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Edith Wharton

L'età dell'innocenza

Introduzione di Tommaso Pisanti Traduzione di Pietro Negri

Edizione integrale

In copertina: Mary Cassat, Lydia in un palco, con un collier di perle, 1879

Design: Alessandro Conti

Titolo originale: The Age of lnnocence

Prima edizione: gennaio 1996 © 1993 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 88-8183-233-X

Stampato su carta Libra Classic della Cartiera di Kajaani Copertina tram distribuita dalla Fennocarta s.r.l., Milano

campata su cartoncino Galene Card della Cartiera di Aanekoski distribuito dalla Fennocarta s.r.l.

Biblioteca Economica Newton

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La «signora» della narrativa

Edith Wharton: 21 romanzi, 11 volumi di racconti, 9 altri di vari argomenti, articoli e interviste su giornali e riviste: è il tutt'altro che marginale bagaglio bibliografico, della scrittura, anzi, di Edith Wharton (nata a New York nel 1862 e morta a St. Brice-sous-Forèt, presso Parigi, nel 1937). Una scrittrice di tutto rispetto e tuttavia rimasta per vario tempo un po' velata dalla personalità del newyorkese Henry James, «il vicin suo grande».

Ma si va ormai imponendo, Edith Wharton, con le sue distintive peculiarità, pur nell'ambito, certo, di tutta una abbastanza fitta rete di influssi e risonanze (e rielaborazioni) da ridefinire. Accade del resto, più di quanto non si pensi, di essere scavalcati, allorché si condividono posizioni e procedimenti stilistici di un più famoso scrittore: e James era uno scrittore di razza, di prima grandezza. Fu pertanto facile fare di Edith Wharton, frettolosamente, una sorta di «variante al femminile» di Henry James; né è stato poi agevole districare i fili e incominciare a vedere divergenze e peculiarità anziché convergenze e «imitazioni».

«Henry James's heiress», «l'erede di H.J.».1 Come James, anche la Wharton sembrava ispirarsi allo stesso «tema internazionale», al confronto, cioè, America-Europa, tra americani più lineari, rudi e «innocenti» ed europei più complessi, raffinati, sofisticati e «corrotti», tra Ottocento e primo Novecento, in un periodo di clamorose trasformazioni, in cui la realtà sociale americana s'andava facendo, d'altra parte, frenetica e «ruggente», all'insegna del business e della corsa al «successo» e al denaro, allontanandosi ormai anch 'essa dai modelli naturistici e pionieristici.

L'America viveva rudemente e, al solito, gigantescamente il passaggio all'industrialismo (dopo aver già pagato il terribile scotto della Civil War, della guerra civile Nord-Sud), con accentuazioni di ferocia e di « volgarità» (e irrigidimenti puritani, al tempo stesso). Ne risultavano sconvolti tutti i precedenti equilibri, mentre città come New York e Chicago andavano trasformandosi in abnormi metropoli, con i primi grattacieli che ne disegnavano i nuovi, strani profili, e masse di emigrati che sbarcavano dai bastimenti e s'immettevano nel vorticoso «crogiuolo» destinate, intanto, agli slums delle squallide periferie.

Culturalmente, letterariamente, tutto ciò segnava, s'intende, il passaggio dal romanticismo naturistico, appunto (Emerson, gli impeti di Whitman) a un realismo/naturalismo acre e «grigio», che vuole adoperare, a rappresentare quegli scenari così confusi e così vitali al tempo stesso, gli stessi strumenti, à la Zola, dell'oggettività e della impersonalità, descrivendo con fermezza situazioni e condizionamenti ambientali, servendosi delle medesime premesse del determinismo positivistico, del principio darwinista della «sopravvivenza del più forte», dell'evoluzionismo di Spencer2.

Ma Henry James, pur avvalendosi dell'impostazione realistica, aveva trasferito l'indagine dentro i meandri della psicologia, inseguendo effetti più sottili e impalpabili, ma non meno concreti e decisivi. E allargava enormemente il campo, anzi, attraverso l'attenta, capillare esplorazione dei dati e degli stati interiori, psicologici: e non più soltanto in un ambito di semignorata «provincia» americana, ma su una scena internazionale, in un serrato confronto con la «vecchia» Europa. Un confronto di valenze, di atteggiamenti che James pensa di poter meglio approfondire operando in Europa (a Parigi, a Firenze, a Londra), collocandosi cioè come in prospettiva, da luoghi d'osservazione più articolati e stratificati3.

E anche Edith Wharton ha di mira una rappresentazione realistico-psicologistica, ha l'occhio rivolto al «tema internazionale» e alle varie combinazioni che ne scaturiscono; ma osservando soprattutto, per dir così, il lato americano, su suolo americano, possibilmente prima che ci s'imbarchi per l'altra sponda dell'Oceano. E poi James è fluido, finemente intento a smussare ed a raffinare; ha ben presenti, contemporaneamente, l'effetto estetico, le immagini che ne deriveranno. Edith ha conosciuto, del resto, Henry James, l'ha incontrato a Parigi in casa di comuni amici («ero

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ammutolita davanti alla sua grandezza»), è stata sua ospite, con il marito, nella sua casa inglese, nel Sussex, e l'ha ospitato a sua volta in America. E Edith ha adottato anche lei il criterio del «punto di vista» (point of view), della presentazione, cioè, di vicende e situazioni dall'angolo visuale di un personaggio-narrante e non da quello del narratore «onnisciente» che tutto racconti e distribuisca.

Ma pare a Edith che James innalzi un po' a dogmi tali nuovi criteri, un tale rigore stilistico in cui imbrigliare, con «geometrical sense», «lo sperpero della vita», lasciando talvolta fuori, tuttavia, proprio i «movimenti più irregolari e irrilevanti della vita»5. La Wharton, invece, vuol dare maggiore corposità alla rappresentazione, traccia linee più robuste (ma, anche, a sua volta, con ben minore carica di allusività) e, soprattutto, vuol dare carattere di denuncia ai tableaux sociali da lei presentati. James stesso le ha consigliato di impegnarsi, innanzi tutto, ad offrire aspetti e situazioni della società newyorkese, che lei conosce così bene. E riesce, ad essere, in questo — ha scritto Edmund Wilson — «animosa» e «rabbiosa», diversificandosi nettamente, in tal senso, dalle «rarefazioni» jamesiane6.

New York, dunque: microcosmo che era andato ormai diventando il gran macrocosmo che sappiamo. E Edith Wharton analizza con acutezza, e in profondità, quel «suo» mondo. Ne fissa innanzi tutto due «fasi» distinte anche se infine convergenti. La prima è quella di una New York più «antica», non ancora metropoli, una New York con le sue ricche famiglie «distinte» — quasi un 'aristocrazia — discendenti dai primi gruppi di olandesi e poi inglesi (New York era nata come Nieuwe Amsterdam): «aristocrazia» sobria, operosa, decorosa, ma rigida e oppressiva con il suo spirito di corpo, di dignità e «decenza», con la scansione sempre uguale di codici e rituali — matrimoni, nascite, morti. La New York degli anni settanta dell'Ottocento, la New York di Edith bambina e adolescente1.

La seconda «fase» è quella, invece, della New York «involgarita», tra fine Ottocento e primo Novecento, dagli sconvolgimenti sociali sopra descritti. Che danno origine, intanto, a nuovi ceti, ai potenti «nuovi ricchi» che con destrezza, astuzia e vitalità insieme entrano a far parte della «buona società», alla conquista di un esteriore prestigio e di una finta dignità. Il livello, naturalmente, s'abbassa; tutto si fa più rozzo e approssimativo, e la vita sociale è tutta attraversata da micidiali pettegoli sussurri, da ipocrisie, da sottili veleni e violenze. Il risultato è una specie di mescolanza, un ibrido. Che Edith Wharton rappresenta al vivo, nei suoi romanzi e racconti, con le sue crudezze e le sue ipocrisie, ma anche con le insofferenze, le frustrazioni e le ribellioni, limpide o più torbide e tortuose. E si pensi a romanzi di forte caratterizzazione come The House of Mirth (La casa della gioia), The Custom of the Country (L'usanza del paese), e al vigoroso Ethan Frome. Con un po' di nostalgia, infine, per quella New York «di prima», che, pure, le era sembrata così severamente costrittiva. Di fronte alle «nuove ondate», quel mondo poteva perfino configurarsi, a distanza, come The Age of Innocence (L'età dell'innocenza).

Edith Newbold Jones nasce dunque in una di tali alte, facoltose, un po' mitiche famiglie di New York. E come la famiglia James, anche i Jones possono permettersi vita agiata e confortevole, scuole esclusive (ma per Edith, una ragazza, l'educazione è privata, in casa), viaggi e lunghi soggiorni all'estero. Già da bambina Edith è stata in Europa, ha visto la Francia e l'Italia. Un ruolo rilevantissimo di ideale guida e consigliere svolgerà l'avvocato Walter Berry, esperto di diritto internazionale, uno degli ultimi «gentlemen of culture», un lifelong friend, un amico per la vita.

Poi, il matrimonio a 23 anni, con il facoltoso (bostoniano ma di famiglia originaria della Virginia) Edward Wharton, un po' più anziano, ma aperto ai viaggi, comprensivo pur con le sue riserve. Vivono tra New York e Newport, nel Rhode Island, e poi Lenox, nel Massachusetts, in una cerchia non ampia, certo, di amici (sarà lì ospite anche lo stesso Henry James. Ma più spesso ancora sono in viaggio (non avranno figli), perfino in crociera nel «remoto» Egeo. Fanno vita brillante, conoscono il romanziere Paul Bourget e un po' tutta la Parigi che conta. Poi, l'amore-passione per il giornalista americano, ma conosciuto in Francia, Morton Fullerton, la febbre dei

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sensi (che mancò a Henry James). La malattia del marito, la separazione, il divorzio (1913). Edith deciderà di continuare a vivere in Francia, comunque: in una casa-castello in Riviera, più tardi, o nella settecentesca casa di Parigi. E, ancora, sarà spesso in viaggio. In Italia, in Germania, in Nordafrica, altrove. Una biografia di chi «ha il pranzo assicurato»? Qualcuno disse così anche di Henry James. Assurda demagogia, naturalmente, Edith Wharton ha cominciato col pubblicare qualche poesia, poi i primi racconti, sullo Scribner's Magazine. Alla poesia riserverà, certo, anche dopo, una sua fedeltà (Artemis to Actaeon, 1909; Twelve Poems, 1926); ma è il talento narrativo che si dispiegherà con incalzante ritmo, soprattutto nel periodo «centrale», dal 1905 (La casa della gioia) al 1920 (L'età dell'innocenza). Libri come The Decoration of Houses (L'arredo delle case, in collaborazione con Ogden Codman: 1897) o, più tardi (1905), Italian Villas and their Gardens, indicano un fine gusto, femminile amore per l'eleganza, ma anche un'acuta-pacata capacità d'osservazione. Che si rivelerà poi anche nei vari articoli e libri di viaggi (da Italian Backgrounds, 1905, a In Morocco, 1920). O nel delizioso Fuga a motore attraverso la Francia (1908).

Naturalmente, è la condizione femminile che balza subito in primo piano, attraverso condizioni e situazioni direttamente «sperimentate», da Edith, in quel suo primo aprirsi ad una vita di relazione contrassegnata, appunto, da etichette, radicati pregiudizi, convenzioni soffocanti. Edith è all'opposizione, certo, in nome di più libere e schiette scelte «personali», individuali; rendendosi via via conto, tuttavia, di quanta forza sia poi contenuta anche in quell'incessante flusso del quotidiano familiare, in bene e in male, in quei condizionamenti che ci plasmano e ci delineano, infine: al di fuori dei quali l'individuo rischia d'essere, spesso, anzi, solo un 'astrazione.

Vi è, ad ogni modo, una dialettica di oppressione e rivendicazione di schiettezza e libertà che diventa, in certi periodi e momenti, cruciale e decisiva. E ciò riguarda, in particolare, le donne, il loro ribellarsi, pur in società più liberali, spesso, ad una concezione puramente decorativa della femminilità, della donna, «adorata» e chiusa in una gabbia dorata. Una Wharton prefemminista? Sì, in un certo senso; ma nell'ambito, sempre, delle «ragioni narrative», di un 'acutezza e penetrazione da «analista dei costumi». E in un ambito, in ultima istanza, di «sostanziale adesione alla mentalità della sua classe sociale»4. In una varia gamma di sfumature, comunque.

The Touchstone (La pietra di paragone, 1900), un romanzo breve, dopo la raccolta di racconti The Greater Inclination (La maggiore inclinazione), è ancora, per buona parte, jamesiano. Seguiranno altri racconti e, sorprendentemente, un romanzo storico, di tipo semmai stendhaliano, The Valley of Decision (La valle della decisione, 1902), ambientato in un 'Italia padana settecentesca, frutto di accurate ricerche, ed emblematico, anch'esso, di una conflittualità sociale-generazionale, negli anni intorno alla Rivoluzione francese, tra il « vecchio» da abbattere e il «nuovo» che si rivela, poi, tutt'altro che esaltante.

Ma Edith Wharton ritorna, subito dopo, agli scenari contemporanei, che non lascerà più. Sanctuary (1903) esplora la psicologia di una madre in apprensione per il figlio che ha ereditato dal padre, alcune debolezze del carattere. Una tematica ibseniana. Poi, nel 1905, il robusto spaccato sociale di The House of Mirth, col suo compatto impianto e con la delineazione di un grande personaggio femminile: Lily Bart. Che vorrebbe sfuggire al destino «di essere un oggetto raro, prezioso, un pezzo da collezionista, deliberatamente tenuto al di fuori della vita vera, al di fuori di ogni attività costruttiva»5, aspirando ad essere «qualcosa di più di un grazioso oggetto senziente»".

Certo, poiché una donna non può far altro, insomma, che tentare di conquistarsi un ricco marito, anche Lily si mette all'opera. Ma la sua schiettezza, la sua ironia la portano ben presto ad infrangere cerimoniali, ipocrisie e regole del gioco, ad essere messa sotto accusa e ad essere infine messa al bando. E Lily piomberà in uno stato di profonda prostrazione, vorrà porre fine, con la vita stessa, a quell'insensato e crudele gioco d'apparenze. Così, la «comedy of manners»6, la «commedia di costume» trapassa dalla brillantezza alla tragedia. E, d'altra parte, una società frivola «assume significanze drammatiche solo attraverso quello che la frivolezza distrugge»7.

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È in concentrazioni come queste che Edith Wharton sa essere drastica e tagliente, sa essere, di suo, appunto, «animosa» e «rabbiosa». Come avviene nell'altro compatto romanzo «sociale»: L'usanza del paese (1913). «Usanza» che è appunto quella, nella società familiare, del ruolo e destino riservati alle donne. Ma la bellissima Ursula Spragg se ne libera, con le armi, questa volta, dell'astuzia più cinica, dell'arrivismo più spregiudicato (ma, anche, di una sua vitalistica freschezza «americana»). Non la fermano né il marito né il bambino, e a Parigi, nella favolosa

Parigi della belle époque, incontrerà un titolato, di antica famiglia «europea» (ancora, il «tema internazionale»). Ma non sempre poi la grande ricchezza s'accompagna ai gloriosi titoli. E tutto è anche lì così soffocante. E Undine tornerà all'«usanza del paese», a un americano capace di accumulare successo e ricchezza e di lasciarla, a intrigare, nel suo mondo dorato.

Ma altra narrativa era intanto scorsa negli anni intermedi tra i due romanzi: il romanzo breve Madame de Treymes (1907), forse il più jamesiano dei racconti whartoniani, il romanzo The Fruit of the Tree (Il frutto dell'albero; dello stesso anno), con al centro un grande lanificio, con una articolata conflittualità tra sentimenti e condizione sociale; e i Tales of Men and Ghosts (Racconti di uomini e fantasmi, 1910), con gli spettri — come in certi magistrali racconti di Henry James — che sono proiezioni d'ossessioni e inquietezze psicologiche8. Ed è del 1911 Ethan Frome, il breve e concentratissimo romanzo, che al di fuori della tematica newyorkese o «internazionale», ci porta in «un paesaggio raggelato», in una solitaria fattoria del Massachusetts: «una di quelle solitarie fattorie che rendevano il paesaggio ancora più solitario»9.

Una storia di passioni e solitudine, di «granito che affiora» (outeropping granite), raccontata da un altro, da un personaggio «esterno»: la storia di Ethan, di Zeena (la moglie malata) e di Mattie, la cugina, e del disperato amore, per tanto tempo nutritosi di sguardi e di silenzi, che spinge Ethan e Mattie in una folle corsa in slitta, giù per il pendio nevoso. Sopravvivono entrambi, ma menomati per sempre. E così li ha trovati il narratore, ventiquattro anni dopo, nella tetra cucina, ancora sotto il dominio di Zeena. Poi, The Reef (1912): «La scogliera» contro cui s'infrangono le ragioni di un amore (protagonista un diplomatico americano in Francia).

Allo scoppio della guerra mondiale, Edith Wharton si trova in Inghilterra; ma ritorna subito a Parigi, per impegnarsi in compiti e attività di assistenza (sarà insignita, per questo, della Legion d'onore francese — prima donna ad esserlo — e dell'ordine di Leopoldo dal governo belga). Pubblica raccolte di racconti e articoli (Tighting France, La Francia combattente, 1915). Summer (Estate, 1917) riprende l'acre «espressionismo» di Ethan Frome, con la storia di una ragazza ansiosa di «evadere» dalla mediocrità di vita del villaggio. È vivamente colpita dalla morte di Henry James, nel 1916.

Edith Wharton vuole trasferire anche a livello narrativo situazioni e atmosfere di quegli anni di guerra The Marne, romanzo breve; e, più tardi, nel 1923, A Son on the Front, (Un figlio al fronte10. Senza dire dei saggi sui «modi francesi e i loro significati» French Ways and Their Meaning. Poi, nel 1920, The Age of Innocence. La rivisitazione di una New York anteriore alla fase della rimescolanza, dell'ibridazione «selvaggia». Giochi più ovattati, quindi, rigidi rituali di gruppo, ipocrisie, eleganti reticenze e ferme imposizioni. Un mondo che può però essere riguardato ora con occhi più indulgenti, con un senso perfino un po' nostalgico, dopo tante crudezze e tante brutture. Come un '«età dell'innocenza», appunto.

Il romanzo è incentrato intorno alla figura di Newland Archer, brillante avvocato di quella brillante, esclusivistica società newyorkese di allora. Equilibrato e umano, «ritratto di un gentleman», come s'è giustamente detto, Archer conosce, prima che sia annunciato il suo fidanzamento con May, una cugina di May, Ellen Olenska, moglie separata di un corrotto conte polacco. Ellen è schietta e sensibile, ma non può essere accettata in una società così inflessibilmente formalistica. Archer se ne innamora, invece. Ma non può, non vuole sottrarsi ai suoi impegni, e sposa May. Ellen va via, si trasferisce a Parigi. Vi sono momenti in cui Archer vorrebbe raggiungerla: ma la notizia che May aspetta un figlio lo richiama alla sua realtà, ai suoi

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doveri.L'ultimo capitolo si svolge trent'anni dopo, con un audace spostamento e stacco cinematico.

Archer è vedovo, ed è a Parigi insieme al figlio. Sarebbe libero, ora. Ellen li invita; ma Archer manda solo il figlio. Preferisce tenersi intatti i suoi ricordi. Con una sorta di goethiana scelta di saggezza, di accettazione del reale11. In fin dei conti, sembra voler sottolineare la Wharton, «c'era del buono nel costume d'altri tempi»12. Ma senza eccessivi indugi, comunque. Benché colpita dalla disinvoltura delle «maschiette» della nuova generazione dei «ruggenti anni» venti, «poteva esserci del buono anche nel nuovo ordine di cose»13. Sottili atmosfere, comunque che non sempre il recente film di Scorsese, attento soprattutto ai fasti di un mondo «dorato», riesce a cogliere.

Intanto, proprio per The Age of Innocence, Edith Wharton riceve il premio Pulitzer. È la prima donna a riceverlo. L'Università di Yale le offre una laurea ad honorem, e Edith torna in America per la prima volta dal 1912. Conosce Sinclair Lewis, il romanziere, con Sherwood Anderson e poi con F.S. Fitzgerald, della nuova generazione. E Lewis le dedica Babbitt (1922). Pubblica, ancora, romanzi e racconti. Ancora numerosi titoli: The Glimpses of the Moon (I balenii della luna) e, nel 1924, i quattro racconti lunghi su New York: Old New York. È una narrativa stilisticamente più diluita, attenta ai rapporti all'interno di una famiglia, di una relazione, di situazioni di divorzio: La ricompensa della madre (1925), Sonno al crepuscolo (Twilight Sleep), del 1927, Figli (Children), dell'anno successivo. L'Hudson River messo in parentesi (Hudson River Bracketed), del 1929, estende tali analisi etico-sociali al rapporto Midwest-New York; e il seguito, Gli dèi arrivano (Gods Arrive), che si svolge in Europa, e che è del 1932.

Edith non può recarsi in America, per le sue condizioni di salute, a ricevere, dalla Columbia University di New York, un 'altra laurea ad honorem. È la prima donna ad essere accolta nell'American Academy of Arts and Letters. È proposta per il premio Nobel, che viene però assegnato, nel 1926, a Grazia Deledda. Human Nature: ancora una raccolta di racconti (1933). Da qualche anno è morto Walter Berry, amico da sempre. Poi, A Backward Glance (Uno sguardo indietro), nel 1934: succose, vivaci pagine autobiografiche. E Edith Wharton muore, come si diceva, nella «sua» Francia, a St. Brice-sous-Forét, l'il agosto 1937. È sepolta a Versailles, accanto alla tomba di Walter Berry.

Ghosts (Fantasmi) — al di là, si direbbe, di tutto il pregnante «realismo» — ritorna come titolo di una raccolta postuma di racconti.

E, ancora, l'incompiuto romanzo The Buccaneers (Le bucaniere), un vivace, ironico quadro moderno di neo-arrampicatrici ragazze americane che vorrebbero infilarsi nella «buona società» sposando altolocati giovanotti inglesi™.

Riemerge, insomma, come vivacemente interessante, proprio in chiave narratologica, l'opera e il «ruolo» di Edith Wharton: che al di là di formule sostanzialmente limitative («erede di Henry James»; «storiografo dell'aristocrazia di New York»; «pre-femminista») può ben rivendicare per sé quella caratterizzazione in termini (ricondotti alle origini, forse più balzachiani che jamesiani) di prevalenza del «personaggio» (character) sulle «situazioni»: come la scrittrice stessa ha voluto teorizzare nel suo saggio sulla scrittura narrativa (The Writing of Fiction, 1925).

TOMMASO PISANTI

LA VITA

Edith Newbold Jones nasce il 24 gennaio 1862 a New York da una famiglia della ricca borghesia di origine anglo-olandese. Un bisnonno aveva partecipato alla guerra d'indipendenza. Edith è terza dopo i due fratelli Frederic e Henry Edward. Viaggia fin da bambina, soggiornando con la famiglia soprattutto in Francia e in Italia. Dopo un'educazione «privata», sposa nel 1885 il banchiere Edward

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Wharton, di Boston, ma di tale ritualismo alto-borghese, e poi dei privilegi ostentati dai «nuovi ricchi», Edith avverte ben presto anche il lato di «falsità» e oppressività. Si stabilisce col marito a Newport, nel Rhode Island, ed è spesso in viaggio in Europa.

Pubblica versi e racconti, avendo dapprima come «modello» Henry James, che per primo ha impostato in termini narrativi il cosiddetto «tema internazionale» (sui rapporti, cioè, tra americani più semplici e «innocenti» ed europei più colti e raffinati, ma spesso anche più «corrotti»). Edith entra in amicizia col grande scrittore, che sarà poi anche ospite dei Wharton in America. Ma Edith accentua maggiormente il lato di satira e talvolta anche di denuncia sociale nella rappresentazione di un mondo «dorato» che ha soprattutto nelle donne le sue protagoniste più colpite e, talvolta, le sue vittime: come in The House of Mirth (La casa della gioia: 1905). O anche le sue splendide «arrampicatori»: come in The Custom of the Country (L'usanza del paese: 1913). Ma il «femminismo» resta strettamente legato alle «ragioni narrative».

Precedentemente, Edith Wharton, ha pubblicato, oltre a raccolte di racconti, The Touchstone (La pietra di paragone: 1900), The Volley of Decision (1902), romanzo ambientato in Italia, alla fine del Settecento, tra rinnovamenti rivoluzionari e conseguenti delusioni, The Fruit of the Tree (Il frutto dell'albero: 1907), il vigoroso Ethan Frome (1911), storia di chiuse passioni in un villaggio del New England, e The Reef(La scogliera). Il matrimonio si va logorando; Edith ha una relazione passionale col giornalista americano William Morton Fullerton. Dopo la malattia e la morte del marito, Edith si stabilisce a Parigi. Durante la guerra mondiale svolge un'attiva opera di assistenza, ed è insignita della Legion d'onore dal governo francese e di un alto riconoscimento dal governo belga. Edith pubblica anche alcuni romanzi «di guerra»; e poi, nel 1920, The Age of Innocence (L'età dell'innocenza), che rievoca figure e situazioni di una società newyorkese più «antica», meno ibridata, collegata col suo tempo più giovanile.

Riceve, per tale romanzo, il premio Pulitzer. È chiamata a far parte (ed è la prima donna ad esserlo) della American Academy ofArts and Letters. È candidata al Nobel (che è però assegnato, nel 1926, a Grazia Deledda). Nel 1924 la Wharton pubblica A Backward Glance (Uno sguardo indietro), pagine autobiografiche. Muore nel 1937 a St. Brice-sous-Forèt, presso Parigi. Lascia incompiuto The Buccaneers (Le bucaniere), vivace e ironico quadro «moderno» di neo-arrampicatrici sociali.

LE OPERERomanziThe Touchstone, Scribner's, New York 1900. The Volley of Decision, New York 1902. Sanctuary,

New York 1903. The House of Mirth, New York 1905.

Madame de Treymes, New York 1907.

The Fruit ofthe Tree, New York 1907.

Ethan Frome, New York 1911.

The Reef, Appleton, New York 1912.

The Custom of the Country, Scribner's, New York 1913.

Summer, Appleton, New York 1917.

The Marne, New York 1918.

The Age of Innocence, New York 1920.

The Glimpses ofthe Moon, New York 1922.

A Son at the Front, Scribner's, New York 1923.

The Mother's Recompense, Appleton, New York 1925.

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Twilight Sleep, New York 1927.

The Children, New York 1928.

Hudson River Bracketed, New York 1929.

The Gods Arrive, New York 1932.

The Buccaneers, New York 1938.

Raccolte di racconti

The Greater Inclination, Scribner's, New York 1899.

CruciaiInstances, New York 1901.

The Descent of Man and Other Stories, New York 1904.

The Hermit and the Wild Woman and Other Stories, New York 1908.

Tales ofMen and Ghosts, New York 1910.

Xingu and Other Stories, New York 1916.

Old New York: False Dawn; The Old Maid; The Spark; New Year's Day, Appleton,

New York 1924. Here and Beyond, New York 1926. Certain People, New York 1930 Human Nature, New York 1933. The World Over, New York 1936. Ghosts, New York 1937.

The Collected Short Stories, a cura di R.W.B. Lewis, 2 voli., Scribner's, New York 1968.

PoesieVerses, Hammett, Newport 1878; Artemis to Actaeon and Other Verses, Scribner's, New York

1909; Twelve Poems, The Medici Society, Londra 1926.

VarieThe Decoration ofHouses, Scribner's, New York (con Ogden Codman), 1897; Italian Villas and

Their Gardens, Century, New York 1904; A Motor-Flight Through France, Scribner's, New York 1908; Fighting France from Dunkerque to Belfort, ibid. 1915; French Ways and Their Meaning, Appleton, New York 1919; In Morocco, Scribner's, New York 1920; The Writing of Fiction, ibid. 1925; A Backward Glance, Appleton-Century 1934.

EpistolariThe Heart is Insatiable. A Selection from Edith Wharton's Letters to Morton Fullerton, 1907-

1915, a cura di A. Gribbin, Library Chronicle of the University of Texas, 1985; The Letters of Edith Wharton, a cura di R.W.B. Lewis e N. Lewis, Simon & Schuster, Londra 1988.

TRADUZIONILa pietra di paragone, tr. di G. Rossi, Sonzogno, Milano 1929.

Gli infelicissimi (Ethan Frome), tr. di L. Mazzolani, La Nuova Italia, Firenze 1931.

La figlia della montagna (Summer), tr. di S. Rosati, Carabba, Lanciano 1933.

I ragazzi (The Children), tr. di L. Jervis Rochat, Frassinella Torino 1945 (e Longanesi, Milano 1989).

Ethan Frome, tr. di P. Bottini, Jandi-Sapi, Milano-Roma 1946. Un caso terribile: Ethan Frome, tr. di M. Hannau, Longanesi, Milano 1953 (e 1970; 1979).

La casa dell'allegria (The House of Mirth), tr. di C. Lavagetti, Mondadori, Milano 1957

(e Editori Riuniti, Roma 1983). L'età dell'innocenza (The Age of Innocence), tr. di A. D'Agostino, Feltrinelli, Milano (e Longanesi, Milano 1979; Club degli Editori 1980; Euroclub, Bergamo 1981;

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TEA, Roma 1988).

L'incidente (Ethan Frome), tr. di G. Ducei, Rizzoli, Milano 1963. Storie di fantasmi (Ghosts), tr. di G. Ernesti, Sonzogno, Milano 1974 (e Bompiani, Milano 1980).

Amore disperato (Ethan Frome), Moneta, Milano 1980.

Vecchia New York: Racconti, tr. di M.G. Castagnone, La Tartaruga, Milano 1983. Ville italiane e loro giardini, tr. di Dandolo e Uzielli, Passigli, Firenze 1983. Uno sguardo indietro (A Backward Glance), tr. di M. Buitoni Duca, Editori Riuniti, Roma 1984.

Estate (Summer), tr. di M.G. Castagnone, La Tartaruga, Milano 1984. L'usanza del paese (The Custom of the Country), tr. di M.T. Sereni, Longanesi, Milano 1985.

Febbre romana (Roman Fever) e altri racconti, tr. di M.L. Agosti, La Tartaruga, Milano 1988.

La Newton Compton ha pubblicato di Edith Wharton:

Ethan Frome, tr. di L. Angelini, Roma 1994.

La casa della gioia, tr. di Pier Francesco Paolini, Roma 1994.

L'usanza del paese, tr. di L. Bianciardi, Roma 1994.

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Note:

! E. WHARTON, ibid., p. 153.6 Nella cit. A Collection of Criticai Essays a cura di I. Howe. Per H.S. CANBY (IN LITErary History of the United

States, a cura di R. Spiller e altri, u, pp. 1209-11) la narrativa della Wharton è interamente appoggiata alla grande arte di Henry James, in maniera «meno sottile e originale». Per il già cit. Q.D. LEAVIS, Edith Wharton continua l'opera del primo Henry James, «Il James di The Bostoniani e del Portrait of a Lady». Si potrebbe dire, infine, che «l'esempio dell'uno valse a stimolare lo spirito di emulazione dell'altra, portandola a cimentarsi in piena autonomia, in temi già sfruttati dal suo grande predecessore e maestro» (v. SANNA, Saggi di letteratura inglese e americana, Roma 1977, pp. 129 ss.).

7 Per gli aspetti biografici: R.W.B. LEWIS, Edith Wharton: A Biography, Londra 1975; c.c. WOLFF, A Feast of Words: the Triumph of E. Wharton, New York 1977.

20 N.R. LEACH, «Edith Wharton Unpublished NoveI», in American Literature, 25 (1953), pp. 334-53; e il saggio di C. WERSHOVEN, in American Literary Realism, 15 (1982), pp. 209-220. E.B. NEVIUS, Edith Wharton. A Study of Her Fiction, Berkeley, 1953.

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Libro Primo

Capitolo primo

Agli inizi degli anni Settanta, una sera di gennaio, Christine Nillson cantava nel Faust all'Accademia di Musica di New York. Sebbene si parlasse già di costruire in una zona metropolitana lontana dal centro un nuovo teatro dell'opera, che per l'alto costo e per lo sfarzo avrebbe retto il confronto con quelli delle grandi capitali europee, il bel mondo si accontentava ancora di tornare a radunarsi ogni inverno nei mal ridotti palchi addobbati in rosso e oro dell'accogliente vecchia Accademia. I tradizionalisti le erano molto affezionati perché, essendo piccola e scomoda, teneva alla larga «la gente nuova» per la quale New York cominciava a provare timore ma anche una certa attrazione; i sentimentali vi si aggrappavano a causa dei suoi ricordi storici e i musicofili per la sua ottima acustica, requisito che ha rappresentato sempre un problema nella costruzione di sale destinate ai trattenimenti musicali.

Si trattava, quell'inverno, della prima apparizione di Madame Nillson e quello che la stampa aveva già imparato a definire come «un pubblico eccezionalmente brillante» si era accalcato per andarla a sentire, trasportato per le strade sdrucciolevoli e coperte di neve in carrozze chiuse private, nello spazioso landò di famiglia, o nel più modesto ma più pratico Brown coupé. Recarsi all'opera in Brown coupé era prestigioso quasi quanto arrivarci con la propria carrozza; e andarsene con lo stesso mezzo aveva l'enorme vantaggio di consentire (con scherzosa allusione ai principi democratici) di prendere al volo il primo veicolo Brown della fila, senza dover aspettare che il naso del proprio cocchiere, congestionato dal freddo e dal gin, luccicasse sotto il portico dell'Accademia. Una delle più sagaci intuizioni del grande proprietario di carrozze da nolo era stata quella di aver capito al volo che gli americani vogliono filarsela dai luoghi di divertimento ancora più alla svelta di quanto desiderino andarci.

Quando Newland Archer aprì la porta del palco riservato al club, il sipario si era appena levato sulla scena del giardino.

Non c'era motivo per cui il giovanotto non potesse arrivare prima, dato che aveva cenato alle sette, con la madre e la sorella soltanto, e si era poi attardato con un sigaro nella biblioteca di stile gotico, arredata con librerie a vetri in legno di noce e sedie dallo schienale intagliato, l'unica stanza della casa dove la signora Archer permetteva che si fumasse. Tuttavia, New York era per prima cosa una metropoli, e si sapeva benissimo che nelle metropoli «non stava bene» arrivare in anticipo all'opera; e ciò che stava o non stava «bene» aveva nella New York di Newland Archer una parte tanto importante quanto i misteriosi terrori ancestrali che avevano governato il destino dei suoi progenitori migliaia di anni prima.

Il secondo motivo del suo ritardo era di carattere personale. Si era gingillato col sigaro perché nel profondo del cuore era un dilettante e al pensiero di un piacere futuro, provava spesso una soddisfazione più sottile che nella sua realizzazione. Ciò accadeva in particolare quando si trattava di un piacere delicato, come in prevalenza lo erano i suoi; e in questo caso il momento che egli attendeva era di qualità talmente rara e stupenda che ... insomma, se avesse concordato il suo arrivo con il direttore artistico della prima donna non sarebbe riuscito a entrare nell'Accademia in un momento più azzeccato di quello in cui lei stava cantando «M'ama — non m'ama — m'amai», spargendo petali di margherita e effondendo note limpide come rugiada.

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Beninteso lei cantava «M'amai e non «he loves me», in quanto una legge immutabile e indiscussa del mondo musicale esigeva che il testo tedesco di opere francesi cantato da artisti svedesi si dovesse tradurre in italiano per farlo meglio capire a spettatori di lingua inglese. A Newland Archer ciò sembrava naturale quanto tutte le altre regole a cui la sua vita si adeguava: come quella di usare due spazzole dal dorso d'argento con il suo monogramma in smalto azzurro per farsi la scriminatura, o l'altra di non comparire mai in società senza un fiore (preferibilmente una gardenia) all'occhiello.

«M'ama ... Non m'ama», cantò la prima donna, e ancora «M'amai» in una esplosione finale di gioia amorosa, mentre si premeva sulle labbra la malconcia margherita e sollevava gli occhioni verso la sofisticata compostezza del piccolo e triste Faust-Capoul il quale, in un attillato farsetto di velluto purpureo e con un berretto piumato, cercava inutilmente di apparire schietto e autentico quanto la sua ingenua vittima.

Newland Archer, appoggiato alla parete di fondo del palco del club, distolse lo sguardo dal palcoscenico e scrutò il lato opposto della sala. Proprio di fronte a lui c'era il palco della vecchia vedova di Manson Mingott, alla quale la mostruosa obesità impediva da lungo tempo di essere presente all'opera, ma che nelle serate mondane era sempre rappresentata da qualche componente più giovane della famiglia. In quel momento, la prima fila del palco era occupata dalla nuora, cioè la moglie di Lovell Mingott, e da sua figlia, la signora Welland; e in posizione un po' arretrata alle spalle delle due matrone sontuosamente abbigliate era seduta una fanciulla biancovestita che fissava estatica gli innamorati in scena. Mentre il «M'ama» di Madame Nillson palpitava al di sopra della sala silenziosa (nei palchetti si smetteva sempre di chiacchierare durante l'aria della margherita), un caldo rossore salì alle gote della giovanetta, le coprì la fronte fino alla radice delle sue belle trecce e soffuse l'acerba curva del suo seno fino al punto dove essa era interrotta da un modesto scialletto di tulle fermato soltanto da una gardenia. Ella abbassò gli occhi sull'enorme mazzo di mughetti che teneva sulle ginocchia e Newland Archer la vide toccare delicatamente i fiori con la punta delle dita coperte da candidi guanti. Con un sospiro di vanità appagata, egli riportò gli occhi sul palcoscenico.

Non si era badato a spese per la messa in scena, che era veramente magnifica anche per ammissione di coloro che frequentavano i teatri lirici di Parigi e di Vienna. Il primo piano, fino alle luci della ribalta, era coperto di panno verde smeraldo. In secondo piano, cumuli di muschio lanoso simmetricamente disposti e contornati da archetti da croquet costituivano la base di arbusti che somigliavano a piante d'arancio, ma erano ornati da grandi rose rosse. Dal muschio sottostante agli alberelli d'arancio spuntavano viole gigantesche, molto più grandi delle rose e simili ai nettapenne a forma di fiore composti dalle parrocchiane per ecclesiatici al passo con i tempi; qua e là, poi, una margherita innestata su un ramo di rosa sbocciava con un rigoglio che preannunciava i futuri prodigi realizzati da Luther Burbank14.

Al centro di questo giardino incantato Madame Nillson vestita di cachemire bianco con tagli ornamentali di raso azzurro pallido, con una borsa appesa a una cintura blu e con grandi trecce gialle disposte su ciascun lato del davantino di mussola, ascoltava con gli occhi bassi l'infiammato corteggiamento di Monsieur Capoul e ostentava un'ingenua incomprensione riguardo alle sue intenzioni ogni qual volta egli, a parole o con lo sguardo, indicava in modo persuasivo la finestra a pianterreno della linda villa rivestita di mattoni che si intravedeva di sbieco a destra della scena.

«Che cara!», pensò Newland Archer tornando a occhieggiare velocemente la fanciulla con i mughetti. «Non immagina neppure di che si tratta». E ne contemplò il giovane volto assorto, con un fremito di possesso, in cui l'orgoglio per il proprio virile spirito di iniziativa si mescolava a una tenera venerazione per la sua incommensurabile purezza. «Leggeremo insieme il Faust... sulla riva dei laghi italiani ...», pensò confondendo un po' nebulosamente la scena della sua progettata luna di miele con i capolavori letterari che sarebbe stato suo maschio privilegio rivelare alla sposa. Era stato soltanto quel pomeriggio che May Welland gli aveva fatto capire che «ci teneva» (espressione consacrata a New York delle signorine consenzienti) e già la sua fantasia, andando oltre l'anello di fidanzamento, il relativo bacio e la marcia del Lohengrin, se la figurava al suo fianco in uno scenario di antico fascino europeo.

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Non voleva affatto che la futura signora Archer fosse una sciocca. Progettava (grazie alla sua presenza istruttiva) di farle acquisire una propensione ai rapporti sociali e una prontezza di spirito che le consentissero di essere all'altezza delle più benvolute donne sposate appartenenti al «mondo dei più giovani», in cui si praticava la consuetudine di attirare l'ossequio maschile per poi scoraggiarlo scherzosamente. Se avesse sondato fino in fondo la sua presunzione (come a volte era stato sul punto di fare), vi avrebbe scoperto il desiderio che sua moglie fosse navigata e ansiosa di piacere quanto la donna sposata di cui si era incapricciato durante due anni di dolce turbamento; senza, naturalmente, il minimo sentore della debolezza che per poco non aveva rovinato la vita di quell'essere infelice e aveva buttato all'aria i suoi stessi progetti per un intero inverno.

Non aveva mai trovato il tempo di pensare in che modo quel miracolo di fuoco e di ghiaccio dovesse prodursi e resistere in un ambiente austero; era tuttavia soddisfatto di mantenere le sue opinioni senza analizzarle, in quanto sapeva che erano quelle di tutti i gentiluomini vestiti con eleganza, dal candido gilè al fiore all'occhiello, che si avvicendavano nel palco riservato al club, lo salutavano cordialmente e puntavano i loro binocoli con aria critica sulla cerchia di signore che erano il prodotto del sistema. In campo intellettuale e artistico Newland Archer si riteneva nettamente superiore a quei raffinati esemplari della vecchia nobiltà d'origine di New York: probabilmente aveva letto di più, riflettuto di più e perfino visto una parte di mondo molto più vasta rispetto a qualsiasi altro membro della compagnia. Presi uno a uno, essi tradivano il loro stato di inferiorità, ma raggruppati rappresentavano «New York», e la consuetudine maschile a fare causa comune lo induceva ad accettarne la dottrina in tutte le questioni cosiddette morali. Istintivamente aveva l'impressione che a questo riguardo sarebbe stato seccante, se non addirittura di cattivo gusto, comportarsi diversamente.

«Bene, in fede mia!», esclamò Lawrence Lefferts, distogliendo bruscamente il binocolo dal palcoscenico. Lawrence Lefferts era, tutto sommato, la massima autorità a New York in materia di «forma». Egli aveva probabilmente dedicato più tempo di chiunque altro ad approfondire questo problema complicato e affascinante, ma il suo lavoro di indagine non avrebbe potuto spiegare da solo la sua perfetta e disinvolta competenza. Bastava soltanto guardarlo, dall' inclinazione della fronte scoperta e dalla curva dei bei baffi curati fino ai lunghi piedi calzati in scarpe di copale all'altra estremità della sua snella ed elegante persona, per capire che la conoscenza della «forma» doveva essere connaturata in chi sapeva indossare certi abiti di buona fattura con tanta trascuratezza e muoversi da una simile altezza con grazia altrettanto indolente. Una volta un giovane ammiratore aveva detto di lui: «Se c'è qualcuno in grado di dire esattamente quando si porta una cravatta nera con abiti da sera e quando no, costui è Larry Lefferts». Quanto poi alla controversia tra bumps e «Oxford» di copale il suo prestigio non era stato mai messo in discussione.

«Mio Dio!», disse. E porse in silenzio il binocolo al vecchio Sillerton Jackson.

Newland Archer, seguendo lo sguardo di Lefferts, si accorse con stupore che l'esclamazione di quest'ultimo era stata provocata dall'ingresso di un nuovo personaggio nel palco della vecchia signora Mingott. Si trattava di un'esile ragazza, un po' più bassa di May Welland, la cui chioma scura era disposta in riccioli serrati attorno alle tempie ed era tenuta a posto da una stretta banda di diamanti. Quanto suggeriva questa acconciatura, che le conferiva l'aspetto definito all'epoca «alla Giuseppina», era completato dal taglio del vestito di velluto blu scuro un po' teatralmente trattenuto in alto sotto il seno da un busto munito di una grande fibbia all'antica. Colei che si esibiva in questo insolito abbigliamento, sembrando non accorgersi dell'attenzione che stava suscitando, ristette un attimo in piedi al centro del palco, parlando con la signora Welland che insisteva sull'opportunità che si sedesse al suo posto nell'angolo anteriore a destra; poi accondiscese con un tenue sorriso e si sedette alla stessa altezza della cognata della signora Welland, cioè la moglie di Lovell Mingott, la quale occupava l'angolo opposto.

Il signor Sillerton Jackson aveva restituito il binocolo a Lawrence Lefferts. Tutti si voltarono istintivamente, in attesa di ciò che il vecchio aveva da dire; infatti l'anziano signor Jackson era una grande autorità in fatto di «famiglia», quanto Lefferts lo era riguardo alla «forma». Egli conosceva

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tutte le ramificazioni delle casate di New York e poteva non solo rispondere a interrogativi complicati come quello sulla parentela dei Mingott (attraverso i Thorley) con i Dallas del South Carolina, nonché su quella del ramo più antico dei Thorley di Philadelphia con i Chivers di Albany (da non confondere per nessun motivo con i Manson Chivers di University Place), ma era altresì in grado di elencare le caratteristiche più importanti di ciascuna famiglia: come, per esempio, la mitica spilorceria della discendenza più giovane dei Lefferts (quelli di Long Island), oppure la fatale tendenza dei Rushworth a combinare matrimoni insensati, ovvero la pazzia ricorrente ogni due generazioni nei Chivers di Albany, con i quali i loro cugini di New York si erano sempre rifiutati di sposarsi, con la disastrosa eccezione della povera Medora Manson la quale, come tutti sapevano ... ma nel suo caso sua madre era una Rushworth.

Il signor Sillerton Jackson, oltre a questa foresta di alberi genealogici, fra le sue incavate e strette tempie e sotto la sua morbida e argentea chioma racchiudeva una registrazione della maggior parte degli scandali e dei misteri covati sotto la superficie imperturbata della società di New York nel corso degli ultimi cinquant'anni. In realtà le sue informazioni si estendevano talmente lontano e la sua memoria era così formidabile, che era ritenuto l'unico uomo in grado di dirvi chi veramente fosse Julius Beaufort, il banchiere, e cosa era successo al bel Bob Spicer, padre della vecchia vedova di Manson Mingott, scomparso in modo tanto misterioso (insieme a una ingente somma di denaro affidatagli in custodia) a meno di un anno dal suo matrimonio, proprio il giorno in cui un'avvenente ballerina spagnola, che aveva rallegrato un gran numero di spettatori nel vecchio teatro lirico sulla Battery, si era imbarcata per Cuba. Tuttavia questi misteri, e molti altri, erano gelosamente custoditi nel cuore del signor Jackson, in quanto non solo il suo spiccato senso dell'onore gli vietava di spiattellare qualsiasi cosa rivelatagli in privato, ma anche perché si rendeva pienamente conto che la sua reputazione di persona riservata accresceva le sue prospettive di scoprire ciò che voleva conoscere.

Il palco del club, perciò, aspettava visibilmente ansioso mentre il signor Sillerton Jackson restituiva il binocolo di Lawrence Lefferts. Per un attimo scrutò in silenzio il gruppo attento attraverso i suoi velati occhi azzurri su cui sporgevano le vecchie palpebre segnate da venuzze. Poi si torse soprappensiero i baffi e disse con chiarezza : «Non credevo che i Mingott ci avrebbero riprovato».

Capitolo secondo

Durante questo piccolo incidente, Newland Archer aveva provato uno strano senso di disagio.

Era seccante che il palco che stava richiamando a quel modo il totale interesse maschile di New York fosse quello in cui'la sua promessa sposa era seduta tra la madre e la zia; e per un attimo non riuscì a identificare la signora abbigliata stile impero secondo la moda, né a immaginare perché la sua presenza suscitasse tanta agitazione tra i proseliti. Poi in lui si fece la luce accompagnata da una momentanea ondata di sdegno. No, difatti, nessuno avrebbe pensato che i Mingott ci avrebbero riprovato.

Tuttavia lo avevano fatto, certamente lo avevano fatto, perché i commenti mormorati dietro di lui non lasciarono adito a dubbi nella sua mente sul fatto che la giovane donna fosse cugina di May Welland, la cugina di cui in famiglia si parlava come della «povera Ellen Olenska». Archer sapeva che era arrivata inaspettatamente dall'Europa un paio di giorni prima; inoltre Miss Welland gli aveva riferito (con accenti tutt' altro che di biasimo) di essere andata lei stessa a visitare la povera Ellen, la quale stava presso la vecchia signora Mingott. Archer approvava pienamente la solidarietà di famiglia e uno dei pregi che più ammirava nei Mingott era la loro risoluta difesa delle poche pecore nere che il loro inattaccabile ceppo aveva prodotto. Nel cuore del giovanotto non c'era nulla

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di mediocre o di meschino.

Era contento che la sua futura moglie non sarebbe stata trattenuta da falsi pudori dal comportarsi gentilmente (in privato) con l'infelice cugina; ma un conto era ricevere la contessa Olenska nell'ambito familiare, un altro esibirla in pubblico, e per di più all'opera e proprio nel palco con la fanciulla il cui fidanzamento con lui, Newland Archer, sarebbe stato annunciato di lì a qualche settimana. No, egli era dello stesso parere del vecchio Sillerton Jackson: non credeva che i Mingott ci avrebbero riprovato!

Egli sapeva, naturalmente, che qualsiasi uomo avesse sfidato (entro i limiti della Quinta Avenue) quella vecchia signora Mingott, la matriarca della stirpe, sarebbe stato un temerario. Aveva sempre ammirato l'altezzosa e potente anziana gentildonna la quale, nonostante fosse stata soltanto Catherine Spicer di Staten Island, con un padre caduto misteriosamente in discredito e senza una posizione economica e sociale tali da farlo dimenticare, si era unita in matrimonio con il capo dell'agiata stirpe dei Mingott, aveva dato due delle sue figlie in moglie a «stranieri» (un marchese italiano e un banchiere inglese) e aveva toccato il culmine delle sue prodezze costruendo una grande casa di pietra color crema (quando il rivestimento di scura pietra arenaria sembrava l'unico ammissibile come la redingote da indossare di pomeriggio) in un territorio incolto nei pressi di Central Park.

Le figlie straniere della vecchia signora Mingott erano diventate leggenda. Non erano mai tornate a trovare la madre e costei, sedentaria e tendenzialmente corpulenta come molte persone dalla mente attiva e dominatrice, si era rassegnata a restarsene a casa. Ma la dimora color crema (a imitazione probabilmente delle residenze private dell'aristocrazia parigina) stava lì a dimostrare visibilmente il suo coraggio morale ed ella vi regnava in mezzo a mobili anteriori alla rivoluzione americana e a souvenirs delle Tuileries di Luigi Napoleone (dove lei aveva brillato nella mezza età), in modo tranquillo come se non ci fosse niente di strano nell'abitare nella Trentaquattresima Strada, oppure nell'avere finestre che si aprivano come porte anziché essere munite di telai scorrevoli che si tiravano su.

Tutti (compreso il signor Sillerton Jackson) erano d'accordo nel dire che la vecchia Catherine non era mai stata una bellezza: una dote naturale che nell'ambiente di New York giustificava tutti i successi e scusava un certo numero di fallimenti. I cattivi dicevano che, come l'imperatrice sua omonima, aveva trovato il modo di spuntarla con la forza della volontà e la durezza di cuore, nonché con una specie di arrogante impudenza che in certo qual modo era scusata dalla grandissima rispettabilità e dignità che circondava la sua vita privata. Il signor Manson Mingott era morto quando lei aveva soltanto ventotto anni e aveva «vincolato» il denaro con un eccesso di precauzione derivante dalla generale sfiducia nei confronti degli Spicer; ma la sua spavalda e giovane vedova aveva fatto intrepidamente di testa propria, si era mescolata spontaneamente alla collettività straniera, aveva accasato le figlie in Dio solo sa quali ambienti corrotti e alla moda, era stata molto amica di duchi e ambasciatori, aveva fatto comunella con i papisti, aveva ricevuto cantanti lirici e era stata intima amica di Madame Taglioni; e per tutto il tempo (come Sillerton Jackson era il primo a dichiarare) nessuna ombra aveva mai offuscato la sua reputazione, cosa che — aggiungeva sempre — era l'unico particolare in cui ella si differenziava dalla prima Caterina.

Da tempo la vedova di Manson Mingott era riuscita a svincolare le ricchezze del marito e per mezzo secolo aveva vissuto nell'opulenza; ma il ricordo delle sue ristrettezze l'aveva resa oltremodo economa e, quantunque nell'acquistare un vestito o un mobile badasse bene che fossero dei migliori, non aveva saputo risolversi a spendere molto per gli effimeri piaceri della tavola. Di conseguenza, per ragioni totalmente diverse, la sua alimentazione era frugale quanto quella della signora Archer e non bastavano i suoi vini a migliorarla. I suoi parenti ritenevano che la povertà della sua tavola tornasse a discredito del nome dei Mingott, che era stato sempre sinonimo di bella vita; tuttavia la gente continuava a recarsi da lei nonostante le «pietanze rifatte» e lo champagne senza bollicine e, in risposta alle proteste di suo figlio Lovell (il quale cercava di ricuperare il credito di famiglia assumendo il migliore capocuoco di New York), era solita dire tra una risata e l'altra: «A che

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pròavere due bravi cuochi in una sola famiglia adesso che ho maritato le ragazze e non posso mangiare intingoli?».

Newland Archer, mentre rimuginava su queste cose, aveva girato ancora una volta gli occhi verso il palco dei Mingott. Vide che la signora Welland e sua cognata fronteggiavano il semicerchio dei loro critici con Vaplomb dei Mingott, inculcato dalla vecchia Catherine in tutta la sua tribù, e che soltanto May Welland, dato l'intensificarsi del suo rossore (causato forse dalla consapevolezza che egli la osservava), tradiva la sensazione della gravità della situazione. Invece, colei che aveva causato tutto quel trambusto, era graziosamente seduta nel suo angolo del palco, fissando la scena e rivelando, mentre si sporgeva in avanti, un po' più di spalle e di seno di quanto a New York si era abituati a vedere almeno nelle gentildonne che avevano motivo di passare inosservate.

Poche cose sembravano a Newland Archer più orrende di una tragressione al «buon gusto», quella divinità distante di cui la «forma» era semplicemente espressione e sostituto visibile. Il volto esangue e serio di Madame Olenska colpiva l'immaginazione in quanto si confaceva alla circostanza e all'infelice situazione di lei, ma il modo in cui l'indumento (che era privo di fisciù) le scivolava dalle esili spalle lo scandalizzava e lo tormentava. Detestava pensare che May Welland subisse l'influenza di una giovane donna così noncurante dei dettami del senso estetico.

«Ma insomma», udì dire da uno dei più giovani che erano alle sue spalle (durante le scene tra Mefistofele e Marta tutti par lavano), «insomma, che cosa è successo esattamente?»

«Beh, lei lo ha piantato, nessuno si sogna di negarlo.»

«Lui è un grandissimo animale, no?», proseguì il giovane indagatore, un ingenuo Thorley, il quale evidentemente si stava apprestando a entrare in lizza come difensore della signora.

«Il peggiore in senso assoluto. L'ho conosciuto a Nizza», disse in tono autorevole Lawrence Lefferts. «Un individuo semiparalizzato, reazionario e beffardo, dalla testa piuttosto attraente, ma con gli occhi dalle lunghe ciglia. Beh, vi dirò che tipo era: quando non si occupava di donne, collezionava porcellane. Pagando qualsiasi prezzo per le une e per le altre, a quanto mi risulta.»

Ci fu una risata generale, poi il giovane paladino disse: «Beh, e poi...?».

«Beh, poi lei è scappata con il segretario di lui.»

«Ah, è così». Il difensore fece la faccia lunga.

«Non è durata a lungo, comunque. Alcuni mesi più tardi sono venuto a sapere che lei abitava da sola a Venezia. Credo che Lovell Mingott sia andato all'estero a prenderla. Ha detto che lei era terribilmente infelice. Tutto sta bene, ma questo metterla in mostra al teatro dell'opera è un altro conto.»

«Forse», azzardò il giovane Thorley, «è troppo depressa per essere lasciata a casa.»

L'uscita fu salutata da una risata insolente. Il giovane arrossì fino alla radice dei capelli e cercò di far credere che la sua fosse una battuta di spirito, ciò che le persone navigate definivano un «doppio senso».

«Beh, in ogni modo è strano aver portato Miss Welland», disse qualcuno a bassa voce, lanciando un'occhiata in tralice verso Archer.

«Ma questo rientra nella tattica. Ordini di nonnina, senza dubbio», disse ridendo Lefferts. «Quando la vecchia dama fa una cosa, la fa fino in fondo».

L'atto stava per terminare e nel palco tutti si mossero per uscire. Improvvisamente Newland Archer si sentì spinto a compiere un gesto decisivo. Il desiderio di essere il primo a entrare nel palco della signora Mingott, di annunciare alla gente ansiosa di sapere il suo fidanzamento con May Welland e di vederla superando qualsiasi difficoltà in cui la situazione irregolare della cugina avesse potuto coinvolgerla, questo impulso aveva bruscamente respinto ogni scrupolo e ogni esitazione, inducendolo ad affrettarsi lungo i corridoi tappezzati di rosso, per raggiungere la parte opposta della

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sala.

Entrando nel palco i suoi occhi incontrarono quelli di Miss Welland ed egli si accorse che la fanciulla aveva immediatamente capito il suo scopo, anche se il decoro di famiglia che entrambi tenevano in così alta considerazione non le avrebbe consentito di dirglielo. Le persone appartenenti al loro mondo vivevano in una atmosfera di languide allusioni e di tenui delicatezze e il fatto che lui e lei si capissero reciprocamente senza scambiarsi una parola sembrava al giovanotto che li avvicinasse di più di quanto l'avrebbe fatto qualsiasi spiegazione. Gli occhi di lei dicevano: «Tu vedi perché la mamma mi ha portato qui», e la risposta di lui era: «Non avrei voluto che tu fossi lontana da qui per tutto l'oro del mondo».

«Conosci mia nipote, la contessa Olenska?", chiese la signora Welland salutando il futuro genero. Archer si inchinò senza tendere la mano, come si usava quando si veniva presentati a una signora; e Ellen Olenska piegò leggermente il capo, tenendo le sue coperte da guanti chiari strette intorno a un enorme ventaglio di penne d'aquila. Dopo aver salutato la moglie di Lovell Mingott, una grossa dama bionda vestita di raso frusciarne, egli si sedette accanto alla sua promessa sposa e disse a bassa voce: «Spero che tu abbia detto a Madame Olenska che siamo fidanzati. Voglio che tutti lo sappiano, voglio che tu mi permetta di annunciarlo al ballo di stasera».

Il volto di Miss Welland divenne roseo come l'aurora ed ella lo guardò con occhi raggianti. «Se riesci a convincere la mamma», disse. «Ma perché dovremmo cambiare quanto è già stabilito?». Lui rispose solo con lo sguardo e lei, sorridendo ancor più baldanzosamente, aggiunse: «Dillo tu stesso a mia cugina. Ti do il permesso. Dice che quando eravate bambini giocavate insieme».

Gli fece strada spostando indietro la sedia e Archer, subito e un po' ostentatamente in quanto voleva che tutta la sala vedesse ciò che faceva, si sedette accanto alla contessa Olenska.

«Di solito giocavamo insieme, no?», domandò lei fissandolo gravemente negli occhi. «Lei era un bambino antipatico e una volta mi ha baciato dietro una porta; ma era di suo cugino Vandie Newland, che neanche mi guardava, che ero innamorata.» Il suo sguardo percorse rapidamente i palchetti disposti a ferro di cavallo. «Quante cose tutto ciò mi fa ricordare. Tutti quelli che stanno qui mi sembra di vederli in calzoni alla zuava e mutandoni guarniti di gale», disse con il suo accento strascicato leggermente esotico, puntandogli di nuovo gli occhi in faccia.

Per quanto la loro espressione fosse gradevole, il giovane fu colpito dal fatto che in essi si rispecchiasse un quadro tutt'altro che lusinghiero dell'augusto tribunale davanti al quale, in quel preciso momento, si parlava del processo che riguardava la contessa. Nulla poteva essere più di pessimo gusto di una impertinenza fuori posto, ragion per cui egli rispose in tono alquanto rigido: «Sì, è stata via per molto tempo».

«Oh, sono secoli e secoli. Tanto a lungo», disse lei, «che sono certa di essere morta e sepolta e che questo caro vecchio posto è il paradiso.» Cosa che, per motivi che lui non era in grado di precisare, colpì Newland Archer come se fosse un modo ancora più scortese di descrivere la società di New York.

Capitolo terzoLe cose andavano sempre allo stesso modo.

La sera in cui dava il suo ballo annuale, la moglie di Julius Beaufort non mancava mai di fare la sua comparsa all'opera; anzi, dava sempre il ballo in una occasione come quella proprio per sottolineare il fatto che i suoi obblighi di padrona di casa non la rendevano apprensiva, dal momento che disponeva di personale di servizio che era all'altezza di occuparsi in sua assenza di ogni particolare del ricevimento.

La dimora dei Beaufort era una delle poche a New York dotata di una sala da ballo (precorrendo perfino quella della signora Manson Mingott e degli Headly Chivers); e in un periodo in cui si

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cominciava a passare per «provinciali» se si proteggeva il pavimento del salotto con una «tela di lino pesante» e si spostavano i mobili al piano di sopra, possedere una sala da ballo che non venisse adibita a nessun altro scopo e lasciata al buio con le persiane chiuse per trecentosessantaquattro giorni all'anno, con le sue sedie dorate accatastate in un angolo e il lampadario a corona chiuso in un sacco, era ritenuto un incontestabile fattore di superiorità che ripagava di qualunque fatto deplorevole ci fosse stato nel passato di Beaufort.

La signora Archer, alla quale piaceva condensare in forma assiomatica le sue idee sociali, una volta aveva detto: «Abbiamo tutti un raccomandato tra la gente comune», e sebbene la sua fosse una frase ardita, in più di un ambiente esclusivo se ne ammetteva la verità. Ma i Beaufort non erano esattamente persone comuni; alcuni affermavano che erano anche peggiori. In realtà la signora Beaufort apparteneva a una delle più stimate famiglie d'America; era stata l'avvenente Regina Dallas (del ramo della Carolina del sud), una bellezza spiantata presentata all'alta società di New York da sua cugina, l'incauta Medora Manson, la quale faceva sempre la cosa sbagliata partendo da un proposito onesto. Quando si era imparentati con i Manson e con i Rushworth, si aveva un droit de ci té (come lo chiamava il signor Sillerton Jackson, il quale aveva frequentato le Tuileries) nella società newyorkese; ma sposare Julius Beaufort non voleva dire

rinunziarvi?

Ci si domandava: chi era Beaufort? Passava per un inglese, era simpatico, di bell'aspetto, irritabile, ospitale e spiritoso. Era venuto in America munito di lettere di raccomandazione da parte del genero inglese della vecchia vedova di Manson Mingott, il banchiere, e senza indugio si era creato una posizione importante nel mondo degli affari; ma le sue abitudini erano dissolute, la sua lingua era tagliente, i suoi precedenti erano oscuri; e quando Medora Manson annunciò il fidanzamento di sua cugina con lui, si ebbe l'impressione che si trattasse di un ennesimo atto di follia nella lunga carriera di leggerezze commesse dalla povera Medora.

La follia tuttavia viene spesso perdonata, come la saggezza, in considerazione di ciò che frutta e due anni dopo il matrimonio della giovane signora Beaufort si riconosceva che ella aveva la casa più splendida di New York. In che modo il miracolo si fosse compiuto nessuno avrebbe saputo dirlo con precisione. Ella era indolente, fiacca, i maligni dicevano addirittura che fosse ottusa, ma era abbigliata come un idolo, coperta di perle, diventava ogni anno sempre più giovane, più bionda e più bella, regnava nel severo palazzo di arenaria del signor Beaufort e vi attirava tutta l'alta società senza alzare il dito mignolo ingioiellato. Le persone informate dicevano che fosse Beaufort in persona a istruire i servitori, a insegnare piatti nuovi al capocuoco, a dire ai giardinieri quali fiori di serra coltivare per il tavolo da pranzo e per i salotti, a scegliere gli ospiti, a preparare il punch pomeridiano e a dettare i bigliettini che sua moglie scriveva alle amiche. Ammesso che così si comportasse, tali attività domestiche venivano svolte in privato e lui in pubblico si comportava come un milionario indifferente e generoso, che andava su e giù nel proprio salotto con il distacco di un invitato e diceva: «Le gloxinie di mia moglie sono bellissime, no? Credo che le ordini da Kew».

Si era d'accordo nel dire che il segreto di Beaufort consisteva nel modo in cui lui affrontava le cose con successo. Si aveva un bel bisbigliare che fosse stato «aiutato» a partire dall'Inghilterra dall'istituto di credito internazionale presso il quale aveva prestato servizio; egli sorvolava su quelle dicerie con la facilità di sempre, sebbene la coscienza affaristica dei cittadini di New York non fosse meno sensibile dei loro principi morali; era riuscito nel suo intento, aveva fatto entrare tutta New York nei suoi salotti e da oltre venti anni la gente diceva che «andava dai Beaufort» con lo stesso tono di sicurezza con cui avrebbe detto di andare dalla vedova di Manson Mingott, senza contare la soddisfazione di sapere che avrebbe trovato anatre e vini pregiati, invece del tepido Veuve Clicquot che non aveva neanche un anno e delle crocchette riscaldate di Filadelfia.

La signora Beaufort, poi, era comparsa come al solito nel suo palchetto esattamente prima che iniziasse il «motivo del gioiello»; e quando, sempre come al solito, si era alzata al termine del terzo atto, si era tirata il mantello da sera sulle attraenti spalle ed era uscita. New York sapeva che il ballo

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sarebbe cominciato di lì a mezz'ora.

La residenza dei Beaufort era una di quelle che i newyorkesi erano orgogliosi di mostrare agli stranieri, specie la notte del ballo annuale. I Beaufort erano stati i primi a New York ad avere il proprio tappeto di velluto rosso e a farlo srotolare giù per i gradini dai propri lacchè, sotto il proprio tendone, anziché prenderlo a nolo con la cena e con le sedie per la sala da ballo. Essi avevano inoltre inaugurato l'usanza di far sì che le signore si togliessero il mantello nell'atrio, invece di farle salire fino alla camera da letto della loro ospite per sistemarsi i capelli con il ferro da ricci; a quanto si diceva, Beaufort aveva affermato di contare sul fatto che tutte le amiche di sua moglie avessero cameriere capaci di badare affinché le loro padrone fossero perfettamente coiffées prima di uscire di casa.

Per i tempi che correvano, la casa era stata audacemente concepita con una sala da ballo, di modo che gli invitati, invece di pigiarsi in un stretto corridoio per accedervi (come accadeva dai Chivers), avanzavano solennemente per una fuga prospettica di salotti (il verde mare, quello rosso sangue e il bouton d'or), scorgendo da lontano i lampadari a corona a più candele, che si riflettevano sul pavimento in parquet tirato a lucido, e, al di là di tutto questo, la zona più appartata di una serra dove le camelie e la felce arborea incurvavano il loro prezioso fogliame su sedili di bambù nero e oro.

Newland Archer, come si addiceva a un giovanotto della sua posizione, era arrivato piuttosto tardi. Aveva lasciato il soprabito ai lacchè in calze di seta (le calze erano una delle recenti frivolezze di Beaufort), aveva ciondolato per un po' nella biblioteca decorata di cuoio spagnolo e arredata con mobili Boule intarsiati di malachite, dove alcuni uomini stavano chiacchierando e infilandosi i guanti da ballo, e alla fine si era accodato alla fila degli ospiti che la signora Beaufort accoglieva sulla soglia del salotto cremisi.

Archer era chiaramente nervoso. Dopo l'opera non era tornato al suo club (come di solito facevano i bellimbusti), ma poiché era una bella serata aveva camminato per un tratto a piedi fino alla Quinta Strada prima di tornare indietro verso la casa dei

Beaufort. Temeva proprio che i Mingott potessero spingersi troppo oltre e che effettivamente nonna Mingott avesse ordinato loro di portare al ballo la contessa Olenska.

A giudicare dal tono delle chiacchiere colte nel palchetto riservato al club, aveva capito che un gesto del genere sarebbe stato un grave errore; e, pur essendo più che mai deciso ad «arrivare fino in fondo», si sentiva meno ansioso di difendere la cugina della sua promessa sposa di quanto lo fosse prima del loro breve colloquio.

Continuando a girovagare fino al salotto del bouton d'or (dove Beaufort aveva avuto l'ardire di appendere Amore vittorioso, il nudo di Bouguereau che aveva suscitato tante discussioni), Archer trovò la signora Welland e sua figlia in piedi vicino alla porta della sala da ballo, oltre la quale le coppie stavano già muovendosi a passo di danza. La luce delle candele cadeva sulle roteanti gonne di tulle, sulle semplici ghirlande di fiori che ornavano la testa delle fanciulle, sulle sfavillanti aigrettes, sugli ornamenti delle coiffures delle giovani signore, sullo sfolgorio degli sparati inamidati e sul candore dei guanti glassati.

Miss Welland, chiaramente in attesa di unirsi ai ballerini, si era fermata sulla soglia, tenendo in mano i mughetti (non aveva altri fiori), con la faccia un po' pallida e gli occhi che le brillavano di sincera eccitazione. Un gruppo di giovanotti e di ragazze le si fece intorno, ci furono molti battimani, risate e battute scherzose, su cui la signora Welland, tenendosi un po' in disparte, proiettava il segnale di una approvazione controllata. Era evidente che Miss Welland stava recando la notizia del suo fidanzamento, mentre la signora Welland ostentava l'atteggiamento da madre ritrosa che sembrava confacente alla circostanza.

Archer esitò un momento. Era dietro suo espresso desiderio che l'annuncio era stato fatto e tuttavia non era così che egli avrebbe voluto rendere nota la sua felicità. Proclamarla nel fervore e

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nel frastuono di una sala da ballo gremita di gente voleva dire privarla del prezioso fiore dell'intimità che dovrebbe accompagnare le cose che abbiamo più a cuore. La sua gioia era talmente profonda che l'indefinitezza del suo aspetto esteriore ne lasciava intatta la parte essenziale; ma avrebbe voluto ugualmente mantenere pura anche la superficie. Fu con una certa soddisfazione che scoprì che May Welland condivideva il suo modo di sentire. Ella gli volse occhi supplichevoli come per dire: «Ricordati, lo stiamo facendo perché è giusto».

Nessuna supplica sarebbe riuscita a trovare una reazione più immediata nell'animo di Archer; egli però desiderava che la necessità del loro comportamento fosse stata rappresentata da una ragione ideale e non semplicemente dalla povera Ellen Olenska.

Le persone raggruppate attorno a Miss Welland gli fecero posto sorridendogli in modo eloquente ed egli, dopo aver ricevuto la sua parte di congratulazioni, guidò la sua fidanzata nel punto centrale del pavimento della sala da ballo e la cinse alla vita.

«Adesso non dobbiamo parlare», disse egli fissandola con un sorriso negli occhi sinceri, mentre fluttuavano sulle onde lievi del Danubio blu.

May non rispose. Le sue labbra accennarono a un sorriso, ma il suo sguardo si mantenne distante e serio, come se fosse attratto da una visione ineffabile. «Cara», sussurrò Archer stringendola a sé; era arrivato alla conclusione che le prime ore di fidanzamento, anche se trascorse in una sala da ballo, avevano in sé qualcosa di importante e di sacro. Quale esistenza nuova lo attendeva a fianco di tanta purezza, di tanta radiosità, di tanta bontà!

Al termine del ballo i due, come si addiceva a una coppia di fidanzati, passeggiarono senza meta nella serra. Sedutisi poi dietro un alto schermo fatto di felce arborea e di camelie, Newland le prese la mano guantata e se la portò alle labbra.

«Come vedi, ho fatto come mi hai chiesto di fare», ella disse.

«Sì, non potevo aspettare», rispose Archer sorridendo. Dopo un attimo, aggiunse: «Vorrei soltanto non averlo dovuto fare in occasione di un ballo».

«Sì, lo so.» Ella ricambiò il suo sguardo consapevolmente. «Dopo tutto, però, anche qui noi siamo soli insieme, no?»

«Oh, tesoro, sarà sempre così!», esclamò Archer.

Era evidente che May avrebbe sempre capito, che avrebbe detto sempre la cosa giusta. La scoperta fece traboccare il calice della sua immensa gioia ed egli continuò gaiamente: «La cosa peggiore è che ho voglia di baciarti e non posso». Così dicendo, lanciò una rapida occhiata in giro nella serra, si accertò del loro momentaneo isolamento e, stringendola a sé, le sfiorò con un bacio le labbra. Per controbilanciare l'audacia di questo gesto, la guidò fino a un divano di bambù in un angolo meno appartato della serra e, sedendosele accanto, strappò un mughetto dal mazzo di fiori. May sedeva silenziosa e il mondo si estendeva ai loro piedi come una valle soleggiata.

«Glielo hai detto a mia cugina Ellen?», gli chiese lì per lì come se parlasse in sogno.

Egli si riscosse, ricordandosi di non averlo fatto. Un'invincibile ripugnanza a parlare di certe cose con quella stramba straniera gli avevano trattenuto le parole sulle labbra.

«No, in fin dei conti non ne ho avuto l'occasione», disse frettolosamente con una piccola bugia.

«Ah.» May sembrò delusa, ma decise di arrivare con delicatezza al suo scopo. «Allora devi farlo, perché neanch'io gliel'ho detto, e non vorrei che lei pensasse ...»

«Naturalmente dobbiamo evitarlo. Ma, dopo tutto, non sei tu la persona indicata per farlo?»

Lei ci pensò su. «Se io lo avessi fatto al momento giusto, d'accordo: ma ora che siamo in ritardo, credo che tu debba spiegarle che io ti ho chiesto di dirglielo mentre eravamo a teatro, prima di annunciarlo qui a tutti. Altrimenti lei potrebbe pensare che l'ho trascurata. Vedi, è una di famiglia ed

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è stata lontana per tanto tempo che è piuttosto ... suscettibile.»

Archer la guardò appassionatamente. «Angelo mio! Certo che glielo dirò.» Lanciò un'occhiata un po' apprensiva verso la folla che gremiva la sala da ballo. «Ma io non l'ho ancora vista. È venuta?»

«No, all'ultimo momento ha deciso di no.»

«All'ultimo momento?», le fece eco lui, rivelando la sua sorpresa per il fatto che Ellen avesse ritenuto possibile che ci fosse un'alternativa.

«Sì, ha una grande passione per il ballo», rispose la fanciulla con semplicità. «Ma tutto a un tratto si è messa in testa che il suo vestito non fosse abbastanza elegante per andare a ballare, sebbene noi pensassimo che fosse veramente grazioso. E così la zia ha dovuto accompagnarla a casa.»

«Bene», disse Archer, felice di accantonare l'argomento. Nulla che riguardasse la sua promessa sposa gli faceva più piacere della sua ferma determinazione nello spingere fino all'estremo quell'atto rituale di ignorare le cose «sgradevoli», secondo l'educazione che entrambi avevano ricevuto.

«Lei conosce quanto me», egli pensò, «il vero motivo per cui sua cugina è assente. Ma io non le farò mai minimamente capire di essere al corrente del fatto che la reputazione della povera Ellen Olenska è avvolta nell'ombra più fitta.»

Capitolo quartoIl giorno dopo ci fu lo scambio delle consuete visite di fidanzamento. In circostanze del genere il

rituale di New York era preciso e inflessibile; attenendosi al quale Newland Archer andò per prima cosa con la madre e la sorella a trovare la signora Welland, dopo di che egli, la signora Welland e May si recarono dalla vedova di Manson Mingott per ricevere la benedizione di quella veneranda progenitrice.

Fare visita alla vedova di Manson Mingott era per il giovanotto sempre motivo di divertimento. L'edificio era già di per sé un documento storico, anche se naturalmente non era sacro quanto le dimore di certe altre vecchie famiglie ubicate in University Place e in fondo alla Quinta Strada. Quelle appartenevano al più puro stile 1830, con una sgradevole armonia di tappeti inghirlandati di foglie di cavolo e rose, mensole di palissandro, caminetti con arco a tutto sesto e cappe di marmo nero e immense librerie invetriate di mogano; laddove la vecchia signora Mingott, la quale aveva costruito la sua casa più tardi, aveva materialmente buttato fuori la massiccia mobilia della sua giovinezza e mischiato con i cimeli di famiglia dei Mingott la frivola tappezzeria del secondo impero. Era sua abitudine sedersi accanto a una finestra del soggiorno a pianterreno, come se stesse all'erta aspettando con calma che la vita e il bel mondo fluissero verso nord fino alla sua porta. Non sembrava smaniosa di farli venire, in quanto in lei la pazienza era pari alla fiducia. Era sicura che presto le palizzate, le cave, i saloon a un solo piano, le serre di legno in giardini maltenuti e le rocce da cui le capre osservavano la scena sarebbero spariti davanti all'avanzata di abitazioni signorili come la sua e forse (dato che era una donna imparziale) anche più signorili; e che i ciottoli su cui sobbalzavano i vecchi omnibus sferraglianti sarebbero stati sostituiti dal liscio asfalto, come quello che la gente diceva di aver visto a Parigi. Nel frattempo, giacché tutti coloro che le premeva di vedere andavano da lei (e lei avrebbe potuto riempire le sue stanze con la stessa facilità con cui lo facevano i Beaufort e senza aggiungere assolutamente niente al menu delle sue cene), non si angustiava a causa del suo isolamento geografico.

La smisurata concrescenza di carne che le era piombata addosso nel bel mezzo della sua esistenza, come una colata di lava su una città condannata, l'aveva tramutata da una piccola donna grassottella e attiva dal piede delicato e dalla caviglia ben tornita in qualcosa di immenso e nobile paragonabile a un fenomeno della natura. Aveva accettato con filosofia di essere sommersa in questo modo come tutte le altre sue tribolazioni e adesso, giunta all'estrema vecchiezza, era ricompensata offrendo al suo specchio una estensione pressoché liscia di carne soda bianca e rosea, al centro della quale sopravvivevano le vestigia di un volto minuto che sembravano in attesa di

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essere dissotterrate. Una rampa di doppi menti uniformi scendeva fino alle vertiginose profondità di un seno ancora niveo velato da candide mussole, che erano tenute a posto da un ritratto in miniatura del defunto signor Mingott; e intorno, sotto e al di sopra dei margini di una capiente poltrona si sollevavano ondate di seta nera, da cui spuntavano due bianche manine posate come gabbiani sulla superficie dei marosi.

Da molto tempo il fardello del grasso aveva reso impossibile alla vedova di Manson Mingott andare su e giù per le scale, ragion per cui lei, con tipico senso di autonomia, aveva trasferito i suoi saloni da ricevimento al piano superiore e si era sistemata (trasgredendo scandalosamente a tutte le buone maniere vigenti a New York) al pianterreno dell'edificio; di modo che, stando seduti con lei alla finestra del suo soggiorno, si coglieva (attraverso una porta che era sempre aperta e una portiera di damasco giallo legata con un cappio) l'imprevista prospettiva di una camera da letto il cui mobile principale era enorme, basso e imbottito come un divano e dove c'era una toletta guarnita con frivole balze di pizzo e con uno specchio dalla cornice dorata.

I suoi visitatori rimanevano sbigottiti e affascinati da questa sistemazione esotizzante, che richiamava scene da romanzo francese e il cui arredamento ispirava azioni immorali quali il modesto americano non si era mai sognato di compiere. Era così che donne e amanti vivevano nelle depravate collettività di un tempo, in appartamenti le cui stanze erano su un unico piano e con tutto l'osceno vicinato descritto nei loro racconti. Newland Archer (il quale aveva segretamente ambientato le scene d'amore di Monsieur de Camors nella camera da letto della signora Mingott) si divertiva a immaginare l'esistenza irreprensibile di costei condotta nell'apparato scenico dell'adulterio; diceva però a se stesso, con molta ammirazione, che la coraggiosa donna, se se lo fosse messo in testa, avrebbe avuto anche un amante.

Con sollievo di tutti la contessa Olenska non era presente nel salotto della nonna durante la visita della coppia di fidanzati. La signora Mingott disse che era uscita; il che, in una giornata di sole abbagliante come quella e all'ora degli acquisti, sembrava di per sé una sconvenienza da parte di una donna compromessa. In ogni caso, tuttavia, risparmiava loro l'imbarazzo della sua presenza e l'ombra vaga che il suo infelice passato avrebbe potuto gettare sul loro radioso avvenire. Come c'era da aspettarsi, la visita si svolse con successo. La vecchia signora Mingott era lietissima per il fidanzamento che, pianificato da tempo da parenti premurosi, era stato approvato con tutte le cautele del caso nel consiglio di famiglia; anche l'anello di fidanzamento, costituito da un grosso e pesante zaffiro incastonato con gancetti invisibili, ottenne la sua incondizionata approvazione.

«È il nuovo modo di montarlo. Naturalmente mette bene in vista la pietra, ma sembra un po' nudo alle persone all'antica», aveva spiegato la signora Welland con un'occhiata d'intesa verso il futuro genero.

«Persone antiquate? Non vorrai alludere a me, mia cara? A me piacciono tutte le novità», disse la nonna portandosi la pietra agli occhi che nessun tipo di occhiali aveva mai deturpato. «È bellissimo», aggiunse restituendo il gioiello, «molto munifico. Ai miei tempi un cammeo con perle incastonate era ritenuto sufficiente. Ma è la mano che fa risaltare l'anello, non è vero mio caro signor Archer?», e agitò una delle sue manine dalle piccole unghie appuntite e dai rotoli di grasso che da anni le avvolgevano il polso come braccialetti d'avorio. «La mia fu modellata a Roma dal grande Ferrigiani. Dovresti farlo fare anche per May. Senza dubbio lo farà, bambina mia. La mano di May è grande, per via di questi sport moderni che allargano le giunture, ma la pelle è bianca. A quando le nozze?», disse di botto, puntando gli occhi in faccia ad Archer.

«Oh», mormorò la signora Welland, mentre il giovanotto, sorridendo alla fidanzata, rispose: «Appena sarà possibile, basta che lei mi spalleggi, signora Mingott».

«Dobbiamo dar loro il tempo di conoscersi un po' meglio, mamma», intervenne la signora Welland, ostentando la giusta dose di riluttanza. Al che la nonna replicò: «Conoscersi? Stupidaggini! A New York tutti hanno sempre conosciuto tutti. Lascia che il giovanotto faccia a modo suo, mia cara. Non aspettare che il vino faccia le bollicine e trabocchi. Falli sposare prima di

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quaresima. Ormai ogni inverno è buono per prendermi la polmonite e io voglio offrire il rinfresco nuziale».

Queste dichiarazioni enunciate una di seguito all'altra furono accolte con adeguate espressioni di spasso, di incredulità e di gratitudine; e la visita si stava concludendo tra amabili battute di spirito quando la porta si aprì per far passare la contessa Olenska, la quale entrò indossando un cappellino e una mantella, seguita dalla inaspettata figura di Beaufort.

Tra le signore corse un mormorio di piacere da buone cugine e la signora Mingott allungò al banchiere il modello di Ferrigiani. «Ah, Beaufort, questo è un raro privilegio!» (Aveva uno strano modo esotico di rivolgersi agli uomini chiamandoli per cognome.)

«Grazie, vorrei che accadesse più spesso», disse il visitatore con disinvolta arroganza. «In genere sono molto impegnato, ma ho incontrato la contessa Ellen in Madison Square e lei è stata tanto gentile da permettermi di accompagnarla a piedi a casa».

«Spero che la casa sarà più allegra, ora che Ellen è qui!», esclamò la signora Mingott con meravigliosa faccia tosta. «Si segga, si segga, Beaufort. Prenda la poltrona gialla. Adesso che è qui con me, voglio fare una bella chiacchierata. Ho sentito dire che la vostra festa da ballo è stata magnifica. Sbaglio, o avete invitato la moglie di Lemuel Struthers? Bene, sono curiosa di conoscere personalmente quella donna.»

Aveva dimenticato i suoi parenti, i quali se ne stavano andando ammassandosi nell'atrio e accompagnati da Ellen Olenska. La vecchia signora Mingott aveva sempre manifestato una grande ammirazione per Julius Beaufort e c'era una specie di affinità nel loro freddo modo dispotico di violare le regole. Ormai bruciava dalla curiosità di conoscere ciò che aveva indotto i Beaufort a invitare (per la prima volta) la moglie di Lemuel Struthers, o meglio la vedova del lucido per scarpe Struthers, che l'anno precedente era tornata da un lungo soggiorno iniziatico in Europa per assediare la salda e piccola roccaforte di New York. «Naturalmente, se lei e Regina la invitate la faccenda è risolta. Bene, ci occorre nuovo sangue e nuovo denaro ... e mi dicono che la Struthers ha ancora un bellissimo aspetto», dichiarò la vorace vecchia signora.

Nell'atrio, mentre la signora Welland e May si infilavano le pellicce, Archer si accorse che la contessa Olenska lo stava guardando con un sorriso vagamente interrogativo.

«Naturalmente lei sa già di May e di me», disse, rispondendo allo sguardo di lei con una risatina. «Ieri sera all'opera mi ha dato una lavata di capo perché non le ho comunicato la notizia. Mi aveva ordinato di dirle che ci eravamo fidanzati ... ma con tutta quella confusione non ci sono riuscito.»

Il sorriso passò dagli occhi alla bocca della contessa Olenska: ella appariva più giovane, più simile all'ardita bruna Ellen Mingott di quando lui era adolescente. «Si capisce che lo so. Sì. E sono contenta. Ma certe cose non si dicono per la prima volta in mezzo a una folla.» Le signore stavano sulla soglia e lei tese loro la mano.

«Arrivederci. E un giorno venga a trovarmi», disse, continuando a fissare Archer.

In carrozza, percorrendo la Quinta Strada, parlarono apertamente della signora Mingott, della sua età, del suo spirito e di tutte le sue meravigliose qualità. Nessuno fece allusione a Ellen Olenska, ma Archer sapeva che la signora Welland stava pensando: «È un errore per Ellen farsi vedere, proprio il giorno del suo arrivo, a passeggio nella Quinta Strada nelle ore di punta con Julius Beaufort», al che lo stesso giovanotto aggiungeva mentalmente: «Lei poi dovrebbe sapere che un uomo che si è appena fidanzato non passa il tempo a far visita a donne sposate. È probabile che nell'ambiente in cui lei ha vissuto si faccia così, anzi non fanno mai altro che questo». E, nonostante le idee cosmopolite di cui lui stesso andava orgoglioso, ringraziò il cielo di essere un cittadino di New York e in procinto di unirsi con una donna della sua stessa categoria sociale.

Capitolo quinto

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La sera seguente il vecchio signor Sillerton Jackson andò a cena dagli Archer.

La signora Archer era una donna timida che rifuggiva dalla società, ma gradiva essere bene informata di quanto vi avveniva. Il suo vecchio amico Sillerton Jackson, nell'indagare sulle faccende altrui, applicava la pazienza di un collezionista e la scienza di un naturalista; inoltre la sorella, Miss Sophy Jackson, che conviveva con lui e veniva ricevuta da tutte le persone che non riuscivano a catturare il suo tanto richiesto fratello, portava a casa brani di pettegolezzi utili per colmare i vuoti del quadro che lui andava componendo.

Di conseguenza la signora Archer, ogni volta che voleva avere qualche informazione, invitava a cena il signor Jackson; e siccome le persone che godevano del privilegio dei suoi inviti erano poche, e dato che lei e sua figlia Janey erano delle ottime ascoltataci, di solito il signor Jackson ci andava di persona anziché mandarci la sorella. Se avesse potuto imporre tutte le condizioni, avrebbe scelto le sere in cui Newland era fuori casa; non perché il giovanotto non gli andasse a genio (al club loro due erano in ottimi rapporti), ma perché a volte l'anziano gazzettiere avvertiva, da parte di Newland, la tendenza a vagliare le prove da lui addotte, cosa che le signore della famiglia non facevano mai.

Inoltre il signor Jackson, sempre che sia possibile raggiungere la perfezione in questo mondo, avrebbe desiderato che i pasti della signora Archer fossero un po' migliori. Ma New York a quell'epoca, per quanto indietro nel tempo la mente umana è in grado di risalire, era divisa in due grandi gruppi fondamentali, quello formato dai Mingott, dai Manson e da tutto il loro clan, i cui componenti pensavano a nutrirsi, a vestirsi e a fare quattrini, e la tribù degli Archer-Newland-van der Luyden, che era dedita ai viaggi, all'orticoltura e alla migliore narrativa e guardava sprezzantemente le più grossolane forme di piacere.

