano stati fulminatidalla corrente. Mi chiese che colpa ne aveva la Società se isuoi buoi erano andati a cacciarsi tra i fili ad alta tensione!Per prendere tempo, mi valsi di questa sua perplessità.

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Cercavo di fare il suo interesse suo malgrado, come avevofatto sempre. Fu questo il mio sbaglio. Sul momento nonfece nessuna obiezione. Si chiuse in se stesso, come fannoquesti contadini quando diffidano di qualcuno, e mi dissesolo che sarebbe tornato tra qualche giorno per riparlaredella cosa. Non lo vidi più; e fu allora che mi tolse la pro-cura per darla a Francesco Almerio.

– All’ingegnere?– Sì, all’ingegnere Almerio.– E poi?– E poi non so altro. Se Boschino s’è deciso a dargli la

procura, Almerio deve avergli promesso di fare tutto ciòche lui voleva. Anch’io, del resto, ero arrivato a questaconclusione. Volevo solo prendere tempo perché potessepensarci su meglio. È bastata quest’incertezza. Almerio, co-me sai, ha una casa a Ultra, e Boschino è andato a stare inquesta casa; credo che faccia il custode, l’ortolano, non so.

– Ma quest’ingegnere Almerio – dissi io imprudente-mente – è un ladro.

– No! neanche per sogno! Cosa ti viene in mente? Ionon so come abbia amministrato i danari di Michele Bo-schino. Non so, voglio dire, se lo abbia accontentato, o selo abbia convinto a impiegarli diversamente. Ma sonoconvinto della correttezza di Almerio.

Ancora una volta, io dissi all’avvocato Colliva delletristi condizioni del vecchio, della sua estrema povertà.

L’avvocato si strinse nelle spalle:– Io conosco meglio Almerio di quanto non conosco

Boschino. Boschino anzi, per me, è un essere quasi in-comprensibile. Almerio so come può agire, come puòpensare. Il mistero qui è tutto in Boschino.

Gli chiesi se non fosse il caso di farsi dire, con delica-tezza, dall’ingegnere, come avesse sistemato le cose; mal’avvocato rispose che la cosa era indelicata per se stessa.

– In qualunque modo tu la rigiri, il sospetto rimane.Ma è legittimo – dissi io.

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– No – disse l’avvocato animandosi. – Non è affatto le-gittimo. Allora anche di me si sarebbe potuto sospettare.Chi avesse saputo che Boschino aveva tutti quei danari econtinuava a fare una vita da miserabile, nei primi anniche era a Ultra, avrebbe potuto legittimamente sospettareanche di me.

Con calma, feci osservare all’avvocato che le cose era-no molto mutate, da allora. Allora Boschino non facevauna vita da miserabile. Quella era la sua vita. Anche condei milioni in tasca avrebbe continuato a vivere allo stessomodo. Ma ora viveva d’elemosina. E avevo ragione di cre-dere che tutto egli avrebbe fatto per evitare quell’umilia-zione di stender la mano. E poi accusava apertamente l’in-gegnere. Era furibondo, contro l’ingegnere. L’odiava.

Queste parole fecero uno strano effetto all’avvocato.– Lo odia? – chiese.E dopo aver pensato un poco disse:– Non vorrei avere su di me l’odio di un uomo come

Boschino.– Perché? – chiesi io.– Ma! non lo so. Ma non vorrei.– Credo invece che di lei conservi un buon ricordo –

dissi a caso.– Credi proprio? – e mi guardò negli occhi per vedere

se dicevo la verità.– Credo di sì – affermai.Mi venne in mente di dirgli che avrei parlato di lui a

Boschino in occasione della mia prossima gita a Ultra, masubito capii che questo non poteva riuscir gradito all’av-vocato, che avrebbe preferito invece esser dimenticato daBoschino.

Riportai il discorso sull’ingegnere, accennai all’orto delCapitano, di cui gli Almerio s’erano impadroniti in un mo-mento assai difficile per la famiglia della signora Monti.L’avvocato era informato anche di questo, perché il Capi-tano avrebbe voluto affidargli la causa, quando però era

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già troppo tardi. Gli chiesi se questo atto poco onesto nonautorizzava ad aver dei sospetti sull’ingegnere. Di nuovol’avvocato sembrò meravigliarsi.

– Non bisogna far confusioni – disse. – Quella appro-priazione risale al tempo in cui viveva ancora il padre diFrancesco, il notaio Gaetano. Suo figlio è ben diverso dalui.

– Dal fico nasce il fico – dissi. Era un proverbio cheavevo sentito ripetere da Michele Boschino. Lo dissi in dia-letto, credo con lo stesso tono con cui Boschino lo avreb-be detto.

