“Battezzai l’articolo 18, va depurato (dei tempi del tribunale)” Salvatore Trifirò

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 Approfondimenti MILANO — Se domani mattina fosse abroga- to interamente l’articolo 18, il diritto dei lavora- tori ad essere licenziati con una giusta causa o motivazione resterebbe assolutamente inaltera- to. Questo passaggio, scontato per sindacalisti e avvocati giuslavoristi, forse è uno di quelli che emergono meno dall’attuale dibattito sul tema. Una precisazione che non scalfisce minimamen- te l’importanza dell’articolo 18 come deterrente e «pilastro di civiltà» così come lo definisce il segretario della Cgil Susanna Camusso. «Ma è indubbio che su questo tema ci sia bisogno di maggiore chiarezza — precisa Franco Toffolet- to, avvocato giuslavorista, socio dello studio Toff olett o, De LucaTamajo—. Inna nzit utto , l’ar- ticolo 18 non è la norma che disciplina il diritto dei lavoratori a ricevere un licenziamento con moti vazione,come preve donoi prin cipi didirit- toeuropeo.Tale normun’al tra,e preci samen - te l’articolo 3 della legge del 1966, numero 604 cheprevede, appunto, che il licen ziame nto deb- ba essere motivato: con una giusta causa, senza preavviso con effetto immediato, o per giustifi- catomotivo , sogg etti vo od ogge ttiv o, conpreav-  viso. Quindi l’articolo 18 si occupa di altro. Si occupa dei rimedi contro un licenziamento che sia ritenuto dal giudice privo di giusta causa o di giustificato motivo oggettivo o soggettivo». In tema di rimedi però l’applicazione rimane ristretta: infatti in Italia il giudice può solo deci- dere per la conferma del licenziamento oppure per il reintegro del lavoratore. In quest’ultimo caso solo lo stesso lavorat ore può decide re di rinun ciarvi a favore di un pagamento in denaro. E se il dipend ente optaper ilrisarcimen to,il da- tore di lavoro non può sottrarsi al pagamento nemmeno dichiarandosi disponibile alla reinte- grazione. Da alcuni giorni circolano delle stime attribuite alla Cgil: su 31 mila cause contro i li- cenziamenti considerati illegittimi soltanto l’1%, negli ultimi cinque anni, si sarebbe risolta con il reintegro del lavoratore. Valutazioni che la Cgil però smentisce. «Resta il fatto che nella stragrande maggioranza dei casi il lavoratore sceglie proprio l’indennizzo — conferma Toffo- letto —. Nella mia carriera ho visto solo pochi casi di lavoratori che scelgono di tornare in un ambiente ostile e avverso. Senza considerare che in molti dimenticano che il reintegro non significa tornare a lavorare ma semplicemente tornare a prendere lo stipendio. Come insegna il caso Fiat di Pomigliano, infatti, sono r arissimi i casi di aziende che ricollocano nello stesso po- stodi la voroun dipen denteche avevan o riten u- to giusto poter licenziare. Solo in alcuni conte- stisocio-eco nomi ci delMeridion e ho vistolavo- ratori accettare il reintegro, perché in certe si- tuazioni è meglio riappropriarsi di uno stipen- dio piuttosto che di un risarcimento. Non biso- gna dimenticare infatti che in caso di indenniz- zo è previsto il pagamento di almeno 15 mensilità, oltre al risarcimento del danno di al- meno cinque mesi. Ma può essere molto di più: 2, 3, 4, 5 annidi retribuz ione aseconda di quan- to è durato il processo». È forse per questo che da qualche tempo sull’articolo 18 esiste anche il «partito» di chi chiede una gamma più ampia di rimedi da mettere in mano al giudice. «E qui sta il punto —osserva Toffoletto —. In tutti gli altri paesi europei, tranne la Germania, il Portogallo e pochi altri paesi dell’ex blocco sovietico, non è così.In tutt i gliordiname ntiesiste la possibili- tà di ottenere la reintegrazione ma solo in casi molto particolari e comunque fondati su discri- mina zioni. Difatto nonaccademai. Tutti i giud i- ci e avvocati inglesi che h o incontrato mi hanno riferito