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Nicola Severino STORIA DELLA GNOMONICA LA STORIA DEGLI OROLOGI SOLARI DALL’ANTICHITA’ ALLA RINASCENZA Nuova ristampa Roccasecca 2011 1

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Nicola Severino STORIA DELLA GNOMONICA

LA STORIA DEGLI OROLOGI SOLARI DALL’ANTICHITA’ ALLA

RINASCENZA Nuova ristampa Roccasecca 2011

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Premessa all’ edizione in CD Rom del 2001 Nel 1990-1991, mi accinsi a scrivere la prima edizione

della Storia della Gnomonica. Allora non avrei mai pensato che dopo dieci anni l’avrei ripresa tal quale, con poschissimi cambiamenti, e trasformata in un CD rom, comodamente trasportabile, leggibile e stampabile a piacere. In piu’ arricchita di immagini in b/n e a colori. Mi sarebbe piaciuto creare un’opera unica che compredesse tutti i miei scritti, ovvero gli articoli pubblicati e gli altri libri, ma una tale impresa era evidentemente troppo impegnativa per chi deve condurre una vita familiare normale. Ma sarebbe stato difficile soprattutto perché in dieci anni ho perso molti dei files che scrissi sui primi computers 8088 ed in formato Olivetti OTX per videoscrittura, incompatibili con i files RTF e DOC. Così mi sono deciso a riprendere tutto il meglio, come è stato concepito in origine, e “riversarlo” in un CD rom in formato PDF. Per questo lavoro non ho parole per ringraziare Fabio Savian che ha curato l’impaginazione nel formato PDF. Ma devo ringraziare anche tutti gli amici gnomonisti che mi hanno incoraggiato a riprendere tutto il mio lavoro gnomonico e ripresentarlo sotto questa forma.

Questa versione della Storia della Gnomonica è

praticamente identica nel testo e nelle figure all’edizione del 1992-1994 (seconda stesura – la prima penso si tratti di una bozza che forse ho perso anch’io!) fino al V capitolo compreso, ovvero alla gnomonica araba. La parte sul Rinascimento è stata in parte modificata qualche anno fa. Manca, inoltre, il capitolo VII dedicato a Cristoforo Clavio per il quale però scrissi un apposito articolo per la rivista Nuovo Orione, ripreso ultimamente per il numero 1 di Gnomonica UAI, 2001, che si trova però nella sezione “Articoli”. Ed un’appendice sulla gnomonica dopo Clavio che però ho trattato nell’”aggiornamento” dell’ultima parte, completamente riscritta. Alcuni articoli, di cui ho perso i files e le immagini, li ho ripresi in scansione elettronica sulle riviste in cui furono pubblicati a suo tempo.

In definitiva, questo CD rom sappresenta quasi un’opera

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omnia, con poche documentazioni di scarsa importanza non presenti. Mancano all’appello il “librone” intitolato Le piu’ belle pagine della gnomonica che non ho mai piuù ripreso, né in fotocopia né in altro formato, ed i video sul censimento delle meridiane della provincia di Frosinone e sulle immagini gnomoniche.

Ringrazio infine tutti gli amici gnomonisti che più di tutti mi hanno incoraggiato, consigliato e seguito in tutti questi anni nello svolgimento delle mie ricerche ed in particolare: Riccardo Anselmi, Edmondo Marianeschi, Alberto Cintio, Francesco Azzarita, Mario Arnaldi, Giacomo Agnelli, Gianni Ferrari, Enrico Del Favero, Paolo Forlati, Giuseppe Zuccalà, Giovanni Paltrinieri, Mario Catamo e tutti i nuovi amici della lista internet Gnomonicaitalia.

Premessa a questa ristampa del 2011 Questo libro rappresenta una ristampa della prima

edizione della mia Storia della Gnomonica che vide la luce per la prima volta, in formato cartaceo dattiloscritto, nel lontano 1992. Da allora esso è rimasto inalterato nei contenuti che si prefiggono di tracciare una profilo storico generale ed approfondito nei vari campi della storia degli orologi solari. Tuttavia, dopo circa venti anni, gli studi in merito hanno conosciuto enormi progressi, grazie anche all’avvento del nuovo sistema di comunicazione di internet e della possibilità che ci ha offerto di aumentare a dismisura le comunicazioni tra gli appassionati e di avvicinarci in modo concreto e facile alla consultazione di libri antichi, prima difficilmente raggiungibili e, soprattutto, difficilmente analizzabili comodamente.

Sebbene nulla di nuovo possa aggiungere questa edizione

a quanto già conosciuto sulla storia degli orologi solari, essa ha comunque rappresentato in tempi moderni la base di partenza, il primo tentativo di riorganizzare un quadro storico frammentario nelle infinite notizie, rarissime, che riguardano gli antichi

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segnatempo solari. Nella storia solo pochi autori hanno fatto questo tentativo, ad iniziare da Cristoforo Clavio nella sua Gnomonices, che rappresenta ancora oggi la summa dell’argomento. Il suo profilo storico fu ricopiato e divulgato, in vari modi, da tutti gli altri autori che seguirono, senza peraltro nulla aggiungere di nuovo, se non qualche sporadica notizia relativa ad esperienze e personaggi dell’epoca.

Qualche secolo dopo, Montucla tentò di riorganizzare la storia della gnomonica, ma sempre relativamente ad un capitolo di qualche decina di pagine. Niente di organicamente più approfondito e soprattutto, come da sempre in voga, nessun contesto storico analizzato. Eppure, poco prima, grandi autori come Causabon e soprattutto Salmasio, nelle sue Exercitationes Plinianae, avevano affrontato l’analisi storica della misurazione del tempo come mai nessuno fino ad allora. E’ proprio in base a queste “riscoperte” che sentii la necessità di riordinare e divulgare quanto era stato già scritto, ma alla luce di ciò che la gnomonica era ormai diventata ai nostri tempi.

Nonostante, quindi, alcune cose contenute in questo libro

siano da considerarsi solo un primo approssimativo approccio allo studio di argomenti che da soli, in seguito, si dimostreranno meritevoli di approfondimenti maggiori e particolari, molte altre possono essere considerate tutto quanto è dato sapere in merito.

Per questo motivo, credo, che una ristampa di questo libro sia non solo un omaggio all’unico lavoro svolto specificamente e in modo completo su questo tema dal 1992 ad oggi, ma anche una prova del fatto che la storia della gnomonica, lungi dall’essere ancora definitivamente descritta, resta quell’affascinante argomento che tanto seppe appassionare me, negli anni della mia gioventù matura, e tutti gli amici che ho conosciuto nel tempo, i quali tanto ancora oggi si prodigano nelle ricerche, generali e specifiche, che gli orologi solari possono offrire.

Nicola Severino, Roccasecca, Febbraio 2011

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Introduzione

“Voler fermare, nel rapido suo corso il tempo, e fissarlo; sarebbe un vano, ed insensato disegno: ma contare i momenti della sua fuga, e indicarli,

l’è un portento della sagacità dell’Uomo, che occupossi ad inventar l’Orologio”.

Abate Sallier, Sec. XVIII

La storia ormai millenaria degli antichissimi segnatempo

solari non ha un riscontro letterario prolifico. Come risulta già evidente ad un attento esame bibliografico, la maggior parte dei libri che sono stati scritti sull’argomento riguarda prevalentemente le tecniche di progettazione e realizzazione degli orologi solari, cioè i canoni scientifici della Gnomonica. Questa constatazione può essere motivo di perplessità, soprattutto quando si consideri che la storia di questi strumenti non è stata approfondita da nessuno dei maggiori trattatisti di Gnomonica dell’antichità, come della Rinascenza: Cristoforo Clavio accenna appena agli orologi solari di Vitruvio, forse in modo meno preciso di come avrebbe fatto un glossista dell’epoca.

Durante il periodo dei “lumi” la Gnomonica si fa strada grazie al contributo di uomini come De La Hire, Picard, Ozanam, Parent e via dicendo, ma tutti escludono categoricamente dalle loro opere la benchè minima traccia di ricerca storica. Tutto ciò induce i trattatisti moderni, o almeno la maggior parte di essi, a “compattare” più di duemila anni di storia degli orologi solari in un capitolo di qualche paginetta!

Tutto ciò, evidentemente, è il risultato di una difficile ricerca della documentazione storica, carente e dispersa in mille

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e mille frammenti la cui ricomposizione è l’oggetto principale di quest’opera la quale rappresenta, possiamo dirlo con certezza, il primo libro, almeno in lingua italiana, che tratta specificamente della storia degli orologi solari.

Il difficile compito a cui deve assolvere questo lavoro è, pertanto, quello di riordinare e di presentare in maniera chiara la lunga vicenda della Gnomonica, attraverso i pochi riferimenti e citazioni degli antichi compilatori, filosofi, scienziati ed eruditi che vissero nell’arco di più di duemila anni. Non è cosa di poco conto, soprattutto quando si è nella consapevolezza di presentare al pubblico un’opera prima.

A volte avere come base di riferimento altri lavori già finiti, anche se antichi, cioè lavorare sul palinsesto di altri libri, può essere molto utile, serve come guida, e si risparmia molta fatica. In questo caso posso dire che il palinsesto non l’ho trovato perchè non c’è. Qui i protagonisti principali sono gli stessi gnomonisti, la materia prima è costituita dalle fonti storiche, a volte ancora inedite, che ho cercato di mettere in primo piano, attraverso le quali costruire un quadro il più possibile chiaro e completo dei primi lineamenti storici della Gnomonica.

Sono pochi anni che la Gnomonica è stata tirata fuori dalla nebbia e dall’oblio generale, soprattutto per merito di pochi appassionati che si prodigano in Italia per la salvaguardia del patrimonio artistico-culturale rappresentato dall’insieme degli strumenti solari presenti sul nostro territorio, pubblico e privato.

Certo, una volta gli orologi (solari e ad acqua i primi, e meccanici poi) occupavano un ruolo diverso nella società. La necessità di conoscere l’ora, con precisione o approssimativamente, per il normale svolgimento delle attività sociali, era fondamentale sia per l’astronomo, sia per il chierico che per il contadino, sebbene con applicazioni e significati sostanzialmente diversi.

Per farci, comunque, un’idea chiara del prestigio di cui godevano gli orologi solari nella vita quotidiana degli uomini del XVI secolo, cioè quando già cominciava a rivestire una certa importanza l’orologio meccanico da torre, vorrei proporre alcuni deliziosi passi tratti dall’opera di Pini Valentino “Fabrica de gl’horologi solari” del 1598:

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I viaggi lunghi, per luoghi aspri, e difficili, per esser privi di quel diletto, che suole apportare la varietà delle cose vedute, fanno, che il Viandante, di passo in passo, si volta verso il sole, per misurar dall’altezza sua, l’hora corrente, e con l’hora quanto ha scorso, o gli resta del noioso camino: e quanto a me raccomandomi le fatiche dei passati maggi, certo che benedico l’occasione di questa isperienza; perchè trovandomi tal’hora fra deserti paesi, e desiderando sapere, che ora fusse, son caduto in vari pensieri intorno a gl’Istromenti, e modi, di partire l’hore, così del giorno, come della notte...

E ancora dal Proemio: Fra tutte le cose, le quali danno ordine a questo mondo inferiore, quella forsi dell’hore, che misurano, e spartiscono il tempo, non tiene l’ultimo luogo; perchè, chi non sa, che se non ritrovata non fosse questa mirabile inventione, si reggerebbe il mondo poco ordinatamente, e caminerebbe, come cosa stupida, e confusa? si come ciò apertamente si scorge in quegl’huomini, li quali, in luogo deserto, lontani da Città e Castella ritrovandosi, non udendo l’hore, governandosi a caso, irresoluti rimangono, e confusi, quasi fuori di se. Ma per il contrario là dove sono horologi, e si vedono, ò s’odono l’hore, si vedono anco in effetto gl’huomini accorti, e ordinati; poscianche spartendo, col mezzo d’esse, e ordinando le loro fatiche, e negotij, prefigono à ciascuna parte tempo conveniente, e ordinato, di maniera che, senza impedir le cose famigliari, danno compita ispedizione à quanto fa loro bisogno...

Nel loro silente modo di comunicare (non ho mai trovato una meridiana con il motto “Taciturnitas virtutes plurimas nutrit”, cioè il silenzio è il padre di tutte le virtù, motto che calzerebbe alla perfezione) le meridiane hanno scandito il tempo e la vita agli uomini per più di quattromila anni, mentre solo da cinquecento anni l’orologio meccanico ha cominciato ad acquistare una certa importanza. Il suo funzionamento, però, dagli inizi e fino a circa due secoli fa, era verificato solo per mezzo della precisione data da una buona meridiana. Inoltre, solo negli ultimi cento anni l’orologio meccanico è stato in grado di sostituire egregiamente l’orologio solare. I due segnatempo potrebbero anche convivere, compensandosi a vicenda, ma

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questo oggi non è più possibile data l’alta tecnologia raggiunta nell’orologeria meccanica.

Ciò che la meridiana può rivendicare, invece, sull’orologio meccanico è la sua possibilità di essere sfruttata come decorazione di un edificio e come strumento dalle alte capacità didattiche, eccezionalmente utile nello studio elementare dei movimenti dei corpi celesti e della geografia astronomica in generale.

2. GLI ALBORI La necessità di dividere l’arco di una giornata e di una

nottata in un preciso numero di parti uguali non è nata per caso o per volere di un Re. Una persona che non sappia assolutamente nulla della divisione del tempo come oggi la intendiamo, e nemmeno quelle d’altri tempi, che si trovi in una campagna assolata sicuramente non saprà distinguere di più del semplice fatto che nell’arco del giorno il Sole compie un percorso nel cielo da un capo all’altro dell’orizzonte, toccando un’altezza massima a metà strada. Queste dovevano essere le cognizioni temporali dei primi uomini apparsi sulla terra.

La suddivisione principale era data dal naturale sorgere e tramontare del sole e, come vedremo, i Romani adotteranno questa semplice soluzione per almeno trecento anni dopo la fondazione dell’Urbe. L’astro di vita nascente era venerato come un dio presso molti popoli dell’antichità e lo studio del suo percorso nel cielo rivestiva un’importanza fondamentale e dava una incisiva impronta alle caratteristiche ed abitudini di vita quotidiana nelle prime società tribali, come nelle future citta-stato di ogni regione.

Il sole accompagnava l’uomo primitivo nelle sue battute di caccia e il sapere misurare, anche approssimativamente, la sua altezza sull’orizzonte per calcolare quante ore di luce utile restano da sfruttare era di fondamentale importanza. Infatti, come qualcuno ricorderà, quando ci si allontana dalle città per delle lunghe escursioni in montagna, si perde spesso il senso del tempo e tante volte si resta ingannati nel calcolare le ore di luce

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rimanenti prima del tramonto, col rischio di essere sorpresi dalle tenebre. Questo può senz’altro annoverarsi tra i motivi principali per cui l’uomo, con profonda dedizione ed umiltà, cominciò a compiere precise osservazioni del moto dell’astro sulla sfera celeste, e dei pianeti principali, registrando periodicamente i principali fenomeni celesti visibili e rapportandoli alle vicissitudini terrene e alle necessità agro-pastorali: cominciò in questo modo la compilazione dei primi rudimentali calendari astronomici.

Dopo molteplici osservazioni del tragitto del sole nel cielo, non dovette essere molto difficile accorgersi che esso, ogni giorno ed in un certo istante, arriva ad un punto di massima altezza sopra l’orizzonte prima di ricominciare la discesa. Infine, tale punto varia continuamente di posizione rispetto all’orizzonte durante l’anno, toccando un minimo nella stagione fredda ed un massino nella stagione calda. L’istante in cui il sole raggiunge la massima altezza sopra l’orizzonte segna il mezzogiorno solare locale e il saperlo determinare correttamente, come è facile constatare, non era prerogativa solo dei popoli antichi, ma anche della nostra moderna civiltà.

Passando dall’osservazione semplice alla pratica, l’esperienza quotidiana insegnò che un semplice bastone piantato verticalmente al suolo proiettava un’ombra che si muoveva sul terreno in conseguenza del moto del sole nel cielo. Chi fece per la prima volta questa osservazione battezzò l’inizio della storia della Gnomonica, ovvero lo studio razionale dei movimenti dell’ombra proiettata da un’asta piantata in terra, in relazione al movimento del sole (ma anche della Luna) sulla sfera celeste.

A chi dobbiamo l’inaugurazione non lo sapremo mai! Così come non sapremo mai chi inventò e mostrò per la prima volta un orologio solare. E’ certo, invece, che gli sviluppi di un tale studio ha sconcertato anche gli esperti in quanto è difficile oggi stabilire quale doveva essere il grado di erudizione a cui erano giunti gli antichi osservatori. Per esempio ha dell’incredibile scoprire che nel 1500 a.C., in Inghilterra, precisamente a Stonehenge, nel Wiltshire, gli abitanti costruirono un monumento-osservatorio astronomico dall’impressionante precisione. Come abbiano potuto innalzare le enormi pietre dette

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menhir e allinearle secondo precise direzioni formando i famosi cromlech, cioè degli enormi calendari, resta tutt’ora un mistero.

L’orientamento di queste pietre era studiato in funzione dei punti in cui il sole sorge e tramonta nei giorni dei solstizi e degli equinozi. L’esperienza portò a realizzare allineamenti sempre più fitti e precisi, tanto che il monumento di Stonehenge, oltre che come calendario, servì a quei tempi addirittura a predire le eclissi (altro mistero) di sole e di luna.

In Egitto veniva osservata l’ombra delle piramidi che fungevano da orologio solare e si dice che tra i primi a compiere queste osservazioni fu Talete di Mileto. Inoltre, Giuseppe, nel Lib. I, al cap. V delle Antichità Giudaiche, racconta, e quindi conferma, che gli Egizi usavano le piramidi come strumento per osservare e calcolare il tempo.

3. LO GNOMONE Ma torniamo al nostro primo strumento indicatore

dell’ora: il bastone piantato a terra. Esso viene oggi chiamato gnomone e deriva dal verbo greco gmòmon che vuol dire appunto indicatore e dal quale deriva il termine gnomonica (vedi prossimo paragrafo). Come viene ricordato da qualche autore del XVI secolo: “Gli antichi definirono lo gnomone esser l’umbilico dell’ombra dello stilo posto ne gli horologi, con il quale si conoscono l’hore diurne”.(1)

Vitruvio (2) lo descrive come una linea posta in piedi ortogonalmente, ad angoli retti, dall’ombra del quale dice doversi prendere la ragione di comporre l’analemma secondo l’altezza dell’Equinoziale che risulta essere diversa a seconda della latitudine del luogo. Per i gnomonisti del 1500 lo gnomone, in seguito all’adozione dello stilo polare (parallelo all’asse terrestre - style-axe per i francesi), diventa quella figura triangolare chiamata appunto triangolo stilare che ogni tanto ammiriamo sulle meridiane. I tre lati di questa figura sono 1 Era questa una definizione molto comune all'epoca derivata da antiche tradizioni. 2 De Architectura, Lib. IX

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chiamati (secondo il gergo di allora) base, cateco e hypotenusa, che corrispondono rispettivamente al Substilo, Ortostilo e Assostilo.

4. LA GNOMONICA: ETIMOLOGIA E DEFINIZIONI

Il termine Gnomonica deriva dal verbo greco γνωµον

(gnomone), cioè conoscitore, indagatore, interprete, giudice, da cui γνωµονος (gnomonos) che significa “indagatore di cose”, “che serve o che dà la regola”, e quindi gnomone come “ago” dell’orologio solare, dicitura che si trova presso Plutarco a proposito della teoria platonica del tempo: “E’ adunque meglio dire che la terra è uno strumento del tempo non nel senso letterale, di essere provvista di moto come gli astri, ma perchè stando ferma essa separa il sorgere e il tramontare degli astri in periodi mediante i quali sono determinate misure principali del tempo: il giorno e la notte...Proprio come l’ago di una meridiana non muta la sua posizione a seconda dell’ombra, ma diviene strumento per misurare il tempo restando al suo posto...” (3).

Questo gnomon indagator umbrae è lo strumento per mezzo del quale nasce la gnomonica, ossia l’arte di costruire gli orologi solari: η γνωµονιχητεχνη come scrive Vitruvio e Aulio Gellio, e ancora γνωµονιχωζ, cioè secondo le leggi gnomoniche, come riporta Solino C.G.

Ad ogni modo la parola gnomonica è più recente di gnomone ed è difficile trovare citazioni più antiche di quelle di Vitruvio e di Plinio. Di quest’ultimo è famoso il passo del Lib. II, al cap. 76: “Umbrarum hanc rationem, quam vocant Gnomonicen (o Gnomonicum), invenit Anaximenes Milesius, etc...”. La gnomonica è per Igino, vissuto a cavallo tra il I e il II secolo d.C., una colonna dell’arte divina: “Advocandum est nobis gnomonices summae, ac divinae artis fulmentum” (4).

Fino ai tempi di Vitruvio, la scienza degli orologi solari era con ogni probabilità denominata Sciaterica, o Scioterica. 3 Plutarco, "Quaest. Plat.", 1006 C 4 Igino, "De limitibus".

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Presso Plutarco si legge το σχιοτηρον, in Strabone σχιοτεριχοζ mentre in Cleomede τα σχιοτηριχα, e nello stesso Vitruvio σχιοτµροζ, che significa proprio meridiana, o orologio solare, e nella Geografia di Tolomeo si legge γνωµονιχον.

Sciotera è una parola composta da scio (σχιο), che significa ombra, e tereo (τηρεω), che vale catturare, che insieme significano strumento adatto a catturare le ombre. σχιοϑηρεω, invece, significa “osservo le ombre” ed è citato da Esichio.

Il Gesuita Padre Cristoforo Clavio, il padre della Gnomonica del XVI secolo, è molto esplicito sul significato di queste parole: “σχιοτηρον (scioteron) significa infatti idoneo a catturare le ombre. Da cui σχιοϑηρα (sciotera) sono gli strumenti matematici con i quali si suole catturare le ombre, e l’orologio scioterico lo strumento nel quale l’ombra del Sole è idonea a dimostrare con certezza l’ora del giorno, la durata, il sorgere e tramontare del Sole, le stagioni in cui il Sole occupa i segni dello Zodiaco, e altre cose”. L’arte di disegnare orologi solari è detta pure “σχιογραϕια “ (sciografia), come cita pure Clemente Alessandrino, o “σχιογραϕοζ” nelle antiche scritture.

Molto meno noto è, invece, l’appellativo di “Fotosciaterica”. Il filosofo e matematico Cristiano Wolfio, nella sua opera (5) comprende una parte, “Elementa Gnomonicae”, in cui si legge: “...Pochissimi la chiamano Photosciaterica, poichè anche mediante la luce solare talvolta si distinguono le ore”.

Questo inusuale termine non si trova nei libri di Gnomonica almeno fino al secolo XVII. Evidentemente questa parola entrò a far parte del lessico gnomonico quando cominciarono ad avere larga diffusione le meridiane a luce, cioè quelle in cui è possibile leggere l’ora non più dall’ombra proiettata dallo gnomone, ma per mezzo di un sottile raggio di luce solare prodotto da un piccolo foro detto “foro eliotropico”, ricavato, in genere, nel centro di una piastrina metallica. In questo caso lo gnomone è materializzato proprio dal foro della 5 Compendium elementorum matheseos universae, Hale, 1717, "Elementa Gnomonices", cap. I, scholion 2.

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piastra che sostituisce il vertice sia dell’ortostilo che dell’assostilo. Questo tipo di gnomone si dice sia stato scoperto dall’arabo Ibn Yunus alla fine del secolo X, ma tale metodo ebbe un certo successo solo dal XVII secolo, soprattutto in seguito al periodo delle grandi meridiane a luce realizzate nelle cattedrali (vedi oltre).

Anche nell’Encliclopedia Britannica del 1751 è scritto: “Alcuni la chiamano Pithosciaterica o Phontosciaterica, per cagione, che le ore si mostrano alle volte per mezzo della luce del Sole”; lo stesso si riporta nell’Encyclopedie des Sciences, des Arts et des Metiers, di M. Diderot, del 1773, in cui si legge anche l’inusuale appellativo di “Horographia”. A dire il vero questo termine l’avevo già letto nel libro di P. Biagio La Leta (6), ove stranamente, era stato barrato da un antico lettore come fosse stato un errore. Invece ecco che l’appellativo riemerge in altri testi più antichi e nella citata enciclopedia viene spiegato che questo “indica propriamente l’arte di descrivere le ore su di un piano”.

Comunque, durante le ricerche bibliografiche ho trovato numerosi codici di Gnomonica nel cui titolo recavano questa parola per cui dobbiamo prenderla per buona. Il termine Horologiographia, invece, dovrebbe indicare più chiaramente la descrizione o la realizzazione di orologi.

Infine vorrei ricordare altri due strani appellativi che ho trovato in antichi testi. Nell’opera di Giovanni Poleno, Historia Fori Romani, e nel libro di Francesco Maurolico, Opuscula mathematica (1575, lib.1, p. 161), si legge “Gnomicen” e “Gnomica”, usati evidentemente con licenza letteraria quale diminutivi di Gnomonica. Mentre il Lexicon Antiquitatum Romanarum di Samuele Pitisco ( 1713, tomo I, p. 705), riporta, oltre a “Sciateras”, o “Scioteras”, anche “σχιοµαχια” o “σχιαµαχια”, (sciomachia, o sciamachia) che, curiosamente, significa combattimento di ombre.

6 Gnomonica, ossia l'arte di descrivere orologi solari, Hoepli, Milano, 1897, pag. 138, e M. Diderot "Encyclopedie des sciences des arts et des metiers", tomo 7, p. 712, Livourne, 1773.

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5. LE ORE DEGLI ANTICHI La misurazione del tempo presso gli antichi fu oggetto di

dottissime erudizioni nei secoli XVII e XVIII. E naturalmente se gli orologi solari, come pure quelli di diversa specie: ad acqua, a sabbia, ecc., servirono per indicare il tempo all’uomo, un’altra domanda che ha stimolato gli storici è, quale tempo? Noi siamo troppo assuefatti dal controllare l’ora coi moderni orologi al quarzo, ma gli antichi conoscevano questa utile unità di misura del tempo?

Due secoli fa, la risposta ad una simile domanda poteva riempire un intero volume. Qui ci contenteremo di conoscere gli elementi essenziali della questione, senza dilungarci in inutili considerazioni storico-filosofiche.

Anche per il termine “ora” si hanno delle indicazioni alquanto curiose, tanto da essere a volte considerate solo delle favole dagli stessi gnomonisti del XVI secolo. Ad ogni modo, l’origine di tale termine rimane un pò misteriosa. E’ impossibile prendere in considerazione tutte le definizioni e le curiosità storiche tramandateci dagli antichi scrittori. Ma per soddisfare la nostra curiosità diremo brevemente solo alcune cose. Pare che all’inizio il termine “ora” venisse adottato tra l’altro per indicare ciascuna delle quattro stagioni dell’anno. Infatti, Orazio Flacco, nell’Ode XII, scrisse: “Variisque mundum Temperet horis”, le quali parole vennero così commentate dal Lambino: “Horas, hoc loco, quatuor anni partes dissimiles intellige”.

Lo storico Diodoro ci fa sapere che Iperione per primo osservò le ore, mentre Agostino Calmet, nelle “Disquisitiones” (7) scrive che nel Caldeo Daniele si trova la voce Scaeh, che volgarmente si traduce con “Hora”: “Ed egli restò a pensare per quasi un’ora”. Anche nella Vulgata in Tobia si fa menzione delle ore. Tobia, sotto l’impero dei Caldei scriveva: “Si difese per quasi mezz’ora”, e nel cap. XII: “Prostrati per tre ore” (idem nota 7). 7 "Disquisitiones in Chronol. Aegyptior. Graecor. etc.", Venetiis 1754, pag. 64.

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L’erudito francese Claude Saumaise, latinizzato in Claudius Salmasius, vissuto nella Borgogna nel 1600, si adoperò per dimostrare che la voce ora non era ancora usata, per indicare la particella del giorno, da nessuno degli scrittori vissuti prima del tempo di Alessandro o di Platone: “Atqui certum est, compertunque plus quam ducentis annis ab Anaximandri morte, nec horarum nomen pro diei particulis in Graecia auditum fuisse...” e ancora “Certè novae Comoediae scriptores, quorum princeps Menander, qui post Alexandrum Magnum vixerat, nusquam horas (τηξ ωραξ) meminere pro diei particula, ut Grammatici nobis veteres testantur. Sed nec ea vox hoc sensu apud Platonem, Aristotelem, Theophrastum, aut alios aequaevos scriptores uspiam legitur” (8). Secondo questo autore, addirittura i Greci non conoscevano l’uso dell’orologio solare ancora al tempo di Menandro (342 a.C.) e neppure la suddivisione del giorno attraverso le particelle ore: “Menandri tempore nondum Graeci noverant horologiorum solarium usum, sed nec diei in horarum particulas divisionem tum usitatam habuere, nec horae nomen ista notione usurparunt...”. Egli sostiene questa sua tesi osservando che a quei tempi al posto delle ore si usava annunciare un particolare momento della giornata dalla misura in “piedi” dell’ombra proiettata dal proprio corpo, come trova riferimento in Menandro, citato da Ateneo nella sua commedia “Orge” e in Hesichio: “Presso gli antichi si usava il termine “semeion”, che significa “momento”, per indicare una piccola parte del giorno, come si trova pure in Menandro. Infatti, al suo tempo i Greci non dicevano ancora “ora”, dalla dodicesima parte del giorno. Essi erano soliti calcolare dalla misura dell’ombra questi “semeion” o momenti, o parti del giorno. Così ebbe inizio il computo delle ombre dette di “sei piedi”, di sette, di otto, di nove, di dieci, di undici e di dodici piedi” (9). 8 C. Salmasius, "Plinianae exercitationes in Caii Julii Solini Polyhistora", 1689, pag. 446 G. 9 C. Salmasio, op. cit. pag. 446 D: "Apud veteres semeion vocari dicit hujusmodi parvam diei particulam, sicut et apud Menandrum. Nondum quippe Menandri aevo ωραζ (horas) dicebant Graeci de parte diei duodecima. Ea "semeia", sive diei partes, quae Menandri aetate vulgo usurpabantur, ex umbrae

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Questi, in parte, sono gli argomenti sostenuti da Salmasio sull’adozione delle ore. A questo proposito, però, è necessario ricordare ancora una volta che dall’attendibile fonte storica di Erodoto (Euterpe, lib. II, cap. 109) sappiamo che i Greci appresero dai Babilonesi l’uso del Polos, dello Gnomone e la suddivisione del giorno in 12 parti uguali, cioè 12 ore. Inoltre, Lo scrittore Harduino, nella nota a Plinio (10), citando un passo di Xenofonte, riporta (11): “Il Sole splendeva e indicano le ore del giorno e il resto”, ove riferendosi naturalmente agli orologi solari, ci regala la più antica citazione della parola “ora” della letteratura greca. Senofonte, infatti, visse ad atene attorno al 410 a.C.

Tuttavia, spostandoci in Egitto, possiamo risalire ancora più indietro nel tempo alla ricerca dell’adozione dell’ora come dodicesima parte del giorno, poichè esiste nel Museo Egizio di Torino un sarcofago della mummia di Peftau-Auiset, risalente al 640 a.C. circa, il cui interno è decorato con le formule di invocazione corrispondenti alle ore del giorno e della notte, piuttosto rare, rispettivamente a destra e a sinistra della figura della dea NUT, raffigurata distesa con le braccia protese a coprire la Terra. Inoltre, sempre all’interno del coperchio del sarcofago, sul fondo bianco, c’è la figura policroma di NUT e ai lati dodici figure femminili con i testi di invocazione di protezione del defunto nelle ore del giorno e della notte. Sopra il capo della dea è il disco solare rosso. Le stelle e i dischi solari che si trovano sopra il capo delle dee ai lati indicano le ore notturne e diurne (12). Può essere questa forse la più antica testimonianza della suddivisione del giorno in ore.

Un’altra interessante citazione proviene dalle “Massime di Any”, personaggio vissuto in Egitto circa nel 1230 a.C., e precisamente dal papiro Boulacq in cui è scritto: “Trascorsa l’ora propizia ci si sforza di incontrarne un’altra”. Ma in questo mensura colligi solebant. Earum ratio sic inibatur, ut εξαπους σχια diceretur... et sic deinceps partes diei numerabant ab umbrae mensura pedibus comprehensa". 10 H.N., LIB. I, p. 278 11 Lib. IV, Memorab., pag. 800 12 Civica Raccolta Egizia, edita a Milano nel 1976

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caso è difficile dare alla parola “ora” il significato di spazio temporario equivalente alla dodicesima parte del giorno o della notte. E’ più probabile che qui il termine ora acquisti il significato di “momento” propizio.

6. LA FAVOLA DEL CINOCEFALO La letteratura antica ci tramanda una tradizionale storia di

fiabesco folclore proprio sull’origine della suddivisione del giorno e della notte in 12 parti uguali, tanto è vero che questa storia viene chiamata in genere favola del cinocefalo. Ed ecco quanto scrive Valentino Pini nella sua Fabrica de gl’horologi solari del 1586:

“Et hora vien detta dal nome greco ωροζ (oros), che significa “termine”, overo “fine”, che come tutto quello spazio di tempo che è contenuto da un giorno naturale, essendo spartito dalle ventiquattro hore, sia, come da tanti segni, terminato, e finito. Ma perchè fossero poi spartiti così li giorni, come le notti, più tosto col numero duodenario che con altro, fu forse, come narra il Clavio, perchè havendo sempre havuto gl’Antichi gran cura del tempo, nel quale ciascuna parte dello Zodiaco ascende sopra l’horizonte, pare che non senza gran ragione delle dette parti istituissero l’hore; ma perchè il Zodiaco è precisamente in dodici parti diviso, si come dodici li segni, che impressi sono in esso, de’ quali sei ogni qual giorno ascendono sopra l’Emisperio nostro, e sei ogni qual notte, s’havessero a ciascun state l’hore molto più longhe del convenevole; onde perciò le parve più cagionevole cosa consignarla ad ogni mezzo segno ascendente sopra all’Horizonte, che ad uno intiero. Dal che nacque poi che, e dagli Hebrei, e dai Romani, e quasi dal resto de gl’Antichi fu usato il giorno in dodeci hore. Non sono mancati molti i quali hanno creduto che questi spazi siano chiamati hore dal verbo greco ωροζ (oros) che significa urina; percioche riferiscono che Hermete Trismegisto fu il primo, che osservò li ventiquattro spazi uguali del giorno naturale, da l’urina di un certo animale, (cosa la quale se ben può la natura ne gl’animali fare effetti maggiori di questo, appare nondimeno più tosto favolosa, che vera) il quale, appresso gl’Egittij, era consacrato al Sole.

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Questo con giusti intervalli dicono, che dodici volte rendeva l’orina il giorno, per longo ch’ei fosse, e altrettante la notte, per breve che rimanesse” (13).

Di diverso parere è Padre Augusto Calmet che, citando Cicerone, sostiene che Trismegisto abbia avuto l’idea dei 12 spazi uguali dallo strillare del Cinocefalo (che è una scimmia appartenente alla specie delle Amadridi), e non dal suo orinare dodici volte al giorno (14).

Mario Vittorino (sec. XVIII), invece dice: “Essendo Hermes Trimegisto un tempo in Egitto, qualche animale sacro era consacrato a Serapide, poichè tutto il giorno aveva orinato dodici volte, sempre con uguale interposizione di tempo, ed egli interpretò che il giorno fosse diviso in 12 ore, e da allora si è mantenuto questo numero delle ore” (15). Ma c’è anche chi mette in ridicolo la favola del Cinocefalo, come fa l’autorevole Dionisio Petavio in una delle sue monumentali opere sulla misurazione del tempo:

“Opporrei al Cinocefalo che orina due volte al giorno durante l’anno, un altra bestia che orinava 12 volte di giorno e altrettante di notte, indicando così le ore in Egitto” (16) e per sostenere la sua tesi richiama una frase di Damascio, nella vita di Isidoro, contenuta nel Codice CCXLII dei Photium, risalente alla metà del IX secolo circa: “Duodecim horas felis distinguit, noctes ac dies singulis horis urinam reddens; ac semper horologii instar horas designans”.

Per alcuni autori la parola “ora” è originariamente ebraica (Aor) e significa luce, vale a dire la causa produttrice del giorno e delle ore e pure dell’ombra gnomonica (17). Invece Plutarco fa 13 Pini Valentino, "Fabrica de gl'horologi solari", M. Guarisco, Venetia, 1598, pag. 4 v. 14 A. Calmet, "Commentario letterale, historico e morale sopra la regola di S. Benedetto", Arezzo, 1751, om. !, pag. 124. Rif. Tullius apud Victorin. a Macrobio, Lib. I, cap. 21, nella "Retorica di Cicerone", pag. 151. 15 "Retorica di Cicerone", pag. 151 16 Petavii Dionysii, "Opus de doctrina temporum", 1703, cap. VIII, pag. 145. 17 Orazio Iutis, "Elementi di cronologia", Napoli, 1802, cap. 3, pag. 24.

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discendere la parola “ora” da “Horus”, figlio di Osiride. Ma l’ipotesi scientifica più accreditata è quella di M. Bailly, espressa nella “Histoire de l’Astronomie ancienne”, del 1775, e cioè che la divisione del cerchio in 60 parti abbia dato origine a quella del giorno in 12 parti e lo stesso per la notte.

7. L’OROLOGIO SOLARE PIÙ ANTICO Gli scrittori antichi che hanno preso alla lettera le

informazioni storiche tramandateci da Plinio il Vecchio nelle sue “Storie”, sono rimasti ingannati e, a ben dire, c’è da restare veramente meravigliati del fatto che nelle opere degli autori cristiani non si trovi menzione alcuna di orologi solari anteriori a quello citato da Plinio che attribuisce ad Anassimene Milesio:

“Umbrarum hanc rationem, et quam vocant gnomonicen, invenit Anaximenes Milesius, Anaximandri, de quo diximus, discipulus: primusque horologium, quod appellant Sciothericon, Lacedemone ostendit”.

Stiamo parlando del VI secolo a. C., e prima di addentrarci nell’intricata questione nell’attribuzione dell’invenzione dell’orologio solare in Grecia, voliamo indietro nel tempo fino a quando regnava il Re Hyskiam in Giudea. Infatti, la prima testimonianza storica scritta di un orologio solare si trova proprio nelle Sacre Scritture. E a questo proposito è interessante anche quanto scrisse P. Biagio La Leta (18) che, come pochi altri autori fecero, soprattutto nel passato, contrariava le notizie di Plinio:

“Egli (Anassimene Milesio) è vissuto circa nella cinquantesima Olimpiade (19), cioè un pò più di cinque secoli e mezzo prima di Cristo. Mentre il Re di Giudea Achaz, citato nelle Sacre Scritture e che fece costruire il più antico orologio solare tramandatoci dalla storia, famoso soprattutto per la retrogradazione dell’ombra, regnò dal principio della nona Olimpiade sino alla metà della duodecima. Quindi, il monarca 18 Op. cit. vedi nota 6, pag. 1-2 19 Le Olimpiadi erano periodi di 4 anni, cominciati nel 776 a. C. e destinati dai Greci a determinare la celebrazione dei giochi olimpici.

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ebreo precedette di circa due secoli il filosofo greco nella costruzione del primo orologio solare”.

Ma nel frattempo sono stati effettuati importanti scavi archeologici nell’area del mediterraneo orientale, così oggi, possiamo vantarci di aver conosciuto orologi solari ben più antichi di quelli finora citati. Uno di questi, tra i più famosi, risale al 1500 a.C. circa, all’epoca in cui regnò il potente Faraone Tutmosis III. Questo strumento è stato chiamato “Merkhet” ed ha la strana forma di una T con delle tacche incise. Viene conservato attualmente nel Museo di Berlino e gli esperti sostengono che esso sia appartenuto a Hor “Sacerdote osservatore delle stelle”. E’ composto di due aste di pietra a forma di T, e orientato in piano orizzontale permette, secondo alcuni autori, di leggere l’ora attraverso l’ombra che l’asta più piccola proietta su quella lunga sulla quale sono incise delle tacche che non corrispondono certamente ad una suddivisione duodenaria, ma sembrano piuttosto indicare solo alcuni momenti più importanti della giornata. Quindi non può trattarsi di ore come noi le intendiamo, ma solo di parti di giorno variabili durante l’anno, simili alle ore ineguali. Per gli egittologi si tratta di una parte di una più completa apparecchiatura che nel suo insieme viene denominata merkhet, per mezzo del quale era possibile risolvere alcuni problemi elementari di astronomia, ma soprattutto orientare gli edifici e i templi da costruire.

In proposito è interessante quanto scrive F. Cimmino: “...L. Borchardt concluse che si trattava di due parti di un unico strumento e, con A. Erman, identificò una delle due parti con quello che Clemente Alessandrino (20) chiamava “phainix astrologhias”, e l’altra parte con quello che lo stesso Clemente denominava “orològhion”; in seguito Borchardt ammise che il Merkhet era essenzialmente un apparecchio astronomico di orientamento che, forse, poteva servire anche come “orologio solare” (21). 20 Stromata, VI, 4, 35. 21 F. Cimmino, "Storia delle Piramidi", Rusconi ed. 1990, pag. 379 21 (bis) Andrè Chouraqui, "La vita quotidiana degli uomini della Bibbia", Mondadori, 1988

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Anche gli Ebrei per la lettura delle ore (o comunque di spazi temporali) si servivano delle clessidre o delle meridiane come quella trovata a Ghezer, risalente al XIII sec. a. C. (21 bis), sulla quale però non ho potuto raccogliere altre notizie.

Ma l’uso del gnomone è sicuramente molto più antico e si pensa che in Cina risale alle osservazioni astronomiche fatte all’epoca dell’Imperatore Yao, nel XXIII secolo a.C. Anche in Mesopotamia, attorno alla metà del I millennio a.C., erano già noti i metodi di misurazione del tempo a mezzo delle ombre solari. Infatti, sembra che alcuni di questi metodi si trovino incisi in una parte di una serie di tre tavolette cuneiformi denominate MUL. APIN che furono conservate nella biblioteca di Assurbanipal (22). L’indizio di orologio solare più antico si trova in ciò che viene chiamata dagli archeologi “Sundial stone”, ed è una pietra sulla cui superficie si trovano incise delle linee, proprio come le linee orarie di una meridiana; inoltre, sono presenti dei fori che, con tutta probabilità, ospitavano uno o due gnomoni. Questa pietra è stata trovata nel complesso archeologico di Newgrange e la si fa risalire al 4000 a.C.!

8. L’OROLOGIO DEL RE ACHAZ E IL

MIRACOLO DI ISAIA. Dopo questa breve panoramica sugli orologi solari più

antichi, rivolgiamo ora la nostra attenzione a quello che è, tra questi, il più famoso: l’orologio di Achaz. Questo orologio è passato alla storia perchè citato nelle Sacre Scritture, ma la sua notorietà è legata soprattutto al fenomeno della “retrogradazione dell’ombra” dovuto (come riportano le fonti) al miracolo del profeta Isaia (23), ed ecco come ci è stato tramandato nei secoli:

“In quel tempo Ezechia fu colpito da una malattia mortale. Or, il profeta Isaia, figlio di Amos, andò a fargli visita e gli disse: Così parla il Signore - Metti in ordine quanto riguarda 22 A.L. Oppenheim, "L'antica Mesopotamia ritratto di una civiltà", Newton Compton, 1980, p. 269 e 340. L'autore segnala in proposito uno studio specifico di S. Langdon, "Babilonian menologies and the semitic calendars", London, 1935, p.55. 23 Libro II dei Re, cap. 20

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la tua casa, perchè tu morrai e non vivrai -. Ezechia allora voltò la faccia verso la parete e supplicò il Signore, dicendo: Dhe, Signore, ricordati che io ho camminato dinanzi a te nella verità, con cuore perfetto, compiendo ciò che è gradito ai tuoi occhi. Poi Ezechia scoppiò in pianto dirotto. Isaia non era ancora uscito dal cortile di mezzo, quando gli fu rivolta la parola dal Signore, che gli disse: - Torna indietro e annunzia ad Ezechia, capo del mio popolo: così parla il Signore, Dio di Davide: ho udito la tua preghiera, ho veduto le tue lacrime, ed ecco, Io ti guarisco. Fra tre giorni salirari al tempio del Signore. Anzi aggiungerò quindici anni alla tua vita, poi libererò te e Gerusalemme dal Re di Assiria, e proteggerò questa città per amor mio e per amore di Davide, mio servo.

Isaia ordinò: portate un impacco di fichi. Lo portarono, e quando l’ebbero applicato sopra l’ulcera, il re guarì. Ezechia aveva chiesto ad Isaia: quale sarà il segno che il Signore mi guarirà e che io fra tre giorni potrò salire al tempio del Signore? Isaia rispose: Ecco da parte di Dio il segno che il Signore compirà la sua parola: Vuoi tu che l’ombra salga di dieci gradi, o che torni indietro di altrettanti? Ezechia rispose: Per l’ombra è cosa facile avanzare di dieci gradi: fa invece che torni indietro di altrettanti. Il profeta Isaia invocò il Signore ed egli fece tornare indietro di dieci gradi l’ombra sulla meridiana di Achaz”. (24)

Questo è il passo che racconta la Bibbia. Su queste parole si sono arrovellate le più fulgide menti del passato, nel tentativo di spiegare il miracolo di Isaia, di spiegarlo con teorie scientifiche e nello stesso tempo di conciliarlo con le dottrine della Chiesa e, infine, di speculare soprattutto sulla natura dell’orologio di Achaz: le sue dimensioni, la sua forma, di cosa era fatto, che tipo di ore segnava, e via dicendo. Il mistero, però, rimane e nulla di gran che preciso ne risulta dai fiumi di parole spese per questo fenomeno. Il miracolo è stato in parte spiegato scientificamente con teorie matematiche allora inimmaginabili, sicchè si pensa che Isaia sia riuscito a scoprire casualmente 24 "Facile est umbram crescere decem lineis; nec hoc volo ut fiat, sed ut revertatur retrorsum decem gradibus".

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questo fenomeno e a riprodurlo, senza però poterlo spiegare. Sulla natura dell’orologio, invece, esistono solo delle ipotesi, peraltro fondate solo sull’interpretazione soggettiva dei termini originali delle traduzioni antiche delle Sacre Scritture. L’ipotesi più accreditata, comunque, e che sento di sostenere anch’io, è che l’orologio del Re Achaz sia stato una sorta di altare più che un quadrante murale o altro.

Molto probabilmente era un orologio orizzontale inglobato in un altare, anche perchè nelle Scritture si legge che Achaz andò a Damasco per rendere omaggio a Teglat-Falasar, Re degli Assiri che aveva combattuto contro Rasin, e “avendo veduto l’altare che era in Damasco, il Re Achaz, ne mandò un modello al Sommo Sacerdote Uria, con le misure e i dettagli precisi della sua struttura. Uria fece costruire l’altare secondo tutte le istruzioni che Achaz aveva fatto pervenire da Damasco e lo terminò prima ancora che il Re tornasse da quella città”. E cronologicamente questo passo viene prima del miracolo di Isaia. Altri autori antichi parlano di “lapidem horarium” e c’è chi sostiene l’ipotesi di un Hemysphaerium, cioè di un orologio solare in una cavità emisferica. Anticamente S. Cirillo Alessandrino e S. Hyeronimo, dicevano che era una scala, costruita in modo che si potesse leggere l’ora sui gradini, con l’ombra del sole (25). Altri affermano che si trattava di una 25 A. Calmet, "Dissertatio de retrogradatione solis in horologio Achaz", 1754, pag. 631: "Dissident Interpretes in explicanda structura horologii Achaz. S. Hieronymus (*) haec habet: Sive ita extruendi erant gradus arte mechanica, ut per singulos umbra descendens horarum spatia terminaret - Paria sensit etiam S. Cyrillus Alexandrinus (**): Dicunt autem, Achazum Ezechiae patrem in domo sua velut machina et arte quadam gradus quosdam confici curavisse, qui velut horas numerarent, et cursum solis decursu umbrae in illis factae metirentur". E ancora: "Cujus esset formae horologium illud, Scriptores non fatis conveniunt. S. Cyrillus Alexandrinus e S. Hieronymus (Isa. 38) scalam fuisse autumant, ea arte fabrefactam, ut umbra à sole proiecta horas notaret; quae etiam sententia vulgò Interpretibus arrisit". (***) (*) Isa. XXXVIII. (**) Cyrill. Alex. in Isa. lib. 3, t.4, pag. 496 (***) A. Calmet, Dictionarium Historicum criticum...", pag. 427.

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colonna altissinma che proiettava la sua ombra sul pavimento e le cui ore la Scrittura chiama “gradi” (26).

L’erudito Grossio, nel XVIII secolo, pensava che l’orologio di Achaz fosse un emiciclo (hemicyclium), ovvero una sfera concava, con un globo nel mezzo come gnomone, la cui ombra segnava le ore sulle 28 linee descritte nella cavità, ma questa ipotesi non ha mai trovato nessun sostenitore (27).

Heilbronner nella sua cronologia (28), ricorda il passo del Libro delle Cronache: “Circa haec tempora MERODACHUS legatos ad HISKIAM Regem Judaeorum, ut et liberationem ex morbo gratularentur, et in veritatem miraculi istius inquirerent, quod Astronomis Babyloniorum tantam crucem fixerant, cum fuis principiis hoc computare nescientibus, qua ratione umbra in 26 A. Calmet, "Dictionarium historicum criticum", Venetiis, 1734, pag. 427 e A. Calmet. "Dissertatio retrogradatione in horologio Achaz", 1754, pag. 631: "Aliis vero creditur, verum fuisse horologium solare, instar primigeniorum illorum, quae olim obtinuerunt in Graecia, et in Italia, ita a Veteribus descripta, quasi columna essent in medio areae erecta, quam scilicet aream variis lineis distinguebant. Percurrens igitur umbra columnae varias illas lineas, horas diei notabat". E ancora: "Alii columnam fuisse in pavimento constanti erectam, quae, umbram demittens, horas, in eodem pavimento descriptas, quas gradus Scriptura appellat, denotabat", dal citato Dizionario di A. Calmet., pag. 428. Inoltre, nella stessa pagina è specificato il termine originale tradotto in "gradi": "Hebraeum "Maaloth (*), quod in Vulgata redditum est "horologium", "linea", "gradus"; exprimit ad literam ascensum gradum, quare nihil certi deduceretur pro figura horologii Achaz". (*) 3. Reg. 20. II. Isaiae 38.8 Septuaginta "Anabathmos, gradus"; Vulgata "Linea gradus". 27 A. Calmet, "Dissertatio retrogradatione horologio Achaz", pag. 631: "Totam hujus horologii rationem ex R. Elia Chomer ita Grotius describit. Concavus erat, atque hemisphaericus globus, alterum in medio complectens globum, cujus umbra in varias lineas in cavitate notatas incidebat, quae sane lineae, inquit, XXVIII. erant numero". 28 C. Heilbronner, "Historia matheseos universae", Lipsiae, 1742, Lib. I, cap. V, pag. 98, par. 22.

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Sciaterico retrorsum versus Orientem tendere potuerit, sine Nachinae coelestis desctructione (2. Chron. XXXII. 31.)”.

Anche Merodaco era desideroso di conoscere la verità sul miracolo di Isaia, ma egli era ancora più meravigliato dal fatto che i suoi Astronomi babilonesi non erano riusciti a spiegare questo fenomeno senza cambiare le incrollabili leggi dei moti celesti (sine Machinae coelestis destructione).

9. IL MIRACOLO RISOLTO ? Il fenomeno della retrogradazione dell’ombra, stando agli

studi scientifici, non ha nulla di soprannaturale; esso è un’immediata conseguenza del moto dell’ombra di un’asta, o gnomone, sottoposta a speciali condizioni, come ci informa il Pasini (29). Questo fenomeno venne studiato per la prima volta da Petrus Nonius Lusitanius, nel secolo XVI, che ne diede la prima rudimentale dimostrazione (30) . In seguito se ne occuparono nomi celebri come il Gesuita Cristoforo Clavio, in “Fabrica et usus instrumenti ad Horologiorum”, del 1586: “Retrocessione umbrae, quae exposuimus, non adversari retrocessioni umbrae in horologio Achaz virtute divina factae” (31). Nel 1752 il sapiente Agostino Calmet scrisse l’interessantissima dissertazione sulla retrogradazione, in cui mette al vaglio praticamente tutte le citazioni e i riferimenti storici che ci sono stati tramandati dall’antichità, sull’orologio di Achaz. Si tratta senz’altro, quindi, del saggio più completo. Nel 1881, lo stesso 29 C. Pasini, "Orologi solari", Draghi, Padova, 1900, pag. 142 30 Petro Nonio, Lib. 2 de Navigatione, cap. II. Egli scrive: "Non est igitur absurdum, si in ijs locis (nempe inter Aequatorem, et tropicum cancri, vel capricorni) progrediantur umbrae, et retrocedant. In hac tamen plaga nostra Boreali, qua citra tropicum cancri, posita est, id citra miraculum fieri non posset, quemadmodum iussu Dei legitur accidisse in signum salutis regis Ezechiae". 31 Il Clavio espone la dimostrazione di Petro Nonio e quindi la sua, trattando in modo molto approfondito l'argomento, alle pagine 105-110.

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miracolo venne ripetuto a Losanna dal Colonnello del Genio Etienne Guillemin, e nel 1885 fu dimostrato pure dall’astronomo Camille Flamarion. L’ultima dimostrazione matematica sembra essere quella di Enrico Garnier, esposta nel suo libro “Gnomonica. Teoria e pratica dell’orologio solare”, nell’edizione del 1938. Il Garnier ci dice che in particolari condizioni, come quando la latitudine del luogo è minore della declinazione del Sole, si ha il fenomeno della retrogradazione dell’ombra. Essa è tanto maggiore quanto più grande è la declinazione del sole e viceversa e che è nulla quando la declinazione è uguale a zero. Ogni quadrante orizzontale a stilo verticale posto nelle regioni equatoriali da luogo alla retrogradazione dell’ombra.

(Per uno studio tecnico più approfondito si veda l’articolo di Edmondo Marianeschi e Nicola Severino “Ancora sull’Orologio di Achaz”, in Atti del VI Seminario Nazionale di Gnomonica, S. Benedetto del Tronto, 1994).

10. LE ORE INEGUALI, TEMPORALI, O

PLANETARIE. La divisione in 12 parti uguali del giorno e della notte

poneva delle difficoltà in quanto queste ore non erano come le nostre, ma avevano una durata che variava nel corso dell’anno, perchè variavano gli istanti del sorgere e del tramontare del sole. Per questo motivo furono chiamate “ore temporarie”, o “ore temporali”, denominate dai Greci χαιριχαξ (32) e facevano parte del sistema di numerazione detto ad “ore ineguali”. Esse 32 Giovanni Poleno, "Historia fori romani", Venetiis, 1737, Vol. I, Cap. IX, pag. 393 C:"...de horis videlicet duo esse genera horarum, unum Temporalium, quas Graeci caisicas (χαιριχαξ) vocant, quae ex Solis progressu, vel regressu supra nostrum hemisphaerium incrementum, vel decrementum capiunt, nam Brumae tempore diurnae brevissimae, nocturnae longissimae sunt...".

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corrispondevano, grosso modo, a un’ora e un quarto delle nostre in estate, e a tre quarti d’ora delle stesse in inverno.