Per un momento vidi l’incertezza negli occhi dell’av-vocato. L’incertezza e il disorientamento. Per un attimo.Poi, subito si riprese, sorrise, scosse la testa, accese unasigaretta, e si mise a parlar d’altro. Mi chiese notizia dellegare di nuoto per i campionati universitari, che si dovran-no svolgere domenica, quando io sarò già a Ultra. Forseaveva dimenticato dell’incidente che mi aveva immobiliz-zato per tanto tempo, e che non mi permetteva certo diprender parte alle gare. Rimase male quando, accompa-gnandomi verso l’uscita s’accorse che non solo cammina-vo faticosamente ma dovevo usare il bastone, che avevolasciato accanto all’attaccapanni, nell’atrio. Mi salutò conmolta effusione; ma la mia visita deve avergli lasciato uncerto scontento.

È la prima volta che ho parlato di cose serie, di affari,con l’avvocato Colliva, che pure si è sempre un poco oc-cupato di me, dopo la morte del babbo. Era convenuto,tra lui e la mamma, che, finito il liceo, mi sarei iscritto inlegge e sarei entrato a far pratica nel suo studio. Anch’ionon sapevo, allora, che avrei studiato matematica: ero inbuona fede. Ma non credo di avere dato una gran delusio-ne all’avvocato. Alberto mi ha detto poi (e del resto an-ch’io me n’ero accorto) che l’avvocato Colliva non avevamai creduto che io potessi riuscir bene nella professione:era convinto che in me ci fossero, aggravate, certe qualità

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negative, nei rispetti della professione, che egli aveva giàconosciuto in mio padre. Solo per l’amicizia che lo avevalegato al babbo aveva promesso alla mamma di accoglier-mi nel suo studio, pensando che, se non fossi riuscito co-me avvocato, avrei potuto fare la carriera giudiziaria. Ora,tutto questo è verosimile perché la mamma mi disse chel’avvocato soleva dire anche del babbo che avrebbe dovu-to fare il giudice, non l’avvocato. Tuttavia la mia decisioneassurda di iscrivermi a matematica l’aveva offeso. Anche inme doveva trovare, come in mio padre, qualcosa d’incom-prensibile che gli dava noia; forse una mancanza di duttili-tà mentale, una naturale mancanza di eloquenza, penso.Da quando mi sono iscritto all’università, continua a chie-dermi ogni volta: – Come va? –, ma senza nessun interesse,ormai. Anche l’altro giorno, poco prima di congedarmi, miha chiesto: – Come va? –. Eppure, fino a qualche momentoprima aveva parlato con calore, come non era mai accadu-to nelle nostre conversazioni. Penso che lui stesso, poi, sene sia meravigliato. Tutte quelle questioni riguardanti Bo-schino, interessanti per se stesse, in quanto materia del suolavoro, della sua professione, dopo la conversazione de-vono essergli sembrate vuote, gratuite, ridotte a una que-stione morale. Se ne avesse parlato con un altro avvocato,con uno del mestiere, la questione di Boschino sarebbepotuta diventare ciò che essi chiamano un caso elegante.Pura forma. Ma io, che c’entro? Io sono un profano. Solol’improntitudine giovanile poteva avermi indotto a parlaredi questo con lui. Perché cos’è l’interesse morale, umano,disinteressato, se non improntitudine giovanile?

Ho raccontato alla mamma del mio colloquio conl’avvocato. È stata a sentirmi fino all’ultimo, poi ha dettoche la mia impressione di non essere stato preso sul serioera esatta. L’avvocato l’ha incontrata e le ha raccontato lacosa a suo modo, esortandola anche a consigliarmi dinon prendermi troppo a cuore la cosa, specie nei riguardi

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dell’ingegnere. La mamma è convinta come me della ma-lafede di Almerio, e anche di Colliva. Ho fatto alla mam-ma una domanda naturale e ingenua, che l’ha fatta sorri-dere, e io mi sono un po’ vergognato, di fronte a lei,come un ragazzo. Le ho chiesto se Colliva è una personaonesta. – È una persona corretta – ha detto la mamma. Ela correttezza s’impara, come l’educazione o come il me-stiere, mentre l’onestà presuppone qualità morali innate.Mi ha detto che il babbo era stato più volte sul punto disepararsi da Colliva, col quale aveva lo studio in comune,proprio per una certa mancanza di delicatezza da parte diColliva, per la sua avidità di trafficante. Ma poi, con gli an-ni, crescendo la clientela, diventando più sicura la posizio-ne, era diventato più raffinato, più signore. Ora potevadirsi uno dei professionisti più corretti e irreprensibili del-la città. Certo non amava che nessuno gli ricordasse i suoiprimi anni di esordio come non amava che gli si ricordas-se il piccolo appartamento che allora abitava.

– Se è così, non c’è nulla da fare – dissi io, vedendoche questo discorso della mamma non poteva avere altraconclusione.

– Nulla da fare, in che senso?– Per Boschino.Stette un poco pensierosa, poi disse:– Non c’è altro da fare che quello che ha detto Maria.Dunque Maria, vedendo che io non mi decidevo a par-

lare a Linda, ne aveva scritto alla mamma.– È inutile parlare con Colliva e con Almerio. Non si

otterrebbe nulla. E quand’anche si ottenesse qualcosa, sa-rebbe tardi.

