BE EDARIO DELLE SCIOCCHEZZE DA NON SCRIVERSI · 2019. 6. 27. · Quando si tratta della lingua...

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di Alessandro Zaltron BE EDARIO DELLE SCIOCCHEZZE DA NON SCRIVERSI

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di Alessandro Zaltron

BE EDARIO DELLE SCIOCCHEZZE DA NON SCRIVERSI

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La perfezione è un processo di affi-namento per dettagli; sarà per que-sto che, di tutti i segni della lingua, prediligo la virgola – tanto da averla scelta come mio simbolo, identità della mia professione. La virgola è il dettaglio capace di cambiare ogni cosa. Posizionata malamente in mezzo ai numeri, peggiora i debiti o rimpingua patrimoni: così, solo per averla depositata un passo pri-ma o due battiti d’ali avanti. Inseri-ta con gusto fra le parole, ne muta il senso, vivacizza il discorso, isola un inciso dentro la frase principale. Dètta il ritmo, che è in definitiva l’essenza della scrittura.

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La centralità della virgola

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Ci sono parole che dovrebbero servire

una sola volta. (Chateaubriand)

... E altre che non si dovrebbero

usare mai.

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Quando si tratta della lingua italiana, sono uno spaccamaroni di rara incisività. Chi mi conosce lo sa, gli altri lo impara-no presto. Non esito a difendere col petto il sì con l’accento e il qual è senza apostrofo. Ma di fronte agli ennesimi occhi stralunati che lasciano intendere «meglio non con-trariarlo, è pazzo», mi chiedo per chi abbia valore - a parte la mia ostinazione, intendo - questa lotta di retroguardia. Se la mag-gioranza delle persone gradisce infilare un quant’altro dietro l’altro, il codice penale (purtroppo) non li castiga; se alla domanda «Esci con me?» lei porge via chat un si sen-za accento, non rischio di equivocare; e se a molti piace parlare in modo sciatto, davvero la loro vita è più miserabile rispetto a chi sfoggia un vocabolario articolato?

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Da tempo cerco di escogitare una repli-ca convincente a chi mi fa notare che sono rimasto l’unico a incazzarsi per l’uso disin-volto di frasi fatte e luoghi comuni. Ecco la mia conclusione (provvisoria).

Io non posso imporre alla tizia sgarbata che lava le auto di togliere i pipistrelli spiac-cicati sul parabrezza - non li vede, poverina; non sono in grado di farmi valere sul pa-nettiere che mi sbarra in faccia la porta del negozio alle 19.01 perché deve distendere le gambe sotto la tavola; non ho modo di punire l’addetta stampa che non risponde alle mie cinque email nonostante il suo ruolo sia precisamente quello di restare a disposizione dei giornalisti.

Però posso cercare di far bene il mio lavo-ro. Paradossalmente, anche se nessuno me lo chiede e pochi se ne accorgono. Questo è il senso del presidiare con rabbia e tenacia la propria competenza. Dobbiamo essere inflessibilmente ligi perché il lassismo ab-brutisce il mondo e alza il livello comples-sivo di stress. Se tutti ci comportiamo da professionisti, ne guadagna la salute. Io il mio contributo lo do: continuerò a estirpare le virgole fra soggetto e predicato.

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Anche no: questa espressione, nelle inten-zioni dei proponenti, sarebbe più icastica di locuzioni come – a seconda della domanda che la precede – “penso proprio di no”, “non ci tengo particolarmente”, “preferirei aste-nermi”. Cederò mai a usarla? Anche no!

Assolutamente: da evitare. Assolutamente. L’avverbio viene usato come risposta, ma di per sé è neutro e non risponde a nulla. «Sei d’accordo?». «Assolutamente!». Assoluta-mente sì o assolutamente no? «Sono asso-lutamente d’accordo»: ma non basta essere d’accordo su una singola affermazione an-ziché “in assoluto” su tutto?

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Barra: terribile neologismo pseudo tecno-logico, lo slash al posto dell’“e/o” mi ricorda le virgolette mimate con indice e medio a uncino dagli attori americani. «Potremmo andare al cinema barra a cena barra a fare le vasche». Una barra di metallo sul cranio di chi la pronuncia è un’equa punizione.