Insomma, non si poteva avere tutto. Se si andava a cena da Lovell Mingott, era possibile trovare anatra selvatica, tartaruga d'acqua dolce e vini d'annata; da Adeline Archer si poteva parlare di paesaggi alpini e del Fauno di marmo; e per fortuna il Madera degli Archer era ben bene invecchiato. Ragion per cui quando la signora Archer lo invitava cordialmente, il signor Jackson, da autentico eclettico qual era, soleva dire alla sorella: «Dopo aver cenato ultimamente da Lo veli Mingott mi è venuta un po' di gotta ... Stare a dieta da Adeline mi farà bene».

La signora Archer, vedova da molti anni, abitava con il figlio e la figlia nella West Twenty-eighth Street. Il piano superiore era riservato a Newland e le due donne si erano adattate in stanze più piccole dabbasso. In una serena armonia di gusti e di interessi, coltivavano felci in cellette di vetro, facevano merletti e ricami di lana su tessuto di lino, raccoglievano ceramiche smaltate della rivoluzione americana, erano abbonate a Good Words e leggevano i romanzi della Ouida in omaggio all'atmosfera italiana. (Preferivano quelli che parlavano della vita dei campi per via delle descrizioni di paesaggi e di garbati sentimenti, anche se in genere prediligevano la narrativa che si occupava di ambienti dell'alta società, i cui intendimenti e le cui abitudini comprendevano meglio, stroncavano Dickens, il quale «non aveva mai parlato di un gentiluomo», e ritenevano che Thackeray fosse meno a suo agio nel gran mondo che non Bulwer-Lytton, il quale peraltro cominciava a essere giudicato antiquato.)

Entrambe le Archer, madre e figlia, avevano una passione per i paesaggi. Era quanto esse cercavano e ammiravano soprattutto nei loro sporadici viaggi all'estero, ritenendo che architettura e pittura fossero argomenti adatti agli uomini e in modo particolare alle persone colte che leggevano Ruskin. La signora Archer era una Newland e madre e figlia, che si somigliavano come sorelle, a detta della gente erano entrambe «delle vere Newland»; alte, esangui, con le spalle un po' rotonde, il naso lungo, il sorriso dolce e un tipo di languida distinzione quale si incontra in certi ritratti sbiaditi di Reynolds. La loro somiglianza fisica sarebbe stata completa se una più attempata floridezza non avesse messo in tensione il vestito di broccato nero della signora Archer, mentre col trascorrere degli anni quello di popelin scuro e color porpora indossato da Miss Archer cadeva sempre più negligentemente sulla sua verginale corporatura.

Sul piano intellettuale la loro rassomiglianza, come Newland si rendeva conto, era meno

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completa di quanto spesso apparisse dal loro identico modo di comportarsi. La lunga consuetudine di vivere insieme in una intimità scambievolmente condizionata aveva fornito loro lo stesso vocabolario e la stessa abitudine di iniziare le loro frasi con «La mamma pensa» o « Janey pensa», a seconda che l'una o l'altra desiderasse esprimere una propria opinione; ma in realtà, mentre la serena mancanza di fantasia della signora Archer si fondava facilmente su ciò che era incontestato e consueto, Janet era soggetta a scatti e aberrazioni di fantasia che scaturivano da un romanticismo represso.

Madre e figlia si adoravano a vicenda e veneravano il loro rispettivo figlio e fratello; Archer, poi, le amava con una tenerezza resa contrita e poco esigente dalla sensazione della loro esagerata ammirazione e dalla segreta soddisfazione che ne traeva. Dopo tutto, pensava fosse bene per un uomo che la sua autorità fosse rispettata all'interno della propria casa, anche se il suo senso dell'umorismo a volte lo induceva a dubitare del potere del suo compito.

In quella occasione il giovanotto era più che certo che il signor Jackson avrebbe preferito che lui cenasse fuori casa, ma aveva le sue buone ragioni per non farlo.

Senza dubbio il vecchio Jackson voleva parlare di Ellen Olenska ed era altrettanto ovvio che la signora Archer e Janey volessero ascoltare quanto egli aveva da riferire in proposito. Tutti e tre sarebbero stati messi un po' in imbarazzo dalla presenza di Newland, dal momento che ormai si sapeva che stava per imparentarsi con il clan dei Mingott; e il giovanotto aspettava di vedere con divertita curiosità come se la sarebbero cavata.

Prendendola alla larga, cominciarono a parlare della vedova di Lemuell Struthers.

«Peccato che i Beaufort l'abbiano invitata», disse gentilmente la signora Archer. «Ma se è per questo Regina fa sempre quello che le dice lui; e Beaufort...»

«Certe sfumature sfuggono a Beaufort», disse il signor Jackson, esaminando con cautela l'aiosa cotta alla griglia e chiedendosi per la millesima volta perché il cuoco della signora Archer bruciasse sempre le uova di pesce fino a carbonizzarle. (Newland, il quale da tempo condivideva il suo stupore, riusciva sempre a coglierlo nell'espressione di mesto biasimo dell'uomo più anziano.)

«Oh, deve essere per forza cosi, Beaufort è un uomo rozzo», disse la signora Archer. «Mio nonno Newland soleva dire sempre a mia madre: "Qualunque cosa succeda, non permettere che quel Beaufort venga presentato alle ragazze". Ma almeno lui ha avuto il vantaggio di frequentare gentiluomini, e per di più in Inghilterra, a quanto dicono. È tutto molto misterioso ...» Lanciò un'occhiata a Janey ed esitò. Lei e Janey conoscevano ogni risvolto del mistero di Beaufort, ma in pubblico la signora Archer continuava a fingere di credere che l'argomento non fosse di quelli adatti per le persone non sposate.

«Ma questa signora Struthers», proseguì la signora Archer, «da dove dice che viene, Sillerton?»

«Viene da una miniera, o piuttosto dal saloon che sta all'ingresso del pozzo. Poi ha portato in giro per la Nuova Inghilterra le statue di cera viventi. Dopo che la polizia ha interrotto quella attività, dicono che sia vissuta ...». Fu il turno del signor Jackson a lanciare un'occhiata a Janey, i cui occhi cominciavano a uscirle dalle palpebre sporgenti. Per lei il passato della signora Struthers era sempre lacunoso.

«Poi», continuò il signor Jackson (e Archer si accorse che si stava chiedendo perché nessuno avesse detto al maggiordomo che i cetrioli non vanno mai affettati con un coltello d'acciaio), «poi apparve Lemuel Struthers. Dicono che il suo inserzionista si sia servito della testa della ragazza per i manifesti pubblicitari del lucido per scarpe. I suoi capelli, come sapete, sono nerissimi ... all'egiziana. In ogni modo, lui ... finalmente ... l'ha sposata.» Nel modo di pronunciare quel «finalmente», intervallando ciascuna sillaba con la giusta enfasi, c'era una bella dose di malignità.

«Oh, bene ... al punto in cui siamo arrivati oggi, la cosa non ha importanza», disse con tono indifferente la signora Archer. In realtà in quel momento le signore non erano esattamente interessate ai casi della signora Struthers. Per loro l'argomento costituito da Ellen Olenska era

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troppo fresco e troppo avvincente. Anzi, il nome della signora Struthers era stato un pretesto soltanto perché di lì a poco lei potesse dire: «E la nuova cugina di Newland, la contessa Olenska? Non c'era anche lei al ballo?».

C'era un che di sarcastico nel rivolgersi al figlio. Archer lo sapeva e se l'era aspettato. Anche la signora Archer, la quale raramente dimostrava eccessivo entusiasmo per i casi umani, nel complesso era stata lieta del fidanzamento del figlio. («Specie dopo quella sciocca faccenda con la signora Rushworth», come aveva fatto notare a Janey, alludendo a ciò che una volta era sembrata a Newland una tragedia di cui la sua anima avrebbe portato per sempre la cicatrice.) Da qualunque punto di vista venisse considerato, a New York non c'era partito migliore di May Welland. Ovvio che Newland avesse diritto soltanto a un matrimonio del genere; ma i giovanotti sono talmente stolti e imprevedibili — e alcune donne così cacciatrici e senza scrupoli — che era addirittura un miracolo vedere il proprio unico figlio mettersi in salvo dal pericolo dell'isola delle sirene e approdare nel porto di una irreprensibile esistenza domestica.

Questo era quanto pensava la signora Archer e suo figlio lo sapeva; egli però sapeva anche che lei era rimasta sconvolta dall'anticipato annuncio del suo fidanzamento, o meglio da ciò che lo aveva causato, ed era per quel motivo — dato che nel complesso lui era un giudice tenero e indulgente — che quella sera era rimasto a casa. «Non è lo spirito di corpo dei Mingott che io disapprovo, ma non capisco perché il fidanzamento di Newland debba essere mischiato agli andirivieni di quella femmina della Olenska», si era lamentata la signora Archer con Janey, l'unica testimone dei rari momenti in cui lei derogava dalla sua perfetta aria di amabilità.

Nel corso della visita fatta alla signora Welland si era comportata magnificamente, cosa in cui non conosceva rivali, ma Newland sapeva (e senza dubbio la sua promessa sposa lo aveva intuito) che per tutto il tempo lei e Janey erano state in guardia e sulle spine nell'eventualità di una intrusione di Madame Olenska; e quando avevano lasciato la casa insieme, si era permessa di dire al figlio: «Sono grata per il fatto che Augusta Welland ci abbia ricevuti da sola».

Questi sintomi di turbamento interiore colpivano Archer più che altro perché anche lui aveva l'impressione che i Mingott si fossero spinti un po' troppo oltre il lecito. Ma siccome era contro ogni regola del loro codice che madre e figlio alludessero a ciò che stava loro più a cuore, si era limitato a rispondere: «Bene, quando ci si fidanza c'è sempre una fase nei ricevimenti di famiglia cui bisogna sottostare, e prima la si supera meglio è». Al che la madre aveva increspato le labbra sotto il velo di trina che le scendeva dal cappellino di velluto grigio guarnito di chicchi d'uva spolverati di brina.

Newland era del parere che la vendetta di sua madre — una vendetta rispettosa delle regole — sarebbe consistita nell' «adescare» il signor Jackson sul tema riguardante la contessa Olenska; avendo quindi fatto pubblicamente il suo dovere come futuro membro del clan dei Mingott, il giovanotto non aveva nulla da obiettare a che si parlasse in privato della gentildonna, tranne che l'argomento cominciava già ad annoiarlo.

Il signor Jackson si era servito di una fetta del tiepido filetto, che il maggiordomo dall'aria malinconica gli aveva porto con uno sguardo scettico quanto il suo, e aveva respinto la salsa di funghi dopo averla fiutata in modo appena percettibile. Sembrava perplesso e affamato e Archer pensò che probabilmente avrebbe concluso la cena parlando di Ellen Olenska.

Il signor Jackson si appoggiò contro la sedia e lanciò un'occhiata agli Archer, ai Newland e ai van der Luyden appesi in cornici scure alle pareti scure, che si intravedevano al chiarore delle candele.

«Mio caro Newland, suo nonno Archer sì che apprezzava la buona tavola!», disse, guardando il ritratto di un giovanotto grassoccio e dal petto ampio in collarina e giubba blu, dietro il quale era visibile una villa di campagna dalle bianche colonne.

«Bene, bene, bene ... Vorrei sapere che avrebbe detto di tutti questi sposalizi con stranieri!»

La signora Archer ignorò l'allusione alla cucina di una volta e il signor Jackson continuò a dire di

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proposito: «No, lei non è venuta al ballo».

«Ah», mormorò la signora Archer con una inflessione di voce che voleva dire: «Ha avuto la decenza di non andarci».

«Forse i Beaufort non la conoscono», insinuò Janey con ingenua cattiveria.

Il signor Jackson bevve un sorsetto, come se stesse centellinando un invisibile Madera. «Può darsi che la signora Beaufort non la conosca, ma di sicuro la conosce Beaufort, perché questo pomeriggio tutta New York l'ha vista a passeggio con lui nella Quinta Strada».

«Misericordia ...», gemette la signora Archer, chiaramente convinta che fosse inutile cercare un senso di delicatezza nelle azioni di gente straniera.

«Mi chiedo se nel pomeriggio porta un cappello a larghe tese o un cappellino», ipotizzò Janey. «So che all'opera indossava un abito di velluto blu scuro, assolutamente privo di ricercatezza e scialbo ... come una camicia da notte.»

«Janey!», disse la madre, al che Miss Archer arrossì e cercò di darsi un'aria disinvolta.

«In ogni caso ha avuto il buon gusto di non andare al ballo», continuò la signora Archer.

Per spirito di ostinazione il figlio fu spinto a replicare: «Non credo che nel suo caso si tratti di buon gusto. May ha detto che lei intendeva andarci, ma che poi ha pensato che il vestito in questione non fosse abbastanza elegante».

La signora Archer sorrise a questa conferma della sua deduzione. «Povera Ellen», sottolineò candidamente, aggiungendo poi tutta comprensiva: «Dobbiamo sempre tener presente il modo eccentrico in cui Medora Manson l'ha educata. Che possiamo aspettarci da una ragazza alla quale è stato consentito di vestirsi di raso nero al ballo delle debuttanti?».

«Ah, me lo ricordo bene!», disse il signor Jackson, aggiungendo: «Povera ragazza!», col tono di chi, pur ripensandoci con piacere, fin da quel momento aveva perfettamente capito ciò che c'era da aspettarsi in seguito a quello spettacolo.

«Strano», fece notare Janey, «che si sia tenuta un nome così brutto come Ellen. Al suo posto lo avrei cambiato in Elaine.» Diede un'occhiata in giro per vedere che effetto faceva la sua osservazione.

Il fratello rise: «Perché Elaine?».

«Non lo so. Sembra più ... più polacco», disse Janey arrossendo.

«Sembra dare più nell'occhio. E questo non può essere quello che lei desidera», disse freddamente la signora Archer.

«Perché no?», intervenne il figlio, fattosi improvvisamente polemico. «Perché non dovrebbe farsi notare, se lo desidera? Perché dovrebbe muoversi furtivamente come se fosse stata lei a disonorare la propria reputazione? Certo, lei è "la povera Ellen", perché ha avuto la sfortuna di fare un matrimonio infelice. Non credo però che questo sia un motivo per nascondere la testa come se fosse colpa sua.»

«Suppongo», disse il signor Jackson insinuante, «che questa sia la linea di condotta che i Mingott intendono seguire.»

Il giovanotto arrossì. «Non ho bisogno che mi diano loro l'imbeccata, se questo è quanto vuol dire, signore. Madame Olenska ha avuto una vita infelice. Ma questo non fa di lei una reietta.»

«In giro si dice ...», cominciò il signor Jackson, lanciando un'occhiata a Janey.

«Lo so, la faccenda del segretario», lo prevenne il giovane. «Sciocchezze, mamma, Janey è cresciuta. Forse si dice», proseguì, «che il segretario l'ha aiutata a scappare da quell'essere brutale di suo marito, il quale la teneva praticamente come una prigioniera? Ebbene, che male c'è se lui lo ha

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fatto? Spero che in mezzo a noi non ci sia un uomo che non farebbe altrettanto in un caso del genere.»

Il signor Jackson si voltò per dire all'afflitto maggiordomo: «Forse ... quella salsa ... soltanto un po', insomma ...», poi, dopo essersi servito, osservò: «Mi dicono che stia cercando casa. Ha intenzione di vivere qui».

«Ho sentito dire che ha intenzione di chiedere il divorzio», disse Janey senza mezzi termini.

«Spero che lo faccia!», esclamò Archer.

La parola era scoppiata come un fulmine a ciel sereno nell'incorrotta e tranquilla atmosfera della sala da pranzo degli Archer. La signora Archer inarcò le sue delicate sopracciglia in un modo particolare che voleva dire: «Attenti al maggiordomo ...». E il giovanotto, memore egli stesso del cattivo gusto di parlare in pubblico di certe cose di famiglia, si affrettò a cambiare discorso per descrivere la visita da lui fatta alla vecchia signora Mingott.

Dopo, in base a una abitudine inveterata, la signora Archer e Janey si tirarono dietro i lunghi strascichi di seta per salire fino al salotto dove, mentre gli uomini si intrattenevano a fumare al pianterreno, si sedettero accanto a una lampada Carcel dal globo lavorato, ponendosi l'una di fronte all'altra ai lati di un tavolino da lavoro di palissandro sotto il quale era attaccata una borsa di tela verde, e si misero all'opera alle due estremità di una fascia da tappezzeria ricamata con fiori di campo e destinata a coprire una sedia «qualsiasi» nel salotto della giovane moglie di Newland Archer.

Mentre nel salotto questo rito era in pieno svolgimento, Archer fece accomodare il signor Jackson in una poltrona accanto al fuoco nella biblioteca gotica e gli offrì un sigaro. Il signor Jackson sprofondò con piacere nella poltrona, accese il sigaro pienamente fiducioso (dato che era Newland a comprarli) e, allungando le sue sottili e vecchie caviglie verso il caminetto, disse: «Secondo lei, mio caro amico, il segretario si è limitato ad aiutarla a scappare? Bene, allora un anno dopo la stava ancora aiutando. Infatti, qualcuno li ha incontrati a Losanna, dove convivevano».

Newland arrossì: «Convivevano? Ebbene, perché no? Chi aveva il diritto di rifare la propria vita se non lei stessa? Sono stufo degli ipocriti che vorrebbero seppellire viva una donna della sua età, mentre il marito preferisce spassarsela con le prostitute».

Tacque e si girò arrabbiato dall'altra parte per accendere il sigaro. «Le donne dovrebbero essere libere ... libere quanto lo siamo noi», dichiarò, facendo una scoperta le cui terribili conseguenze non era in grado di valutare perché era troppo irritato.

Il signor Sillerton Jackson accostò ancora di più le caviglie al fuoco ed emise un fischio beffardo.

«Bene», disse dopo una pausa, «a quanto pare il conte Olenski la pensa come lei. Difatti non ho mai saputo che abbia mosso un dito affinché sua moglie ritornasse a casa.»

Capitolo sestoQuella sera, dopo che il signor Jackson se ne fu andato e le signore si erano ritirate nelle loro

camere da letto con tende di chintz, Newland Archer salì nel suo studio personale immerso nei suoi pensieri. Come al solito, una mano premurosa aveva tenuto acceso il fuoco e nettato la lampada; la stanza, con le interminabili file di libri, le statuette di bronzo e acciaio che raffiguravano gli «Schermidori» sistemate sul caminetto e le numerose fotografie di quadri celebri appariva straordinariamente semplice a accogliente.

Appena si fu sprofondato nella poltrona accanto al fuoco, i suoi occhi si posarono su una grande fotografia di May Welland, che la ragazza gli aveva dato i primi giorni del loro idillio e che aveva ormai soppiantato tutti gli altri ritratti che si trovavano sul tavolo. Con un nuovo senso di sgomento egli fissò la fronte schietta, gli occhi gravi e la gaia bocca innocente della giovane creatura della cui

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anima sarebbe stato il custode. Quello straordinario prodotto del sistema sociale cui lui stesso apparteneva e in cui credeva, la fanciulla che non sapeva niente della vita e si aspettava tutto da essa, gli restituì uno sguardo da estranea attraverso le note fattezze di May Welland; e ancora una volta era arrivato alla conclusione che il matrimonio non fosse il porto sicuro come gli era stato insegnato a credere, bensì un viaggio attraverso acque sconosciute.

Il caso della contessa Olenska aveva gettato nello scompiglio vecchie convinzioni radicate, facendo sì che esse gli turbinassero pericolosamente nella mente. La sua dichiarazione: «Le donne dovrebbero essere libere come lo siamo noi», risaliva alle origini di un problema che nel suo ambiente veniva concordemente considerato inesistente. Le donne «ammodo», pur avendo subito un torto, non avrebbero mai rivendicato il tipo di libertà come lui lo intendeva, e di conseguenza uomini dalla sua stessa mentalità aperta erano — nel calore della discussione — più cavallerescamente disposti a riconoscergliela. In realtà, certe magnanimità verbali erano soltanto un travestimento ingannevole delle crudeli convenzioni che legavano insieme le cose e tenevano la gente incatenata al vecchio modello. Ma in questo caso lui, mettendosi dalla parte della cugina della sua promessa sposa, si era impegnato a difendere un comportamento che, se tenuto da sua moglie, lo avrebbe giustificato se avesse invocato su di lei tutti i fulmini della Chiesa e dello Stato. Naturalmente il dilemma era del tutto ipotetico; dato che non era un nobile polacco, e mascalzone per giunta, era assurdo fare congetture in merito a quelli che sarebbero stati i diritti di sua moglie nel caso egli lo fosse stato veramente. Ma Newland Archer era troppo ricco di immaginazione per non accorgersi che, per quanto riguardava lui e May, il vincolo poteva rendere amara la vita per motivi molto meno evidenti e palpabili. Che cosa conoscevano veramente l'uno dell'altra, dato che su di lui, in quanto individuo «a posto», incombeva l'obbligo di nasconderle il proprio passato, e su di lei, in quanto ragazza da marito, quello di non avere nessun passato da nascondere? Che cosa sarebbe accaduto se, per qualsiasi motivo dei più futili che avessero influito su entrambi, si fossero stancati l'uno dell'altra, se equivoci e contrasti li avessero divisi? Riconsiderò i matrimoni dei suoi amici — quelli presumibilmente felici — e non ne vide nessuno che rispondesse, sia pure lontanamente, all'amicizia appassionata e tenera che egli si era raffigurato alla base del suo rapporto stabile con May Welland. Intuiva che una situazione del genere presupponeva da parte di lei esperienza, versatilità e libertà di giudizio, tutte cose che le era stato accuratamente inculcato di non possedere; e con un brivido premonitore vide il suo matrimonio diventare ciò che erano diventati la maggior parte dei matrimoni intorno a lui: un fiacco sodalizio di interessi materiali e sociali tenuto insieme dall'ignoranza di lei e dall'ipocrisia di lui. Gli venne in mente che Lawrence Lefferts era il marito che aveva attuato nel modo più completo questo invidiabile ideale. Essendo diventato il sommo sacerdote della forma, aveva plasmato una moglie del tutto corrispondente alle sue esigenze personali al punto che, nei momenti in cui le sue relazioni amorose con le donne altrui davano più nell'occhio, lei andava in giro sorridente e inconsapevole, affermando che «Lawrence era terribilmente severo»; e si era venuto a sapere che arrossiva sdegnata e distoglieva lo sguardo quando qualcuno alludeva in sua presenza al fatto che Julius Beaufort (come era logico che facesse uno «straniero» dal dubbio passato) avesse quella che a New York era definita «una seconda famiglia».

Archer cercò di consolarsi riflettendo che non era assolutamente uno stupido come Larry Lefferts, né May era un'oca come la povera Gertrude: la differenza tuttavia stava in definitiva nell'intelligenza e non nei punti di riferimento. In effetti vivevano tutti in una specie di mondo indecifrabile, in cui non si parlava della realtà, non si agiva su di essa né se ne faceva materia di riflessione, ma la si rappresentava soltanto mediante una serie di gesti arbitrari; come quando la signora Welland, la quale era perfettamente al corrente del perché Archer l'aveva spinta ad annunciare il fidanzamento della figlia al ballo di Beaufort (e a dire il vero non si era aspettata di meno da lui), si era sentita tuttavia obbligata a fingere di essere restia come se le avessero forzato la mano, analogamente a quanto descrivevano i libri in cui si parlava dell'Uomo primitivo, e che persone di cultura progressista avevano cominciato a leggere, a proposito della sposa selvaggia trascinata via tra strilli e urla dalla tenda dei suoi genitori.

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Ne derivava naturalmente che la fanciulla che era il centro di questo intricato sistema di mistificazioni seguitava a essere la più impenetrabile per la sua assoluta sincerità e fiducia. Lei, povera cara, era schietta perché non aveva nulla da nascondere, era sicura perché non conosceva niente contro cui stare all'erta; e, senza una preparazione migliore di quella ricevuta, sarebbe stata lanciata in quelli che la gente definiva ambiguamente «i fatti della vita».

Il giovanotto era innamorato sinceramente ma senza slancio. Era felice per il radioso bell'aspetto della sua promessa sposa, per la sua buona salute, per la sua capacità di andare a cavallo, per la sua grazia e abilità nei giochi e per il timido interesse nei libri e nelle idee che sotto la sua guida stava incominciando a coltivare. (Qualche progresso lo aveva fatto, al punto da unirsi a lui nel mettere in ridicolo Gli idilli del re, ma non per cogliere la bellezza di Ulisse e dei Mangiatori di loto.) Era franca, leale e coraggiosa; aveva senso dell'umorismo (dimostrato soprattutto dal fatto che rideva alle spiritosaggini di lui); e lui presentiva che nelle profondità della sua anima innocentemente contemplativa ci fosse un ardore emotivo che sarebbe stata una gioia destare. Ma quando aveva cercato di farsi un'idea precisa sul conto di May, si era scoraggiato al pensiero che tutta quella franchezza e innocenza fossero soltanto delle finzioni. La natura umana nella sua inesperienza non è né sincera né innocente, ma è colma delle simulazioni e delle protezioni erette da una scaltrezza istintiva. Inoltre si sentiva oppresso dalla creazione di questa purezza artificiosa, fabbricata con tanta furberia dalla congiura di madri, zie, nonne e antenate morte da tempo, in quanto si riteneva che fosse ciò che lui voleva, ciò a cui aveva diritto, affinché potesse esercitare il suo piacere di signore nel distruggerla come si fa con un pupazzo di neve.

Questi pensieri erano in certo qual modo banali, erano quelli che di solito assalgono i giovani all'avvicinarsi del giorno delle nozze. Ma in genere sono accompagnati da un senso di avvilimento e di umiliazione che Newland Archer era ben lungi dal provare. Lui non riusciva (a differenza dei personaggi di Thackeray che molto spesso lo irritavano per questo motivo) a rammaricarsi per non avere una pagina in bianco da offrire alla sua sposa in cambio di quella senza macchia che lei gli avrebbe dato. Non riusciva a ignorare il fatto che se fosse stato educato come lei, non sarebbero stati in grado di trovare dove sbattere la testa meglio dei «bambini sperduti nel bosco» di cui si parla nella favola; né, nonostante tutte queste riflessioni, riusciva a scorgere un onesto motivo qualsiasi (nel senso, cioè, che prescindesse dal suo personale e momentaneo piacere e dalla passione della vanità maschile) per cui alla sua sposa non si dovesse riconoscere la stessa libertà di fare esperienze come era accaduto a lui.

Era normale che interrogativi del genere, e in particolare a quell'ora, gli si accavallassero nella mente; era tuttavia consapevole che il loro sgradevole persistere e la puntualità con cui si erano presentati fossero dovuti all'inopportuno arrivo della contessa Olenska. Eccolo lì, nel preciso momento del suo fidanzamento — un momento per formulare pensieri puri e serene speranze — cacciato di punto in bianco nel trabocchetto di uno scandalo che sollevava tutti i problemi di carattere eccezionale di cui lui avrebbe preferito non occuparsi. «Accidenti a Ellen Olenska!», brontolò calmandosi e cominciando a spogliarsi. In effetti non riusciva a capire perché il destino di lei dovesse avere la minima influenza sul suo; eppure avvertiva vagamente di avere appena cominciato a calcolare i rischi del ruolo di difensore a cui il suo fidanzamento lo avrebbe esposto.

Qualche giorno dopo il fulmine colpì.

I Mingott avevano diramato gli inviti per quella che veniva definita «cena ufficiale» (che richiedeva, cioè, l'aggiunta di tre lacchè, due piatti per ciascuna portata e, nell'intervallo, un Roman punch), intestando i biglietti con le parole «Per presentare la contessa Olenska» secondo la voga ospitale americana che tratta gli stranieri come se fossero rampolli di famiglie reali, o quanto meno come se ne fossero gli ambasciatori.

Gli ospiti erano stati scelti con una decisione e una discriminazione in cui gli iniziati riconobbero la mano salda della Grande Caterina. Unitamente a certe persone su cui si poteva contare da tempo immemorabile come i coniugi Merry, i quali erano richiesti dappertutto perché così si era sempre fatto, i Beaufort, che rivendicavano un diritto di parentela, e il signor Sillerton Jackson e sua sorella

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Sophy (che andava ovunque il fratello le dicesse di andare), erano state invitate le persone più eleganti e incensurabili appartenenti all'ambiente predominante dei «giovani coniugi»; i Lefferts, la bella vedova di Lefferts Rushworth, i Thorley, i Chivers e il giovane Morris Dagonet con la moglie (la quale era una van der Luyden). A dire il vero la compagnia era perfettamente assortita, in quanto tutti i componenti appartenevano al gruppetto esclusivo di persone le quali, durante la lunga stagione di New York, si divertivano insieme giorno e notte con un gusto apparentemente immutato.

Quarantott'ore più tardi era accaduto l'incredibile; tutti avevano declinato l'invito dei Mingott, tranne i Beaufort, il vecchio Jackson e sua sorella. L'intenzionalità dell'offesa fu accentuata dal fatto che vi avevano aderito anche i Chivers, pur facendo parte del clan dei Mingott; nonché dalla formulazione uniforme delle risposte, nella totalità delle quali i mittenti «si rammaricavano di non aver potuto accettare», senza però l'attenuante del pretesto di «un precedente impegno» come imponeva una norma di ordinaria cortesia.

A quell'epoca la società di New York era troppo ristretta e di risorse troppo limitate, perché tutti coloro che ne facevano parte (compresi i gestori di scuderie di cavalli da nolo, i maggiordomi e i cuochi) non sapessero esattamente le sere in cui la gente era libera; fu quindi così possibile ai destinatari degli inviti della moglie di Lovell Mingott palesare crudelmente la loro determinazione di non incontrare la contessa Olenska.

Il colpo giunse inaspettato; ma i Mingott, secondo il loro modo di fare, lo incassarono con coraggio. La signora Mingott affidò il caso alla signora Welland, la quale lo affidò a Newland Archer; il quale, indignato per l'offesa, si rivolse con ardore e in modo autoritario a sua madre; la quale, dopo una spiacevole fase di resistenza interiore e di temporeggiamenti esteriori, cedette alle sue richieste (come faceva sempre) e, aderendo immediatamente alla sua causa con raddoppiata energia per via delle sue precedenti esitazioni, si mise il cappellino di velluto grigio e disse: «Andrò a trovare Louisa van der Luyden».

La New York dei tempi di Newland Archer era una piramide piccola e insidiosa, che fino a quel momento non aveva presentato né crepe né appigli. Alla sua base c'erano solide fondamenta costituite da ciò che la signora Archer definiva «gente semplice», una maggioranza onesta ma umile di famiglie perbene (come nel caso degli Spicer, o dei Lefferts, o dei Jackson) che si era elevata al di sopra del suo livello mediante matrimoni contratti con chi apparteneva ai clan dirigenti. La signora Archer affermava sempre che le persone non erano così scrupolose come lo erano loro; e con l'anziana Catherine Spicer che dominava un'estremità della Quinta Strada, e Julius Beaufort a capo dell'altra, non c'era speranza che le vecchie tradizioni sarebbero durate molto più a lungo.

Partendo da questa base di ricchezza ma di scarsa imponenza, il gruppo compatto e dominante rappresentato con tanta efficacia dai Mingott, dai Newland, dai Chivers e dai Manson, andava restringendosi decisamente verso l'alto. La maggior parte della gente riteneva che essi fossero il sommo vertice della piramide; ma essi stessi (almeno coloro che appartenevano alla generazione della signora Archer) si rendevano conto che, agli occhi del genealogista di professione, soltanto un numero ristrettissimo di famiglie era in grado di rivendicare il proprio diritto a quel primato.

«Non venite a raccontarmi», soleva dire ai figli la signora Archer, «tutte queste moderne scempiaggini diffuse dai giornali a proposito di una aristocrazia di New York. Se ce n'è una, non è dei Mingott, né dei Manson; no, e neppure dei Newland o dei Chivers. I nostri nonni e bisnonni erano soltanto degli onesti mercanti inglesi o danesi, i quali vennero nelle colonie a fare fortuna e ci rimasero perché gli andò bene. Uno dei vostri bisnonni firmò la dichiarazione di indipendenza e un altro fu un generale dello stato maggiore di Washington che, dopo la battaglia di Saratoga, ricevette la spada del generale Burgoyne. Queste sono cose di cui si è orgogliosi, ma non hanno niente a che fare con il rango o la classe sociale. New York è stata sempre una comunità commerciale, dove non ci sono più di tre famiglie in grado di rivendicare un'origine aristocratica nel vero senso della parola.»

La signora Archer, il figlio e la figlia, come chiunque altro a New York, sapevano chi fossero

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quelle creature privilegiate; si trattava dei Dagonet di Washington Square, che provenivano da una famiglia di un'antica contea inglese, alleata con i Pitt e i Fox: i Lanning, che si erano imparentati tramite matrimonio con i discendenti del conte de Grasse, e i van der Luyden, diretti discendenti del primo governatore olandese di Manhattan e imparentati mediante matrimoni anteriori alla rivoluzione con diversi membri dell'aristocrazia francese e britannica.

I Lanning sopravvivevano soltanto nelle persone di due donne nubili, molto anziane ma brillanti, che vivevano allegramente con i loro ricordi in mezzo a ritratti di famiglia e a mobili chippendale; i Dagonet formavano un clan numeroso, erano alleati con i migliori nomi di Baltimora e di Filadelfia; ma i van der Luyden, che sovrastavano tutti, si scoloravano in una specie di crepuscolo superterrestre, da cui emergevano in modo impressionante soltanto due personaggi, cioè il signor Henry van der Luyden e sua moglie.

La signora van der Luyden era stata da ragazza Louisa Dagonet e sua madre era stata la nipote del colonnello du Lac, di una vecchia famiglia delle Isole del canale della Manica, il quale aveva combattuto sotto Cornwallis e si era stabilito nel Maryland, dopo la guerra, con la sua sposa, Lady Angelica Trevenna, quinta figlia del conte di St Austrey. Il legame tra i Dagonet, i du Lac del Maryland e i loro aristocratici parenti della Cornovaglia, i Trevenna, si era sempre mantenuto stretto e cordiale. Più di una volta il signore e la signora van der Luyden avevano fatto lunghe visite al capo del momento della casa di Trevenna, il duca di St Austrey, presso la sua residenza di campagna in Cornovaglia e a St Austrey nel Gloucestershire; e Sua Grazia aveva spesso annunciato la sua intenzione di restituire un giorno la loro visita (senza la duchessa, che aveva paura di affrontare la traversata dell'Atlantico).

II signore e la signora van der Luyden dividevano il loro tempo fra Trevenna, la loro casa nel Maryland e Skuytercliff, la grande tenuta sull'Hudson che era stata una delle concessioni coloniali fatta dal governo olandese al celebre primo governatore e di cui il signor van der Luyden era ancora il Patroon\ Di rado la loro grande e imponente dimora in Madison Avenue veniva aperta e quando arrivavano in città vi ricevevano soltanto gli amici più intimi.

«Vorrei che tu venissi con me, Newland», disse sua madre arrestandosi improvvisamente davanti allo sportello del Brown coupé. «Louisa stravede per te; e naturalmente è per via della cara May che prendo questa decisione ... e anche perché, se non ci aiutiamo tra noi, tra poco la buona società sarà sparita.»

Capitolo settimoLa moglie di Henry van der Luyden ascoltava in silenzio il racconto della signora Archer, sua

cugina.

Ottima cosa era rendersi subito conto che la signora van der Luyden stava sempre zitta e che, quantunque non si compromettesse per via della sua indole e della sua educazione, era sempre molto gentile con le persone a cui voleva veramente bene. Anche l'avere avuto personalmente esperienza di questa realtà non sempre proteggeva dalla sensazione di gelo che si avvertiva nel salotto di Madison Square, dall'alto soffitto e dalle bianche pareti, arredato con poltrone rivestite di broccato chiaro, che evidentemente erano state sfoderate per l'occasione, e con la garza che ancora nascondeva le decorazioni in bronzo dorato del camino e la bella antica cornice intagliata del ritratto di Lady Angelica du Lac eseguito da Gainsborough.

Il ritratto della signora van der Luyden (in cui ella appariva in velluto nero e pizzo di Burano) dipinto da Huntington era di fronte a quello della sua avvenente antenata. In genere lo si giudicava «bello come un Cabanel» e, sebbene fossero trascorsi venti anni dalla sua esecuzione, era ancora «perfettamente somigliante». Effettivamente la signora van der Luyden, seduta sotto il dipinto mentre ascoltava la signora Archer, avrebbe potuto essere la sorella gemella della donna bella e ancora piuttosto giovane appoggiata a una sedia dorata a braccioli davanti a una tenda di cordonato

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verde. La signora van der Luyden portava ancora abiti in velluto nero e pizzo di Burano quando andava in società, o meglio (dato che non aveva mai cenato fuori casa) quando spalancava le sue porte per riceverla. La sua bionda chioma, che si era scolorita senza diventare grigia, era ancora spartita in due bande lisce sovrapposte sulla fronte e il naso dritto che le separava gli occhi azzurro pallidi era soltanto un po' smagrito intorno alle narici rispetto a quando il ritratto era stato eseguito. A dire il vero, ella aveva sempre colpito Newland Archer per il modo un po' macabro in cui si era conservata nell'atmosfera asettica di un'esistenza assolutamente irreprensibile, come i corpi intrappolati nei ghiacciai che per anni conservano nella morte un incarnato vivo.

Come tutti i componenti della sua famiglia, stimava e ammirava la signora van der Luyden, la cui docile cortese soavità, tuttavia, era secondo lui meno accessibile dell'aria arcigna di qualcuna delle vecchie zie di sua madre, feroci zitelle che dicevano «No» per partito preso prima di sapere quale domanda sarebbe stata loro rivolta.

L'atteggiamento della signora van der Luyden non era né favorevole né contrario, ma sembrava tendere sempre all'indulgenza, finché le sue labbra sottili, sfiorate appena dall'ombra di un sorriso, quasi invariabilmente proferivano questa risposta: «Dovrò prima di tutto parlarne con mio marito».

Lei e il signor van der Luyden erano talmente uguali che spesso Archer si chiedeva in che modo, dopo quarantanni di vita coniugale molto unita, queste due persone fuse fino a quel punto avrebbero potuto separarsi quanto bastava per intavolare una discussione. Dato, però, che nessuno dei due aveva mai preso una decisione se non dopo essersi così segretamente accordati, la signora Archer e suo figlio, avendo esposto il loro caso, attesero con rassegnazione di udirla pronunciare la ben nota frase.

Invece la signora van der Luyden, che raramente aveva stupito qualcuno, adesso li colse di sorpresa tendendo la sua lunga mano verso il cordone del campanello.

«Mi farebbe piacere», ella disse, «che Henry ascoltasse ciò che mi avete riferito.»

Apparve un domestico, al quale si rivolse con fare sostenuto: «Se il signor van der Luyden ha finito di leggere il giornale, gli chieda di avere la cortesia di venire qui».

Disse «leggere il giornale» col tono in cui la moglie di un ministro avrebbe potuto dire «presiedere una riunione di governo», non per alterigia, bensì perché l'abitudine di una vita e l'atteggiamento dei suoi amici e parenti l'aveva indotta a ritenere che il minimo gesto del signor van der Luyden avesse una rilevanza pressoché sacramentale.

La sollecitudine con cui aveva agito dimostrava che per lei il caso era urgente quanto per la signora Archer; nel timore però che si pensasse che si era impegnata in anticipo, con sguardo dolcissimo aggiunse: «Henry è sempre contento di vederti, cara Adeline, e vorrà congratularsi con Newland».

Le doppie porte si riaprirono solennemente e fra esse apparve il signor van der Luyden, alto, snello e in redingote, con i capelli di un biondo scolorito, con un naso diritto come quello della moglie e con lo stesso sguardo di gelida cortesia negli occhi, che erano soltanto color grigio chiaro anziché azzurro chiaro.

Il signor van der Luyden salutò la signora Archer con affabilità da buon cugino, si congratulò con Newland a bassa voce esprimendosi con le stesse parole usate dalla moglie e si sedette in una delle poltrone coperte di broccato con la semplicità di un sovrano nell'esercizio delle sue funzioni.

«Ho appena finito di leggere il Times», disse, unendo le punte delle sue lunghe dita. «In città al mattino sono talmente occupato che trovo più comodo leggere i giornali dopo la seconda colazione.»

«Quanto a questo, lo si può ben dire ... anzi mi ricordo che mio zio Egmont sosteneva che leggere i giornali del mattino dopo aver desinato lo metteva molto meno in agitazione», disse la signora Archer assecondandolo.

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«Sì, mio padre detestava la fretta. Ma ormai viviamo in una continua attività febbrile», disse il signor van der Luyden in tono pacato, guardando con calcolato compiacimento il salone tutto ricoperto che secondo Archer offriva una perfetta immagine dei suoi proprietari.

«Ma spero che tu abbia finito di leggere, Henry», intervenne la moglie.

«Sì, certo», la rassicurò lui.

«Allora, vorrei che Adeline ti dicesse ...»

«Veramente il caso riguarda Newland», disse sua madre sorridendo e proseguì raccontando ancora una volta l'atroce affronto fatto alla moglie di Lovell Mingott.

«Naturalmente», concluse, «Augusta Welland e Mary Mingott hanno ritenuto entrambe che tu e Henry doveste essere messi al corrente, specie in vista del fidanzamento di Newland.»

«Ah», disse il signor van der Luyden emettendo un profondo sospiro.

Calò il silenzio, durante il quale il ticchettio del monumentale orologio in bronzo dorato sulla mensola di marmo bianco del camino si fece fragoroso quanto il rombo di un cannone che spara a salva per dare l'allarme. Archer osservò con soggezione le due sottili figure sbiadite, sedute fianco a fianco, in una specie di rigidità da viceré, rappresentanti riconosciuti di un remoto potere ancestrale che il destino li aveva costretti a esercitare nonostante essi avessero preferito di gran lunga vivere in modo semplice e appartato, estirpando invisibili erbacce dai prati perfettamente tenuti di Skuytercliff e passando le serate a fare il solitario insieme.

Il signor van der Luyden fu il primo a prendere la parola.

«Crede davvero che ciò sia dovuto a ... a qualche intromissione intenzionale di Lawrence Lefferts?», chiese rivolgendosi ad Archer.

«Ne sono certo, signore. Ultimamente Larry ha avuto dei grattacapi un po' più seri del solito — se la cugina Louisa mi consente di parlarne — per via di una relazione impegnativa con la moglie del direttore dell'ufficio postale del loro villaggio, o qualcuno del genere; e ogni volta che la povera Gertrude Lefferts comincia ad avere qualche sospetto lui, temendo di mettersi nei guai, solleva un putiferio di questo tipo per far vedere quanto è rigidamente attaccato ai principi morali e si mette a dire, facendosi sentire da tutti, che è mancanza di riguardo mettere sua moglie in contatto con persone che egli non desidera farle conoscere. Usa semplicemente Madame Olenska come parafulmine. L'ho già visto altre volte fare la stessa cosa.»

«/ Lefferts!», disse la signora van der Luyden.

«/ Lefferts!», le fece eco la signora Archer. «Che avrebbe detto lo zio Egmont del fatto che Lawrence Lefferts esprime giudizi sulla posizione sociale delle persone? Ciò dimostra fino a che livello è scesa l'alta società.»

«Speriamo che non sia esattamente così», disse in tono fermo il signor van der Luyden.

«Ah, se tu e Louisa usciste soltanto un po' di più!», sospirò la signora Archer.

Ma si rese conto all'istante di aver commesso un errore. I van der Luyden erano morbosamente suscettibili a qualsiasi critica mossa al loro modo di vivere appartato. Essi erano gli arbitri del bel mondo, il tribunale d'ultima istanza, essendone consapevoli, e si rassegnavano al loro destino. Essendo però persone schive e riservate, sfornite di una tendenza naturale alla parte loro assegnata, vivevano per quanto possibile nella solitudine silvestre di Skuytercliff e, quando venivano in città, dicevano di no a tutti gli inviti adducendo la scusa della salute della signora van der Luyden.

Newland Archer accorse in aiuto della madre. «A New York lo sanno tutti quello che lei e la cugina Louisa rappresentate. Ecco perché la signora Mingott non ha ritenuto di dover tollerare questa mancanza di rispetto nei confronti della contessa Olenska senza consultarvi.»

La signora van der Luyden lanciò un'occhiata al marito, che gliela ricambiò.

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«Quello che non mi va è il principio», disse il signor van der Luyden. «Se un membro di una rinomata famiglia è spalleggiato da quella stessa famiglia, la faccenda dovrebbe essere considerata ... chiusa.»

«Anche a me sembra così», disse sua moglie, come se stesse enunciando un pensiero nuovo.

«Non credevo», continuò il signor van der Luyden, «che dovesse succedere tutto questo.» Si interruppe e guardò di nuovo sua moglie. «Mi viene in mente, mia cara, che la contessa Olenska è in certo qual modo imparentata con noi... attraverso il primo marito di Medora Manson. In ogni modo lo sarà quando Newland si sposerà.» Si voltò verso il giovane: «Newland, hai letto il Times di stamane?».

«Sissignore», rispose l'interpellato, che di solito scorreva mezza dozzina di giornali sorseggiando il caffè del mattino.

Marito e moglie si guardarono di nuovo. I loro occhi smorti si incollarono insieme in una prolungata e impegnativa consultazione; poi un languido sorriso palpitò sul volto della signora van der Luyden. Era chiaro che aveva capito e approvato.

Il signor van der Luyden si rivolse alla signora Archer. «Se la salute di Louisa le consentisse di andare a pranzo fuori... Vorrei che dicessi alla moglie di Lovell Mingott ... che Louisa e io saremmo stati felici... di... ehm ... essere al posto dei vari Lawrence Lefferts alla sua cena.» Fece una pausa per lasciare che l'ironia di quanto aveva detto si facesse strada. «Come sai, è impossibile.» La signora Archer emise un suono per esprimere la propria comprensione. «Ma Newland mi dice che ha letto il Times di stamani; allora ha probabilmente saputo che il parente di Louisa, il duca di St Austrey, arriverà la settimana prossima sul Russia. Viene per iscrivere il suo nuovo sloop, il Guinevere, alla prossima regata della coppa internazionale; e anche per partecipare a una piccola gara di tiro all'anatra selvatica a Trevenna.» Il signor van der Luyden fece un'altra pausa, poi continuò con accresciuta benevolenza: «Prima di accompagnarlo fino al Maryland, invitiamo un po' di amici da fargli conoscere qui... soltanto una modesta cena... e più tardi un ricevimento. Sono certo che Louisa sarà felice come me se la contessa ci permetterà di includerla fra i nostri ospiti». Si alzò, piegò il suo lungo corpo in un formale inchino diretto a sua cugina e aggiunse: «Credo di avere l'autorizzazione di Louisa di dire che sarà lei personalmente a recapitare l'invito per la cena quando tra poco uscirà in carrozza: con i nostri biglietti da visita ... si capisce, con i nostri biglietti da visita».

La signora Archer, sapendo che con ciò le si voleva far capire che i bai castani, che non si dovevano mai fare aspettare, erano alla porta, si alzò mormorando in fretta i suoi ringraziamenti. La signora van der Luyden le inviò il sorriso radioso di Ester che intercede presso Assuero; ma il marito alzò una mano in segno di protesta.

«Non c'è nulla di cui ringraziarmi, cara Adeline; assolutamente niente: cose di questo tipo non devono accadere a New York; e non accadranno finché potrò impedirlo», disse con sovrana cortesia mentre pilotava i cugini fino alla porta.

Due ore dopo tutti sapevano che il grande calesse con le molle a «C» su cui la signora van der Luyden andava a spasso in qualsiasi stagione era stato visto davanti alla porta della vecchia signora Mingott, dove fu consegnata una grande busta quadrata; e quella sera all'opera il signor Sillerton Jackson fu in grado di dichiarare che la busta conteneva un biglietto che invitava la contessa Olenska alla cena che i van der Luyden avrebbero offerto la settimana seguente per l'arrivo del loro cugino, il duca di St Austrey.

Alcuni fra i più giovani presenti nel palchetto del club si scambiarono un sorriso a questo annuncio e lanciarono occhiate di traverso a Lawrence Lefferts, il quale era seduto sconsideratamente in prima fila, si arricciava i lunghi baffi biondi e, approfittando di una pausa del soprano, emetteva il suo giudizio da esperto: «Nessuno tranne la Patti dovrebbe cimentarsi con la Sonnambula».

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Capitolo ottavoIn genere a New York si era d'accordo sul fatto che la contessa Olenska aveva «perduto un po'

della sua bellezza».

Vi aveva fatto per la prima volta la sua apparizione, all'epoca dell'adolescenza di Newland Archer, quando era una graziosissima bambina di nove o dieci anni, a cui secondo la gente «avrebbero dovuto fare il ritratto». I suoi genitori erano stati dei vagabondi intercontinentali e dopo una prima infanzia errabonda li aveva perduti entrambi, quindi era stata posta sotto la tutela della zia, Medora Manson, anch'essa una girovaga che stava tornando a New York per «sistemarsi».

La povera Medora, più volte vedova, tornava sempre in patria per sistemarsi (ogni volta in una casa meno costosa) e portava con sé un nuovo marito o un bambino adottato; ma dopo qualche mese immancabilmente si separava dal marito o litigava con il suo pupillo e, dopo essersi liberata della casa rimettendoci, riprendeva di nuovo i suoi vagabondaggi. Dato che la madre era stata una Rushworth e il suo ultimo infelice matrimonio l'aveva legata a uno dei Chivers pazzi, New York assisteva con occhio indulgente alle sue stravaganze; ma quando tornò con la nipotina orfana, i cui genitori erano stati benvoluti nonostante la loro deplorevole predilezione per i viaggi, la gente pensò che fosse un peccato che la bella bambina fosse finita in mani del genere.

Tutti erano ben disposti a trattare bene la piccola Ellen Mingott, anche se la sua faccia bruna e i fitti riccioli le davano un aspetto allegro che sembrava fuori posto in una bambina che avrebbe dovuto vestire ancora di nero per la morte dei genitori. Una delle tante stranezze male applicate di Medora era quella di beffarsi delle norme immutabili che in America regolavano il lutto e quando sbarcò dal piroscafo i parenti si scandalizzarono vedendo che il velo di crespo di Cina che portava per il proprio fratello era più corto di una ventina di centimetri rispetto a quello delle sue cognate, mentre la piccola Ellen era vestita di lana merino cremisi con perline d'ambra, come una trovatella gitana.

Ma New York si era rassegnata a sopportare Medora da così lungo tempo che soltanto qualche vecchia signora scosse il capo di fronte all'abbigliamento sgargiante di Ellen, mentre gli altri suoi parenti rimasero affascinati dal suo colorito vivace e dal carattere brioso. Era una cosina intrepida e da tutti conosciuta, che poneva domande imbarazzanti, faceva ragionamenti precoci e possedeva abilità stravaganti, come quella di ballare alla spagnola e cantare canzoni d'amore napoletane accompagnandosi con la chitarra. Sotto la guida della zia (che in realtà era la moglie di Thorley Chivers ma, avendo ricevuto un titolo nobiliare dal papa, aveva ripreso il cognome del primo marito e si era imposto quello di marchesa Manson, perché in Italia avrebbe potuto trasformarlo in Manzoni), la ragazzina ricevette un'educazione costosa ma scoordinata, che andava dal «disegno dal vero», una faccenda di cui non si era mai udito parlare prima di allora, all'esecuzione al pianoforte in un quintetto formato da musicisti di professione.

Si capisce che da tutto ciò non poteva scaturire nulla di positivo; e quando, qualche anno dopo, il povero Chivers terminò i suoi giorni in manicomio, la vedova (drappeggiata in bizzarre gramaglie) fece di nuovo fagotto e partì con Ellen, che si era trasformata in una ragazza alta e ossuta, tutta occhi. Per un po' non se ne udì più parlare; poi arrivò la notizia del matrimonio di Ellen con un nobile polacco, immensamente ricco e circondato da una fama leggendaria, che lei aveva conosciuto in occasione di un ballo alle Tuileries e che, a quanto si diceva, conduceva un'esistenza principesca a Parigi, a Nizza e a Firenze, possedeva uno yacht a Cowes e una vastissima riserva di caccia in Transilvania. Ellen scomparve in una specie di diabolica apoteosi e quando alcuni anni dopo Medora tornò di nuovo a New York, domata, ridotta in povertà, in lutto per il terzo marito e alla ricerca di una casa ancora più piccola, la gente si stupì del fatto che la nipote non potesse fare nulla per lei. Poi arrivò la notizia che il matrimonio di Ellen era finito in un disastro e che lei stessa stava tornando in patria in cerca di riposo e di oblio in mezzo ai suoi.

Tutto ciò attraversò la mente di Newland Archer una settimana dopo, mentre osservava la

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contessa Olenska entrare nel salotto di casa van der Luyden la sera della famosa cena. La circostanza era molto solenne ed egli si chiedeva, con un certo nervosismo, se la contessa sarebbe riuscita a superare la prova. Ella arrivò con un po' di ritardo, ancora senza guanti e chiudendosi un braccialetto attorno al polso. Tuttavia, senza mostrare di avere fretta o di provare imbarazzo, fece il suo ingresso nella sala in cui era raccolta in maniera alquanto insolita la compagnia più selezionata di New York.

In mezzo alla sala si fermò, guardandosi intorno con la bocca serrata e con gli occhi sorridenti; e in quel preciso momento Newland Archer respinse l'opinione generale a proposito della sua bellezza. Era vero che il fulgore di un tempo era scomparso. Le gote si erano sbiancate; era sottile, sciupata, sembrava un po' più vecchia della sua età, che doveva essere sulla trentina. Intorno, tuttavia, le aleggiava la misteriosa forza della bellezza, una sicurezza nel portamento del capo e nel movimento degli occhi che, senza avere assolutamente niente di istrionico, lo colpirono in quanto rivelavano una personalità navigata e pienamente consapevole del suo potere. Nello stesso tempo si comportava in modo più naturale rispetto alle signore presenti e molti (come più tardi apprese da Janey) erano rimasti delusi per il fatto che la sua entrata in scena non avesse avuto più «stile», dato che lo stile era quanto di più si apprezzava a New York. Forse, pensò Archer, ciò era dovuto alla scomparsa della sua antica vivacità; al fatto che fosse così tranquilla, tranquilla nel modo di gestire e nei toni della voce profonda. New York si era aspettata qualcosa di molto più clamoroso in una giovane donna con un passato come il suo.

La cena fu un'impresa piuttosto straordinaria. Cenare dai van der Luyden non era, nel migliore dei casi, una faccenda da prendere alla leggera, cenarvi poi con un duca che era un loro cugino diventava un rito quasi religioso. Archer amava pensare che soltanto un newyorkese sapesse percepire la differenza infinitesima (per New York) tra l'essere semplicemente un duca e essere il duca imparentato con i van der Luyden. New York accoglieva con calma i nobili allo sbando, trattandoli addirittura con una certa boria sospettosa (tranne che nell'ambiente degli Struthers); ma quando presentavano credenziali come quelle, essi venivano ricevuti con una cordialità vecchio stile che sarebbe stato grave errore attribuire esclusivamente alla posizione che occupavano nel Debrett15. Era proprio per questi motivi che il giovane era molto affezionato a New York, anche quando a pensarci gli veniva da ridere.

Ivan der Luyden avevano fatto del loro meglio per evidenziare l'importanza dell'avvenimento. Si erano tirate fuori le porcellane di Sèvres appartenenti ai du Lac e l'argenteria George n dei Trevenna, come pure i «Lowestoft» (East India Company) di van der Luyden e la Crown Derby dei Dagonet. Più che mai la signora van der Luyden rassomigliava a un dipinto di Cabanel e la signora Archer, con le perline e gli smeraldi della nonna, faceva venire in mente al figlio una miniatura di Isabey. Tutte le signore avevano addosso i loro gioielli più belli, ma era tipico della casa e della circostanza che questi ultimi avessero per lo più montature antiquate piuttosto pesanti; l'anziana signorina Lanning, che si era lasciata convincere a venire, portava effettivamente i cammei della madre e uno scialle spagnolo.

La contessa Olenska era l'unica donna giovane presente alla cena; eppure, mentre Archer scrutava i vecchi volti lisci e pienotti che emergevano tra collane di diamanti e altissime piume di struzzo, essi lo colpivano per essere stranamente immaturi a confronto di quello di lei. Gli faceva paura pensare a ciò che doveva essere accaduto per dare quella espressione agli occhi della contessa.

Il duca di St Austrey, il quale sedeva a destra della padrona di casa, era naturalmente il personaggio più importante della serata. Ma se la contessa Olenska era meno appariscente di quanto si era sperato, il duca era quasi invisibile. Essendo una persona bene educata, non era venuto a cena (come di recente aveva fatto un altro nobile visitatore) in giacca da cacciatore; ma il suo vestito da sera era talmente frusto e sformato (da come lo indossava sembrava che fosse stato tessuto in casa) che con il suo modo di chinarsi stando seduto e con la folta barba che gli si allargava sullo sparato della camicia, non dava affatto l'impressione che fosse vestito in modo adatto per la cena. Era basso, abbronzato, con spalle curve, un grosso naso, occhi piccoli e un sorriso espansivo; tuttavia parlava

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di rado e quando lo faceva si manteneva su toni talmente bassi che, nonostante i convitati tacessero di frequente in ansiosa attesa, nessuno tranne i suoi vicini coglieva le sue osservazioni.

Quando, finita la cena, gli uomini si unirono alle signore, il duca andò difilato dalla contessa Olenska, si sedettero in un angolo e si immersero in una animata conversazione. Nessuno dei due sembrò rendersi conto che il duca avrebbe dovuto per prima cosa porgere i suoi ossequi alla moglie di Lovell Mingott e a quella di Headly Chivers, e che la contessa avrebbe dovuto conversare con quel simpatico ipocondriaco del signor Urban Dagonet di Washington Square il quale, per avere il piacere di conoscerla, aveva infranto la sua ferrea regola di non cenare fuori di casa nel periodo tra gennaio e aprile. I due chiacchierarono per una ventina di minuti, dopo di che la contessa si alzò e, attraversando da sola il vasto salone, andò a sedersi accanto a Newland Archer.

Nei salotti di New York non si usava che una signora si alzasse e si allontanasse da un gentiluomo per cercare la compagnia di un altro. L'etichetta esigeva che ella dovesse aspettare, immobile come un idolo, che gli uomini desiderosi di parlare con lei si avvicendassero al suo fianco. Ma a quanto pareva la contessa non si era accorta di avere infranto qualche regola; sedeva perfettamente a suo agio in un angolo del divano accanto ad Archer, guardandolo con occhi molto affettuosi.

«Vorrei che mi parlasse di May», disse lei.

Invece di risponderle, egli le chiese: «Conosceva già il duca?».

«Sì... lo vedevamo di solito tutti gli inverni a Nizza. Ha una grande passione per il gioco ... aveva l'abitudine di andare spesso al casinò.» Lo disse nel modo più semplice, come se dicesse: «Stravede per i fiori di campo»; e dopo un attimo aggiunse con candore: «Credo che sia l'uomo più noioso che abbia mai conosciuto».

Il suo compagno ne fu così felice da dimenticare la leggera scossa che gli avevano provocato le sue precedenti osservazioni. Era indubbiamente emozionante conoscere una signora che giudicava noioso il duca van der Luyden e aveva il coraggio di dichiararlo. Desiderava ardentemente farle delle domande, di saperne di più riguardo alla vita di lei, di cui le vaghe parole da lei pronunciate gli avevano dato modo di farsi un'idea confusa ancorché illuminante; temeva però di risvegliare ricordi penosi e prima che riuscisse a pensare a qualcosa da dirle lei era tornata all'argomento originale.

«May è un tesoro; non ho visto a New York una ragazza così bella e altrettanto intelligente. Ne è molto innamorato?»

Newland Archer arrossì e scoppiò a ridere: «Quanto può esserlo un uomo».

Lei seguitò a fissarlo pensosa, come se non volesse perdere la minima sfumatura di ciò che diceva. «Allora, pensa che ci sia un limite?»

«All'essere innamorati? Se questo limite c'è, io non l'ho trovato.»

Ellen si illuminò di simpatia. «Ah ... ma allora si tratta proprio di un autentico amore idillico?»

«È il più romantico degli idilli!»

«Che bello! E tutto questo lo avete scoperto da soli... insomma, non lo hanno combinato per voi?»

Archer la guardò incredulo. «Si è dimenticata», le chiese sorridendo, «che qui da noi non permettiamo che si combinino matrimoni?»

Un cupo rossore le salì al viso e all'istante egli si pentì di averlo detto.

«Sì», rispose lei, «me n'ero dimenticata. Deve perdonarmi se a volte commetto questi sbagli. Non sempre mi ricordo che qui è bene tutto ciò che era male nel posto da cui provengo.» Abbassò lo sguardo sul suo ventaglio viennese fatto di piume d'aquila e Newland si accorse che le tremavano le

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labbra.

«Sono veramente addolorato», disse d'impulso, «ma sappia che qui lei è fra amici».

«Sì, lo so. Dovunque vado, provo questa sensazione. Ecco perché sono tornata a casa. Voglio dimenticare tutto il resto, voglio diventare di nuovo una perfetta americana, come i Mingott e i Welland, come lei e come la sua deliziosa madre, e come tutte le altre brave persone che sono qui stasera. Ah, ecco May che arriva e vorrà andare di corsa da lei», aggiunse, ma senza muoversi, mentre spostava gli occhi dalla porta per tornare a fissarli sul viso del giovanotto.

Il salone cominciava a riempirsi di ospiti giunti dopo cena e, seguendo lo sguardo di Madame Olenska, Archer vide arrivare May e sua madre. Nel suo abito bianco ornato d'argento, con una ghirlanda di argentei fiori sui capelli, la fanciulla slanciata somigliava a una Diana reduce dalla caccia.

«Oh», disse Archer, «ho tanti rivali: come vede, l'hanno già circondata. Le stanno presentando il duca.»

«Allora resti un po' più con me», disse Madame Olenska a bassa voce, sfiorandogli il ginocchio con il ventaglio piumato. Fu un tocco leggero, che lo eccitò però come una carezza.

«Sì, mi faccia rimanere», rispose lui con lo stesso tono di voce, non sapendo ciò che diceva; ma proprio in quel momento spuntò il signor van der Luyden seguito dal vecchio signor Dagonet. La contessa li salutò con un sorriso freddo e Archer, avvertendo su di sé lo sguardo ammonitore del suo ospite, si alzò e cedette il posto.

Madame Olenska tese la mano come per dirgli arrivederci.

«Allora a domani, dopo le cinque ... l'aspetterò», disse lei; e poi si volse per far posto al signor Dagonet.

«Domani...», Archer udì se stesso ripetere, anche se non c'era stato nessun impegno e durante il loro colloquio lei non gli avesse fatto capire che voleva vederlo di nuovo.

Mentre si allontanava vide Lawrence Lefferts, alto e splendente, che conduceva sua moglie per presentarla; e udì Gertrude Lefferts dire con il suo ampio sorriso anodino, nel rivolgersi alla contessa: «Credo però che da piccole abbiamo frequentato la stessa scuola di danza ...». Dietro di lei, in attesa del loro turno per presentarsi alla contessa, Archer notò un gruppo di coppie recalcitranti che si erano rifiutate di conoscerla a casa della signora Mingott. I van der Luyden, come sottolineò la signora Archer, quando volevano sapevano impartire una lezione. Ci si chiedeva perché Io facessero così di rado.

Il giovanotto si sentì toccare il braccio e vide la signora van der Luyden guardarlo dalle altezze incontaminate del suo abito di velluto nero e dei diamanti di famiglia. «È stato gentile da parte tua, caro Newland, occuparti con tanta generosità di Madame Olenska. Ho detto a tuo cugino Henry che doveva venire in tuo aiuto.»

Egli si accorse di sorriderle in modo incerto e lei, come a mostrarsi condiscendente verso la sua naturale timidezza, aggiunse: «Non ho mai visto May tanto bella. Il duca è convinto che sia la fanciulla più attraente di tutta la sala».

Capitolo nonoLa contessa aveva detto «dopo le cinque»; e mezz'ora dopo le cinque Newland Archer suonò il

campanello della casa dallo stucco scrostato, coperta da un gigantesco glicine che ne soffocava il balconcino in ferro battuto e ubicata in fondo alla Ventitreesima Strada, che Ellen aveva preso in affitto dalla peregrinante Medora.

Era certamente uno strano quartiere in cui stabilirsi. Gli immediati vicini di Ellen erano modeste

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sartine, imbalsamatori di uccelli e «gente che scriveva»; e ancora più in fondo alla strada dissestata Archer riconobbe una cadente casa di legno al termine di un viottolo lastricato, in cui uno scrittore e giornalista di nome Winsett, che lui ogni tanto incontrava per caso, aveva detto di abitare. Winsett non invitava nessuno a casa sua; ma una volta, durante una passeggiata notturna, l'aveva indicata ad Archer, il quale si era chiesto con un brivido se in altre capitali del mondo gli esseri umani fossero alloggiati così miseramente.

L'abitazione di Madame Olenska si distingueva esteriormente soltanto grazie a un po' più di vernice passata attorno ai telai delle finestre; e Archer, mentre ne ispezionava la modesta facciata, disse a se stesso che il conte polacco doveva averla derubata oltre che delle sue illusioni anche dei suoi averi.

Il giovanotto aveva trascorso una giornata deludente. Aveva fatto colazione dai Welland, sperando in seguito di portare fuori May a fare una passeggiata nel parco. Voleva averla per sé, per dirle quanto gli era apparsa incantevole la sera precedente, quanto orgoglioso fosse di lei e per spingerla a sollecitare il loro matrimonio. Ma la signora Welland gli aveva fermamente ricordato che non era stata fatta neanche la metà del giro delle visite di famiglia e, quando lui aveva accennato ad anticipare la data delle nozze, aveva inarcato le sopracciglia in segno di rimprovero e aveva sospirato: «Dodici dozzine di ogni cosa ... tutto ricamato a mano ...».

Stipati nel landò di famiglia, si recavano da una tribù all'altra e Archer, al termine del giro pomeridiano, si separava dalla fidanzata con la sensazione di essere stato messo in mostra come un animale selvatico scaltramente preso in trappola. Ammetteva che le sue letture di antropologia lo avevano indotto a farsi un'opinione così volgare di ciò che, tutto sommato, era una semplice e naturale dimostrazione dei sentimenti familiari; ma quando ricordava che i Welland contavano sul fatto che lo sposalizio avesse luogo non prima dell'autunno seguente, e si raffigurava ciò che sarebbe stata la sua vita fino ad allora, aveva la sensazione che la sua anima annegasse.

«Domani», gli aveva raccomandato la signora Welland, «andremo dai Chivers e dai Dallas.» E lui aveva notato che la signora citava in ordine alfabetico le due famiglie, che peraltro erano comprese soltanto nel primo quarto dell'alfabeto.

Aveva avuto intenzione di riferire a May la richiesta della contessa Olenska — o piuttosto l'ordine — di andarla a trovare nel pomeriggio; ma nei brevi momenti in cui erano rimasti soli aveva avuto cose più urgenti da dirle. Inoltre alludere alla faccenda lo tormentava in quanto la giudicava ridicola. Sapeva che May desiderava in modo particolare che lui si comportasse gentilmente con la cugina; non era stato quel desiderio ad affrettare l'annuncio del loro fidanzamento? Ciò suscitava in lui una strana sensazione che, se non fosse stato per l'arrivo della contessa, avrebbe potuto essere un uomo, se non ancora libero, almeno vincolato in modo meno irrevocabile. May, però, aveva voluto che così fosse e lui si sentiva un po' sollevato da ulteriori responsabilità e, quindi, libero di decidere di andare a far visita a sua cugina senza doverglielo dire.

Mentre era fermo sulla soglia della casa di Madame Olenska, il suo sentimento predominante era la curiosità. Era sconcertato dal tono con cui Ellen lo aveva invitato; decise che era meno ingenua di quanto sembrasse.

La porta venne aperta da una cameriera dalla carnagione scura e dall'aspetto straniero, col seno prominente sotto un fazzoletto da collo a vivaci colori, che gli sembrò vagamente siciliana e che lo accolse mostrandogli tutta la sua bianca dentatura e, rispondendo alle sue domande con cenni del capo per far vedere che non lo capiva, lo guidò attraverso il piccolo ingresso in un salotto dove era acceso un fuoco basso. La stanza era vuota e la cameriera se ne andò, lasciandolo per un po' a chiedersi se fosse andata a cercare la signora, oppure se non avesse capito per quale motivo fosse lì e pensasse che forse era quello che caricava gli orologi, il cui unico esemplare in vista si era fermato. Sapeva che le razze meridionali comunicavano tra di loro esprimendosi a gesti e si sentì mortificato nel constatare che le sue alzate di spalle e i suoi sorrisi erano per lui del tutto incomprensibili. Alla fine la cameriera tornò portando una lampada; e Archer, che nel frattempo

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aveva messo insieme una frase aiutandosi con le sue reminiscenze dantesche e petrarchesche, ottenne la risposta: «La signora è fuori; ma verrà subito»16. Parole che secondo lui significavano: «La signora è fuori, ma lei la vedrà presto».

Ciò che nel frattempo vide, al chiarore del lume, era una stanza il cui fascino dai contorni nebulosi la rendeva diversa da qualsiasi altra a lui nota. Sapeva che la contessa Olenska aveva portato con sé alcuni suoi beni — relitti di naufragio, come lei li definiva — riconoscibili a suo parere nei fragili tavolini di legno scuro, in un bronzetto greco di delicata fattura sul caminetto e in una lista di damasco rosso fissata sulla carta da parati scolorita, contro la quale erano appesi due dipinti apparentemente italiani chiusi in antiche cornici.

Newland Archer si vantava di essere un conoscitore dell'arte italiana. Durante l'adolescenza si era saziato di Ruskin e aveva letto tutte le pubblicazioni più recenti di John Addington Symonds, Yeuphorion di Vernon Lee17, i saggi di P.G. Hamerton è un libro meraviglioso appena uscito, The Renaissance di Walter Horatio Pater18. Parlava di Botticelli con cognizione di causa e considerava con una certa degnazione l'opera del Beato Angelico. Quei quadri, però, lo rendevano perplesso, perché non somigliavano affatto a quelli che lui era abituato a guardare (e, quindi, in grado di giudicare) quando viaggiava in Italia; da aggiungere, poi, che il suo spirito di osservazione era attenuato dalla stranezza di trovarsi in quella casa sconosciuta e disabitata, dove sembrava che nessuno lo aspettasse. Era spiacente di non aver parlato con May Welland dell'invito rivoltogli dalla contessa Olenska e un po' turbato al pensiero che la sua fidanzata potesse venire a far visita alla cugina. Che avrebbe pensato se lo avesse trovato seduto là in un atteggiamento confidenziale, come implicava il fatto di stare ad aspettare lì da solo, nella semioscurità accanto al caminetto, in casa di una signora?

Dato però che aveva accettato l'invito, intendeva aspettare; e si sedette allungando i piedi verso il fuoco.

Era strano averlo invitato a quel modo per poi dimenticarsene; ma Archer si sentiva più curioso che mortificato. L'atmosfera della stanza era talmente diversa da quella che aveva sempre respirato che all'imbarazzo era subentrato lo spirito d'avventura. Era già stato in salotti decorati con damasco rosso e quadri della «scuola italiana»; ciò che lo colpiva era il modo in cui la misera casa presa in affitto da Medora Manson, con il suo giardino trascurato invaso di statuette, era stata trasformata radicalmente, con l'uso accorto di pochi oggetti, in qualcosa di personale, di «esotico», che evocava scene e sentimentalismi romantici del passato. Cercò di analizzare il trucco, di scoprirne un indizio nel modo in cui le sedie e i tavoli erano disposti, nel fatto che soltanto due rose Jacqueminot (che si compravano a dozzine) erano state messe nel fragile vaso accanto a lui e nel vago profumo penetrante che non era quello che si mette nel fazzoletto, ma che somigliava alla fragranza proveniente da un remoto bazar, un misto di caffè turco, di ambra grigia e di rose essiccate.

Gli venne in mente di chiedersi come sarebbe sembrato il salotto di May. Sapeva che il signor Welland, che si stava comportando «con molta generosità», aveva già adocchiato una casa costruita da poco nella Trentanovesima Strada. Si riteneva che essa fosse isolata ed era costruita in una pietra dallo spettrale colore giallo citrino, che i giovani architetti stavano cominciando a usare in segno di protesta contro l'arenaria, la cui tonalità uniforme rivestiva New York come una colata di cioccolata fredda; ma l'impianto idraulico era perfetto. Archer avrebbe preferito viaggiare e rinviare il problema della casa; ma i Welland, anche se approvavano l'idea di allungare la luna di miele in Europa (forse con la prospettiva di trascorrere un inverno in Egitto), erano incrollabili per quanto riguardava la necessità che al ritorno la coppia avesse una casa. Il giovane aveva l'impressione che il suo destino fosse segnato: per il resto della sua vita egli avrebbe varcato tutte le sere quella soglia gialloverdognola fra ringhiere di ferro battuto e attraverso un atrio pompeiano sarebbe entrato in un salone rivestito di legno laccato di giallo. La sua fantasia, però, non era in grado di spingersi oltre. Sapeva che nel salotto del piano di sopra c'era un bovindo, ma non riusciva a immaginare in che modo May lo avrebbe arredato. Lei accettava di buon grado il raso color porpora e le nappe gialle del salotto dei Welland, i suoi tavoli intarsiati e fasulli e le bacheche dorate piene di moderne

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porcellane di Meissen. Non vedeva per quale motivo avrebbe dovuto volere qualcosa di diverso nella propria casa; e il suo unico conforto era il pensiero che May gli avrebbe probabilmente permesso di sistemare come gli pareva la sua biblioteca, che naturalmente sarebbe stata arredata con «genuini» mobili Eastlake e scaffalature senza sportelli a vetri.

La cameriera dal seno procace entrò, aprì le tende, assestò un ciocco e disse per consolarlo: « Verrà, verrò»19. Appena fu uscita, Archer si alzò e cominciò ad andare su e giù. Doveva aspettare ancora? La sua posizione stava diventando piuttosto assurda. Forse aveva capito male Madame Olenska, forse lei non lo aveva invitato affatto.

Sul selciato della strada silenziosa risonò lo scalpitio di un cavallo dall'andatura veloce; si arrestò davanti alla casa e si udì aprirsi lo sportello di una carrozza. Scostando le tende guardò fuori alla luce dell'incipiente crepuscolo. Di fronte a lui c'era un lampione, al chiarore del quale vide la carrozza chiusa di Julius Beaufort, trainata da un grande roano, e il banchiere discenderne e aiutare a sua volta Madame Olenska.

Beaufort, con il cappello in mano, stava dicendo qualcosa che la sua compagna sembrava contestare; poi si strinsero la mano, lui saltò in carrozza mentre lei saliva i gradini.

Ellen entrò nella stanza e non mostrò sorpresa nel vedere Archer; a quanto pareva, la sorpresa era l'emozione a cui meno si abbandonava.

«Le piace la mia buffa casa?», gli chiese. «Per me è il paradiso.»

Così dicendo si tolse il cappellino di velluto e, mentre se ne liberava insieme al lungo soprabito, stette a guardarlo con occhi pensosi.

«L'ha messa su in modo delizioso», ribatté lui, conscio della banalità dell'espressione, ma condizionato dai formalismi pur desiderando ardentemente essere semplice e genuino.

«Oh, è un posticino modesto. I miei parenti lo disprezzano. In ogni caso, però, è meno deprimente di quello dei van der Luyden.»

Queste parole gli dettero una scossa elettrica, in quanto pochi erano gli spiriti ribelli che avrebbero osato definire deprimente la maestosa dimora dei van der Luyden. Coloro che avevano il privilegio di frequentarla rabbrividivano e la giudicavano «notevole». Ma tutto a un tratto fu contento che lei avesse esternato quella che era l'impressione generale.

«È delizioso ... quello che ha fatto qui», ripeté.

«La casetta mi piace», ammise lei, «ma secondo me quello che mi piace è che sono felice che si trovi qui, nel mio paese e nella mia città; e poi che ci abito da sola.» Parlava in tono talmente basso che lui non riuscì a udire l'ultima frase, pur afferrandone maldestramente il senso.

«Le piace molto vivere da sola?».

«Sì, fintantoché i miei amici non mi fanno sentire sola.» Si sedette accanto al fuoco e disse: «Fra poco Nastasia servirà il tè», e lo invitò a riprendere posto nella sua poltrona, aggiungendo: «Vedo che ha già scelto il suo angolino».

Appoggiandosi indietro, piegò le braccia dietro la testa e fissò il fuoco abbassando le palpebre.

«Questa è l'ora che mi piace di più ... a lei no?»

Un legittimo senso di dignità lo indusse a rispondere: «Temevo che avesse dimenticato l'ora. Beaufort deve essere stato veramente affascinante».

Ellen sembrò divertita. «Perché ... è molto che aspetta? Il signor Beaufort mi ha portato a vedere diverse case ... dato che a quanto pare non mi permettono di restare in questa qui.» Dando l'impressione che allontanasse dalla sua mente sia Beaufort che lui stesso, proseguì: «Non sono mai stata in una città dove si è tanto prevenuti contro chi abita in quartiers excentriques. Che importa dove uno abita? Mi dicono che questa è una strada rispettabile.»

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«Non è elegante.»

«Elegante! Ma siete tutti fissati? Perché ciascuno non fa a modo suo? Ma immagino di aver vissuto in modo troppo indipendente; in ogni caso voglio fare ciò che fate voi tutti... voglio sentirmi protetta e al sicuro.»

Era commosso, come lo era stato la sera precedente, quando Ellen aveva accennato al suo bisogno di essere consigliata.

«È così che i suoi amici vogliono che si senta. New York è un posto terribilmente sicuro», aggiunse con una punta di sarcasmo.

«Già, non è così? È evidente», esclamò lei, senza cogliere la nota di scherno. «Essere qui è come ... come ... essere in vacanza, come quando da bambini ci comportavamo bene e avevamo fatto tutti i compiti.»

L'analogia derivava da buone intenzioni, ma Newland non la gradì del tutto. Non gli importava di essere critico nei riguardi di New York, ma gli dispiaceva udire qualcuno assumere lo stesso tono. Si chiese se Ellen non avesse cominciato a capire quale meccanismo potente fosse New York e quanto poco fosse mancato che la schiacciasse. La cena di Lovell Mingott, organizzata alla meglio all'ultimo momento invitando ogni specie di rimasugli sociali, avrebbe dovuto insegnarle che l'aveva scampata per un pelo; ma Ellen o aveva sempre ignorato di avere evitato a stento il disastro, o non se ne era resa più conto dopo il grande successo ottenuto nella serata offerta dai van der Luyden. Archer era propenso ad accettare la prima tesi; pensava che la New York di Ellen si presentasse ancora come un'entità del tutto indistinta e questa supposizione lo irritava.

«Ieri sera», disse, «New York si è fatta in quattro per lei. I van der Luyden non fanno mai le cose a metà.»

«No davvero. Sono tanto gentili! È stato un ricevimento veramente piacevole. Sembra che tutti li tengano in grande considerazione.»

Le parole non erano adeguate; avrebbe potuto esprimersi a quel modo parlando di un pomeriggio trascorso a casa delle care anziane signorine Lanning.

«I van der Luyden», disse Archer, conscio di apparire ampolloso mentre parlava, «esercitano un fortissimo ascendente sulla società di New York. Purtroppo, a causa dello stato di salute di Louisa, ricevono molto di rado».

Lei sciolse le mani da dietro la testa e lo guardò pensierosa.

«Non è questo il motivo?»

«Il motivo ... ?»

«Della loro grande influenza. Ecco perché fanno tanto i preziosi.»

Egli arrossì un po', la guardò e tutto a un tratto capì la forza di penetrazione della sua osservazione. In un attimo lei aveva bucato il palloncino rappresentato dai van der Luyden e loro si erano sgonfiati. Newland si mise a ridere e non se ne curò più.

Nastasia portò il tè in tazzine giapponesi senza manico con alcuni piattini coperti e posò il vassoio su un tavolino basso.

«Lei però mi spiegherà queste cose ... mi dirà tutto ciò che devo sapere», seguitò Madame Olenska, protendendosi nel porgergli la tazzina.

«È lei che me le sta spiegando; mi sta aprendo gli occhi su cose che guardo da così lungo tempo da non riuscire più a vederle.»

Da uno dei suoi braccialetti Ellen staccò un piccolo portasigarette d'oro, glielo tese e prese lei stessa una sigaretta. Sul caminetto c'erano dei lunghi zolfanelli per accenderle.

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«Allora possiamo aiutarci a vicenda. Ma io ne ho un bisogno molto maggiore. Deve dirmi soltanto quello che devo fare.»

Era fortemente tentato di dirle: «Non si faccia vedere andare in giro in carrozza con Beaufort...», ma si stava immedesimando troppo profondamente nell'atmosfera della stanza, che era l'atmosfera di lei, e dare un consiglio del genere sarebbe stato come dire a qualcuno intento a negoziare l'acquisto di essenza di rose a Samarcanda che comunque doveva attrezzarsi di soprascarpe da neve per affrontare un inverno a New York. New York sembrava molto più lontana di Samarcanda e, se dovevano veramente aiutarsi a vicenda, forse Ellen gli stava prestando il primo dei loro servizi di mutua assistenza inducendolo a osservare con obiettività la sua città natale. Esaminata così, come attraverso un telescopio alla rovescia, la città appariva piccola e lontana in modo da lasciare sconcertati; ma allora anche Samarcanda avrebbe avuto quell'effetto.

Una fiamma guizzò dai ceppi e lei si chinò sul fuoco tendendo le mani sottili e accostandole finché attorno alle sue unghie ovali si riverberò un tenue alone, il cui chiarore dava un tocco di colore ruggine ai riccioli scuri che le sfuggivano dalle trecce e le accentuava il pallore del volto.

«C'è un sacco di gente disposta a dirle che cosa fare», ribatté Archer animato da un oscuro sentimento di invidia.

«Chi? Tutte le mie zie? E la mia cara vecchia nonnina?» Valutò l'idea con equanimità. «Sono tutte un po' preoccupate per causa mia, perché mi sono messa per conto mio, specie la povera nonna. Voleva tenermi con sé; ma io devo essere libera ...» Lui fu impressionato da questo modo spigliato di parlare della formidabile Catherine e commosso al pensiero di ciò che aveva acceso in Madame Olenska quella sete di libertà, un bene da conseguire anche a costo di rimanere sola. Ma il pensiero di Beaufort non gli dava requie.

«Credo di capire ciò che lei sente», le disse. «Ritengo tuttavia che la sua famiglia sappia come consigliarla, sappia spiegarle le differenze e mostrarle il modo in cui si deve agire.»

Ellen sollevò le sottili sopracciglia nere. «Allora New York è un tale labirinto? Pensavo che fosse tutta diritta, come la Quinta Strada, e con tutte le traverse numerate!» Parve indovinare la debole disapprovazione di Newland su questo punto e aggiunse con l'eccezionale sorriso che rendeva incantevole tutto il suo volto: «Sapesse quanto New York mi piace proprio per questo ... per il fatto che è diritta da cima a fondo e per le grandi targhe scrupolosamente applicate dappertutto!».

Lui approfittò dell'occasione che gli si offriva. «Tutte le cose si possono etichettare, non così tutte le persone.»

«Può darsi. Forse semplifico troppo, ma se lo faccio lei mi metterà in guardia. Ci sono soltanto due persone che mi fanno sentire come se capissero ciò che intendo dire e che potrebbero darmi delle spiegazioni. Lei e il signor Beaufort.»

Nel sentirsi associato a quel nome, Archer trasalì. Poi, ripresosi immediatamente, capì, approvò e compatì la sua interlocutrice. Doveva essere vissuta talmente a contatto con le forze del male che ancora si sentiva più a suo agio a respirarne l'aria. Ma dal momento che Ellen credeva che anche lui la capisse, avrebbe fatto di tutto per farle vedere Beaufort come realmente era, insieme a tutto quello che rappresentava ... e per farglielo detestare.

«Comprendo», le rispose gentilmente. «Ma almeno inizialmente non molli la mano che le porgono i vecchi amici, voglio dire le donne più anziane, sua nonna Mingott, la signora Welland, la signora van der Luyden. Le vogliono bene e l'ammirano ... vogliono aiutarla.»

Ellen scosse il capo e sospirò: «Lo so, ... lo so! Purché non vengano a sapere niente di sgradevole. La zia Welland lo ha dichiarato con queste precise parole quando ho cercato di parlargliene. Signor Archer, non c'è nessuno qui che voglia conoscere la verità? La vera solitudine consiste nel vivere in mezzo a tutte queste persone gentili che mi chiedono soltanto di fingere!». Portò le mani al volto e lui vide le sue esili spalle scosse da un singhiozzo.

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«Madame Olenska! Oh, no, Ellen, non faccia così», esclamò Archer balzando in piedi e chinandosi su di lei. Le prese una mano, tenendola stretta e scaldandola come quella di un bambino, mentre mormorava parole di conforto; ma in un attimo lei si liberò e lo guardò con le ciglia umide di pianto.

«Qui non piange mai nessuno? Penso che in paradiso non ce ne sia bisogno», disse aggiustandosi le trecce sciolte con una risata e chinandosi sulla teiera. Nella coscienza di Newland si era impresso come un marchio a fuoco il fatto che l'aveva chiamata «Ellen» per ben due volte e che lei non lo aveva notato. In fondo al cannocchiale rovesciato vide l'indistinta bianca figura di May Welland ... lontano, a New York.

Improvvisamente si affacciò Nastasia per dire qualcosa nel suo divertente italiano.

Madame Olenska, mettendosi di nuovo una mano tra i capelli, assentì esclamando subito: «Già, già»20, e il duca di St Austrey entrò in compagnia di una marcantonia con parrucca nera sormontata da piume rosse e tutta impellicciata.

«Mia cara contessa, ho accompagnato a farle visita una mia vecchia amica, la signora Struthers. Ieri sera non è stata invitata e vuole conoscerla.»

Il duca fece un inchino agli astanti e Madame Olenska si fece avanti mormorando parole di saluto alla strana coppia. A quanto pareva, non si rendeva conto di quanto bizzarramente assortiti fossero quei due, e di quale libertà si fosse presa il duca scortando la sua compagna; cosa di cui neanche lo stesso duca, per rendergli giustizia e come Archer intuiva, pareva essersi accorto.

«Si capisce che voglio conoscerla, mia cara», esclamò la signora Struthers con voce sonora e rimbombante che si accordava con il suo ardito piumaggio e la sua spettacolosa parrucca. «Desidero conoscere tutti coloro che sono giovani, interessanti e affascinanti. Il duca, poi, mi dice che lei ama la musica, vero, duca? Anche lei è una pianista, suppongo. Bene, domani sera vuole venire a casa mia a sentire suonare Sarasate21? Come sa, tutte le sere di domenica ho qualcosa in ballo ... è il giorno in cui a New York non si sa cosa fare, sicché dico alla gente: "Venite a divertirvi". E il duca ha pensato lei sarebbe stata tentata da Sarasate. Ci troverà molti dei suoi amici.»

Il volto di Madame Olenska si illuminò dal piacere. «Molto gentile da parte sua, molto cortese da parte del duca che ha pensato a me!» Spostò una sedia accanto al tavolo da tè e la signora Struthers vi si lasciò cadere tutta soddisfatta. «Naturalmente sarò felice di venire.»

«Benissimo, mia cara. E porti anche il suo giovane cavaliere.» La signora Struthers inviò con la mano un cordiale cenno di saluto ad Archer. «Non riesco a ricordare il suo nome ... ma sono certa di averla conosciuta ... ho conosciuto tutti qui, a Parigi, a Londra. Non è in diplomazia? Tutti i diplomatici vengono da me. Anche lei ama la musica? Duca, deve accertarsi che venga.»

Dalle profondità della sua barba il duca disse: «Altroché», e Newland si ritirò facendo un rigido inchino circolare e sentendosi a disagio come uno scolaretto in mezzo a persone adulte sbadate e indifferenti.

