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Bassel Bakdounes

MarketingHeroes

Fare Impresa tra Manga e Rock’n’RollLa Storia di Velvet Media

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Testi di Bassel Bakdounes e Alessandro Zaltron

Prima edizione: dicembre 2018

Pubblicato da Velvet Media Italia srlVia delle Querce, 7 - Castelfranco Veneto (TV)www.velvetmedia.itfacebook velvetmediainstagram velvetmedia

© Tutti i diritti non sono riservati.È assolutamente consigliata qualsiasi utilizzazione, totale o parziale,dei contenuti inseriti nel presente libro, ivi inclusa la memorizzazione,riproduzione, rielaborazione, diffusione o distribuzione dei contenuti stessimediante qualunque piattaforma tecnologica, supporto o rete telematica,cinema, radio e tv. Rock’n’roll...

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A tutta la Squadra VelvetQuelli nuovi e quelli che c’erano dal primo giorno.

Siete l’anima di queste pagine

A mio cugino MartinoIl mio primo amico, il mio primo capo, il mio primo esempio.

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Indice

11 About “Marketing Heroes” di Valentina 13 Introduzione di Cristiano Ottavian 17 Introduzione di Sebastiano Zanolli 19 Prefazione dell’autore

Parte I - Da zero a cento

27 10 secondi 37 God save the Queen 47 Legnetti 55 Polli ed Eventi 63 La sconfitta più bella 71 Get the party started 81 Stile Ferrari 89 Latin Lover 99 Straight way to hell 117 Velvet

Parte II – Mia madre cita Socrate. Io Kenshiro

133 Contro le regole – la libertà (Capitan Harlock) 143 Lo spirito di squadra (Voltron) 153 Voglio diventare il re dei pirati (One Piece) 163 La tana delle tigri (Uomo Tigre) 175 Il pallone è il tuo miglior amico (Holly e Benji) 185 Osserva, copia, migliora (Naruto) 195 Gli eroi (r)esistono (I Cavalieri dello zodiaco) 205 Bruciare tutto, fino alle bianche ceneri (Rocky Joe) 217 Nessun rimpianto (Ken il guerriero) 233 Grandi poteri - Grandi responsabilità (Uomo Ragno)

243 Tre idee prima di salutarvi

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Introduzione

“MARKETING HEROES” non è un libro di marketing

Ma l’ispirazione viene dal marketing e racconta la storia di un “ragazzo” che ha sempre “avuto a che fare” con il marketing. Il marketing è il punto di par-tenza, il fine ed il mezzo.

Racconta di un’agenzia, figlia del nuovo marketing, il marketing ai tempi di internet, dove le dinamiche dei social media hanno rivoluzionato tutto, ma dove le leggi del marketing classico, quello di Philip Kotler, valgono sempre e nonostante tutto. Guai a scordarle!

Parla di persone che lavorano nel marketing. Persone che, grazie al marke-ting e all’ispirazione degli eroi dei cartoni animati e dei fumetti, hanno trovato modo di esprimersi, tirare fuori il carattere, migliorare, crescere, conoscere nuovi colleghi che ora sono amici inseparabili o di innamorarsi. Persone gra-zie alle quali il marketing non è solo fumo e inganno, ma un potente mezzo per migliorare e cambiare le cose. Queste persone sono gli HEROES.

Marketing Heroes è una sorta di pay-off o slogan. Una promessa. Sono le persone per le quali quel “ragazzo” sta dando tutto nei suoi anni migliori, che gli riempiono gli occhi di lacrime e spezzano la voce.

Marketing Heroes… la prima volta che l’ho sentito, ho pensato: WOW!

È anche un titolo per far sì che questo libro non suoni come una biografica arrivata troppo presto o non sia accolto come una presuntuosa lezione di bravura, in un contesto ancora incerto.

È un titolo e un libro per incoraggiare e portare sul palco tutta la ciurma di Velvet con i riflettori sparati.

Valentina

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Introduzione

Introduzione di Cristiano Ottavian

Da tempo Bassel insisteva nel dirmi che avrei dovuto scrivere un mio libro. So anche il perché, e in parte lo condivido. “Prima o poi lo farò” gli rispondevo, e lo sfidavo a fare altrettanto.

Quando mi disse – chiedendomi di scriverne la prefazione – che lui aveva già cominciato il suo, sentii in testa la pallina del segnapunti strisciare dal mio lato… al suo. Accettai. Tanto chi vuoi che lo… ehm... la legga?! Vuol dire che un giorno “pareggeremo”.

Il nostro rapporto, personale e professionale, è sempre stato così, basato sulla “sfida costruttiva”, spesso su piani e campi diversi, e leggendo il suo libro ho capito meglio perché.

Io e Bassel siamo molto diversi, o almeno così possiamo apparire. Cer-chiamo di metterci continuamente e reciprocamente in difficoltà, incas-siamo il colpo e rilanciamo, a volte anche forzatamente, ogni volta di più. Non è il tipico gioco che si instaura fra vecchi amici, è diverso: lo facem-mo da subito, dal primo incontro, senza pensarci; la forte e lunga amicizia

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non c’era, non ne può essere il motivo… neanche ora.

Ricordo la prima volta che lo vidi. Ero nel mio ufficio, mi dissero che era arrivato uno nuovo al marketing, uno strano, con un nome ancora più strano. Non mi meravigliava. La mia collega, Faten, mi aveva abituato ai nomi strani e siriani.

