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1 “L’obbligo del produrre annulla la facoltà del creare” Karl Marx BAUDELAIRE: IL GESTO ETICO E L’ARTISTA-EROE 1. LA DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO La trasformazione del pensiero dagli Illuministi dell’ Encyclopédie a Baudelaire - l’oscuramento di un orizzonte tematico costruttivo in relazione al rapporto tra singolo e collettività - è comprensibile anche ricordando le nefaste evoluzioni storiche che si abbatterono sull’Europa, e la Francia in particolare, tra la fine del Settecento e la metà dell’Ottocento: il sangue della Rivoluzione che fa germogliare prima il terrore giacobino e poi l’imperialismo napoleonico; successivamente la restaurazione e l’ultimo vagito di libertà con i moti del ’48; la seconda Repubblica inghiottita dal conservatorismo di Luigi Bonaparte; i terribili guasti e le enormi voragini sociali aperte dalla rivoluzione industriale, i conseguenti privilegi portati dalla tecnica. Negli Illuministi lo sdegno verso la società era raggiunto e superato dalla fiducia nella possibilità di un cambiamento veicolato dal trasporto emotivo e dall’evidenza della sua necessità; in Baudelaire invece la critica si veste di amara nostalgia, di strenua difesa di un passato, del sapore della sconfitta propri di chi ha alle spalle un lungo seguito di formulazioni teoriche ed elaborazioni formali e contenutistiche deluse dal fallimento nella loro applicazione pratica. Si apre la stagione del decadentismo, linguaggio del sentimento umano del già visto, del già provato, del già subito.

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“L’obbligo del produrre annulla la facoltà del creare”

Karl Marx

BAUDELAIRE: IL GESTO ETICO E L’ARTISTA-EROE

1. LA DIALETTICA DELL’ILLUMINISMO

La trasformazione del pensiero dagli Illuministi dell’ Encyclopédie a Baudelaire

- l’oscuramento di un orizzonte tematico costruttivo in relazione al rapporto tra

singolo e collettività - è comprensibile anche ricordando le nefaste evoluzioni

storiche che si abbatterono sull’Europa, e la Francia in particolare, tra la fine del

Settecento e la metà dell’Ottocento: il sangue della Rivoluzione che fa

germogliare prima il terrore giacobino e poi l’imperialismo napoleonico;

successivamente la restaurazione e l’ultimo vagito di libertà con i moti del ’48; la

seconda Repubblica inghiottita dal conservatorismo di Luigi Bonaparte; i terribili

guasti e le enormi voragini sociali aperte dalla rivoluzione industriale, i

conseguenti privilegi portati dalla tecnica.

Negli Illuministi lo sdegno verso la società era raggiunto e superato dalla

fiducia nella possibilità di un cambiamento veicolato dal trasporto emotivo e

dall’evidenza della sua necessità; in Baudelaire invece la critica si veste di amara

nostalgia, di strenua difesa di un passato, del sapore della sconfitta propri di chi

ha alle spalle un lungo seguito di formulazioni teoriche ed elaborazioni formali e

contenutistiche deluse dal fallimento nella loro applicazione pratica. Si apre la

stagione del decadentismo, linguaggio del sentimento umano del già visto, del

già provato, del già subito.

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Questo è fenomeno europeo nello stesso tempo in cui è fenomeno francese:

la saturazione di una civiltà, giunta ormai alle sue forme più complesse ed

articolate, è rappresentata nelle immagini dei simbolisti come irrimediabilmente

malata, disumana, prossima alla fine.

Parallelo al sentimento della storia corre il destino umano: la destrutturazione

di temi quali la natura, la collettivizzazione dell’esperienza artistica, la possibilità

della conciliazione, espressa da Baudelaire, è indubbiamente anche figlia del

proprio tempo – canto di una sensibilità offesa e ferita che descrive il baratro in

cui l’umanità sta crollando. Ciò a cui assiste il poeta è uno dei momenti di

passaggio più importanti della storia europea, esso gode di una luce assoluta: è

infatti il concetto stesso di razionalità, alla base del mondo moderno e della civiltà

industriale su cui esso si regge, a nascere da questo cambiamento.

Quella ragione che potremmo definire oggettiva, che consisteva nel mettere in

luce una ragione universale in grado di fungere da sostanza della realtà e da

criterio del conoscere, cade in una ragione soggettiva che si rifiuta di riconoscere

uno scopo ultimo ai propri fini od un pensiero oltre la propria soddisfazione,

limitandosi unicamente a determinare l’efficienza dei mezzi.

Tale ragione soggettiva, o per lo meglio dire strumentale, è quella della civiltà

industriale – Baudelaire ne assiste alla nascita e ne subisce lo sviluppo. Essa è

un tipo di organizzazione sociale che, perseguendo come suo unico scopo il

dominio sulla natura e sugli uomini, risolve la razionalità nella funzionalità – il

sapere nella tecnica, la verità nell’utilità – generando un nuovo tipo di uomo,

schiavo del lavoro ed asservito alle esigenze produttive. Un uomo che non si

interroga mai sui fini ultimi della società, ma che si limita alla semplice riflessione

tecnica sui mezzi migliori per estendere il potere dell’industria e quindi del

capitalismo.

Testimoni di questa evoluzione tecnica e di questa involuzione umana, agli

estremi opposti dell’arcobaleno storico e filosofico, sono gli Illuministi del progetto

enciclopedico e Baudelaire. Se i primi combattono la superstizione della

religione, la cieca ubbidienza del popolo alle autorità precostituite, la pochezza

etica del buon gusto, il piccolo sapere che tutto divide, costoro hanno davanti a

sé una tradizione e dei valori ben noti ed al loro fianco un ristretto gruppo di

amici, filosofi e studiosi; possono, diciamo così, guardare il nemico in faccia

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avendo già imparato ad individuarne le debolezze. Il secondo invece non si trova

a dover fronteggiare un pensiero unico ed unificante, un preciso calendario di

comportamento; dell’uomo rimangono le proiezioni, l’ombra della sua scomparsa

dentro le fabbriche. La difficoltà nell’articolare una risposta sta anche nella

frammentarietà del problema: oltre alla comprensione, è dunque fondamentale

l’interpretazione dei segni lasciati dalla nuova civiltà.

La battaglia illuminista è stata quindi di avanguardia: hanno visto la possibilità

del successo e si sono battuti per migliorare l’uomo e di conseguenza

riorganizzare la società; la battaglia di Baudelaire, invece, è di retroguardia, è

una resistenza, una difesa ad oltranza incentrata sul singolo e sulla sua

solitudine. Ciò che prima voleva essere conquistato, ora va salvato e difeso;

quella che fu l’alba della rivoluzione dei costumi, è il crepuscolare tramonto di

un’epoca - non più speranza, ma ricordo.

Questi ed altri concetti stanno alla base di quella che è probabilmente l’opera

chiave della Scuola di Francoforte: la Dialettica dell’Illuminismo (1947), scritta da

Horkheimer e Adorno.

Con il termine “illuminismo” i due autori non intendono soltanto il movimento

filosofico dell’età dei lumi, ma tutto il complesso di atteggiamenti che, dalla

creazione dei primi utensili alla centrale atomica, ha perseguito l’ideale di una

razionalizzazione del mondo tesa a renderlo plasmabile e soggiogabile da parte

dell’uomo. Da questo punto di vista, storia universale e illuminismo diventano la

stessa cosa, benché l’apice dell’illuminismo sia da considerarsi la moderna

società industriale. Secondo Horkheimer e Adorno la dialettica dell’illuminismo, e

dunque dell’intera civiltà occidentale, è al suo interno negativa, auto-distruttiva; la

pretesa di accrescere sempre di più il potere sulla natura si rovescia in un

progressivo dominio dell’uomo sull’uomo ed in un generale asservimento

dell’individuo al sistema sociale.

L’altissimo prezzo di questo processo, apparentemente irreversibile, di

decadimento ed imbarbarimento non è solo la libertà, ma la felicità – le parole di

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Baudelaire riguardo alla modernità come scissione del sapere e rottura

dell’organicità ne sono testimonianza ottima ed anticipatrice.

Per Horkheimer e Adorno il destino dell’Occidente è simbolicamente racchiuso

nel racconto omerico dell’incontro di Ulisse con le sirene. Per ascoltare il loro

canto ammaliatore, Odisseo si fa legare all’albero della nave dopo aver tappato

con la cera le orecchie dei compagni; in tal modo egli può udire il canto, senza

però cedere al suo appassionato invito al piacere ed alla felicità. Odisseo ed i

suoi compagni rispecchiano la tipica situazione della società di classe; in essa,

totalmente concentrati ed isolati, i lavoratori devono guardare in avanti, al proprio

compito, lasciando stare tutto ciò che succede a lato. Al contrario Ulisse, signore

che comanda gli altri, pur potendo accogliere gli inviti alla felicità, è chiuso nel

suo alienante ruolo sociale; dopo di lui vi saranno i borghesi a negarsi più

tenacemente la felicità quanto più, crescendo la loro potenza, l’avranno a portata

di mano - l’ingresso nel circolo vizioso del produrre comporta la rinuncia alla

conoscenza, il possesso del bastone del comando la morte d’ogni sentimento.

Tutto questo fa sì che l’Odissea costituisca secondo Horkheimer e Adorno uno

dei primissimi documenti rappresentativi della civiltà borghese ed occidentale.

La polemica contro l’illuminismo e la società industriale-capitalistica, poi, si

accompagna ad una critica della scienza moderna di tipo fisico e matematico,

vista come inevitabile e colpevole alleata del rovinoso progetto che ha portato

all’odierna tecnicizzazione del mondo – la reprimenda nei confronti di Bacone è

da intendersi in questo senso:

Benché alieno dalla matematica, Bacone ha saputo cogliere esattamente l’animus

della scienza successiva. Il felice connubio, a cui egli pensa, fra l’intelletto umano e

la natura delle cose, è di tipo patriarcale: l’intelletto che vince la superstizione deve

comandare alla natura disincantata. Il sapere, che è potere, non conosce limiti, né

all’asservimento delle creature, né alla sua docile acquiescenza ai signori del

mondo.1

1 Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 12.

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Come già a inizio secolo aveva sottolineato Max Weber ne L’etica protestante

e lo spirito del capitalismo, per vincere l’angoscia della predestinazione

l’individuo è spinto a lavorare nella ricerca del successo economizzando il tempo

e razionalizzando i metodi di lavoro. Come Odisseo, dovendo scegliere tra

ingannare e perire, il borghese sceglie d’ingannare.

Baudelaire vive e scrive in queste condizioni umane, ferito anch’egli, insieme

alla natura, dalla tecnica usata come potere e dal sapere usato come privilegio.

La sua intera produzione, poetica e critica, è incentrata sul tentativo di ricondurre

la sensibilità umana all’originaria unità della vita – la modernità ha separato

senso e significato, solo l’artista può rifondare l’etica dell’organicità.

2. SCRITTI SULL’ARTE

La produzione artistica di Baudelaire assume due forme espressive diverse –

il saggio critico e la poesia – che compongono un unicum tematico ed umano.

L’una è inscindibile dall’altra, la prima descrive ciò che la seconda suggerisce per

immagini.

Nel 1845, in concomitanza con l’uscita sulla rivista “L’artiste” della prima

poesia pubblicata da Baudelaire con la sua firma – A una dama creola, che

entrerà poi a far parte della celebre raccolta I fiori del male - , esce anche il primo

articolo sui Salons di pittura, in cui si esalta Eugène Delacroix, definito “il pittore

più originale dei tempi antichi e moderni”.

I Salons erano ampie esposizioni d’arte che venivano organizzate ogni anno

fin dal Settecento, inizialmente sotto gli auspici dell’Accademia e poi sotto il

controllo dei professori dell’Ecole des Beux-Arts, che formavano la giuria

delegata a decidere insindacabilmente quali artisti dovessero essere ammessi e

quali invece rifiutati. Il controllo dei Salons da parte dell’ufficialità accademica fu

in seguito contestato con episodi clamorosi da parte dei pittori rifiutati dalla giuria,

come Gustave Courbet che nel 1855 creò un suo padiglione del “realismo”, o il

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gruppo degli impressionisti che diedero vita nel 1863 al Salon des Refusés. Le

mostre autonome degli impressionisti tra il 1874 ed il 1886 e la fondazione da

parte di Seurat e Signac del Salon des Indèpendants misero definitivamente in

crisi la tradizionale istituzione, che perse gradualmente la sua importanza.