Chiesi se aveva avuto notizie di Boschino. Mi ha dettodi no, che non c’è nulla di nuovo. Ma Linda è già andata aUltra. È partita stamattina.

Mi ha detto che non è stato per niente difficile con-vincerla, che anzi lei stessa ha chiesto subito di andare.

E io non mi sono accorto di nulla.

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Mentre io ero pieno di dubbi e fantasticavo di Boschi-no, lei pensava a Boschino. Ci pensava forse anche quan-do sedeva accanto a me a leggere o a lavorare.

– Maria mi ha scritto dei tuoi scrupoli – mi ha detto. –Ed erano giusti. Ho capito che avresti finito per andare daColliva.

– Sapevi già quello che mi avrebbe risposto?– Press’a poco. Lo immaginavo. È gente che conosco

bene.Le ho detto che avrebbe potuto consigliarmi di non

andarci.– E perché? – ha chiesto lei. – Forse quello che ti ha

detto può essere utile. E poi, in certi casi, è meglio nondar consigli. Neppure io ti ho chiesto consigli prima di di-re a Linda che suo cugino è a Ultra.

– Le hai detto solo questo? Che è a Ultra?– Le ho detto che è ammalato, che vive di elemosina.– E lei?– Ieri sera mi ha chiesto di lasciarla partire. Io non ho

fatto altro.– Ma lo sai che lo odia?– Può darsi. Ma ha comprato un po’ di biancheria da

portargli e qualche altra cosuccia. Anche a lei non rimanepiù nessuno, dei parenti di Sigalesa. O sono morti, o han-no lasciato il paese. Uno dei fratelli, il solo che sia ancoravivo, è in America.

Linda tornerà il giorno stesso della nostra partenza,per non lasciare la casa incustodita, dato che il marito, dauna settimana a questa parte, lavora in fabbrica.

Quando il Capitano ha accompagnato di sopra lamamma per mostrarle la nuova sistemazione della cameradi Isabella, che ora è a S. con la signorina Airoli, io e Ma-ria siamo rimasti in sala da pranzo. Maria si è alzata, esiamo usciti sulla veranda, da dove si udivano le voci del-la cucina. Si udivano anche i passi del Capitano e dellamamma, di sopra. Ma noi eravamo soli. E mi è sembrato

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che Maria aspettasse qualcosa da me. L’ho baciata. E mi èparso che da tanto tempo avrei dovuto farlo. Che leiaspettasse questo da tanto tempo. E io solo ora ho capito.Solo ora ho capito che anch’io avevo bisogno di questo.A che cosa doveva portare la nostra amicizia, se non aquesto fatto così semplice?

Altri ci arrivano senza conoscersi. Eppure, anche noi,tutto ciò che non conosciamo l’uno dell’altro, ci unisceforse più della nostra amicizia. A un tratto mi son trovatotra le braccia un’altra donna, diversa dalla Maria che hosempre conosciuto.

Non sono mai stato tanto felice come ora. Come tuttosi chiarisce, come tutto diventa nuovo, qui. Nuovo e chia-ro. Mi sembra impossibile che Maria abbia potuto soffrirein questa casa. Quando non sono con lei, ascolto il suonodella sua voce. Anche per lei è nuova, questa felicità. For-se, se non si fosse sentita tanto sola, se non mi avesseaspettato, ora non sarebbe così bello, né per lei né per me.

Ho trovato questa gioia accanto a me, senza neppurecercarla. E tutto ciò ch’era consueto si è improvvisamenterinnovato.

Nessuno ha parlato di Boschino, la sera del nostro arri-vo, né i giorni seguenti, fino a oggi. Oggi siamo stati al Ti-ro a segno, Maria, il Capitano e io. La mamma è andata asalutare gli zii. Ci siamo arrampicati su per la valle chiusain alto dalla gola di Cona, sino alla tettoia. Maria portava laborsa delle munizioni e il Capitano il fucile; io appena ilmio bastone. Lo zappatore ha alzato la bandiera rossa, poiabbiamo visto i bersagli spuntare dal fosso. Per accontenta-re suo padre, anche Maria ha sparato qualche colpo. L’ecosi diffondeva fino alle pietraie della gola, secco, si molti-plicava con un rumore di frane. A ogni colpo mi parevache Maria dovesse durar fatica a vincere la ripugnanza chele dava il freddo metallico, lo scoppio, il rinculo dell’arma.E questo mi ha rattristato. Perché ha acconsentito a spara-re? Non poteva dire semplicemente che non si sentiva?

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Ero impaziente di andarmene, di tornare a casa, di star so-lo con lei. Anche a me ripugnava il fragore dei colpi am-pliato dalla valle, quello star fermi a scrutare i segni dellabandierina nel fosso, il vento freddo della montagna.

D’improvviso mi sono ricordato di Boschino.Siccome non parlavo, Maria, durante il ritorno, mi ha

chiesto cosa avessi. Le ho detto che mi faceva male il gi-nocchio. E del resto era vero.

A buio siamo arrivati a casa.