“Guarda, è quello lì!”. Dalla finestra del secondo piano guardai giù, verso il parcheggio, dove un ragazzetto coi capelli sparati camminava avanti e indietro, gesticolava concitato tenendo il cellulare all’orecchio, incravat-tato e abbottonato in un abito scuro. Ora ho messo a fuoco, probabilmen-te stava organizzando – in remoto – qualcuna delle sue iniziative…

Da sempre abbiamo avuto un modo nostro di comunicare, fatto di freccia-te, doppi sensi “carpiati”, incrociando i nostri punti di vista, provocazioni e squilibri, a volte senza paracadute, trasferendoci temporaneamente in un mondo a parte, dando libertà a percezioni e intuizioni che scombinavano e spiazzavano l’altro, o meglio, attraverso l’altro se stessi, e così facendo anche il circostante mondo reale.

Di solito un personaggio scrive un libro alla fine di una carriera, e an-che in questo Bassel ha sovvertito l’ordine usuale delle cose, il consueto, contro le regole del gioco. Come quando – molte volte – gli dicevo cosa non avrebbe dovuto fare in Velvet, e cosa per Velvet invece avrebbe dovuto fare, e puntualmente rielaborava a sua maniera il chiasmo, partorendo attuazioni allineatissime, solo che nella direzione opposta.

È fatto così, e facendo così ha fatto molte cose, compresa Velvet.

Pensavo avesse voluto scrivere questo libro per spiegare che cosa sia veramente la sua creatura, perché quando si entra in Velvet si respira un’atmosfera unica. E ne ho visitate di aziende… Potrebbe averlo scritto per scontornare chi sia lui stesso. O piuttosto come – essendo se stesso – abbia pensato, creato e gestito Velvet. O viceversa come se la sia trova-ta d’improvviso addosso; meglio: dentro. E come continua ogni giorno a sognarla. E a viverla.

Forse tutto questo insieme, come sempre, intensamente.

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Introduzione

Ecco, questo è ciò che troverete ben descritto nel suo libro, come ci ha “dato dentro”, sempre.

Ma per chi è questo libro? Chi può capirlo?

Chi condivide e nutre le stesse passioni? Le culture del punk, dei manga, del marketing? La ricerca del bello, del “gasamento”, del rock’n’roll? Chi ama le sfide, la pallacanestro, i cartoni animati? Chi si sente un supere-roe, o ambisce a essere almeno un eroe?

Io non condivido nulla (o quasi!) di queste sue “bussole”, eppure ho ritro-vato mie verità in ciò che ha scritto Bassel, e quindi in ciò che lui stesso è, e nel suo modo di guidare i ragazzi.

Io non ho fatto (e non avrei mai fatto!) molte delle avventure che legge-rete in questo libro. Nessun rimpianto, almeno credo (capirete!): ne ho passate e ne cercherò di diverse, le mie. Ma una cosa, fra tutte, ti rimane addosso leggendo il libro. È la stessa che – ne sono sicuro – anima i più a seguire Bassel, a dargli una mano, qualsiasi cosa lui faccia. Quella inarrestabile e irresistibile spinta interiore a “darci dentro”, con tutto se stesso.

C’è un perché, e lui è diretto lì.

E se quel “perché” è anche il tuo “perché”, sei con lui, lì, a dargli una mano.

Questo libro va letto, specialmente da loro, i suoi ragazzi, quelli di oggi e quelli che si uniranno. Ma anche da quelli che domani potrebbero ispi-rarsi a Bassel, per mettercela tutta e non mollare mai!

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Introduzione

Introduzione di Sebastiano Zanolli

“Abbiamo bisogno di cambiamenti, ne abbiamo bisogno in fretta prima che il rock sia solo una parte del passato. Perché ultimamente mi sem-bra tutto uguale”.È una citazione da “Do You Remember Rock ’n’ Roll Radio?” dal quinto album dei Ramones, “End of the century”, pubblicato il 4 febbraio 1980.Le canzoni di “End of the Century” sono state scritte soprattutto per espandere la base di fan della band, indirizzandosi verso un suono più pop e comprensibile da tanti.La critica lo apprezzò, nonostante ciò alcuni recensori criticarono il desi-derio della band di ricercare il successo “mainstream”.Il successo fa paura e qualcuno che ti vuole sempre uguale a te stesso esiste sempre.Ma la storia la fa chi si sposta e fa spostare i punti di vista.La leadership la mantiene chi è in movimento, con tutte le critiche e lo sforzo che costa.“End of the Century” raggiunse la posizione più alta dei Ramones, sia

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negli States che in UK, tra tutti i loro quattordici album in studio, sette live, sedici compilation.Ecco. Velvet Media nella mia testa è in questa situazione.Ha un passato punk, di nicchia, che va tenuto in conto. Perché è energia, ribellione, dinamismo, sudore e adrenalina.Ha un futuro in cui tutto questo si sta traducendo in un messaggio com-prensibile da tanti, fatto di risultati e successi innovativi, motivazioni e ambienti lavorativi alternativi, messaggi che arrivano a tutti ma con l’e-nergia del concerto dei Ramones del Capodanno 1977 al Rainbow Theatre di Londra.Il 148esimo loro spettacolo dell’anno.“Probabilmente lo spettacolo migliore che i Ramones abbiano mai fatto” disse Johnny Rotten.Ecco.Io sento questo quando entro nei locali Velvet Media: che stanno suonan-do ogni volta il loro miglior concerto.Gente giovane fuori e dentro, spazi densi e affollati, scrivanie come con-solle dei tecnici audio, vitalità e laboriosità, serietà divertita, focus senza lamento.Mi ci rivedo.Io che vengo dallo stesso ambiente e dalla stessa subcultura.Movimento e risultati.Un concerto non è mai una cosa che riesce bene per caso. Nemmeno se è un concerto punk.È questione di condivisione di paradigma e di visione.Di gente.Sia chi sta sul palco, sia chi sta dietro, e chi sta tutto attorno.In Velvet Media si sta suonando un fenomenale concerto.E mi aspetto e mi auguro che prima o poi anche Johnny Rotten si presenti lì per dirglielo.In bocca al lupo, ragazzi!