Questo ci fa comprendere quale ruolo ricoprisse il Salon nella Francia del tempo:

una sorta di αγορα aperta al confronto all’interno del dibattito sull’arte.

Nell’opera critica di Baudelaire, oltre agli articoli relativi ai Salons del 1845,

1846 e 1859 – con cui l’autore si inseriva in una tradizione avviata nel Settecento

proprio da Diderot: conoscere l’arte per capire la società, parlare di ciò che si è

creato per diffonderne il messaggio - vi sono saggi su Poe, Flaubert, Hugo,

Delacroix.

Molto ricche di riflessioni e spunti saranno poi le brevi, intensissime parti che

compongono Il pittore della vita moderna: qui, con il pretesto di commentare

l’opera e la personalità del pittore Constantin Guys, Baudelaire finisce per parlare

di sé, esibendo la propria contrastata sensibilità nei confronti della modernità –

osservatore distaccato ma fedele partigiano romantico, uno sguardo affascinato

ed insieme disincantato.

La contraddizione in Baudelaire non è mai superata dialetticamente ma,

ammesso che lo sia, comprendendone l’inscindibile presenza nella vita – in

particolare in quella offesa dalla modernità. La realtà è in questo tempo in se

stessa contraddittoria, ostaggio della promessa di onnipotenza gnoseologica

data dalla tecnica e della schiavitù produttiva da essa imposta.

La cura ha acuito la malattia, aggravando le condizioni del malato: la

razionalità si è fatta razionalizzazione, quindi la ragione tecnica. Il potere, che

prima aveva bisogno di essere visibile, ora ha la possibilità di nascondersi – è

sufficiente il mezzo produttivo per governare, non occorre più una sua pubblica

celebrazione. Ciò che prima aveva l’orgoglio di rivendicarsi privilegio, ora si cela

dietro la parola “progresso”.

Baudelaire ed il vero artista si trovano in mezzo a questa tempesta di nuovi

simboli e nuove atmosfere; l’alterazione del divenire sociale è un flusso

ininterrotto che scorre profondo e veloce nel cuore delle città. Se essi non

vedono più davanti a sé un orizzonte d’azione collettivo, sentono molto forte in sé

il dovere e la necessità – prima di tutto estetica – di raccontare, spiegare,

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descrivere gli effetti e le cause della nuova forma assunta dalla realtà sociale – la

modernità – in quanto, come rileva Benjamin attraverso Valéry,

L’uomo civilizzato delle grandi metropoli ricade in uno stato selvaggio, e cioè in uno

stato d’isolamento. Il senso di essere necessariamente in rapporto con gli altri,

prima continuamente ridestato dal bisogno, si ottunde a poco a poco nel

funzionamento senza attriti del meccanismo sociale. Ogni perfezionamento di

questo meccanismo rende inutili determinati atti, determinati modi di sentire2.

Nell’introduzione del Salon del 1846, intitolata “Ai borghesi”, Baudelaire non

solo ci regala un’appassionata difesa dell’arte – difesa, certo: l’arte non si può

consumare né riprodurre meccanicamente, appare ormai inutile – ma anche

un’attenta analisi sociale.

Voi possedete il governo della città, ed è giusto, giacché possedete la forza. Ma

occorre che siate capaci di sentire la bellezza; in quanto come nessuno di voi può

oggi fare a meno di potenza, così nessuno ha il diritto di fare a meno di poesia [...]

Ora ciò che vi occorre assolutamente è l’arte. L’arte è un bene infinitamente

prezioso, l’arzente che rinfresca e infiamma, che ristora lo stomaco e lo spirito

nell’equilibrio nativo dell’ideale. Voi ne concepite l’utilità, oh borghesi, - legislatori o

commercianti – quando allo scoccare della settima o ottava ora vi accade che il

capo si chini sulle braci del focolare e sui cuscini della poltrona. Un desiderio più

ardente, un’immaginazione più attiva, vi conforterebbero allora dell’azione

quotidiana [...] ma gli affari pubblici e il commercio assorbono i tre quarti della

vostra giornata. [...] Solo per mezzo del sentimento dovete giungere all’intelligenza

dell’arte; - così, per l’appunto, la vostra anima può trovare l’equilibrio delle forze. In

quanto molteplice, la verità non è doppia. […] Dopo aver dato alla società la vostra

scienza, e industria, e lavoro, e danaro, pretendete di essere compensati in piaceri

del corpo, della ragione e dell’immaginazione. Ora se ricuperate la somma di

piaceri necessari per ricostruire l’equilibrio di tutte le parti del vostro essere, sarete

felici, sazi, amabili, allo stesso modo in cui la società è destinata ad essere felice e

amabile allorché avrà trovato il proprio equilibrio generale e assoluto. E’ naturale,

dunque, che questo libro sia dedicato a voi, borghesi; ché ogni libro che non si

rivolga alla maggioranza, - numero e intelligenza, - è un libro sciocco.3

2 Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995, pp. 109-110. 3 Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1992, pp. 54-56.

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L’impianto oratorio di Baudelaire è simile a quello di un manifesto ed il tono

enfatico si addice perfettamente al messaggio – l’armonia da ristabilire tra arte e

società borghese. Ma queste pagine non credo siano state dedicate solo

all’utopia di una science del jouir; nella dedica ai borghesi infatti compare anche,

a mio avviso, un deciso statuto ironico evidente fin dalla frase d’esordio – mi

ricorda infatti la composta, dignitosa e malinconica, risposta dei Meli agli

Ateniesi.

Il fine del testo si specificherà poi nel corso del Salon: al momento questa

ambivalenza permette tanto di sottoscrivere un pensiero ottimistico sulla

missione dell’arte – la sua capacità di non separare la realtà ma di unificarla in

un equilibrio sentimentale - quanto d’insinuarvi una riserva mentale, un fermento

critico insidiosamente negativo che capovolge tutti i valori dell’ideologia borghese

– chi parla è un flaneur, un vagabondo che si aggira nelle grandi città senza

meta né lavoro, orgogliosamente irriducibile alle leggi dell’utile e del mercato.

Sono questi due sguardi che non si escludono ma si incrociano e vivono del

loro conoscersi a comporre la grande contraddizione della realtà a cui assiste

l’autore: da un lato si considera l’arte al di fuori della società, del progresso,

dall’altra per reazione si può cadere nell’errore di proiettare su di lei ciò che

l’uomo in sé non è più in grado di fare – armonizzare la vita.

Se non la si uccide, la si esalta – e forse esaltandola, la si uccide.

Baudelaire non ha in mente questo: la potenza dell’arte è il senso profondo di

una ricerca interiore che non è, e non potrà mai essere, la richiesta di una verità

oggettiva né, va da sé, l’impeccabile e ripetitiva esecuzione di un meccanismo

perfetto. Così l’arte non solo si esaurirebbe ma, cosa ancora peggiore, si

snaturerebbe. E’ da intendere in questo senso il frequente richiamo al

romanticismo da parte del poeta: la comprensione della passività organica

dell’uomo, la natura ormai occasionale della libertà d’espressione, la temporalità

discontinua – non può esserci progetto, come lo intendono i tecnici, che non

cada nel campo dell’assurdo: l’uomo non può essere previsto nelle sue

manifestazioni.

Lo sguardo decentrato del Baudelaire osservatore – espresso dalla

rivendicazione della sua diversità - gode della benedizione di vedere le cose

come emblemi o allegorie e la sua funzione contemplativa si tramuta in un

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preciso e sottile strumento d’analisi del lacerante rapporto tra arte ed apparato

sociale, produzione e consumo, modernità e borghesia. Egli non tenta un’illusoria

conciliazione – perché conciliazione non può esservi; essa è solo una parola,

rassicurante quanto falsa. Vi è solo la vita, in cui tutto, inevitabilmente, va

condiviso.

Ecco allora come sia forse il paradosso vitale – più estremo ancora di quello

diderotiano dell’attore – il metro di conoscenza di Baudelaire: è lui che ne è

estraneo l’unico a poter comprendere la vera natura della società borghese, lui

che vive nell’era di negazione del romanticismo a potersi illuminare della sua

luce, lui che parla solo di ciò che vede a poter essere veramente assoluto.

I saggi sul Salon del 1846 si aprono poi con una riflessione sul ruolo della

critica, produttrice di consensi e non di conoscenza, “fredda ed algebrica”,

arrogantemente obiettiva. Al contrario per Baudelaire questa, per aver ragion

d’essere, “deve essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da

un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti.”4

Il poeta ricorda anche che le arti

sono sempre il bello espresso dal sentimento, dalla passione e dall’immaginazione

del singolo, vale a dire dalla varietà nell’unità, ovvero dalle diverse facce

dell’assoluto – la critica s’incontra ad ogni momento con la metafisica. Essendo

riservata ad ogni secolo e ad ogni popolo l’espressione della propria bellezza e

della propria morale, - qualora si voglia intendere il romanticismo come

l’espressione più recente e moderna della bellezza, - il grande artista sarà allora, -

per il critico raziocinante ed appassionato, - colui che unirà alla condizione sopra

richiesta, all’ingenuità, - il massimo romanticismo possibile.5

Ed il romanticismo per Baudelaire non si esaurisce nella propria epoca

appena passata: esso è un modo di sentire senza tempo.

L’uomo è “varietà nell’unità”, identità degli opposti, assolutezza; in lui vi è tutto,

ciò che è esclusivo e personale contiene in sé il grande respiro del mondo.

4 Ibidem, p. 57. 5 Ibidem, pp. 57-58.

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L’espressione della propria sensibilità, attraverso il senso etico e la forma

estetica, è la più antica, necessaria e nobile rivelazione di sé. L’ingenuità cui si

riferisce il poeta è la sincera espressione del temperamento: mai cercare una

soddisfazione aliena dal puro, limpidissimo piacere della manifestazione di sé –

essa è già essenziale e completa. E, in una dimensione ancora oltre, mai cercare

la soddisfazione, in generale: l’ingenuità è naturalità, vive di se stessa, non ha

bisogno di null’altro, il compiacimento non può sporcare il suo essere.

Il primo dei quattro capitoli dedicati ad Eugène Delacroix spiega perfettamente

cosa Baudelaire intenda per vita ed opera romantica: il pittore è un creatore di

immagini, di condizioni, assolutamente libero ed indipendente – rifiutandosi col

direttore delle Belle Arti di “mettere un po’ d’acqua nel suo vino”6, di cedere ad un

compromesso estetico, cade nel dimenticatoio e viene escluso da qualsiasi tipo

di lavoro per sette anni, dal 1824 al 1830.

Il paragone con Victor Hugo è sbilanciato a favore di Delacroix: questi riesce

ad entrare nelle viscere del suo soggetto, a descriverne l’intelligenza interna. Il

fatto poi che nelle sue espressioni visive parta, a dire di Baudelaire, innanzitutto

dal suo intimo pensiero, dominando il modello così come il creatore domina la

creazione, ne fa un genio “surnaturaliste”, soprannaturale.

Per Delacroix la natura è un vasto dizionario di cui egli sfoglia e consulta le pagine

con occhio sicuro e profondo; e la sua pittura, che procede soprattutto dal ricordo,

parla soprattutto al ricordo […]. Sacrificando il particolare nell’insieme, e temendo

di diminuire la vitalità del pensiero con la fatica di un’esecuzione più netta e

calligrafica, egli ricorre largamente ad un’inarrivabile originalità, che è l’interiorità

del soggetto.7

La sua pittura ritrae le palpitazioni eterne dell’universo, esprime il dramma

dell’uomo, la sua feroce desolazione appena compensata dall’ombra della

speranza: nasce una malinconia singolare, intensa come una melodia, segnata

dal movimento, dal colore, dall’atmosfera.

Il giudizio di Baudelaire tende anche a dare valore storico: Delacroix è l’erede

della grande tradizione ed anche l’inventore del pathos moderno, meraviglioso

ed equilibrato incrocio di scienza ed ingenuità.

6 Ibidem, p. 66. 7 Ibidem, p. 69.

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Per tale qualità così interamente nuova e moderna, Delacroix è l’ultima

espressione del progresso dell’arte. Erede della grande tradizione, voglio dire della

magnificenza, della nobiltà e del fasto nella composizione, e degno successore dei

vecchi maestri, egli ha più di loro l’arte di manovrare il dolore, la passione, il gesto!

