Baldassare Castiglione _ Fontana

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Baldassarre Castiglione (1478-1529) Nato da Cristoforo, uomo d’arme dei Gonzaga, e da Luigia Gonzaga, Castiglione entra al servizio del marchese Francesco Gonzaga di Mantova. Conosciuto Guidubaldo da Montefeltro, accetta il suo invito di passare alla corte di Urbino, dove trascorre il periodo più sereno della propria vita, e dove svolge diverse missioni diplomatiche. Succeduto Francesco Maria della Rovere a Guidubaldo, Castiglione viene inviato a Roma quale ambasciatore presso il papa, ma il fallimento della sua missione farà sì che l’incarico venga ritirato, e che lo stesso Francesco Maria, recuperato il potere che nel frattempo era stato rovesciato, spodesti Baldassarre dal castello in cui risiede. Nel corso dei suoi soggiorni romani per altri incarichi diplomatici al servizio dei Gonzaga, cui si è frattanto riavvicinato, Castiglione riceve da papa Clemente VII il titolo di protonotaro apostolico e poi di nunzio in Spagna, dove si reca nel 1525, e dove muore, nel ’29, di febbri pestilenziali. Si dice che Carlo V commentasse così la sua scomparsa: «yo vos digo que es muerto uno de los mejores caballeros del mundo». Il problema della verità La via tracciata da Castiglione è quella della verità. In proposito è utile leggere due citazioni, tratte rispettivamente da Girolamo Savonarola e da Blaise Pascal, che ci introducono al tema. Girolamo Savonarola, monaco domenicano che nel 1494 istituisce a Firenze un governo repubblicano che resiste fino al 1512, anno del ritorno dei Medici, il 26 maggio 1495 scrive a Carlo VIII: “…Si dice dappertutto che fate male ai vostri amici, nonostante che non creda che sia di vostra intenzione, ma solo de vostri baroni e quali non vi dicono il vero ma cercano più el proprio utile che il bene e onore vostro…”. Blaise Pascal, nei Pensieri (103-108) scrive: “…Ogni grado di buona fortuna che ci eleva nel mondo ci si allontana di più dalla verità, perché si teme di ferire quelli il cui affetto è più utile e l’avversione più pericolosa…”. Dire la verità è utile a colui cui si dice, ma svantaggioso a coloro che la dicono perché si fanno odiare. Entrambi affermano dunque che coloro che vivono coi principi preferiscono il proprio interesse piuttosto che quello del principe che servono, e così, mentendogli a proprio esclusivo vantaggio e per non screditarsi ai suoi occhi, omettono di procurargli un vantaggio dicendogli il vero, per non nuocere a se stessi.

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Baldassarre Castiglione (1478-1529) Nato da Cristoforo, uomo d’arme dei Gonzaga, e da Luigia Gonzaga, Castiglione entra al servizio del marchese Francesco Gonzaga di Mantova. Conosciuto Guidubaldo da Montefeltro, accetta il suo invito di passare alla corte di Urbino, dove trascorre il periodo più sereno della propria vita, e dove svolge diverse missioni diplomatiche. Succeduto Francesco Maria della Rovere a Guidubaldo, Castiglione viene inviato a Roma quale ambasciatore presso il papa, ma il fallimento della sua missione farà sì che l’incarico venga ritirato, e che lo stesso Francesco Maria, recuperato il potere che nel frattempo era stato rovesciato, spodesti Baldassarre dal castello in cui risiede. Nel corso dei suoi soggiorni romani per altri incarichi diplomatici al servizio dei Gonzaga, cui si è frattanto riavvicinato, Castiglione riceve da papa Clemente VII il titolo di protonotaro apostolico e poi di nunzio in Spagna, dove si reca nel 1525, e dove muore, nel ’29, di febbri pestilenziali. Si dice che Carlo V commentasse così la sua scomparsa: «yo vos digo que es muerto uno de los mejores caballeros del mundo». Il problema della verità La via tracciata da Castiglione è quella della verità. In proposito è utile leggere due citazioni, tratte rispettivamente da Girolamo Savonarola e da Blaise Pascal, che ci introducono al tema. Girolamo Savonarola, monaco domenicano che nel 1494 istituisce a Firenze un governo repubblicano che resiste fino al 1512, anno del ritorno dei Medici, il 26 maggio 1495 scrive a Carlo VIII: “…Si dice dappertutto che fate male ai vostri amici, nonostante che non creda che sia di vostra intenzione, ma solo de vostri baroni e quali non vi dicono il vero ma cercano più el proprio utile che il bene e onore vostro…”. Blaise Pascal, nei Pensieri (103-108) scrive: “…Ogni grado di buona fortuna che ci eleva nel mondo ci si allontana di più dalla verità, perché si teme di ferire quelli il cui affetto è più utile e l’avversione più pericolosa…”. Dire la verità è utile a colui cui si dice, ma svantaggioso a coloro che la dicono perché si fanno odiare. Entrambi affermano dunque che coloro che vivono coi principi preferiscono il proprio interesse piuttosto che quello del principe che servono, e così, mentendogli a proprio esclusivo vantaggio e per non screditarsi ai suoi occhi, omettono di procurargli un vantaggio dicendogli il vero, per non nuocere a se stessi.