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Prefazione

Prefazione dell’autore

Ho iniziato a scrivere Marketing Heroes per sintetizzare questi primi bel-lissimi e intensissimi anni di esperienza in quella che è, a tutti gli effetti, l’agenzia di marketing che avrei sempre voluto avere.

Forse tutto è andato, e sta andando, anche oltre la mia immaginazione e tutto corre a una velocità inaudita. Sono consapevole che perdere la strada, o prendere quella sbagliata, in situazioni come questa, è piuttosto facile.

Ci tenevo a far conoscere che cosa ho imparato in questi anni nella spe-ranza sia di utilità a chi sta facendo un lavoro simile, a chi ha intenzione di farlo, a chi fa parte di una squadra, di un’azienda, o ne sia a capo.

Non voglio, nella maniera più assoluta, ergermi a professore. Quelli che seguono non sono diktat, o qualcosa come “ecco i 10 consigli per guidare la tua agenzia ed essere felice”, o menate del genere. Assolutamente no!

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Niente di tutto ciò. Quelle robe le trovate già in abbondanza dai sedicenti guru del marketing e della comunicazione che bombardano di adv i so-cial.

In queste pagine trovate la storia un po’ rockambolesca di come sia nata Velvet, la mia agenzia, e delle cose che ho imparato grazie alle persone con le quali ho lavorato e con le quali sono entrato in contatto. Spero si-ano, più che consigli, spunti di riflessione… Un esempio, semplice e con-creto, di come si generi una squadra (e di cosa si possa imparare dalla sua gestione), in particolare per chi vive il mondo della comunicazione.

Torno spesso sul concetto di team e di squadra. Forse per deformazione professionale. Ritengo che, indipendentemente dal settore in cui si opera, creare un gruppo coeso sia essenziale per chiunque intenda sviluppare un business o, più in generale, un progetto.

Farà sorridere il parallelo tra impresa e cartoni animati, forse… Ma i manga fanno parte della mia e nostra identità, sono stati una molla nel creare la visione d’insieme di Velvet e, in quota parte, il suo elemento differenziante. Vanno presi per quel che sono, un po’ come erano i poeti e i cantastorie dell’antichità: servono per darci spunti, esempi di vita, sug-gerimenti appunto su come sarebbe saggio e giusto comportarsi.

Penso infatti che in questo mondo ci sia tanto bisogno di eroi. Di persone che sanno farsi carico del dolore e della pena, capaci di trasformare rab-bia e tristezza in sorrisi. Persone che conoscono il sacrificio e la rinuncia e sono disposte a fare qualcosa per migliorare la realtà in cui vivono. Ecco, questi, per me, per noi, sono gli eroi. Ognuno lo può essere a modo proprio, con i propri mezzi, nel proprio contesto.

Noi siamo dei marketers.

Penso sia naturale ambire a essere dei Marketing Heroes.

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10 Secondi

parte uno

Da zero a cento

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10 Secondi

10 SECONDI

Produce your own dream.If you want to save Peru, go save Peru.

It’s quite possible to do anything,but not if you put it on the leaders and the parking meters.

Don’t expect Carter or Reagan or John Lennonor Yoko Ono or Bob Dylan or Jesus Christ

to come and do it for you. You have to do it yourself.

John Lennon

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10 Secondi

Mi danno l’ok, è il momento, mi dirigo verso il palco.“Spalle indietro e testa ben eretta” mi rimbombano le parole di mia madre.Tanto durerà il tempo di un secondo e me ne dimenticherò.Non respiro. Ho una giacca tra l’esagerato e lo sgargiante. Forse più ver-so l’esagerato.I capelli potevano starmi meglio ma, ormai, non posso più fare nulla.Ho le luci addosso, una mi acceca. Tento di dribblare i fari per trovare il posto migliore sul palco.Ci siamo.

Ecco i miei 10 secondi.Il momento prima di parlare. Quando tutta l’adrenalina ti arriva addosso come un’onda che ribatte e sbatte dentro.Il battito accelera, la gola si secca.Mille pensieri e zero pensieri.

Ecco i miei 10 secondi.Quelli che ti fanno sentire vivo. Più di qualsiasi altra cosa.

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Una stretta allo stomaco. Il sangue ribolle. Una sensazione mista di pau-ra, adrenalina, emozione.

E ci sono ancora questi fari giganti puntati contro di me e se provo a guardarli compaiono quelle farfalline nere che vedi svolazzare quando fissi il sole senza occhiali scuri. Mi ritrovo nell’angolo del palco, pronto a fare qualche passo avanti per portarmi al centro e dire… «Ehi, ragazzi».Dire cosa? Eppure è una vita che mi preparo a questo momento.Mi capitava suonando. Avevi concerti alle spalle, sapevi i pezzi a memo-ria, li avevi provati centomila volte, poi salivi sul palco, con il pubblico da-vanti e la tua band dietro, dando l’idea che fosse tutto sotto controllo, e la mente si svuotava: porca vacca, qual è la prima frase? La prima parola, almeno? Con cosa comincia la canzone? Nada, buio, lo stesso nero che copre il pubblico adesso.