Nel parlare di ore temporali, planetarie, ineguali, ecc. c’è pericolo che si generi confusione sulle varie definizioni. Per evitare ciò sarà bene, prima di tutto, evidenziare il significato delle ore planetarie. Queste sono nient’altro che le antiche ore temporali, alle quali si associa, secondo le teorie astrologiche del tempo, l’influenza dei singoli pianeti con le singole ore del giorno. Hieronimo Vitali nel “Lexicon mathematicum astronomicum geometricum “, del 1668 (pag. 223, par. 34), scrisse: “Aliae dictae inaequales, temporarie, naturales ae Planetariae...Dicuntur etiam planetariae, quoniam singulis horis inaequalibus singulos planetas dominari contendant Astrologi, facto initio planeta diem denominante”, quindi sono dette Planetarie poichè gli astrologi affermano che i singoli pianeti dominano le singole ore ineguali.

Le ore temporali e le ore Planetarie, come suddivisione oraria, sono la stessa cosa, con la differenza che le temporarie rappresentano le ore vere e proprie, e le planetarie rappresentano l’influsso (solo dal punto di vista strologico) che su quelle ore hanno i singoli pianeti, secondo un preciso ordine che ora vedremo. Le ore planetarie non si “leggono”, come le ore temporali, direttamente sul quadrante dell’orologio, perchè come ore non hanno alcun senso, ma se ne conosce il significato solo attraverso una apposita tabella abbinata alla meridiana, nella quale viene riportato il dominio dei pianeti. Giovanni Battista Vimercato, milanese monaco di Certosa, nel suo libro “Dialogo de gl’horologi solari” del 1586 riporta un buon esempio di come debba intendersi la lettura delle ore temporali su un orologio solare:

“...con l’ombra dello stilo conosciuta l’hora Planetaria (ovvero l’ora temporale), come per essempio settima nel giorno del Sabbato, entrate nella tavola seguente - (la tavola in cui è riportato il dominio dei pianeti) -, dove da man sinistra son segnate l’hore del giorno d’una in una, e trovato il numero settimo, procederete all’incontro d’esse verso la man destra sin

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sotto al Sabbato, e troverete la Luna esser il pianeta signor di quell’ora di quel giorno...” (33).

Le meridiane a ore planetarie, quindi, sono sempre accoppiate con la “Tavola dei Reggenti”, cioè la tavola con i pianeti, dove viene letta la vera ora planetaria. In qualche caso si è avuta anche la simpatica idea di descrivere i simboli dei pianeti, anzichè su una tavola a parte, fra gli spazi delle rette orarie sulla meridiana stessa, come nel caso di uno dei più belli esemplari di meridiane ad ore planetarie murale pervenutoci: quello di S. Benigno Canavese e che risale al 1699.

Sulle ore ineguali o planetarie, abbiamo l’interessante e chiara esposizione di Egnatio Danti, “Cosmografo del Serenissimo Gran Duca di Toscana”, nel suo “Trattato dell’uso della sfera” incluso nella traduzione della sfera di Proclo, stampata a Firenze nel 1573:

“L’Hore ineguali o vero Planetarie sono la duodecima parte del giorno artificiale, o della notte, perchè gl’antichi Romani, e gli Hebrei dividevano il giorno per lungo, o breve, che egli fosse sempre in 12 parti, tal che di state l’hore erano grandi, e d’inverno piccole, e perciò sono chiamate hore ineguali, perche scemano, ò crescano secondo, che anco i giorni scemano, e crescano. Ma Planetarie sono chiamate, perche in ciascuna di dette hore predomina, e signoreggia un Pianeta, e di qui hanno preso il nome i giorni della Settimana; perche la prima hora del Sabbato primo giorno (appresso di loro) della Settimana dominerà Saturno, e nella seconda Giove, e così girando fino a 24 la 24 hora tocca a Marte, e la prima del di seguente al Sole, onde la Domenica (a modo nostro) viene denominata da Sole, e il seguente dalla Luna, perche nella prima hora tocca il dominio a lei, e così parimenti interviene a gl’altri giorni della Settimana, che sono dominati da quel Pianeta, che signoreggia nella prima hora di quel giorno. Volendo adunque sapere in qual si voglia momento di hora quale hora planetaria 33 E' da rilevare che questo di G. Battista Vimercato, è il primo trattato sugli orologi solari scritto in volgare e non quello di Oddi Muzio da Urbino, come in genere viene riportato, che risale al 1614.

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corre: trova primieramente per la precedente la grandezza del giorno, ò della notte artificiale, e poi multiplica dette hore per 15 che harai il numero dè gradi, che dello Equinotiale sono ascesi nel di, o nella notte proposta, i quali gradi dividi per 12 e harai la grandezza delle hore ineguali, o planetarie.

Verbigrazia nell’esempio superiore il giorno 4 di Ottobre fu trovato di hore 9 e minuti 35 multiplica le hore 9 per 15 e ne verranno 135 gradi, e parti per 4 li 35 minuti di hora che ne verranno 8 gradi e 45 minuti di grado, aggiugnili alli superiori gradi, che sommeranno gradi 143 e minuti 45 che tanti gradi il di quarto d’ottobre ascendono sopra l’Orizzonte, dividi ora questi gradi, e minuti per 12 che ne verranno gradi 11 e minuti 58 e secondi 45 e tanto sarà la grandezza d’un’hora planetaria ò ineguale del detto giorno. Nel medesimo modo opererai per l’hore della notte, perche nel di quarto sopradetto la notte è di hore 14 e minuti 25 partiti per 4 ne vengono 6 gradi e 15 minuti di grado, che giunti insieme fanno gradi 216 e min. 15 dè quali divisi per 12 ne tocca a ciascun’hora ineguale gradi 18 e min. 1 e sec. 15 e tanta e la grandezza delle hore ineguali della sopradetta notte. Volendo ora sapere in qual si voglia momento quante hore son già passate dopo il levar del Sole, guarda quanto è lunga un’hora ineguale nel di proposto e poi moltiplica l’hore eguali per 15 e quel che ne viene dividi per la grandezza dell’hora ineguale, e harai il numero d’hore ineguali.

Verbigrazia se harai trovato, che la grandezza del giorno sia hore 10 multiplica dette hore per 15 e ne verranno gr. 150 partili per 12 ne toccherà a ciascuna hora planetaria gr. 12 e min. 30 e havendo trovato che corre l’hora 6 dopo il levare del Sole, multiplica le 6 hore per 15 e ne verrà gr. 90 li quali partili per 12 e mezzo che è la grandezza dell’hora ineguale di quel di, e vedrai, che sono già passate 7 hore ineguali, e gr. 2 e mezzo dell’hora 8 nella quale volendo sapere qual pianeta signoreggia, considera da qual pianeta sia denominato qul giorno, e poi da quello comincia a contare fin che giugni all’hora corrente, e harai l’intento”.

Ancora da G. Battista Vimercato apprendiamo che, secondo le fonti, sarebbero stati i Babilonesi, come primi osservatori dell’”Astrologia Giudiciaria” a scoprire che “...A

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causa delle altre forze che hanno le Stelle del Cielo per i loro movimenti, aspetti e influssi loro nelle cose inferiori, si ha la naturale divisione del giorno e della notte in 12 parti in cui i Pianeti si distribuiscono e a seconda dell’ordine che hanno nelle rispettive orbite celesti così dominano in successione le varie parti del giorno” (34). Inoltre, i Babilonesi trovarono che il pianeta al quale toccava il dominio della prima ora del giorno manteneva ancora la sua influenza per tutta la durata del medesimo giorno, che veniva chiamato col nome di quel pianeta. Fu così che vennero denominati i giorni della “Hebdomas”, ovvero della settimana dei Giudei, ripresa in seguito dagli altri popoli della Fede Cristiana, come ascerisce Davide Gregorio in “Astronomia, Physicae et Geometriae”, del 1726. Un’altra conferma la troviamo in Diocassio, o Dìone Cassio Cocceiano, storico greco vissuto tra il II e III secolo d.C. Egli scrisse un’opera monumentale in 80 libri, dal titolo “Storia Romana”, di cui ci sono pervenuti solo i libri dal 36 al 60. Nel libro XXXVII scrive: “Poichè i giorni (della settimana) sono riferiti a quelle sette stelle, che chiamarono pianeti, per dirla in breve, dagli Egizi si è diffusa, nella consuetudine degli uomini, l’usanza di chiamare i giorni della settimana con i nomi dei pianeti. Infatti, per quanto mi consta, essa non fu usanza nota ai Greci antichi”.

Secondo Diocassio lo schema del giro dei pianeti, cioè delle tavole planetarie, sembra sia stato divulgato da Dione oratore e moralista greco, detto “crisostomo” (bocca d’oro) che visse fino al 120 d. C. circa.

Sull’ordine e la successione dei Pianeti nelle varie ore dei giorni, come viene riportato nelle “tavole”, apprendiamo che presso gli antichi filosofi greci vigeva il seguente ordine: Luna, Venere, Mercurio, Marte, Giove e Saturno. In seguito venne adottato l’ordine che poi è rimasto per molto tempo: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, e Saturno. Cicerone scrisse che Diogene Babilonese, vissuto nel 150 a.C. circa, insegnò questa disposizione, ed è probabile che egli fu anche il 34 G: Battista Vimercato, Op. cit. in "Descrittione de gli horologi solari per theorica ragione", cap. VIII, "Discorso intorno l'hore antiche ineguali, dette planetarie".

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primo a divulgarla in Grecia, come già successe per altre dottrine. Per i particolari seguiamo il libro del Vimercato:

“...la Dominica, nella sua prima hora si trova il Sole e la nominarono giorno del Sole. La Feria seconda (il secondo giorno), qual trovarono nella prima hora la Luna, perciò Lunedì la chiamarono, e così Marte il Martedì, con il resto che per ordine sapete nominarsi, e questo tal ordine d’hora in hora fra loro successivamente s’usurpavano, secondo l’ordine delle loro orbite in cielo discendendo da Saturno a Giove, da Giove a Marte, quindi il Sole, poi Venere, Mercurio e la Luna dalla quale di nuovo tornarono a Saturno, sempre girando il loro dominio in modo di circolo, come per esempio farebbe la Dominica dedicato al Sole, poichè la sua prima hora è dedicata al Sole, diremo dunque in tal giorno l’hora prima esser del Sole. La seconda di Venere, la terza di Mercurio. La quarta della Luna. La quinta di Saturno. la sesta di Giove. La settima di Marte. L’ottava del Sole, un’altra volta tornando à far quel medesimo ordine. La nona di Venere. La decima di Mercurio. L’undecima della Luna e la duodecima di Saturno, qual sarà l’ultima del giorno. Poi seguendo a quelle della notte la prima sarebbe di Giove, la nona di Marte, la decima del Sole, la quarta di Venere, la quinta di Mercurio, la sesta della Luna, la settima di Saturno, l’ottava di Giove, la nona di Marte, la decima del Sole, l’undecima di Venere, la duodecima di Mercurio, di maniera che la prima del giorno seguente alla Dominica tocca alla Luna, però è nominato Lunedì, e seguitando così per ordine di mano in mano alla prima di Feria terza toccarà Marte, a quella di Feria quarta Mercurio, di Feria quinta a Giove, di Feria sesta a Venere e al Sabbato Saturno” (35).

Come si può facilmente osservare, l’ordine dei pianeti dominanti le ore ineguali è quello dato dalle relative posizioni sulle loro orbite celesti, secondo l’ordine del “sistema volgare” della cosmografia dell’epoca: Saturno, Giove, Marte, Sole, Venere, Mercurio e Luna. Gli antichi escogitarono una frase per 35 G.B. Vimercato, Op. cit. pag 61-62

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ricordare tale ordine che metricamente si diceva: “Post sim sum ultima Luna subest” (36).

Questo sistema orario, cioè quello delle ore ineguali, venne adottato da quasi tutti i popoli dell’antichità ed è per questo che esse furono chiamate in diversi modi: ore antiche, perchè sono le più antiche che si conoscano; ore planetarie, come abbiamo visto; ore bibliche, perchè sono citate nelle Sacre Scritture; ore giudaiche, perchè in uso presso i Giudei; ore naturali, e infine ore canoniche, perchè “Nominate sono dal santo Vangelo e con le quali distingue la Santa Chiesa l’Hore Canoniche di Prima, di Terza, di Sesta e di Nona”, come riporta Valentino Pini nella citata opera (37) . Spesso si sono confuse le ore canoniche con le planetarie e le temporarie. Ma, come vedremo più avanti nel capitolo delle ore canoniche, esse dipendono tutte dal sistema delle ore ineguali, però con caratteristiche e significati diversi l’una dall’altra.

Nel secolo XVII si occuparono dell’argomento il Vossium nella “Theologia Gentili”, Lib. II; il Marshamum nel “Canone Chronico”, pag. 197; il Seldenum nel “Jure Nat. e Gent.”, Lib. III, cap. 21 e D. Joannis Moebii che discusse sulla denominazione Planetaria dei giorni (Lipsia 1687) (38).

36 Joanne Stoflerino, "De usu astrolabii", sec. XVI, pag. 92 37 V. Pini, Op. cit. , pag. 5 38 C. Heilbronner, Op. Cit. pag. 71. Per una bibliografia approfondita sull'argomento e sugli orologi solari in genere si veda N. Severino, "Bibliografia generale sulla Gnomonica dall'antichità al secolo XIX", I ed. Associazione Astronomica Umbra, 1992, con 300 titoli, e soprattutto la II edizione, con oltre 700 titoli menzionati.

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Il periodo ellenistico

Facilius inter philosophos quam inter horologia convenit Seneca

11. LE PIÙ ANTICHE CITAZIONI. L’orologio del Re Achaz è senza dubbio la più antica e

precisa testimonianza storica scritta che ci è stata tramandata. Nondimeno, altre citazioni si possono trovare presso fonti più o meno attendibili di scrittori, filosofi e compilatori che vissero nei secoli attorno all’Era Cristiana. Una citazione che merita di essere menzionata è riportata da Agostino Calmet, e riguarda senz’altro un orologio, o un sistema di misurazione del tempo che ha a che fare con gli orologi, e che si fa risalire a molto tempo prima del regno di Achaz:

“...Questo modo di contare le ore ineguali continuò per molto tempo nel Mondo, e nella Chiesa, quantunque già da molti secoli prima di S. Benedetto fossero inventati gli orologi da sole, da acqua e da polvere, i quali si pretendono antichissimi; in fatti quello di Achaz, di cui ne fa menzione la Scrittura, non è il più antico tra i passati alla nostra notizia. Pare che Appione (39) famoso inimico dei Giudei (il periodo è tronco, ma il senso si è, che gli orologi di sole erano già inventati sino dal tempo di Mosè) prima ancora di Mosè, nativo ( al dire dello stesso Appione) della citta di Eliopoli in Egitto, costruisse (rizzasse nel testo originale) certe colonne, sotto le quali eravi raffigurata una barca, o sia un emisferio, e sopra una statua rappresentante un’Uomo, che continuamente girava a seconda del Sole, cioè, colla sua ombra descriveva il corso del sole, e cadendo questa 3939 Joseph. Lettera 2 contra Appion.

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nel sottoposto emisferio sferico, e concavo, segnava in questo le ore del giorno. Se dunque questa istoria si potesse provare con buone prove, non si potrebbe fissare quasi più lontana l’antichità delle mostre da sole” (40).

La descrizione fa subito pensare ad un orologio del tipo concavo, o forse un Hemisphaerium e i particolari forniti possono rappresentare sicuramente una buona prova per credere alla fonte storica. E’ questa dunque una citazione di orologio solare ancora più antica di quella della Bibbia sull’orologio del Re Achaz. E nulla vieta di ipotizzare che questo tipo di orologio non possa in parte, o totalmente, identificarsi col Polos che i Greci, secondo Erodoto, appresero dai Babilonesi.

L’opinione degli scrittori antichi sul luogo e da chi furono inventati gli orologi solari, è molto discordante. Così, secondo alcuni essi furono inventati nella grande valle dell’Eufrate, cioè dai Caldei, mentre altri li rimettono ai Fenici (41). Un’altra importante citazione la troviamo presso Omero, quasi coetaneo di Achaz, precisamente nell’Odissea (15. verso 402), dove sembra che pure lui parli di un orologio solare: “Insula quaedam Syria vocatur, sicubi audis, Ortygia desuper, ubi mutationes solis”. Un’antico Scoliaste dice che in quell’isola vi era una caverna, in cui per via di numeri si conosceva “quanto il Sole si accostasse, o scostasse da noi”, ciò che corrisponde alla misurazione della sua declinazione, cioè della sua altezza sull’equatore. Altri pretendono che in questo luogo Omero parli di un vero e proprio quadrante solare (42).

Diogene Laerzio (nella vita di Ferecide) addirittura attesta che ancora al suo tempo, nell’isola di Siros, o di Siria, si conservava un orologio solare di Ferecide: “Servatur et 40 A. Calmet, "Commentario letterale, istorico, morale sopra la Regola di S. Benedetto", Arezzo, 1751, tomo I, pag. 124 41 A. Calmet, "Dictionarium historicum, criticum...Sacrae Scripturae", Venetiis, 1734, tomo I, pag. 427: "Haec quidem eorum opinioni suffragari videntur, qui solaria horologia inventa trans Euphratem autumarunt. Alii verò ejus inventionis honorem Phoeniciis deferunt..." 42 idem nota 41.

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heliotropium in Syra insula”. Il che fa pensare (anche a Calmet) che la mostra di Ferecide possa essere quella stessa di cui parla Omero, quando questo filosofo non fosse assai più moderno di Omero. Ma più di cinque secoli separano i due, per cui si potrebbe dire, piuttosto, che Ferecide abbia potuto perfezionare l’orologio presente sull’isola. Inoltre, Calmet ci dice che quello menzionato da Omero probabilmente era adatto ad indicare solo l’epoca dei solstizi, mentre quello di Ferecide segnava anche il moto della Luna.

12. L’INIZIO DELLA SCIENZA GNOMONICA:

Anassimadro e Anassimene. Le notizie ormai divulgate in tutti i testi di gnomonica e

sulla misurazione del tempo, e che sono praticamente acquisite come fondamentali, sono quelle date da Plinio il Vecchio, vissuto nel I secolo d.C., nella “Historia Naturalis”, redatto forse al tempo di Ciro o di Servio Tullio. Uno dei passi principali è quello che abbiamo già riportato nel I capitolo, in cui dice che Anassimene Milesio, discepolo di Anassimandro, inventò il metodo delle ombre per computare il tempo che fu chiamato Gnomonica e che per primo mostrò a Sparta l’orologio solare che viene chiamato Scioterico. Diogene Laerzio, però, rivendica questa gloria ad Anassimandro il quale, dice, “tornando dalla Caldea ne introdusse l’uso in Isparta. Egli per primo inventò lo gnomone e lo collocò a Sparta in un luogo idoneo per catturare l’ombra nel quale si notasse, dice Favorino nell’Omnimoda Historia, le conversioni del Sole e gli Equinozi; egli fabbricò anche gli horoscopi”(43). Il che mi sembra più probabile, considerato pure che Anassimandro fu il primo filosofo a disegnare una mappa geografica della terra e del cielo. Sono dello stesso parere anche J. Beaujeu e W. Kubitschek, cioè che la 4343 Qui Laerzio riporta le notizie lasciate da Favorino, sofista vissuto nel I secolo d.C., nei "Commentari", un'opera in 5 volumi. "Anaximander primus gnomonem invenit, et Lacedaemone statuit in loco captandae umbrae idoneo, qui et solis conversiones et aequinoctia notaret".

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Gnomonica sia cominciata con Anassimandro, nella prima metà del secolo VI a.C.

Ad Anassimene, invece, viene attribuito il perfezionamento del metodo del maestro dal quale ne aveva appreso i rudimenti. Naturalmente il “luogo idoneo a catturare le ombre”, non poteva essere altro che un piano, o forse un emisfero, in cui erano descritte le linee dei solstizi e degli equinozi, cioè un orologio solare calendariale. In più costruì gli “oroscopi”, non nel senso astrologico del termine ma, come vedremo più avanti, gli orologi solari chiamati “oroscopi” probabilmente perchè usati anche per scopi astrologici. E di questo troviamo conferma anche presso Eusebio nella “Praeparatio Evangelica” (44).

Infine ricordo una citazione che non ho riscontrato ancora su nessun testo, in favore sempre di Anassimandro, tratta dall’opera di Suida, erudito greco vissuto intorno all’anno Mille d.C.:

“Primus gnomonem comparavit ad dignoscendas conversiones solis, et temporum, et horarum, et meridiei”. Suida in questa frase dà per certa anche la misurazione del tempo a mezzo della divisione duodenaria delle ore, al contrario di quanto argomenta Salmasio.

Infatti, le notizie discordanti che si riscontrano negli antichi scrittori, sia sull’invenzione degli orologi solari che sulla loro natura, hanno dato luogo, soprattutto intorno al XVII e XVIII secolo, a salaci diatribe ed interessantissime erudizioni che, per nostra fortuna, indirettamente, hanno contribuito moltissimo a chiarire molti punti oscuri e ad arricchire così la storia della Gnomonica.

Claudio Salmasio, sosteneva una tesi che non è del tutto da scartare, anzi, tra le altre, è forse la più veritiera. Egli argomenta che Plinio abbia inteso male il significato di “Sciotera”, “gnomoni” e “oroscopi”, attribuendo a tutti la funzione di orologio solare come strumento che serviva per indicare l’ora ed altre cose: “Ma sembra che sia erroneo tradurre sciotera, gnomoni e oroscopi da orologi scioterici. Certamente 44 Libro X, 14. 11

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quegli orologi scioterici nei quali si erige lo gnomone, che Anassimandro scoprì per primo mostrandolo a Sparta, non indicavano l’ora, ma designavano tanto gli equinozi, quanto i solstizi, come testimonia Laerzio...E così con il nome di scioterici non si deve intendere evidentemente gli orologi, ma gli strumenti matematici che si usavano per osservare gli equinozi e i solstizi e i meridiani, come quelli che si dice inventò Anassimandro a Sparta. Di questi scioteri parla Tolomeo, con i quali in ogni tempo e luogo era solito mostrare facilmente il sito della linea meridiana (lo dice al cap. 11)...”.

“...Ma comunque gli scioteri di Archimede e di Tolomeo non sono da includere tra gli orologi scioterici... certamente lo gnomone che Anassimandro scoprì e i suoi scioteri, non furono orologi fatti per le osservazioni delle ore i quali Plinio considerò come orologi scioterici con grande errore!!” (45).

Salmasio sosteneva questa tesi sulla base di semplici considerazioni, tra l’altro soprendentemente vere. Infatti, egli constatò che fino all’epoca di Platone, la prolissa letteratura ellenica non dà spazio alla creazione di questi nuovi strumenti. Non si legge di gnomonica ed orologi solari nelle grandi opere dei filosofi di quel tempo, nè tantomeno della misurazione delle “ore”, almeno per duecento anni dalla scomparsa di Anassimandro ed Anassimene:

“Se Anassimandro o Anassimene fu l’autore degli orologi scioterici in Grecia, evidentemente questi non furono usati per molti anni, anche se in seguito aumentò il loro prestigio. Ed è certo che per più di duecento anni dopo la morte di Anassimandro, il nome di ore per indicare le particelle del giorno non fu udito in Grecia, nè fu conosciuto l’uso di alcun orologio scioterico. Scriveva Apollodoro nelle sue cronache che ‘Anassimandro aveva 64 anni, nel secondo anno della 58 Olimpiade e non molto tempo dopo morì. Egli fu l’inventore dello gnomone e degli scioteri’, che Plinio volle fossero orologi scioterici. Perchè quindi dopo tanto tempo presso i Greci non 45 C. Salmasio, "Plinianae exercitationes", pag. 445 F,G, pag. 446, A,B,C,D,E,F,G.

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c’era nessuna osservazione delle ore e nessuna menzione dell’orologio?”.

A questa tesi si contrappone quella dell’autorevole Dionisio Petavio, contemporaneo di Salmasio. Egli appoggia i suoi argomenti sulla frase di Erodoto con la quale dice che i Greci appresero dai Babilonesi l’uso del Polos, dello gnomone e la suddiviosione in 12 parti del giorno. Sostiene, inoltre, che l’antico strumento di Anassimandro, o di Anassimene, l’”heliotropium”, era una macchina mediante la quale si conoscevano non solo gli istanti degli equinozi e dei solstizi, ma anche le ore:

“Gli horoscopi, o heliotropia, che quei matematici collocavano all’aperto, in pubblico, non erano solo per gli eruditi e per i periti di astronomia, ma servivano soprattutto al popolo. Per cui quegli antichi orologi non potevano servire ad indicare, col metodo dell’ombra, solo i solstizi, ma anche le singole parti del giorno civile, utili per gli affari e gli impegni della vita quotidiana. Infatti, a cosa poteva essere utile al popolo conoscere il momento preciso dei solstizi?”(46).

13. IL POLOS, UN ANTICO OROLOGIO

SOLARE SCONOSCIUTO. Naturalmente la disputa non finisce qui. Ci sono molti

altri punti sui quali discutere come, per esempio, la natura degli strumenti o orologi citati. Come potevano essere fatti gli “Horoscopi”, oppure gli “Heliotropi”? E il “Polos”? Cos’era, 46 Dionysii Petatvii aurelianensis, "Opus de doctrina temporum", Antwerpiae, 1703, cap. VIII, pag. 144: "Mathematici illi, qui horoscopia, vel heliotropia publice, et in propatulo collocabant, non solis eruditis, et astronomiae peritis, sed vulgo ea proponebant. Ergo non ad sola discernenda solstitia ex umbrarum ratione, sed ad civiles diei partes, et ad quotidiana gubernanda negotia pertinebant. Quid enim intererat plebeiorum hominum, ac civium, scire quo momento exactè solstitia commissa sint?"

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anch’esso un orologio, o qualcosa d’altro? Su tali quesiti non posso sorvolare tanto facilmente, così come non posso trascurare di dire che proprio questi due autori, Petavio e Salmasio, hanno approfondito il problema più di chiunque altro. Vale quindi la pena ricordare le tesi e le ipotesi di questi due grandi eruditi.

Petavio riporta alcune interessanti informazioni, senza peraltro citare la sua fonte. Egli crede che gli Eliotropi erano orologi solari equinoziali, di cui alcuni utili per l’inverno ed altri per l’estate:

“Nos heliotropia ista scimus aliud fuisse, aliundéque nomen accepisse, ut ϑερινα, aut χειµερινα vocarentur. Nimirum aequinoctialia erant horologia, cujusmodi notum est alia aestiva, alia hiberna fieri. Nam qua parte meridiem respiciunt, quae supra planum aequinoctii consistunt, hiberno tempori conveniunt. qua verò Septentrionibus obvertuntur; ad aestivos dies pertinent...” (47).

Per Salmasio, invece, gli eliotropi, anche quelli esistenti al tempo di Metone, erano una macchina, o organo matematico adatto solo ad osservare i solstizi:

“Certé Eliotropion nihil aliud est quam machinamentum denotandis solstitiis, hoc est, “helio tropai” factum”.

E ancora più precisamente: “Heliotropion illud Metonis horologium non fuit, sed

solstitio aestivo notando erat factum, ut alia ejusdem generis heliotropia ab aliis similiter ratione gnomonica composita. Gnomone itaque habebant, et “polon”, in quo erectus stabat gnomon. Antiquiores Graeci totum caelum sic vocarunt, quia vertitur. Recentioribus placuit extremitates ipsius tantummodo axis, circa quem caelum vertitur, ita nuncupare...”.

E continuando a parlare del Polos egli dice che potrebbe ricondursi ad una specie di hemisferio inverso (?):

“Diximus paulo ante scaphen, aut scaphium dictum vas rotundum, et cavum, in cujus medio fundo stilus erigebatur ad horas monstrandas, atàque id “polon” etiam quosdam appellasse. Polon tamen rectius de parte protumida, ac rotunda caperetur, quam de concava. Nam et caput polon propterea Graeci dixere, à 47 D. Petavio, "Opus de doctrina temporum", pag.145

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curva rotunditate. Scaphion quidem etiam id vocarunt, sed scaphio inverso haec forma similior est, ut è contra polos inverus scaphen, vel scaphium rectè refert. Polos est hemisphaerium, quod magis propriè de recto, quam de inverso, ac resupinato accipiatur. Sic hemisphaerium architectis dicitur, non supini, ac inversi hemisphaerii figura, sed quae instar habet illius hemisphaerii, quod supra non est...”

14. L’OROLOGIO COI “PIEDI”. Salmasio sostiene che se la parola “Polos” denotava un

qualche orologio, era la prova che questo era usato anche nell’antichità visto che viene citato da molti autori antichi. Ma non ne è convinto, come pure un antico Scoliaste di Aristofane che gli dà man forte. Inoltre, non riesce spiegarsi come mai Aristofane abbia usato la parola Polos nella sua opera “Schiamazzatore”, e in altri passi, invece che orologio e come mai abbia ricordato solo il metodo di misurare il tempo con la lunghezza dell’ombra del proprio corpo, senza ricordare i diversi tipi di orologi (ammesso che siano esistiti) in uso ai suoi tempi (48): 48 "Sed ecce contra vir immane quam eruditus et illustris, qui asserit non solum Menandri, verum etiam Aristophanis aetate, et anterioribus saeculis, horologia Graeciam habuisse, horasque his notatas, computatasque vulgo fuisse. Is Notis in secundum Manilii Isagogicum observat prius "polon" dictum, quod postea "orologion". Aristophanis hunc versum citat in Γηριταδη: πολοντοδυ εξιν εχαξαποξµνµλιοµ Γετραπιολχι. Et versum hunc habet è Polluce, qui dubitat, an Polos veteribus fuerit, quod posteriores "orologion" vocaverunt...Deinde citat illum versiculum Aristophanis superius allatum. Ex coigitur versu probare videtur velle, quod tunc dicebatur "orologion", etiam "polos" vocari posse. Hoc si versum est ut "polos" idem cum "orologion" fuerit, prorsus falsum erit, quod doctissimus, nondum fuisse horologiorum usum, nec horarum observationem. Sed nec video, cur Aristophanes, qui "polon", hoc est, "orologion" noverat, alio loco umbras per pedes metiendi morem

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“Non vedo perchè Aristofane, che cita il Polos, cioè un orologio, in un altro passo menzioni poi sempre il metodo di misurare le ombre attraverso i “piedi”, senza pensare a Menandro che tanto tempo dopo Aristofane ancora conosce lo stesso metodo. Ma se gli orologi allora avevano la funzione di indicare le ore, quale strumento misurava l’ombra con i piedi?”.

Già, quale strumento occorreva per questo tipo di misurazione? E’ davvero difficile dire se tale metodo sia nato, seppure empiricamente, prima dei veri orologi. E’ certo, comunque che esso ha continuato a riscuotere successo per molti secoli, tanto che era rimasto tra gli unici e privilegiati metodi di misurazione del tempo ancora all’epoca del monaco inglese Beda il Venerabile (VIII secolo), ed oltre.

Anticamente, ai tempi appunto di Aristofane, veniva forse chiamato “metodo dell’ombra”, o più probabilmente “Decempedalis”, ma Aristofane stesso cita lo “Stoicheion” come fosse proprio strumento per misurare queste ombre. Così si legge nell’”Assemblea delle Donne”, in cui Praxagora rivolgendosi allo sposo dice:

“Sarà tua preoccupazione, quando l’ombra dell’orologio (Stoicheion) sarà di dieci piedi (decapoda), procurare un cibo abbondante per la cena” (49). Secondo Petavio questo metodo era chiamato più semplicemente “piede delle ombre da misurare” e i momenti principali, evidentemente destinati al pranzo e la cena, erano indicati con i termini che possiamo leggere nel passo originale:

“Est apud Grammaticos veteres, Graecosque, Scriptores, non rara pedum mentio in metiendis umbris; ut δεχαποδα (decapoda), vel δωδεχαποδα σχιαν (dodecapoda scian), aut magis sequatur, ut nihil dicam de Menandro, qui tanto posterior Aristophanes eamdem methodum agnoscit umbrae pedibus admetiendae, ut ne deessent tempori coenae condictae. Si horologia aliqua tum illis quoque horas notavere, quid opus umbram pedibus admetiri?" 49 Ecclesiazuse, Lib. V, pag. 651: "Tibi verò curae erit, Quando decempedalis erit horologii umbra, unctam ad coenam proficisci".

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στοιχειον (stoicheion) potiùs δεχαποιν, vel δωδεχαποιν, id est decem, vel duodecim pedum umbram nominent.” (50).

15. LE ORE DELLO “STOICHEION” Salmasio, poi, passa ad impugnare Scaligero, il quale a

Manilio (p. 229) spiega la “cena di dodici piedi” di Menandro, puntualizzando che essa si teneva all’ora duodecima, quando l’ombra dell’uomo marca la dodicesima linea. Salmasio si pone il problema che secondo una tal proposizione l’ora undecima dovrebbe corrispondere all’ombra di undici piedi, la decima a dieci piedi, la sesta a sei, la prima ad un piede, mentre ciò è assurdo. Così pare che l’opinione di Scaligero di intendere le ore per le ombre di tanti piedi nei poeti comici antichi, si uniformi alle spiegazioni degli Scoliasti e dei Grammatici antichi, il che si dimostra con con quanto scrive Polluce (Lib. I, 72):

“L’ora e la mezz’ora era detta dagli antichi “semeion”, come usa pure Menandro: e dall’ombra si dinotava, così, la lunghezza di dieci piedi, o di undici piedi”.

Con l’introduzione del termine “Semeion” si può spiegare la citazione di Ebulo presso Ateneo, che nomina per la cena l’ombra di venti piedi, opponendosi così a Menandro ed Aristofane che danno per la cena l’ombra di dodici piedi, ed anche al numero delle ore che non sono più dodici. Casaubon (VI.10) per giustificare questo, credeva che “ciascuno a suo arbitrio dava a’ convitati l’ora pel convito”. Ma è più facile spiegare le parole di Ebulo ipotizzando che l’ombra di venti piedi s’intenda di mezz’ora (semeion), riducendosi quindi all’ora decima di Menandro.

Ed ecco, infine, come in una preziosa dissertazione, nelle “Pitture antiche d’Ercolano” del 1762 (pag. XV), si tenti di 50 D. Petavio, Op. cit. pag. 143. La parola Stoicheion che si legge nel passo di Aristofane, significa propriamente orologio solare. Ma in questo caso è l'uomo stesso che fa da gnomone dell'orologio, quindi tale termine è riferito all'ombra prodotta dallo sposo di Praxagora che quando misurerà dieci piedi di lunghezza, si siederà a tavola.

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conciliare le divergenti opinioni degli studiosi su questo argomento:

“Con queste riflessioni potrebbe sostenersi il sentimento di Scaligero con gli stessi principii del Salmasio; e combinarlo con quel, che ne dicono i Grammatici greci, che tanto è l’ombra o la linea di dieci piedi, o di undici, o di dodici; quanto l’ora decima, undecima duodecima. Se poi si voglia seguire il pensiero del P. Petavio (lib. VII cap. 8 ad Uranolog.) che i piedi, di cui parlano i Comici greci, sien corrispondenti alle vere ombre de’ rispettivi gnomoni negli orologi; potrebbe egli esser convinto cogli stessi suoi calcoli, che a torto accusa il Salmasio, il quale ha supposto il gnomone uguale alla statura dell’uomo. E’ troppo noto che gli antichi avevano le cene ordinarie, e queste vogliamo supporre col P. Petavio, che fossero in Atene al tramontar del Sole, all’ora duodecima, o poco prima: e che avevano anche le tempestive prima, dell’ora solita: infatti Aristofane ci parla dell’ombra di dieci piedi, e Menandro di quella di dodici piedi: sicchè deve credersi la cena di Aristofane più anticipata dell’altra, neanche lo scoliaste dice precisamente al tramontar del sole, ma a un’ora tarda, come è certamente la quarta dopo mezzo giorno. Rifatto dunque co’ dati medesimi del P. Petavio il calcolo per l’elevazione del polo in Atene di gradi 37 pel giorno stesso del Solstizio d’estate, che da lui si determina d’ore 14 45’ e per conseguenza ciascun’ora diurna in quel dì di 73’ 45”; posto il gnomone di piedi 6 corrispondente all’ordinaria statura umana; si trova nell’ora X la lunghezza dell’ombra di piedi 12 e nell’ora IX e 52’ min. la lunghezza di piedi 10 ch’è quella appunto, che suppone il Comico, e che spiega lo Scoliaste. Decide ancora il P. Petavio co’ suoi calcoli, essere insufficienti l’ombre di Palladio (Palladii ratio un umbris menstruis finiendis inestricabilis). Ma forse non si dirà così, se, oltre agli errori, che facilissimamente han potuto commettere i Copisti nel trascrivere i numeri Romani di quelle ombre (siccome è chiaro lo scambio dell’XI nel IX per l’ombra massima del Solstizio d’inverno, che in Palladio si legge di IX e in Beda Tom I, p. 465 troviamo espressamente di XI come altresì l’ombra minima del Solstizio d’estate di II in Palladio e di I in Beda) si rifletterà, che le determinazioni di tali ombre sono presso a poco, e all’ingrosso; deducendosi dalla

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misura troppo grossolana de’ propri piedi, senza punto tener conto delle piccole differenze, e frazioni delle misure de’ piedi stessi. Ora con dati così grossolani, e incerti vole dedurre dimostrazioni concludenti, e geometriche, è un impegno, che non è degno del criterio del P. Petavio. Oltre a che se l’ombra massima del solstizio d’inverno cresca d’un poco oltre i piedi XI e l’ombra minima dell’altro solstizio sia un poco minore di due piedi, svaniscono tutte le difficoltà, e i calcoli vanno bene”.

E’ ovvio che questo metodo sia derivato dall’abitudine di

osservare la lunghezza dell’ombra proiettata dal corpo di un uomo che varia durante l’arco del giorno e a seconda delle stagioni. Così, era ormai noto che il tempo della cena arrivava quando l’ombra raggiungeva i dieci o dodici piedi di lunghezza, come riferisce pure Menandro in “L’Ira”, citato in Ateneo Lib. VI. 10. p. 143 presso Esichio e Polluce (51) dove “graziosamente dice del parasito Cherofonte”:

...il quale chiamato una volta ad una cena di dodici piedi, di buon mattino al lume della Luna corse osservando l’ombra, come se avesse tardato, e si presentò insieme col giorno...

16. LA NUMERAZIONE DELLE ORE NEGLI

OROLOGI ANTICHI.

51 Per un approfondimento dell'argomento si consiglia le opere già citate di Petavio e di Salmasio. Il capitolo VII dell'"Opus de doctrina temporum" di Petavio è intitolato: "De horologiis Veterum, et umbrarum mensura, absurda Salmasii conjectura. Palladii ratio in umbris menstruis finiendis inextricabilis". Il capitolo VIII: "Confutatur opinio Salmasii, qui diem apud antiquos negat in horas tributum fuisse. Tum falso heliotropia ad sola monstranda solstitia, et aequinoctia constituta credit. Babylonii horarum inventores, sive duodenarum diei partium...". Infine, il cap.IX: "De solario Achaz contra Salmasium disseritur. diei partes ab illo monstratas esse. vana Salmasii conjectura refellitur. Neemiae locus malè ab eodem acceptus, vulgatus Interprete defenditur".

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Nel parlare della possibile forma e natura degli strumenti che rispondono agli strani appellativi visti prima, Salmasio dà pure notizia di come venivano numerati gli orologi solari. Notizia questa, a dire il vero, molto preziosa, quasi sempre trascurata, o molto più probabilmente ignorata, in moltissimi testi. Ricordo solamente che la numerazione che qui si espone, è esattamente quella rinvenuta sull’orologio solare a forma di globo, detto appunto “Globo di Matelica”, e ritrovato da Danilo Baldini a Matelica nel 1985. Così si esprime Salmasio:

“Le ore segnate in essi erano 12 come pure le linee che l’ombra dello gnomone toccava, e da esse si capiva quale ora del giorno fosse, poichè il numero apposto alla linea la indicava. I Greci dicono: Sex horae tantum rebus tribuuntur agendis: Viveque post illas, litera zetha monet (52). Le singole ore, dalla prima alla dodicesima, erano contrassegnate ognuna con delle lettere numeriche, su altrettante linee, in questo modo:

Α Β Γ ∆ Ε ς Ζ Η Θ Ι

e quindi fino alla dodicesima, il quale segno era indicato

con ΙΒ. Gli antichi si concedevano sei ore fino a mezzogiorno per le cose da fare, le rimanenti per la cura del corpo dopo mezzogiorno. Da ciò deriva la parola Ζηϑι, nella quale avvertiamo il verbo “vivere”, cioè darsi bel tempo. Così, infatti interpretavano queste parole in modo conveniente gli uomini geniali. Catullo: “Viviamo mia Lesbia, e amiamoci”; Petronio: “Quindi viviamo, finchè ci è lecito star bene”; Marziale: “Domani è tardi godere, godi oggi”... Altri esempi si incontrano presso i poeti di tali locuzioni” (53). 52 Sembra che questo acrostico sia stato interpretato nel 1500 dal Volterrano, come riporta Petri Viola in "De Veteri Novaque Romanarum Temporum Ratione", del 1735, pag. 186. 53 C. Salmasio, Op. cit. pag. 447 C: " Horae in his erant designatae duodecim, totidemque lineae, quas ubi tangebat umbra gnomonis ea diei hora intelligebatur esse, quam numerus ad lineam adpositus indicabat. Graeci de horologiis:.... Literis numeralibus horae singulae à prima ad duodecimam in horologio totidem linei erant descriptae hoc modo Α Β Γ ∆ Ε ς Ζ

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Massimiliano Planude (54) spiega che si indica la settima ora con la lettera ξ, l’ottava η, la decima con ϑ. Queste lettere messe insieme formano la parola ξηϑι che significa “vivi”, con la quale siamo ammoniti a dedicare quelle ore del giorno al “genio”, cioè alla creatività, all’arte, alla cultura, alla cura del corpo.

Unica altra testimonianza “moderna”, trovata su questo motto è quella del Commentario al libro IX dell’Architettura di Vitruvio, a cura di Jean Soubiran (pag. 246):

“Il semble que l’epigramme de l’anthologie, X, 43, avec son jeu de mots sur ZH0I = “vis”, et “ 7,8,9,10” soit dècisive en faveur d’une numeration des heures dans les cadrans anciens; seuls le hasard, et la fragilitè de ces notations peintes et non graveés, peunvent expliquer qu’on n’en ait jannaio retrouvé trace”. Il che conferma l’importanza delle citazioni ritrovate in queste ricerche”.

17. LE RARE CITAZIONI DI OROLOGI

SOLARI NELL’ANTICA GRECIA. Mettiamo ora da parte le pur interessantissime erudizioni

di questi studiosi del secolo XVII e volgiamo la nostra attenzione alla ricerca di quelle rarissime menzioni riguardanti gli orologi solari nella Grecia, nei primi tre o quattro secoli a.C. Abbiamo visto che non poche difficoltà sorgono quando si tenta di Η Θ Ι et deinceps usque ad duodecimam, quaae hac nota numeri indicabatur IB. Priores sex horae usque ad meridiem rebus agendis dabatur, reliquae post meridiem corpori curando. Hinc eo, quo sequuntur ordine, ac ferie, vocem Ζηϑι afficiunt, quo admonemur vivere, hoc est, genio indulgere. Ita enim hoc verbum propriè sumebant homines geniales. Catullus: Vivamus, mea Lesbia, atque amemus. Petronius: Ergo vivamus, dum licet esse bene. id est genio indulgeamus, Martialis:...cras ferum est vivere, vive hodiei...". 54 Massimiliano Planude, teologo umanista ed erudito bizantino, sec. XIII.

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identificare un orologio solare che a volte viene diversamente denominato da vari autori, in varie epoche. Da qualche cronaca settecentesca apprendiamo che verso la metà del V secolo a.C. Euctemone e Metone, figlio di Pausania, si trovavano ad Atene. Qui essi svolgevano l’attività di astronomi e godevano di grande considerazione. Effettuarono precise osservazioni dei solstizi e costruirono un orologio solare (55).

In qualche modo questa notizia potrebbe valorizzare la tesi di Salmasio, confermando l’importanza delle osservazioni solstiziali e quindi la costruzione di strumenti adatti allo scopo. Sempre dalla stessa cronaca apprendiamo che nell’anno 320 a. C., Pythea Massiliensie, astronomo molto esperto (quasi contemporaneo di Autolico di Pitane), cercò di ottenere con l’aiuto di uno “gnomone altissimo”, l’altezza meridiana del Sole al tempo dei solstizi, al fine di valutare l’obliquità dell’eclittica. Egli fece poi anche delle ricerche sull’altitudine del polo, ossia sull’elevazione del polo celeste, cioè della latitudine:

“scoprì che nel polo non c’era nessuna stella, ma era un luogo vuoto, al quale erano vicine tre stelle, con le quali lo stesso punto del polo forma una figura all’incirca quadrangolare” (56). L’opera di questo filosofo verrà trattata ampliamente da Gassendi nel “Tractatu de proportione Gnomonis ad umbram Solstitialem”, Massil. Tom. IV, p. 523.

18. ATENEO: UNA FONTE PREZIOSA.

L’OROLOGIO DI JERONE II. A parte le notizie di cui abbiamo già parlato, e un’altra

secondo cui anche Platone “fece un orologio utile per conoscere le ore sia di giorno che di notte”, e che sembra trattarsi più di un orologio a sabbia, una clessidra probabilmente, che di un orologio solare, un’altra importante testimonianza ci è pervenuta attraverso l’opera del filosofo Ateneo nel “Deipnosophistai”, cioè “I Sofisti a banchetto”, dove viene citato un orologio del II secolo a.C. Prima di prendere in esame il passo originale, vorrei 55 C. Heilbronner, Op. cit. 56 C. Heilbronner, Op. cit. pag. 239, par. 122.

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proporre quanto riportato da Pericle Ducati (forse l’unica altra fonte moderna) nel libro “L’Italia antica”, Mondadori, p. 564:

“ Per volere di Jerone II, morto nel 215 a.C., fu costruita una nave chiamata “Siracusana” che quando fu donata ad uno dei Tolomei cambiò in “Alessandrina”. Questo vascello fu descritto minutamente in un opuscolo del siracusano Moschione e sunteggiato dal filosofo Ateneo (Deipnosophistai, V, 206-209). Era questa una nave da lusso, ornata con statue, bagni, piscine, dipinti ed era sormontata da un orologio solare, simile del tutto a quello celeberrimo che stava sull’Acradina e che appariva da lontano ai naviganti diretti a Siracusa. L’architetto Scopina costruì un orologio solare, forse quello dell’Acradina? che poi passò a Roma nel Circo Flaminio”.

Non so se quello dell’Acradina fu celeberrimo come orologio e se era visibile da tanto lontano (se così fosse stato, per leggere l’ora da tanto lontano, avrebbe dovuto avere dimensioni pressappoco uguali a quelle della nave stessa), il passo originale non lo dice:

“At de nave quam construxit Hieron Syracusius, et cujus fabricae Archimedes geometra curator ac praeses fuit, tacit nefas esse puto, cum de illa Moschion quidem librum ediderit, quem nuper attétè et studios legi. Sic igitur Moschion scribit...Continens huic fuit Scholasterium, cum lectis quinque, materia buxea parietum, et ianuarum, in eoque Bibliotheca, et in summo tecni fastigio Polus, factus ad imitationem Solarij quod Achradine fuit” (57).

Nel passo in greco la parola corrispondente, tradotta in orologio solare, è “Polon”, e questa volta viene usata da Ateneo proprio per indicare un orologio solare, sicchè bisogna convenire che almeno alla sua epoca per “Polon” si intendeva un orologio solare, ed è già qualcosa. Molto interessante è ancora la nota esplicativa del traduttore, Iacobo Dalechampi, messa in corrispondenza della parola Polon: 57 Ateneo, "Deipnosophistai", Lib. V, pag. 206-207, cap. XI. Traduzione latina della edizione a cura di Iacobi Dalechampii Cadomensis, ed. I. Causabon, Coloniae, 1612.

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“ Horologium cuius index sua conversione monstrat horas: Solarium autem, Amussium, in quo stylus, seu Verunculum, deficsum umbra sua horas designat”.

Cioè “Orologio il cui indice con la sua conversione mostra le ore: il Solario, invece, o Amussio, è quello nel quale lo stilo, Verunculum, conficcato, con la sua ombra designa le ore”. Cioè nel primo caso non si parla di ombre, ma di “conversioni” e sicuramente l’autore si riferisce agli orologi meccanici, cioè alle “conversioni”, o giri, della “sfera” o lancetta; nel secondo caso si parla di ombra dello stilo con riferimento all’orologio solare. Il termine Amussium, si incontra in Vitruvio e designa una tavoletta livellata con segnati i punti cardinali, ma a questo punto è lecito pensare anche ad un orologio solare. Mentre la parola “Verunculum” si trovva in Plinio (“piccolo spiedo”) e in Vegezio (“piccola picca”), proprio ad indicare uno stilo o gnomone adatto per un orologio solare.

Dal terzo secolo a.C. in poi gli orologi solari sembrano riscuotere un successo e una diffusione sempre maggiore, le uniche notizie in merito ci sono state lasciate, per fortuna, dall’architetto Marco Vitruvio Pollione, nella sua ben nota opera “De Architectura”. Prima di passare in rassegna le notizie ivi contenute, però, devo far presente che un altro autore, probabilmente prima di Vitruvio, ci ha lasciato qualche passo attinente alla gnomonica e agli orologi solari.

19. L’ASTRONOMO GRECO GEMINO SCRIVE DI GNOMONICA PRIMA DI VITRUVIO.

Infatti, il sapiente Leo Allazio (58) ci dice che “Gemino

descrisse piuttosto spesso la “ratione” del “solarium”. Gemino fu un astronomo greco fiorito verso il 70 a.C. Per primo divise l’aritmetica e la geometria, la matematica pura dalla logistica, l’ottica meccanica e l’astronomia. Siccome l’epoca in cui visse 58 Leo Allatius, "De templis graecorum recentioribus...", Coloniae Agrippinae, 1645, "Mensura temporum", cap. VI, pag. 47: "Solarii rationem et modum saepius expressit Geminus...".

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Vitruvio è incerta, qualcuno lo fa risalire addirittura al quarto secolo, mentre oggi si crede che visse intorno alla fine del I secolo a.C., non è improbabile che Gemino scrisse le sue note (De App. coelest.) prima di Vitruvio. Comunque nel “De Architectura” si trovano notizie e citazioni tanto importanti perchè le uniche che si siano pervenute con qualche dettaglio, mentre Gemino espone solo alcuni lineamenti teorici sulle linee orarie, senza specificare i diversi tipi di orologi.

Qui, per completezza di esposizione, riporto i passi principali proposti da Leo Allazio nell’opera citata:

“...Et in instrumentis horariis lineae, à gnomonibus descriptae, aequaliter distant ab aestivo puncto solstitiali, cum in Cancro, tum in Geminis”. Nella versione greca si trova “Horocopiois” per orologi solari e “gnomonon” per gnomone.

Quindi: “Unde etiam magnitudines dierum et noctium eaedem sunt in Sagittario et Capricorno. Et extremitas gnomonis in instrumentis horariis easdem describit lineas, et inter eosdem parallelos circulos sita sunt haec duo dodecatemoria (59), cum Sagittarii, tum Capricornii...

...In his enim et magnitudines dierum et noctium aequales sunt, et extemitates gnomonum in instrumenti horariis easdem lineas describunt...

...Hoc autem etiam ex gnomonibus est manifestum. nam extremitas imbrae in gnomone fere ad dies XL permanet in tropicis lineis, sed circa utrumque aequinoctium magna incrementa dierum fiunt; ut sequens dies a praecedente sensibiliter variet. quam ob caussam in horologiis extremitas umbrae in gnomone ab aequinoctiali circulo quotidie sensibiles efficit distantias...

...Etenim in horologiis extremitas umbrae in gnomone easdem lineas describit in dictis signis...

...Etenim magnitudines dierum, cum habeant magnam mutationem in hybernis conversionibus, eos arguere possunt: et horologiorum descriptiones manifestas faciunt veras conversiones; et maxime apud Aegyptios, qui eas observant... 59 "due dodicesime parti", termine eusato anticamente nella teoria del circolo zodiacale, da cui anche "dodecaoros".

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...Et magnitudines dierum aequales; et magnitudines eclipsium similes; et descriptiones horologiorum (oroscopion) instrumentorum eaedem...

...Etenim magnitudines dierum, et magnitudines eclipsium, et horologiorum descriptiones diversae propter habitationes fiunt iis, qui in eodem meridiano habitant”.

20. IL CAPITOLO IX DELL’ARCHITETTURA

DI VITRUVIO. L’unico documento specifico di gnomonica dell’antichità

che ci è pervenuto è il famosissimo Libro IX del “De Architectura” di Vitruvio, scritto probabilmente verso la fine del I secolo a.C. La gnomonica di quella lontana epoca ci è nota proprio attraverso le descrizioni, seppure sommarie e grossolane, che l’autore fece degli orologi solari più popolari. Ma ciò che noi conosciamo è pur sempre quanto ci è giunto attraverso le numerose traduzioni, versioni e commentari dell’opera del celebre architetto. Per esempio, attualmente si ripone piena fiducia sull’autorevole studio effettuato su numerosi codici antichi dell’opera originale di Vitruvio, sopravvissuti alle varie epoche, coordinato dal Prof. Jean Soubiran della Facoltà di Lettere dell’Università di Tolosa. Studi pubblicati dalla società “Les belles lettres” nel 1969. Ma questo non significa che è disponibile la versione definitiva dell’opera. Io non ho l’autorità di mettere in dubbio alcuni punti degli studi del Prof. Soubiran. Sta di fatto, però, che altre versioni e commentari di personaggi non meno eruditi, riportano alcuni particolari molto importanti che non si trovano altrove, e un’interpretazione di alcuni termini completamente diversa. C’è anche da tener conto del fatto che forse anticamente erano disponibili più codici dell’opera originale e non siamo in grado di dire se e quali versioni, magari con i commenti di glossatori importanti, che sono state consultate da autori dei secoli scorsi, siano in realtà arrivate fino a noi.

Tutto ciò che sappiamo sul “De Architettura” di Vitruvio deriva dalle versioni tradotte in varie lingue dai compilatori del

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medioevo. Un’opera quindi filtrata attraverso duemila anni di avvicendamenti storici e sconvolgimenti culturali e di tradizioni che difficilmente ci hanno restituito il lavoro dell’antico architetto nella sua originaria versione.

Alcuni autori pensano che Vitruvio non dovesse essere particolarmente esperto nell’arte gnomonica, ma le sue descrizioni sono abbastanza precise e corrispondenti alla realtà, in quanto egli dovette avere sott’occhi gli strumenti solari di cui parla. L’architetto espone la dottrina della Gnomonica sulla base del cosiddetto Analemma vitruviano che per secoli ha stimolato il gioco interpretativo dei più illustri uomini di scienza. Oggi si ritiene che per analemma egli intendeva semplicemente la proiezione normale (ortografica) del percorso del sole sul piano del meridiano di un luogo di data latitudine, nelle varie stagioni dell’anno. Non è da intendere, naturalmente, che Vitruvio possa essere stato l’ideatore della teoria dell’analemma. Piuttosto è lecito supporre che tali studi fossero stati approfonditi da matematici greci del calibro di Democrito, Archimede e soprattutto Apollonio di Perge che probabimente gettò le basi scientifiche della Gnomonica. A tal proposito è bene osservare che prima di questo filosofo si ha testimonianza solo di orologi solari assimilabili agli emisferi, realizzati per la maggior parte forse solo sulla base di osservazioni empiriche. Dal III-II secolo a.C., sicuramenbte dopo Apollonio, si ha la grande produzione di strumenti solari realizzati su diverse e complicate superfici, tra cui tronchi di coni, cilindri, e via dicendo, proprio come quelli che Vitruvio citerà qualche secolo dopo, perchè comunemente in uso nel mondo di allora.