E proprio questo dà spicco alla sua grandezza […]. Ma se si sopprime Delacroix,

allora la grande catena della storia si spezza e rovina infranta a terra.8

Delacroix, inoltre, ricorda sia Dante che Shakespeare, “due altri grandi pittori

del dolore umano”9: nel suo racconto di religioso trasporto, la sofferenza e la

tristezza universale non impediscono alla bellezza interiore di illuminare la scena.

Ed il raggio di luce che Delacroix porta nella modernità è preso come simbolo

di resistenza artistica, e quindi etica, nella parte finale del Salon del 1846,

“Dell’eroismo della vita moderna”.

La vita antica, costituita soprattutto per il piacere degli occhi, rappresentava quasi

ogni cosa; e questo paganesimo del quotidiano ha contribuito in modo mirabile alle

arti.10

Il paragone con la classicità non porta qui alla limitazione mimetica, ma alla

comprensione della reale natura del rapporto tra arte e vita: assoluto, totale, mai

esclusivo o settario. Il “paganesimo del quotidiano” è da intendersi come il

massimo rispetto e trasporto verso la realtà, il sentire sacra ogni manifestazione

dello spirito, l’attenzione sincera e completa che la natura merita sempre e

comunque.

Il passo successivo è comprendere il lato epico della vita moderna, ovvero il

progetto, la costruzione del senso all’interno della prosaicità della vita borghese.

Ogni bellezza ha in sé, come qualsiasi fenomeno possibile, qualcosa di eterno e

qualcosa di transitorio, - di assoluto e di particolare. La bellezza assoluta ed eterna

non esiste, o meglio non è che un’astrazione distillata dall’intera superficie delle

diverse bellezze. L’elemento specifico di ogni bellezza viene dalle passioni, e come

noi abbiamo le nostre passioni, così abbiamo la nostra bellezza.11

8 Ibidem, p. 76. 9 Ibidem, p. 75. 10 Ibidem, p. 120. 11 Ibidem, pp. 120-121.

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All’artista il compito di trovare l’eterno nel transitorio e di riflettere su ciò che

rimane: questa è la bellezza - dopo la forma, oltre la forma, comprendere e

rappresentare il senso ultimo e fondamentale della realtà; nel momento specifico,

quello moderno, la forza assoluta della passione non può che mostrare le reali

condizioni della vita, i veri rapporti di forza all’interno della società.

Occorre dunque saper scegliere le cose da rappresentare: chi ritrova il valore,

il significato, è l’eroe che da solo spiega le cause e mostra gli effetti della

modernità. Sarà allora Honoré de Balzac il “più eroico, il più singolare, il più

romantico e il più poetico”12 in quanto è riuscito a mostrare con le sue opere la

carne della vita, la sopportazione al dolore, l’ingiustizia e dunque l’eterno nel

transitorio – anche Marx e Lukacs vedranno Balzac come un’immagine letteraria

da imitare.

Nelle prime righe, poi, Baudelaire aveva contestato il parallelismo tra la

decadenza dei costumi e la decadenza della pittura: per lui la prima concerne il

pubblico ed i suoi sentimenti, la seconda non riguarda che i pittori. Ecco ancora

che l’artista è dentro la società, inevitabilmente, egli ha l’onere di descriverne la

vita ma anche la capacità di mantenere quella distanza necessaria alla

conoscenza. Pensare di spiegare la pochezza dell’arte moderna con il regresso

della società significa per Baudelaire cercare una tiepida giustificazione

all’incapacità e alla mancanza di volontà: il vero artista può anche andare contro

la storia, anzi, il più delle volte il suo isolamento è la sua benedizione – ritengo

sia questo uno dei più evidenti esempi del suo spirito romantico: o l’arte reagisce

alla decadenza, oppure non è più arte, perde la sacralità del suo gesto.

Proseguendo nel pensiero di Baudealire, il Salon del 1859 si apre con una

triste e lucida analisi de “L’artista moderno”.

Che in ogni tempo la mediocrità abbia dominato, è un fatto certissimo; ma che

essa regni più che mai, invadente e trionfatrice, è tanto vero quanto doloroso. Dopo

avere lasciato per un po’ vagare lo sguardo su tante insulsaggini felicemente

concluse, su tante sciocchezze diligentemente levigate, su tante idiozie o falsità

12 Ibidem, p. 123.

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abilmente costruite, fui condotto dal corso delle mie riflessioni a considerare

l’artista nel passato, e a metterlo a confronto con l’artista nel presente; e allora il

terribile, eterno perché si levò irresistibilmente, come d’abitudine, al fondo di tali

deprimenti riflessioni. Si direbbe che la piccineria, la puerilità, l’indifferenza, la

piatta calma della fatuità siano succedute all’ardore, alla nobiltà e all’ambizione

clamorosa, nelle arti come nella letteratura […]. E al giorno d’oggi, che cos’è

l’artista, l’antico fratello del poeta? […] Oggi, ormai da parecchi anni, l’artista,

nonostante la sua mancanza di meriti, è un vero adolescente viziato.13

Questi ha ereditato un privilegio, in altri tempi legittimo, dei suoi predecessori

– il ruolo di profeta del tempo, di giudice della bellezza; l’uso che ne fa è

pessimo, sfruttandolo per ottenere una posizione ed una ricompensa. In lui vi è il

discredito dell’immaginazione, il disdegno per il grande, la pratica esclusiva del

mestiere.

Racconta Baudelaire:

Una volta un contadino tedesco andò a trovare un pittore e gli disse: ‘Maestro,

desidero che mi faccia il ritratto. Mi deve riprendere seduto davanti all’ingresso

principale della mia fattoria, nella poltrona grande lasciatami da mio padre. Accanto

a me, lei deve dipingere mia moglie con la conocchia; dietro di noi, in gran

faccende, le mie figlie che preparano la cena per la famiglia. Dal vialone di sinistra

sbucano alcuni dei miei figli che tornano dai campi dopo aver ricondotto i buoi nella

stalla […]. Mentre io guardo questo spettacolo, non dimentichi, La prego, il fumo

della mia pipa che si colora al sole del tramonto. Desidero anche che si sentano i

rintocchi dell’Angelus che viene dal campanile poco distante. E’ lì che ci siamo

sposati tutti, padri e figli. E’ importante che Lei dipinga l’aria di soddisfazione che

assaporo in quel momento della giornata, contemplando insieme la mia famiglia e

la mia ricchezza accresciuta dalla fatica di una giornata! ‘14

Il contadino ha compreso la pittura, di conseguenza l’arte. L’amore per il suo

lavoro, il rispetto per la vita lo portano a considerare l’interezza del suo mondo –

suo, personale, ma completo, assoluto – ed a descriverlo con la sensibilità

propria del poeta. L’attenzione ai particolari è precisissima, il ricordo riscalda il

racconto: passato e futuro si sfiorano alla luce di un tramonto - dal quadro deve

uscire anche il suono, anche il senso della vita e del suo tempo circolare.

13 Ibidem, p. 214. 14 Ibidem, pp. 216-217.

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Per Baudelaire, come per il contadino, l’arte non può che essere questa:

semplice ed articolata, malinconica e felice, già passata e sempre nuova.

Tuttavia oggi l’immaginazione, e la sua sensibilità, sono superate dal potere

della tecnica e dall’incidenza del pubblico. “Il pubblico moderno e la fotografia” è

in questo senso un capitolo essenziale nel percorso umano e speculativo di

Baudelaire.

[…] si può vedere con quale facilità ci immergiamo nella via del progresso (intendo

per progresso la diminuzione progressiva dell’anima e la dominazione progressiva

della materia), e come si diffonda mirabilmente ogni giorno di più l’abilità comune,

quella che si può acquisire a forza di pazienza. […] In questi nostri tempi tristi, è

sorta una nuova industria che ha contribuito non poco a rafforzare la stupidità nella

propria fede e a distruggere quanto poteva restare di divino nello spirito francese.15

Il mondo attuale non vuole una vita, e dunque un’arte, in cui la componente

spirituale governi il senso ed indichi il valore dell’esistenza. L’inesplicabile

creatività umana è stata sostituita dal lavoro – pazienza, gerarchia, “progresso”16.

Una nuova industria ha prodotto anche un nuovo senso del sacro: è la

precisione, la scientificità, l’assenza di eccezioni o di una qualsiasi componente

imprevedibile – l’uomo e la sua massima espressione, l’arte. Da imitazione a

riproduzione, questo è stato il salto sopra il burrone del tempo; la tecnica

permette un risultato identico a quello della natura, l’arte assoluta sarà Narciso

che contempla la sua volgare immagine sulla lastra fotografica.

Ironico Baudelaire:

Giacché la fotografia ci dà tutte le garanzie desiderabili di esattezza (credono

proprio questo, gli stolti!), l’arte è la fotografia.17

Ma i fori dello stereoscopio non possono essere i lucernari dell’infinito: non

raccontano nulla oltre a ciò che già sappiamo.

15 Ibidem, p. 219. 16 Circa un secolo più tardi Pier Paolo Pasolini dividerà, sotto il profilo del linguaggio e dell’etica, progresso e sviluppo intendendo il primo in senso orgogliosamente individuale ed umano, il secondo meramente economico. In Baudelaire le due espressioni coincidono ancora, ovviamente in un’accezione fortemente negativa. 17 Ibidem, p. 220.

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Il progresso corrompe la poesia, nel senso che esprime l’arroganza di

sostituirsi alla natura e di sottomettere l’uomo all’esattezza di un prodotto. Ma se

la stampa e la stenografia non hanno sostituito la letteratura, la fotografia vuole

farlo con la pittura per poter cancellare l’uomo e ciò che ha d’impalpabile ed

immaginario – la propria immaginazione, la propria anima.

[…] il disastro è sotto gli occhi di tutti. Di giorno in giorno l’arte perde il rispetto di

se stessa, si prosterna davanti alla realtà esteriore, e il pittore diventa sempre più

incline a dipingere non già quello che sogna ma quello che vede.18

La “grande follia industriale” ha annullato la facoltà di giudicare e di sentire

quanto vi sia di più etereo ed immateriale. Sognare per Baudelaire non è fuggire,

è astrarsi e comprendere; il corrente vedere è identificare senza giudizio o

capacità di analisi. Paralizzare l’immaginazione artistica, poi, è rubare la libertà

umana.

L’immaginazione è l’analisi e la sintesi, è la sensibilità ed il senso morale, è

l’analogia e la metafora, scompone tutta la creazione e produce la sensazione

del nuovo – mai una copia, mai: l’irripetibile è il canone dell’arte.

L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una provincia del vero. Essa è

concretamente congiunta con l’infinito. […] Da ultimo, essa ha una parte decisiva

anche nella morale; poiché, se mi è concesso di spingermi fino a questo punto, che

cosa diviene la virtù senza immaginazione? E’ come dire la virtù senza la pietà, la

virtù senza il cielo.19

L’immaginazione ha una forza naturale che nessuna macchina potrà mai

riprodurre: l’integrazione senza divisione, la comprensione senza pensiero, la

purezza etica di non avere scopi alieni da sé e dunque non attendersi

ricompense.

L’immaginazione è creatrice, è la “regina delle facoltà”. La natura invece è un

dizionario, dice il poeta, e in un dizionario occorre cercare il significato delle

parole, la loro origine, la loro etimologia; chi è privo di immaginazione copia il

dizionario, cadendo nel vizio della banalità.

18 Ibidem, p. 222. 19 Ibidem, pp. 223-224.

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Tutto l’universo visibile non è che un deposito di immagini e di segni ai quali

l’immaginazione deve attribuire un posto e un valore relativo: una sorta di

nutrimento che l’immaginazione deve assimilare e trasformare. Tutte le facoltà

dell’anima umana vanno subordinate all’immaginazione, la quale le requisisce tutte

in una. […] l’immaginazione universale include l’intelligenza di tutti i mezzi e il

desiderio di possederli.20

Da ciò deriva la netta dicotomia baudelaireiana tra il pittore “realista” o, per

essere più esatti, “positivista” e quello “immaginativo”, ovvero tra una visione che

pretende di rappresentare l’universo senza l’uomo ed una visione che invece

vuole illuminarlo attraverso il riflesso di un soggetto.