Oggi sono andato da Boschino, nel pomeriggio, pas-sando dalla strada però. Non avevo chiesto niente di lui aMaria, né Maria me ne aveva parlato. Boschino non hamostrato nessuna meraviglia vedendomi. Era disteso sulletto, e si è alzato a sedere tirando giù le gambe. Perchénon s’alzasse in piedi, gli ho messo una mano sulla spal-la; e sento ancora sotto le dita quella spalla magra e fragi-le. Senza ragione, gli occhi mi si sono riempiti di lacrime.Ma nella stanza non c’era molta luce, e poi io voltavo lespalle alla porta. Mi ha tenuto a lungo la mano tra le sue,scuotendola debolmente. Gli ho fatto le solite domande,senza trovare altro da dire. Specialmente la sua voce èmutata. Si sente che è stato molto malato.

Aveva una camicia nuova, pulita, con le maniche trop-po lunghe. Questo era l’unico segno del passaggio di Linda.

Abbiamo parlato non di lui, ma di me. Ha voluto sa-pere perché zoppico, com’è avvenuto l’incidente, quantotempo sono rimasto a letto, quando potrò di nuovo cam-minare speditamente. Si è interessato di tutto, e si ricorda-va benissimo di tutto ciò che gli avevo detto tanto tempoprima, quando andavo a chiacchierare da lui e mi regala-va cocomeri e pomodori.

Quando ho acceso una sigaretta, ho visto che aspira-va l’odore del fumo, e gliene ho offerto una. Non avreicreduto che l’accettasse. Ma non aveva sigari, e io m’erodimenticato di portargliene. Per accendere la sigaretta, mi

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ha preso dalle dita il fiammifero acceso stringendolo sottola fiamma, con quella familiarità che i contadini hanno colfuoco. La mano gli tremava, un tremito appena percettibi-le. Ha acceso la sigaretta come un sigaro, e come un siga-ro la teneva. Dopo un poco, secondo la sua abitudine, sel’è messa in bocca dalla parte del fuoco, e l’ha tenuta cosìascoltandomi parlare.

Neppure con Maria Boschino ha parlato della visita diLinda. Non sa che sia stata Maria a farla venire. Però orasembra tranquillo.

Oggi, mentre ero da Boschino, è venuta Lavinia. Hacominciato a chiamarlo di là dal muro con la sua voce acu-ta rotta da singhiozzi di riso convulso. Veniva a chiedergliun po’ di basilico per condire non so che salsa.

– Ce n’è quanto ne vuoi – le ha detto Boschino indi-candole la porta che mette nell’orto; e insisteva in quelgesto come per cacciarla via. Si vedeva che la presenzadella donna gli dava noia. Forse perché voleva continuarea parlare con me. Mi stava dicendo della sua intenzione diriprendere il commercio delle arance non appena staràmeglio; e calcolava quanto potrebbe guadagnare, a ogniviaggio.

Dopo un poco Lavinia ripassò col suo mazzo di basi-lico, e scuotendoglielo sotto il naso disse:

– Dio ve ne renda merito, zio Michele.Boschino sorrise un poco a bocca chiusa e rispose:– Dio è giusto coi giusti.Quando Lavinia fu uscita disse:– Quella non è una donna, è una cavalla.Poi, continuò a parlarmi del commercio delle arance,

senza curarsi più di Lavinia. Ma quando stavo per andar-mene, ha ripetuto:

– Quella non è una donna, è una cavalla. Io mi ricor-do di mia madre, quand’era giovane. Anche lei lavorava,aveva sempre tante cose per le mani, e gridava anche,

MICHELE BOSCHINO

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qualche volta, ma non correva così. E anche quando gri-dava, qualche volta, aveva un’altra voce.

Gli ho chiesto a che età fosse rimasto vedovo.– Avevo trentatré anni, l’età di Cristo. E da allora non

ho più avuto bene. Da quando lei mi ha lasciato solo, tut-to è andato male per Michele Boschino.

Stette un poco assorto, poi tagliò l’aria con la mano,davanti a sé, con un gesto breve, di contenuta disperazio-ne. Tenne un poco la mano aperta in aria, poi chiuse len-tamente il pugno e si ricompose.

– Quella sì che era una donna. Era di queste parti, diParte d’Ispi, ma qui non ho mai visto una donna comelei, in tanti anni che ci sono.

– Era giovane? – chiesi.– Ventidue. Era dritta e sottile come un fuso. Magroli-

na. Ma anche lei lavorava come mia madre. Sapeva far ditutto. Bisognava vederla, quando faceva il pane! Tutto,sapeva fare. Sapeva tessere, filare… Tutto. E come il fusoera silenziosa, quando lavorava.

Era la prima volta che mi parlava di sua moglie.Andandomene, cercai con gli occhi il foglio di giorna-

le attaccato al muro. Era al posto che Maria mi aveva det-to, e si poteva vedere il segno chiaro, nel centro.