di non aver mai visto un caso di reinte- grazione. Invece da noi è l’esatto contrario. Quello che per gli altri paesi è una rarissima ec- cezione, da noi è una regola intoccabile, perché il giudice, non può, anziché ordinare la reinte- grazione condannare il datore di lavoro a corri- spondere una somma di denaro». Dunqueun iperprotezionismoche creal’ano- malia italiana? «Niente affatto — obietta Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil — proviamo a guardare in Europa la nazione che più di ogni altra è la nostra concorrente nel ma- nifatturiero: la Germania. Ci accorgeremo che lì le regole sono molto più restrittive. Non biso- gna dimenticare che in Italia l’articolo 18 viene applicato solo alle aziende con più di 15 dipen- denti, in Germania invece questa norma vale per chi ha più di 10 dipendenti il che eq uivale a circa l’80 per cento di tutte le aziende tedesche. Non mi pare che quello teutonico possa essere indicato come un modello ingessato ed econo- micamente poco produttivo. Inoltre, parlando di articolo 18, qualcuno fa finta di dimenticare la funzione deterrente di questa norma: per un lavoratore che sa di non poter essere licenziato senza un giustificato motivo diventa più facile far valere altri diritti essenziali». Al di sopra di tutto il dibattito però aleggia sempre il problema della lunghezza di questi proces si chespesso lascian o dipendent i e azien- de nell’incertezza di diritto per un lasso di tem- po che può raggiungere anche otto o dieci anni. «Noi siamo stati i primi a chiedere di accorciare i tempi dei processi — fa notare Fammoni — maperfarlononsi possocerto tr ova recurepeg- giori della malattia come nel caso degli arbitrati che introducevanopericolosissimi deroghe a di- ritti essenziali. Siamo favorevoli a strumenti al- ternativi al processo classico. In tante parti del contratto di lavoro esistono spiragli per trovare sistemi di conciliazione tra le parti. Anche nel  vecchio, ma sempre valido, statuto dei diritti del lavoro c’èun articolo, ilnumero 28, che per- metter ebbe di creare una corsia preferenzi ale per le controversie di lavoro e che porterebbe a senten ze inpochi mesi.Inutile dir e che nonser-  vono riforme e che semp licemente bisognereb- be far funziona re gli ufficigiudizi ari. La macchi - na dellagiustizi lenta ? Trovia mo soluzio nial- ternative. Ma di sicuro l’unica soluzione non praticabile è quella di eliminare le tutele per i lavor ator i».Trovarenuovesoluzioni . Maga rian- che per evitare che le imprese con meno di 15 dipen dent i abusi nodi contratt i flessi bilie prec a- ri pur di non assumere e quindi superare la fati- dica soglia che conduce al temuto articolo 18. La sfida è proprio questa: mantenere le tutele senza che queste si trasformino in deterrenti al- lo sviluppo e all’impiego. Al governo spetta la prossima mossa. Isidoro Trovato [email protected] ©RIPRODUZIONERISERVATA Tr a gi us ta ca us ae ri sa rc imento del la vo ra to re 15 » Sarebbero 31 mila le cause tra aziende e lavorato ri legate all’arti colo 18 Avvocato Salvatore Trifirò è avvocato dal 1955. Negli Settanta diventa uno specialista del diritto del lavoro e il suo studio un punto di riferimento per il mondo imprenditoriale I mesi di stipendio a cui ha diritto, in alternativa al reintegro, il dipendente licenziato senza giusta causa dall’azienda che ottiene una sentenza favorevole dal giudice sulla base dell’articolo 18. È una forma di indennizzo per evitare il rientro in un ambiente compromesso  Caro Direttore, avendo tenuto «a battesimo» l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, come tra un momento ricorderò, vorrei interveni re per dire ciò che non mi risulta sia stato fin qui detto: a conferma che lo stesso, da un lato, non difende ormai il «posto fisso» e, dall’altro, non rappresenta un impedimento alla «flessibilità in