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Il libro del Cortegiano, opera in quattro libri, è ambientata presso la corte urbinate dei duchi di Montefeltro. I primi tre libri, composti probabilmente entro il 1515, mostrano un tono assai diverso rispetto al quarto e ultimo, pervaso da una fine nota spirituale. Nel dialogo intervengono interlocutori reali quali Francesco Maria della Rovere, Eleonora Gonzaga, Ottaviano e Cesare Fregoso, Cesare Gonzaga, Pietro Bembo, Ludovico di Canossa, conferendo al testo un senso di verità storica che non può essere sottovalutato. Chi è il cortigiano Il cortigiano (uomo di corte, al servizio del signore) non è un saggio avvolto nella sua austera solitudine, come il saggio stoico, ma riveste una funzione e una missione protesi verso l’esterno, nel rapporto col principe. Non basta dunque che egli sappia stare a corte con grazia e piacevolezza mondane, ma occorre che la sua missione abbia anche un risvolto etico. Il rapporto fra cortigiano e principe non dev’essere di adulazione ma di amore, amore in senso neoplatonico, che ha come premessa conoscere il principe e conoscere se stesso, in una relazione di debito infinito tra inferiore e superiore che è tipica di una società feudale. Esistono dunque virtù più utili della semplice cortigianeria, che andranno finalizzate al poter dire la verità al principe, secondo i dettami della parrhesia greca, il parlar sincero, che salverà il principe dall’errore. I governanti attuali, osserva Castiglione, circondati dall’adulazione, sono arroganti e presuntuosi, ebbri di una libertà licenziosa radicata nel dominio. Sono convinti che la forza da sola possa bastare e che la giustizia, in fondo, sia un freno al loro potere, che essi non possano errare, e che la potenza di cui dispongono discenda dal loro sapere. Castiglione giunge alla propria conclusione sulla natura dei principi contemporanei senza bisogno (differenza con Machiavelli) di andare a scomodare la storia antica: i principi contemporanei sono degli ignoranti, cui occorre insegnare al principe la “austera strada della virtù” (IV libro, cap. 10). Nel IV libro del Cortegiano, nel corso di una immaginaria conversazione a corte, ci si chiede se sia possibile un’educazione del principe. La risposta è affermativa, perché la virtù è insegnabile. Ma è indispensabile un buon maestro. La natura umana o la consuetudine non bastano per costruire i buoni principi, ma occorre una disciplina. La temperanza non è un dato di natura, ma si apprende.