Mi ha raccontato come gli morirono i buoi fulminatidalla corrente. Era d’autunno. Le carbonaie cominciavano abruciare nella foresta di Cona. Come a Sigalesa, anche quii toscani prendevano in appalto le foreste, facevano carbo-ne, vendevano legname, fornivano traversine per la stradaferrata. Una o due volte la settimana, se non aveva altri la-vori per le mani, andava a fare il suo carico accompagnatoda Giovannino, il figlio più piccolo di Cristoforo Usùla.Una mattina, dopo la discesa dell’Arenaria, erano montatitutti e due sul carro per passare il Fino, ch’era in piena.Quando il Fino è in piena, non è possibile guidare il carrodallo stretto ponte di tronchi. Dopo il guado c’è una ripi-da e breve salita, e bisogna scendere svelti dal carro per

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alleggerire i buoi, incitarli col pungolo, star pronti alla mar-tinicca e frenare di botto, nel caso che perdano la lena nel-la rincorsa. Boschino, a quel tempo, doveva essere ancorain gamba, per far questo. Il carro era sceso nel fiume lenta-mente, con fracasso. I buoi soffiavano sul pelo dell’acquatorbida e precipitosa. Avanzavano cauti, ingegnandosi dipoggiar le zampe al sicuro sui ciottoli del fondo. Non ap-pena cominciò la salita sulla sponda opposta, senza ferma-re il carro, Boschino e il ragazzo si lasciarono scivolare dal-l’alto del carico e gridando incitarono le bestie. In unlampo, tra le grida, la breve salita fu superata, e il carrosvoltò sulla strada che costeggia il fiume per un buon trat-to. Lì accadde la disgrazia. Era ancora buio, e Boschinonon s’accorse dei pali che il vento aveva abbattuto. A untratto i buoi si fermarono, e quello di sinistra si piegò sullegambe davanti come se la mazza del beccaio l’avesse col-pito, stramazzò con un muglio lamentoso. Subito anchel’altro stramazzò, di schianto. Prima che Boschino avesse iltempo di correre avanti, il ragazzo gli si aggrappò alla ca-sacca gridando: – Non andate, zio Michele! non andate! –.Si sentiva odore di bruciaticcio, come quando si abbrustoli-sce il maiale prima di mondarlo con la coltella. Giovanninocontinuava a strillare, e con la faccia indicava qualcosa cheluccicava a mezzaria. Sotto il peso del carro, i buoi eranopercorsi da lunghi fremiti. Il ragazzo cominciò a piangere.Si sedettero tutti e due, Boschino su un sasso, il ragazzoaccanto a lui, per terra. Il carro non si muoveva più. Aspet-tarono che si facesse chiaro, che venisse qualcuno. Venneun pastore con un branco di pecore, sulla strada, il cane siavvicinò, annusò i buoi, girò intorno al carro, tornò verso ilgregge. Boschino s’alzò e diede una voce al pastore perchési tenesse al largo. Poi venne, sempre sulla strada, dal pae-se, una donna, con due ragazzetti, e anche loro si fermaro-no; poi altri e altri ancora. Quando albeggiò e fu possibilemuoversi senza pericolo, Boschino, tenendo il ragazzo per

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mano, passò cautamente alla testa del carro. Allora videle due grandi bestie dal mantello latteo stramazzate, conla lingua sporca di terra e gli occhi stravolti dai quali pa-reva ancora esalare quel lungo muggito lamentoso.

Finito il racconto mi ha chiesto se per caso, senza in-comodarmi, non potessi procurargli una pipa per fumarela cima dei sigari; senza comprarla però. Qualche mio co-noscente potrebbe averne una. Gli ho detto che, se s’ac-contenta, ne ho una io, che ho usato solo poche volte.

Mi è sembrato di vedere in questo suo desiderio unsegno di fiducia e di serenità.

Del resto quali altri mezzi ho di leggere ora nell’ani-mo di quest’uomo?

O che mi abitui pian piano a vederlo così, o che real-mente pian piano si vada rimettendo e, per quanto è pos-sibile, riacquistando forze, in certi momenti mi sembra ilBoschino di un tempo, il Boschino che non poteva invec-chiare. O forse non è altro che il mio bisogno di tranquil-lità che me lo fa vedere così; il bisogno di poterlo dimen-ticare, o di poter dimenticare quel che vi è in lui di cosìdoloroso.

Io e Maria abbiamo deciso di non dir nulla, per ora,di ciò che ci riguarda. Cosa potremmo dire? Che ci amia-mo? Certo se ne sono già accorti; ma finché noi taciamo,tutto continuerà come prima. E per noi è meglio così, perora. Così Maria potrà venire in città, a primavera.

Avevamo tante cose da dirci: ora invece parliamo ditutt’altro. E tutto ciò che diciamo era imprevisto. Non fini-remmo mai di parlare.

Fra qualche giorno io e la mamma torneremo in città.Sono felice. E questo pensiero della partenza non ha ilpotere di rattristarmi. Credo sia anche così per Maria.Giunge opportuna, questa separazione. Abbiamo tantobisogno, io e lei, di pensare a quello che ci è accaduto.