Mi hanno detto che sono trecento laggiù in platea, trecento imprenditori nostri clienti, e che abbiamo dovuto lasciar fuori gente. Roba da concer-to. Da quassù comunque è escluso che riesca a contarli, sempre per via dei fari abbaglianti.Si sente tanto brusio, quello sì, c’era anche prima dei concerti, poi entra-vamo, applausi per incoraggiarci, riff di chitarra e io via con la strofa che miracolosamente si affacciava appena aprivo la bocca.Ci sono i miei clienti. Ci sono i miei ragazzi. Ci sono i miei amici. C’è la mia famiglia.Ci sono tutti… O quasi.I secondi passano. Lenti e veloci. Dolci e amari.Aspetto qualche istante. Un po’ per interpretare la parte, un po’ per prendere tempo.Ma adesso. In questo momento. Sono finiti i pensieri. Tutti.Anche il respiro. Fine.Cerco di riconoscere le persone tra il pubblico. Cerco degli occhi da fis-sare. Ma non li trovo.Faccio slalom con lo sguardo passando zona per zona, fila per fila, per-sona per persona.

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10 Secondi

E tutto così forte in questi dieci secondi di vuoto cosmico.

Qui mi sa che dovrò fare il solista, aprire lo show e condurlo pure. Ma ho la testa vuota, zero, tabula rasa. Lingua secca, tum tum a mille sotto il petto e in gola… Vorrei prendere e tornare a casa. Non è paura, quella l’ho provata e la so riconoscere. È più un senso di straniamento.Vorrei dire: scusate, è tutto un malinteso.

È sparita anche l’agitazione. Si è trasformata. È diventata una carica elettrica che sento scorrere nello stomaco. La puoi chiamare in tanti modi. Diciamo che è un tipo di emozione che non riesco a classificare.

Ma cosa ci faccio qui? Come ci sono finito? Mi trovo ad avere un equi-paggio di 100 uomini… io… che qualche anno fa non avevo nemmeno una nave.Mi guardo indietro. E torno veloce a quando non avevo nulla. Nessuna nave. Nessun equipaggio. Nessuna adrenalina.

Comunque ok, mettiamola così: sono molto spiazzato da questa faccen-da che ha accelerato così velocemente, tanto da farmi dubitare di averla tutta sotto controllo. Fino a qualche anno fa mi riempivo le ginocchia di bozzi neri cercando di districarmi tra la scrivania lillipuziana e un tavoli-no compressi in una stanzetta di due metri quadrati: molto rock’n’roll! – e non esagero: conservo la piantina millimetrata di quell’ufficio, se pos-siamo chiamarlo così, l’unico che potevamo permetterci al tempo. Ora abbiamo un intero palazzo dove lavorano centoquaranta persone e la mia azienda viene citata come modello nelle riviste, nei giornali di settore.Che è successo?

Mi dicono che il “mio mito” deve ancora arrivare a causa di un ritardo dei treni (strano! In Italia i treni sono così puntuali!).Mi sono fatto un regalo. L’ho voluto per un desiderio infantile, come da bambini si diventa matti per l’autografo del cantante preferito o la figu-rina rara per completare l’album. È forse più noto alla mia generazione

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che ai giovanissimi e i suoi espressivi mugugni erano per noi la colonna sonora dello sport. Perché, niente da fare, Dan Peterson era la mente e la voce del basket, l’unico sport che io contempli – altro che calcio!Avevo sei anni quando conobbi la pallacanestro. Sono cresciuto a Castel-lo di Godego, e uno dice, ok, è un piccolo grazioso comune in provincia di Treviso. Il punto è che io stavo alle “Case Blu”, che è Godego, sì, ma una parte quasi mistica del paese. Per i “personaggi” più o meno discutibili che vi bazzicavano, a ben guardare le Case Blu erano un po’ la versione edulcorata del Bronx, solo in miniatura.I miei avevano preso casa lì perché era il paese di mia madre. Mio pa-dre è un ingegnere elettronico originario di Damasco. Dalla Siria finì a studiare ingegneria all’università di Padova. Doveva restare un anno, poi conobbe una ragazza bionda con gli occhi azzurri che faceva lettere e perse la testa. Incredibile, anche gli ingegneri si innamorano! Luciana e Talal si sposarono nel 1976. In successione sono nati Bassel, che sarei io, e Leila, mia sorella più piccola, oggi medico fisiatra, quella veramente intelligente dei due.Appena ebbi il permesso di uscire da solo, poiché non c’era ancora il controllo ossessivo sui movimenti dei bambini, la mia destinazione unica divenne il campetto a cinquanta metri da casa. Avevo la sfortuna di esse-re il più piccolo, gli altri avevano circa dieci anni, ossia quattro, cinque o sei più di me. Un abisso ci separava, quindi di norma mi toccava guardarli giocare.Era il periodo di Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e del numero 33 per eccellenza, Larry Bird, e in Italia era arrivato questo fenomeno di allenatore che aveva vinto con la Virtus Bologna e stava stravincendo con l’Olimpia Milano. Io non ci capivo molto, ma i ragazzi del campetto lo emulavano quanto a voce. Nel mio inglese appreso da loro che imitavano Dan Peterson, “niù” era “no”.- Vuoi il gelato, Bassel?- Niù niù.Come i miei amici, avrei seguito poi Peterson quando faceva le tele-cronache di wrestling, uno sport che per me smise di esistere quando Dan smise di occuparsene. Aveva questa capacità di emozionare anche

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parlando di cazzate: la sua cadenza, l’incedere vocale, ti dava gasa-mento. Descriveva un’azione minima dei giocatori e sembrava avessero combinato chissà che. “Gancio cielo” e “Mamma, butta la pasta” era-no le espressioni ricorrenti che sottolineavano le partite alle Case Blu. I “grandi” le pronunciavano, io le ascoltavo e osservavo in silenzio per non disturbare la concentrazione. Per loro era questione di vita o di morte mentre io cercavo di imparare con gli occhi.