Tolomeo scrisse una sua opera minore sull’analemma che fu pubblicata nella versione latina di Federico Commandino, nel 1562 (60). 60 "Liber de analemmate" di C. Tolomeo, commentato da F. Commandino, Roma, 1562. Per un approfondimento dell'argomento si consiglia L. Ronca, "Gnomonica sulla sfera ed analemma di Vitruvio", Acc. Naz. dei Lincei, Roma, 1976 e il Commentario al Lib. IX dell'Architettura di Vitruvio, a cura di Jean Soubiran, op. cit. nel testo.

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Il Libro IX dell’Architettura di Vitruvio è interamente dedicato alla Gnomonica, ma un passo in particolare è di grande interesse per la storia e la conoscenza degli orologi solari antichi. Egli, infatti, dedica il capitolo IX di questo libro alla elencazione di alcune delle specie più popolari di orologi solari, in uso in quel tempo, e ai relativi inventori. Ed ecco il passo originale trascritto da una traduzione del secolo XVI:

De horologiorum ratione, et usu, atque eorum inventione, et quibus inventoribus. Caput IX.

Hemicyclium excavatum ex quadrato, ad enclimaque succisum Berosus chaldeo dicitur invenisse. Scaphen sive hemispherium, aristarchus samius. Idem etiam discum in planitia, Arachnem, eudoxus astrologus, nònnulli dicunt apollonium, Plinthium sive lacunar (quod etiam in circo flaminio est positum) scopas syracusius, Pros ta istorumena, parmenion, Pros pan clima, theodosi et andreas, Patrocles pelecinon, Dionysoporus, conum, Apollonius pharetram, aliaque genera et qui suprascripti sunt, et alii plures inventa reliquerunt, vti gonarchen, engonaton, antoboraeum, Item ex his generibus viatoria pensilia vti fieret plures scripta reliquerunt...

Ed ecco la traduzione italiana dell’autorevole Marchese Berardo Galiani, risalente al 1790 (61):

Di alcune specie d’Orologi, e loro inventori. Il semicerchio cavato in un quadro, e fatto inclinato si

vuole, che l’abbia trovato Beroso Caldeo. La scafa, o sia l’emisferio, Aristarco Samio: e questo istesso il disco in piano. L’aracne Eudosso l’astrologo, benchè alcuni l’attribuiscano ad Apollonio. Il plintio, o sia il lacunare, come è quello del Cerchio Flaminio, Scopa Siracusano. Parmenione il detto pros ta istorumena. Teodosio, ed Andrea il detto pros pan clima. Patrocle il pelecino. Dionisidoro il cono. Apollonio la faretra, e molte altre specie, le quali sono state inventate tanto da’ 61 "L'Architettura di Marco Vitruvio Pollione tradotta e commentata dal marchese Berardo Galiani Accademico Ercolanense, e Architetto di merito dell'Accademia di S. Lucia", Edizione Seconda, Siena, Napoli, presso Luigi Benedetto Bindi e i Fratelli Terres, MDCCXC.

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soprammentovati, quanto da altri, come sarebbe il Gonarca, l’engonato, e l’antiboreo: molti ancora hanno lasciato scritto il modo di fare fra le altre specie la pensile da viaggio; e dai libri di costoro può chi vuole applicarle a dati luoghi, purchè sappia formare l’analemma.

Di seguito Vitruvio si occupa degli orologi ad acqua ed anaforici, cioè con indice mobile, parlando soprattutto di Ctesibio Alessandrino. Volgiamo la nostra attenzione, invece, agli orologi solari descritti, sulla cui forma e natura si sono pronunciati innumerevoli studiosi di ogni epoca. Attualmente si ripone piena fiducia nell’approfondito studio effettuato da diversi illustri professori di lettere, su alcuni tra i più importanti codici dell’opera di Vitruvio, con l’ambizione di scrivere una versione dell’Architettura il più possibile vicina a quella reale, liberata da sviste ed errori di altri traduttori. Ma come abbiamo già visto, un simile progetto resta una pura fantasia. Coordinatore dell’impresa è il Prof. Jean Soubiran della Facoltà di Lettere di Tolosa. I risultati, come ho detto, furono pubblicati in una raccolta di volumi che comprende molte altre opere antiche, edita a Parigi dalla Società editrice “Les Belles Lettres”, nel 1969. Tuttavia, è probabile che qualche particolare, credo anche di una certa importanza, sia sfuggito nel commentario al libro IX dell’Architettura di Vitruvio. Non solo. Come vedremo più avanti, sorge qualche problema pure per un altro passo riguardante gli orologi solari, questa volta di Plinio, e precisamente sull’orologio dell’imperatore Augusto.

Il fatto è che delle versioni tradotte dell’Architettura che ci sono pervenute, poche sono state veramente messe a confronto, ma tante sono quelle che non sono state consultate, e chissà quante quelle che sono andate perdute. Così, in ogni traduzione, in ogni commentario, in ogni nota, c’è sempre qualche discordanza interpretativa su qualche particolare nome o frase di un’altra versione.

Così, mi sembra opportuno cominciare a segnalare una interessante nota del Marchese Berardo Galiani a proposito del termine Plinthium:

“Il Baldo ci avvertì, che dove leggesi lacunar, si debba leggere laterem, perchè later può essere sinonimo di plinthus. Mi

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sarei indotto con tale autorità ad inserire nel testo questa lettura, se non avessi avuta presente la diversa lettura del Codice Vaticano I., il quale ha “panthium, sive lacunas”, e da un’altra parte non avessi considerato, che si leggono qui medesimo molti nomi strani di orologi, dei quali è quasi impossibile ritrovarne non che la formazione, ma nè anche l’etimologia”.

Mi sembra che nei libri di gnomonica moderni non si leggano i nomi di “Gonarca” ed “Engonato” i quali, avendoli già inseriti nella sua versione, è chiaro che il Galiani per “molti nomi strani”, si riferisca a nomi sconosciuti di orologi solari che si trovano in quei codici da lui consultati. Come si vede la ricerca è aperta e i risultati non sono definitivi, ma appena abbozzati. Salmasio da parte sua pone molti altri quesiti derivanti da attente riflessioni e prudenti interpretazioni dei passi letterari. Così egli si domanda (62) come sia possibile, per esempio, che Vitruvio scrivendo sugli inventori degli orologi, non facesse menzione alcuna ad Anassimene ed Anassimandro, mentre questi due filosofi sono stati menzionati, due secoli dopo, da Plinio. E’ certamente una domanda alla quale è difficile dare una risposta. Inoltre, egli dice che in un altro luogo si legge diversamente, a proposito di Scopa Siracusano, cioè “Scopinan ab Syracusis” (63). E che in questo stesso codice (altra notizia importante sconosciuta) vengono citati altri nomi di filosofi che si occuparono di Gnomonica in quel tempo: “Inter eos qui gnomonica, vel organica aliqua reliquerunt, recenset ibidem Aristarchum Samium, Philolaum, et Architam Tarentinos, Apollonium Pergaeum, Eratosthenem Cyrenaeum, et Archimedem...”(64).

62 C. Salmasio, Op. Cit., pag. 457 D. 63 C. Salmasio, Op. Cit., pag. 448 G: "Hunc eumdem alio loco Scopinan ab Syracusis vocat, et multas res organicas, et gnomonicas numeris, naturalibusque rationibus inventas, et explicatas tradit reliquisse. 64 C. Salmasio, pag. 448, A, 2 col.

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24. I diversi orologi solari citati da Vitruvio: --------------------------------------------------------- 1 - Hemicyclium Beroso Caldeo 2 - Scaphen o Hemisphaerium Aristarco di Samo 3 - Discum in planitia Aristarco di Samo 4 - Arachnen Eudosso astrologo “ secondo altri

Apollonio 5 - Plinthium sive lacunar Scopa Siracusano 6 - Pros ta istorumena Parmenione 7 - Pros pan clima Theodosio e Andrea 8 - Pelecinon Patrocle 9 - Conum Dionisidoro 10 - Pharetram Apollonio 11 - Gonarchen ? 12 - Engonaton ? 13 - Antiboraeum ?

Viatoria pensilia --------------------------------------------------------- Vediamo ora di darne una descrizione sommaria sulla

base degli studi effettuati su vari ritrovamenti archeologici.

Hemicyclium La parola stessa Hemicyclium crea diversi problemi

interpretativi e sull’etimologia stessa di questo termine divergono le opinioni degli studiosi. Cosa intendevano gli antichi con la parola “Hemicyclium”? Il senso della parola dovrebbe essere “semicerchio” se relativo alla geometria piana, ma siccome segue la parola “excavatum”, evidentemente è da riferirsi alla geometria nello spazio. Se così fosse, l’hemicyclium dovrebbe essere un qualcosa di molto somigliante ad una semisfera cava, o ad un semicilindro, o tutte e due le sezioni semicircolari.

Filone di Bisanzio cita l’”Emiciclion” al quale termine è stato dato il significato di “volta a tutto sesto”. E’ da considerare

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che Vitruvio menziona orologi cilindrici, conici ed emisferici, quindi la parola Hemicyclium deve denotare qualche altra cosa diversa da queste tre specie di orologi. Oggi sappiamo bene che cos’è l’Hemicyclium, grazie ai numerosi ritrovamenti archeologici effettuati soprattutto dal XVIII secolo in poi (65). “Tutti gli orologi addotti dagli Espositori di Vitruvio sono da loro ideati, senza averne un antico monumento”, dice un relatore del ‘700. Per quanto si sa, il primo orologio solare rinvenuto nella storia è stato descritto nell’articolo XIV del “Giornale dei Letterati d’Italia”, stampato a Roma nel 1746, da un anonimo relatore. Il reperto gnomonico fu tratto in salvo prima di essere utilizzato come pietra inutile dalle cavi circostanti, dal Prof. Astronomo P. Boscovich, il quale sopraggiunse al principio dello scavo intrapreso sul dosso del Tuscolo in cima alla Villa chiamata Rusinella. Egli, dopo un attento studio del reperto, concluse che doveva trattarsi proprio dell’Hemicyclium citato da Vitruvio. Infatti si rese conto che il taglio della pietra, “ad enclima succisum”, e le linee orarie incise nella cavità interna corrispondevano proprio alla descrizione di Vitruvio.

J. Soubiran, nel suo Commentario, non fa menzione alcuna di questo ritrovamento che risulta essere il primo nella storia, di un orologio solare.

Sembra strano pure che Vitruvio abbia attribuito l’invenzione di questo orologio a Beroso Caldeo, sacerdote astronomo vissuto nel III secolo a.C. E’ opinione comune, infatti, che le origini di questo strumento dovessero essere ben più antiche, e le ipotesi più accreditate attribuiscono a Beroso una importante innovazione nello strumento originario che doveva essere il Polos: il taglio “ad enclima succisum”, che letteralmente significa “tagliato in sotto secondo l’inclinazione dell’asse del mondo”, facilitando di molto la lavorazione del blocco di pietra, o di marmo, e l’incisione del tracciato orario, nonchè il trasporto di uno strumento senz’altro più leggero. Questa è un’ipotesi, nient’altro. 65 Vedi Nicola Severino, "Il primo ritrovamento archeologico di un Hemyciclium" in Nuovo Orione, Sirio ed., Milano n. 4, Settembre 1992.

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Un altro orologio di questo tipo, ma con qualche particolarità, fu trovato negli scavi di Civita ( forse Civita Lavinia?) il 29 gennaio del 1762 di cui qui ne ripropongo la figura tratta dal Tomo III delle Pitture Antiche di Ercolano, del 1762. E’ fatto in marmo bianco, simile al pario, diverso da tutti gli altri in travertino che si sono scoperti nei dintorni di Roma. Ma due sono le particolarità di questo strumento: il foro dove veniva inserito lo stilo è verticale invece che orizzontale, di modo che lo stilo, una volta inserito, doveva venir ripiegato ad angolo retto. Poi l’angolazione del taglio (ad enclima succisum) per il quale fu lavorato che risulta essere di 29 gradi e 18 primi, cioè pressappoco la latitudine di Menfi in Egitto. Non vi può esservi dubbio, quindi, che questo orologio fu lavorato in quelle terre, trafugato, come in altre occasioni, e portato in queste parti. Infatti, è noto che i Romani tutto ciò che trovavano nelle Province di loro piacere, e in particolare statue, vasi, pitture ed altre rarità, lo trasportavano a Roma per arricchire edifici pubblici e privati.

Degli altri importanti ritrovamenti vorrei ricordare l’orologio di Castelnuovo, scoperto nel Patrimonio di S. Pietro e collocato da Benedetto XIV nel Campidoglio, nel 1751, con un’iscrizione che dimostrava in qual considerazione era tenuto. Un altro fu rinvenuto nel 1755 in Rignano, non molto lontano dal precedente luogo, e conservato in Casa Lucatelli. Anche un certo Le Roy, nel libro intitolato “Les ruines des plus beaux monumentes de la Grece”, pag. 15, n. 8 fa menzione di un simile orologio, del tipo Emicilcio, di marmo, che dice vedersi nella falda meridionale della Rocca, o sia Cittadella di Atene. Infine ricordo il bell’esemplare scavato a Pompei nel 1854 e tutti gli altri che son seguiti fino ad oggi, forse una trentina in tutto.

Scaphen sive hemisphaerium Questi tipi di orologi solari, a forma di semisfera cava,

vennero denominati “Scaphium gnomonicum”. Si tratta di un semicerchio (emisfero) scavato dentro un cubo di pietra. Cleomede nel Lib. I parla di un Orologio scafio che era posto in

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Alessandria: “ab horologio, quod Alessandriae positum est”. Mentre Macrobio dice che è “un vaso di sasso che ha sembianza di un emisfero curvato con uno giro scavato”, (66). Marziano Capella è più preciso e dice: “Quippe scaphia dicuntur rotunda ex aere vasa, quae horarum ductus stili, in medio fundo sui proceritate discriminant, qui stilus gnomon appellatur, cujus umbrae prolixitas aequinoctio centri sui aestimatione dimensa, vicies quater complicata, circuli duplicis modum reddit” (67). E questa doveva essere, dice Salmasio, la forma dello Scafio e pure del Polos. Ancora Capella dice (Lib. VI, pag. 597): “Sono detti scafi i vasi rotondi di bronzo”, nel quale la cavità è tornita verso lo zenit in modo che la faccia superiore del cubo rappresenti il piano dell’orizzonte. Nell’interno dell’emisfero si applica un gnomone, o stilo, fissato nel punto dell’orlo situato a nord, perchè esso ricopra il meno possibile la propria ombra e disposto in modo tale che la sua estremità coincida con il centro dell’emistero stesso (68). Vitruvio attribuisce l’invenzione di questo strumento ad Aristarco di Samo, ma sicuramente ha radici molto più antiche ed è molto probabile che il Polos avesse le stesse caratteristiche (forse con lo stilo parallelo all’asse terrestre). Sappiamo che Erodoto conosceva già questo strumento e che esso era installato sul battello di Jerone II, di cui abbiamo già detto. Allora perchè Vitruvio cita Aristarco? Perchè probabilmente Aristarco scrisse qualche trattato su questo orologio o, comunque, ne divulgò i principi scientifici. Oppure perchè avrebbe potuto apportare qualche modifica al vecchio modello. Si crede che questo orologio fosse il più comunemente in uso nell’antichità. Esso è il più menzionato e doveva servire sia nella vita civile che per usi scientifici. Cleomede, vissuto nel 66 Somn. Scip. I, 20, 26 67 C. Salmasio, Op. cit., pag. 448 G 2 col. 68 Macrobio, Op. cit., II, 7, 15 e ancora: "Hoc est autem... huiusmodi vasis officium, ut tanto tempore a priore eius extremitate ad alteram usque stili umbra percurrat, quanto sol medietatem caeli ab ortu in occasum, unius scilicet hemisphaerii conversione metitur", I, 20, 27.

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II secolo d.C. (69), scrisse: “Eratostene, nel calcolo gnomonico per la determinazione della circonferenza terrestre, si servì dell’osservazione dell’ombra di uno stilo o ago nello strumento chiamato “Scaphen” (70).

La popolarità di questo orologio, come dell’Hemicyclium, viene confermata anche dai numerosi modelli ritrovati durante scavi archeologici. De più famosi ricordiamo:

- l’orologio di Cannstatt; (71) • il doppio scafio di Pergamo con due gnomoni. • l’orologio degli Orti Palombara a Roma, di epoca

imperiale e con iscrizioni greche. Su questo strumento compare il circolo detto “Menaeus”, le linee mensili con i nomi dei mesi e la menzione dei segni dello Zodiaco, mentre non è presente alcuna numerazione delle ore.

• l’orologio di Pompei; - l’orologio di Andronico Cirreste a Tènos. Questo ha

un’altra particolarità: una piccola cavità rivolta verso il nord e sulle due facce laterali due orologi piani verticali, evidentemente uno orientale l’altro occidentale (72). Di questa particolarità fa menzione Cetius Faventinus (Lib. XXIX), parlando dell’Hemicyclium: “ Hemicyclium: fit etiam in uno horologio duplex elegantiae subtilitas: nam dextra ac sinistra exstrinsecus in lateribus eius quinae lineae directae notantur...”. Quindi serviva un orologio per il mattino, l’altro per la sera e la cavità principale dello strumento veniva orientata a sud (vedi nota precedente).

69 Lib. I, cap. 10 70 Una trattazione completa del calcolo di Eratostene è esposta da Robertus Balforeus nel "Commentario a Cleomede", pag. 219. 71 Descritto in "Ant. Technik" di H. Diels, p. 165. 72 J. Soubiran, Commentario al Lib. IX dell'Architettura di Vitruvio, pag. 247.

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Discum in planitie Come per l’Hemicyclium, anche il Disco in piano viene

attribuito ad Aristarco di Samo. Secondo il Gesuita Padre Cristoforo Clavio, questo trumento sarebbe “un orologio poco scavato in modo di disco, o piatto, così che la parte interiore non sarà perfettamente sferica” (73). Oppure potrebbe essere stato un orologio orizzontale simile a quello rinvenuto in Aquileia, come si ipotizza nella “Ciclopedia Inglese” tradotta da Giuseppe Maria Secondo nel 1751: “Il disco di Aristarco era un orologio orizzontale, col suo estremo elevato tutto intorno, per impedire, che le ombre non si estendessero assai”, ma a me sembra che questa descrizione abbia del fantasioso. Pare evidente che Vitruvio volesse indicare con questo termine un orologio orizzontale, costituito da una superficie piana e di uno gnomone ad essa perpendicolare.

In favore dell’ipotesi del piano con i bordi rialzati, c’è la tesi di Salmasio, il quale dice che un antico poeta (forse Metrodoro) cita questo orologio in un epigramma nel libro IV dell’Antologia, usando il termine “missorium” che significa vassoio e che secondo lui è sinonimo di “discum”: “Discum, vel missorium, in quo duodecim signa fuere caelata, vetus Epigrammatum poeta (arghireon polon) appellavit Anthologiae lib. IV

(un disco -minsorion- avente 12 segni)

...Jam alibi notavimus, “minsorion” (µινσωριον) esse missorium, vel discum”.

Arachnen Si dice che l’astronomo Eudosso di Cnido fosse il primo

a disegnare le linee orarie con le curve di declinazione su un piano orizzontale, la cui forma ricorda quella di una tela di 73 C. Clavio, "Gnomonices libri octo", Roma, 1581, pag. 2

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ragno. Per questo motivo tale orologio si chiama “Arachnen”, o “Aracnea”. Questa parola è molto rara nella letteratura latina, si conosce una sola citazione simile, presso lo scrittore Serenus Sammonicus nel 957, ed è “araignèe” (74). Tutti i commentatori, comunque, si trovano d’accordo sul senso della parola che designa uno strumento provvisto di una rete di linee, le quali richiamano alla mente l’aspetto di una tela di ragno. Di questo avviso sono Ardaillon, Chiusy, Diels, Ideler, Kauffmann, Kubitschek, Hultsch, Nau, Rehm, Tannery, ecc. Anche Vitruvio menziona, poco dopo, il conarachne dove, evidentemente, “cona” indica la forma della superficie recettrice dei raggi solari, e la seconda, “rachne”, l’apparenza della rete di linee che essa porta. Le tesi però sono discordanti sui particolari dello strumento, sia sulla forma della superficie recettrice che sulla disposizione del tracciato orario. Alcuni studiosi lo vedono come un semplice orologio solare in piano. Per A. Choisy (75) esso non sarebbe altro che un perfezionamento del discum in planitia, la cui ragnatela di linee si sviluppa cominciando dalla base del gnomone. Per altri si tratta di un orologio emisferico, nel quale la rete di linee era sviluppata tramite l’addizione delle linee mensili, dei solstizi e dell’equinoziale. Una terza ipotesi, forse la più audace e controversa, esplicitamente condannata da Kauffmann e Rehm, ma accettata dagli altri, prevede che il termine arachne si applichi non alle linee incise sulla superficie recettrice, ma ad una rete metallica mobile simile a quella dell’astrolabio (dove il nome dato per quest’ultimo è “aranea”) (76). Tannery suppose che nell’interno del polos emisferico potesse “girare una sfera costituita da una rete metallica solida che gioca lo stesso ruolo del gnomone durante il giorno”. Se si accredita questa ipotesi l’arachne, allora, non doveva essere altro che un astrolabio sferico, senz’altro il più antico che si conosca (di questo parere è Kauffmann). Il mio parere è che l’arachne sia stato un semplice orologio solare in piano con sopra incise tutte 74 j. Soubiran, Op. cit. pag. 248 75 J. Soubiran, Op, cit. pag. 249 76 " pag. 250

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le linee orarie, le curve di declinazione mensili e dei solstizi, formando un tracciato che dà l’idea della tela di ragno.

Un arachnen potrebbe essere l’orologio di Delos, che è fatto su una superficie piana orizzontale, per la latitudine di 37 gradi. Reca delle scritte in greco, in corrispondenza delle curve solstiziali, equinoziale ed altre ancora. Un orologio del genere fu trovato ad Aquileia, classificato anch’esso come discum in planitia. Costruito per la latitudine di 45 gradi e 39 primi (con un errore di 7 primi e mezzo), è firmato dall’artefice: M. Antiotius Euporus fecit. E’ stato datato al primo secolo della nostra era (77).

Plinthium sive lacunar Vitruvio cita Scopa Siracusano come l’inventore

dell’orologio solare chiamato “Plinto”, detto anche “lacunare”. Si dice, in genere, che quest’orologio avesse qualche rassomiglianza con delle travi messe in quadrato; infatti, il termine lacunare richiama l’immagine di un soffitto a cassettoni. Nella cronaca settecentesca di C. Heilbronner, viene descritto come simile ad un pilastro quadrato sul quale vi erano incisi sulla sommità un orologio orizzontale, e sui lati quattro orologi verticali, dei quali uno boreale, uno australe, uno orientale e l’altro occidentale. In questo caso, esso sarebbe sicuramente il capostipite degli orologi solari cubici e poliedrici, tanto in uso nel sec. XVI. A. Rehm, invece, lo definisce analogo al “discum in planitia”, e fa notare che se fatto installare in un luogo pubblico di grosse dimensioni (come il Circo Flaminio) doveva essere visibile da lontano, per mezzo della sua grande superficie recettrice, piana e verticale (78). Il termine lacunar, che etimologicamente significa lacuna, cavo o cavità, potrebbe far pensare ad una sorta di parallelepipedo aperto sul davanti in cui il fondo, mantenuto all’ombra dai lati sporgenti, era percorso da 77 F. Kenner, "Sonnenuhren aus Aquileia, p. 9-20, l'orologio porta una rosa dei venti a otto divisioni. 78 " pag. 252

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un raggio di sole passante attraverso una stretta entrata (foro gnomonico), situata sul bordo superiore. Questa tesi è di Cetius Faventinus che la espone nel lib. XXIX: “planitia aequalis subtiliori crassitudine fiat, ut aperta rotunditate digitali facilius solis radius infusus per numeros linearum horas demonstret”.

Credo che l’ipotesi di un pilastro con incisi su tutte le sue superfici gli orologi solari, sia la più attendibile. Inoltre è da rilevare un particolare che potrebbe essere molto importante nell’identificazione definitiva. Come abbiamo visto sopra, nella nota di Berardo Galiani, è scritto che il “Baldo ci avvertì, che dove leggesi lacunar, si debba leggere laterem, perchè later può essere sinonimo di plinthus”. Infatti, un “plinto” non mi sembra legare con una “cavità”, a meno che si tratti di un pilastro sulla cui superficie, che guarda lo zenit, veniva realizzato un emisferio; naturalmente l’altezza del pilastro doveva essere tale che si poteva facilmente osservare l’ombra dentro alla cavità dell’orologio. Anche se è un’ipotesi non da scartare, tuttavia non vi sono argomenti e prove che consentino di sostenerla, così non siamo veramente in grado di dire cosa fosse di preciso il “Plinthium sive lacunar”.

Pros Ta Istorumena “Ombre” più fitte cadono sugli altri orologi citati da

Vitruvio. Questo viene attribuito a Parmenione che, malgrado P. Tannery dichiari sconosciuto tale personaggio, gli altri vogliono identificarlo con il famoso architetto che realizzò il Serapeon di Alessandria e l’Iasonium di Abdera.

Alcuni sostengono che il pros ta istorumena sia un orologio del tipo equinoziale, forse portatile, ma utile solo per alcune latitudini corrispondenti alle città più importanti del mondo antico: Alessandria, Rodi, Atene, Roma, Marsiglia, Bisanzio, ecc. E questa pare che sia l’opinione dei maggiori studiosi. Secondo un certo Cesariano, invece, il nome di questo strumento farebbe allusione alle figure dello zodiaco dipinte sul

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quadrante, diventando uno strumento adatto ad indicare tutte le cose (o fenomeni) del cielo: le ore, i mesi, i giorni e i segni zodiacali (79). A questa descrizione corrisponde una sola figura di orologio solare in marmo e conservato a Tunisi, Bardo, museo Alaovi. Purtroppo, avendo a disposizione solo questa immagine, non sono in grado di dare particolari più precisi.

La prima ipotesi trova maggiori sostenitori i quali identificano il pros ta istorumena con alcuni orologi ritrovati, che hanno la particolarità di essere portatili e di servire per alcune latitudini. Uno di questi è l’orologio romano che risale al 250 d.C. circa e che può funzionare da 30 a 60 gradi di latitudine. Questo orologio, viene curiosamente scambiato col discus in planitia in un dizionazio delle antichità greche e romane del secolo scorso, e dal quale è tratta anche la figura del “discus” ripresa dal Martini, “Von den Sonnenuhren der Alten”.

Due sono, quindi i ritrovamenti di questo tipo di orologio: quello di Roma e quello di Cret-Chatelard, descritto dal Generale De la Noe in “Cadran solaire antique trovè an Crèt- Chàtelard”, Bull. So. Nat. Antiquaries de France, 1897. Secondo W. Kubitschek, due altri strumenti appartengono a questa categoria: un frammento conservato al Museo di Napoli e l’esemplare di Pausilippe (80).

Pros pan klima Attribuito a Teodosio e Andrea, dovette essere un vero e

proprio orologio universale portatile. Un perfezionamento, insomma, del pros ta istorumena, sebbene non si sia in grado di effettuare un confronto sul piano pratico. Non si conoscono esemplari venuti alla luce da scavi archeologici che possano aiutarci a capire meglio la natura di questo strumento. Certamente i due orologi dovevano essere due modelli molto simili, per costruzione e uso, con l’unica variante che questo, 79 J. Soubiran, Op. cit. pag 254. 80 Idem, op. cit. pag 254-256.

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probabilmente, aveva una estensione in latitudine maggiore del primo.

Pelecinum e Pelignum Sul pelecinum c’è da fare un discorso a parte, perchè

molto probabilmente la sua storia si intreccia con quella di un altro strumento al quale non è stato ancora dato un nome. Nel Landesmuseum di Trier, è conservato un mosaico, proveniente da una antica villa romana di Treviri, in cui viene rappresentato un vecchio (si dice fosse Platone) che mostra uno strano tipo di orologio solare per il quale e per quel che si sa, la letteratura gnomonica non ha ancora trovato un nome.

Secondo quanto scrive Vitruvio, Patrocle fu l’inventore del Pelecinum, un orologio composto, secondo le odierne ipotesi, da due tavole di marmo la cui forma assomiglia ad una scure bipenne, dal quale deriva anche il nome di bipennis. Durante gli scavi di Pompei furono ritrovati vari orologi solari: alcuni hemicyclium, degli orizzontali e un pezzo di pelecinum, ora conservato al Museo Nazionale di Napoli. Uno intero, invece, è situato sulla faccia superiore di un tronco di colonna, nel peristilio della casa detta dei capitelli figurati. Presenta dei difetti nel tracciamento delle curve del solstizio estivo e delle linee orarie. Sembra pure che questo orologio, ai suoi tempi, sia stato associato a un disco di bronzo il cui gong risparmiava allo schiavo la fatica di annunciare a voce il trascorrere delle ore. Un altro pelecinum proviene da Nemi.

Secondo me, gli orologi solari citati e chiamati pelecinum, in realtà non possono che identificarsi con gli “arachne” sopra descritti. Infatti, sulla loro superficie piana sono incise le linee orarie e le vurve di declinazione del sole, formando la famosa tela di ragno. Mentre è da considerare che la descrizione teorica data per il pelecinum non si adatta gran che alla forma degli arachne. Al più la scure bipenne potrebbe essere rappresentata, in questi, dal disegno delle linee orarie, ma la cosa non regge, perchè la teoria data oggi per il pelecinum, in realtà, calza alla perfezione per l’orologio rappresentato nel mosaico del

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Landesmuseum, per il quale ritengo che il nome giusto debba essere “pelignum” per l’epoca di Vitruvio, alterato in “pelecinum” attorno al II secolo d.C. Una prima prova di ciò è data da alcuni manoscritti antichi che descrivono un orologio solare come per il pelecinum, chiamandolo pelignum. Sappiamo che Cetius Faventinus, nel capitolo XXIX della sua opera principale, ispirato da un’altra fonte diversa da quella di Vitruvio, parla di una descrizione molto oscura di un orologio solare chiamato Pelignum, a partire dal quale i traduttori restituiscono il termine pelecinum. Prima di prendere in esame un’altra fonte molto importante, esprimo il mio parere: sono convinto che il termine originale doveva essere pelignum, d’accordo con Faventino che sicuramente consultò le fonti più antiche, e che quindi pelecinum sia la storpiatura del termine originale.

La descrizione di questo orologio l’ho trovata in una edizione del 1730 delle “Exercitationes vitruvianae primae. hoc est: Ioannis Poleni commentarius criticus de M. Vitruvii Pollionis...”. Nell’opera è compresa una parte intitolata: “Anonymus scriptor vetus de architectura compendiosissime tractans, quae vitruvius et ceteri locupletius quidem ac diffusius tradidere. cum annotationibus Ioannis Poleni”.

Il testo è troppo importante per la storia della Gnomonica e merita di essere trascritto in questo libro integralmente, con le relative note di Poleni. In primo luogo perchè è forse l’unica descrizione antica che ci resta di questo orologio e dell’Hemicyclium; in secondo luogo perchè può essere di grande utilità al lettore interessato per eventuali approfondimenti e ricerche. Questo testo, quasi sicuramente, è di Cetius Faventinus perchè in esso si trova un passo già menzionato sopra riportato da J. Soubiran, citando il capitolo XXIX.

Ma ciò nulla toglie all’importanza dello stesso che ci ha permesso di identificare con certezza una specie di orologio solare in uso nell’antichità fino ad ora sconosciuto, e in più ci regala una precisa descrizione dell’Hemicyclium.

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Caput XXVIIII

De Horologii Institutione “Multa variaque genera sunt horologiorum; sed Peligni,

et Hemicycli magis aperta, et sequenda ratio videtur. (1) Pelignum enim horologium dicitur quod ex duabus tabulis marmoreis vel lapideis superiore parte latiorubus, inferiore angustioribus componitur: sed hae tabulae aequali mensura fiunt, et quinis lineis directis notantur, ut angulum faciant, qui sextam horam signabit. Semis ergo ante primam, et semis post undecimam supplebunt XII. numeros horarum, sed junctis aequaliter ante, et exstensis in angulo summo juncturae circinum figes, et angulo proximum circulum facies, a quo primum lineae horarum partitae aequaliter notantur. Item alium majorem circulum ab eodem puncto anguli facies, qui prope (2) oram tabularum attingat, ad quem aestivis temporibus gnomonis umbra pervenit. Subtilitas ergo disparis mensurae de spatio horarum expectanda non est, quando aliud majus, et aliud minus horologium (3) poni solitum videatur, et non amplius pene ab omnibus, nisi quota sit solum inquiri (4) festinetur. Gnomon itaque in angulo summo juncturae paululum inclinis ponitur, qui umbra sua horas designet. Constitues autem horologii partem, qua decimama horam (5) notat, contra Orientem aequinoctialem; fieut de exemplis multisariam cognoscitur. Horologium autem, quod (6) Hemicyclium appellatur, simili modo de lapide, vel de marmore uno, quattuor partibus sursum latioribus, infra angustioribus componatur; (7) ut ab ante, et a tergo latiores partes habeat. Sed frons aliquantum permineat, atque umbram faciat majorem. Sub hac fronte rotunditas ad circinum notatur, quae cavata (8) introrsus hemicycli faciat schema. In hac cavatura tres circuli fiunt: unus prope summitatem horologii, aliu per mediam cavaturam, tertius prope (9) horam signetur. A minore ergo circulo usque ad majorem circulum horalem I. et decem lineae directae aequali partitione ducantur, quae horas demonstrent. Per medium vero hemicyclium supra minorem circulum planitia aequalis subtiliori grossitudine fiat; ut, aperta, rotunditate digitali, facilius Solis radius infusus per numeros

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linearum horas demonstret. Hiemis ergo tempore per minorem circulum horarum numeros servabit. Aequinoctiali tempore per majora circuli spatia (10) gradietur. Sed, ne error in (11) construendo horologio cuiquam videatur, libero loco alto, vel plano, sic ponatur, ut angulus hujus, qui occiduas horas notabit contra aequinoctialem vernum spectet, unde Sol nono Kal. Aprilis oriatur. Fit etiam in uno horologio duplex elegantiae subtilitas; nam dextra ac sinistra extrinsecus in lateribus ejus quinae lineae directae notantur, et ternae partes circulorum (12) aequali intervallo sic fiunt, ut una proxima fit angulis posterioribus, ubi styli ponentur, qui umbra sua horas designent: altera mediam planitiem detineat: tertia prope (13) horam contingat. Has enim partes circulorum hieme, vere, et aestate sic, ut interius, gnomonis umbra sequitur. In angulis ergo posterioribus stylos modice obliquos figes, qui umbra sua horas (14) designent. Oriens enim Sol in primo latere sex horas notabit, occidens alias sex in (15) sinistro latere percurret. Legitur etiam, horas sic comparari debere; primam, sextam, septimam, et duodecimam uno spatio mensuraque disponendas: secundam, quintam, octavam, et undecimam pari aequalitate ordinandas. Tertiam, quartam, nonam simili ratione (16) ducendas. Est et alia de modo et mensuris horarum comparatio, quam prolixitatis caussa praetereundam aestimavi. Prima (17) quiniam haec diligentia ad paucos prudentes pertinet. Nam omnes fere, sicut supra memoratum est, quota sit solum requirunt. Quantum ergo ad privatum usum (18) expectat necessaria huic libello (19) ordinavimus”.

Note 1) PELIGNUM - Ita in Codice utroque perspique

legitur. Ed. V. habet Plinthium; haud dubie quia Plinthium nominat Vitruvius (Lib. IX Cap.9 ubi agit de horologiorum ratione, et usu). At, si Vitruvius horologiorum descriptiones haudquaquam exhibuit, qui fieri poterit, ut sciamus, Plinthium horologium illud fuisse, quod hisce in Codicibus Peligni nomine designatur? Porro, si vocum similitudo duntaxat fuisset attendenda, Pelecinon (de quo item in commemorato Capite Vitruvius) pro Pelignum, potius quam Plinthium,

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fuisset reponendum. Sed cum desint Antiquorum monumenta fere omnia, ex quibus res ab Auctore nostro in Articulo hoc propositae cognoscantur; atque adeo nullae comparationes institui queant; plane sequitur, ut haerere aqua debeat ubi in hoc eodem Articulo affenduntur varii caliginosi, seu male affecti loci, minime quidem tentandi; quippe qui sint de genere illorum, quos neque ipse Apollo illustraverit, aut sanaverit.

(2) ORAM - Ita Ed. V. Est in Cod. R. 1. horarum: Cod. R. 2. horas.

(3) PONI - Exscripsimus Ed. V. Cum Codices habeant, pones.

(4) FESTINETUR - Cod. R. 1 festinet: Cod. R. 2 festinatur.

(5) NOTAT - Hic coque Ed. V. secuti sumus: Cod. R. I, nota ut: Cod. R. 2 notasti.

(6) HEMICYCLIUM - De hoc horologiorum genere, quod ab Beroso Chaldaeo inventum tradidit Vitruvius 8loc. cit.) egit Iacobus Zieglerus; de cujus tamen opusculo opportunius ad commemorata modo Vitruvii verba dicetur.

(7) UT - Cod R. 1, Sed Cod. R. 2 et Ed. V. ita ut. (8) INTRORSUS HEMICYCLI - Lectio haec est

Cod. R. 2 In Cod. R. 1 et in Ed. V. est, intro rasu emicyclio. (9) HORAM - iTA cOD. r. 1 ET eD. 1 At Cod. R. 2

horas. Lubens scripsissem oram. (10) GRADIETUR - Verbum ex conjectura eo modo

emendandum putavi. Cod. R. 2 et Ed. V. graditur: Cod. R. 1 gradiet; et fortasse, illo sequiore aevo, gradio etiam, pro gradior, dicebatur.

(11) CONSTRUENDO - Hoc verbum ubique legitur: crederem tamen, constituendo, esse legendum.

(12) AEQUALI INTERVALLO SIC FIUNT - Consentiunt Cod. R. 1 et Ed. V. Sed Cod. R. 2 habet; intervallo aequali eas secant.

(13) HORAM - Sic Ed. V. In Cod. R.1 hora: in Cod. R. 2 horas. Iterum tentabar, ut reponerem, oram.

(14) DESIGNENT - Ab Cod. R. 1, ab Ed. V. dissert Cod. R. 2, qui habet, demonstrent.

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(15) SINISTRO - Hic quoque dissert Cod. R.2 in qui, pro sinistro, est alio.

(16) DUCENDAS - Sic emendavimus coniectando. Codices, dedendas: Ed. V. edendas.

(17) QUONIAM - Ita Codices: Ed. V. quum (18) EXPECTAT - Id Verbum Codicum est: Ed. V.

spectat. (19) ORDINAVIMUS - Post hoc verbum (quod

postremum est Art. XXIX, in Cod. R. 1 et in Ed. V.) in Cod. R. 2 sequuntur haec: Civitatum sane, et ceterarum rerum institutiones praestanti sapientiae memorandas relinquimus.

Eodemque in Codice, nimirum Regio 1286. post hunc

Art. XXIX. alius sequitur Articulus, cujus nullum indicium in Regio Codice 1504. nullum in Vascosani Editione reperitur. Quae vero de aliis in eum Codicem insertis Articulis supra dicta sunt (pag. 187 et pag. 207) eadem de hoc quoque quem subjeci, dicta intelligantur.

Come risulta evidente la descrizione del Pelignum non si

adatta all’orologio che viene chiamato Pelecinum per un motivo molto semplice: quest’ultimo è descritto su una superficie piana, il pelignum è composto da due lapide marmoree incernierate, esattamente come l’orologio che mostra il Vecchio nel mosaico del Landesmuseum. Faventino è un autore del IV secolo e molto probabilmente le sue descrizioni sono fatte sulla base di orologi esistiti a quell’epoca. Ed ecco i particolari rivelati dallo scrittore anonimo, o Faventino, che permettono con certezza l’identificazione del pelignum con l’orologio del mosaico:

1) Faventino parla di uno spigolo coincidente con la sesta ora (e non della linea meridiana come nel pelecinon) in quanto l’orologio è composto da due lastre marmoree incernierate;

2) le due lastre di marmo sono più larghe sopra e più strette sotto;

3) lo gnomone “è posto nell’angolo più grande della giuntura, leggermente inclinato, il quale indica con la sua ombra le ore”.

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4) Infine dice l’autore: “colloca la parte dell’orologio che indica la decima ora contro l’Oriente equinoziale come è conosciuto in molti luoghi, dagli esempi”. Anche questa è un’operazione facilmente effettuabile solo con uno strumento delle dimensioni del Pelignum e nel modo indicato dal Vecchio nel Mosaico. L’autore, inoltre, mette in evidenza che questo tipo di orologio non è molto preciso, ed è piuttosto approssimativo: “L’esattezza per la misura diversa sullo spazio delle ore, non è da aspettarsi”.

Durante le mie ricerche in abbazia, ho avuto la fortuna di

trovare un’altra rappresentazione di questo Pelignum, anche se in questo luogo non viene appellato in nessum modo. Il disegno è riportato nel III tomo dell’enciclopedia settecentesca “Thesauri Antiquitatum Romanarum Graecarumque” nel contesto della rappresentazione di un antico calendario, si dice risalente al IV secolo. L’immagine raffigura Giugno nudo che osserva le ore solari sull’orologio solare posto su una colonna con capitello. E sotto c’è la tetrastica del poeta Ausone:

AUSONII TETRASTICHON Nudus membra dehinc solares respicit horas Iunius, ac Phaebum flectere monstrat iter. Idem maturas Cereris designat aristas, Florales que fugas lilia fufa docet. Anche qui si notano due lastre di marmo a forma di diedri

che sembrano formare un’ascia. Questo modello però è posato su una colonna. Quello di treviri potrebbe essere una variante di questo, cioè portatile. In entrambi i casi una delle due facce recettrici è in ombra, ad indicare, come dice anche la tetrastica, che le ore del mattino sono trascorse e si appresta a ritornare il tramonto. Questo disegno resta una testimonianza molto preziosa, in quanto unica nel suo genere. L’unica cosa strana: non si vede lo gnomone nel disegno, ma potrebbe dipendere da una mancanza dell’incisore. Fino ad oggi sono riuscito a trovare solo un’altra rappresentazione antica di questo orologio, segnalatami peraltro dal Padre Paul di Roccasecca. Si trova sul

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sarcofago cristiano a vasca del Museo Cristiano. Risale all’età di Gallieno - 253 0 260 d.C. - ed è certamente un Pelignum.

Prima di concludere su questo orologio, mi sia consentita un’ultima segnalazione. L’immagine di Giugno che osserva le ore con il Peligno è riportata anche nel “Supplement au livre de l’Antiquitè expliquèe ...” di Bernard de Monfaucon, religioso benedettino della Congregazione di S. Mauro, del 1724, tomo I. Pl. X. Alla pag. 34 troviamo un forte, quanto giustificato, accenno di perplessità verso questo orologio solare fino ad oggi sconosciuto:

“Le quadrant Solaire est d’autant plus remarqucable, que je me scai si on en trouve quelque autre dans les monumens des anciens tems qui nous restent”.

Pharetram

L’invenzione della Pharetra è attribuita ad Apollonio di Perge, uno dei massimi geometri greci, nato a Perge (Asia Minore), vissuto al principio del III secolo a.C. Stando a quanto dice il Pasini (81) questa Pharetra (in francese carquois) doveva essere tra i primissimi modelli di orologi solari orientali ed occidentali in piano verticale. Per A. Rehm era una tavoletta verticale orientata secondo il piano meridiano, con una faccia rivolta ad est e l’altra ad ovest e ciascuna era munita di un proprio gnomone. Naturalmente ogni facciata serviva per metà giornata. Secondo E. Ardaillon, era un orologio verticale esposto a sud con l’altra facciata rivolta a nord. In questo modo le linee orarie rappresentarebbero le frecce che fuoriescono da un “carquois” (esse divergono a partire dalla base del gnomone), da cui si ha il nome dello strumento. La faretra è quell’astuccio portatile contenente le frecce, usato dagli arcieri. Ma questo potrebbe indurci a pensare ad un oggetto trasportabile come, in effetti, lo è la faretra. D’altra parte gli orologi verticali orientali ed occidentali venivano spesso incisi anche sulle pareti laterali 81 C. Pasini, "Orologi solari", 1900, pag.144

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degli Hemicyclium e non mi sembrano gran che indicato per il termine Pharetra.

Conum Il cono è più facilmente identificabile in una superficie

recettrice a forma di cono sulla quale si trava inciso il tracciato orario. Vitruvio attribuisce l’invenzione di quest’orologio al maggiore studioso della geometria delle sezioni coniche, erede delle ricerche di Archimede.

A questo punto devo constatare che la terminologia usata da Vitruvio è ancora una volta usurpata nelle traduzioni moderne. Altre tre specie di orologi solari egli menziona ed io le trascrivo dalla versione cinquecentesca:

• gonarchen • engonaton • antiboraeum

Questi termini sono rimasti inalterati fino al secolo scorso.(82) Molti autori, infatti, li nominano nella stessa maniera. I testi moderni(83), invece, riportano: conarachnen, eugeniaton, antiboreum. Come è evidente le parole sono molto simili, ma è difficile spiegarsi il motivo del cambiamento. Ad ogni modo, col termine gonarchen, o conarachnen, si vuole indicare proprio un tracciato orario a forma di tela di ragno per una superficie recettrice conica. In questo strumento lo gnomone rappresenta l’asse del cono e i cerchi diurni risultano ad esso perpendicolari. Come è evidente anche la realizzazione doveva comportare maggiori difficoltà rispetto al classico Hemicyclium dal quale discende.

Sono molti gli orologi conici scoperti durante scavi archeologici, soprattutto a Delos, Heraclea, Atene, Pompei e Fenicia. L’orologio “d’Heraclee du Latmos”, fu trovato nel 1873 ed è firmato da Themistagoras, figlio di Meniscos d’Alessandria, 82 Compresa la traduzione dell'Architettura a cira di Berardo Galiani. 83 vedi anche R. Rohr, "Meridiane", Ulisse ed.,Torino 1988

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è doppio e presenta una superficie conica a Sud e un’altra a Nord ed è costruito per la latitudine di 37 gradi e 30 primi.

Antiboraeum Si tratta di un orologio accessorio, probabilmente, a volte,

incorporato negli hemicyclium e rivolto a nord. Se ne trova uno sul doppio quadrante di Pergamo, sull’orologio di Tenos e su quello conico di Apollonio.

Engonato o Eugeniation Non si sa assolutamente nulla di questo strumento. Solo

nelle Pitture antiche d’Ercolano , tomo III, del 1762 viene riportato: “l’Engonato, che forse rappresentava Ercole (si veda Igino “Ast. P. II.6”); e potea corrispondere all’Ercole Orario, che vedeasi in Ravenna, delineato da Gabriel Simeoni “Illustr. degli Epit. e Med. ant. p. 80”. Questo Ercole Orario, che secondo l’antico autore poteva anche identificarsi con l’Engonato di Vitruvio, l’ho ritrovato in un dizionario delle antichità greche e romane del secolo scorso. Così dice a proposito di questa immagine che è inserita nella spiegazione dell’Hemisphaerium: “The illustration represent a statue of Atlas, formerly standing in the centre of Ravenna (Simeoni, Epitaffi antichi, Lione, 1557), which affords an appropriate design for a dial of this description; and indicates that the hemisphaerium was erected in an upright position, whereas the discus, which was also circular, was laid flat upon its stand: and that constitutes the difference between them”.

Anche un certo cavatum plinthium viene elencato oggi come un orologio solare a parte. Tuttavia nell’elenco di Vitruvio non appare.

Infine vi sono i viatoria pensilia, cioè gli orologi solari portatili da viaggio di cui ora ne esaminereno alcuni tra i più interessanti.

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Si ritiene che il costume di portare in giro orologi sia antichissimo. L’antico poeta Comico Batone, citato presso Ateneo (84) dice:

Poi di buon mattino porti in giro l’ampolla guardando attentamente l’olio, di modo che alcuno crederà, che tu porti in giro un Orologio, non già un’ampolla. Anche lo storico francese Casaubon deduce da queste

parole, pensando a quelle di Vitruvio, che gli orologi portatili devono avere radici molto profonde nella storia. Ma sembra che il poeta parli, in quel luogo, di un orologio ad acqua, mentre quelli di Vitruvio sono a Sole. Nelle cerimonie sacre degli Egizi “Compariva tra gli altri Ministri anche l’Oroscopo: il quale portava in mano un Orologio, e una palma, simboli dell’Astrologia”. Ma presso tutte le fonti antiche è facile dimostrate che trattavasi di orologi ad acqua. Quelli cui allude Vitruvio, comunque, non hanno nulla a che fare con gli orologi dell’epoca del Poeta Batone. Essi furono detti pensili da viaggio perchè avevano dimensioni davvero molto ridotte, tanto da poter essere comodamente sospesi nell’aria per la lettura dell’ora. Naturalmente essi erano orologi d’altezza, cioè il loro funzionamento era basato sul calcolo dell’altezza del sole sopra l’orizzonte locale. Purtroppo però Vitruvio non menziona nessun tipo di questi orologi, ma per fortuna alcuni di essi ci sono giunti in originale, portati alla luce durante scavi archeologici. Nei testi letterari non si trovano citazioni di oggetti di questo genere. Solo in un passo di Pertinace si legge qualcosa che richiama l’attenzione in proposito; il passo è ricordato dal Soubiran: “Seul Julius Capitolinus, racontant (Pertinax, VIII) la vente des biens de Commode par son successeur, en 193, mentionne “alia iter metientia horasque monstrantia”, compteurs de vitesse et horloges portatives dont certaines voitures étaient munies”.

In genere gli orologi solari portatili ritrovati sono soprattutto del genere ad anello e alcuni arrivano ad avere 84 Lib. IV. 17, pag. 163

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dimensioni davvero ridotte: dell’ordine dei 3 centimetri di diametro. Soubiran fa una piccola lista di questi oggetti rinvenuti in varie epoche:

• l’orologio di Forbach, una specie di sestante rudimentale che segna l’ora solo per mezzo della misura dell’altezza del sole sull’orizzonte, ma più che un orologio portatile è da viaggio. Dimensioni: 52 mm di diametro.

• l’orologio di Aquileia I di 31 mm di diametro; • l’orologio di Aquileia II (39 mm di diametro); • l’orologio del museo Kircheriano di Roma; • l’orologio di Mayence che è il più grande con un

diametro di 68 mm. Secondo Soubiran, il primo scritto che riguarda l’orologio

del museo Kircheriano, risalirebbe al 1891, a cura di A. Schlieben (Ann. d. Ver. f. Nassauische Altert. kunde, XXIII p. 115 seq.). Uno studio approfondito dello strumento, invece fu effettuato dal noto astrofisico Padre Angelo Secchi, e pubblicato in un articolo sulla rivista Civiltà Cattolica, anno ottavo, terza serie, volume sesto, alle pagg. 97-101 (85).

L’orologio fu donato dal Cavaliere Luigi Vescovati al Museo Kircheriano di Roma (ora museo Preistorico ed Etnologico). La sua forma è quello dell’anello astronomico descritto da Gemma Frisio nel secolo XVI: si tratta di una scatola rotonda di circa 5 cm di diametro, sulla cui superficie vi era un appiccagnolo per mezzo del quale veniva sospeso in aria e rivolto verso il sole per il lato in cui era stato aperto un forellino, destinato ad introdurre nella scatola il raggio di luce. Le linee rette che si vedono incise sul fondo della scatola e che partono tutte da un comune centro, servono a dividere le linee dei mesi, cioè le curve diurne, contrassegnate dai rispettivi nomi. Nel centro orario vi è impiantato un indice che ruota attorno al suo perno parallelamente al piano dell’orologio; esso serve da pendolino per collocare lo strumento in giusta posizione. Per 85 Vedi Nicola Severino, "Un antico orologio solare di epoca romana conservato nel Museo Kircheriano di Roma", relazione presentata al 4 Seminario Nazionale di Gnomonica tenutosi a Crespano del Grappa nel 1992.

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leggere l’ora basta osservare su quale punto della linea mensile, nel mese corrente, cade il raggio di luce che passa attraverso il forellino. L’età di questo orologio ci è data dal ritratto dell’Imperatore Commodo che si vede sul rovescio. Siccome qui egli assume l’imperiale acclamazione di Britannico, potrebbe essere anteriore all’anno 189 di Cristo, nel quale Commodo cominciò a far uso di tale titolo. Per intero la frase è:

M. COMMODVS. ANTONIVS. PIVS. FELIX. AVG. BRIT.

Vi è omesso il nome Aurelius, come manca pure l’appellativo IMP.

Le caratteristiche tecniche sono così descritte nell’articolo:

1) L’orologio è destinato a dare le ore mediante l’altezza del sole, collocato che esso sia nel piano verticale che passa per quest’astro.

2) Le ore sono temporarie, cioè di lunghezza variabile secondo le stagioni, come adoperavansi nell’uso civile dai Romani.

3) Le linee mensili, la cui intersezione col raggio solare dà per tutti i giorni del mese rispettivo il corso delle ore, vengono perciò divise in sei parti, rispondenti alle sei ore dell’arco semidiurno.

4) Le curve mensili non sono già archi di circolo, ma prendono dalla costruzione stessa alcune piccole irregolarità indicate nell’orologio con alcune flessioni.

5) Il principio di costruzione non differisce molto dall’anello astronomico, ma il promo ha sul secondo il vantaggio che mediante l’introduzione di un raggio di sfera variabile con le diverse declinazioni solari, le linee e le divisioni orarie vengono molto ben sviluppate e distese, soprattutto verso il mezzodì e nell’inverno. Con questo, quindi, si evita il difetto comune a tutti gli orologi della specie ad anello che per certe ore e stagioni hanno il campo troppo rostretto per il tracciato orario e di conseguenza sono molto inesatti nelle indicazioni.

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Il secondo orologio portatile, pensile, di cui vorrei trattare più diffusamente è il famoso prosciutto di Portici (jambon de Portici), del quale si è molto parlato, senza tuttavia verificare mai l’esatteza di ciò che si è detto.