uscita». In questi ultimi 40 anni dal 1970, data di entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, ad oggi, i tempi sono profondamente cambiati e… anche i giudici (nel senso che non si vive più quel clima di «soccorso rosso» che ha caratterizzato la «Giustizia» di quegli anni, con lo sconvolgimento dell'organizza zione aziendale e peggio). Nessuno dice, infatti, che, ormai da tempo, il dipendente «reinteg rato» non chiede più di essere forzosamente «installato» nel posto di lavoro, come accadde tanti anni fa, in occasione della prima causa che si fece in Italia in applicazione dell'art. 18 (con me in difesa e Gino Giugni, padre dello Statuto, in attacco). A nulla valsero allora le difese della società, che sosteneva l'impossibilit à giuridica di una reintegrazione fisica nel posto di lavoro sulla base del principio che «nemo ad factum cogi potest» (nessuno può essere costretto a fare ciò che non vuole), così come una cantante che non vuol cantare non la si può costringere con le verghe. Non ci fu niente da fare: il dipendente «reintegrato» venne accompagnato dai carabinieri in azienda e fu fisicamente «installato» nel posto di lavoro. Seguì da lì in avanti una lunga serie di casi simili. D'altra parte era l'epoca in cui i giudici, politicizzati, durante la trattazione di cause relative a pretesi comportament i antisindacali (art. 28 dello Statuto) non esitavano a rivolgersi ai legali del sindacato, domandando: «Dove sono i nostri testi?». Oggi, però, come accennavo, i tempi sono cambiati. Il dipendente, ottenuta la reintegraz ione, difficilmente si presenta in azienda. Si limita a chiedere l'equivalente di 15 mensilità di retribuzione in alternativa alla reintegrazione, come pure previsto dallo stesso art. 18. La stortura della norma, se di ciò trattasi, è semmai conseguenza del mal funzionamen to della giustizia. La norma, infatti, aggiunge a quelle mensilità il pagamento delle retribuzioni non percepite dalla data di licenziamento fino a quella della effettiva reintegrazi one e, poiché la giustizia  va «a passo di lumaca» (vedi per i rim edi il suggerimen to di Trimarchi , su questo stesso giornale del 5 febbraio), il datore di lavoro spesso si vede esposto ad un onere risarcitorio che può divenire ingente a seconda della durata del processo. Questo non significa, tuttavia, che il dipendente licenziat o, per una giusta causa poi dichiarata inesistente, non venga subito allontanato dall'azienda. In questo senso, quindi, un problema di flessibilità in uscita non si pone perché il dipendente, a torto o a ragione, viene subito estromesso. Né si pone oggi, come già detto, un problema per il lavoratore ingiustamente licenziato perché quest'ultimo opta ormai quasi sempre per la monetizzazione. L'art. 18 è, dunque, solo uno spauracchio, ingigant ito dalle lunghe discussioni che si sono fatte e che viene agitato, o dall'una o dall'altra parte, più per una questione di «bandiera» che di vera sostanza. La norma, a mio avviso, può sopravvivere senza intaccare, da un lato, la flessibilità in uscita; dall'altro la certezza dei lavoratori circa la tenuta del loro contratto di lavoro: sia a tempo indeterminato che a tempo determinato. Per conciliare le opposte esigenze, sarebbe sufficiente sostituire la reintegra zione «forzosa» con la «reintegr azione per equivalente» e ciò nella misura già prevista dallo stesso art. 18 (o altra da concordare), con la sola esclusione del pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegra zione e con il solo limite, è ovvio, della reintegrazione forzosa per i licenziamenti discriminatoriSalvator e Trifirò ©RIPRODUZIONE RISERVATA L ICENZIAMENTO O R EINTEGRO V INCE LA S CELTA DELL’ I NDENNIZZO Chi è Salvator e Trifirò «Battezzai l’articolo 18, va depurato (dei tempi del tribunale)» 13 Primo Piano Corriere della Sera  Mercoledì 8 Febbraio 2012