Non mi consideravano perché ero il più piccolo, al bar dovevano issarmi a braccia per farmi vedere lo schermo durante le loro partite ai videogio-chi. Fu perciò una promozione quando mi chiesero di fare il raccattapal-le. Lo chiesero anche ad un certo Otello, pochi mesi e pochi centimetri più di me, mettendoci da subito in competizione. Chi era il più veloce a recuperare il pallone che usciva fuori dal campo? Ne fai, di muscoli sulle gambe, a correre di qua e di là per battere il tuo concorrente. E alleni an-che un po’ le mani facendo a cazzotti con lui per avere l’onore di riportare la palla per primo. Sgambetti, pugni, voli per terra, magliette strappate, ginocchia sbucciate. Mini risse per toccare palla e portarla ai ragazzi. La presenza di Otello è sempre stata sfidante per me, era l’unico alla mia portata per questioni anagrafiche, l’unico con cui potessi ingaggiare battaglia contemplando qualche tiepida speranza di vittoria. Eccezione fatta per il buon Otello, il resto erano “giganti”, alla stregua di dei greci dell’antichità.

Fatto sta che, molto dopo, arriva il giorno che ti dicono «Bassel! Entra anche tu!» e non pensi neanche che stiano parlando con te. Ti senti come il Meneghin di Dan Peterson, anche se non combini niente in campo e tutto quello che sembrava facile diventa inarrivabile, e gli altri ti legnano, ti deridono e ti insultano e capisci che sei poco più di una mascotte per loro e ti viene da piangere. Non sarei mai riuscito a superarli con un’a-zione solitaria, non potevo smarcarmi, non riuscivo a tirare per la paura di essere stoppato, erano alti il doppio di me, più veloci, più capaci, io sapevo a malapena palleggiare. In quel momento però capisci una cosa fondamentale del basket… e della vita.

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Capisci che da solo non vai da nessuna parte. La pallacanestro è un gioco di squadra che valorizza i campioni ma anche i campioni, senza una squadra, non combinano niente.O passi la palla o ciao, da solo non fai grandi numeri, non è come pren-dersi una meta sgambando da una parte all’altra del campo; se vuoi vin-cere, devi giocare con i compagni, altrimenti è finita. Stop, kaputt. C’era Nick, il capo della banda dei ragazzi delle Case Blu, libero vicino a me, non potevo fare altro che passare la palla, qualsiasi altra mossa sarebbe stata vana. Chiusi gli occhi mentre la palla volava verso il compagno. Dio ha voluto che ricevesse la palla; non solo, e che fosse un passag-gio filtrante verso il canestro. Era pazzesco. Il mio primo “dai e vai” e non avevo ancora fatto un rimbalzo a terra. Ho capito, quindi il segreto qui è passare la palla. Imparare il concetto di passaggio è stato fonda-mentale. Lo è nello sport, come nella vita, come nel business. C’è un momento esatto in cui devi passare la palla e non è un secondo prima e nemmeno un secondo dopo. A volte perché da solo non riesci a supe-rare l’ostacolo, altre per favorire chi può finalizzare meglio di te. Rico-noscere la necessità della coesione e della collaborazione per la vita di ciascuno ha contribuito a smussare alcuni angoli del mio carattere, dove l’ego era ingiustificatamente sparato a mille.

Giocare con i “giganti” mi metteva in una condizione strana quando tor-navo nella dimensione normale, quella scolastica, con i ragazzi della mia età. Mi sembravano avversari da poco, tutti battibili, e diventavano anche la mia rivincita nella vita. Il mio modo di rifarmi della sudditanza psicolo-gica del sentirmi poco più che una mascotte. Tanto subivo alle Case Blu, e tanta voglia di rifarmi avevo a scuola con i miei compagni. Ero l’ultimo nel quartiere, volevo essere il primo e il capo a scuola.

Nello stesso tempo, rimediando batoste a ripetizione fin da piccolo, acquisisci quella specie di saggezza dello sconfitto che ti risparmia di diventare troppo antipatico al tuo prossimo. Incassare con stile, ecco. Il mondo del basket insegna l’umiltà: ogni volta che ti ritrovi seduto, in ginocchio, umiliato dopo aver perso palla, ti ricordi che al mondo ci

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10 Secondi

sono sempre persone più brave di te, non c’è storia. Ti insegna anche che, in un campo diverso, puoi essere tu il più bravo e così la rabbia di non valere niente diventa sprone a migliorare altrove.

“Nella vita da solo non vai da nessuna parte.O passi la palla, o ciao!

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Velvet

VELVET

Sarebbebello parlare

con i bambiniche eravamo

e chiedere lorocosa ne pensano

degli adulti chesiamo diventati

Juan Felipe Gabanhia

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A volte è solo questione di un momento,di un centimetro, di una scelta.E tutto cambia.È una specie di butterfly effect,una roba come nel film “sliding doors”,una banalità e tutto può cambiare.