22. LA VERA STORIA DEL PROSCIUTTO DI

PORTICI La vera storia del prosciutto di Portici è contenuta nel

Tomo III delle Pitture Antiche d’Ercolano, pubblicato a Napoli nel 1762. Si tratta, inoltre, del primo rapporto completo e preciso sullo strumento ritrovato, come precisano gli autori anonimi dell’articolo: Noi diamo questo bronzo (l’orologio, n.d.A.) come inedito; non avendone finora il pubblico veduto il vero disegno, nè l’esatta descrizione. Peraltro si ha una lunga discussione su una inesatta descrizione di un autorevole studioso pubblicata nella famosa Encyclopedie ou dictionnaire raisonnè des sciences des arts et des metiers di M. Diderot e M. D’Alembert. Non avendone trovato riferimenti in altri testi di Gnomonica, ritengo sia importante trascrivere qui il testo originale, sia per i dettagli descrittivi che per il valore del documento storico:

Il dotto Autore dell’Art. Gnomonique nel To. VII

dell’Enciclopedia ha voluto darne una idea, e si è spiegato così: “On a trouvé dans les ruines d’Herculanum un cadran solaire portatif. Ce cadran est rond et garni d’un manche , au bout du quel est anneau, qui servoit sans doute à suspendre le cadran par-tout òu l’on vouloit, Tout l’instrument est de metal, et un peu convexe par ses deux surfaces: il y a d’un còté un stilet un peu long et dentelé, qui fait environ la quatrieme partie du diametre de ce instrument. L’une des deux superficies, qu’on peut regarder comme la surfaces superieure, est toute couvert d’argent, et divisèe par douze lignes paralleles, qui forment autant de petits quarrés un peu creux; les fix derniers quarrés, qui sont termines par la partie inférieure de la circonférence du cercle, sont disposés comme on va voir, et contiennet les caracteres suivans, qui sont les lettres initiales du nom de chaque mois.

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JU. MA. AV. MA. FE. JA. JU. AV. SE. OC. NO. DE.

La facon, dont sont disposés ces mois, est remarquable en

ce qu’elle est en boustrophedon.................. On pourroit croire, que cette disposition des mois sur le

cadran vient de ce que dans les mois, qui sont l’un au-dessus de l’autre, pa exemple, en Avril et Septembre, le soleil se trouve à-peu-près à la méme hauteur dans certains jours correspondans: mais en ce cas le cadran ne seroit pas fort exact à cet égard; car cette correspondance n’a guere lieu que dans les deux premieres moities de chacun de ces mois: dans les quinze derniers jours d’Avril le soleil est beaucoup plus haut, que dans les quinze derniers de Septembre; il en est ainsi des autres mois”.

I falsi rapporti, a cui egli si è attenuto, hanno ingannato

lui, come più volte è avvenuto ad altri, che con più vivacità, che giudizio, e sofferenza si sono affrettati a parlar delle antichità d’Ercolano; e egli han fatto scrivere quel, che non è, e dare una relazione di questo bronzo falsissima. Poichè primieramente le due superficie del nostro orologio non sono nè convesse, com’egli suppone, nè concave, ma irregolari, come quelle appunto di un presciutto, che in un punto si alzano, in un altro si abbassano, e in qualche parte sono piane. Lo stilo poi dentato, ch’egli rammenta, e che secondo lui forma la quarta parte del diametro dello strumento, non è in verità che un pezzo della coda troncata del presciutto, il quale non ha denti di sorta alcuna: nè sa vedersi di qual diametro sia questo la quarta parte. E’ falso inoltre, che la superficie superiore sia coverta d’argento; mentre non solo questa, ma tutto intero il pezzo mostra essere stato una volta inargentato per le chiare tracce, che se ne ravvisano da per tutto; e specialmente nella superficie inferiore, e tra le increspature della cotenna presso il grasso del presciutto.

E’ falso ancora, che la superficie superiore sia divisa da

dodici linee parallele, che formano tanti piccoli quadrati: poichè le linee, come ognuno vede, non sono dodici, ma quattordici; delle quali sette soloe sono rette, e parallele tra solo; e le altre sette non sono ne rette in tutto, nè parallele, ma composte di più

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picciole rette l’una all’altra variamente inclinate: e quindi è chiaro, che dall’incontro delle prime colle seconde non può essere divisa la superficie in quadrati. E’ anche falso, che i quadrati sieno un poco incavati; mentre la natura delle porzioni della superficie comprese dalle suddette linee è la stessa della natura della superficie intera, cioè in parte convessa, in parte concava, in parte piana. E’ falso altresì, che i sei ultimi quadrati sieno terminati dalla circonferenza del cerchio, del quale nel nostro bronzo (orologio) non sa trovarsene vestigio alcuno: nè i caratteri iniziali de’ mesi sono contenuti ne’ quadrati, e disposti nella maniera, che rappresenta la suddetta figura portata nell’Enciclopedia; essendo la disposizione nel bronzo diversa, e i caratteri non sono compresi, ne divisi da linea alcuna. Nulla ci è finalmente di misterioso, e straordinario nella disposizione de’ mesi, che tanto si rileva, e che si caratterizza col nome di “boustrophedon”, Il nostro orologio, ch’è verticale, necessariamente dee essere descritto colle “ombre verse”, la lunghezza delle quali nell’ingresso del Sole in ciascun segno dello zodiaco è rappresentata secondo le regole della Gnomonica dalle sette linee parallele, e verticali. Ora essendo piaciuto all’autore dell’istrumento di far servire di gnomone la punta della coda del presciutto, e avendo collocata questa a sinistra, necessariamente dovea collocare a destra nell’ultimo luogo l’ombra più corta del Solstizio di Capricorno, ch’è il primo de’ segni ascendenti, e a sinistra nel primo luogo la più lunga del solstizio di Cancro, ch’è il primo de’ Segni discendenti; e tra mezzo a queste successivamente le altre cinque, ciascuna delle quali corrispondente al principio di due Segni, l’uno ascendente, e l’altro discendente, che per essere ugualmente distanti da’ due primi, hanno l’istessa declinazione, e la stessa ombra. Onde nel quarto luogo, ch’è quel di mezzo, sta collocata l’ombra equinozziale dell’Ariete e della Bilancia, che sono distanti per 90 gradi dall’uno, e dall’altro punto solstiziale; nel secondo quella de’ Gemelli, e del Leone, che diatano dal Cancro per gradi trenta; nel terzo le altre del Toro, e della Vergine, che ne sono lontani per sessanta gradi: nel quinto l’ombra del Sole nel principio di due segni corrispondenti de’ Pesci, e dello Scorpione distanti dal Solstizio di Capricorno per gradi sessanta: e

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finalmente nel sesto quella dell’Aquario, e del Sagittario, che ne sono lontani per trenta gradi. Oltre a ciò perchè all’autore dell’orologio era noto, che il Sole percorreva i Segni ascendenti ne’ primi sei mesi dell’anno, e i discendenti negli altri sei ultimi; per esprimere i tempi del successivo avanzamento del Sole da un segno all’altro (il che, come si dirà, importava molto per l’uso del suo orologio), non potea fare a meno di non segnare il mese di Gennaro tra le linee del Capricorno, e dell’Aquario: il mese di Febbraro tra l’Aquario, e i Pesci: e così di mano in mano tutti i primi sei mesi sino a Giugno tra i Gemelli, e ‘l Cancro..(....).

Dopo tutto ciò non crediamo necessario dilungarci sopra

quel che si dice nella Prima Parte di un libro intitolato Monumenta Peloponnesia, in cui si legge lo stesso articolo della Enciclopedia, con buona fede trascritto, senza neppure omettersi il boustrophedon. E veramente sarebbe stato desiderabile, che l’Editore avesse usata la stessa buona fede nel citare l’illustre Autore, ch’ei trascriveva. Ma il piacere di volersi obbligare il pubblico, com’egli dice, nel comunicargli un pezzo inedito, non solo gli ha fatto tacere l’Enciclopedia, che l’avea prevenuto in tal notizia, ma l’ha sedotto ancora ad aggiungnervi del suo tutto quel, che aggiunto rende l’opera sua più mancante. Manca la Storia; poichè dice averne avuto il disegno nel 1754 e l’istrumento fu trovato il dì 11 Giugno del 1755. Manca l’Astronomia, colla quale se ne dovea fare la spiegazione; poichè ei ci da segni bastanti di avere studiato tutt’altro, che quella scienza. Manca la figura; poichè in vece di un presciutto, quale è veramente quella di questo bronzo, egli ci da una caraffa. E se tutt’altro vi fosse, manca la circospezione, la cautela, la continenza, il rispetto nel voler prevenire un Sovrano, che ha presa la cura di far pubblicare il suo Museo....”

La circospezione e la diligenza usata dagli autori di

questo articolo delle Antiche Pitture d’Ercolano, invece, mette in mostra la superficialità e l’incuranza alle fonti storiche originali degli autori moderni. Valga il solo esempio della bruttissima figura di questo orologio pubblicata sul libro “Meridiane” (Ulisse edizioni, 1988) del pur autorevole R. Rohr.

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Un altro quesito, forse meno importante ma che suscita molta curiosità, che si sono posti gli autori dell’articolo è perchè l’antico autore abbia scelto un prosciutto per disegnarci un orologio solare sopra. Ed ecco cosa ne pensarono: “Per da ragione di questo scherzo dell’artefice di aver fatto l’Orologio sopra un presciutto, si pensò o che si fosse voluto alludere al cognome dell’artefice stesso, o del padrone dell’Orologio, forse de’ Suilli: Grutero p. CIV.&. o che avesse il sopranome di Perna: come altri l’ebbe di Scrofa: Macrobio Sat. I.6.”. Le sette linee trasversali danno le dodici ore temporarie del giorno “cosicchè l’ombra del gnomone scendendo di passo in passo per ciascuna di esse, nel toccar la linea seconda (contando dalla parte di sopra in giù) dinotava l’ora prima dalla nascita del Sole: la linea terza la seconda ora: la linea quarta l’ora terza: la linea quinta l’ora quarta: la linea sesta l’ora quinta: e la linea settima l’ora sesta, o sia il mezzodi; dopo del quale risalendo su l’ombra, la linea sesta segnava l’ora settima ( o sia la prima dopo mezzodì): la linea quinta la ottava ora: la linea quarta l’ora nona: la linea terza l’ora decima: la linea seconda l’ora undecima: e la linea prima l’ora duodecima, in cui il Sole tramontava”. Con la stessa cristallina chiarezza è esposto l’uso pratico dello strumento: “Ora per far uso di questo Oriuolo, convien prima sospenderlo pel suo anello, sicchè dal proprio peso resti verticalmente equilibrato; e quindi rivolgere al Sole non già la faccia dell’Orologio, ma il fianco solo, ove sorge il gnomone, con disporlo in modo, che l’ombra di questo vada a incontrare il luogo del Sole nell’Eclittica indicato dalle linee verticali: poichè allora l’ombra stessa mostrerà l’ora, che si cerca, sulle linee orarie (86). Essi, ancora, calcolarono, che 86 Gli autori eseguirono anche un esperimento pratico sull'orologio per verificare l'esatta rispondenza del tracciato orario: "Ma come alla coda del presciutto, la punta della quale, come si è accennato, faceva le veci del gnomone, manca un pezzetto; per restituirvelo, e indagare nel tempo stesso il punto determinator dell'ombra, si è tenuto questo metodo. Essendo noto, che n' soli tempi degli equinozzi le ore degli antichi convengono colle nostre, si scelse il dì venti di Marzo, o sia il giorno dell'Equinozio di primavera, per far l'osservazione; ed

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l’orologio fu realizzato per la latitudine di 41 gradi 39 primi e 45 secondi, che curiosamente corrisponde oggi esattamente a quella del mio paese di residenza Roccasecca Scalo (FR), e pensarono che originariamente fu costruito per la latitudine di Roma. Infine un’altro mirabile tentativo fu quello di calcolare l’obliquità dell’eclittica ai tempi che fu fatto l’orologio, per mezzo dell’osservazione delle ombre tra alcune linee orarie scelte, allo scopo di dedurne la data di fabbricazione. Il risultato fu di 23 gradi 46 primi 30 secondi che paragonata ai 23 gradi 28 primi e 18 secondi corrispondenti alla data di compilazione dell’articolo, se ne dedusse una diminuzione di 18 primi e 12 secondi “...Onde secondo il calcolo, e l’osservazione del Cav. de Louville diminuendosi l’inclinazione dell’Eclittica di 21 primi in 2000 anni, l’epoca del nostro orologio verrebbe a ricadere verso l’anno 28 di Cristo”. Il Rohr lo data al I secolo d. C., così gli altri autori.

23. LA TORRE DEI VENTI. Per completare questo lungo capitolo sulla gnomonica

ellenica, vorrei spendere due parole su uno tra i più noti e curiosi monumenti gnomonici: la Torre dei Venti di Andronico Cyrreste ad Atene. Si tratta di una torre ottagonale dove sulla parte superiore di ogni facciata vi è riportata, in rilievo, una figura che rappresenta i vari venti. Sotto ogni figura, su ogni lato della torre, è possibile ammirare delle linee orarie antiche che rappresentano orologi solari ad ore temporarie, provvisti, miracolosamente, ancora dei loro gnomoni orizzontali. Cosa essendosi tentando supplita con cera la porzione mancante della coda, si prolungò sino al piano della prima linea oraria, e si dispose in maniera l'estremità della sua punta, che scorrendo l'ombra sua sulla quarta linea verticale, o sia parallelo dell'equinozziale, esattamente andasse a dinotare l'ora prima del giorno, computandola dallo spuntar del Sole sull'orizzonte; e con maraviglia si osservò, che fedelmente seguitò a notare con esattezza tutte le altre undici ore del giorno; a riserva delle sole ore seconda, e decima, che sono rappresentate dalla terza linea trasversale, con un divario, che non è più di due in tre minuti".

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strana: è difficilissimo reperire notizie storiche su questo antico monumento nei libri del passato. Ancora una volta, quindi, faccio riferimento all’erudito Claudio Salmasio (87). Un passo di Vitruvio fa pensare che la torre, originariamente fu concepita come indicatore dei venti: “Et ita est machinatus, ut vento circumageretur, et semper contra ventum consisteret, supraque imaginem flantis venti virgam indicem teneret”. E subito dopo adattata a monumentale orologio ad acqua.

Salmasio riporta anche un’antica citazione: “Ille similem rationem colligendi, qua ex parte venerit ventus, in onithone villae fabricatam, atque eam quam Athenis collocaverat Andronicus, exponit lib. III, cap. V de R.R his verbis: - In eodem hemisphaerio medio circum cardinem est orbis ventorum octo, ut Athenis in horologio, quod fecit Cyrrestes. Ibique eminens radius a cardinem ad orbem ita movetur, ut eum tangat ventumqui flet, ut intus scire possis - “. Dice ancora Salmasio che sulla Torre ottagonale di Andronico vi era collocato un Tritone (Dio marino, figlio di Nettuno) di bronzo sopra ogni immagine dei venti e con un indice indicava il vento che soffiava. Egli crede di aver individuato questo nel passo di Vitruvio: “...et ita est machinatus, ut vento circumageretur, et semper contra ventum consisteret, supraque imaginem flantis ventii virgam indicem teneret”. (88).

Queste le poche informazioni che abbiamo sul famoso monumento di Andronico. E’ importante almeno la testimonianza di Varrone dalla quale si apprende che l’autore dell’opera fu proprio Andronico Cirreste. Ma gli autori moderni sostengono tesi diverse secondo cui se Andronico realizzò il 87 C. Salmasio, op. cit. , pag. 881 88 Per completezza di esposizione riporto l'intero passo originale di Salmasio che può essere di molto interesse per lo studioso: " Sed quare horologium vocat Varro illam machinam, quae ventis tantum explorandis noscendisque era facta? An quia adjectum et horologium ut in ornithone Varronis? Non puto, nec hoc dicit Vitruvius. Praetera divisae sunt machinae, et nominibus distinctae, quae horas ostendunt, et quae ventos. Fortasse Varro scripserat: "In aurologio, quod fecit Cyrrestes". Quod postea mutatum librariorum vitio in orologium. Ut cautes, cotes: cauda, coda. Et similia".

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monumento originale, gli orologi solari tracciati sulle superfici della torre sono attribuiti ad un’artista di epoca posteriore, vissuto presumibilmente attorno al primo secolo d.C. E questo spiegherebbe perfettamente perchè Vitruvio non abbia fatto menzione alcuna di questi orologi, pur parlando dei venti che rappresentava la Torre, e come Varrone parli di un solo orologio, al singolare quindi, evidentemente ad acqua, e non degli otto orologi solari. La Torre dei Venti è anche il più antico monumento che mostri orologi solari declinanti dai punti cardinali e alla stessa categoria appartiene un orologio solare quadruplo (89) firmato da Phaidros, figlio di Zoilos. (90)

Dopo lo scritto di Vitruvio, un grande vuoto arriva per inaridire ciò che è stato un fertile campo, quello della Gnomonica, appunto, perla della Mathesis ionica, e trasmessa poi all’arte latina.

ERUDIZIONI OTTOCENTESCHE SU ALCUNI MONUMENTI GNOMONICI DELL’ANTICHITA’

24. GLI OROLOGI ANTICHI RITROVATI E’ difficile dire quanti e quali siano stati gli orologi solari

scoperti negli scavi archeologici, o per puro caso, da contadini e viaggiatori, dall’antichità ad oggi. Ed è quindi impossibile pretendere di farne un elenco completo, o dettagliato. Attenendomi alle poche fonti che sono riuscito, con non poca fatica, a reperire, vorrei ora elencare almeno sommariamente alcuni esemplari tra i più importanti. Il ritrovamento di questi monumenti storici ha dato luogo, nei secoli passati, soprattutto verso la fine del settecento e per tutto il secolo XIX, ad aspre 89 Delambre, Hist. de l'Astron. ancienne, pag. 504 e seg. 90 Oltre alle precise relazioni di Delambre sugli orologi solari della Torre dei Venti, si può leggere ai tempi nostri l'eccellente articolo del Prof. Amm. Girolamo Fantoni, "La Torre dei Venti", in "Orologi le misure del tempo", ed. Technimedia, n. 5, 1989

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polemiche tra gli studiosi della materia. Le ipotesi e le descrizioni erano formulate giorno per giorno, ogni volta che qualche reperto nuovo, con qualche particolare in più alimentava i dubbi, o li eliminava. Tali polemiche e scontri di opinioni, hanni ispirato le migliori menti dell’epoca a scrivere interessantissime erudizioni e dissertazioni sull’argomento, le quali a tutt’oggi sono praticamente sconosciute al grande pubblico, se non a pochi interessati. Essendo questo il primo libro di storia della gnomonica che viene scritto attualmente, vorrei dare spazio per qualcuna di queste erudizioni e proporre al lettore le parti più interessanti.

Come abbiamo visto, il primo ritrovamento di un orologio solare antico appartenente alla categoria Hemicyclium, è avvenuto sull’antica villa Rusinella, sul Tuscolo, da parte del Prof. Astronomo Ruggero Boscovich, nel 1746. Il Soubiran ricorda, di questo tipo, l’orologio di Cannstatt, il doppio orologio di Pergamo con due gnomoni e lo scafio di Berlino n. 1049. Poi l’orologio della Villa degli Orti Palombara a Roma, di epoca imperiale, con iscrizioni greche e linee mensili con iscrizioni, l’orologio di Pompei e quello di Andronico Cyrreste a Tenos, che sembra avere anche la caratteristica di orologio Antiboraeum, con orologi verticali sulle facce laterali. Il Dizionario delle Antichità Greche e Romane (Paris, 1899), ci dice che di questi orologi il museo del Louvre ne possiede due, così pure il Museo Vaticano, di cui uno porta delle iscrizioni in greco indicanti i mesi dell’anno e i segni dello Zodiaco. Altri esemplari se ne vedono al Museo “du Capitole”, al museo Kircheriano, al British Museum e al Museo centrale di Atene. Quattro orologi solari della stessa categoria sono stati ritrovati ad Aquileia. Nei secoli scorsi, nel Museo Kircheriano di Roma, erano conservate varie meridiane, tra cui sicuramente anche quella ritrovata dal Boscovich sulla villa del Tuscolo, ed attualmente le schede relative agli orologi solari sono sette, di cui una specifica anche il luogo del ritrovamento che è Riano. Non tutti sono però appartenenti al genere Hemicyclium.

Di questi orologi se ne sono ritrovati altri fino ai nostri tempi, molti sono sconosciuti in quanto la loro esistenza non è divulgata adeguatamente e quasi sempre finiscono nei locali

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musei municipali del Comune in cui sono stati rinvenuti, come nel caso dell’Hemicyclium di Montefiore dell’Aso (AP), scoperto nel 1989 da chi scrive e da Ferdinando Cancelli di Torino, durante una passeggiata ricreativa in caccia di meridiane, mentre si svolgeva il secondo Seminario nazionale di Gnomonica a Monterubbiano.

Altri esemplari sono stati catalogati e fotografati dal Prof. Alberto Cintio di Fermo.

Vengono poi i cosiddetti Pelecinum di cui abbiamo già parlato e di cui ricordiamo quello di Delos, che sembra essere il più antico; il pelecinum di Pompei, quello di Aquileia, di Roma e di Wiesbaden. Vengono poi gli orologi conici: quello di Apollonio , del Pireo, di Pompei, di Ercolano, di Roma e di Berlino, mentre il Dizionario citato segnala pure, e per primo, quello di Délos, poi uno di Atene, e uno di Fenicia.

Altri autori del settecento hanno citato orologi solari antichi sconosciuti. Certamente singolari sono quelli descritti in alcune opere, tra cui quello riportato dal Simeoni negli Epitaffi e Medaglie antiche a pag. 80. Siccome in quest’orologio si notano incisi alcuni numeri arabi, si è sempre messa in dubbio la sua antichità. Un altro scafio è descritto dal Signor Carlo Antonini nel Tomo II dei Candelabri antichi, senza riportare alcuna illustrazione. Nell’Appendice del IV libro dei Commentari del Lambecio (pag. 282), si riporta la figura di un altro orologio verticale fatto in foggia di scure che l’autore vuole sia il Pelecinon di Patrocle, ma dalla descrizione dell’anonimo scrittore che abbiamo visto prima, risulta essere il Pelignum. Un altro orologio scomparso è quello citato dal Boissardo, dal Grutero e dal Simeoni, op. cit., pag. 46, visto su un Calendario antico nel Palazzo della Valle, di forma cilindrica scavata, e con due altri orologi verticali disegnati sui lati, tutti e tre comunque mancanti delle linee solstiziali, ed equinoziale.

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25. UN IMPORTANTE RITROVAMENTO:

Il Discum nel piano in una catacomba romana. Ecco ora dalle parole di Francesco Peter come sia stato

rinvenuto un altro orologio solare su superficie piana: “Fu molto felice lo scavo intrapreso dal Sig. Sante

Ammendola l’anno scorso nella vigna Cassini a destra dell’Appia. Oltre l’avervi ritrovata una bella strada antica, vi ritrovò ancora molte lapidi cristiane, e sarcofagi marmorei, con sagre istorie...Fra gli altri sassi radunati da que’ poveri Cristiani, per chiudere i loculi de’ loro defunti, si rinvenne un frammento di lapide marmorea, sulla di cui superficie, evvi inciso dentro una zona circolare, un avanzo di sfera de’ venti, con i rispettivi nomi in idioma, e caratteri greci, e dentro poi allo spazio circolare formato da detta zona, vedesi incisa la metà di un Quadrante solare orizzontale, distinto dalle linee orarie, rimanendovi ancora il foro del Gnomone. Essendo stato acquistato questo rarissimo, e pregevole monumento, dal mio amico il Sig. Simone Pomardi Pittore, e uomo erudito, sì per sua istigazione che per mio genio mi accinsi a supplirlo. Cercando perciò fra gli avanzi dell’antichità, con la scorta di Seneca (91) trovai varie basi dodecangolari con i nomi de’ venti bilingui, (cioè in Greco, e Latino) facendone pertanto il confronto con il nostro frammento, li rinvenni con quelli che sul medesimo sussistono conformi, onde con essi ho supplito la sfera de’ venti.

Supplito in tal guisa il giro esteriore, venni al supplemento interno nel che agevolmente riuscii scgnando dalla parte opposta l’altra metà del Quadrante, come ce l’insegna quello inciso sotto al Vento NOTOS, sopra la Torre dei Venti di Atene (92), come lo pensò il P. Clavio, ed altri. Veggendo ora il Quadrante rinchiuso in una figura circolare, che per la sua forma, è somigliante al Disco degli antichi giuocatori delle palestre, e al piatto chiamato pur Disco qualche volta da’ Latini, credo fondatamente, che esso sia quell’Oriuolo solare di cui il lodato 91 Senec. Quaest. Nat. Lib. V. cap. 5. 92 Stuart, Antiquities of Athens, Tom. I, Pl. XI.

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Vitruvio ne fa inventore Aristarco Samio: Idem Discum in planitia che Celio Rodigino asserisce dover essere in un perfetto piano (93), e che appunto dalla sua forma e giacitura ebbe tal denominazione. Laonde adesso viensi in cognizione come questo sia costruito, oltre che serve per consolidare il sistema tenuto dal Clavio, e Kircher, che così ce lo delinearono, benchè non avesser giammai veduto l’unico monumento, che sbucciò poco fa dalla terra...

...La forma poi, il marmo, ed i caratteri, me lo fanno credere attinente già un tempo ad Erode Attico ricchissimo filosofo Ateniese, che giunse ad esser Console insieme con T. Bellico Torquato sotto l’Impero di Antonino Pio (94). Egli ebbe una magnifica villa unita ad un borgo detto Triopio, poco pi1 di mezzo miglio distante dalla vigna Cassini, a destra dell’Appia, e tre dalle mura di Servio...Credo sicuramente che ad esso appartenesse, poichè in quanto alla forma, egli è adatto ad una piazza di una villa posta in luogo alto, e scoperto, dominato liberamente dal sole, come era il predio di Attico. Il marmo come vedemmo è Pentelico, detto ora cipolla, delle di cui cave in quell’epoca il Filosofo era proprietario e i caratteri sono alle iscrizioni del Triopio conformi, specialmente i queste due lettere ε e C di forma lunata...Con tali evidenti ragioni credo doverlo restituire al Triopio, da cui i Cristiani nella decadenza dell’Idolatria lo trassero, trasportandolo nelle Catacombe, costume usitato specialmente nell’Era Costantiniana.” (95).

Con tutta evidenza l’orologio descritto dal Peter (e dopo descritto da H. Diels, da cui prende nota Soubiran) è uguale al Pelecinum “d’Euporus” di Aquileia, e a quello di Pompei, con o senza nomi dei venti. Si tratta quindi proprio del Discum in Planitia citato da Vitruvio e non del Pelecinum per ilquale, come abbiamo visto, le descrizioni date non si adattano che per il Pelignum. 93 Tom. III, Lib. XXIV, cap. 10, Antiqu. Lect. 94 Cioè l'A. di G.C. CXLIII 95 FRANCESCO PETER, Di un antico orologio solare recentemente trovato, dissertazione. In Atti dell'Accademia Romana d'Archeologia, Roma, 1823, Tom. I, parte II, pag.25.

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LE FONTI 26. DOCUMENTI GNOMONICI: LE LETTERE

DEL CANONICO SETTELE A FRANCESCO PETER SUL DISCO NEL PIANO, E SULLA FORMA DELLE LINEE ORARIE TEMPORALI NEGLI OROLOGI DEGLI ANTICHI, DOVE SI CONTRASTA L’OPINIONE DI DELAMBRE.

La dissertazione del Peter ha dato spunto al Canonico

Giuseppe Settele, Professore di Matematica nell’Archiginnasio della Sapienza e Membro dell’Accademia de’ Lincei, per uno scritto sulla polemico sulla forma delle ore di questo orologio e, in genere, sulla forma delle linee orarie temporali usate dagli antichi. Le due lettere scritte dal Settele al Peter, sull’orologio trovato e sulla questione delle ore temporali, è un documento unico per la storia della Gnomonica, attualmente ancora inedito, che vale la pena riportare qui in versione integrale:

“ Stimatissimo Signor Peter. L’orologio solare antico, che Voi

illustrate, con ragione credete, che possa appartenere al Disco nel Piano da Vitruvio attribuito ad Aristarco Samio: poichè esso è appunto una superficie piana circolare, sulla quale sono segnate le linee orarie. In due maniere possono formarsi questi orologio, che segnino le ore ineguali, di cui servivansi gli antichi negliusi della vita civile, o col metodo delle proiezioni, determinando cioè diversi punti nel piano, e conducendo per i medesimi una Curva, ed in questo modo riescono piùesatti; o secondo il metodo usato dalla comune de’ trattatisti, e riportato dalP. Clavio nel lib. 2 probl. 12, della sua intralciata

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Gnomonica, ed allora si hanno le linee orarie in tante rette, il quale metodo però è meno esatto, come lo vedremo in appresso.

Alla prima specie potrebbe forse appartenere il frammento di un orologio orizzontale riportato dal Grutero alla pag. 135 come esistente una volta nel Mausoleo di Augusto: poichè in esso sono curve le linee orarie, se pure è stato esattamente copiato.

Alla seconda specie appartengono. I: Gli orologi solari scolpiti sulle pareti verticali della Torre de’ Venti in Atene riportati dallo Stuart nella descrizione di quella città nel Tomo I, Cap. 3 Figure 10 ad 11.

II. Un frammento pubblicato senza illustrazione dal Sig. Carlo Antonini nel Tom. 2 dei Candelabri antichi Tav. 10. Esiste questo in Tivoli, ove fu trovato nella casa nella casa de Angelis. Ma per quello che può ricavarsi da questo lacero avanzo, sembra più tosto un orologio Verticale declinante, e non essendovi traccia nè di meridiana, nè di gnomone, si richiederebbe una fatica imbroba per trovare la latitudine, a cui appartiene, e supplirvi il resto che manca.

III. Il monumento di cui trattiamo. E’ questo un Orologio orizzontale scolpito sopra una superficie piana circolare; ne esiste una metà, cioè la parte orientale, ma possiamo considerarlo come se esistesse intiero, poichè Voi già vi avete egregiamente supplita l’altra metà, che vi mancava, e terminata la zona de’ Venti. Vi si distingue ancora bene la meridiana, ed il foro ove era collocato il gnomone, onde riesce facile il determinare la latitudine per cui fu costruito. Per la sua integrità e forma è un monumento veramente singolare; ci presenta in somma la pretta forma del Disco nel piano, che

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in tanti orologi fino ad ora scoperti non si era mai rinvenuto, come nel nostro. Gli orologi della Torre de’ Venti in Atene, e il frammento Tiburtino, è vero che sono in piano, ma questi piani sono verticali, onde non possono appartenere al disco. Neppure quello, che esisteva presso il Mausoleo di Augusto, benchè fosse orizzontale, aveva forma circolare.

Premesse queste cose, che risguardano il pregio antiquario di questo orologio, consideriamone ora il suo pregio mattematico, che è quello, che Voi da me ricercate. Le linee orarie sono tante rette nel vostro orologio, è dunque costruito secondo il metodo in appresso usato dal P. Clavio, come già accennammo, perciò le ore non vengono indicate con quella precisione, con cui sono indicate, quando le linee orarie sono curve. Poichè le linee orarie indicanti le ore ineguali degli antichi nella superficie di una sfera, come si vede nei tanti orologj, che si attribuiscono a Beroso, non sono circolari, ma curve, che diconsi di doppia curvatura, come vi feci osservare in una lettera del P. Jacquier “de veteri quodam solari horologio nuper invento”, diretta al P. Mauro Sarti, allorchè mi mostraste il disegno del nostro orologio: le proiezioni dunque di queste curve, che formano le linee orarie sul piano, non possono essere linee rette, come lo sono nel nostro orologio, ma debbono bensì esser curve: e per citarvi anche uno degli autori, che con esattezza hanno trattato di questa materia, potete consultare il De la Hire, il quale nel suo Trattatino di Gnomonica alla Parte &. Cap. /. dice, che siccome non v’ha linea retta, che possa rappresentare queste ore sull’orologio (intende l’orologio disegnato su un piano), fuori dell’orizontale, e della meridiana,

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bisognerebbe trovare più punti di queste linee orarie per segnarle con esattezza: e soggiunge, che questi punti si trovano col metodo delle proiezioni. Onde io, curioso di vedere l’andamento di una delle linee orarie, ho determinato i diversi punti della medesima con questo metodo, ed ho trovato una curva serpeggiante a guisa di S allungato. Se dunque, torno a ripeterlo, si segnerà una retta in luogo della curva indicata, questa non potrà indicare l’ora, che per una certa approssimazione, supposto anche, che non siano molto estese le dimensioni dell’orologio.

Per determinare la latitudine per la quale fu fatto il nostro orologio, il che era poi lo scopo principale delle nostre ricerche, voleva servirmi delle divisioni orarie della linea equinoziale, le quali ancorchè siano eseguite secondo il metodo adoperato dal P. Clavio, pure devono essere esatte; ma temendo di qualche inesattezza del quadratario, ho abbandonato questo partito, e presa una squadra, applicai un lato della medesima sopra la meridiana dell’orologio in modo, che il centro del gnomone cadesse nell’angolo della squadra, vi segnai in appresso i punti dei due tropici, e dell’equatore: poi segnai sopra una carta un arco di circolo, e dal centro condussi alla periferia tre linee distanti l’una dall’altra 23 gradi e 30 primi, quindi ripresa la squadra, l’applicai sopra la carta in modo, che il centro del circolo, comunque si movesse la squadra, si trovasse sempre sopra l’altro lato della squadra, sul quale non erano segnati i punti sopraindicati, e tenendo varie posizioni, giunsi finalmente a far cadere le tre linee, che partono dal centro, sopra i tre punti precedenti, cioè sopra i due tropici, e l’equatore; fermai quindi

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la squadra, e misurando l’angolo, che faceva la linea di mezzo, quella cioè, che era diretta all’equatore, col lato della squadra, sul quale erano segnati i tre punti, trovai, che era di 48 gradi prossimamente, donde ne siegue, che la latitudine, che gli conviene, è di 42 gradi; che è prossimamente la latitudine di Roma, onde può presumersi, che appunto per Roma sia stato formato ilnostro orologio: seppure non si voglia greco di origine, perchè i venti vi sono scritti in greco, e greco è pure il marmo; ed allora potrebbe appartenere a qualche città della parte settentrionale della Grecia, o dell’Asia Minore; sapendosi d’altronde, che i Romani tra le spoglie delle città vinte vi portavano anche gli orologi, come per esempio M. Valerio Messala ne portò uno da Catania al riderire di Plinio, e Pompeo nel suo terzo trionfo ne trasferì uno ornato di gemme, come ci racconta lo stesso Plinio Lib. 37, Cap. 2.

Coll’operazione precedente trovai anche la lunghezza del gnomone, che mi veniva dato sul lato della squadra dalla distanza, che passa tra il centro del circolo, e l’angolo della squadra: e per potere assegnare questa lunghezza con delle unità prese dalle dimensioni dell’orologio stesso, ho diviso in otto parti la distanza, che passa sulla meridiana tra il centro del gnomone, e la linea equinoziale, e ho dato al gnomone nove di queste parti, che prossimamente combinava con la lunghezza trovata...

Determinate queste cose, volli tentare, se le linee orarie stavan al loro posto, ovvero fossero segnate a caso, e se realmente era seguito il metodo di P. Clavio, che consiste nel dividere in dodici parti uguali gli archi diurni dei due tropici, e trovata la proiezione di queste

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sopra le due iperbole, che nel piano rappresentano detti archi, unire con delle rette i punti corrispondenti, che secondo lui rappresentano le linee orarie degli antichi. Fatta dunque questa operazione, e collazionato il mio disegno col monumento, ebbi il piacere di vedere, che prescindendo da qualche piccola varietà, che deve certamente attribuirsi al quadratario inesperto, i punti da me trovati combinavano con quelli dell’orologio. Da ciò vedesi, che le linee orarie sono situate nel luogo, che le conviene, e non mai condotte a caso, e che è stato eseguito secondo un metodo analogo a quello usato da’ moderni, ricavato però dall’analemma di Tolomeo... [....] Questo è quel tanto che ho creduto dover dire intorno al merito mattematico di questo raro monumento...

Roma li 30. Luglio 1815.

La seconda lettera del Settele è un documento non meno importante del precedente, in cui oltre a descrivere un nuovo orologio solare estratto dalle antiche rovine di Délos, precisa il suo pensiero intorno alla forma delle linee orarie temporarie, in risposta anche ad uno scritto del noto scienziato Delambre. L’orologio descritto, quello di Dèlos, è verticale e non è menzionato dal Soubiran il quale ne cita un’altro, sempre di Dèlos, più famoso. Sia l’orologio che la questione della forma delle ore temporarie potrei sintetizzarla io ma, a dire il vero, la lettera del Settele è oltremodo chiara e certamente di alto valore documentaristico ed eccola qui:

“Caro Amico, Se ancora non avete dato alle stampe la

vostra Memoria sopra l’Orologio antico, vi prego di aggiungerci quanto sono ora per dirvi, perchè lo credo importante per il nostro argomento.

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Nei passati giorni un mio Amico mi dette a leggere il Foglio che ha per titolo “Analyse des travaux de la ‘Classe de Sciences Mathématique et Physiques de l’Institut Royale de France pendant l’Année 1814”. Trovai in questo il seguente Articolo “D’un Cadran trouvé à Délos, et par occasion de la Gnomonique des Anciens, par Mr. le Chevalier Delambre”. Con ansietà ho divorato quest’Articolo, credendo di trovarvi qualche cosa analoga all’argomento da me trattato nella Lettera trasmessavi, ma con mia grande sorpresa vi trovai le seguenti espressioni :- Les lignes horaires sont des droites: elles ne pourraient etre courbes que dans le cas où la surface du cadran serait courbe... Montucla dit en parlant des heures temporaires antiques, qu’elles sont courbes, et d’une forme assez bizarre, de sorte qu’on ne peut les décrire qu’en déterminant plusieurs points de chacune. Cela pourrait etre vrai, si la surface du Cadran n’etait ni plane ni sphérique. Sur la sphére, ces lignes sont des arcs de grands cercles, mais ces grands cercles ne se rencontrent pas en un point unique comme les cercles des heures égales qui s’entrecoupent tous aux poles du Monde. Si la surface est plane, ces lignes seront droites, puisq’elles sont les intersections des plans des cercles horaires avec le plan du cadran. Ces deux principes sont avoués ou supposés par tous les auteurs de gnomonique, qui le ont trouvés si clairs, et si évidens, qu’ aucun n’ a pris la peine de les démontrer; ce qui, au reste, ne serait ni long ni difficile -“.

E dopo aver parlato l’Estensore del Trattato dell’Analemma di Tolomeo supplito, e commentato dal Commandino, dice che il Commandino -_’donne meme les figures des

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Cadrans construits par ces methodes. Il enseigne à les divers en heures temporaires, equinoctiales, italiques et babyloniques; et dans toutes ces figures, les lignes horaires sont des lignes droites, quoique en dise Montucla-“. Vedendo così malmenato il povero Montucla, e quindi anche me, che sostengo la stessa opinione, vi confesso, che mi trovai molto costernato; ma riflettendo poi, che le verità mattematiche non si provano coll’autorità, ma bensì col raziocinio, pensai seriamente sopra questa cosa, e mi lusingo di aver trovato una dimostrazione nè lunga nè difficile, del teorema in questione, cioè che le linee orarie delle ore antiche sulla superficie della sfera non sono circolari, e che quindi le loro proiezioni sul piano non sono le linee rette. Non riporto qui la dimostrazione per non dilungarmi troppo, ed anche perchè la credo ovvia, avendo già detto lo stesso il De la Hire, il P. Jacquier, il Montucla, i Compilatori dell’Enciclopedia metodica, ed altri, per i quali non erano tanto chiari, ed evidenti i due principj contrari alla nostra asserzione (96).

Ma d’onde sarà nato l’equivoco preso dal Commandino, dal Clavio, e dagli altri trattatisti di quel tempo? Io credo, che ne sia venuto da ciò, che avendo osservato, che per i due punti estremi delle linee orarie, e per i punti corrispondenti dell’equatore, vi passano realmente circoli massimi, abbiano con troppa

96 La dimostrazione accennata dall'autore si trova in una Memoria sopra la forma delle linee orarie indicanti le ore ineguali degli antichi sopra gli orologi solari, letta nell'Accademia dei Lincei, il 6 maggio 1816 e pubblicata dal medesimo con le stampe del Salvioni nello stesso anno 1816.

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fretta esteso questa proprietà anche a quei punti, che esistono tra l’equatore e i tropici.

Diciamo ora due parole del monumento che hadato motivo a questa discussione. Desso dicesi trovato -‘à Délos parmi les débris du temple d’Apollon, apporté à Paris par Mr. Maudit fils, Architecte au service de S.M. l’Empereur de Russie, et deposé au Cabinet des Antiques ‘-. Viene descritto nella maniera seguente. -‘ Il est tracé sur un bloc de marbre blanc, de forme circulaire, sensiblement arrondi vers les bords, mais plan dans sa surface superieure, où l’on voit six lignes horaires terminées de part et d’autre par deux arcs hyperboliques qui doivent etre les arcs du Cancer, et du Capricorne, ou peut-etre deux autres parallèles encore plus éloignés de l’Equateur-.

E’ verticale, ed orientale, ma si vuole, che declini dal piano del meridiano di 4. in 5. gradi; vi sono segnate le sei ore della mattina, cioè dal nascere del Sole fino a mezzo giorno. L’Equinoziale fa coll’orizzontale un angolo di 59 gradi donde deducesi, che la sua latitudine è di 31 gradi ma la latitudine di Delo essendo di 37 gradi circa, supponesi, che forse in origine sarà stato collocato in Alessandria, e poi trasportato a Delo. L’esecuzione di questo orologio non è molto felice; le divisioni orarie sulla linea equinoziale non sono molto esatte; gli archi solstiziali sono troppo distanti dall’equinoziale; e le linee orarie benchè siano rette, vi si vede ciò non ostante una specie di spezzatura presso l’equinoziale, di modo che ciascuna linea oraria invece di formare una retta continua, è l’unione di due rette che fanno tra loro un angolo poco differente di 180 gradi...[...].

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Ritornando a parlare dell’orologio orizzontale trovato a Roma, egli dice: “...Crediam però di poter dire con più ragione, che il nostro Orologio, ci presenta un monumento il più raro della Gnomonica degli Antichi, che in vano si cercherebbe nelle raccolte o nelle descrizioni de’ monumenti antichi, perchè è l’unico Orologio orizzontale antico disegnato sul disco, che siasi fino ad ora conservato. Ho creduto di dover esporre queste cose per assicurare da ogni attacco quanto avevo detto nel mio primo scritto, ed anche per aggiungervi la notizia dell’Orologio di Delo, che allora non mi era noto.

Perdonate la seccatura, e sono al solito.

Casa 20 Agosto 1815 Il Vostro servitore, ed Amico

Giuseppe Settele

Il Settele ha con tenacia sostenuto il suo punto di vista

sulla questione della forma delle linee orarie temporarie, ed egli aveva ragione di contraddire l’errore commesso dal pur autorevole Delambre, da Clavio, ecc. Ai suoi tempi Jacquier (97) scriveva: “Non sarà più difficile di spiegare un’altra specie di proiezione chiamata gnomonica nella quale l’occhio si suppone nel centro della sfera. In questo caso la proiezione delli cerchi massimi sono linee rette, delle quali quelle che rappresentano li meridiani o li cerchi orarii convergono nella proiezione del polo del mondo...[...]...Le proiezioni delli cerchi minori saranno sezioni coniche date, purchè sia dato di posizione l’oriuolo”.

Ma sembra che tali linee orarie non siano neppure delle coniche, dando forse ragione a Montucla quando parlava di linee bizzarre. L’ammiraglio Girolamo Fantoni, autore del più grande 97 Elementi d Prospettiva secondo li principii di Brook Taylor, Roma, 1755, pag. 142-143

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trattato contemporaneo di Gnomonica (98), scrive (cap. XVIII, pag. 278): “Sotto l’aspetto puramente descrittivo, le linee orarie temporarie sul piano sono delle curve non coniche che incontrano sull’equinoziale le corrispondenti linee civili diminuite di 6 ore...Entro la fascia zodiacale e latitudini non troppo elevate, le deviazioni di queste curve dalla linea retta sono normalmente trascurabili, pertanto le linee orarie temporarie sul piano si potranno considerare come linee rette”.

27. E PER CUSCINO... UN OROLOGIO

SOLARE!!! Per terminare questa lunga digressione sugli orologi degli

antichi, voglio ricordare una scoperta probabilmente dimenticata dagli appassionati in quanto, secondo me, si tratta almeno del più strano ritrovamento di orologio solare della storia e una cosa così sorprendente non può essere facilmente messa da parte, se non dal baratro dell’oblio. Nel 1895, nei mesi di ottobre e novembre, furono condotte delle approfondite ricerche archeologiche nella zona cimiteriale di Aubigny-en-Artois. Precisamente, nel cimitero di epoca merovingia e carolingia, distante circa un chilometro dal villagio d’Aubigny, in una località chiamata le Bourbon, furono ritrovati molti sarcofagi conservati intatti, cioè inviolati, e diverse tombe del X secolo. In una sepoltura, che si suppone risalente al VII od VIII secolo, si è scoperto un uomo anziano, ad un’analisi dell’ossatura, il quale, oltre ad avere varie suppelletili a ornamento della tomba, aveva la testa poggiata su un orologio solare orizzontale inciso su una pietra bianca. Una meridiana per cuscino! Quale che sia il motivo di una disposizione del genere forse non lo sapremo mai. E’ certo che anticamente, forse solo in quella zona, doveva avere un ben preciso significato simbolico. L’orologio è orizzontale, e reca incise le linee orarie, con suddivisione duodenaria per le ore 98 G. Fantoni, Orologi Solari, trattato completo di Gnomonica, Ed. Technimedia, Roma, 1988.

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astronomiche, che partono tutte da un comune centro, nel quale c’è un buco che ospitava il gnomone.(99)

I ROMANI 28. LA DIVISIONE DEL GIORNO DEI ROMANI La gnomonica comincia ad avere un suo periodo di netta

decadenza, a cominciare dalla fine del primo secolo a.C. Come si sa, i Romani non arrivarono mai a pareggiare lo splendore nè della scienza alessandrina, nè di quella ellenica. In particolare, essi non prestarono mai particolare attenzione alle dottrine filosofiche e scientifiche. Per fare un esempio, se poniamo a confronto la zoologia e la botanica di Plinio il Vecchio, il più noto naturalista ed erudito vissuto a Roma dal 35 d.C., con i trattati di Aristotele sugli animali e quelli di Teofrasto sulle piante, risulta fin troppo evidente il divario che separa il mediocre compilatore romano dai due scienziati fondatori della biologia greca (100).

Così, anche nel campo della Gnomonica non si riscontra nel mondo romano un progresso sensibile, come quello avuto attorno al III secolo a.C. in Grecia, epoca in cui furono inventati moltissimi tipi di orologi solari, scaturiti per la maggior parte dalle nuove teorie matematiche, come ad esempio gli orologi conici di Apollonio. Inoltre la decadenza della Gnomonica nel 99 Questa notizia l'ho appresa dalla relazione di Theophile Eck, apparsa sul "Bulletin Archeologique", del 1896, n. 3, pag. 318 e segg. A pagina 320, nella nota (2), si legge: Au musée d'Epinal on voit un cadran solaire en bronze de l'epoque gallo-romaine. Suivant M. Baltazzi-Bey, le musée de Constantinople aurait recu en 1895, avec de nombreux objets, un cadran solaire en marbre blanc de Séleucie. 100 M. Daumas, "La scienza nell'Antichità e nel Medioevo", ed. Laterza, Bari, 1969.

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periodo tardo romano e nei primi secoli dell’era Cristiana, è testimoniata principalmente dall’inesistenza pressochè totale sia di opere scritte in materia che di monumenti di qualche rilievo per i quali non c’è menzione alcuna, ad eccezione di quella relativa alla straordinaria impresa condotta dal divo Cesare Augusto, nella realizzazione del più grande orologio solare del mondo di tutti i tempi: l’orologio del Campo Marzio. Nonostante tutto, dobbiamo considerare il periodo romano non del tutto improduttivo per la Gnomonica, soprattutto se si tiene conto che la vera decadenza comincia con il I secolo d. C., come vedremo più avanti, e abbraccerà tutto il periodo dell’Alto Medioevo, fino alla nascita della scienza araba.

Non possiamo farci meraviglia se Censorino (101) scrive: “Horarum nomen non minus CCC. annos Romae ignoratum esse credibile est”, mentre il Salmasio emenda CCCCLX anni. Quindi i Romani per 460 anni non ebbero nè orologi, nè distinzione di ore per la misurazione del tempo, come sarebbe testimoniato dalle Leggi delle Dodici Tavole che furono antichissime nella Repubblica Romana, ove non si fa menzione alcuna se non del’alba, del mezzoggiorno e del tramontare del sole. “Duodecim tabulis ortus tantum, et occasu nominatur: post aliquot annos adiectus est, et meridies, accenso consulis id pronuntiante, cum à curia inter rostra, et Graecostasi, prospexisset talem solem”, dice Plinio, il quale suppone che il mezzogiorno fosse posteriore alle Dodici Tavole e che veniva annunciato dall’accenso, cioè un inserviente dei consoli, quando vedeva il sole presso i “rostri”(102). E continua Plinio dicendo: “A columna aenea, vel Moenia, ad carcerem inclinato sidere, supremam pronunciabat”, il che era possibile solo nei giorni sereni, naturalmente. Tutto ciò ispirò il poeta Luciano a scrivere la frase: “Nam gnomon medium horologium inumbrat”.

Dopo che i Romani ebbero acquisito la suddivisione del giorno in dodici parti uguali, si adoperarono per dedicare ad ogni 101 De die Natali, cap. 23 102 Plinio, Historia Naturalis, VII. 60. Si veda pure A. Gellio XVII. 2 e Censorino, De die Natali, c. 23.

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ora un momento particolare della giornata. A questo proposito è famoso l’Epigramma n. 7 del Lib. IV di Marziale:

Prima salutantes atque continet hora; Exercet raucos tertia causidicos:

In quintam varios extendit Roma labores; Sexta quies lassis, septima finis erit:

Sufficit in nonam nitidis octava palaestris, Imperat excelsos frangere nona toros.

Hora libellorum decima est, Eupheme, meorum, Temperat ambrosias cum tua cura dapes; Et bonus aetherio laxatur nectare Caesar,

Ingentique tenet pocula parca manu. Tunc admitte jocos: gressu timet ire licenti

Ad matutinum nostra Thalia Jovem. Le ore adottate dai Romani nel comune uso civile erano

quelle naturali, cioè temporali, con la suddivisione duodenaria, dodici ore per il giorno e dodici per la notte, indipendentemente dal giorno dell’anno. Erano inoltre assegnate delle ore fisse per i “balnea”, in genere la ottava in estate e la nona in inverno, detta anche “hora lavandi”, ed altre ancora.

Conseguenza inevitabile, è il continuo variare della durata di ogni singola ora da una stagione all’altra. Lo stesso Marziale rileva il fenomeno in un altro luogo con le parole: “Hora nec aestiva est nec tibi tota perit” (103). Così, in altre parti si legge “hiberna addito”, per indicare un tempo molto breve. S. Agostino è più chiaro di tutti scrivendo: “Hora brumalis aestiva comparata minor est” (104).

Qualche autore del secolo scorso sostiene che i romani adottarono il sistema delle ore “ineguali” al tempo in cui Gerusalemme fu espugnata da Pompeo, cioè 63 anni a. C. Il sistema prevedeva una suddivisione del giorno in quattro parti 103 Mart. Lib. XII. Epigr. 1 104 De vera Relig. LXXX.

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uguali, da cui il “quadripartito”, della durata di tre ore ciascuna. Lo stesso vale per la durata della notte, breve o lunga che fosse. Queste suddivisioni vennero chiamate abitualmente “vigilie”, dalla veglia che facevano i soldati durante i turni di guardia, di tre ore ciascuno. Esse furono chiamate perciò anche “custodie” e sono spesso menzionate già nelle Sacre Scritture, come per esempio, in S. Luca, al cap. 2, ove si legge che i pastori vigilavano a turno sul gregge di pecore: “pastores erant in regione eadem, vigilantes, et custodientes vigilias noctis super gregem suum”. Negli antichi eserciti, negli assedii e nell’esercizio di difendere le città dalle insidie dei nemici, si usava disporre in luoghi opportuni le sentinelle e le guardie a ognuna delle quali si assegnavano tre ore di veglia a turno, fino all’alba. Di queste quattro vigilie notturne parla Properzio quando dice: “Et etiam quartam canit venturam buccina lucem, ipsaque in oceanum sydera lapsa cadunt”, cioè “questo sistema di dividere la notte in quattro vigilie fu adottato nell’antichità, anche nel mondo civile, riducendole a tre sole in estate per compensare la breve durata delle notti” (105).

Le vigilie notturne cominciavano al tramonto del sole e finivano allo spuntar dell’alba. La prima era chiamata “Vespera”, la seconda “Media-nox”, la fine della terza era detta “Galicinium”, dal canto del gallo, e l’ultima “Conticinium”, contata dal tempo del silenzio, ossia dal tacere del gallo. La descrizione di Macrobio sulla divisione duodenaria del giorno presso i Romani, è alquanto chiara e completa:

“Il primo tempo del giorno è chiamato inclinazione della mezzanotte; poi viene Gallicinio e quindi Conticinio, quando i galli tacciono e anche gli uomini allora riposano. Poi viene diluculo, cioè quando si comincia a distinguere il giorno; poi mattino quando il giorno è chiaro. Dal mattino si arriva al mezzogiorno dal quale nasce il “tempus occiduum” cioè il tempo che va fino al tramonto; quindi arriva il supremo momento, “suprema tempestas”, cioè l’ultimo tempo del giorno che viene così espresso nelle dodici Tavole: “Il tramonto del sole sarà il momento supremo”; quindi vi sono i Vespri, il cui nome è tratto 105 Stefano Menochio, "Delle stuore, overo trattenimenti eruduti", Venetia, 1662, parte terza, pag. 290

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dai Greci che furono ispirati dalla stella Hespero, da cui l’Italia è chiamata Hesperia poichè era vicina al tramonto. Da questo momento si dice “prima fax” , cioè prima parte della notte in quanto si accendono le prime fiaccole. Poi viene notte “Concubia”, cioè notte fonda e quindi “Intempesta”, poichè non è favorevole allo svolgersi delle azioni”. Tutto ciò può benissimo rappresentarsi in un riquadro, nel modo già proposto da Giovanni Poleno, nella sua “Historiae Fori Romani”, nel 1737:

29. IL PRIMO OROLOGIO SOLARE ROMANO. Si ha notizia di una tradizione comune nella Repubblica

Romana, cioè che dalla Curia Ostilia un banditore del Console annunciava con una tromba, tempo permettendo, l’ora del mezzodì e della mezzanotte (106). Questo durò fino al 293 a.C., quando un orologio solare, forse il primo che ebbero i Romani, fu portato a Roma da L. Papirio Cursore e sistemato nel tempio di Giove Quirino, dodici anni prima della guerra contro Pirro. E’ lo stesso Plinio il Vecchio che lo racconta (l’unica fonte, insieme con qualcun altro, si potrebbe dire, dal quale ricavare notizie in merito): “Princeps solarium horologium statuisse ante duodecim annos, quàm cum Pyrrho bellatum est, ad aedem Quirini, Lucius Papirius Cursor, cum eam dedicaret a patre suo votam, à Fabio Vestali proditur”.