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Rassegna Stampa Trifirò & Partners Avvocati - Corriere della Sera: 08/02/2012

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5/13/2018 Battezzai l articolo 18, va depurato (dei tempi del tribunale) Salvatore Trifir...

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Approfondimenti

MILANO — Se domani mattina fosse abroga-to interamente l’articolo 18, il diritto dei lavora-tori ad essere licenziati con una giusta causa omotivazione resterebbe assolutamente inaltera-to.

Questo passaggio, scontato per sindacalisti eavvocati giuslavoristi, forse è uno di quelli cheemergono meno dall’attuale dibattito sul tema.Una precisazione che non scalfisce minimamen-te l’importanza dell’articolo 18 come deterrentee «pilastro di civiltà» così come lo definisce ilsegretario della Cgil Susanna Camusso. «Ma èindubbio che su questo tema ci sia bisogno dimaggiore chiarezza — precisa Franco Toffolet-to, avvocato giuslavorista, socio dello studioToffoletto, De LucaTamajo—. Innanzitutto, l’ar-ticolo 18 non è la norma che disciplina il dirittodei lavoratori a ricevere un licenziamento conmotivazione,come prevedonoi principi didirit-toeuropeo.Tale norma è un’altra,e precisamen-

te l’articolo 3 della legge del 1966, numero 604 cheprevede, appunto, che il licenziamento deb-ba essere motivato: con una giusta causa, senza preavviso con effetto immediato, o per giustifi-

catomotivo, soggettivo od oggettivo, conpreav- viso. Quindi l’articolo 18 si occupa di altro. Sioccupa dei rimedi contro un licenziamento chesia ritenuto dal giudice privo di giusta causa odi giustificato motivo oggettivo o soggettivo».

In tema di rimedi però l’applicazione rimaneristretta: infatti in Italia il giudice può solo deci-dere per la conferma del licenziamento oppureper il reintegro del lavoratore. In quest’ultimocaso solo lo stesso lavoratore può decidere dirinunciarvi a favore di un pagamento in denaro.E se il dipendente optaper ilrisarcimento,il da-tore di lavoro non può sottrarsi al pagamentonemmeno dichiarandosi disponibile alla reinte-grazione. Da alcuni giorni circolano delle stimeattribuite alla Cgil: su 31 mila cause contro i li-cenziamenti considerati illegittimi soltantol’1%, negli ultimi cinque anni, si sarebbe risolta con il reintegro del lavoratore. Valutazioni chela Cgil però smentisce. «Resta il fatto che nella stragrande maggioranza dei casi il lavoratore

sceglie proprio l’indennizzo — conferma Toffo-letto —. Nella mia carriera ho visto solo pochicasi di lavoratori che scelgono di tornare in unambiente ostile e avverso. Senza considerare

che in molti dimenticano che il reintegro nonsignifica tornare a lavorare ma semplicementetornare a prendere lo stipendio. Come insegna il caso Fiat di Pomigliano, infatti, sono rarissimii casi di aziende che ricollocano nello stesso po-stodi lavoroun dipendenteche avevano ritenu-to giusto poter licenziare. Solo in alcuni conte-stisocio-economici delMeridione ho vistolavo-ratori accettare il reintegro, perché in certe si-tuazioni è meglio riappropriarsi di uno stipen-dio piuttosto che di un risarcimento. Non biso-

gna dimenticare infatti che in caso di indenniz-zo è previsto il pagamento di almeno 15mensilità, oltre al risarcimento del danno di al-meno cinque mesi. Ma può essere molto di più:2, 3, 4, 5 annidi retribuzione aseconda di quan-to è durato il processo». È forse per questo cheda qualche tempo sull’articolo 18 esiste anche il«partito» di chi chiede una gamma più ampia dirimedi da mettere in mano al giudice. «E qui sta 

il punto — osserva Toffoletto —. In tutti gli altripaesi europei, tranne la Germania, il Portogalloe pochi altri paesi dell’ex blocco sovietico, nonè così.In tutti gliordinamentiesiste la possibili-tà di ottenere la reintegrazione ma solo in casimolto particolari e comunque fondati su discri-minazioni. Difatto nonaccademai. Tutti i giudi-ci e avvocati inglesi che ho incontrato mi hannoriferito di non aver mai visto un caso di reinte-grazione. Invece da noi è l’esatto contrario.Quello che per gli altri paesi è una rarissima ec-cezione, da noi è una regola intoccabile, perchéil giudice, non può, anziché ordinare la reinte-grazione condannare il datore di lavoro a corri-spondere una somma di denaro».