Beh: richiama un belato lagnoso. Sebbene ammessa da alcuni vocabolari, questa par-ticella è la contrazione di “be(ne)”; quando accade questo fenomeno, ci insegnavano le maestre nell’Ottocento, resta la lacrima per la prematura dipartita. Corretto è quindi scrivere be’.

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Cavolate: vado a braccio: proseguio o pro-seguo per prosieguo; accellerare per accele-rare; metereologia invece di meteorologia; aereoplano o areoplano per aeroplano; consigliare (aggettivo riferito a Consiglio) anziché consiliare; chiacchere al posto di chiacchiere; pultroppo per purtroppo; vi-cessitudini invece di vicissitudini; consul-tivo per consuntivo; qual’è; un’ con l’apo-strofo davanti a sostantivo maschile; deus et (invece di ex) machina; afferrato (=preso) scambiato per ferrato (=competente); fax simile al posto di facsimile; redarre inve-ce di redigere; roboante anziché reboante; campi da calcio anziché “di calcio”...

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D eufonica: viene appiccicata come l’in-setto attratto irresistibilmente dalla carta moschicida. Con risultati risibili: “non c’e-rano sapori od odori”. Si chiama eufonica perché serve solo nei casi in cui la parola non suoni bene (cioè sia cacofonica) pro-nunciata assieme alla congiunzione o crei ambiguità: “ad eludere” è ben diverso da “a eludere”, “efficiente e bravo” elogia più di “bravo ed efficiente”. Si consiglia quando la vocale iniziale della parola sia la stessa della particella: «Io e Ugo andiamo ad Ancona».

Da cosa nasce cosa: A meno che non sia una cosa sterile…

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Entrare dentro: come se fosse possibile “entrare fuori”.

Entro e non oltre: ridondanza fastidiosa; chi rispetta il termine “entro” cui va fatto qualcosa, di sicuro non rischia di andare “oltre”.

Evento: al pari di emozioni e passione, un altro vocabolo che mi provoca ortica-ria. Oramai anche tirare lo sciacquone è diventato un evento, o la recita del rosario a Vancimuglio. E non provatevi a usare, in alternativa, kermesse.

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Fregnacce: sono quelli che nascono dai riflessi automatici, quelli che abbinano pa-role secondo l’abitudine. I ringraziamenti? Doverosi. Il tempo? Tiranno. L’incidente? Spettacolare. La strage? Annunciata. Il bilancio? Tragico. La notizia? Ferale. La collaborazione? Fattiva (Perché, c’è anche quella inerziale o ostruzionistica? Come fosse possibile collaborare, cioè lavorare assieme, senza fare). Il condizionale? D’ob-bligo.

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Gestire: siamo tutti ragionieri della vita quando qualsiasi accadimento, qualsiasi rapporto personale deve essere gestito. Si gestisce una ditta, al massimo un budget; non un’amicizia, un amore, il personale di un’azienda. Le persone non sono cose, né denari: si conoscono, si frequentano, si trat-tano, si apprezzano, si odiano. Ma non si gestiscono, perdìo!

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Help: le parole straniere comuni si usano come nella lingua originale (chef, rock, guru...); quelle particolari o equivocabili (tipo file che si può confondere con il plura-le di fila) vanno in corsivo; quelle superflue si possono tradurre: deadline (data ultima), feedback (riverbero nella musica, riscon-tro negli altri casi), target (destinatari). È difficile che ci siano parole straniere prive dell’equivalente italiano. Le parole prese in prestito vanno usate secondo il nostro voca-bolario. Si scrive alcol, non alcool; gol, non goal; tè, non the. Il plurale, in italiano, non si forma aggiungendo la s finale: “sports”, “partners” suonano tanto padre Buozzi.

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In qualche modo: «La crisi dell’azienda dipende in qualche modo dai sindacati». In qualche modo?!? In quale modo? Spiega-mi l’incidenza di una causa su un effetto. Fa il paio con “bene o male” e “come dire”. «Il libro ha espresso una teoria come dire provocatoria». Ma visto che la qualifichi, perché la introduci con “come dire”, quasi fossi incerto? Se la si vuol tirare lunga con la concione, si ricorra piuttosto agli avverbi (è uno stratagemma che usano anche alcuni giornalisti miei conoscenti, pagati a metro quadro. Quelli pagati a peso - della loro cultura - sono invece di solito pesantissimi).