Ma già il Salmasio indica altri codici che portano “ante III decim annos”. Forse è più saggio Censorino, che non indica una data precisa per il primo orologio solare di Roma: “Sed hoc credo Romae post reperta solaria observatum: quorum antiquissimum quod fuerit, inventum difficile est. Alii enim apud aedem Quirini primum statutum dicunt, alii in Capitolio, nonnulli ad aedem Dianae in Aventino”. Infatti, parlando dell’orologio solare espugnato da M. Valerio a Catania e portato a Roma, Censorino dice: “Illud satis constat nullum in foro prius fuisse quam id quod M. Valerius ex Sicilia advectum ad Rostra 106 P. Romano, "Orologi di Roma", Anonima romana stampa, Roma, 1944, p. 5

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in columna posuit”. Intelligentemente egli suppone che non del primo orologio solare di Roma si tratta, ma del primo posto nel foro. Mentre Plinio dice che M. Varro per primo espose in pubblico l’orologio trasportato da Catania: “M. Varro primum statutum in publico secundum Rostra in columna tradit bello Punico primo, à M. Valerio Messala consule Catina capta in Sicilia, deportatum inde post XXX annos quam de Papyriano horologio traditur”. Ma come è ovvio, l’orologio, costruito per la latitudine di Catania, non poteva funzionare bene per la latitudine di Roma, come scrive pure Censorino: “Quod quum ad clima Siciliae descriptum ad horas Romae non conveniret, L. Philippus censor aliud juxta constituit”.

L’orologio, secondo quanto è sempre stato scritto nei libri, indicò ai Romani le ore inesatte per 99 anni (nec congruebat ad horas ejus linea: patuerunt tamen ei annos undecentum) fino a quando L. Filippo Censore ne fece installare uno adatto per Roma. Tuttavia, si fa rilevare che questo fatto non deve essere interpretato come la causa dell’insuccesso del mondo Romano verso le scienze esatte e nella Gnomonica. L’orologio di Catania, avrebbe indicato a Roma ore inesatte, ma con un’approssimazione (non maggiore di 5-10 minuti) che all’epoca non poteva essere tanto evidente da fare scalpore. E’ col senno di poi che gli autori hanno sostenuto, ma senza ragione, solo sulla base di questo fatto citato da Plinio, che i Romani furono poco accorti nelle scienze.

In seguito furono costruiti molti altri orologi solari sparsi per tutta la città, tanto da far disperare il parassita della Boeotica di Plauto che si lamenta dicendo:

Ut illum Di perdant, primus qui horas repperit,

Quique adeo primus statuit hic solarium, Qui mihi comminuit misero articulatim diem.

Nam me puero venter hic erat solarium Multum omnium istorum optumum ac verissumum.

Ibi iste monebat esse, nisi cum nihil erat, Nunc etiam quod est, non estur nisi soli lubet.

Itaque jam oppletum est oppidum solariis Major pars populi aridi reptant fame.

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Il cui cignificato è: “Possano gli Dei perdere colui che è stato il primo a portar quest’orologio; un tempo la fame era per me la migliore e la più certa ora che mi avvertiva; ma oggi non posso che mangiare quando piace al sole: bisogna consultarne il corso e tutta la città è piena di orologi” (107).

Secondo Pietro Viola (108), questi versi hanno tratto in inganno qualche autore nel passato, che credeva vi fosse annunciato un antico orologio solare romano, ovvero la più antica citazione di un orologio romano, nei versi “Vetus erat solarium”. Gli eruditi dell’epoca del Viola, lui compreso, capirono che queste parole dovevano essere corrette con “uterus” al posto di “vetus”, e “nolebat”, al posto di “monebat”, venendo così ad assumere un significato, secondo loro, più idoneo all’immagine del parassita che parla.

Come si può vedere, il termine “solarium” per indicare un orologio solare, era molto diffuso presso i Romani. Leo Allazio, nel De mensura Temporum, del 1645 (cap. VI), scrive che “i Romani chiamavano Solario non solo il luogo costruito sulla sommità delle case (solaio), nel quale ci si riscalda, ma anche un luogo frequentato e celebre perchè qui, come ipotizza Pietro Vittorio, c’era disegnato in qualche parete una “ratio horarum”, ovvero un orologio solare. Ne fa menzione anche Cicerone nell’Orazione pro Quintio e da Cornificio IV ad Herennio”.

E’ certo che al tempo di Vitruvio i Romani dovevano servirsi abitualmente sia degli orologi solari che delle clessidre a sabbia o ad acqua, ne è una prova il capitolo IX dell’Architettura, dedicato alla gnomonica e alle diverse specie di orologi solari. Sicuramente il famoso architetto dovette avere sott’occhi tutti gli orologi elencati di cui Roma e le Province ne dovevano essere piene. A noi sono pervenuti un bun numero di esemplari e, oltre 107 Il testo latino l'ho trascritto dall'opera di Salmasio e sono evidenti alcune parole non uguali alle altre versioni, d'altra parte lui assegna a queste dei diversi significati. 108 De veteri novaque romanorum tempore ratione, Venetiis, 1735, p. 183

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ai già citati ritrovamenti di orologi solari, possiamo aggiungere un interessante elenco che fece P. Romano (109):

“Nella tenuta di Grotta perfetta, in occasione di scavi, si rinvenne un orologio solare marmoreo con lo stilo di ferro. A Tor Paterno, negli ultimi anni del 1700 se ne trovò uno di grande interesse. Purtroppo, però, fu portato in Inghilterra e solo una copia in gesso se ne riservò il Museo Vaticano. Il Settele rilevò che le linee orarie che negli altri orologi sono delimitate dai circoli dei tropici, in questo erano prolungate fin quasi alla base dello stilo. Lorenzo Re, professore all’Università La Sapienza di Roma, possedeva nel 1815 un orologio solare trovato presso il Circo di Caracalla. L’Antonini (1790), riprodusse in incisione ben diciotto altri orologi solari rinvenuti in Roma e nella Provincia. Il cosiddetto orologio solare “capitolino” fu trovato presso Castelnuovo di Porto. Benedetto XIV (1751) lo fece restaurare, mettervi lo stilo e collocare su una finestra del Museo Capitolino affinchè anche oggi - secondo quanto dice l’iscrizione incisa sopra - ci potesse mostrare le ore ineguali degli antichi”.

A queste citazioni vorrei aggiungere, per non dimenticarmene, un interessante orologio ritrovato nel vecchio Porto di Anzio. Senz’altro non se ne sono visti altri uguali. Sembrerebbe appartenere alla famiglia degli Scaphen perchè si tratta di un orologio descritto in uno scafio e poggiato su un piedistallo.

30. L’OROLOGIO SOLARE DI AUGUSTO Di orologi pubblici nessun autore parla più sino all’epoca

di Augusto. L’Imperatore, a decorazione del Campo Marzio, pensò di far erigere un orologio solare grandioso che fosse a un tempo calendario e indicatore delle ore, e fra l’Ara Pacis e i portici di Agrippa, nel mezzo di un gran parco innalzò un obelisco, destinato a proiettare l’ombra sopra un gran pavimento 109 Op. cit. pag. 6 e segg.

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di travertino. Dirò, brevemente, che l’obelisco-gnomone, fu rimosso dalla sua sede originaria ad Eliopolis, in Egitto, nell’anno 12 a.C.; esso fu eretto dal faraone Psammetico II, seicento anni prima della rimozione. Fu trasportato con una grossa chiatta fino al porto di Pozzuoli e trasferito su un’altra imbarcazione con la quale raggiunse la foce del Tevere. La descrizione più famosa dell’orologio ci è stata lasciata, come al solito, dal naturalista Plinio il Vecchio nel seguente passo della sua Historia Naturalis:

“Il divo Augusto adattò l’obelisco del Campo Marzio ad un uso mirabile, vale a dire a delineare le ombre del sole e a designare l’avvicendarsi dei giorni e delle notti mediante un pavimento di lastre di pietre, grande quanto l’ombra proiettata da tutto l’obelisco nel giorno del solstizio invernale nell’ora sesta; quindi l’ombra cominciava poco a poco a calare ogni giorno, secondo le regole che sono incise nel pavimento con i regoli di bronzo, per poi aumentare di nuovo. Opera degna (questa) di essere conosciuta, dovuta all’ingegno del matematico Fecondo Novo. Costui pose sulla sommità un globo dorato, nel cui vertice l’ombra si raccoglieva in se stessa, oppure veniva proiettata dall’apice enormemente lontano, procedimento, come dicono, ispirato dalla similitudine del capo dell’uomo”.

31. CHI ERA FECONDO NOVO? Qui devo fare una considerazione molto importante. Nel

leggere il testo di Plinio in alcune traduzioni antiche ho rilevato che il nome del matematico Fecondo Novo è totalmente ignorato dagli autori. Esso non compare in nessuna versione della Historia Naturalis di Plinio, almeno fino al nostro secolo. Per fare un esempio, ecco come C. Heilbronner, nell’opera citata, riporta lo stesso passo, secondo le traduzioni che aveva a disposizione ai suoi tempi (1742):

“De illo (obelisco) qui est in Campo Martio pro gnomone. Ei qui est in Campo, Divus Augustus addidit mirabilem usum, ad deprehendendas Solis umbras, dierumque et

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noctium magnitudines, strato lapide, ad Obelisci magnitudinem, cui par fieret umbra Romae, confecto diei, hora sexta, paulatimque per regulas, quae sunt ex aere inclusae, singulis diebus decresceret et rursus augesceret, digna cognitu res et ingenio foecundo. Manlius Mathematicus, apici auratam pilam additit, cujus vertice umbra colligeretur in semetipsam, alia atque alia incrementa jaculantem, ratione, ut ferunt, a capite hominis intellecta”.

Lo stesso identico passo viene riportato da Pietro Viola (110) e da tutti gli altri autori ed enciclopedie metodiche dell’epoca. Lo stesso si trova in una traduzione cinquecentesca dell’opera di Plinio, ed altre ancora. Nelle traduzioni moderne, invece, compare il nome di questo matematico Fecondo Novo di cui gli stessi autori moderni si fanno meraviglia chiedendosi chi possa essere questo eterno sconosciuto, così come giustamente fa l’Ammiraglio Fantoni nel suo eccellente articolo La meridiana di Augusto (111). Egli ipotizza, inoltre, che possa trattarsi di un autore greco sconosciuto e latinizzato con questo nome per esaltare la divinizzazione imperiale. Probabilmente, gli autori moderni si sono affidati alle traduzioni dell’opera di Plinio effettuate qualche decina d’anni fa da un’équipe di eruditi francesi, sulla base di diversi codici antichi. Ma è naturale ed evidente che non possiamo essere certi di possedere una traduzione perfetta. Ma molto prima degli eruditi francesi, c’è il lavoro preziosissimo di altri studiosi delle antiche opere, tra cui il già citato Claudio Salmasio, che nelle Esercitazioni Pliniane prende atto della stessa incongruenza, e di alcune altre ancora. Per esempio, dove in una vecchia traduzione dell’opera di Plinio (vecchia per Salmasio !) è scritto

“solis umbrarum romae confectae diei” Salmasio emenda: “ad deprehendendas solis umbras, Brumae confecta diei, hora sexta”.

110 "De veteri novaque romanorum temporum ratione", Venetiis, 1735, pag. 183 111 In Orologi le Misure del tempo, n. 12, ottobre 1988, Ed. Technimedia, Roma.

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Dove anche Scaligero corregge in “Brumae confecto diei”.

Salmasio fa notare che anche Manilio, nel terzo libro (sicuramente parla del poema Astronomicon) usa il termine “Brumae sidus”. Ma egli avverte che il testo originale di Plinio è ormai profondamente corrotto:

“Sequentia sic scribit vetus liber: digna cognitu res, et ingenio facundo mathematici. In aliis: et ingenio facundi mathematici. Manilii nomen, quod praeferunt editi, nemo paulo vetustior habet libri. Quae sequuntur, prodigiosè in editionibus sunt corrupta: apici auratam pilam adidit, cujus vertice umbra colligeretur in semetipsam, alia atque alia incrementa jaculantem apice. Nec mirum est, si nemo haec intelligit, quae sic à correctoribus depravata fuere. Vetus liber R.B. scribit: apici auratam pilam addidit, cujus vertice umbra colligeretur in ipsa, alias enormiteri aculante apice...”.

Mentre la versione corretta, secondo Salmasio, è: “cujus vertice umbra colligeretur in ipsa, alias enormiter jaculante apice”.

Anche il Bandini (112) riporta il nome di Manlio matematico, come è indicato nell’Enciclopedia Popolare, alla voce gnomone, del 1846. Ma, purtroppo, è dificile oggi stabilire con precisione quale doveva essere il passo originale, dopo tutte le modifiche apportate dagli amanuensi nei codici antichi. Io escluderei il nome di Fecondo Novo che è impossibile andare a ripescare nella storia, e sarei più propenso ad accettare o Manlio, come indicato da quasi tutti i testi antichi, o di un “ingegno fecondo”. Ma potrei anche pensare, però, ad un certo Epigene di Bisante che, secondo Seneca (113), si distinse proprio al tempo di Augusto come un affermato studioso di Gnomonica dopo essersi formato presso la scuola caldea, per cui fu soprannominato Epigene Gnomonico.

Comunque, ufficialmente Salmasio scrive: “Scribit Plinius Manilium mathematicum pilam apici obelisci addidisse in campo Martio, cujus vertice umbra colligeretur in ipsa pila”. E 112 Dell'obelisco di Cesare Augusto, Roma 1750 113 Questioni naturali, Lib. VII, cap. 3

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dove crede che il termine “pilam” avesse lo stesso significato di “polon”, cioè indicasse lo gnomone di un orologio solare adatto a segnare con la sua ombra gli equinozi e i solstizi. Ma l’orologio di Augusto non era un “eliotropion” del tipo indicato da Salmasio. Era un vero e proprio orologio-calendario, tanto grande, quanto completo, come è stato possibile dedurre dalle ricerche effettuate da molti studiosi ed archeologi, sull’antico monumento. Ma ora, insieme ad una sommaria descrizione di ciò che fu questo orologio, vediamo alcuni passi, i più significativi, della sua lunga vicenda storica, attraverso i pochi documenti che ci sono pervenuti negli ultimi secoli.

L’orologio fu inaugurato il 9 a.C., con l’Ara Pacis, nel complesso architettonico del mausoleo e di altri monumenti, rispettando una ben chiara topografia e geometria urbanistica. Il testo di Plinio, già fortemente discusso dagli eruditi di tre-quattro secoli fa, dà delle indicazioni piuttosto precise sulla natura calendariale del monumento, ma non sulla funzione orologio. Sembra che la prima scoperta dell’antico tracciato si ebbe nel 1463, in seguito a certi scavi (114). Ma nulla ancora era possibile ricavare sulla forma dell’orologio. Qualche secolo fa un certo Bandini, per meglio chiarire la descrizione di Plinio, suppose che “verso tramontana si formasse un lastricato di pietre quadrate, di lunghezza proporzionata all’altezza dell’obelisco, cioè di tale lunghezza, che potesse da tutta l’altezza del monolito ricevere l’ombra meridiana nel giorno del solstizio d’inverno, la quale ombra è la più lunga fra quelle meridiane, che sieno gettate dal sole in tutto l’anno e quindi che si facesse segnare in questo strato per lungo con delle lamine o regole di bronzo indorato le lunghezze delle ombre meridiane in diversi tempi dell’anno, e che, finalmente, si volesse che si denotassero ancora le grandezze o quantità dei giorni e delle notti parimente con delle righe di bronzo indorate e incastrate nel detto pavimento. Queste linee dovevano giacere perpendicolarmente a traverso della meridiana e dovevano essere di diverse grandezze, corrispondendo da una parte alla lunghezza dei giorni e dall’altra a quelle delle notti. Onde, battendo l’ombra della palla, posta in 114 G. Fantoni, op. cit. pag. 111

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cima all’obelisco, in una di esse o vicino ad alcuna delle medesime, doveva mostrare il rapporto che la lunghezza di tutto quel giorno aveva con tutta quella notte, o con qualunque altro giorno e l’altra notte dell’anno, col mostrare il rapporto di quelle righe alle altre righe di bronzo” (115). Probabilmente la linea meridiana calendariale venne realizzata dopo che fu innalzato l’obelisco, e non si conosce come fosse stata posata la sfera sulla sua cima. Si crede che il globo fosse inserito in maniera che non superasse l’altezza della guglia, o dopo aver recisa tanta parte della guglia stessa, quanta era la grandezza della sfera; oppure poteva, questa, essere incastrata nella cuspide in modo che l’uno e l’altro avessero uguale altezza (116).

La grandezza del lastricato dell’intero orologio, doveva avere delle dimensioni enormi. Calcolando per un gnomone di circa 30 metri di altezza dal piano di terra, i punti più esterni dove cade l’ombra al solstizio invernale, si trovano a 260 metri circa distanti dalla base del gnomone-obelisco (117). Nella descrizione Plinio ci fa sapere che l’opera dell’ingegno fecondo, o del matematico Manlio, o Fecondo Novo, “dopo trent’anni non corrispondeva più, sia che il sole stesso avesse mutato il suo corso per qualche rivolgimento celeste, sia che tutta la Terra si fosse spostata dal suo centro, -come riferiscono essere stato osservato anche in altri luoghi- sia che lo gnomone si sia inchinato sul posto a causa dei terremoti, sia infine che il terreno abbia ceduto in seguito alle inondazioni del Tevere”. Ma il commento di Plinio fa sorridere alcuni archeologi di vecchia data i quali non ammettono che un matematico romano potesse sbagliarsi nei suoi calcoli, e ancor meno che un architetto facesse delle cattive fondazioni, anche con tutti i terremoti ed alluvioni possibili. Si è creduto quindi che Plinio giustificasse il cattivo funzionamento dell’orologio, dando la colpa al mutamento del corso del sole , o allo spostamento dell’asse terrestre. Ma è 115 P. Romano, op. cit. pag. 10 116 Idem, p. 10 117 G. Fantoni, op. cit., pag. 110

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evidente che le cause sono da ricercare, molto probabilmente, in un semplice dissesto del suolo a causa di qualche terremoto, con un conseguente spostamento dell’obelisco che, sebbene all’apparenza non risulti, si rende evidente nella lettura dei punti d’ombra.

32. LA STORIA DELL’OBELISCO. L’obelisco, nel terzo secolo, era racchiuso fra le sontuose

fabbriche che in quel tempo decoravano il Campo Marzio, dopo cioè che Aureliano tirò le mura dalla porta Collina sino al sottoposto piano. Sembra perà che venisse trascurato, perchè di esso nè Pubblio Vittore, nè Ammiano Marcellino fanno menzione. Dall’”Anonimo” dell’artista Einsiedeln, sappiamo che era ancora in piedi nell’ottavo secolo e si ritiene che sia caduto allorchè nel 1084 le truppe di Roberto il Guiscardo appiccarono il fuoco nella zona del Campo Marzio.

L’obelisco dovette rimanere sepolto sotto le rovine delle fabbriche del Campo Marzio, dove fu riscoperto nel 1463, nel corso di scavi. Nel 1475, Pomponio Leto ne indicò l’ubicazione “dove è la chiesa di S. Lorenzo in Lucina con gli orti, ivi fu il Campo Marzio nel quale si tenevano i comizi, e dove è stata fabbricata la nuova casa che è dei Cappellani di S. Lorenzo, ivi fu la base dell’orologio...(..)..Nel Campo Marzio, dove è l’Eppitaffio de’ Cappellani, ivi fu scavato un orologio che aveva sette gradi nell’intorno e le linee listate di metallo indorato; il suolo del terreno era di grosse pietre quadre e aveva le medesime linee e negli angoli i quattro venti colla iscrizione: Ut boreas spirat”.

Nel XVI secolo si occuparono dell’orologio anche il Volterrano, il Fulvio, il Marliano e il Gamucci, ma senza aggiungere particolari di qualche interesse. Solo un certo Lucio Fauno scrisse: “Un trar di mano da questo tempio (di S. Lorenzo in Lucina), si vede oggi rotto in molti pezzi quel obelisco di CX piedi che Augusto collocò nel Campo Marzio, nel quale dice Plinio che era scritta l’interpretazione della Filosofia degli

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Egizi... In uno dei lati di quest’obelisco era questo titolo che anco si legge: Caesar etc. Qui presso è stato in questa età, cavandosi, trovato un orologio da sole, antico, colle sue linee e gradi distinti, di metallo indorato, e negli angoli erano quattro immagini di venti, lavorati di mosaico, con queste parole: Ut Boreas spirat” (118).

Antonio Lelio, quasi dello stesso tempo, in una sua nota, riferisce che “Imperando Giulio II P.M. nelle vicinanze della chiesa di S. Lorenzo in Lucina, presso la casa del Card. Grassi, nell’orto di una casuccia di un certo barbiere, mentre si scavava per fare una fogna, si scoperse la base del più grande obelisco...Era in questo obelisco quel celebre gnomone insigne per l’autorità di Plinio. Che anzi i vicini che avevano delle corti all’intorno, affermavano che nello scavar le cantine avevano trovato vari segni celesti di bronzo di un artificio mirabile, disposti nel pavimento all’intorno dello gnomone. Giulio, benchè ne fosse avvertito, impedito dalla guerra, nè eresse, nè accordò quest’obelisco, laonde quel barbiere lo ricoprì di terra sì come stava poco avanti”.

L’obelisco fu scoperto anni dopo, al tempo di Sisto V e precisamente nel 1587, come riferisce pure Pietro Angelico da Barga, nell’Epistola de privatorum Urbis eversoribus. La scoperta fu relazionata anche da un certo Vacca nelle sue Memorie (si veda Fea, in Miscellanee): “Al tempo di Sisto V, presso S. Lorenzo in Lucina, dalla parte verso Campo Marzio, il cav. Fontana vi trovò una gran guglia di granito egiziaco e pervenuto alle orecchie di S.S. commise che si scoprisse, con intenzione di drizzarla in qualche luogo, ma il suddetto cavaliere, trovandola maltrattata dal fuoco e datane ragguaglio a S.S. fu risoluto di lasciarla stare” (119). Alessandro VII ordinò al Gesuita Athanasius Kircher, di dissotterrare l’obelisco, ma questi, dopo 118 P. Romano, op. cit. pag. 10 e segg. 119 Idem, pag. 14. Il Mercati, dal canto suo, assicura che "fu ritrovata alquanto scantonata e qualche poco corrosa dal fuoco", e Jacopo Lauro aggiunge "che non si potè scavare per certi impedimenti, come fu fatto degli altri, dei quali il Pontefice aveva comandato che se ne facesse ricerca".

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vari studi, sconsigliò di attuare questa decisione. Il merito di aver fatto tornare alla luce gli avanzi dell’obelisco spetta a Benedetto XIV, che nel 1748 incaricò di questo lavoro il romano Nicola Zabaglia, capo dei Sampietrini. La felice operazione compiuta dallo Zabaglia gli aumentò la popolarità al punto che si cantò per le strade di Roma, in quella circostanza:

“Passai per Campo Marzio e viddi buglia. E dissi che robb’è tanta canaglia? Me fu risposto ch’era per la guglia Che facea mette su mastro Zabaglia.” Dalle relazioni del tempo si legge: “Principiato lo scavo del terreno nel cortile della casa, si

scoperse la cima del piedistallo che esisteva in piedi senza esser niente mosso dalla sua prima fissazione, sopra la di cui estremità restava ancora appoggiata la parte inferiore della guglia, caduta verso l’aspetto di mezzogiorno. Questa giaceva infranta in cinque pezzi, colla parte inferiore più elevata e posava al principio sopra del piedistallo; il rimanente poi declinava, ma più immerso nel suolo, essendo la cuspide più sprofondata del rimanente di esso. La superficie di questo obelisco, che in parte restava occupata nel muro divisorio delle cantine dello stabile e in parte restava sotto la strada pubblica, scoperta che fu, si trovò tutta scortecciata e spogliata di geroglifici, la quale scortecciatura si estendeva anche dai due lati, per la metà incirca della loro lunghezza, e il lato che riposava sopra il terreno con la metà incirca degli altri due lati, poco o niente era danneggiato nella superficie, conservando impressi i geroglifici. Continuatosi a sprofondare lo scavo nel luogo del piedistallo, cominciò a scoprirsi in quella parte che riguardava ponente, l’iscrizione scolpita in bellissimi caratteri e consecutivamente l’altra in caratteri egualmente grandi nel lato opposto e rispettivamente all’0aspetto di levante, le quali iscrizioni sono del tutto uniformi. Gli altri due lati, poi non avevano iscrizioni. Trovato lo zoccolo in travertino dell’obelisco, si rinvenne il pavimento della stessa pietra, il quale restava sott’acqua talmente, che per poter estrarre i suddetti marmi e il suo piedistallo, si abbisognò giorno e notte l’opera di molti uomini ad asciuttare l’acqua per mezzo delle

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trombe. Sotto il pavimento fu ritrovata altra platea di sassi di peperino di più pezzi, che nella superficie mostravano la stessa grandezza di quelli di travertino. Questi poi erano ben connessi tra di loro e murati sopra il masso del fondamento, quali vi sono rimasti, non mettendo conto scavarli” (120).

Perchè non si perdesse la memoria del sito presso cui giaceva l’obelisco, fu murata una lapide sulla casa segnata con il numero civico 3 al Largo dell’Impresa (oggi Piazza Gabriele D’Annunzio (121)). La lapide, dice: “Benedictus XIV Pont. Max - Obeliscum hieroglyphicis notis eleganter insculptum Aegypto in potestatem Populi Romani redacta - Ab imp. Caesare Augusto Roman advectum - Et strato lapide regulisque ex aere inclusis - Ad deprehendendos solis umbras - Dierumque ac noctium magnitudinem - In Campo Martio erectum et soli dicatum - Temporis et barb. injuria confractum jacentemque - Terra ac aedificiis obrutum - Magna impensa ac artificio eruit - Publicoq. rei literariae bono propinquu. in locu transtulit - Et ne antiquae sedis obelisci memoria - Vetustate exolesceret - Monumentum poni iussit - Anno rep. sal. MDCCXLVIII pont. IX” (122).

Tuttavia, soltanto quarantasei anni dopo che era stato rimesso alla luce, l’obelisco solare veniva restaurato dall’Architetto Antinori (per ordine di Pio VI), mediante alcune lastre ricavate dai blocchi del fusto della colonna Antonina, e collocato sulla piazza di Montecitorio. 120 Idem, pag. 16, 17 121 Ai tempi di P. Romano, cioè al 1946. 122 L'obelisco elegantemente inciso con geroglifici, portato dall'Imperatore Cesare Augusto in Roma, dopo che l'Egitto era stato ridotto in potestà del Popolo Romano, eretto nel Campo Marzio e dedicato al sole su un pavimento marmoreo con indicazioni in bronzo per segnare le ombre che fa il sole e la durata dei giorni e delle notti, spezzato e giacente per le ingiurie de tempo e de' barbari, ricoperto di terra e da edifici, Benedetto XIV, Pont. Mass., con grave spesa e maestria lo disseppellì e a pubblico vantaggio della cultura, lo trasportò in un luogo vicino e ordinò che venisse posta questa lapide, affinchè la memoria dell'antica sede dell'obelisco non venisse a cadere per il trascorrere del tempo.

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Gli studi effettuati su questo orologio negli ultimi anni, soprattutto da parte dell’archeologo Edmund Buchner, si è stabilito che l’orologio di Augusto non era solo una semplice linea meridiana calendariale, ma un vero e proprio orologio solare orizzontale, con l’intero tracciato orario inciso sul pavimento marmoreo e, ma è ancora un’ipotesi da verificare, con le linee diurne, o di declinazione del sole. L’orologio segnava le ore temporarie in uso a quei tempi nella vita civile dei romani e il tracciato completo, calcolato per la latitudine di Roma è stato studiato da G. Fantoni, mentre la sua corrispondenza con l’aspetto urbanistico di oggi è stato effettuato da Buchner. Egli descrive alcuni elementi decorativi, come mosaici con simboli e nomi dei venti, scritte, ecc., che dovevano essere disposti intorno all’obelisco. Questo si trova in accordo con quanto si è visto sopra nelle relazioni degli scavi. Noi tutti ci auguriamo che le ricerche possano proseguire nel migliore dei modi, e che l’intero tracciato un giorno possa essere reso visibile a tutti.

33. LA DECADENZA.

La Gnomonica: una disciplina dimenticata. A cominciare dal III secolo d.C., cioè dopo la comparsa

dell’ultimo astro della scienza alessandrina, Claudio Tolomeo, la gnomonica sembra sprofondare in un baratro dal quale ne verrà fuori soltanto con la rinascita della scienza araba, cioè più di cinque secoli dopo. A dire il vero, indico il periodo a cominciare dal III secolo d.C., per questa misteriosa decadenza della gnomonica, solo in base ad una considerazione. Infatti, non abbiamo a disposizione nè testimonianze dirette (a parte qualche orologio pervenutoci), nè fonti sufficientemente chiare ed esaurienti perchè si possa stabilire con facilità un criterio di valutazione del livello a cui era giunta la gnomonica di quei tempi, e come essa si sia evoluta, o come sia decaduta, e le relative cause. Il capitolo nono dell’Architettura di Vitruvio, il passo sulle proporzioni delle ombre misurate coi piedi nel De Re

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Rustica di Palladio, qualche vago riferimento nelle opere degli ultimi compilatori e uomini di scienza, come Manilio, nel poema Astronomicon, e del più grande Tolomeo, è ciò che abbiamo a disposizione sulla gnomonica di allora. Non un libro specifico, non un trattato sugli orologi, niente di niente, almeno fino al VI secolo. Come sostenere, allora, che il periodo di decadenza cominciò dal III secolo? Credo che la gnomonica fu studiata come materia specifica almeno fino al II secolo, come è possibile dimostrare con i pochi ritrovamenti di orologi solari risalenti a quell’epoca. Ma più chiaramente da un altro passo che ci viene offerto da Salmasio il quale, riprendendo una frase del famoso Igino, tratta dal De limitibus constituendi (II secolo), elogia la gnomonica con queste parole:

“Advocandum est gnomonices summae, ac divinae artis fulmentum”. (123) Oltre a ciò, le nostre conoscenze sulla gnomonica, ma

forse è meglio dire sui modi di misurare il tempo nei primi secoli dell’Era Cristiana, sono niente altro che qualche notizia raccolta nelle opere degli eruditi del Rinascimento e fino all’inizio del nostro secolo, in cronologie varie, mathesis, ed altri volumi.

Così, il sapiente Augusto Calmet (124), riporta una curiosa testimonianza di Lampridio, certamente uno degli scrittori specializzati nelle biografie degli Imperatori, vissuto nel III secolo d.C. circa, il quale “Osserva che fra i mobili dell’Imperatore Commodo (161 d.c.), venduti da Pertinace di lui successore, vi erano certi carri ad uso di segnare le ore, e di misurare le strade, verisimilmente col moto delle ruote, de’ medesimi, le quali movendosi sempre con moto eguale, ed uniforme potevano dar regola, per contare le ore a norma, che quelle giravano. I Geografi anche al presente (1750) si servono di carri, o altri strumenti consimili, che mostrano le distanze per mezzo de’ gradi segnati sopra le ruote”. 123 C. Salmasio, op. cit. pag. 445 D 124 Commentario letterale, istorico, critico, pag. 143

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Inoltre, Giulio Capitolino, descrivendo la vendita dei beni di Commodo per il suo successore, nel 193, menziona “alia iter metientia horasque monstrantia”, “contatori di velocità” (125), e orologi solari portatili, molto diffusi all’epoca. Un orologio portatile molto interessante, appartenuto a Commodo, o a qualcuno vissuto durante il suo regno, lo abbiamo già descritto nel capitolo precedente. Poi abbiamo notizia di Gaio Giulio Solino, scrittore latino di Geografia vissuto nelIII-IV secolo, che probabilmente scrisse qualcosa di attinente alla gnomonica nel Tractatus de practica Quadrantis, e nel Tractatus de umbra et luce. De occasu et Ortu Signorum (126).

Possiamo essere certi che anche in Cina, l’uso del gnomone, come degli orologi solari, era comune, e serviva particolarmente agli astronomi (durante i primi secoli della nostra era vennero edificati in quel paese molti osservatori astronomici dotati di innumerevoli strumenti, tra cui anche quelli gnomonici: sfere armillari, globi, quadranti, orologi solari di varie sorti, ecc.) per determinare i tempi dei solstizi. Così, l’astronomo Tsou-Tchong, osservò per mezzo di un orologio solare, il solstizio invernale e riuscì, per primo, a rappresentare anche il moto diurno della stella polare. Inoltre trovò il mese draconitico di 27 giorni, 5 ore, 5 minuti e 34 secondi (127).

34. LA GNOMONICA A BISANZIO. Un aspetto della storia della Gnomonica rimasto ancora

oscuro riguarda il suo sviluppo e le sue vicende nella civiltà di Bisanzio. Nel 1978 è stato portato alla luce un esemplare di orologio emisferico in marmo, nei pressi della famosa chiesa di S. Irene a Istanbul (128). Questo orologio ha una particolarità che lo rende unico fra tutti gli emisferici che si conoscono, perchè invece delle usuali 12 ore temporali, reca inciso un tracciato 125 J. Soubiran, op. cit. pag.267 126 C. Heilbronner, op. cit., pag. 334 127 C. Heilbronner, op. cit., pag. 385 128 R. Rohr, op. cit. pag.18

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orario per le ore italiche. Ma non è tutto. Stranamente le linee orarie sono state incise erroneamente al contrario, cominciando con le 23, 22, 21, ecc., dal lato Ovest anzichè dall’Est. Il ritrovamento di questo straordinario orologio, insieme con un’altra informazione storica, finora inedita, permette di aprire uno spiraglio di luce sulla difficile datazione storica dell’uso delle ore italiche nella civiltà bizantina.

In questo difficile compito ci viene in aiuto il filosofo cristiano neoplatonico Proclo Lycius Syriani, nato a Bisanzio nel 412 c.ca, e vissuto a Licia e quindi ad Atene, dove morì nel 485. Tra le sue opere scientifiche principali si può ricordare: “Hypotiposis Astronomicarum positionum”; “De sphera sive circulis coelestibus libellus”; “Paraphrasis in Claudii Ptolemai libros quatuor de siderum effectionibus”; “Imprimum elementorum Euclidis libri quatuor”; “De effectibus Eclipsium Solis et Lunae juxta singulas signorum triplicitates et decanos”; “Tribuitur quoque ei inventio ac usus Speculi”. Nella prima opera citata, quella di Astronomia, il filosofo parla anche della costruzione dell’astrolabio e di quello a forma di Aranea, cioè con le linee orarie che formano una tela di ragno; parla poi dell’osservazione diurna del sole; di vari procedimenti sulle osservazioni celesti per conoscere le ore astronomiche e le ore planetarie, ed altre cose di interesse astronomico. Ma la notizia che più ci interessa è che egli, in quest’opera, scrive un capitolo sulle ore italiche (129) che potrebbe essere una delle primissime trattazioni in merito. La chiesa di S. Irene, è uno dei monumenti bizantini più antichi. Fu eretta sui resti di una più antica basilica, nel 532 d.C., per essere ricostruita nel 740, in seguito ad un incendio. Da quanto detto, possiamo cominciare a supporre che le ore italiche furono oggetto di studio a Bisanzio e Atene, almeno nel V secolo, anche se dobbiamo tener conto che, a detta degli eruditi, nell’opera di Proclo ci sono molti punti oscuri che comportano una difficile lettura del testo che, a sua volta, non è corredato da nessuna immagine. Il libro fu tradotto dal greco in latino da Georgius Valla, nel 1498. Inoltre, sarebbe interessante 129 C. Heilbronner, op. cit., pag. 383-384

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consultare l’opera precedentemente citata di Giulio Solino, in quanto il titolo “De occasu et ortu signorum”,potrebbe far pensare ad uno studio sui segni (delle ore?) dal tramonto e dal nascere del Sole. In questo caso, allora, si potrebbe concludere che le ore italiche furono già studiate da quest’autore nel II-III secolo.

In una Storia Bizantina, enciclopedica, redatta da Carolo Du Fresne nel 1729, si danno altre notizie veramente interessanti, ed inedite, sugli orologi solari all’epoca di Bisanzio. Egli racconta che in una piazza denominata Milio, evidentemente a Costantinopoli, esistette un “Horologium” che, come narra Teofane nell’anno nono e poi Cedreno (1500), fu costruito da Giustiniano. Codino ipotizza che tale orologio non fu il solo posto in una piazza di Costantinopoli. Egli crede che vicino alla Basilica di S. Sofia ne fu posto un’altro presso il quale fu edificata la chiesa di S. Giovanni Battista. Ma secondo quanto riporta anche Cedreno, in Romano Seniore, sembra che quest’orologio non fu costruito da Giustiniano, ma da Giustino il Giovane e la moglie Sofia Augusta, a cura di Giuliano Prefetto Pretorio. Infatti, ci resta la citazione dell’epigramma che si trovava alla base dell’orologio, riportato nell’Antologia Greca, Lib. IV, cap. 34. Interprete di questo epigramma fu C. Petro Menardo Turonensi:

“Dona tyrannorum victor Justinus et uxor, Lux libertatis, collocat, haec Sophia, Aes horas monstrans veraci conspicis umbra Primam unam, bissex ultima signa notant. Subreptum latitabat opus: sed repperit illud Praeses Julianus, restituitque loco”. Il cui significato è: “Il vincitore Giustino e la moglie

Sofia, luce della libertà, colloca questi doni dei tiranni. Attraverso l’ombra veritiera vedi mostrare le ore e annotano la prima e le altre fino a dodici. Questo orologio pare che fu rapito e stava nascosto. Lo ritrovò il Preside Giuliano e lo riportò sul posto”.

Esistono poi altri epigrammi che fanno riferimento a un orologio solare edificato da Sergio Patriarca di Costantinopoli,

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vissuto ai tempi di Eraclio, che pare fu collocato dove prima c’era un orto (?). Sembra però che si trattasse dell’orologio denominato “Heliacon” da Leone Grammatico: “sed illud esse, quod Heliacon vocatur apud Leonem Grammaticum”.

Considerato l’interesse di queste notizie per la prima volta divulgate, ritengo opportuno riportare integralmente la versione originale tratta dalla Historia Byzantina di Carolo du Fresne:

“In Milio extitit HOROLOGIUM, quod a Justiniano confectum narrat Theophanes anno nono, et ex eo Cedrenus pag. 371. (...) Haud procul ab aede Sophiana extitisse non uno loco innuit Codinus, qui praeterea ait ab eodem Justiniano aedem S. Joannis Baptistae exxaedificatam ad Horologium (...). Meminit rursum Horologii Cedrenus pag. 525. E.R. in Romano Seniore: “Patricium vero Cosmam et Logothetam pessime habens, in Horologio, dignitate exuit”. Quo loco Horologium Milii usurpat pro ipso Milio, in quo rei, eorumque capita exponebatur, uti docuimus. Extat in Anthologia lib. IV, cap. XXXIV. Epigramma in basi Horologii, fornici, qui ad Basilicam erat, inaedificati, descriptum (...). Ex quo colligitur Horologium confecisse Justinum Juniorem et Sophiam Augustam, curante, Juliano Praefecto Praetorio:

(segue epigramma riportato sopra) Per fornicem vero qui est ad Basilicam, ut habetur in

Epigrammatis epigraphe, intelligitur ipsum Milium. Habentur ibidem bina alia Epigrammata in Horologium Solare a Sergio Patriarcha Constantinopolitano, qui sub Heraclio vixit, aedificatum, ubi antea erat hortus: sed illud esse, quod Heliacon vocatur apud Leonem Grammaticum pag. 479. E.R. nolim asserere: “ut eum Imperator ad Horologium solare stans conspexit, etc.”. Nam ita haec verba reddidit Combesisius: cum “eliacon” accipi possit vel debeat pro solario, seu loco aprico in summa aedium parte, quomodo solarium Latini usurpant, quod vox “esos” etiam persuadere videtur: ita “eliacon tes Magnauras” dixit Theophanes pag. 231. E.R. ut alios omittam. At quale fuerit horologium illud Milii, aquarium-ne, uti a Senatore lib. I epist. XLV. an vero cujusmodi in Francorum Annalibus anno

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DCCCVII describitur, ex his non aetate aquaria duntaxat horologia obtinuisse ex eodem Senatore colligi posse videtur”.

35. UN CODICE DEL VI SECOLO DIMENTICATO: forse l’unico documento di gnomonica sopravvissuto.

Verso la fine del secolo V, dovette avvenire qualche

innovazione nella costruzione degli strumenti orologici per la misurazione del tempo. Infatti, si ha notizia di alcuni orologi che potrebbero essere quasi dei prototipi di quelli meccanici, e comunque certamente diversi da quelli solari usati fino ad allora. Così, Jacobus Andreas Crusius, ci informa che “Severino Boezio per primo si preoccupò che a Roma fossero raccolti degli orologi ignoti agli antichi”, evidentemente costruiti con i pesi. Mentre nella Historia Ticinensi, Lib. 7, Bernardino Sacco narra che Boezio fu il primo a costruire orologi con i pesi in equilibrio a Roma (Severinum Boethium primum fuisse, qui Horologia libratis ponderibus Romae componi curavit). Ma l’illustre Severino Boezio, che era un eccellente matematico, era versato anche nella costruzione di orologi solari e ad acqua, tanto che il Re Teodorico gli commissionò la costruzione di un orologio solare e “acquatile” per il Re dei Burgundi. Nella lettera (epistola 45 e 46 di Cassiodoro) si capisce, dalla descrizione, che l’orologio ad acqua era “regolato sotto una misura per acque che scorrono”. Come dice Soubiran (130) queste due lettere rappresentano gli unici documenti interessanti sulla gnomonica di quell’epoca, con l’unica eccezione per un codice manoscritto dimenticato da tutti. Si tratta del codice rarissimo (probabilmente, ammesso che ancora esista, sarà un esemplare unico) di un certo Athemii, o Antemio, dal titolo “Problema Sciatericum”. Dal titolo si direbbe proprio che si tratti di un manoscritto sulla gnomonica, ovvero sullo studio di strumenti scioterici, cioè di orologi solari. E’ elencato nella bibliografia riportata da C. Heilbronner, nell’opera citata, dove si legge pure 130 op. cit. pag. 277

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che Antemio sarebbe quel personaggio che scrisse anche il libro “De machinis militaribus...”, vissuto probabilmente all’inizio del VI secolo. Potrebbe quindi essere l’unico libro di gnomonica di quell’epoca, ma sarebbe necessario approfondire le ricerche attraverso una consultazione diretta del codice presso la Biblioteca Bodleiana di Oxford.

Ritornando a Cassiodoro, mi risparmio di riportare per intero il contenuto delle due lettere in quanto esse sono facilmente reperibili nei testi moderni. Tuttavia riporto i titoli delle lettere.

EPISTOLA QUADRIGESIMA QUINTA Boethio Viro Illustri Patricio Theodoricus Rex. Dicit se rogatum esse à Burgundionum Rege, ut horologia

aquatile et solare ad ipsum transmitteret; Boethiumque omnia Nathesis miracula apprimè callentem, ad hoc opus perficiendum invitat.

EPISTOLA QUADRIGESIMA SEXTA Gundibaldo Regi Burgundionum Theodoricus Rex. Horologia solare, et aquatile à Boethio fabricata cum

eorum dispositoribus illi mittit. Inoltre, pare che gli orologi realizzati da Boezio avessero

pure la caratteristica di emettere dei suoni metallici (quod nobis cotidianum, illis videatur esse miraculum: metalla mugiunt, Diomedes in aere gravius bucinat, aeneus anguis insibilat, aves simulatae fritinniunt, et quae vocem propriam nesciunt habere, dulcedinem probantur emittere cantilenae).

Così, qualcuno, nei secoli scorsi, pensò che i primi orologi meccanici che indicavano l’ora col suono delle campane, fossero stati inventati da Severino Boezio, ma di questo non si ha nessuna prova diretta. Si è creduto, comunque, che lui avesse realizzato i primi orologi coi pesi, mentre Giovanni Bona (131), ricorda che Cardano, in “De subtilitate”, nella Gemma dell’Annulo, narra che era stato fabbricato in quei tempi un 131 Divinae Psalmodiae, 1678, cap. III

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orologio che indicava le ore non solo con la “sfera” (lancetta), ma anche col colpo (et horas indicabat non solum sagitta sed ictu).

Di un altro orologio strano si ha notizia negli Atti del martirio di S. Sebastiano, del Prefetto Cromazio, in cui si legge: “Ho la stanza da letto tutta di vetro; ho disegnato tutto l’ordinamento delle stelle e la meccanica celeste; così vengono distinti il corso dei mesi e degli anni in un determinato numero, attraverso gli spazi delle ore. Vengono previste attraverso calcoli di indigitazione e mentali, il movimento della Luna e le relative fasi lunari”. Si tratta naturalmente di un mega meccanismo simile ad un astrolabio o ad un planetario casalingo.

36. NON SOLO OROLOGI SOLARI. Nel trattare degli orologi solari ho trascurato di parlare

anche degli altri sistemi per la misura del tempo. Trattandosi di un argomento che non interessa specificamente la gnomonica (che studia solo gli orologi solari), mi soffermerò brevemente, solo per le cose più importanti, su due principali orologi che ebbero una diffusione ed una popolarità anche maggiore degli orologi solari. Uno è l’orologio ad acqua, l’altro è la famosissima clessidra. E’ facile indovinare le cause del successo degli orologi ad acqua e a sabbia: essi erano l’unico mezzo, per l’uso civile, di misurare lo scorrere del tempo di notte, o col tempo nuvoloso.

Gli orologi ad acqua sono antichissimi, come testimoniano Sesto Empirico (adv. Astrol. V.24. e 74), Macrobio (Somn. Scip. I.21) e Orapollo (I.16). Un bellissimo esemplare ci è giunto dall’Egitto e risale a circa 1500 anni a. C. Nella letteratura classica il riferimento più antico è sicuramente quello dell’orologio portatile citato dal poeta Comico Batone e riportato da Ateneo (vedi capitolo precedente). Si crede che qui Batone parlasse di un orologio ad acqua.

Vitruvio (lib. IX, cap. IX) ci dice che inventore dell’orologio ad acqua fu Ctesibio Alessandrino, nel 595 a.C. Mentre Ateneo (Deipn. (IV. 23. p. 174) riferisce che Platone fece

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un “orologio di notte simile ad una gran clessidra”. Ma è difficile dire se veramente fu un orologio e dello stesso parere è Salmasio il quale nega essere stato quello un orologio (Ex. Pl. p. 450). Plinio (VI.60) riferisce che Scipione Nasica costruì il primo orologio ad acqua per i Romani, mentre il poeta Luciano parla di un orologio che indicava le ore con l’acqua e col suono. Di questo orologio ne riporta la figura Girolamo Magi in “de Tintinnab.”, al cap. 6.

Ecco come un autore più recente ha immaginato la forma dei più semplici orologi ad acqua: “Un vaso pieno d’acqua che si versava a stille in un altro vaso nello spazio di dodici ore, ed un pezzo di sughero che nel secondo vaso si andava innalzando insieme con l’acqua, era l’indice che segnava le ore”. Un orologio di questa specie, di notevoli dimensioni, doveva essere collocato nel Foro, e forse si tratta proprio di quello realizzato da Nasica. Gli orologi ad acqua erano, anticamente, chiamati anche clessidre. Infatti i dizionari etimologici antichi riportano che le clessidre venivano chiamate pure Orologi, perchè con esse gli astronomi misuravano i tempi. Salmasio propone anche una etimologia diversa. Le clessidre, quindi, sia ad acqua che a sabbia, furono usatissime nella determinazione dei tempi per le osservazioni celesti. In seguito le clesidre vennero chiamate anche “solaria” e “horaria”, come ci informa Censorino, mentre Marziane nota che esse furono fatte anche di vetro.

Ma l’aspetto più interessante per la storia delle clessidre, sono le testimonianze degli antichi filosofi sull’uso che gli astronomi ne facevano per le loro osservazioni astronomiche. A informarci con molta chiarezza e particolari su questo aspetto è una relazione del matematico Giuseppe Settele del secolo scorso (132), dal quale prendo le seguenti notizie.

Delle clepsidre fanno menzione Cleomede (Cyclic. Theor. Lib. 2), Tolomeo (Almag. Lib. 5. Cap. 14), Teone Alessandrino nel Commentario al Lib. 5 dell’Almag., e Proclo Diacono (Hypotyp. Cap. 3), allorchè espongono il metodo tenuto dai più antichi astronomi nel misurare i diametri del sole e della Luna, che “consisteva nell’osservare per mezzo delle clepsidre la 132 G. Settele, Illustrazione di un antico astrolabio, Roma, 1817.

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differenza del tempo tra il nascere del lembo superiore, ed inferiore del Sole, e della Luna, quando percorrevano l’equatore, e poi di osservare il tempo del nascere fino al tramontare di questi corpi, e quindi fare la seguente proporzione: il tempo dal nascere al tramontare stà al tempo impiegato dal diametro solare, o lunare per sorgere tutto dall’orizzonte, come 180 gradi stanno al quarto termine: e Cleomede di fatti dice, così essersi trovato, che i diametri del sole e della luna sono la settecentesima parte della loro orbita, che viene a corrispondere a 31 minuti in circa; il che non molto si discosta dal vero, benchè questo metodo sia soggetto a molti inconvenienti, come lo ha notato già Tolomeo, per cui lo lasciò, e vi sosituì la diottra, imitando Ipparco”.

Marciano Capella (lib. 8) accenna pure all’uso delle clessidre nelle osservazioni astronomiche: “multiplici enim clepsidrarum appositione monstrantum pmnia signa paria spacia continere”. Mentre secondo Sesto Empirico, i Caldei divisero per mezzo delle clessidre lo zodiaco in 12 parti. E il Petavio e il Bailly discutono se questa divisione debba intendersi realmente dello zodiaco o piuttosto dell’equatore. A causa della grande richiesta di clessidre, nell’antichità, vi dovevano essere molti artigiani versati nella costruzione di questi strumenti, come testimonia l’iscrizione del Paciaudi posta ad un AVTOMATARIO KLEPSIDRARIO.

Le clessidre ad acqua avevano un difetto che le rendeva imprecise: spesso l’acqua si congelava ed evaporava, per cui furono pian piano sostituite con quelle a sabbia, senz’altro le più famose, ancora in uso fino a un paio di secoli fa. Abbiamo molte testimonianze del curioso uso che i giudici romani facevano delle clessidre: misuravano con esse il tempo che a ciascun patrocinatore intendevano concedere per perorare le loro cause, da cui ne proviene il proverbio: dicere ad Clepsydram.

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LE MERIDIANE BENEDETTINE

Intorno all’anno Mille cominciarono ad apparire sulle facciate di piccole e grandi abbazie sparse in tutta Europa delle meridiane con strani segni. Esse servirono a scandire il tempo della vita quotidiana di generazioni di monaci.

Uno degli aspetti meno conosciuti, nelle sue più varie

sfaccettature, della vita quotidiana dei monaci del medioevo, è senz’altro quello relativo ai metodi di misurazione del tempo. E’ noto, infatti, che tale lacuna storica è strettamente legata alle conoscenze di materiale storiografico, davvero esigue, e al fatto che pochissimi autori si sono preoccupati di indagare in questa direzione, soprattutto dal punto di vista scientifico.

Ciò comporta, oggi, un vuoto bibliografico che in parte viene colmato da generici articoli e opere sulla misurazione del tempo e in parte da lavori specifici di ricercatori di storia della gnomonica. Noi rientriamo nel secondo caso e, quindi, cercheremo di affrontare il problema da un punto di vista gnomonico (che è quello meno noto), ma senza nulla togliere all’indagine quel sapore mistico che scaturisce da significati religiosi e sociali ben più ampi a cui tali meridiane erano destinate.

Le diverse celebrazioni degli Uffici religiosi, legate ad

abitudini di vita diverse, in vigore nelle grandi organizzazioni monastiche dell’alto Medioevo, sono tra i fattori principali che rende arduo, oggi, il tentativo di decifrare quei particolari segni che si riscontrano in alcune meridiane dette ad ore canoniche le quali, oltre che come normali segnatempo solari, erano destinate ad indicare ai monaci il tempo delle principali preghiere liturgiche.

Le ore canoniche, almeno da un punto di vista gnomonico, non sono altro che il resto dell’antica divisione del giorno in 12 parti uguali, cioè sono esattamente corrispondenti alle ore ineguali, dette temporali, sistema di suddivisione del tempo adottato anche da San Benedetto nel VI secolo, perchè ritenuto conforme al sistema di vita del monaco di quei tempi.

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Le meridiane canoniche sono dei semplici segnatempi solari adatti sostanzialmente ad indicare le ore temporarie, come in uso anticamente; utilizzando la stessa suddivisione oraria, e contrassegnando alcune linee con dei simboli, esse venivano adattate alle esigenze della vita religiosa: conoscere, attraverso l’ombra del sole proiettata dallo gnomone, i momenti delle principali azioni liturgiche , in particolare le ore dette minori, cioè Terza, Sesta e Nona e, con la retta alba-tramonto, la Prima e i Vespri.

Ma in realtà, gli uffici canonici principali erano invece quelli che si svolgevano di notte, e non di giorno, quelli delle Lodi al mattino, di Prima e dell’Ufficio Vespertino, per indicare i quali le meridiane solari erano ovviamente inefficaci.

Perchè non si generi confusione, bisogna distinguere fra orologi solari ad ore temporarie semplici, quelli che riportano solo le linee orarie corrispondenti ad alcuni uffici religiosi e, infine, gli orologi ad ore temporarie con aggiunti i momenti delle principali orazioni, contraddistinti con tratteggi, croci ed altri simboli. Come è facile osservare, questi ultimi rappresentano la maggior parte delle vere meridiane canoniche che si conoscono.

Nel cimitero di Bewcastle, in Inghilterra, si trova un obelisco sul quale vi sono delle strane incisioni runiche (caratteri dell’antico alfabeto dei Germani). Sulla parte volta a sud si trova inciso un piccolo orologio solare composto da una semicirconferenza suddivisa in quattro parti ; dato lo stato di degrado, è impossibile stabilire se vi siano ulteriori suddivisioni intermedie di linee orarie (133). Le rovine di Bewcastle permettono di definire una data per l’obelisco, in quanto esso fu innalzato da Aelfrid, figlio di Oswin, re della Northumbrie, il quale morì all’incirca nel 664 (134). Questo orologio ad ore canoniche è ritenuto, erroneamente, come il più antico che ci sia pervenuto, mentre chi scrive ha da tempo135 segnalato lo straordinario orologio solare canonico ritrovato in Palestina sul finire del secolo scorso, , risalente al III secolo d.C. e divulgato 133 Lysons, Magna Britannia, t. IV, History of Cumberland 134 D. Haigh, Archaeol. Aeliana, 1857, t.1, pag. 149 135 Nicola Severino, Storia della Gnomonica, Roccasecca, 1992-1994

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per la prima volta nella rivista “Revue Biblique” nel 1903. Le meridiane canoniche sono oggi, e lo erano anche

prima, una vera rarità tanto che non se ne trova cenno alcuno nelle opere del monaco erudito Beda il Venerabile.

Il tempo dei monaci nel medioevo “E’ impossibile stabilire l’uso del tempo di un religioso -

scrive Léo Mulin136 -, innanzitutto a causa dell’imprecisione dei dati forniti dal Medio Evo, assai meno sensibile di noi al significato del tempo e a un suo calcolo preciso”. La Regola benedettina richiedeva al monaco un elevato grado di puntualità nello svolgimento degli Uffici religiosi, e questa puntualità fu il principale motivo per i monaci, a differenza dei contadini che li circondavano, per porre una maggiore attenzione nella risoluzione dei problemi tecnici relativi alla misurazione del tempo, sia di giorno che di notte.