Dunqueun iperprotezionismoche creal’ano-malia italiana? «Niente affatto — obietta FulvioFammoni, segretario confederale della Cgil —proviamo a guardare in Europa la nazione chepiù di ogni altra è la nostra concorrente nel ma-nifatturiero: la Germania. Ci accorgeremo che lìle regole sono molto più restrittive. Non biso-gna dimenticare che in Italia l’articolo 18 vieneapplicato solo alle aziende con più di 15 dipen-denti, in Germania invece questa norma vale

per chi ha più di 10 dipendenti il che eq uivale a circa l’80 per cento di tutte le aziende tedesche.Non mi pare che quello teutonico possa essereindicato come un modello ingessato ed econo-micamente poco produttivo. Inoltre, parlandodi articolo 18, qualcuno fa finta di dimenticarela funzione deterrente di questa norma: per unlavoratore che sa di non poter essere licenziatosenza un giustificato motivo diventa più facilefar valere altri diritti essenziali».

Al di sopra di tutto il dibattito però aleggia sempre il problema della lunghezza di questiprocessi chespesso lasciano dipendenti e azien-de nell’incertezza di diritto per un lasso di tem-po che può raggiungere anche otto o dieci anni.«Noi siamo stati i primi a chiedere di accorciarei tempi dei processi — fa notare Fammoni —maperfarlononsi possocerto trovarecurepeg-giori della malattia come nel caso degli arbitratiche introducevanopericolosissimi deroghe a di-ritti essenziali. Siamo favorevoli a strumenti al-ternativi al processo classico. In tante parti delcontratto di lavoro esistono spiragli per trovaresistemi di conciliazione tra le parti. Anche nel

 vecchio, ma sempre valido, statuto dei dirittidel lavoro c’èun articolo, ilnumero 28, che per-metterebbe di creare una corsia preferenzialeper le controversie di lavoro e che porterebbe a sentenze inpochi mesi.Inutile dire che nonser-

 vono riforme e che semplicemente bisognereb-be far funzionare gli ufficigiudiziari. La macchi-na dellagiustizia è lenta? Troviamo soluzionial-ternative. Ma di sicuro l’unica soluzione nonpraticabile è quella di eliminare le tutele per ilavoratori».Trovarenuovesoluzioni. Magarian-che per evitare che le imprese con meno di 15dipendenti abusinodi contratti flessibilie preca-ri pur di non assumere e quindi superare la fati-dica soglia che conduce al temuto articolo 18.La sfida è proprio questa: mantenere le tutelesenza che queste si trasformino in deterrenti al-lo sviluppo e all’impiego. Al governo spetta la prossima mossa.

Isidoro Trovato

[email protected]

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Tra giusta causa e risarcimento del lavoratore

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Sarebbero 31 mila le cause tra aziende e lavoratori legate all’articolo 18

Avvocato

Salvatore Trifiròè avvocato dal1955. NegliSettantadiventa uno

specialistadel diritto dellavoro e il suostudio un puntodi riferimentoper il mondoimprenditoriale

I mesi di stipendio a cui ha diritto, inalternativa al reintegro, il dipendentelicenziato senza giusta causadall’azienda che ottiene

una sentenza favorevole dal giudicesulla base dell’articolo 18. È una formadi indennizzo per evitare il rientroin un ambiente compromesso

❜❜Caro Direttore,avendo tenuto «a battesimo» l’art. 18 dello

Statuto dei Lavoratori, come tra un momentoricorderò, vorrei intervenire per dire ciò chenon mi risulta sia stato fin qui detto: a conferma che lo stesso, da un lato, nondifende ormai il «posto fisso» e, dall’altro,non rappresenta un impedimento alla «flessibilità in uscita».