A questa seconda categoria appartiene Delacroix, artista del sogno inteso

come visione prodotta da un’intensa meditazione; a lui si addice il pensiero e la

pratica dell’ “infinito nel finito”.

Tuttavia il realismo per Baudelaire non è, come per Diderot, la condizione di

verità di un racconto; il realismo moderno è l’illusione positivista di abolire l’uomo

che sente e che pensa, che interpreta e ricostruisce in una nuova sintassi il

dizionario delle cose – di questa limitante prospettiva il paesaggio e l’esaltazione

della fotografia ne sono buoni esempi.

Quella verità che per l’Illuminismo era razionalmente evidente ed

ontologicamente unitaria, è per Baudelaire, alle condizioni attuali, in se stessa

sur-reale, oltre la realtà, e spezzata; la complessità della vita impone un nuovo

rapporto con essa - l’interpretazione ed il simbolo, da συν−βαλλειν, unire. Tutta

l’avventura poetica di Baudelaire è nel nostalgico, torturato, visionario trasporto

verso la ricostituzione di una miracolosa unità sensibile. In tale sentimento il

soggetto non si oppone più alla realtà dell’oggetto, ma ne partecipa

nell’estensione dello spazio e nell’espansione del tempo, nell’ampiezza del

suono e nella luminosità del campo visivo. E’ la simbiosi di io e non-io, di unità ed

alterità, presente solo nelle più intense esperienze umane – quelle etiche ed

estetiche.

La sospensione del discrimine tra soggetto e oggetto – ecco il reale ed il vero -

è propria dell’azione contemplativa: chi guarda è guardato, chi sente è sentito.

20 Ibidem, p. 229.

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Ciò che Diderot ha scoperto e rappresentato con l’analisi di Rameau,

Baudelaire ha visto e subito con l’interpretazione del simbolo: è nel rapporto con

l’altro che com-prendiamo, prendiamo insieme, noi stessi.

Un altro importante paragone che spontaneamente si istituisce tra i due autori

è nel ruolo e nel concetto da attribuire alla natura. Allorché la città produce una

nuova iconografia naturale – la distruzione dell’uomo, il potere del mezzo

produttivo, l’artificio della falsa cultura – si declassa contemporaneamente il

mitico principio della natura come purezza originaria, come anima del ciclico

ordine del cosmo. Per Baudelaire tutto ciò che è naturale, in quanto strettamente

connesso all’uomo, è in sé laido, partecipe della colpevole degradazione umana;

opporre all’enorme industria ed alla mostruosa metropoli l’idillio bucolico di una

buona natura, significa asservirsi all’ideologia borghese.

L’alienazione dell’uomo moderno, “homo duplex”, doppio, separato, si

trasferisce anche nella natura: lo specchio di Narciso è ora la visione e la

confessione della caduta negli inferi del progresso.

Il “surnaturalisme” nasce proprio da questa condizione di vita: non è il realismo

del paesaggio, ma il realismo dell’anima umana, della condizione del suo sentire.

Dice Baudelaire nel capitolo “Il paesaggio”:

Gli artisti che intendono esprimere la natura, sciolta dai sentimenti che essa ispira,

si assoggettano ad un’operazione bizzarra che consiste nell’uccidere in sé l’uomo

pensante e senziente […]. Seguendo l’opinione comune, voglio ammettere che la

scuola moderna dei paesaggisti sia particolarmente solida e valida; ma nel trionfo e

nel predominio di un genere inferiore, nel culto insipido della natura, non purificata

né interpretata dall’immaginazione, io scorgo un segno manifesto del generale

decadimento. […] I più cadono nell’errore che denunciavo all’inizio di queste

pagine, scambiando il dizionario dell’arte per l’arte stessa: mentre trascrivono una

parola del dizionario, credono di trascrivere un poema. Ora un poema non si

trascrive mai, perché deve essere composto.21

Allora non una copia senz’anima, accademica, che nega prima l’espressività

della natura e poi la capacità umana, ma neanche, come già detto, l’eccessiva

trasfigurazione del suo potere armonizzante, a queste condizioni improponibile –

sta all’uomo ricucire lo strappo che lui stesso ha prodotto.

21 Ibidem, p. 258.

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La distanza concettuale con la tradizione illuminista non nasce quindi da una

differenza emotiva nei confronti della natura – entrambi vivono con essa un

συν−παθοσ, letteralmente una condivisione di sofferenza -, ma da una dicotomia

storica. I Fiori del male sono pieni di delicatissime dediche alla natura ferita, ed

anzi questa viene spesso presa come esempio e simbolo della sofferenza

umana ed universale22; tuttavia Baudelaire non può e non vuole spingersi oltre, è

proprio la sua etica, il suo senso del vero, la sua dignità intellettuale ad

impedirglielo – l’empatia è segno di sensibilità ed intelligenza, l’esaltazione solo

di falsa coscienza: essa distrae l’uomo dal suo ruolo e ne smorza il vitale compito

ricostruttivo.

Quello che manca è

il paesaggio delle grandi città, ossia la somma delle grandezze e delle bellezze che

nascono da un possente agglomerato di uomini e monumenti, il fascino profondo e

labirintico di una capitale antica e invecchiata nelle glorie e nei travagli della vita.

[…] [In esso] La maestà della pietra edificata a strati, i campanili che additano il

cielo, gli obelischi dell’industria che vomitano contro il firmamento le loro armate di

fumo, le prodigiose impalcature dei monumenti in restauro, che rivestono il corpo

solido dell’architettura con il loro traforo architettonico di una bellezza paradossale,

il cielo in tumulto, saturo di collera e di rancore, la profondità delle prospettive

dilatata dal pensiero di tutti i drammi che vi sono racchiusi, nessuno dei complessi

elementi di cui si sostanzia il doloroso e glorioso scenario della civiltà è

dimenticato.23

La completezza della conoscenza può essere data solo dalla forza della realtà

e della verità; il paesaggio delle città è al momento l’unico naturalismo possibile e

necessario per il vero artista.

Nella città è raccontato l’uomo, ed è l’uomo l’abisso in cui la città è stata

costruita. L’eticità dell’arte consiste nel dire tutto questo, la sua bellezza è

l’evidenza della verità – trovare l’eterno nel transitorio.

Confessa amaro il poeta:

Vorrei ardentemente essere condotto di nuovo verso il diorama la cui magia brutale

ed enorme sa impormi un’utile illusione. Preferisco contemplare certi scenari 22 Vedremo in seguito come ne Il cigno la Natura sia intesa dal poeta come simbolo stesso della bellezza e della purezza. 23 Ibidem, pp. 263-264.

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teatrali, ove trovo, espressi con la sapienza dell’arte e concentrati in figura tragica, i

miei sogni più cari. Queste cose, proprio perché false, sono infinitamente più vicine

al vero; mentre la maggioranza dei nostri paesaggisti mentono, appunto perché

hanno tralasciato di mentire.24

L’arte può raccogliere su di sé il problema dell’eticità del mondo - nel momento

in cui i suoi presupposti fondamentali siano l’immaginazione e l’infinito, dunque il

soggetto e la verità: negare se stessi ed il vero cuore della vita dietro il gracile

rifugio del colore, è solo una menzogna destinata alla sconfitta.

Se progetta un senso del mondo è arte, se svela, e dunque realizza in modo

più completo, sintetico e profondo, l’essenza attraverso un’intuizione immediata è

arte; diversamente è solo tecnica, prodotto, consumo – quindi nulla.

Questi argomenti ci portano dritti al centro del discorso baudelaireiano

sull’arte, ai tredici capitoli de “Il pittore nella vita moderna”.

Esordisce il poeta:

Il piacere che ricaviamo dalla rappresentazione del presente dipende non solo

dalla bellezza di cui può adornarsi, ma anche dalla sua qualità essenziale di

presente.25

Esattamente quello di cui si parlava prima: l’importanza vitale dell’attenzione

alla propria realtà.

Le qualità di queste opere

presentano un fascino di duplice ordine, artistico e storico. […] ciò che mi rallegra di

trovare in tutti o nella maggior parte, è la morale e l’estetica del tempo. […] Il bello

è sempre, inevitabilmente, di una composizione duplice, anche se unica è

l’impressione che produce; […] il bello è fatto di un elemento eterno, invariabile, la

cui quantità è oltremodo difficile da determinare, e di un elemento relativo,

occasionale, che sarà, se si preferisce, volta a volta o contemporaneamente,

l’epoca, la moda, la morale, la passione. Senza questo secondo elemento, che è

come l’involucro dilettoso, pruriginoso, stimolante, del dolce divino, il primo

24 Ibidem, p. 265. 25 Ibidem, p. 278.

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elemento sarebbe indigeribile. […] La dualità dell’arte è una conseguenza fatale

della dualità dell’uomo. Se si crede, si può benissimo considerare la sussistenza

eterna come l’anima dell’arte, e l’elemento variabile come il suo corpo.26

La necessaria compresenza di questi due elementi non ne produce un terzo –

Baudelaire non parla in termini di dialettica filosofica – in quanto l’equilibrio della

composizione è già l’unicità dell’espressione. Da tale unicità, data dalla bellezza

di chi l’ha pensata e compresa dalla bellezza di chi la guarda, occorre estrarre la

materia eterna – il valore, ciò che sempre rimane: ecco il classico.

La disorganica modernità trova quindi in questa arte ed in questo sentimento

una nuova unità; ma l’arte è anche il suo autore, dunque Baudelaire concentra

ora il suo pensiero sull’uomo, “non più propriamente un artista, ma un uomo di

mondo”, ossia del mondo intero.

Tale specificazione linguistica apre una nuova prospettiva tematica:

La maggior parte degli artisti sono, occorre dirlo, bruti più sagaci, meri manovali,

intelligenze di paese, cervelli di borgata. E la loro conversazione, ridotta per forza a

una cerchia assai limitata, diventa ben presto insopportabile all’uomo di mondo, al

cittadino spirituale dell’universo.27

Dal piccolo stagno della modesta sopravvivenza, occorre ora nuotare nel

grande mare della creazione di una nuova esistenza. Sarà la curiosità il punto di

partenza del nuovo genio: questa è la fatale ed irresistibile passione di chi vuole

com-prendersi e migliorarsi – Baudelaire pensa qui all’ Uomo della folla di Poe28,

il convalescente che dalle ombre della morte ritorna alla luce della vita.

La facoltà di interessarsi vivamente alle cose, anche a quelle in apparenza più

banali, è il vero indice della sua purezza conoscitiva – come il fanciullo, egli vede

tutto in una forma di novità, è sempre ebbro: questa è l’ispirazione, la gioia di

assorbire l’intero insieme delle forme e dei colori della vita.

Se il genio, che, precisa Baudelaire, deve avere i nervi saldi, come l’attore di

Diderot, incontra il fanciullo che li ha deboli e quindi vivi, ragione e sensibilità si

uniscono per creare: l’infanzia ritrovata è un preciso, rivoluzionario atto di volontà

etica – nessun aspetto della vita risulta attutito od insignificante. 26 Ibidem, pp. 279-280. 27 Ibidem, p. 283. 28 Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 104.

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Dall’uomo di mondo, Baudelaire compie un ulteriore, celebre passo avanti:

Preferirei chiamarlo un dandy, e non mi mancherebbero le ragioni, giacché il

termine di dandy implica una quintessenza di carattere e una sottile intelligenza di

tutto il meccanismo morale del nostro mondo; ma, per un altro verso, il dandy

aspira all’insensibilità […]. Il dandy è scettico […], possiede l’arte così difficile (gli

spiriti raffinati sapranno intendermi) di essere sincero senza ridicolo. Così sarei

portato a conferirgli il nome di filosofo […]. La folla è il suo regno […]. Sposarsi alla

folla è la sua passione e la sua professione […]. Essere fuori di casa, e ciò

nondimeno sentirsi ovunque nel proprio domicilio; vedere il mondo, esserne al

centro e restargli nascosto.29

Come Socrate, il dandy è sempre in città, in mezzo alla gente, parla con tutti

ed ascolta la vita in ogni angolo - ecco il filosofo e l’artista, colui che non esclude

mai nulla, per il quale tutto è uno. Come il filosofo, egli è il più grande

rivoluzionario e la vera persona libera - in-utile al sistema, perfetto perdigiorno,

non governabile da nessuno, movimento nel fuggitivo e nell’infinito, pura

coscienza. Egli è un osservatore; e l’osservatore, dice il poeta, è

un principe che gode ovunque dell’incognito […]. Lo si può magari paragonare ad

uno specchio immenso quanto la folla; a un caleidoscopio provvisto di coscienza,

che, ad ogni suo movimento, raffigura la vita molteplice e la grazia mutevole di tutti

gli elementi della vita. E’ un io insaziabile del non-io, il quale, ad ogni istante, lo

rende e lo esprime in immagini più vive della vita stessa, sempre instabile e

fuggitiva.30

Il filosofo ed il dandy non solo guardano scorrere il fiume della vitalità,

ammirano la bellezza eterna e la stupenda armonia della vita nelle capitali; “da

una distanza grandissima il loro occhio d’aquila ha già colto tutto”31 – il paragone

naturale non è affatto casuale, è il ripristino di un passato indebitamente

cancellato: ciò che è necessario ed assoluto nell’uomo, è anche naturale.