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Velvet

La strategia dei social ci catapultò non solo oltre il muro ma verso il cie-lo. Un successo! Nel giro di poco tempo siamo diventati una delle mag-giori agenzie di social media management in Italia. Per darvi un’idea, gestiamo mille account Facebook ogni giorno.Io volevo da sempre creare l’agenzia di marketing numero uno. I social network erano stati il cavallo di troia per entrare in azienda. E ci siamo entrati di slancio. Ora intendevo ampliare il business e dare un’identità completa a Velvet.Oltretutto, dovevo far vivere bene i miei commerciali perché, se non gua-dagnano abbastanza, si demotivano. È chiaro che potendo vendere più servizi: i social, i video, il sito, l’ufficio stampa, la grafica, gli eventi… il medesimo cliente può diventare fonte di molteplici chiusure o di fatturati più ampi. Da queste considerazioni, tre anni fa ha preso vita il germe della Velvet di oggi. L’intuizione è stata proporci come ufficio marketing in outsourcing per aziende o totalmente prive di un ufficio marketing o che non ne avessero tutte le funzioni internamente. Marketing a 360°. Il tuo ufficio dedicato, su chiamata, per il tempo che ti serve e senza costi

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fissi, capace di soddisfare tutte le tue esigenze di comunicazione e aiu-tarti a vincere la sfida del mercato.

L’idea mi era venuta pensando a quanto accadeva alla Ferrari. Si perdeva tempo a coordinare molte agenzie diverse, quello che fa il sito, quello che scrive i testi per il sito, quello che stampa il cd, quello delle foto, quello che impagina la brochure, quello che… Sai che pacchia se aves-simo avuto un interlocutore unico? Avremmo risparmiato tempo, soldi e soprattutto ci saremmo garantiti senza fatica controllo e omogeneità fra tutti i prodotti di comunicazione.I benefici della nuova Velvet sono palesi, per i nostri clienti: controllo totale (facciamo tutto qua in sede, con i nostri professionisti), velocità massima (siamo tante agenzie dentro la stessa agenzia, senza passaggi intermedi), riduzione dei costi (non abbiamo tempi morti, quindi tu azien-da non sprechi denaro per questo).Mia madre ripeteva sempre «Fai una cosa, e falla bene». E l’ho ascol-tata. Per metà. L’agenzia mi permette di puntare a fare tutto… bene. Marketing management, comunicazione, grafica e design, videomarke-ting e photoshooting, social media management e lead generation, web development, ecommerce, sem e seo, pr e press office, eventi, editoria, new business. Come potrebbe essere diversamente se, un po’ alla volta, siamo riusciti ad accaparrarci i numeri uno di ogni settore?

Vi sembrerà strano, ma le implicazioni dell’ambaradan che avevamo messo in moto mi sono apparse chiare qualche tempo dopo, non subito. Ero alla scrivania, ricordo, quando mi portarono la posta. «Guarda qua» disse la mia collaboratrice. Aprii la busta.“Il mio sogno è venire a lavorare in Velvet” lessi. Mi viene ancora la pel d’oca a ripensarci. Il suo sogno! Come il mio, una vita prima, con la Die-sel. Eravamo diventati il sogno di qualcuno! Scusate… quando è succes-so questo?Un sabato mi trovai piantonato davanti alla porta dell’ufficio un ragazzo di Cosenza. Avevamo fissato una sessione di selezioni del personale alle otto di mattina. Lui era arrivato con i mezzi pubblici viaggiando tutta la

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notte. Se lo prendevamo, era disposto a trasferirsi a ottocento chilometri da casa sua.Un altro ragazzo lavorava in banca, così mi scrisse. Sposato e con una figlia. Era disposto a licenziarsi e a ridursi lo stipendio pur di venire da noi. Mi portò un pezzetto di carta con una nostra vecchia pubblicità. «Vi seguo da un anno» disse semplicemente, «voglio lavorare qui». Perché? «Ho sempre sognato una roba così. I soldi non mi interessano, quelli verranno appena vedrete come lavoro». Un rocker in camicia e giacca. I like it. Adesso è il nostro responsabile delle risorse umane.Stava accadendo una cosa incredibile, un meccanismo che più virtuoso non si può. La viralità a noi tanto cara. Aumentavano clienti e lavoro, aumentavano i dipendenti, aumentava la nostra fama. Cominciavamo ad avere un seguito pazzesco. Gli altri ci vedevano come un modello. Oggi riceviamo decine e decine di curriculum al giorno. E pensare che io vo-levo solo diventare la migliore agenzia del pianeta terra!I giornali si sono accorti anche loro che stava succedendo qualcosa di strano, di inedito. Sono venuti a conoscerci, ci hanno ripreso e intervista-to. Ci hanno ribattezzato “la Google italiana”. Le uscite nel Sole 24 ore, alla Rai, su Capital, nel Corriere della sera eccetera hanno contribuito a renderci ancora più noti.Hanno messo a fuoco i fattori in base ai quali andiamo così bene: il mo-dello di business innovativo, la struttura commerciale in accelerazione, e poi… tanto rock’n’roll.In due anni siamo passati da 50 mila euro di fatturato mensile a 500 mila… e continua a crescere! In termini organizzativi, decuplicare il fat-turato non è uno scherzetto da poco. Se non fosse per alcuni beneme-riti che mi hanno aiutato a non sbandare, magari avrei rischiato di farmi male. Ho sempre avuto persone, amici, più attenti di me sui numeri. Il mio best friend Stefano perdeva il sonno per mettermi campanelli d’allarme ogni volta che il mio eccessivo entusiasmo si trasformava in esagerazione; non dormiva al pensiero che potessi perseverare in con-dotte pericolose per il bene dell’azienda. Fabio Volpato (lui, il re della notte) ha iniziato a fare tutto quanto in suo potere per aiutarmi in ogni cosa potesse agevolare il nostro operato, si trattasse di amici, contatti,