In questi ultimi 40 anni dal 1970, data dientrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori,ad oggi, i tempi sono profondamentecambiati e… anche i giudici (nel senso chenon si vive più quel clima di «soccorsorosso» che ha caratterizzato la «Giustizia» diquegli anni, con lo sconvolgimentodell'organizzazione aziendale e peggio).

Nessuno dice, infatti, che, ormai da tempo, ildipendente «reintegrato» non chiede più diessere forzosamente «installato» nel posto dilavoro, come accadde tanti anni fa, inoccasione della prima causa che si fece inItalia in applicazione dell'art. 18 (con me indifesa e Gino Giugni, padre dello Statuto, in

attacco). A nulla valsero allora le difese della società, che sosteneva l'impossibilitàgiuridica di una reintegrazione fisica nelposto di lavoro sulla base del principio che«nemo ad factum cogi potest» (nessuno puòessere costretto a fare ciò che non vuole),così come una cantante che non vuol cantarenon la si può costringere con le verghe. Nonci fu niente da fare: il dipendente«reintegrato» venne accompagnato daicarabinieri in azienda e fu fisicamente«installato» nel posto di lavoro. Seguì da lì inavanti una lunga serie di casi simili. D'altra parte era l'epoca in cui i giudici, politicizzati,durante la trattazione di cause relative a pretesi comportamenti antisindacali (art. 28dello Statuto) non esitavano a rivolgersi ai

legali del sindacato, domandando: «Dovesono i nostri testi?».Oggi, però, come accennavo, i tempi sono

cambiati. Il dipendente, ottenuta la reintegrazione, difficilmente si presenta inazienda. Si limita a chiedere l'equivalente di15 mensilità di retribuzione in alternativa 

alla reintegrazione, come pure previsto dallostesso art. 18. La stortura della norma, se diciò trattasi, è semmai conseguenza del malfunzionamento della giustizia. La norma,infatti, aggiunge a quelle mensilità ilpagamento delle retribuzioni non percepitedalla data di licenziamento fino a quella della effettiva reintegrazione e, poiché la giustizia 

 va «a passo di lumaca» (vedi per i rimedi ilsuggerimento di Trimarchi, su questo stessogiornale del 5 febbraio), il datore di lavorospesso si vede esposto ad un onererisarcitorio che può divenire ingente a seconda della durata del processo.

Questo non significa, tuttavia, che ildipendente licenziato, per una giusta causa poi dichiarata inesistente, non venga subito

allontanato dall'azienda. In questo senso,quindi, un problema di flessibilità in uscita non si pone perché il dipendente, a torto o a ragione, viene subito estromesso. Né si poneoggi, come già detto, un problema per illavoratore ingiustamente licenziato perchéquest'ultimo opta ormai quasi sempre per la 

monetizzazione.L'art. 18 è, dunque, solo uno spauracchio,

ingigantito dalle lunghe discussioni che sisono fatte e che viene agitato, o dall'una odall'altra parte, più per una questione di«bandiera» che di vera sostanza.

La norma, a mio avviso, può sopravviveresenza intaccare, da un lato, la flessibilità inuscita; dall'altro la certezza dei lavoratoricirca la tenuta del loro contratto di lavoro:sia a tempo indeterminato che a tempodeterminato. Per conciliare le opposteesigenze, sarebbe sufficiente sostituire la reintegrazione «forzosa» con la «reintegrazione per equivalente» e ciò nella misura già prevista dallo stesso art. 18 (oaltra da concordare), con la sola esclusione

del pagamento delle retribuzioni dalla data del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione e con il solo limite, è ovvio,della reintegrazione forzosa per ilicenziamenti discriminatori.

Salvatore Trifirò

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LICENZIAMENTO O REINTEGRO

VINCE LA SCELTA DELL’INDENNIZZO

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Salvatore Trifirò

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5/13/2018 Battezzai l articolo 18, va depurato (dei tempi del tribunale) Salvatore Trifir...

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