Proprio perché sono così poche le persone che detengono la facoltà di

vedere, ed ancora meno coloro che possiedono la potenza di esprimere,

quest’uomo rappresenta la vita, è la vita, egli

29 Baudelaire, Scritti sull’arte, cit., p. 285. 30 Ibidem, p. 286. 31 Ibidem, p. 286.

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rimarrà l’ultimo ovunque possa risplendere la luce, echeggiare la poesia, brulicare

la vita, vibrare la musica: ovunque una passione possa posare per il suo occhio,

ovunque l’uomo naturale e l’uomo incivilito si mostrino in una bellezza bizzarra,

ovunque il sole illumini le gioie fugaci dell’animale depravato!32

Il gesto etico non è più la sua opera, è la sua stessa vita – resistenza armata

d’amore, benedetta come l’ingenuità del fanciullo e la magia della natura.

Da quell’indefinito e colpevole magma di segni e significati che è la modernità,

complicata trama del quotidiano, l’artista distillerà dall’effimero l’eterno, così

come dal veleno si estrae il siero della cura – ecco dunque spiegata in

quest’immagine l’ambiguità del termine greco φαρµακον, allo stesso tempo

medicina e danno, soluzione e problema.

In ogni realtà è racchiusa una bellezza misteriosa; l’involucro freddo ed a volte

volgare delle cose, come già detto, non deve essere annullato, ma studiato per

poi essere fatto crollare. Dall’altro possiamo comprendere ciò che non dobbiamo

essere, oppure stupirci d’una improvvisa similarità con esso – il Rameau di

Diderot in questo senso era straordinariamente chiarificatore; così opera anche

Baudelaire, istituendo il paragone tra l’arte e la moda.

L’arte nasce dal singolo ma ha già in sé l’aspirazione all’assoluto; la moda

invece nasce solo per morire, tenta di sopravvivere alla sua stessa bugia,

inghiottita dalla sua indole flebile e personalistica – il trucco è il messaggio

psicosomatico di un’intera civiltà: fingere di cambiare se stessi, ingannarsi con

l’abbellimento della facciata, sfuggire al tempo ripetendo i gesti ma mai il

processo della loro comprensione.

La moda è una mascherata, ma è umana – e reale, ed attuale. Quindi il poeta

la osserva e ne comprende il rapporto con il contesto in cui è nata – un rapporto

visto come diretto e vicendevolmente esplicativo. Da questo sapere, in quanto

personale e non imposto, l’uomo volenteroso può trarre un insegnamento: il

cattivo gusto di cui si nutre la moda, il kitsch, è profondamente immorale, dunque

antiestetico, e moderno – un altro simbolo del tempo, un’altra immagine di

decostruzione umana e creativa. Meglio quindi che sia evidente e non nascosto:

32 Ibidem, p. 287.

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più è conosciuto, più opportunità vi sono che ne sia compresa la meschinità e

sorpassata la mediocrità del messaggio.

La responsabilità civile dell’estetica è per Baudelaire assoluta, la vera bellezza

aspira infatti a cogliere l’infinita emanazione dello spirituale; prima la si

contempla, poi si cerca di esprimerla. Lo spirituale, come il fantastico, non

allontana dalla realtà, non è irreale: coglie il valore più alto, l’eterno – e ciò è

profondamente etico.

Per i più di noi, e specialmente per gli uomini d’affari, ai cui occhi la natura non

esiste se non nei suoi rapporti di utile con i loro traffici, il fantastico reale della vita

risulta illanguidito in modo singolare. G.33 ,invece, non si stanca di assorbirlo; la

sua memoria e i suoi occhi ne traboccano.34

Il filosofo, il dandy, il poeta – l’uomo, direi – di questo si nutre. E’ questa la sua

realtà, per questa vita lotta con nobiltà e dolcezza.

Se il “mestiere” del dandy è l’eleganza, infatti, ciò è il riflesso esterno e più

opaco della sua aristocrazia spirituale; un’aristocrazia che si esprime nella

semplicità della vita completamente estranea all’omologazione costruita dalla

modernità e dai suoi prodotti.

La differenza del dandy non nasce dalla divisione imposta dalla scelta, non

provoca alcuna rinuncia né limitazione intellettuale: è naturale senza dire di

esserlo, al di sopra della legge e di un’idea preordinata – coltivare la bellezza

nella propria persona non è per lui così distante dal semplice e necessario

respirare. Egli usa uno strumento moderno, la moda, solo per un sentimento

classico e quindi eterno, la distinzione e la semplicità assoluta – trasforma

dunque la divisa della borghesia nell’irripetibile originalità della rivolta. Non

chiede progresso, il dandy, ma un radicale cambiamento; nelle formulazioni

scientifiche vi è progresso e mai sviluppo di valori umani. La rivoluzione di un

vero cambiamento è per Baudelaire più metaforica che militare: il simbolo

poetico cambia l’uomo – e ciascuno cambi se stesso per cambiare il mondo.

Confessa il poeta:

33 Ovvero Constantin Guys, Baudelaire medesimo o il poeta in generale. 34 Ibidem, p. 290.

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Il dandismo è l’ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza; e il tipo del

dandy, incontrato dal viaggiatore nell’America del nord35, non intacca in alcun

modo la nostra idea; perché niente impedisce di supporre che le tribù che noi

chiamiamo selvagge, siano resti di grandi civiltà scomparse. Il dandismo è un sole

al tramonto; come l’astro che declina, è superbo, senza calore e pieno di

malinconia.36

Il dandy è eroe perché è solo, perché è avversato dall’intera società, perché è

considerato folle, perché spesso muore giovane, perché conosce il senso del

tragico ed ancora di più quello della dignità. Egli è universale, abbatte i flebili

confini del tempo e dello spazio – è l’indiano che vive a diretto contatto con la

natura e l’europeo che subisce la rivoluzione industriale, è difensore del passato

eppure assassino della superstiziosa tradizione; antico ed attuale, sensibile e

freddo, sa di poter ardere solo per poco ma ha un respiro infinito.

Pensando a lui Baudelaire dice:

[…] vi è una grandezza in tutte le follie, una forza in tutti gli eccessi.37

La sua precisa e poetica analisi del reale è già il suggerimento di un mondo

esteticamente possibile ed eticamente necessario. Egli fronteggia la crisi del suo

tempo con il mito della propria poesia, con la fede nella propria capacità artistica

– questo è l’esempio del suo eroismo: scovare la vita anche nella polvere, la virtù

anche nella dannazione.

Il dandy è l’eversivo dall’azione inarrestabile in quanto il luogo della sua

differenza è se stesso, la forma della sua passione la propria vita; impossibile

non ascoltarlo, impossibile non viverlo, la sua luce si disperde solo dopo aver

comunicato la sua elezione.

Se nel mondo prerivoluzionario degli Illuministi la natura era l’esempio

dell’armonia e dell’equilibrio, in quello postindustriale di Baudelaire è il segno del 35 Si riferisce a Chateaubriand che dice di aver trovato il dandy “nelle foreste e sulle rive dei laghi del Nuovo Mondo”: l’affinità tra indiano e dandy affiora non solo nell’onore con cui entrambi affrontano la sconfitta ma anche nel timbro nobile della loro irriducibile, personale libertà. 36 Ibidem, p. 303. 37 Ibidem, p. 302.

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peccato e del dolore. Ciò che per l’enciclopedista era un fiducioso procedere

verso il meglio, la storia, per il poeta è il giornalistico, vittorioso ripetersi del

profitto sull’etica, della volgarità sull’arte.

Inoltre, il senso del tempo in Diderot e negli altri compagni dell’ Encyclopédie è

tutto proiettato verso il futuro, la sua dialettica procede continua ed il suo

orizzonte politico è ben delineato; Baudelaire invece ascolta l’eco del passato e

vive il momento nell’immaginazione, nell’attimo della visione, nell’unità regalata

dal simbolo - un’immediata risposta senza pensiero e senza dogma. Tuttavia per

entrambe le parti è identico il valore morale della bellezza: il “geroglifico poetico”

di Diderot, oltre a scatenare il piacere nell’osservatore, è un oggetto

“emblematico”, è la sintesi di una realtà assoluta; per Baudelaire “la bellezza

delle immagini nasce proprio dalla loro fecondità morale”38, dalla capacità di

raccontare un senso del mondo.

Ecco allora che è giunto il momento di passare dalla critica alla poesia, per

vedere come in Baudelaire l’immagine abbia il dono di esplicarsi da sé come

eticità e la scelta estetica di essere già progetto culturale.

3. I FIORI DEL MALE

La trasfigurazione simbolica di un’idea, il male, vive in un’immagine, il fiore;

già nel titolo è raccontato dunque l’inscindibile binomio di odio ed amore di cui si

compone la realtà. Inoltre la prima parte del libro si articola su due movimenti

opposti, due forze antitetiche, Spleen et Idéal, al cui interno il poeta vive l’atroce

destino dell’angelo decaduto.

Dal contrasto e dal dinamico equilibrio di queste parti nasce un senso di

paradossale armonia che ha nella malinconia la propria più alta espressione. Il

percorso è un itinerario sempre interrotto ma mai fermato del tutto, che procede

38 Ibidem, p. 311.

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verso la liberazione da se stesso, trovando nella Bellezza come nella Morte la

conciliazione di tutti gli opposti.

La celebrazione di questa nostalgia, di questo interminabile tramonto, è nelle

tre figure simboliche disposte in chiusura del testo, come fossero l’ultima

preghiera prima della sepoltura: gli amanti, i poveri, gli artisti - tre sensibilità,

un’unica categoria dello spirito, la più nobile corona che l’umanità possa

indossare.

Baudelaire diede la prima forma compiuta a I fiori del male nel 1855, la prima

edizione è datata 1857. Seguirono la censura, il processo e la condanna che

generarono otto anni (fino al 1865, poco prima della morte avvenuta nel ‘67) di

lavoro e di miseria, amarezze e rancori, ma che furono anche intensi e decisivi

per la sua attività creatrice – pensiamo al Salon del 1859 ed a Il pittore della vita

moderna.

Nel 1861 il poeta aveva poi raccolto materiale sufficiente (una trentina di

nuove poesie) per pensare ad una nuova edizione, che uscì in quell’anno: un più

amaro gusto del nulla, uno stile più narrativo formano la nuova sezione dei

Quadri parigini, diciotto elegie della vita di Parigi, fra cui alcune tra le più lunghe

e commuoventi in assoluto – Il cigno e Crepuscolo del mattino, per esempio.

Le poesie pubblicate dopo il ’61, invece, trovano la luce come fiori sparsi –

forse l’autore incomincia a sentire imminente la propria fine: le raccoglie sotto il

nome de I relitti nel 1866, riflessi di una realtà ai suoi occhi sempre più staccata,

abbandonata ed offesa.

Interrompendo il progetto di un libro autobiografico, con il relativo bagaglio di

ossessioni, la morte coglie Charles Baudelaire il 31 agosto 1867, dopo una lunga

agonia seguita ad una paralisi, come per testimoniare quanto il poeta aveva

sempre affermato: il massimo della poeticità è il massimo della sofferenza - chi

ascolta il battito del mondo ne è già colpito, chi lo sente ne è già ferito.

Dopo le pagine introduttive dedicate al lettore, messo in guardia dal fatale

peccato della modernità, la noia, la prima poesia è Benedizione – per il Poeta

stesso. Non è enfasi della poesia quanto semplicemente il suo valore sociale ad

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essere sottolineato e spiegato. Il poeta è accolto dalla vita con le maledizioni

della sua stessa madre, la quale medita addirittura il delitto; tuttavia egli è

protetto da una benedizione – la vicinanza agli dei e l’affinità con la natura.