Da due settimane siamo in città. Sembra già primavera.

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Ho incontrato, rincasando, l’avvocato Colliva, che miha detto che ha bisogno di parlarmi di un certo affare.Immagino che si tratti ancora di Boschino: consigli di nonprendermi a cuore la faccenda.

Non so a che cosa attribuire il nuovo atteggiamentodell’avvocato, né se devo fidarmene. O vuole che io stes-so arrivi alla conclusione di non chiedere nessuna spiega-zione all’ingegnere?

Anche la mamma non sa cosa pensarne. Ma dice chela spiegazione ci verrà dallo stesso avvocato. Bisogna la-sciare a lui l’iniziativa.

Durante la mia assenza ha ripensato alla cosa, e luistesso, con molta prudenza e tatto, è riuscito a sapere la si-tuazione di Boschino. Già da qualche anno Boschino, permezzo dell’ingegnere, suo procuratore, ha fatto testamentodesignando erede universale la Società di San L. Il capitaleè ancora investito in titoli, e gli interessi sono vincolati,tranne una parte che va devoluta all’ingegnere stesso comeonorario. Boschino, volendo, ha diritto di entrare nell’ospi-zio della stessa Società di San L. Ma pare che non ne abbiamai voluto sapere. Non si sa se Boschino abbia fatto testa-mento di sua spontanea volontà o vi sia stato costretto.

Ho chiesto all’avvocato se Boschino è ancora in tem-po a fare un nuovo testamento, a destinare la somma achi vuol lui – ai parenti, per esempio.

L’avvocato dice che Boschino può ritirare quandovuole la procura all’ingegnere e disporre a piacimentodella somma. Ma è rimasto incerto quando gli ho chiestose sarebbe disposto a prendersi lui la procura. Giustamen-te ha osservato che Boschino preferirà certamente un’altrapersona.

Non avrei immaginato che la cosa fosse così facile. Hoscritto a Maria di chiedere a Boschino se veramente ha ac-consentito a far questo testamento, e di spiegargli comestanno le cose.

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Oggi l’avvocato mi ha di nuovo chiamato nel suo studio.La cosa è meno semplice di quel che sembrava, perché l’in-gegnere ha in mano delle cambiali firmate da Boschino colsegno di croce, per una somma superiore a quella investitain titoli. È incredibile che Boschino sia stato tanto cieco dalasciarsi indurre ad apporre il suo segno a queste cambiali.Ma l’avvocato invece di scoraggiarsi, dopo questa notiziasembra deciso ad agire. Vorrebbe che io facessi un viaggio aUltra per parlare con Boschino e convincerlo a fidarsi di lui.

Maria mi scrive d’aver consegnato a Boschino la pipache gli ho mandato. Era una piccola pipa di radica cheAlberto mi ha portato da Londra l’estate scorsa.

Maria dice che Boschino è tranquillo, che non bisognaturbarlo, che una causa contro l’ingegnere non servirebbeche a rompere questa pace. Ha ripreso a coltivare l’orto, eMaria, per mezzo di Lavinia, provvede a non fargli manca-re nulla. Se anche potesse ricuperare questa somma, checosa ne farebbe?

Alla mamma questo ragionamento sembra molto as-sennato. Dice che Maria ha ragione.

Nulla da fare, del resto, per ora. Bisogna aspettare chel’ingegnere torni da R.

Dopo essere stati fino a tarda ora a goderci il frescosulla terrazza del Muraglione, Donato e io rincasavamouna sera, a Ultra, dopo cena. Donato mi parlava di unadonna che aveva conosciuto quell’estate al mare.

Sul punto d’aprire il portone, fummo colpiti da unoscoppio di urli e di tonfi che veniva dal fondo del cortile.

Chi sa perché, io pensai subito a Maria: possibilità as-surde e funeste attraversarono in tumulto il mio spirito,come se Maria potesse essere veramente in pericolo, là,nella sua casa.

Prima che io mi riavessi, Donato, chiuso il portone, s’erainoltrato nell’atrio e se ne stava tranquillo, col cappello sulla

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nuca, nella luce della luna, come a godersi uno spettaco-lo. Si volse verso di me, e io vidi il bianco dei suoi dentinell’ombra, e pensai a quel che Maria m’aveva scritto per-ché anch’io cercassi d’indurlo a tornare a casa a passare ilresto delle vacanze estive.

– Farabutti! – disse. – Anche questa sera!Andammo fino in fondo al cortile, Donato avanti e io

dietro, sulla ghiaia che scricchiolava, fino al muro che se-para il cortile dalla rimessa. Voci di uomini violente e alle-gre venivano dalla rimessa, e insieme alle voci tonfi, comese là dentro, picchiassero con un bastone su una tavola osu una porta chiusa. E poi uno scroscio improvviso, untintinnio di vetri rotti. A ogni scroscio, rinforzavano le gri-da. Gli uomini ridevano anche, e tra le risa virili si udivaun riso di donna che pareva nascondersi tra quelle.