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Quarto libro, cap.18: “…Gli affetti adunque, modificati dalla temperanzia, sono favorevoli alla virtù, come l’ira che aiuta la fortezza, l’odio contra i scelerati aiuta la giustizia, e medesimamente l’altre virtù sono aiutate dagli affetti… Non vi meravigliate dunque messer Cesare, s’io ho detto che dalla temperanzia nascono molte altre virtù…”. Contesto politico costituzionale dei Cortegiano In una repubblica non occorre un’educazione e un rapporto duale fra cortigiano e principe, perché il potere è suddiviso tra una moltitudine di individui in un’assemblea. Solo l’esistenza di un potere accentrato rende possibile il rischio di una tirannia, e la necessità di un buon cortigiano. Un principe guerriero non ha bisogno di precettori, dice la duchessa nel corso della conversazione: egli impara la guerra sul campo. Ma bisogna sapere se la guerra è giusta, ribatte Castiglione per bocca di ***. Ma c’è anche il tempo di pace: e il ruolo del cortigiano si svolge in questo momento. Dice Cesare Gonzaga: il cortigiano è solo un maestro di scuola. Si potrebbe pensare che la maiestas basti a se stessa, che non abbia bisogno di essere insegnata. I consigli sono solo minuzie davanti alla gloria del principe. Risposta: la gloria regia non basta. La più grande gloria è il beneficio di estirpare i tiranni, e l’ideale della crociata, che non sono minuzie. I saperi di governo, come la conoscenza del popolo, l’esercizio della giustizia, il controllo dei ministri, gli incoraggiamenti al commercio, non hanno nulla a che fare con la sovranità: sono saperi tecnici (di tempo di pace) senza i quali è impossibile governare. Chi può far di te un maestro? Appurata la funzione del cortigiano, un altro interrogativo: chi e cosa può legittimare l’intervento di un inferiore, quale il cortigiano, quale precettore morale di un superiore quale è il principe? A partire dal cap. 44 prende corpo la teoria neoplatonica dell’amore. A enunciarla è il poeta Pietro Bembo, autore degli Asolani.

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Nel terzo libro degli Asolani il poeta Pietro Bembo (1470-1547) tratta, per bocca del personaggio Lavinello, dell’amore libero da ogni impulso carnale, riportando il colloquio da lui avuto con un santo eremita. Immaginando di farlo intervenire nel suo Cortegiano, Castiglione fa sì che Pietro Bembo possa trattare l’argomento dell’amore spirituale, riprendendo temi e motivi della sua opera, in cui confluiscono elementi del platonismo fiorentino del Quattrocento, fioriti nel cenacolo di Marsilio Ficino. Marsilio Ficino (1433-1499) fu la mente direttrice dell’Accademia platonica fiorentina; tradusse in latino tutti i testi essenziali della tradizione platonica (da Platone a Plotino, allo pseudo Dionigi) e divulgò, traducendo il Corpus Hermeticum, le dottrine ermetiche da lui considerate la fonte da cui lo stesso Platone aveva attinto la sua filosofia. Riprendendo il cap. 23 del Convito di Platone, Castiglione propone la teoria dell’amore quale ascesi, esercizio di vita che consente grado per grado di fondare il primato della ragione sulle passioni. Si tratta di una tecnica di conoscenza e padronanza di sé che permette di evitare gli errori dei sensi, e dove la bellezza estetica, secondo il sincretismo teorico tipico del neoplatonismo, si accoppia con la bontà etica. Premio di questa ricerca ascetica su di sé è la vera bellezza: Libro IV, cap. 69: “… E quivi troveremo felicissimo termine ai nostri desideri, vero riposo nelle fatiche, certo rimedio nelle miserie, medicina saluberrima nelle infirmità, porto sicurissimo nelle turbide procelle del tempestoso mar di questa vita…” Il cortigiano deve dire la verità al principe, mostrare che egli spesso si inganna, predisporre uno spazio teorico di insegnabilità, e garantire l’insegnamento attraverso l’ascesi, ossia gli esercizi consentiti e allestiti da quello strumento etico-filosofico che è la concezione neoplatonica dell’amore, qui resa politica da Castiglione.

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Castiglione e la verità La verità può essere di tre tipi: scientifica (quella di Machiavelli, il quale dice: le cose che vi dico sono vere, che gli uomini siano cattivi per natura è una verità) giudiziaria (cui si ricorre nelle procedure inquisitorie che si affidano alla tortura, tormentalis inquisitio veritatis, come il duello giudiziario, l’ordalia del processo accusatorio; la procedura inquisitoria, e infine il metodo cd. indiziario, che si basa sul fatto che la prova testimoniale non ha molta importanza, e sulle prove indirette che nasce contemporaneamente alla psicanalisi). Morale, quale la parrhesia politica, il dire la verità al governante. Quali i nemici del parlar sincero? La retorica – discorso vuoto L’adulazione – discorso falso La persuasione – discorso interessato Gli esercizi cui giungere alla verità sono di due tipi: - di matrice stoica, che concernono il singolo individuo, nella propria solitudine - di matrice neoplatonica, rielaborati da Marsilio Ficino, che riguardano il rapporto tra se e un altro.