Tuttavia, assistito da un Angelo invisibile, il figlio ripudiato s’inebbria di sole, e in

tutto quel che beve e che mangia trova ambrosia e nettare vermiglio. Gioca col

vento, discorre con la nuvola39.

La sua esistenza è una lotta contro il pensiero unico e l’omologazione:

Verso il cielo, ove il suo occhio mira uno splendido trono, il Poeta sereno leva le

pie braccia, e i grandi lampi del suo spirito lucido gli precludono la vista dei popoli

inferociti40.

Egli è il tramite della

pura luce attinta al focolare santo dei raggi primigeni, di cui gli occhi mortali, al

massimo del loro splendore, non sono che specchi oscuri e lacrimosi.41

Dunque è questo il valore etico del suo essere: la conoscenza dell’oltre, il

disegno della corrispondenza, nascosta al resto dell’umanità, tra mondo sensibile

e mondo sovrannaturale.

Il Poeta è L’albatro, lo splendido uccello marino che i marinai, per puro diletto,

catturano ed uccidono:

Appena li hanno deposti sulle tavole, questi re dell’azzurro, goffi e vergognosi,

miseramente trascinano ai loro fianchi le grandi, candide ali, quasi fossero remi.

[…] E il Poeta, che è avvezzo alle tempeste e ride dell’arciere, assomiglia in tutto al

principe delle nubi: esiliato in terra, fra gli scherni, non può per le sue ali di gigante

avanzare di un passo.42

Ancora una similitudine col mondo naturale osteggiato e non rispettato dalla

barbarie umana; le grandi ali dell’albatro vengono ridotte a remi spezzati, segno

39 Baudelaire, I fiori del male, Garzanti, Milano 1981, p. 11. 40 Ibidem, p. 13. 41 Ibidem, p. 15. 42 Ibidem, pp. 15-17.

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della reificazione dei simboli, della natura che assume l’aspetto del proprio

assassino.

Nel limitato spazio concesso dalla modernità all’uomo, il Poeta, come un

albatro catturato, è fermo: dalle grate della sua gabbia vede il mondo e ne

racconta gli effetti, provando a comprenderne le cause.

Partendo proprio dal tema della libertà, il componimento L’uomo e il mare apre

una serie di altre considerazioni sul rapporto uomo-natura:

Uomo libero, sempre tu amerai il mare! Il mare è il tuo specchio; tu miri, nello

svolgersi infinito delle sue onde, la tua anima. Il tuo spirito non è un abisso meno

amaro. Ti compiaci a tuffarti entro la tua propria immagine […] Siete entrambi a un

tempo tenebrosi e discreti […] E tuttavia sono innumerevoli secoli che vi

combattete senza pietà né rimorsi, talmente amate la carneficina e la morte, eterni

lottatori, fratelli instancabili.43

La contraddizione ed il conflitto non sono qui conciliabili, affatto; dall’iniziale

identità sentimentale si passa alla separazione della lotta ed alle ferite della

guerra. Il senso più profondo della vita è in questo ciclo tragico: gli opposti sono

simbolicamente uniti nel loro irrisolvibile conflitto – si comprendono nella loro

interdipendenza, nel loro reciproco specchiarsi, ma non possono risolversi in una

sintesi dialettica. Due fratelli che si combattono: ecco l’essenza stessa

dell’umanità e della sua secolare maledizione.

Ne La maschera il poeta regala un’immagine fortemente romantica: la

bellezza costretta sempre a vivere che piange del suo destino di idolo sacrificale

è la “Bellezza vivente” di cui parlano Goethe e Schiller, l’armoniosa forma che si

scontra con la disorganica società umana. Essa è la verità che deve

continuamente illuminare il buio dell’esistenza – è l’etica che deve sempre

pesarsi come azione. L’incontro con il negativo non può che essere traumatico,

ma solo in questo modo la maschera cade e si può vedere “la vera testa e

l’autentica faccia”44 di sé e della realtà.

Nel successivo Inno alla bellezza questa ed altre tematiche baudelaireiane

trovano una delle più complete esposizioni:

43 Ibidem, p. 33. 44 Ibidem, p. 41.

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Vieni tu dal cielo profondo o sorgi dall’abisso, Beltà? Il tuo sguardo, infernale e

divino, versa, mischiandoli, beneficio e delitto: per questo ti si può comparare al

vino. Riunisci nel tuo occhio il tramonto e l’aurora […] Sorgi dal nero abisso o

discendi dagli astri? […] Venga tu dal cielo o dall’inferno, che importa, o Beltà,

mostro enorme, pauroso, ingenuo; se il tuo occhio, e sorriso, se il tuo piede,

aprono per me la porta d’un Infinito adorato che non ho conosciuto? Da Satana o

da Dio, che importa? Angelo o Sirena, che importa se tu – fata dagli occhi vellutati,

profumo, luce, mia unica regina – fai l’universo meno orribile e questi istanti meno

gravi?45

Saper cogliere l’eterna benedizione della bellezza dagli abissi quanto dal cielo,

dalla malattia quanto dalla gioia – sono questi attimi i fiori del male, questo il

compito dell’artista, ricomporre in un momento rubato al dolore ed all’obbligo il

principio ed il valore del piacere, vero atomo di libertà, strappandolo da chi lo

commercia ed asservisce nella catena di montaggio dello sfruttamento di un finto

progresso:

Non per nulla Marx mostra come, nel mestiere, la connessione dei momenti

lavorativi è continua. Questa connessione, resa autonoma ed oggettivata, si

ripresenta all’operaio di fabbrica nel nastro automatico. Il pezzo da lavorare entra

nel raggio d’azione dell’operaio indipendentemente dalla sua volontà; e altrettanto

liberamente gli si sottrae. “E’ proprio – scrive Marx – di ogni produzione

capitalistica […] che non è il lavoratore a utilizzare la condizione lavorativa, ma la

condizione lavorativa a utilizzare il lavoratore; ma solo col macchinario questa

inversione acquista una realtà tecnicamente tangibile.”46

L’eroismo di chi lotta per liberare e liberarsi è parallelo a quello di chi narra ed

indaga raffigurando perché, di nuovo citando Marx, “il dolore rappresentato è

ancora più doloroso”: l’amore all’ultimo sguardo che Baudelaire prova per la

passante avvolta nella folla come in una nebbia47 unisce in sé l’attimo

dell’incanto alla momentanea, personale scarcerazione dalla gabbia della

modernità – di nuovo, il valore etico della bellezza, anche in qualcosa di

irrevocabilmente perduto.

45 Ibidem, pp. 41-43. 46 Benjamin, Angelus Novus, cit., pp. 110-111. 47 Ibidem, p. 103.

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Non è l’agrodolce privilegio di consolare che nobilita l’arte, né la sua capacità

di esercitare il ricordo o rievocare l’esperienza - sempre più differita e come

sciolta dalla tecnica - a farla forte e sincera, ma l’assoluta autonomia della sua

forma, la libertà con cui può attraversare e varcare il tempo senza storia in cui si

trova a sopra-vivere piantando la propria bandiera nell’infinito – l’unico vero

canone dell’opera di Baudelaire. Se è vero infatti che

Nello spleen il tempo è oggettivato; i minuti coprono l’uomo come fiocchi. Questo

tempo è senza storia, come quello della mémorie involontarie […] nello spleen la

percezione del tempo è acuita in modo soprannaturale; ogni secondo trova la

coscienza pronta a parare il suo colpo.48

la poesia con cui tale depresso, vuoto decorso è espresso ha la liberatoria

capacità di ribaltarne la percezione. Da un tempo già passato alla forza di

vergare un senso, se stesso, che non passerà mai – questo il rapporto tra

l’attimo del dolore e la scintilla della creazione, rovesciare lo specchio del tempo

folgorandolo nel qui ed ora attraverso gli occhi dell’eternità. Come sempre in

Baudelaire, infatti, l’incontrollabile forza utopica che causa il piacere o lo

sconforto è bilanciata dal realismo dei suoi effetti: le immagini degli inferi e del

paradiso conducono al dolore alleviato, il sapore del sovrannaturale preannuncia

e dispiega il realismo del sentimento.

Le sue abitudini comportamentali e la precedente equiparazione tra paradiso

ed inferno chiariscono evidentemente la laicità del contesto culturale all’interno

del quale Baudelaire vive e compone. Tuttavia, in maniera per nulla antitetica o

paradossale rispetto a tali atteggiamenti, il poeta esprime lungo tutto l’arco

dell’opera un fortissimo senso di religiosità, ovvero di comprensione e rispetto del

sacro. In Reversibilità questo sentimento trova vita nell’immagine dell’angelo,

visione fortemente spirituale, figura di connessione tra il mondo umano ed il

mondo divino, tendente a divinizzare il tutto.

Ogni strofa si apre con un’invocazione all’angelo – esso è la gioia e la

bellezza, due tra le più alte espressioni vitali. Ed ogni strofa porta con sé il

pesante confronto tra il suo corpo beato e la dannazione del dolore umano – per

48 Ibidem, pp. 120-122.

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il poeta è solo il respiro divino che può dar nuovo fiato alla bassezza della

quotidianità:

Angelo pieno di gaiezza, conosci tu l’angoscia, la vergogna, i rimorsi, i singhiozzi, i

fastidi e i vaghi terrori di quelle orrende notti che comprimono il cuore come si

spiegazza una carta? Angelo pieno di gaiezza, conosci tu l’angoscia? […] Angelo

pieno di felicità, di gioia e di luce, si dice che Davide morente chiedesse guarigione

ai profumi del tuo corpo incantato…Ma da te non imploro che preghiere, angelo

pieno di felicità, di gioia e di luce.49

Ritengo che questi versi siano adatti per un’ulteriore riflessione sull’originalità

della poetica di Baudelaire. Il superamento della contraddizione nel movimento

verso una superiore sintesi - la già citata dialettica – è proprio della storia e

soprattutto del mondo moderno. Al contrario l’angelo di Baudelaire permette di

vivere la realtà senza pensare la contraddizione, nel suo esempio vi è il tragico -

il mantenimento dell’irrisolvibile conflittualità della vita: cercare il bene nel male.

In questo ciclo onnicomprensivo sta la bellezza e la possibilità della salvezza,

non nell’esclusione o nella trasformazione di alcuni elementi reali in altri più

comodamente razionalizzabili e dominabili.

La tensione all’unità è la medesima di Diderot: per il filosofo essa è una

necessità conoscitiva, per il poeta l’etica stessa del suo messaggio. La differenza

sta nel diverso modo di approdare alla completezza espositiva, di intendere il

senso di totalità: in Diderot convergenza, sviluppo, un prima e soprattutto un

dopo logico e razionale, il philosophe ed il vero uomo che ammettono le

differenze e ne superano, comprendendole, le opposizioni; in Baudelaire la

dialettica non può che essere nell’esistenza stessa, in quanto la vita è in sé un

δια−λεγω, un leggere attraverso, un confronto, un andare avanti che, seppur non

detto o esplicitato, è ben compreso in quanto evidente per l’avanzare del tempo

ed il modificarsi dello spazio. Ma il poeta e la sua sensibilità non possono

fermare ciò che non è mai fermo, né credere di modificare ciò che ha una propria

verità: tutto è, quindi tutto va conosciuto e compreso nella sua irripetibile realtà.

I fiori del male, infatti, non hanno uno sviluppo dialettico - dialetticamente bene

e male sono parti dell’essere che vengono superate; qui no, qui si cerca il bene

nel male, senza ammettere la differenza o la possibilità della divisione. Massima 49 Baudelaire, I fiori del male, cit., pp. 77-79.

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espressione di questo atteggiamento baudelaireiano è il principio,

apparentemente ossimorico, della sintesi simbolica che più volte compare nei

suoi versi.

In Corrispondenze

La Natura è un tempio ove pilastri viventi lasciano sfuggire a tratti confuse parole;

l’uomo vi attraversa foreste di simboli, che l’osservano con sguardi familiari. Come

lunghi echi che da lungi si confondono in una tenebrosa e profonda unità, vasta

come la notte e il chiarore del giorno, profumi, colori, suoni si rispondono – […]

posseggono il respiro delle cose infinite.50

Come detto, simbolo deriva etimologicamente da συν−βαλλειν, unire; mentre

l’allegoria è un’immagine che rappresenta un unico e solo concetto, il simbolo

rimanda ad una pluralità di sensazioni, unite nella comune origine immaginativa.