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tattiche e strategie. Michele Malagò mi insegnava le basi della finan-za usando le metafore di mucche e latte, prendendo le bustine del tè e facendo le addizioni e le sottrazioni come con i bimbi delle elementari. Otello mi consigliava come stimolare le persone capaci e tagliare i rami malati prima che infettassero tutto l’albero; non che mi piacesse l’idea del “taglio dei rami”, ma il suo pressing sull’ottimizzazione mi riporta-va spesso con i piedi per terra. Cristiano Ottavian insisteva sul concetto di margine mentre la mia ambizione puntava tutto sul fatturato; come sempre, fingevo di non ascoltarlo, per poi iniziare a rifletterci fino a notte fonda.E così è anche grazie a loro se nell’ultimo anno abbiamo raddoppiato le persone che lavorano da noi, quasi tutte assunte a tempo indeterminato.Abbiamo avuto l’onore di lavorare con realtà tipo Porsche, Luxottica, Banca Mediolanum, Diadora, Replay, McDonald’s (e per par condicio Burger King), e molti altri che ci vorrebbe un altro libro a contenerli tutti.Dal 2016 abbiamo avviato l’espansione internazionale: Usa (Denver), Thailandia (Bangkok), Emirati Arabi (Dubai), prossimamente Malta (La Valletta) e Inghilterra (Londra).E siamo arrivati a oggi.

Guardando Dan Peterson, il mito d’infanzia del giocatore di basket che cova in me, ho ripensato a tutta la mia vita e alla meravigliosa avventura di Velvet.Dan ha terminato il suo intervento guardandomi mentre pronunciava queste parole: “Le squadre che vincono sono quelle che non vogliono perdere”. Parlava di noi, ed è esattamente come sento la mia ciurma, il mio equipaggio, la mia fantastica squadra. Questo incontro con lui sug-gella un momento topico per noi, condensa una serie di punti di arrivo che coincidono con nuovi punti di partenza.Ho provato a raccontarlo nelle pagine precedenti. Chissà se riuscirò a farlo adesso che le luci del teatro sono puntate su di me.In sala ci sono i miei amici, i miei genitori, i ragazzi che lavorano con me, centinaia di clienti, i giornalisti, perfino il sindaco e il vicesindaco.Parlare davanti alle persone crea adrenalina. Non mi sono mai drogato,

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eppure credo che l’effetto della droga sia più o meno questo, quando ti dicono: «Sali, tocca a te!». Improvvisamente si tesse un fitto silenzio. Le persone ti guardano con intensità, in attesa, benevole. Incuriosite. Hai 10 secondi che condensano tutto quello che sei. I 10 secondi di paura, tensione, adrenalina, gasamento, euforia. A volte penso di vivere proprio per quei 10 secondi.Come prima di iniziare a suonare. L’istante prima di accostare il microfo-no alla bocca è il più delicato. È la summa di tutto. L’istante in cui guardi il pubblico. Parti. Si annulla tutto.

Dovrei parlare del punto da dove è partito tutto ciò che mi ha portato a questo momento. Dovrei dire della zattera da naufrago con cui ho affron-tato all’inizio i mari tempestosi, che si è trasformata nel veliero sempre più maestoso di cui sono alla guida. Dovrei parlare dei primi traumi subiti da giovane nel mondo del lavoro e della mia promessa che non avrei mai fatto lavorare nessuno nelle stesse condizioni che avevo subito. Dovrei dire dell’energia punk che mi ha fatto sempre credere che ci fosse un modo alternativo e controcorrente di fare le cose, che mi ha sottratto all’omologazione generale. Mi piacerebbe parlare di tutte le iniziative che mi sono inventato per mantenermi agli studi, degli eventi che hanno coinvolto migliaia di persone per una dozzina d’anni, della mia Tana delle tigri alle Case Blu, degli amici favolosi che ho incontrato per caso e che oggi sono le braccia e le gambe di Velvet.Tutto è servito a farmi arrivare qui. Le promesse, le strette di mano, le arrabbiature e le riappacificazioni, i sacrifici, le rinunce, le bugie, le delu-sioni, i momenti di gioia improvvisa, le grida, la passione irrazionale, gli scherzi, il liceo, i baci rubati, le prime volte, i gruppi estivi della parroc-chia, le chiacchiere fuori da scuola, le risate senza motivo, le vittorie e le sconfitte, le note in classe, la prima cassetta rossa con un mix di punk77, i concerti, i sorrisi, i dischi dei Ramones, i litigi d’amore, l’università, gli amici che perdi per sempre, il motorino, il basket, la luna che quella sera faceva specchio sul mare, i manga, i cartoni, le vacanze con i soliti quattro amici, le lacrime, le pagelle, le ragazze, l’orsa maggiore, le cotte e le ustioni, le stelle quella notte d’agosto, gli interminabili discorsi dei