Non gli rincresceva che la sua visita si fosse conclusa a quel modo: avrebbe voluto soltanto che ciò fosse avvenuto prima e gli avesse risparmiato emozioni superflue. Appena si trovò fuori nel freddo della sera, New York diventò immensa e vicina e May Welland la donna più adorabile che ci fosse. Entrò dal suo fioraio per mandarle la scatola quotidiana di mughetti che, con suo disappunto, si era accorto di essersi dimenticato di farle avere quel mattino.

Mentre scriveva un saluto sul suo biglietto da visita e aspettava di avere una busta, si guardò in giro nel negozio pieno di piante e l'occhio gli cadde su un mazzo di rose gialle. Prima di allora non aveva mai visto niente i cui colori richiamassero il sole e l'oro e lì per lì ebbe l'impulso di mandarle a May al posto dei mughetti. Ma non si confacevano a lei, nella loro bellezza aggressiva c'era qualcosa di troppo lussureggiante e di troppo forte. In un improvviso mutamento d'umore, e quasi senza sapere ciò che faceva, indicò al fioraio di mettere le rose in un'altra scatola lunga e infilò il

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suo biglietto da visita in una seconda busta, su cui scrisse il nome della contessa Olenska; poi, proprio mentre stava per andarsene, estrasse di nuovo il biglietto e lasciò sulla scatola delle rose la busta vuota.

«Saranno consegnate subito?», chiese additandole.

Il fioraio lo rassicurò in tal senso.

Capitolo decimoIl giorno dopo convinse May a uscire di nascosto per andare a fare una passeggiata nel parco

dopo colazione. Come era usanza della vecchia New York episcopaliana, nei pomeriggi domenicali lei di solito accompagnava i genitori in chiesa; ma la signora Welland passò sopra alla sua assenza ingiustificata, in quanto proprio quel mattino l'aveva persuasa della necessità di prolungare il periodo di fidanzamento, per avere il tempo di preparare un corredo da sposa ricamato a mano e composto dalle tipiche serie di dodici pezzi ciascuna.

La giornata era deliziosa. La struttura a volta formata dagli alberi spogli lungo il viale creava internamente un soffitto di lapislazzuli e si inarcava al di sopra della neve che scintillava come se fosse fatta di schegge di cristallo. Era la temperatura a mettere in risalto la bellezza radiosa di May, che avvampava come un giovane acero nel freddo intenso. Archer era orgoglioso degli sguardi che le lanciavano e la semplice gioia di possederla aveva fatto piazza pulita di tutte le sue perplessità.

«Che bello svegliarsi tutte le mattine al profumo dei mughetti in camera!», disse May.

«Ieri sono arrivati tardi. Non ho avuto tempo di farteli avere al mattino ...»

«Il fatto però che ogni giorno ti ricordi di mandarli me li fa apprezzare molto di più che se tu li avessi ordinati in via permanente. Arrivano puntualmente tutte le mattine, come l'insegnante di musica ... come so che succedeva, per esempio, a Gertrude Lefferts quando lei e Lawrence erano fidanzati.»

«Sul serio?», rise Archer, divertito dalla sua acutezza. Guardò di sbieco la sua guancia paffuta e si sentì appagato e sicuro abbastanza da aggiungere: «Quando ieri pomeriggio ti ho mandato i tuoi mughetti, ho visto delle magnifiche rose gialle e le ho fatte recapitare a Madame Olenska. Ho fatto bene?».

«Sei stato molto caro! Qualunque cosa del genere le fa molto piacere. Strano che non me lo abbia detto: oggi è stata a pranzo da noi, ha detto che il signor Beaufort le ha mandato delle orchidee meravigliose e il cugino Henry van der Luyden un cestino pieno di garofani da Skuytercliff. A quanto pare è molto sorpresa di ricevere dei fiori. In Europa non si fa così? Lei pensa che sia un'usanza simpatica.»

«Oh, niente di strano che i miei fiori siano stati eclissati da quelli di Beaufort», disse Archer un po' irritato. Poi si ricordò che non aveva unito un biglietto da visita alle rose e si seccò per averne parlato. Avrebbe voluto dire: «Ieri ho fatto visita a tua cugina», ma si trattenne. Se Madame Olenska non ne aveva parlato, avrebbe potuto sembrare imbarazzante che lo facesse lui. Tuttavia il non farlo conferiva alla cosa un'aria di mistero che non era di suo gradimento. Volendo accantonare il problema, cominciò a parlare dei loro progetti, del loro avvenire e dell'insistenza da parte della signora Welland sulla opportunità di un lungo fidanzamento.

«E tu lo chiami lungo? Isabel Chivers e Reggie sono stati fidanzati per due anni, Grace e Thorley per quasi un anno e mezzo. Perché non ci accontentiamo di lasciare le cose come stanno?»

Si trattava della tipica domanda che pongono pudicamente le ragazze e lui si vergognò di se stesso nel giudicarla oltremodo puerile. Senza dubbio May si limitava a ripetere ciò che le veniva detto; ma aveva quasi ventidue anni e lui si domandava a quale età le donne «costumate» cominciavano a ragionare con la propria testa.

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«Mai, credo, se non glielo consentiamo», rifletté ricordando il suo scatto insensato con il signor Sillerton Jackson: «Bisogna che le donne siano libere quanto lo siamo noi...».

Presto sarebbe stato suo compito togliere la benda dagli occhi di quella fanciulla e indurla a guardare innanzi a sé per giudicare il mondo. Ma quante generazioni delle donne che avevano contribuito alla formazione di May erano scese nella tomba con gli occhi bendati? Ebbe un leggero brivido pensando a qualcuna delle nuove teorie dibattute nei testi scientifici che aveva letto e all'esempio più volte citato dell'Ambliopside speleo trovato nel Kentucky, il quale non aveva più sviluppato l'organo della vista in quanto non ne aveva bisogno. Cosa sarebbe accaduto se, avendo spinto May ad aprire gli occhi, questi avessero guardato il vuoto con espressione assente?

«Potremmo essere molto più felici. Potremmo stare insieme nel vero senso della parola ... Potremmo viaggiare.»

May si accese in volto. «Sarebbe divertente», ammise: le sarebbe piaciuto viaggiare. Ma sua madre non avrebbe capito il loro bisogno di comportarsi in modo diverso da quello degli altri.

«Basterebbe proprio questo per spingerci a farlo!», incalzò il suo corteggiatore.

«Newland! Quanto sei originale», disse lei in tono esultante.

Si sentì mancare il cuore, perché si accorgeva di dire tutto ciò che i giovanotti avrebbero presumibilmente detto in circostanze analoghe, e che lei dava le risposte che le erano state insegnate dall'istinto e dalla tradizione, addirittura fino al punto da chiamarlo originale.

«Originale! Siamo tutti uguali tra di noi, come quei pupazzetti ritagliati dallo stesso foglio di carta piegato. Siamo come motivi stampinati sul muro. May, perché non facciamo una buona volta a modo nostro?»

Si era interrotto, mettendosi di fronte a lei nell'eccitazione della discussione, mentre lei lo guardava con occhi brillanti e colmi di aperta ammirazione.

«Per amor del cielo ... intendi dire che fuggiremo?», disse lei ridendo.

«Se tu volessi...»

«Tu mi ami sul serio, Newland! Sono tanto felice.»

«Ma allora ... perché non esserlo di più?»

«Non possiamo comportarci come personaggi da romanzo, non sei d'accordo?»

«Perché no ... perché no ... perché no?»

May sembrò un po' seccata a causa della sua insistenza. Lei sapeva perfettamente che non potevano farlo, ma era fastidioso doversi giustificare. «Non sono abbastanza intelligente per discutere con te. Ma questo tipo di cose è piuttosto ... volgare, no?», suggerì, sollevata al pensiero di avere trovato per caso una parola con cui sicuramente si sarebbe chiuso l'argomento.

«Allora tu hai tutta questa paura di essere volgare?», le chiese Newland.

Evidentemente questo pensiero la sconcertava. «Ovvio che mi dispiacerebbe ... come dispiacerebbe a te», ribatté lei, un po' irritata.

Lui stette silenzioso, battendosi nervosamente il bastone contro la punta della scarpa; e lei, rendendosi conto di avere effettivamente trovato il modo di mettere fine alla discussione, proseguì allegramente: «Oh, ti ho detto che ho fatto vedere l'anello a Ellen? Dice che è la più bella montatura che abbia mai visto. A rue de la Paix non c'è niente di simile, ha detto. Ti amo, Newland, per il tuo senso artistico!».

Il pomeriggio del giorno dopo, mentre Archer fumava imbronciato nel suo studio prima di cena, Janey gli fece una visitina. Non si era fermato al circolo tornando dall'ufficio dove esercitava la professione di avvocato, prendendosela comoda come facevano i newyorkesi benestanti

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appartenenti alla sua classe. Era depresso e leggermente in collera, in quanto era ossessionato dall'orrore di fare le stesse cose ogni giorno e alle stesse ore.

«Sempre così ... sempre così!», borbottava, mentre queste parole gli frullavano per il capo come una musica molesta e aveva scorto le note figure in cappello a cilindro ciondolare al di là dei cristalli dell'ingresso del circolo, dove di solito a quell'ora faceva una capatina. Quella sera, invece, se ne era andato a casa. Non solo sapeva di che cosa stavano probabilmente parlando, ma anche come ciascuno di loro avrebbe partecipato alla discussione. Loro primo argomento sarebbe stato naturalmente il duca; ma sarebbe stata senza dubbio analizzata l'apparizione di una bionda signora nella Quinta Strada a bordo di un piccolo brougham color canarino tirato da una coppia di cavallini neri (di cui tutti ritenevano responsabile Beaufort). «Quelle donne» (come venivano definite) erano una rarità a New York, quelle poi che guidavano da sé la propria carrozza ancora di più, ragion per cui la comparsa di Miss Fanny Ring nella Quinta Strada aveva messo la società in uno stato di profonda agitazione. Non più tardi del giorno prima la sua carrozza aveva superato quella della moglie di Lovell Mingott, la quale aveva immediatamente suonato il campanellino accanto a sé e ordinato al cocchiere di portarla a casa. «E se fosse successo alla signora van der Luyden?», si chiedeva la gente rabbrividendo. In quel preciso momento Archer ebbe l'impressione di udire Lawrence Lefferts fare un lungo sproloquio sul disfacimento della società.

Quando entrò Janey, alzò irritato la testa, poi la riabbassò subito sul libro che stava leggendo (si trattava di Chastelard di Swinburne, appena uscito), come se non l'avesse vista. Lei guardò lo scrittoio ingombro di libri, aprì un volume dei Contes Drolatiques, fece una smorfia di disappunto di fronte al francese arcaico e sospirò: «Quante cose erudite leggi!».

«Allora?», chiese Newland, mentre la sorella indugiava davanti a lui in atteggiamento da Cassandra.

«La mamma è molto arrabbiata.»

«Arrabbiata? Con chi? Per quale motivo?»

«Miss Sophy Jackson è appena andata via. È venuta a dire che il fratello verrebbe dopo cena: non poteva dire di più, perché lui glielo ha proibito: desidera riferire tutti i particolari di persona. Adesso lui si trova da nostra cugina Louisa van der Luyden.»

«In nome del cielo, mia cara ragazza, cerchiamo di ricominciare da principio. Ci vorrebbe una divinità onnipotente per capire di che stai parlando».

«Non è il caso di bestemmiare, Newland ... La mamma è abbastanza preoccupata perché tu non vai in chiesa ...»

Con un gemito egli si immerse di nuovo nel suo libro.

«Newland! Ascolta. Ieri sera la tua amica Madame Olenska era al ricevimento della moglie di Lemuel Struthers: ci è andata con il duca e con il signor Beaufort.»

A quest'ultima frase una rabbia insensata gonfiò il petto del giovane. Per soffocarla, si mise a ridere. «Bene, e con ciò? Sapevo che aveva intenzione di andarci.»

Janey si fece pallida e cominciò a spalancare gli occhi. «Tu sapevi che voleva ... e non hai cercato di fermarla? Di dissuaderla?»

«Fermarla? Dissuaderla?», rise di nuovo lui. «Mica mi sono impegnato a sposare la contessa Olenska!» Le sue parole assunsero alle sue proprie orecchie un suono stravagante.

«Tu stai per accasarti nella sua famiglia.»

«Oh, la famiglia, la famiglia!», la prese in giro lui.

«Newland, non ti importa niente della Famiglia?»

«Non me ne importa un fico secco.»

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«Neanche di che cosa ne penserà nostra cugina Louisa van der Luyden?»

«Niente affatto ... se sta a pensare a queste sciocchezze da vecchie zitelle.»

«La mamma non è una vecchia zitella», disse la sua illibata sorella stringendo le labbra.

Newland fu sul punto di gridare: «Sì lo è, e lo sono anche i van der Luyden, e lo siamo tutti noi quando capita che la realtà ci sfiori appena con la punta delle sue ali». Ma vide la lunga faccia di Janey aggrottarsi in procinto di piangere e si vergognò dell'inutile dolore che le stava infliggendo.

«Accidenti alla contessa Olenska. Non fare l'oca, Janey ... io non sono il suo guardiano.»

«No, ma sei stato tu a chiedere ai Welland di annunciare in anticipo il tuo fidanzamento di modo che tutti noi potessimo sostenerla; e se non fosse stato per questo, nostra cugina Louisa non l'avrebbe mai invitata alla cena offerta per il duca.»

«Allora, che male c'è stato a invitarla? Era la donna più bella di tutta la sala; ha contribuito a rendere la cena meno funerea del solito convito dei van der Luyden.»

«Tu sai che il cugino Henry l'ha invitata per compiacerti: è stato lui a convincere la cugina Louisa. E adesso sono talmente scombussolati che domani tornano a Skuytercliff. Newland, credo che faresti meglio a scendere. A quanto pare non ti rendi conto di come si sente la mamma.»

Newland trovò la madre in salotto. Ella alzò il volto preoccupato dal suo lavoro di cucito e chiese: «Te lo ha detto Janey?».

«Sì.» Cercò di mantenere il suo tono controllato come quello di lei. «Ma non riesco a prendere la cosa molto sul serio.»

«Neanche il fatto di avere offeso la cugina Louisa e il cugino Henry?»

«Non riesco a prendere sul serio il fatto che possano offendersi per una sciocchezza simile, che cioè la contessa Olenska è andata a casa di una signora che secondo loro è ordinaria.»

«Che secondo loro è ordinaria?»

«Beh, lo è, ammettiamolo. Ma da lei si ascolta della buona musica e la domenica sera la gente si diverte, quando in tutta New York si muore di noia.»

«Della buona musica? Tutto quello che so è che c'era una donna che è salita su un tavolo e si è messa a cantare le canzoni che cantano in quei posti dove vai tu a Parigi. Si fumava e si beveva champagne.»

«Sì, cose di questo genere succedono dappertutto, ma il mondo va avanti lo stesso.»

«Caro, non voglio credere che tu difenda il modo in cui i francesi se la spassano la domenica.»

«Mamma, ti ho sentita brontolare abbastanza spesso su come gli inglesi trascorrono la domenica quando siamo stati a Londra.»

«New York non è né Parigi né Londra.»

«Oh, no, no davvero!», gemette il figlio.

«Vuoi dire, se ho capito bene, che qui la società non è altrettanto brillante? Suppongo che tu abbia ragione; ma noi siamo di qui e la gente dovrebbe rispettare il nostro modo di vivere quando viene da noi. Specie Ellen Olenska: è ritornata per sottrarsi al genere di vita che si conduce nelle società brillanti.»

Newland non rispose e dopo un po' la madre si arrischiò a dire: «Stavo per mettermi il cappello e chiederti se potevi portarmi un momento dalla cugina Louisa prima dell'ora di cena». Lui si accigliò e lei continuò: «Ho pensato che tu potresti spiegarle ciò che hai appena detto: cioè che all'estero la società è diversa ... che la gente non si fa tanti scrupoli e che forse Madame Olenska non si è resa conto del concetto che abbiamo noi riguardo a certe cose. Vedi, caro, se tu lo facessi, sarebbe

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nell'interesse di Madame Olenska», aggiunse con innocente scaltrezza.

«Carissima mamma, veramente non vedo come c'entriamo noi in tutto questo. Il duca ha accompagnato Madame Olenska dalla signora Struthers ... in realtà ha accompagnato la signora Struthers a casa di Ellen. Mi trovavo lì quando sono arrivati. Se i van der Luyden vogliono prendersela con qualcuno, il vero colpevole ce l'hanno in casa loro.»

«Prendersela? Newland, hai mai visto il cugino Henry trovare da ridire su qualcosa? Senza contare che il duca è suo ospite e per giunta è uno straniero. Gli stranieri non fanno distinzioni, non ne hanno la possibilità. La contessa Olenska è nata a New York e dovrebbe rispettare la mentalità di questa città.»

«E allora sta bene», esclamò il figlio al colmo dell'esasperazione. «Se i van der Luyden debbono avere per forza una vittima, ti autorizzo a dargli in pasto Madame Olenska. Non mi vedo, e non vedo neanche te, nell'atto di offrirci come capri espiatori delle colpe di Ellen.»

«È naturale che tu veda le cose soltanto dal punto di vista dei Mingott», rispose la madre col tono permaloso che in lei preludeva all'arrabbiatura.

Il maggiordomo dalla faccia triste aprì le pesanti tende del salotto e annunciò: «Il signor van der Luyden».

La signora Archer posò il lavoro di cucito e spinse indietro la sedia con gesto nervoso.

«Un altro lume», gridò al domestico che si ritirava, mentre Janey si chinava su di lei per metterle a posto la cuffia.

La figura del signor van der Luyden si stagliò sulla soglia e Newland Archer si fece avanti per salutare il cugino.

«Stavamo giusto parlando di lei, signore», disse.

Il signor van der Luyden sembrò preso di contropiede dall'annuncio. Si tolse i guanti per stringere la mano alle signore e lisciò timidamente il suo cappello a cilindro, mentre Janey spingeva verso di lui una sedia a braccioli e Archer aggiungeva: «E della contessa Olenska».

La signora Archer impallidì.

«Ah, una donna incantevole. Vengo proprio adesso da casa sua», disse il signor van der Luyden con aria nuovamente compiaciuta. Si sedette comodamente, poggiò cappello e guanti sul pavimento accanto a sé come si usava un tempo e proseguì: «La contessa ha un vero e proprio talento per sistemare i fiori. Le avevo inviato alcuni garofani da Skuytercliff e sono rimasto stupefatto. Anziché metterli tutti insieme in grossi mazzi come fa il nostro capo giardiniere, lei li aveva sparpagliati qua e là, senza ordine apparente ... Non so dire come. Il duca me lo aveva detto. Ha detto: "Va a vedere con quanta abilità ha messo su il suo salotto". È stata proprio brava. Mi piacerebbe sul serio accompagnare Louisa da lei, se il suo vicinato non fosse tanto sgradevole.»

Un silenzio di tomba accolse quell'insolito profluvio verbale da parte del signor van der Luyden. La signora Archer estrasse il suo ricamo dal cestino in cui lo aveva infilato in fretta e furia. Newland, appoggiandosi allo stipite del caminetto e tormentando una ventola di piume di colibrì che aveva in mano, alla luce della seconda lampada che arrivava vide che Janey era rimasta a bocca aperta.

«Il fatto è», continuò il signor van der Luyden, passandosi sui lunghi pantaloni grigi una mano esangue gravata dal peso del suo grosso anello feudale da Patroon, «il fatto è che sono passato da lei per ringraziarla del graziosissimo biglietto che mi ha scritto a proposito dei miei fiori; ma anche — questo rimanga fra noi — per metterla amichevolmente in guardia contro l'invito del duca di condurla con sé ai ricevimenti. Non so se avete sentito dire ...»

La signora Archer sorrise comprensiva. «Il duca l'ha portata a qualche ricevimento?»

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«Sapete come sono fatti questi nobili inglesi. Sono tutti uguali. Louisa e io vogliamo molto bene a nostro cugino ... ma è impossibile sperare che chi è abituato alle corti europee si preoccupi delle nostre piccole diversità repubblicane. Il duca va dove si diverte.» Il signor van der Luyden fece una pausa, ma nessuno parlò. «Sì, a quanto pare ieri sera l'ha portata con sé dalla signora Struthers. Poco fa Sillerton Jackson è passato da noi per riferirci questa storia assurda, da cui Louisa è rimasta alquanto scossa. Sicché ho pensato che il modo più immediato consisteva nel rivolgersi direttamente alla contessa Olenska e spiegare, en passant, beninteso, come la pensiamo a New York a proposito di certe cose. Ho creduto di poterlo fare senza offendere nessuno, perché la sera che è venuta a cena da noi ha fatto in certo qual modo capire ... mi ha fatto capire che sarebbe stata piuttosto riconoscente di essere consigliata. E così è avvenuto.»

Il signor van der Luyden guardò i presenti con una espressione che, se fosse apparsa su lineamenti segnati da volgari passioni, avrebbe potuto essere scambiata per autocompiacimento. Sul suo volto essa si trasformò in una garbata aria di benevolenza che si rispecchiava fedelmente nella compostezza della signora Archer.

«Quanto siete gentili entrambi, Henry ... come sempre! Newland vi sarà particolarmente grato per ciò che avete fatto a causa della cara May e dei suoi nuovi parenti.»

Lanciò un'occhiata d'ammonimento al figlio, il quale disse: «Infinitamente grato, signore. Ero tuttavia certo che Madame Olenska le sarebbe piaciuta».

Il signor van der Luyden lo guardò con estrema gentilezza. «Mio caro Newland, a casa mia non invito mai chi non mi piace. E poco fa l'ho detto anche a Sillerton Jackson.» Guardò l'orologio, si alzò e aggiunse: «Ma Louisa starà aspettando. Ceniamo presto, per accompagnare il duca all'opera».

Dopo che le pesanti tende si furono richiuse solennemente alle spalle del loro visitatore, il silenzio cadde sulla famiglia Archer.

«Buon Dio, quanto è romantico tutto questo!», sbottò alla fine Janey. Nessuno capiva che cosa provocasse le sue uscite strampalate, ma da un pezzo i suoi parenti avevano rinunciato a cercare di interpretarle.

La signora Archer scosse il capo con un sospiro. «Purché tutto si risolva per il meglio», disse col tono di chi sa con certezza che così non sarà. «Newland, tu devi restare a casa per vedere Sillerton Jackson quando verrà stasera: non so veramente cosa dirgli.»

«Povera mamma! Ma non verrà», disse il figlio ridendo e chinandosi per cancellarle il cipiglio con un bacio.

Capitolo undicesimoCirca un paio di settimane dopo Newland Archer, mentre era distrattamente seduto senza fare

niente nel suo ufficio privato presso lo studio legale Letterblair, Lamson e Low, fu convocato dal titolare della ditta.

Il vecchio signor Letterblair, consigliere accreditato di tre generazioni di nobiltà minore a New York, troneggiava da dietro la sua scrivania di mogano con aria evidentemente perplessa. Mentre si lisciava la candida barba dal taglio corto e faceva scorrere la mano tra i riccioli grigi spettinati che gli calavano sui sopraccigli, il suo irriverente socio pensava a quanto somigliasse al medico di famiglia infastidito da un paziente i cui sintomi sfuggivano a ogni diagnosi.

«Mio caro signore», — si rivolgeva ad Archer chiamandolo sempre «signore» — «l'ho mandata a chiamare affinché si occupi di una piccola faccenda, a cui per il momento preferisco non interessare né il signor Skipworth né il signor Redwood.» I gentiluomini di cui parlava erano gli altri soci anziani della ditta; infatti, come sempre avveniva nei sodalizi legali di antica data a New York, tutti i soci che comparivano nella carta intestata dell'ufficio erano morti da un pezzo; il signor Letterblair, per fare un esempio, dal punto di vista professionale era nipote di se stesso.

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Costui si appoggiò allo schienale della sedia corrugando la fronte. «Per motivi di famiglia ...», proseguì.

Archer lo fissò.

«La famiglia Mingott», disse il signor Letterblair facendo un sorriso e un inchino a mo' di spiegazione. «Ieri la vedova di Manson Mingott mi ha mandato a chiamare. Sua nipote, la contessa Olenska, desidera citare in giudizio il marito per chiedere il divorzio. Mi sono stati consegnati alcuni documenti.» Fece una pausa e tamburellò con le dita sulla scrivania. «In vista del fatto che si imparenterà con la famiglia, vorrei consultarla, esaminare il caso con lei, prima di prendere qualsiasi ulteriore decisione.»

Archer si sentì salire il sangue alla testa. Da quando le aveva fatto visita, aveva visto la contessa solo una volta e all'opera, nel palchetto dei Mingott. Nel frattempo lei era diventata un'immagine meno vivace e indiscreta, che si allontanava sullo sfondo via via che May riprendeva il posto in primo piano che le spettava di diritto. Lui aveva sentito parlare del suo divorzio da quando Janey per prima ne aveva fatto vagamente cenno e se ne era dimenticato come se si trattasse di un pettegolezzo campato in aria. In teoria, rifuggiva dall'idea del divorzio quasi quanto sua madre; ed era seccato che il signor Letterblair (senza dubbio sollecitato dalla vecchia Catherine Mingott) avesse così chiaramente intenzione di coinvolgerlo nella faccenda. Dopo tutto nella famiglia Mingott c'erano molti uomini in grado di occuparsi di certe cose e fino a prova contraria lui non era un Mingott neanche grazie al suo matrimonio.

Aspettò che il socio anziano continuasse. Il signor Letterblair aprì un cassetto e ne estrasse un fascicolo. «Se vuole dare un'occhiata a queste carte ...»

Archer si accigliò. «Chiedo scusa, signore; ma proprio a causa della mia futura parentela, preferirei che consultasse il signor Skipworth e il signor Redwood.»

Il signor Letterblair apparve sorpreso e leggermente offeso. Era cosa insolita che un socio più giovane rifiutasse un'occasione del genere.

Si inchinò. «Rispetto i suoi scrupoli, signore; in questo caso, tuttavia, sono convinto che un'autentica questione di delicatezza esiga che lei faccia quanto le chiedo. In realtà, il suggerimento non è mio, bensì della vedova di Manson Mingott e di suo figlio. Ho visto Lovell Mingott e anche il signor Welland. Hanno indicato tutti il suo nome.»

Archer si sentì montare in collera. Negli ultimi giorni si era lasciato in un certo senso trascinare fiaccamente dagli eventi e aveva consentito che la bellezza di May e la sua sfolgorante natura annullassero la pressione piuttosto molesta esercitata su di lui dalle pretese dei Mingott. Ma quest'ordine della vecchia signora Mingott gli fece capire con chiarezza ciò che il clan credeva essere suo diritto esigere da un futuro genero; una parte, questa, che detestava.

«Dovrebbero occuparsene gli zii della contessa», disse.

«Lo hanno fatto. La famiglia ha analizzato a fondo la questione. Si sono opposti all'idea della contessa, ma lei è irremovibile e si ostina a volere un parere legale.»

Il giovanotto restò in silenzio: non aveva ancora aperto il plico che teneva in mano.

«Vuole risposarsi?»

«Credo di sì; ma lei lo nega.»

«Allora ...»

«Signor Archer, vuole farmi la cortesia di esaminare attentamente queste carte? Poi, dopo che avremo discusso il caso, le darò il mio parere.»

Archer si ritirò contrariato, portando con sé gli scomodi documenti. Sin dal loro ultimo incontro aveva approfittato di ogni occasione, in uno stato di semincoscienza, per liberarsi dal peso

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rappresentato da Madame Olenska. L'ora che aveva trascorso da solo con lei accanto al caminetto li aveva attirati in un momentaneo stato di intimità, interrotto in un certo senso provvidenzialmente dall'invadente arrivo del duca di St Austrey in compagnia della moglie di Lemuel Struthers e dalla gioia con cui la contessa li aveva accolti. Due giorni dopo Archer aveva assistito alla commedia della reintegrazione della contessa nelle buone grazie dei van der Luyden e, con un pizzico di causticità, aveva detto a se stesso che una signora che sapeva come ringraziare potentissimi e attempati signori per un mazzo di fiori con tanta opportunità non aveva bisogno né del conforto privato né della pubblica difesa di un giovanotto di modesta levatura come lui. Considerare la questione da questo punto di vista rendeva meno complicata la sua situazione personale e ravvivava inaspettatamente tutte le offuscate virtù domestiche. Non riusciva a immaginare May Welland, in qualsivoglia circostanza imprevista si potesse trovare, esibire le sue difficoltà personali e riversare su uomini estranei le sue confidenze; non gli era sembrata mai più buona e più bella quanto nella settimana seguente. Aveva addirittura acconsentito al desiderio di May di protrarre il fidanzamento, in quanto lei aveva trovato l'unica risposta convincente alla sua preghiera di sposarsi al più presto.

«Venendo al punto, il fatto è che i tuoi genitori ti hanno sempre lasciato fare tutto quello che vuoi, fin da quando eri una ragazzina», protestò lui; e lei aveva risposto con lo sguardo più innocente: «Sì, proprio per questo è così difficile dire di no all'ultimissima cosa che chiederanno alla loro bambina».

Questa era la nota dominante di New York; questo era il tipo di risposta che gli sarebbe piaciuto ricevere da sua moglie. Se ci si abituava a respirare l'aria di New York, poteva darsi che un'atmosfera meno limpida sembrasse soffocante.

In realtà le carte che aveva preso con sé non gli dissero molto; ma lo precipitarono in una atmosfera in cui si respirava a disagio. Erano costituite principalmente da uno scambio di lettere fra gli avvocati del conte Olenski e uno studio legale francese al quale la contessa si era rivolta per la definizione della sua situazione finanziaria. C'era anche una breve lettera diretta dal conte a sua moglie: dopo averla letta, Newland Archer si alzò, ricacciò le carte nella loro busta e ritornò nell'ufficio del signor Letterblair.

«Ecco le lettere, signore. Se lo desidera, vedrò la contessa Olenska», disse con voce forzata.

«Grazie ... grazie, signor Archer. Stasera, se è libero, venga a cena da me e dopo ne parleremo, nel caso voglia visitare domani la nostra cliente.»

Quel pomeriggio Newland Archer ritornò direttamente a casa a piedi. Era una limpida sera d'inverno, con una innocente luna nuova sulla sommità delle case; e lui voleva respirare con tutta l'anima quello splendore puro, senza scambiare parola con nessuno finché dopo cena lui e il signor Letterblair non ne avessero parlato insieme in privato. Era impossibile decidere in modo diverso da come aveva deciso lui: doveva vedere personalmente Madame Olenska anziché permettere che i suoi segreti venissero svelati ad altre persone. Una grande ondata di compassione era subentrata alla sua indifferenza e alla sua impazienza: Ellen gli stava di fronte come una figura vulnerabile e commovente a cui bisognava a tutti i costi impedire di farsi ancora più male abbandonandosi a gesti impulsivi contro il destino.

Ricordò quanto Ellen gli aveva detto a proposito della richiesta fattale dalla signora Welland, nel senso di risparmiarle tutto ciò che di «sgradevole» ci fosse nel passato della contessa, e trasalì al pensiero che forse era questo atteggiamento mentale a mantenere così pura l'aria di New York. «Insomma, siamo soltanto dei farisei?», si chiese, disorientato dagli sforzi per riconciliare la sua istintiva ripugnanza nei confronti della meschinità degli esseri umani con la pietà parimenti istintiva per la loro fragilità.

Per la prima volta intuì quanto rudimentali fossero sempre stati i suoi principi personali. Lo si giudicava un giovanotto che non aveva avuto paura del pericolo e sapeva che la sua relazione amorosa con quella sciocchina della moglie di Thorley Rushworth non era stata segreta al punto da avvolgerlo in una adeguata atmosfera avventurosa. Ma la signora Rushworth era «quel tipo di

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donna», stupida, vuota, tendenzialmente incline alla clandestinità, che era molto più attratta dalla segretezza e dal rischio insiti nel loro rapporto, che non dal fascino e dalle qualità che lui possedeva. Quando aveva capito di che si trattava, per poco non ne aveva avuto il cuore spezzato, ma ormai sembrava che tutta la faccenda si fosse risolta. Per farla breve, la relazione era stata di quelle che i giovanotti della sua età avevano sperimentato e da cui erano emersi con la coscienza tranquilla e con fede inconcussa nella differenza abissale che separava la donna che si amava e si rispettava da quelle con le quali ci si divertiva ... e che si compiangevano. Alla formazione di questa mentalità contribuivano assiduamente madri, zie e altre componenti femminili anziane della famiglia, le quali erano tutte del parere della signora Archer, secondo la quale «certe cose accadevano» a causa senza dubbio della stoltezza maschile, ma in un modo o nell'altro sempre grazie alla scellerataggine della donna. Tutte le attempate signore che Archer conosceva ritenevano che qualsiasi donna che fosse incauta nella sua vita sentimentale dovesse essere per forza priva di scrupoli e calcolatrice e che l'uomo fosse solo un credulone e un debole tra le sue grinfie. L'unica cosa da fare era convincerlo a sposare quanto prima possibile una brava ragazza sulla quale potesse poi contare per essere salvaguardato.

Archer cominciava a rendersi conto che nelle complesse comunità dell'antica Europa i problemi affettivi erano forse meno semplici e meno facilmente classificabili. In società ricche, oziose e decorative situazioni del genere dovevano essere all'ordine del giorno; e poteva anche darsi il caso in cui una donna dal carattere sensibile e riservato venisse nondimeno coinvolta per forza di circostanze, per semplice incapacità di difendersi e a causa della solitudine, in un legame che secondo i principi convenzionali era ingiustificabile.

Arrivato a casa, scrisse due righe alla contessa Olenska per chiederle a che ora del giorno dopo poteva riceverlo e gliele inoltrò a mezzo fattorino, il quale di lì a poco tornò con la risposta: il mattino seguente Ellen sarebbe andata a Skuytercliff per fermarsi la domenica dai van der Luyden, ma la sera dello stesso giorno si sarebbe fatta trovare sola in casa dopo cena. Il biglietto era scritto su un mezzo foglio sgualcito, privo di data e indirizzo, ma la scrittura era ferma e scorrevole. L'idea che Ellen trascorresse il fine settimana nella solenne solitudine di Skuytercliff lo divertì, ma subito dopo si rese conto che proprio in quel luogo, fra tutti, lei avrebbe percepito il gelo che avvolgeva l'animo delle persone rigorosamente al riparo da tutto ciò che fosse «sgradevole».

Alle sette in punto arrivò a casa del signor Letterblair, contento di avere il pretesto per andarsene subito dopo avere cenato. In base ai documenti che gli erano stati consegnati, si era formato una propria opinione e non aveva un particolare desiderio di discutere l'argomento con il suo socio anziano. Il signor Letterblair era vedovo, sicché cenarono soli, abbondantemente e lentamente, in una sala buia e squallida, alle cui pareti erano appese alcune stampe ingiallite che rappresentavano La morte di Chatham e L'incoronazione di Napoleone. Sulla credenza, fra astucci per coltelli Sheraton scanalati, c'era una caraffa di Haut Brion e un'altra di vecchio porto prodotto dai Lanning (regalo di un cliente), che quello spendaccione di Tom Lanning aveva svenduto un paio d'anni prima della sua morte misteriosa e ignominiosa avvenuta a San Francisco (che aveva suscitato meno scalpore e meno umiliazione alla famiglia che non la vendita della cantina).

Dopo una delicata zuppa di ostriche, fu servita una cheppia con contorno di cetrioli, poi un tacchino giovane cotto alla griglia con frittelle di granturco ripiene, seguito da un'anatra con gelatina di ribes e maionese al sedano. Il signor Letterblair, che faceva colazione con un panino e un tè, cenò senza fretta e con concentrazione, insistendo affinché il suo ospite facesse altrettanto. Alla fine, una volta compiuti gli ultimi riti e tolta la tovaglia, furono accesi i sigari e il signor Letterblair, appoggiandosi allo schienale della sedia e scostando il bicchiere di porto, espose la schiena al gradevole tepore del fuoco acceso alle sue spalle e disse: «Tutta la famiglia è contraria al divorzio. E penso che abbiano ragione».

Immediatamente Archer sentì di essere in pieno disaccordo con lui. «Ma perché, signore? Se mai c'è stato un caso ...»

«Bene, a che prò? Lei è qui ... e lui è là; tra di loro c'è l'Atlantico. La contessa non riavrà mai un

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dollaro di più del suo denaro di quanto il conte le ha spontaneamente restituito: quei loro maledetti accordi matrimoniali da barbari stanno molto attenti a questi particolari. Tenuto conto di come vanno le cose da quelle parti, Olenski si è comportato generosamente: avrebbe potuto metterla alla porta senza darle un soldo.»

Il giovanotto lo sapeva e tacque.

«Sono venuto a sapere, però», proseguì il signor Letterblair, «che la contessa non dà importanza al denaro. Allora, dice la famiglia, perché non lasciare le cose come stanno?»

Un'ora prima Archer era arrivato a casa del signor Letterblair trovandosi pienamente d'accordo con il suo punto di vista; punto di vista, però, che attraverso le parole di quel vecchio egoista ben pasciuto e altamente indifferente si era trasformato improvvisamente nella voce farisaica di una società tutta intenta a barricarsi contro gli aspetti negativi della vita.

«Penso che ogni decisione spetti all'interessata.»

«Ehm, ha valutato le conseguenze qualora la contessa decida di divorziare?»

«Si riferisce alla minaccia contenuta nella lettera del marito? Che peso potrebbe avere? Non è altro che la vaga accusa di un furfante arrabbiato.»

«Sì, ma potrebbe dar luogo a chiacchiere spiacevoli se il conte impugna l'azione legale.»

«Spiacevoli!», esplose Archer.

Il signor Letterblair lo guardò da sotto i sopraccigli con aria interrogativa e il giovanotto, resosi conto dell'inutilità di cercare di spiegare come la pensava, si inchinò in segno di assenso mentre il suo principale seguitava: «Il divorzio è sempre una cosa spiacevole».

«È d'accordo con me?», ribadì il signor Letterblair, dopo una pausa di silenzio.

«Naturalmente», disse Archer.

«Bene, allora posso contare su lei; i Mingott possono contare su lei; userà la sua influenza contro l'idea del divorzio?»

Archer esitò. «Non posso impegnarmi se prima non ho parlato con la contessa Olenska», disse finalmente.

«Signor Archer, io non la capisco. Vuole prendere moglie in una famiglia su cui incombe una scandalosa causa di divorzio?»

«Non credo che questo abbia niente a che fare con il caso che ci interessa.»

Il signor Letterblair posò il bicchiere di porto e puntò sul giovane socio uno sguardo circospetto e apprensivo.

Archer capì di correre il rischio che l'incarico gli venisse revocato e per qualche oscuro motivo la prospettiva non gli piacque. Ora che l'incarico gli era stato dato, non aveva intenzione di rinunciarvi; e, per mettersi al sicuro da questa eventualità, capì che doveva rassicurare quel vecchio privo di fantasia, il quale rappresentava la coscienza giuridica dei Mingott.

«Può stare tranquillo, signore, che non prenderò nessun impegno finché non gliene avrò parlato; era questo che intendevo dire, cioè che preferirei astenermi dall'esprimere un'opinione finché non avrò sentito cosa ha da dire al riguardo Madame Olenska.»

Il signor Letterblair annuì per approvare quell'eccesso di prudenza degno della migliore tradizione dell'ambiente di New York. Il giovanotto, dopo aver consultato l'orologio, disse di avere un impegno e si congedò.

Capitolo dodicesimo

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A New York i tradizionalisti cenavano alle sette e l'abitudine delle visite dopo cena, quantunque messa in ridicolo nell'ambiente di Archer, era ancora predominante. Mentre il giovanotto risaliva a piedi la Quinta Strada provenendo da Waverly Place, la lunga arteria transitabile era vuota, tranne che per un gruppo di carrozze in sosta davanti alla casa di Reggie Chivers (dove davano una cena in onore del duca) e per la fortuita comparsa della figura di un anziano gentiluomo in soprabito pesante e sciarpa che varcava una soglia di arenaria e scompariva in un atrio illuminato a gas. Sicché Archer, mentre attraversava Washington Square, prese nota che il vecchio signor du Lac andava a trovare i cugini Dagonet e, appena girato l'angolo della West Tenth Street, vide il signor Skipworth, del suo studio legale, che andava evidentemente a trovare le signorine Lanning. Un po' più su, sulla porta di casa sua, apparve Beaufort come un'ombra scura in forte controluce, il quale salì sulla sua carrozza privata e si allontanò diretto a un appuntamento misterioso e probabilmente inconfessabile. Non essendo una serata riservata all'opera, la sortita di Beaufort aveva senza dubbio un sapore di clandestinità. Archer la collegò mentalmente con una casetta oltre Lexington Avenue, alle cui finestre erano di recente comparse tendine ornate di nastri e fioriere e davanti al cui uscio dipinto di fresco si vedeva spesso sostare la carrozza chiusa color giallo canarino di Miss Fanny Ring.

Oltre la piccola e precaria piramide che costituiva il mondo della signora Archer si estendeva il quartiere (pressoché ignorato nelle piante della città) abitato da artisti, musicisti e «gente che scriveva». Queste schegge sparpagliate di umanità non avevano mai esternato alcun desiderio di amalgamarsi con la struttura sociale. Nonostante il loro bizzarro modo di vivere, si diceva che per la maggior parte fossero persone assolutamente perbene, che tuttavia preferivano starsene per conto proprio. Medora Manson, nel suo periodo di prosperità, aveva inaugurato un «salotto letterario», che però era ben presto tramontato per via della riluttanza dei diretti interessati a frequentarlo.

Altri si erano imbarcati in analoghi tentativi, tra cui la famiglia Blenker al completo, formata da una madre dalla lingua sciolta e da tre figlie sciattone che la imitavano. Da loro si incontravano Edwin Booth, la Patti, William Winter e il nuovo interprete di Shakespeare, George Rignold, nonché alcuni direttori di periodici e critici musicali e letterari.

La signora Archer e il suo gruppo erano dominati da una certa timidezza di fronte a queste persone strane e instabili, che nei recessi delle loro esistenze e dei loro animi racchiudevano cose di cui nessuno sapeva niente. Nella cerchia degli Archer letteratura e arte erano profondamente apprezzate e la signora Archer, dal canto suo, non mancava mai di ripetere ai figli che la società era molto più gradevole e raffinata dal momento che era popolata da personaggi come Washington Irving, Fitz-Greene Halleck e il poeta di The Culprit Fay. Gli autori più famosi di quella generazione erano stati dei «gentiluomini»; forse gli sconosciuti che ne avevano raccolto l'eredità avevano sentimenti elevati, ma la loro estrazione sociale, il loro aspetto, il loro modo di portare i capelli, la familiarità con cui trattavano la gente di teatro e dell'opera rendevano inapplicabile nei loro confronti qualsiasi regola in vigore nella vecchia New York.

«Quando ero giovane», soleva dire la signora Archer, «conoscevamo tutti quelli che abitavano tra la Battery e Canal Street e soltanto le persone che si conoscevano avevano la carrozza. A quel tempo era facilissimo collocare chiunque al suo posto, ma adesso non si può dire niente e non vorrei neanche provarci.»

Soltanto la vecchia Catherine Mingott, esente da pregiudizi morali e con l'indifferenza quasi da parvenue per le sfumature più sofistiche, avrebbe potuto colmare l'abisso; ma lei non aveva mai aperto un libro o guardato un quadro e si interessava di musica solo perché le ricordava le serate di gala al Théàtre des Italiens all'epoca del suo trionfo alle Tuileries. Può darsi che Beaufort, che era temerario quanto lei, ce l'avrebbe fatta a fondere i due mondi, ma la sua residenza sontuosa e i lacchè in calze di seta erano un impedimento per la creazione di rapporti sociali privi di formalità. Inoltre, egli era ignorante come la vecchia signora Mingott e secondo lui «quelli che scrivono» erano semplicemente persone pagate per procacciare diletto ai ricchi; cosa che nessuna persona abbastanza ricca da influenzare le sue idee aveva mai messo in discussione.

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Newland Archer si era reso conto di questo stato di cose fin da quando aveva cominciato a capire e lo aveva accettato come parte integrante del suo universo. Sapeva che esistevano società in cui pittori, poeti, romanzieri, scienziati e perfino grandi attori erano ricercati come fossero dei principi; sovente si era raffigurato cosa avrebbe voluto dire essere un habitué dei salotti frequentati da Mérimée (le Lettres à une inconnue era uno dei libri da cui non si separava mai), da Thackeray, Browning o William Morris. Ma a New York cose del genere erano inconcepibili e mettevano a disagio solo a pensarci. Archer ne conosceva molti di «quelli che scrivono», conosceva musicisti e pittori; li incontrava al «Century», oppure nei piccoli circoli musicali e teatrali che cominciavano a spuntare. In quei luoghi di ritrovo ci andava perché con loro stava bene, ma a casa dei Blenker se la prendeva con loro perché si lasciavano attirare da donne appassionate e trasandate che se li passavano dall'una all'altra come fossero fenomeni da baraccone; e anche dopo avere avuto il più vivace scambio di idee con Ned Winsett, se ne andava sempre con la sensazione che se il suo mondo era piccolo, altrettanto lo era quello di quella gente, e che l'unico modo di renderli entrambi più vasti era quello di raggiungere uno stadio in cui le loro consuetudini si amalgamassero spontaneamente.

Tutto ciò gli veniva in mente mentre cercava di immaginare quale fosse la società in cui la contessa Olenska aveva vissuto e sofferto e dove, forse, aveva assaporato piaceri misteriosi. Si ricordò con quale aria divertita Ellen gli aveva detto che la nonna Mingott e i Welland le rimproveravano di abitare in un quartiere bohémien invaso da «gente che scrive». Non era il pericolo, bensì la povertà quella che i suoi parenti paventavano; ma la sfumatura le sfuggiva e lei era convinta che secondo loro a comprometterla fosse il suo vivere a contatto con l'ambiente degli scrittori.

Lei personalmente non ne aveva paura e i libri sparsi qua e là nel suo salotto (una zona della casa in cui di solito si riteneva che i libri fossero «fuori posto»), pur trattandosi principalmente di opere di narrativa, avevano stimolato l'interesse di Archer per via di autori che si chiamavano Paul Bourget, Joris-Karl Huysmans e i fratelli Goncourt. Rimuginando questi pensieri mentre si avvicinava a casa di Ellen, ancora una volta si rese conto del modo singolare in cui lei gli faceva cambiare idea e che, se si fosse deciso a esserle utile nelle difficoltà in cui in quel momento si trovava, sarebbe stato costretto a partire da presupposti incredibilmente diversi da tutti gli altri a lui noti.

Nastasia aprì la porta sorridendo misteriosamente. Sulla cassapanca nell'ingresso era appoggiato un soprabito foderato di zibellino, un gibus ripiegato di seta opaca con le iniziali d'oro J.B. sulla fodera interna e una sciarpa di seta bianca: sul fatto che quei costosi oggetti fossero di proprietà di Julius Beaufort non c'era possibilità di errore.

Archer andò in collera, tanto che fu sul punto di scarabocchiare due parole affrettate sul suo biglietto da visita e andarsene; poi si ricordò che scrivendo a Madame Olenska un eccesso di discrezione lo aveva trattenuto dal dirle che desiderava vederla in privato. Pertanto, se Ellen aveva ricevuto altri visitatori, lui non aveva da rimproverare che se stesso; entrò quindi nel salotto caparbiamente deciso a far sì che Beaufort si sentisse d'impiccio e se ne andasse prima di lui.

Il banchiere era in piedi appoggiato alla mensola del caminetto, coperta da un vecchio ricamo tenuto fermo da candelabri d'ottone sui cui erano infilate candele da chiesa di cera giallastra. Se ne stava col petto in fuori e le spalle contro la mensola, distribuendo il suo peso su enormi piedi calzati in scarpe di vernice. Quando Archer entrò in salotto, stava sorridendo e guardando in giù verso la sua ospite, seduta su un divano collocato ad angolo retto con il camino. Dietro il divano un tavolo stracolmo di fiori faceva da schermo e sullo sfondo di orchidee e azalee, che secondo il giovanotto provenivano dalle serre di Beaufort, Madame Olenska era seduta semisdraiata, con la testa appoggiata a una mano, mentre l'ampia manica del vestito lasciava vedere il suo braccio nudo fino al gomito.

Le signore che davano ricevimenti serali usavano indossare quelli che venivano definiti «semplici abiti per la cena»; si trattava di armature attillatissime di seta sorrette da stecche di balena, appena

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aperte all'altezza del collo, con increspature di pizzo per coprire il solco dei seni e maniche strette con un falpalà che lasciava scoperto il polso quanto bastava per mettere in mostra un braccialetto d'oro di foggia etrusca o un nastro di velluto. Ma Madame Olenska, incurante della tradizione, indossava un lungo abito di velluto rosso orlato sotto il mento e su tutto il davantino con una lucida pelliccia nera. Archer si ricordò di aver visto, durante il suo viaggio a Parigi, un ritratto eseguito da un pittore moderno, Carolus Duran (i cui quadri avevano riscosso grande successo al Salon), che rappresentava una signora infilata in una di quelle vesti a guaina e con il mento che affondava in un collo di pelliccia. Nell'idea di indossare la pelliccia di sera in un salotto riscaldato c'era qualcosa di perverso e di provocante, specie poi se era avvolta attorno al collo e lasciava nude le braccia, con un effetto innegabilmente eccitante.

«Che Dio ci salvi, tre giorni a Skuytercliff!», stava dicendo Beaufort con voce stentorea e beffarda, mentre Archer entrava. «Farà bene a portarsi dietro tutte le sue pellicce e una borsa d'acqua calda.»

«Perché? È così fredda la casa?», chiese Ellen, tendendo la mano sinistra ad Archer con una mossa enigmaticamente allusiva, come se si aspettasse che lui gliela baciasse.

«No, ma lo è la padrona di casa», disse Beaufort, salutando Archer con un rapido cenno.

«Ma io credevo che fosse tanto gentile. È venuta di persona a invitarmi. La nonna dice che debbo assolutamente andarci.»

«Ovvio che la nonna dica così. Invece io dico che è un peccato che lei perda la cenetta a base di ostriche che avevo ordinato per lei da Delmonico domenica prossima, con l'intervento di Campanini e Scalchi e una quantità di gente allegra.»

Ellen guardò perplessa prima il banchiere e poi Archer.

«Certo, questo mi tenta! A parte l'altra sera dalla signora Struthers, da quando sono qui non ho conosciuto un solo artista.»

«Che genere di artisti? Conosco uno o due pittori, ottime persone, che potrei portarle qui per presentarglieli, se me lo consente», disse Archer con aria baldanzosa.

«Pittori? Ci sono pittori a New York?», chiese Beaufort, quasi volesse dire che non potevano essercene dal momento che lui non comprava i loro quadri; e Madame Olenska disse ad Archer, rivolgendogli il suo sorriso sostenuto: «Sarebbe affascinante. Veramente, però, pensavo ad artisti drammatici, a cantanti, attori, musicisti. A casa di mio marito ce n'erano sempre moltissimi.»

Disse «mio marito» come se queste parole fossero scevre di nefaste implicazioni, con un tono che sembrava quasi un sospiro al pensiero dei piaceri perduti della sua vita coniugale. Archer la guardò perplesso, chiedendosi se fosse leggerezza o capacità di fingere quella che le permetteva di accennare con tanta disinvoltura al passato proprio nel momento in cui rischiava di perdere la reputazione volendo farla finita con esso.

«Credo», proseguì rivolta a entrambi, «che Yimprévu accresca la gioia di vivere. Forse è un errore vedere le stesse persone tutti i giorni.»

«In ogni caso è una cosa maledettamente noiosa; New York sta morendo di noia», borbottò Beaufort. «E quando cerco di animarla per lei, lei mi tradisce. Suvvia, ci pensi! Domenica è la sua ultima occasione, perché la settimana prossima Campanini partirà per Baltimora e Filadelfia; io, poi, ho riservato una sala e uno Steinway, quindi canteranno tutta la notte per me.»

«Fantastico! Posso pensarci un po' e scriverle due righe domani mattina?»

Ellen era affabile, ma nella sua voce si avvertiva una nota di congedo. Evidentemente Beaufort se ne accorse, ma non essendovi abituato rimase fermo a guardarla mostrando una piega ostinata fra gli occhi.

«Perché non adesso?»

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«La cosa è troppo impegnativa per prendere una decisione a un'ora così avanzata.»

«Vuole dire che è tardi?»

Ellen gli restituì uno sguardo gelido. «Già. Devo parlare ancora per un po' d'affari con il signor Archer.»

«Ah», scattò Beaufort. Poiché l'atteggiamento di lei non ammetteva possibilità d'appello, riacquistò il suo sangue freddo con una lieve alzata di spalle, le prese la mano e gliela baciò con fare disinvolto. Arrivato sulla soglia, disse ad alta voce: «A proposito, Newland. Se riesci a convincere la contessa a fermarsi in città, si capisce che a cena sei invitato anche tu». E uscì dalla stanza con la sua andatura decisa di persona importante.

Per un attimo Archer pensò che il signor Letterblair l'avesse avvertita del suo arrivo, ma si ricredette nel constatare che quanto lei gli disse subito dopo non aveva niente a che fare con il loro problema.

«Allora conosce dei pittori? Vive nel loro milieu?», chiese con occhi che le scintillavano per l'interesse.

«Oh, non esattamente. Non mi risulta che gli artisti, o alcuni fra di loro, abbiano qui un milieu; è più probabile che vivano sparpagliati nei sobborghi.»

«Ma a lei interessano cose del genere?»

«Immensamente. Quando sono a Parigi o a Londra non perdo mai una mostra. Cerco di tenermi al corrente.»

Ellen fissò la punta dello stivaletto di raso che sbucava dal lungo drappeggio del vestito.

«Un tempo anch'io me ne interessavo moltissimo, la mia esistenza era colma di queste cose. Ma ora non voglio occuparmene più.»

«Non vuole occuparsene più?»

«No, voglio liberarmi di tutto il mio passato, per diventare esattamente come tutti gli altri che vivono qui.»

Archer arrossì. «Non sarà mai come tutti gli altri», disse.

Ellen sollevò un po' le sopracciglia diritte. «Ah, non dica questo. Sapesse quanto odio essere diversa!»

Sul suo volto era calato un velo di malinconia, fino a farlo diventare una maschera tragica. Si protese in avanti, si prese le ginocchia tra le mani sottili e distolse lo sguardo da lui per fissarlo su punti inaccessibili e oscuri.

«Voglio essere libera del tutto», ripeté.

Lui attese un momento, poi si schiarì la gola. «Lo so. Il signor Letterblair me lo ha detto.»

«Sì?»

«Questo è il motivo per cui sono venuto. Me lo ha chiesto ... come sa, faccio parte del suo studio.»

Ellen parve un po' sorpresa, poi gli occhi le si illuminarono. «Vuol dire che può occuparsene per me? Che posso parlarne con lei anziché con il signor Letterblair? Oh, sarà tutto molto più facile!»

Il suo tono lo commosse e sentì crescere la propria fiducia unitamente a un senso di autocompiacimento. Capì che in presenza di Beaufort aveva parlato di affari semplicemente per farlo andar via; e il fatto di avere sbaragliato Beaufort era paragonabile a un trionfo.

«Sono venuto apposta per parlarne», ripeté lui.

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Ellen sedeva silenziosa, con la testa ancora sostenuta dal braccio appoggiato sullo schienale del divano. Il suo volto appariva pallido e spento, come oscurato dal rosso vivo del suo vestito. Tutto a un tratto Archer fu colpito dal suo aspetto patetico e addirittura commovente.

«Adesso parleremo dei fatti sgradevoli», pensò, consapevole dentro di sé dello stesso istintivo disgusto che aveva tanto spesso criticato in sua madre e nelle persone della stessa età di lei. Quanta poca esperienza aveva in fatto di situazioni fuori del comune! Gli era estraneo persino il loro linguaggio, che sembrava tipicamente romanzesco e teatrale. Di fronte a quanto stava per accadere si sentiva maldestro e imbarazzato come un ragazzo.

Dopo una pausa Madame Olenska proruppe con inaspettata violenza: «Voglio essere libera; voglio spazzare via tutto il passato».

«Lo capisco.»

Il viso di Ellen si fece più acceso. «Allora mi aiuterà?»

«Per prima cosa ...», egli esitò, «forse dovrei saperne un po' di più.»

Ellen sembrò sorpresa. «Sa di mio marito ... della mia vita con lui?»

Newland fece un cenno di assenso.

«Bene ... allora ... che altro c'è? In questo paese si tollerano certe cose? Io sono protestante ... la nostra confessione non proibisce il divorzio in casi del genere.»

«Certamente no.»

Tacquero di nuovo entrambi. Archer avvertì fra di loro la presenza sogghignante del fantasma evocato dalla lettera del conte Olenski. La lettera constava soltanto di una mezza paginetta ed era proprio come l'aveva definita lui, parlandone col signor Letterblair: la generica accusa di un briccone arrabbiato. Ma alla base di essa quanto c'era di vero? Soltanto la moglie del conte Olenski era in grado di dirlo.

«Ho esaminato attentamente i documenti che ha consegnato al signor Letterblair», disse lui alla fine.

«Allora, può esserci niente di più infame?»

«No.»

Ellen cambiò leggermente posizione e si coprì gli occhi alzando la mano.

«Lei sa, naturalmente», proseguì Archer, «che se suo marito decide di opporsi, come minaccia di fare ...»

«Sì.»

«Può dire cose ... che potrebbero essere disgu ... che potrebbero essere spiacevoli per lei: potrebbe parlarne in pubblico, in modo da diffonderle per danneggiarla anche se ...»

«Se ... ?»

«Voglio dire, a prescindere da quanto siano infondate.»

Ellen se ne stette muta a lungo; tanto a lungo che Newland, non volendo fissarla nel volto che lei si riparava con una mano, ebbe tutto il tempo per imprimersi in mente la forma esatta dell'altra mano, quella che Ellen teneva appoggiata sul ginocchio, e ogni particolare dei tre anelli che portava all'anulare e al mignolo, fra i quali, notò, non c'era quello nuziale.

«Ammesso che le sue accuse vengano rese di pubblico dominio, che male potrebbero farmi qui?»

Newland ebbe l'impulso di risponderle: «Mia povera bambina, molto di più che in qualsiasi altra parte!». Invece, con una voce che ai suoi orecchi riecheggiava quella del signor Letterblair, rispose: «La società di New York è un ambiente dalla mentalità ristretta in confronto a quella in cui lei ha

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vissuto. E, nonostante le apparenze, è governata da poche persone dalle idee piuttosto antiquate.»

Ellen tacque e lui continuò: «In particolare, sono antiquate le nostre idee sul matrimonio e sul divorzio. Il nostro ordinamento giuridico prevede il divorzio, le nostre convenzioni sociali non lo ammettono.»

«Mai?»

«Beh ... non lo ammettono nel caso in cui le apparenze siano minimamente contrarie alla donna, offesa e irreprensibile quanto si voglia, nel caso in cui la donna si esponga a essere oggetto di insinuazioni ingiuriose qualora tenga un comportamento anticonformista.»

Ellen abbassò la testa ancora di più, e Newland attese di nuovo, sperando intensamente che avesse uno scatto di indignazione o quanto meno se ne uscisse con un grido di diniego. Ma non accadde nulla.

Una piccola sveglia da viaggio ticchettava sommessamente accanto a lei, un ciocco si spaccò in due parti provocando una pioggia di scintille. Tutta la stanza immersa in una quiete meditativa sembrava attendere in silenzio insieme ad Archer.

«Sì», mormorò lei alla fine, «questo è ciò che mi dicono in famiglia.»

Lui ebbe un lieve trasalimento. «Niente di strano, direi.»

«Nella nostra famiglia», si corresse Ellen, e Archer arrossì. «Perché presto lei diventerà mio cugino», continuò con dolcezza.

«Lo spero proprio.»

«E lei è del loro stesso parere?»

A queste parole, Newland si alzò, fece qualche passo nella stanza, fissò senza vederlo uno dei quadri appesi contro la striscia di vecchio damasco rosso e tornò a mettersi al suo fianco con aria indecisa. Avrebbe dovuto dirle, anche se non se la sentiva di farlo: «Sì, se quello che vostro marito insinua è vero, oppure se non avete la possibilità di smentirlo».

«A essere sinceri ...», esclamò Ellen prima che lui potesse parlare.

Newland fissò il fuoco. «A essere sinceri, allora ... che cosa ci guadagnerebbe che sia in grado di controbilanciare la possibilità, anzi la certezza, di un mucchio di chiacchiere disgustose?»

«Ma la mia libertà ... non conta niente?»

In quell'attimo lui ebbe come un lampo e intuì che l'accusa contenuta nella lettera era vera e che lei sperava di sposare il suo amante. Come avrebbe fatto a dirle che se realmente accarezzava un progetto del genere le leggi dello stato vi si opponevano inesorabilmente? Al semplice sospetto che quel pensiero le passasse per la mente si sentì inflessibile e impaziente nei suoi confronti. «Ma non è libera come l'aria?», ribatté lui. «Chi può toccarla? Il signor Letterblair mi ha detto che la questione finanziaria è stata sistemata ...»

«Oh, sì», disse lei con indifferenza.

«Bene, allora vediamo. Vale la pena rischiare di affrontare ciò che potrebbe essere estremamente spiacevole e doloroso? Pensi ai giornali, a quanto sono abietti! Tutto ciò è stupido, meschino e ingiusto ... ma non è possibile rifare la società.»

«No», convenne Ellen, con un tono di voce talmente debole e triste che lui fu assalito improvvisamente dal rimorso per i pensieri spietati che aveva avuto sul conto di lei.

«In casi del genere, l'individuo viene quasi sempre sacrificato per ciò che si presume sia l'interesse collettivo: la gente si aggrappa a qualsiasi regola che tenga unita la famiglia ... che protegga i figli se ce ne sono», divagò lui, tirando fuori tutti i luoghi comuni che gli salivano alle labbra, nel suo intenso desiderio di celare la brutta realtà che il silenzio di Ellen sembrava aver

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messo a nudo. Dato che lei non voleva o non poteva dire l'unica parola che avrebbe chiarito la situazione, suo desiderio era di non darle l'impressione che stava cercando di scandagliare il suo segreto. Meglio rimanere in superficie, come si faceva nella prudente vecchia New York, piuttosto che rischiare di scoprire una ferita che lui non era in grado di guarire.

«Sappia che spetta a me», proseguì, «aiutarla a capire queste cose come le vedono le persone che l'amano di più: i Mingott, i Welland, i van der Luyden, tutti i suoi amici e parenti. Se non le facessi vedere onestamente come la pensano a proposito di questi problemi, non sarebbe corretto da parte mia, è d'accordo?» Parlava con voce incalzante, quasi supplicandola, ansioso di colmare il vuoto di quel silenzio che si protraeva troppo.

Ellen disse lentamente: «No, non sarebbe corretto».

La legna al fuoco si era sgretolata fino a ridursi in cenere e uno dei lumi emise uno sfrigolio di protesta. Madame Olenska si alzò, tirò su lo stoppino e tornò verso il caminetto, ma senza sedersi.

Il fatto che rimanesse in piedi sembrò voler dire che non c'era più niente da dire da parte di nessuno dei due, ragion per cui anche Archer si alzò.

«Benissimo, farò come desiderate», disse lei bruscamente. Il sangue gli salì al volto e, colto di sorpresa da quella resa improvvisa, le prese le mani fra le sue un po' imbarazzato.

«Io ... io voglio aiutarla», disse.

«Lei mi aiuta, sul serio. Buona notte, caro cugino.»

Newland si inchinò e le posò le labbra sulle mani, che erano fredde e inerti. Lei le ritirò e lui si diresse verso la porta, trovò il soprabito e il cappello al fioco chiarore del lume a gas che ardeva in anticamera e sparì nella notte invernale, sopraffatto come lo è il muto dal senso di incapacità di esprimersi con chiarezza.

Capitolo tredicesimoQuella sera al teatro Wallack c'era una ressa strabocchevole.

La commedia messa in scena era The Shaughraun, con Dion Boucicault nel ruolo di protagonista e con Harry Montague e Ada Dyas in quella degli amanti. La popolarità della bravissima compagnia inglese era al culmine e The Shaughraun faceva sempre registrare il tutto esaurito. In piccionaia l'entusiasmo era totale; il pubblico in platea e nei palchetti sorrideva un po' ai sentimenti stereotipati e alle situazioni gonfie di paroloni e si divertiva allo spettacolo quanto gli spettatori del loggione.

In particolare, c'era un episodio che teneva la sala col fiato sospeso dalla platea alla galleria. Si trattava di quello in cui Harry Montague, dopo una scena triste e quasi precipitosa per dire addio alla Dyas, la salutava e si voltava per andarsene. L'attrice stava in piedi accanto al caminetto, guardando in basso verso il fuoco, indossava un vestito di cachemir grigio privo di rifiniture alla moda, foggiato sulla sua alta figura, che le cadeva addosso in linee morbide. Attorno al collo portava uno stretto nastro di velluto nero, le cui estremità le pendevano dietro la schiena.

Quando il suo corteggiatore si voltava per lasciarla, lei poggiava le braccia sulla mensola del caminetto e si prendeva il viso tra le mani. Sulla soglia lui si fermava a guardarla; poi tornava indietro lentamente, prendeva una delle estremità del nastro di velluto, la baciava e usciva dalla stanza senza che lei lo udisse o cambiasse atteggiamento. E su questo silenzioso addio calava il sipario.

Era sempre per vedere quella scena in particolare che Newland andava a vedere The Shaughraun. Pensava che la scena dell'addio tra Montague e Ada Dyas fosse bella come quando l'aveva vista interpretata a Parigi da Croisette e Bressaut, o a Londra da Madge Robertson e da Kendal; la recitazione, tutta giocata su espressioni reticenti e di muto dolore, lo commuoveva di più di tutte le altre più famose interpretazioni istrioniche.

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La sera che ci interessa la breve scena acquistò maggiore intensità in quanto gli ricordava — e non avrebbe saputo dire il perché — il momento in cui si era congedato da Madame Olenska dopo il loro colloquio confidenziale di una decina di giorni prima.

Sarebbe stato difficile scoprire una rassomiglianza qualsiasi sia tra le due situazioni, sia nell'aspetto fisico dei loro personaggi. Newland Archer non aveva la pretesa di somigliare neanche lontanamente alla bella figura romantica del giovane attore inglese, mentre Miss Dyas era una donna alta dai capelli rossi e di imponente complessione, il cui viso pallido e simpaticamente brutto non aveva assolutamente niente a che fare con l'espressione vivace di Ellen Olenska. Né Archer e Madame Olenska erano amanti che si lasciavano in silenzio, affranti dal dolore; tra loro intercorreva semplicemente un rapporto tra cliente e avvocato, che si era interrotto dopo un colloquio da cui l'avvocato aveva tratto la peggiore impressione possibile in merito al caso riguardante la sua cliente. Su che cosa si basava, allora, la rassomiglianza che faceva battere il cuore del giovane mettendolo in una specie di agitazione retrospettiva? Apparentemente, sulla misteriosa capacità di Madame Olenska di proiettare possibilità tragiche e patetiche al di fuori della piatta esperienza quotidiana. Non gli aveva detto neanche una parola che potesse suscitare tale impressione, ma faceva parte di lei il potere di proiettare sia l'ambiente misterioso e stravagante da cui proveniva, sia qualcosa di drammatico, di ardente e di insolito a lei intrinseco. Archer era stato sempre incline a pensare che la sorte e le circostanze avessero un peso minimo nel determinare il destino delle persone, in confronto alla loro tendenza innata a provocare il verificarsi di certi accadimenti. Tendenza che lui, fin dal primo momento, aveva percepito in Madame Olenska. La giovane donna tranquilla, quasi apatica, lo aveva colpito in quanto rispondeva esattamente al tipo di persona a cui determinate cose erano destinate a succedere, nonostante cercasse di evitarle con tutte le forze e in ogni modo possibile. Emozionante era il fatto che Ellen fosse vissuta in una atmosfera talmente densa di drammaticità che la stessa sua attitudine a provocarla sembrava essere passata inosservata. Era esattamente la sua strana incapacità di meravigliarsi a dare a Newland la sensazione che fosse stata strappata a un vero e proprio maelstrom: le cose che lei dava per scontate fornivano la misura di quelle contro le quali si era ribellata.

Archer si era separato da lei con la convinzione che l'accusa del conte Olenski non fosse infondata. Il misterioso personaggio che compariva nel passato di sua moglie in veste di «segretario» probabilmente aveva avuto il suo tornaconto nel favorirne la fuga. La situazione alla quale si era sottratta era intollerabile, assolutamente indescrivibile e incredibile: Ellen era giovane, era atterrita, era disperata, quindi più che naturale che dimostrasse riconoscenza al suo salvatore. Il guaio era che la sua riconoscenza la collocava, davanti alla legge e al mondo, allo stesso livello del suo infame marito. Archer glielo aveva fatto capire, come era suo dovere; le aveva fatto inoltre capire che New York, ritenuta una città tutta cuore in mano e affabilità, sulla cui maggiore benevolenza lei aveva fatto apparentemente assegnamento, era proprio l'ultimo posto in cui poteva sperare di ottenere comprensione.

L'obbligo di chiarirle questo aspetto della realtà e di assistere alla sua rassegnazione nell'accettarlo era stato per lui oltremodo doloroso. Si sentiva attratto verso di lei da reconditi sentimenti di gelosia e di compassione, come se la muta ammissione del suo errore l'avesse lasciata in sua balia, mortificandola ma rendendogliela nel contempo più cara. Era felice che Ellen avesse scelto lui per rivelargli il suo segreto, anziché affrontare la fredda analisi del signor Letterblair e lo sguardo attonito dei parenti. Si era immediatamente incaricato di rassicurare l'uno e gli altri che Ellen aveva rinunciato all'idea di chiedere il divorzio, basando la sua decisione sul fatto di essersi resa conto della inutilità del provvedimento; e con infinito sollievo avevano tutti distolto l'attenzione dalla «spiacevole sensazione» che lei aveva loro risparmiato.

«Ero certa che Newland vi sarebbe riuscito», aveva detto la signora Welland orgogliosa del suo futuro genero; e la vecchia signora Mingott, la quale lo aveva mandato a chiamare per un colloquio a quattr'occhi, si era congratulata con lui per la sua abilità e aveva aggiunto spazientita: «Ma è proprio una sciocca! Gliel'ho detto io stessa che era una grossa corbelleria quella di volersi far passare per Ellen Mingott, e per vecchia zitella, quando ha la fortuna di essere una donna coniugata

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e per di più contessa!».

Questi incidenti avevano reso il ricordo del suo ultimo incontro con Madame Olenska talmente vivo, mentre il sipario calava sulla scena della separazione dei due attori, che il giovanotto si sentì salire le lacrime agli occhi mentre si alzava per uscire dal teatro.

Nel far ciò, si voltò a guardare il resto della sala alle sue spalle e vide la signora alla quale stava pensando seduta in un palchetto insieme ai Beaufort, a Lawrence Lefferts e a uno o due altri uomini. Non le aveva più parlato da solo sin dalla serata che avevano trascorso insieme e aveva cercato di evitare di trovarsi con lei anche in presenza di altri; ma adesso i loro sguardi si incrociarono e, poiché nello stesso tempo la signora Beaufort lo aveva riconosciuto e gli aveva rivolto un languido piccolo gesto di invito, non poté fare a meno di entrare nel palchetto.

Beaufort e Lefferts gli fecero posto e, dopo un breve scambio di parole con la signora Beaufort, la quale ci teneva di più ad apparire sempre bella che a parlare, Archer si sedette dietro Madame Olenska. Nel palchetto non c'era nessun altro tranne il signor Sillerton Jackson, il quale stava descrivendo alla signora Beaufort, in tono sommesso e confidenziale, il ricevimento dato la domenica precedente dalla vedova di Lemuel Struthers (durante il quale si diceva che alcune persone avessero ballato). Approfittando della copertura di questa cronaca di secondaria importanza, alla quale la signora Beaufort prestava ascolto con il suo sorriso perfetto e tenendo la testa angolata esattamente in modo da offrirla di profilo alla vista del pubblico delle poltrone, Madame Olenska si girò verso Newland e gli parlò sottovoce.

«Crede», chiese guardando il palcoscenico, «che domani mattina lui le manderà un mazzo di rose gialle?»

Archer arrossì e il cuore gli balzò nel petto dalla sorpresa. Aveva fatto visita a Madame Olenska soltanto due volte, ogni volta le aveva mandato una scatola di rose gialle e ogni volta senza biglietto da visita. Mai prima di allora Ellen aveva alluso ai fiori e lui era convinto che non le fosse mai venuto in mente che il mittente potesse essere lui. Adesso, tutto a un tratto, il fatto che lei avesse riconosciuto la provenienza dell'omaggio, mettendolo in relazione alla tenera scena d'addio svoltasi sul palcoscenico, lo riempirono di piacere misto a una certa inquietudine.

«Anch'io ci pensavo ... stavo per andarmene da teatro portando l'immagine via con me», disse.

Il suo rossore riluttante e triste lo colse di sorpresa. Lei abbassò gli occhi sul binocolo da teatro di madreperla che teneva nelle mani elegantemente guantate e dopo un po' disse: «Che fa quando May non c'è?».

«Penso a lavorare», rispose lui un po' infastidito dalla domanda.

In ossequio a una consuetudine invalsa da tempo, la settimana precedente i Welland erano partiti per St Augustine dove, in considerazione della presunta delicatezza bronchiale del signor Welland, trascorrevano sempre l'ultimo periodo della stagione invernale. Il signor Welland era un uomo mite e silenzioso, privo di idee ma ricco di abitudini, nelle quali a nessuno era consentito ficcare il naso e una delle quali, per l'appunto, esigeva che moglie e figlia lo accompagnassero sempre nel suo viaggio verso il sud. Mantenere una vita domestica senza sussulti era essenziale per la pace del suo spirito; non avrebbe saputo dove andare a cercare le sue spazzole per i capelli, o come procurarsi i francobolli per le sue lettere, se la signora Welland non fosse stata lì pronta per dirgli come doveva fare.

Dato che tutti i componenti della famiglia si volevano un bene dell'anima e poiché il signor Welland era l'oggetto principale della loro forma di idolatria, non accadeva mai che la moglie o May lo lasciassero andare a St Augustine da solo; dal canto loro i figli, essendo entrambi avvocati e non potendo allontanarsi da New York durante l'inverno, lo raggiungevano sempre a Pasqua e lo accompagnavano nel viaggio di ritorno.

Era impossibile per Archer mettere in discussione la necessità che May accompagnasse il padre. La reputazione del medico di famiglia dei Mingott si basava in massima parte sull'attacco di

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polmonite che il signor Welland non aveva mai avuto, ragion per cui la sua ostinatezza nel voler mandare il suo paziente a St Augustine era irremovibile. All'inizio si era concordato che il fidanzamento di May non sarebbe stato annunciato fino al suo ritorno dalla Florida ma, dal momento che era stato reso noto in anticipo, non si poteva pretendere che il signor Welland modificasse i suoi piani. Ad Archer sarebbe piaciuto raggiungere i viaggiatori e passare qualche settimana prendendo sole e andando in barca con la fidanzata; ma anche lui era condizionato da usanze e convenzioni. Per quanto i suoi impegni professionali fossero di modesto rilievo, sarebbe stato accusato di superficialità dall'intero clan dei Mingott qualora avesse appena accennato a chiedere di andare in vacanza in pieno inverno; e aveva accettato la partenza di May con la rassegnazione che, secondo le sue previsioni, sarebbe stata una delle principali componenti della vita coniugale.

Era consapevole che Madame Olenska lo stava guardando socchiudendo gli occhi. «Ho fatto come voleva ... come mi ha consigliato di fare», disse lei bruscamente.

«Ah ... ne sono lieto», ribatté lui, sentendosi a disagio per il fatto che Ellen affrontasse l'argomento in quel momento.

«Mi rendo conto ... che aveva ragione», proseguì lei trattenendo un po' il respiro, «ma a volte la vita è difficile ... sconcertante ...»

«Lo so.»

«Volevo anche dirle che sono certa che aveva ragione e che le sono grata», concluse lei, portando rapidamente agli occhi il binocolo da teatro nel momento in cui la porta del palchetto si apriva e la voce rimbombante di Beaufort li investiva.

Archer si alzò e uscì dal palchetto e dal teatro.

Non più tardi del giorno prima aveva ricevuto una lettera di

May Welland, in cui con tipico candore la fanciulla gli aveva chiesto di «essere gentile con Ellen» durante la sua assenza. «Gli sei simpatico e ti ammira tanto, e tu lo sai, ma lei non lo fa vedere, è ancora molto sola e infelice. Non credo che la nonna la capisca e neppure lo zio Lovell Mingott; loro pensano sul serio che lei sia molto più attaccata alle cose del mondo e più entusiasta della vita di società di quanto veramente sia. E io riesco a rendermi perfettamente conto che New York deve sembrare noiosa, ma la famiglia non vuole ammetterlo. Penso che sia abituata a un sacco di cose che noi non abbiamo; musica meravigliosa, mostre di quadri, celebrità, artisti e scrittori e tutte le persone intelligenti che tu ammiri. La nonna non riesce a capire che Ellen voglia qualcosa di più oltre a cene e vestiti a profusione, ma io mi rendo conto che tu sei forse l'unica persona a New York in grado di parlarle di ciò che le sta veramente a cuore.»

Quanto era saggia May, e quanto le aveva voluto bene per quella lettera! Tuttavia non intendeva seguire i suoi suggerimenti; tanto per cominciare, era troppo occupato e, siccome era fidanzato, non gli interessava assumere con troppo clamore la parte di difensore di Madame Olenska. Aveva l'impressione che Ellen sapesse come provvedere a se stessa molto meglio di quanto l'ingenua May immaginasse. Aveva Beaufort ai suoi piedi, il signor van der Luyden che si librava su di lei come una divinità tutelare e, in secondo piano, un numero imprecisato di candidati (fra cui Lawrence Lefferts) in attesa di cogliere la loro occasione. Tuttavia ogni volta che la vedeva o scambiava una parola con lei, finiva per accorgersi che nella sua ingenuità May aveva il dono di un potere divinatorio. Ellen era sola ed era infelice.

Capitolo quattordicesimoUscendo nell'atrio Archer si imbatté nel suo amico Ned Winsett, l'unico tra coloro che Janey

definiva una delle persone che lui stimava «intelligenti», con il quale si intratteneva volentieri a discutere di vari argomenti in modo un po' più approfondito rispetto al livello medio riscontrabile

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nel circolo o nelle battute scherzose in trattoria.

In sala aveva visto di sfuggita la figura di Winsett, dalle spalle curve e male in arnese, e una volta aveva notato che guardava verso il palchetto dei Beaufort. I due uomini si strinsero la mano e Winsett propose di andare a bere una birra in un piccolo ristorante tedesco dietro l'angolo. Archer, non essendo dell'umore adatto per il tipo di conversazione che avrebbero tenuto nel locale, declinò l'invito con il pretesto di avere del lavoro da sbrigare a casa; al che Winsett disse: «Beh, quanto a questo anch'io ho da fare, sicché farò il bravo anch'io».

Si avviarono insieme e a un certo punto Winsett disse: «Senti un po', quello che vorrei veramente sapere è come si chiama la misteriosa signora che era in quel tuo palchetto pieno di gente elegante ... non era insieme ai Beaufort? Quella di cui il tuo amico Lefferts sembra si sia innamorato».

Archer, senza capirne il motivo, avverti un senso di fastidio. Che diavolo voleva farci Winsett col nome di Ellen Olenska? E, soprattutto, perché lo metteva in relazione con quello di Lawrence Lefferts? Non era da Winsett manifestare una curiosità del genere; dopo tutto, però, si ricordò Archer, era un giornalista.

«Spero che tu non voglia farle un'intervista», disse ridendo.

«Beh, la stampa non c'entra; è solo per me», ribatté Winsett. «Il fatto è che siamo vicini di casa (strano quartiere dove andare ad abitare per una donna bella come lei) ed è stata gentilissima col mio bambino, che per andare a cercare il gatto nel suo giardino è caduto e si è fatto un brutto taglio. Lei è arrivata di corsa a casa nostra, senza neanche mettersi il cappello, portando in braccio il bambino con il ginocchio perfettamente fasciato. Era così simpatica e bella che mia moglie ne è rimasta colpita al punto da dimenticarsi di chiederle il nome.»

Una gradevole sensazione di calore gonfiò il cuore di Archer. Nel racconto non c'era niente di straordinario: qualsiasi donna si sarebbe comportata così con il piccino della porta accanto. Ma rientrava proprio nel carattere di Ellen, ne era certo, uscire di corsa a testa nuda, prendere il bambino nelle braccia e abbagliare la povera signora Winsett fino a farle dimenticare di chiederle chi fosse.

«È la contessa Olenska ... una nipote della vecchia signora Mingott.»

«Perbacco, una contessa», disse Ned Winsett emettendo un fischio di stupore. «Bene, non sapevo che le contesse fossero così socievoli. I Mingott non lo sono.»

«Lo sarebbero, se voi glielo consentiste.»

«Ah, bene ...». Era la loro vecchia eterna discussione riguardo all'ostinato rifiuto degli «intellettuali» di frequentare il bel mondo. Entrambi sapevano che era inutile continuare a battere su quel tasto.

«Mi chiedo», riprese Winsett, «come mai succede che una contessa venga a vivere nei nostri bassifondi.»

«Perché non gliene importa un fico secco di dove abita, né dei nostri meschini steccati sociali», disse Archer segretamente compiaciuto del quadro che si era fatto di lei.

«Hem, suppongo che sia stata in ben altri posti», commentò l'altro. «Bene, eccomi arrivato.»

Ned Winsett era in grado di avere quei lampi di intuizione, cosa che lo rendeva più interessante e induceva sempre Archer a chiedersi perché, nonostante quella capacità, avesse accettato il fallimento con tanta calma a un'età in cui gli uomini, per la maggior parte, lottano ancora.

Archer sapeva che Winsett aveva moglie e un figlio, ma non li aveva mai conosciuti. I due uomini si incontravano sempre al Century, o in qualche ritrovo frequentato da giornalisti e gente di teatro, come il ristorante dove Winsett aveva proposto di andare a bere una birra. Aveva fatto capire ad Archer che la moglie era invalida; il che era forse vero per quanto riguardava la povera signora, a

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meno che non volesse dire che era carente di qualità per apparire in società o di vestiti da sera, ovvero di entrambe le cose. Lo stesso Winsett nutriva una feroce avversione per le convenzioni: Archer, il quale la sera si cambiava perché per lui era un'abitudine più pulita e più comoda e non si era mai soffermato a considerare che pulizia e comodità fossero due delle voci più care per un modesto bilancio familiare, era convinto che l'atteggiamento di Winsett facesse parte dell'insopportabile esibizionismo bohémien, che immancabilmente faceva apparire molto più semplici e meno impacciate degli altri le persone appartenenti al bel mondo, che si cambiavano d'abito senza metterlo in evidenza e non stavano a commentare continuamente il numero di domestici che il prossimo aveva a disposizione. Nondimeno, si sentiva sempre stimolato da Winsett e ogni volta che scorgeva il magro volto barbuto e gli occhi malinconici del giornalista, lo tirava fuori dal suo angolo e lo portava in giro a fare una lunga chiacchierata.

Winsett non aveva scelto la professione di giornalista. Era un autentico letterato, nato intempestivamente in un mondo che di attività letteraria non aveva bisogno; dopo aver pubblicato un volume di critiche letterarie concise e raffinate, di cui centoventi copie erano state vendute, trenta date in omaggio e le restanti distrutte dall'editore (come previsto dal contratto) per far posto a prodotti più facilmente smerciabili, aveva abbandonato la sua vera vocazione ed era entrato in qualità di vicedirettore in un settimanale femminile, in cui figurini e modelli di carta si alternavano a storie d'amore del New England e a pubblicità sulla temperanza nel bere.

Sul tema Heath-fires (questa era la testata del periodico) Winsett era instancabile e spassoso; ma sotto la sua allegria si celava l'amarezza sterile dell'uomo ancora giovane che prima si era gettato nella mischia e poi si era dato per vinto. La sua conversazione induceva sempre Archer a fare il bilancio della propria vita e a renderlo consapevole di quanto poco contenesse; tutto sommato, però, quella di Winsett era ancora più vuota e, sebbene il patrimonio di interessi e curiosità che avevano in comune rendesse scintillanti i loro dialoghi, di solito il loro scambio di opinioni non usciva dai limiti di un astratto dilettantismo.

Una volta Winsett aveva detto: «Fatto sta che la vita non va bene a nessuno di noi due. Io sono a terra e fuori gioco; non c'è niente da fare. Mi sono messo a produrre un solo tipo di merce, per la quale qui non c'è mercato, almeno finché io vivrò. Ma tu sei libero e sistemato bene dal punto di vista finanziario. Perché non ti crei dei contatti? C'è un solo modo per farlo: entrare in politica.»

Archer si era messo a ridere rovesciando indietro la testa. Di colpo si vedeva la differenza incolmabile che esisteva tra uomini come Winsett e gli altri, quelli del suo tipo. Nell'alta società tutti sapevano che in America «un gentiluomo non poteva occuparsi di politica». Ma poiché non poteva dirlo a Winsett in modo così netto, rispose evasivamente: «Guarda che carriera fa un uomo onesto in politica qui in America! Loro non ci vogliono».

«Chi sono quelli che tu chiami "loro"? Perché non vi unite tutti insieme e diventate "loro" a vostra volta?»

La risata di Archer indugiò sulle sue labbra, trasformandosi in un sorriso un po' condiscendente. Era inutile continuare la discussione: tutti conoscevano il triste destino dei pochi gentiluomini che avevano messo a repentaglio la loro reputazione per occuparsi di politica a livello comunale o statale a New York. Era passato il tempo in cui era possibile svolgere quel tipo di attività: il paese era in balia della gente che comandava e degli emigranti, mentre le persone perbene dovevano tornare a occuparsi di sport e di cultura.

«Cultura! Sì, magari l'avessimo! Ma esistono soltanto pochi e piccoli appezzamenti locali, che si estinguono qua e là per mancanza di ... sì, proprio così, di un lavoro di scasso e di incroci: si tratta degli ultimi rimasugli della tradizione europea che i vostri progenitori si portarono dietro. Ma voi siete una ristretta, misera minoranza: non avete un punto di incontro, non avete agonismo, non avete un pubblico. Siete come i quadri appesi in una casa abbandonata, Ritratto di gentiluomo. Non riuscirete mai a concludere niente, finché non vi rimboccherete le maniche e non ficcherete le mani nel bel mezzo del letame. Questo, oppure emigrare ... Dio! Se potessi emigrare ...» Archer si strinse

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mentalmente nelle spalle e cambiò discorso per tornare a parlare di libri, argomento sul quale Winsett, per quanto poco aggiornato, esprimeva sempre pareri interessanti. Emigrare! Come se un gentiluomo potesse abbandonare il suo paese! Non si poteva fare di più, come non era possibile rimboccarsi le maniche e ficcare le mani nel letame. Un gentiluomo poteva starsene semplicemente a casa sua e astenersi da tutto. Ma non era possibile aprire gli occhi a un uomo come Winsett; ecco perché la New York dei circoli letterari e dei ristoranti esotici, anche se a scuoterla poteva suscitare lì per lì l'impressione che fosse un caleidoscopio, in ultima analisi risultava una scatoletta la cui componente appariva ancora più conformista di quella che presentavano le nullità gravitanti sulla Quinta Strada.

Il mattino dopo Archer vagò per la città nella vana ricerca di altre rose gialle. Di conseguenza arrivò tardi in ufficio e, resosi conto che questo suo comportamento non sollevava nessuna reazione, si sentì improvvisamente esasperato a causa della complicata inutilità della sua vita. Perché, in quel momento, non avrebbe dovuto trovarsi sulla spiaggia di St Augustine con May Welland? Nessuno si lasciava ingannare dalla sua pretesa attività professionale. Negli studi legali di vecchio stampo come quello diretto dal signor Letterblair, che si occupavano principalmente dell'amministrazione di grandi patrimoni e di «prudenti» investimenti, c'erano sempre due o tre giovani, con una discreta posizione economica e privi di ambizioni professionali, i quali per un certo numero di ore al giorno sedevano alle loro scrivanie, svolgendo mansioni irrilevanti o semplicemente leggendo il giornale. Anche se si riteneva opportuno che avessero qualcosa da fare, la volgarità di una attività mirata a far soldi era ancora giudicata umiliante, mentre quella dell'avvocato, essendo una professione, era reputata un'occupazione che si confaceva a un gentiluomo più del commercio. Ma nessuno di quei giovani nutriva eccessive speranze di progredire effettivamente nella sua professione, né lo desiderava seriamente; e su molti di loro si stava già propagando in modo evidente la muffa della superficialità.