– Farabutti! – disse di nuovo Donato.Ma sorrideva come se dentro di sé approvasse quel

divertimento. Io, toccandogli il gomito col gomito, con uncenno della testa gli chiesi di che cosa si trattasse.

– Rubano la carne e vengono qui a cuocerla e a man-giarla. Ci sarebbe da farli arrestare.

– Che carne? – chiesi io, che non riuscivo a capirenulla. Non capivo e non riuscivo a rendermi conto diquello che avveniva nella rimessa.

– Che carne? – fece Donato. – Carne di pecora. Nonc’è altro, qui, in questa stagione. Anche l’altra notte hannosvaligiato la bottega di un macellaio. È carnaccia, ma ci pi-gliano gusto a rubarla, si vede.

– Ma chi sono? – chiesi alzando un po’ la voce spa-zientito.

Donato mi fece cenno di tacere, come se quelli dellarimessa potessero udirci, in mezzo al baccano.

I tonfi gli scrosci e le risa si confondevano, ma io oracominciavo a distinguere i rumori, a isolarli, a localizzarli.Quegli uomini stavano lanciando le patate che erano am-mucchiate dietro la branda del vecchio, contro i fiaschi

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vuoti dello scaffale. Stavano facendo una gara di tiro a se-gno, a quanto pareva. Tiravano anche contro la vetrata.Era come se li vedessi. Forse uno solo tirava, e gli altristavano a sedere sul letto con la donna. A ogni colpo, untonfo, uno sfrigolio minuto.

A un tratto, senza che alcun fatto nuovo accadesse,senza che alcun rumore particolare me lo suggerisse, mivenne questo pensiero: «Boschino è morto». E tutto si fecechiaro, comprensibile. Boschino era morto. Qualche altroora abitava la rimessa e coltivava l’orto. Ma era morto an-che nella mia memoria. S’era adagiato in pace, ed eramorto. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che neavevo chiesto notizie? – Tira avanti, poveraccio – mi avevarisposto Maria. Avevamo tante cose da dirci, e non c’erapiù posto per Boschino, nelle nostre lettere. Ridotto a unmucchietto di ossa e di stracci, ridotto a un gemito, là,nella sua branda, continuava a tirare avanti. Quando cipensavo, desideravo in cuor mio la sua fine. Era troppopenoso pensare che soffriva, che era solo. O immaginavoche la sua vita fosse ridiventata serena. Ma anche nellamorte lo immaginavo così, sereno, tranquillo ormai.

In quel momento la certezza improvvisa della sua mor-te mi diede una pena acuta che non mi sarei immaginatoprima, quando pensavo alla sua morte come a un riposo.Mi faceva pena pensare che la sua scomparsa fosse stataun fatto insignificante per tutti, anche per Maria, che nonme ne aveva scritto nulla e non me ne aveva parlato almio arrivo a Ultra. Tutti lo avevano già dimenticato, e an-ch’io. Se Maria, in una di quelle notti serene (ero a Ultraormai da tre giorni, essendo giunto subito dopo Donato)mi avesse detto: «Sai! Boschino è morto» questo fatto misarebbe parso naturale – naturale e nell’ordine previstodelle cose. La morte del vecchio mi sarebbe parsa, comenei momenti in cui ci pensavo, veramente un riposo. Avreipensato al piccolo orto, al pozzo dal quale, negli ultimitempi faticava tanto a tirar su il secchio colmo, agli alberi

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di limone attorno al pozzo, al mucchio di sassi e di coccisotto il fico castagnolo. E non mi sarei affacciato al muro,per accertarmi dell’assenza di Boschino da quel luogo si-lenzioso. Invece il fatto che tutti lo avessimo così prestodimenticato dava alla sua morte una realtà presente e do-lorosa, che forse, chi sa, nulla le può togliere.

– Quando è morto? – chiesi mentre ci allontanavamo.E siccome Donato non capiva, accennai alla rimessa.

– Non so – disse. Ma certo pensava ad altro.Maria intanto s’era affacciata alla finestra del corridoio

dal quale s’accede, nel piano di sopra, alle nostre camere.– Avete sentito? – chiese.A me dispiaceva che Maria potesse udire il riso di

quella donna in mezzo alle grida degli uomini, nascosto esfacciato. Anche un’altra finestra s’aprì, e il Capitano com-parve nel vano scuro. Senza far caso a noi s’appoggiò aldavanzale della finestra, come se prendesse il fresco tran-quillamente. Il baccano là nella rimessa lo incuriosivasenza dargli alcun fastidio. E io, dentro di me, sapevo chea tutti piaceva ascoltare quelle grida virili che cancellava-no dal fondo della memoria i fiochi gemiti che di là sali-vano prima in certe notti quiete come quella.

Entrammo in sala da pranzo, e Donato versò da unboccale due bicchieri di limonata.

– Papà non vuol denunciarli – mi disse porgendomi ilbicchiere – ma io credo che sarebbe meglio.