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Legittimo proprietario: e come, se no? Il proprietario non può essere illegittimo, altrimenti non si potrebbe neanche quali-ficare “proprietario” e sarebbe un semplice detentore (per la serie: il diritto per tutti).

Luogo: «I funerali avranno luogo domani». C’è qualche problema di coordinate spa-zio-temporali. Se è domani, avranno tem-po, non luogo. O no?

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Maiuscole: la maiuscola è un inutile segno di deferenza, il retaggio di un rispetto da popolani-servi. Fosse per me, abolirei la let-tera maiuscola: la maggior parte delle volte si capisce dal contesto se un nome è proprio oppure no - gli unici che vanno con la pri-ma lettera alta.

Mirino: la vita sembra una continua guer-riglia (in)civile in cui i rapporti umani si seguono attraverso l’estremità di un fucile puntato. «Nel mirino delle forze dell’ordi-ne», «Nel mirino della Corte dei Conti», «Nel mirino dell’Istat»… Tutti tiratori scel-ti, sulla pelle dell’uomo qualunque.

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Noto: aggettivo che si dovrebbe centelli-nare. Se uno è davvero famoso, non occor-re presentarlo; basta la parola, come per il (noto) confetto lassativo. Se invece uno è un perfetto carneade, ci si rende ridicoli a definirlo “noto”: «Alle ore 15 presso la bi-blioteca di Cattapanni il noto pittore Ersi-lio Canasta espone i suoi ultimi capolavori. Presente l’autore».

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Occhio del ciclone: i giornalisti utilizzano questa immagine per definire la colloca-zione del protagonista di qualche scandalo. «Nell’ambito dell’inchiesta Piedi puliti il calciatore XY è finito nell’occhio del ciclo-ne». In realtà, anche per le persone digiune di Quark, Voyager e Misteri, l’occhio del ci-clone è esattamente il posto più tranquillo di una tempesta, anche se tutto intorno si è scatenato il finimondo.

Oggi come oggi: e “ieri come ieri”, “doma-ni come domani”. Apoteosi assurda della tautologia. Basterebbe dire “In questo mo-mento”, “Allo stato attuale”.

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Particolare: tutto diventa particolare, un particolare momento, una persona partico-lare (e come dovrebbe essere, generica?). Il generale è stato declassato.

Perso per perso: fa perso al quadrato?

Piuttosto: prelude a un’alternativa (=anzi-ché), non a un’elencazione (e… e): un ter-mine esclude l’altro, non si somma a esso. Sì: «Mangio il risotto piuttosto che la pa-sta»; vuol dire che, nel confronto, preferisco il riso. No: «Al ristorante mi piace mangiare di tutto, riso piuttosto che pasta piuttosto che carne».

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Quant’altro: «Abbiamo visto il Pd, il Pdl e quant’altro». Chiaro segnale che l’inter-locutore non ha idea di che cavolo sta di-cendo né idee sue proprie da argomentare né quant’altro.

Quello che…: «Dobbiamo indicare quelle che sono le priorità». Indicale e basta, senza “quello che”. «È nota per (quella che è) la sua ricchezza». A volte il relatore, travolto dall’enfasi del suo sapido discorso, manca addirittura la concordanza di genere e nu-mero: «Quelli che sono la prospettiva».

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Requisiti richiesti: “Requisiti” deriva dal latino e significa già “richiesti”. È un errore; sarebbe come dire “domande domandate” o “risposte risposte”.

Rispettivamente: «La marcia avrà tre per-corsi, rispettivamente di 7, 14 e 25 chilo-metri». Rispettivamente rispetto a cosa? Avrebbe avuto senso se si fosse scritto: «La marcia avrà tre percorsi, di 7, 14 e 25 chilo-metri, rispettivamente per bambini, adulti e atleti». Con rispetto parlando.

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Se tanto mi dà tanto: mi viene sempre da concludere: “poco mi dà poco”.