Archer rabbrividì al pensiero che anche lui potesse rimanere colpito dagli stessi sintomi di disaffezione. Di sicuro aveva altri gusti e altri interessi: le vacanze le passava viaggiando in Europa, coltivava i rapporti con le «persone intelligenti» di cui parlava May, e in genere cercava di «mantenersi al corrente», come aveva detto con una certa ansia a Madame Olenska. Ma una volta sposato, che ne sarebbe stato di quello stretto margine in cui viveva le sue autentiche esperienze? Ne aveva visti tanti di

giovani, i quali avevano avuto i suoi stessi sogni, sia pure meno ardenti, e a poco a poco erano sprofondati nella placida e magnifica routine dei loro predecessori.

Arrivato in ufficio, inviò tramite un fattorino un biglietto a Madame Olenska, per chiederle se poteva andare a trovarla quel pomeriggio, pregandola inoltre di fargli avere la risposta presso il suo circolo; ma al circolo non trovò niente e non ricevette alcuna lettera neanche il giorno dopo. Quel silenzio inaspettato lo mortificò in modo irragionevole e, sebbene il mattino seguente avesse visto uno splendido mazzo di rose gialle nella vetrina di un fioraio, lo lasciò dov'era. Fu solo a distanza di tre giorni che ricevette per posta una breve comunicazione della contessa Olenska. Vide con stupore che proveniva da Skuytercliff, dove i van der Luyden si erano precipitosamente ritirati dopo aver fatto imbarcare il duca a bordo del suo piroscafo.

«Sono fuggita», cominciava subito il biglietto (saltando i consueti preliminari), «il giorno dopo che ci siamo visti a teatro e questi gentili amici mi hanno ospitato. Volevo starmene tranquilla a riflettere. Lei aveva ragione quando mi ha detto che sono molto cortesi; qui mi sento al sicuro. Vorrei tanto che fosse con noi.» Terminava con i convenzionali «cordiali saluti», senza accennare alla data del suo ritorno.

Il tono della lettera colse di sorpresa il giovane. Da che cosa fuggiva Madame Olenska e perché sentiva il bisogno di mettersi al sicuro? Suo primo pensiero fu che qualcosa la minacciasse oscuramente dall'estero; poi rifletté che non conosceva il suo stile epistolare e che forse si trattava di una esagerazione bella e buona. Le donne esageravano sempre; e per giunta lei non si trovava del tutto a suo agio con la lingua inglese, che spesso parlava come se la traducesse dal francese.

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Traducendo in francese la frase iniziale con Je me suis évadée, si capiva subito che forse aveva voluto semplicemente sottrarsi a una sfilza di impegni noiosi; il che molto probabilmente era vero, dato che la giudicava capricciosa e facile a stancarsi del piacere del momento.

Lo divertiva il pensiero che i van der Luyden l'avessero presa e portata a Skuytercliff per una seconda visita e stavolta a tempo indeterminato. Raramente e a malincuore le porte di Skuytercliff si aprivano per i visitatori e un freddo weekend era il massimo che veniva offerto ai pochi privilegiati. Durante il suo ultimo viaggio a Parigi Archer era andato a vedere la deliziosa commedia di Labiche, intitolata Le voyage de M. Perrichon, e ricordava l'attaccamento testardo e risoluto di Perrichon per il giovane che aveva tirato fuori dal ghiacciaio. I van der Luyden avevano salvato Madame Olenska da un destino quasi altrettanto gelido; sebbene ci fossero molti altri motivi per cui si sentivano attratti da lei, Archer sapeva che al di sotto di tutti c'era la gentile e ostinata risolutezza di seguitare a salvarla.

Nell'apprendere che Ellen non era in città, provò una profonda delusione; e quasi subito si ricordò che soltanto il giorno prima aveva respinto l'invito a trascorrere la domenica con Reggie Chivers e la sua famiglia nella loro casa sullo Hudson, a poche miglia da Skuytercliff.

Da tempo si era stufato dei rumorosi e calorosi ricevimenti che si davano a Highbank, del piccolo cabotaggio, delle corse a vela sul ghiaccio e in slitta, delle lunghe escursioni sulla neve e di una generale atmosfera tutta pervasa da blandi amoretti e scherzi ancora più garbati. Aveva appena ricevuto una cassetta di libri nuovi dal suo fornitore di Londra e aveva optato per la prospettiva di passare una tranquilla domenica in casa a esaminare la sua preda. Adesso, invece, andò nella sala di scrittura del circolo, scrisse in fretta un telegramma e disse al cameriere di spedirlo immediatamente. Sapeva che la moglie di Reggie non faceva obiezioni se i suoi ospiti cambiavano improvvisamente idea, in quanto nella sua casa ospitale c'era sempre una camera disponibile per gli ultimi arrivati.

Capitolo quindicesimoNewland Archer arrivò dai Chivers il venerdì sera e il sabato adempì scrupolosamente tutte le

formalità pertinenti a un fine settimana da trascorrere a Highbank.

Al mattino fece un giretto in barca sul ghiaccio con la padrona di casa e alcuni degli ospiti più coraggiosi; nel pomeriggio «visitò la fattoria» con Reggie e nelle scuderie attrezzate di tutto punto stette ad ascoltare estese e profonde dissertazioni sui cavalli; dopo il tè si appartò in un angolo dell'atrio illuminato dal fuoco a chiacchierare a lungo con una signorina che all'annuncio del fidanzamento di Newland aveva dichiarato di averne avuto il cuore spezzato, ma che adesso era ansiosa di esternargli le proprie prospettive matrimoniali; finalmente, verso mezzanotte aiutò qualcuno a infilare un pesce rosso nel letto di un ospite, si mascherò da ladro nella stanza da bagno di una zia nervosa e fece le ore piccole partecipando a uno scontro coi cuscini che si estese dalla camera dei bambini fino allo scantinato. Ma la domenica, dopo colazione, si fece prestare una slitta leggera e si diresse alla volta di Skuytercliff.

Si era sempre detto che la casa di Skuytercliff fosse una villa all'italiana. Coloro che non erano mai stati in Italia ci credevano e così pure quelli che c'erano stati. La casa era stata costruita dal signor van der Luyden quando era giovane, di ritorno dal grand tour, e in previsione del suo imminente matrimonio con Miss Louisa Dagonet. Era una grande costruzione quadrata di legno, le cui pareti erano incastrate a maschio e femmina e dipinte in verde pallido e bianco, con un portico corinzio e finestre intervallate da pilastri scanalati. Dal punto rialzato su cui sorgeva si dipartiva una serie di terrazze delimitate da balaustre e anfore, come se ne vedono nelle incisioni, fino a un laghetto irregolare con una sponda di asfalto su cui protendevano la loro chioma alcuni rari esemplari di conifere. A destra e a sinistra i famosi prati senza erbacce costellati di vari tipi di alberi, ciascuno dei quali appartenenti a una varietà diversa, si estendevano fino a diventare lunghe linee erbose sormontate da complicati ornamenti di ferro fuso; e più sotto, in un avvallamento, c'era la

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casa di pietra di quattro stanze che il primo Patroon fece costruire sul terreno datogli in concessione nel 1612.

La villa all'italiana si stagliava un po' severa contro il candore uniforme del lenzuolo nevoso e il grigiore del cielo invernale; anche d'estate essa manteneva le distanze, tanto che neanche la più invadente aiuola di coleo si era mai avvicinata a meno di dieci metri dalla sua imponente facciata. Nel momento in cui Newland suonò il campanello, il lungo tintinnio sembrò echeggiare attraverso un mausoleo; e la sorpresa del maggiordomo che alla fine venne ad aprire era grande come se l'avessero destato dal suo ultimo sonno.

Per fortuna Archer era uno di famiglia e perciò, per quanto irregolare fosse il suo arrivo, aveva diritto a essere informato che la contessa Olenska era fuori casa, essendo andata in carrozza alla funzione pomeridiana con la signora van der Luyden esattamente tre quarti d'ora prima.

«Il signor van der Luyden», seguitò il maggiordomo, «è in casa, signore; ma ho l'impressione che stia finendo di fare il suo pisolino, o altrimenti sta leggendo YEvening Post di ieri. Stamane, al suo ritorno dalla chiesa, l'ho sentito dire, signore, che intendeva leggere YEvening Post dopo colazione; se vuole, signore, potrei andare a sentire attraverso la porta della biblioteca ...»

Ma Archer, ringraziandolo, disse che sarebbe andato incontro alle signore; e il maggiordomo, comprensibilmente sollevato, chiuse con sussiego la porta dietro di lui.

Uno stalliere portò la slitta nelle scuderie e Archer arrivò fino alla strada maestra attraversando il parco. Il villaggio di Skuytercliff distava soltanto un paio di chilometri ma, dato che la signora van der Luyden non andava mai a piedi, sapeva di dover restare sulla strada principale se voleva intercettare la carrozza. Comunque di lì a poco, scendendo lungo un sentiero che incrociava la strada, scorse da lontano una figuretta che indossava un mantello rosso e un grosso cane che la precedeva correndo. Newland si affrettò in quella direzione e Madame Olenska si fermò di colpo accogliendolo con un sorriso.

«Ah, è venuto!», disse e sfilò la mano dal manicotto.

Il mantello rosso la faceva apparire gaia e vivace, come la Ellen Mingott dei vecchi tempi; e lui rise nel prenderle la mano e rispose: «Sono venuto a vedere da che cosa è fuggita».

Lei si rannuvolò in volto, poi replicò: «Ah, bene ... tra poco lo vedrà».

La risposta lo disorientò. «Perché ... intende dire che i suoi persecutori l'hanno raggiunta?».

Lei si strinse nelle spalle, con un piccolo movimento tipico di Nastasia, poi ribatté in tono più leggero: «Vogliamo muoverci? Dopo la predica mi sono tutta infreddolita. E che importanza ha, dal momento che lei è qui per proteggermi?».

Newland si sentì arrossire e le prese un lembo del mantello. «Ellen, di che si tratta? Deve dirmelo.»

«Oh, tra poco ... prima facciamo una corsa: a stare qui ferma mi si gelano i piedi», esclamò; e stringendosi nel mantello si mise a correre sulla neve, mentre il cane le saltava intorno abbaiando in segno di sfida. Per un momento Archer rimase fermo a guardarla, felice di fissare quella meteora rossa balenare contro la neve; poi la seguì correndo e si incontrarono, ansanti e ridenti, presso un cancelletto da cui si entrava nel parco.

Ellen lo guardò e sorrise. «Sapevo che sarebbe venuto!»

«Ciò dimostra che voleva che io venissi», ribatté lui, provando una gioia esagerata nello scambio di queste inezie. Il candore scintillante degli alberi riempiva l'aria con il suo splendore misterioso e, mentre procedevano sulla neve, sembrava che il suolo cantasse sotto i loro piedi.

«Da dove arriva?», chiese Madame Olenska.

Glielo disse e aggiunse: «Perché ho ricevuto il suo biglietto».

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Dopo una pausa, lei disse con una certa freddezza appena percettibile nella voce: «May le ha chiesto di prendersi cura di me».

«Non c'era bisogno che nessuno me lo dicesse.»

«Intende dire ... Sembro proprio così debole e indifesa? Dovete pensare tutti che io sia una ben povera cosa! Ma pare che qui le donne non ... pare che non ne abbiano mai bisogno; non più delle anime beate in paradiso.»

Newland abbassò la voce per chiedere: «Bisogno di che cosa?».

«Ah, non me lo chieda! Non parlo la sua lingua», ribatté lei stizzosamente.

La risposta lo colpì in pieno e rimase fermo sul sentiero a guardarla.

«Se io non parlo la sua lingua, che sono venuto a fare?»

«Oh, amico mio ... !». Gli mise la mano delicatamente sul braccio e lui le chiese ansiosamente: «Ellen, perché non vuole dirmi che cosa è accaduto?».

Ellen si strinse nelle spalle. «Non succede mai niente in paradiso?»

Egli stette zitto e per un po' camminarono senza scambiare parola. Alla fine lei disse: «Glielo dirò, ma dove, dove, dove? In quell'immenso seminario di casa non si può stare soli un minuto, con tutte le porte aperte e sempre con un domestico che porta il tè, o un ciocco per il fuoco, o il giornale! Non c'è nessun posto in una casa americana dove ci si possa appartare? Siete tanto timidi, eppure tanto sfrontati. Mi sento sempre come se fossi di nuovo in convento ... o sul palcoscenico, davanti a un pubblico terribilmente bene educato che non applaude mai».

«Ah! Non le siamo simpatici!», esclamò Archer.

Stavano passeggiando davanti alla casa del vecchio Patroon, con i muri tozzi e le piccole finestre quadrate raggruppate intorno a un camino centrale in modo da occupare poco posto. Le persiane erano spalancate e attraverso una delle finestre appena lavate Archer scorse il bagliore di un fuoco.

«Guarda guarda ... la casa è aperta!», disse.

Ellen si fermò. «No, solo per oggi, almeno credo. Io volevo vederla, così il signor van der Luyden ha fatto accendere il fuoco e aprire le finestre, perché potessimo fermarci lì di ritorno dalla chiesa stamattina.» Salì di corsa i gradini e cercò di aprire la porta. «Non è chiusa a chiave ... siamo fortunati! Entriamo, così possiamo parlare in santa pace. La signora van der Luyden ha proseguito in carrozza per andare a trovare le sue vecchie zie a Rhinebeck e a casa nessuno verrà a cercarci per un'altra ora.»

Egli la seguì inoltrandosi nello stretto passaggio. Il suo umore, che alle ultime parole di Ellen si era depresso, si risollevò con un guizzo irrazionale. Eccola lì la casetta senza pretese, con i suoi pannelli e i suoi ottoni luccicanti al chiarore del fuoco, come se fosse spuntata magicamente per accoglierli. Un grande strato di braci ardeva ancora nel focolare della cucina, sotto una pentola di ferro appesa a un antico braccio girevole. Alcune sedie a braccioli con il fondo di giunchi si fronteggiavano ai due lati del camino piastrellato e sugli scaffali alle pareti erano disposti in fila dei piatti di Delft. Archer si chinò e gettò un ciocco sopra la cenere ardente.

Madame Olenska, toltosi il mantello, si sedette su una delle sedie. Archer si appoggiò al camino e la guardò.

«Adesso ride; ma quando mi ha scritto era infelice», disse.

«Sì.» Ellen fece una pausa: «Ma dato che lei è qui non riesco a sentirmi infelice».

«Non rimarrò a lungo», ribatté lui, irrigidendo le labbra nello sforzo di non aggiungere altro.

«No, lo so. Ma io sono incauta: vivo nell'attimo in cui sono felice.»

Le parole penetrarono in lui come una tentazione e per tenerla lontana dai suoi sensi si allontanò

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dal focolare, mettendosi a scrutare fuori i neri tronchi degli alberi che spiccavano contro la neve. Ma fu come se si fosse spostata anche lei e lui la vide ancora, nello spazio tra sé e gli alberi, chinarsi sul fuoco con il suo pigro sorriso. Il cuore di Archer batteva furiosamente. E se fosse da lui che stava fuggendo? E se per dirglielo avesse atteso di trovarsi sola insieme a lui in quella stanza segreta?

«Ellen, se veramente le sono utile ... se veramente voleva che io venissi ... mi dica cos'è che non va, mi dica da che cosa sta fuggendo», insistette lui.

Parlò senza cambiare posizione, senza neanche voltarsi a guardarla: se doveva succedere, così doveva succedere, separati da tutta l'ampiezza della stanza, mentre il suo sguardo era ancora puntato verso l'esterno, fisso sulla neve.

Ellen tacque a lungo, e in quell'intervallo Archer la immaginò, quasi la udì, muoversi furtivamente dietro di lui per gettargli le sue delicate braccia attorno al collo. Mentre aspettava, fremendo nello spirito e nel corpo, che il miracolo si compisse, i suoi occhi captarono automaticamente l'immagine di un uomo che indossava un pesante cappotto con il collo di pelliccia sollevato e che percorreva il sentiero in direzione della casa. Quell'uomo era Julius Beaufort.

«Ah!», esclamò Archer, scoppiando a ridere.

Madame Olenska balzò in piedi e gli si mise a fianco, facendo scivolare la sua mano in quella di lui, ma dopo un'occhiata attraverso la finestra si fece pallida in volto e indietreggiò.

«Così, di questo si trattava», disse ironicamente Archer.

«Non sapevo che fosse qui», mormorò Madame Olenska. La mano di lei era ancora allacciata a quella di Archer; ma lui si staccò da lei e, percorso il corridoio, spalancò la porta della casa.

«Salve Beaufort ... da questa parte! Madame Olenska ti sta aspettando», disse.

Il mattino dopo, durante il viaggio di ritorno a New York,

Archer rivisse con chiarezza penosa gli ultimi momenti da lui trascorsi a Skuytercliff.

Beaufort, sebbene visibilmente seccato di averlo trovato con Madame Olenska, aveva affrontato la situazione con successo e con prepotenza. Il modo in cui ignorava le persone che con la loro presenza gli davano fastidio creava effettivamente in loro, sempre che se ne rendessero conto, la sensazione di essere invisibili, addirittura di non esistere. Mentre tornavano indietro tutti e tre attraverso il parco, Archer era conscio di questo senso di incorporeità che, per quanto umiliante per la sua vanità, gli dava il vantaggio di osservare senza essere osservato come se fosse un fantasma.

Beaufort era entrato nella casetta con la sua solita sicumera; tuttavia non riusciva a cancellare col sorriso il solco verticale che aveva tra gli occhi. Era chiaro che Madame Olenska non aveva saputo niente del suo arrivo, sebbene quanto aveva detto ad Archer facesse intravedere tale eventualità; in ogni caso, era evidente che quando era partita da New York non gli aveva detto dove fosse diretta e che la sua inspiegabile partenza lo aveva irritato. Il motivo apparente della sua comparsa era la scoperta, fatta proprio la sera precedente, di una «casetta meravigliosa», non in vendita, che era proprio quella che ci voleva per lei; ma se lei non l'avesse presa, gli altri non se la sarebbero lasciata sfuggire; e si mise a rimproverarla scherzosamente ad alta voce per averlo fatto andare avanti e indietro andandosene via, proprio quando lui l'aveva trovata.

«Sarebbe bastato che questo nuovo trucco per parlare tramite un filo fosse un poco più perfezionato e io avrei potuto dirle tutto ciò dalla città e in questo preciso istante scaldarmi i piedi davanti al camino del circolo, invece di sgambare appresso a lei sulla neve», borbottò, dissimulando di essere irritato sul serio col fingere di esserlo; e a questa uscita, Madame Olenska sviò il discorso sulla fantastica possibilità che un giorno le persone potessero veramente discorrere tra loro da una strada all'altra, o perfino — che sogno incredibile! — da una città all'altra. Ciò li spinse tutti e tre a citare Edgar Allan Poe e Jules Verne, con tutte le banalità che salgono alle labbra delle persone più intelligenti quando parlano anticipando i tempi e si occupano di una nuova invenzione in cui

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sarebbe ingenuo credere troppo presto; e l'argomento del telefono li fece tornare sani e salvi nella grande casa.

La signora van der Luyden non era ancora tornata; Archer si congedò e andò a prendere la slitta, mentre Beaufort seguiva la contessa in casa. Era probabile che, per quanto i van der Luyden incoraggiassero poco le visite inattese, egli potesse contare di essere invitato a cena e fatto accompagnare alla stazione in tempo per prendere il treno delle ventuno; ma certamente non avrebbe ottenuto di più, in quanto per i suoi ospiti sarebbe stato non solo inconcepibile che un gentiluomo in viaggio senza bagaglio desiderasse passare la notte fuori casa, ma anche sgradevole proporlo a una persona come Beaufort, con la quale intrattenevano rapporti improntati a una cordialità molto limitata.

Tutto questo Beaufort lo sapeva e doveva averlo previsto; e l'avere intrapreso quel lungo viaggio per una così magra soddisfazione rivelava fino a che punto fosse arrivata la sua impazienza. Non c'era alcun dubbio che stesse inseguendo la contessa Olenska; e quando si trattava di belle donne Beaufort aveva un unico scopo. La sua casa senza vita e senza bambini gli era venuta a noia; e, oltre a consolazioni di carattere più stabile, era sempre alla ricerca di avventure nell'ambito del proprio ambiente. Questo era l'uomo dal quale Madame Olenska aveva ammesso esplicitamente di fuggire; il problema era se fosse fuggita perché non gradiva le molestie di Beaufort, oppure perché non si fidava del tutto di se stessa, di riuscire a resistergli; a meno che, effettivamente, tutta la faccenda della fuga non fosse una scappatoia e la sua partenza non fosse se non una manovra.

In realtà Archer non ci credeva. Sebbene, a dire il vero, conoscesse poco Madame Olenska, cominciava a pensare di essere in grado di capirla guardandola in viso o, quanto meno, cogliendone il tono di voce; quando Beaufort era comparso all'improvviso, il suo viso e la sua voce avevano rivelato fastidio e addirittura costernazione. Tutto sommato, però, se le cose stavano così, non era peggio che se lei fosse partita da New York con il preciso scopo di incontrarlo? Se aveva fatto questo, cessava di interessarlo e andava a far parte della schiera dei peggiori bugiardi; una donna compromessa in una relazione amorosa con Beaufort si «qualificava» irrimediabilmente da sola.

No, era mille volte peggio se, giudicando Beaufort, e probabilmente disprezzandolo, era attirata da lui a causa di tutto ciò che lo poneva in posizione di vantaggio rispetto agli altri uomini che la circondavano: vale a dire la sua conoscenza di due tipi di società in due diversi continenti, i suoi ben noti rapporti di amicizia con artisti, attori e in genere con persone di fama mondiale, nonché il suo noncurante disprezzo per i pregiudizi locali. Beaufort era rozzo, incolto, arrogante per via della sua ricchezza; ma le circostanze della sua vita e una certa astuzia congenita ne facevano una persona con la quale meritava parlare più che con molti altri uomini, migliori di lui sul piano morale e sociale, il cui orizzonte era delimitato dalla Battery e da Central Park.

Chiunque venisse da un mondo più ampio come avrebbe fatto a non avvertire la differenza e non esserne attratto?

Al colmo dell'irritazione, Madame Olenska aveva detto ad Archer che loro due non parlavano lo stesso linguaggio; e il giovane sapeva che, per certi aspetti, ciò era vero. Ma Beaufort capiva ogni sfumatura del gergo di Ellen e lo parlava scorrevolmente; ciò che lui pensava della vita, il suo tono, il suo atteggiamento erano semplicemente un riflesso più grossolano di quanto rivelato al riguardo nella lettera del conte Olenski. Forse questo sembrava non avvantaggiarlo nei suoi rapporti con la moglie del conte Olenski; ma Archer era troppo intelligente per ritenere che una giovane donna come Ellen Olenska avrebbe necessariamente respinto ciò che le ricordava il passato. Poteva darsi che fosse convinta di essersi definitivamente ribellata a quel passato, ma ciò che di esso l'aveva affascinata le sarebbe piaciuto ancora, anche contro la sua stessa volontà.

In tal modo, con un senso di imparzialità che gli riusciva penoso, il giovane cercava di dimostrare la giustezza del punto di vista sia di Beaufort che della sua vittima. Desiderava con tutte le forze chiarirle la situazione; e c'erano momenti in cui egli immaginava che lei gli chiedesse proprio questo.

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Quella sera aprì la cassetta contenente i libri che gli erano stati inviati da Londra. Era piena di cose che aveva aspettato con impazienza: una nuova pubblicazione di Herbert Spencer, un'altra raccolta di brillanti racconti del prolifico Alphonse Daudet e un romanzo intitolato Middlemarch, riguardo al quale la critica aveva di recente espresso giudizi interessanti. Per concedersi quel piacere aveva rifiutato tre inviti a cena; ma sebbene girasse le pagine con la gioia sensuale di chi ama i libri, non si rendeva conto di che cosa stesse leggendo e li lasciò andare uno dopo l'altro. Tutto a un tratto notò in mezzo ad essi un volumetto di versi che aveva ordinato perché il titolo aveva richiamato la sua attenzione: The House of Light. Lo prese e si trovò immerso in una atmosfera del tutto diversa da quella mai respirata in precedenza leggendo altri libri; talmente calda, talmente ricca, e tuttavia così ineffabilmente tenera, da conferire una bellezza nuova e ossessionante alle più elementari fra le passioni umane. Per tutta la notte inseguì attraverso quelle pagine incantate la visione di una donna che aveva le sembianze di Ellen Olenska; ma il mattino seguente, quando si svegliò e guardò le case di arenaria dall'altra parte della strada, pensando alla sua scrivania nell'ufficio del signor Letterblair e al banco di famiglia nella chiesa della Grazia, gli istanti trascorsi nel parco di Skuytercliff divennero inverosimili quanto le sue visioni notturne.

«Misericordia, quanto sei pallido, Newland!», commentò Janey, mentre prendevano il caffè a colazione, al che sua madre aggiunse: «Caro Newland, ultimamente ho notato che tossisci; spero che tu non sia oberato di lavoro!». Entrambe le donne erano infatti convinte che, sotto il ferreo dispotismo dei suoi soci anziani, il giovane trascorresse la vita affrontando le più spossanti fatiche professionali (ma lui non aveva mai ritenuto necessario disingannarle).

I due o tre giorni seguenti furono noiosi. Il gusto delle solite cose sembrava cenere nella sua bocca e c'erano momenti in cui aveva la sensazione di essere sepolto vivo nel proprio avvenire. Non ebbe notizie da Madame Olenska né in merito alla meravigliosa casetta e, quantunque incontrasse Beaufort al circolo, si salutavano con un semplice cenno del capo da una parte all'altra dei tavoli da whist. Fu soltanto alla sera del quarto giorno che, di ritorno a casa, trovò un biglietto diretto a lui: «Venga domani sul tardi: debbo delle spiegazioni a lei. Ellen». Queste erano le uniche parole che conteneva.

II giovane, che cenava fuori, si infilò il biglietto in tasca, sorridendo un po' nel rilevare lo stile francese evidente nell'ultima frase. Dopo cena andò a teatro; e fu soltanto dopo essere tornato a casa, a mezzanotte passata, che tirò fuori di nuovo la missiva di Madame Olenska e la rilesse lentamente diverse volte. C'erano molti modi per rispondere e li considerò tutti durante la veglia di una notte agitata. Quello su cui, al mattino, alla fine cadde la sua scelta consistette nel ficcare alcuni capi di vestiario in una valigia e saltare a bordo di una nave che proprio quel pomeriggio salpava per St Augustine.

Capitolo sedicesimoArcher, dopo aver percorso la strada principale invasa dalla sabbia di St Augustine, diretto verso

la casa che gli era stata indicata come appartenente al signor Welland, vide May Welland sotto una magnolia con il sole che le illuminava i capelli e si chiese perché avesse aspettato tanto tempo prima di raggiungerla.

Quella era la verità, quella era la realtà, quella era la vita che gli apparteneva; e lui, che si riteneva tanto al di sopra delle limitazioni arbitrariamente imposte, aveva avuto ritegno a disertare la sua scrivania per timore di ciò che la gente avrebbe potuto pensare se si prendeva un po' di vacanza!

«Newland, è successo qualcosa?», fu la prima reazione di

May e lui pensò che sarebbe stato più «femminile» se la fanciulla gli avesse letto subito negli occhi il motivo della sua venuta. Ma quando lui rispose: «Sì ... mi sono reso conto che dovevo vederti», il rossore di felicità di May eliminò il senso di gelo causato dal suo moto di sorpresa ed

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egli ebbe la certezza di quanto facilmente sarebbe stato perdonato e di quanto presto anche il mite rimprovero del signor Letterblair sarebbe stato cancellato dal sorriso di parenti comprensivi.

Sebbene fosse presto, la strada principale non era il posto adatto per scambiarsi saluti meno che formali e Archer non vedeva l'ora di essere solo con May per manifestarle tutta la sua tenerezza e la sua impazienza. Mancava ancora un'ora alla colazione, che i Welland facevano tardi, e May, invece di invitarlo a entrare, gli propose di fare due passi fino a un vecchio aranceto fuori dell'abitato. Era appena tornata dall'aver remato sul fiume e il sole che aveva coperto con una rete d'oro le piccole onde sembrava aver catturato anche lei. Incorniciando il volto abbronzato, i capelli mossi dal vento avevano riflessi argentei; e anche gli occhi apparivano più chiari, quasi pallidi nella loro limpidezza giovanile. Mentre camminava a fianco di Archer con il suo lungo passo elastico, il suo volto presentava la serena inespressività di un giovane atleta di marmo.

Per i nervi tesi di Archer, quella visione era calmante come la vista del cielo azzurro e del lento fiume. Si sedettero su una panchina sotto le piante d'arancio ed egli l'abbracciò e la baciò. Era come dissetarsi a una fresca fonte sotto i raggi del sole; ma forse l'aveva baciata con più veemenza di quanto volesse, perché May arrossì tutta e si tirò indietro come se lui l'avesse spaventata.

«Che c'è?», le chiese sorridendo; al che lei lo guardò sorpresa e rispose: «Niente».

Li colse un leggero imbarazzo e la mano di lei abbandonò quella di lui. Era l'unica volta che lui l'aveva baciata sulle labbra, tranne quando si erano fugacemente abbracciati nella serra di Beaufort, e lui si accorse che May era turbata e aveva perduto il suo contegno freddo e fanciullesco.

«Dimmi cosa fai tutto il giorno», disse Newland, incrociando le braccia dietro la testa appoggiata alla spalliera della panchina e spingendo in avanti il cappello per ripararsi dal bagliore del sole. Farla parlare di cose note e semplici era il modo più facile per continuare a seguire il corso dei propri pensieri; lui sedeva ascoltando l'ingenuo resoconto di nuotate, di gite in barca a vela e di cavalcate, alternate con qualche festa da ballo nel primitivo alberghetto del posto in occasione dell'arrivo di una nave da guerra. Nella locanda erano arrivate alcune persone simpatiche da Filadelfia e Baltimora per una scampagnata e anche la famiglia di Selfridge Merry era venuta giù per tre settimane, perché Kate Merry aveva avuto la bronchite. Avevano intenzione di allestire un campo da tennis sulla spiaggia, ma all'infuori di Kate e di May nessuno aveva le racchette e la maggior parte degli altri non aveva neanche sentito parlare di quel gioco.

Tutto ciò la teneva molto occupata, al punto che aveva avuto appena il tempo di sfogliare il libretto rilegato in pergamena che Archer le aveva mandato la settimana precedente (si trattava dei Sonnets from the Portuguese); ma stava imparando a memoria una poesia di Browning, perché era una delle prime cose che lui le aveva letto, e la divertiva il fatto di potergli dire che Kate Merry non aveva mai sentito parlare di un poeta di nome Robert Browning.

Di lì a poco si alzò, dicendo che avrebbero fatto tardi per la colazione; e tornarono indietro in fretta e furia, fino alla casa cadente con il portico bisognoso di una tinteggiatura e la siepe di piombaggine e gerani rossi che aspettava di essere potata, dove i Welland si erano sistemati per l'inverno. Dato che l'attaccamento morboso del signor Welland per gli agi domestici rifuggiva dalle carenze del trasandato albergo meridionale, ogni anno la signora Welland era costretta a improvvisare un minimo di organizzazione, facendo assegnamento in parte sull'insoddisfatto personale domestico proveniente da New York, in parte sulla mano d'opera di colore ingaggiata sul posto, a costo di enormi spese e affrontando difficoltà pressoché insormontabili.

«I medici vogliono che mio marito si senta come a casa propria; altrimenti starebbe talmente male che il clima non gli sarebbe di nessun beneficio», spiegava lei, un inverno dopo l'altro, alle persone comprensive che venivano da Filadelfia e da Baltimora; e il signor Welland, sorridendo radiosamente attraverso una tavola imbandita per la prima colazione, fornita miracolosamente delle più diverse leccornie, stava dicendo in quel momento ad Archer: «Vede, mio caro amico, siamo accampati, letteralmente accampati. Io dico a mia moglie e a May che voglio insegnare loro come si vive senza tante comodità».

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Il signore e la signora Welland erano rimasti sorpresi quanto la loro figliola dall'improvviso arrivo del giovanotto; ma questi aveva avuto la presenza di spirito di spiegare di essersi sentito sul punto di prendersi un brutto raffreddore e ciò sembrò al signor Welland una ragione più che valida per lasciar perdere qualsiasi impegno.

«Non si è mai troppo prudenti, specie andando verso la primavera», disse riempiendosi il piatto di schiacciatine color paglia e ricoprendole con uno sciroppo dorato. «Se alla vostra età fossi stato più attento, a quest'ora May andrebbe alle feste da ballo invece di passare l'inverno in un posto primitivo in compagnia di un vecchio invalido.»

«Ma papà, a me piace stare qui, lo sai che mi piace. Se Newland potesse trattenersi, a me piacerebbe mille volte di più che stare a New York.»

«Newland deve rimanere finché il raffreddore non gli sarà completamente passato», disse la signora Welland con tono indulgente; e il giovanotto rise, dicendo che secondo lui esistevano anche altre cose come la propria attività professionale.

In ogni modo, dopo uno scambio di telegrammi con lo studio, riuscì a far durare il suo raffreddore una settimana; e la situazione assunse una connotazione umoristica, in quanto si sapeva che l'indulgenza del signor Letterblair era in parte dovuta al modo soddisfacente in cui il suo brillante socio giovane aveva risolto lo spinoso problema del divorzio Olenski. Il signor Letterblair aveva fatto sapere alla signora Welland che il signor Archer aveva reso un servizio di inestimabile valore a tutta la famiglia e che la vecchia vedova di Manson Mingott ne era rimasta particolarmente compiaciuta; e un giorno in cui May era uscita in carrozza con il padre sull'unico veicolo disponibile sulla piazza, la signora Welland aveva colto l'occasione per affrontare un argomento che aveva sempre evitato in presenza della figlia.

«Temo che le idee di Ellen non siano uguali alle nostre. Aveva appena compiuto diciotto anni quando Medora Manson la riportò in Europa. Ti ricordi che putiferio quando al ballo da debuttante si presentò vestita di nero? Un altro dei ghiribizzi di Medora, che quella volta ebbe qualcosa di profetico! Deve essere successo almeno dodici anni fa e sin da allora Ellen non è mai stata più in America. Non c'è da stupirsi che si sia completamente europeizzata.»

«Ma la società europea non è favorevole al divorzio: la contessa Olenska ha creduto che la sua richiesta di libertà fosse compatibile con la mentalità americana.» Da quando era partito da Skuytercliff, era la prima volta che il giovanotto pronunciava il suo nome, tanto che sentì il sangue salirgli al viso.

La signora Welland sorrise con indulgenza. «Sono proprio queste le cose straordinarie che gli stranieri inventano sul conto nostro. Sono convinti che ceniamo alle due del mattino e che tolleriamo il divorzio! Ecco perché mi sembra stupido accoglierli bene quando vengono a New York. Loro accettano la nostra ospitalità, poi tornano a casa e vanno a raccontare le stesse scempiaggini.»

Archer si astenne da ogni commento e la signora Welland proseguì: «Noi però apprezziamo moltissimo il tuo intervento per convincere Ellen a desistere dal suo proposito; sua nonna e suo zio Lovell non vi erano riusciti; mi hanno scritto ambedue per dirmi che Ellen ha cambiato idea esclusivamente grazie a te ...in realtà, ha detto proprio così alla nonna. Ha per te un'ammirazione sconfinata. Povera Ellen, è stata sempre una bambina ribelle. Che cosa le riserverà il destino?».

«Ciò che tutti noi abbiamo contribuito a prepararle», fu tentato di rispondere Newland. «Se tutti voi preferite che Ellen diventi l'amante di Beaufort anziché la moglie di un galantuomo, state certi che siete sulla buona strada.»

Si chiese come avrebbe reagito la signora Welland se lui le avesse palesato a parole quei pensieri invece di tenerli per sé. Riusciva a figurarsi che in un botto ella avrebbe perduto il dominio dei suoi lineamenti fermi e tranquilli, a cui l'essersi dedicata per tutta una vita ad approfondire la conoscenza di cose futili aveva conferito l'espressione di una autorità artificiosa, e su cui indugiavano ancora

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tracce di una fresca bellezza come quella della figlia; chissà, si domandò Newland, se il volto di May era destinato ad appesantirsi col passare degli anni assumendo la stessa immagine di insopprimibile innocenza.

No, assolutamente no, non voleva che May avesse quel tipo di innocenza, l'innocenza che isola la mente dalla fantasia e il cuore dall'esperienza!

«Io credo sul serio», continuò la signora Welland, «che se quell'orribile faccenda fosse finita sui giornali mio marito ne avrebbe ricevuto un colpo mortale. Non ne conosco i particolari; chiedo soltanto di ignorarli, come ho detto alla povera Ellen quando ha cercato di parlarmene. Avendo un invalido da assistere, debbo mantenermi lucida e tranquilla. Ma il signor Welland ne è rimasto terribilmente sconvolto; mentre aspettavamo di sapere che cosa era stato deciso al riguardo, ha avuto sempre qualche linea di febbre. E tutto per via dell'orrore che provava nella eventualità che la sua figliola venisse a conoscere cose del genere ... ma naturalmente anche tu, caro Newland, la pensavi così. Noi tutti sapevamo che tu ti preoccupi per May.»

«Mi preoccupo sempre per May», ribatté il giovanotto, alzandosi per dare un taglio alla conversazione.

Approfittando di questo colloquio a quattr'occhi con la signora Welland, aveva avuto intenzione di chiederle di anticipare la data del matrimonio. Non riuscì, tuttavia, a farsi venire in mente nessun argomento per riuscire a smuoverla e fu con un senso di sollievo che vide arrivare in carrozza il signor Welland e May.

L'unica sua speranza era di tornare a supplicare May e il giorno prima della partenza andò a piedi con lei fino al giardino abbandonato della Missione spagnola. L'ambiente si prestava a una rievocazione di scenari europei; inoltre May, più incantevole che mai sotto un cappello a larghe tese che le gettava un'ombra di mistero sugli occhi troppo luminosi, si accendeva d'entusiasmo a sentirlo parlare di Granada e dell'Alhambra.

«Può darsi che la prossima primavera vedremo tutto questo ... anche le celebrazioni pasquali a Siviglia», incalzò lui, esagerando le sue richieste nella speranza di ottenere un consenso maggiore.

«Pasqua a Siviglia? Ma la settimana prossima comincia la quaresima», disse lei ridendo.

«E che vuol dire? Che cosa ci vieta di sposarci in quaresima?», ribatté lui, ma al vederla tanto indignata si rese conto di aver commesso un errore.

«Ma è ovvio, tesoro, che non volevo dire questo, ma subito dopo Pasqua ... di modo che potremmo imbarcarci alla fine di aprile. Quanto all'ufficio, so di poter sistemare le cose.»

A questa prospettiva, May sorrise come in un sogno; ma lui si accorse che le bastava sognare, come quando lo ascoltava leggere ad alta voce dai suoi libri di poesia le belle cose che nella vita reale non potevano assolutamente accadere.

«Oh, Newland, vai avanti. Adoro le tue descrizioni.»

«Ma perché dovrebbero essere soltanto delle descrizioni? Perché non dovremmo tradurle in realtà?»

«Lo faremo, tesoro, naturalmente; ma l'anno prossimo», disse May soffermandosi sulle parole.

«Ma non vuoi che divengano realtà al più presto? Che posso fare per convincerti a piantare tutto su due piedi?»

May chinò la testa, celandosi sotto la complice ala del cappello.

«Perché dovremmo sprecare un altro anno sognando? Guardami, tesoro! Non capisci quanto desidero che tu diventi mia moglie?»

Per un attimo lei rimase immobile; poi sollevò su di lui occhi carichi di tanta disperata limpidezza che egli allentò un po' il braccio che le teneva attorno alla vita. Ma improvvisamente lo sguardo di

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May si fece più profondo e impenetrabile. «Non sono sicura di aver capito veramente», disse. «Il motivo è ... è che tu non sei sicuro di continuare a volermi bene?»

Archer si alzò di scatto: «Mio Dio ... forse ... non lo so», proruppe irosamente.

Anche May si alzò e, mentre si fronteggiavano, sembrò che lei crescesse nella sua statura e dignità di donna. Tacquero entrambi per un momento, come fossero sbigottiti dalla imprevista piega presa dalle loro parole. Poi, a bassa voce, lei disse: «Se le cose stanno così... c'è qualcun'altra?».

«Qualcun'altra fra te e me?», rispose Newland, ripetendo lentamente le parole di lei, come se stentasse ad afferrarne il senso e volesse prendere tempo ripetendo a se stesso la domanda. Sembrò che lei ne cogliesse l'incertezza, perché continuò in tono reso più intenso: «Newland, siamo sinceri. A volte ho avvertito un cambiamento in te; specie da quando è stato annunciato il nostro fidanzamento».

«Cara ... ma è pazzesco!», esclamò lui riprendendosi.

Ella accolse la protesta con un debole sorriso. «Se è così, non ci farà male se ne parliamo.» Fece una pausa e, alzando il capo con uno dei suoi gesti superbi, aggiunse: «Oppure, anche se è vero: perché non dovremmo parlarne? Può darsi benissimo che tu abbia fatto un errore».

Lui chinò la testa, fissando il disegno scuro formato dalle foglie cadute sul sentiero assolato ai loro piedi. «È sempre facile commettere degli errori; ma se si trattasse di uno di quelli che credi tu, sarebbe plausibile che io ti supplicassi di affrettare le nostre nozze?»

Anche lei abbassò lo sguardo, scompigliando il disegno delle foglie con la punta del parasole e, nel contempo, cercando faticosamente di trovare l'espressione giusta. «Sì», disse finalmente lei. «Può darsi che tu voglia risolvere il problema una volta per tutte; e questo è un modo per farlo.»

La tranquilla lucidità di lei lo colpì, ma non lo indusse a credere erroneamente che fosse attribuibile a insensibilità. Sotto la tesa del cappello egli scorse il pallore del suo profilo e un leggero fremito delle narici sopra le labbra tenute risolutamente chiuse.

«E allora?», domandò sedendosi sulla panchina e guardando in su verso di lei, con un cipiglio che cercava di fare apparire scherzoso.

May tornò a sedersi e continuò: «Non devi pensare che una ragazza ne sappia poco come i suoi genitori credono. Si ascolta, si prende nota ... ognuno ha i propri sentimenti e le proprie idee. E naturalmente, molto tempo prima che tu ti dichiarassi, avevo saputo che c'era un'altra che ti interessava; due anni fa a Newport ne parlavano tutti. Una volta, poi, vi ho visti seduti insieme sulla veranda, a una festa da ballo, e quando lei rientrò in casa il suo viso era triste e mi sono sentita male per lei; quando ci siamo fidanzati, me ne sono ricordata».

La sua voce si era trasformata quasi in un sussurro, mentre sedeva stringendo e allentando la presa delle mani intorno al manico del parasole. Il giovane vi appoggiò le sue con una leggera pressione, sentendo che il cuore gli si allargava nel provare un sollievo inesprimibile.

«Mia cara bambina, di questo si tratta? Se tu sapessi la verità!»

May alzò subito la testa. «Allora c'è una verità che non conosco?»

Egli continuò a tenere le mani su quelle di lei. «Intendevo riferirmi alla verità riguardo alla vecchia storia di cui parli.»

«Ma è proprio questo che desidero sapere, Newland ... ciò che devo sapere. Non potrei costruire la mia felicità su un torto ... su un'ingiustizia ... fatta a qualcun altro. E voglio credere che per te sarebbe la stessa cosa. Che tipo di vita potremmo costruire su basi del genere?»

Il suo viso aveva assunto un'espressione di coraggio talmente tragica che egli sentì il desiderio di prostrarsi ai suoi piedi. «È tanto tempo che volevo dirtelo», proseguì May. «Ho avuto intenzione di dirti che quando due persone si amano sul serio, io capisco che possano esserci delle situazioni per

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cui è giusto che esse si mettano ... si mettano contro la pubblica opinione. E se tu, in un modo o nell'altro, ti senti impegnato ... impegnato nei confronti della persona di cui abbiamo parlato ... e se c'è un modo qualsiasi... un modo qualsiasi perché tu possa mantenere il tuo impegno ... anche facendole ottenere il divorzio ... Newland, non rinunciare a lei per causa mia!»

Il suo stupore nell'apprendere che i timori di May si erano concentrati su un episodio tanto lontano nel tempo e del tutto dimenticato, come la sua relazione con la moglie di Thorley Rushworth, cedette il passo alla meraviglia per la generosità delle idee espresse da May. In un atteggiamento tanto avventatamente insolito c'era qualcosa di sovrumano e, se non fosse stato assillato da altri problemi, si sarebbe soffermato a scoprire in virtù di quale prodigio la figlia dei Welland lo spingesse a sposare la sua ex amante. Ma era ancora disorientato dall'avere intravisto il precipizio in cui per un pelo avevano evitato di cadere e si sentiva colmo di un nuovo senso di rispetto per i misteri che si celavano nella personalità delle fanciulle in fiore.

Per un attimo non riuscì a parlare, poi disse: «Non c'è nessun impegno ... né obbligo di nessun genere ... del tipo che tu credi. Casi come questi non sempre ... si presentano in un modo del tutto semplice ... ma non importa ... amo la tua generosità, perché in merito a queste cose la penso come te ... ritengo che ogni caso vada giudicato individualmente, per quel che merita ... a prescindere da stupidi pregiudizi ... voglio dire che ciascuna donna ha diritto alla sua libertà ...». Si fermò, allarmato dalla piega che stava prendendo il corso dei suoi pensieri, poi proseguì, guardandola con un sorriso: «Tesoro, dato che capisci tante cose, non potresti spingerti un altro po' e capire quanto è inutile che noi ci sottomettiamo a un'altra forma di identiche sciocche convenzioni? Se tra di noi non c'è niente e nessuno, non è questa una buona ragione per sposarci in quattro e quattr'otto, anziché aspettare ancora?».

May arrossì dalla gioia e alzò il viso verso il suo e lui, mentre si chinava su di esso, vide gli occhi di lei riempirsi di lacrime di felicità.

Un attimo dopo, però, sembrò che lei fosse discesa dal suo piedistallo di donna per tornare a essere una fanciulla indifesa e timorosa; e lui capì che il coraggio e lo spirito di iniziativa di May erano tutti per gli altri, ma che non ne aveva nei riguardi di se stessa.

Era chiaro che lo sforzo di parlare era stato molto superiore a ciò che la sua calcolata compostezza rivelava e che, appena lui l'aveva rassicurata, era tornata a essere quella di prima, cioè una bambina troppo spericolata che cerca rifugio tra le braccia della mamma.

Archer non ebbe il coraggio di tormentarla ancora; era troppo deluso per aver visto sparire la persona nuova che lo aveva fissato con tanta intensità attraverso gli occhi di May. Costei sembrò rendersi conto della sua delusione, senza tuttavia sapere come fare per alleggerirne gli effetti; quindi si alzarono e si incamminarono silenziosamente verso casa.

Capitolo diciassettesimo«Tua cugina, la contessa, è venuta a trovare la mamma mentre eri fuori.»

Il giovanotto, che stava cenando da solo con la madre e la sorella, alzò lo sguardo stupito e vide che quello della signora Archer indugiava sul proprio piatto in modo schivo. La signora Archer non riteneva che il suo segregarsi dal mondo fosse una buona ragione per esserne esclusa; e Newland intuì che fosse un po' seccata per il fatto che lui si dimostrasse sorpreso per via della visita di Madame Olenska.

«Portava una polacca di velluto nero con bottoni di giaietto e un piccolo manicotto verde di pelo di scimmia; non l'ho mai vista vestita con tanta eleganza», continuò Janey. «È venuta sola, nel primo pomeriggio di domenica; per fortuna in salotto era acceso il fuoco. Aveva uno di quei portabiglietti da visita che vanno adesso. Ha detto che voleva conoscerci perché tu sei stato molto buono con lei.»

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Newland rise. «Madame Olenska tratta sempre così i suoi amici. È molto felice di trovarsi di nuovo tra la sua gente.»

«Sì, così ci ha detto», disse la signora Archer. «Debbo dire che sembra molto riconoscente di essere qui.»

«Spero che ti sia piaciuta, mamma.»

La signora Archer serrò le labbra. «Di certo si dà da fare per piacere, anche quando va a fare visita a una vecchia signora.»

«Mamma non crede che sia un'ingenua», interloquì Janey puntando gli occhi sul viso del fratello.

«Il fatto è che la penso proprio all'antica; il mio ideale è la cara May», disse la signora Archer.

«Ah», disse il figlio, «non si somigliano per niente.»

Archer era partito da St Augustine con una serie di messaggi per la vecchia signora Mingott e un paio di giorni dopo il suo arrivo in città andò a trovarla.

La vecchia signora lo ricevette con insolito calore; gli era grata per aver convinto la contessa Olenska a rinunciare all'idea di chiedere il divorzio; e quando le disse di essersi assentato dall'ufficio senza permesso, per precipitarsi fino a St Augustine semplicemente perché voleva vedere May, le sfuggì un risolino soffocato che fece sussultare la sua pinguedine e con la manina grassottella gli diede un colpetto sul ginocchio.

«Ah, ah, ... sicché hai fatto perdere le tue tracce, no? E scommetto che Augusta e Welland hanno tenuto il muso e si sono comportati come se fosse cascato il mondo! Ma la piccola May ... la sapeva più lunga, ci giurerei!»

«Spero di sì; tutto sommato, però, non ha voluto acconsentire a quello che ero andato a chiederle.»

«Sul serio non ha voluto? E di che si trattava?»

«Volevo farle promettere che ci saremmo sposati nel mese di aprile. A che prò attendere inutilmente un altro anno?»

La vedova di Manson Mingott fece le boccucce simulando un falso pudore e gli strizzò l'occhio in modo malizioso. «Al solito, credo, avrà detto: "Chiedilo alla mamma". Ah, questi Mingott ... sono tutti uguali! Sono nati in una tana e non riesci a fargliela abbandonare. Quando ho costruito questa casa, avresti detto che volessi trasferirmi in California! Nessuno aveva mai costruito case oltre la Quarantesima Strada ... no, dico io, neanche oltre la Battery prima che Colombo scoprisse l'America. No, no, non ce n'è uno tra loro che voglia fare qualcosa di diverso; ne sono talmente atterriti, neanche si trattasse del vaiolo. Ah, mio caro signor Archer, ringrazio la mia buona stella di non essere altro che una volgare Spicer; ma non c'è uno dei miei figli che si prenda cura di me, tranne la mia piccola Ellen.» Si interruppe di botto, continuando a fargli l'occhiolino e, cambiando improvvisamente argomento come fanno i vecchi, gli chiese: «Per quale motivo al mondo, poi, non hai sposato la mia piccola Ellen?».

Archer rise. «Tanto per cominciare, non era ancora qui in tempo per farsi sposare.»

«No ... certo; motivo di più perché sia veramente un peccato. Adesso è troppo tardi; la sua vita è finita.» Lo disse con la freddezza compiaciuta dei vecchi che gettano terra sulla tomba delle speranze dei giovani. Egli sentì che il cuore gli si raggelava e si affrettò a dire: «Signora Mingott, posso convincerla a usare la sua influenza con i Welland? Non sono fatto per i lunghi fidanzamenti».

La vecchia Catherine gli fece un cenno di approvazione. «No, posso vederlo. Sei pronto a cogliere l'occasione. Fin da quando eri un ragazzino, non ho avuto il minimo dubbio che ti piacesse essere servito per primo.» Gettò indietro la testa con una risata che le fece increspare i suoi doppi

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menti come piccole onde. «Ah, ecco arrivare la mia Ellen!», esclamò, mentre le portiere si aprivano alle sue spalle.

Madame Olenska entrò sorridendo. Il suo volto aveva un'espressione vivace e felice. Tese elegantemente la mano ad Archer e si chinò per dare un bacio alla nonna.

«Mia cara, gli stavo proprio dicendo: "Perché non hai sposato la mia piccola Ellen?".»

Madame Olenska guardò Archer, sempre sorridendo. «E lui che cosa ha risposto?»

«Cara, lascio a te scoprirlo! È andato in Florida a trovare la sua innamorata.»

«Sì, lo so.» Lo guardò ancora. «Sono andata a trovare sua madre, per sapere dove era andato. Le ho scritto, ma non ha mai risposto. Temevo che fosse malato.»

Egli mormorò qualche parola di scusa, adducendo di essere stato obbligato a partire improvvisamente e in gran fretta, con l'intenzione però di scriverle da St Augustine.

«E naturalmente, una volta arrivato là, si è completamente dimenticato di me!» Continuava a sorridergli con un brio che forse era dettato da un calcolato atteggiamento di indifferenza.

«Se ha ancora bisogno di me, è ben decisa a non dimostrarmelo», pensò Newland, ferito dal comportamento di lei. Voleva ringraziarla per essere andata a trovare sua madre, ma sotto lo sguardo malizioso di nonna Mingott si sentì ridotto al silenzio e impacciato.

«Guardatelo un po' ... è talmente smanioso di sposarsi che se l'è squagliata alla chetichella e si è precipitato a supplicare in ginocchio quella sciocchina! Questo sì che è voler bene ... è così che l'aitante Bob Spicer si portò via la mia povera mamma; e poi si stancò di lei prima che io fossi svezzata ... anche se dovettero aspettare soltanto otto mesi perché nascessi! Ma qui non si tratta di questo ... tu non sei uno Spicer, giovanotto, per fortuna tua e di May. Solo che la mia povera Ellen ha preso qualcosa del loro sangue cattivo; tutti gli altri sono autentici Mingott», esclamò sdegnosamente la vecchia signora.

Archer si accorse che Madame Olenska, che era seduta a fianco della nonna, lo stava ancora analizzando con aria pensosa. L'allegria era scomparsa dai suoi occhi. Con estrema docilità ella disse: «Certo, nonnina, tra te e me possiamo convincerli a fare come lui desidera».

Archer si alzò per congedarsi e, nel momento in cui la sua mano toccò quella di lei, ebbe la percezione che Ellen si aspettasse da parte sua un accenno alla lettera rimasta senza risposta.

«Quando potrò vederla?», le chiese, mentre lei lo accompagnava fino alla porta della stanza.

«Quando le fa piacere; ma dovrà far presto se vuol vedere di nuovo la casetta. La prossima settimana trasloco.»

Si sentì assalire da un dolore acuto al ricordo delle ore trascorse al chiarore della lampada nel salotto dal soffitto basso. Per quanto fossero state poche, erano dense di ricordi.

«Domani sera?»

Ellen annuì. «Domani va bene; ma presto. Devo uscire.»

Il giorno dopo era domenica, e se «usciva» di domenica sera, naturalmente, era soltanto per andare dalla vedova di Lemuel Struthers. Avvertì un leggero senso di fastidio, non tanto perché ci andasse (anzi, lui preferiva che andasse dove le pareva e piaceva, nonostante i van der Luyden fossero d'avviso contrario), ma perché quello era il tipo di casa dove sicuramente avrebbe incontrato Beaufort, dove doveva già sapere che lo avrebbe incontrato ... e dove probabilmente andava proprio a quello scopo.

«Sta bene, domani sera», ripeté lui, deciso dentro di sé che non vi sarebbe andato troppo presto e che, arrivando da lei in ritardo, le avrebbe impedito di andare dalla signora Struthers, oppure che sarebbe arrivato quando lei fosse già uscita ... il che, tutto considerato, sarebbe stata la soluzione più

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semplice.

In fin dei conti erano soltanto le otto e mezzo quando Newland suonò il campanello sotto il glicine; non mezz'ora più tardi di quanto avrebbe voluto ... ma una strana irrequietezza lo aveva spinto fino a casa di Ellen. Rifletté, tuttavia, che le serate domenicali dalla signora Struthers non erano feste da ballo e che i suoi ospiti, quasi per minimizzare i loro misfatti, di solito ci andavano presto.

L'unica cosa che non aveva previsto, entrando nell'ingresso di casa di Madame Olenska, fu di trovarvi cappelli e soprabiti. Perché lo aveva costretto ad arrivare presto se aveva gente a cena? Guardando più attentamente gli indumenti accanto ai quali Nastasia stava posando i suoi, il suo risentimento cedette il passo alla curiosità. In realtà i soprabiti erano i più strani che avesse mai visto in una casa perbene; e gli ci volle appena un'occhiata per rendersi conto che nessuno di essi apparteneva a Julius Beaufort. Uno era un trasandato Ulster giallo confezionato, l'altro un mantello molto vecchio e color ruggine, fornito di cappa, un po' simile a quelli che i francesi chiamavano «Macfarlane». Questo indumento, che a quanto pareva era fatto per un colosso, evidentemente era stato indossato a lungo, era logoro e le sue pieghe di un colore nero verdastro emanavano un odore di segatura bagnata che denunciava soste prolungate sugli attaccapanni dei bar. Su di esso erano posati una sciarpa grigia tutta lisa e uno strano cappello di foggia quasi ecclesiastica.

Archer alzò interrogativamente le sopracciglia in direzione di Nastasia, la quale gli rispose allo stesso modo con un fatalistico «Già!»22 e spalancò la porta del salotto.

Il giovanotto vide subito che la sua ospite non era nella stanza; poi si accorse, con sorpresa, che accanto al fuoco c'era un'altra donna. La signora in questione, alta, magra e trasandata, portava indumenti complicati da alamari e guarniti di frange, con sciarpe, liste e bande di colore chiaro disposte in un disegno apparentemente privo di senso. I suoi capelli, che aveva cercato di sbiancare ma era riuscita soltanto a sbiadire, erano tenuti da un pettine alla spagnola e da uno scialle di pizzo nero, mentre le sue mani affette da reumatismi erano coperte da mezziguanti di seta, visibilmente rammendati.

Accanto a lei, avvolti in una nuvola di fumo di sigaro, stavano i proprietari dei due soprabiti, entrambi in abito da mattina che evidentemente non avevano cambiato per tutto il giorno. In uno di loro Archer, al colmo dello stupore, riconobbe Ned Winsett; l'altro, che era più anziano e gli era sconosciuto, rivelava con la sua corporatura gigantesca di essere quello del «Macfarlane», aveva una testa vagamente leonina dai capelli grigi e arruffati e muoveva le braccia con ampi gesti goffi, come se stesse impartendo benedizioni profane a una turba inginocchiata.

Quelle tre persone stavano in piedi sul tappeto davanti al camino, fissando un enorme mazzo di rose rosso sangue, stretto in fondo da un ciuffo di pansé violacee e adagiato sul divano dove di solito si sedeva Madame Olenska.

«Immagino quanto debbano costare in questa stagione ... anche se, naturalmente, quello che conta è il sentimento!», stava dicendo la signora tra un sospiro e l'altro mentre Archer entrava.

Al suo apparire, i tre si voltarono sorpresi verso di lui e la signora gli venne incontro tendendogli la mano.

«Caro signor Archer ... quasi mio nipote Newland!», disse. «Sono la marchesa Manson.»

Archer si inchinò e lei proseguì: «La mia cara Ellen mi ha ospitato per qualche giorno. Vengo da Cuba, dove ho trascorso l'inverno con alcuni amici spagnoli... persone deliziose e distinte, appartenenti alla più alta nobiltà della vecchia Castiglia ... quanto vorrei che le conoscesse! Ma sono stata chiamata dal nostro caro grande amico, il qui presente dottor Carver. Non conosce il dottor Agathon Carver, fondatore della Valle della Comunità dell'Amore?».

Il dottor Carver inclinò la testa leonina e la marchesa continuò: «Ah, New York, New York, quanto poco partecipa alla vita dello spirito! Ma a quanto vedo conosce il signor Winsett».

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«Oh, sì ... l'ho conosciuto tempo fa, ma non percorrendo quella strada», disse Winsett con un sorriso distaccato.

La marchesa scosse il capo in segno di rimprovero: «Che ne sa, signor Winsett? Lo spirito soffia dove vuole».

«Preferisce ... preferisce!», la corresse il dottor Carver emettendo un potente brontolio.

«Ma si accomodi signor Archer. Noi quattro abbiamo fatto una deliziosa cenetta e la mia bambina è andata a vestirsi; l'aspetta e scenderà tra poco. Stavamo per l'appunto ammirando questi magnifici fiori, che saranno una bella sorpresa per lei.»

Winsett rimase in piedi. «Mi spiace, ma debbo andare via. Per cortesia, dica a Madame Olenska che ci sentiremo tutti abbandonati quando lei non sarà più nel nostro quartiere. Questa casa è stata come un'oasi.»

«Ah, ma lei non vi abbandonerà. Poesia e arte sono la sua ragione di vita. Lei, signor Winsett, scrive poesie, no?»

«Non esattamente, ma qualche volta le leggo», disse Winsett facendo un cenno di saluto a tutti i presenti in genere e uscendo rapidamente dalla stanza.

«Ha uno spirito caustico ... un peu sauvage. Ma è così spiritoso; dottor Carver, non lo trova spiritoso?»

«Cose del genere non mi interessano», disse il dottor Carver in tono grave.

«Ah, ah, queste cose non la interessano! Sapesse, signor Archer, quanto è spietato con noi deboli mortali! Ma lui vive solo per la vita dello spirito; e stasera sta preparando dentro di sé la conferenza che tra poco terrà a casa della signora Blenker. Dottor Carver, prima che vada dalla signora Blenker, non ci sarebbe tempo per spiegare al signor Archer la sua folgorante scoperta del Contatto Diretto? Ma no, vedo che sono quasi le nove e noi non abbiamo il diritto di trattenerla mentre tante persone sono in attesa di ascoltare il suo messaggio.»

A questa conclusione il dottor Carver apparve un po' contrariato, ma, dopo aver confrontato il suo cipollone d'oro con la piccola sveglia da viaggio di Madame Olenska, chiamò a raccolta di malavoglia le sue formidabili membra accingendosi a partire.

«Ci vedremo più tardi, cara amica?», domandò alla marchesa, la quale sorridendo rispose: «Appena arriva la carrozza di Ellen la raggiungerò; spero che la conferenza non sia già cominciata».

Il dottor Carver guardò Archer con espressione pensierosa. «Forse, se a questo giovane gentiluomo interessano le mie esperienze, la signora Blenker potrebbe consentirle di portarlo con sé, no?»

«Oh, caro amico, se fosse possibile ... sono certa che la signora Blenker ne sarebbe felice. Ma temo che Ellen abbia lei stessa bisogno del signor Archer.»

«Mi dispiace», disse il dottor Carver, «... ma ecco il mio biglietto da visita.» E lo porse ad Archer, il quale vi lesse in caratteri gotici:

Il dottor Carver si inchinò e uscì, mentre la marchesa, emettendo un sospiro che si sarebbe potuto attribuire sia a rimpianto che a sollievo, fece di nuovo cenno ad Archer di sedersi.

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«Fra poco Ellen scenderà; e prima che arrivi sono veramente felice di stare un po' tranquilla con lei.»

Archer mormorò che era un piacere per lui averla conosciuta e la marchesa proseguì con il suo tono basso e malinconico: «Caro signor Archer, so tutto ... la mia bambina mi ha riferito tutto quello che ha fatto per lei. I suoi giudiziosi consigli, la sua coraggiosa fermezza ... grazie al cielo non è stato troppo tardi!».

Il giovanotto l'ascoltava con enorme imbarazzo. C'era qualcuno, si chiese, al quale Madame Olenska non avesse rivelato che era lui, Newland, a occuparsi delle sue faccende personali?

«Madame Olenska esagera. Le ho semplicemente dato un parere legale, come mi ha chiesto di fare.»

«Ah, ma nel farlo ... nel farlo lei è stato lo strumento inconscio di ... che termine usiamo noi moderni, signor Archer, per definire la Provvidenza?», esclamò la signora, inclinando la testa da una parte e abbassando le palpebre con fare misterioso. «Lei non sapeva affatto che in quel preciso momento venivo interpellata, in realtà mi venivano fatte delle proposte ... dall'altra sponda dell'Atlantico!»

Si guardò dietro le spalle, come se temesse di essere udita, e poi, accostandosi con la sedia e nascondendo le labbra sotto un delicato ventaglio d'avorio, sussurrò dietro quel riparo: «Da parte del conte stesso ... del mio povero pazzo, stupido Olenski; il quale chiede soltanto che Ellen torni da lui alle condizioni che lei vuole».

«Buon Dio!», esclamò Archer, balzando in piedi.

«Lei è inorridito? È ovvio, si capisce. Io non difendo il povero Stanislao, ma lui mi ha sempre considerata la sua migliore amica. Lui non si difende ... si getta ai piedi di Ellen, tramite mio.» Si batté l'esile petto. «Ho una lettera qui.»

«Una lettera? ... Madame Olenska l'ha vista?», balbettò Archer, con la testa che gli girava per via del brutto colpo che aveva ricevuto a quell'annuncio.

La marchesa Manson scosse piano il capo. «Tempo ... tempo, mi ci vuole tempo. Conosco la mia Ellen ... altezzosa, intrattabile; direi proprio un po' implacabile.»

«Ma santo cielo, perdonare è un conto; tornare in quell'inferno ...»

«Ah, già», approvò la marchesa. «Così lo descrive Ellen ... la mia sensibile bambina! Ma signor Archer, se si tiene conto dell'aspetto pratico, sempre che sia consentito abbassarsi a considerare certe cose, sa a che cosa rinuncia Ellen? Vede quelle rose là, sul divano ... ce ne sono a ettari, in serra e all'aperto, nei suoi incomparabili giardini a terrazza a Nizza! Gioielli ... perle che hanno un valore storico: gli smeraldi dei Sobieski... pellicci di zibellino ... ma di tutto ciò a lei non importa niente! Arte e bellezza, queste sono le cose che la interessano, per le quali vive, come ho fatto sempre io; e anche da queste cose era circondata. Quadri, mobili pregiati, musica, conversazioni brillanti ... ah, questo, mio caro giovanotto, se vorrà scusarmi, è quello di cui qui non avete la più lontana idea. E tutto ciò lei lo aveva, insieme all'omaggio degli uomini più importanti. Ellen mi dice che a

New York non la reputano bella ... santo cielo! Le hanno fatto il ritratto nove volte; i più grandi artisti d'Europa l'hanno supplicata per ottenere questo privilegio. Non contano niente queste cose? E il rimorso di un marito che l'adora?»

Via via che la marchesa si avvicinava al culmine dell'emozione, il suo volto assumeva un'espressione di estasi retrospettiva, che avrebbe provocato l'ilarità di Archer se lo stupore non lo avesse ammutolito.

Se qualcuno gli avesse predetto che avrebbe conosciuto la povera Medora Manson per la prima volta sotto la maschera di messaggero di Satana, si sarebbe messo a ridere; ma in quel momento non

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ne aveva voglia, in quanto gli sembrava che Medora fosse uscita direttamente dall'inferno da cui Ellen Olenska era da poco fuggita.

«Di tutto questo ... la contessa non sa ancora niente?», chiese bruscamente.

La marchesa si mise un dito sulle labbra. «Niente in modo diretto ... ma sospetta qualcosa? Chi è in grado di dirlo? Signor Archer, la verità è che ho aspettato per vederla. Dal momento che ho sentito parlare della ferma posizione da lei assunta e dell'ascendente che esercita su Ellen, ho sperato che si potrebbe contare sul suo appoggio ... convincerla a ...»

«Per convincerla che dovrebbe tornare indietro? Preferirei vederla morta!», esclamò con violenza il giovanotto.

«Ah», mormorò la marchesa, senza far trapelare alcun risentimento. Per un po' stette seduta nella sua poltrona, aprendo e chiudendo quell'assurdo ventaglio d'avorio fra le dita coperte dai mezziguanti; ma improvvisamente sollevò la testa e tese l'orecchio.

«Eccola che arriva», disse in un rapido sussurro; e poi, indicando il mazzo sul divano: «Devo capire che voi preferite queste cose, signor Archer? Dopo tutto un matrimonio è un matrimonio ... e mia nipote è ancora una moglie ...».

Capitolo diciottesimo«Che state complottando insieme voi due, zia Medora?», esclamò Madame Olenska entrando

nella stanza.

Era vestita come per andare a una festa da ballo. Tutto, sulla sua persona, scintillava e brillava delicatamente, come se il suo abito fosse intessuto di raggi di candela; era a testa alta, come fa una bella donna in segno di sfida entrando in una sala piena di rivali.

«Stavamo dicendo, mia cara, che qui c'era una bella sorpresa per te», ribatté la marchesa, alzandosi e indicando maliziosamente i fiori.

Madame Olenska si fermò di botto e guardò il mazzo. Il suo colore non cambiò, ma la rabbia la percorse tutta con una specie di bianco fulgore simile a un fulmine d'estate. «Ah», esclamò, con un suono stridulo nella voce che il giovanotto non aveva mai udito, «chi è tanto ridicolo da mandarmi un mazzo di fiori? Perché un bouquet? E perché proprio questa sera? Non sto andando a un ballo; non sono una fidanzata in attesa di matrimonio. Ma certa gente è sempre ridicola.» Tornò verso la porta, l'aprì e chiamò: «Nastasia!». L'onnipresente cameriera apparve subito e Archer udì Madame Olenska dire in italiano, con una pronuncia volutamente chiara, forse allo scopo che egli capisse: «Vieni qui... getta tutto nella pattumiera!», e poi, siccome Nastasia spalancava tanto d'occhi per protestare: «Ma no ... non è colpa di questi poveri fiori. Di' al ragazzo di portarli nella casa che sta tre porte più in là, la casa del signor Winsett, quel signore bruno che è stato a cena qui. Sua moglie è malata ... può darsi che le facciano piacere ... Dici che il ragazzo è fuori? Allora, cara mia, vacci di corsa tu personalmente; ecco qui, mettiti il mio mantello e fa' una volata. Voglio che siano fuori di qui immediatamente! E finché vivi, non dire che glieli ho mandati io!».

Gettò il suo mantello da teatro di velluto sulle spalle della cameriera e si voltò per rientrare in salotto, chiudendo la porta con una certa energia. Il seno le si sollevava sotto il pizzo e per un attimo Archer pensò che fosse sul punto di piangere; invece lei scoppiò a ridere e guardando prima la marchesa e poi Archer chiese bruscamente: «E voi due ... avete fatto amicizia!».

«Tocca al signor Archer dirlo, tesoro: ha pazientemente aspettato mentre tu ti preparavi.»

«Sì... ve ne ho dato tutto il tempo; i miei capelli non volevano andare a posto», disse Madame Olenska toccandosi i riccioli raccolti nel suo chignon. «Ma adesso che mi ricordo, il dottor Carver è andato via e tu farai tardi dai Blenker. Signor Archer, vuole far salire in carrozza mia zia?»

Ellen seguì la marchesa fino in anticamera, l'aiutò a infilarsi un mucchio eterogeneo di

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soprascarpe, scialli e mantelline e dalla soglia le gridò: «Ricordati di rimandarmi la carrozza alle dieci!». Poi tornò in salotto, dove Archer, rientrando a sua volta, la trovò in piedi vicino al caminetto, mentre si guardava allo specchio. Nella la società di New York non era normale che una signora si rivolgesse alla sua cameriera chiamandola «tesoro» e la mandasse a fare una commissione avvolta nel suo mantello da teatro; e Archer, fra tutti i suoi più profondi sentimenti, assaporò la piacevole eccitazione di essere in un mondo in cui l'azione seguiva un'emozione a una velocità da olimpionici.

Quando le si avvicinò, Madame Olenska non si mosse e per un attimo i loro occhi si incontrarono nello specchio; poi lei si volse, si rifugiò nel suo angolo del divano e sospirò: «Questo è il momento per una sigaretta».

Lui le porse la scatola e accese un fiammifero; e mentre la fiamma le illuminava il volto, Ellen lo guardò con occhi ridenti e disse: «Che impressione le faccio quando sono arrabbiata?».

Archer tacque per un momento, poi, con improvvisa decisione, rispose: «Questo mi fa capire meglio ciò che sua zia mi ha detto di lei».

«Sapevo che stava parlando di me. Allora che ha detto?»

«Ha detto che è abituata a ogni genere di cose — splendore, divertimenti, un'esistenza movimentata — cose che non potremmo mai sperare di offrirle qui da noi.»

Madame Olenska sorrise debolmente attraverso il fumo della

sigaretta.

«Medora è un'incorreggibile romantica. Il che l'ha ricompensata di tante cose!»

Archer esitò di nuovo poi, di nuovo, si arrischiò: «Il romanticismo di sua zia va sempre d'accordo con la precisione?».

«Intende dire se dice la verità?». Ellen rifletté. «Bene, glielo dirò: in quasi tutto ciò che dice c'è qualcosa di vero e qualcosa di falso. Ma perché me lo chiede? Che cosa le ha detto?»

Lui fissò il fuoco e poi tornò a guardare la splendida persona di Ellen. Il cuore gli si strinse al pensiero che quella era la loro ultima sera accanto al fuoco e che di lì a poco la carrozza sarebbe arrivata e l'avrebbe portata via.

«Sua zia dice ... sostiene che il conte Olenski le ha chiesto di

convincerla a tornare con lui.»

Madame Olenska non rispose. Sedeva immobile, reggendo la sigaretta nella mano semisollevata. L'espressione del suo viso non era cambiata; e Archer ricordò di aver già notato la sua apparente incapacità di stupirsi.

«Allora, lo sapeva?», disse con impeto.

Ellen rimase zitta così a lungo da far cadere la cenere della sigaretta, mandandola a finire sul pavimento. «Ha accennato a una lettera: povera cara! Le allusioni di Medora ...»

«È su richiesta di suo marito che è arrivata qui all'improvviso?»

Madame Olenska parve prendere in considerazione anche questo lato della questione. «Siamo allo stesso punto: non si può mai dire. Mi ha detto di avere ricevuto una "chiamata spirituale", o quel che è, da parte del dottor Carver. Ho paura che sposerà il dottor Carver ... povera Medora, c'è sempre qualcuno che lei desidera sposare. Ma forse i suoi amici di Cuba si erano davvero stancati di lei! Credo che stesse con loro come una specie di dama di compagnia remunerata. Sul serio, non so perché sia venuta.»

«Ma crede che abbia una lettera di suo marito?» Madame Olenska meditò ancora in silenzio; poi disse: «In fin dei conti, c'era da aspettarselo».

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Il giovanotto si alzò e andò ad appoggiarsi al caminetto. Era stato preso da una improvvisa inquietudine ed era ammutolito sapendo che avevano pochissimo tempo, perché da un momento all'altro si sarebbe potuto udire il rumore delle ruote della carrozza che tornava a prenderla. «Sa che sua zia è convinta che tornerà indietro?» Madame Olenska alzò la testa di scatto. Un profondo rossore le salì al viso, coprendole poi il collo e le spalle. Arrossiva di rado e con un senso di fastidio, come se si sentisse bruciare. «Mi hanno sempre attribuito tante cose crudeli», disse lei. «Oh, Ellen ... mi perdoni; sono un pazzo e un bruto!» Lei sorrise per un momento. «Lei è molto nervoso; ha i suoi guai. So che pensa che i Welland si comportino irragionevolmente a proposito del suo matrimonio, e naturalmente io sono d'accordo con lei. In Europa non capiscono i nostri lunghi fidanzamenti americani; credo che non siano pazienti come lo siamo noi.» Pronunciò quel «noi», imprimendo alla parola una lieve inflessione ironica.

Archer lo notò, ma non osò rilevarlo. In fin dei conti forse Ellen aveva intenzionalmente sviato la conversazione dai propri affari e, dopo il dolore che le ultime frasi di lui aveva evidentemente suscitato in lei, capì che tutto ciò che poteva fare era di mettersi sulla sua scia. Ma la sensazione dello scorrere del tempo lo gettava nella disperazione: non riusciva a sopportare il pensiero che una barriera di parole si sarebbe frapposta di nuovo tra di loro.

«Sì», disse bruscamente. «Sono andato a St Augustine per chiedere a May di sposarmi dopo la Pasqua. Non c'è motivo per cui non dovremmo sposarci a quell'epoca.»

«E May l'adora ... ma non è riuscito a convincerla? Credevo che fosse troppo intelligente per lasciarsi dominare da certi assurdi pregiudizi.»

«May è intelligente ... non si lascia dominare da niente.» Madame Olenska lo guardò. «Beh, allora ... non capisco.» Archer arrossì e si precipitò a dire: «Abbiamo parlato con

franchezza ... quasi per la prima volta. May crede che la mia impazienza sia un cattivo segno».

«Santo cielo ... perché un cattivo segno?»

«May crede che questo vuol dire che non posso fidarmi di me stesso nel continuare a volerle bene. Crede, in parole povere, che voglio sposarla subito per allontanarmi da qualcuno che ... mi sta più a cuore.»

Madame Olenska ci pensò sopra con una certa curiosità. «Ma se la pensa così... perché non si sbriga anche lei?»

«Perché non è fatta così, è molto più disinteressata. Seguita a sostenere la necessità di un fidanzamento lungo, per darmi il tempo di...»

«Il tempo di piantarla per l'altra donna?»

«Sì, se io voglio farlo.»

Madame Olenska si protese verso il fuoco e stette a guardarlo fissamente. Dalla strada tranquilla dabbasso Archer udì avvicinarsi il trotto dei cavalli della contessa.

«Questo atteggiamento è veramente disinteressato», disse lei, con una leggera incrinatura nella voce.

«Si. Ma è ridicolo.»

«Ridicolo? Perché a lei non importa di nessun'altra donna.»

«Perché non intendo sposare nessun'altra donna.»

«Ah.» Ci fu un altro lungo intervallo. Alla fine Ellen lo guardò e chiese: «Quest'altra donna ... l'ama?».

«Oh, non c'è nessun'altra donna; voglio dire, la persona a cui May stava pensando è ... non è stata mai...»

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«Allora, dopotutto, perché ha tanta fretta?»

«C'è la sua carrozza», disse Archer.

Lei accennò ad alzarsi in piedi e si guardò intorno con sguardo assente. Il ventaglio e i guanti erano sul divano accanto a lei. Li raccolse con un gesto meccanico.

«Sì, debbo proprio andare.»

«Va dalla signora Struthers?»

«Sì.» Ellen sorrise e aggiunse: «Devo andare dove mi invitano, altrimenti sarei troppo sola. Perché non viene con me?».

Archer sentì che doveva tenerla accanto a sé a ogni costo, che doveva far sì che lei riservasse a lui il resto della sua serata. Ignorando la domanda, lui continuò ad appoggiarsi al caminetto, tenendo gli occhi fissi sulla mano in cui lei teneva i guanti e il ventaglio, come se si aspettasse di avere il potere di farglieli cadere.

«May ha intuito la verità», disse. «C'è un'altra donna ... ma non quella che ha in mente lei.»

Ellen Olenska non rispose, né fece un gesto. Dopo un po' Newland le si sedette accanto e, prendendole la mano, gliela aprì

con delicatezza in modo da far cadere i guanti e il ventaglio in mezzo a loro sul divano.

Lei balzò in piedi e, staccandosi da lui, si spostò sull'altro lato del caminetto. «Ah, non mi faccia la corte! Troppa gente l'ha fatto», disse accigliandosi.

Archer, mutando colore, si alzò in piedi anche lui; era il rimprovero più aspro che lei potesse fargli. «Non le ho mai fatto la corte», disse, «e non lo farò mai. Ma lei è la donna che avrei sposato se fosse stato possibile per tutti e due noi.»

«Possibile per tutti e due noi?» Lei lo guardò con genuino stupore. «E lei dice questo ... quando è stato lei che lo ha reso impossibile?»

Lui la guardò fissamente, brancolando in una oscurità attraverso la quale si fece strada un unico dardo di luce accecante.

«Io l'ho reso impossibile ... ?»

«Tu, tu, tu», gridò Ellen, con le labbra che le tremavano come quelle di un bimbo sul punto di piangere. «Non sei tu che mi hai fatto rinunciare al divorzio ... sì, rinunciare, perché mi hai fatto vedere quanto sarebbe stato egoistico e cattivo, come bisogna sacrificarsi per salvare la dignità del matrimonio ... e per evitare scandalo e pubblicità alla propria famiglia? E dato che la mia famiglia stava per essere la tua famiglia, per amore di May e tuo ho fatto quanto mi hai detto di fare, quanto tu mi hai dimostrato quello che avrei dovuto fare. Ah», si interruppe scoppiando in una risata improvvisa, «non ho tenuta segreta la circostanza che l'ho fatto per te!»

Si lasciò cadere di nuovo sul divano, rannicchiandosi in mezzo alle increspature allegre del suo vestito, che sembrava un costume dismesso da mascherata; e il giovane rimase in piedi vicino al fuoco e continuava a guardarla fissamente senza muoversi.

«Buon Dio», gemette Newland. «Quando ho pensato ...»

«Tu hai pensato?»

«Ah, non chiedermi che cosa ho pensato!».

Continuando a guardarla, vide la stessa vampa ardente salirle dal collo al volto. Ellen si mise seduta diritta, fronteggiandolo con rigida dignità.

«Te lo chiedo.»

«Bene, allora c'era qualcosa in quella lettera che mi hai chiesto di leggere ...»

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«La lettera di mio marito?»

«Sì.»

«Non ho niente da temere da quella lettera, assolutamente niente! Tutto quello che mi preoccupava era che avrei messo in cattiva luce la famiglia, che avrei provocato uno scandalo a danno tuo e di May.»

«Buon Dio», gemette di nuovo Newland, nascondendo la faccia tra le mani.

Il silenzio che seguì si posò su di loro col peso di cose definitive e irrevocabili. Ad Archer sembrò di esserne schiacciato come dalla pietra della propria tomba; per quanto si spingesse nel futuro, non vedeva niente che avrebbe mai sollevato quel peso dal suo cuore. Non si mosse dal suo posto, né sollevò la testa dalle mani; i suoi occhi continuavano a fissare l'oscurità più totale.

«Almeno ti amavo ...» riuscì a dire.

Dall'altro lato del caminetto, dall'angolo del divano dove sapeva che Ellen si era acquattata, sentì giungere un debole pianto soffocato come quello di un bambino. Balzò in piedi e si mise al suo fianco.

«Ellen! È un pazzia! Perché piangi? Non si fa niente che non si possa disfare. Io sono ancora libero e tu lo sarai.» La teneva tra le braccia, il volto di lei come un fiore bagnato al contatto delle sue labbra, mentre tutti i loro inutili terrori si dileguavano come fantasmi al sorgere del sole. L'unica cosa che in quel momento lo stupiva era il fatto di essere stato in piedi per cinque minuti a discutere con lei da un'estremità all'altra della stanza, mentre solo a entrare in contatto con lei tutto si semplificava.

Ellen ricambiò il suo bacio, ma un istante dopo egli la sentì irrigidirsi nelle sue braccia. Lei lo spinse da parte e si alzò.

«Ah, mio povero Newland ... Immagino che questo dovesse succedere. Ma non cambia minimamente la situazione», disse, guardando a sua volta verso di lui dal caminetto.

«Quanto a me, cambia completamente la mia vita.»

«No, no. Non deve, non può cambiarla. Tu sei fidanzato con May Welland e io sono sposata.»

Anche lui si alzò, eccitato e fermo. «Sciocchezze! È troppo tardi per ripensarci. Non abbiamo il diritto di mentire agli altri o a noi stessi. Lasciamo stare il tuo matrimonio; ma tu mi vedi sposare May dopo quanto è accaduto?»

Ella era in piedi, silenziosa, con gli esili gomiti appoggiati al caminetto e il profilo riflesso nello specchio alle sue spalle. Una delle ciocche dello chignon si era allentata e le pendeva sul collo; sembrava stravolta, quasi invecchiata.

«Non riesco a immaginare», disse alla fine, «come farai a porre quella domanda a May. Tu sì?»

Lui scrollò le spalle in segno di fastidio. «È troppo tardi per agire diversamente.»

«Tu lo dici perché è la cosa più facile da dire in questo momento ... non perché sia vero. In effetti è troppo tardi per fare qualcosa, tranne ciò che noi due abbiamo deciso di fare.»

«Ah, non ti capisco!»

Ellen fece un sorriso forzato che le sciupò il viso anziché renderlo più disteso. «Non capisci perché non ti sei fatto ancora un'idea di quanto hai cambiato le cose per me: oh, fin dall'inizio ... molto prima di sapere tutto quello che avevi fatto per me.»

«Tutto quello che avevo fatto?»

«Sì. Dapprima non mi ero assolutamente accorta che qui la gente era sospettosa nei miei riguardi ... che mi giudicava una persona di pessimo carattere. Sembra che si siano addirittura rifiutati di incontrarmi a cena. Questo l'ho scoperto dopo; e come hai convinto tua madre ad

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accompagnarti dai van der Luyden; e come hai insistito per annunciare il tuo fidanzamento al ballo a casa di Beaufort, di modo che io potessi avere due famiglie a sostenermi, anziché una ...»

Al che egli scoppiò in una risata.

«Immagina un po'», disse lei, «quanto ero stupida e sbadata! Di tutto questo non sapevo niente, finché un giorno la nonna non è sbottata. Per me New York voleva semplicemente dire pace e libertà: voleva dire tornare a casa. Ed ero talmente felice di essere in mezzo alla mia gente, che tutti quelli che incontravo sembravano persone cortesi, buone e contente di vedermi. Ma fin dall'inizio», continuò, «mi sono accorta che non c'era nessuno gentile come te! Nessuno che mi desse una spiegazione logica perché facessi ciò che in un primo momento sembrava tanto difficile e ... inutile. Le brave persone non mi convincevano; sentivo che non avevano mai avuto tentazioni. Ma tu sapevi! Tu capivi! Ti eri accorto che il mondo esterno esercita una forte attrazione ... e tuttavia tu odiavi le cose che il mondo esterno pretende da noi; odiavi la felicità comprata con la slealtà, con la crudeltà e l'indifferenza. Questo era quanto non avevo mai conosciuto in precedenza ... ed è migliore di qualsiasi cosa abbia conosciuto.»

Ellen parlava con voce bassa e regolare, senza piangere e senza dimostrarsi agitata; e ogni sua parola, via via che lei la pronunciava, cadeva sul petto di lui come piombo fuso. Newland era seduto piegato in avanti, tenendo la testa fra le mani, fissando il tappeto e la punta della scarpetta di raso che le spuntava da sotto la gonna. Tutto a un tratto si inginocchiò e le baciò la scarpetta.

Ellen si chinò su di lui, posandogli le mani sulle spalle e guardandolo con occhi talmente penetranti che lui rimase immobile sotto il suo sguardo.

«Ah, non sciupiamo ciò che tu hai creato!», esclamò Ellen.

«Ormai non posso più pensarla come prima. Non posso amarti, se non rinuncio a te.»

Newland le tese le braccia con struggimento: ma lei si ritrasse e rimasero l'uno di fronte all'altra, divisi dalla distanza che le loro parole avevano creato. Poi, bruscamente, la rabbia di lui traboccò.

«E Beaufort? È lui destinato a sostituirmi?»

Mentre queste parole gli sfuggivano, si tenne pronto a ricevere una risposta rovente di rabbia, che avrebbe gradito come esca da aggiungere al fuoco della sua. Ma Madame Olenska si limitò a impallidire ancora di più, rimanendo con le braccia pendenti e il capo leggermente chino, come era solita fare quando stava riflettendo su un problema.

«Ti sta già aspettando dalla signora Struthers; perché non vai a raggiungerlo?», disse malignamente Archer.

Ellen si girò per suonare il campanello, «Stasera non uscirò; di' al cocchiere di andare a prendere la signora marchesa11», disse quando la cameriera rispose.

Richiusasi la porta, Archer seguitò a guardarla con freddezza. «Perché questa rinuncia? Dato che mi dici che ti senti sola, non ho nessun diritto di tenerti lontana dai tuoi amici.»

Ellen accennò a un sorriso sotto le ciglia umide. «Non mi sentirò più sola. Ero sola; avevo paura. Ma il vuoto e il buio sono spariti; adesso, quando mi guardo dentro, mi sento come un bambino che entra di notte in una stanza dove c'è sempre una luce accesa.»

11 suo tono e la sua espressione la avvolgevano ancora in una sorta di tenera inaccessibilità e di nuovo Archer mormorò: «Non ti capisco!».

«Eppure May la capisci!»

A questo rimbecco egli arrossì, ma tenne gli occhi su di lei. «May è disposta a rinunciare a me.»