Spense la luce e salimmo al buio le scale. Maria erasempre affacciata alla finestra dell’andito. Donato si misea destra, io a sinistra, e così restammo tutti e tre affacciaticoi gomiti sul davanzale d’ardesia.

– E Isabella? – chiesi tanto per parlare.– Dorme – disse Maria.Nell’alito tiepido della bocca e in quel suo stringersi

nelle spalle con un brivido c’era il piacere del sonno giàpregustato e l’affettuoso compiacimento, che io le cono-sco, per la sorella minore.

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– Chi fa tanto chiasso laggiù? – chiesi ancora.– Mah! Un giovanotto che ha preso in affitto l’orto e ci

viene a far baldoria con gli amici. Ora l’hanno richiamato.Parte lunedì.

– E tu, come lo sai? – chiese Donato.– Lavinia – disse Maria.Allora io chiesi, accennando alla rimessa, come avevo

fatto prima:– Quando è morto?– In aprile – disse Maria. E non aggiunse altro.Il baccano cessò. Si udirono le voci di quegli uomini,

calme, chiare, e schiocchi, come di rami spezzati contro ilginocchio. Poi un fumo denso si levò dal piccolo cortiledavanti alla rimessa, e l’odore della legna bruciata misto aun puzzo acre di vernice e di stracci riempì l’aria.

Quando le voci tacevano, si udiva il suono velato diun organino a bocca.

– Bruciano anche le finestre che erano nel ripostiglio– disse Donato.

La notte chiara, lattea (la luna non si vedeva dietro lenuvole) era offuscata da quella colonna di fumo denso.

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BIBLIOTHECA SARDA

Volumi pubblicati

Aleo J., Storia cronologica del regno di Sardegna dal 1637 al 1672 (35)Atzeni S., Passavamo sulla terra leggeri (51)Atzeni S., Il quinto passo è l’addio (70)Ballero A., Don Zua (20)Bechi G., Caccia grossa (22)Bresciani A., Dei costumi dell’isola di Sardegna (71)Cagnetta F., Banditi a Orgosolo (84)Calvia P., Quiteria (66)Cambosu S., L’anno del campo selvatico – Il quaderno di Don Demetrio

Gunales (41)Cetti F., Storia naturale di Sardegna (52)Cossu G., Descrizione geografica della Sardegna (57)Costa E., Giovanni Tolu (21)Costa E., Il muto di Gallura (34)Costa E., La Bella di Cabras (61)Deledda G., Novelle, vol. I (7)Deledda G., Novelle, vol. II (8)Deledda G., Novelle, vol. III (9)Deledda G., Novelle, vol. IV (10)Deledda G., Novelle, vol. V (11)Deledda G., Novelle, vol. VI (12)Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. I (14)Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. II (15)Della Marmora A., Itinerario dell’isola di Sardegna, vol. III (16)Dessì G., Il disertore (19)Dessì G., Paese d’ombre (28)Dessì G., Michele Boschino (78)Edwardes C., La Sardegna e i sardi (49)Fara G., Sulla musica popolare in Sardegna (17)Fuos J., Notizie dalla Sardegna (54)

Goddard King G., Pittura sarda del Quattro-Cinquecento (50)Il Condaghe di San Nicola di Trullas (62)Lawrence D. H., Mare e Sardegna (60)Lei-Spano G. M., La questione sarda (55)Lilliu G., La costante resistenziale sarda (79)Lussu E., Un anno sull’altipiano (39)Madau M., Le armonie de’ sardi (23)Manca Dell’Arca A., Agricoltura di Sardegna (59)Manno G., Storia di Sardegna, vol. I (4)Manno G., Storia di Sardegna, vol. II (5)Manno G., Storia di Sardegna, vol. III (6)Manno G., Storia moderna della Sardegna dall’anno 1773 al 1799 (27)Manno G., De’ vizi de’ letterati (81)Mannuzzu S., Un Dodge a fari spenti (80)Martini P., Storia di Sardegna dall’anno 1799 al 1816 (48)Montanaru, Boghes de Barbagia – Cantigos d’Ennargentu (24)Montanaru, Sos cantos de sa solitudine – Sa lantia (25)Montanaru, Sas ultimas canzones – Cantigos de amargura (26)Muntaner R., Pietro IV d’Aragona, La conquista della Sardegna

nelle cronache catalane (38)Mura A., Su birde. Sas erbas, Poesie bilingui (36)Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano,

vol. I (42)Pais E., Storia della Sardegna e della Corsica durante il periodo romano,

vol. II (43)Pallottino M., La Sardegna nuragica (53)Pesce G., Sardegna punica (56)Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu A-C (74)Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu D-O (75)Porru V. R., Nou dizionariu universali sardu-italianu P-Z (76)Rombi P., Perdu (58)Ruju S., Sassari véccia e nóba (72)Satta S., Il giorno del giudizio (37)Satta S., La veranda (73)Satta S., Canti (1)Sella Q., Sulle condizioni dell’industria mineraria nell’isola di Sardegna (40)

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Finito di stampare nel mese di novembre 2002presso lo stabilimento della

Fotolito Longo, Bolzano

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