Settimana prossima: nella pole position delle arbitrarietà linguistiche spacciate per sciccherie c’è questo distico utilizzato senza articolo: «Settimana prossima ne parliamo».

Splendida cornice: qualsiasi manifestazio-ne, ospitata in un rudere o con lo sfondo di una discarica, è immancabilmente circo-scritta “nella splendida cornice”. Ai giorna-listi molte volte sfugge il quadro della si-tuazione però sulle cornici sono… afferrati.

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Trecentosessanta gradi o, peggio, 360°: non vuol dire niente, significa aver ruota-to su se stessi ed essere tornati al punto di partenza. Una visione “a 360°” è dunque la più miope, altro che aperta: l’ampiezza dell’orizzonte che noi possiamo vedere è una linea piatta. Intercalare per tutte le sta-gioni: 360 – o 365 per chi si confonde col calendario di frate Indovino – sono dunque le scudisciate che merita chi abusa di questa espressione (sperando non sia un patito del bondage).

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Un: articolo indeterminativo, da usare cioè quando il numero non è determinato; man-gio una pizza = una fra le tante. Inflazionato nell’uso corrente: «Ho visto una Svezia che ha giocato male»: quale Svezia? Per render-si conto dell’assurdità, provare a sostituire “due” a “uno” e controllare il risultato.

Un certo tipo di: presuppone sempre che ci sia “un incerto tipo di musica”, “un incerto tipo di cinema”, “un incerto tipo di teatro”. Da bocciare come “nella misura in cui” e “a livello”.

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Vero e proprio: «È stato un vero e proprio successo». Perché esistono anche gli insuc-cessi falsi e impropri? Al limite, un surroga-to di rafforzativo è “autentico”: «Abbiamo assistito a un autentico trionfo, un trionfo in piena regola».

Vigente: anche negli atti ufficiali, gli obbli-ghi sono sempre sanciti “in base alle norme vigenti”. Appare lapalissiano che non si è tenuti a rispettare norme “non vigenti”: se non fossero in vigore, infrangerle non sa-rebbe reato. Altrimenti dovremmo applica-re ancora oggi la legge del taglione.

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Zaltron: vivo di parole da quando ero bam-bino e campo di scrittura da oltre vent’anni. Sono giornalista professionista: ho lavorato per quotidiani e periodici come collabora-tore, direttore, redattore. Ho pubblicato ro-manzi (Riceviamo e volentieri, ¡Viva maria!, Guru per caso), saggi semiseri (Manuale per i(n)felici amanti, Crociera e delizia), guide letterarie (Treviso 101). Alcuni miei rac-conti sono sparsi in varie antologie. La mia specialità? Biografie di imprenditori, politi-ci, sportivi, persone con storie degne di es-sere narrate. E racconti d’amore, che Mon-dadori pubblica nella rivista Confidenze.

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STORIE D’IMPRESARaccontare la storia di un’azienda non è sem-plicemente la celebrazione di un imprenditore e di una squadra. È, soprattutto, l’occasione per ripensare chi si è e cosa si vuole diventare.

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OGNI AZIENDA È UN ROMANZONella mia vita ho incontrato molte aziende, im-prenditori audaci, orgogliosi, visionari. Alcuni di loro mi hanno chiesto di raccontare la loro vita. Perché, in fondo, farsi narrare è la via più breve verso l’immortalità.

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I MIEI LIBRISe volete restare in contatto con me, un buon mezzo è leggere i miei libri. Ne ho pubblicati di contenuto molto differente scrivendoli con stili variegati. E altri sono in arrivo…

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AMORISMIA chi piace ragionar d’amore, suggerisco la pagina “Cronache Sentimentali” su Facebook, dove pubblico quotidianamente i miei amori-smi, aforismi d’amore. Diventate fan della pagi-na premendo “Mi piace” e potrete sorridere, ri-flettere, confrontarvi sui sentimenti e la coppia.Anche se l’amore non è la cosa più importan-te al mondo, resta l’unica di cui non possiamo fare a meno. O così sembra.

www.cronachesentimentali.com

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Alessandro Zaltron - Cronache Sentimentali

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