«Come? Tre giorni dopo che tu l'hai implorata in ginocchio di anticipare la data del vostro matrimonio?»

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«Si è rifiutata; questo mi dà il diritto ...»

«Ah, tu mi hai insegnato quanto è brutta questa parola», disse lei.

Lui si voltò dall'altra parte con una sensazione di enorme stanchezza. Aveva l'impressione di avere lottato per ore a scalare un ripido precipizio e, proprio quando con grandissimo sforzo era riuscito a raggiungere la cima, aveva lasciato andare la presa e stava cadendo a capofitto nell'oscurità.

Se avesse potuto abbracciarla di nuovo, forse sarebbe riuscito a spazzare via le sue argomentazioni; ma lei lo teneva ancora a distanza mediante qualcosa di impenetrabilmente distaccato nello sguardo e nell'atteggiamento e il senso di rispetto per la sua sincerità da parte di lui. Alla fine, egli cominciò a supplicarla.

«Se lo facciamo ora,dopo sarà peggio ... peggio per tutti...»

«No, no, no!», disse Ellen quasi gridando, come se lui le mettesse paura. In quel momento il campanello echeggiò a lungo per tutta la casa. Non avevano sentito nessuna carrozza fermarsi davanti all'uscio di strada e rimasero immobili, lanciandosi occhiate allarmate.

All'esterno del salotto si udì Nastasia dirigersi verso la porta d'ingresso e aprirla. Un attimo dopo la domestica entrò con un telegramma che porse alla contessa Olenska.

«La signora è stata molto felice di ricevere i fiori», disse Nastasia, lisciandosi il grembiule. «Credeva che fosse stato il suo signor marito23 a mandarglieli. Ha pianto un po' e ha detto che era una pazzia.»

La sua padrona sorrise e prese la busta gialla, l'aprì e l'avvicinò alla lampada; poi, quando la porta si richiuse, diede il telegramma ad Archer.

Era datato da St Augustine e indirizzato alla contessa Olenska. Newland lesse: «Telegramma della nonna ha ottenuto successo. Papà e mamma consentono matrimonio dopo Pasqua. Telegrafo a Newland. Troppo felice per trovare altre parole. Ti saluto con affetto. Tua riconoscente May».

Mezz'ora dopo Archer, girata la chiave della porta di casa sua, trovò ad attenderlo una busta simile alla prima sul tavolo dell'ingresso, posata in cima al mucchio di biglietti e lettere destinato a lui. Anche questo messaggio era di May Welland e diceva: «Papà e mamma consentono matrimonio martedì dopo Pasqua ore dodici chiesa della Grazia otto damigelle contatta pastore sono tanto felice ti amo May».

Archer accartocciò il foglio giallo come se con quel gesto fosse possibile annullare la notizia che conteneva. Poi tirò fuori un taccuino e ne girò le pagine con dita tremanti; ma non trovò ciò che voleva e, cacciandosi in tasca il telegramma, salì le scale.

Attraverso la porta dello stanzino che serviva a Janey da spogliatoio e boudoir si intravedeva una luce. Il fratello vi bussò con impazienza. La porta si aprì e sulla soglia apparve Janey nella sua vetusta vestaglia di flanella rossa e con i capelli tenuti dai bigodini, pallida e preoccupata.

«Newland! Mi auguro che quel telegramma non porti brutte notizie! Ho aspettato apposta nel caso che ...» (Niente della sua corrispondenza sfuggiva all'attenzione di Janey.)

Non badò alla domanda della sorella. «Senti... in che giorno viene Pasqua quest'anno?»

Lei apparve scandalizzata da tanta barbara ignoranza. «Pasqua! Ma Newland! Nella prima settimana d'aprile, naturalmente. Perché?»

«La prima settimana?» Sfogliò di nuovo le pagine del suo taccuino, facendo rapidi calcoli a bassa voce. «La prima settimana, hai detto?» Scoppiò a ridere gettando indietro il capo.

«Per amor del cielo, che succede?»

«Niente di importante, tranne che fra un mese mi sposerò.»

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Janey lo abbracciò e se lo strinse al seno coperto di flanella rossa. «Oh, Newland, che bello! Ma, tesoro, perché seguiti a ridere? Stai zitto, altrimenti svegli la mamma!»

Libro Secondo

Capitolo diciannovesimoLa giornata era fresca, mossa da un allegro vento primaverile che sollevava nuvole di polvere.

Tutte le anziane signore appartenenti a entrambe le famiglie avevano tirato fuori le scolorite pellicce di zibellino e gli ermellini ingialliti dal tempo. L'odore di canfora proveniente dai banchi in prima fila quasi soffocava il tenue profumo dei gigli ammassati intorno all'altare.

Newland Archer, a un segnale del sagrestano, era uscito dalla sagrestia e aveva preso posto insieme al suo testimone sul gradino del coro della chiesa della Grazia.

Il segnale voleva dire che era stata avvistata la carrozza chiusa che trasportava la sposa e suo padre; ma sicuramente ci sarebbe voluto un notevole lasso di tempo per consultarsi e mettersi a posto in anticamera, dove le damigelle d'onore della sposa erano già radunate come un mazzo di boccioli di primavera. Durante questo inevitabile intervallo lo sposo, trattenendo la propria impazienza, doveva esporsi da solo agli sguardi degli ospiti riuniti; e Archer aveva affrontato con rassegnazione sia questa formalità, sia tutte le altre che trasformavano un matrimonio celebrato a New York nell'Ottocento in una cerimonia che sembrava appartenere agli albori della storia. Tutto era ugualmente facile o, se si preferisce, ugualmente arduo lungo il sentiero che Newland si era impegnato a percorrere, attenendosi agli ordini confusi del suo testimone, con la stessa devota osservanza con cui altri sposi avevano ubbidito ai suoi quando era toccato a lui accompagnarli attraverso lo stesso labirinto.

Fin qui era ragionevolmente sicuro di avere adempiuto tutti i suoi obblighi. Gli otto mazzi delle damigelle d'onore, formati da bianchi lillà e mughetti, erano stati mandati in tempo, come pure i gemelli da polsino d'oro e zaffiri per gli otto valletti, insieme al fermacravatta ornato da un occhio di gatto per il testimone; Archer era rimasto in piedi fino a notte inoltrata nel tentativo di modificare la forma delle frasi di ringraziamento per l'ultimo arrivo di regali da parte di amici e di ex amori; gli onorari per il vescovo e per il rettore erano al sicuro in tasca del suo testimone; il suo bagaglio era a casa della vedova di Manson Mingott, dove sarebbe stato offerto il rinfresco, come pure gli abiti da viaggio con i quali si sarebbe cambiato; ed era stato prenotato uno scompartimento riservato sul treno che avrebbe portato la giovane coppia alla sua destinazione sconosciuta (non rivelare il posto in cui si sarebbe trascorsa la prima notte di nozze rientrava in uno dei più inviolabili tabù del cerimoniale preistorico).

«Tutto bene con l'anello?», sussurrò il giovane van der Luyden Newland, alle prime armi nelle sue funzioni di testimone dello sposo e schiacciato dal peso delle sue responsabilità.

Archer fece il gesto che aveva visto fare da tanti sposi: con la mano destra senza guanto tastò la tasca del panciotto grigio scuro e si assicurò che il cerchietto d'oro (internamente inciso con Newland a May, ... aprile 187 ...) fosse al suo posto; poi, riassumendo l'atteggiamento di prima e stringendo con la mano sinistra il cilindro e i guanti grigioperla con le impunture nere, rimase fermo a guardare la porta della chiesa.

Sopra la sua testa, la marcia di Haendel aumentò di intensità invadendo le volte di finta pietra e portando sulle sue onde lo sbiadito ricordo dei tanti matrimoni cui aveva assistito, con allegra indifferenza, stando in piedi sullo stesso gradino del coro a guardare altre spose risalire lentamente la navata per raggiungere altri sposi.

«Sembra proprio di stare a una prima dell'opera!», pensò nel riconoscere tutte le stesse facce negli stessi palchetti (pardon, nei banchi di chiesa), e domandandosi se, quando fosse sonata la

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tromba del giudizio universale, la moglie di Selfridge Merry si sarebbe presentata con le stesse piume di struzzo che inalberava sul cappellino, se la signora Beaufort avrebbe ostentato gli stessi orecchini di diamanti e lo stesso sorriso, e se nell'altro mondo avessero già preparato per loro idonei palchi di proscenio.

Dopo di che ebbe ancora tempo per passare in rivista, uno alla volta, i volti familiari delle prime file; quelli delle signore sprizzanti curiosità ed eccitazione, quelli immusoniti degli uomini per aver dovuto indossare la redingote di buonora e per la prospettiva di doversi azzuffare in cerca di cibo durante il rinfresco nuziale.

«Peccato che il rinfresco si faccia a casa della vecchia Catherine», come lo sposo poteva immaginare che stesse dicendo Reggie Chivers. «Mi hanno detto, però, che Lovell Mingott ha insistito sulla necessità di farlo preparare dal loro capocuoco, sicché dovrebbe andar bene. Tutto sta a saperci arrivare.» Inoltre poteva figurarsi Sillerton Jackson aggiungere con quella sua aria saputa: «Caro mio, non hai sentito? Sarà servito a tavolino, secondo la nuova usanza inglese».

Gli occhi di Archer indugiarono un attimo verso il banco di sinistra, dove sua madre, che era entrata in chiesa al braccio del signor Henry van der Luyden, sedeva piangendo sommessamente sotto il velo di pizzo Chantilly e tenendo le mani infilate nel manicotto d'ermellino della nonna.

«Povera Janey!», pensò lui, guardando sua sorella, «anche se gira la testa contorcendosi tutta riesce a vedere soltanto la gente seduta nei radi banchi in prima fila; e per la maggior parte si tratta dei Newland e dei Dagonet, che sono degli sciattoni.»

Al di qua del nastro bianco che separava i posti riservati alle famiglie, vide Beaufort, alto e col viso paonazzo, che scrutava le donne con sguardo arrogante. A fianco gli sedeva la moglie, tutta cincillà argentato e violette; e dall'altra parte del nastro la testa impomatata di Lawrence Lefferts sembrava montasse la guardia all'idolo invisibile della «Forma Perfetta» che presiedeva alla cerimonia.

Archer si chiese quante magagne gli occhi penetranti di Lefferts avrebbero scoperto nella liturgia riservata alla sua divinità; poi improvvisamente si ricordò che un tempo anche lui aveva ritenuto importanti problemi del genere. Le cose che avevano tenuto occupate le sue giornate apparivano ormai come una parodia infantile della vita, o come le dispute di accademici medioevali su termini astrusi che nessuno aveva mai capito. Una burrascosa discussione se fosse o non fosse il caso di «mettere in mostra» i regali di nozze aveva turbato le ore immediatamente precedenti la cerimonia nuziale; e ad Archer sembrava assurdo che persone adulte si mettessero in agitazione per inezie del genere e che il problema si fosse risolto (in senso negativo) quando la signora Welland aveva detto piangendo risentita: «Oltre tutto dovrei permettere che i reporter girino liberamente per casa mia». Eppure c'era stato un tempo in cui Archer aveva avuto idee chiare e piuttosto combattive a proposito di questi problemi; e tutto ciò che riguardava modi di vivere e usanze della sua piccola tribù gli sembrava che avesse un'importanza universale.

«E in tutto quel frattempo», rifletteva, «secondo me viveva gente vera, alla quale succedevano cose vere ...»

«Eccoli che arrivano!», sussurrò eccitato il testimone dello sposo; ma questi sapeva meglio di lui come andavano le cose.

Il cauto aprirsi della porta della chiesa stava a significare soltanto che il signor Brown, gerente della scuderia di cavalli da nolo (in tonaca nera per la circostanza, nello svolgimento delle sue alterne funzioni di sagrestano), stava dando un'occhiata preliminare alla situazione prima di fare schierare le sue forze.

La porta venne richiusa senza far rumore; poi, trascorso un altro intervallo, fu spalancata solennemente e un mormorio attraversò tutta la chiesa: «La famiglia!».

Per prima entrò la signora Welland al braccio del figlio maggiore. Il suo faccione roseo era adeguatamente sussiegoso e il suo vestito di raso color prugna e azzurro pallido sui fianchi, nonché

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il cappellino di raso con piume di struzzo azzurre, incontrarono la generale approvazione; ma prima che si fosse sistemata facendo frusciare pomposamente l'abito nel banco di fronte a quello della signora Archer, gli astanti stavano allungando il collo per vedere chi entrava dopo di lei. Il giorno avanti erano circolate chiacchiere incontrollate in merito al fatto che la vedova di Manson Mingott, nonostante il suo impedimento fisico, si era decisa ad assistere alla cerimonia; e l'idea era così in sintonia con la sua indole sportiva che nei circoli si raccoglievano forti scommesse sulla eventualità che potesse percorrere a piedi la navata e schiacciarsi in un banco. Si sapeva che aveva insistito per mandare il suo falegname di fiducia a valutare la possibilità di smontare il pannello terminale del banco in prima fila e a prendere le misure dello spazio tra il sedile e la parte anteriore; ma il risultato era stato scoraggiante e per tutta una giornata d'angoscia la famiglia l'aveva osservata mentre si trastullava con l'idea di essere spinta lungo la navata sulla sua enorme poltrona a rotelle, per rimanervi seduta come su un trono ai piedi del coro.

La prospettiva di questa assurda esibizione della sua persona era così penosa per i suoi parenti, che essi dovevano aver ricoperto d'oro l'ingegnoso individuo il quale, tutto a un tratto, aveva scoperto che la poltrona a rotelle era troppo larga per passare tra i montanti di ferro del tendone, che si estendeva dalla porta della chiesa fino al paracarro. L'idea di togliere di mezzo il tendone e di esibire la sposa alla folla di sartine e cronisti che si accalcavano all'esterno nei punti in cui i teli di canapa si congiungevano, da dove era possibile sbirciare, aveva oltrepassato perfino il livello di audacia della vecchia Catherine, sebbene per un momento anche lei ne avesse vagliato la possibilità. «Potrebbero fare una fotografia alla mia bambina e metterla sui giornali», aveva esclamato la signora Welland quando le era stato accennato all'ultima trovata di sua madre; e di fronte a questa inconcepibile sconvenienza, l'intero clan era indietreggiato sentendosi accapponare la pelle. La nonna aveva dovuto cedere; ma solo dietro promessa che il rinfresco nuziale si sarebbe tenuto sotto il suo tetto, sebbene (come diceva il parentado di Washington Square) con la casa dei Welland a portata di mano era una spesa inutile dover contrattare una tariffa speciale con Brown per farsi scarrozzare fino a quel posto fuori mano.

Anche se tutti questi preliminari erano stati ampiamente divulgati dai Jackson, un'allegra minoranza era ancora aggrappata alla convinzione che la vecchia Catherine avrebbe fatto la sua comparsa in chiesa, ma il grado di eccitazione si era nettamente abbassato quando si era saputo che era stata rimpiazzata dalla nuora. La moglie di Lovell Mingott aveva il colorito acceso e lo sguardo vitreo che assumevano le signore della sua età e con le sue abitudini quando si sforzavano di entrare in un abito nuovo; ma, una volta passata la delusione causata dalla mancata comparsa di sua suocera, tutti furono d'accordo nell'ammettere che il suo pizzo Chantilly nero su raso color lilla, completato da un cappellino ornato di violette di Parma, costituiva il più felice contrasto con il color prugna e l'azzurro della signora Welland. Di gran lunga diversa fu l'impressione prodotta dalla scarna e affettata signora che veniva immediatamente dopo, al braccio del signor Mingott, in un selvaggio disordine di strisce, frange e sciarpe fluttuanti; e appena questa apparizione entrò nel campo visivo di Archer, questi sentì che il cuore gli si stringeva e smetteva di battere.

Aveva dato per scontato che la marchesa Manson fosse ancora a Washington, dove era andata circa quattro settimane prima con la nipote, Madame Olenska. Era risaputo che la loro brusca partenza era dovuta al desiderio di Madame Olenska di sottrarre la zia alla funesta eloquenza del dottor Agathon Carver, il quale era quasi riuscito ad arruolarla come recluta per la Valle dell'Amore; in queste circostanze nessuno si sarebbe aspettato che le due signore tornassero in occasione del matrimonio. Per un istante Archer rimase con gli occhi incollati sulla fantastica figura di Medora, sforzandosi di vedere chi la seguisse; ma la breve processione era al termine, poiché tutti i componenti di minore importanza della famiglia avevano preso posto, e gli otto alti valletti, riunendosi come uccelli o insetti in procinto di migrare, stavano già sgusciando in anticamera attraverso le porte laterali.

«Bada, Newland, eccola!», sussurrò il testimone dello sposo.

Archer si riprese con un sussulto.

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Evidentemente era trascorsa un'eternità dal momento in cui il suo cuore aveva cessato di battere, poiché la processione in cui prevalevano i colori bianco e rosa era effettivamente a metà percorso nella navata, il vescovo, il pastore e due assistenti vestiti di bianco si libravano intorno all'altare coperto di fiori e i primi accordi della sinfonia di Spohr spargevano le loro note come petali davanti alla sposa.

Archer aprì gli occhi (ma erano rimasti veramente chiusi come aveva immaginato?) e sentì che il suo cuore riprendeva a fare il suo dovere. La musica, il profumo dei gigli sull'altare, l'apparizione della nuvola di tulle e fiori d'arancio che gli si avvicinava fluttuando, il viso della signora Archer improvvisamente scosso da singhiozzi di felicità, il mormorio benedicente della voce del pastore, le ordinate evoluzioni delle otto damigelle d'onore vestite di rosa e degli otto valletti vestiti di nero: tutte queste visioni, melodie e sensazioni, di per sé familiari, e così indicibilmente estranee e prive di significato nel suo nuovo rapporto con esse, si mescolavano confusamente nella sua mente.

«Mio Dio», pensò, «dove ho messo l'anello?», e ancora una volta ripeté il gesto convulso dello sposo.

Poi, in un attimo, May gli fu accanto. E da lei scaturiva un tale splendore che una vaga sensazione di calore gli arrivò attraverso il suo torpore. Ritrovò se stesso e le sorrise guardandola negli occhi.

«Fratelli carissimi, siamo qui riuniti... », esordì il pastore.

L'anello ornava la mano di May, il vescovo aveva impartito la benedizione, le damigelle d'onore stavano per riprendere il loro posto nella processione e l'organo stava per esplodere con le note della marcia di Mendelssohn, senza la quale nessuna coppia di novelli sposi era mai apparsa a New York.

«Il braccio ... dalle il braccio, dico/», sibilò nervosamente il giovane Newland; e ancora una volta Archer divenne consapevole di essersi allontanato alla deriva nell'ignoto. Che cosa era stato a spingerlo fino a quel punto?, si chiese. Forse il rapido apparire, in mezzo agli anonimi spettatori che occupavano il transetto, di una crocchia di capelli scuri sotto un cappello che, un attimo dopo, si rivelò appartenente a una sconosciuta signora dal naso lungo, così ridicolmente diversa dalla persona la cui immagine aveva evocato, che lui si domandò se non stesse cominciando a soffrire di allucinazioni.

E ora lui e sua moglie stavano percorrendo lentamente la navata, trasportati dall'onda lieve delle note di Mendelssohn e attratti dal richiamo della primavera che giungeva loro attraverso le porte spalancate, mentre in fondo al tunnel formato dai teloni scalciavano e si esibivano i sauri della signora Welland con grandi coccarde bianche sul frontale.

Il valletto, anche lui con una coccarda bianca ancora più grande sul bavero, aiutò May ad avvolgersi nel suo candido mantello e Archer saltò sul brum accanto a lei. Lei si volse verso di lui con un sorriso di trionfo e le loro mani si congiunsero sotto il velo.

«Tesoro!», disse Archer ... e improvvisamente gli si spalancò davanti lo stesso nero abisso in cui egli si sentì sprofondare sempre più in basso, mentre con voce uniforme e allegra continuava a divagare: «Sì, certo, pensavo di aver perso l'anello; nessun matrimonio sarebbe perfetto se quel povero diavolo di uno sposo non incappasse in una situazione del genere. Ma tu mi hai fatto aspettare, lo sai? Ho avuto tempo per pensare a tutte le cose spaventose che sarebbero potute accadere».

Lei lo colse di sorpresa girandosi e gettandogli le braccia al collo, in piena Quinta Strada. «Ma niente può accadere ora e fino a quando saremo insieme, non è vero Newland?»

Ogni particolare della giornata era stato pianificato così attentamente che la giovane coppia, dopo il rinfresco di nozze, ebbe tutto il tempo per indossare gli abiti da viaggio, scendere l'ampio scalone dei Mingott tra damigelle festanti e genitori piangenti e salire sul brum sotto la tradizionale doccia di riso e il lancio di pantofole di raso; e rimaneva ancora una mezz'ora di tempo per raggiungere la stazione, comprare gli ultimi settimanali all'edicola, dandosi l'aria di viaggiatori esperti, e sistemarsi

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nello scompartimento riservato nel quale la domestica di May aveva già posato il suo mantello da viaggio color tortora e messo in evidenza la nuova borsa da toletta proveniente da Londra.

Le vecchie zie du Lac di Rhinebeck avevano messo a disposizione della coppia di sposi la loro casa con una prontezza dettata dalla prospettiva di trascorrere una settimana a New York con la signora Archer; e Archer, felice di evitare il solito «appartamento nuziale» in un albergo di Filadelfia o di Baltimora, aveva accettato con pari slancio.

May era affascinata dall'idea di andare in campagna e si era divertita come una bambina agli sforzi inutili delle otto damigelle d'onore per scoprire dove si trovasse il loro rifugio segreto. Era ritenuto molto «inglese» prestare la villa di campagna, cosa che conferiva un ultimo tocco di raffinatezza a quello che era generalmente considerato il matrimonio più brillante dell'anno; ma a nessuno era concesso sapere dove fosse la casa, tranne ai genitori dello sposo e della sposa, i quali, se venivano interrogati, serravano le labbra e dicevano in tono misterioso: «Non ci hanno detto niente», cosa palesemente vera, dal momento che già lo sapevano.

Una volta che si furono sistemati nel loro scompartimento, e che il treno si fu inoltrato nel pallido paesaggio primaverile, allontanandosi dalla interminabile periferia di costruzioni di legno, la conversazione divenne più facile di quanto Archer si fosse aspettato. May era ancora, nell'aspetto e nell'espressione, la ragazza semplice del giorno prima, desiderosa di scambiare opinioni con lui sugli incidenti del matrimonio e di discuterne in modo distaccato come avrebbe fatto una damigella d'onore con uno dei valletti. In un primo momento Archer aveva supposto che tale freddezza fosse un modo per nascondere un tremito interiore; ma i chiari occhi di lei lasciavano intravedere la più serena inconsapevolezza. Per la prima volta era sola con suo marito; ma suo marito era semplicemente l'affascinante compagno di sempre. Non c'era nessuno che le piacesse altrettanto, nessuno in cui avesse la stessa totale fiducia e lo «scherzo» finale di tutta la deliziosa avventura del fidanzamento e del matrimonio consisteva nell'andarsene in viaggio da sola con lui, come una persona adulta, come una «donna sposata».

Era meraviglioso che — come lui aveva appreso nel giardino della Missione di St Augustine — tale profondità di sentimento potesse convivere con una totale mancanza di immaginazione. Tuttavia si ricordò che anche allora lei lo aveva sorpreso quando aveva di nuovo assunto un atteggiamento neutro da ingenua fanciulla dopo che la sua coscienza si era liberata del fardello che la opprimeva; e si rese conto che probabilmente May sarebbe vissuta affrontando ogni singola esperienza limitatamente alle sue capacità, ma non ne avrebbe anticipata nessuna dandovi sia pure uno sguardo di sfuggita.

Forse era quella capacità di straniarsi dalle cose della vita che le rendeva limpidi gli occhi e dava al suo viso più l'apparenza di un prototipo che il carattere di un individuo; come se fosse stata scelta per posare per una statua raffigurante la Virtù Civica o una dea greca. Il sangue che le scorreva così vicino alla pelle chiara avrebbe potuto essere più un fluido di difesa che un elemento devastante; eppure il suo aspetto di indistruttibile giovinezza non la faceva apparire né energica né ottusa, ma soltanto semplice e schietta. Nel bel mezzo di queste riflessioni, improvvisamente Archer ebbe la sensazione di guardarla con l'occhio allucinato di un estraneo, ragion per cui si ingolfò in una descrizione del rinfresco di nozze e della presenza smisuratamente invadente ed esultante di nonna Mingott.

May si apprestò a trattare l'argomento con divertita schiettezza. «Comunque sono rimasta sorpresa — tu no? — che alla fin fine zia Medora sia venuta. Ellen aveva scritto che nessuna delle due stava abbastanza bene per affrontare il viaggio; mi auguro veramente che si sia ristabilita! Hai visto il delizioso merletto antico che mi ha mandato?»

Lui era consapevole che prima o poi il momento sarebbe giunto, ma in un certo senso aveva immaginato che con la forza di volontà avrebbe potuto tenerlo sotto controllo.

«Sì... io ... no: era bello!», disse guardandola senza vederla e domandandosi se, nel momento in cui avesse udito pronunciare quelle due sillabe, tutto il suo mondo minuziosamente costruito gli

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sarebbe crollato addosso come un castello di carte.

«Non sei stanca? Sarà bene prendere un po' di tè appena arrivati. Sono sicuro che le zie hanno preparato tutto in modo perfetto.» Continuò a chiacchierare, tenendole la mano; e il pensiero di May improvvisamente andò allo stupendo servizio da tè e da caffè d'argento di Baltimora mandato dai Beaufort, che si «accompagnava così bene» con i vassoi e i piatti per contorni regalati dallo zio Lovell Mingott.

Nel crepuscolo primaverile il treno si fermò alla stazione di Rhinebeck ed essi si incamminarono lungo il marciapiede verso la carrozza che li aspettava.

«Oh, come sono gentili i Van der Luyden ... hanno mandato a prenderci un loro uomo da Skuytercliff», esclamò Archer, nel momento in cui un individuo dall'aspetto contegnoso e in abito borghese li avvicinava e liberava la cameriera dai bagagli.

«Mi dispiace davvero, signore», disse l'incaricato, «che ci sia stato un piccolo incidente in casa delle signorine du Lac: nel serbatoio dell'acqua si è aperta una falla. È successo ieri e il signor van der Luyden, che lo ha saputo stamattina, ha mandato una domestica col primo treno a preparare la casa del Patroon. Sono sicuro che la troverà perfettamente comoda, signore; e le signorine du Lac hanno mandato là il loro cuoco, così sarà esattamente lo stesso che stare a Rhinebeck.»

Archer guardò l'interlocutore con sguardo talmente inespressivo che quello ripeté in tono ancor più dispiaciuto: «Sarà esattamente la stessa cosa, signore, glielo assicuro», e la voce impaziente di May proruppe, sovrapponendosi a quel silenzio imbarazzato: «Lo stesso che a Rhinebeck? La casa del Patroon? Ma sarà centomila volte meglio, non è vero, Newland? È veramente carino e gentile da parte del signor van der Luyden l'averci pensato».

E appena si allontanarono in carrozza, con la domestica seduta accanto al cocchiere e le smaglianti valigie sistemate sul sedile di fronte, lei continuò elettrizzata: «Chi lo avrebbe mai creduto? Non ci sono mai stata, e tu? I van der Luyden mostrano quella casa a pochissime persone. Ma l'hanno aperta per Ellen, mi pare, e lei mi ha detto che è un posto delizioso: lei dice che è l'unica casa che ha visto in America, nella quale riesce a immaginarsi perfettamente felice».

«Bene, lo saremo anche noi, non è vero?», esclamò allegramente suo marito; e lei rispose col suo sorriso fanciullesco: «È proprio il nostro inizio fortunato ... la meravigliosa fortuna che avremo sempre insieme!».

Capitolo ventesimo«Tesoro, naturalmente dobbiamo andare a cena dalla signora Carfry», disse Archer; e la moglie lo

guardò con cipiglio preoccupato, attraverso il monumentale servizio di ceramica inglese disposto sul tavolo da colazione della loro pensione.

In tutto il deserto di pioggia in cui si trasforma la Londra autunnale, gli Archer conoscevano solo due persone; e proprio queste due persone avevano diligentemente evitato, secondo la tradizione della vecchia New York che sosteneva non essere «dignitoso» imporre la propria presenza alle conoscenze che si hanno in paesi stranieri.

La signora Archer e Janey, durante le loro visite in Europa si erano attenute così rigidamente a questa regola e agli amichevoli tentativi di approccio dei loro compagni di viaggio avevano opposto un'aria di riservatezza talmente impenetrabile, che avevano quasi raggiunto il primato di non avere mai scambiato una parola con uno «straniero» se non con gli addetti agli alberghi o alle stazioni ferroviarie. Con i loro stessi compatrioti — tranne quelli precedentemente conosciuti e muniti di adeguate credenziali — si comportavano con sussiego ancora più accentuato; sicché, se non si imbattevano in un Chivers, un Dagonet o un Mingott, trascorrevano i loro mesi all'estero in un interminabile tète-à-tète. Ma talvolta le massime precauzioni sono inutili; e una notte, a Bolzano, una delle due signore inglesi che occupavano la stanza dall'altra parte del corridoio (nomi, vestiti e

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stato sociale delle quali Janey già conosceva a fondo) aveva bussato alla loro porta per chiedere se la signora Archer avesse una bottiglia di linimento. L'altra — che era la signora Carfry, sorella della seccatrice — era stata colpita da un improvviso attacco di bronchite; e la signora Archer, che non viaggiava mai senza portarsi dietro una completa farmacia di famiglia, fortunatamente fu in grado di fornire il rimedio necessario.

La signora Carfry era molto malata e, dal momento che lei e sua sorella, la signorina Harle, viaggiavano sole, furono profondamente riconoscenti alle signore Archer, le quali furono prodighe di medicine efficaci e la cui brava domestica aiutò ad assistere l'inferma fino alla sua completa guarigione.

Quando le Archer partirono da Bolzano non avevano la minima idea che avrebbero rivisto la signora Carfry e la signorina Harle. Secondo la signora Archer, niente sarebbe stato così poco dignitoso quanto imporsi all'attenzione di uno «straniero» al quale fosse capitato di fare per caso un favore. Ma la signora Carfry e sua sorella, che non conoscevano questo punto di vista e lo avrebbero trovato assolutamente inconcepibile, si sentivano vincolate da eterna gratitudine nei confronti delle «deliziose americane» che erano state così gentili con loro a Bolzano. Con commovente fedeltà, coglievano ogni occasione per incontrare la signora Archer e Janey durante i loro viaggi nel continente, e mostravano una capacità soprannaturale nello scoprire quando esse si sarebbero fermate a Londra andando e venendo dagli Stati Uniti. L'intimità si fece indissolubile e la signora Archer e Janey, ogni qualvolta approdavano all'albergo Brown, erano attese da due affettuose amiche, le quali, come loro, coltivavano felci in cellette di vetro, lavoravano il macramè, leggevano le memorie della baronessa Bunsen ed esprimevano pareri sui titolari dei principali pulpiti di Londra. Come diceva la signora Archer, conoscendo la signora Carfry e la signorina Harle Londra diventava «un'altra cosa»; e da quando Newland si era fidanzato, il legame tra le due famiglie si era così consolidato che si ritenne «più che giusto» mandare un invito di nozze alle due gentildonne inglesi, le quali a loro volta inviarono un delizioso mazzetto di fiori alpini secchi sotto vetro. E sulla banchina, quando Archer e sua moglie salparono per l'Inghilterra, le ultime parole della signora Archer erano state: «Devi far conoscere May alla signora Carfry».

Newland e sua moglie non avevano la minima intenzione di obbedire a quest'ordine; ma la signora Carfry, con la sua consueta perspicacia, li aveva rintracciati e aveva inviato loro un invito a cena; ed era a proposito di questo invito che May Archer aggrottava le sopracciglia tra un tè e una focaccina.

«Per te va bene, Newland; tu le conosci. Ma io mi sentirò molto a disagio tra tutta quella gente che non conosco. E cosa indosserò?»

Newland si appoggiò allo schienale della sedia e le sorrise. Lei sembrava più bella e più che mai faceva pensare a Diana. L'umidità del clima inglese sembrava avere reso più intensa la freschezza delle sue gote e più attenuata la dura esilità delle sue forme virginali; oppure era semplicemente l'intimo calore della felicità, che risplendeva come una luce sotto il ghiaccio.

«Indossare, cara? Credevo che la settimana scorsa fosse arrivato da Parigi un baule strapieno.»

«Certamente. Volevo dire che non saprei quale vestito indossare.» Lei fece un po' il broncio. «Non ho mai cenato fuori a Londra; e non voglio apparire ridicola.»

Lui cercò di farle superare l'imbarazzo. «Ma le inglesi non vestono come tutte le altre donne la sera?»

«Newland! Come puoi fare domande così sciocche? Loro vanno a teatro indossando vecchi abiti da ballo e a testa scoperta.»

«Già, forse i vestiti nuovi da ballo se li mettono quando sono in casa; ma in ogni modo non la signora Carfry e la signorina Harle. Loro porteranno cappellini come fa mia madre ... anche scialli; scialli molto morbidi.»

«Sì, ma come saranno vestite le altre donne?»

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«Non così bene come te, cara», replicò lui, chiedendosi che cosa avesse fatto sviluppare in lei lo stesso morboso interesse per i vestiti che aveva Janey.

Lei spinse indietro la sedia con un sospiro. «Questo è carino da parte tua, Newland; ma non mi aiuta molto.»

Lui ebbe un'ispirazione: «Perché non metti il tuo abito da sposa? Con quello non è possibile sbagliare, no?».

«Oh, caro, lo farei se lo avessi qui! Ma è a Parigi, deve essere accomodato per il prossimo inverno, e Worth non l'ha ancora mandato indietro».

«Oh, beh», disse Archer alzandosi. «Guarda qui... la nebbia si sta alzando. Se facciamo un salto alla National Gallery, potremmo dare un'occhiata ai quadri.»

Newland Archer e la moglie erano sulla via del ritorno, dopo un viaggio di nozze durato tre mesi che May, scrivendo alle sue amiche, definiva in modo vago «felice».

Non erano andati a vedere i laghi italiani: ripensandoci, Archer non era stato in grado di raffigurarsi sua moglie in quel particolare scenario. Dopo un mese trascorso a Parigi nei laboratori dei sarti da donna, May preferiva darsi all'alpinismo a luglio e andare al mare in agosto. Si attennero scrupolosamente a questo programma, trascorrendo il mese di luglio a Interlaken e a Grindelwald e il mese di agosto in un posticino chiamato Étre-tat, sulla costa della Normandia, che qualcuno aveva consigliato loro in quanto curioso e tranquillo. Una volta o due, trovandosi in montagna, Archer aveva indicato verso sud dicendo: «Là c'è l'Italia»; e May, che stava camminando in una aiola di genziane, aveva sorriso allegramente, rispondendo: «Sarebbe bellissimo andarci il prossimo inverno, sempre che tu non debba rimanere a New York».

Ma in realtà viaggiare la interessava ancor meno di quanto lui si fosse aspettato. Lei lo considerava soltanto (una volta che i suoi vestiti erano stati ordinati) una più ampia possibilità di camminare, andare a cavallo, nuotare e allenare la mano in quell'affascinante nuovo gioco che era il tennis su prato; e quando finalmente fecero ritorno a Londra (dove avrebbero trascorso due settimane mentre lui ordinava i suoi vestiti), lei non nascondeva più l'impazienza con cui non vedeva l'ora di salpare.

A Londra niente la interessava se non i teatri e i negozi; e trovò i teatri meno entusiasmanti dei cafès chantants di Parigi dove, sotto gli ippocastani in fiore degli Champs Elysées, aveva guardato per la prima volta dalla terrazza del ristorante un pubblico di cocottes, mentre il marito le traduceva le canzoni, limitatamente ai brani che lui riteneva adatti alle orecchie di una novella sposa.

Archer era tornato a tutte le sue vecchie idee sul matrimonio, così come le aveva ereditate. Era meno complicato uniformarsi alla tradizione e trattare May esattamente come i suoi amici trattavano le loro mogli, piuttosto che cercare di mettere in pratica teorie con le quali si era trastullato durante il suo periodo di libertà da scapolo. Era inutile cercare di emancipare una moglie che non supponeva neanche lontanamente di non essere libera; e da tempo aveva scoperto che l'unico modo in cui May ammetteva di utilizzare la libertà consisteva nel deporla sull'altare della sua devozione di moglie. Il suo innato amor proprio la preservava dal farne dono in modo degradante; e sarebbe potuto arrivare anche il momento (come una volta era successo) in cui lei avrebbe trovato la forza di riprendersi tutto se avesse pensato di farlo per il bene del marito. Ma con una concezione del matrimonio così semplice e banale come quella di May, una crisi del genere sarebbe potuta derivare soltanto dall'emergere di qualcosa di assolutamente oltraggioso nel comportamento di lui; e la perfezione dei sentimenti di May nei riguardi di Newland rendeva tutto ciò impensabile. Lui sapeva che, qualsiasi cosa succedesse, lei sarebbe stata sempre fedele, amorosa e priva di risentimento; e ciò lo impegnava a comportarsi con la stessa onestà.

Tutto questo tendeva a riportarlo al suo vecchio modo di pensare. Se la semplicità di May fosse stata il contrassegno di una mentalità gretta, lui si sarebbe irritato e ribellato; ma siccome i tratti del carattere di May, per pochi che fossero, si presentavano sotto lo stesso bell'aspetto del suo viso, lei

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diventava la dea protettrice di tutte le antiche tradizioni a cui lui non era mai venuto meno.

Qualità del genere non erano adatte per animare un viaggio all'estero, anche se facevano di lei una tranquilla e piacevole compagna; ma lui si rese subito conto che esse avrebbero trovato modo di inserirsi al posto giusto nel loro ambiente naturale. Non aveva alcun timore di esserne angustiato, poiché la sua vita artistica e intellettuale sarebbe continuata, come era sempre accaduto, fuori dell'ambito familiare; all'interno del quale non ci sarebbe stato nulla di meschino e di soffocante, in quanto tornare da sua moglie non sarebbe stato mai come entrare in una stanza dall'aria viziata dopo una passeggiata all'aperto. E quando avessero avuto dei bambini, gli angoli vuoti delle vite di entrambi si sarebbero riempiti.

Tutte queste cose gli venivano in mente durante la loro lunga e noiosa gita in carrozza da Mayfair a South Kensington, dove abitavano la signora Carfry e sua sorella. Anche Archer avrebbe preferito sfuggire all'ospitalità delle loro amiche: secondo la tradizione di famiglia, lui aveva sempre viaggiato come turista e spettatore, ostentando una orgogliosa indifferenza per la presenza dei suoi simili. Solo una volta, appena uscito da Harvard, aveva trascorso qualche allegra settimana a Firenze con un gruppo di stravaganti americani europeizzati, ballando tutta la notte in palazzi signorili con gentildonne titolate e giocando d'azzardo per mezze giornate intere con libertini e damerini da salotto; ma tutto gli era apparso irreale come un carnevale, sebbene fosse il divertimento più grande del mondo. Quelle donne bizzarre e cosmopolite, sprofondate in complesse relazioni amorose per le quali sentivano la necessità di confidarsi con chiunque incontrassero, i superbi giovani ufficiali e gli attempati begli spiriti dai capelli tinti, che erano i soggetti o i destinatari dei loro scambi confidenziali, erano troppo diversi dalla gente tra cui era cresciuto Archer, troppo simili a piante esotiche da serra costose e maleodoranti, per attirare a lungo la sua immaginazione. Era fuori discussione far conoscere a sua moglie una società di quel tipo; e durante i suoi viaggi nessun'altra persona aveva mostrato alcun particolare desiderio della sua compagnia.

Non molto tempo dopo essere arrivati a Londra, si era imbattuto nel duca di St Austrey. E il duca, avendolo subito riconosciuto, gli aveva detto in tono cordiale: «Venite a trovarmi, d'accordo?». Ma nessun americano di buon senso l'avrebbe considerata una proposta da prendere in considerazione, ragion per cui l'incontro non ebbe un seguito. Erano anche riusciti a evitare di andare dalla zia inglese di May, la moglie del banchiere, che si trovava ancora nello Yorkshire; in realtà avevano intenzionalmente rimandato di andare a Londra fino all'autunno, affinché il loro arrivo durante quella stagione non sembrasse a quei parenti sconosciuti indiscreto e snobistico.

«Probabilmente non ci sarà nessuno a casa della signora Carfry ..., in questa stagione Londra è un deserto e tu ti sei fatta troppo bella», disse Archer a May, la quale era seduta al suo fianco nella carrozza, così splendida e incontaminata nel suo mantello azzurro cielo bordato di piume di cigno, che sembrava una cattiveria esporla al sudiciume di Londra.

«Non voglio che pensino che vestiamo come selvaggi», replicò lei con uno sdegno che avrebbe potuto offendere la principessa Pocahontas; e lui fu nuovamente colpito dal religioso rispetto che le donne americane, anche fra le meno infatuate di mondanità, avevano per i vantaggi sociali connessi al modo di vestire.

«È la loro corazza», pensò lui, «la loro difesa e la loro sfida contro l'ignoto.» E comprese, per la prima volta, la serietà con la quale May, che era incapace di annodarsi un nastro nei capelli per farsi bella, aveva portato a termine il rito solenne di scegliere e riordinare il suo vasto guardaroba.

Aveva avuto ragione a pensare che al ricevimento dato dalla signora Carfry erano state invitate poche persone. Insieme alla padrona di casa e a sua sorella, trovarono, nel lungo e freddo salotto, solo un'altra signora avvolta in uno scialle, un parroco gioviale che era suo marito, un ragazzo silenzioso che la signora Carfry presentò come suo nipote, e un signore piccolo, di carnagione scura e dagli occhi vivaci, che lei aveva presentato come precettore del nipote, pronunciando nel contempo un nome francese.

In mezzo a queste persone dai contorni indistinti e dai lineamenti scialbi, May Archer passava

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come un cigno che scivola sull'acqua alla luce del tramonto: sembrava più grande, più bella, molto più fluttuante di quanto l'avesse mai vista suo marito, il quale percepì che il colorito roseo e il modo in cui si muoveva erano la prova di una timidezza estrema e infantile.

«Che diavolo si aspettano che dica?», imploravano i suoi occhi indifesi, proprio nel momento in cui la sua abbagliante apparizione stava causando la stessa agitazione nei loro petti. Ma la bellezza, per quanto dubbiosa di se stessa, risveglia la fiducia nel cuore maschile, e sia il vicario che il precettore dal nome francese si fecero in quattro per dimostrare quanto desiderassero metterla a proprio agio.

Comunque, nonostante si impegnassero a fondo, la cena si protrasse piuttosto fiaccamente. Archer notò che il modo in cui sua moglie cercava di apparire disinvolta con gli estranei consisteva nell'imporre nel modo più rigoroso argomenti di cui fosse a diretta conoscenza, di modo che, nonostante la sua avvenenza attirasse l'ammirazione degli astanti, la sua conversazione congelava qualsiasi tentativo di ribattere con arguzia. Ben presto il vicario rinunciò alla lotta; ma il precettore, che parlava un inglese più fluido e colto, continuò galantemente a farne sfoggio davanti a lei, fino a quando le signore, con palese sollievo di tutti gli interessati, si alzarono per andare in salotto.

Il vicario, dopo un bicchiere di porto, fu costretto ad andare via per partecipare a una riunione e il timido nipote, che sembrava malato, fu spedito a letto. Ma Archer e il precettore rimasero seduti a bere il loro vino e il primo, improvvisamente, si rese conto di parlare come non gli capitava di fare dal suo ultimo colloquio con Ned Winsett. Risultò che il nipote della Carfry era stato minacciato dalla tubercolosi e aveva dovuto lasciare Harrow per andare in Svizzera, dove per due anni aveva vissuto nel clima più mite del lago Lemano. Essendo un ragazzo studioso, era stato affidato a Monsieur Rivière, il quale lo aveva riportato in Inghilterra e sarebbe rimasto con lui fino al momento in cui il suo allievo sarebbe andato a Oxford la primavera seguente; Monsieur Rivière aggiunse con semplicità che a quel punto avrebbe dovuto cercarsi un altro impiego.

Sembrava impossibile, pensò Archer, che rimanesse a lungo disoccupato, data la molteplicità dei suoi interessi e delle sue qualità. Era un uomo sulla trentina, dal viso brutto e sottile (May lo avrebbe giudicato di aspetto ordinario) a cui l'accavallarsi delle idee conferiva una intensa efficacia espressiva; ma nell'ardore delle sue parole non c'era niente di frivolo o di volgare.

Suo padre, morto giovane, aveva ricoperto un modesto incarico diplomatico ed era stato programmato che anche il figlio ne seguisse le orme; ma un inestinguibile gusto per le lettere aveva spinto il giovane a entrare nel giornalismo, poi a intraprendere l'attività di scrittore (evidentemente senza successo) e alla fine — dopo altri esperimenti e traversie di cui faceva grazia al suo interlocutore — a ripiegare su una professione di precettore per giovani inglesi che si recavano in Svizzera. Comunque, in precedenza aveva vissuto soprattutto a Parigi, aveva frequentato il grenier dei Goncourt, era stato consigliato da Maupassant di non tentare di scrivere (anche questo ad Archer sembrò un onore eccezionale) e spesso aveva parlato con Mérimée a casa di sua madre. Si capiva che era stato sempre povero in canna e preoccupato (dovendo provvedere a una madre e a una sorella nubile) ed era evidente che le sue aspirazioni letterarie erano fallite. In realtà la sua situazione, in termini concreti, non sembrava più brillante di quella di Ned Winsett; ma come lui stesso disse, era vissuto in un mondo nel quale chi amava le idee non era destinato a morire di fame. Poiché era proprio a causa di quell'amore che il povero Winsett stava morendo di fame, Archer guardava con una sorta di invidia ribaltata questo giovane appassionato che nella sua indigenza se la passava da signore.

«Vede, Monsieur, per mantenere la propria libertà intellettuale, per non asservire le proprie capacità di giudizio, per mantenere la propria autonomia critica, bisogna fare di tutto, non è vero? È stato per questo che ho lasciato il giornalismo e mi sono dedicato a un lavoro così noioso: svolgo mansioni di precettore e di segretario. Certo, c'è molto da sfacchinare; ma si conserva la propria libertà morale, quello che in Francia chiamiamo il proprio quant à soi. E quando si partecipa a una buona conversazione, si può interloquire senza venire a compromessi con nessuna opinione se non la propria; oppure si può ascoltare e rispondere interiormente. Ah, una buona conversazione ... non

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c'è niente di meglio, vero? L'aria in cui vivono le idee è l'unica per cui valga la pena di respirare. E così non ho mai rimpianto di avere abbandonato sia la carriera diplomatica che quella del giornalismo ... due diversi aspetti della stessa forma di rinuncia.» Puntò i suoi occhi vivaci su Archer mentre si accendeva un'altra sigaretta. « Voyez-vous, Monsieur, essere capace di guardare in faccia la vita: per questo vale la pena di vivere in una soffitta, non è vero? Ma, dopo tutto, bisogna guadagnare abbastanza per pagare la soffitta; e confesso che invecchiare facendo il precettore privato — o qualsiasi cosa di carattere "privato" — è deprimente per i propri sogni, quanto fare il secondo segretario a Bucarest. A volte sento di dover fare il salto: un salto enorme. Per esempio, pensa che ci sia qualche opportunità per me in America ... a New York?»

Archer lo guardò con occhi sbigottiti. Cosa poteva offrire New York a un giovane che era stato a contatto con i Goncourt e con Flaubert e che pensava che il mondo delle idee fosse l'unico per cui valesse la pena di vivere? Continuò a fissare Monsieur Rivière con aria imbarazzata, chiedendosi come avrebbe potuto spiegargli che proprio il suo alto livello di preparazione e i suoi requisiti avrebbero rappresentato un ostacolo sicuro per conseguire il successo.

«New York ... New York ... ma deve essere per forza New York?», farfugliò, totalmente incapace di figurarsi quale occasione di guadagno potesse offrire la sua città natale a un giovane convinto che l'unica cosa necessaria fosse la buona conversazione.

La pelle giallastra di Monsieur Rivière si colorì di un improvviso rossore. «Io ... io pensavo che fosse la vostra metropoli, dove la vita intellettuale fosse più attiva», replicò; poi, temendo di dare al suo interlocutore l'impressione di avergli chiesto un favore, continuò precipitosamente: «Si butta là un suggerimento a caso ... più per se stessi che per gli altri. In realtà, non vedo alcuna prospettiva immediata», e alzandosi aggiunse, senza mostrarsi imbarazzato: «Ma la signora Carfry penserà che dovrei condurla di sopra».

Nel tragitto di ritorno Archer meditò profondamente su questo episodio. L'ora trascorsa con Monsieur Rivière gli aveva fatto respirare aria nuova e il suo primo impulso era stato quello di invitarlo a cena il giorno dopo; ma stava cominciando a capire perché gli uomini sposati non sempre cedevano immediatamente ai loro primi impulsi.

«Quel giovane precettore è una persona interessante: dopo cena abbiamo parlato a lungo di libri e di tante altre cose», provò a uscirsene mentre erano in carrozza.

May si destò da uno dei suoi silenzi immersi in fantasticherie che lui aveva trovato molto significativi, prima che sei mesi di vita coniugale gli avessero fornito la chiave per interpretarli.

«Chi? Il piccolo francese? Ma non è terribilmente ordinario?», domandò freddamente; e lui indovinò che dentro di sé era delusa per essere stata invitata a cena a Londra, per farle conoscere un uomo di chiesa e un precettore francese. La delusione non derivava da snobismo, nel significato che comunemente si annette a questa parola, bensì dalla sensazione dominante nella vecchia New York in merito a ciò cui si andava incontro quando si metteva a repentaglio la propria dignità in paesi stranieri. Se i genitori di May avessero ricevuto le Carfry nella loro casa della Quinta Strada, avrebbero fatto conoscere loro persone ben più importanti di un parroco e di un maestro di scuola.

Ma Archer aveva i nervi a fior di pelle e la interruppe bruscamente.

«Ordinario ... ordinario dovei», disse dubbioso; e lei replicò con insolita prontezza: «Ecco, direi ovunque, tranne che nella sua aula scolastica. Gente così si comporta sempre in maniera goffa in società. Ma allora», aggiunse in tono disarmante, «forse non avrei saputo che è intelligente.»

Ad Archer non piaceva l'uso che lei faceva della parola «intelligente», quasi quanto quello della parola «ordinario»; ma cominciava a temere la propria propensione a mettere in evidenza gli aspetti del carattere di lei che non apprezzava. In fin dei conti il modo di vedere di May era stato sempre uguale. Era quello condiviso da tutte le persone tra le quali lui era cresciuto e lo aveva sempre considerato una necessità di secondaria importanza. Fino a qualche mese prima non aveva mai conosciuto una donna «raffinata» che considerasse la vita in maniera diversa; e se un uomo si

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sposava, doveva sposarsi per forza in un ambiente raffinato.

«Ah, in tal caso non lo inviterò a cena!», finì con una risata;

e May, disorientata, gli fece eco: «Mio Dio ... invitare il precettore delle Carfry?»

«Beh, se proprio non vuoi, non lo inviterò lo stesso giorno insieme alla Carfry. Ma vorrei veramente avere un altro colloquio con lui. Sta cercando un lavoro a New York.»

La sorpresa di lei aumentava di pari passo con la sua indifferenza: Newland credette quasi che lo sospettasse di essere contaminato da una forma di «simpatia per gli stranieri».

«Un lavoro a New York? Che tipo di lavoro? La gente non ha precettori francesi: cosa vuole fare?»

«Soprattutto fare della buona conversazione, a quanto ho capito», controbatté suo marito con una certa malignità; e lei scoppiò in una risata, facendo vedere di avere apprezzato la battuta. «Oh, Newland, che buffo! Non ti pare che questo sia un comportamento molto francese?»

Tutto considerato, fu contento che la faccenda si fosse sistemata in seguito al rifiuto di May di prendere sul serio il suo desiderio di invitare Monsieur Rivière. Un secondo colloquio dopo cena avrebbe reso difficile evitare il problema di New York; e più Archer ci rifletteva, meno riusciva a inserire Monsieur Rivière in un contesto qualunque della New York che lui conosceva.

Con un lampo di agghiacciante intuito si accorse che in futuro numerosi problemi si sarebbero risolti in modo altrettanto negativo per lui; ma mentre pagava la carrozza e seguiva il lungo strascico della moglie entrando in casa, si rifugiò nel pensiero consolante quanto banale secondo cui i primi sei mesi di matrimonio sono sempre i più difficili. «Dopo di che ritengo che avremo quasi finito di smussare i reciproci spigoli», almanaccava; ma il peggio era che May faceva pressione proprio sugli unici spigoli che lui voleva maggiormente conservare intatti.

Capitolo ventunesimoIl piccolo prato ben curato si protendeva armoniosamente verso la grande distesa lucente del

mare.

Il tappeto erboso era circondato da un bordo di gerani scarlatti e di coleo, mentre dai vasi di ghisa dipinti color cioccolata, distanziati l'uno dall'altro lungo il sentiero battuto dal vento che conduceva al mare, scendevano sulla ghiaia ben rastrellata ghirlande di petunie e di gerani edera.

A metà strada tra l'orlo della scogliera e la casa quadrata di legno (anch'essa color cioccolato, ma col tetto di zinco della veranda verniciato a strisce gialle e marroni in modo da imitare un tendone) erano stati installati due grandi bersagli sullo sfondo di una macchia. Sull'altro lato del prato, di fronte ai bersagli, era stata piantata un'autentica tenda, attorniata da panche e sedili da giardino. Una quantità di signore in abiti estivi e di signori in finanziera grigia e cilindro stavano in piedi sul prato o sedevano sulle panche; e di tanto in tanto una snella ragazza in mussolina inamidata usciva dalla tenda impugnando un arco e scoccava la sua freccia verso uno dei bersagli, mentre gli spettatori interrompevano di parlare per osservare il risultato.

Newland Archer, in piedi sulla veranda della casa, esaminava attentamente questa scena. Su ogni lato dei gradini verniciati a lucido c'era un grande vaso di fiori di porcellana azzurra sostenuto da un piedistallo di porcellana color giallo brillante. Ogni vaso conteneva una pianta verde e spinosa e sotto alla veranda passava una larga aiola di ortensie azzurre contornata da altri gerani rossi. Dietro di lui, le portefinestre dei salotti da cui era uscito lasciavano intravedere, tra fluttuanti tende di pizzo, lucidi pavimenti in parquet qua e là disseminati di pouf foderati di chintz, poltroncine e tavoli coperti di velluto e di oggettini d'argento.

Il Circolo di tiro all'Arco di Newport nel mese di agosto si riuniva sempre dai Beaufort. Lo sport, che fino a quel momento non aveva conosciuto altri rivali se non il croquet, stava cominciando a

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cedere terreno al tennis su prato; ma quest'ultimo gioco era ancora considerato troppo rozzo e poco raffinato per incontri mondani, mentre l'arco e la freccia detenevano il primato nell'offrire l'occasione per mettere in mostra graziosi vestiti e leggiadre movenze.

Archer guardava meravigliato lo spettacolo che gli era familiare. Lo sorprendeva il fatto che la vita sarebbe andata avanti come prima, mentre le sue reazioni nei confronti di essa erano mutate tanto profondamente. Era stato l'ambiente di Newport ad aprirgli gli occhi sulla dimensione del cambiamento. A New York, durante l'inverno precedente, dopo che lui e May si erano sistemati nella nuova casa gialloverdognola con il bovindo e il vestibolo pompeiano, era ricaduto con sollievo nella vecchia routine dell'ufficio e la ripresa di questa attività quotidiana era servita a fargli ritrovare il precedente modo di vivere. C'era poi stata la piacevole eccitazione di scegliere un vistoso cavallo grigio per la carrozza chiusa di May (regalata dai Welland), nonché la costante attività e l'interesse nel sistemare la sua nuova biblioteca che, nonostante dubbi e giudizi sfavorevoli espressi dalla famiglia, era stata realizzata come lui aveva sognato, con una carta scura goffrata, scaffali Eastlake, poltrone e tavoli «autentici». Al Century aveva ritrovato Winsett e al Knicker-bocker i giovanotti eleganti della sua classe; e tra le ore dedicate alla professione e quelle dedicate a cenare fuori o a intrattenere gli amici a casa, con qualche serata all'opera o al teatro di prosa, la vita che stava vivendo era sembrata ancora una specie di mestiere completamente autentico e necessario.

Ma Newport voleva dire evadere dalla prigione dei doveri, per entrare in una atmosfera assolutamente epicurea. Archer aveva cercato di convincere May a trascorrere l'estate in una solitaria isola al largo della costa del Maine (piuttosto appropriatamente chiamata Mount Desert), dove alcuni coraggiosi bostoniani e filadelfiani erano accampati in casette «indigene» e da cui giungevano voci che parlavano di panorami incantevoli e di una vita selvaggia e quasi da cacciatori di pelli condotta in mezzo a boschi e a corsi d'acqua.

Ma i Welland andavano sempre a Newport, dove possedevano uno dei casotti quadrati costruiti sulla scogliera e il loro genero non poteva addurre nessun pretesto valido per cui lui e May non dovessero andare a raggiungerli. Come aveva fatto notare piuttosto acidamente la signora Welland, non era valso a niente che May si fosse stancata fino allo sfinimento a provare gli abiti estivi a Parigi se poi non le era consentito di indossarli; e questo era un tipo di argomento al quale Archer, fino a quei momento, non era riuscito a trovare risposta alcuna.

La stessa May non riusciva a capire la sua incomprensibile ritrosia a trascorrere l'estate in modo così logico e piacevole. Gli ricordò che lui aveva sempre amato Newport quando era scapolo, e poiché questo era indiscutibile, poteva soltanto dichiarare di essere sicuro che gli sarebbe piaciuto più che mai adesso che vi sarebbero andati insieme. Ma mentre stava sulla veranda di Beaufort a osservare il prato affollato di gente festosa, si rese conto con un brivido che la cosa non gli sarebbe affatto piaciuta.

Non era colpa di May, povera cara. Se di tanto in tanto, durante i loro viaggi, c'era stato qualche leggero malinteso, l'accordo era stato ristabilito tornando alle condizioni alle quali lei era abituata. Aveva sempre previsto che lei non lo avrebbe deluso; e aveva avuto ragione. Si era sposato (come fa la maggior parte dei giovanotti) perché, nel momento in cui una serie di avventure sentimentali senza prospettive si stava concludendo creandogli prematuri motivi di disappunto, aveva incontrato una ragazza assolutamente incantevole, la quale aveva rappresentato la pace, la stabilità, il cameratismo e un consolidato senso del dovere che non era possibile eludere.

Non poteva dire di avere fatto una scelta sbagliata, poiché lei aveva corrisposto a tutto ciò che lui si era aspettato. Senza dubbio era gratificante essere il marito di una delle più belle e ammirate giovani signore di New York, specialmente se si trattava anche di una delle mogli più assennate e più dolci di carattere; e Archer non era mai stato indifferente ai vantaggi offerti da una situazione del genere. Quanto al momentaneo attacco di pazzia che lo aveva assalito alla vigilia del matrimonio, si era sforzato di considerarlo l'ultimo dei suoi esperimenti che aveva accantonato. L'idea che, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali, avesse potuto vagheggiare di sposare la contessa Olenska era diventata quasi inconcepibile, ed Ellen rimaneva nel suo ricordo

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semplicemente come il più triste e il più vivo di tutta una teoria di fantasmi.

Ma tutte quelle divagazioni e rimozioni aprivano in certo qual modo nella sua mente un vuoto pieno di echi, e suppose che quello fosse uno dei motivi per cui tutte quelle persone indaffarate e vivaci che si muovevano sul prato di Beaufort lo scandalizzavano come se fossero bambini che giocavano in un cimitero.

Udì un fruscio dietro di sé, e la marchesa Manson uscì svolazzante dal salotto. Come al solito, era adorna fino all'inverosimile di serti e fronzoli, portava un cappello floscio di paglia di Firenze fermato sul capo con vari giri di un velo scolorito di mussolina e sopra la tesa del cappello, che era molto più larga, faceva ridicolmente oscillare un piccolo parasole di velluto nero munito di un manico d'avorio intagliato.

«Caro Newland, non sapevo che tu e May foste arrivati! Come dici, che tu stesso sei qui solo da ieri? Ah, gli affari, gli affari... gli impegni professionali... capisco. A quanto ne so, molti mariti non riescono a raggiungere le mogli se non per il weekend». Piegò la testa da un lato e gli lanciò uno sguardo languido socchiudendo le palpebre. «Ma, come dicevo spesso alla mia Ellen, il matrimonio è un lungo sacrificio ...»

Il cuore di Archer si fermò di colpo, come era successo già un'altra volta, dandogli l'impressione che tra lui e il mondo esterno si chiudesse con violenza una porta; ma questa soluzione di continuità doveva essere stata brevissima, perché subito dopo udì Medora che rispondeva a una sua domanda, che evidentemente lui le aveva posto, avendo ritrovato la voce per farlo.

«No, non sto qui, ma con le Blenker, nel loro incantevole isolamento a Portsmouth. Beaufort è stato piuttosto gentile a mandarmi i suoi famosi trottatori stamattina, perché potessi dare un'occhiata a uno dei ricevimenti all'aperto di Regina; ma stasera torno alla vita dei campi. Le Blenker, da quelle persone stravaganti che sono, hanno preso in affitto una vecchia casa colonica antidiluviana a Portsmouth dove invitano persone importanti ...» Abbassò un po' la tesa del cappello per ripararsi e aggiunse arrossendo lievemente: «Questa settimana il dottor Agathon Carver vi terrà una serie di incontri sulla Meditazione Interiore. Davvero un contrasto con questo allegro spettacolo di divertimenti mondani... ma quanto a questo, la mia vita è stata sempre un contrasto! L'unica morte per me è la monotonia. Dico sempre a Ellen: Guardati dalla monotonia; è la madre di tutti i peccati mortali. Ma la mia povera bambina sta attraversando un periodo di esaltazione, di avversione per il mondo. Credo che tu sappia che ha respinto tutti gli inviti a venire a stare a Newport, sia pure con sua nonna Mingott. Non ci crederai, ma sono riuscita a stento a convincerla a venire con me dalle Blenker. La vita che conduce è morbosa, contro natura. Ah, se solo mi avesse ascoltato quando ancora era possibile ... quando la porta era ancora aperta ... Ma vogliamo scendere per guardare questo interessantissimo incontro? Ho sentito dire che la tua May è una delle concorrenti.»

Partendo dalla tenda e camminando sul prato veniva verso di loro Beaufort, alto, pesante, troppo stretto in una finanziera confezionata a Londra, con una delle sue orchidee all'occhiello. Archer, che non lo vedeva da due o tre mesi, fu colpito da come fosse cambiato il suo aspetto. Alla luce della calda estate la sua persona florida sembrava essersi appesantita e dilatata e, se non fosse stato per il suo incedere con le spalle larghe e dritte, avrebbe fatto pensare a un vecchio che eccedesse nel mangiare e si vestisse in modo troppo vistoso.

Sul conto di Beaufort circolavano chiacchiere a non finire. In primavera era partito per una lunga crociera nelle Indie occidentali sul suo nuovo panfilo a vapore e si diceva che, nei diversi porti dove era approdato, fosse stato visto in compagnia di una signora che somigliava a Fanny Ring. Il panfilo a vapore, costruito nel Clyde, dotato di stanze da bagno rivestite di piastrelle e fornito di altri aggeggi di lusso sconosciuti, si diceva gli fosse costato mezzo milione di dollari; e la collana di perle che aveva regalato a sua moglie al suo ritorno era splendida quanto devono esserlo certe offerte espiatorie. La ricchezza di Beaufort era abbastanza solida per sopportare quello sforzo; e tuttavia voci allarmanti persistevano non solo nella Quinta Strada ma anche a Wall Street. Alcuni dicevano che si fosse impelagato in speculazioni sballate nelle ferrovie, altri che venisse

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dissanguato dalla stessa Fanny Ring, rivelatasi una delle più avide rappresentanti della sua professione; e ogni volta che si parlava di fallimento, Beaufort reagiva con gesti di rinnovata prodigalità: la costruzione di nuove serre per orchidee, l'acquisto di una nuova scuderia di cavalli da corsa, o l'aggiunta di un nuovo Meissonnier o di un Cabanel alla sua galleria di quadri.

Si diresse verso la marchesa e Newland con il suo solito sorrisetto sarcastico: «Salve Medora! I cavalli si sono comportati bene? Quaranta minuti, eh? ... Beh, non c'è male, considerando che bisognava risparmiare i tuoi nervi». Strinse la mano ad Archer e poi, tornando sui propri passi con loro, si mise all'altro lato della signora Manson e le disse, a voce bassa, poche parole che il loro compagno non colse.

La marchesa rispose con uno dei suoi strani scatti da persona vissuta all'estero e con un Que voulez-vous?, facendo accentuare l'espressione corrucciata di Beaufort; ma questi fu bravo a fingere un sorriso di rallegramento mentre guardava Archer per dirgli: «Se non lo sai, May si porterà via il primo premio».

«Ah, allora rimarrà in famiglia», mormorò Medora; e in quel momento raggiunsero la tenda, mentre la signora Beaufort andava loro incontro in una nube di mussola color malva e di veli svolazzanti come una ragazzina.

May Welland stava appunto uscendo dalla tenda. Nel suo abito bianco, con un nastro verde pallido intorno alla vita e una ghirlanda di edera sul cappello, aveva lo stesso distacco da dea Diana come quando aveva fatto il suo ingresso nella sala da ballo dei Beaufort la sera del suo fidanzamento. Nel frattempo sembrava che i suoi occhi non fossero stati attraversati da nessun pensiero e che il suo cuore non fosse stato raggiunto da alcuna passione; e il marito, anche se sapeva che lei era in grado di pensare e di avere dei sentimenti, tornò a stupirsi del modo in cui la conoscenza della vita neanche la sfiorasse.

Impugnava arco e freccia e, prendendo posto sul segno tracciato in gesso sul tappeto erboso, sollevò l'arco all'altezza della spalla e prese la mira. L'atteggiamento era di una tale grazia classica che un mormorio di approvazione accolse la sua comparsa e Archer avvertì il calore del possesso, che così spesso lo ingannava facendogli provare effimeri momenti di benessere. Le avversarie di May, la moglie di Reggie Chivers, le ragazze Merry e le varie Thorley, Dagonet e Mingott vestite di rosa, stavano dietro di lei formando un grazioso gruppo trepidante di teste brune e dorate chine sulle tabelle del punteggio, tra pallide mussoline e cappelli ornati di fiori mescolati in un delicato arcobaleno. Erano tutte giovani e carine, e in pieno rigoglio; ma nessuna aveva la naturalezza da ninfa che aveva sua moglie quando, tendendo i muscoli e con piglio raggiante, impegnava la sua anima in una competizione di forza.

«Perbacco», Archer udì dire da Lawrence Lefferts, «nessuno tiene l'arco come lei»; e Beaufort ribatté: «Sì, ma questo è l'unico tipo di bersaglio che mai colpirà.»

Archer provò un moto di rabbia irrazionale. Lo sprezzante omaggio reso dal suo ospite alla «piacevolezza» di May era proprio quello che un marito si sarebbe augurato di udire nei confronti della propria moglie. Il fatto che un uomo poco raffinato la trovasse priva di attrattive era semplicemente un'ulteriore prova delle doti di lei; eppure quelle parole gli diedero un fremito appena percettibile nel cuore. E se la «piacevolezza», portata alle estreme conseguenze, fosse soltanto un dato negativo, un sipario calato per nascondere il vuoto? Non appena guardò May, che si rianimava e riacquistava la calma grazie al tiro finale con cui aveva centrato il bersaglio, lui ebbe la sensazione di non aver mai sollevato fino a quel momento quel sipario.

May ricevette le congratulazioni delle sue rivali e dal resto della comitiva con la semplicità che era la massima componente della sua grazia. Nessuno avrebbe mai potuto essere geloso dei suoi trionfi, perché lei riusciva a dare la sensazione che sarebbe stata lieta anche se avesse perso. Ma quando i suoi occhi incontrarono quelli del marito, il suo viso avvampò per il piacere che aveva letto in quello di lui.

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Il carrozzino di vimini del signor Welland tirato dai pony li stava aspettando ed essi si allontanarono tra le carrozze disposte in ordine sparso, mentre May teneva le redini e Archer sedeva al suo fianco.

La luce del sole pomeridiano indugiava ancora sui prati lucenti e sui cespugli, mentre su e giù per Bellevue Avenue correva una doppia fila di vittorie, calessi, landò e vis-à-vis, che erano venuti a prendere signore e signori eleganti reduci dal ricevimento all'aperto di Beaufort, o li portava verso casa dopo la loro passeggiata pomeridiana di ogni giorno lungo la Ocean Drive.

«Andiamo a trovare la nonna?», propose improvvisamente May. «Mi piacerebbe dirle di persona che ho vinto il premio. Abbiamo molto tempo prima di cena.»

Archer acconsentì e lei fece girare i pony verso Narragansett Avenue, attraversò Spring Street e proseguì in direzione della rocciosa brughiera che stava dall'altra parte. In quella zona fuori moda Caterina la Grande, sempre noncurante di quanto era stato fatto in precedenza e taccagna, in gioventù aveva costruito da sola un cottage-orné tutto sporgenze e travi incrociate su un pezzetto di terra a buon mercato che dominava l'insenatura. Qui, in un boschetto di querce striminzite, le sue verande si protendevano verso le acque punteggiate di isole. Un viale battuto dal vento, inerpicandosi tra cervi di ferro e palle di vetro incastrate in mezzo a mucchi di gerani, conduceva a una lucidissima porta d'ingresso di noce sotto un portico architravato; dietro la porta si apriva un angusto vestibolo con un pavimento di legno decorato a stelle nere e gialle, da cui si accedeva a quattro stanzette quadrate, le cui pareti erano tappezzate con carta da parati ruvida e sui cui soffitti un imbianchino italiano aveva profuso tutte le divinità dell'Olimpo. Una delle stanze era stata trasformata in camera da letto dalla signora Mingott quando le era calato addosso il peso della carne e lei trascorreva le sue giornate, installata in una grande poltrona tra la porta aperta e la finestra, agitando in continuazione un ventaglio di foglie di palma che la sorprendente prominenza del suo petto teneva a tale distanza dal resto della sua persona che l'aria che spostava riusciva a far muovere solo la frangia dei coprischienali sui braccioli.

Dato che era stata lei a fare accelerare il suo matrimonio, la vecchia Catherine aveva dimostrato ad Archer l'affabilità che un favore reso provoca nei confronti della persona oggetto di tale favore. Era convinta che la smania di lui fosse dovuta a una passione irrefrenabile; e poiché era una fervida ammiratrice dell'impulsività (purché non comportasse sperpero di denaro), lo riceveva sempre con una ammiccante strizzata d'occhio di complicità e una serie di allusioni alle quali per fortuna May sembrava refrattaria.

Esaminò e valutò con molto interesse la freccia con la punta di diamante che era stata appuntata sul petto di May al termine della gara, osservando che ai suoi tempi una spilla di filigrana sarebbe stata considerata sufficiente, ma che non si poteva negare che Beaufort facesse le cose in grande.

«Infatti, mia cara, è proprio un gioiello di famiglia», disse l'anziana signora, con un riso soffocato. «Devi lasciarlo in eredità alla tua figliola maggiore.» Pizzicò il bianco braccio di May e ne osservò il viso che si colorava. «Bene, bene, cosa ho detto che ti ha fatto issare la bandiera rossa? Non ci sarà nessuna femmina, solo maschi, eh? Buon Dio, guardatela come arrossisce di nuovo! Cosa? Non posso dire neanche questo? Misericordia, quando i miei figli mi chiedono di far cancellare tutti quegli dèi e quelle dee dipinti lassù, io dico sempre che sono veramente contenta di avere qualcuno vicino a me che non riesce a scandalizzarsi di niente!»

Archer scoppiò in una risata e May gli fece eco, rossa fino agli occhi.

«Beh, ora ditemi tutto del ricevimento, per favore, miei cari, perché non riuscirò mai ad avere informazioni attendibili al riguardo da quella stupida di Medora», continuò la nonna; e appena May esclamò: «La zia Medora? Ma credevo che stesse tornando a Portsmouth!», lei rispose pacatamente: «È vero, ma prima deve venire qui a prendere Ellen. Ah, voi non sapete che Ellen è venuta a trascorrere una giornata con me? Che stupidaggine il suo non voler passare qui l'estate; ma io ho rinunciato a discutere con i giovani da circa cinquantanni. Ellen ... Ellen!», urlò con la sua vecchia voce penetrante, cercando di piegarsi in avanti quel tanto che bastava per dare uno sguardo di

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sfuggita al di là della veranda.

Nessuno rispose e la signora Mingott batté nervosamente il bastone sul pavimento lucido. Una domestica mulatta con un turbante di color chiaro, rispondendo alla chiamata, informò la sua padrona di aver visto «Miss Ellen» percorrere il sentiero che scendeva verso la spiaggia; e la signora Mingott si voltò verso Archer:

«Corri a prenderla, da bravo nipote; questa graziosa signora mi parlerà del ricevimento», disse; e Archer si alzò come se stesse sognando.

Aveva sentito pronunciare il nome della contessa Olenska abbastanza spesso durante l'anno e mezzo da quando si erano visti l'ultima volta, ed era abbastanza al corrente di quanto le era accaduto in quel lasso di tempo. Sapeva che aveva trascorso l'estate precedente a Newport, dove sembrava avesse avuto un gran da fare in società, e che in autunno aveva improvvisamente subaffittato la «deliziosa casa» che Beaufort le aveva trovato con tanta fatica, in quanto aveva deciso di stabilirsi a Washington. Aveva sentito dire che durante l'inverno lei (come sempre si sentiva dire sul conto delle belle donne che vivevano a Washington) aveva brillato nello «splendido ambiente diplomatico» che veniva ritenuto all'altezza di controbilanciare le manchevolezze sociali da parte governativa. Aveva prestato ascolto a queste osservazioni e alle diverse voci contraddittorie su di lei, sul suo aspetto, sul suo modo di conversare, sulle sue opinioni e sul criterio con cui si sceglieva gli amici, con il distacco con cui si ascoltano le testimonianze che riguardano qualcuno morto da lungo tempo; e quando, improvvisamente, Medora l'aveva nominata all'incontro di tiro all'arco, Ellen Olenska era di nuovo diventata per lui una presenza viva. La sciocca pronunzia blesa della marchesa aveva rievocato l'immagine del piccolo salotto illuminato dal chiarore del fuoco e il rumore delle ruote della carrozza che tornava sulla strada deserta. Pensò a una cronaca che aveva letto, riguardo ad alcuni contadinelli in Toscana che, dopo avere acceso un fascio di paglia in una grotta ai margini della strada avevano scoperto antiche immagini silenziose nel loro sepolcro affrescato.

La strada verso la spiaggia scendeva dall'altura su cui era appollaiata la casa fino a un viale di salici piangenti che si affacciava sull'acqua. Attraverso gli alberi colse il luccichio di Lime Rock, con la sua torretta tinteggiata di bianco e la casetta nella quale l'eroica guardiana del faro, Ida Lewis, era giunta alla sua veneranda età. Più oltre si stendevano i piatti promontori e i brutti comignoli di Goat Island, mentre l'insenatura si apriva verso nord in uno scintillio d'oro fino a Prudence Island con le basse querce e le spiagge di Conanicut i cui contorni impallidivano nella foschia del tramonto.

Dal viale dei salici si staccava un ponticello di legno che terminava con una specie di bersò a forma di pagoda, all'interno del quale era in piedi una signora appoggiata alla ringhiera e dando le spalle alla spiaggia. A tale vista Archer si bloccò come se si fosse svegliato. Quell'immagine del passato era un sogno, e la realtà era ciò che lo attendeva nella casa sull'altura: era la carrozza con i pony della signora Welland che seguitavano a girare intorno alla radura ovale davanti alla porta d'ingresso, era May che sedeva sotto le impudiche divinità dell'Olimpo e avvampava di aspettative represse, era la villa dei Welland all'estremità di Bellevue Avenue e il signor Welland già pronto per andare a cena, che misurava a grandi passi il pavimento del salotto, orologio alla mano e con l'impazienza del dispeptico, poiché quella era una delle case dove si sapeva esattamente cosa sarebbe successo a una data ora.

«Chi sono io? Un genero ... », pensò Archer.

La figura alla fine del pontile non si era mossa. Per un lungo istante il giovane rimase fermo a metà strada, in contemplazione della baia solcata dall'andirivieni delle barche a vela, dei panfili, delle imbarcazioni da pesca e delle nere chiatte adibite al trasporto del carbone e trainate da rumorosi rimorchiatori. La signora nel bersò sembrava essere attratta dalla stessa scena. Al di là dei grigi bastioni di Fort Adams la visione di un lungo tramonto si stava frantumando in migliaia di fuochi, il cui splendore colpiva in pieno la vela di un catboat mentre si faceva strada attraverso il

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canale fra Lime Rock e la spiaggia. Archer, osservando quello spettacolo rammentò la scena che si svolgeva nello Shaughraun, quando Montague portava alle labbra il nastro di Ada Dyas senza che lei si accorgesse della sua presenza nella stanza.

«Lei non lo sa ... non lo può immaginare. Io lo saprei se lei mi venisse alle spalle?», pensò e improvvisamente si disse: «Se non si gira prima che quella vela abbia superato il faro di Lime Rock, tornerò indietro».

La barca filava via sull'onda della marea rientrante. Scivolò davanti a Lime Rock, celò alla vista la casetta di Ida Lewis e oltrepassò la torretta della lanterna. Archer attese fino a quando una larga striscia d'acqua brillò tra l'ultima scogliera dell'isola e la poppa del battello; ma la figura nel bersò non si era ancora mossa.

Newland si girò e risalì la collina.

«Mi dispiace che tu non abbia trovato Ellen ... avrei voluto vederla di nuovo», disse May mentre si dirigevano verso casa all'imbrunire. «Ma forse a lei non avrebbe fatto piacere ... sembra così cambiata.»

«Cambiata?», fece eco suo marito con voce piatta, tenendo gli occhi fissi sui movimenti delle orecchie dei pony.

«Voglio dire così poco attenta ai suoi amici; lasciando New York e la sua casa e passando il tempo con gente così strana. Pensa come deve trovarsi terribilmente a disagio dalle Blenker! Dice di farlo per tenere la zia Medora lontano dai guai: per impedirle di sposare pessimi soggetti. Ma a volte penso che noi l'abbiamo sempre annoiata.»

Archer non rispose ed ella continuò, con una certa durezza che lui non aveva mai colto prima d'allora nella sua voce schietta e limpida: «Mi domando se in fin dei conti sarebbe stata più felice con suo marito».

Lui scoppiò in una risata. «Sancta simplicitas!», esclamò; e non appena lei gli rivolse un'occhiata perplessa aggiunse: «Non credo di averti mai sentito dire prima d'ora qualcosa di crudele».

«Crudele?»

«Beh ... dicono che lo sport preferito dagli angeli sia quello di stare a guardare le contorsioni dei dannati; ma credo che neanche loro pensino che la gente sia più felice all'inferno.»

«Allora è un peccato che si sia sposata all'estero», disse May, nel tono pacato con cui sua madre reagiva alle idee bizzarre del signor Welland; e Archer si sentì dolcemente relegato nella categoria dei mariti stravaganti.

Si diressero giù per Bellevue Avenue e oltrepassarono i pilastri di legno scanalati e sormontati da lampioni di ghisa che erano all'ingresso della villa dei Welland. Le luci brillavano già attraverso le finestre e Archer, appena la carrozza si fermò, vide di sfuggita il suocero esattamente come se lo era raffigurato, mentre passeggiava su e giù per il salotto, con l'orologio in mano e con l'espressione sofferta che da lungo tempo considerava più efficace della collera.

Il giovanotto, seguendo la moglie nell'atrio, si rese conto di uno strano mutamento d'umore. C'era qualcosa nella sontuosità di casa Welland e nella sua atmosfera opaca così satura di regole minuziose e oppressive, che si intrufolava sempre nel suo organismo agendo su di lui come un narcotico. I pesanti tappeti, i vigili domestici, il ticchettio inesorabile degli orologi che spaccavano il minuto, il cumulo di biglietti e inviti perennemente rinnovato sul tavolo dell'ingresso, tutta la catena di dispotiche inezie che legavano un momento a quello successivo e ogni membro della famiglia a tutti gli altri, facevano apparire illusorio e precario qualsiasi modo di vivere che fosse meno sistematico e agiato. Ma adesso casa Welland e la vita che era obbligato a condurvi erano diventate irreali ed estranee e la breve scena svoltasi sulla spiaggia, quando era rimasto fermo a metà scarpata senza sapere cosa fare, gli era vicina quanto il sangue che gli scorreva nelle vene.

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Rimase sveglio tutta la notte nella grande camera da letto foderata di chintz, sdraiato accanto a May, guardando il chiaro di luna che illuminava obliquamente il tappeto e pensando a Ellen Olenska che tornava a casa trasportata attraverso le spiagge scintillanti dai trottatori di Beaufort.

Capitolo ventiduesimo«Un ricevimento per le Blenker ... le Blenker?»

Il signor Welland posò coltello e forchetta e guardò, ansioso e incredulo, sua moglie dall'altra parte del tavolo apparecchiato per la seconda colazione. Costei, inforcati gli occhiali d'oro, prese a leggere con un tono da commedia brillante: «Il professor Emerson Sillerton e signora chiedono di avere il piacere della presenza del signor Welland e signora alla riunione che si terrà al Circolo del Mercoledì Pomeriggio, il 25 agosto alle ore 15 precise, per la presentazione della signora Blenker e delle sue figliole. Red Gables, Catherine Street. R.S.V.P.».

«Buon Dio ... », disse a fatica il signor Welland, come se si rendesse conto necessaria una seconda lettura affinché la mostruosa assurdità della cosa gli entrasse bene in testa.

«Povera Amy Sillerton ... non si può mai dire cosa stia per fare suo marito», sospirò la signora Welland. «Credo che le Blenker le abbia scoperte da poco.»

Il professor Emerson Sillerton era una spina nel fianco della società di Newport; ed era una spina che non si poteva estrarre, perché era cresciuta su un albero genealogico degno di venerazione e riverito. Come diceva la gente, era un uomo che aveva avuto «tutti i vantaggi». Il padre era zio di Sillerton Jackson, la madre era una Pennilow di Boston; da ambo le parti c'erano ricchezza, rango sociale e reciproca convenienza. Niente ... niente al mondo costringeva Emerson Sillerton a fare l'archeologo, per non dire il docente di chissà che cosa, o a vivere a Newport durante l'inverno, o a svolgere una qualsiasi delle altre attività rivoluzionarie in cui si impegnava. Ma almeno, se lui voleva sganciarsi dalla tradizione e beffarsi apertamente della società, non avrebbe dovuto sposare la povera Amy Dagonet, che aveva il diritto di aspettarsi «qualcosa di diverso» e possedeva abbastanza denaro per vivere per conto proprio.

Nessuno nell'ambiente dei Mingott riusciva a capacitarsi perché Amy Sillerton si fosse rassegnata così docilmente alle stranezze di un marito che riempiva la casa di uomini dai capelli lunghi e di donne dai capelli corti e, quando viaggiava, la portava a visitare tombe nello Yucatan invece di andare a Parigi o in Italia. Ma eccoli, inseriti nelle loro abitudini, ed evidentemente inconsapevoli di essere diversi dagli altri; e quando ogni anno davano uno dei loro squallidi ricevimenti all'aperto, tutte le famiglie che abitavano sulle scogliere, a causa della parentela Sillerton-Pennilow-Dagonet, dovevano tirare a sorte per mandarci un loro restio rappresentante.

«È un miracolo», osservò la signora Welland, «che non abbiano scelto il giorno in cui si corre la Coppa! Ti ricordi, due anni fa, che diedero un ricevimento per un uomo di colore il giorno del thè dansant di Julia Mingott? Per fortuna questa volta non ci sarà nient'altro che io sappia ... ragion per cui sicuramente dovrà andarci qualcuno di noi.»

Il signor Welland sospirò nervosamente: «"Qualcuno di noi", mia cara ... più di uno? Alle quindici in punto è un'ora talmente scomoda. Io devo essere qui alle quindici e trenta per prendere le mie gocce: non servirebbe proprio a niente cercare di seguire il nuovo trattamento di Bencomb se poi non lo applico metodicamente; e se ti raggiungo più tardi, sicuramente perderò la mia passeggiata in carrozza.» A quel pensiero, posò di nuovo coltello e forchetta e le sue guance segnate da rughe sottili avvamparono per l'ansia.

«Non c'è assolutamente nessun motivo per cui tu debba andarci, mio caro», rispose la moglie con un buonumore che era diventato automatico. «Ho qualche biglietto da visita da lasciare all'altro capo di Bellevue Avenue e farò una capatina verso le tre e mezzo, trattenendomi quanto basta per far sentire alla povera Amy che non è stata trascurata.» Lanciò un'occhiata esitante alla figlia. «E se nel pomeriggio Newland avrà altri impegni, forse May ti può portare fuori con i pony per provare i

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loro finimenti nuovi color ruggine.»

Secondo una teoria vigente in casa Welland, le giornate e le ore a disposizione delle persone dovevano essere distribuite compatibilmente con gli impegni «da adempiere», come diceva la signora Welland. La triste eventualità di dover «ammazzare il tempo» (in particolare per coloro ai quali non importava il whist o il solitario) era una prospettiva che la ossessionava come lo spettro della disoccupazione perseguita il filantropo. Un'altra delle sue teorie era che i genitori non dovessero interferire (almeno in modo palese) nei progetti dei propri figli sposati; e la difficoltà di conciliare l'indipendenza di May con l'esigenza di rispondere alle pretese del signor Welland, sarebbe stata superata solo esercitando un'abilità mentale che non lasciasse cogliere «alla sprovvista» neanche un secondo del tempo della signora Welland.

«Certamente andrò in carrozza con papà. Sono sicura che Newland troverà qualcosa da fare», disse May, con un tono tale da ricordare al marito, in modo garbato, la sua mancanza di reazione. Per la signora Welland era motivo di continua angustia il fatto che il genero dimostrasse così scarse capacità di previdenza nel programmare le sue giornate. Già durante le due settimane che lui aveva trascorso in casa sua, quando lei gli domandava come intendesse trascorrere il pomeriggio, lui aveva dato una risposta assurda: «Oh, penso proprio che, tanto per cambiare, lo terrò per me invece di consumarlo ... », e una volta, quando lei e May erano dovute andare a fare un giro di brevi visite pomeridiane a lungo rimandate, lui aveva confessato di essere rimasto sdraiato per l'intero pomeriggio sotto uno scoglio sulla spiaggia davanti alla casa.

«Non sembra che Newland guardi mai al futuro», osò una volta lamentarsi con sua figlia la signora Welland; e May rispose tranquillamente: «No, ma vedi, non importa, perché quando non c'è niente di particolare da fare si mette a leggere un libro».

«Ah, sì ... come suo padre!», convenne la signora Welland come se tollerasse una stranezza ereditaria; dopo di che il problema dell'ozio di Newland fu tacitamente lasciato cadere.

Tuttavia, via, via che il giorno del ricevimento di Sillerton si avvicinava, May cominciò a mostrare una naturale preoccupazione per il benessere del marito, suggerendo un incontro di tennis dai Chivers, o una gita sul cutter di Julius Beaufort, quasi per fare ammenda di doverlo momentaneamente trascurare. «Tornerò per le sei, lo sai, caro: papà non va mai in giro in carrozza dopo quell'ora ... », e non si tranquillizzò fino a che Archer non disse che pensava di noleggiare un calesse per risalire l'isola fino a una scuderia di allevamento di cavalli, dove avrebbe esaminato la possibilità di acquistare un secondo cavallo per il brum di May. Era un po' che stavano cercando quel cavallo e la proposta fu approvata con tanto calore che May guardò sua madre come per dire: «Vedi, anche lui sa come impiegare bene il suo tempo, come fa ognuno di noi».