“Il calcolo del tempo aveva una tale importanza per i religiosi che non c’è da stupirsi se proprio loro hanno fatto progredire l’arte dell’orologeria. Quest’ultima, scrive Schmitz, non ebbe promotori più zelanti di alcuni abati...Un testo del 1250 circa, L’Image du monde, loda gli orologi che segnano l’ora di giorno e di notte, ‘per stabilire il tempo delle preghiere la cui regolarità è gradita a Dio’”.137

Prima che si generalizzasse l’uso degli orologi meccanici delle meridiane e delle clessidre, la Regola fissava che i monaci si alzassero in inverno prima del canto del gallo ed in estate dopo il medesimo canto, di modo che in inverno finissero i Notturni prima, ed in estate li cominciassero solo dopo il canto del gallo138.

Ai tempi di S. Benedetto gli orologi solari erano certamente conosciuti ed usati, almeno dagli uomini dotti. 136 Lèo Mulin, La vita quotidiana dei monaci nel medioevo, Mondadori, 1988, pag. 43. 137 Lèo Mulin, La vita quotidiana dei monaci nel medioevo, Mondadori, 1988., pag.48 138 Scrive infatti Agostino Calmet, , Commentario letterale, istorico e morale sopra la Regola di S. Benedetto, Arezzo, MDCCLI, Tomo II, p.96: Hoc in Hieme agendum est, un Nocturnos jam expletos pullorum cantus sequatur...In Verni, vel Aestatis tempore a pullorum cantu Nocturni inchoentur.

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Abbiamo, al riguardo, precise testimonianze nelle epistole di Cassiodoro e Severino Boezio139. Quest’ultimo costruì anche i primi rudimentali orologi meccanici e ad acqua, attraverso nuove tecniche140. Ci riesce difficile, tuttavia, credere che gli orologi meccanici, ad acqua, e quindi le clessidre e le meridiane, fossero strumenti in dotazione di qualsiasi monastero. Per costruire una meridiana precisa non ci vuole molto: un muro esposto più o meno a Sud, un pezzo di ferro come gnomone e uno strumento per realizzare solchi nella parete, oppure un po' di colori per creare qualcosa di più artistico. Ma probabilmente, le meridiane canoniche, nella loro spartana concezione (quasi sempre un semicerchio suddiviso semplicemente in quattro o più spazi uguali), dovevano rispecchiare la condizione di umiltà e di povertà imposta dalla Regola ai monaci. Esse erano quindi lo strumento di misurazione tra i più semplici e più economici da realizzare. Eppure il loro massimo sviluppo non si ebbe che intorno all’anno Mille, probabilmente in seguito allo straordinario moltiplicarsi di nuovi ordini monastici che trasformarono l’Europa cristiana, come scrisse Rodolfo il Glabro, in un “bianco mantello” di tetti. Ma l’anno Mille vide anche il fiorire di nuove tecniche che portarono allo sviluppo degli orologi meccanici da torre.

Recentemente è stato segnalato141 un presunto orologio solare canonico italiano, in un sito nei pressi di Ancona, risalente al VI secolo che testimonierebbe l’uso di questi orologi in Italia 139 Epistola quadrigesima quinta: “Boethio Viro Illustri Patricio Theodoricus Rex. Dicit se rogatum esse a Burgundionum Rege, ut horologia aquatile et solare ad ipsum transmitteret...”; Epistola quadrigesima sexta: “Gundibaldo Regi Burgundionum Theodorisuc Rex. Horologia solare, et acquatile à Boethio fabricata cum eorum dispositoribus illi mittit”. 140 E’ opinione comune che Boezio fosse l’inventore degli orologi meccanici col sistema dei “pesi”. Infatti, Bernardino Sacco, nella Historia Ticinensi, lib. 7, narra che Boezio fu il primo a costruire orologi con i “pesi in equilibrio” a Roma (Severinum Boethium primum fuisse, qui horologia libratis ponderibus Romae componi curavit). Mentre Giovanni Cardano, in “De subtilitate”, nella Gemma dell’Annulo, narra che era stato fabbricato in quei tempi un orologio che indicava le ore non solo con la “sfera”, ma anche col “colpo” (et horas indicabat non solum sagitta sed ictu). Si tratta quindi proprio di un antenato dell’orologio meccanico a campane. 141 Karlheinz Schaldach, Vertical dials of the 5-15th centuries, in Bulletin of British Sundial Society, n. 96.3, october 1996, pag. 32-38.

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già prima di S. Benedetto. Tuttavia, l’orologio segnalato sembra non riporti particolari incisioni sulle linee orarie principali (Terza, Sesta e Nona), come in effetti si trovano nelle meridiane canoniche che sicuramente servirono a scopi religiosi.

Nell’Inghilterra e nell’Irlanda cristiana dei secoli VII-VIII le meridiane canoniche erano molto in uso, come testimoniano i circa duemila reperti ancora esistenti nei cimiteri e sulle chiese dei vari monasteri. Attorno al VI-VII secolo, i monaci iniziarono ad utilizzare la tecnica della costruzione con la pietra per costruire le loro chiese, attorno alle quali sorgevano da una parte le celle dei monaci, da un’altra, il cimitero degli abati e dei monaci stessi. In questo contesto, l’orologio solare canonico segnava il tempo della preghiera principalmente per i monaci, ma siccome anche il popolo interveniva ad alcuni di quei momenti, possiamo credere che l’ora canonica scandisse il tempo di tutta la comunità cristiana che gravitava attorno al monastero. Gli orologi solari irlandesi databili dal V all’ XI secolo sono sempre incisi o scolpiti su stele di pietra di varia natura, non sono appoggiati al muro e nemmeno inglobati in esso, ma si erigono vicino alla chiesa. Sono blocchi di pietra erratici la cui posizione, spesso, non è più quella originale. E pure il loro orientamento a volte può risultare diverso. 142

La Brithis Sundial Society, e lo studioso Mario Arnaldi di

Ravenna, hanno molto approfondito questo aspetto della gnomonica e l’associazione inglese ha perfino realizzato un catalogo informatico relativo a questo antico patrimonio culturale. Eppure nessuna testimonianza scritta ci è stata lasciata dalla fonte più autorevole di quei tempi: Beda il Venerabile, le cui opere erano destinate a formare la base degli studi delle future università143.Quindi, per un uso più diretto delle meridiane 142 Queste informazioni sugli orologi solari canonici irlandesi sono tratte dalla corrispondenza privata con il sig. Mario Arnaldi (lettera del 22 luglio 1995). 143Beda, nella sua opera “De temporum ratione”, o “De temporibus liber major”, del 725 (codex Casinensis 230 - M. ib., 373 - 4) descrive, come se fosse ancora l’unico e più importante mezzo per la misura del tempo, l’antico metodo delle “ombre dei piedi”, rievocando il trattato di agrimensura di Palladio, senza nessun riferimento particolare alle meridiane solari e, soprattutto, alle meridiane canoniche che pure esistevano! Il suo “Libellus del mensura horologii”, erroneamente oggi considerato un vero e proprio

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canoniche, dobbiamo rifarci ai secoli IX e X. Ma, come si è detto, le meridiane solari non erano certo

l’unico modo di misurare il tempo nei monasteri. Anzi, anche se esse erano regolarmente in uso, non dovevano rivestire particolare importanza perchè è da considerare che di giorno molti monaci erano affaccendati nei lavori di campo, o negli Scriptoria, per cui il silenzioso modo di annunciare le ore delle meridiane solari non fu mai comodo come lo furono le campane, che cominciarono a suonare intorno al decimo secolo. E, come risulta evidente dai documenti, molti altri metodi venivano adottati dai monaci per scandire i loro giorni e le loro notti:

“In quei tempi (Alto Medioevo) vi erano dei monaci addetti al richiamo delle ore, i quali “vegliavano alternatamente, e di quando in quando osservavano l’Orologio per vedere che ora fosse (In nocte, et die solleciti horologium conspicere). Quest’orologio alla notte era, verisimilmente, una clessidra; e fra il giorno si servivano probabilmente di qualche Orologio da sole. Certamente non erano orologi a campana, poichè in quei tempi comunemente non erano ancora in uso” (144).

Leo Moulin (145), facendo riferimento ai commentari di Calmet (sec. XVIII), ci informa che anticamente i monaci “possedevano un Horologium stellare monasticum molto libro di gnomonica, altro non è che un libretto di poche pagine in cui Beda descrive appunto il metodo delle ombre dei piedi: “Horologium quod contra unumquemque mensem habet ad umbram humani corporis pede singularum horarum diei”. Tuttavia, è interessante notare che, mille anni dopo, Calmet accenna all’uso di questo metodo per ricavare le ore ineguali per cui dobbiamo pensare che potesse essere usato anche dai monaci per conoscere i momenti delle Ore Canoniche. Calmet riporta un esempio che fa ipotizzare l’esistenza, nell’antichità, di apposite tavole per mezzo delle quali si potesse conoscere direttamente la lunghezza dell’ombra nelle Ore Canoniche per tutti i giorni dell’anno: “Nel mese di Gennaio per l’Ora Prima vi volevano ventinove piedi; per la Seconda diciotto; per la Terza quindici; per la Quarta dieci; per la Quinta dieci; per la Sesta nove, etc.”. 144Agostino Calmet, Commentario letterale, istorico e morale sopra la Regola di S. Benedetto, Arezzo, MDCCLI, Tomo II, p. 96 145 Leo Moulin, La vita quotidiana dei monaci nel medio evo, Mondadori, 1989, pag. 47

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curioso; si trattava di mettersi in un certo punto del giardino del chiostro, a qualche passo da un cespuglio di ginepro, dal quale si potevano scorgere due o tre finestre del dormitorio, e quando la tale o la tal altra stella apparivano, voleva dire che era giunta l’ora per il ‘significator horarum’, di suonare la campana del risveglio, di accendere le lampade della chiesa...”. E’ ben comprensibile l’adozione di questo metodo se si considera che misurare il tempo attraverso l’osservazione del moto degli astri è una pratica in uso fin dalla più remota antichità, a cominciare dai Sumeri e via dicendo.

I monaci antichi, secondo le testimonianze di Cassiano, ricercavano l’ora della Sinaxi notturna, cioè dell’Ufficio notturno, attraverso l’aspetto del cielo stellato. Calmet146 menziona che anticamente nei monasteri di S. Pacomio147 “si dava il segno dell’Ufizio col suono di una tromba, ovvero di corno...In altri Monisteri148 si usava uno strumento di legno, come appunto praticano ancora al presente i Greci, i quali suonano l’Ufizio Divino, battendo a cadenza certe tavole pendule. S. Girolamo149 dice, che nel Monistero di S. Paola si chiamavano le Monache all’Oratorio, cantando l’Alleluja”.

E’ testimoniato in una raccolta sul miracolo di S. Ugone,

nella biblioteca della famosa abbazia di Cluny, che anche i Cluniacensi osservavano le stelle per conoscere l’ora di notte. Mentre, attorno all’anno Mille, S. Pietro Damiano escogitò un modo, per niente comodo, di misurare il tempo basato sul calcolo della durata delle singole salmodie. Inoltre, bisogna considerare che i monaci facevano uso di molti altri sistemi per misurare il tempo, sia di notte che di giorno: dall’osservazione della Luna, dal consumo della cera delle candele da cui derivarono veri e propri orologi a candela, dal consumo dell’olio nelle lampade, 146 Agostino Calmet, , Commentario letterale, istorico e morale sopra la Regola di S. Benedetto, Arezzo, MDCCLI, Tomo II, p. 96 147 S. Pachom. Reg. art. 3. Climac. Gradu 19. 148 Vita di S. Theodosii Coenobiarch. n. 73. 77. XI. Januar. in Prato Spiritu. c.2. Nicoena Synod. II. act. 4. Vita di S. Nicolai Studitae n. 50. 4. Februar etc. 149 Hieronym Epist. 27.

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dagli orologi ad acqua, dalle clessidre a sabbia, dalle carte lette e persino dall’assuefazione a compiere ogni giorno sempre gli stessi gesti, come riferisce Calmet nel suo Commentario alla Regola.

Le ore canoniche restarono in uso nell’ambiente

monastico come tempo della Chiesa, distinguendosi dal tempo della società rurale, ovvero il tempo dei contadini, degli artigiani e dei lavoratori in genere, il sistema delle ore astronomiche attualmente in uso, che cominciò ad essere scandito dal XIV secolo, dai grandi orologi meccanici dominanti le piazze delle città di tutta Europa.

Le Ore Canoniche Facciamo un salto indietro nel tempo, nell’alto medioevo,

quando la giornata dei monaci era minutamente regolata. L’Abate, prescrive la Regola, aveva l’incombenza di avvisare l’ora dell’Ufficio religioso, sia di giorno che di notte, e quando non poteva egli assolvere a questo compito, un altro monaco “zelante, vigilante e puntuale”, prendeva il suo posto.

A notte fonda si riunivano per l’ufficio notturno per recitare una salmodia che durava circa un’ora e mezza; all’aurora seguiva le Lodi, il mattutino e al sorgere del sole si diceva Prima, e poi Terza (circa le 9), Sesta (mezzogiorno), Nona (circa le 15), Vespri (al tramonto) e Compieta (al crepuscolo). Erano quindi sette ore diurne e questo computo era denominato divisione septenaria la quale distingueva nella giornata i sette momenti eucologici, giusta il detto del salmista “Septies in die laudem dixi tibi”. Le ore principali si contrassegnavano con una croce, con lettere dell’alfabeto greco, o con dei tratti.

Le Costituzioni Apostoliche (Costitut. Apostol. L. 8, c.

34) parlano espressamente di sei ore Canoniche anziché di sette150, cioè Mattutino, Prima, Terza, Sesta, Nona e Vespro, 150 Calmet Agostino, Commentario Letterale, Istorico, e Morale

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ammesse anche da S. Girolamo. Gli antichi scrittori cristiani intravedevano in questa

sequenza settenaria vari rapporti storico-mistici, fra le singole ore diurne e taluni avvenimenti della passione di Cristo e della vita degli Apostoli. Infatti, essi ricordano che Gesù si recò nell’Orto degli Ulivi a Mezzanotte; fu fatto prigioniero verso le tre ore; fu condotto dinanzi a Pilato circa all’ora Prima; fu condannato all’ora Terza; alla Sesta fu crocifisso, alla Nona spirò; all’ora del Vespro fu deposto dalla Croce e all’ora di Compieta fu sepolto.

Le ore canoniche diurne, fin dalla loro istituzione, ebbero lo scopo di santificare i principali momenti della giornata, in modo, però, da non interrompere il lavoro quotidiano più di quanto era necessario per richiamare alla mente il pensiero di Dio. Per questo esse ricevettero una forma meno complessa dell’Ufficio Notturno e un andamento più sollecito. E se si toglie l’ora di Prima e l’Ufficio Vespertino, si comprende la necessità dei monaci di continuare a far uso delle ore ineguali.

Dell’ora di Prima conosciamo esattamente l’atto di

nascita descrittoci da San Cassiano (151). Verso l’anno 382 mentre egli soggiornava a Betlemme, vide l’introdursi di una nuova Ufficiatura in seguito ad un disordine che egli narra così. Nei monasteri della Palestina si soleva a quell’epoca terminare l’Ufficio notturno e le Lodi circa due ore prima della levata del sole. I monaci, in questo frattempo, dovevano dedicarsi alla meditazione, alla lettura, o alle private devozioni. Alcuni però, meno fervorosi, si rimettevano a dormire fino all’ora di Terza, il che era severamente proibito dalle consuetudini monastiche, e Cassiano lo rammenta espressamente152. Di qui l’iniziativa dei superiori, di chiamare i monaci poco dopo la levata del sole ad una nuova Ufficiatura corale che li salvaguardasse da una pericolosa indolenza. L’innovazione piacque e qualcuno aggiunse che la “novella solemnitas”, come la chiamò Cassiano, sopra la Regola di San Benedetto, Arezzo, 1751, tomo primo, p. 193. 151 De instit. coenob., c. III, 4 152 Cassiano, De Instit. Coenob., III, 4.

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giungeva a buon punto per portare a sette i momenti eucologici della giornata, come detto prima. Nacque così l’ora che in seguito fu chiamata Prima, la quale incontrò qualche resistenza in alcuni vecchi monasteri d’oriente, ma si sparse velocemente anche in Occidente, soprattutto nelle Gallie e a Roma, dove già nel V secolo la troviamo organizzata. E’ infatti dall’Ufficio Romano che S. Benedetto la derivò nel proprio, chiamandola per la prima volta col nome di Prima ora Canonica. Essa si diceva allo spuntar del sole.

Fino al XIII secolo, tutti gli affari della vita civile e

militare erano regolati in base a questo computo e quindi niente di strano che per i momenti della preghiera la Chiesa si uniformasse allo stesso criterio. In proposito scrive Tertulliano153 “Queste tre ore più insigni nelle cose umane, che scandiscono il giorno, che distinguono gli affari, che risuonano in pubblico, così erano più solenni nelle orazioni divine”. In questa frase si legge “risuonano in pubblico”, infatti queste ore erano richiamate all’attenzione del pubblico per mezzo del suono delle trombe nelle piazze.

Le ore Minori diurne, se, come preghiera privata, ebbero un’osservanza fin dal tempo apostolico, come ora Canonica, furono riservate anzitutto ai monaci, escluso il clero secolare. Dobbiamo credere, perciò, che il Cursus primitivo di Roma comprendesse appena le Ore notturne di Vespro, Vigilia e Lodi, mentre le ore Minori venivano celebrate “secreto”. Solo durante il V secolo l’ignoto redattore del Cursus introdusse nell’Ufficio Romano le Ore Minori assegnando l’Ufficiatura che rimase inalterata fino alla riforma di Pio X nel 1911.

Nel XV secolo, Giovanni Regiomontano elaborò delle

tavole per mezzo delle quali i monaci potevano conoscere i 153 Tertulliano : De Jejuniis, 10 : Tres istas horas ut insigniores in rebus humanis, quae diem distribuunt, quae negotia distinguunt, quae publice resonant (in quanto erano chiamate all’attenzione del pubblico con suono di tromba per le piazze), ita et solemniores fuisse in orationibus divinis. (cfr. Righetti Mario, Manuale di Storia Liturgica, ed. Ancora, Milano, 1946, vol. II, p. 584).

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momenti delle ore canoniche con estrema facilità, a partire da un qualsiasi altro sistema di computo, come quello astronomico, babilonese, o italico. Tale era l’importanza di queste tavole che uno studioso dell’epoca fu indotto a scrivere in un suo trattato specifico sull’argomento: “Esse sono tanto necessarie per la nostra disciplina poichè in nessun modo siamo capaci di raggiungere il fine proposto senza di essa”154. La corrispondenza fra Ore Canoniche, ovvero Temporali, con il sistema Italico, che faceva iniziare il computo delle ore al tramonto del sole, è chiaramente rappresentato nellos chema proposto da Marcello Francolini nel suo importante trattato del XVI secolo De tempore horarum canonicarum. Egli la chiama “Tavola speciale delle Ore Canoniche per la latitudine di 48 gradi secondo le ore fuori d’Italia comunemente usate155 che si fanno cominciare dalla mezzanotte e dal mezzogiorno”. Il cerchio interno viene diviso a metà, una parte diurna (dies) e una notturna (nox); seguono due semicerchi per le quattro Vigilie notturne; un altro cerchio che riporta le Ore Canoniche; un’altro per le ore antiche Temporarie, con la linea verticale che indica l’ora Sesta; poi segue il cerchio delle ore Astronomiche con l’ora dodici coincidente con l’ora Sesta Temporaria e l’ultimo cerchio che riporta le ore Italiche. Nella seconda parte vengono indicate le stesse numerazioni relative, però, alla stagione estiva.L’Ufficio Vespertino delle Ore Canoniche è costituito da tre momenti principali: il Lucernare, il Vespro, e la Compieta. Come le Lodi sono il canto della Chiesa all’aurora, così il Vespro è il suo canto al tramonto, mentre in cielo comincia a brillare Espero, la stella della sera, e nelle case si accendono i lumi. Di qui i vari nomi con cui questo momento fu chiamato nei libri liturgici e celebrato dagli scrittori dei primi secoli: Vesperae, Agenda o Sinaxi vespertina, Hora lucernalis, Lucernarium, Eucharistia lucernalis da S. Basilio e nelle regole monastiche di S. Cesareo e S. Aureliano, in Francia, dove distinguevano chiaramente il Lucernarium e l’ora di Duodecima. Il Lucernarium era così chiamato perchè recitandosi di sera 154 Marcelli Francolini presbyteri, De temporum horarum canonicarum tractatus, Romae, 1545, parte terza, cap.XCIII, p.483, (5). 155 Le “ore fuori d’Italia” altro non sono che le ore “oltramontane”, o “astronomiche”, dette anche “Francesi”, corrispondenti a quelle attualmente in uso.

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erano necessarie le lampade per celebrarlo. Come Ufficio distinto, e preambolo al Vespro, si crede, dalle testimonianze, che fosse quasi universalmente praticato ancora sul finire del IV secolo. Nella Gallia, le regole monastiche di S. Cesareo e di S. Aureliano distinguono chiaramente il Lucernarium con i salmi e le antifone e l’ora di Duodecima, cioè l’Ufficio del Vespro, mentre a Roma era già da tempo caduto in desuetudine e non ne parla neppure S. Benedetto.

L’Ufficio Vespertino vero e proprio, cioè il Vespro, stando alle testimonianze che ci sono pervenute, antiche di mille anni, è certo che nel IV e V secolo veniva celebrato regolarmente ogni giorno nelle principali chiese dell’Occidente alla stessa stregua delle Lodi (i primi vespri furono per molto tempo considerati i più importanti dal punto di vista liturgico), almeno per quanto riguarda il Cursus romano. S. Girolamo (420 d.C.), praticissimo dei costumi di Roma, enumera il Vespro fra le Ore Canoniche nell’Epistola 107 ad Laetam, 9.

Il termine Compieta, o ad Completorium, o Completorii,si incontra al principio del VI secolo, nelle regole di S. Aureliano e di S. Benedetto, per distinguere l’ultima ora, la Settima, che secondo il septies del salmista compie il ciclo eucologico della giornata monastica. Si ritenne in passato, che S. Benedetto introdusse per primo la Compieta nell’Ufficio Canonico; ma studi più accurati hanno accertato che essa in Oriente era conosciuta da molto tempo prima.

Si pensi alla difficoltà di interpretazione dei segni di quelle meridiane canoniche che indicavano, tra l’altro, anche i particolari momenti di preghiere poco note. Per esempio, S. Basilio, intorno al 362, S. Giovanni Crisostomo e Callinico, (nel 445 circa), attestano l’esistenza nei monasteri di una preghiera comune, della quale faceva parte il Salmo 90 “Qui habitat in adiutorio Altissimi” e che, col nome greco di πρωθυπνια, entrava nella serie delle Ore Canoniche. Essa esiste tutt’ora nell’Ufficio Bizantino sotto il nome di “Apodeipnon”. Dopo S. Benedetto l’ora della Compieta divenne assai comune e S. Fruttuoso la chiama “la prima ora” e S. Colombano “il principio della notte”.

E’ molto difficile stabilire in quale periodo i monaci

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utilizzarono regolarmente meridiane solari per osservare le ore canoniche. In un incunabolo di Hartmanus Schedel (156), si legge che nell’anno 554, Papa Pelagio, successore di Vigilio, ordinò che i chierici in sacris celebrassero ogni giorno le sette ore canoniche. Ciò significa che a quell’epoca l’osservanza delle Ore Canoniche non era ancora estesa a tutte le comunità monastiche. Mentre una prima costituzione scritta che impose l’osservanza delle stesse, risale al secolo nono, e si trova in un capitolare di Etto, Vescovo di Basilea.

Il calcolo delle Ore Canoniche nel XVI secolo. Ci sembra questa la sede opportuna per riportare un

importante passo del trattato di Marcello Francolini, sopra menzionato, che rappresenta una delle rarissime spiegazioni “tecniche” del computo delle Ore Canoniche ed il loro impiego in funzione degli altri sistemi orari (nell’esempio in funzione dell’ora Astronomica e Italica).

• “...Quinto subiunximus ortum Solis, finem scilicet

quartae vigiliae matutinae, ac totius noctis; et initium primae horae tam diurnae, quàm canonicae. Nam post ortum statim in ecclesijs Prima hora canonica celebrari debet.

• Sexto adiecimus finem ejusdem Primae horae canonicae, et diurnae, qui est initium secundae horae diurnae, et Terziae canonicae.

• Et septimo etiam attexuimus finem tertiae horae tam diurnae quàm canonicae, quod est initium quartae horae diurnae, et Sextae canonicae. Pro ijs qui competentibus horis exactissime exolvere curarent divinum officium : poterunt enim hi ex dictis finibus annotatis cognoscere, quòd tunc Prima, vel Tertia horae canonicae deberit esse completae.

• Octavo designavimus tempus meridiei, quod est finis sextae horae tam diurnae, quàm canonicae, et initium septimae diurnae, et Nonae canonicae; Nam tempus illud necessarium est, et pro Sexta horae canonicae debito tempore complemdae notitia, et etìa pro Missis dicéndis, nam illuc

156 Chronicon Mundi, Norimb., 1493, foglio v. 146

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usque et non ultra Missarum celebratio differi potest. Et demum etiam necessarium est tempus illud pro comestionis hora in diebus ieiuniorum, in quibus non nisi circiter, vel post meridiem licitum est cibum sumere.

• Nono addidimus finem nonae horae tam diurnae, quàm canonicae, quod est initium decimae horae diurnae, quam canonicae, quod est initium decimae horae diurnae, et Vesperarum; pro dictae Nonae horae canonicae iusti, et antiqui temporis notitia habenda...et finem nonae horae recitatis Vesperis et Completorio.

• Decimo et ultimo finem undecimae horae diurnae ac Vesperarum subiunximus, qui simul est initium duodecimae, et postremae horae diurnae, ac Completorij. Ibi enim tempus pro Vesperis decantandis terminatur, et incipit pro Completorio.

Nel medioevo, le meridiane canoniche erano basate sul

sistema orario Temporario, cioè sulla suddivisione del giorno e della notte in 12 parti uguali, da cui si ha che la durata del giorno ( e quindi della notte) varia a seconda del periodo dell’anno. Grazie ad esse, i religiosi potevano, osservando l’ombra dello stilo, conoscere subito il momento esatto degli Uffici. Ma questa bella comodità scomparve, verso il XIV secolo, con l’adozione da parte della Chiesa, degli orologi da torre a campana ad ore Italiche, o “all’Italiana”, con il quale computavano la durata del giorno da un tramonto del sole a quello successivo, contando le ore da 0 a 24. Infatti, se già nel XIII secolo le meridiane canoniche avevano oramai fatto il loro tempo, con l’orologio meccanico che acquistava sempre maggiore popolarità, esse scomparvero del tutto, lasciando sprovvisti i monaci di un così semplice ed utile strumento (anche se inutile di notte e col cielo nuvolo).

Calcolare in quale ora Italica (quindi del loro orologio

meccanico) le campane dovessero suonare le corrispondenti Ore Canoniche, era una pratica tutt’altro che facile alla quale il significator horarum, cioè il monaco addetto a suonare le campane nelle Ore Canoniche, certamente riusciva ad abituarsi

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con l’esercizio, ma era pur sempre costretto a consultare le tavole astronomiche. E il Francolini non si dispensa dal citare le più importanti tavole astronomiche della sua epoca di autori come Giovanni Muller detto Regiomontano, Giovanni Stofler, Cristoforo Clavio, ecc. E sono sempre loro, i monaci che si prodigano per lo sviluppo ed il progresso delle tecniche di misurazione del tempo.

Questo secondo passo di Marcello Francolini, servirà per

dare un’idea di cosa dovesse fare un monaco del tempo per conoscere in quale ora Italica si hanno le Ore Canoniche legate al sistema delle ore Temporarie antiche:

“Ex ea autem Tabula cognito tempore semidiurno in

Signis Borealibus, quae sunt Ariet. Taurus. Gemini. Cancer. Leo. Virgo. Vel cognito tempore seminocturno in Signis Australibus, quae sunt Libra. Scorpius. Sagittarius. Capricornus. Aquarius. Pisces. facile per subtractionem, aut additionem omnia momenta a nobis proposita haberi poterunt.

Scito (verbi gratia) per huiusmodi Tabulam tempore semidiurno in principio Tauri, et Virginis, Signorum Borealium ad elevationem poli in grad.42 esse hor. 6. min.42. statim per duplicationem dicti temporis habebo, quantitatem diei artificialis esse hor.13.min.24.

Quibus subtractis ex horis. 24. cognoscam, durationem noctis esse hor.10 min.36. Et sic ea hora Solem oriri pronunciabo.

Rurs divisa noctis quantitate in duas partes, vel subtracto tempore semidiurno ex horis.12. statim eliciam, tempus seminocturnum, sive mediam noctem esse hor 5.min.18.

Qua noctis medietate iterum subdivisa in dua alias partes, et una ex illis addita ad ipsam noctis medietatem, vel ex tota nocte subtracta, cognoscam quam primum tertiam vigiliam noctis finem accipere, et quartam inchoare hor.7min.57.

Quòd si tempus semidiurnum spatio noctis adiecero, vel potius tempori seminocturno duodecim horas addidero, inveniam illico, meridiem esse hor.17.min.18.

Et si temporis semidiurni medietatem adiecero meridie,

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vel ex horis 24, subduxero, dicam, Nonam esse, et compleri hor.20min.39.

Si vero eamdem medietatem temporis semidiurni spatio noctis adiecero; vel facilius tertiae noctis vigiliae sex horas cumulauero, dicam, Tertiam esse, et compleri hor.13.min.57.

Quòd si postremo dictam medietatem semidiurni temporis in tres aequales partes subdivisero, et unam ex illis, quae est hora diei inequalis, spatio noctis adiecero, illico sciam, Primae finem esse hor 11.min.43.

Et similiter si si eamdem horam inequalem ab horis.24 subtraxero, Undecimae finem, seu Duodecimae initium esse sciam hor.22.min.53.

Et haec quidem quantum ad supputationem, quae est secundum horologia Italica...”

Questo passo merita due parole di commento.

Innanzitutto, per i non esperti in gnomonica, è bene spiegare che anticamente i calcoli astronomici calendariali erano basati sull’ingresso del sole nei segni dello zodiaco. Così, Francolini, parla di segni zodiacali e non di date. L’esempio che egli riporta è relativo all’ingresso del sole nel segno zodiacale del Toro e della Vergine, corrispondente ai giorni 20 aprile e 23 agosto e per un luogo di latitudine pari a 42 gradi (per esempio Roma). Egli dice che dalla tavola si rileva che il tempo semidiurno (sorgere del Sole-mezzogiorno), cioè la metà della durata del giorno chiaro relativo ai due giorni dell’esempio, è di 6 ore e 42 minuti. Sulla base di questa informazione è possibile ricavare tutti i dati seguenti:

• il doppio del tempo semidiurno dà il giorno artificiale pari a 13 ore e 24 minuti;

• Sottraendo a 24 ore il giorno artificiale, si ottiene la durata della notte (24 h 00m - 13h 24m = 10h 36m).

• Se si divide la durata della notte in due parti uguali , o sottraendo il tempo semidiurno a 12 ore, si ottiene il tempo della mezzanotte (10h 36m/2 = 5h 18m; 12h - 6h 42m = 5h 18m);

• Se questo tempo viene suddiviso in altre due parti uguali e una di queste viene sommata alla metà della durata

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della notte si conosce il momento della fine della terza vigilia notturna e l’inizio della quarta (5h 18m/2 = 2h 39m; 2h 39m + 5h 18m = 7h 57m); se la stessa quantità di tempo (2h 39m) viene sottratta alla durata dell’intera notte, si ho lo stesso risultato: 10h 36m (durata della notte) - 2h 39m = 7h 57m.

• Se si aggiungono 12 ore al tempo seminotturno, si trova il momento del mezzogiorno che è a 17ore e 18 minuti (12h + 5h 18m = 17h 18m).

• Se si aggiunge la metà del tempo semidiurno al mezzogiorno, o lo si sottrae alle 24 ore, si ottiene l’ora Nona e saranno completate 20 ore e 39 minuti dell’orologio Italico. In pratica la metà del tempo semidiurno è 6h 42m / 2= 3h 21m; aggiungendo questo tempo (3h 21m) al mezzogiorno, si ha l’ora Nona temporale nella rispettiva ora civile astronomica 12h+3h21m= 15h 21m; se lo stesso tempo (3h 21m) lo si sottrae a 24h, si ottiene la stessa ora Nona nella rispettiva ora Italica 24h - 3h 21m = 20h 39m. Ciò significa che il “significator horarum” dovrebbe suonare l’ora Nona temporaria o alle 15 e 21 dell’orologio francese (come i nostri orologi da polso), o alle 20 ore e 39 minuti dell’orologio ad ore Italiche.

• Se si cumulano 6 ore al momento della fine della terza vigilia (7h 57m), o se si aggiunge alla durata della notte (10h 36m) la metà del tempo semidiurno, pari a 3h 21m, si ottiene l’ora Terza canonica alle 13h e 57 minuti.

• Se si suddivide in tre parti la metà del tempo semidiurno e una di queste la si aggiunge alla durata della notte, si ha che la fine dell’ora canonica Prima è alle 11 ore e 43 minuti dell’orologio Italico.

• Similmente, se la stessa terza parte del tempo semidiurno la si sottrae a 24 ore, si ottiene la fine dell’ora Undecima, o l’inizio della Dodicesima a 22 ore e 53 minuti dell’orologio Italico.

Per quanto riguarda gli orologi “oltramontani”, o “fuori

d’Italia”, come dice lo stesso Francolini, il computo è di molto semplificato. Dalla traduzione del passo successivo si ha: “...Il tempo seminotturno dà il sorgere del Sole e il tempo semidiurno

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dà il tramonto; la metà del tempo seminotturno dà la fine della terza vigilia alla quale, se si aggiunge sei ore, si ottiene la fine dell’ora Terza canonica. Se la detta metà del tempo semidiurno viene divisa in tre parti uguali e una di queste si aggiunge al tempo seminotturno si avrà la fine dell’ora Prima...Quindi basta conoscere il tempo semidiurno o seminotturno dalle tavole di Giovanni da Monte Regio, per ottenere con facili operazioni tutte le ore ineguali (temporarie) sia sugli orologi Italici che quelli fuori d’Italia, e ognuno le ottiene velocemente e questo certamente basta per la conoscenza di tutte le Ore Canoniche” 157.

Questi problemi non sono neppure presi in

considerazione nei libri moderni sulla misurazione del tempo. Addirittura ho potuto notare che l’argomento è trattato con eccessiva superficialità anche da autorevoli scrittori di libri sulla gnomonica e le perplessità non mancano neppure in eccellenti autori di narrativa. Per esempio, Umberto Eco, ne “Il Nome della rosa”, scrive : “Una certa perplessità mi hanno dato i riferimenti di Adso alle ore canoniche, perché non solo la loro individuazione varia a seconda delle località e delle stagioni, ma con ogni probabilità nel XIV secolo non ci si atteneva con assoluta precisione alle indicazioni fissate da san Benedetto nella regola”158. E sulla scorta dell’opera di Edouard Achneider, “Les heures bénédictines” (Paris, Grasset, 1925), e in base alla regola originale, egli deduce il seguente schema :

mattutino tra le 2,30 e le 3 di notte Laudi tra le 5 e le 6 di mattina Prima verso le 7.30 Terza verso le 9

157 Marcelli Francolini, op. cit., p. 477 (14). 158 Umberto Eco, il Nome della Rosa : Eco Umberto, Il Nome della Rosa, Tascabili Bompiani, Gruppo EditorialeFabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas, Milano, 1989, pag. 16

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Sesta Mezzogiorno Nona tra le 2 e le 3 pomeridiane Vespro verso le 4.30, al tramonto Compieta verso le 6 Il passo di Eco ci fa credere che dal XVI secolo i monaci

adottarono le tavole, ormai perfezionate, dei grandi astronomi (Regiomontano, ecc.), appunto per effettuare una più accurata determinazione dei momenti delle Ore Canoniche rispetto al tempo delle meridiane e degli orologi a campane ad ore Italiche, o ad ore Oltramontane. E quindi, il trattato di Francolini non può che essere una eccellente conferma a questa tesi, dal momento che egli si preoccupa proprio di stabilire il computo delle Ore Canoniche rapportando i vari sistemi di misura del tempo.

Anche gli altri autori non vanno oltre questa semplice e

generica indicazione. Essi riportano “quando” si dice Prima, Terza, Sesta, ecc., senza specificare la durata delle stesse rispetto agli altri sistemi orari. Addirittura in un famoso manuale liturgico vecchio di mezzo secolo, vengono date indicazioni sbagliate circa le fasce orarie corrispondenti alle ore canoniche :

“mane, dalle 6 alle 9 ; tertia, dalle 9 alle 12 ; sexta, dalle 12 alle 15 ; nona, dalle 15 alle 18”.

Il testo di Francolini, invece, ci permette di visualizzare

bene la durata delle Ore Canoniche rispetto agli altri sistemi orari, nei giorni degli equinozi. Infatti, solo in questi giorni, l’ora 6 Temporaria, la fine dell’ora Sesta Canonica, l’ora 12 Astronomica, l’ora 6 Babilonica e l’ora 18 Italica (come si vede nel disegno) combaciano. Ciò, sulle meridiane che riportano i sistemi Astronomico, Italico e Babilonico, si traduce nell’incontro della linea oraria 18 (italica), 6 (babilonica) e 12 (astronomica) nel punto in cui la linea meridiana è intersecata dalla linea equinoziale.

Se si ribalta di 180° lo schema in modo che le diciture

“prima, tertia, sexta”, si trovino sulla parte sinistra del quadrante, si ottiene un disegno che è molto simile ad una meridiana ad ore

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canoniche. Questo semplicemente perché l’ombra dello gnomone, in un orologio solare verticale, si muove nel senso opposto al moto del sole nel cielo, cioè da sinistra verso destra.

Francolini cita Domenico De Soto “virum doctissimum in

assignatione temporis pro horis canonicis”159 , e forse dal suo insegnamento ha tratto la sua figura chiarissima che ci permette di stabilire con precisione, almeno nel periodo attorno agli equinozi, quando la durata del giorno è uguale a quella della notte, la corrispondenza delle ore Canoniche con gli altri sistemi orari. Possiamo così vedere che al tramonto del sole (lato “occasus” in figura) comincia l’ora prima Italica, l’ora 7 Astronomica e la I Vigilia notturna la quale dura fino alle 3 ora Italica e 9 Astronomica. La seconda Vigilia termina a mezzanotte Astronomica e all’ora 6 Italica, mentre le Laudi cominciano alle 9 ora Italica, ovvero all’ora 3 Astronomica per terminare all’alba. L’ora Prima Canonica finisce alle 7 Astronomica e alle 13 Italica.

L’ora Sesta Canonica comincia alle 9 Astronomica e 15

ora italica per terminare alle 12 (mezzogiorno) Astronomica, o all’ora 18 Italica ( e non comincia quindi a mezzogiorno per finire alle 3 del pomeriggio!). Infatti, scrive Francolini nel testo : “...et post meridiem hora tertia dicitur Nona. Quae computatio tantum abest, ut toto tempore anni secundum quod ipse ait, sit vera, ut solum in tempore aequinoctiorum procedat : excepta tamen Sexta quae semper in meridie locum habet”160. Che conferma quanto già detto, e cioè che tale suddivisione è valida solo nel periodo degli equinozi, ma che l’ora Sesta (ovvero il termine dell’ora Sesta) comunque coincide sempre con il mezzogiorno locale. Infine, l’ora Nona Canonica comincia alle 12 Astronomica, 18 Italica e finisce alle 3 pomeridiane Astronomica e alle 21 ora Italica.

159 Marcelli Francolini, op. cit., p. 57 160 Marcelli Francolini, op. cit., p.57

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Nel disegno di Francolini la corrispondenza tra le Ore Canoniche e gli altri sistemi orari è relativa ai giorni attorno al solstizio estivo. Si nota subito che la durata del giorno chiaro (dies) è molto maggiore della durata della notte (nox) e che le suddivisioni delle linee tra i sistemi orari non coincidono più come nei giorni di equinozi. Si deve, peraltro, convenire sul fatto che questa rappresentazione è la più chiara che sia stata mai realizzata fino ad oggi ed è migliore di qualsiasi tabella, perchè permette proprio di visualizzare immediatamente i momenti e la durata delle Ore Canoniche rispetto agli altri sistemi orari, almeno nel periodo ai i quali si riferisce il disegno.

Possiamo così vedere che la Prima Ora Canonica, inizia alla 9 ora Italica, attorno alle 4,30 Astronomica e alla dodicesima temporaria; mentre la Sesta comincia a circa 12,45 ora Italica, 8,15 Astronomica, 3 ora Temporaria, e finisce a circa 16,30 ora Italica, 12 ora Astronomica, 6 ora Temporaria; mentre l’Ora Nona Canonica termina a circa 20,15 ora Italica, 3,45 ora Astronomica (pomeridiana), 9 ora Temporaria.

Da queste osservazioni si intuisce anche perchè i

momenti delle Ore Canoniche variano a seconda dei luoghi o, a dir meglio, a seconda delle latitudini. Infatti, a latitudini differenti, soprattutto di parecchi gradi (come per esempio Catania e Torino), la durata del giorno e della notte è diversa, ed essendo le ore Canoniche legate alla suddivisione Temporale basata sul giorno naturale, ne viene che esse hanno durata diversa a seconda della durata del giorno e della notte.

Quindi il problema maggiore era quello di conoscere il

tempo semidiurno, o quello seminotturno, cioè la durata del giorno-chiaro, dal sorgere del sole al suo tramonto, o la durata della notte che variano non solo per latitudini diverse, ma anche a seconda del periodo dell’anno. Tuttavia, pensiamo che il compito non sia stato più comodo che leggere direttamente su una meridiana i momenti delle Ore Canoniche.

Quando nel XIV secolo il tempo del mercante si uniformò all’orologio oltramontano, nella Chiesa si continuò a far uso delle ore ineguali, di cui fanno parte le Ore Canoniche e

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Calmet ci fa sapere che queste restarono in uso, come nell’ordine di Citeaux, almeno fino al Capitolo Generale dell’anno 1429161.

Esempi di meridiane canoniche La meridiana scoperta in Palestina verso la fine del 1800

è del tipo Hemicyclium. Sono contrassegnate le linee orarie temporarie corrispondenti alla Terza, Sesta e Nona per rappresentare i momenti delle Ore Canoniche principali. Questo orologio è rimasto quasi sconosciuto al pubblico appassionato di gnomonica e può farsi risalire almeno al III secolo d.C. Esso rappresenta una irrefutabile testimonianza dell’uso di meridiane canoniche anche nell’antichità.

Vediamo ora, brevemente, qualche altra meridiana canonica “notevole” (si veda la tavola con le varie figure di meridiane canoniche). Una si trova presso la chiesa di Bishopstone (Sussex). Si pensa che risalga alla costruzione della chiesa che sembra essere di mano anglosassone, eretta, forse, nel periodo di transizione allo stile dell’architettura normanna. La presenza di alcune parti in stile greco potrebbe far pensare che l’orologio sia di epoca anteriore, ma i caratteri delle lettere che formano la parola EADRIC appaiono piuttosto in stile normanno, . Questa però è solo un’ipotesi. E’ da considerare, invece, che la pietra con cui è fatto l’orologio non è uguale alle altre che costituiscono le mura della chiesa, per cui potrebbe essere stato aggiunto molto tempo dopo.

Un altro bellissimo orologio canonico si trova sulla porta che guarda a Sud, della chiesa di Kirkdale, nel Yorkschire. Esso è accompagnato da una iscrizione sassone che menziona l’acquisto e il restauro della chiesa di Sait-Grégoire, di Orm, figlio di Gamal, all’epoca di Edoardo il Confessore (162). Anche sulla chiesa di Edstone, sempre nello Yorkschire, a quattro chilometri dalla precedente c’è una meridiana canonica. Si tratta ancora di un semicerchio suddiviso in varie parti, in genere da sette linee, con le ore Terza, Sesta e Nona contrassegnate con un 161 Calmet A., op. cit., p. 127 162 D. Haigh, op. cit., t.1, pag. 179

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simbolo, in questo caso un trattino. Compare il motto + OROLOGIV... ATORYVM e a fianco + LOTHAN ME WROHTEA.

Il primo potrebbe significare Or(o)logiu(m) (vi)atorum, cioè orologio utile ai viandanti, e il secondo Lothan me fecit.

Nella contea di Hampschire, si segnalano altri tre orologi canonici: uno incastrato dentro il muro posto a sud della chiesa di Corhampton che risale, probabilmente, all’epoca sassone; un altro si vede nella chiesa di Warnford, ricostruita nel XII secolo; un terzo si trova nella chiesa di Saint-Michel, nel Winchester. Infine, un’altra meridiana canonica notevole si trova sul muro rivolto a sud della Torre Sassone di Barnack, nel Northamptonshire.

In Italia si conoscono pochi esemplari di meridiane canoniche. A dire il vero, diversi sono gli orologi solari scoperti che riportano le ore temporarie, soprattutto di epoca tardo-romana, ma pochissimi sono quelli che possono effettivamente dirsi “meridiane canoniche”.

Le ore canoniche prima dell’Era Cristiana C’è una riflessione ancora da fare sulle ore canoniche, ed

è questa. Se si accetta la definizione di Ore Canoniche come quei particolari momenti dell’antica suddivisione delle ore temporali in cui i Monaci usavano esercitare le loro orazioni e salmodie, la loro stessa storia, allora, non nasce necessariamente nei primi secoli dell’Era Cristiana. Dobbiamo, infatti, tener presente che le ore delle preghiere furono in uso molto tempo prima in oriente: così alcuni autori leggono nell’Ecclesiastico alcuni termini che significano i tempi di recitare le Ore Canoniche, come per esempio nel cap. 6.10 della Profezia del Caldeo Daniele (vissuto nel 600 a.C. circa) è scritto che egli “apriva le finestre verso Gerusalemme, per conformarsi con quanto aveva detto Salomone, cioè Orava tre volte al giorno”, sebbene non precisasse puntualmente in quali ore, ma è probabile - credono gli interpreti delle Scritture - che lo facesse la mattina, a mezzogiorno e la sera, cioè all’ora Terza, Sesta e Nona, conforme anche a quanto dice Davide nel salmo 54.18:

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“Vespere, et mane, et meridie narraho, et annuntiabo, et exaudiet vocem meam”.

Da ciò possiamo capire che il sistema delle ore canoniche, nel senso della scelta di un computo del tempo per fissare i particolari momenti della preghiera, risale almeno al VII secolo a. C.. E quindi, si potrebbe dire che la storia delle Ore Canoniche Romane, chiamate Cursus, risale ai primi anni dell’Era Volgare, e la storia delle Ore Canoniche Benedettine, comincia con S. Benedetto, nel VI secolo.

Una “vexata quaestio”: Gesù fu davvero crocifisso

all’ora Terza? Una diatriba interessante, che si può ormai definire

millenaria, è la celebre questione dell’ora nella quale fu crocifisso Gesù, che ha dato molto da fare agli eruditi e agli interpreti delle Sacre Scritture, i quali cercarono di accordare quanto hanno scritto in proposito gli Evangelisti S. Marco e S. Giovanni. Si parla, naturalmente, di ore temporarie nel periodo della Passione del Signore, quindi non molto lontano dall’equinozio primaverile.

S. Marco dice al cap. 15.25: Erat autem hora Tertia, et crucifixerunt eum. Mentre S. Giovanni, nel cap. 19.14 scrive: erat hora quasi Sexta.

I primi commentatori erano del parere che fosse in errore il testo di S. Giovanni, nel quale si doveva leggere “hora quasi Tertia”. Al contrario, S. Girolamo (347-419 c.ca), scrivendo sopra il salmo 77, si persuase che l’errore fosse in S. Marco, nel quale si doveva leggere “Erat autem hora Sexta”.

S. Eutìmio (377-473), stima che veramente Gesù fosse stato crocifisso all’ora Sesta, in accordo con S. Giovanni. S. Marco, invece, dice che fu chiesta la condanna all’ora Terza, perchè allora i Giudei gridarono “Crucifige, crucifige eum”, ma che, in realtà, Gesù fu posto sulla croce solo all’ora Sesta; ed è questa anche l’esposizione di S. Agostino.

Se le antiche ore Temporarie venivano distinte con le quattro ore cosiddette “minori”, cioè con Prima, Terza, Sesta e Nona e che ognuna di queste, in appresso adottate come ore Canoniche, comprendevano tre ore temporali, possiamo risolvere

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il problema nel modo seguente. Dopo l’ora Prima (dalle 6 alle 9 circa)163 viene subito

l’ora Terza (9-12) e dopo questa viene subito l’ora Sesta (12-15), per cui Gesù fu crocifisso “hora Tertia”, come scrive S. Marco, e “Hora quasi Sexta”, come dice S. Giovanni, perchè già stava per cominciare l’ora Sesta, e finiva l’ora Terza. A dir meglio, dunque, Cristo fu crocifisso all’ora Terza perchè Pilato, ad istanza dei Giudei che gridavano “Crucifige, crucifige”, lo destinò alla morte della Croce, ma è giusto anche dire che fu crocifisso all’ora quasi Sesta, perchè in quest’ora fu eseguita la sentenza. Tale conclusione trova conferma in S. Clemente Romano (sec. I d. C.), nel Lib. quinto delle Costituzioni Apostoliche, ove è scritto: “Ligno crucis hora quidem Sexta affixerunt, hora vero Tertia sententiam contra eum pronunciatam acceperunt”, e nel Lib. 8 egli esorta a fare orazione all’ora Terza: “Tertia, quod ea hora Pilatus iudicium adversus Dominum pronunciavit. Sexta, quod ea hora in crucem actus est...”.

IL MEDIOEVO E LA GNOMONICA ARABA

42. Il Venerabile Beda L’adozione del computo detto Horarum Canonicarum da

parte dei Monaci Benedettini, dalla metà del VI secolo d.C., non contribuì a far luce sul profondo oblio in cui era immersa la Gnomonica in quell’epoca. Tuttavia, si deve attentamente valutare la preziosa opera di preservazione dello scibile umano, che soprattutto nell’erudito ambiente monastico aveva avuto il suo principale sviluppo. Dobbiamo convenire che la costruzione di orologi solari canonici servì in qualche modo a riflettere su come misurare il tempo a mezzo delle ombre solari. La Gnomonica, quindi, era viva. Ma, purtroppo, non siamo a 163 Gesù fu condannato verso il 7 aprile del 30 , poco tempo dopo l’equinozio di primavera.

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conoscenza di grandi opere sull’argomento, e gli unici monumenti che ci sono pervenuti li ho descritti alla fine del precedente capitolo, cioè qualche decina di orologi solari canonici.

Alcuni autorevoli autori moderni, s’ingannano affermando che alcune opere di uno dei massimi eruditi dell’Alto Medioevo, il monaco inglese Beda il Venerabile, rappresentano il massimo traguardo raggiunto dalla Gnomonica di quel tempo. Egli nacque probabilmente nel 672, nei pressi dei due monasteri gemelli di Wearmouth e Jarrow, vicino ai fiumi Tyne e Wear. Le opere di Beda sono essenzialmente di carattere cronologico (quelle che più ci interessano). Il De natura rerum, composto attorno al 703, non è un trattato di Gnomonica, come si crede, ma è un trattato di cosmografia in 51 capitoli, in cui la meteorologia viene trattata con particolare attenzione. Il materiale è poi ricavato in gran parte dagli scritti di Isidoro, Svetonio e Plinio, con un’esposizione però degna della sua grande erudizione.

Il De temporibus liber , dello stesso periodo, in 22 capitoli, sviluppa alcuni filoni cronografici dell’opera precedente: sul tempo astronomico come i minuti e le ore, i giorni e le notti; le settimane; i mesi; le stagioni; gli anni; le età del mondo, i movimenti degli astri, ma in particolare (5 capitoli) viene trattato uno dei problemi cronologici più importanti dell’epoca: la datazione della Pasqua.

Nel 725, a 52 anni di età, Beda scrisse l’opera che sarà materia di studio per tutte le scuole dell’Europa, fino alla fine del medioevo: il De temporum ratione, o De temporibus liber maior, in 71 capitoli. Gli argomenti trattati sono il calcolo digitale, o indigitazione, un sistema empirico di numerazione già in uso nell’epoca romana; nei capitoli 8-10 parla della settimana, quindi dei mesi, con molte fonti storiche riportate; nei cap. 17-19 sui moti della Luna, e delle maree. Al cap. 30 della compilazione dei calendari e poi sulla lunghezza delle ombre, dei moti celesti e del ciclo di 19 anni (decennovennale) che è alla base dei suoi computi per la data della Pasqua, ecc.

Gli argomenti più attinenti alla Gnomonica, che il dotto monaco inglese ci ha lasciato, sono un “Libellus de Astrolabio”,

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due paginette in cui descrive rapidamente la costruzione dei circoli più importanti dello strumento e il “Libellus de mensura Horologii”, che deluderebbe gli gnomonisti che si aspettano un grande trattato sulla Gnomonica. Infatti, si tratta di una breve descrizione, in due paginette, del quadrante chiamato orologio, con quale è possibile conoscere l’ora attraverso l’ombra del corpo umano misurata in “piedi” (un piede= c.ca 30 cm):

HOROLOGIUM QUOD CONTRA UNUMQUEMQUE

MENSEM HABET AD UMBRAM HUMANI CORPORIS PEDE SINGULARUM HORARUM DIEI.

Questo “libellus” ci fornisce la prova che ai tempi di

Beda non si usavano altre tipi di orologi solari, se non qualche meridiana canonica, e che questo metodo, che si può trovare anche in altri testi di autori coevi e di altri vissuti intorno all’anno Mille, doveva essere sicuramente il più popolare. Ad esso Beda fa seguire l’esposizione del modo di trovare la linea meridiana, che è praticamente identico al metodo famoso detto “dei giardinieri”, o “delle altezze corrispondenti del sole sull’orizzonte”.

43. I vasi oroscopi,, orologi solari sconosciuti Notizie veramente interessanti, invece, si ricavano dalla

glossa et scolia, cioè un commento con delle note, aggiunto dal glossatore durante la compilazione delle prime copie dei codici di Beda. Nel cap. XXXI del De temporum ratione, Beda cita un passo di Plinio in cui si legge “Vasaque horoscopii”. Il glossatore, che si firma Brideserto Ramesiensi, fa una breve ricapitolazione e specifica che “I vasi dell’oroscopo (vasa horoscopi), sono gli strumenti a forma di vaso concavo, simili a quelli che contengono l’acqua, per mezzo dei quali ci si può accertare dell’ora. Ce ne sono di diversi per ogni regione e così in greco sono chiamati “scopon” e in latino “intentio”. L’oroscopo (horoscopus) è un nome composto da orologio e “scopon”; ma l’oroscopo (horoscopum) è pure l’intenzione orologica (horologica intentio) ed essi non hanno sempre lo

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stesso uso e cioè non sono uguali. Eratostene pose i vasi oroscopi a seconda degli intervalli locali (latitudini) e in un solo giorno fece osservare e notare in tutti gli oroscopi l’ombra del mezzogiorno...” (164). Questo passo ci offre l’occasione per fare una piccola digressione su questo misterioso “horoscopum”.