Visto il ruolo impostole dal momento storico, quello di muta cavia dell’industria

umana, per Baudelaire la natura non poteva più esser solo rappresentata;

occorreva invece coglierne la simbolicità, unire dunque tutto e non eliminare

nulla, raccontare le contraddittorie emozioni scatenate dalla sua osservazione.

Il poeta parla di corrispondenze e familiarità, di “tenebrosa e profonda unità”,

di dialogo tra uomo e natura – essa canta i moti della nostra anima e dei nostri

sensi. E parla anche di “confuse parole”, di “foreste di simboli”, di linguaggi

incomprensibili ma dalla sguardo conosciuto. Questa è la modernità: nostra

eppure aliena, terribile ed umana, familiare e straniera. Di fronte a questo tipo di

natura, la mediazione di una sintesi dialettica è sembrata a Baudelaire un passo

indietro eticamente troppo pesante per essere compiuto senza rimorso. La

sintesi simbolica permette la compresenza di un terzo elemento, il fondamentale

sguardo umano, nella simultaneità della visione.

Ed il simbolo di Baudelaire, benché indefinito, è anche filosofico nel senso in

cui spiega un atteggiamento umano e confessa un personale senso del mondo.

In Invito al viaggio51, infatti, una delle più antiche metafore di libertà è rinvigorita

dalla speranza data da alcuni valori quali il lusso, ovvero la possibilità di vivere

secondo le proprie regole, la calma, il termine e fine ultimo di ogni metamorfosi, e

la voluttà, l’estasi dell’ebbrezza – tutto ciò all’interno dell’ordine e della bellezza. 50 Ibidem, p. 19. 51 Ibidem, pp. 95-97.

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L’ampliamento di questo tema si trova nel lungo e splendido componimento Il

viaggio. Nei suoi otto capitoli, in un tono basso e colloquiale, è raccontato

l’irreversibile processo di degradazione della vita umana, dall’ardita giovinezza

fino al dialogo con la morte. Amore e viaggio sono le due vere esperienze che

modificano l’uomo, due profonde dimensioni dello spirito:

I veri viaggiatori sono quelli che partono per partire; cuori leggeri, simili a palloncini,

non si staccano mai dal loro destino, e senza sapere perché dicono sempre:

Andiamo!52

Chi parte deve anche ritornare; ritorno in greco è νοστοσ, che ha chiaramente

la stessa radice di nostalgia. Il sapore crepuscolare, la sensazione di vivere in un

malinconico tramonto è propria del viaggiatore, il quale è mosso dalla curiosità e

seguito dal destino. Ma il viaggiatore è semplicemente l’uomo nel suo stato più

romantico e di conseguenza limpido e debole – in mare aperto non vi sono

consolazioni né aiuti, solo il fascino dell’avventura e la comprensione di sé.

Suo compito e merito sarà poi il raccontare ciò che ha visto:

Straordinari viaggiatori, quali nobili storie leggiamo nei vostri occhi profondi come il

mare. Oh, mostrateci gli scrigni della vostra ricca memoria, i gioielli meravigliosi

fatti di astri e di etere. Senza vapore né vela vogliamo navigare! Per alleviare il

tedio delle nostre prigioni fate passare sui nostri spiriti, tesi come una tela, i vostri

ricordi chiusi in cornici d’orizzonti.53

Nel viaggio si tende al tutto con il rischio del nulla, si cerca il nuovo con il

rischio del vecchio. Difatti:

Abbiamo visto dovunque […] lo spettacolo tedioso dell’eterno peccato: […] il

carnefice che gioisce, il martire che singhiozza; la festa che insaporisce e profuma

il sangue; il tiranno snervato dal veleno del potere e il popolo amante dello

scudiscio che l’abbrutisce; […] ciarliera, ebbra del proprio genio, pazza come era

un tempo, l’Umanità che grida a Dio nella sua delirante agonia: ‘O mio simile, o mio

signore, io ti maledico!’ 54

52 Ibidem, p. 249. 53 Ibidem, p. 251. 54 Ibidem, p. 255.

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Rimane allora l’oblio di un “oppio senza fine”, perché tale è il resoconto del

viaggiatore, tale la fondamentale attitudine umana – la dannazione del peccato:

Amaro sapere, quello che si ricava dal viaggiare! […] Ci mostra la nostra

immagine: un’oasi d’orrore in un deserto di noia!55

Il passo successivo, l’ultimo, è riconoscere un tono familiare allo spettro della

morte:

O Morte, vecchio capitano, è tempo, leviamo l’ancora. Questa terra ci annoia,

Morte. Salpiamo. Se cielo e mare sono neri come inchiostro, i nostri cuori, che tu

conosci, sono colmi di raggi. Versaci, perché ci conforti, il tuo veleno. Noi vogliamo,

per quel fuoco che ci arde nel cervello, tuffarci nell’abisso, Inferno o Cielo, non

importa. Giù nell’Ignoto per trovarvi del nuovo.56

E’ nel fondo dell’abisso, temporale ed esistenziale, che l’uomo può conoscere

la verità, non altrove: per trovare la strada occorre perderla.

Il sentimento della nostalgia ritorna anche nella Tristezza della luna; il suo

solitario chiarore è uno specchio per la malinconia del poeta – una malinconia

creatrice. L’istintivo paragone con la donna vive di un’immagine dolcissima:

Quando, nel suo languore ozioso, ella lascia cadere su questa terra una lagrima

furtiva, un pio poeta, odiatore del sonno, accoglie nel cavo della mano questa

pallida lagrima dai riflessi iridati come un frammento d’opale, e la nasconde nel suo

cuore agli sguardi del sole.57

Quest’invocazione alla bellezza salvatrice è anche il ricordo di un originario,

antico, dimenticato rapporto materno tra uomo e natura: la lacrima infatti non è

solo il segno dell’emozione suscitata, ma altresì il nutrimento di una madre al

proprio figlio - Madre Natura che dà la vita e benedice le sue creature. La

dimensione della religiosità baudelaireiana raggiunge qui una grazia ed una unità

espressiva assolute.

Diametralmente opposte sono le poesie che compongono i Quadri parigini. La

prima, Paesaggio, è uno sguardo sulla città, vera foresta di simboli; l’oggettiva

55 Ibidem, p. 257. 56 Ibidem, p. 259. 57 Ibidem, p. 119.

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trasmissione dell’immagine è solo un ricordo. Dalla propria mansarda il poeta

osserva gli spazi straordinari creati dall’uomo e dalla sua follia moderna; in lui il

sentimento della rivolta si accompagna al piacere dell’evocazione – prese parte

al ’48, Baudelaire, ora confessa di voler

far nascere un sole nel mio cuore e di trasformare i miei pensieri ardenti in una

tiepida atmosfera.58

Il sapore della sconfitta è acre quanto il carbone scavato e lavorato nelle grigie

cattedrali del dolore – le fabbriche di fronte a sé. Ultima barriera, che comunque

sa di dover presto cedere, è il ricordo, in particolare quello mitico.

Ne Il cigno di miti ne troviamo tre: Andromaca59, ovvero la schiavitù, il cigno, la

bellezza ferita, e la prostituta, l’integrità e la natura. Dice Baudelaire rivolgendosi

ad Andromaca, che ben conosce le rivoluzioni, la nobiltà come l’oppressione:

La vecchia Parigi non esiste più (l’aspetto d’una città muta più presto, ahimè, che il

cuore dell’uomo)60.

Il poeta non è ancora pronto, e non è affatto detto che lo sarà in futuro, ad

adattare i suoi occhi ed il suo spirito alle baracche ed alle cianfrusaglie, al falso

progresso in cui si muove la sua città; questo spazio contemporaneo distrugge la

memoria e l’attenzione all’altro, la generosità propria dell’amore materno è

rimpiazzata dalla produzione e dal profitto.

E’ in una tale ingiustizia che il poeta trova il mito:

Laggiù stava un giorno un serraglio, e là io vidi, un mattino, all’ora in cui sotto cieli

freddi e chiari il Lavoro si sveglia, e gli spazzini levano un oscuro uragano nell’aria

silenziosa, un cigno evaso dalla gabbia: con i piedi palmati fregava il selciato arido,

trascinando il bianco piumaggio sul terreno accidentato. Presso un ruscello secco

l’animale, aprendo il becco, immergeva febbrilmente le ali nella polvere, e diceva, il

cuore tutto memore del suo bel lago natìo: ‘Quando scenderai, acqua, quando

esploderai, fulmine?’ Vedo quel misero, strano e fatale mito, verso il cielo, talvolta,

58 Ibidem, p. 149. 59 Moglie del principe troiano Ettore e madre di Astianatte. Dopo la morte del marito e la caduta di Troia fu assegnata a Neottolemo, figlio di Achille, al quale diede tre figli. Dopo la morte di Neottolemo, sposò Eleno, fratello di Ettore, e regnò con lui sull’Epiro. 60 Ibidem, p. 155.

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verso il cielo ironico e crudelmente azzurro […] in atto di lanciare rimproveri a

Dio.61

La bellezza, imprigionata dalla modernità e dal brutto, cerca la libertà

all’interno della città – se Parigi è il simbolo dei guasti della rivoluzione

industriale, è anche fonte di ispirazione. Questa possibilità di riscatto, anima

affine alla necessità di sopravvivenza, è rappresentata dalla prostituta quanto da

ogni uomo triste e sconfitto:

Penso alla negra smagrita e tisica scalpicciante nel fango, in atto di cercare, col

suo occhio sconvolto, gli alberi di cocco assenti dalla superba Africa dietro il muro

immenso della nebbia; penso a chiunque ha perduto quel che non si ritrova mai

più, a coloro che si saziano di lagrime succhiando il Dolore come una buona lupa,

ai magri orfanelli appassentisi come fiori! Così, nella foresta ove il mio spirito si

rifugia, un vecchio Ricordo suona a perdifiato il suo corno. E penso ai marinai

dimenticati su un’isola, ai prigionieri, ai vinti…e a molti altri ancora!62

Il sentimento di compassione immerge ora il poeta nella sofferenza del

mondo. Nella foresta pietrificata della modernità, è il “vecchio Ricordo”, il Mito, a

regalare rifugio ed a disegnare un senso universale nella cornice del disastro. Il

greco µυθοσ, infatti, significa racconto; è la narrazione di un valore, il linguaggio

di un sentimento, ed ha in sé tutto, compreso il negativo, dunque esula

decisamente dalla verificabilità scientifica propria della modernità e del suo Dio

bicefalo – l’Utilità e la Validità.

Se l’attuale modello di comprensione dell’evento si basa sulla sua

razionalizzazione, il mito è “parola vera”, significato che orienta un

comportamento senza mai ridursi ad una formula. Esso è sempre uguale a se

stesso, è classico, ma cambia continuamente, è sempre nuovo per ogni volta

che viene letto, stratificazione di senso e sua stessa eternità, non consegue un

fine al di là della propria esemplare esistenza. Il mito non crea quello che è

generalmente chiamato ‘rapporto’, ovvero più onestamente una dipendenza, per

ricavarne un uso materiale; il mito è pratico in quanto etico – assoluto. Per

esprimersi ha bisogno dell’arte, l’arte è la sua azione. Il mito non si fa ridurre

61 Ibidem, p. 157. 62 Ibidem, p. 159.

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all’univocità, rimane vario e sovversivo63, mai dominabile da un ordine sociale; è

unico, dunque uno, pur rimanendo molteplice – in quanto la realtà è molteplice

nella forma, la sua unità solo nascosta dietro i veli tessuti dall’uomo.

L’esigenza baudelaireiana di una mitologia contemporanea, che trova luce

nella sua poesia, è un vero e proprio atteggiamento di fede verso una verità non

razionalizzabile. Il mito non è per lui un interesse archeologico, bensì

un’esigenza etica - la ribellione sempre presente nell’io più profondo, il più alto

segno della sua dignità: ecco l’eroismo della vita quotidiana, la capacità di

resistere nelle attuali condizioni di vita senza mai perdere la volontà del

cambiamento. Il mito testimonia un senso laddove sembrerebbe non esserci più

spazio né per l’arte né per i suoi figli.