L'idea della scuderia di allevamento di cavalli e, in particolare, del cavallo per il brum era venuta in mente ad Archer nel medesimo giorno in cui si era parlato per la prima volta dell'invito di Emerson Sillerton; ma se l'era tenuta per sé come se nel progetto ci fosse qualcosa di proibito e lo scoprirlo potesse impedirne l'attuazione. Comunque, aveva preso la precauzione di fissare in anticipo una vettura a due posti con un paio di vecchi trottatori in grado di fare ancora le loro diciotto miglia su strade piane; e alle due precise, alzatosi precipitosamente da tavola, saltò in carrozza e partì.

La giornata era magnifica. Un venticello proveniente da nord spingeva piccoli batuffoli di nuvole bianche da una parte all'altra di un cielo azzurro oltremare, sotto il quale palpitava un mare luminoso. A quell'ora Bellevue Avenue era vuota e, dopo aver lasciato il ragazzo della scuderia all'angolo di Mills Street, Archer girò verso la Old Beach Road e attraversò Eastman Beach.

Sentiva quella eccitazione indefinibile che provava durante le vacanze scolastiche, quando aveva l'abitudine di mettersi in cammino verso l'ignoto. Facendo andare gli animali al passo, contava di raggiungere la scuderia d'allevamento, situata non oltre Paradise Rock, prima delle tre; di modo che, dopo avere esaminato il cavallo (e dopo averlo provato per vedere se ne valeva la pena) avrebbe avuto a disposizione quattro ore preziose.

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Non appena aveva sentito parlare del ricevimento dei Sillerton, si era detto che sicuramente la marchesa Manson sarebbe venuta a Newport con le Blenker e che forse Madame Olenska avrebbe colto di nuovo l'occasione per trascorrere una giornata con la nonna. In ogni modo la casa delle Blenker sarebbe stata probabilmente lasciata vuota, cosicché lui avrebbe potuto soddisfare, con la massima discrezione, una sua vaga curiosità al riguardo. Non era sicuro di voler vedere ancora la contessa Olenska; ma fin dal momento in cui l'aveva scorta dal sentiero che sovrastava l'insenatura, aveva desiderato, in modo irrazionale e inspiegabile, conoscere il posto dove viveva per seguire con la fantasia le mosse della sua persona come le aveva realmente osservate nel bersò. Quel desiderio ardente era presente in lui di giorno e di notte, era una brama continua e indefinibile, come la voglia improvvisa che assale un malato per il cibo e le bevande assaggiate una sola volta e poi per lungo tempo dimenticate. Non riusciva a vedere oltre quel desiderio ardente o figurarsi a che cosa avrebbe potuto condurre, perché non aveva coscienza di desiderare di parlare con Madame Olenska o di udirne la voce. Aveva semplicemente la sensazione che, se avesse potuto portar via la visione del pezzetto di terra su cui lei camminava e il modo in cui cielo e mare lo racchiudevano, il resto del mondo sarebbe apparso meno vuoto.

Quando arrivò alla scuderia dell'allevamento, gli bastò un'occhiata per rendersi conto che il cavallo non era quello che si aspettava; nondimeno lo provò facendoci un giro, per dimostrare a se stesso che non aveva fretta. Ma alle tre in punto lasciò le briglie sul collo dei trottatori e si inoltrò nelle strade secondarie che portavano a Portsmouth. Il vento era cessato e una leggera foschia all'orizzonte stava a dimostrare che la nebbia era in attesa di avvicinarsi lentamente al Saconnet al cambio della marea; ma tutto ciò che lo circondava, costituito da campi e boschi, era immerso in una luce dorata.

Oltrepassò le fattorie grigie nei frutteti, i prati da falciare e i boschetti di querce, i villaggi con i campanili bianchi svettanti nel cielo che sbiadiva; e alla fine, dopo essersi fermato a chiedere la strada ad alcuni uomini che lavoravano nei campi, imboccò un viottolo tra alti filari di verghe d'oro e rovi. Alla fine del sentiero si scorgeva lo scintillio azzurro del fiume; a sinistra, di fronte a un gruppo di querce e aceri, vide una lunga casa in rovina con l'intonaco bianco scrostato.

Sul lato della strada di fronte all'entrata c'era una di quelle tettoie dove l'abitante del New England metteva al coperto i suoi utensili agricoli e i visitatori legavano i loro tiri. Archer, saltando a terra, guidò la sua pariglia sotto la tettoia e dopo aver legato i cavalli a un palo si diresse verso la casa. La macchia d'erba davanti alla costruzione era diventata di nuovo un campo di fieno; ma a sinistra un giardino di bosso cresciuto troppo, pieno di dalie e cespugli di rose color ruggine circondava uno spettrale bersò a ingraticciata, che un tempo era stato bianco, sormontato da un Cupido di legno il quale aveva perduto arco e freccia ma seguitava a prendere la mira a vuoto.

Archer per un po' rimase appoggiato al cancello. Non si vedeva nessuno e dalle finestre aperte non giungeva alcun suono: un terranova brizzolato che sonnecchiava davanti alla porta sembrava inutile come guardiano quanto il Cupido senza freccia. Era strano pensare che quel posto di silenzio e di rovina fosse la casa delle turbolente Blenker; eppure Archer era sicuro di non essersi sbagliato.

Rimase lì a lungo, accontentandosi di assorbire la scena e restando pian piano ammaliato dal fascino ipnotico che essa emanava; ma alla fine si riscosse, conscio dello scorrere del tempo. Si sarebbe fermato a guardare fino a esserne soddisfatto per poi andarsene? Rimase incerto, colto improvvisamente dal desiderio di guardare l'interno della casa, in modo da potersi raffigurare la stanza dove abitava Madame Olenska. Non c'era niente che gli impedisse di arrivare fino alla porta e di suonare il campanello; se, come pensava, lei era andata via con il resto della comitiva, avrebbe potuto facilmente presentarsi e chiedere il permesso di entrare nel soggiorno per lasciare un messaggio scritto.

Invece attraversò il prato e si diresse verso il giardino di bosso. Mentre vi entrava, intravide nel bersò qualcosa dai colori vivaci e immediatamente capì che si trattava di un parasole rosa. Il parasole lo attirò come una calamita: era sicuro che fosse di Ellen. Varcò la soglia del bersò e, sedendosi sul sedile traballante, raccolse l'oggetto di seta e ne osservò il manico intagliato fatto di

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un legno pregiato e profumato. Se lo portò alle labbra.

Udì un frusciar di gonne contro la siepe di bosso e rimase seduto immobile, appoggiato al manico dell'ombrellino con le mani giunte e lasciando che il fruscio si avvicinasse senza alzare gli occhi. Aveva sempre saputo che questo doveva succedere ...

«Ah, signor Archer!», esclamò una voce sonora e giovane; e guardando in su vide davanti a sé la più piccola e la più grassa delle sorelle Blenker, bionda e rossa in viso, col vestito di mussola tutto stazzonato. Da una chiazza rossa su una delle sue gote si deduceva che fino a poco prima aveva dormito tenendola premuta contro un cuscino e i suoi occhi sonnacchiosi lo guardavano con aria cordiale ma confusa.

«Misericordia ... da dove è spuntato? Devo essermi addormentata sull'amaca. Tutti gli altri sono andati a Newport. Ha suonato?», chiese in modo incoerente.

Archer era più confuso di lei. «Io ... no ... cioè, stavo giusto per andarmene. Dovevo venire da queste parti per vedere un cavallo e sono passato nell'eventualità di trovare la signora Blenker e i vostri ospiti. Ma la casa sembrava vuota ... così mi sono messo a sedere ad aspettare.»

La signorina Blenker, scacciando via i veli del sonno, lo guardava con crescente interesse. «La casa è proprio vuota. Mamma non è qui, neanche la marchesa, non c'è nessun altro tranne me.» Il suo sguardo assunse una leggera aria di rimprovero. «Non sapete che il professor Sillerton e la signora Sillerton questo pomeriggio danno un ricevimento all'aperto in onore della mamma e di tutte noi? È stata una vera disdetta che non ci sia potuta andare; ma ho avuto mal di gola e la mamma era preoccupata che il ritorno in carrozza stasera potesse farmi male. Ha mai conosciuto delusione più grande? Certamente», aggiunse con allegria, «non mi sarei preoccupata così tanto se avessi saputo che sarebbe venuto lei.»

Dato l'apparire in lei dei segnali di una impacciata civetteria, Archer trovò la forza di interromperla: «Ma Madame Olenska ... anche lei è andata a Newport?».

La signorina Blenker lo guardò stupita. «Madame Olenska ... non ha saputo che l'hanno mandata a chiamare?»

«L'hanno mandata a chiamare?»

«Oh, il mio parasole migliore! Lo avevo prestato a quell'oca di Katie, perché si intonava con i suoi nastri e quella sbadata deve averlo lasciato qui. Noi Blenker sembriamo tutti... degli autentici bohémiens!» Riprese il parasole e con mano ferma lo aprì, tenendo sospesa sulla testa la sua cupola rosa. «Sì, Ellen è dovuta partire ieri: sapete, lei ci permette di chiamarla Ellen. È arrivato un telegramma da Boston: ha detto che sarebbe stata via per due giorni. Quanto mi piace come si pettina, e a lei no?», divagò la signorina Blenker.

Archer continuava a trapassarla con lo sguardo come se fosse stata trasparente. Tutto quello che vedeva era il chiassoso roseo ombrellino che le si incurvava sulla testa scossa da sciocche risatine.

Dopo un attimo lui si azzardò a dire: «Non sa per caso perché Madame Olenska è andata a Boston? Non sarà a causa di cattive notizie?».

La signorina Blenker accolse queste parole con allegro scetticismo: «Oh, non credo. Non ci ha detto cosa dicesse il telegramma. Penso che non volesse farlo sapere alla marchesa. Ha un aspetto così romantico, non è vero? Non le ricorda la signora Scott-Siddons quando legge II corteggiamento di Lady Geraldina Non l'ha mai sentita?».

Archer stava riflettendo in fretta in mezzo a una folla di pensieri. Sembrava che tutto il suo futuro gli si sciorinasse improvvisamente davanti; e scorrendolo in tutta la sua vacuità vide l'immagine che andava scemando di un uomo al quale non sarebbe mai successo niente. Lo guardò fugacemente sullo sfondo del giardino non potato, della casa in rovina, del boschetto di querce sotto le quali l'oscurità si stava addensando. Gli era sembrato precisamente il luogo in cui avrebbe dovuto incontrare Madame Olenska; e lei era lontana, e neanche l'ombrellino rosa era suo ...

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Aggrottò le sopracciglia ed esitò. «Penso che non sappia ... domani sarò a Boston. Se riuscissi a vederla ...»

Sentì che la signorina Blenker stava perdendo interesse per lui, anche se seguitava a sorridergli. «Oh, certo; molto gentile da parte sua! Ellen sta alla Parker House; deve essere spaventoso da quelle parti con il caldo che fa.»

Dopo di che Archer solo a tratti seguì le osservazioni che si scambiarono. Riusciva solo a ricordare di essersi fermamente opposto alle insistenze di lei affinché attendesse il ritorno della famiglia e prendesse con loro il tè delle sette prima di tornare a casa. Alla fine, con la sua ospite al fianco, si sottrasse al tiro del Cupido di legno, slegò i cavalli e si allontanò. Dal punto in cui il

sentiero descriveva una curva vide accanto al cancello la signorina Blenker che agitava l'ombrellino rosa in segno di saluto.

Capitolo ventitreesimoLa mattina seguente Archer, quando scese dal treno di Fall River, si trovò in una Boston in piena

estate e soffocata dal caldo. Le strade vicino alla stazione erano invase da un odore misto di birra, caffè e frutta marcia. Le percorrevano popolani in maniche di camicia che avevano l'aria trasandata di pensionanti che attraversano il corridoio diretti in bagno.

Archer trovò una vettura e si diresse verso il Somerset Club per fare la prima colazione. Anche nei quartieri alti si respirava un'aria trasandata e senza pretese a cui nessun eccesso di caldo riduce mai le città europee. Sorveglianti vestiti di cotonina bighellonavano sulle soglie delle case signorili e il parco pubblico sembrava un luogo di ricreazione all'indomani di una scampagnata della massoneria. Se Archer avesse cercato di immaginare Ellen Olenska in uno scenario inverosimile, non gli sarebbe venuto in mente nessun luogo in cui fosse più difficile inserirla di questa Boston abbandonata e sopraffatta dal caldo.

Fece la prima colazione con appetito e metodo, iniziando con una fetta di melone e immergendosi nella lettura del giornale del mattino, in attesa che gli servissero pane abbrustolito e uova strapazzate. Una nuova sensazione di energia e di dinamismo si era impadronita di lui sin da quando, la sera prima, aveva detto a May che avrebbe avuto da fare a Boston; in serata avrebbe preso il battello per Fall River e sarebbe tornato a New York il giorno dopo. Era sempre stato implicito che sarebbe tornato in città all'inizio della settimana; quando, poi, era rientrato dalla sua spedizione a Portsmouth, era bastata una lettera dall'ufficio che il destino aveva messo in bella mostra sul tavolo dell'ingresso a giustificare il suo improvviso cambiamento di programma. Si era addirittura vergognato della facilità con cui si era risolta l'intera faccenda; con un certo imbarazzo si ricordò degli ingegnosi sotterfugi di Lawrence Lefferts per salvaguardare la propria libertà. Ma questo pensiero non lo turbò a lungo perché non aveva nessuna voglia di fare analisi.

Dopo colazione, fumò una sigaretta e diede una rapida scorsa al Commercial Adviser. Nel frattempo entrarono due o tre signori che conosceva, con i quali scambiò i soliti saluti; in fin dei conti il mondo non era cambiato, anche se lui aveva una strana sensazione di essersi liberato dalle maglie del tempo e dello spazio.

Guardò l'orologio e, vedendo che erano le nove e mezzo, si alzò e andò nella sala di scrittura. Vergò poche righe e ordinò a un fattorino di portarle alla Parker House prendendo una carrozza e di aspettare la risposta. Poi si sedette, mettendosi a leggere un altro giornale, e cercò di calcolare quanto tempo avrebbe impiegato una vettura ad arrivare fino alla Parker House.

«La signora era uscita, signore», udì improvvisamente accanto a sé la voce di un cameriere. «Uscita?» farfugliò, come se fosse una parola appartenente a una lingua sconosciuta.

Si alzò e andò all'ingresso. Doveva esserci un errore: non poteva essere uscita a quell'ora. Arrossì dalla rabbia per la propria stupidità: perché non aveva mandato il biglietto non appena era arrivato?

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Prese cappello e bastone e uscì in strada. La città improvvisamente era divenuta estranea, grande e vuota come se lui fosse un viaggiatore venuto da terre lontane. Per un momento indugiò sulla porta; poi decise di andare alla Parker House. E se il fattorino fosse stato male informato e lei fosse ancora in albergo?

Cominciò ad attraversare il parco pubblico e la trovò seduta sulla prima panchina, sotto un albero. Si riparava con un ombrellino di seta grigia (come aveva potuto immaginarla con un ombrellino rosa?). Non appena le si avvicinò, fu colpito dal suo atteggiamento indifferente: stava lì come se non avesse niente altro da fare. La vedeva di profilo, con gli occhi abbassati, con i capelli legati dietro il collo sotto il cappello scuro e con il lungo guanto arrotolato sulla mano con cui reggeva il parasole. Newland avanzò di un paio di passi, lei si voltò e lo guardò.

«Oh!», disse Ellen e, per la prima volta, egli notò un'espressione di stupore sul suo viso, che subito dopo, però, cedette a un tardivo sorriso di meraviglia e di piacere.

«Oh!», sussurrò di nuovo, in tono diverso, mentre lui la osservava stando in piedi; e lei, senza alzarsi, gli fece posto sulla panchina.

«Sono qui per affari ... sono appena arrivato», spiegò Archer; e senza sapere il perché si mise improvvisamente a fingersi sorpreso nel vederla. «Ma cosa mai ci fai tu in questa landa desolata?» Non aveva la minima idea di che cosa stesse dicendo: aveva l'impressione di urlarle attraverso lontananze senza fine, come se lei potesse dileguarsi di nuovo senza che lui riuscisse a raggiungerla.

«Io? Oh, anch'io sono qui per affari», rispose lei girandosi verso di lui, così che si trovarono faccia a faccia. Lui non percepiva le parole di Ellen, ma si rendeva conto solo della sua voce e

della sorprendente realtà che nella sua memoria non ne era rimasta neanche l'eco. Non si era neanche ricordato che era una voce profonda, con una durezza appena percettibile sulle consonanti.

«Hai cambiato pettinatura», disse lui, sentendo il cuore battergli come se avesse pronunciato qualcosa di irrevocabile.

«Cambiato pettinatura? No, è solo che cerco di fare del mio meglio quando non c'è Nastasia.»

«Nastasia? ma non è con te?»

«No, sono sola. Non valeva la pena farla venire per due giorni».

«Sei sola ... alla Parker House?»

Lei lo guardò con un lampo della sua antica malizia: «Ti pare che sia pericoloso?».

«No, non pericoloso.»

«Ma è anticonformista, no? Capisco; sì, credo che lo sia.» Rimase a riflettere per un momento. «Non ci avevo pensato, perché ho appena fatto qualcosa di gran lunga più anticonformista.» La vaga sfumatura di ironia indugiò nei suoi occhi. «Ho appena rifiutato di riprendere una somma di denaro ... che mi apparteneva.»

Archer si alzò di scatto e si allontanò di uno o due passi. Lei aveva chiuso l'ombrellino e sedeva tracciando distrattamente disegni sulla ghiaia. Lui tornò subito indietro e rimase in piedi di fronte a lei.

«È venuto qualcuno qui per incontrarti?»

«Sì.»

«Facendoti questa offerta?».

Lei annuì.

«E tu hai rifiutato ... a causa delle condizioni?»

«Ho rifiutato», disse lei dopo un istante.

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Le si sedette di nuovo accanto. «Quali erano queste condizioni?».

«Oh, non erano gravose: avrei dovuto soltanto occupare il posto d'onore a tavola di tanto in tanto.»

Ci fu un'altra pausa di silenzio. Archer sentì il suo cuore sobbalzare e stringersi nel solito modo curioso, ragion per cui si sedette cercando inutilmente di dire qualcosa.

«Ti rivuole indietro ... a qualsiasi prezzo?»

«Beh, a un prezzo notevole. Almeno per me il prezzo è molto alto.»

Lui indugiò di nuovo, tormentandosi per la domanda che sentiva di doverle fare.

«Sei venuta qui per vederlo?»

Lei lo fissò, poi scoppiò in una risata. «Vedere lui... mio marito? Qui in questa stagione lui è sempre a Cowes o a Baden.»

«Ha mandato qualcuno?»

«Sì.»

«Con una lettera?»

Lei scosse la testa. «No, solo un messaggio. Non scrive mai. Non credo di aver mai avuto da lui più di una lettera.» Questo accenno le accese le guance e, di riflesso, fece arrossire intensamente anche Archer.

«Perché non scrive mai?»

«Perché dovrebbe? A che servono i segretari?»

Il rossore del giovane si accentuò. Lei aveva pronunciato la parola come se nel suo vocabolario, non avesse un senso diverso rispetto ad altre. Per un momento lui ebbe la domanda sulla punta della lingua: «Quindi, ha mandato il suo segretario?». Ma era troppo vivo in lui il ricordo dell'unica lettera che il conte Olenski aveva scritto a sua moglie. Esitò ancora e poi tagliò corto.

«E questa persona chi è?».

«L'emissario? L'emissario», replicò Madame Olenska, ancora sorridendo, «per quanto mi riguarda, potrebbe essere già partito; ma ha insistito perché aspettassi fino a stasera ... nel caso ... nell'eventualità ...»

«E tu sei venuta qui per riflettere su questa eventualità?»

«Sono uscita per respirare una boccata d'aria. L'albergo è troppo soffocante. Questo pomeriggio prenderò il treno per tornare a Portsmouth.»

Rimasero seduti in silenzio, senza guardarsi, ma tenendo gli occhi fissi in avanti sulle persone che passavano per il vialetto. Alla fine lei lo guardò di nuovo in faccia e disse: «Non sei cambiato».

Avrebbe voluto risponderle: «Lo sono, da quando ti ho rivisto», ma invece si alzò bruscamente e, dando un'occhiata intorno a sé, constatò quanto il parco fosse trascurato e opprimente.

«Che brutto posto è questo. Perché non ce ne andiamo un po' sulla baia? C'è un venticello e farà più fresco. Potremmo prendere il vaporetto fino a Point Arley.» Lei sollevò gli occhi su di lui, con una certa esitazione, e lui continuò: «Oggi è lunedì mattina e sul battello non ci sarà nessuno. Il mio treno non ci sarà fino a stasera: tornerò a New York. Perché non dovremmo andarci?», insistette abbassando lo sguardo su di lei; e improvvisamente sbottò: «Non abbiamo fatto tutto quello che potevamo?».

«Oh!», sussurrò di nuovo lei. Si alzò e riaprì il parasole dando un'occhiata intorno come per valutare il luogo dove si trovavano e per essere sicura dell'impossibilità di rimanervi. Poi i suoi occhi tornarono a fissare il volto di lui. «Non devi dire a me cose del genere», disse.

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«Dirò tutto ciò che vuoi; o non dirò niente. Non aprirò bocca fintanto che tu non mi dici di farlo. Che male possiamo fare? Tutto ciò che voglio è ascoltarti», balbettò lui.

Ellen estrasse un orologino dal quadrante d'oro attaccato a una catena smaltata. «Oh, non fare calcoli», esclamò lui, «riservami l'intera giornata! Voglio portarti via da quell'uomo. A che ora verrà?»

Ellen arrossì di nuovo. «Alle undici.»

«Allora devi venire via subito.»

«Non devi aver paura ... se non vengo.»

«Neanche tu, se vieni. Giuro che voglio soltanto avere tue notizie, sapere che cosa hai fatto. Sono passati cento anni da che ci siamo visti... forse ne passeranno altri cento prima che ci vediamo di nuovo.»

Lei ebbe ancora un attimo di esitazione, gli occhi inquieti fissi sul viso di lui. «Perché non sei venuto a prendermi giù alla spiaggia quel giorno che ero dalla nonna?», chiese.

«Perché non ti sei voltata ... perché non sapevi che ero lì. Avevo giurato che non sarei venuto da te se tu non ti voltavi.» Rise non appena fu colpito dalla puerilità di quella ammissione.

«Ma io non mi sono voltata a bella posta.»

«A bella posta?»

«Sapevo che eri lì; quando sei arrivato ho riconosciuto i pony. Così sono scesa fino alla spiaggia.»

«Per fuggire da me il più lontano possibile?»

Lei ripeté a bassa voce: «Per fuggire da te il più lontano possibile».

Lui rise di nuovo, questa volta con fanciullesca soddisfazione. «Beh, come vedi, è inutile. Tanto vale che te lo dica», aggiunse. «Sono venuto qui proprio allo scopo di trovarti. Ma, a proposito, dobbiamo muoverci, altrimenti perderemo il battello.»

«Il battello?», chiese perplessa, aggrottando le sopracciglia, e poi sorrise. «Oh, ma prima devo tornare in albergo: devo lasciare un biglietto ...»

«Tutti i biglietti che vuoi. Puoi scriverlo qui.» Egli tirò fuori un portafoglio e una delle nuove penne stilografiche. «Ho anche una busta ... come vedi non manca niente! Ecco qua ... appoggiati sulle ginocchia, io farò funzionare la penna in un attimo. Bisogna trattarle bene; aspetta ...» Batté con forza la mano in cui teneva la penna contro lo schienale della panchina. «È come spingere giù il mercurio in un termometro: basta saperci fare. Prova ora ...»

Ellen rise e, chinandosi sul foglio di carta che lui aveva posato sul portafoglio, cominciò a scrivere. Archer si allontanò di qualche passo, osservando con occhi raggianti senza vederli i passanti che a loro volta si fermavano davanti all'insolito spettacolo di una elegante signora che scriveva un biglietto, appoggiandosi sulle ginocchia, seduta su una panchina del parco pubblico.

Madame Olenska infilò il foglio nella busta, vi scrisse sopra un nome e se lo mise in tasca. Poi si alzò in piedi anche lei.

Tornarono indietro verso Beacon Street e nei pressi del club Archer si imbatté nel phaéton di lusso che aveva recapitato il suo biglietto alla Parker House e il cui conducente si stava riposando da quello sforzo bagnandosi la fronte all'idrante situato all'angolo della strada.

«Te lo avevo detto che non manca niente! Ecco una vettura per noi. Guarda!» Risero, stupefatti, di fronte al miracolo di poter prendere a quell'ora un mezzo di trasporto pubblico, in quel posto inverosimile, in una città dove i posteggi di carrozze da nolo erano ancora una novità «straniera».

Archer, guardando l'orologio, vide che c'era tempo di passare alla Parker House prima di andare

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verso l'approdo del vaporetto. Percorsero sobbalzando le strade bollenti e si fermarono davanti all'ingresso dell'albergo.

Archer tese la mano per prendere la lettera. «La porto io dentro?», chiese; ma Madame Olenska, scuotendo la testa, saltò fuori della vettura e scomparve oltre le porte a vetri. Erano appena le dieci e mezza; ma che sarebbe successo se l'emissario, impaziente di avere la risposta di Ellen e non sapendo in quale altro modo impiegare il tempo, fosse già seduto davanti a bevande rinfrescanti in mezzo ai viaggiatori con i quali Archer aveva incrociato fugacemente lo sguardo appena lei era entrata?

Attese, camminando su e giù davanti al phaéton. Un giovane siciliano, che aveva gli occhi come quelli di Nastasia, gli propose di lucidargli gli stivali e una matrona irlandese gli offrì delle pesche; e le porte si aprivano in continuazione per fare uscire uomini accaldati con la paglietta appoggiata all'indietro sulla testa, i quali gli gettavano un'occhiata passandogli davanti. Era strano che la porta si aprisse così spesso, che tutte le persone che uscivano fossero così somiglianti tra di loro e che somigliassero ad altri uomini grondanti di sudore i quali, esattamente a quell'ora, in lungo e largo in tutta la regione entravano e uscivano continuamente dalle porte girevoli degli alberghi.

E poi, tutto a un tratto, emerse un volto che lui non riuscì a collegare con gli altri. Ne colse appena la visione di un attimo, perché nel suo andirivieni si era allontanato dal punto che stava sorvegliando, e fu nel ritornare sui propri passi verso l'albergo che, in mezzo a un gruppo di facce caratteristiche — magre e annoiate, rotonde e stupite, dalla mascella sporgente e miti — vide quell'altro volto dalle mille sfaccettature e tutte diversissime. Era il volto di un giovane, ugualmente pallido e semidistrutto dal caldo o dai crucci, o da entrambi, ma in certo qual modo più sveglio, più vivace, più consapevole; o forse appariva tale proprio perché si distaccava dagli altri. Archer rimase per un attimo sospeso a un sottile filo della memoria, che però si spezzò e fluttuò via con il volto che scompariva e che evidentemente apparteneva a qualche uomo d'affari straniero, dall'apparenza doppiamente straniera in uno scenario del genere. Sparì nel flusso dei passanti e Archer riprese il suo pattugliamento.

Non gliene importava niente di essere visto con l'orologio in mano nei pressi dell'albergo e, calcolando suppergiù il tempo trascorso, ne trasse la conclusione che, se Madame Olenska ci metteva tanto a farsi viva, era solo perché aveva incontrato l'emissario ed era stata trattenuta da lui. Pensando a ciò, l'ansia di Archer divenne angoscia.

«Se non viene subito, andrò a cercarla là dentro», disse.

Le porte si spalancarono di nuovo e Ellen lo raggiunse. Salirono sul phaéton e, appena la carrozza partì, lui tirò fuori l'orologio e si rese conto che lei si era assentata per tre minuti appena. Nel fracasso che facevano gli sportelli sgangherati e che impediva loro di parlare, procedettero sobbalzando sui ciottoli sconnessi in direzione del molo.

Seduti fianco a fianco su un sedile del battello semivuoto, si accorsero che avevano ben poco da dirsi, o meglio che ciò che avevano da dire si esprimeva meglio nel beato silenzio della loro liberazione e del loro isolamento.

Non appena le ruote a pale si misero in moto, e i moli e il punto di imbarco cominciarono ad allontanarsi inghiottiti dalla cortina di calore, Archer ebbe l'impressione che si stesse allontanando anche tutto ciò che apparteneva al vecchio mondo conosciuto delle abitudini. Moriva dalla voglia di chiedere a Madame Olenska se anche lei avesse la stessa sensazione: la sensazione che stessero partendo per una lunga traversata che avrebbe potuto essere senza ritorno. Ma aveva paura di dirlo, o di dire qualsiasi altra cosa che potesse turbare il delicato equilibrio della sua fiducia in lui. In realtà non aveva nessuna voglia di tradire quella fiducia. C'erano stati giorni e notti in cui il ricordo del loro bacio aveva seguitato a bruciargli le labbra; anche il giorno prima, durante la gita a Portsmouth, il pensiero di lei lo aveva trapassato come un fuoco; ma ora che lei gli era accanto, e che si lasciavano trasportare alla deriva verso quel mondo sconosciuto, sembrava che avessero raggiunto quel genere di maggiore intimità che la scossa più lieve sarebbe bastata a interrompere.

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Non appena il battello uscì dal porto e si diresse verso il mare aperto, intorno a loro si alzò un venticello e l'insenatura si frantumò in lunghi e oleosi movimenti ondulatori, che si trasformavano in increspature bianche di schiuma. La nebbia prodotta dall'afa incombeva ancora sulla città, ma davanti a loro si estendeva un fresco mondo di acque in agitazione e di lontani promontori su cui si ergevano i fari alla luce del sole. Madame Olenska, appoggiata di spalle al parapetto del battello, assorbiva la frescura tra le labbra socchiuse. Aveva avvolto un lungo velo intorno al cappello, lasciando però scoperto il viso, e Archer fu colpito dalla pacata gioia della sua espressione. Sembrava che prendesse la loro avventura come una cosa di ordinaria amministrazione e che non temesse né di fare incontri imprevisti né (cosa peggiore) di essere eccessivamente impressionata da quella prospettiva.

Nella spoglia sala da pranzo della locanda, che Newland aveva sperato di poter avere tutta per loro, trovarono una chiassosa festa di giovanotti e di signorine dall'aria candida — si trattava di insegnanti in vacanza, spiegò loro l'oste — e lui si sentì mancare il cuore all'idea di dover parlare in mezzo a tutto quello schiamazzo.

«È impossibile rimanere qui ... chiederò che ci diano una stanza riservata», disse; e Madame Olenska, senza fare obiezioni, attese che lui andasse a cercarne una. L'ambiente si affacciava su una lunga veranda di legno, alle cui finestre arrivavano gli spruzzi del mare. Era arredata con semplicità, con un tavolo coperto da una ruvida tovaglia a quadri, su cui stava una bottiglia di sottaceti e una torta di mirtilli protetta da un coprivivande a rete. Mai cabinet particulier dall'aria più innocente aveva offerto rifugio a una coppia clandestina: Archer ebbe l'impressione di vedere una conferma del suo aspetto rassicurante nel sorriso leggermente divertito con cui Madame Olenska sedette di fronte a lui. Una donna che era fuggita da suo marito — e a quel che si diceva con un altro uomo — doveva avere probabilmente conosciuto alla perfezione l'arte di dare per scontata qualsiasi situazione; ma nella qualità del sangue freddo di Ellen c'era qualcosa che toglieva incisività all'ironia di Newland. Mantenendo un atteggiamento così calmo, così poco stupito e così naturale, lei era riuscita a convincerlo che per due vecchi amici che avevano tante cose da raccontarsi era naturale cercare di starsene soli ...

Pranzarono lentamente e con concentrazione, alternando il silenzio a flussi di parole; infatti, una volta rotto l'incantesimo, avevano molto da dire, unitamente però a momenti in cui le parole espresse diventavano il semplice accompagnamento di lunghi dialoghi silenziosi. Archer evitò di parlare delle sue faccende personali, non intenzionalmente ma perché non voleva perdere una sillaba di quanto lei aveva da raccontare; ed Ellen, appoggiata al tavolo e con il mento poggiato sulle mani giunte, gli parlò dell'anno e mezzo trascorso dal loro ultimo incontro.

Si era stancata di quella che la gente chiamava «società»; New York era accogliente, era ospitale in modo quasi oppressivo; lei non avrebbe mai dimenticato come aveva salutato il suo ritorno; ma, passata la prima ebbrezza provocata dalla novità, aveva scoperto di essere troppo «diversa», per dirla con le sue parole, per provare interesse verso le stesse cose alle quali si interessavano i newyorkesi... sicché aveva deciso di provare a vivere a Washington, dove si sarebbe dovuta incontrare una più vasta varietà di persone e di opinioni. E, tutto considerato, probabilmente vi si sarebbe stabilita e vi avrebbe messo su casa per la povera Medora, la quale aveva esaurito la pazienza di tutti gli altri suoi parenti proprio nel momento in cui aveva più bisogno di essere accudita e protetta dai pericoli del matrimonio.

«Ma il dottor Carver ... non hai paura del dottor Carver? Ho sentito dire che è stato con voi dalle Blenker.»

Lei sorrise. «Oh, il pericolo Carver è stato sventato. Il dottor Carver è un uomo molto intelligente. Lui vuole una moglie ricca che finanzi i suoi progetti. Invece Medora rappresenta semplicemente un buon richiamo pubblicitario come convertita.»

«Convertita a che cosa?»

«A ogni specie di sistema sociale che sia nuovo e folle. Ma sappi che questo mi interessa più

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della cieca osservanza della tradizione ... la tradizione di qualcun altro ... come vedo che succede tra i nostri amici. Mi sembra sciocco avere scoperto l'America per poi farne la copia conforme di un altro paese.» Gli sorrise dall'altra parte del tavolo. «Credi che Cristoforo Colombo si sarebbe preso tutto quel disturbo solo per andare all'opera con la famiglia di Selfridge Merry?»

Archer cambiò colore. «E Beaufort... queste cose a Beaufort gliele dici?», chiese bruscamente.

«Non lo vedo da molto tempo. Ma di solito gliele dicevo; e lui è intelligente.»

«Ah, te l'ho sempre detto; noi non ti siamo simpatici. E preferisci Beaufort, perché somiglia così poco a noi.» Guardò la stanza disadorna e, fuori, la spiaggia vuota lungo la quale erano disposte in fila le casette paesane tutte bianche. «Noi siamo maledettamente noiosi. Non abbiamo carattere, non siamo vivaci, siamo tutti uguali. Mi chiedo», proruppe, «perché non torni da dove sei venuta?»

Gli occhi di Ellen si oscurarono e Newland restò in attesa di una reazione. Lei, però, seguitò a tacere, come se stesse pensando a quello che lui aveva appena detto, ed ebbe paura che rispondesse che se lo chiedeva anche lei.

«Credo che sia per causa tua», disse alla fine Ellen.

Era impossibile fare una confessione in modo più spassionato, ovvero in tono meno lusinghiero per la vanità della persona a cui era indirizzata. Archer arrossì fino alla radice dei capelli, ma non osò né muoversi né parlare: era come se le parole di lei rassomigliassero a una farfalla di specie rara che il minimo movimento avrebbe potuto far volare via impaurita, ma che avrebbe potuto radunare intorno a sé un gran numero di compagne se fosse stata lasciata indisturbata.

«Per lo meno», continuò lei, «sei stato tu a farmi capire che, sotto il velo dell'indifferenza, ci sono cose così belle, sensibili e delicate che anche quelle alle quali tenevo di più nella mia precedente esistenza sembrano al confronto di scarso valore. Non so come spiegarmi» — aggrottò le sopracciglia con espressione pensierosa — «ma è come se prima d'ora io non avessi mai capito che i piaceri più raffinati si pagano con quanto di più gravoso, meschino e vile possa esserci.»

«Piaceri raffinati ... si tratta di qualcosa che bisognerebbe aver provato!», sentiva di dover ribattere lui; ma la supplica negli occhi di lei lo fece zittire.

«Io voglio essere completamente onesta con te ... e con me stessa», continuò lei. «A lungo ho sperato che si presentasse questa occasione: che io potessi dirti come mi hai aiutato e cosa hai fatto di me ... »

Archer sedeva guardandola con occhi crucciati. La interruppe con una risata. «E che cosa ne dici di quello che tu hai fatto a me?»

Lei impallidì leggermente. «A te?»

«Sì, perché io sono diventato quello che tu hai creato più di quanto lo sia diventata tu per opera mia. Io sono l'uomo che ha sposato una donna perché un'altra gli ha detto di fare così.»

Il pallore di lei si tramutò in una vampa fugace. «Credevo ... hai promesso ... che oggi non avresti detto certe cose.»

«Ah ... ecco un tipico comportamento femminile! Nessuna donna sarà mai d'aiuto per superare una brutta situazione!»

Ellen abbassò la voce. «Si tratta di una brutta situazione ... che riguarda May?»

Lui stava in piedi davanti alla finestra, tamburellando con le dita sul telaio alzato e avvertendo in ogni fibra la trepidante tenerezza con cui lei aveva pronunciato il nome della cugina.

«Perché è questo a cui dobbiamo pensare sempre ... non è vero ... per tua stessa ammissione?», insistette lei.

«Per mia stessa ammissione?», fece eco lui, seguitando a fissare il mare con sguardo vacuo.

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«Oppure, in caso contrario», continuò lei, seguendo il proprio pensiero con scrupolo penoso, «se non vale la pena essersi arresi, aver perso tanto, di modo che altri possano risparmiarsi disillusioni e infelicità ... allora tutto ciò per cui sono tornata a casa, tutto ciò che al confronto ha fatto sembrare l'altra mia esistenza tanto vuota e misera ... tutte queste cose sono un inganno o un sogno ...»

Newland si girò senza muoversi da dove stava. «E in questo caso non c'è ragione alcuna perché tu non debba tornare indietro?», concluse per lei.

I suoi occhi erano disperatamente incollati su di lui. «Ah, non c'è nessuna ragione?»«No, se hai puntato tutto sul successo del mio matrimonio. Il mio matrimonio», disse con

cattiveria, «non è certo uno spettacolo tale da trattenerti qui». Lei non rispose e Newland continuò: «A che serve? Mi hai fatto intravedere per la prima volta una fugace visione di vita vera, e contemporaneamente mi hai chiesto di continuare a viverne una falsa. Va oltre la resistenza umana ... ecco cos'è».

«Oh, non dire questo, dal momento che io resisto!», esplose lei, con gli occhi colmi di lacrime.

Teneva le braccia abbandonate sul tavolo e sedeva offrendo il volto allo sguardo di lui, quasi noncurante del pericolo che la disperazione la rendesse vulnerabile. Il volto la esponeva tanto quanto l'intera sua persona, poiché dietro c'era l'anima: Archer rimase muto e sopraffatto da quanto improvvisamente gli era stato rivelato.

«Anche tu ... per tutto questo tempo, anche tu?»

Per tutta risposta, lei lasciò che le lacrime le sgorgassero dagli occhi e scendessero lentamente.

Li divideva ancora lo spazio di mezza stanza e nessuno dei due accennò a muoversi. Archer aveva coscienza di una strana indifferenza della presenza corporea di Ellen: non se ne sarebbe accorto se una delle mani che lei aveva lasciato cadere sul tavolo non avesse attirato il suo sguardo come quando, nella casetta della Ventitreesima Strada, lui aveva continuato a fissargliela per non guardarla in faccia. Ora la sua immaginazione si muoveva rapidamente intorno a quella mano come sull'orlo di un vortice; ma non fece ancora nessuno sforzo per avvicinarsi. Aveva conosciuto l'amore che si nutre di carezze e che le alimenta; ma questa passione che gli era penetrata fino alle ossa non si sarebbe accontentata di una soddisfazione superficiale. Il suo unico terrore era di fare qualcosa che potesse cancellare il suono e l'impressione delle parole di Ellen; il suo unico pensiero era che non si sarebbe mai più sentito completamente solo.

Ma un attimo dopo lo travolse una sensazione di vuoto e di rovina. Erano lì, l'uno accanto all'altra, al sicuro, chiusi in una stanza; eppure erano così incatenati ai loro disgiunti destini che si sarebbe potuta interporre tra di loro anche la metà del mondo.

«A che serve ... quando te ne andrai?», sbottò Newland, mentre sotto le sue parole si avvertiva il suono di un grido disperato: «Come posso fare per trattenerti?».

Lei sedeva immobile, con gli occhi abbassati. «Ah, ... non andrò ancora!»

«Ancora no? Fra un po', allora? Fra un po' di tempo che già prevedi?»

A quel punto lei alzò lo sguardo del tutto limpido. «Te lo prometto: non me ne andrò finché tu resisti. No, finché potremo guardarci dritto negli occhi come in questo momento.»

Lui si lasciò cadere sulla sedia. Ciò che in realtà la risposta di Ellen significava era questo: «Se alzi un dito, mi farai tornare indietro: mi farai tornare indietro verso tutto quell'abominio che tu conosci, verso tutte le tentazioni di cui hai una vaga idea.» Lo capì chiaramente, come se si fosse espressa a parole, e quel pensiero lo tenne ancorato al suo lato del tavolo in una sorta di commossa e riverente rassegnazione.

«Che vita è questa per te ... », gemette lui.

«Ah, purché faccia parte della tua vita.»

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«E purché la mia faccia parte della tua?»

Ellen assentì con un cenno.

«E questo deve essere tutto ... per ciascuno di noi?»

«Già, è tutto, non è così?»

A quel punto lui saltò in piedi, dimentico di tutto tranne che della dolcezza del volto di lei. Anche Ellen si alzò, non per andargli vicino o per evitarlo, bensì con calma, come se la parte peggiore del compito fosse stata superata e a lei non rimanesse che aspettare; con tanta dolcezza che, appena Newland le venne più vicino, le sue mani protese agirono non da freno ma da guida per lui. Esse incontrarono quelle di lui, mentre le sue braccia, tese ma non rigide, lo tenevano abbastanza lontano da permettere alla sua espressione di resa di rivelare il resto.

Forse rimasero in piedi in quel modo a lungo, o forse per pochi istanti; ma quello bastò perché il silenzio di Ellen esprimesse tutto quello che lei aveva da dire, e perché lui sentisse che solo una cosa contava. Non doveva fare niente perché quel loro incontro fosse l'ultimo; doveva lasciare che lei si prendesse cura del loro futuro, chiedendo solo che lo tenesse saldamente in pugno.

«No, non essere infelice», disse Ellen con voce rotta, mentre ritraeva le mani; e Newland rispose: «Non te ne andrai... non te ne andrai via?», come se quella fosse l'unica evenienza che non avrebbe potuto sopportare.

«No, non andrò via», disse lei; e si voltò per aprire la porta, precedendolo nella sala da pranzo dove si trovavano tutti gli altri.

I chiassosi insegnanti stavano radunando le loro cose preparandosi a fare una volata in ordine sparso verso il molo; dall'altra parte della spiaggia il vaporetto bianco era attraccato al pontile; e sulle acque illuminate dal sole Boston si profilava in lontananza in una fascia di foschia.

Capitolo venticinquesimoUna volta di nuovo sul battello, e alla presenza di altre persone, Archer sentì una tranquillità

d'animo che lo sorprese ma che, nello stesso tempo, lo sostenne.

In base a una normale valutazione, la giornata era stata un insuccesso alquanto buffo; non aveva ottenuto altro che di sfiorare con le labbra la mano di Madame Olenska, o tirarle fuori una mezza promessa di ulteriori occasioni di incontro. Ciò nonostante, pur essendo un uomo sofferente per un amore inappagato, e sul punto di separarsi dalla donna che amava con tanta passione per un periodo di tempo indeterminato, si sentiva, in modo quasi imbarazzante, calmo e rasserenato. Era l'equilibrio perfetto che Ellen aveva mantenuto tra la loro lealtà verso gli altri e la loro onestà verso se stessi che lo aveva messo così in agitazione e, tuttavia, tranquillizzato; un equilibrio che non era ingegnosamente calcolato, come le lacrime e la fragilità di lei avevano dimostrato, ma che scaturiva naturalmente dalla sua sincerità senza pudori. Poiché il pericolo era passato, questa constatazione lo riempiva di un tenero timore reverenziale e gli faceva ringraziare la sorte che nessuna vanità personale, nessuna sensazione di recitare una parte di fronte a sofisticati testimoni, Io avessero indotto a tentarla. Anche dopo che, alla stazione di Fall River, si furono stretti la mano per salutarsi ed era andato via da solo, gli era rimasta la convinzione di aver salvato del loro incontro molto più di quanto avesse sacrificato.

Tornò lentamente verso il circolo e andò a sedersi solo nella biblioteca deserta, pensando e ripensando a ogni minimo istante delle ore che avevano passato insieme. Gli era chiaro, e a un più attento esame gli apparve ancora più chiaro, che se lei alla fine avesse deciso di tornare in Europa — di tornare cioè da suo marito — non l'avrebbe fatto perché attratta dal vecchio modo di vivere, sia pure in base alle condizioni che le erano state offerte. Niente di tutto questo: Ellen sarebbe andata via solo se avesse ritenuto di essere diventata una tentazione per Archer, una tentazione ad allontanarsi dal modello di vita che entrambi si erano imposto. Ellen aveva deciso di stargli vicino,

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purché lui non le chiedesse di avvicinarsi di più; e dipendeva da lui farcela restare, al sicuro ma a distanza.

In treno questi pensieri non lo lasciarono, anzi lo chiusero in una sorta di nebbia dorata, attraverso la quale i volti intorno a lui gli apparivano lontani e confusi: aveva la sensazione che, se se si fosse messo a parlare con i suoi compagni di viaggio, costoro non avrebbero capito cosa stesse dicendo. La mattina seguente, destandosi alla realtà di una soffocante giornata di settembre a New York, si ritrovò in questo stato di astrazione. I volti sfiniti dal caldo lo sorpassarono mentre il lungo treno si allontanava e lui continuò a fissarli attraverso la stessa nebulosità dorata; ma improvvisamente, appena uscito dalla stazione, uno dei volti si staccò dagli altri, si avvicinò e si impose alla sua capacità di percezione. Era, come ricordò immediatamente, il viso del giovane che aveva visto il giorno prima mentre usciva dalla Parker House e che aveva notato in quanto non presentava le caratteristiche del cliente di alberghi americani.

La stessa cosa lo colpì in quel momento; e nuovamente si rese conto di una vaga sensazione in rapporto a precedenti associazioni di idee. Il giovane stava lì e si guardava intorno con l'aria disorientata dello straniero che affronta la dura realtà di un viaggio in terra americana; poi andò verso Archer, si tolse il cappello e disse in inglese: «Monsieur, ma non ci siamo conosciuti a Londra?».

«Ah, certo, a Londra!». Archer gli strinse la mano, dimostrandogli interesse e simpatia. «Sicché, alla fine, è arrivato qui», esclamò, osservando con stupore il piccolo viso, dall'espressione vivace e stravolta, del giovane precettore francese delle Carfry.

«Oh, sì, eccomi qui», disse Monsieur Rivière con un sorriso tirato. «Ma non per molto; riparto dopodomani.» Stava lì, stringendo la sua leggera borsa da viaggio in una mano accuratamente guantata e fissando ansiosamente il viso di Archer, con aria imbarazzata, quasi supplichevole.

«Mi chiedo, Monsieur, dal momento che ho avuto la fortuna di incontrarla, se potrei...»

«Stavo giusto per proporglielo: venga a pranzo, vuole? Intendo dire in città: se passerà da me nel mio ufficio, la porterò in un ristorante molto decoroso lì vicino.»

Monsieur Rivière era visibilmente colpito e sorpreso. «Lei è troppo gentile. Ma io stavo solo per chiederle se può dirmi come raggiungere un mezzo di trasporto qualsiasi. Non ci sono facchini e sembra che nessuno dia retta ...»

«Lo so: le nostre stazioni qui in America devono stupirla. Chiede un facchino e le danno gomma da masticare. Ma se verrà con me, le risolverò il problema; e deve venire sul serio a pranzo con me, sa.»

Dopo un attimo di esitazione appena percettibile, il giovane rispose profondendosi in ringraziamenti e con un tono che non suonava totalmente convinto di essere già impegnato; ma una volta raggiunta la relativa sicurezza della strada, chiese se poteva andarlo a trovare nel pomeriggio.

Archer, non avendo molto da fare in ufficio in quel periodo dell'estate, indicò un'ora e scarabocchiò il suo indirizzo. Il francese mise in tasca il biglietto con reiterati ringraziamenti e ampie scappellate. Salì su un tram a cavalli e Archer se ne andò per la sua strada.

Puntualmente all'ora stabilita Monsieur Rivière apparve, sbarbato, rimesso in ordine ma ancora chiaramente teso e serio. Archer era solo in ufficio e il giovane, prima di accettare la sedia che gli veniva offerta, esordì bruscamente: «Credo di averla vista ieri, signore, a Boston».

L'affermazione era piuttosto priva di senso e Archer stava per formulare una risposta affermativa quando le parole gli si bloccarono per qualcosa di misterioso ma chiarificatore che colse nello sguardo insistente del suo visitatore.

«È straordinario, molto straordinario», continuò Monsieur Rivière, «che dovessimo incontrarci nelle circostanze in cui mi trovo.»

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«Quali circostanze?», domandò Archer, chiedendosi un po' cinicamente se avesse bisogno di soldi.

Monsieur Rivière continuò a studiarlo con sguardo indagatore. «Sono venuto non a cercare lavoro, come dissi di voler fare l'ultima volta che ci siamo incontrati, bensì per svolgere una missione speciale.»

«Ah!», esclamò Archer. In un baleno le due volte che si erano incontrati collimarono nella sua mente. Fece una pausa per afferrare la situazione che in modo così improvviso gli si era chiarita e anche Monsieur Rivière rimase in silenzio, come se si rendesse conto che quanto aveva detto era sufficiente.

«Una missione speciale», ripeté Archer alla fine.

Il giovane francese aprì le mani tenendo le palme un po' sollevate e i due uomini seguitarono a guardarsi da una parte all'altra della scrivania, fino a che Archer si alzò per dire: «Si accomodi»; dopo di che Monsieur Rivière fece un inchino, prese una sedia che stava più in là e restò di nuovo in attesa.

«È a proposito di questa missione che voleva consultarmi?», chiese alla fine Archer.

Monsieur Rivière abbassò il capo. «Non nel mio interesse: in quanto a questo ... ho già fatto la mia parte. Vorrei, se mi è consentito, parlarle della contessa Olenska.»

Durante quegli ultimi minuti Archer aveva avuto la certezza che quelle parole sarebbero state pronunciate; ma quando ciò avvenne sentì il sangue salirgli alla testa, come se fosse stato colpito da un ramo piegato in un boschetto.

«E nell'interesse di chi desiderate parlarmi?», chiese.

Monsieur Rivière rispose alla domanda con determinazione. «Beh, potrei dire nell'interesse della contessa, se non sembrasse poco riguardoso. Dovrei dire invece: nell'interesse di una giustizia astratta?»

Archer lo guardò ironicamente. «In altre parole: lei è il messaggero del conte Olenski?»

L'espressione terrea di Monsieur Rivière rispecchiava più profondamente il rossore di Newland.

«Non per lei, Monsieur. Se mi rivolgo a lei, lo faccio partendo da presupposti del tutto diversi.»

«Che diritto ha, date le circostanze, di basarsi su altre ipotesi?», ribatté Archer. «Se lei è un emissario, a questo deve attenersi.»

Il giovane rifletté. «La mia missione è finita: per quanto riguarda la contessa Olenska, è stato un fiasco.»

«Non posso farci nulla», replicò Archer con lo stesso tono ironico.

«No: ma lei può fare in modo ...» Monsieur Rivière si arrestò, girò il cappello tra le mani ancora accuratamente guantate, guardò la fodera e poi di nuovo la faccia di Archer. «Lei, Monsieur, può fare in modo, ne sono convinto, che sia un fiasco anche per la famiglia della contessa.»

Archer spinse indietro la sedia e si alzò. «Già, lo farò, per Dio!», esclamò. Rimase in piedi con le mani in tasca, squadrando sdegnosamente il piccolo francese, la cui faccia, quantunque fosse in piedi anche lui, era sempre di qualche centimetro al di sotto della linea degli occhi di Archer.

Monsieur Rivière tornò al suo normale pallore: il suo colorito non poteva diventare più pallido.

«Perché diavolo», continuò Archer con violenza, «le sarebbe venuto in mente — dal momento che suppongo che si rivolga a me a causa della mia parentela con Madame Olenska — che io potrei pensarla in modo diverso dal resto della famiglia?».

Per un po' il mutamento di espressione sul volto di Monsieur Rivière fu l'unica risposta che ottenne. Lo sguardo del francese passò dalla timidezza all'angoscia assoluta: per un giovane

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abituato a comportarsi con disinvoltura sarebbe stato difficile sembrare più disarmato e indifeso. «Oh, Monsieur ...»

«Non riesco a capire», continuò Archer, «perché sarebbe venuto da me quando ci sono altre persone molto più vicine alla contessa; ancora meno capisco perché abbia pensato che io potessi essere più influenzabile grazie alle argomentazioni a sostegno delle quali suppongo sia stato inviato.»

Monsieur Rivière subì questo attacco con una umiltà sconcertante. «Le argomentazioni che voglio esporle, Monsieur, sono mie e non quelle che sono stato incaricato di riferire.»

«Allora, secondo me, ci sono ancora meno motivi per ascoltarle.»

Monsieur Rivière guardò di nuovo nel suo cappello, come per valutare se quelle ultime parole non fossero un invito chiaro a metterselo e ad andarsene. Poi, con piglio risoluto, parlò. «Monsieur ... mi dirà una cosa? È il mio diritto a trovarmi qui quello che lei mette in dubbio? O forse crede che l'intera faccenda sia già chiusa?»

La sua tranquilla insistenza fece sì che Archer si rendesse conto della mancanza di tatto del suo scoppio d'ira. Monsieur Rivière era riuscito a imporsi: Archer, arrossendo leggermente, si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e fece cenno al giovane di sedersi.

«Le domando scusa: ma perché la faccenda non è chiusa?»

Monsieur Rivière gli restituì uno sguardo angosciato. «Quindi lei è d'accordo con il resto della famiglia che, di fronte alle nuove proposte di cui sono stato latore, Madame Olenska non può non ritornare da suo marito?»

«Buon Dio», esclamò Archer; e il suo visitatore confermò mormorando quanto aveva appena detto.

«Prima di vedere la contessa, ho incontrato — su richiesta del conte Olenski — il signor Lovell Mingott, con il quale ho avuto diversi colloqui prima di recarmi a Boston. A quanto mi consta, egli rappresenta l'opinione di sua madre, la vedova di Manson Mingott, la quale esercita un grande ascendente su tutta la sua

famiglia.»

Archer sedeva in silenzio, con la sensazione di stare aggrappato all'orlo di un precipizio sdrucciolevole. Scoprire che era stato escluso dal prendere parte a quelle trattative e che non era stato informato neanche che fossero in corso, gli causò uno stupore che non era attutito dalla meraviglia ancora più grande per quanto stava apprendendo. Si rese conto in un baleno che se la famiglia aveva smesso di consultarlo ciò era dovuto a un profondo istinto tribale che li aveva messi in guardia sul fatto che lui non era più dalla loro parte; e, comprendendola di colpo, si ricordò di un'osservazione di May il giorno della gara di tiro all'arco: «Forse, in fin dei conti, Ellen sarebbe più felice con suo marito».

Sia pure nell'agitazione di quanto andava scoprendo, Archer rammentò la sua esclamazione sdegnata e il fatto che da allora in poi sua moglie non gli aveva più nominato Madame Olenska. L'allusione noncurante di May era stata senza dubbio la pagliuzza sollevata per vedere da che parte soffiasse il vento; l'esito era stato riferito alla famiglia e, a partire da quel momento, Archer era stato tacitamente lasciato fuori dalle loro consultazioni. Egli ammirava la disciplina tribale che faceva piegare May a questa decisione. Non lo avrebbe fatto, lui ne era certo, nel caso in cui la sua coscienza si fosse ribellata; ma probabilmente condivideva l'opinione della famiglia, secondo cui per Madame Olenska sarebbe stato preferibile essere una moglie infelice piuttosto che separata, ragion per cui non sarebbe servito a niente discutere il caso con Newland, il quale a quanto pareva aveva uno strano modo di rifiutarsi tutto a un tratto di dare per scontate le cose ritenute più essenziali.

Archer alzò gli occhi e incontrò lo sguardo ansioso del suo visitatore. «Non sa, Monsieur ...

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possibile che non lo sappia ... che i parenti cominciano a dubitare se hanno il diritto di consigliare la contessa di rifiutare le ultime proposte del marito?»

«Le proposte che lei ha portato?»

«Le proposte che ho portato.»

Archer fu sul punto di ribattere che qualsiasi cosa lui sapesse o non sapesse non riguardava Monsieur Rivière; ma nella tenacia umile quanto coraggiosa che si leggeva nello sguardo di Monsieur Rivière c'era qualcosa che lo indusse a scartare questa conclusione e a rispondere al giovane con un'altra domanda: «Qual è il suo scopo nel parlarmi di questo?».

Non dovette attendere la risposta neanche un istante. «Pregarla, Monsieur ... pregarla con tutta la forza di cui sono capace ... non lasci che torni indietro ... Oh, non la lasci tornare!», esclamò Monsieur Rivière.

Archer lo guardò con crescente meraviglia. Non si poteva mettere in dubbio la sincerità della sua angoscia o la forza della sua determinazione: evidentemente Monsieur Rivière aveva deciso di rinunciare a tutto, tranne al bisogno estremo di chiarire la propria posizione. Archer vagliò la situazione.

«Posso chiedere», disse alla fine, «se è questa la linea di comportamento che ha adottato con la contessa Olenska?».

Monsieur Rivière arrossì, ma il suo sguardo non tentennò. «No, Monsieur: ho accettato di compiere la mia missione in buona fede. Credevo veramente — per motivi con cui non la starò a seccare — che sarebbe stato meglio per Madame Olenska ricuperare la posizione, il patrimonio e la reputazione sociale che il rango del marito le garantisce.»

«Ne ero certo: diversamente, non avrebbe accettato un simile incarico.»

«Non lo avrei accettato.»

«Bene, allora ... ?» Archer tacque di nuovo e i loro occhi si incontrarono, scrutandosi a lungo.

«Ah, Monsieur, dopo aver visto la contessa, dopo averla ascoltata, ho capito che qui starebbe molto meglio.»

«Lei ha capito ... ?»

«Monsieur, ho portato a termine il mio incarico lealmente: ho esposto le motivazioni del conte, ho presentato le sue proposte, senza aggiungere alcun commento personale. La contessa è stata abbastanza gentile da ascoltarmi pazientemente; è stata buona al punto da ricevermi due volte; ha considerato in modo imparziale tutto ciò che ero venuto a dirle. Ed è stato durante questi due colloqui che ho cambiato idea, che sono arrivato a vedere le cose sotto una luce diversa.»

«Posso chiederle che cosa le ha fatto cambiare idea?»

«Constatando semplicemente il cambiamento che si è prodotto nella contessa», rispose Monsieur Rivière.

«Il cambiamento che si è prodotto in Madame Olenska? Quindi, già la conosceva?»

Il giovane arrossì di nuovo. «Ero solito vederla a casa del marito. Conosco il conte Olenski da molti anni. Come può immaginare, lui non avrebbe affidato a un estraneo un incarico del genere.»

Lo sguardo fisso di Archer, vagando sulle pareti vuote dell'ufficio, si fermò su un calendario che vi era appeso, sormontato dalle sembianze austere del presidente degli Stati Uniti. Il fatto che quella conversazione si svolgesse in un punto situato entro milioni di chilometri quadrati su cui egli governava sembrava strano quanto qualunque cosa l'immaginazione potesse spingersi a creare.

«Il cambiamento ... che tipo di cambiamento?»

«Ah, Monsieur, se lo sapessi!» Monsieur Rivière si fermò. «Tenete la scoperta, suppongo, di ciò

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a cui non avevo mai pensato prima: che la contessa è un'americana. E che, se si è americani del suo tipo ... o del suo tipo Monsieur ... le cose che vengono accettate in certe altre società, o almeno sopportate in base a un generale opportuno compromesso ... diventano impensabili, semplicemente impensabili. Se i parenti di Madame Olenska avessero capito di che cosa si trattava, la loro opposizione al suo ritorno sarebbe stata indubbiamente senza riserve, come quella di Madame Olenska; ma, a quanto pare, loro ritengono che il desiderio del marito di riaverla con sé sia una prova del suo anelito a ricostituire una vita di famiglia.» Monsieur Rivière fece un'altra pausa e poi aggiunse: «Invece le cose sono tutt'altro che così semplici».

Archer tornò a guardare il presidente degli Stati Uniti, poi abbassò gli occhi sulla scrivania ingombra di carte sparpagliate. Per un paio di secondi non fu in grado di fidarsi di se stesso per parlare. Durante questo intervallo udì il rumore della sedia di Monsieur Rivière spinta indietro e si rese conto che il giovane si era alzato in piedi. Quando levò di nuovo lo sguardo, si accorse che il suo visitatore era commosso quanto lui.

«Grazie», disse Archer semplicemente.

«Non c'è niente di cui debba ringraziarmi, Monsieur; io, piuttosto ...» Monsieur Rivière si interruppe, come se anche lui avesse difficoltà a parlare. «Tuttavia vorrei aggiungere una cosa», continuò con voce più sicura. «Lei mi ha chiesto se fossi alle dipendenze del conte Olenski. Attualmente lo sono: sono tornato a lavorare per lui, qualche mese fa, per motivi di necessità personale, come può capitare a chiunque abbia persone care che sono malate e anziane e che dipendono da lui. Ma dal momento che ho deciso di venire qui a dirle queste cose, mi considero licenziato e al mio ritorno glielo dirò, spiegandogliene i motivi. Questo è tutto, Monsieur.»

Monsieur Rivière si inchinò e indietreggiò di un passo.

«Grazie», disse di nuovo Archer, mentre si stringevano la mano.

Capitolo ventiseiesimoTutti gli anni, il quindici di ottobre, gli abitanti della Quinta Strada aprivano le imposte,

srotolavano i tappeti e appendevano alle finestre le tende in triplice ordine.

Il primo novembre questo rituale di famiglia era concluso e il bel mondo aveva cominciato a guardarsi intorno e a fare il bilancio di se stesso. Il giorno quindici la stagione era già in pieno sviluppo, l'opera e i teatri proponevano le loro nuove attrazioni, gli impegni conviviali si accumulavano e venivano fissate le date per i balli. E puntualmente in quel periodo la signora Archer diceva sempre che New York era molto cambiata.

Osservando tutto ciò dall'alto della sua posizione di persona che ne resta al di fuori, era capace di scoprire, con l'aiuto del signor Sillerton Jackson e della signorina Sophy, ogni nuova incrinatura che si manifestasse in superficie e tutte le strane erbacce che spuntavano tra gli ordinati filari della vegetazione sociale. Attendere questa solenne dichiarazione annuale di sua madre e ascoltarla elencare i minimi indizi di disgregazione su cui il suo sguardo poco attento non si era soffermato, era stato uno dei divertimenti della giovinezza di Archer. Infatti New York, secondo il parere della signora Archer, non cambiava mai se non in peggio; opinione, questa, condivisa con grande entusiasmo dalla signorina Sophy Jackson.

Il signor Sillerton Jackson, essendo uomo di mondo, si asteneva dall'esprimere giudizi e ascoltava con divertita imparzialità le lamentele delle signore. Ma neanche lui negava che New York fosse cambiata; e lo stesso Newland Archer, durante l'inverno del suo secondo anno di matrimonio, fu costretto a riconoscere che la città, se non era proprio cambiata, era sicuramente sul punto di esserlo.

Queste opinioni erano state espresse, come al solito, durante il pranzo offerto dalla signora Archer il giorno del Ringraziamento. Esattamente in quel giorno in cui le era ufficialmente imposto

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di rendere grazie per le benedizioni ottenute nel corso dell'anno, era sua abitudine fare un mesto ma non amareggiato bilancio del suo mondo, chiedendosi che cosa ci fosse per cui si dovesse essere riconoscenti. In ogni caso, non si trattava dello stato in cui si trovava la società; la società, ammesso che si potesse affermare che esisteva, era piuttosto uno spettacolo su cui bisognava invocare le maledizioni bibliche ... e in effetti tutti sapevano cosa volesse dire il reverendo dottor Ashmore quando aveva citato un versetto tratto da Geremia (2, 25) in occasione della sua predica del giorno del ringraziamento. Il dottor Ashmore - il nuovo pastore della parrocchia di St Matthew, era stato scelto perché aveva una mentalità molto «avanzata»; i suoi sermoni erano considerati coraggiosi per le opinioni che esprimeva "originali per il linguaggio che usava. Quando inveiva contro la buona società parlava sempre delle sue «cattive inclinazioni»; e per la signora Archer era spaventoso e tuttavia affascinante accorgersi di far parte di una collettività che le esprimeva.

«Senza alcun dubbio il dottor Ashmore ha ragione: queste tendenze si sono accentuate», diceva, come se si trattasse di qualcosa che si potesse vedere e misurare come le crepe nelle pareti di una casa.

«È stato strano, però, tenere un sermone su questo argomento il giorno del Ringraziamento», se ne uscì la signorina Jackson; e la sua ospite replicò seccamente: «Oh, lui intende dire che noi dobbiamo ringraziare per quello che ci è restato».

Archer era portato a sorridere di fronte a queste profezie annuali della madre; ma stavolta anche lui fu costretto ad ammettere che le «tendenze» fossero palesi, mentre ascoltava l'enumerazione dei cambiamenti verificatisi.

«L'eccentricità nel vestire ...», attaccò la signorina Jackson. «Sillerton mi ha portato alla prima dell'opera, e posso solo dirvi che il vestito di Jane Merry era l'unico che ho riconosciuto dall'anno scorso; e anche che gli era stato sostituito il pettino. Eppure so che lo ha comprato da Worth solo due anni fa, perché la mia cucitrice va sempre ad aggiustarle gli abiti di Parigi prima che lei li indossi.»

«Ah, Jane Merry è una di noi», disse la signora Archer sospirando, come se non fosse una cosa tanto invidiabile trovarsi in un'epoca in cui le signore stavano cominciando a sfoggiare in giro i loro abiti di Parigi appena avevano superato la dogana, invece di lasciarli stagionare chiusi sotto chiave, come facevano le sue coetanee.

«Sì, lei è una delle poche. Quand'ero giovane io», replicò la signorina Jackson, «era considerato volgare vestire secondo l'ultima moda; e Amy Sillerton mi ha sempre detto che di regola a Boston gli abiti di Parigi si riponevano per due anni. La vecchia vedova di Baxter Pennilow, che faceva tutto alla grande, di solito importava dodici vestiti all'anno, due di velluto, due di raso, due di seta e altri sei di popeline e di cachemire della migliore qualità. Era un ordine permanente e, dato che cadde malata per due anni prima di morire, furono trovati quarantotto abiti confezionati da Worth, che non erano mai stati tolti dalla carta velina; e le ragazze, quando smisero il lutto, poterono indossare i primi dodici vestiti ai concerti sinfonici, senza apparire in anticipo rispetto alla moda.»

«Ah, già, Boston è più tradizionalista di New York; ma io sono sempre convinta che sia regola assennata per una signora mettere da parte i suoi abiti francesi per una stagione», ammise la signora Archer.

«E stato Beaufort a introdurre la nuova moda di fare indossare a casaccio a sua moglie gli abiti nuovi non appena arrivavano: devo dire che a volte ci vuole tutta la raffinatezza di Regina per non sembrare una .... una ...» La signorina Jackson lanciò un'occhiata intorno alla tavola, colse lo sguardo fisso degli occhi sporgenti di Janey e si rifugiò in un borbottio incomprensibile.

«Come le sue rivali», disse il signor Sillerton Jackson, con l'aria di chi sta partorendo un epigramma.

«Oh», sussurrarono le signore; e la signora Archer aggiunse, in parte per distogliere l'attenzione di sua figlia da argomenti proibiti: «Povera Regina! Ho paura che il suo giorno del Ringraziamento

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non sia stato allegro. Ha sentito, Sillerton, cosa si dice delle speculazioni di Beaufort?»

Il signor Jackson annuì senza dare importanza alla cosa. Tutti avevano sentito le chiacchiere in questione e lui disdegnava di confermare una notizia che era già di pubblico dominio.

Un cupo silenzio scese sulla compagnia. In realtà Beaufort non riscuoteva le simpatie di nessuno e alla gente veramente non spiaceva del tutto pensare il peggio della sua vita privata; ma l'idea che avesse portato il disonore finanziario nella famiglia di sua moglie era troppo traumatizzante perché ne gioissero anche i nemici. La New York di Archer tollerava l'ipocrisia nei rapporti privati; ma in materia d'affari esigeva una onestà trasparente e irreprensibile. Era passato molto tempo da quando un banchiere noto era fallito con disonore; ma tutti ricordavano che quando l'ultimo caso del genere si era verificato, la morte civile aveva colpito i dirigenti dell'impresa. Lo stesso sarebbe accaduto con i Beaufort, nonostante il potere e la popolarità di lui; se ci fosse stato un minimo di verità nelle dicerie riguardanti le speculazioni illecite del marito, a nulla sarebbe valso che i parenti di Dallas unissero tutte le loro forze per salvare la povera Regina.

La conversazione ripiegò su argomenti meno inquietanti; ma tutti quelli che avevano sfiorato sembravano confermare la sensazione della signora Archer riguardo a un rapido degenerare della situazione.

«Certo, Newland, so che tu permetti alla cara May di andare alle serate domenicali della signora Struthers», cominciò lei; e May la interruppe allegramente: «Oh, sapete, ora tutti vanno dalla signora Struthers; e lei è stata invitata all'ultimo ricevimento della nonna».

Era così, pensò Archer, che New York riusciva a controllare i suoi periodi di transizione: facendo di tutto per tenerli nascosti fino a quando non fossero stati superati e poi convincendosi in perfetta buona fede che avessero avuto luogo in un'epoca precedente. Nella cittadella c'era sempre un traditore; e dopo che costui (o, in genere, costei) aveva consegnato le chiavi al nemico, a che serviva fingere che fosse inespugnabile? Una volta che la gente aveva gustato la piacevole ospitalità domenicale della signora Struthers, non era possibile che se ne stesse a casa pensando che il suo champagne fosse un derivato del lucido da scarpe.

«Lo so, cara, lo so», sospirò la signora Archer. «Certe cose, credo, devono esserci finché la gente è in cerca di amusement; ma io non ho mai perdonato del tutto a tua cugina Madame Olenska di essere stata la prima persona ad approvare la signora Struthers.»

Un improvviso rossore salì al volto della giovane signora Archer, sorprendendo suo marito come pure gli altri ospiti seduti intorno alla tavola. «Oh, Ellen ...», mormorò lei, più o meno nello stesso tono di biasimo e di disapprovazione con cui i suoi genitori avrebbero detto: «Oh, le Blenker ...».

Era il tono che la famiglia aveva deciso di assumere ogni volta che ricorresse il nome della contessa Olenska, fin da quando lei li aveva colti di sorpresa e infastiditi, respingendo caparbiamente le proposte del marito; ma sulla bocca di May dava il via a una serie di pensieri e Archer la guardò con la sensazione di estraneità che a volte lo sopraffaceva quando lei si uniformava perfettamente alla disciplina del proprio ambiente.

Sua madre, dimostrandosi meno sensibile del solito all'atmosfera che si era venuta creando, insistette ancora: «Ho sempre pensato che le persone come la contessa Olenska, che hanno vissuto in ambienti aristocratici, dovrebbero aiutarci a mantenere le nostre diversità sociali, anziché ignorarle».

Il rossore di May rimase stabilmente intenso: sembrava avere un significato che oltrepassava quello derivante dal semplice riconoscimento della slealtà sociale di Madame Olenska.

«Ecco perché agli stranieri sembriamo tutti uguali», disse acidamente la signorina Jackson.

«Non credo che a Ellen importi della società; ma nessuno sa esattamente che cosa le importi», continuò May, come se stesse cercando a tentoni un argomento che non fosse compromettente.

«Ah, già ...», sospirò di nuovo la signora Archer.

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Tutti sapevano che la contessa Olenska non era più nelle buone grazie della famiglia. Neanche la sua devota protettrice, la vecchia vedova di Manson Mingott, era stata capace di difenderla quando si era rifiutata di tornare dal marito. I Mingott non avevano dichiarato ad alta voce la loro disapprovazione; il loro senso di solidarietà era troppo forte. Come diceva la signora Welland, avevano semplicemente «lasciato che la povera Ellen trovasse da sola l'ambiente che più le si confaceva», ambiente che in modo mortificante e incomprensibile aveva trovato negli oscuri abissi dove regnavano le Blenker e dove la «gente che scriveva» celebrava i suoi riti sregolati. Era incredibile, ma era una realtà, che Ellen, nonostante tutte le occasioni e i privilegi che aveva a portata di mano, fosse diventata una semplice bohémienne. Il che rafforzava l'opinione secondo cui aveva commesso un errore fatale a non tornare dal conte Olenski. In fin dei conti, il posto di una giovane donna era sotto il tetto di suo marito, specie quando lei lo aveva abbandonato in circostanze che ... beh ... se qualcuno avesse voluto esaminare a fondo ...

«Madame Olenska gode di molta simpatia tra i gentiluomini», disse la signorina Sophy con l'aria di voler essere indulgente, mentre sapeva che stava scagliando una frecciata.

«Ah, ecco il pericolo a cui è sempre esposta una giovane donna come Madame Olenska», ammise con tristezza la signora Archer; e le signore, a questa conclusione, raccolsero i loro strascichi per andare a mettersi sotto le lampade Carcel del salotto, mentre Archer e il signor Sillerton Jackson si ritiravano nella biblioteca gotica.

Una volta sistematosi davanti al caminetto e consolandosi per la modesta qualità della cena con la bontà del suo sigaro, il signor Jackson assunse un atteggiamento solenne e affabile.

«Se Beaufort fallisce», dichiarò, «ci saranno delle rivelazioni.»

Archer alzò di scatto la testa: non riusciva mai a sentir fare quel nome senza rivedere nettamente l'immagine della pesante persona di Beaufort, elegantemente impellicciata e calzata, avanzare nella neve a Skuytercliff.

«Certamente si dovrà fare la più sgradevole operazione di pulizia», continuò il signor Jackson. «I suoi soldi non li ha spesi tutti per Regina.»

«Oh, beh, questo è risaputo, no? A quanto mi risulta, riuscirà ancora a salvarsi», disse il giovane, desiderando cambiare argomento.

«Forse ... forse. So che oggi doveva incontrare persone che contano. Naturalmente», ammise il signor Jackson a malincuore «bisogna augurarsi che questa volta riescano a tirarlo fuori dai pasticci in qualsiasi modo. Non mi andrebbe l'idea che la novera Regina passasse il resto dei suoi giorni all'estero in qualche sordida stazione termale dove si rifugiano i bancarottieri.»

Archer non disse nulla. Gli sembrava così naturale, per quanto tragico, che per il denaro illecitamente guadagnato l'espiazione dovesse essere terribile, che il suo pensiero, lungi dall'indugiare sulla sorte avversa della signora Beaufort, riandò a problemi più immediati. Che cosa significava il rossore di May quando era stata nominata la contessa Olenska?

Erano trascorsi quattro mesi da quel giorno d'estate che lui e Madame Olenska avevano passato insieme; e da allora lui non l'aveva più vista. Sapeva che era tornata a Washington, nella casetta che lei e Medora Manson vi avevano preso in affitto: lui le aveva scritto una volta — poche parole per chiederle quando si sarebbero incontrati nuovamente — e Ellen aveva risposto ancora più succintamente: «Non ancora».

Da allora tra loro non c'erano state altre comunicazioni ed egli si era costruito nel suo intimo una sorta di santuario nel quale lei troneggiava in mezzo ai suoi pensieri segreti e ai suoi più intensi desideri. A poco a poco era diventato lo scenario della sua vita effettiva, delle sue uniche attività razionali, dove portava i libri che leggeva, le idee e i sentimenti di cui si nutriva, i suoi giudizi e le sue intuizioni. Al di fuori di esso, nella sua vita quotidiana, si muoveva con una sensazione crescente di irrealtà e di inadeguatezza, inciampando nei ben noti pregiudizi e nei tradizionali modi di pensare come chi, essendo soprappensiero, va a sbattere contro i mobili della propria stanza.

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Soprappensiero, ecco cos'era: si sentiva talmente lontano da tutto ciò che era più densamente vero e vicino a coloro che si agitavano intorno a lui, che a volte si spaventava nel constatare che lo credessero ancora tra loro.

Si rese conto che il signor Jackson si stava schiarendo la gola, accingendosi a fare ulteriori rivelazioni.

«Naturalmente non so fino a che punto la famiglia di tua moglie sappia ciò che si dice a proposito ... beh, a proposito del rifiuto di Madame Olenska di accettare l'ultima proposta fattale dal marito.»

Archer stette zitto e il signor Jackson continuò in modo indiretto: «È un peccato ... sicuramente è un peccato ... che lei l'abbia rifiutata».

«Un peccato? Perché, in nome di Dio?»

11 signor Jackson fece scendere lo sguardo sulla sua gamba fino al calzino ben teso che andava a finire in una lucida scarpa di vernice.

«Beh, volendo scendere terra-terra ... con che cosa continuerà a vivere adesso?»

«Adesso ... ?»

«Se Beaufort...»

Archer si alzò di scatto, battendo violentemente il pugno sul bordo scuro di noce dello scrittoio. I contenitori del doppio calamaio d'ottone ballarono nei loro incavi.

«Cosa diavolo vuol dire, signore?»

Il signor Jackson, spostandosi leggermente nella sedia, diresse una calma occhiata al volto paonazzo del giovane.

«Beh ... Io so da fonte assolutamente attendibile — in realtà dalla vecchia Catherine — che la famiglia ha ridotto notevolmente l'assegno della contessa Olenska quando lei si è rifiutata definitivamente di tornare da suo marito; e dato che, a causa di questo rifiuto, la contessa perde il denaro assegnatole quando si è sposata — denaro che Olenski era pronto a trasferirle se fosse tornata da lui — ebbene, cosa diavolo intendi dire tu, caro il mio ragazzo, chiedendo a me cosa voglio dire io?», ribatté il signor Jackson con buonumore.

Archer si spostò verso il caminetto e si chinò per scuotere nella griglia la cenere del sigaro.

«Non sono al corrente delle faccende private di Madame Olenska; ma non ho bisogno di esserlo per essere sicuro che ciò che lei insinua ...»

«Oh, non sono io a insinuarlo: è Lefferts, tanto per dirne uno», lo interruppe il signor Jackson.

«Lefferts ... il quale le ha fatto la corte e per questo è stato trattato male!», esplose Archer in tono sprezzante.

«Ah, davvero!», disse l'altro con asprezza, come se quello fosse esattamente l'argomento per cui aveva teso un tranello. Era seduto sempre di fianco al fuoco, in modo che il suo sguardo severo da vecchio tenesse il viso di Archer come chiuso in una molla d'acciaio.

«Bene, bene: è un peccato che non sia andata via prima del capitombolo di Beaufort», ripeté. «Se lei va via adesso, e se lui fallisce, ciò confermerà soltanto l'impressione generale: impressione che non è affatto, tra parentesi, sola e propria di Lefferts.»

«Oh, ormai la contessa non tornerà indietro: meno che mai!» Appena dette queste parole, Archer avrebbe preferito non averle pronunciate, anziché avere ancora una volta la sensazione che fossero proprio quelle che il signor Jackson si aspettava.

Il vecchio gentiluomo lo guardò con attenzione. «Questa è la tua opinione, eh? Beh, senza dubbio tu lo sai. Ma tutti ti diranno che quei quattro soldi che ancora restano a Medora Manson sono tutti in mano di Beaufort; e non so immaginare come faranno le due donne a tenersi a galla se non ce la

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farà lui. Si capisce che Madame Olenska riesce ancora a intenerire la vecchia Catherine, che è stata la più inflessibile oppositrice al fatto che lei restasse qui, e la vecchia Catherine può darle tutto il denaro che vuole. Ma sappiamo tutti quanto sia attaccata al denaro buono; il resto della famiglia non ha nessun interesse particolare a trattenere qui Madame Olenska.»

Archer bruciava di rabbia impotente: era esattamente nello stato mentale di chi è sicuro di fare una stupidaggine, pur sapendo per tutto il tempo di non poter fare nulla per evitare di farla.

Si era accorto che il signor Jackson era stato immediatamente colpito dal fatto che lui ignorasse i conflitti che dividevano Madame Olenska, la nonna e gli altri parenti, e che il vecchio gentiluomo aveva tratto le sue personali conclusioni per quanto riguardava i motivi della sua esclusione dai consigli di famiglia. Questa circostanza consigliava Archer di procedere con cautela; ma le insinuazioni su Beaufort lo avevano reso imprudente. Era comunque memore, se non del pericolo che lui stesso correva, almeno del fatto che il signor Jackson era sotto il tetto di sua madre e di conseguenza suo ospite. La vecchia New York osservava diligentemente le regole dell'ospitalità, in base alle quali non era permesso che nessuna discussione con un ospite degenerasse in una rottura.

«Vogliamo salire per raggiungere mia madre?», suggerì bruscamente, non appena l'ultimo cono di cenere del sigaro del signor Jackson cadde nel posacenere di ottone accanto a lui.

Sulla via di casa May restò stranamente zitta: nell'oscurità lui sentiva ancora la minaccia insita nel suo rossore. Non riusciva a indovinare a che cosa quella minaccia fosse dovuta: ma era stato messo abbastanza in guardia dal fatto che era stato il nome di Madame Olenska a provocarla.

Salirono al piano superiore e lui entrò in biblioteca. Di solito lei lo seguiva; invece la udì percorrere il corridoio diretta verso la propria camera da letto.

«May!», esclamò impazientemente; e lei tornò indietro, lanciandogli un'occhiata un po' meravigliata per via del tono usato da lui.

«Questa lampada fuma di nuovo; penso che la servitù potrebbe stare attenta a tenerla pulita come si deve», borbottò Newland nervosamente.

«Mi dispiace molto: non succederà più», rispose lei, con l'accento fermo e risoluto che aveva imparato da sua madre; il che esasperò Archer in quanto si accorse che lei cominciava già ad assecondarlo come se fosse un signor Welland più giovane. May si chinò per abbassare lo stoppino e, non appena la luce cadde sulle sue bianche spalle e sulle luminose curve del suo viso, lui pensò: «Com'è giovane! Per quanti interminabili anni questa vita dovrà continuare!».

Con una specie di orrore, sentì l'ardore della propria giovinezza e il sangue scorrergli impetuoso nelle vene. «A proposito», disse improvvisamente, «forse dovrò andare a Washington per qualche giorno ... fra poco; forse la settimana prossima.»

Le mani di lei rimasero sulla chiavetta della lampada, mentre si voltava lentamente verso di lui. Il calore della fiamma aveva restituito al suo viso un colorito vivo, che si attenuò mentre alzava lo sguardo verso il marito.

«Per affari?», chiese lei, con un tono di voce che voleva dire che non poteva esserci nessun'altra ragione plausibile e che lei aveva posto automaticamente la domanda, semplicemente per concludere la frase di Newland.

«Per affari, naturalmente. Si tratta di una causa per un brevetto da discutere davanti alla Corte Suprema.» Fece il nome dell'inventore e seguitò a fornire dettagli con tutta l'abile disinvoltura di un Lawrence Lefferts, mentre May ascoltava attentamente, dicendo di quando in quando: «Sì, capisco».

«Il cambiamento ti farà bene», disse semplicemente, quando lui ebbe finito. «Devi assolutamente andare a trovare Ellen», aggiunse guardandolo dritto negli occhi con il suo sorriso sereno e parlando con la stessa inflessione che avrebbe potuto usare per esortarlo a non trascurare un noioso obbligo familiare.

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Fu l'unica frase che si scambiarono sull'argomento; ma in base alle regole con cui erano stati educati entrambi, significava: «Naturalmente tu capisci che io sono a conoscenza di tutto quello che la gente ha detto di Ellen e sono pienamente d'accordo con i miei nel fare ogni tentativo per convincerla a tornare da suo marito. So anche che, per qualche motivo che non hai ritenuto opportuno chiarirmi, l'hai consigliata a non seguire questa linea di condotta, approvata da tutti gli uomini più anziani della famiglia e anche dalla nonna; ed è grazie al tuo incoraggiamento che Ellen se ne infischia di tutti noi e si è esposta al tipo di critica a cui probabilmente ha accennato stasera il signor Sillerton Jackson, il che ti ha reso così irascibile ... Le allusioni infatti non sono mancate; ma dal momento che tu ti mostri poco propenso ad accettarle da altri, te ne propongo una mia, nell'unica forma in cui persone bene educate come noi riescono a dirsi reciprocamente cose spiacevoli: facendoti capire che io so che tu, una volta arrivato a Washington, hai intenzione di vedere Ellen e forse ci vai proprio per questo motivo; e dal momento che è sicuro che la vedrai, desidero che tu lo faccia con la mia totale ed esplicita approvazione e che tu colga l'occasione per farle sapere a che cosa probabilmente conduce la linea di condotta che tu le hai consigliato di seguire».

Quando l'ultima parola di questo tacito messaggio raggiunse Newland, May teneva ancora la mano sulla chiavetta della lampada. Abbassò lo stoppino, tolse il globo e soffiò sulla fiamma volubile.

«Se si spengono in questo modo mandano meno odore», spiegò lei, con il suo fare da brava donna di casa. Giunta sulla soglia, si voltò per ricevere il bacio di Newland.

Capitolo ventisettesimoIl giorno seguente a Wall Street circolavano voci più rassicuranti in merito alla situazione di

Beaufort. Pur non essendo precise, lasciavano aperta qualche speranza. Era opinione comune che il banchiere fosse in grado di rivolgersi ad autorevoli interventi in caso di necessità e che lo avesse fatto con esito positivo; e quella sera, quando la signora Beaufort si era presentata all'opera con il suo consueto sorriso e una nuova collana di smeraldi, la buona società aveva tirato un sospiro di sollievo.

New York era implacabile nell'emettere la sua condanna. In caso di irregolarità nel trattare gli affari, fino a quel momento non era stata ammessa nessuna eccezione alla sua regola tacita secondo cui coloro che erano venuti meno alle norme di un corretto comportamento dovevano pagare; e tutti sapevano che anche Beaufort e sua moglie sarebbero stati inesorabilmente sacrificati sull'altare di questa regola di vita. Doverli sacrificare, tuttavia, sarebbe stato non soltanto doloroso ma avrebbe anche provocato dei fastidi. La scomparsa di Beaufort avrebbe lasciato un vuoto considerevole nella loro piccola cerchia compatta; e coloro che erano troppo ignari o troppo indifferenti per rabbrividire di fronte a quel disastro morale, si lamentavano anticipatamente per la perdita della migliore sala da ballo di tutta New York.

Archer si era deciso in modo definitivo a recarsi a Washington. Aspettava soltanto che iniziasse la causa di cui aveva parlato a May, in modo che la sua data coincidesse con quella del suo viaggio; ma il martedì successivo apprese dal signor Letterblair che il caso avrebbe potuto essere rimandato di parecchie settimane. Tuttavia quel pomeriggio andò a casa deciso, comunque, a partire la sera seguente. Poteva darsi che May, che non sapeva nulla della sua attività professionale e non aveva mai manifestato il desiderio di interessarsene, non venisse a conoscenza del rinvio, nel caso ci fosse stato, né che si ricordasse dei nomi delle parti in causa se fossero stati menzionati davanti a lei; e in ogni modo lui non poteva più differire l'incontro con Madame Olenska. Erano troppe le cose che doveva dirle.

Il mercoledì mattina, quando arrivò in ufficio, il signor Letterblair gli andò incontro con espressione ansiosa. Alla fin fine Beaufort non era riuscito a «far fronte alla crisi»; tuttavia, facendo sapere in giro di avercela fatta, aveva tranquillizzato i suoi depositanti, tanto che erano stati

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effettuati cospicui versamenti nella banca fino alla sera precedente, quando erano ricominciate a prevalere voci nuove e inquietanti. Di conseguenza era iniziata una corsa agli sportelli della banca, che con tutta probabilità avrebbe chiuso le porte prima del termine della giornata. Si dicevano le cose peggiori a proposito della ignobile manovra di Beaufort e il suo fallimento minacciava di essere uno dei più disonorevoli della storia di Wall Street.