Sempre nello stesso capitolo e sullo stesso passo, segue uno “scholia” a firma di Joan. Nov., in cui si legge: “Presso Plinio si legge non “dell’oroscopo”, ma appositamente “vasi oroscopi”. Questi vasi oroscopi sono a forma di emisfero scavato e contengono nell’interno l’immagine di una sfera (proiezione, cioè, dei principali circoli celesti) adatta all’osservazione dei tempi e dei corsi celesti. Vitruvio ne attribuisce l’invenzione ad Aristarco di Samo, chiamandolo “scaphio”, ed “haemisphaerium”. Quando mi accingevo ad iniziare questa ricerca, alcuni anni fa, ricordo di averne realizzato uno per il Magnifico e onestissimo uomo Don Rheinardo, Conte di Westenburch, Decano maggiore della Chiesa di Colonia”.

Il glossatore ci offre una descrizione e un rarissimo disegno dello strumento da lui realizzato o restaurato, (figura davvero preziosa se si considera che è finora l’unica che si conosce pervenutaci da quella lontana epoca):

“E’ da interpretare che AB è il labbro o l’orifizio piano superiore della materia scavata, FG lo stilo eretto la cui estremità G mostra il Polo artico, F l’antartico, C il centro della cavità interna, al quale corrisponde il punto sotterraneo che chiamiamo Nadir, DE lo zodiaco ornato di stelle, descritto attraverso i paralleli dei segni nella cavità interna, essendo adibito a ciò, si 164 Ecco il passo originale del glossatore: "Vasa horoscopi, id est, machinae quaedam in vasis ex aquis conchaque quo certam horam scire possint, similia non sunt in unaquaque regione. Scopo graece, intentio Latine. Horoscopus compositum nomen est ex horologio et scopon. Horoscopum est horologica intentio. Non eadem sunt usui, id est, non aequalia sunt. Eratosthenes geometra subtilissimus per intervalla locorum, vasa horoscopi posuit, atque una diei in omnibus umbram meridiani temporis observari notarique fecit, quantae esset longitudinis; et sic comperit quod ultra quingenta stadia, ad unius longitudinis gnomon umbra non respondit...".

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indica a guisa di un quadrante...”. La figura di cui parliamo, è oltremodo interessante per una particolarità unica, finora mai riscontrata in altre immagini: l’emisferio orologio descritto dal glossatore, nella figura presenta lo stilo disposto, per la prima volta in uno strumento simile, parallelamente all’asse terrestre.

Risulta evidente, dalla fonte riportata, che l’”horoscopum” era nell’antichità chiamato un orologio solare evidentemente equivalente all’emisfero di Aristarco. Anche su questo strumento abbiamo una erudita dissertazione di Claudio Salmasio che in buona parte riporto nella nota, in cui si legge che qualche autore antico identifica l’oroscopium con uno strumento del tipo astrolabio (165).

In un codice della Biblioteca Bodleiana si riportano schemi e diagrammi riguardanti il ciclo orario o oroscopo 165 Claudio Salmasio, Plinianae exercitationes in Caii Julii Solini Polyhistoria, pag.458 G, A,B,C,D,E,F,G: "Vasa horoscopa appellat (tà oroscopia). Et vasa quidem vocat, quia erant ad instar vasis concava, utpote scaphiis, sive (scaphia) similia. Unde et scaphia Martiano Capella: Scaphia, inquit, dicuntur rotunda ex aere vasa, quae horarum ductus, etc. Idem et horoscopa ibidem vocat, ubi Plinii locum imitatur: denique ipsa vasa, quae horoscopa, vel horologica memorantur, pro locorum diversitatibus immutata componuntur, alioque gnomone ultra quingenta stadia discernuntur umbris, pro polorum aut elationibus celsis, aut inclinationibus infimatis. Ita distinguendum, ac legendum. Ut vasa horologica sunt (tà orologia), sic horoscopa vasa (tà oroscopia). Tertullianus, qui Plinium diligenter lectitarat, horoscopa similiter appellat (tà orologia) ut ante biennium ad Pallium ejus docuimus, ubi "araneorum horoscopa" eleganter vocitavit telas araneorum multis lineis, ac filis à centro ductis, ad circumferentiam distinctas, quia ad hanc formam lineis plurifariam ductis à medio, ubi est gnomon, descripta sunt horoscopa vasa. (...) Male in scriptis Plinii exemplaribus "horospica vasa" vocantur. Fortasse scripserat, "horoscopica", (tà oroscopica) (...). Hephaestion lib II ...astrolabum vocat (oroscopion)...Alia omnia horoscopia praeter astrolabum improbat...(...). Vocat (eliaca) solaria, et (sciotera), sive gnomonica horoscopia...

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(horoscopium) il quale indica la lunghezza dell’ombra nelle singole ore, per i singoli mesi” (vedi bibliografia).

Altre fonti ancora testimoniano l’uso di questo strumento. Ermanno Contratto, nel secolo XI (vedi oltre), riporta nella sua opera sull’Astrolabio: “Gradu Solis invento et in Alhancabuth annotato Nadair Ascemath, id est: oppositum Solis invenire debes, quod nos Horoscopon dicere possumus, eo quod inspiciendo horas designat” (166).

Andrea Cirino (167) scrisse: “E’ testimoniato che anticamente Celio (168 )trovò le ore grazie allo strumento chiamato “Horoscopion”. Presso Manilio (169) si trova “Oroscopare”, e presso Firmico (170) “Segni oroscopanti”. E quindi Celio (171), nelle osservazioni ai monumenti degli antichi dice, “sono detti vasi oroscopi con i quali si mostrano le ore”.

Mi viene in mente di mettere a confronto, se non tentare una identificazione, lo strumento descritto dal glossatore, che ha lo stilo parallelo all’asse terrestre, e che chiama “vas horoscopum”, con il “polos” dell’antichità sul quale Democrito scrisse il famoso, quanto sconosciuto, trattato, che si differenzierebbe dagli “scaphen” o dagli “hemisphaerium” citati da Vitruvio, anche solo per la diversa disposizione dello stilo.

44. Il Meteoroscopo tolemaico Infine vorrei parlare di un certo Prof. Impseri che, nel

1549, scrisse un volume sulla composizione di uno strumento chiamato “Meteoroscopo” tolemaico, sulla base delle 166 Hermanno Contratto, De mensura astrolabi liber, Lib. II, cap. IV De utilit. Astrolabii. Edizione R.P. Pezii Thesauri Anecdot. Novis. Tom. III, Parte II. 167 A. Cirino, De urbe Roma, 1735, cap. 54, pag. 594 168 Celio Antipatro Lucio, storico romano della seconda metà del secolo II a. C. 169 Marco Manilio, scrittore latino vissuto probabilmente nell'epoca di Augusto imp., scrisse il poema Astronomicon. 170 Firmico Materno Giulio, scrittore latino del IV secolo d.C. 171 Caelius, Lib. XII, cap. IX

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descrizioni, o le opinioni, di Giovanni Regiomontano. Non si sa nulla di preciso sulla natura di questo antico strumento costruito da Tolomeo nel secolo II d. C., per mezzo del quale, l’astronomo raccolse una buona parte dei dati delle osservazioni scritte nelle sue opere. Al tempo di Regiomontano si ebbero delle forti dispute tra i matematici, sulla possibile composizione, o struttura dello strumento di Tolomeo. Munsterus scrisse “Non è chiaro quale strumento fosse il Meteoroscopio di Tolomeo”, e in seguito si pronunciarono Pietro Apiano, Regiomontano. Willebrordus, J. Wernerus, J. Schonerus ed altri.

Lo strumento descritto da Impseri, consta di XVII parti e lo definisce uno strumento “armillare”, le cui funzioni principali sono quelle di determinare la posizione del Sole, la sua declinazione, l’ora del giorno col Sole, la latitudine, la longitudine, ricercare l’ora notturna attraverso l’osservazione delle stelle fisse, trovare la linea meridiana di giorno e di notte ed altre cose ancora.

Inoltre, il Prof. Impseri, sempre nel 1549, ha composto un “meteoroscopium planum”, altrimenti chiamato “Horometrum pensile”, adatto a qualsiasi latitudine. Esso è utile a ricavare l’ora equinoziale, o astronomica, col sole e la linea meridiana, in qualsiasi regione; lo stesso per l’elevazione polare in qualsiasi ora ecc. Quindi sembra che questo sia il meteoroscopio di Tolomeoin formato ridotto, reso portatile. In un altro volume egli parla della realizzazione pratica della sfera con tutti i circoli, e in un altro della costruzione di un Astrario, Astrolabi e vari altri strumenti.

45. L’OPERA DEGLI ARABI E I CODICI MANOSCRITTI

Abbiamo visto, nelle pagine precedenti che, nonostante la

vastità degli argomenti trattati da Beda, la sua opera non ha svolto un ruolo decisivo nella storia della Gnomonica. I suoi scritti furono copiati per oltre due secoli e costituirono l’unico punto di riferimento della cultura europea, fino a quando non cominciò lopera di divulgazione dei manoscritti orientali,

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trasmessi all’occidente cristiano attraverso le traduzioni di personaggi come Ermanno Contratto, Adelardo di Bath, Burgundio da Pisa, Aristippo di Palermo, Ermanno il Dalmata, Gerardo da Cremona e tanti altri. Gli Arabi, quindi, furono i veri eredi della scienza alessandrina e della gnomonica, e i loro studi scientifici costituirono la palestra della cultura occidentale fino al XV secolo.

Lo sviluppo della cultura araba può farsi iniziare con il califfato di Harum al Raschid, verso la fine del secolo VIII. Ma già dal VII secolo, a seguito delle grandi conquiste territoriali, i popoli orientali furono soggetti ad un lento, quanto importante, rimescolamento di arti, tradizioni e tendenze religiose e intellettuali, delle più varie ed opposte. L’intensa attività intellettuale di quell’epoca e in particolare a cominciare dal califfato di Al Mamun, figlio di Al Raschid, è riscontrabile già nella grande ed inestimabile opera di traduzioni che impegnò per secoli gli eruditi arabi: Thabet Ebn Korrab, medico, matematico e filosofo arabo vissuto nel 900, fu tra i primi a tradurre dal greco Autolico, Euclide e Archimede; mentre Costa Ebn Luca eliopolitano, insigne filosofo cristiano che nacque nell’864, tradusse Teodosio, Aristarco ed Asclepio; Abulphetaho spagnolo fu il primo a tradurre in arabo i libri di Apollonio di Pergamo sulle sezioni coniche, sotto il califfato di Al-Mamun, nell’anno 825 di Cristo; altri insigni matematici e filosofi impegnarono la loro esistenza per tradurre tutti gli altri autori antichi, i cui manoscritti furono conservati nelle biblioteche delle scuole musulmane. Alcuni dei commentatori curarono le traduzioni delle opere di Claudio Tolomeo: Teone alessandrino e Proclo nell’antichità. Nel periodo arabo le “epitome” all’Almagesto a cura di Hazemii e Averroè; come quelle al “Centiloquio” e al “Quadripartito” a cura di Haly e del figlio Eli, nel 1100; la traduzione dall’arabo in latino dell’Almagesto a cura di Giorgio Trapezuntio e il commento di Ermanno Contratto, nel sec. XI, sullo strumento chiamato Wallachora, usato da Tolomeo per le sue osservazioni astronomiche. Infine il commentario all’Almagesto di Nassireddino Tusensi, vissuto nel 1290.

Questo, è il caso di dire, astronomico impegno di traduzione, in particolare delle opere scientifiche, costituì lo

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slancio principale per l’approfondimento delle ricerche nell’Astronomia, la base di partenza per le nuove osservazioni astronomiche che furono effettuate in grandiosi osservatori appositamente costruiti, come quello di Damasco e di Bagdad. Questi “opifici di sapienza”, erano forniti di eccellenti strumenti scientifici, del tutto simili a quelli greci di mille anni prima, ma di migliore fattura e precisione, che servirono agli astronomi per migliorare le loro osservazioni, necessarie per la compilazione delle “Tavole” contenenti i dati astronomici. Quasi sempre, le opere di astronomia scritte dagli studiosi arabi, comprendono capitoli, più o meno estesi, riguardanti il computo del tempo e la descrizione di strumenti astronomici e gnomonici, come quadranti, astrolabi, sfere armillari, meridiane, globi celesti, e via dicendo.

Certamente più rare delle opere di astronomia, furono quelle di Gnomonica, anche se non siamo in grado di dire con precisione quante ne furono scritte e quante stampate e pubblicate. Possiamo, comunque, attestare sulla base di quanto si è potuto trovare in questa limitata ricerca storica, che i trattati di gnomonica e, in genere, sugli orologi solari scritti dagli arabi nel periodo compreso tra il IX e il XIV secolo, superano tranquillamente la cinquantina (vedi bibliografia generale sulla gnomonica).

Tra i primi e più celebri astronomi arabi è da annoverare Ahmad Ibn Muhammad Al Fargagni, latinizzato in Alfraganus, che visse nel IX secolo. Circa nell’anno 820 trovò la massima declinazione del sole stimandola in 23 gradi e 35 primi; scrisse un’opera molto importante: “Elementi di astronomia”, che fu tradotta in latino nel XII secolo, e un libro sugli orologi solari e sulle forme dei planisferi, cioè sui globi celesti (172). Guglielmo Pastregico (sec. XVI) riferisce di un’altra opera, un manoscritto conservato nella Biblioteca Medicea: “Il libro dell’insieme della scienza delle stelle e dei principi dei moti celesti”; mentre nella Bodleiana è conservato un altro codice di Alfragano: “Cosmografia”. 172 C. Heilbronner, Op. cit. pag. 426, par. 375

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Di qualche anno più giovane è un altro grande della scienza araba: Muhammed Al Battani, noto come Albategno, morto nel 929. Egli dimostrò in quale modo si possono costruire gli orologi solari a ore ineguali e fino a quale latitudine. L’eclisse di sole dell’8 agosto 891, fu da lui osservata e indicò che l’evento vi fu all’”hora una temporali posto meridiem”, lasciandoci così una delle ultime, e più autorevoli, testimonianze dell’uso delle ore temporali (173).

Sempre verso la fine del secolo IX, l’arabo Bethem, lasciò cinquecento aforismi sull’astrologia Judiciaria e un libretto sulle ore planetarie tradotto e stampato a Venezia nel 1493 (174).

Un altro grande astronomo fu al-Hasan Ibn Alì ‘Umar al-Marrakuschi, vissuto nel XIII secolo. Egli scrisse un trattato dal titolo Jami al-mabadi’ wa ‘l-ghayat, sulla costruzione ed uso di alcuni strumenti astronomici e matematici, in cui sono esposti per la prima volta i canoni per disegnare le linee orarie su superfici cilindriche. Per questo, alcuni autori hanno creduto che il famoso orologio del pastore, cioè la meridiana portatile cilindrica, risalisse a quest’epoca. Ma come vedremo più avanti, le radici di quest’orologio affondano ancora più indietro nel tempo.

Muhammad Ibn Ahmed al-Biruni, è un’altra stella del firmamento scientifico arabo che ha sicuramente trattato anche di Gnomonica in una delle sue opere di Astronomia. Per un elenco delle opere di Gnomonica degli arabi si rimanda a una consultazione dell’approfonditissima bibliografia riportata alla fine.

173 Idem, pag. 430, par. 386 174 Idem, pag. 431, par. 392. Ristampato a Basilea da Hervagius nel 1533, con Julio Firmico ed altri. Anche Giovanni Stofflerino conferma tale notizia nel suo libro "Elucidatio Fabricae ususque astrolabi", Lutetiae, 1553: "... Et praecipué Bethem, qui de horis planetarum compsuit tractatum, cuius principium est: cum fuerit hora saturni, etc...".

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46. La gnomonica araba. Fu durante la spedizione napoleonica in terra d’Egitto, nel

1798, che uno degli studiosi del corpo scientifico, un certo M. Marcel, trovò ai piedi di un muro del minareto attiguo alla Moschea di Ahmed ben-Thouloun, nella città del cairo, alcuni frammenti di una pietra recante misteriose incisioni. Egli ne fece subito un disegno, anche abbastanza preciso, delle incisioni che aveva sotto gli occhi, e decise che sarebbe ripassato a riprenderla al più presto. Senonchè, al suo ritorno le pietre erano inspiegabilmente scomparse.

Per fortuna ci è rimasto il disegno di Marcel, pubblicato nella grande opera Description de l’Egypte, a testimonianza del primo incontro della gnomonica araba con gli studiosi del secolo XVIII. Infatti, si deve tener presente che le opere degli Arabi, e quindi i manoscritti di Astronomia e di Gnomonica, erano già patrimonio culturale degli uomini eruditi vissuti in Occidente fra il X e XIII secolo. Per cui, direi, che quella di Marcel non è una scoperta, ma una “riscoperta” della Gnomonica araba. Inoltre, la sua premura di fare subito un disegno delle incisioni, ci ha regalato la bellissima immagine di quei frammenti che insieme formavano una stupenda meridiana, ormai scomparsa per sempre, con un tracciato orario tanto bello ed elegante, quanto insolito ed originale. La pietra su cui era incisa la meridiana araba era lunga circa 27 pollici e larga 21. Vi erano riportati i quattro punti cardinali, come nell’orologio orizzontale, chiamato “basithah”, di Aboul Hasan (175), e disposti nello stesso modo. La latitudine per la quale fu costruita la meridiana era quella del Cairo, cioè circa 30 gradi e risalirebbe all’anno 696 dell’Egira, cioè al 1296 dell’era cristiana (176). E’ presente anche un motto 175 Aboul Hasan, trad. di J.J. Sedillot, t. II, p. 488 e pl. XV. 176 M.L.A.M. Sédillot, Memoire sur les instruments astronomiques des Arabes, in Memoires des Inscriptions et belles-Lettres de L'Institut de France, Parigi, 1844, Serie prima, Tomo I, pag. 56. "Il a été construit ...en l'année 696 de l'hégire (1296 de l'ere

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scritto in caratteri karmatici, cioè delle antiche dottrine religiose dell’India, con punti diacritici di una bellezza ed eleganza che Marcel incontrò in altri importanti monumenti ritrovati in Egitto. Si notano principalmente due fasci di linee ben distinti, formato ciascuno di sei segmenti di cerchio, o meglio da sei curve paraboliche, in cui si distinguono due gruppi di tre linee, sopra e sotto, con al centro una lunga linea diritta comune ai due fasci che s’incrociano. Queste curve paraboliche sono contrassegnate dai nomi dei segni zodiacali e vengono tagliate trasversalmente da altre sei linee rette destinate a marcare le ore. La numerazione oraria è riportata sulla curva inferiore dei due fasci “zodiacali”, dalla parte Nord. Sul fascio occidentale ci sono le ore dalla sesta alla undicesima; sul fascio orientale vanno dalla sesta alla prima. Tra la nona e la decima ora si trova una curva che denota l’importante momento dell’Asr, cioè della siesta e della preghiera, che era compreso fra tre e quattro ore dopo il mezzodì. Per trovare la spiegazione del funzionamento di questo orologio solare, si è supposto che esso fosse stato dotato di due stili paralleli situati leggermente sopra alle linee indicanti la sesta ora, sulle due rotture che si vedono nella figura, ai fianchi della pietra. Uno, quindi, serviva per il mattino e l’altro per il pomeriggio. Dopo aver marcata la prima ora del giorno, (la più lunga sulla destra), l’ombra del sole, raccorciandosi man mano che la sua altezza sull’orizzonte aumentava, andava ad indicare il resto delle ore fino alla sesta, per poi passare nell’altro fascio orario dov’era proiettata dal secondo gnomone a cominciare da dopo il mezzodì. La linea delle 12 ore (la sesta ora della sera ) non è riportata essendo questa troppo allungata perchè possa essere indicata dallo gnomone (177).

Gli Arabi e i Turchi chiamavano gli orologi solari col termine ROCHAMAH, in quanto essi venivano incisi sopra lastre di pietra o di marmo. In particolare, gli Arabi usavano il chrétienne)...En 1296 le sultan mamlouk Melik-al-Naser-Mohammed régnait en Egypte; mais, comme cette meme année deux usurpateurs parurent sur le trone ...on ne sait auquel de ces princes on doit attribuer le don fait à la mosquée d'Ahmed ben-Thouloun de ce cadran solaire. 177 M.L.AM. Sédillot, Op. cit., pag. 58-59

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nome BASSITHAH, a causa dell’estendersi del tracciato orario sopra una superficie piana (178).

Ciò che conosciamo della gnomonica araba deriva in parte dalle ricerche effettuate direttamente sulle meridiane trovate sulle facciate di alcune moschee e palazzi antichi, in parte dagli studi approfonditi da parte di alcuni studiosi sui rari codici manoscritti arabi e turchi, in buono stato di conservazione, in cui si trovano descritti, o comunque menzionati, i vari tipi di strumenti astronomici e matematici comunemente in uso nel XIII secolo.

Come le meridiane servirono ai Monaci Benedettini per scandire il ritmo delle Ore Canoniche, gli orologi solari degli Arabi e, in generale, gli strumenti per la misurazione del tempo, servirono nella vita civile di questo popolo a indicare, oltre al tempo civile, il tempo delle cinque preghiere che insieme costituivano il Salat, raccomandate dal Corano.

Ed è proprio per adempiere a questo importante ufficio religioso che in Anatolia esiste, a cominciare dall’espansine dei Turchi, una bellissima tradizione. Si vedono, nei grandi e piccoli agglomerati urbani, degli orologi solari sospesi ai muri, o meglio, posati su delle superfici piane murarie, che recano, a seconda dei casi, delle diverse suddivisioni orarie. In alcuni di essi si distinguono principalmente i momenti della preghiera del mezzogiorno, chiamata Zuhr, e della merenda, o della sera, cioè l’Asr.

Non sono rari gli orologi solari turchi che indicano tutte le linee corrispondenti ai momenti delle preghiere e, a volte, viene impiegato un apposito gnomone, sotto l’orologio solare stesso, per leggere più chiaramente l’ombra che marca le linee delle preghiere. Un’altra caratteristica che contraddistingue le meridiante arabe e turche sono i segni usati per la numerazione delle ore. Fin dai tempi antichi gli Arabi usavano delle abbreviazioni dei caratteri nei libri che scrivevano, fino al XV secolo. Per queste abbreviazioni essi si servirono dei caratteri Indù che furono conosciuti in Occidente solo nel secolo XIII. 178 D'herbelot, Bibliotheque Orientale, Maestricht, 1776, p. 709

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Il primo orologio solare turco fu installato a Istanbul nell’anno dell’Egira 878 (era cristiana 1473) nel cortile principale dell’Università fondata dal Sultano Fatih Mehmet, dopo aver incaricato Ali Kouchdji, anche per l’insegnamento dell’Astronomia e della Matematica (179). In seguito ne seguirono molti altri di cui però è difficile stabilire la data di costruzione e gli autori. Gli orologi solari costruiti a Istanbul nel XVII secolo furono, per la maggior parte, opera di Yéni Djami (1671), da allora in poi i nomi degli autori vennero scolpiti su tutte le meridiane. Takiyy Uddin, fondatore dell’Osservatorio Astronomico di Istanbul, costruì un certo numero di orologi solari, così pure Mirim Tchelebi, figlio di Ali Kourchdji, ed altri ancora.

Come si può vedere, la maggior parte degli orologi solari arabi e turchi, sono incisi su una pietra di forma triangolare avente un angolo retti, installati per le strade delle città, sui quali c’era aggiunto un altro gnomone più piccolo per l’indicazione dei momenti delle principali preghiere. Le cifre indù che indicano le rispettive ore sono incise sul lato dell’ipotenusa.

47. Un primo censimento delle meridiane turche. Il prof. Suheyl Unver, nell’articolo citato alla nota 16,

riporta una sorta di primo censimento delle meridiane turche che per l’elevato interesse vorrei trascrivere per intero. Egli, tuttavia, ravvisa che l’elenco non comprende le eventuali meridiane che possono trovarsi su una ventina di moschee e ville che non ebbe modo di visitare.

179 D'A. Suheyl Unver, Professore Ordinario all'Università di Istanbul, Sur les cadrans solaires horizontaux et verticaux en Turquie, in Archives Internationales d'Histoire del Sciences, Nouvelle Serie d'Archeion, Academie Internationale d'Historie des Sciences, Septieme Année, n, 28-29, Luglio-Dicembre 1954, pag. 254-268.

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LUOGO, NUMERO MERIDIANE E ALTRE NOTIZIE Moschea del Sultano Selima Istanbul ..............................1 Moschea Bayézid a Istanbul.........................................3 di cui una reca inciso Osman, 1155 (1742). “ Fatih a Istanbul......................................................1 fatta da Ali Kouchdji nel 878 (1473). “ Edirnèkapisi, Istanbul...............................................1 “ YéniDjami a Istanbul... ........................................3 di Ridvan, 1082 (1671), di uno reca scritte arabe “ Sultano Ahmet, “...............................................4 di cui una è di Huseyin Chami. “ Suleymanié, Istanbul............................................1 di Hafiz Abdurrahman, 1186 (1772) “ Hekimoglou Alipacha e la biblioteca....................2 sulla base del minareto della Moschea. Fatto da Ismail Halifé zadè nel 1177 (1763). Scuola Taschin efendi ad Ankara Caddesi...........................1 Palazzo del Tunnel, ad Ankara Caddesi.........................1 reca l’iscrizione latina “Sine Sole Sileo”. Moschea di Laleli a Istanbul.........................................1 di Mouvakkit Ismail, 1193 (1779) “ di S. Sophie, “....................................................2 di cui uno è molto antico. Médressé di Bayézit “...............................................2 nuovo ed orizzontale Moschea YéniDjami a Uskudar....................................1 “ Mihrimah Soutan Uskudar...................................1 “ EskiDjami, Sult. Eyoup........................................1 Serraglio di Topkapi, Istanbul......................................3 di cui uno orizzontale. Moschea Kurkdjubachi a Chehremini...........................1 917 (1511) “ Ahmetpacha. Topkapi.........................................1 di Hekimbachi Gevrek zadé Hasan efendi, 1207 (1792-93). “ Atik Validé Djami a Uskudar...............................2 “ Beylerbey............................................................3 di cui 2 orizzontali, uno del 1192 (1778). Cortile dell’Ospedale Zeynep Kiamil.............................1 Accademia delle Belle Arti...........................................1 del pittore Ahmet Ziya bey, professore di questa Accademia

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e gnomonista, nel 1931

Nel Cortile della Direzione dell’Ospedale degli Alienati di Bakirkeuy................................................................1 Moschea di Chehzade..................................................1 e inoltre: Museo di Brousse........................................................1 di epoca romana “ di Pergamo...........................................................1 Romana con caratteri illegibili “ d’Efeso................................................................1 di 1 metro di diametro con segni e caratteri ellenici.

Koniah: all’esterno dell’altare della Moschea HadjiHasan Djami (KadiMursel)..............................................................1 812 (1409) Base del minareto della Moschea Cheyhulislam d’Erzeroum............................................1 Sulla facciata del cortile dello Hotel di Villa di Koniah.1 Su un fianco del minareto di Selimiyé, Andrinopoli..................................................2 Via Aluphaca, a Kutahya.............................................1 del 1212 (1797). Del primo orologio segnalato dal prof. Unver, quello della Moschea del Sultano Selim a Costantinopoli, sono riuscito a trovare l’autore, attraverso un manoscritto dal titolo: “Taschil Almicat Fi E’lm Alaoucat”. Un libro turco che tratta degli orologi e il modo di misurare il tempo, composto da Mostafa Ben Ali, e che ha per titolo “Maouakket Belgiamé al-Selimi”, vale a dire il modo di tracciare le ore sulla Moschea del Sultano Selim a Costaninopoli. Deve quindi trattarsi proprio della meridiana situata sulla parete SO della Moschea, che si può ammirare tutt’ora. Essa reca anche la suddivisione delle ore italiche.

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48. Il manoscritto 1147 e 1148 di Aboul Hassan Gli strumenti astronomici e matematici, tra cui gli orologi solari, comunemente in uso attorno al secolo XIII, ci sono stati tramandati attraverso vari codici, due dei quali, il n. 1147 e 1148 dell’Antica Biblioteca Reale di Parigi, furono oggetto di approfonditi studi da parte di autori vissuti nel secolo scorso, come J.J. Sédillot, che pubblicò il manoscritto n. 1147 di Aboul-Hassan, col titolo “Traité des instruments astronomiques des Arabes”. Gli orologi solari descritti in questo importante manoscritto sono:

1) l’hhafir; 2) l’elice; 3) l’orologio cilindrico per tutte le latitudini; 4) l’orologio conico; 5) il sakke al-jeradah, ovvero la “zampa di cavalletta”, un orologio molto simile al “prosciutto di portici” dei Romani. 6) la bilancia “fezarie”, o oraria.

Naturalmente gli Arabi usavano molti altri tipi di

strumenti, oltre a questi orologi solari, per determinare astronomicamente le ore di giorno e di notte. I principali sono:

1) Il quadrante destour; 2) la sfera, sia armillare che solida; 3) i quattro astrolabi chiamati

• Settentrinale • Chamilah • Shafiah di Arzachele • astrolabio lineare, detto anche “baguette de

Thousi”. Sul quadrante destour, o meglio su una delle sue due

facce, veniva incisa la rete di linee, per la maggior parte riportate anche sui normali orologi solari, che fornivano le seguenti informazioni:

1) l’arco di altezza; 2) l’ombra;

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3) l’inclinazione, o obliquità; 4) le ore dei tempi; 5) il quadro delle due ombre che possono supplire il

tracciato dell’ombra; 6) il seno “fadhal”; 7) l’Ashr; 8) le ore proprie a una latitudine determinata; 9) le linee dell’inizio e della fine dell’Ashr; 10) la quantità dell’aurora e del crepuscolo detta

hhissa 11) le linee d’altezza dell’azimut della “Kiblah”, cioè

la direzione della Mecca; 12) le linee delle ore eguali. (180)

Sédillot, nella nota a piè di pagina, riporta che furono gli

Arabi i primi a tracciare sugli orologi solari le ore eguali, che essi chiamano Muzzewine, in sostituzione delle ore ineguali chiamate Ezzemenie (181). Le ore equinoziali erano già in uso nei primi secoli dell’era cristiana, almeno tra gli uomini di scienze. Infatti, Andrea Cirino (182), su testimonianza di Sinesio di Cirene, vissuto attorno al 370 d. C., riporta che le ore equinoziali erano già studiate da Tolomeo, il quale le incise, assieme alle ore temporali, sull’astrolabio d lui costruito.

Inoltre, sempre Ermanno Contratto ci informa che Marciano Capella, nel V secolo, oltre all’opera “Sulle nozze di Mercurio e Filosofia”, scrisse anche sulle ore equinoziali (183).

La seconda faccia della quarta di cerchio, cioè del quadrante, ha un tracciato che viene chiamato “quarta del destour”, che contiene il quadrante dei seni, l’arco dell’obliquità dell’eclittica, e il tracciato delle stelle fisse e dell’Ashr. 180 M.L.AM. Sédillot, Op. cit. pag. 28. 181 Ermanno Contratto, De mensura astrolabi liber 182 Op. cit., cap. 54, pag. 594 183 Ermanno Contratto, op. cit. cap. XVIII, pag. 128 ed. Petz, secolo XVIII.

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L’autore, inoltre, elenca tutta una serie di operazioni possibili da effettuare con tale strumento, di cui cito solo le seguenti:

1) Il modo di trovare l’azimut della Kiblah; 2) I quattro punti cardinali; 3) La posizione della Kiblah da una qualsiasi

longitudine; 4) L’obliquità e l’aumento dell’arco di rivoluzione

quando sono noti l’azimut e l’altezza; 5) I coascendenti dei segni nella sfera retta; 6) l’arco di orizzonte compreso tra l’inizio

dell’Ariete e l’orizzonte orientale; 7) i quattro punti dell’eclittica, cioè il mediateur,

l’occase, al-rabi, e l’ortif; 8) i passaggi al meridiano delle stelle, e tutte le

informazioni relative alla loro posizione sulla sfera celeste, in un tempo qualunque;

9) la declinazione di un muro; 10) L’estremità dell’ombra proiettata su un piano

parallelo all’orizzonte in un dato momento; 11) La grandezza dell’ombra proiettata su un piano

parallelo all’equatore, l’azimut di quest’ombra, i quattro punti cardinali, e il tracciato su questo piano delle linee del complemento dell’arco di rivoluzione (queste linee sono quelle che coincidono con la proiezione dell’ombra, nel tempo corrispondente ai diversi complementi dell’arco di rivoluzione) (184);

12) l’estensione dell’ombra proiettata su un piano parallelo a uno verticale qualunque;

13) l’estensione dell’ombra proiettata su un piano inclinato;

14) il hhissahs, cioè la quantità dell’aurora e del crepuscolo, e moltissime altre cose, matematiche e astronomiche.

184 Manoscritto arabo 1103, fol. 186

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Un lunghissimo commentario di 66 pagine riporta tutta la gnomonica piana per le ore eguali e ineguali, con delle tavole e delle figure incomplete. Mentre la parte finale è consacrata al metodo di trovare il centro e la lunghezza di uno gnomone per un piano qualunque, sul quale sono tracciate le ore; l’altezza del sole; la lunghezza di uno gnomone verticale e la distanza al piede di uno gnomone di cui si conosce la lunghezza, ecc.

Più in generale, nell’opera sono contenuti 50 capitoli, tra cui di interesse gnomonico troviamo:

• Determinare l’altezza dell’Ashr in un giorno qualunque;

• determinare approssimativamente l’ora temporaria relativa alla parte del giorno già trascorsa;

• Conoscendo l’ombra meridiana e la sua ora temporaria, determinare l’altezza del sole corrispondente a questa ora temporaria;

• Conoscendo il numero delle ore temporarie trascorse del giorno e l’altezza attuale del sole, determinare l’ombra meridiana;

• Conoscendo le ore temporarie già trascorse del giorno, il luogo del sole e la sua altezza, determinare la latitudine del luogo;

• Conoscendo la latitudine del luogo, l’altezza del sole a una data ora temporaria in un giorno qualsiasi, nello stesso luogo, determinare il grado del sole e la sua declinazione per lo stesso giorno;

• Determinare la “fadhlah” di una linea d’ombra; • Trovare l’arco semidiurno per mezzo della tavola di

proporzione sulla “bilancia oraria”; • Determinare il tempo trascorso del giorno in ore

eguali o temporarie, secondo l’arco di rivoluzione; - Tracciare la linea meridiana con la “bilancia oraria”

come con il “cerchio indiano” (185). 185 Evidentemente il "cerchio indiano" dev'essere il noto metodo delle altezze corrispondenti del sole sopra l'orizzonte, chiamato anche "dei giardinieri".

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Nel manoscritto si trova spesso la dicitura “hisab’ al-

djoumali”, al posto di “hisab’ al-hindi”. Questa espressione tecnica serve ad indicare la sostituzione delle lettere dell’alfabeto con le cifre indiane, come abbiamo detto prima. Il manoscritto 1148 contiene, oltre alla descrizione di numerosi strumenti puramente astronomici, una spiegazione dettagliata dell’uso degli orologi solari descritti nel n. 1147.

La bilancia oraria, doveva essere uno strumento usato oltre che come orologio, anche per operazioni di rilievi topografici, come la determinazione dell’altezza di un muro, di un obelisco o colonna e di tutti gli oggetti verticali. Era quindi anche uno strumento portatile. Per riconoscere facilmente il tempo dell’Ashr e quello in cui il Sole ha l’Azimut della Kiblah, essi usavano principalmente:

1) L’orologio orizzontale (di cui ne parla Albategno nel capitolo LVI della sua opera - dice il manoscritto).

2) L’orologio orientale e occidentale sul piano del meridiano;

3) Gli orologi sul piano del primo verticale, quindi gli orologi verticali orientati a sud e a nord.

4) Gli orologi verticali declinanti; 5) Gli orologi su piani inclinati rispetto all’orizzonte; 6) Gli orologi in cui il gnomone invece di essere

perpendicolare al piano, è parallelo all’orizzonte; 7) Gli orologi paralleli a degli orizzonti qualunque; 8) Gli orologi orizzontali per le ore eguali senza

l’impiego di azimut e senza altri paralleli, oltre a quello dell’ariete (linea equinoziale);

9) Gli orologi cilindrici perpendicolari all’orizzonte; 10) Orologi cilindrici perpendicolari a un piano

verticale; 11) Gli orologi in un emisfero incavato, di tipo

orizzontale o verticale; 12) Gli orologi su delle lastre di paravento (?) come

quelle che Lord Elgin ha riportato da Atene. Questi sono gli orologi solari più importanti descritti nel

manoscritto 1147.

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49. Ermanno Contratto: le origini della “meridiana del pastore”.

Intanto le grandi opere degli scienziati arabi del IX e X

secolo vengono trasmesse all’Occidente, come abbiamo detto, tradotte da uomini come Adelardo di Bath, Gerardo da Cremona, Ermanno Contratto, ed altri. Si è visto che negli orologi citati nel manoscritto 1147 c’è anche quello cilindrico, cioè il famoso orologio detto “del pastore”. Questo fatto ha tratto in inganno gli autori moderni i quali hanno pensato che fu Aboul Hasan a dare i canoni per la costruzione degli orologi cilindrici e quindi della meridiana del pastore (186). In realtà questo orologio affonda le sue radici almeno all’inizio del XI secolo, quando cioè Ermanno Contratto ne dà una completa descrizione e spiegazione nella sua opera “De mensura astrolabii liber”. Dobbiamo tener presente, però, che egli traduceva i manoscritti arabi del suo tempo e che non è improbabile un’ipotesi secondo cui l’orologio poteva essere descritto in un’opera di qualche autore sconosciuto e trasmessa al mondo occidentale con questa sua traduzione che, tra l’altro, è specifica sugli astrolabi arabi ed è impregnata di quei termini arabi che verranno adottati, in seguito, in tutto il mondo cristiano. A dire il vero, mi sembra anche piuttosto strano che questa descrizione dell’orologio del pastore, anche se rudimentale essendo di sicuro una delle prime, possa essere sfuggita agli studiosi di Gnomonica.

Ritengo, quindi, molto importante riportare il passo originale dall’opera del monaco Ermanno.

Il “De mensura astrolabii liber”, fu scritto nei primi decenni del secolo XI, e l’opera originale è attualmente conservata nella Biblioteca del Monastero di S. Pietro a Salisburgo. Nel primo libro l’autore descrive la teoria e la pratica 186 Lo stesso viene riportato nell'Enciclopedia Italiana "Treccani", alla voce "meridiana".

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degli astrolabi arabi, conservando tutta la terminologia originale, trattando dello strumento inventato da Tolomeo e chiamato “Walzachora”, cioè “una sfera piana, chiamata astrolabium, con i principali circoli celesti”. Il libro II si articola nei seguenti capitoli:

I. De utilitate astrolabii. II. Descriptio ejus perigraphiarum. III. De colligendo signo et gradu Solis. IV. De inveniendo Nadair Solis. V. De concipienda Solis altitudine et certis horis diei. VI. De altitudine stellarum et horis nocturnis. VII. De distinctione horarum per quatuor plagas. VIII. De horis aequinoctialibus et inaequalibus. IX. De partibus inaequalium horarum diei. X. De partibus inaequalium horarum noctis. XI. De indaganda quantitate Orbis diei. XII. De quantitate orbis nocturni. XIII. Quot sint horae aequinoctialis diei et

noctis; XIV. De percipienda vicinitate Aurorae. XV. De percipiendo quolibet tempore cujusque signi

ortum et occasum. XVI. In quo signo sint stellae. XVII. De vocabulis stellarum Arabicis et Latinis. XVIII. De discretione climatum et eorum

invenienda latitudine. XIX. De divisione orbis per VII. climata et

initiis et terminis eorum. XX. Ut scias, si restat vel praeterit Meridies. XXI. De inveniendis in dorso Astrolabii horis.

Un ulteriore “Liber Secundus”, suddivisione esistente nel

manoscritto originale, costituisce la parte finale dell’opera che contiene la descrizione dell’orologio del pastore:

CAPUT I Demonstratio componendi cum convertibili Sciothero

horologici viatorum instrumenti.

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Componitur quoddam simplex et parvulum viatoribus horologicum instrumentum, quod in modum teretis et aequalis grossitudinis pali seu cylindri formatum atque suspesum in summitate transversim orthogonaliter affixum, et circumvertibilem habet sciotherum. Quo per gyrum in latere lineatas per singula 12. signa vel menses umbra sua certas attingat et determinet horas. Cujus mensuram, prout Astrolabii ratione potui invenire, sicut jussisti charissime frater Werinheri, dilucidè, ut possum tentabo describere. (187) 187 La fonte riportata è tratta dall'Ed. R.P. Pezii Thesauri. Anecdot. Noviss. Tom. III. Pars II, pag. 131. Ecco una possibile traduzione di questo passo: "Viene costruito un semplice e piccolo strumento orologico per i viandanti, il quale è formato a modo di un palo di eguale diametro, rotondo e liscio, cioè come un cilindro, ha lo 'sciotero' (gnomone) 'circumvertibile', cioè girevole intorno al cilindro impiantato in posizione trasversale e ortogonale per cui vengono determinate le ore tramite l'ombra che gira lungo le linee orarie situate lateralmente che girano intorno al cilindro, con dodici segni che rappresentano i mesi...Così, come posso, carissino fratello Werinheri, tenterò di descriverti la teoria di questo strumento con l'aiuto dell'astrolabio..." La descrizione continua, e comprende una tavola con la corrispondenza delle ore del giorno in relazione ai segni dello zodiaco: "Inprimis itaque circuitum ejus in sena intervalla ductis à summo deorsum lineis divido, et his senis signis, in quibus dies crescunt, id est: Capricorno, Aquario, Piscibus, Ariete, Tauro et Geminis inscribo, et inde revertens reliqua decrescentium itidem signa sibi in quantitate diebus comparibus compleo, Cancrum videlicet Geminis, Tauro Leonem, Virginem Arieti, Piscibus Libram, Aquario Scorpium, Sagittario Capricornum. Deinde quia in medio singulorum menses ordiuntur, praefata signorum sex intervalla in duo itidem ductis, ùt priùs, lineis singula divido, et ita 12. in toto circuitu intervallis eflectis primum horum, quod videlicet Sagittarii postrema et Capricorni principia continet, decimo mensi, in cujus medio Solstitium hyemale contingit, deputo. Sequenti bina intervalla Januario, ejusque compari Novembri tribuo. Quartum cum quinto Februario et Octobri: sextum et septium Martio et Septembri; in quorum medietatibus

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Il dotto monaco ci lascia anche due parole sull’uso dell’orologio:

“Hoc modo mensuratum horologii hujus instrumentum verso ad instantis mensis et signi lineam sciothero ad Solis radium suspende, et quamcunque horam summitas gnomonicae tetigerit umbrae, ipsam non dubites adesse”.

In una delle note che accompagnano il testo, si fa riferimento alla “Geometria” di Gerberto d’Aurillac. Evidentemente Ermanno scriveva qualche anno dopo l’uscita del libro di Gerberto, in cui non si fa alcuna menzione della meridiana “del pastore”. Possiamo concludere, quindi, che quella di Ermanno Contratto è forse la prima descrizione di questo orologio, almeno in lingua latina, trasmessa all’Occidente Cristiano.

50. Gerberto d’Aurillac: un genio dell’anno mille. Citando il dotto monaco Gerberto d’Aurillac, mi è venuto

in mente che anche lui si occupò di Gnomonica durante i suoi approfonditissimi studi interdisciplinari. Infatti, alcuni autorevoli autori del passato, lo ricordano per aver inventato gli orologi a bina aequinoctia veniunt, Arisque et Libra initium sumunt. Dehinc octavum cum nono Aprili et Augusto: cum decimo undecimum, quod restat, quod videlicet et Geminorum extrema et Cancri prima gestat, Junium cum aestivo in medio sui Solstitio accipiat. His duodecim intervallis hoc modo per signa et menses distributis finales singularum diei horarum lineas juxta ascensum vel discensum Solis diurnum seu menstruum debes invenire. Sed ut laborem tibi hic scrupolosè quaeritanti adicam, quot gradus in fine cujuslibet horae in climate nostro Sol in uniuscujusque signi vel mensis initio ascendat, breviter, sicut per astrolabii experientiam comprehendere poteram, in formula subjecta describam. La descrizione è troppo lunga per essere riportata integralmente, per cui rimando il lettore all'edizione Petz, consultabile nelle grandi Biblioteche.

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ruote, come Agostino Calmet (188): “L’invenzione poi degli orologi a ruote si attribuisce comunemente al celebre Gerberto Arcivescovo di Rheims, poi Arcivescovo di Ravenno, e finalmente Papa sotto il nome di Silvestro II, morto nel 1003. Quant’unque non vi sia veruna prova sicura di questo fatto, è però certo, che d’allora in avanti si cominciò a vederne de’ fatti a questa foggia”. (189)

Altre notizie interessanti sono fornite da Ditmaro di Merseburgo, cronista dell’XI secolo, il quale narra che “Gerberto fu sin da fanciullo ammaestrato nelle arti liberali; che superò in dottrina tutti gli uomini del suo tempo; che nella città di Magdeburgo costruì un orologio solare, spiando a traverso a una canna, la stella ‘che guida i marinai’”, cioè la stella polare.

Mentre lo storico inglese Guglielmo di Malmesbury, accingendosi nella prima metà del secolo XII, a narrare la storia di Gerberto, ci ricorda che l’orologio solare che il pontefice costruì a Magdeburgo, fu da questi trasformato in orologio meccanico per la cattedrale di Reims.

Infine, Ditmaro parla ancora di un orologio solare. L’anonimo autore di certi “Gesta episcoporum Halberstadensium, il quale scriveva nei primi anni del secolo XIII, si contenta di dire che Gerberto costruì in Magdeburgo un orologio abbastanza ammodo (horologium quoddam honestum satis); ma Guglielmo di Malmesbury vuole fosse un orologio meccanico, e Sant’Antonino dice molto più tardi, nelle sue Historie, che Gerberto fece un orologio meccanico mirabile. (190)

Ad ogni modo, di Gerberto non ci sono pervenute opere specifiche di Gnomonica. Egli scrisse una “Geometria”, in cui accenna ad alcuni metodi per trovare la linea meridiana, e tratta 188 Commentario Letterale, sulla Regola Benedettina, pag. 126 189 La fonte che cita Calmet, dalla quale ha tratto la notizia, è la seguente: "Vincent. Belluac. Specul. Histor. l. 24. c. 98. Arnold. Uvion Ligni vitae l. 5: c. 72. 190 Arturo Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, Oscar Mondadori, 1990, pag. 198, 202, 203, 207.

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dei quadranti; e ancora, un libro sull’astrolabio, redatto sempre sulla base delle dottrine degli arabi di quel tempo.

Dopo l’avvento delle Crociate, comincia a comparire un

pò ovunque, in Europa, la meridiana con lo stilo polare, cioè parallelo all’asse terrestre, oggi chiamato “assostilo”, dal francese “style-axe”. Naturalmente, anche questa innovazione, come tutta la gnomonica di quell’epoca, era stata “importata” in Europa dai paesi arabi, appunto dai popoli che parteciparono alle Crociate. Adottato definitivamente lo stilo polare, gli orologi solari murali cominciarono a diffondersi rapidamente in tutte le città, e con essi il nuovo sistema di computo del tempo: le ore “eguali”, chiamate ore “equinoziali” in quanto la suddivisione del giorno e della notte viene fatta sul circolo equinoziale, e nel periodo degli equinozi la durata del giorno è uguale a quella della notte e pareggiano anche la durata delle ore temporarie; furono dette ore “civili” perchè vennero adottate negli usi civili di ogni nazione, da cui deriva anche il nome di ore “europee”, e in particolare “tedesche”, o “oltramontane”.

In seguito all’espandersi dell’egemonia francese, esse furono chiamate pure “ore francesi” e gli orologi si diceva che erano regolati “alla francese” e vennero chiamati orologi “oltramontani”, o “francesi”. Infine, vengono dette “astronomiche”. Ma le nazioni che adottarono questo sistema non tutte si trovarono sulla scelta del momento della giornata dal quale cominciare a computare le ore. Così, gli Umbri, computavano il tempo a cominciare dal mezzogiorno, mentre i Babilonesi facevano iniziare il nuovo giorno dal sorgere del sole; per gli Italici, invece, e i “boemi”, il nuovo giorno cominciava al tramonto del sole, e durava fino al tramonto successivo. Il monaco G. B. Vimercato, scrive: “Sogliono molti in Italia cavar non poca dilettazione dall’orologio solare Boemico, che s’usava anticamente presso i Babiloni, e al presente in Norimbergo: e appresso li Balleari, come Federico Commandino sopra l’analemma di Tolomeo scrivendo testifica, qual addimandano “ab ortu solis”, perchè con l’uso d’esso si conoscono quant’hore sieno che’l Sole è fuori dell’horizonte, le quali congiunte con il restante di 24 che l’horologio nostro

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Italiano dimostrerà mancarli à finire, continuamente costituisce la quantità del giorno artificiale. Perchè si come à noi da un tramontar del Sole all’altro gli horologi nostri finiscono le ventiquattro hore, in modo che la mattina si conosce la quantità del giorno”.

Così, dal 1600 in poi diventano sempre più popolari quei grandi orologi murali, verticali, sui quali si vedono i due tracciati orari intrecciarsi fino a formare una specie di abaco a prima vista incomprensibile. Ma le ore italiche, dette anche ore “peregrine” da Giovanni Galluccio e dal Vimercato nel 1500, furono già usate dagli arabi, come abbiamo già detto, attorno al XIII secolo, per i loro uffici religiosi. Ma anche in Europa gli orologi meccanici da torre, che in quel secolo comparivano sulle torri civiche e sulle cattedrali di tutte le più grandi città, cominciarono a “suonare” le ore italiche soprattutto per l’uso della chiesa, insieme a quelle “oltramontane”, ad uso civile.

Infatti, Galvano della Fiamma, ci descrive un orologio nuovo che entrò in funzione nel 1335, nella Chiesa della Beata Vergine a Milano, che fu poi chiamata di S. Gottardo a Palazzo. Quel nuovo orologio suonava da uno a ventiquattro: “...est ibi Horilogium admirabile...quod percuit unam campanam XXIII vicibus secundum numerum XXIII horarum diei, et noctis, ita quod in prima hora noctis dat unum, in secunda duos ictos, in tertia tres, et in quarta quatuor, et sic distinguit horas ab horis...” (191).

Ricordo, infine che, a cominciare dalla metà del ‘600, l’ora italica 24 non coincise più con il tramonto del sole, ma per una nuova ufficiatura della Chiesa, la preghiera dell’Ave Maria alla sera, venne spostata a mezz’ora dopo il tramonto, da cui si cominciava a contare il nuovo giorno. Da quel momento si costruirono orologi solari murali con questa innovazione, e con le ore italiche tutte spostate in avanti di mezz’ora, così che la diciottesima ora italica, che prima incontrava la linea meridiana sulla linea equinoziale, in seguito si trovava spostata di mezz’ora in avanti. 191 Antonio Simoni, Orologi italiani dal '500 all''800, ed. Vallardi, 1965. Notizia segnalatami gentilmente da Giovanni Batistini di Volterra.

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51. IL PIU’ GENIALE DEGLI STRUMENTI: L’ASTROLABIO

Fra tutti gli strumenti astronomici, matematici, e quindi

gnomonici, l’astrolabio merita senza dubbio un posto di primissimo rilievo, sia per le sua versatilità di impiego, sia per la genialità con la quale fu concepito dagli antichi astronomi e i successivi miglioramenti effettuati dalle fulgide menti degli scienziati arabi. Ma una trattazione completa dell’astrolabio richiederebbe un volume a parte. Ho scelto, quindi, un brano particolarmente interessante della letteratura scientifica del secolo scorso, che sintetizza in poche pagine la storia dello strumento nell’antichità. La lettura è tratta dall’articolo del matematico canonico Giuseppe Settele, “Illustrazione di un antico Astrolabio”, che l’autore presentò all’Accademia Romana di Archeologia nell’adunanza del 22 maggio del 1817.

“...Tolomeo nel Lib. 5. dell’Almagesto al Capitolo I. ci descrive una macchina da lui costruita per trovare la posizione del Sole, della Luna, e degli altri astri, e per seguire il modo degli stessi: era questa una specie di sfera armillare, perchè composta di più circoli 192, aveva i suoi traguardi, che allora facevan le veci di telescopio, e si chiamava Astrolabio, parola che deriva da astrum, e consequor. Nell’Enciclopedia metodica, all’articolo “Astrolabe”, nel tomo I, pag. 567 della “Storia dell’Astronomia” di Bailly, e nella “Storia della matematica” di Montucla, tomo I, pag. 306, si riporta che la macchina, in seguito chiamata Astrolabio, è quella descritta da Tolomeo nel Lib. I, cap. II dell’Almagesto. Ma quella non era che un circolo di metallo diviso in 360 gradi, con un’altro circolo concentrico mobile con due pinnule, che collocata verticalmente nel piano del meridiano, serviva per determinare l’obliquità dell’ecclittica e, in genere, per misurare le altezze degli astri. Questa macchina non credo che potesse dare origine a quella che poi, per 192 Cfr. quanto si è detto a proposito delle opere del Prof. Impseri sul Meteoroscopo di Tolomeo.

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antonomasia, fu chiamata Astrolabio, perchè l’Astrolabio, nei tempi posteriori, era propriamente la proiezione della sfera sul piano, come può rilevarsi da diversi passi della lettera di Sinesio del Dono Astrolabii ad Paeonium. Perciò, credo che piuttosto la macchina descritta da Tolomeo nel lib. 5, cap. I, e che era una specie delle nostre macchine equatoriali, e non quella di cui parla nel Lib. I al Cap. II, e che ha quella somiglianza con i Circoli moltiplicatori, sia quella da cui han preso l’idea i costruttori degli Astrolabj.

Diversi autori sostengono che Vitruvio nomini pure l’Astrolabio, come era quello di Tolomeo (Lib. 5 Cap. i), mentre altri lo negano. - Nel passo di Vitruvio, al cap. 7, del Lib. 9 - si legge “Quorum inventa secuti, syderum et occasus, et ortus, tempestatumque significatus, Eudoxus, Eudemon, Callixtus, Melo, Philippus, Hipparchus, Aratus, caeterique ex Astrologià, parapegmatum disciplinis invenerunt, et eas posterius explicatas reliquerunt”. In cui la parola “parapegmatum” ha dato filo da torcere agli interpreti di molte epoche, ed ecco come il Settele espone la disputa -:

...Il Baldi appresso il Filandro, ed il Barbaro dice: certè de astrolabiis, dioptris, armillis, radiis, et coeteris ejuscemodi intelligi debere (Parapegma, nulli est dubitandum. Tradit Laertius Lib. 8 Democritum scripsisse astronomia (parapegmata...), Suidas verò: (parapegma....).

Il Perrault nella nota al detto passo di Vitruvio vuole che la frase “parapegmatum disciplinis” debba intendersi per l”l’uso degli strumenti che servono nelle osservazioni astronomiche”, secondo l’opinioni comuni, benchè il Salmasio creda che “parapegma” significhi una lastra di rame sulla quale fosse inciso il nascere, ed il tramontare delle stelle, e le stagioni dell’anno: perchè altrimenti il Parapegma sarebbe l’effetto, e la produzione della scienza, che è stata trovata con i “mezzi” cge sono i “parapegmi: che l’opinione comune è più conforme al testo, al quale si rileva, che gli astronomi hanno trovato la scienza degli astri con i Parapegmi: che sebbene Parapegma sia una voce greca, la quale significa una cosa inchiodata, e fermata, come sono le lastre di rame, sulle quali sono grafite le leggi, significa

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anche l’unione di più pezzi, il che conviene bene agli strumenti astronomici.