“Ho conosciuto tutto, ma non conosco la verità” confessa il Faust di Goethe,

comprendendo il vero termine del suo peccato - la vanità della scienza e non il

rapporto con il male. Così è la modernità: si crogiola nel suo sapere e nella sua

tecnica aspettandosi più potere ed un più facile uso della natura – è la modernità

il più forte demonio: si vuole sostituire a Dio imprigionando ogni essere, modifica

gli spazi e distorce il percorso del tempo aumentandone la velocità.

“Chi ha cercato davvero la verità della vita, sarà salvo” conclude Faust: ed

allora Baudelaire è l’angelo stesso di questa salvezza, la sua vita ed i suoi scritti

le immortali pagine nel sacro libro dell’etica.

Spleen:

Pluvioso, irritato contro l’intera città, versa dalla sua urna a grandi zaffate un freddo

tenebroso sui pallidi abitanti del vicino camposanto, rovesciando, sui quartieri

brumosi, la morte. Il mio gatto, alla ricerca di un giaciglio sul pavimento, agita

incessantemente il suo corpo magro e rognoso; l’anima d’un vecchio poeta erra

nella grondaia con la voce triste d’un fantasma infreddolito. La campana che si

lagna e il tizzo che fa fumo accompagnano in falsetto la pentola raffreddata; intanto

in un mazzo di carte dall’odore nauseante, lascito fatale d’una vecchia idropica, il

63 Οι µιτιοται, letteralmente “quelli del mito”, formavano un gruppo di eversori attivo nell’antica Grecia.

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bel fante di cuori e la regina di picche chiacchierano sinistramente dei loro amori

defunti.64

Il grande cambiamento è arrivato ed è rimasto; i poeti e gli operai lo subiscono

più di altri. Il rientro nell’interiorità è un rifugio, non una fuga – difatti Baudelaire

comunque scrive, racconta, vuole esprimersi; e pensiamo poi al suo uomo di

mondo, l’uomo nel mondo, il dovere morale di esserci, ora più che mai.

La realtà storica è materializzata nelle parole di Baudelaire: la vittoria

ingannatrice della modernità è nel triste incedere del fantasma infreddolito – così

al poeta, la cui suprema sensibilità ha interiorizzato il peccato della società,

rimane l’immaginazione e la creazione: bellezza e crudeltà, non poco.

Se lo spazio dell’artista ha ora la dimensione della sua stanza, la limitatezza

dei suoi stenti, mai come oggi l’artista è libero. Se non è utile, non può essere

usato; e se non può essere usato, non può essere ingannato, né sfruttato o

prosciugato – ci sarà sempre.

Questo sentimento di libertà mi rimanda ad uno dei testi fondamentali del

taoismo:

Hui-zi disse a Chuang-tzu: “C’è un grande albero che chiamano ailanto. Per

tagliare il suo tronco nodoso non vale l’uso del filo a piombo e dell’inchiostro, i suoi

rami contorti non possono essere tagliati secondo il compasso e la squadra. Si

erge lungo la strada, ma nessun carpentiere gli concede uno sguardo. Così sono le

vostre parole, vaste e inutili e tutti sono unanimi nel rifiutarle.” […] Rispose

Chuang-tzu: “Avete un grande albero e vi preoccupate della sua inutilità. Perché

non lo piantate nel paese del nulla e dell’infinito? Tutti potranno passeggiare a

piacere sotto la sua ombra e sdraiarvisi a proprio agio. Non subirà i colpi dell’ascia

né l’attacco degli altri esseri. Come può dunque la sua inutilità impensierirvi?“65

Non si possono ricavare tavole dall’ailanto, né denaro dalla lettura di una

poesia; ma tutto ciò che si presta ad un uso materiale, proprio per questo

perisce. L’albero che nasce su un terreno desertico non dovrà temere nessuno,

ma anzi darà ombra al viandante stanco; così il poeta ed ogni artista – non

servono a nulla, non sono riducibili: perché sono liberi.

64 Ibidem, p. 129. 65 Zhuang-zi [Chuang-tzu], Adelphi, Milano 1992, pp. 18-19.

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Come dice Chuang-Tzu, non servire a nulla è dunque una caratteristica di cui

ci si dovrebbe rallegrare.

4. ARTE COME ANARCHIA

L’invincibile curiosità di Baudelaire, fatale alla sua sensibilità ma fondamentale

per la sua creazione artistica, è paragonabile ad un perenne stato di

convalescenza: la malattia è l’insita dualità umana, il peccato la modernità, la

cura sperimentale l’arte. Simile all’ebbrezza dell’infanzia questa indefinita

situazione porta con sé la facoltà di vedere con uno sguardo intenso il nuovo in

ogni cosa, quasi soggetto ed oggetto si unissero in un’estasi estetica

perentoriamente presente.

Punta lucente di questa sofferente lancia creativa è il potere della visione, il

quale restituisce alle cose tutte quella pienezza formale ed espressiva che la

quotidianità ha da tempo battezzato come un passato non più culturalmente

proponibile.

Il flusso torrenziale di tale vitalità, pur sempre toccato dalla malinconica natura

del suo triste destino, è cavalcato dall’immaginazione e dal suo potere di

sperimentazione; ecco perché, parafrasando Wind66, penso a Baudelaire ed alla

sua arte come all’anarchia ed alla sua libertà. L’occhio del poeta dev’essere già

un atteggiamento mentale – il sentire la vita prima di tutto con la sincerità e la

sua intransigente etica, poi anche con l’intelligenza ed il suo spirito di

ricostruzione.

Come l’attore diderotiano conduce ed e-duce il pubblico verso una più

completa consapevolezza filosofica, così l’uomo di mondo baudelaireiano sposa

la folla e cerca la vita nella sua molteplicità – moi insatiable du non-moi, io

insaziabile di non-io.

66 Edgar Wind, Arte e Anarchia, Adelphi, Milano 1968.

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L’originalità e la forza di quest’ultimo atteggiamento sta poi anche

nell’innocenza figlia dell’ironia - quell’incosciente gioia del convalescente che,

seppur ben consapevole della dannazione disegnata sul suo volto dalla sua

stessa insanabile ferita, comunque vive e vuole vivere le manifestazioni

dell’essenza vitale in ogni loro forma. E’ evidentemente il caso del dandy,

sacerdote e vittima di se stesso, che si sottrae ed odia la civiltà dell’utile, ma non

ne esce, vuole combatterla dal di dentro, pronto a morire con lei. L’opposizione e

la rivolta del dandy sembrano il lento compiersi di un suicidio, nella

consapevolezza e nell’onore di essere “l’ultimo bagliore di eroismo nei tempi

della decadenza” – ovviamente, lo stanco bagliore di un tramonto. Quella

maschera che Diderot voleva togliere al proprio attore, il dandy forse la indossa,

ma solo per poterla poi distruggere – è egli stesso infatti il suo pubblico, le

sporche strade delle grandi città il suo palcoscenico.

Tutte le dualità affrontate da Baudelaire - la teatralità e la sincerità, la natura

madre e la città matrigna, la solitudine e la folla, l’eterno e il transitorio, la nobiltà

e l’impegno sociale – non si risolvono né si annullano: semplicemente sono e

convivono nel senso che si intervallano e si sovrappongono. Il magnetismo del

simbolo è il linguaggio unificatore di questa realtà, e l’arte è soprattutto simbolo;

essa è per Baudelaire contemporaneamente ricezione e pensiero, esperienza e

creazione, differenza ed identità.

Esattamente in ciò risiede il motivo per il quale la società, alternativamente,

cerca di osteggiarla oppure di accoglierla in sé per poi governarla, comunque di

diminuirne in qualche modo l’energia giudicata incontrollabile ed anti-moderna:

l’arte è anarchia in quanto sprigiona minacciose forze immaginative che non

sono serve di nessuno, che cominciano come finzione e finiscono come realtà,

che uniscono in un gesto artista e pubblico, esecutore e fruitore, le parti ed il

tutto.

Il “sacro timore”, θειοσ φοβοσ, di cui parlava Platone nella Repubblica

rivolgendosi all’arte, era l’espressione di un sospetto – che la forza

dell’immaginazione potesse mutare l’uomo: la drastica istituzione del censore ne

fu la più nota conseguenza. Tuttavia, racconta Wind

Possiamo imparare molto da Platone, se osserviamo il suo censore all’opera, come

lo immagina lui, e la procedura che egli consiglia allo Stato Ideale, ogni volta che

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deve bandire ufficialmente un poeta pericoloso. “Se un tale uomo” scrive “viene da

noi per mostrarci la sua arte, ci mettiamo in ginocchio davanti a lui, come davanti a

un essere raro e santo e dilettevole”; ma non gli permetteremo di rimanere tra noi.

“L’ungeremo con la mirra e gli porremo un serto di lana sulla testa, e lo manderemo

via, in un’altra città”. 67

La pienezza di natura, dunque la compresenza degli opposti, che il grande

artista porta con sé è la misura del suo pericolo: la ragione può venirne

schiacciata non potendo semplificarne la forma o banalizzarne il contenuto.

Eppure la classicità che nutre il sacro timore per l’arte, è una cultura che esprime

rispetto per la poesia. A secoli di distanza, in un diversissimo contesto culturale,

la motivazione e la maniera di combattere l’arte sono mutate.

In un progetto socio-economico che non ammette l’attività fuori dal profitto né

tollera la differenza consapevole di sé, l’arte ed i suoi “seguaci” paiono potenti

nemici innamorati dell’assurdo e pronti alla rivolta. Il “sacro timore” è divenuto

disprezzo, il bando si è tramutato nel più efficace inganno – esattamente ciò che

ha vissuto e compreso Baudelaire.

Si è visto più volte, infatti, come la censura operi alla stregua di una potatura:

essa conferisce nuovo vigore ha ciò che ha tagliato, e dunque rafforza invece di

indebolire. Si è allora attuata, con successo, la strategia opposta. La grande

offerta di arte al pubblico a cui noi oggi assistiamo nasce proprio nella modernità

della rivoluzione industriale, nella falsità della riproduzione: i Salons, per

esempio, cessano quasi subito di essere luoghi dell’autodeterminazione degli

artisti per diventare proiezioni più o meno fedeli delle accademie e dunque del

governo.

L’offerta è una proposta di scambio. L’apparente resa della società all’arte, a

cui viene concesso di entrare nella vita quotidiana, di non essere quindi più

episodico e dionisiaco straniamento, porta già in sé un furto ed una condanna: la

prima conseguenza della diffusione è difatti la perdita della densità - quando è

così familiare, la scossa non può più toccare le profonde arterie della terra. L’arte

ben accetta ed addomesticata non può che essere una decorativa, didascalica e

limitata espressione umana – penso alla moda nella maniera in cui l’intendeva

Baudelaire, e vedo i rassicuranti paesaggi del suo tempo attraverso il suo occhio

67 Ibidem, p. 21.

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irato: tali atteggiamenti sono la negazione della virtù dell’etica ed il tradimento

della sacralità dell’estetica.

Il do ut des del mercato ha concluso un’altra compra-vendita: la visibilità

dell’arte è stata pagata con il disinnesco della sua carica esplosiva. Baudelaire si

rese conto che il “sacro timore” non accompagnava più le sue gesta, che

l’armonia da lui cercata sarebbe rimasta nascosta sotto la polvere del progresso,

che il tipo di arte a cui assisteva aveva smesso di preoccupare. Ciononostante

non interruppe mai la sua lotta, né concepì altri modi d’espressione oltre quelli

più assoluti – è da intendersi in questo senso la sua ammirazione per il

Romanticismo, la sua disperazione per la morte di Delacroix, incompreso profeta

della vera arte.

Affacciato sul burrone della storia, con i piedi che calpestano una terra che sta

per crollare, Baudelaire stesso è Il Sole,

padre fecondo […], cuore immortale che vuol sempre fiorire. Quando, simile al

poeta, scende nelle città, nobilita le cose più vili e s’introduce da re senza rumore,

senza paggi, entro tutti gli ospedali e tutti i palazzi.68

68 Baudelaire, I fiori del male, cit., p. 151.

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BIBLIOGRAFIA

Charles Baudelaire, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1992.

Charles Baudelaire, I fiori del male, Einaudi, Torino 1981.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997.

Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995.

Zhuang-zi [Chuang-tzu], Adelphi, Milano 1992.

Edgar Wind, Arte e Anarchia, Adelphi, Milano 1968.