La dimensione del disastro aveva reso il signor Letterblair pallido e impotente. «Ai miei tempi ho visto brutte cose, ma niente di così brutto. Tutti quelli che conosciamo ne saranno colpiti, in un modo o nell'altro. E che ne sarà della signora Beaufort? Che cosa si può fare per lei? Provo pietà per la vedova di Manson Mingott come per chiunque: arrivati alla sua età, non si può mai sapere che effetto potrà avere su di lei questa faccenda. Lei ha sempre creduto in Beaufort ... lo ha trattato da amico! E poi c'è tutta la parentela dei Dallas al completo: la povera signora Beaufort è imparentata con ognuno di voi. La sua unica possibilità sarebbe di lasciare il marito ... Tuttavia come si fa a dirle una cosa simile? Suo dovere è di rimanere al suo fianco; e per fortuna sembra che non si sia mai resa conto delle debolezze personali del marito.»

Si udì bussare alla porta e il signor Letterblair si voltò con aria decisa. «Che c'è? Per favore, non disturbatemi.»

Un impiegato portò una lettera per Archer e si ritirò. Riconoscendo la scrittura della moglie, il giovane aprì la busta e lesse:

«Ti dispiacerebbe venire da noi il più presto possibile? La nonna ha avuto un leggero colpo la notte scorsa. Non si sa come sia venuta a sapere prima di chiunque altro questa terribile notizia riguardo alla banca. Lo zio Lovell è andato a caccia e l'idea del disonore ha reso il povero papà così nervoso che gli è venuta la febbre e deve stare in camera sua. Mamma ha un bisogno assoluto di te e io spero proprio che tu possa uscire subito per andare direttamente dalla nonna».

Archer passò la lettera al suo socio più anziano e pochi minuti dopo stava andando lentamente verso nord a bordo di un affollato tram a cavalli, che cambiò nella Quattordicesima Strada per prendere uno degli omnibus alti e traballanti in servizio sulla linea della Quinta Strada. Erano passate le dodici quando quello scomodo veicolo lo lasciò davanti alla casa della vecchia Catherine. La finestra del soggiorno a piano terra, dove abitualmente lei troneggiava, era occupata dalla inadeguata figura della figlia, la signora Welland; costei fece un cenno di saluto con aria stravolta appena intravide Archer, il quale trovò May ad accoglierlo sulla porta. L'ingresso aveva assunto l'aspetto anormale caratteristico delle case ben tenute su cui si è improvvisamente abbattuta la malattia: mantelli e pellicce erano ammucchiati sulle sedie, una borsa da medico e un soprabito erano sul tavolo, insieme a lettere e cartoline ammassate alla rinfusa.

May appariva pallida ma sorridente: il dottor Bencomb, arrivato da poco per la seconda volta, aveva espresso un giudizio più fiducioso sulla situazione e l'intrepida determinazione della signora Mingott di vivere e di guarire stava già avendo i suoi effetti sulla famiglia. May condusse Archer nel soggiorno dell'anziana signora, dove le porte scorrevoli che si aprivano verso la camera da letto erano state chiuse e coperte con le pesanti tende di damasco giallo; e qui la signora Welland gli riferì in tono sommesso e sbigottito i particolari della catastrofe. A quanto pareva, la sera prima era successo qualcosa di terribile e misterioso. Verso le otto, subito dopo che la signora Mingott aveva finito il solitario a cui si dedicava sempre dopo cena, avevano suonato alla porta e una signora, fittamente velata al punto che la servitù non l'aveva immediatamente riconosciuta, aveva chiesto di essere ricevuta.

Il maggiordomo, udendo una voce familiare, aveva spalancato la porta del soggiorno, annunciando: «La signora Beaufort» e richiudendola poi dietro alle due signore. Secondo lui, dovevano essersi intrattenute per circa un'ora. Quando si era udito il campanello della signora Mingott, la signora Beaufort si era già eclissata senza farsi vedere. La vecchia signora, bianca, immensa e spaventosa era seduta sola nella sua grande poltrona e aveva fatto segno al maggiordomo di aiutarla a farla entrare nella sua stanza. Lì per lì sembrava, quantunque

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palesemente preoccupata, perfettamente padrona del suo corpo e della sua mente. La domestica mulatta l'aveva messa a letto, le aveva portato una tazza di tè come di solito faceva, aveva lasciato tutto in ordine nella stanza ed era andata via; ma alle tre del mattino il campanello aveva suonato di nuovo e i due domestici, affrettandosi a rispondere a quella chiamata inconsueta (di solito la vecchia Catherine dormiva come un bambino), avevano trovato la loro padrona seduta contro i cuscini con il viso atteggiato a un sorriso di traverso e una manina che le pendeva inerte dal braccio enorme.

Il colpo era stato chiaramente leggero, in quanto era in grado di parlare distintamente e di esternare i suoi desideri; e poco dopo la prima visita del medico aveva cominciato a ricuperare il controllo dei muscoli facciali. Ma lo spavento era stato grande; e di conseguenza grande era stato lo sdegno quando, attraverso le frasi incomplete della signora Mingott, si era dedotto che Regina Beaufort era andata a chiederle — con incredibile sfacciataggine! — di sostenere la causa di suo marito, di aiutarli fino in fondo ... di non «abbandonarli», come lei si era espressa ... per farla breve, di indurre l'intera famiglia a coprire e a perdonare il loro enorme disonore.

«Io le ho detto: "L'onore è sempre stato onore e l'onestà è sempre stata onestà in casa di Manson Mingott e così sarà fino a quando non ne uscirò con i piedi in avanti"», aveva farfugliato la vecchia nell'orecchio della figlia, con la voce rauca della persona che è semiparalizzata. «E quando lei ha detto: "Ma il mio nome, zietta ... il mio nome è Regina Dallas", le ho detto: "Era Beaufort quando ti ricopriva di gioielli e deve rimanere Beaufort ora che ti ha ricoperto di vergogna".»

Tutto ciò la signora Welland lo rese noto tra lacrime e sussulti di disgusto, pallida e annientata dal peso dell'obbligo inusitato di guardare finalmente in faccia cose sgradevoli e disonorevoli. «Se solo potessi tenerne lontano tuo suocero: lui dice sempre: "Augusta, per pietà, non distruggere le mie ultime illusioni" ... e come posso fare per impedire che venga a conoscere cose orrende?», gemeva la povera signora.

«Mamma, vedrai che alla fine non se ne renderà conto», osservò May; e la signora Welland sospirò: «Ah, no; grazie al cielo è al sicuro a letto. E il dottor Bencomb ha promesso che ce lo terrà fino a quando la povera mamma non si sarà rimessa e Regina non sarà stata portata via da qualche parte».

Archer si era seduto vicino alla finestra e guardava, senza vederla, l'ampia strada di traffico deserta. Era chiaro che era stato chiamato più perché desse un sostegno morale alle signore sconvolte che per un aiuto specifico. Al signor Lovell era stato spedito un telegramma, mentre ai membri della famiglia che risiedevano a New York erano stati inviati messaggi a mano; e nel frattempo non c'era niente da fare se non parlare sottovoce delle conseguenze del disonore di Beaufort e dell'ingiustificabile iniziativa di sua moglie.

La moglie di Lovell Mingott, che si era appartata in un'altra stanza per scrivere alcuni biglietti, ricomparve improvvisamente e si unì alla discussione. Ai loro tempi — e su questo le signore più anziane erano d'accordo — la moglie di un uomo che si fosse reso responsabile di malversazione, aveva un'unica idea: quella di eclissarsi, di sparire insieme a lui. «Ci fu il caso della povera nonna Spicer; cioè la tua bisnonna, May. Certo», si affrettò ad aggiungere la signora Welland, «le difficoltà economiche del tuo bisnonno erano di carattere privato — perdite al gioco, o cambiali firmate per conto di qualcuno — non l'ho mai saputo con precisione, perché la mamma non ne parlava mai. Ma lei fu allevata in campagna perché sua madre aveva dovuto lasciare New York dopo la disgrazia, quale che fosse il motivo: vissero da sole sullo Hudson, inverno ed estate, fino a quando la mamma compì sedici anni. A nonna Spicer non sarebbe mai venuto in mente di chiedere alla famiglia di "appoggiarla", come mi pare di aver capito esiga Regina; ma una disgrazia personale non è niente a confronto dello scandalo di rovinare centinaia di persone innocenti.»

«Sì, a Regina converrebbe di più andarsi a nascondere anziché sparlare degli altri», riconobbe la moglie di Lovell Mingott. «Secondo me, la collana di smeraldi che lei portava all'opera gliel'hanno mandata per prova Ball and Black's nel pomeriggio. Mi chiedo se gliela restituiranno mai.»

Archer ascoltava impassibile l'implacabile coro. Il concetto di assoluta rettitudine in campo

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finanziario come prima norma del codice di un gentiluomo era troppo profondamente radicato in lui perché cedesse di fronte a motivi d'ordine sentimentale. Forse un avventuriero come Lemuel Struthers accumulava milioni grazie al suo lucido da scarpe ricorrendo a qualsiasi espediente disonesto; ma l'onestà senza macchia costituiva il noblesse oblige del vecchio mondo finanziario di New York. Archer non era neanche eccessivamente commosso per la sorte della signora Beaufort. Senza dubbio, gli dispiaceva più per lei che per i suoi indignati parenti; ma gli sembrava che il vincolo tra marito e moglie, anche se fragile in un periodo di prosperità, dovesse essere indissolubile nella sventura. Come aveva detto il signor Letterblair, il posto di una moglie era al fianco del marito, se questi si fosse trovato nei guai; ma la società non era tenuta a mettersi al suo fianco e la signora Beaufort, pretendendo sfacciatamente che lo facesse, sembrava quasi rendersi complice del marito. La sola idea che una donna si rivolgesse alla propria famiglia per nascondere il disonore in cui era caduta l'attività del marito, era inammissibile, dal momento che era l'unica cosa che la famiglia, in quanto istituzione, non era in grado di fare.

La domestica mulatta chiamò in anticamera la moglie di Lovell Mingott, che di lì a qualche minuto ritornò corrugando la fronte.

«Vuole che mandi un telegramma a Ellen Olenska. Naturalmente avevo scritto a Ellen e a Medora, ma ora sembra che non basti. Devo telegrafare immediatamente e dirle di venire da sola.»

La notizia fu accolta in silenzio. La signora Welland sospirò con rassegnazione, May si alzò e andò a raccogliere i giornali che erano stati sparpagliati sul pavimento.

«Secondo me dobbiamo fare così», proseguì la moglie di Lovell Mingott, sperando forse di essere contraddetta; e May si girò verso il centro della stanza.

«Certo che si deve fare», disse. «La nonna sa quello che vuole e noi dobbiamo soddisfare tutti i suoi desideri. Vuoi che il telegramma lo scriva io per te, zietta? Se parte subito, probabilmente Ellen può prendere il treno di domattina.» Aveva pronunciato le sillabe del nome con particolare chiarezza, come se avesse dato un colpetto a due campanellini d'argento.

«Beh, non può partire subito. Jasper e il ragazzo di cucina sono usciti tutti e due a portare biglietti e telegrammi.»

May si rivolse al marito con un sorriso. «Ma ecco qui Newland, che è disponibile. Vuoi andare a spedire tu il telegramma, Newland? C'è tutto il tempo prima di colazione.»

Archer si alzò mormorando di essere a disposizione, mentre lei si sedette al bonheur-du-jour in palissandro della vecchia Catherine per scrivere il messaggio con la sua grafia larga e acerba. Ciò fatto, lo asciugò accuratamente e lo porse ad Archer.

«Che peccato», disse, «che tu ed Ellen vi incrocerete per strada! ... Newland», aggiunse, girandosi verso la madre e la zia, «deve andare a Washington per via di una causa che riguarda un brevetto e che sarà discussa davanti alla Corte Suprema. Credo che lo zio Lovell sarà di ritorno per domani notte e, dato che la nonna sta migliorando rapidamente, non è giusto chiedere a Newland di rinunciare a un impegno importante che interessa il suo studio legale, no?»

Si interruppe, come aspettando una risposta, e la signora Welland si affrettò a dire: «Oh, certo che no, cara. La nonna sarebbe l'ultima persona a volerlo». Archer, mentre usciva dalla stanza con il telegramma, udì sua suocera aggiungere, rivolta probabilmente alla moglie di Lovell Mingott: «Ma perché mai avrà voluto farti telegrafare a Ellen Olenska ...», e May replicare con voce limpida: «Forse per ripeterle ancora una volta che dopo tutto è suo dovere ritornare da suo marito».

La porta esterna si chiuse alle spalle di Archer, il quale si allontanò in fretta dirigendosi verso l'ufficio del telegrafo.

Capitolo ventottesimo

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«Ol...Ol..., ma si può sapere come si scrive», chiese l'acida signorina, alla quale Archer aveva consegnato il telegramma di sua moglie spingendolo attraverso il piano sporgente d'ottone dello sportello della Western Union.

«Olenska ... O-len-ska», ripeté, ritirando il foglio per riscrivere a stampatello le sillabe straniere sopra la scrittura irregolare di May.

«È un nome inconsueto per un ufficio del telegrafo a New York; almeno in questo quartiere», osservò una voce che non si aspettava di udire; e Archer, voltandosi, scorse Lawrence Lefferts accanto a sé, che si lisciava imperturbabile i baffi e faceva finta di non allungare l'occhio sul messaggio.

«Salve, Newland: sapevo di pescarti qui. Ho appena saputo del colpo della vecchia signora Mingott; e mentre mi recavo a casa sua, ho visto che imboccavi questa strada e ti ho rincorso. Vieni da lì, no?»

Archer annuì e spinse il telegramma sotto la grata.

«Va molto male, eh?», continuò Lefferts. «Telegrafi ai parenti, penso. Immagino che si tratti di una cosa grave, se avverti anche la contessa Olenska.»

Le labbra di Archer si strinsero; provò l'impulso selvaggio di stampare un pugno sulla faccia bella e vacua di chi gli stava a fianco.

«Perché?», chiese.

Lefferts, che era noto per evitare qualsiasi discussione, alzò le sopracciglia con una smorfia ironica per segnalare all'altro la presenza della fanciulla che, dall'altra parte della grata, li osservava. Non poteva esserci «comportamento» peggiore, ricordava quello sguardo ad Archer, che perdere le staffe in un luogo pubblico.

Mai come in quel momento Archer era stato più indifferente a ciò che le buone maniere esigevano; ma la voglia di colpire Lawrence Lefferts durò solo un istante. In una situazione del genere era impensabile l'idea di pronunciare il nome di Ellen Olenska, discutendo con lui o reagendo a una provocazione qualsiasi. Pagò il telegramma e i due giovanotti uscirono insieme in strada. Qui Archer, avendo riacquistato il suo autocontrollo, continuò: «La signora Mingott sta molto meglio: il dottore non è assolutamente preoccupato»; e Lefferts, ostentando un grande sollievo, gli chiese se gli fossero giunte le terribili voci negative che circolavano di nuovo sul conto di Beaufort...

Quel pomeriggio l'annuncio del fallimento di Beaufort era su tutti i giornali. Aveva fatto passare in secondo piano la notizia del colpo della vedova di Manson Mingott e solo pochi che avevano sentito parlare della misteriosa relazione tra i due avvenimenti pensarono di non attribuire la malattia della vecchia Catherine a tutto fuorché all'accumulo di adipe e degli anni.

Tutta New York era offuscata dal racconto dell'infamia di Beaufort come da una nebbia nera. Non c'era mai stato, diceva il signor Letterblair, un caso peggiore di cui si rammentasse lui né, se per questo, il lontano Letterblair fondatore dello studio legale. La banca aveva continuato ad accettare denaro per tutta una giornata dopo che il suo fallimento era risultato inevitabile; e poiché molti dei suoi clienti appartenevano all'uno o all'altro dei clan dominanti, tanto più cinica appariva la malafede di Beaufort. Se la signora Beaufort non fosse andata dicendo che certe disgrazie (così le definiva) «mettevano alla prova l'amicizia», la pietà che si sarebbe provata nei suoi confronti avrebbe potuto mitigare lo sdegno generale contro suo marito. Data la situazione — in particolare dopo che si era appreso lo scopo della sua visita notturna alla vedova di Manson Mingott — il cinismo della moglie era giudicato superiore a quello del marito; e lei non aveva la scusa — né i suoi denigratori la soddisfazione — di addurre a pretesto il fatto di essere «una straniera». Era di qualche conforto (per coloro il cui credito mobiliare non correva pericoli) riuscire a ricordarsi che Beaufort lo era; ma, in fin dei conti, se una Dallas del South Carolina riguardo a tutta la faccenda condivideva il suo punto di vista e parlava disinvoltamente del fatto che presto il marito si sarebbe

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rimesso «di nuovo in piedi», l'argomento si faceva inconsistente e non rimaneva altro da fare se non accettare la terribile evidenza della indissolubilità del matrimonio. La società doveva riuscire ad andare avanti senza i Beaufort e la questione si sarebbe chiusa tranne, purtroppo, per le vittime sfortunate del disastro come Medora Manson, le povere vecchie signorine Lanning e alcune altre scriteriate signore di buona famiglia che se solo avessero dato retta al signor Henry van der Luyden ...

«La cosa migliore che i Beaufort possano fare», disse la signora Archer, facendo il punto della situazione come se stesse enunciando una diagnosi e prescrivendo una terapia, «è di andare a vivere nel posticino che Regina possiede nel North Carolina. Beaufort ha sempre mantenuto una scuderia di cavalli da corsa e farebbe bene ad allevare cavalli da trotto. Direi che ha tutte le qualità di un ottimo mercante di cavalli.» Tutti furono concordi con lei, ma nessuno accondiscese a informarsi di cosa i Beaufort avessero veramente intenzione di occuparsi.

Il giorno seguente la vedova di Manson Mingott stava molto meglio: aveva riacquistato abbastanza voce per ordinare che nessuno doveva più nominare i Beaufort e chiese — quando arrivò il dottor Bencomb — perché mai la sua famiglia si agitasse tanto per la sua salute.

«Se le persone della mia età vogliono mangiare di sera insalata di pollo, che cosa sperano di ottenere?», chiese; e, poiché il dottore aveva opportunamente modificato il suo regime alimentare, il colpo venne fatto passare per un attacco di indigestione. Ma, nonostante il suo tono risoluto, la vecchia Catherine non aveva riacquistato del tutto il suo precedente atteggiamento nei confronti della vita. La crescente indifferenza portata dalla vecchiaia, pur non avendo fatto diminuire la sua curiosità nei riguardi del prossimo, aveva tuttavia smussato in lei la compassione, peraltro mai troppo intensa, per i suoi guai, al punto che non sembrava avesse grosse difficoltà a togliersi dalla mente il fallimento di Beaufort. Per la prima volta, però, si mise ad analizzare i suoi sintomi e cominciò ad assumere un atteggiamento di tenera partecipazione nei confronti di alcuni membri della sua famiglia verso i quali, fino a quel momento, si era dimostrata sprezzantemente insensibile.

Il signor Welland, in particolare, ebbe il privilegio di richiamare la sua attenzione. Tra i suoi generi, era quello che lei aveva maggiormente ignorato; e tutti gli sforzi della moglie per dipingerlo come un uomo dal carattere energico e di notevoli capacità intellettuali (se soltanto lui avesse «voluto» metterle a frutto) erano stati accolti da risolini ironici. Ma il fatto di essere un valetudinario nel vero senso della parola in quel momento lo rese oggetto di un interesse monopolizzatore, tanto che la signora Mingott lo convocò solennemente per confrontare le loro diete non appena gli fosse passata la febbre; infatti la vecchia Catherine era ormai la prima a riconoscere che non si era mai abbastanza previdenti nel controllare la temperatura.

Ventiquattr'ore dopo la convocazione di Madame Olenska, un telegramma informò che la contessa sarebbe arrivata da Washington la sera del giorno seguente. A casa dei Welland, dove i coniugi Archer erano a colazione, venne subito sollevato il problema di chi le sarebbe andato incontro a Jersey City e la discussione si animò a proposito delle difficoltà materiali in mezzo alle quali la famiglia Welland si dibatteva, come se si fosse trovata in un avamposto di frontiera. Convenirono che la signora Welland non avrebbe potuto recarsi a Jersey City, perché avrebbe dovuto accompagnare il marito dalla vecchia Catherine quello stesso pomeriggio, e che non si poteva fare a meno del brum dal momento che, se il signor Welland fosse rimasto «scombussolato» vedendo la suocera per la prima volta dopo l'attacco, avrebbe potuto aver bisogno di essere riportato immediatamente a casa. I giovani Welland si trovavano certamente in centro, il signor Lovell Mingott stava appunto tornando in tutta fretta dalla sua partita di caccia e la carrozza dei Mingott era impegnata per andargli incontro; e non si poteva pretendere che May, in un tardo pomeriggio d'inverno, prendesse da sola il traghetto per Jersey City, sia pure con la carrozza personale. Tuttavia sarebbe sembrato poco ospitale — e contrario agli espliciti desideri della vecchia Catherine — permettere che Madame Olenska arrivasse alla stazione e non trovasse nessun membro della famiglia a riceverla. Era tipico di Ellen, insinuò stancamente la voce della signora Welland, mettere la famiglia in un imbarazzo del genere. «Una cosa tira sempre l'altra», si crucciava la povera

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signora, in una delle sue rare ribellioni contro il destino; «quello che mi fa pensare che la mamma stia peggio di quanto il dottor Bencomb vuole ammettere è questo morboso desiderio di far venire subito Ellen, nonostante il fastidio di doverla andare a prendere.»

Erano state parole avventate, come spesso succede quando ci si lascia prendere dal nervosismo, e il signor Welland ne afferrò subito il senso.

«Augusta», disse impallidendo e posando la forchetta, «hai qualche altro motivo per pensare che il dottor Bencomb non sia più affidabile come una volta? Hai notato se, nell'occuparsi del mio caso o di quello di tua madre, si sia comportato meno scrupolosamente del solito?»

Stavolta toccò alla signora Welland impallidire, mentre passava mentalmente in rassegna le infinite conseguenze del suo sfogo incontrollato; ma riuscì a ridere e a prendere una seconda porzione di ostriche cotte in conchiglia, mentre cercava con tutte le forze di rientrare nella sua corazza di buonumore. «Mio caro, come puoi farti venire simili idee? Volevo semplicemente dire che dopo la posizione decisa che la mamma ha preso riguardo al dovere di Ellen di tornare da suo marito, sembra strano che le sia saltato all'improvviso il ghiribizzo di vederla quando avrebbe potuto far venire mezza dozzina di altri nipoti. Non dobbiamo però dimenticare mai che la mamma, nonostante la sua splendida vitalità, è una donna molto anziana.»

Il signor Welland rimase pensieroso ed era chiaro che la sua turbata immaginazione si era immediatamente concentrata su quest'ultimo commento. «Sì, tua madre è una donna molto anziana e, per quanto ne sappiamo, può darsi che Bencomb non sia altrettanto bravo con i vecchi. Mia cara, come dici anche tu, cosa tira sempre l'altra; e tra altri dieci o quindici anni credo che avrò la piacevole incombenza di cercarmi un nuovo dottore. È sempre meglio fare questi cambiamenti prima che sia assolutamente indispensabile.» E poiché aveva preso questa spartana decisione, il signor Welland tornò a brandire saldamente la forchetta.

«Ma in tutto questo frattempo», riprese la signora Welland alzandosi da tavola e facendo strada verso il coacervo di raso porpora e malachite noto come secondo salotto, «non vedo come farà Ellen a essere qui domani sera; a me invece piace predisporre le cose con almeno ventiquattr'ore di anticipo.»

Archer distolse lo sguardo affascinato da un piccolo dipinto che raffigurava due cardinali che gozzovigliavano, chiuso in una cornice ottagonale di ebano incastonato con medaglioni di onice.

«Volete che vada a prenderla io?», propose. «Non ho difficoltà a uscire dall'ufficio in tempo per andare col brum al traghetto, se May me lo manda là.» Mentre parlava, il cuore gli batteva dall'eccitazione.

La signora Welland emise un sospiro di riconoscenza e May, che era andata alla finestra, si volse per rivolgergli un sorriso di approvazione. «Come vedi, mamma, tutto sarà a posto con ventiquattr'ore d'anticipo», disse chinandosi per baciare la fronte corrugata della madre.

Il brum di May era in attesa davanti alla porta. Lei avrebbe accompagnato Archer fino alla Union Square, affinché potesse prendere una carrozza diretta a Broadway e andare in ufficio. Non appena sistemata nel suo angolo, May disse: «Non voglio far preoccupare la mamma creandole altre difficoltà, ma come potrai andare incontro a Ellen domani e condurla a New York se andrai a Washington?».

«Oh, non ci andrò.»

«Non ci andrai? Perché, cosa è successo?» La voce di May era limpida come una campanella e colma della sollecitudine di una brava moglie.

«La causa non avrà luogo ... è stata rimandata.»

«Rimandata? Che strano! Stamattina ho visto un biglietto inviato alla mamma dal signor Letterblair in cui dice che lui andrà a Washington domani per quella famosa causa riguardante un brevetto che deve discutere davanti alla Corte Suprema. Non hai detto che si trattava della causa per

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un brevetto?»

«Beh ... cioè, voglio dire, non può andarci tutto l'ufficio. Letterblair ha deciso di partire stamattina.»

«Quindi la causa non è stata rimandata'!», continuò lei con una insistenza talmente insolita che Archer sentì il sangue affluirgli al viso, come se stesse arrossendo a causa della mancanza da parte di May della sua abituale delicatezza.

«La causa no, bensì il mio viaggio ...», rispose lui, maledicendo le inutili spiegazioni che aveva fornito quando aveva manifestato l'intenzione di andare a Washington e chiedendosi da che parte avesse letto che i bugiardi intelligenti si dilungano in particolari, ma non quelli intelligentissimi. Lo feriva di più non tanto l'aver detto a May una bugia, quanto il constatare che lei cercava di fingere di non averlo colto in fallo.

«Partirò soltanto più in là: il che è una fortuna per la tua famiglia», continuò lui, rifugiandosi vigliaccamente nel sarcasmo. Mentre parlava sentì che May lo stava osservando e si volse verso di lei per non dare a vedere che evitava il suo sguardo. Si scambiarono per un attimo un'occhiata, che forse penetrò in ciascuno di loro con significati più profondi di quanto entrambi avrebbero voluto.

«Sì, è proprio una fortuna», ammise May con tono vivace, «che alla fin fine tu possa andare a prendere Ellen; hai visto quanto la mamma ha apprezzato il fatto che tu ti sia offerto di farlo.»

«Oh, mi fa veramente piacere.» La carrozza si fermò e, mentre Newland saltava a terra, May si sporse verso di lui posandogli la mano sulla sua. «Arrivederci, caro», gli disse. I suoi occhi erano talmente azzurri che più tardi egli si chiese se il loro splendore non fosse dovuto alle lacrime.

Si allontanò in fretta attraversando la Union Square, mentre ripeteva a se stesso in una sorta di salmodia interiore: «Ci vogliono almeno due ore da Jersey City fino a casa della vecchia Catherine. Ci vogliono almeno due ore ... se non di più».

Capitolo ventinovesimoIl brum blu scuro della moglie (ancora tutto lustro dal giorno delle nozze) andò a prendere Archer

al traghetto e lo portò in gran pompa fino alla stazione della Pennsylvania a Jersey City.

Era un triste pomeriggio nevoso e la luce emanata dai lampioni a gas si riverberava nella grande stazione. Mentre passeggiava sul marciapiede, aspettando l'espresso proveniente da Washington, si rammentò che alcuni sostenevano che un giorno sarebbe stata realizzata una galleria sotto l'Hudson attraverso la quale i treni della ferrovia della Pennsylvania sarebbero arrivati direttamente a New York. Costoro facevano parte della confraternita dei sognatori, i quali profetizzavano allo stesso modo la corruzione di navi che avrebbero attraversato l'Atlantico in cinque giorni, l'invenzione di macchine volanti, l'illuminazione per mezzo dell'elettricità, le comunicazioni telefoniche senza fili e altre meraviglie da Mille e una notte.

«Finché non si costruirà la galleria», fantasticava Archer, «non mi importa di sapere quale delle loro illusioni si avvererà.» Nella sua assurda felicità da scolaretto, immaginava Madame Olenska scendere dal treno, se stesso che la scorgeva in lontananza in mezzo alla moltitudine di facce insignificanti, lei che gli si aggrappava al braccio mentre lui la guidava fino alla carrozza, avvicinandosi lentamente alla banchina e passando tra cavalli che scivolavano, carretti carichi, carrettieri vocianti, e infine la sorprendente tranquillità della nave traghetto, dove si sarebbero seduti l'uno di fianco all'altra sotto la neve, nella carrozza immobile, mentre la terra sembrava scorrere via sotto di loro rotolando fino all'altro lato del sole. Era incredibile la quantità di cose che doveva dirle e in quale eloquente successione gli affluivano alle labbra ...

Il treno si avvicinò con fragore metallico e gemiti ed entrò lentamente nella stazione, traballando come un mostro, carico di preda, nella tana. Archer avanzò facendosi largo a gomitate tra la folla, guardando ansiosamente uno per uno i finestrini dei vagoni. Poi, tutto a un tratto, vide il volto

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pallido e stupito di Madame Olenska proprio lì vicino e di nuovo provò la mortificante sensazione di essersi dimenticato delle sue fattezze ...

Si raggiunsero, le loro mani si strinsero e Newland fece passare il braccio di lei sotto il suo. «Da questa parte ... ho la carrozza», disse.

Dopo di che tutto successe come lui lo aveva sognato. L'aiutò a salire sul brum con i bagagli e, più avanti, ebbe il vago ricordo di averla tranquillizzata sul conto della nonna e di averle fatto un riassunto della situazione di Beaufort (rimanendo colpito dalla dolcezza del suo: «Povera Regina!»). Nel frattempo la carrozza si era districata dalla confusione che regnava intorno alla stazione e procedeva lentamente per il pendio sdrucciolevole che portava alla banchina, invasa da carri dondolanti carichi di carbone, da cavalli disorientati, da vagoni-espresso sparpagliati e da un carro funebre vuoto ... ah, quel carro! Ellen chiuse gli occhi al suo passaggio e afferrò la mano di Archer.

«Basta che non voglia dire ... povera nonna!»

«Oh, no, no ... sta molto meglio ... anzi sta benissimo. Ecco Qua, lo abbiamo superato!», esclamò lui, come se solo in quello consistesse il problema. La mano di Ellen rimase nella sua e, mentre la carrozza superava oscillando la passerella per salire

sul traghetto, le sbottonò l'attillato guanto marrone e le baciò il palmo come se fosse una reliquia. Ellen si liberò con un sorriso appena percettibile e Newland disse: «Non mi aspettavi oggi?».

«Oh, no.»

«Intendevo andare a Washington per vederti. Avevo preparato tutto ... per poco i nostri treni non si sono incrociati.»

«Oh ...», esclamò lei come se fosse atterrita al pensiero che fossero riusciti a incontrarsi per miracolo.

«Sai una cosa ... che non ricordavo come sei?»

«Non ricordavi come sono?»

«Voglio dire ... come posso spiegartelo? Io ... è sempre così, Ogni volta che ti vedo è come se fosse la prima.»

«Oh, sì, lo so! Lo so!»

«A me succede così... anche a te?», insistette lui.

Lei annuì, guardando fuori del finestrino.

«Ellen ... Ellen ... Ellen!»

Non rispose e Newland rimase silenzioso a guardare il suo profilo confondersi sempre più contro l'oscurità esterna striata di neve. Si domandava che cosa avesse fatto durante tutti quei lungi quattro mesi. Tutto sommato, sapevano ben poco l'uno dell'altra. Gli istanti preziosi stavano scivolando via, ma lui si era dimenticato di tutto quello che aveva avuto intenzione di dirle, riuscendo solo a rimuginare stancamente sul mistero della loro lontananza e della loro vicinanza, che sembrava riassumersi nel fatto di essere seduti così vicini e di non riuscire a guardarsi in faccia.

«Che bella carrozza! È di May?», chiese Ellen distogliendo improvvisamente lo sguardo dal finestrino.

«Sì.»

«Allora è stata May che ti ha mandato a prendermi? Molto gentile da parte sua!»

Lì per lì lui non rispose; poi, con violenza, disse: «Il segretario di tuo marito è venuto a trovarmi il giorno dopo che ci siamo incontrati a Boston».

Nella breve lettera che le aveva scritto aveva accennato alla visita di Monsieur Rivière, ma era

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stata sua intenzione tenere per sé l'episodio. Ellen però, ricordandogli che si trovavano nella carrozza di sua moglie, provocò in lui l'impulso di vendicarsi. Voleva constatare se lei gradisse più la sua allusione a Rivière che non lui quella fatta da lei a May. Come era avvenuto in certe altre occasioni in cui lui aveva sperato di scuoterla dalla sua abituale compostezza, lei non manifestò alcun segno di stupore; al che, lui concluse sbrigativamente: «Allora lui le scrive».

«Monsieur Rivière è venuto a trovarti?»

«Sì, non lo sapevi?» «No», rispose lei con semplicità.

«E la cosa non ti sorprende?»

Lei esitò: «Perché dovrei essere sorpresa? A Boston mi ha detto che ti conosce; credo che ti abbia conosciuto in Inghilterra»-

«Ellen ... debbo chiederti una cosa.»

«Sì.»

«Volevo chiedertela dopo averlo visto, ma non potevo scrivertelo. È stato Rivière ad aiutarti a fuggire ... quando hai lasciato tuo marito?»

Il cuore gli batteva fino a mozzargli il fiato. Ellen avrebbe accolto questa domanda con la stessa calma?

«Sì, gliene sono infinitamente grata», rispose, senza il minimo tremore nella voce tranquilla.

Il suo tono era così naturale, si può dire così neutrale, che l'agitazione di Archer si placò. Ancora una volta, con assoluto candore, era riuscita a farlo sentire stupidamente convenzionale, proprio quando lui pensava di stare gettando ogni convenzione al vento.

«Penso che tu sia la donna più onesta che abbia mai incontrato!», esclamò.

«Oh, no ... ma probabilmente una delle meno schizzinose», rispose lei, con una sfumatura di sorriso nella voce.

«Chiamalo come ti pare: tu prendi le cose così come sono.»

«Ah, ho dovuto farlo. Ho dovuto fissare la Gorgone.»

«Beh, non ti ha reso cieca! Hai constatato che è soltanto un vecchio spauracchio come tutti gli altri.»

«Lei non accieca la gente, ma fa inaridire le lacrime.»

La risposta bloccò la supplica sulle labbra di Archer: sembrava venisse da una esperienza così profonda che era di là dalla sua portata. Il lento progredire della nave traghetto era cessato e i suoi fianchi urtarono contro i pali del molo con una violenza che fece vacillare il brum e scagliò Archer e Madame Olenska l'uno contro l'altra. Il giovane, fremente, avvertì la pressione della spalla di lei e la cinse con il braccio.

«Allora, se non sei cieca devi capire che così non può durare.»

«Che cosa non può durare?»

«Lo stare insieme ... e il non stare insieme.»

«No. Oggi non saresti dovuto venire», disse Ellen, cambiando voce; e improvvisamente si volse, lo abbracciò e premette le labbra contro quelle di lui. Nello stesso istante la carrozza cominciò a muoversi e una lampada a gas in cima al molo proiettò la sua luce attraverso il finestrino. Lei si allontanò e rimasero seduti in silenzio e immobili, mentre il brum si apriva un varco

in mezzo all'ingorgo di carrozze vicino all'approdo del traghetto. Non appena guadagnarono la strada, Archer prese a parlare in gran fretta.

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«Non aver paura di me: non c'è bisogno che ti schiacci nel tuo angolo a quel modo. Un bacio rubato non è ciò che voglio. Guarda: non cerco neanche di toccare la manica della tua giacca. Non devi credere che io non capisca le tue ragioni per non volere che questo sentimento che ci lega si riduca a una comune relazione clandestina. Ieri non avrei potuto parlarti così, perché quando siamo lontani e non vedo l'ora di vederti, ogni pensiero si consuma in una grande fiammata. Ma poi tu arrivi e rappresenti tanto di più di quanto ricordavo, e ciò che io voglio è tanto di più di un'ora o due ogni tanto, con lunghi intervalli di arida attesa, che io posso sederti accanto del tutto calmo, così, con quell'altra visione nella mia mente, soltanto con la sommessa speranza che essa si avveri.»

Per un istante lei non rispose; poi, con un filo di voce, chiese: «Che intendi quando dici "soltanto con la sommessa speranza che essa si avveri''?».

«Ecco ... tu sai che succederà così, vero?»

«Cioè che si realizzerà la tua visione, in cui tu e io siamo insieme?» Ellen scoppiò in una improvvisa, dura risata. «Hai scelto bene il posto per parlarmene!»

«Vuoi dire perché siamo nella carrozza di mia moglie? Perché non scendiamo e camminiamo, allora? Non credo che starai a badare a un po' di neve.»

Lei rise di nuovo, stavolta con più dolcezza. «No, non scenderò e non camminerò, perché è mio dovere arrivare dalla nonna il più presto possibile. E tu resterai seduto accanto a me e non contempleremo le visioni, ma guarderemo la realtà.»

«Non so che cosa vuoi dire con realtà. Per me l'unica realtà è questa.»

Lei accolse queste parole con un lungo silenzio, durante il quale la carrozza procedette giù per una buia strada laterale, per immergersi nella luce intensa della Quinta Strada.

«Quindi tu pensi che dovrei vivere con te come tua amante ... dal momento che non posso essere tua moglie?»

L'asprezza della domanda lo fece trasalire: la parola era una di quelle che le donne della sua classe sociale evitavano di pronunciare, anche quando nel conversare si avvicinavano sempre più all'argomento. Notò che Madame Olenska l'aveva proferita come se avesse una collocazione normale nel suo vocabolario, tanto che lui si chiese quante volte l'avessero usata in sua presenza e sfacciatamente durante l'orrenda esistenza a cui lei si era sottratta. La domanda di Ellen lo bloccò, facendolo sobbalzare e confondendolo.

«Io voglio ... voglio in qualche modo fuggire con te in un mondo dove parole come questa ... categorie come questa ... non esistano. Dove saremo semplicemente due esseri umani che si amano, che rappresentano, ognuno per l'altro, la vita intera; e dove niente altro al mondo avrà importanza»

Lei fece un profondo sospiro che terminò in un'altra risata. «Oh, mio caro ... dove si trova questo paese? Ci sei mai stato?». chiese; e, siccome lui taceva accigliato, lei continuò: «Ne conosco tanti che hanno cercato di trovarlo e, credimi, sono scesi tutti per sbaglio in stazioni secondarie: posti come Boulogne, Pisa, Monte Carlo ... che non erano affatto diversi dal vecchio mondo che avevano lasciato, erano solo un po' più piccoli, più tristi e più promiscui».

Non l'aveva mai udita parlare con quel tono e si ricordò della frase che lei aveva usato poco prima.

«Già, la Gorgone ha prosciugato le tue lacrime», disse.

«Beh, mi ha anche aperto gli occhi; è un errore dire che acciechi le persone. Ciò che fa è proprio il contrario ... tiene loro aperte le palpebre, in modo che non si trovino di nuovo nella beata oscurità. Non c'è una tortura cinese in cui si applica una cosa del genere? Dovrebbe esserci. Ah, credi, si tratta di un paese piccolo e meschino!»

La carrozza aveva attraversato la Quarantaduesima Strada: il robusto cavallo di May li stava trasportando verso nord come se fosse stato un trottatore del Kentucky. Archer si sentiva soffocare

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dalla sensazione del tempo sprecato e della inutilità delle parole.

«Allora, quali progetti hai, esattamente, per noi?», le chiese.

«Per noi? Ma non esistono noi che tengano, nel senso a cui alludi! Noi siano vicini l'uno all'altra solo se rimaniamo lontani l'uno dall'altra. Solo in questo caso possiamo essere noi stessi. Altrimenti, siamo soltanto Newland Archer, marito della cugina di Ellen Olenska, e Ellen Olenska, cugina della moglie di Newland Archer, i quali stanno cercando di essere felici dietro le spalle delle persone che hanno fiducia in loro.»

«Ah, tutto questo io l'ho superato», gemette lui.

«No, non è vero! Tu non hai mai superato niente. Io l'ho fatto», disse Ellen con voce strana, «io so di che si tratta.»

Archer taceva, inebetito da un dolore confuso. Poi, nel buio della carrozza, cercò a tastoni il campanello per dare ordini al cocchiere. Si ricordò che May suonava due volte quando desiderava fermarsi. Schiacciò il pulsante e la carrozza si arrestò accanto alla cordonatura del marciapiede.

«Perché ci fermiamo? Non siamo mica arrivati dalla nonna», esclamò Madame Olenska.

«No, ma io scendo qui», borbottò lui, aprendo la portiera e saltando a terra. Alla luce di un lampione vide il volto spaventato di lei e il gesto istintivo che lei fece per trattenerlo. Chiuse la portiera e sostò un attimo al finestrino.

«Hai ragione: oggi non sarei dovuto venire», disse, abbassando la voce per non farsi sentire dal cocchiere. Ellen si protese in avanti e sembrò sul punto di parlare; ma lui aveva già dato ad alta voce l'ordine di partenza e la carrozza si allontanò, mentre lui sostava all'angolo della strada. Aveva smesso di nevicare e si era alzato un vento pungente che gli sferzò il viso mentre era fermo lì in contemplazione. Improvvisamente avvertì qualcosa di duro e di freddo sulle ciglia: si rese conto di aver pianto e che il vento gli aveva congelato le lacrime.

Cacciatesi le mani in tasca, con passo deciso si diresse verso casa, lungo la Quinta Strada.

Capitolo trentesimoQuando quella sera scese prima di cena, Archer trovò il salotto vuoto.

Lui e May desinavano da soli, in quanto tutti gli impegni di famiglia erano stati differiti a causa degli acciacchi della vedova di Manson Mingott; e, dato che May era la più puntuale dei due, si stupì che non lo avesse preceduto. Sapeva che si trovava in casa perché, mentre si stava vestendo, l'aveva udita muoversi nella sua stanza; e si chiese cosa era che la trattenesse.

Aveva cominciato a fare congetture, in quanto ciò gli serviva per ricollegare i suoi pensieri alla realtà. Qualche volta aveva l'impressione di aver trovato la chiave che spiegava perché suo suocero si occupasse di cose di scarsa importanza; forse anche il signor Welland, tempo prima, aveva avuto fughe e visioni e aveva chiamato a raccolta schiere di doveri domestici per non cedere alle tentazioni.

Quando May comparve, pensò che aveva l'aria stanca. Aveva indossato l'abito da pranzo dal collo alto e strettamente allacciato, che il rituale dei Mingott imponeva nelle occasioni di carattere meno ufficiale, e aveva raccolto i capelli biondi nella consueta crocchia; per contrasto, il suo viso era esangue e sbiadito. Ma continuava a brillare, traboccante della solita tenerezza verso di lui, con gli occhi che avevano mantenuto l'azzurra luce abbagliante del giorno prima.

«Che ti è successo, caro?», gli domandò. «Stavo ad aspettare dalla nonna e quando Ellen è arrivata ha detto di averti lasciato lungo la strada, perché tu dovevi correre in ufficio. C'è qualcosa che non va?»

«Solo alcune lettere che avevo dimenticato e che volevo mandar via prima di cena.»

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«Ah», disse lei, aggiungendo un istante dopo: «Mi dispiace che tu non sia venuto dalla nonna ... ma se le lettere erano proprio urgenti...».

«Lo erano», rispose lui, meravigliato per la sua insistenza. «Inoltre, non vedo perché sarei dovuto venire dalla nonna. Non sapevo che tu fossi lì da lei.»

Lei si girò e si accostò allo specchio sopra il caminetto. Mentre era lì in piedi con il lungo braccio alzato per fissare un ricciolo che era andato fuori posto nella sua elaborata pettinatura, Archer fu colpito da qualcosa di fiacco e di rigido nell'atteggiamento della moglie e si chiese se la monotonia mortale delle loro esistenze non avesse finito per pesare anche su di lei. Poi si ricordò che quella mattina, quando era uscito di casa, May gli aveva gridato dalle scale che si sarebbero visti dalla nonna, in modo da poter rincasare insieme. Lui aveva risposto con un allegro «Va bene!» e poi, tutto preso da altre visioni, aveva dimenticato la sua promessa. Adesso era afflitto dal rimorso, ma anche irritato dal fatto che una dimenticanza così trascurabile potesse essergli rinfacciata dopo quasi due anni di matrimonio. Era stufo di vivere in una perenne, tiepida luna di miele, che non presentava più l'ardore della passione ma ne manteneva tutte le esigenze. Se May avesse detto chiaro e tondo i motivi del suo risentimento (e lui aveva l'impressione che fossero molti), lui avrebbe potuto farglielo passare con una risata; ma May era stata educata a celare ferite immaginarie sotto un sorriso spartano.

Per mascherare il proprio fastidio, le chiese come stesse la nonna e lei rispose che la signora Mingott era ancora in via di guarigione, ma che era rimasta piuttosto turbata dalle ultime notizie sui Beaufort.

«Quali notizie?»

«Sembra che seguiteranno a vivere a New York. Credo che lui stia per entrare nell'attività assicurativa, o qualcosa di simile. Stanno cercando una casa più piccola.»

Che il fatto fosse assurdo era fuori discussione. Si misero a cenare e durante la cena, la loro conversazione girò intorno ai soliti argomenti; Archer, tuttavia, notò che sua moglie non faceva nessuna allusione a Madame Olenska, né all'accoglienza riservatale dalla vecchia Catherine. La cosa non gli dispiacque, ma ebbe la vaga impressione che fosse di cattivo augurio.

Salirono in biblioteca per prendere il caffè. Archer si accese un sigaro e tirò giù un volume di Michelet. Di sera preferiva occuparsi di argomenti di carattere storico, da quando May aveva preso l'abitudine di chiedergli di leggere ad alta voce ogni volta che lo vedeva con qualche opera poetica: non che non gli piacesse il suono della propria voce, ma perché era sempre in grado di prevedere i suoi commenti su ciò che leggeva. Durante il loro fidanzamento May si era limitata (Newland se ne accorgeva adesso) a ripetere quanto diceva lui; ma da quando lui aveva smesso di darle suggerimenti, lei aveva cominciato ad avventurarsi a formulare qualche opinione personale, con il risultato di rovinargli il gusto della lettura delle opere che lei commentava.

Vedendo che Newland aveva scelto un libro di storia, May andò a prendere il suo cestino da lavoro, avvicinò una poltrona alla lampada da tavolo schermata di verde e scoprì un cuscino che stava ricamando per il divano di Newland. Non era brava a cucire: le sue mani, grandi e capaci, erano fatte per cavalcare, per vogare e per svolgere attività all'aria aperta; ma, dal momento che le altre mogli ricamavano cuscini per i mariti, lei non voleva trascurare quella definitiva dimostrazione d'affetto.

Si era sistemata in modo che Archer, alzando semplicemente gli occhi, potesse vederla china sul telaio, con le maniche increspate all'altezza del gomito che le scoprivano le braccia solide e tornite; lo zaffiro di fidanzamento le brillava alla mano sinistra sopra la larga fede d'oro, con la mano destra lentamente e laboriosamente trafiggeva la canapa. Mentre May stava così seduta, con la lampada che le illuminava la fronte, Newland si disse, segretamente sgomento, che avrebbe sempre conosciuto i pensieri che vi passavano dietro, che mai, in tutti gli anni a venire, lei lo avrebbe sorpreso con uno stato d'animo imprevisto, con nuove idee, con una debolezza, un gesto crudele o

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un'emozione. Tutta la sua carica poetica e romantica l'aveva esaurita durante il breve periodo del loro fidanzamento: la funzione era esaurita perché non ce n'era più bisogno. Ora May stava semplicemente maturando, trasformandosi in un fac-simile della madre e misteriosamente, attenendosi allo stesso procedimento, stava cercando di trasformare lui in un secondo signor Welland. Posò il libro e si alzò, preso da irrequietezza, e subito lei sollevò la testa. «Che c'è?»

«In questa stanza si soffoca: ho bisogno di un po' d'aria.»

Aveva insistito affinché le tende della biblioteca scorressero avanti e indietro su un'asta, in modo che la sera si potessero chiudere, anziché essere inchiodate a una cornice dorata e raccolte in belle pieghe su strati di pizzo, come nel salotto; le aprì e sollevò il telaio scorrevole della finestra, sporgendosi nella gelida notte. Il semplice fatto di non guardare May, seduta accanto al suo scrittoio, sotto la sua lampada, il fatto di vedere altre case e tetti e comignoli, di avere la sensazione che esistevano altre oltre alla sua, altre città oltre a New York e un intero mondo oltre al suo, gli liberava la mente e lo faceva respirare meglio.

Dopo essere rimasto affacciato a fissare l'oscurità per qualche minuto, la sentì dire: «Newland! Chiudi la finestra. Ti prenderai un malanno».

Abbassò il telaio scorrevole e si girò. «Prendermi un malanno!», le fece eco. E avrebbe voluto aggiungere: «Ma l'ho già preso. Io sono morto ... Sono morto da diversi mesi».

E all'improvviso quel gioco di parole gli fece balenare un pensiero folle. Che sarebbe successo se fosse morta lei? Se stesse per morire ... morire presto ... lasciandolo libero? La sensazione di stare lì, nell'intimo calore di quella stanza, a guardarla e a desiderarne la morte, era così strana, così avvincente e soggiogante che la sua mostruosità non lo colpì immediatamente. Avvertì semplicemente che il caso gli aveva offerto una nuova possibilità alla quale la sua anima sofferente avrebbe potuto aggrapparsi. Sì, poteva darsi che May morisse ... le persone morivano: persone giovani, persone in buona salute come lei; poteva morire e renderlo improvvisamente libero.

May alzò lo sguardo e dai suoi occhi spalancati capì che doveva esserci qualcosa di strano nei propri.

«Newland! Stai male?»

Lui scosse il capo e tornò verso la sua poltrona. Lei si chinò sul telaio; passandole accanto, le pose una mano sui capelli: «Povera May!», disse.

«Povera? Perché povera?», fece eco lei con una risata forzata.

«Perché non potrò mai aprire una finestra senza che tu ti preoccupi», replicò ridendo anche lui.

Per un istante lei rimase zitta; poi molto sommessamente, tenendo la testa china sul suo lavoro, disse: «Non sarò mai preoccupata se tu sarai felice».

«Ah, tesoro mio, e io non sarò mai felice se non potrò aprire le finestre!»

«Con questo tempo?», obiettò lei e lui, con un sospiro, si immerse nella lettura del libro.

Trascorsero sei o sette giorni. Archer non aveva avuto notizie di Madame Olenska e si rese conto che il nome di lei non veniva menzionato in sua presenza da nessun membro della famiglia.

Non cercò di vederla; sarebbe stato quasi impossibile farlo mentre si trovava al sorvegliato capezzale della vecchia Catherine. Nell'incertezza della situazione, si lasciò andare, consapevole, da qualche parte sotto la superficie dei suoi pensieri, di una decisione che gli era venuta in mente quando, affacciatosi alla finestra della biblioteca, si era sporto nel gelo della notte. La forza di quella decisione lo aiutò ad attendere e a non dare segni di vita.

Poi un giorno May gli disse che la vedova di Manson Mingott desiderava vederlo. Non c'era nulla di eccezionale nella richiesta, dato che l'anziana signora era in costante via di guarigione e aveva sempre dichiarato apertamente di preferire Archer a chiunque altro dei suoi nipoti acquisiti. May

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riferì il messaggio con manifesto piacere: era fiera della stima che la vecchia Catherine dimostrava nei confronti di suo marito.

Dopo un attimo di esitazione, Archer si sentì in obbligo di dire: «Va bene. Ci andremo insieme questo pomeriggio?».

Sua moglie si illuminò di gioia, ma rispose subito: «Oh, faresti meglio ad andarci da solo. La nonna si secca a vedere le stesse persone troppo spesso».

Il cuore di Archer batteva impetuosamente quando suonò il campanello della vecchia signora Mingott. Sopra ogni cosa aveva desiderato andare da solo, perché era sicuro che la visita gli avrebbe offerto la possibilità di scambiare una parola in privato con la contessa Olenska. Aveva deciso di aspettare fintanto che l'occasione non si fosse presentata spontaneamente ed eccola qui, l'occasione, ecco che lui si trovava su quella soglia. Dietro quella porta, dietro le tende di damasco giallo della stanza contigua all'anticamera, Ellen lo stava certamente aspettando; fra un altro istante l'avrebbe vista e avrebbe potuto parlarle prima che lo conducesse nella stanza della malata.

Lui voleva farle soltanto una domanda: dopo di che la sua linea di condotta sarebbe stata trasparente. Voleva chiederle semplicemente la data del suo ritorno a Washington e lei non avrebbe potuto rifiutarsi di rispondere a quella domanda.

Ma nel soggiorno giallo c'era ad aspettarlo la domestica mulatta. Mostrando una dentatura che splendeva come una tastiera, spinse indietro le porte scorrevoli e lo introdusse alla presenza della vecchia Catherine.

L'anziana signora sedeva in un'ampia poltrona simile a un trono, vicino al letto. Di fianco a lei stava un piedistallo di mogano che sorreggeva una lampada in bronzo fuso con un globo di vetro intagliato, su cui era stato posto in equilibrio uno schermo di carta verde. Lì accanto non c'era né un libro, né un giornale, né la testimonianza di un lavoro femminile: la conversazione era stata sempre l'unica occupazione della signora Mingott la quale avrebbe disdegnato di fingere un interesse qualsiasi per il ricamo.

Archer non vide traccia della lieve alterazione lasciata dall'attacco che aveva subito. Sembrava semplicemente più pallida, con ombre più scure tra le pieghe e le rientranze della sua obesità- con la cuffia increspata, poi, stretta con un fiocco inamidato tra i suoi primi due menti e con il fazzoletto di mussola messo di traverso sulla sua ondeggiante vestaglia color porpora, somigliava a una sua antenata astuta e gentile che avesse ceduto troppo liberamente ai piaceri della tavola.

Gli porse una delle manine rannicchiate, come animaletti domestici, in una cavità del suo enorme grembo e ordinò alla cameriera: «Non fare entrare nessun altro. Se vengono le mie figlie, di' loro che sto dormendo».

La cameriera si dileguò e la vecchia signora si volse verso il nipote.

«Mio caro, sono proprio orrenda?», chiese lei allegramente, lasciando fuori una mano per toccare le pieghe di mussola sul suo irraggiungibile petto. «Le mie figlie mi dicono che non importa, alla mia età ... come se l'aspetto orribile non importasse affatto quando diventa più difficile nasconderlo!»

«Mia cara, lei è più bella che mai!», rispose Archer con lo stesso tono, al che lei rise gettando indietro la testa.

«Ah, non così bella come Ellen!», disse lei di scatto, strizzandogli maliziosamente l'occhio e, prima che lui potesse rispondere, aggiunse: «Era proprio tanto bella il giorno che sei andato a prenderla al traghetto?».

Lui rise e lei continuò: «È stato perché le hai detto questo che lei ti ha lasciato a piedi? Quando ero giovane, i giovanotti non abbandonavano le belle donne, a meno che non vi fossero costretti!». Emise un'altra risatina soffocata, interrompendola per dire in tono lamentoso: «È un peccato che

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non abbia sposato te; glielo ho sempre detto. Mi avrebbe risparmiato tutte queste preoccupazioni. Ma chi ha mai pensato di risparmiare preoccupazioni alla propria nonna?».

Archer si chiese se la malattia non le avesse ottenebrato le facoltà mentali; ma improvvisamente lei sbottò: «Beh, comunque è deciso: Ellen verrà a stare con me, checché ne dica il resto della famiglia! Dopo neanche cinque minuti che era qui, mi sarei messa in ginocchio per trattenerla ... se solo fossi capace, da venti anni a questa parte, di vedere dov'è il pavimento!».

Archer ascoltava in silenzio e lei continuò: «Loro ne hanno parlato con me, come senza dubbio saprai: mi avevano convinto, Lovell, Letterblair, Augusta Welland e tutti quanti gli altri, che dovevo sospenderle l'assegno fino a quando non si rendesse conto che era suo dovere tornare da Olenski. Pensavano di avermi convinto quando il segretario, o chiunque fosse, ha fatto conoscere le ultime proposte: belle proposte, lo ammetto. In fin dei conti il matrimonio è matrimonio e il denaro è denaro ... entrambi utili a modo loro ... e io non sapevo cosa rispondere». Si interruppe e tirò un lungo respiro, come se faticasse a parlare. «Ma l'istante in cui ho posato gli occhi su di lei, ho detto: "Tu dolce uccellino, tu! Andare a rinchiuderti di nuovo in quella gabbia? Mai!". E adesso resta inteso che rimarrà qui a prendersi cura di sua nonna fino a che c'è una nonna da curare. Non è una prospettiva allegra, ma a lei non importa, e naturalmente ho detto a Letterblair che bisogna darle quanto le spetta.»

Il giovane l'ascoltava sentendosi rimescolare il sangue; ma nella confusione mentale in cui si trovava non sapeva se quella notizia fosse foriera di gioia o di dolore. Aveva stabilito in modo talmente preciso la linea di condotta che intendeva seguire, che per il momento non fu in grado di riordinare i suoi pensieri. A poco a poco, tuttavia, si lasciò dominare dalla sensazione deliziosa che le difficoltà erano rimandate e che gli si presentavano miracolosamente altre occasioni. Se Ellen aveva acconsentito di venire a vivere con la nonna, sicuramente ciò era dovuto al fatto che aveva riconosciuto l'impossibilità di rinunciare a lui. Questa era la risposta di Ellen all'ultimo suo appello di qualche giorno prima: anche se non si era spinta a compiere il passo estremo su cui lui aveva insistito, alla fine aveva ripiegato sulle mezze misure. Ripensò a tutto questo con l'involontario sollievo di chi è stato pronto a rischiare tutto e improvvisamente gusta la pericolosa dolcezza che dà il senso di sicurezza.

«Non sarebbe potuta tornare indietro ... era assurdo!», esclamò.

«Ah, mio caro, ho sempre saputo che tu eri dalla sua parte. Per questo oggi ti ho mandato a chiamare e ho detto alla tua deliziosa moglie, quando si è offerta di venire con te: "No, cara, mi struggo dalla voglia di vedere Newland e non voglio che nessuno condivida le nostre dimostrazioni d'affetto". Perché vedi, caro ...», tirò indietro la testa per quanto glielo permetteva il suo stato di costrizione e lo guardò dritto negli occhi, «vedi, avremo ancora da lottare. La famiglia non vuole che lei resti qui, perché, dirà, io sono stata male, perché sono una vecchia donna debole e che mi sono lasciata commuovere da lei. Non mi sento ancora abbastanza bene per combatterli uno per uno, quindi devi farlo tu per me.»

«Io?», balbettò lui.

«Tu. Perché no?», lo rimbeccò, fissandolo con occhi che erano diventati improvvisamente affilati come lame. La sua mano tremolò sul bracciolo della poltrona e andò a posarsi su quella di lui, stringendogliela tra le pallide unghiette simili ad artigli d'uccello. «Perché no?», ripeté lei in tono inquisitorio.

Archer, sentendosi esposto alla fissità del suo sguardo, aveva riacquistato la sua compostezza.

«Oh, io non conto niente. Sono troppo insignificante.»

«Ma tu sei il socio di Letterblair, vero? Devi arrivare a loro tramite Letterblair. Salvo che tu abbia qualche altro motivo», incalzò lei.

«Oh, mia cara, scommetto che è all'altezza di difendersi bene da tutti loro senza il mio aiuto; tuttavia lo avrà, se ne ha bisogno», la rassicurò lui.

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«Allora siamo a posto!», sospirò lei e, sorridendogli con tutta la sua antica scaltrezza, mentre sistemava la testa tra i cuscini, aggiunse: «Ho sempre saputo che ci avresti dato il tuo appoggio, perché loro non ti nominano mai quando dicono che è suo dovere tornare a casa».

Lui trasalì un po' di fronte alla sua formidabile perspicacia, morendo dalla voglia di chiederle: «E May ... lei la nominano?». Ma ritenne più prudente cambiare la domanda.

«E Madame Olenska? Quando la vedrò?»

L'anziana signora rise sotto i baffi e strizzò le palpebre, seguitando la pantomima della malizia. «Non oggi. Una cosa alla volta, per favore. Madame Olenska è uscita.»

Lui arrossì per la delusione e lei continuò: «È uscita, figlio mio: è andata a trovare Regina Beaufort con la mia carrozza».

Attese che questa dichiarazione producesse il suo effetto. «Ecco a che cosa mi ha già ridotto. Il giorno dopo che è arrivata qui, si è messa il suo cappellino migliore e, fresca come una rosa, mi ha detto che andava a trovare Regina Beaufort. "Non la conosco; chi è", le dico. "È la tua pronipote, una donna molto infelice", dice lei. "È la moglie di un mascalzone", le ho risposto. "Allora, lo sono anch'io", dice lei, "eppure tutta la mia famiglia vuole che torni da lui". Ebbene, questo mi ha messo a terra e l'ho lasciata andare; e alla fine un giorno mi ha detto che pioveva troppo forte per uscire a piedi e ha voluto che le prestassi la mia carrozza. "Per fare che cosa?", le ho chiesto e lei mi ha detto: "Per andare a trovare la cugina Regina" ... cugina! Allora mio caro, ho guardato fuori della finestra e ho visto che non veniva giù neanche una goccia; ma l'ho capita e le ho fatto prendere la carrozza ... Dopo tutto Regina è una donna coraggiosa e così pure Ellen; e a me il coraggio è sempre piaciuto sopra ogni cosa.»

Archer si chinò e appoggiò le labbra sulla manina che era ancora posata sulla sua.

«Eh ... eh ... eh! Quale mano pensi di stare baciando, giovanotto ... quella di tua moglie, spero?», disse liberandosi l'anziana signora col suo risolino sarcastico; e mentre lui si alzava per congedarsi, gli esclamò dietro: «Portale i saluti affettuosi della nonna, ma faresti meglio a non dirle nulla della nostra conversazione».

Capitolo trentunesimoArcher era rimasto sbalordito dalle notizie comunicategli dalla vecchia Catherine. Era normale

che Madame Olenska avesse risposto agli appelli della nonna precipitandosi da Washington; ma il fatto che avesse deciso di rimanere sotto il suo tetto — specialmente ora che la signora Mingott si era quasi rimessa in salute — era meno facile da spiegare.

Archer era sicuro che la decisione di Madame Olenska non fosse stata condizionata dalla sua mutata situazione finanziaria. Lui era al corrente dell'esatto ammontare della modesta rendita che il marito le aveva concesso all'atto della loro separazione e che, senza l'aggiunta dell'assegno della nonna, non sarebbe stata sufficiente per continuare a tirare avanti, in qualsiasi senso noto al lessico dei Mingott. E adesso che Medora Manson, che conviveva con lei, era stata mandata in rovina, quell'elemosina sarebbe servita appena a vestire e a nutrire le due donne. Eppure Archer era convinto che Madame Olenska non avesse accettato la proposta della nonna per motivi di interesse.

Ellen possedeva la generosità irriflessiva e la spasmodica prodigalità delle persone abituate a grandi ricchezze e incuranti del denaro; ma poteva vivere senza le tante cose che i suoi parenti consideravano indispensabili e spesso la moglie di Lovell Mingott e la signora Welland erano state udite lamentarsi del fatto che chi aveva goduto dei lussi cosmopoliti delle proprietà del conte Olenski si curasse tanto poco di «fare le cose come si deve». Inoltre, come risultava ad Archer, erano trascorsi diversi mesi da quando era stato sospeso il pagamento del suo assegno; eppure nel frattempo lei non aveva fatto nessuno sforzo per riguadagnare l'approvazione della nonna. Perciò, se aveva mutato la sua linea di condotta, doveva averlo fatto per un altro motivo.

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Non doveva cercarlo lontano. Sulla via del ritorno dal traghetto, lei gli aveva detto che dovevano rimanere lontani; ma glielo aveva detto poggiandogli la testa sul petto. Lui sapeva che nelle sue parole non c'era nessuna civetteria premeditata; lei stava lottando contro il suo destino come lui aveva lottato contro il proprio, aggrappandosi disperatamente alla sua decisione che non dovessero tradire le persone che avevano fiducia in loro. Ma durante i dieci giorni trascorsi dal suo ritorno a New York, forse basandosi sul silenzio di Newland e sul fatto che non facesse alcun tentativo per vederla, aveva indovinato che lui stesse progettando di compiere un passo decisivo, un passo da cui non fosse possibile tornare indietro. A quel pensiero, era stata forse assalita da una improvvisa paura della propria debolezza e, dopo tutto, aveva forse preso in considerazione l'opportunità di accettare il solito compromesso cui si ricorre in simili casi e di seguire la linea della minima resistenza.

Un'ora prima, quando aveva suonato il campanello della signora Mingott, Archer si era illuso che il sentiero davanti a sé fosse inequivocabile. Si era proposto di avere un colloquio a quattr'occhi con Madame Olenska e, se non ci fosse riuscito, di sapere dalla nonna in quale giorno e con quale treno Ellen sarebbe tornata a Washington. Intendeva raggiungerla su quel treno per viaggiare con lei fino a Washington o quanto più lontano lei desiderasse andare. La sua fantasia propendeva per il Giappone. In ogni caso lei avrebbe subito compreso che, ovunque fosse andata, lui l'avrebbe seguita. Intendeva lasciare a May una lettera il cui contenuto avrebbe escluso ogni altra alternativa.

Lui aveva avuto l'impressione non solo di avere il coraggio di prendere questa difficile decisione, ma anche di desiderare di prenderla; eppure, apprendendo che il corso degli eventi era mutato, la sua prima sensazione era stata di sollievo. Comunque, mentre rincasava a piedi dopo aver parlato con la signora Mingott, si rendeva conto della crescente avversione che provava per quello che lo attendeva. Non c'era niente di sconosciuto 0 di strano nel sentiero che avrebbe dovuto percorrere; ma quando in precedenza lo aveva percorso, lo aveva fatto da uomo libero, che non doveva rendere conto a nessuno delle sue azioni e che poteva prestarsi, con divertito distacco, al gioco di Precauzioni e di menzogne, di dissimulazioni e di compiacenze che la parte esigeva. Questo comportamento discendeva dalla necessità di «tutelare l'onore di una signora», che costituiva il codice a cui, in tutti i suoi particolari, era stato iniziato da molto tempo grazie alla migliore narrativa e alle conversazioni tenute sull'argomento dai più grandi dopo cena.

Ora vedeva le cose sotto un'altra luce e la parte che vi occupava sembrava stranamente ridotta. Era, infatti, quella che, con minima leggerezza, aveva visto recitare dalla moglie di Thorley Rushworth nei confronti di un marito ingenuo e distratto: una menzogna sorridente, canzonatoria, compiacente, guardinga e continua. Una bugia di giorno, una bugia di notte, una bugia in ogni contatto e in ogni sguardo; una bugia in ogni carezza e in ogni lite; una bugia in ogni parola e in ogni silenzio.

Per una moglie era più facile e, tutto considerato, meno meschino recitare una simile parte nei confronti del marito. Il livello di sincerità di una donna era tacitamente ritenuto più basso-lei era l'essere sottomesso e versato nelle arti di chi è ridotto in schiavitù. In tal caso lei poteva sempre addurre a pretesto lo stato d'animo e i nervi, nonché il diritto di non doverne rendere conto troppo severamente; e anche nelle società più puritane quello che veniva preso in giro era sempre il marito.

Ma nel piccolo mondo di Archer nessuno rideva di una moglie ingannata e gli uomini che, dopo il matrimonio continuavano a fare i donnaioli, erano fatti oggetto di una certa dose di disprezzo. Nell'avvicendarsi delle generazioni si ammetteva un periodo di intemperanze giovanili, purché ciò non accadesse più di una volta.

Archer aveva sempre condiviso questo punto di vista: in cuor suo giudicava Lefferts spregevole. Ma per amare Ellen Olenska non occorreva diventare un uomo come Lefferts: per la prima volta Archer si trovava faccia a faccia con il terribile argomento del caso specifico. Ellen Olenska non era uguale a nessun'altra donna, lui non somigliava a nessun altro uomo: la loro situazione non era quindi paragonabile a quella di nessun altro e loro non erano responsabili di fronte ad alcun tribunale se non a quello della propria coscienza.

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Sì, ma tra dieci minuti avrebbe varcato la soglia di casa, oltre la quale c'erano May, e le abitudini, e il buon nome, e tutte le vecchie convenzioni sociali nelle quali lui e i suoi avevano sempre creduto ...

Giunto all'angolo della strada di casa sua ebbe un attimo di esitazione e poi continuò giù per la Quinta Strada.

Davanti a sé, nella notte invernale, apparve in lontananza una grande casa non illuminata. Mentre si avvicinava, pensò a quanto spesso l'aveva vista risplendere di luci, con i gradini sormontati dal tendone e coperti dal tappeto, le carrozze in attesa in doppia fila pronte ad accostarsi al bordo del marciapiede. Era stato nella serra, che si estendeva con la sua sagoma massiccia giù per la strada laterale, che aveva baciato May per la prima volta; era avvenuto alla luce della miriade di candele della sala da ballo che l'aveva vista comparire, alta e splendente come una giovane Diana.

Ora la casa era buia come una tomba, tranne che per il debole chiarore di un lume a gas nel seminterrato e la luce proveniente da una stanza al piano superiore, sulla cui finestra non era stata abbassata la tenda. Appena raggiunto l'angolo, Archer vide che la carrozza che stava di fronte alla porta era quella della vedova di Manson Mingott. Quale occasione per Sillerton Jackson se gli fosse capitato di passare! Archer era rimasto molto scosso da quanto aveva appreso dalla vecchia Catherine a proposito dell'atteggiamento di Madame Olenska nei confronti della sinora Beaufort; esso faceva apparire il virtuoso biasimo di New York come un tradimento. Ma lui sapeva abbastanza bene come i circoli e i salotti avrebbero interpretato le visite di Ellen Olenska a sua cugina.

Si fermò a guardare in su, verso la finestra illuminata. Senza dubbio le due donne sedevano insieme in quella stanza: Beaufort, probabilmente, era andato a cercare conforto altrove. Si diceva addirittura che fosse partito da New York insieme a Fanny Ring; ma l'atteggiamento della signora Beaufort faceva sembrare inverosimili tutte quelle chiacchiere.

Archer si godeva la vista notturna della Quinta Strada quasi in esclusiva. A quell'ora la maggior parte della gente era in casa intenta a prepararsi per la cena; e lui fu intimamente felice che l'uscita di Ellen passasse, probabilmente, inosservata. Non appena quel pensiero gli attraversò la mente, la porta si aprì e lei uscì. Dietro di lei tremolava una luce, forse portata giù per mostrarle la strada. Lei si voltò per rispondere a qualcuno; poi la porta si chiuse e scese i gradini.

«Ellen», la chiamò a bassa voce, appena lei raggiunse il marciapiede.

Lei si fermò con un leggero sobbalzo e in quel momento preciso lui vide avvicinarsi due giovanotti vestiti con eleganza. I loro soprabiti e il modo in cui portavano le raffinate sciarpe di seta sopra le cravatte bianche avevano un'aria familiare; e lui si chiese come mai dei giovani del loro rango andassero a cena fuori così presto. Poi si sovvenne che i Reggie Chivers, la cui casa era poco distante, quella sera avevano invitato molta gente a vedere Adelaide Neilson in Romeo e Giulietta, e immaginò che i due facessero parte del gruppo. Quando passarono sotto un

lampione, riconobbe Lawrence Lefferts e uno dei giovani Chivers.

Lì per lì desiderò in modo meschino che non avessero visto Madame Olenska sulla porta dei Beaufort, ma poi tutto passò appena avvertì il calore penetrante della mano di lei.

«Adesso potrò vederti ... staremo insieme», proruppe senza Quasi sapere ciò che diceva.

«Ah», rispose lei, «te lo ha detto la nonna?»

Mentre la osservava, si accorse che Lefferts e Chivers, porta» tisi nel punto più lontano dell'angolo della via, si allontanavano con discrezione attraversando la Quinta Strada. Era il tipo di solidarietà maschile che lui stesso aveva sovente messo in atto-ora la loro complicità lo disgustava. Lei pensava veramente che loro due avrebbero potuto vivere in quel modo? In caso non lo pensasse, in quale altra maniera credeva di risolvere la situazione?

«Domani devo vederti ... da qualche parte dove possiamo stare soli», le disse, con una voce che

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suonava quasi rabbiosa alle sue stesse orecchie.

Lei esitò per un attimo, poi si diresse verso la carrozza.

«Ma io devo stare dalla nonna ... cioè per il momento», aggiunse, consapevole del fatto che il cambiamento dei suoi piani richiedeva una spiegazione.

«Da qualche parte dove possiamo stare soli», incalzò lui.

Lei rise debolmente e ciò lo ferì.

«A New York? Ma non ci sono chiese ... né monumenti».

«C'è l'Art Museum ... nel parco», spiegò lui poiché lei sembrava perplessa. «Alle due e mezzo. Sarò all'ingresso ...»

Ellen si girò senza rispondere e salì in fretta sulla carrozza. Mentre si allontanava, si sporse dal finestrino e lui pensò che lo salutasse con la mano nell'oscurità. Andò via dopo di lei in preda a un turbinio di sentimenti contrastanti. Gli sembrava di aver parlato non con la donna che amava, bensì con un'altra, con una donna verso la quale fosse obbligato per i piaceri ricevuti di cui si era già stancato: che cosa odiosa sentirsi prigioniero di quel vocabolario trito.

«Verrà!», disse tra sé, quasi con disprezzo.

Evitando la popolare «Collezione Wolfe», le cui tele aneddotiche riempivano una delle principali gallerie della bizzarra desolazione di ghisa e mattonelle a encausto che andava sotto il nome di Metropolitan Museum, avevano vagato infilandosi in un corridoio che portava nella sala dove i «cimeli Cesnola» cadevano a pezzi in malinconica solitudine.

Quel luogo appartato era tutto per loro; seduti sul divano che circondava il radiatore a vapore nel centro della sala, osservarono in silenzio le teche di vetro montate su legno verniciato a imitazione dell'ebano, contenenti i reperti di Ilio.

«È strano», disse Madame Olenska, «non sono mai venuta qui prima d'ora.»

«Ah, già ... un giorno, credo, sarà un grande museo.»

«Sì», assentì Ellen distrattamente.

Lei si alzò e prese a gironzolare per la sala. Archer, rimasto a edere, osservava i lievi movimenti della sua figura, così giovarle nonostante fosse appesantita dalle pellicce, l'ala d'airone Vilmente fissata sul suo cappello di pelo e il modo in cui un ricciolo scuro le si posava, come un viticcio, sopra ciascun orecchio. La sua mente, come sempre accadeva appena si incontravano, era completamente assorbita dai deliziosi particolari che la facevano essere se stessa e non una persona diversa. In quel momento si alzò e si avvicinò alla teca di fronte alla quale sostava lei- I ripiani di vetro erano pieni di frammenti di piccoli oggetti — utensili domestici irriconoscibili, ninnoli e fronzoli personali — fatti di vetro, di argilla, di bronzo scolorito e di altri materiali segnati dal tempo.

«Sembra crudele», disse Ellen, «che dopo un po' di tempo niente abbia più importanza ... se non queste piccole cose, che erano necessarie e importanti per persone dimenticate e sulle quali adesso si avanzano ipotesi, guardandole con una lente di ingrandimento e etichettandole: "Impiego sconosciuto".»

«Sì, ma intanto ...»

«Ah, intanto ...»

Mentre lei stava lì in piedi, con il cappotto di pelliccia di foca, le mani cacciate in un piccolo manicotto cilindrico, la veletta abbassata come una maschera trasparente fino alla punta del naso e il mazzo di violette che lui le aveva portato e che si agitavano sotto il suo respiro veloce, sembrava incredibile che quella armonia incontaminata tra linea e colore dovesse mai risentire della stupida

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legge del mutamento.

«Intanto ha valore ... tutto ciò che ti riguarda», disse.

Lei lo guardò pensierosa e tornò verso il divano. Lui le si sedette accanto e attese; ma improvvisamente udì dei passi che risonavano in lontananza nella sala vuota ed ebbe la percezione del tempo che passava.

«Che cosa volevi dirmi?», chiese lei, come se avesse ricevuto lo stesso avvertimento.

«Che cosa volevo dirti?», ripeté lui. «Il fatto è che credo che tu sia venuta a New York perché avevi paura.» «Paura?»

«Che io venissi a Washington.»

Lei abbassò lo sguardo sul manicotto, in cui le sue mani si muovevano nervosamente. «Giusto?»

«Sì... giusto», disse lei.

«Tu avevi paura? Tu sapevi...»

«Sì, lo sapevo ...»

«Bene, e allora?», insistette lui.

«Allora è meglio così, no?», replicò, con un lungo sospiro interrogativo.

«Meglio ... ?»

«Dobbiamo fare meno male possibile agli altri. Dopo tutto, non è quello che hai sempre voluto?»

«Vuoi dire averti qui ... vicina e, nello stesso tempo, irraggiungibile? Incontrarsi così, furtivamente? È esattamente il contrario di ciò che voglio. L'altro giorno ti ho detto che cosa voglio.»

Ellen esitò. «E pensi ancora che così... sia peggio?»

«Mille volte peggio!» Si interruppe. «Sarebbe facile mentirti, ma la verità è che la ritengo una cosa abominevole.»

«Oh, anch'io!», gridò lei con un profondo sospiro di sollievo.

Lui si alzò di scatto, con insofferenza. «E allora, se è così... tocca a me chiederlo: in nome di Dio, che cosa pensi sia meglio fare?»

Ellen chinò la testa e seguitò a tormentarsi le mani infilate nel manicotto. I passi si avvicinarono e un guardiano con berretto gallonato attraversò la sala con aria indifferente, come un fantasma che stesse avanzando in una necropoli con incedere solenne. Contemporaneamente essi si misero a fissare la teca che era di fronte a loro e, quando la figura dell'addetto svanì in una prospettiva di mummie e di sarcofaghi, Archer riprese a parlare.

«Secondo te, che cosa è meglio fare?»

Invece di rispondere, lei sussurrò: «Ho promesso alla nonna di restare con lei, perché credevo che qui sarei stata più al sicuro».

«Da me?»

Lei chinò leggermente la testa, senza guardarlo.

«Più al sicuro dall'amore che provi per me?»

Il profilo di lei rimase immobile, ma lui vide una lacrima traboccare dalle sue ciglia e rimanere sospesa a una maglia della veletta.

«Più al sicuro dal provocare danni irrimediabili. Cerchiamo di non essere come tutti gli altri!», protestò lei.

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«Quali altri? Io non intendo essere diverso da quelli della mia specie. Mi affanno per soddisfare le stesse necessità e gli stessi desideri.»

Lei lo fissò con una specie di terrore e lui vide che le sue guance si stavano leggermente colorando.

«Verrò ... verrò da te una volta; e poi tornerò a casa?», si arrischiò a dire lei tutto a un tratto, con voce bassa e chiara.

Il sangue affluì alla fronte del giovane. «Tesoro!», disse, senza muoversi. Aveva la sensazione di tenere in mano il proprio cuore, come un calice colmo che il minimo movimento poteva far traboccare.

Poi lo colpì l'ultima frase di lei e il suo viso si rattristò. «Tornare a casa? Che cosa vuoi dire con "tornare a casa"?»

«A casa da mio marito.»

«E ti aspetti che per questo ti dia il mio assenso?»

Lei alzò lo sguardo angosciato verso di lui. «Che altro c'è da fare? Non posso rimanere qui a mentire alle persone che sono state buone con me.»

«Ma è proprio questo il motivo per cui ti chiedo di venire

via!»

«E distruggere così le loro esistenze, quando loro mi hanno aiutata a ricostruire la mia?»

Archer balzò in piedi e la guardò con muta disperazione. Sarebbe stato facile dire: «Sì, vieni con me, vieni per una volta». Conosceva la forza di cui lei lo avrebbe dotato se gli si fosse concessa; non ci sarebbe stata alcuna difficoltà, allora, a convincerla a non tornare dal marito.

Ma qualcosa smorzò le parole sulle sue labbra. Una specie di appassionata lealtà in lei rendeva inconcepibile cercare di trascinarla in quella nota trappola. «Se la lasciassi venire», disse tra sé, «dovrei lasciarla andare ancora una volta». E questo era impensabile.

Ma vide l'ombra delle ciglia sul suo volto bagnato di pianto e si sentì vacillare.

«In fin dei conti», riprese a dire, «noi abbiamo le nostre vite ...È inutile tentare l'impossibile. Tu sei così libera da pregiudizi per quanto riguarda alcune cose, così abituata, come dici tu, a guardare la Gorgone, che non capisco perché abbia paura di affrontare la nostra situazione e considerarla per quello che veramente è ... a meno che non ritieni che non valga la pena di fare sacrifici.»

Anche lei si alzò, serrando le labbra e con una fugace occhiata di disapprovazione.

«Allora, se per te è così, fai pure ... Devo andare», disse estraendo l'orologino dal seno.

Si voltò per andare via e lui la seguì, afferrandola per il polso. «Bene, allora: vieni da me, almeno una volta», le disse, sentendosi improvvisamente girare la testa al pensiero di perderla; e Per un attimo o due si guardarono quasi come nemici.

«Quando?», incalzò lui. «Domani?»

Ella esitò: «Dopodomani».

«Tesoro ...!», ripetè Newland.

Ellen aveva liberato il polso dalla sua presa e lui si accorse che il suo viso, diventato molto pallido, era irradiato da un intimo splendore: il suo cuore batté per la meraviglia, in quanto si rendeva conto di non aver mai contemplato prima d'allora il volto dell'amore.

«Oh, farò tardi... addio. No, resta lì, non seguirmi», gli gridò, correndo via a precipizio per la lunga sala, come se il bagliore riflesso nei suoi occhi l'avesse spaventata. Giunta alla porta, si voltò per un istante inviandogli un rapido cenno di saluto.

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Archer rincasò a piedi da solo. Quando arrivò stava calando l'oscurità e guardò le cose familiari che erano nell'ingresso come se le vedesse dall'altro lato della tomba. La cameriera, all'udire il suo passo, salì di corsa le scale per accendere i lumi a gas del pianerottolo superiore.

«La signora Archer è in casa?»

«No, signore, la signora Archer è uscita in carrozza dopo pranzo e non è ancora tornata.»

Con un senso di sollievo entrò nella biblioteca e si accasciò nella sua poltrona. La cameriera lo seguì portando la lampada da tavolo e riattizzò il fuoco che si stava spegnendo. Quando se ne andò, egli rimase seduto immobile, i gomiti sulle ginocchia, il mento sulle mani giunte e gli occhi fissi sulla griglia incandescente.

Stava lì seduto senza formulare pensieri coscienti, senza percepire il passare del tempo, immerso in un grave stato di costernazione che sembrava interrompere la vita anziché accelerarla. «È così che doveva andare, allora ... è così che doveva andare», continuava a ripetere a se stesso, come se fosse sospeso in balia del destino. Ciò che aveva sognato era stato talmente diverso che nel suo smarrimento provava una sensazione di freddo mortale.

La porta si aprì e May entrò.

«Sono terribilmente in ritardo ... non eri preoccupato, vero?», chiese posandogli la mano sulla spalla con una delle sue rare carezze.

Lui alzò lo sguardo sorpreso. «Tardi?»

«Sono le sette passate. Credo che ti sia addormentato!», rise, sfilando gli spilloni dal cappellino di velluto e gettandolo sul divano. Sembrava più pallida del solito, ma splendente di una eccitazione inconsueta.

«Ero andata a trovare la nonna e proprio quando stavo andando via è arrivata Ellen reduce da una passeggiata; così sono rimasta e ho avuto un lungo colloquio con lei. Erano secoli che non parlavamo veramente ...» Si era lasciata cadere nella sua solita poltrona, di fronte a quella di lui, e si passava le dita tra i

capelli scompigliati. Lui credette che fosse in attesa che lui par-

Veramente una bella chiacchierata», continuò, con un sorriso che ad Archer parve esprimere una vivacità innaturale. «È stata così cara ... proprio come la Ellen di un tempo. Ho paura di essere stata ingiusta con lei ultimamente. Qualche volta ho pensato ...»

Archer si alzò e andò ad appoggiarsi al caminetto, tenendosi fuori del raggio della lampada.

«Sì, hai pensato ... ?», le fece eco appena lei si interruppe.

«Forse non l'ho giudicata imparzialmente. È così diversa ... almeno in superficie. Si lega con gente talmente strana ... a quanto pare, le piace farsi notare. Credo sia il tipo di vita dissoluta che ha condotto in quella società europea; senza dubbio noi le sembriamo terribilmente noiosi. Ma non voglio giudicarla ingiustamente.»

Si interruppe di nuovo, ansimando leggermente per l'insolita lunghezza del suo discorso e rimase con le labbra socchiuse e con le guance avvampate.

Archer, guardandola, si rammentò del rossore di cui era soffuso il suo viso nel giardino della Missione a St Augustine. Si rese conto che si trattava dello stesso oscuro sforzo che si manifestava in lei quando tendeva verso qualcosa che era al di fuori della normale portata della sua visione.

«Odia Ellen», pensò, «e sta cercando di vincere questo sentimento e di ottenere il mio aiuto per vincerlo.»

Quel pensiero lo commosse e per un istante fu sul punto di rompere il silenzio fra loro e di accorrere in suo aiuto.

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«Tu capisci, vero», continuò lei, «perché a volte la famiglia si è irritata? All'inizio, tutti noi abbiamo fatto quello che potevamo per aiutarla; ma sembrava che lei non volesse capirlo ... E adesso, questa idea di andare a trovare la signora Beaufort, di andarci con la carrozza della nonna! Ho paura che si sia alienata del tutto la simpatia dei van der Luyden ...»

«Ah», disse Archer, con una risata di impazienza. La porta apertasi tra loro si era chiusa di nuovo.

«È ora che ci prepariamo; ceneremo fuori, vero?», chiese, allontanandosi dal caminetto.

Anche lei si alzò, ma indugiò vicino al fuoco, e come lui le Passò accanto, avanzò impulsivamente come a volerlo trattenere: i loro occhi si incontrarono e Newland vide che quelli di May erano dello stesso azzurro intenso di quando l'aveva lasciata per andare a Jersey City.

May gli gettò le braccia al collo e appoggiò la guancia a quella di lui.

«Oggi non mi hai dato neanche un bacio», sussurrò e lui la sentì tremare tra le sue braccia.

Capitolo trentaduesimo«Alla corte delle Tuileries», disse il signor Sillerton Jackson con il suo sorriso caratterizzato dai

ricordi, «certe cose erano tollerate abbastanza apertamente.»

Lo scenario era la sala da pranzo di noce scuro dei van der Luyden in Madison Avenue, la sera dopo la visita di Newland Archer all'Art Museum. Il signore e la signora van der Luyden erano venuti per qualche giorno in città da Skuytercliff, da dove si erano precipitati all'annuncio del fallimento di Beaufort. Era stato detto loro che lo scompiglio in cui era stata gettata la società in seguito a quei fatti deplorevoli rendeva la loro presenza in città più che mai necessaria. Era una delle occasioni in cui, secondo la signora Archer, essi avevano il «dovere sociale» di frequentare il teatro dell'opera e addirittura di aprire le porte della loro casa.

«Non sarà opportuno, mia cara Louisa, permettere che persone come la vedova di Lemuel Struthers pensino di poter prendere il posto di Regina. È proprio in simili situazioni che i nuovi arrivati fanno a spinte per ottenere un punto d'appoggio. Fu a causa dell'epidemia di varicella, scoppiata a New York l'inverno in cui la signora Struthers fece la sua prima comparsa, che gli uomini sposati entravano alla chetichella in casa sua mentre le mogli erano relegate nella camera dei bambini. Tu e il caro Henry, Louisa, dovete rimanere sulla breccia, come avete sempre fatto.»

Il signore e la signora van der Luyden non potevano restare sordi a un simile appello e, a malincuore ma eroicamente, erano venuti in città, avevano liberato i mobili dalle fodere e avevano mandato inviti per due cene e per un ricevimento serale.

In occasione di quella serata speciale, avevano invitato Sillerton Jackson, la signora Archer, Newland e sua moglie, perché andassero con loro all'opera dove, per la prima volta quell'inverno, si dava il Faust. Niente si faceva sotto il tetto dei van der Luyden senza osservare un determinato cerimoniale e, anche se c'erano solo quattro invitati, la cena era cominciata alle sette precise, in modo da poter servire le portate in perfetto ordine di successione senza fretta e da permettere ai signori di fumare i loro sigari.