Il Galiani finalmente traduce: “colla scienza degli Astrolabii”, le parole “Parapegmatum disciplinis”.

Gli autori fin qui riportati, sono quelli che identificano l’Astrolabio nella parola “Parapegma”; sentiamo ora quelli che sono di parere contrario.

Il Vossio, nell’Etimologico latino, scrive: “Parapegma propriè erat tabula aenea quae columnae adfigitur, cujusmodi tabulis leges inscribebantur (....) Astrologi etiam sic dixere tabulas, quibus inscriberent canonem astronomicum, sive predictiones siderum, eclipsium, aliarumque rerum coelestium. Meminit et parapegmatum ejusmodi Vitruvius Lib. 9 Cap. 7. At errant, qui eà voce Astrolabium, simileve instrumentum astronomicum intelligunt”.

Il Salmasio, nel Tom. I, pag. 740, delle Esercitazioni Pliniane, dice: “Parapegma (Vitruvius) dixit pro canone ortus et occasus siderum, cum tabula, in qua descriptus esset ille canon, ita propriè diceretur. Riporta il testo di Teone (Petav. Auctar. p. 98), o chiunque sia l’autore degli Scoli ad Arato (Fabricii Bibl. Graec. Lib. 3, Cap. 18, par. 4, e Lib. 5, Cap. 22, par. 3) il quale racconta che gli astronomi in queste tavole segnavano il cielo decennovale, indicando per ciascun anno quali sarebbero stati l’inverno, la primavera, l’estate e l’autunno, quali venti avrebbero dominato, e molte altre cose necessarie a sapersi per gli usi della vita: e conchiude che a torto il “Parapegma” s’interpreta “instrumentum, ut est astrolabium, quo coeli ratio, curcus siderum, sedes, et intervalla cognoscentur; ma che era soltanto una lamina su cui erano grafite queste cose; alterna poi la definizione del “Parapegma” data da Suida, e altera anche il testo di Vitruvio scrivendo “parapegmatum disciplinis infixerunt”, invece di “invenerunt”, come leggono tutti, e come richiede il senso delle parole di Vitruvio.

Altri autori ancora, sebbene non del tutto apertamente, ma tacitamente, evitano di identificare il Parapegma con l’Astrolabio: così il Petavio (Auctar. Lib. 2, Cap. 8) chiama “parapegmata” quelle tabelle sulle quali erano registrate le osservazioni celesti e meteorologiche. Il Bianchini (de Kalend. et

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cyclo Caesaris, Cap. 3 etc.) dà pure il nome di Parapegma al Calendario cesariano che illustra. Il Montucla (to. i, pag. 149) rammentando Democrito, dice che pubblicò uno, o più effemeridi, o “parapegmi”, come fecero in appresso Eudosso, Ipparco e Tolomeo.

Premesse le diverse opinioni, esaminiamo adesso che cosa fosse il “Parapegma”, e se nel senso di Vitruvio possa dirsi Astrolabio. Il Filandro e il Vossio ne derivano l’etimologia dal verbo greco παραπηγυιω “idest adpingo, sive affigo”: era dunque il Parapegma una macchina risultante da più pezzi riuniti, e sovrapposti l’uno all’altro: perciò “Pegmata” furono chiamate anche le scene, ed altre macchine teatrali: “et crescunt media “pegmata” celsa vià (Mart. Epig. 2 de Spect.), etc. Gli antichi, dunque, chiamavano col nome di “Parapegma”, o semplicemente “Pegma”, le macchine propriamente dette, e non le semplici lamine, su cui erano incise le osservazioni, o i decreti; e difatti, Teone nomina πιυαµαξ queste lastre, e non “Parapegmata”, eppure Teone è l’autore che adducono in loro favore quegli scrittori i quali escludono l’Astrolabio dai Parapegma. E poi la stessa frase “parapegmatum disciplinis” indica il maneggio dei Parapegmi secondo i precetti del’arte. (....). Il “Siderum et occasus et ortus”, che gli astronomi trovarono secondo Vitruvio, poteva ottenersi appunto con delle macchine che facilitassero l’osservazione, la quale doveva farsi prima che si registrasse sulle tabelle. Da tutto ciò, pare che si deduca che il Parapegma di Vitruvio fosse uno strumento astronomico. Che fosse però proprio l’Astrolabio Tolemaico, ne ho qualche dubbio: perchè, sebbene le armille, di cui era composto, vantino una certa antichità, attribuendone già l’uso ad Aristillo (Bailly, Astr. med. To. I, pag. 58), e ad Eratostene (Montucla, tom. I, pag. 355, ed Heilbronner, pag. 255), sappiamo che Tolomeo ne parla come di una macchina da lui fatta costruire; onde se non è stato il primo che ne abbia avuto l’idea, l’hà di molto ampliata e perfezionata (...) Il mio sentimento è che sotto il nome di “Parapegma” debba assolutamente intendersi uno strumento qualunque col quale potesse seguirsi il moto degli

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astri, e mai le tabelle, sulle quali le osservazioni si registravano. 193

Ma questa semplice e ben ragionata macchina - continua il Settele riferendosi ora all’astrolabio - divenne col decadere dell’Astronomia uno strumento il più complicato e la sua costruzione formò una delle principali occupazioni dei geometri fino al secolo XVI. Per renderla più comoda, volle farsene la proiezione du si un piano, e se ne moltiplicarono gli usi; doveva questa indicare non la sola posizione degli astri, ma anche doveva servire di orologio, doveva dare le ore eguali, ed ineguali, la larghezza dei giorni, e delle notti, le declinazioni, le altezze, il levare ed il tramontare delle stelle, e tante altre cose; aggiungerò soltanto per far conoscere quanto fosse degenerata l’Astronomia in certi tempi, che doveva dare anche le “magioni” celesti per uso dell’Astrologia giudiciaria. Da ciò ben si vede quanto doveva riuscire imbarazzata, e quindi inesatta una tal macchina; eppure giunse a tal segno la presunzione dei suoi ammiratori, che Sinesio non ebbe difficoltà di dire che debba condonarsi qualche cosa ad Ipparco, ed a Tolomeo, se avevano lasciata imperfetta questa macchina, perchè allora la Geometria era come una tenera bambina, che ancora poppava! 194 (....)

Uno speciale tracciato orario, che consentiva di ottenere in ore equinoziali le ore civili, e le civili in equinoziali, del giorno e della notte, per i giorni di cui si sono tracciati i circoli, 193 Su di una nave greca, affondata circa 100 prima di Cristo presso l'Isola di Cerigotto (tra il Peloponneso e Creta), si rinvennero molte statue e oggetti d'uso quotidiano, tra cui alcuni frammenti di bronzo. Gli studi approfonditi di alcuni scienziati, tra cui Pericles Rediadis e il prof. Derek J. de Solla Price, si capì che lo strumento doveva servire per la navigazione, poichè definiva anche il sorgere e il tramontare di date stelle. L'oggetto era formato da una quindicina di lamine dentate come ruote con scale divise in gradi e quattro cerchi concentrici movibili separatamente. Tutto sommato, uno strumento simile potrebbe avere qualche similitudine con il nostro "Parapegma" 194 Frase tratta dal Ser. de Dono Astrolabii ad Poeonium. Non era tanto bambina la Geometria in quei tempi, come crede il buon Sinesio.

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fu già descritto da Proclo Diacono, Astronomo nel V secolo, il quale ci ha lasciato un lungo, e ben intralciato, trattato sull’Asrolabio, con la presunzione anche di aver illustrato quello che su di ciò avevan scritto Ipparco e Tolomeo. Noi però non sappiamo qual fosse il trattato di Ipparco sull’astrolabio. Montucla (to. I, pag. 264), è d’opinione che egli immaginasse di proiettare sopra un piano la sfera, allorchè fece il catalogo delle stelle fisse; ma questi planisferi non avrebbero niente a che fare, allora, con gli astrolabi”.

Ma i veri innovatori della dottrina sull’astrolabio furono gli Arabi. Secondo Monsieur D’Herbelot (Bibliot. Orient., del 1776), il primo arabo a costruire professionalmente gli astrolabi, o come dice lui questi strumenti matematici, fu il Musulmano Ibrahim Ben Habib al-Ferari, il quale scrisse anche un trattato. Un suo coetaneo, costruttore di astrolabi e trattatista, fu Aboul Cassem Absa Ben Mohammed al-Garnathi, che significa originario della Villa de Granade in Spagna. Questi morì nell’anno dell’Egira 426 (A.D. 1034).

Ma egli si sbagliava però, perchè trattati sull’astrolabio furono scritti ancor prima degli autori da lui citati. Eccone alcuni tra i più importanti, fino al secolo XV. Dell’antichità voglio ancora ricordare i grandi Giovanni Filopono che scrisse “De Astrolabio” e “De astrolabii usu”, conservate nella Biblioteca Vaticana, e sempre del VI secolo (570 circa), il trattato sull’astrolabio del filosofo Ammonio di Alessandria. Quindi, venne Beda, con “Libellus de Asrolabii” e il primo noto trattato di uno scienziato arabo: Messahala, che nell’anno 890 circa scrisse “La composizione dell’astrolabio e sui quadranti antichi secondo Giovanni da Montepessone (o Montepessulano). Ancora un grande della scienza dell’astrolabio: Arzachel, che nel 1070 inventò l’astrolabio universale, divulgato dagli scrittori latini con il nome di “Saphea”. Poi vengono Gerberto e Contratto, di si è già detto. Verso il 1200 Nasir Tusi ideò l’astrolabio lineare, simile ad un regolo calcolatore. Altri autori famosi che scrissero sull’astrolabio sono: Aben Efro, Adelardo di Bath, Roberto Grossatesta, Nicola Sofiano, Giordano Nemorario, Pietro Aponense, Abilcacim da Macherit, Jean Fusoris, Mardochio, Abrahamo, Chaucer, Macelorama, Chozia Nazir, Gjiali,

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Alkabitium, Giovanni da Gmunden, Ratecumbo, Sabloneta, e tanti altri ancora che è impossibile riportare.

52. I vari tipi di astrolabi Nel XIII secolo sono noti, in Oriente:

1) l’astrolabio settentrionale; 2) l’astrolabio “Chamilah”, composto da una

semisfera cava; il centro della superficie convessa è lo stesso di quella concava, di cui la circonferenza esterna è un grande cerchio, il cerchio dell’orizzonte, da un anello a quattro facce che coincide con il cerchio dell’orizzonte, da un “shafiah” di rame, di forma rotonda e di una circonferenza uguale a quella del cerchio dell’orizzonte.

3) l’astrolabio “Shafiah”, o Saphea d’Arzachele; 4) l’astrolabio lineare; 5) l’astrolabio sferico: composto da due due “sfere

inscritte” in modo che la superficie convessa dell’una tocchi la superficie convaca dell’altra. Sulla prina superficie, quella circonscritta, si trovano incise l’eclittica, l’equatore, le stelle fisse, le ore, gli almucantarat e gli azimut.

6) l’astrolabio planisferico propriamente detto, che è una proiezione dei cerchi della sfera su un piano e che permette di trovare le ascensioni rette, le declinazioni, le amplitudini, le altezze, ecc.

Inoltre, Aboul Hasan, nel manoscritto di cui abbiamo parlato prima, cita ancora:

7) l’astrolabio meridionale; 8) l’astrolabio nello stesso tempo settentrionale e

meridionale che Aboul Hasan attribuisce al Albirouni; 9) l’astrolabio “zaourakhi” (le Scaphée); 10) l’astrolabio “al-kamil”, o “il perfetto”, che reca,

inoltre il cerchio “dell’equazione del sole” 11) l’astrolabio “chekasiah” e la saphea di Arzachele Vi sono inoltre gli “Astrolabium solipartium” dotati di

90 circoli di un grado ciascuno; gli “astrolabium bipartium”

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con 45 cerchi di due gradi ciascuno, e il “tripartium”, con 30 cerchi, infine un “quinpartium” con 18 cerchi.

Aboul Hasan , alla fine, fa qualche considerazione su:

12) l’astrolabio cilindrico; 13) l’astrolabio conico.

LA RINASCITA DELLA GNOMONICA IN OCCIDENTE NEL SECOLO XVI

Il Rinascimento L’abbagliante splendore della scienza araba non si

attenua col passare dei secoli. E in tutta l’Europa i titoli delle grandi opere degli arabi echeggiano tra le possenti mura della preservazione del sapere: le abbazie.

I trattati sull’astronomia di Alfragano, Albategno, Albirouni, Armiuni, insieme alle traduzioni delle antiche pergamene greche, costituiscono il banco di lavoro delle più fungide menti del medioevo. Giovanni Anglico, Roberto Grosthead, Bacone, Giovanni di Sacro Bosco ( o Busto), tanto per citarne qualcuno, ripubblicano libri sull’astrolabio che gli arabi scrissero molto prima, facendoli conoscere all’intera comunità scientifica dell’Occidente.

Bisogna attendere il XV secolo per sentire l’alito fresco di una nuova corrente di scienziati che portano un importante contributo alla Gnomonica, con innovazioni che, finalmente, non appartenevano già alle acquisizioni arabe.

Dalla metà del XV secolo, in tutta Europa, ma particolarmente a Norimberga e a Basilea, si diffuse l’uso degli orologi solari portatili, quali strumenti principali della misurazione del tempo. L’inventiva, la grazia e la precisione con la quale questi oggetti furono costruiti, è facilmente osservabile

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ancora nei numerosi modelli pervenutici e conservati attualmente in alcuni musei.

Tra i costruttori più famosi si potrebbe ricordare Riccardo di Wallingford (sec XIII), Jean de Linièrs (secolo XIV), poi Lovaio, Walter Arsenio, Gemma Frisius, Mercatore, e soprattutto il Bavarese Nicolas Kratzer, i cui strumenti furono immortalati nel celebre ritratto di Holbein, gli “Ambasciatori” e in un altro dipinto dello stesso autore. Altri artigiani fioriti nel XVI secolo furono John Dee, Leonard Digges, Thomas Gemini, Humfray Cole, ed altri.

Come abbiamo visto, gli orologi solari portatili non sono una novità del XVI secolo. La loro storia affonda le radici nell’antichità, a cominciare almeno dal II secolo a.C. Citati da Vitruvio come “pensili da viaggio”, hanno subito, nel corso di 1500 anni, una evoluzione tutt’oggi in massima parte sconosciuta. Stando alle poche fonti storiche e ai ritrovamenti archeologici, possiamo ipotizzare che essi erano ancora largamente usati all’epoca dell’imperatore Commodo, per sparire completamente poi fino all’epoca della rinascita araba.

Tuttavia, una scoperta avvenuta nel 1939, evidenzia le nostre scarse conoscenze in materia, perchè in quell’anno fu trovato nella cattedrale di Canterbury un orologio solare portatile d’”altezza”, un modello assolutamente unico, di squisita fattura sassone, risalente al IX o al X secolo. Molto probabilmente questo orologio era destinato ad indicare le ore del computo anglosassone, praticamente le principali ore canoniche, del giorno chiaro, facilmente leggibili su uno strumento, cioè la terza, la sesta e la nona. Si tratta, quindi, dell’unico esemplare di orologio solare portatile a ore “canoniche” che si conosca.

Nell’XI secolo troviamo l’orologio “del pastore” in una descrizione di Ermanno Contratto, e in alcuni codici arabi del XIII secolo, in cui compare un altro orologio solare, o strumento astronomico con funzioni di orologio solare, a noi sconosciuto: la bilancia oraria. Nel mondo islamico era diffuso, già dal XII secolo, l’uso di orologi solari portatili d’altezza. Esiste un esemplare di quadrante portatile islamico, simile all’orologio sassone, con la stessa caratteristica dello gnomone estraibile, per

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poter essere posizionato sulla scala relativa ai mesi dell’anno. Si può notare che anche questo strumento è, in effetti, la realizzazione in piano verticale dell’orologio del pastore, concepito su superficie cilindrica con lo gnomone girevole. L’orologio musulmano è databile al 1159-60 e fu costruito per il sultano Nur al-Din. Ancora al XIV secolo risale l’orologio solare portatile detto di Aleppo che è costituito da un quadrante di altezza per conoscere l’ora e da un quadrante di direzione, che viene disposto lungo il meridiano girandolo finchè segna correttamente la direzione della Kibla, ovvero la direzione della Mecca come si è visto nel codice 1148195. Fra i portatili d’altezza che ebbero maggior diffusione, troviamo il quadrante classico. Nel mondo islamico rivestiva grande importanza per la sua versatilità come strumento di osservazione degli astri, per misure di rilevamento terrestre, ma soprattutto per la comodità di conoscere l’ora attraverso il suo facile uso.

Un personaggio, tra i più celebri, del firmamento scientifico del XIV secolo, è senza dubbio Giovanni Muller di Koenigsberg, latinizzato in Giovanni Regiomontano, o da Monteregio. Egli scrisse il Kalendarium Magistri nel 1474, un incunabulo prezioso, stampato in varie edizioni, in cui per la prima volta si vede la teoria di un nuovo strumento d’altezza che egli chiama “Quadratum horarum generale”, dotato di una scala delle latitudini che ne fa uno strumento “universale”. Inoltre, nella stessa opera viene descritto “Lo strumento de le hore inequale”, che è un quadrante d’altezza a ore ineguali; un “quadrans horologii orizontalis”, simile ad un quadrante d’altezza, con una scala per le latitudini e con le ore ineguali; infine, “Lo instrumento del vero moto de la luna”.

Tra gli strumenti portatili più caratteristici ed originali, troviamo la serie degli orologi detti “rettilinei” tra cui quello illustrato da Regiomontano, un altro che diventò famoso col nome di “Navicula de Venetiis”, cioè la Navicella Veneziana, e quello che sembra essere il perfezionamento dell’orologio di Regiomontano, chiamato “cappuccino”, per via della rassomiglianza del tracciato orario col cappucio dei monaci. 195 C. Singer, E.J. Holmyard, T.I. Williams, Storia della Tecnologia, Boringhieri, vol. I pagg. 606-607 e pag. 609.

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Il XVI secolo

L’opera scientifica di Giovanni Regiomontano era destinata ad esercitare una buona influenza sulla gnomonica rinascimentale. Il XVI secolo si apre, gnomonicamente, con quello che viene considerato il primo libro “a stampa”, cioè impresso con la nuova invenzione della stampa, sugli orologi solari. Si tratta di un volume dal titolo “Horarii cylindri canones” a firma di Giovanni Schonero, datato 1515, in cui si insegna la costruzione degli orologi solari cilindrici.

Le opere poi di Sebastiano Munster e di Oronzio Fineo furono il punto di riferimento di tutti gli gnonomisti, almeno fino al 1550. In questi volumi, vanno delineandosi per la prima volta quelle metodologie geometriche che costituiranno in seguito i canoni matematici della gnomonica e che saranno insegnati per tutti i secoli a venire, fino ai tempi moderni.

Possiamo tranquillamente affermare che nei libri di questi primi autori si trova quasi tutta la gnomonica classica, o almeno tutto ciò che fino ad allora era stato inventato nel campo degli orologi solari. Ma il grosso doveva ancora venire. Intanto, si ebbe finalmente la pubblicazione del primo libro sugli orologi solari stampato in italiano, ovvero in “volgare”, e non in latino, dal titolo “Dialogo de gl’horologi solari”, a firma del certosino Giovanni Battista Vimercato. Questo volume ebbe un tale successo che venne ristampato una decina di volte solo in quel secolo (e precisamente nel 1556, 1565, 1566, 1567, 1581, 1586 e 1587). Nel frattempo vennero pubblicate anche le opere, fondamentali, di J. Bullant, in Francia, di Giovanni Padovano, di Giambattista Benedetti, di Egnazio Danti, di Pedro Roiz, in Spagna, e di Schmid in Germania.

Il vero capolavoro gnomonico però spetta ad uno dei più grandi gesuiti della storia. Un uomo che, al suo tempo, venne definito l’Euclide del XVI secolo: Padre Cristoforo Clavio. Il suo libro, ancor oggi, dopo quasi mezzo millennio, incute timore nello gnomonista ed obbliga a colui il quale pensa che la gnomonica sia ormai terra battuta da tempo, a profonde riflessioni su quanto poco si sappia in proposito rispetto ai nostri antenati.

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I libri di gnomonica sono migliaia e sparsi in tutti i maggiori centri culturali dell’Occidente Cristiano e del Medio ed Estremo Oriente. Possiamo dire con certezza che, nei tempi moderni, sono stati esaminati un numero molto limitato di tutti questi volumi e che moltissime sorprese dobbiamo attenderci dalla visione dei rimanenti. A cominciare dagli imperscrutabili codici manoscritti turchi, ai volumi che affollano gli scaffali delle prestigiose biblioteche europee. Gli gnomonisti sono pochi. Gli storici della scienza si sono interessati solo relativamente agli orologi solari, trattandone in forma generale nelle loro opere. E dai pochi studi specifici relativi a questo argomento non si può pretendere di avere una visione globalmente chiara di tutta la gnomonica.

Ritornando a Clavio, dobbiamo dire che la sua opera, fondamentale per tutti gli studiosi che seguirono, offre non solo un corpus di studi originali, eseguiti dall’autore, ma un vero e proprio compendio delle principali metodologie dei libri più importanti che erano preceduti. Naturalmente solo Clavio poteva emendare gli errori dichiarati che aveva commesso anni prima Oronzio Fineo nelle sue opere e sui quali si era sempre taciuto a causa della sua autorità nel campo accademico universitario di quel tempo. Ovviamente, per amor del vero, egli emenda anche gli errori di altri autori, propone le giuste soluzioni e loda il lavoro di altri colleghi. Ma soprattutto si ricollega spesso alle metodologie, evidentemente originali e scientificamente valide, di Giovanni Schonero pubblicate precedentemente.

Purtroppo, il rigoroso latino, l’acutezza delle osservazioni, la prolissità di particolari, le lunghissime metodologie, accompagnate da eccellenti figure geometriche, ma intricatissime di linee, fanno di quest’opera (che in stampa moderna equivarrebbe ad una piccola enciclopedia) un trattato di gnomonica solo per latinisti e soprattutto per esperti matematici e gnomonisti. Tant’è vero che ancora nel XVIII secolo, uno studioso che aveva redatto un articolo su un’enciclopedia inglese, ebbe a lamentarsi della difficoltà di lettura relativa al libro di Clavio e scrisse che, secondo lui, probabilmente, quel libro non l’aveva letto nessuno.

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Noi possiamo solo aggiungere che qualcuno l’ha letto, tra l’altro, anche noi seppure limitatamente. Ma più precisamente possiamo dire che l’hanno letto i grandi personaggi della gnomonica. Athanasius Kircher e Jaques Ozanam, per esempio, riportano nei loro libri alcuni metodi e figure tratti dall’opera del gesuita.

In effetti il lavoro matematico di Clavio nella gnomonica fu fondamentale. E verso la fine della sua esistenza pubblicò i primi metodi per realizzare gli orologi solari “col concorso delle tangenti” e solo quasi cento anni dopo vennero pubblicate le “analogie” di J. Ozanam in ordine a problemi di astronomia sferica e gnomonica: era arrivato il tempo in cui gli orologi solari venivano realizzati , come oggi, con il metodo trigonometrico.

Si ha notizia, infatti, di un certo Clapies che attorno al primo decennio del XVIII secolo, divulgò alcuni metodi di costruire orologi solari murali di grandi dimensioni con l’ausilio del metodo trigonometrico, calcolando le coordinate cartesiane dei punti orari di ciascuna retta oraria. Tali risultati, evidentemente molto importanti allora (anche se gli astronomi arabi li avevano raggiunti già mezzo millennio prima) vennero pubblicati nelle Memorie della Reale Accademia di Scienze di Parigi, nel 1707. Da quell’anno cominciarono a pullulare i trattati di gnomonica trigonometrica, come quelli di Gruber, Weidler, Ozanam, Deparcieux, e via dicendo.

Nello stesso tempo, anzi, a cominciare già dalla fine del XVI secolo, i costruttori di orologi solari andavano sempre più specializzandosi nella realizzazione di particolari strumenti gnomonici che permettevano un più facile ed empirico tracciamento delle linee orarie e delle curve di declinazione, senza stare a fare troppi calcoli o a rompersi il cervello su tediosi metodi geometrici. Una necessità, questa, che era molto sentita soprattutto a cavallo tra il XVI e il XVII secolo, tempo in cui nascuero straordinari strumenti di costruzione quali quello denominato “Strumento di Giovanni Ferrerio Spagnolo”, già descritto da Clavio, e in seguito i fantastici strumenti realizzati da Athanasius Kircher che addirittura concepisce veri e propri “banchi di lavoro” gnomonici. Alcuni dei libri popolari oggi più

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famosi sulla gnomonica, come quello del di Nicola Bion (sec. XVIII), riportano le descrizioni, di uno strumento denominato “Sciatere” che costituisce una semplice modifica a quello precedente di Ferrerio Spagnolo. Moltissimi sono gli altri strumenti gnomonici, come il declinatorio, l’inclinatorio, l’archipendolo, le squadre, i “regoli” gnomonici, ecc.

Ma tale sviluppo della strumentaria gnomonica subì un arresto con l’avvento del XIX secolo. Oramai, quasi tutte le possibilità di costruzione degli orologi solari erano state sondate e perciò, gli studiosi preferirono buttarsi di più sugli sviluppi matematici, alla ricerca di metodi originali che venivano poi regolarmente pubblicati ed a volte integrati in testi universitari come quelli sulla geometria proiettiva, geometria analitica, geometria descrittiva.

Ma tutto ciò, nonostante avesse contribuito se non ad un ulteriore progresso, almeno a mantenere viva la memoria di questa disciplina, ebbe come conseguenza una produzione di artigianato, relativo agli orologi solari, che non è in nessun modo paragonabile allo spirito artistico e filosofico della Rinascenza. Eppure gli orologi solari si costruivano dappertutto.

Il progresso tecnologico che favoriva lo scambio commerciale internazionale attraverso i potenti mezzi di comunicazione e di corrispondenza, grazie soprattutto al crescente sviluppo delle reti ferroviarie e telegrafiche, crearono, verso la metà del secolo scorso, la necessità di istituire in ciascun paese un sistema che uniformasse adeguatamente il tempo dei chierici, dei laici e dei commercianti: in poche parole un sistema che adottasse in una sola nazione, di estensione non troppo grande, una sola ora legale statale: l’ora nazionale.

Così, ciascuna nazione adottò l’ora del meridiano della propria capitale, ed esattamente quella riferita al meridiano passante per il principale osservatorio astronomico. Per esempio, la Francia adottò l’ora del meridiano di Parigi e l’Italia, nel 1866, adottò196 l’ora del meridiano passante per l’osservatorio di Monte Mario in Roma. Ciò si tradusse, nella popolare gnomonica, ossia nell’arte di ogni comune persona di disegnare 196 Più precisamente, fu stabilito l’entrata in vigore dell’ora di Roma per le poste, i telegrafi , le ferrovie e la navigazione in data 22 settembre 1866.

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orologi solari, nel rappresentare spesso sul quadro dell’orologio la retta oraria del mezzodì di Roma e la relativa “lemniscata” ad essa riferita.

Ma in questo modo, le cose sarebbero andate benino se ogni nazione avesse fatto uso del tempo locale senza considerare i rapporti internazionali. Infatti, i disagi per chi intrattenevano relazioni internazionali erano evidenti: un’italiano che si recava in Francia si trovava con l’orologio avanti quasi tre quarti d’ora rispetto all’ora di Roma e chi arrivava dall’Austria era obbligato a portare indietro di 15 minuti la propria “pendula”.

Si pensi al disagio esistente in America dove 75 società ferroviarie di 75 confederazioni avevano adottato ognuna la propria ora con lo spaventoso risultato, per un passeggero, di confrontare 75 orari diversi!

Furono, infatti, proprio gli Stati Uniti ed il Canada che introdussero per primi il nuovo sistema di misura del tempo regolato sul “meridiano del fuso”. Seguirono, nel 1879, la Svezia e la Norvegia e quindi quasi tutte le nazioni d’Europa. L’italia adottò tale sistema il 1° novembre 1893. L’idea, alquanto geniale, prevede il globo terrestre affettato a spicchi come un melone. Più esattamente, la Terra viene suddivisa in 24 spicchi, o fusi, di 15° di estensione in longitudine, pari esattamente ad un’ora astronomica ciascuno. Ogni spicchio è delimitato geograficamente da due meridiani. Il primo meridiano, o fuso di partenza, è il meridiano 0° passante per l’osservatorio di Greenwich in Inghilterra.

E’ stabilito che tutti i luoghi compresi fra i meridiani 7° 30’ ad est e 7° 30’ ad ovest di Greenwich adottino l’ora di quell’osservatorio in modo tale che tutte le città poste ai margini di questi due meridiani abbiano una differenza fra l’ora locale e l’ora adottata non più grande di mezz’ora. Per esempio in Italia, tra l’ora locale di Torino e quella del fuso vi è una differenza di circa 30 minuti.

La conseguenza di ciò è che ogni nazione può finalmente regolare la propria ora nazionale su tutto il territorio compreso nel proprio fuso. L’Europa Centrale ha adottato il 15° meridiano, che corrisponde al 2° fuso, ed è distante un’ora da quello di Greenwich. Tale meridiano, denominato M.E.C., è compreso fra

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i meridiani 7° 30’ e 22° 30 ‘ ad est di Greenwich passa per la vetta del monte Etna ed è perciò detto anche meridiano Etneo. Tutti i luoghi compresi in questo “spicchio”, o fuso, adottano l’ora del 15° meridiano.

Prima di concludere questi brevi cenni storici riguardanti l’adozione del tempo medio del fuso, vorrei riportare quanto scrisse in proposito un autore di gnomonica in un libro pubblicato verso la fine del secolo scorso. Le sue osservazioni sono molto interessanti per noi perchè furono scritte “a caldo”, cioè appena un paio d’anni dopo che fu adottato in Italia il sistema del tempo medio. Nelle sue parole, infatti possiamo sentire tutto il “dramma” degli gnomonisti e degli uomini semplici.

“...e questo sistema (del tempo medio del fuso) fu adottato con grave incomodo della grande maggioranza che fornita di orologi comuni, non ne trovava certo uno su mille che fosse capace di segnalare questa differenza (tra tempo locale e tempo medio) che ha un massimo di 20” e ciò per due soli mesi dell’anno, mentre per gli altri dieci vi è sempre inferiore; chi può credere che un orologio comune, anche dei buoni, non isbagli ben di più col variare delle temperature?...”

E a questo punto l’autore inserisce una simpatica nota che recita così:

“Io sono convintissimo che se in uno dei giorni in cui l’equazione del tempo è nulla o poco più fosse possibile passare d’improvviso e senza dirlo dal sistema del tempo medio a quello del tempo vero (sempre dell’Europa Centrale), forse i soli astronomi se ne accorgerebbero abbastanza presto, tutti gli altri, coi soli orologi meccanici, non lo avvertirebbero né presto né mai; soltanto un orologio solare potrebbe farli accorti in capo a quindici o venti giorni almeno dell’avvenuto cangiamento”.

Un fatto curioso è che forse anche oggi, per buona parte della popolazione, questa osservazione potrebbe essere più che valida! Ma vediamo come continua il nostro autore:

“Ma questo cangiamento senza pratica utilità ebbe un altro gravissimo inconveniente, quello cioè di rendere assai complicato il tracciamento degli orologi solari, unico modo che avevano per registrare i loro orologi i paesi lontani dagli

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osservatori, dalle città e dalle stazioni ferroviarie. La linea meridiana che prima era una semplice retta, prese la forma di un 8 dovendo segnare il mezzodì talora in anticipazione, talora in ritardo fino a 15’ in confronto del mezzogiorno vero; e riusciva poi quasi impossibile segnare le diverse ore giacchè tutte le linee orarie assumendo la stessa forma produrrebbero una indecifrabile confusione. Nè con questo veniva almeno tolto il precedente disturbo di dovere all’ora locale togliere od aggiungere quel numero costante di minuti richiesti dalla differenza del meridiano; chè anzi le due difficoltà si venivano a sommare.

Solo modo di rimediare a questo inconveniente rimaneva pei paesi lontani dai centri quello di fondarsi sul mezzogiorno vero locale e formarsi una tabella la quale giorno per giorno suggerisse la differenza tra il mezzogiorno vero locale ed il mezzogiorno medio del punto ( fuso) centrale. E questo rimedio sarebbe riuscito assai difficile, non bastando l’acquistare una tabella stampata della così detta equazione del tempo, ma dovendo ai numeri dati da quella aggiungere o sottrarre quel tal numero costante di minuti corrispondenti alla differenza tra il meridiano dell’osservatore e quello della stazione adottata (costante locale).

Queste frasi, scritte peraltro da uno gnomonista, danno un’idea delle difficoltà cui dovettero far fronte tutti quegli uomini che non fossero astronomi o naviganti, subito dopo l’adozione del tempo medio dell’Europa Centrale. Voglio calarmi per un attimo nei panni di uno gnomonista di allora, ma sento già lo sconforto che mi prende se penso alla mia bella linea meridiana locale, a cui tanto sono affezionati tutti i compaesani, d’improvviso trasformata in un serpente a forma di 8 allungato...

Ma tant’è il prezzo da pagare per il “progresso” e, a distanza di 103 anni, e dopo che tutti si sono assuefatti al nuovo sistema, pare che le cose funzionino abbastanza bene.

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La gnomonica oggi

Una breve scorsa ad un elenco bibliografico197 rende subito chiara la situazione della gnomonica nel XX secolo. I libri stampati sull’argomento diminuiscono man mano che si va verso la metà del 1900. In compenso rimane una vasta produzione di articoli scientifici, ma soprattutto popolari, sulla gnomonica. In campo internazionale si fanno strada, all’inizio del secolo, i libri di Alfred Gatty, Suter, Cozza, Drecker, Schoy, Diels, Bigourdan, ecc., mentre in Italia si hanno i favolosi trattati di Claudio Pasini (ancor oggi uno dei migliori), Andreini, Barzizza e Pandolfi. Era il periodo in cui la casa editrice Hoepli pubblicava spesso manuali sulla costruzione degli orologi solari, soprattutto verso la fine del XIX secolo. L’ultimo lavoro importante sulla gnomonica, pubblicato in Italia, sempre da Hoepli, nel 1938 è quello del famoso matematico Garnier, dal titolo “Gnomonica. Teoria e pratica dell’orologio solare”. E’ inutile nasconderlo, anche noi abbiamo cominciato da quello, sebbene fosse reperibile oramai solo nelle grandi biblioteche. Anche questo, però, è prevalentemente un trattato matematico, della serie “recreations...”. Ossia curiosità gnomoniche: applicazioni di metodi matematici alla gnomonica. Ma allora era giustificabile. In un periodo in cui tutto oramai sembrava essere stato detto sulla gnomonica (come il Garnier stesso lascia intendere nella prefazione), a cosa sarebbe servito un nuovo trattatello sulla costruzione degli orologi solari secondo gli antichi canoni? Ecco di nuovo, quindi, la gnomonica intesa non nel suo pieno significato filosofico, artistico, scientifico, ma solo come passatempo matematico. Lo sterile libro di Garnier (limitatissimo negli argomenti) infatti, oltre ai matematici curiosi, non serve proprio a nessuno, nonostante l’ambizioso titolo “Gnomonica. Teoria e pratica dell’orologio solare” sembri promettere all’ignaro lettore un trattato completo di gnomonica, rigoroso (per l’autorità della firma del suo autore), ma facile a comprendersi e utile nelle applicazioni pratiche. 197 Per questo si può vedere N. Severino, Bibliografia della Gnomonica, Roccasecca, 1994

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E neanche a farlo apposta, questo libro, nonostante avesse conosciuto una immediata ristampa, fu l’ultimo a vedere la luce prima che si chiudessero le porte dell’editoria, almeno quella italiana, alla gnomonica, considerata ormai generalmente argomento chiuso.

Il tempo passa, ed ogni tanto si legge e si sente qualche nome. Sono appassionati che si prodigano nella costruzione di orologi solari. Studiosi che ricominciano a rispolverare i vecchi testi. Ed ecco che compaiono i primi lavori, seppure sotto forma di semplici articoli. Tra i più importanti quelli di Peisino, Mottoni e Marianeschi sulla celebre rivista “Coelum”. Quasi nello stesso tempo, la rivista “Sapere” pubblicava sulle sue pagine autorevoli, e sfiziosi, articoli popolari (ma non troppo) di Garnier. Poco dopo veniva pubblicato da Gauthiers.Villars, a Parigi, il libro “Le Cadrans Solaires” di R.R.J. Rohr, destinato a divenire un “best-seller” della gnomonica. Oggi, tutti gli appassionati ne conservano gelosamente una copia di una delle tante ristampe ( edizioni in diverse lungue) nella propria biblioteca gnomonica.

Da allora, sembra ci sia stato un vero e proprio “risveglio” da parte della popolazione di studiosi, ed appassionati di storia della scienza, verso gli orologi solari. I volumi e gli articoli si sono moltiplicati e soprattutto si sono sviluppati in diversi rami. I lavori prettamente matematici da una parte venivano compendiati da quelli su specifiche ricerche storiche, mai prima effettuate.

In Italia i singoli appassionati che più o meno si conoscevano per nome solo attraverso gli sporadici articoli pubblicati su riviste nazionali e di associazioni amatoriali, si sono ritrovati grazie ad una iniziativa per la prima volta intrapresa dall’Unione Astrofili Italiani (U.A.I.): la costituzione di una Sezione di ricerca denominata “Sezione Quadranti Solari”. Era il 1978, ed il promotore di questa iniziativa è Francesco Azzarita. Da allora, uno degli obiettivi principali della Sezione, è stato quello di realizzare il censimento nazionale degli orologi solari italiani e radunare, in incontro annuali, tutti gli studiosi ed appassionati della gnomonica italiani.

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Nel 1988, si ha il primo Seminario di Gnomonica, organizzato dalla Sezione.

Nel 1996 si è concluso, alla fine di marzo, il VII Seminario Nazionale di Gnomonica. La sezione, e i Seminari, continuano a far proseliti, e gli obiettivi, possiamo dirlo, sono stati raggiunti. Il censimento nazionale degli orologi solari sarà forse pronto quando questo volume verrà pubblicato. La qualità ed il numero degl iinterventi, supera ogni aspettativa, e dimostra quanto ci sia ancora da imparare, e da discutere sull’argomento.

Infine, la gnomonica è da qualche tempo approdata in Internet. E’ un passo questo della massima importanza. E gli effetti di questa innovazione in parte possono essere già riscontrati attraverso gli innumerevoli scambi di idee, studi, materiale storico, che avviene in tempo reale tra studiosi ed appassionati. Ma l’evoluzione che un sistema di comunicazione del genere impone al progresso gnomonico, è un dato che potrà essere valutato solo tra qualche anno. E’ incredibile, avere già a portata di mano i lavori effettuati da molti degli gnomonisti che “navigano in rete”. Internet è un favoloso strumento di comunicazione che permetterà a tutti gli appassionati di incontrarsi “virtualmente” in qualunque momento ed in qualsiasi posto e di conoscere in tempo reale i progressi , gli sviluppi degli studi effettuati da tutti, in ogni angolo del mondo.

A dire il vero, questo nuovo aspetto di una gnomonica “globale”, non era previsto, né ce lo immaginavamo...

Nicola Severino

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ILLUSTRAZIONI CAPITOLO PRIMO Fig. 1 - Il metodo di determinare la linea meridiana detto "delle altezze corrispondenti del Sole sull'orizzonte", come divulgato in un libro di Cristoforo Clavio, verso la fine del 1500. Notata ad una determinata ora l'ombra H di uno stilo EF perpendicolare al piano orizzontale, su uno dei circoli prescritti, si aspetta che l'ombra G dello stilo arrivi a toccare lo stesso circolo nella parte dell'"Occasus". Congiunti i due punti H e G, la perpendicolare a questa sar… la linea meridiana BD. (Abbazia di Montecassino) Fig. 2 - Un esempio di come l'uomo primitivo cominciò a determinare spazi di tempo ricorrendo all'osservazione dell'ombra gettata da un bastone (gnomone) piantato perpendicolarmente al suolo. (Storia della Tecnologia, Boringhieri) Fig. 3 - Un modello di "Mercket" egiziano, risalente al 1500 a.C. Le incisioni riguardano una suddivisione oraria che ricorda quella temporale, o ad ore "ineguali". (Storia della Tecnologia, Boringhieri) Fig. 4 - Primi tracciamenti di orologi solari rudimentali nell'antichit…. Tracce di questi tentativi si riscontrano anche sulle rocce e terreni situati in alta montagna. (Storia della Tecnologia, Boringhieri). Fig. 5-6 - Progetti di orologi solari ad ore "planetarie", eseguiti dal monaco G. B. Vimercato nella sua opera "Dialogo de gl'horologi solari", sec. XVI. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 7 - Tavola planetaria ripresa da un codice pseudo-Beda del IX secolo (Biblioteca di Montecassino) Fig. 8 - Tavola planetaria con simbologia dei "Reggenti", cioè dei pianeti che dominano la prima ora dei giorni della "Hebdomas", o della settimana. Fig. 9 - Antica pergamena greca in cui compare un termine che secondo gli studiosi abbia qualche attinenza con gli orologi solari: Katastatmesin. Voce ignorata nella normale terminologia. Sembra che "statmen" sia un termine correlato con "amussim", che designa qualche strumento usato in astronomia (il termine fu trovato da Callimaco nella vita di Talete scritta da Diogene Laerzio). "Herculanensium voluminum quae supersunt", T. II, Neapoli, MDCCCIX (Biblioteca di Montecassino) Fig. 10 - Una curiosa rappresentazione del "Cinocefalo" (Abbazia di Montecassino). ILLUSTRAZIONI CAPITOLO SECONDO

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Fig. 11: Rappresentazione di vari tipi di orologi solari di epoca greco-romana ritrovati durante scavi archeologici. Al centro della pagina, a sinistra si vede un orologio portatile rotondo che potrebbe essere simile al pros ta istorumena. (da J. Soubiran, Commentario al libro IX dell'Architettura di Vitruvio Pollione, ed. Le Belles lettres, Parigi 1969). Fig. 12: Eccezionale immagine di un astrolabio antico, conservatosi nel tempo grazie a quanto lo usarono come soprammobile. Non si sa dove e quando fu rinvenuto e da chi. L'unica descrizione, in cui si cerca di darne la teoria, ci è pervenuta dal matematico canonico Giuseppe Settele che ne parl• nell'adunanza dell'Accademia Romana di Archeologia il 22 maggio del 1817. Egli stesso lo data al terzo secolo d.C., e dice che fu costruito per una latitudine di circa 46 gradi. Come si vede, fa parte sicuramente alla famiglia di astrolabi sferici che furono poi oggetto di studio da parte degli astronomi arabi, circa mille anni dopo. E' probabile che la lettera di Sinesio a Peonio sul dono dell'astrolabio, quando parla di materia globosa, si riferisca proprio ad uno strumento simile. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 13: Orologio solare del tipo hemicyclium, noto come "quadrante di Pergamo". (Biblioteca di Montecassino) Fig. 14 : Classico hemicylium di ottima fattura, sicuramente costruito in un'epoca in cui l'artigianato gnomonico aveva raggiunto alti livelli di tecnica. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 15-17: Due diversi disegni, molto approssimativi, dell'orologio solare portatile denominato Prosciutto di Portici. Fig. 16-19: La Torre dei Venti, nell'Agorà di Atene, con la rappresentazione degli orologi solari. (Biblioteca di Montecassino). Fig. 18: Rarissima immagine di un orologio solare che Gabriele Simeoni, negli Epitaffi e medaglie antiche (sec. XVI), tenta di identificare con l'Engonato citato da Vitruvio. Questa opera d'arte, descritta dal Simeoni, esisteva un tempo in Ravenna. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 20: Il famoso hemicyclium trovato per caso negli scavi della Villa Rusinella, sul Tuscolo, datata al II secolo d.C., dal matematico Boscovich nella metà del sec. XVIII. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 21: Belissima e rarissima immagine dell'hemicyclium trovato nella villa Rusinella, con rappresentazione assonometrica (l'unica in tutta la storia della gnomonica). In basso a destra si vede una rarissima immagine di un hemicyclium su colonna inserito in una miniatura del codice della Genesi di Vienna, del VI secolo d.C. Mentre ora è chiaro che si tratta di un

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hemicyclium con suddivisione oraria temporale di dodici linee, non lo fu altrettanto per Lambecio che lo disegnò nel modo che si vede in basso a sinistra. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 21bis (tavola): A) Variante di hemicyclium, rinvenuto nella contrada "Carnera" di Fermo (AP) e custodito da privati a Fermo (foto cortesia A. Cintio); B) Hemicyclium di Cupramarittima (AP), custodito nel museo di Montefiore dell'Aso (AP). (foto cortesia A. Cintio); C) Hemicyclium di Falerone (AP), custodito nel Museo Nazionale delle Marche di Ancona (foto cortesia A. Cintio). Fig. 22: Orologio solare portatile del Museo Kircheriano (Biblioteca di Montecassino) Fig. 23: Orologio simile a quello del Museo Kircheriano, riportato da J. Soubiran nell'opera citata. Tavola 24 Rappresentazione di vari pelecinum, che pelecinum non sono, ma orologi solari orizzontali citati da Vitruvio col nome di Discum in planitia. (da J. Soubiran) Fig. 26: Il disco nel piano ritrovato negli scavi intrapresi da Sante Amendola nel 1814 presso la Vigna Cassini, a destra dell'Appia Antica, a Roma. (Abbazia di Montecassino) Fig. 27: Orologio solare trovato nel 1815 a Delos. E' verticale e orientale ed è inciso in un piano definito "scudo argivo". La linea equinoziale fa un angolo con la orizzontale di 59 gradi. La latitudine è di 31 gradi. (Abbazia di Montecassino) Fig. 28 Curiosa rappresentazione dell'orologio solare di Augusto nel Campo Marzio, a Roma, in una stampa del XVIII secolo. Le linee orarie sono sbagliate perchŠ seguono la numerazione italica, mentre l'orologio segnava le ore temporarie. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 29 Particolare della fig. 28 Fig. 30) Orologio solare dell'Antico Porto di Anzio in una rappresentazione del secolo scorso. Dizionario delle antichit… Greche e Romane. (Biblioteca di Montecassino). Fig. 31 Pelignum rappresentato in una stampa del XVIII secolo che riproduceva il vecchio calendario detto "del Lambecio" risalente al IV secolo. Particolare della fig. 32 Fig. 32 Idem (Biblioteca di Montecassino)

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Fig. 33 Pelignum rappresentato su un sarcofago a vasca, risalente alla metà del sec. IV d.C. (cortesia Padre Paul di Roccasecca) ILLUSTRAZIONI CAPITOLO QUARTO Fig. 1: L'obelisco eretto nel VII secolo nel Cimitero di Bewcastle. Nel cerchio si vede il piccolo orologio solare detto "canonico", ma in realt… si tratta di un semplice orologio a ore temporali. Fig. 2: La corrispondenza tra ore canoniche, italiche e astronomiche, nel libro De tempore horarum canonicarum, di Marcello Francolini, uno dei principali trattatisti del secolo XVI. (Biblioteca di Montecassino) Fig 3: Diversi modelli di meridiane ad ore canoniche rilevati sui muri di antiche abbazie d'Europa. Da un'opera di Ernst Zinner. Fig. 4: Orologio ad ore Canoniche di Bishopstone. da The Archeological Journal, del 1854, t. XI, p. 60 (Biblioteca di Montecassino) Fig. 5: Orologio ad ore canoniche di un autore chiamato Lodan. Si trova sulla chiesa di Edstone, nello Yorkshire. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 6: Antiche meridiane canoniche. Fig. 7: Meridiana canonica sulla pietra di Irischaltra e studiato da H. Leclerq (Biblioteca di Montecassino) Fig. 8: Bellissima meridiana canonica. La piu’ antica che ci sia pervenuta. Risale al III secolo d.C. Da Revue Biblique, 1903. (Biblioteca di Montecassino). Fig. 9: Questa è la Pietra del Tempo, dei Certosini della Certosa di Trisulti (Collepardo, Frosinone). Il grosso foro centrale fa pensare che un tempo servì veramente da meridiana canonica. (Foto dell’autore). ILLUSTRAZIONI CAPITOLO QUINTO Fig. 1 Orologio solare verticale della Moschea Fatih (Istanbul), sulla base del minareto (sec. XV). Si può scorgere che a parte veniva realizzato un piccolo orologio solare appositamente per l'osservazione delle ore delle preghiere. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 2 Pietra con orologio solare trovato nella tomba del cimitero di Aubigny nell'Artois. (Biblioteca di Montecassino)

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Fig. 3 Orologio solare verticale della moschea Suleymaniye (Istanbul) inciso nella pietra da Abdurrahman nel 1772. (Biblioteca di Montecassino) Fig. 4 Orologio portatile doppio siriano, a cerciera, detto di "Aleppo", sec. XIV. Era fornito di un sistema di mira per trovare la direzione della Mecca (Qibla) Fig. 5 Orologio solare verticale della moschea del Sultano Selim a Istanbul. (Biblioteca di Cassino) - Un altro orologio solare sempre sulla moschea del sultano Selim Fig. 6 Un altro orologio solare sempre sulla moschea del sultano Selim. Fig. 7 Orologi solari portatili (da Storia della Tecnologia, Boringhieri) Fig. 8 Vas horoscopum descritto dal glossatore dell'opera "De Temporum Ratione" di Beda. Potrebbe essere simile all'antico "Polos". Fig. 9 Tavole della lunghezza delle ombre del corpo umano misurate in unità dette "piedi". Da ll'opera "De temporum ratione" di Beda ILLUSTRAZIONI AL CAPITOLO SESTO E SETTIMO Fig. 1: Metodo geometrico esposto da Valentino Pini nel suo libro Fabrica de gl'horologi solari, per la costruzione di orologi solari sul piano del meridiano, con i vari sistemi di numerazione. Fig. 2: Orologio equatoriale portatile con aggiunta di un analemmatico. Disegno di N. Bion Fig. 3: Un declinometro per trovare la declinazione dei muri, usato nel sec. XVI. Fig. 4: Il Trigono dei segni, strumento usato nella pratica della costruzione degli orologi solari murali, per facilitare il tracciamento delle linee orarie, ma soprattuto delle curve di declinazione. Fig. 5: Il Radio orario illustrato da Paolo Galluccio, usato per delineare facilmente gli orologi solari murali. Fig. 6: Uno strumento gnomonico che apporta miglioramenti nell'uso del Radio orario, concepito nel XVII secolo. Fu ideato dal gesuita Mario Bettini. Fig. 7: Parte di una tavola di N. Bion, in cui si vede un orologio portatile ad anello, un equatoriale ed il progetto per un analemmatico.

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Fig. 8: Tavola gnomonica da un'opera del XVIII secolo Fig. 9: Un complicato progetto di Cristoforo Clavio. Fig. 10: Frontespizio del libro di Valentino Pini. Fig. 11: Tavole dal libro di Pierre De S.M. Magdleine Fig. 12: Il grande erudito Athanasius Kirker Fig. 12bis Orologi solari arabi Fig. 13: Un altro intricato progetto di Clavio, in cui appena di riesce a scorgere la forma di un orologio verticale declinante ad oriente. Fig. 14: Stupenda immagine di V. Pini che ci descrive gli orologi solari portatili a forma di coltello e di croce. Fig. 15: Caratteristica rappresentazione dell'orologio cappuccino, come fu disegnato per l'Enciclopedia Britannica del secolo scorso. Fig. 16: La Navicella veneziana in un disegno di Oronzio Fineo (sec. XVI). Fig. 17: Disegno dell'orologio solare su cilindro con sovrastante meridiana a globo, da Recreation mathematique et phisyque di Ozanam (sec. XVIII). Fig. 18: Bellissima immagine di orologio portatile del tipo "dittico di Norimberga", dall'opera di V. Pini. Fig. 19: Bellissima e rarissima (se non unica) immagine di orologio solare in una miniatura. Nella foto si vede un cilindro, o meridiana del pastore. Si trova nella Geografia di Tolomeo, nell'edizione del 1525. Neell'opera vi sono altre miniature con che illustrano altri due o tre tipi di orologi solari, tra cui quelli murali. Fig. 20: Orologio equatoriale portatile in uso nel XVI secolo Fig. 21: Lo strumento di Ferrerio Spagnolo divulgato da Clavio in Italia. Fig. 22: Orologio solare in un breviario per monaci. Unica illustrazione ideata da Valentino Pini nel 1598.

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Questa edizione-ristampa, rappresenta come era in originale il primo lavoro di storia della gnomonica svolto dall’autore tra il 1989 e il 1991. L’opera fu divulgata nel 1992. Per la prima volta, attraverso queste pagine, gli appassionati vedevano una stesura completa della storia della gnomonica e gli incredibili disegni di orologi solari di antichi trattati, mai visti prima, di cui neppure si immaginava l’esistenza, come gli orologi sui coltelli, sulle croci, a forma di libri, ecc. Per la prima volta si parlava diffusamente in tempi moderni di gnomonica araba, e di meridiane canoniche, ma anche degli orologi di Vitruvio e della gnomonica di Clavio. Un libro totalmente nuovo nel 1992 che rappresenta l’inizio degli studi di storia della gnomonica e che condurranno l’autore, nei due decenni successivi, ad ampliare immensamente quanto già aveva scritto, tanto che già nel 1994 fu necessario pubblicare un “Ampliamento alla storia della Gnomonica”, mentre vedevano la luce, ancora nuovi libri, tutte opere prime a livello mondiale, come la storia dell’Astrolabio che piacque tanto al prof. astronomo Piero Tempesti da scriverne una prefazione; l’orologio solare di Cesare Augusto in Campo Marzio, la gnomonica cinese e, più di tutti, il primato di sviscerare per la prima volta al mondo nel 1994-95 la monumentale gnomonica del padre gesuita Athanasius Kircher. Tutti i lavori realizzati dall’autore, se messi insieme, producono una enciclopedia di storia della gnomonica composta da oltre 12 volumi e centinaia di articoli, a dimostrazione del fatto che questo libro rappresentava, nella sua modesta concezione, solo un inizio di una ricerca ben più ampia che nel corso di oltre un ventennio è stata quasi completata dall’autore, almeno nei suoi lineamenti generali. Nicola Severino, è autore di oltre dodici volumi sulla materia e più di 150 articoli pubblicati su riviste nazionali, internazionali e sul web. E’ stato promotore ed autore della prima e più grande bibliografia gnomonica di tutti i tempi, realizzata nel 1987 in collaborazione con Charles Kennet Aked della British Sundial Society; è ideatore e fondatore delle prime riviste italiane intitolate “Gnomonica” e “Gnomonica Italiana”. Autore di vari CD-rom e delle più belle opere sugli orologi solari romani. Ha creato un sito visitatissimo sulla storia della gnomonica e da pochi anni ha promosso l’iniziativa di una biblioteca digitale di links che permettono di studiare la maggior parte dei libri antichi di gnomonica. Nicola Severino [email protected]

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