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pomeriggi di settembre mentre il sole calava tra le case e gli alberi poco distanti, la mia Giulia. Tutto d’un fiato.Un bel respiro.Per completezza, dovrei proiettare anche il sorriso esultante del sot-toscritto che in prima elementare porge il pallone da pallacanestro ai ragazzini più grandi, la smorfia di Edwin quando capisce che il suo com-pagno di stanza non sarà una bionda fotonica ma un mezzo arabo con i capelli sparati, gli abbracci forti di mia madre, gli occhi stanchi miei e di Massimo quando a mezzanotte finivamo di impaginare un articolo sul gruppetto emergente di Canicattì, i saltelli di gioia dopo aver scartato il primo disco realizzato da me, mio padre che mi voleva con la riga ma sotto sotto gli andavo bene anche così, le risate sgangherate dall’alcol alle festine durante il master, il tatuaggio con scritto Leila, i periodi a mendicare soldi e quelli in cui le tasche erano piene, “Ehi, ho un’idea figa su come fare dei coupon, se ti piace la facciamo insieme”.Il cellulare che ho disintegrato addosso al muro prima di andare tre anni fa dai ragazzi e dir loro «I conti non tornano, ancora qualche mese e sia-mo out!». La pacca sulla spalla ricevuta da Giorgio Lorenzo, il mio primo commercialista, in un momento di sconforto totale e crisi nera, e i Lost primi in classifica sopra i Tokio Hotel. Il sogno irrealizzato di entrare alla Diesel e il sogno infranto di Latin Lover. Erika che urla al telefono «Un coupon venduto, abbiamo il primo cliente!», Michele Sangion che perde le notti a trovare un modo per supportarmi e parlarmi del futuro dell’in-telligenza artificiale, le sere di lezione da Sebastiano Zanolli, il grande Mek che mi aiuta a tenere lontani i cattivi, Lara che si sacrifica senza dir-lo, Nick che mi fa conoscere il punk77, Marta che mi controlla i business plan, Michele Cilione che mi sconfigge tre a zero al business game, Vale che mi asciuga le lacrime e il mio allenatore Mike che mi insegna come si tiene la palla quando fai il tiro libero, perché devi sapere che se pieghi un po’ troppo il gomito all’esterno la palla va per conto suo, basta davvero poco per non fare centro. Come nella vita, no? A volte è solo questione di un momento, di un centimetro, di una scelta. E tutto cambia. È una specie di butterfly effect, una roba come nel film “sliding doors”, una banalità e tutto può cambiare.

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Le gioie e gli strazi di questa vita. La gioia di esserci, per raccontarlo.

Più che fare amarcord, però, mi piacerebbe spiegare il modo in cui tutto questo si è verificato, come in cinque anni ci troviamo sulla strada per la vetta dopo essere partiti dal sottosuolo.«Qual è il segreto del vostro successo?», mi chiedono spesso. Io non cre-do ai segreti, a meno che non si tratti di religione – e non è il nostro caso. Non credo nemmeno alle formule magiche e alle scorciatoie. Credo alla saggezza dell’esperienza. Credo alle lacrime, al sudore e al sangue. E sinceramente, quando mi chiamano per incontrare gli studenti o altri imprenditori, non parlo di Pareto, della legge di domanda e offerta o di valutazione dei kpi. Parlo di manga.È il mio terzo asso nella manica. A bene vedere, il primo per importan-za. Diciamola meglio: la pallacanestro mi ha formato, la musica mi ha dato stile e ritmo, gli eroi dei fumetti giapponesi mi hanno indicato le soluzioni. E quindi, sì, ho fondato, gestito e condotto fin qui la mia coraz-zata ricavando la filosofia imprenditoriale dai manga ben miscelati con il mood da rocker. Me ne sono pienamente accorto a posteriori, o forse se ne è accorto Cristiano prima di me, ma è andata proprio così. Questa “formula” è la risposta anche a un’altra domanda, postami di recente da un commercialista: «Perché voi siete 150 e gli altri che fanno la stessa cosa sono da anni in 5?».Obiezioni? Ah, immagino tante. C’è sempre chi storce il naso quando tro-vi alternative atipiche, fuori dagli intasamenti. Ci sta. Anch’io sono scet-tico su un mucchio di cose.Nell’irruenza del lavoro quotidiano ti trovi a dover scegliere continua-mente, dalle inezie alle strategie.

E non sempre i consigli sensati che ricevisono i più saggi. Non sempre quello che è già stato fatto funziona, specialmente in un settore come il nostro, il marketing, dove tutto va reinventatodi minuto in minuto

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Servono alberi maestri cui aggrapparsi nel mare in tempesta e, mentre le onde ti sbatacchiano di qua e di là, emerge dal subconscio un’idea che a formularla, all’inizio, ti vergogni anche. Capitan Harlock, al mio posto, come si sarebbe comportato? Che cosa diceva Juza delle Nuvole quan-do…? E quella volta Phoenix se la cavò così e cosà.Per farla breve, mia madre cita Socrate, io Kenshiro. E, incredibile ma vero, ha funzionato. Funziona ancora. Tanto che la domanda inaspettata che pongo a tutti i candidati per un posto in Velvet è la seguente:«Quale cartone animato guardavi da piccolo?».Attenzione! Magari vale solo per me, magari altri penseranno “Che me-nata”. Ma chi l’ha detto che c’è una via uguale per tutti? Io, per esempio, preferisco i sentieri fuori mano.I sentieri contromano.

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“Le squadre che vincono sono quelle che non vogliono perdere” Dan Peterson