Archer non vedeva la moglie dalla sera precedente. Era uscito

per andare in ufficio, dove si era immerso in un mucchio di pratiche di scarsa importanza. Nel pomeriggio, uno dei soci più anziani lo aveva inaspettatamente trattenuto oltre il normale orario, sicché era arrivato a casa così tardi che May lo aveva preceduto dai van der Luyden, rimandandogli indietro la carrozza.

Ora, guardandola attraverso i garofani di Skuytercliff e il massiccio vasellame, fu colpito dal suo aspetto pallido e debole; tuttavia i suoi occhi brillavano e parlava con esagerata eccitazione.

L'argomento che aveva suscitato l'accenno preferito del signor Sillerton Jackson era stato

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proposto dalla padrona di casa (Archer ebbe l'impressione che la cosa non fosse casuale). Il fallimento di Beaufort, o piuttosto l'atteggiamento tenuto da Beaufort dopo il fallimento, costituiva ancora un argomento fertile per i moralisti da salotto; e dopo che esso era stato sviscerato da cima a fondo e che era stata emessa la relativa condanna, la signora van der Luyden aveva posato il suo sguardo indagatore su May Archer.

«È possibile, cara, che sia vero quello che ho udito? Mi è stato detto che la carrozza di tua nonna Mingott è stata vista in sosta davanti alla porta della signora Beaufort.» Era degno di nota il fatto che ella non chiamasse più la tracotante signora con il suo nome di battesimo.

May arrossì e la signora Archer intervenne precipitosamente in suo aiuto: «Se così è stato, sono convinta che la carrozza era lì all'insaputa della signora Mingott».

«Ah ... tu credi?», la signora van der Luyden si interruppe, sospirò e lanciò un'occhiata al marito.

«Temo», disse il signor van der Luyden, «che il tenero cuore di Madame Olenska possa averla spinta inopportunamente ad andare a trovare la signora Beaufort.»

«Oppure la sua predilezione per la gente strana», si intromise seccamente la signora Archer, mentre fissava senza malizia il figlio.

«Mi dispiace pensare questo di Madame Olenska», disse la signora van der Luyden; e la signora Archer sussurrò: «Ah, mia cara ... e dopo che l'avete ospitata due volte a Skuytercliff!».

Fu a questo punto che il signor Jackson colse l'occasione per introdurre la sua allusione preferita.

«Alle Tuileries», ripeté, vedendo che gli occhi degli astanti lo guardavano in speranzosa attesa, «sotto certi aspetti le regole di vita erano eccessivamente rilassate; e se vi foste chiesti da dove provenisse il denaro di Morny1 ... ! O chi pagasse i debiti di alcune bellezze di corte ...»

«Spero, caro Sillerton», disse la signora Archer, «che tu non ci stia consigliando di adottare simili criteri?»

«Io non do mai consigli», rispose con calma il signor Jackson. «Ma può darsi che l'educazione che Madame Olenska ha ricevuto all'estero l'abbia resa meno esigente ...»

«Ah», sospirarono le due signore più anziane.

«Ciò nondimeno, aver tenuto la carrozza della nonna davanti alla porta di una persona accusata di appropriazione indebita!», insorse il signor van der Luyden; e Archer sospettò che si fosse ricordato, irritandosi, della cesta di garofani che aveva mandato nella casetta della Ventitreesima Strada.

«Naturalmente io ho sempre sostenuto che lei vede le cose in maniera del tutto diversa da noi», dedusse la signora Archer.

La fronte di May si imporporò. Guardò suo marito dall'altra parte della tavola e disse tutt'a un tratto: «Sono sicura che Ellen fosse animata da buone intenzioni».

«Spesso le persone incaute sono in buona fede», disse la signora Archer, come se quella circostanza non costituisse un'attenuante; e la signora van der Luyden sussurrò: «Se almeno si fosse consigliata con qualcuno ...».

«Ah, questo lei non lo ha mai fatto!», ribatté la signora Archer.

A questo punto il signor van der Luyden lanciò uno sguardo a sua moglie che si era voltata leggermente verso la signora Archer; e i luccicanti strascichi delle tre signore uscirono maestosamente dalla sala, mentre i signori si mettevano a fumare i loro sigari. In occasione delle serate all'opera, il signor van der Luyden offriva quelli corti, che però erano talmente buoni che gli ospiti si dolevano della inflessibile puntualità del padrone di casa.

Dopo il primo atto, Archer si era separato dalla comitiva e si era diretto verso il palco del circolo.

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Di lì osservò, al di sopra delle spalle dei vari Chivers, Mingott e Rushworth, la stessa scena a cui aveva assistito due anni prima, la sera del suo primo incontro con Ellen Olenska. Si era quasi aspettato che lei apparisse di nuovo nel palco della vecchia signora Mingott, ma questo restò vuoto; e lui rimase seduto, immobile, a fissarlo, fino a quando la chiara voce di soprano di Madame Nilsson proruppe nel «M'ama, non m'ama ...».

Archer si volse verso il palcoscenico dove, nella nota messa in scena composta da rose giganti e da viole del pensiero fatte a forma di di nettapenne, la stessa voluminosa vittima bionda stava

cedendo alle lusinghe dello stesso seduttore piccolo e bruno.

I suoi occhi vagarono dal palcoscenico al punto del ferro di cavallo dove May sedeva tra due signore più anziane, proprio come in quella famosa serata era seduta tra la moglie di Lovell Mingott e la cugina straniera appena arrivata. Come quella sera era tutta in bianco; e Archer, che non aveva prestato attenzione a quello che indossava, riconobbe il raso azzurro e bianco e il pizzo antico del suo abito nuziale.

Nella vecchia New York era usanza delle spose novelle comparire in pubblico con quei ricchi capi di vestiario durante i primi due anni di matrimonio: sapeva che sua madre conservava i suoi nella carta velina con la speranza che un giorno Janey potesse indossarli, anche se la povera Janey stava arrivando all'età in cui sarebbero stati ritenuti più «adatti» il popelin grigio perla e un matrimonio senza damigelle d'onore.

Archer fu colpito dal fatto che May, fin dal loro ritorno dall'Europa, raramente aveva indossato il suo abito da sposa, e la sorpresa di vederglielo indossare gli fece paragonare il suo aspetto con quello della fanciulla che due anni prima aveva osservato accarezzando grandi speranze di felicità.

Sebbene la linea di May si fosse leggermente appesantita, come la sua corporatura da dea aveva fatto presagire, il suo portamento eretto da atleta e la verginale limpidezza della sua espressione erano rimasti immutati: ma data la leggera apatia che Archer aveva notato ultimamente in lei, avrebbe potuto essere il ritratto preciso della ragazza che reggeva il mazzo di mughetti la sera del suo fidanzamento. Il fatto sembrava un ulteriore appello al suo senso di pietà: una tale innocenza era commovente quanto l'abbraccio fiducioso di un bambino. Poi lui si rammentò della appassionata grandezza d'animo che si nascondeva sotto quella calma distratta. Ricordò il suo sguardo d'intesa quando aveva insistito perché il loro fidanzamento venisse annunciato al ballo di Beaufort; udì la voce con cui lei aveva detto, nel giardino della Missione: «Non potrei conseguire la mia felicità a Prezzo di un torto ... di un torto fatto a qualcun altro», e si impadronì di lui un irrefrenabile desiderio di dirle la verità, di affidarsi alla sua generosità e chiedere la libertà che una volta aveva rifiutato.

Newland Archer era un giovanotto tranquillo e dotato di autocontrollo. L'osservanza delle regole di una società ristretta era diventata per lui quasi una seconda natura. Provava un profondo disgusto nel fare qualcosa di melodrammatico e di rilevante, qualcosa che il signor van der Luyden avrebbe disapprovato e il palco del circolo avrebbe condannato come espressione di cattivo gusto. Ma tutt'a un tratto era diventato ignaro del palco del circolo, del signor van der Luyden, di tutto ciò che per tanto tempo lo aveva avvolto nel caldo rifugio dell'abitudine. Percorse il corridoio semicircolare che correva alle spalle della sala e aprì la porta del palco della signora van der Luyden, come se si fosse trattato dell'accesso all'ignoto.

«M'amai», palpitò l'esultante Margherita e gli occupanti del palco si girarono colti di sorpresa dall'ingresso di Archer. Aveva già infranto una delle regole del suo mondo, che vietava di entrare in un palco durante un assolo.

Scivolando tra il signor van der Luyden e Sillerton Jackson, si chinò verso sua moglie.

«Ho un mal di testa bestiale; non dirlo a nessuno, ma vieni a casa, vuoi?», le sussurrò.

May gli lanciò uno sguardo pieno di comprensione e lui la vide sussurrare a sua volta qualcosa alla madre, la quale annuì con simpatia; poi mormorò una scusa alla signora van der Luyden e si

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alzò dal suo posto proprio nel momento in cui Margherita cadeva tra le braccia di Faust. Archer, mentre l'aiutava a indossare il mantello da teatro, notò che le due signore più anziane si stavano scambiando un sorriso significativo.

Durante il ritorno a casa May posò timidamente la mano su quella di lui. «Mi dispiace tanto che tu non ti senta bene. Ho paura che ti abbiano fatto di nuovo lavorare troppo in ufficio.»

«No, non si tratta di questo: ti dispiace se apro il finestrino?», rispose con aria confusa, abbassando il vetro dalla sua parte. Sedeva fissando la strada, avvertiva la presenza della moglie accanto a sé come un silenzioso e attento interrogativo e teneva gli occhi sulle case che sfilavano. Davanti alla loro porta la gonna di May rimase impigliata al gradino della carrozza e lei gli cadde addosso.

«Ti sei fatta male?», le chiese, sostenendola con il suo braccio.

«No, ma il mio povero vestito ... guarda come l'ho strappato!», esclamò lei. Si chinò per raccogliere un pezzo di stoffa infangato e lo seguì su per i gradini entrando nell'ingresso. I domestici non li aspettavano così presto e sul pianerottolo del piano di sopra c'era solo una debole luce a gas.

Archer salì le scale, accese la luce e accostò un fiammifero ai bracci portalampade ai lati del caminetto della biblioteca. Le tende erano tirate e il caldo aspetto familiare della stanza lo colpì come quello di un volto noto che si incontra durante lo svolgimento di un incarico inconfessabile.

Notò che sua moglie era molto pallida e le chiese se gradisse un po' di brandy.

«Oh, no», esclamò lei con un fugace rossore, mentre si toglieva il mantello. «Ma non faresti meglio a metterti subito a letto?»' aggiunse, mentre apriva una scatola d'argento sul tavolo e prendeva una sigaretta.

Archer rifiutò la sigaretta e andò a mettersi nel suo solito posto accanto al fuoco.

«No, la mia testa non va così male». Si interruppe. «E c'è qualcosa che voglio dire; qualcosa di importante ... che devo dirti subito.»

Lei si era lasciata cadere in una poltrona e alzò la testa mentre lui parlava. «Sì, caro?», rispose con tale delicatezza, che egli si stupì constatando che non si mostrava sorpresa di fronte a quel preambolo.

«May ...», cominciò, rimanendo a poca distanza dalla poltrona di lei ed esaminandola come se il breve spazio tra loro fosse un abisso invalicabile. Il suono della sua voce echeggiava in modo irreale attraverso la quiete domestica ed egli ripeté: «C'è qualcosa che devo dirti... di me ...».

May sedeva in silenzio, senza che le sue ciglia si muovessero o fremessero. Era ancora molto pallida, ma il suo volto presentava una strana tranquillità d'espressione che sembrava tratta da qualche nascosta sorgente interiore.

Archer arginò le frasi convenzionali di autoaccusa che gli si affollavano alle labbra. Era deciso a porre il caso in maniera semplice, senza inutili recriminazioni o scuse.

«Madame Olenska ...», disse; ma nell'udire quel nome sua moglie alzò la mano come per farlo tacere. A quel gesto, la luce a gas si riverberò sull'oro dell'anello nuziale di lei.

«Oh, perché dovremmo parlare di Ellen stasera?», chiese con un'aria leggermente imbronciata.

«Perché avrei dovuto parlarne prima.»

Il volto di lei rimase tranquillo. «Ne vale veramente la pena, caro? Lo so che a volte sono stata ingiusta con lei... forse tutti noi lo siamo stati. Tu l'hai capita, senza dubbio meglio di noi: sei sempre stato gentile con lei. Ma che importanza ha ora che tutto è finito?»

Archer la guardò con espressione assente. Possibile che il senso di irrealtà in cui si sentiva

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imprigionato si fosse trasmesso a sua moglie?

«Tutto finito ... che cosa vuoi dire?», domandò in un confuso balbettio.

May lo guardava ancora con occhi limpidi. «Perché ... dato che tornerà in Europa così presto; dato che la nonna approva e capisce e ha combinato affinché si rendesse autonoma da suo marito ...»

Ella si interruppe e Archer, afferrando con mano contratta l'angolo del caminetto e cercando di ritrovare l'equilibrio appoggiandovisi, fece un inutile sforzo per estendere la stessa padronanza ai suoi turbinosi pensieri.

«Credevo», udì la moglie continuare, «che stasera fossi stato trattenuto in ufficio per sistemare la sua situazione economica. Credo che l'abbiano deciso stamattina.» Abbassò lo sguardo sotto gli occhi di lui che non vedevano e un altro fugace rossore le passò sul volto.

Lui capì che il proprio sguardo doveva essere insostenibile e, giratosi dall'altra parte, appoggiò i gomiti sulla mensola del caminetto e si coprì il volto. Qualcosa tamburellava e gli risonava furiosamente nelle orecchie; non era in grado di dire se fosse il sangue nelle sue vene o il ticchettio dell'orologio sulla mensola.

May rimase seduta, immobile e muta, mentre l'orologio avanzava lentamente per cinque minuti. Un pezzo di carbone cadde in avanti sulla griglia e, sentendola alzarsi per rimetterla a posto, alla fine Archer si voltò verso di lei.

«È impossibile», esclamò.

«Impossibile ...?»

«Come sai... quello che mi hai appena detto?»

«Ho visto Ellen ieri ... Ti avevo detto di averla vista dalla nonna.»

«Non è stato allora che lei te lo ha detto?»

«No, mi ha mandato un biglietto questo pomeriggio. Vuoi vederlo?»

Gli mancò la voce, mentre lei usciva dalla stanza per ritornarvi quasi subito.

«Pensavo che lo sapessi», disse lei semplicemente.

Posò un foglio di carta sul tavolo e Archer allungò la mano per prenderlo. La lettera conteneva solo poche righe.

Cara May, alla fine ho fatto capire alla nonna che la mia visita da lei non poteva essere più che una visita; e lei è stata più gentile e generosa che mai. Ora lei capisce che, se io torno in Europa, devo vivere da sola, o piuttosto con la povera zia Medora, che verrà con me. Tornerò in fretta a Washington per fare i bagagli e salperemo la prossima settimana. Devi essere molto buona con la nonna, quando sarò partita ... buona quanto lo sei sempre stata tu con me. Ellen.

Se qualcuno dei miei amici volesse insistere per farmi cambiare idea, per favore di' loro che sarebbe del tutto inutile.

Archer lesse da cima a fondo la lettera due o tre volte; poi la gettò e scoppiò a ridere.

Il suono della propria risata lo fece trasalire. Gli ricordava lo spavento di Janey a notte fonda quando l'aveva sorpreso ad abbandonarsi a una gioia inspiegabile sul telegramma di May che annunciava che la data del loro matrimonio era stata anticipata.

«perché ha scritto questo?», chiese, sforzandosi al massimo per trattenere il riso.

May affrontò la domanda con il suo incrollabile candore, «penso per le cose di cui abbiamo parlato ieri...»

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«Quali cose?».

«Le ho detto che avevo paura di essere stata ingiusta con lei

di non aver sempre compreso come deve essere stato difficile per lei stare qui da sola, in mezzo a tante persone che erano parenti e nello stesso tempo degli estranei, i quali si sentivano in diritto di criticarla, pur non sempre conoscendo i fatti.» Si interruppe. «Sapevo che tu eri l'unico amico su cui potesse contare sempre e volevo che sapesse che tu e io eravamo gli stessi ... per quel che riguarda tutti i nostri sentimenti.»

Esitò, come se stesse aspettando una parola da lui, e poi aggiunse lentamente: «Lei ha compreso il mio desiderio di dirle queste cose. Penso che comprenda ogni cosa».

Andò verso Archer, gli prese una delle sue fredde mani e senza indugio se l'appoggiò sulla guancia.

«Anch'io ho mal di testa; buonanotte, caro», disse e si voltò verso la porta, attraversando la stanza con il vestito nuziale strappato e infangato che le frusciava dietro.

Capitolo trentatreesimoCome disse con aria sorridente la signora Archer alla signora Welland, dare la prima cena

importante era, per una giovane coppia, un grande avvenimento.

I coniugi Archer, da quando avevano costituito il loro focolare domestico, avevano ricevuto moltissime persone in modo non ufficiale. Archer gradiva avere tre o quattro amici a cena, che May accoglieva con la brillante prontezza di cui sua madre le aveva dato un buon esempio come espediente da usare per non compromettere i rapporti coniugali. Suo marito dubitava che, se fosse dipeso da lei, non avrebbe mai invitato nessuno a casa loro; ma da molto tempo aveva smesso di cercare di liberare la vera personalità di lei dai modelli di comportamento dettati dalla tradizione e dall'educazione. Ci si aspettava che le giovani coppie benestanti di New York dessero un gran numero di ricevimenti non ufficiali, ragion per cui una Welland sposata con un Archer era doppiamente tenuta a rispettare la tradizione.

Ma una cena importante, con un capocuoco appositamente ingaggiato e due lacchè presi in prestito, con il Roman punch, con le rose fornite dalla ditta Henderson e menu su cartoncini bordati d'oro, era tutt'altra cosa da non prendere assolutamente alla leggera. Come osservava la signora Archer, tutta la differenza consisteva nel Roman punch; non di per sé, bensì per le sue molteplici implicazioni che prevedevano l'anatra selvatica, la tartaruga d'acqua dolce, due minestre, un dolce caldo e uno freddo, abiti dalle ampie scollature e maniche corte, nonché ospiti di livello adeguato.

Era sempre un'occasione interessante quella in cui una giovane coppia mandava i suoi primi inviti in terza persona, che raramente venivano respinti anche da parte di persone di mondo e molto ricercate. Era inoltre considerato un vero e proprio successo il fatto che i van der Luyden, su preghiera di May, si sarebbero trattenuti di più per partecipare alla cena d'addio da lei offerta in onore della contessa Olenska.

Il pomeriggio del gran giorno le due consuocere sedevano nel salotto di May: la signora Archer era intenta a trascrivere il menu su pesanti cartoncini bristol dal bordo dorato forniti da Tiffany, mentre la signora Welland soprintendeva alla collocazione delle palme e delle lampade a stelo.

Quando Newland rincasò tardi dall'ufficio, erano ancora là tutte e due. La signora Archer aveva dedicato la sua attenzione ai biglietti che indicavano i posti a tavola, la signora Welland stava valutando quale effetto poteva produrre lo spostamento in avanti dell'ampio divano dorato, in modo da creare un «angolo» tra il pianoforte e la finestra.

May, gli dissero, si trovava in sala da pranzo per sistemare le rose Jacqueminot e il capelvenere al centro della lunga tavola e per controllare che i cestini d'argento traforato, collocati tra i candelabri,

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venissero riempiti di bonbon Maillard. Sul pianoforte c'era un grande cesto di orchidee che il signor van der Luyden aveva fatto venire da Skuytercliff. In breve, nell'imminenza di un avvenimento tanto importante, tutto era esattamente come doveva essere.

La signora Archer ripassò diligentemente la lista degli invitati, spuntando ogni nome con la sua sottile penna d'oro.

«Henry van der Luyden ... Louisa ... i Lovell Mingott ... i Reggie Chiverse ... Lawrence Lefferts e Gertrude ... (sì, penso che May abbia fatto bene a invitarli)... i Selfridge Merry, Sillerton Jackson, Van Newland e la moglie (come passa il tempo! Sembra solo ieri che ti faceva da testimone, Newland) ... e la contessa Olenska ... sì, penso che ci siano tutti...»

La signora Welland guardava affettuosamente suo genero.

«Nessuno potrà dire, Newland, che tu e May non stiate dando una grande festa d'addio.»

«Ah, beh», disse la signora Archer, «capisco che May desideri che sua cugina, una volta all'estero, possa dire che noi non siamo del tutto barbari.»

«Sono sicura che Ellen lo apprezzerà. Doveva arrivare stamattina, mi pare. Le resterà un'ultima incantevole impressione. La sera prima della traversata di solito è tanto triste», continuò allegramente la signora Welland.

Archer si diresse verso la porta e sua suocera lo chiamò: «Entra a dare un'occhiata alla tavola e non permettere che May si stanchi troppo». Ma lui fece finta di non aver sentito e salì di corsa le scale per andare nella sua biblioteca. Gli sembrò che la stanza avesse un aspetto estraneo, con tutte le sdolcinate raffinatezze che vi erano state perpetrate, e si accorse che era stata spietatamente «riordinata» e preparata distribuendo giudiziosamente posacenere e scatole di sigari di legno di cedro a disposizione dei signori che vi sarebbero andati per fumare.

«Ah, bene», pensò, «tanto non durerà per molto ...», e proseguì diretto nel suo spogliatoio.

Erano trascorsi dieci giorni da quando Madame Olenska era partita da New York. Durante quei dieci giorni Archer non aveva avuto sue notizie, tranne la restituzione di una chiave avvolta in carta velina e inviata al suo ufficio in busta sigillata con l'indirizzo scritto di suo pugno. Questa replica all'ultima preghiera di Newland poteva essere stata interpretata come la classica mossa di un gioco conosciuto; ma il giovanotto decise di darle un diverso significato. Ellen stava ancora lottando contro il proprio destino; andava in Europa, ma non per tornare da suo marito. Niente, quindi, poteva impedirgli di raggiungerla; una volta, poi, che lui avesse preso quella decisione irrevocabile, e le avesse dimostrato che era effettivamente irrevocabile, era certo che lei non lo avrebbe rimandato indietro.

Tale fiducia nel futuro gli aveva permesso di ritrovare l'equilibrio necessario per interpretare il suo ruolo nel presente. Lo aveva trattenuto dallo scriverle o dal tradire, con un segnale o un gesto qualsiasi, il proprio tormento e la propria mortificazione. Nel gioco che si svolgeva tra di loro in un silenzio mortale, gli sembrava di avere ancora in mano le carte vincenti; e aspettava.

Tuttavia c'erano stati momenti abbastanza difficili da superare; come quando, all'indomani della partenza di Madame Olenska, il signor Letterblair lo aveva convocato per esaminare insieme a lui i particolari del fondo che la vedova di Manson

Mingott intendeva costituire a favore della nipote. Per un paio d'ore Archer aveva vagliato le condizioni del provvedimento con il socio più anziano, oscuramente conscio per tutto il tempo del fatto che, se era stato consultato, ciò derivava da un motivo ben diverso da quello della sua parentela con l'interessata, come sarebbe risultato al termine del colloquio.

«Beh, la signora non può dire di non essere stata trattata con generosità», aveva concluso il signor Letterblair, dopo aver frettolosamente riassunto i termini dell'accordo. «In realtà debbo dire che è stata trattata abbastanza generosamente in tutti i sensi.»

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«In tutti i sensi?», fece eco Archer con una punta di scherno nella voce. «Si riferisce alla proposta di suo marito di restituirle il denaro che le appartiene?»

Le folte sopracciglia del signor Letterblair si sollevarono impercettibilmente. «Mio caro signore, la legge è legge, e la cugina di sua moglie si è sposata secondo la legge francese. Si deve ritenere che sapesse cosa voleva dire questo.»

«Ammesso che lo sapesse, ciò che è successo dopo ...» Ma Archer si interruppe. Il signor Letterblair aveva appoggiato il cannello della penna sul suo grosso naso arricciato e se lo guardava con l'espressione che assumono i virtuosi gentiluomini anziani quando vogliono far capire ai giovani che virtù non è sinonimo di ignoranza.

«Mio caro signore, non che io voglia attenuare le colpe del conte; ma ... ma d'altra parte ... non ci metterei la mano sul fuoco ... già, sul fatto che non gli abbia reso pan per focaccia ... con il giovane campione ...» Il signor Letterblair aprì un cassetto chiuso a chiave e spinse un foglio piegato verso Archer. «Questo rapporto, il risultato di indagini riservate ...» E poi, dato che Archer non faceva nessun gesto per guardare il foglio o per respingere l'insinuazione, l'avvocato continuò con voce un po' più decisa: «Non dico che sia conclusivo, lo tenga presente; me ne guardo bene dall'affermarlo. Ma i particolari dimostrano ... e nel complesso è della massima soddisfazione per tutte le parti in causa che sia stata raggiunta questa soluzione dignitosa».

«Oh, della massima soddisfazione», assentì Archer, respingendo il documento.

Un paio di giorni dopo, rispondendo a un invito della vedova di Manson Mingott, il suo spirito era stato messo ancor più a dura prova.

Aveva trovato l'anziana signora in uno stato di depressione lamentosa.

«Lo sai che mi ha abbandonato?», attaccò subito e, senza attendere che lui rispondesse, continuò: «Ah, non chiedermi il perché! Mi ha sciorinato tante di quelle ragioni che le ho dimenticate tutte. Personalmente sono convinta che non ce l'avrebbe fatta a sopportare la noia. In ogni modo questo è ciò che pensano Augusta e le mie nuore. E neanche posso dirti che io la rimproveri del tutto. Olenski è un vero e proprio furfante; ma vivere con lui deve essere stato molto più allegro di quanto lo sia nella Quinta Strada. Non che la famiglia lo riconosca: per loro la Quinta Strada è il paradiso con l'aggiunta della Rue de la Paix. E la povera Ellen, senza dubbio, non pensa neanche lontanamente di tornare da suo marito. Vi si è opposta con tutte le sue forze. Così si sistemerà a Parigi con quella pazza di Medora ... Beh, Parigi è sempre Parigi, e là una carrozza non ti costa quasi niente. Ma era allegra come un uccellino e mi mancherà.» Due lacrime, inaridite come le lacrime dei vecchi, le rigarono le guance e sparirono negli abissi del suo seno.

«Tutto quello che chiedo», concluse, «è di essere lasciata in pace. Devo avere veramente il diritto alla mia parte di punizione ...» E ammiccò con aria un po' triste ad Archer.

Fu quella sera, al suo rientro a casa, che May espresse la sua intenzione di dare una cena d'addio in onore della cugina. Il nome di Madame Olenska non era stato più pronunciato fra loro sin dalla sera in cui Ellen se ne era andata a Washington; e Archer guardò sua moglie senza nascondere il suo stupore.

«Una cena ... e perché?», chiese.

May arrossì. «Ma tu vuoi bene a Ellen ... pensavo che ti facesse piacere.»

«È molto carino da parte tua ... porre la cosa in questo modo. Ma veramente non capisco ...»

«Intendo farlo, Newland», disse lei, alzandosi con calma e andando verso la sua scrivania. «Ecco gli inviti già pronti. La mamma mi ha aiutato ... lei è d'accordo che dovremmo farlo.» Si interruppe, imbarazzata ma sorridente, e Archer vide improvvisamente di fronte a sé l'immagine personificata della Famiglia.

«Oh, va bene», disse, fissando senza vederla la lista degli ospiti che lei aveva in mano.

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Quando Newland entrò in salotto prima di cena, May era curva sul fuoco intenta a convincere i ciocchi a bruciare per benino fra quelle insolite piastrelle incontaminate.

Le alte lampade erano tutte accese e le orchidee del signor van der Luyden erano state disposte in vista in diversi vasi di porcellana e d'argento sbalzato. Era opinione comune che il salotto della moglie di Newland Archer fosse veramente degno di nota.

Una jardinière di bambù dorato, in cui le primule e le cinerarie venivano puntualmente rinnovate, chiudeva l'accesso al bovindo (dove le persone dalle idee antiquate avrebbero preferito vedere una riproduzione in bronzo della Venere di Milo); i divani e le poltrone in broccato chiaro erano accortamente disposti intorno a eleganti tavolini coperti da una miriade di oggettini d'argento, animali di porcellana e fotografie chiuse in cornici a motivi floreali; e alti lumi schermati di rosa svettavano tra le palme come fiori tropicali.

«Non credo che Ellen abbia mai visto questa stanza tutta illuminata», disse May mentre si sollevava, rossa in volto, dalla sua lotta con il fuoco e si guardava intorno con comprensibile orgoglio. Le molle di ottone, che aveva appoggiato al lato del camino, caddero con un fracasso che coprì la risposta del marito; e prima che questi potesse rimetterle a posto furono annunciati il signore e la signora van der Luyden.

Gli altri ospiti li seguirono a ruota, poiché era risaputo che i van der Luyden gradivano cenare con puntualità. La sala era quasi piena e Archer era impegnato a mostrare alla moglie di Selfridge Merry un piccolo «Studio di un gregge» di Verboeck-hoven dai vivaci colori, che il signor Welland aveva regalato a May per Natale, quando si trovò accanto Madame Olenska.

Era estremamente pallida e il suo pallore faceva apparire i suoi capelli castani ancora più scuri e più folti che mai. Forse questo particolare, o il fatto che portasse al collo diversi giri di una collana d'ambra, gli fece tutt'a un tratto tornare in mente la piccola Ellen Mingott con la quale aveva ballato alle feste per ragazzi, quando Medora Manson l'aveva portata per la prima volta a New York.

Le gocce d'ambra contrastavano con la sua carnagione, o forse il vestito non le stava bene: il suo volto appariva opaco e quasi brutto e lui non l'aveva mai amato tanto come in quell'istante. Le loro mani si incontrarono e lui immaginò di udirla dire: «Sì, salperemo domani sul Russia ...», poi ci fu un rumore privo di senso di porte che si aprivano e un attimo dopo la voce di May: «Newland! La cena è stata annunciata. Per favore, vuoi accompagnare Ellen?».

Madame Olenska gli poggiò la mano sul braccio e lui notò che non portava guanti, ricordandosi come aveva fissato lo sguardo su quella mano la sera che erano seduti insieme nel sa-lottino della Ventitreesima Strada. Sembrava che tutta la bellezza che aveva abbandonato il suo viso si fosse rifugiata nelle lunghe dita pallide e nelle nocche leggermente aggrinzite posate sulla sua manica, ed egli disse tra sé: «La seguirei ovunque, non fosse altro che per vedere di nuovo la sua mano».

Solo a un ricevimento offerto in onore di un «ospite straniero» la signora van der Luyden poteva tollerare che le fosse assegnato il posto a sinistra del suo anfitrione. Con quella festa d'addio il fatto che Madame Olenska era «straniera» non avrebbe potuto essere messo meglio in evidenza; e la signora van der Luyden aveva accettato di essere spostata con una cortesia che non metteva in dubbio la sua approvazione. C'erano alcune cose che, ammesso che si dovessero fare, andavano fatte elegantemente e alla perfezione; e una di queste, nel codice della vecchia New York, era la riunione tribale attorno a una parente che doveva essere messa al bando dalla tribù. Dato che il viaggio della contessa Olenska alla volta dell'Europa era stato fissato, non c'era niente al mondo che i Welland e i Mingott non avrebbero fatto per esprimerle il loro immutabile affetto; e Archer, seduto a capotavola, non finiva di stupirsi nel prendere atto dell'instancabile attività silenziosa con cui era stata ripristinata la popolarità di Ellen, erano state messe a tacere le lamentele nei suoi confronti, era stato approvato il suo passato, e il suo presente aveva incontrato l'assenso della famiglia. La signora van der Luyden guardava Ellen con una vaga espressione di indulgenza che in lei era la forma che più si avvicinava alla cordialità, mentre il signor van der Luyden, dal suo posto a destra di May, gettava occhiate alla tavola con il chiaro intento di giustificare tutti i garofani che aveva mandato da

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Skuytercliff.

Archer, che sembrava assistere alla scena in uno stato di strana imponderabilità, come se fluttuasse in un punto imprecisato tra il lampadario a corona e il soffitto, altro non chiedeva se non di sapere quale fosse la sua parte in tutta quella faccenda. Mentre il suo sguardo vagava da una faccia placida e ben nutrita all'altra, vedeva tutta quella gente apparentemente innocua accanirsi sulle anatre selvatiche di May come una banda di muti cospiratori, mentre lui stesso e la pallida donna seduta alla sua destra erano il punto centrale della loro congiura. E quindi, in un grande lampo improvviso formato da tanti squarci di luce, fu colto dal pensiero che per tutta quella gente lui e Madame Olenska erano amanti, amanti nel vero senso che a questa parola attribuivano in particolare i vocabolari «stranieri». Si rese conto che, per mesi, lui stesso era stato oggetto di innumerevoli sguardi indagatori e di paziente ascolto, capì che, ricorrendo a mezzi che gli erano ancora ignoti, era stata ottenuta la separazione tra lui e la compagna della sua colpa e che in quel momento la tribù si era riunita al completo intorno a sua moglie con il tacito impegno che nessuno sapesse niente, o avesse mai immaginato niente, e che il motivo del ricevimento era semplicemente il naturale desiderio di May Archer di accomiatarsi in modo affettuoso dalla sua amica e cugina.

Era il sistema della vecchia New York, quello di uccidere senza «spargimento di sangue»; il sistema adottato da gente che temeva lo scandalo più dei malanni, che anteponeva la rispettabilità al coraggio, che giudicava che niente fosse più incivile delle «scenate», tranne il comportamento di coloro che le provocavano.

Mentre questi pensieri gli si accavallavano nella mente, Archer si sentiva come un prigioniero al centro di un campo minato. Guardò i commensali e indovinò quanto implacabili fossero i suoi sequestratori dal tono con cui essi, di fronte agli asparagi della Florida, affrontavano l'argomento costituito da Beaufort e da sua moglie: «Lo fanno», pensò, «per farmi vedere ciò che succederebbe a me ...», e un senso mortale della superiorità dell'insinuazione e dell'analogia rispetto all'azione diretta, nonché del silenzio rispetto alle parole avventate, lo circondò e si chiuse su di lui come le porte della tomba di famiglia.

Rise e incrociò gli occhi allarmati della signora van der Luyden.

«Lo trovi divertente?», gli disse lei con un sorriso tirato. «Naturalmente l'idea della povera Regina di rimanere a New York ha il suo lato ridicolo, credo»; al che Archer borbottò: «Naturalmente».

A questo punto si rese conto che l'altro vicino di Madame Olenska era stato impegnato per un po' a conversare con la signora alla propria destra. Contemporaneamente vide che May, tranquillamente insediata tra il signor van der Luyden e il signor Selfridge Merry, aveva lanciato una rapida occhiata alla tavolata. Era chiaro che l'ospite e la signora alla sua destra non potevano partecipare all'intera cena in silenzio. Lui si volse verso Madame Olenska, incontrando lo smorto sorriso di lei, che sembrava gli dicesse: «Oh, sì, facciamola finita».

«Sei stanca del viaggio?», le chiese con voce che lo sorprese per la sua naturalezza; e lei rispose che, al contrario, raramente aveva viaggiato meno disagiatamente. «Tranne, come sai, che per il terribile caldo che fa sul treno», aggiunse; al che lui osservò che nel paese in cui stava andando quel pericolo non c'era davvero.

«Non ho mai corso il rischio di congelare», affermò lui con forza, «come la volta in cui, nel mese di aprile, ero sul treno da Calais a Parigi.»

Ellen disse che non si stupiva, ma osservò che, in fin dei conti, era sempre possibile portare una coperta in più e che comunque si viaggiasse gli incomodi non mancavano; al che Archer replicò bruscamente che secondo lui quelli erano particolari di nessun conto in confronto alla felicità di andarsene via. Ellen cambiò colore e lui aggiunse con voce fattasi improvvisamente acuta: «Fra non molto intendo mettermi a viaggiare anch'io». Un fremito passò sul volto di lei e lui, rivolgendosi a Reggie Chivers, disse ad alta voce: «Ascolta, Reggie, che ne dici di un viaggio intorno al mondo:

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adesso, il mese prossimo? Io sono pronto, se tu ci stai ...». A questo punto la moglie di Reggie attaccò una tiritera, dicendo che non poteva pensare di lasciare andare Reggie fino a dopo il Martha Washington Ball che lei stava preparando per l'Istituto dei Ciechi nella settimana di Pasqua; e suo marito osservò flemmaticamente che in quel periodo avrebbe dovuto allenarsi per l'incontro internazionale di polo.

Ma il signor Selfridge Merry aveva afferrato la frase «intorno al mondo» e, dato che una volta aveva circumnavigato la terra col suo panfilo a vapore, colse l'occasione per fornire agli astanti parecchi dettagli sensazionali riguardo alla scarsa profondità dei porti del Mediterraneo. Tuttavia, aggiunse, in fin dei conti questo era irrilevante, perché quando si era visto Atene, Smirne e Costantinopoli, che altro c'era da vedere? E sua moglie disse che non avrebbe mai potuto ringraziare abbastanza il dottor Bencomb, il quale aveva fatto loro promettere di non andare a Napoli a causa delle febbri.

«Ma ci vogliono tre settimane per visitare bene l'India», concesse suo marito, preoccupato di far capire che lui era un giramondo tutt'altro che superficiale.

E a questo punto le signore si avviarono verso il salotto.

Nella biblioteca, nonostante la presenza di persone più importanti di lui, Lawrence Lefferts teneva banco.

La conversazione, come al solito, era finita per cadere sui Beaufort e sia il signor van der Luyden che il signor Selfridge Merry, sistemati nelle poltrone d'onore tacitamente loro riservate, si interruppero per ascoltare l'invettiva del più giovane.

Mai prima di allora Lefferts si era rivelato così ridondante di sentimenti che sono ornamento della virilità cristiana ed esaltano il carattere sacro della famiglia. Lo sdegno gli forniva un'eloquenza mordace ed era chiaro che, se altri avessero seguito il suo esempio e si fossero comportati come diceva lui, la società non si sarebbe mai ridotta al punto da accogliere un villano rifatto d'uno straniero come Beaufort ... nossignore, neanche se avesse sposato una van der Luyden o una Lanning invece di una Dallas. E quale possibilità avrebbe avuto, si chiedeva con rabbia Lefferts, di accasarsi in una famiglia come quella dei Dallas, se non si fosse intrufolato in certe dimore, come era riuscita a fare gente del tipo della vedova di Lemuel Struthers seguendo il suo esempio? Se la società decideva di aprire le porte a donne volgari il danno non era grande, anche se il vantaggio era incerto; ma una volta imboccata la strada della tolleranza nei confronti di uomini dal passato torbido e dalle ricchezze conseguite col disonore, tutto sarebbe finito con la sua disgregazione totale ... e a breve scadenza.

«Se le cose vanno avanti di questo passo», tuonò Lefferts, simile a un giovane profeta uscito da una tela di Poole e non ancora lapidato, «noi vedremo i nostri figli azzuffarsi per essere invitati nelle case degli imbroglioni e sposare i figli dei bastardi di Beaufort!»

«Suvvia ... non esagerare!», protestarono Reggie Chivers e il giovane Newland, mentre il signor Selfridge Merry sembrava sinceramente spaventato e un'espressione di dolore e di ripugnanza si dipingeva sul viso sensibile del signor van der Luyden.

«Ne ha qualcuno?», disse ad alta voce il signor Sillerton Jackson, rizzando le orecchie; e mentre Lefferts cercava di eludere la domanda con una risata, l'anziano gentiluomo disse animatamente nell'orecchio di Archer: «Che strani questi individui che vogliono sempre mettere a posto le cose. Le persone che hanno i cuochi peggiori ti ripetono a ogni piè sospinto che quando cenano fuori di casa le avvelenano. Ma ho sentito dire che all'origine della diatriba del nostro amico Lawrence ci sono pressanti motivi: a quanto pare, stavolta si tratta di una dattilografa ...».

La conversazione sfiorava Archer come un fiume che continua a scorrere senza senso e non sa come fermarsi. Sui volti che lo circondavano scorgeva espressioni interessate, divertite e addirittura allegre. Ascoltò ridere i più giovani e il signor van der Luyden tessere premurosamente insieme al signor Merry le lodi del vino madera degli Archer. Per tutto il tempo avvertì indistintamente un

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generale atteggiamento di simpatia nei suoi confronti, come se la vigilanza sul prigioniero, quale lui sentiva di essere, si stesse allentando; sensazione, questa, che accrebbe la sua ardente determinazione di essere libero.

Nel salotto, dove poco dopo raggiunsero le signore, incrociò lo sguardo trionfante di May in cui lesse la certezza che tutto fosse «finito» in modo perfetto. Lei si alzò dal posto che occupava accanto a Madame Olenska e subito la signora van der Luyden fece un cenno a quest'ultima di andare a sedersi accanto a lei sul divano dorato dove troneggiava. La moglie di Selfridge Merry attraversò la stanza per unirsi a loro e da ciò Archer si rese conto che anche lì si continuava a complottare per ripristinare il passato e cancellare le cause di turbamento. L'organizzazione silenziosa che teneva unito il suo piccolo mondo era decisa a mettere bene in evidenza che neanche per un momento aveva mai dubitato della correttezza del comportamento di Madame Olenska o della perfezione della felicità domestica degli Archer. Tutte quelle amabili e implacabili persone erano fermamente decise a fingere l'una con l'altra di non aver mai udito, sospettato o addirittura ritenuto possibile il benché minimo indizio del contrario; e da questa trama di minuziose e reciproche finzioni ancora una volta Archer dedusse che New York credeva che lui fosse l'amante di Madame Olenska. Colse il bagliore del trionfo negli occhi di sua moglie e per la prima volta capì che anche lei ne era convinta come gli altri. La scoperta scatenò in lui la risata di mille demoni che si ripercosse su tutti gli sforzi che stava facendo per parlare del Martha Washington Ball con la moglie di Reggie Chivers e con la piccola signora Newland; e così la serata si svolse regolarmente come un fiume che continua a scorrere senza senso e non sa come fermarsi.

Alla fine vide che Madame Olenska si era alzata e si stava congedando. Capì che di lì a un attimo lei sarebbe andata via e cercò di ricordare che cosa le aveva detto nel corso della cena; ma non riusciva a ricordare neanche una delle parole che si erano scambiate.

Ellen andò verso May, mentre il resto della compagnia si disponeva in cerchio intorno a lei. Le due giovani donne si strinsero la mano; poi May si chinò in avanti e baciò la cugina.

«Sicuramente la padrona di casa è di gran lunga la più bella delle due», Archer udì Reggie Chivers dire a bassa voce alla giovane signora Newland; e si rammentò della rozza risata beffarda di Beaufort a proposito della bellezza insignificante di May.

Un istante dopo era all'ingresso e aiutava Madame Olenska a indossare il mantello.

Nonostante la confusione mentale in cui si trovava, era deciso a non dire niente che potesse allarmarla o agitarla. Convinto che nessun potere era ormai in grado di distoglierlo dal suo proposito, aveva trovato la forza di lasciare che gli avvenimenti seguissero il loro corso. Ma mentre seguiva Madame Olenska nell'entrata, fu assalito dall'irresistibile desiderio di rimanere solo con lei per un istante accanto allo sportello della sua carrozza.

«È qui la tua carrozza?», le chiese e in quel momento la signora van der Luyden, che stava maestosamente infilandosi il suo zibellino, intervenne con gentilezza: «Porteremo noi la cara Ellen a casa».

Archer ebbe un tuffo al cuore e Madame Olenska, mentre con una mano stringeva il mantello e il ventaglio, gli porse l'altra. «Addio», disse.

«Addio ... ma presto ti vedrò a Parigi», rispose lui ad alta voce ... tanto che gli sembrò di averlo gridato.

«Oh», mormorò lei, «magari tu e May poteste venire ... !»

Il signor van der Luyden si fece avanti per porgerle il braccio e Archer si volse verso la signora van der Luyden. Per un attimo colse l'immagine confusa, nella fluttuante oscurità all'interno del grande landò, dell'ovale di un volto, i cui occhi continuavano a brillare incessantemente ... e poi più nulla.

Mentre saliva i gradini si imbatté in Lawrence Lefferts che stava scendendo con la moglie.

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Lefferts afferrò il suo ospite per la manica, tirandosi indietro per far passare Gertrude.

«Senti, vecchio mio: ti dispiace far credere che domani sera cenerò con te al club? Grazie mille, amico mio! Buonanotte».

«È andato tutto proprio bene, non credi?», chiese May dalla soglia della biblioteca.

Archer sobbalzò. Appena andata via l'ultima carrozza, era salito in biblioteca e vi si era chiuso dentro, con la speranza che la moglie, che ancora indugiava al piano di sotto, sarebbe andata difilato in camera sua. Lei invece era lì, pallida e tirata, ancora piena dell'energia artificiosa di chi ha superato la soglia della stanchezza.

«Posso entrare e parlarne?», gli chiese.

«Certo, se vuoi. Ma devi avere un sonno terribile ...»

«No, non ho sonno. Gradirei sedermi con te per un po'.»

«Molto bene», disse lui, accostandole la sedia al fuoco.

May si sedette e lui fece altrettanto, ma nessuno dei due parlò per un bel pezzo. Alla fine Archer attaccò bruscamente: «Dal momento che non sei stanca e vuoi parlare, c'è qualcosa che devo dirti. Ho cercato di farlo l'altra sera ...».

Subito lei lo guardò. «Sì, caro. Qualcosa che ti riguarda?»

«Qualcosa che riguarda me. Tu dici di non essere stanca: io, invece, sì. Terribilmente stanco ...»

In un attimo lei fu piena di tenera apprensione. «Oh, lo sapevo che prima o poi sarebbe successo, Newland! Ti hanno fatto lavorare come uno schiavo ...»

«Forse si tratta di questo. Comunque, voglio fare una pausa ...»

«Una pausa? Abbandonare la professione legale?»

«Vorrei andar via, in ogni modo ... subito. Vorrei fare un lungo viaggio, per andare più lontano possibile ... lontano da tutto ...»

Si interruppe, consapevole di aver fallito nel tentativo di parlare con l'indifferenza di un uomo che non vede l'ora di cambiare, ma che è ancora troppo stanco per accogliere con gioia il

cambiamento. Per quanto facesse, la corda dell'impazienza vibrava. «Lontano da tutto ...», ripeté.

«Più lontano possibile? Dove, per esempio?», gli chiese.

«Oh, non lo so, in India ... in Giappone.»

May si alzò e lui, stando seduto con la testa china e con il mento appoggiato alle mani, la sentì muoversi sopra di lui emanando calore e fragranza.

«Così lontano? Ma temo che tu non possa, caro ...», disse lei con voce malferma. «A meno che non mi porti con te.» E poi, dato che lui restava zitto, proseguì, in tono così chiaro e uniforme che ogni singola sillaba gli batteva "sul cervello come un martelletto. «Cioè, se i dottori mi lasceranno andare ... ma ho paura che non vorranno. Perché, vedi, Newland, da questa mattina sono sicura di una cosa che ho tanto desiderato e per cui ho tanto sperato ...»

Lui la guardò con espressione stanca. Lei si lasciò cadere accanto a lui, profumata di rose e fresca come la rugiada, e nascose il volto contro il suo ginocchio.

«Oh, tesoro», disse Newland tenendola vicino a sé, mentre con la mano fredda le accarezzava i capelli.

Ci fu una lunga pausa, colmata dalla stridula risata dei demoni interiori; poi May si liberò dal suo abbraccio e si alzò.

«Non avevi capito? ...»

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«Sì, io ... no. Cioè, naturalmente, speravo ...»

Si guardarono per un attimo e di nuovo tacquero; poi, distogliendo lo sguardo da lei, le chiese bruscamente: «Lo hai detto a qualcun altro?».

«Solo alla mamma e a tua madre.» Si interruppe e poi aggiunse in fretta, mentre il sangue le affluiva alla fronte:» Cioè ... anche a Ellen. Ti avevo detto che avevamo avuto un lungo colloquio un pomeriggio ... e quanto è stata cara con me».

«Ah ...», disse Archer e sentì il cuore che cessava di battergli.

Si accorse che sua moglie lo stava osservando intensamente. «Ti dispiace che sia stata la prima persona a saperlo, Newland?»

«Dispiacermi? Perché dovrebbe?» Lui fece un ultimo sforzo per riprendersi. «Ma questo è successo una quindicina di giorni fa, no? Pensavo che tu avessi detto di non esserne stata sicura fino a oggi.»

Ella avvampò, ma continuò a guardarlo. «No, non ero sicura, allora ... ma le ho detto di esserlo. E vedi che avevo ragione!», esclamò, con gli occhi azzurri che le brillavano per la vittoria.

Capitolo trentaquattresimoNewland Archer era seduto alla scrivania della sua biblioteca nella Trentanovesima Strada Est.

Era appena tornato da un grandioso ricevimento ufficiale per l'inaugurazione delle nuove gallerie al Metropolitan Museum e la vista di quei grandi spazi riempiti di cimeli secolari, dove la folla elegante si muoveva in mezzo a una successione di tesori scientificamente catalogati, aveva improvvisamente fatto scattare in lui la molla arrugginita di lontani ricordi.

«Già, questa era una delle vecchie sale della raccolta Cesnola», aveva sentito dire da qualcuno; e subito ogni cosa intorno a lui era scomparsa e lui era seduto solo su un duro divano di pelle appoggiato contro un termosifone, mentre un'esile figura con un lungo inanello di pelle di foca si allontanava per il corridoio modestamente attrezzato del vecchio museo.

La visione aveva suscitato una folla di altre idee e lui stava guardando con occhi diversi la biblioteca che, per oltre trent'anni, era stata lo scenario delle sue solitarie fantasticherie e di tutte le conversazioni di famiglia.

Era la stanza in cui erano successe molte delle cose più importanti della sua vita. Era lì che sua moglie, quasi ventisei anni prima, gli aveva improvvisamente annunciato, con rossori e giri di parole che avrebbero fatto sorridere le giovani donne della nuova generazione, che aspettava un bambino; era lì che il loro figlio maggiore, Dallas, troppo delicato per essere portato in chiesa in pieno inverno, era stato battezzato dal loro vecchio amico, il vescovo di New York, il corpulento, splendido e insostituibile vescovo che per tanto tempo era stato orgoglio e lustro della diocesi. Era lì che per la prima volta Dallas gli era andato incontro gridando «Papà», mentre May e la bambinaia ridevano dietro la porta; era lì che la loro secondogenita, Mary (che era tutta sua madre), aveva annunciato il suo fidanzamento con il più monotono e più fidato dei numerosi figli di Reggie Chivers; era lì che Archer l'aveva baciata attraverso il velo da sposa prima di salire con lei sulla macchina che li avrebbe portati fino alla chiesa della Grazia ... poiché in un mondo in cui tutto il resto aveva vacillato sulle proprie fondamenta «sposarsi nella chiesa della Grazia» rappresentava un punto di riferimento che non aveva subito mutamenti.

Era stato nella biblioteca che lui e May avevano sempre parlato dell'avvenire dei figli: degli studi di Dallas e del fratello minore Bill, dell'incurabile mancanza di intraprendenza da parte di Mary e della sua passione per lo sport e la filantropia, nonché della vaga inclinazione per l'«arte» che, alla fine, aveva fatto approdare l'irrequieto e curioso Dallas nello studio di un architetto di New York che andava affermandosi.

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I giovani di quella generazione si stavano affrancando dalla professione legale e dagli affari e cominciavano a occuparsi di ogni genere di novità. Se non erano presi dalla politica a livello nazionale o dalle riforme municipali, c'era la possibilità che si dedicassero all'archeologia dell'America centrale, all'architettura o all'organizzazione del territorio; che si interessassero con passione e competenza degli edifici del loro stesso paese anteriori al periodo rivoluzionario, che studiassero e modificassero i modelli dell'epoca georgiana e che protestassero contro l'uso privo di senso della parola «coloniale». Nessuno possedeva ormai case «coloniali», tranne i bottegai arricchiti della periferia.

Ma soprattutto — a volte Archer lo riteneva l'avvenimento più importante — era stato in quella biblioteca che il governatore di New York, arrivato una sera da Albany per cenare a casa loro e per trattenervisi la notte, si era rivolto al suo ospite e, picchiando il pugno chiuso sul tavolo e rompendo gli occhiali, aveva detto: «Al diavolo il politicante di professione! Tu sei il tipo d'uomo di cui il paese ha bisogno, Archer. Se bisogna ripulire la stalla, gli uomini come te devono dare una mano per farlo».

«Gli uomini come te ...» Come si era infervorato Archer all'udire quella frase! Con quanto ardore aveva risposto all'appello! Era l'eco di quello di Ned Winsett a rimboccarsi le maniche e a scendere nel letame; ma gli veniva rivolto da un uomo che ne dava l'esempio con l'azione e al cui invito a seguirlo non si poteva resistere.

Guardandosi indietro, Archer non era sicuro che uomini come lui rappresentassero ciò di cui il suo paese aveva bisogno, almeno nel servirlo attivamente come era stato indicato da Theodore Roosvelt; in realtà c'era motivo di credere che le cose non stessero così, perché dopo un anno che aveva fatto parte dell'assemblea del suo Stato non era stato rieletto ed era stato felice di tornare a lavorare in modo meno appariscente ma utile per l'amministrazione comunale, riprendendo a scrivere articoli di tanto in tanto per uno dei settimanali promotori di riforme che cercavano di scuotere il paese dalla sua apatia. La materia da rievocare era abbastanza scarsa; ma quando ricordava a che cosa avevano aspirato i giovani della sua generazione e del suo ambiente sociale — in particolare le loro prospettive limitate alla gretta routine del denaro, dell'attività sportiva e della vita di società — anche il suo modesto contributo al nuovo stato di cose sembrava avere un peso, come ciascun mattone ha il suo nel muro ben costruito. Aveva fatto poco nella vita pubblica; ma pur essendo sempre stato per natura un contemplativo e un dilettante, aveva pensato a cose elevate, aveva goduto di cose grandi e aveva tratto forza e orgoglio dall'amicizia di un uomo importante.

Era stato, in breve, ciò che la gente cominciava a chiamare «un buon cittadino». A New York, da molti anni, ogni nuovo movimento filantropico, di iniziativa comunale o artistico che fosse, aveva tenuto conto della sua opinione e citato il suo nome. La gente diceva: «Chiedilo ad Archer», quando si trattava di inaugurare la prima scuola per bambini minorati, di riorganizzare l'Art Museum, di fondare il Grolier Club, di inaugurare la nuova biblioteca o di mettere su una nuova società di musica da camera. Le sue giornate erano piene e occupate in modo intelligente. Pensava che fosse tutto quello che un uomo avrebbe dovuto pretendere.

Sapeva di aver perso qualcosa: il fiore della vita. Ma ormai ci pensava come a qualcosa di talmente irraggiungibile e improbabile che angosciarsi per non averlo avuto sarebbe stato come disperarsi per non aver vinto il primo premio di una lotteria. Nella sua lotteria c'era un centinaio di milioni di biglietti e un solo premio; le probabilità gli erano state decisamente avverse. Quando pensava a Ellen Olenska, lo faceva in modo sereno, come si potrebbe pensare a una donna immaginaria amata, al personaggio di un libro o di un quadro: era divenuta l'immagine composita di tutto ciò che gli era mancato. Quell'immagine, per quanto debole e rarefatta, lo aveva tenuto lontano dal desiderare altre donne. Era stato quello che veniva definito un marito fedele, e quando May era morta improvvisamente — uccisa da una polmonite infettiva durante la quale aveva allattato il loro ultimogenito — l'aveva pianta sinceramente. I lunghi anni trascorsi insieme gli avevano dimostrato che non era tanto importante se il matrimonio era un dovere noioso, purché avesse conservato la dignità di un dovere: se così non fosse stato, sarebbe diventato un semplice scontro di ignobili

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appetiti. Guardandosi intorno, aveva rispetto per il proprio passato e lo rimpiangeva. In fin dei conti, nel vecchio sistema c'erano degli aspetti positivi.

Il suo sguardo, vagando per tutta la stanza — arredata da Dallas con mezzetinte inglesi, armadietti Chippendale, porcellane scelte e lampade elettriche piacevolmente schermate — ritornò alla vecchia scrivania Eastlake di cui non aveva mai voluto disfarsi, e alla prima fotografia che aveva fatto a May, sempre al suo posto accanto al calamaio.

Eccola lì, alta, dal seno pieno e slanciata, con un abito di mussola inamidata e uno svolazzante cappello di paglia di Firenze, come lui l'aveva vista sotto gli aranci nel giardino della Missione. E lei era rimasta esattamente come lui l'aveva vista quel giorno; mai del tutto alla stessa altezza, ma neanche tanto al di sotto: generosa, fedele, instancabile; ma così scarsa di fantasia, così incapace di crescere che il mondo della sua giovinezza era andato in pezzi e si era ricostituito senza che lei si accorgesse del cambiamento. Quella dura brillante cecità aveva mantenuto il suo ristretto orizzonte apparentemente inalterato. La sua incapacità a riconoscere che il mondo cambiava faceva sì che i suoi figli le nascondessero le loro opinioni, come Archer le nascondeva le sue; fin dall'inizio c'era stata una finzione congiunta di identità di vedute, una sorta di innocente ipocrisia di famiglia, a cui padre e figli avevano inconsciamente contribuito. E lei era morta pensando che il mondo fosse un luogo piacevole, fatto di nuclei familiari basati sull'amore e l'armonia, come il loro, e si era rassegnata a lasciarlo perché era convinta che, qualsiasi cosa fosse successa, Newland avrebbe continuato a inculcare in Dallas gli stessi principi e pregiudizi che avevano modellato le esistenze dei loro genitori e che Dallas, a sua volta (quando Newland l'avrebbe seguita), avrebbe trasmesso il sacro patrimonio al piccolo Bill. Quanto, poi, a Mary, ne era sicura come lo era di se stessa. Così, dopo aver strappato il piccolo Bill alla morte, pagando lo sforzo con la propria vita, aveva raggiunto soddisfatta il suo posto nella tomba di famiglia degli Archer nella chiesa di San Marco, dove la signora Archer giaceva al riparo dalle spaventose «cattive inclinazioni» di cui neanche la nuora aveva mai preso coscienza.

Di fronte al ritratto di May c'era quello della figlia. Mary Chivers era alta e bionda come la madre, ma di vita larga, seno piatto e leggermente dinoccolata, come richiedeva la moda. Le grandi prodezze atletiche di Mary Chivers non avrebbero potuto essere compiute con i cinquantuno centimetri di girovita che la sciarpa azzurra di May cingeva senza difficoltà. E la diversità appariva simbolica; la vita della madre era stata strettamente controllata come la sua figura. Mary, che non era meno convenzionale e nemmeno più intelligente, conduceva tuttavia un'esistenza di più ampie vedute e aveva opinioni meno retrive. Anche nel nuovo sistema c'era qualcosa di buono.

Il telefono produsse un suono metallico e Archer, distogliendo lo sguardo dalle fotografie, sganciò il ricevitore lì accanto. Come erano lontani dai giorni in cui gli unici mezzi rapidi di comunicazione a New York erano costituiti dalle gambe del fattorino con la giacca dai bottoni dorati!

«Chicago in linea.»

Ah ... doveva essere una chiamata interurbana di Dallas che era stato mandato a Chicago dalla sua ditta per discutere il progetto del palazzo sulla sponda del lago che dovevano costruire per un giovane milionario pieno di idee. Quando c'erano questioni del genere mandavano sempre Dallas.

«Ciao, papà. Sì, sono io. Senti... che ne dici di salpare mercoledì? Il Mauritania. Sì, mercoledì prossimo. Il nostro cliente vuole che vada a vedere qualche giardino italiano prima di prendere qualsiasi decisione e mi ha chiesto di saltare sulla prossima nave. Devo essere di ritorno il primo giugno» — la voce scoppiò in una allegra, spontanea risata — «sicché dobbiamo sbrigarci. Senti, papà, mi serve il tuo aiuto: vieni.»

Sembrava che Dallas stesse parlando nella stessa stanza: la voce era vicina e naturale, come se il figlio stesse sdraiato nella sua poltrona preferita accanto al fuoco. La cosa, di solito, non avrebbe sorpreso Archer, poiché le telefonate interurbane erano diventate cosa di ordinaria amministrazione, come l'illuminazione elettrica e le traversate dell'Atlantico in cinque giorni. Ma la risata lo fece

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trasalire; sembrava ancora una cosa meravigliosa che attraverso tutte quelle miglia e miglia di territorio — foreste, fiumi, montagne, praterie, città rumorose e milioni di persone affaccendate e indifferenti — la risata di Dallas fosse in grado di dire: «Naturalmente, qualsiasi cosa accada, devo tornare il primo, perché Fanny Beaufort e io dobbiamo sposarci il cinque».

La voce riprese: «Ci hai pensato? Nossignore: non un minuto. Devi dire sì adesso. Perché no, si può sapere? Se puoi darmi un solo motivo ... No, lo sapevo. Allora, d'accordo, eh? Perché domani, per prima cosa, conto che tu dia un colpo di telefono all'ufficio della Cunard e faresti meglio a prenotare il ritorno da Marsiglia. Senti, papà, sarà l'ultima volta che potremo stare insieme così... oh, bene, sapevo che avresti detto di sì».

La comunicazione da Chicago si interruppe e Archer si alzò, cominciando a camminare avanti e indietro nella stanza.

Sarebbe stata l'ultima volta che avrebbero viaggiato insieme, così: il ragazzo aveva ragione. Avrebbero avuto un sacco di altre «occasioni» dopo il matrimonio di Dallas, suo padre ne era sicuro; infatti i due avevano un rapporto cameratesco e quanto a Fanny Beaufort, qualsiasi cosa si potesse pensare di lei, sembrava poco probabile che volesse intromettersi nella loro intimità. Al contrario, per quello che aveva avuto modo di vedere, riteneva che avrebbe fatto parte in modo naturale di tale intimità. Tuttavia il cambiamento c'era stato, come pure erano emerse le differenze e, per quanto si sentisse attratto dalla sua futura nuora, era tentato dall'idea di cogliere quest'ultima possibilità per stare solo con suo figlio.

Non c'era alcun motivo per cui non avrebbe dovuto approfittarne, tranne quello profondo di aver perso l'abitudine di viaggiare. A May non piaceva spostarsi se non per validi motivi, come quello di portare i bambini al mare o in montagna: non poteva immaginare nessun altro motivo per lasciare la casa della Trentanovesima Strada o il comodo appartamento dei Welland a Newport.

Dopo che Dallas aveva conseguito la laurea, lei aveva pensato fosse suo dovere viaggiare per sei mesi, e l'intera famiglia aveva fatto il tour alla vecchia maniera, toccando l'Inghilterra, la Svizzera e l'Italia. Dato che avevano il tempo limitato (nessuno sapeva il perché), tralasciarono la Francia. Archer si rammentò della rabbia di Dallas quando gli avevano fatto ammirare il Monte Bianco anziché Rheims e Chartres. Ma Mary e Bill volevano fare alpinismo, avendo già sbadigliato abbastanza a visitare cattedrali inglesi per andare dietro al fratello; e May, sempre imparziale con i figli, aveva insistito per mantenere l'equilibrio in modo equo tra le loro inclinazioni atletiche e artistiche. Anzi, aveva proposto che il marito andasse a Parigi per un paio di settimane, con l'intesa di ritrovarsi sui laghi italiani dopo che loro avevano «fatto» la Svizzera; ma Archer si era rifiutato. «Rimarremo uniti», aveva detto e il viso di May si era illuminato a questa sua affermazione che serviva da buon esempio per Dallas.

Dopo la sua morte, avvenuta quasi due anni prima, non c'era stato alcun motivo di continuare con le stesse abitudini. I figli lo avevano spinto a viaggiare: Mary Chivers era convinta che gli avrebbe fatto bene andare all'estero a «visitare le gallerie». Era proprio la misteriosità di una cura del genere a renderla tanto fiduciosa nella sua efficacia. Ma Archer si era accorto di essere saldamente aggrappato alle abitudini e ai ricordi, per via di una timorosa riluttanza ad affrontare le novità.

Ora, mentre riesaminava il suo passato, si rendeva conto di quanto profondo fosse il solco in cui si era lasciato cadere. L'aspetto peggiore del fare il proprio dovere consisteva evidentemente nel fatto che rendeva incapaci di fare qualcosa di diverso. Almeno questo era il parere degli uomini della sua generazione. La sottile divisione tra il bene e il male, tra l'onesto e il disonesto, tra il rispettabile e il suo contrario, aveva lasciato un margine molto ridotto all'imprevisto. Ci sono momenti in cui la fantasia di un uomo, così facilmente asservita all'ambiente in cui vive, improvvisamente si solleva al di sopra del suo livello quotidiano e contempla le tortuosità del destino. Archer era lì, sospeso, e fantasticava ...

Cosa era rimasto del piccolo universo nel quale era cresciuto e i cui modelli lo avevano sopraffatto e costretto a cedere? Si rammentò di una profezia pronunciata con sarcasmo anni prima

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dal povero Lawrence Lefferts proprio in quella stanza: «Se le cose andranno avanti di questo passo, i nostri figli sposeranno i figli illegittimi di Beaufort».

Era proprio ciò che il figlio maggiore di Archer, l'orgoglio della sua vita, si apprestava a fare; e nessuno se ne meravigliava o lo disapprovava. Anche la zia del ragazzo, Janey, che sembrava esattamente quella che era stata nella sua più remota giovinezza, aveva tirato fuori dalla bambagia rosa gli smeraldi e le perle scaramazze di sua madre e li aveva portati, stringendoli nelle mani tremanti, alla futura sposa; e Fanny Beaufort, invece di apparire delusa per non avere ricevuto una parure di un gioielliere di Parigi, aveva apertamente manifestato la sua ammirazione per la loro bellezza all'antica e aveva dichiarato che quando li avesse portati si sarebbe sentita come una miniatura di Isabey.

Fanny Beaufort, che aveva fatto la sua comparsa a New York all'età di diciotto anni, dopo la morte dei genitori, ne aveva conquistato il cuore più o meno come trent'anni prima era successo con Madame Olenska; con la differenza che la società, invece di essere diffidente nei suoi riguardi e di averne paura, l'aveva accettata allegramente. Era graziosa, divertente e colta: che si poteva volere di più? Nessuno era tanto meschino da riesumare contro di lei gli avvenimenti quasi dimenticati del passato di suo padre e delle sue origini. Solo i più anziani ricordavano un avvenimento così squallido nel mondo degli affari di New York come il fallimento di Beaufort, o il fatto che dopo la morte di sua moglie si fosse sposato senza clamore con la famigerata Fanny Ring e che avesse lasciato il paese con lei e con una bambina che ne aveva ereditato la bellezza. Successivamente si era appreso che era andato a Costantinopoli, poi in Russia; una dozzina di anni dopo i viaggiatori americani venivano generosamente ospitati da lui a Buenos Aires, dove rappresentava una grande compagnia di assicurazioni. Sia lui che sua moglie erano morti in Argentina in odore di prosperità; e un giorno la loro figlia orfana era comparsa a New York, affidata alla cognata di May Archer, la moglie di Jack Welland, il quale era stato designato tutore della ragazza. Di conseguenza era diventata quasi una cugina dei figli di Newland Archer, ragion per cui nessuno si sorprese quando fu annunciato il suo fidanzamento con Dallas.

Niente poteva fornire metro migliore per misurare la strada che il mondo aveva percorso. La gente dell'epoca aveva molto da fare — era impegnata nelle riforme e nei «movimenti», si occupava di mode passeggere, di feticci e di sciocchezze — per poter badare ai propri vicini. E che importanza poteva avere il passato di chicchessia nell'enorme caleidoscopio in cui tutti gli atomi della società ruotavano sullo stesso piano?

Newland Archer, mentre guardava scorrere sotto la finestra dell'albergo il brio maestoso delle strade di Parigi, sentiva il cuore battergli con la confusione e l'ardore della giovinezza.

Era passato molto tempo da quando esso aveva sussultato e si era impennato in quel modo sotto il panciotto lasciandolo, l'istante dopo, con una sensazione di vuoto nel petto e con la testa in fiamme. Si domandava se fosse così che suo figlio si comportava in presenza della signorina Fanny Beaufort ... e decise che non era così. «Anche il suo cuore funziona in pieno, non c'è dubbio, ma è diverso il ritmo», pensò, rammentando la fredda compostezza con cui il giovanotto aveva annunciato il suo fidanzamento e dato per scontato che la famiglia desse la sua approvazione.

«La differenza è che questi giovani sono sicuri di ottenere tutto quello che desiderano e che noi quasi sempre eravamo sicuri del contrario. Solo mi chiedo ... se si è così sicuri in anticipo di avere una cosa, è possibile mai che per questo il cuore batta con tanta violenza?»

Era il giorno dopo il loro arrivo a Parigi e il sole primaverile tratteneva Archer alla finestra, che dava sull'ampio panorama dai riflessi argentei della Place Vendòme. Una delle condizioni che aveva posto — l'unica, si può dire — quando aveva acconsentito a venire all'estero con Dallas, era che a Parigi non si sarebbe fatto convincere ad andare in uno dei modernissimi palaces.

«Oh, va bene ... certo», aveva detto Dallas di buon grado. «Ti porterò in un posto carino, un po' all'antica ... per esempio il Bristol ...», lasciando suo padre senza parole all'udire che della dimora favorita per un secolo da re e imperatori si parlasse ormai come di una locanda fuori moda, dove si

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andava per le sue bizzarre scomodità e per il colore locale che vi persisteva.

Archer si era raffigurato abbastanza spesso, nei primi anni irrequieti, il suo ritorno a Parigi; poi l'immagine personale si era dissolta ed egli aveva semplicemente cercato di vedere la città come l'ambiente in cui si svolgeva la vita di Madame Olenska. Seduto solo, di notte, nella sua biblioteca, dopo che la servitù si era ritirata, aveva evocato la radiosa esplosione della primavera nei viali di ippocastani, i fiori e le statue dei giardini pubblici, il profumo dei lillà emanato dai carrettini di fiori, lo scorrere maestoso del fiume sotto i grandi ponti e il mondo dell'arte, dello studio e del piacere che riempiva ogni arteria vigorosa di quella città fino a farla scoppiare. Ora lo spettacolo era di fronte a lui in tutto il suo splendore e mentre lo guardava si sentiva intimidito, superato e inadeguato: un semplice frammento grigio di uomo paragonato alla persona magnifica e spietata che aveva sognato di essere ... La mano di Dallas gli si posò affettuosamente sulla spalla. «Salve papà: questo sì che è magnifico, non trovi?». Rimasero in piedi per un po' guardando fuori in silenzio e poi il ragazzo continuò: «A proposito, ho un messaggio per te: la contessa Olenska ci aspetta tutti e due alle cinque e mezza».

Glielo disse con semplicità, spensieratamente, nello stesso modo in cui avrebbe potuto dargli qualsiasi altra casuale informazione riguardo all'orario del loro treno per Firenze in partenza la sera successiva. Archer lo guardò e pensò di aver colto nei suoi occhi giovani un lampo della malizia della bisnonna Mingott.

«Oh, non te lo avevo detto?», continuò Dallas. «Fanny mi ha fatto giurare di fare tre cose a Parigi: comprare lo spartito delle ultime composizioni di Debussy, andare al Grand-Guignol e andare a trovare Madame Olenska. Sai che è stata molto buona con Fanny quando il signor Beaufort l'aveva mandata qui al Yassomption da Buenos Aires. Fanny non aveva amici a Parigi e Madame Olenska è stata sempre gentile con lei portandola in giro con sé durante le vacanze. Credo che fosse molto amica della prima signora Beaufort. E naturalmente è nostra cugina. Così le ho telefonato stamattina prima di uscire e le ho detto che saremmo rimasti qui per un paio di giorni e che volevamo vederla.»

Archer seguitava a fissarlo. «Le hai detto che io ero qui?»

«Naturalmente ... perché no?» Dallas alzò le sopracciglia in modo bizzarro. Poi, non ottenendo risposta alcuna, passò il braccio intorno alle spalle del padre e le strinse con gesto confidenziale.

«Senti, papà: come era?»

Archer sentì che stava arrossendo sotto lo sguardo imperturbabile del figlio. «Su, confessalo: eravate grandi amici, no? Non è vero che era molto bella?»

«Bella? Non saprei. Era diversa.»

«Ah ... ecco com'è andata! Succede sempre così, no? Quando lei arriva, è diversa ... e non si sa perché. È esattamente quello che provo per Fanny.»

Suo padre fece un passo indietro, liberandosi dal suo braccio. «Per Fanny? Ma, mio caro ragazzo ... voglio sperarlo! Soltanto non vedo ...»

«Ma papà, non essere preistorico! Non è stata ... una volta ... la tua Fanny?»

Dallas apparteneva, anima e corpo, alla nuova generazione. Era il primogenito di Newland e di May Archer, tuttavia non era mai stato possibile trasmettergli i benché minimi rudimenti della discrezione. «A che serve fare misteri? Serve solo a fare scoprire gli altarini», controbatteva sempre quando gli si raccomandava di essere discreto. Ma Archer, incrociando il suo sguardo, vide che dietro l'espressione canzonatoria c'era l'amore filiale.

«La mia Fanny ... ?»

«Beh, la donna per la quale avresti mollato tutto: solo che non lo hai fatto», continuò il suo sorprendente figlio.

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«Non l'ho fatto», ripeté Archer in tono solenne.

«No: vedi, caro vecchietto, tu riveli la tua età. Ma la mamma ha detto ...».

«Tua madre?»

«Sì, il giorno prima di morire. È stato quando mi ha mandato a chiamare da solo ... ti ricordi? Ha detto che sapeva che con te eravamo al sicuro e che lo saremmo stati sempre, perché una volta, quando lei te lo aveva chiesto, avevi rinunciato alla cosa che desideravi di più.»

Archer ascoltò in silenzio quella strana informazione. I suoi occhi rimasero fissi, senza vederla, sulla piazza affollata e illuminata dal sole sotto la finestra. Alla fine disse a bassa voce: «Non me lo ha mai chiesto».

«No. Me ne ero dimenticato. Voi non vi chiedevate mai niente, no? E non vi dicevate mai niente. Stavate semplicemente seduti a guardarvi e facevate supposizioni su cosa vi passasse per la testa. Come in un ricovero per sordomuti, proprio così! Beh, io sono dalla parte della tua generazione, perché voi conoscevate di più i pensieri intimi di ciascuno di voi di quanto noi abbiamo il tempo di conoscere i nostri. Senti, papà», si interruppe Dallas, «non sei in collera con me? Se lo sei, facciamo pace e andiamo a pranzo da Henri. Dopo devo fare una corsa a Versailles.»

Archer non accompagnò il figlio a Versailles. Preferì trascorrere il pomeriggio in un solitario vagabondaggio per Parigi. Doveva affrontare subito tutti i rimpianti che si erano accumulati e i ricordi soffocati di tutta una vita di silenzio.

Dopo un po' non si rammaricò più per l'indiscrezione di Dallas. Era come se gli avessero tolto dal cuore un cerchio di ferro quando aveva saputo che, dopo tutto, qualcuno aveva indovinato e aveva provato pietà ... E il fatto che dovesse essere stata sua moglie lo commuoveva in un modo indescrivibile. Dallas, con tutto il suo affettuoso intuito, non Io avrebbe capito. Per il ragazzo, l'episodio era senza dubbio solo un patetico esempio di inutile frustrazione, di uno spreco di energie. Ma veramente non si era trattato di niente di più? Archer rimase seduto a lungo su una panchina degli Champs Elysées a fantasticare, mentre il fiume della vita scorreva ...

Qualche strada più in là, Ellen Olenska aspettava. Non era mai tornata dal marito e quando questi era morto, qualche anno prima, non aveva cambiato nulla nel suo stile di vita. Adesso non c'era niente che la tenesse separata da Archer ... e quel pomeriggio l'avrebbe vista.

Si alzò per attraversare Place de la Concorde e i giardini delle Tuileries fino al Louvre. Una volta lei gli aveva detto che spesso ci andava e lui aveva una vaga idea di trascorrere il tempo che ancora gli restava prima di farle visita in un posto dove riuscire a immaginare che potesse essere stata in quegli ultimi anni. Per un'ora e più vagò da una galleria all'altra, abbagliato dalla luce pomeridiana, in cui i quadri gli apparivano uno per uno improvvisamente nella loro magnificenza quasi dimenticata, colmandogli l'anima con la lunga eco della bellezza. Tutto sommato, la sua vita aveva patito troppo quella fame ...

Improvvisamente, di fronte a uno splendido Tiziano, si ritrovò a dire a se stesso: «Ma ho solo cinquantasette anni...», e poi se ne andò via. Per simili sogni d'estate era troppo tardi, ma non certo per cogliere un tranquillo frutto dell'amicizia, del cameratismo nella quiete beata della vicinanza di lei.

Tornò in albergo, dove si incontrò con Dallas, e insieme attraversarono di nuovo la Place de la Concorde e superarono il ponte che conduce alla Camera dei deputati.

Dallas, ignaro di quello che stava passando per la mente di suo padre, si dilungava eccitato nel descrivere Versailles. C'era già stato di sfuggita nel corso di un viaggio di piacere, durante il quale aveva cercato di mettere insieme tutte le cose notevoli da visitare che gli erano state precluse quando era dovuto andare in Svizzera con la famiglia; e sulle sue labbra si affollavano espressioni sia di confuso entusiasmo, sia di critica presuntuosa.

Mentre Archer ascoltava, il suo senso di inadeguatezza e di incapacità aumentava. Il ragazzo, lui

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lo sapeva, non era insensibile; ma aveva l'abilità e la fiducia in se stesso che derivava dal considerare il destino come un suo pari e non come un padrone. «È così: si sentono all'altezza delle cose ... sanno come comportarsi», rifletté, pensando al figlio come al portavoce della nuova generazione che aveva spazzato via tutti i vecchi punti di riferimento e, con essi, tutti gli indicatori stradali e i segnali di pericolo.

Improvvisamente Dallas si fermò, afferrando il braccio di suo padre. «Oh, per Giove!», esclamò.

Erano usciti sul grande piazzale alberato davanti agli Invalides. La cupola di Mansart fluttuava eterea nell'aria al di sopra degli alberi in fiore e sulla lunga facciata grigia dell'edificio: attirava su di sé tutti i raggi della luce pomeridiana, che erano lì sospesi come l'emblema evidente della gloria della razza.

Archer sapeva che Madame Olenska abitava in una piazza vicino a uno dei viali che si diramavano dagli Invalides; e si era raffigurato il quartiere tranquillo e quasi nascosto, dimentico dello splendore centrale che lo illuminava. Ora, grazie a qualche bizzarra associazione di idee, quella luce dorata divenne per lui la luce penetrante in cui ella viveva. Per quasi trent'anni, la vita di lei — della quale stranamente conosceva tanto poco — era trascorsa in questa ricca atmosfera che lui avvertiva già troppo densa e tuttavia troppo stimolante per i suoi polmoni. Pensava ai teatri che Ellen doveva aver frequentato, ai quadri che doveva avere ammirato, alle vecchie case sobrie e al tempo stesso magnifiche in cui doveva essere stata ricevuta, alla gente con cui doveva aver parlato, al continuo flusso di idee, curiosità, immagini e associazioni fatte risaltare da una stirpe profondamente socievole in un ambiente di immemorabili abitudini; e improvvisamente ricordò il giovane francese che una volta gli aveva detto: «Ah, la buona conversazione ... non c'è niente di meglio, no?».

Archer non vedeva né aveva sentito parlare di Monsieur Rivière da quasi un trentennio; e ciò dava la misura di quante cose ignorasse dell'esistenza di Madame Olenska. Li divideva più della metà di un'intera vita e lei aveva trascorso quel lungo intervallo tra persone che lui non conosceva, in una società che soltanto vagamente riusciva a immaginare, in condizioni che non avrebbe mai compreso del tutto. Durante quel periodo lui aveva convissuto con il ricordo giovanile di lei; ma senza dubbio lei aveva avuto altre e più concrete amicizie. Forse anche lei aveva serbato il ricordo di lui come un segreto; ma se così era, doveva trattarsi come di una reliquia conservata in una piccola e oscura cappella, in cui non c'era tempo per pregare tutti i giorni ...

Avevano attraversato la Place des Invalides e stavano percorrendo una delle arterie che fiancheggiavano l'edificio. Era un quartiere tranquillo, tutto sommato, nonostante il suo splendore e la sua storia, il che dava un'idea delle ricchezze di cui Parigi doveva disporre dal momento che tali scenari erano riservati soltanto a poche persone indifferenti.

La giornata stava morendo in un soffice velo di nebbia, rotto qua e là da una gialla luce elettrica, e nella piazzetta nella quale si erano inoltrati c'erano pochi passanti. Dallas si fermò di nuovo e guardò in su.

«Dev'essere qui», disse, facendo scivolare il suo braccio intorno alle spalle di suo padre con un gesto di fronte al quale la timidezza di Archer non indietreggiò; e rimasero fermi a guardare la casa.

Era un edificio moderno, senza particolari caratteristiche, ma con molte finestre e con l'ampia facciata color crema piacevolmente disseminata di balconi. Su uno di quelli situati più in alto e sospeso al di sopra delle cime arrotondate degli ippocastani che ornavano la piazza, le tende erano ancora abbassate come se il sole si fosse dileguato da poco.

«Mi domando che piano ... ?», si stava chiedendo Dallas. Andò verso la porte cochère e infilò la testa nella guardiola, poi tornò dicendo: «È il quinto piano. Deve essere quello con le tende».

Archer rimase immobile, con lo sguardo fisso alle finestre più alte, come se fossero giunti alla fine del loro pellegrinaggio.

«Senti, lo sai che sono quasi le sei?», gli ricordò alla fine il figlio.

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Il padre volse gli occhi altrove, verso una panchina vuota sotto gli alberi.

«Credo che mi siederò lì per un istante», disse.

«Perché ... non ti senti bene?», esclamò il figlio.

«Oh, sto benissimo. Ma gradirei che tu salissi senza di me.»

Dallas indugiò di fronte a lui, visibilmente sconcertato. «Ma ascolta, papà: vuoi dire che non verrai affatto?»

«Non lo so», disse Archer lentamente.

«Se non vieni, lei non capirà.»

«Vai tu, ragazzo mio; forse ti seguirò.»

Dallas gli diede una lunga occhiata nella luce soffusa del crepuscolo.

«Ma cosa diavolo le dirò?»

«Mio caro ragazzo, non sai sempre cosa dire?», ribatté il padre con un sorriso.

«Va bene, dirò che sei all'antica e che preferisci salire cinque rampe di scale a piedi perché gli ascensori non ti piacciono.»

Suo padre sorrise di nuovo. «Di' che sono all'antica, e basta».

Dallas lo guardò ancora e poi, con un gesto di incredulità, sparì sotto l'arco a volta dell'ingressa.

Archer si sedette sulla panchina e continuò a osservare il balcone con le tende. Calcolò il tempo che suo figlio avrebbe impiegato per raggiungere il quinto piano in ascensore, suonare alla porta, essere ricevuto in anticamera e poi introdotto nel salotto. Si raffigurò Dallas che entrava in quella stanza col suo passo svelto e sicuro e col suo delizioso sorriso, chiedendosi se la gente avesse ragione a dire che suo figlio «aveva preso da lui».

Quindi cercò di immaginare le persone che erano già nella stanza — poiché probabilmente a quell'ora della giornata riservata alle relazioni sociali doveva essercene più di una — e in mezzo a loro una signora vestita di scuro, pallida e bruna, che avrebbe sollevato lo sguardo in fretta, si sarebbe alzata a metà e avrebbe porto una mano lunga e sottile ornata da tre anelli ... Egli pensò che fosse seduta su un divano ad angolo accanto al fuoco, con le azalee ammassate su un tavolo dietro di lei.

«La mia realtà vera è qui e non lassù», si udì dire improvvisamente; e la paura che l'ultima ombra di realtà potesse perdere i suoi contorni lo tenne inchiodato alla panchina mentre i minuti scorrevano l'uno dopo l'altro.

Rimase seduto a lungo nell'oscurità che si infittiva, ma il suo sguardo non si staccò mai dal balcone. Alla fine una luce brillò attraverso le finestre e un attimo dopo venne fuori un domestico, il quale tirò su le tende e chiuse le imposte.

A quel punto, come se fosse stato il segnale che aspettava, Newland Archer si alzò lentamente e tornò a piedi in albergo, da solo.

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Biblioteca Economica Newton, sezione dei Paperbacks Pubblicazione settimanale, 18 gennaio 1996 Direttore responsabile: G.A. Cibotto Registrazione del Tribunale di Roma n. 16024 del 27 agosto 1975 Fotocomposizione: Compuservice s r l., Terni Stampato per conto della Newton Compton editori s.r.l., Roma presso la Rotolilo Lombarda S.p.A., Pioltello (MI) Distribuzione nazionale per le edicole: A. Pieroni s.r.l. Viale Vittorio Veneto 28 - 20124 Milano - telefono 02-29000221 telex 332379 P1ERONI - telefax 02-6597865 Consulenza diffusionale: Eagle Press s r l., Roma

TUTTE LE NOTE:

1 Q.D. LEAvis, in i. HOWE (a cura di), Edith Wharton. A Collection of Criticai Essays, Englewood Cliffs, 1962, p. 261.

2 Per tali aspetti: T. PISANTI, L'immagine e il furore. Otto/Novecento americano, Napoli 1980 (il saggio sul «realismo imperfetto»),

3 o. CARGILL, The Novels of Henry James, New York 1961; P.B. ARMSTRONG, THE PHENOMENOLOGY OF HENRY JAMES, CHAPEL HILL 1983; B. E G. MELCHIORI, IL GUSTO DI HENRY JAMES, TORINO 1974; S. PEROSA, «HENRY JAMES: I ROMANZI SPERIMENTALI», IN VIE DELLA NARRATIVA AMERICANA, TORINO 1980.

4 M.N. MERCURI, «The Fruit of the Tree» e la narrativa di Edith Wharton, Salerno 1990, p. 29. Sugli aspetti concernenti il «femminismo»: e. ammons, Edith Wharton's Argument with America, Athens (Georgia), 1980; l. auchincloss, Edith Wharton, A Woman in Her Time, New York 1971; j.l. jessop, The Faith of Our Feminists, New York 19652.

5 v. SANNA, in I Contemporanei. Letteratura americana, a cura di E. Zolla, Roma 1982, i, p. 69.6 O.K. LINDBERG, Edith Wharton and the Novel of Manners, Charlottesville 1975.7 E. WHARTON, A Backward Glance, p. 207.8 M. MCDOWELL, «Edith Wharton's Ghost Stories», in Critìcìsm, 12 (1970), pp. 133-152.9 Ethan Frome, New York 1911, p. 296.10 p. BUITENHUIS, «Edith Wharton and the First World War», in American Quarterly, (1966), 18, pp. 493-

505; D. CLOUGH, «Edith Wharton's, War Novels: A Reappraisal», in Twentieth Century Literature, 19 (1973), pp. 1-14.

11 «Ad Archer il suo travaglio d'amore impartisce la lezione appresa da Wilhelm Meister — accettare la realtà e dedicarsi alla procreazione» (C.G. WOLFF, op. cit., p. 315).

12 «After ali there was good in the old ways» (The Age of Innocence, ed. The Modem Library, 1948, p. 350).

13 " Ibid., p. 352.14 Luther Burbank (1849-1926), naturalista e agricoltore americano. Ottenne, con la selezione,

l'ibridazione e l'innesto di numerose varietà di grande importanza (N.d.T.).15 Almanacco dell'aristocrazia inglese (N.d.T.).16 In italiano nel testo (N.d. T.).17 Pseudonimo di Violet Paget (1856-1935) (N.d.T.).18 W.H. Pater, Studies in the History of the Renaissance (N.d. T.).19 In italiano nel testo (N.d.T.).

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20 In italiano nel testo (N.d. T.).21 Pablo de Sarasate y Navascués (1844-1908), celebre violinista e compositore spagnolo (N.d. T.).22 In italiano nel testo (N.d.T.).23 In italiano nel testo (N.d.T.).

1 Charles, duca di Morny, nato a Parigi nel 1811 e morto nel 1865. Ministro e ambasciatore a San Pietroburgo sotto Napoleone ni, fu altresì abile nell'accumulare un'enorme ricchezza (N.d. T.).