L’eredità del Cortegiano: Dal Cortegiano discendono due tradizioni: - Dai primi tre libri, su come formare perfetti cortigiani e dame di

palazzo, sulla scia del Galateo di monsignor Giovanni Della Casa, nasce tutta una tradizione di testi dedicati alla politesse, ossia il saper stare secondo i Francesi.

Esponenti di questo ricchissimo filone sono, tra gli altri, Antoine Gombaud, chevalier de Méré (1607-1684), precettore mondano della duchessa di Lasdiguières, che espone le idee che è venuto elaborando sull’honnêteté a partire dal 1688, nelle Conversations, cui fanno seguito le Oeuvres posthumes. E inoltre Guez de Balzac (1597-1654), scrittore che frequenta il celebre salotto di Madame des Loges in rue de Tournon, in cui si danno appuntamento poeti come Malherbe e scrittori simpatizzanti del partito del duca d’Orléans, fratello ribelle di Luigi XIII. Proprio il carattere di salotto d’opposizione attirò a Madame des Loges un ordine d’esilio.

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- L’altra tradizione, partita dal IV libro, si occupa invece del tema politico della educazione del principe.

Vi appartengono scritti di Erasmo, Jacques-Bénigne Bossuet, Fénelon. Praticamente coevo al Cortegiano è l’Insitutio principis christianis, (istituzione del principe cristiano) scritta da Erasmo da Rotterdam (1466-1536), all’apice del successo: egli è ormai celebre in tutta Europa, accreditato presso le grandi corti come presso i più prestigiosi circoli intellettuali, ma preferisce non legarsi a nessun ambiente in particolare, continuando a trasferirsi da una città all’altra. Nell’Institutio egli oppone al pensiero espresso da Machiavelli nel Principe, una concezione politica ispirata alla genuina morale cristiana, e auspica l’opera di educatori integri e incorrotti, che insegnino al futuro sovrano con l’autorità che deriva dalla trasparenza della loro vita: “…Tu philosophum nobis forma, non principem, nisi philosophus fueris princeps esse non potes…» (rivolto all’insegnante): tu formaci un filosofo, non un principe; (e al principe): se non sarai stato un filosofo, non potrai essere principe. Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704) dedica al suo pupillo, il Delfino figlio di Luigi XIV, il Discous sur l’Histoire universelle (discorso sulla storia universale) dove insegna attraverso i fatti della storia che una salda religione, quella cattolica, trionfa su ogni contrasto, e che senza di essa anche i più forti imperi cadono in rovina. La Provvidenza mostra nel corso della storia il trionfo della Chiesa di fronte al franare della più orgogliosa potenza terrena. Nella Politique tirée des propres paroles de l’Écriture Sainte (Politica desunta dalla sacra scrittura) espone la natura dell’autorità regia, i doveri dei sudditi, e come si debba comportare il principe nell’esercizio del potere. Nell’ambito del potere assoluto, che considera il più abile e sicuro, i re devono esercitare le proprie funzioni di origine divina con umiltà: in Bossuet la predicazione cristiana fa sentire la propria intransigenza anche davanti ai potenti. Dio è il re dei re, è a lui che pertiene di istruire i principi attraverso la bocca dei suoi rappresentanti in terra, ossia gli ecclesiastici. François de Salignac de Fénelon (1651-1715), precettore del duca di Borgogna, nipote di Luigi XIV, scrive per l’allievo il romanzo pedagogico Les aventures de Télémaque (le avventure di Telemaco), dove conduce il suo eroe, sempre accompagnato da Minerva, attraverso una lunga e complicata serie di avventure, per ben ventiquattro libri. Grazie alle continue dissertazioni di Minerva, Fénelon illustra i doveri del monarca, i guai della tirannide, gli svantaggi di un governo troppo assoluto, il dovere di rispettare il buon diritto dei sudditi, testimoniando così della reazione di tanta parte degli intellettuali francesi al governo troppo dispotico del Re Sole.

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Anche Michel de Montaigne (1533-1592), nel capitolo 25 del I libro degli Essais, Saggi, si sofferma sull’importanza del compito dell’istituzione del principe. Dal canto suo Blaise Pascal (1623-1662), le cui riflessioni vennero raccolte dagli amici dopo la sua morte sotto il titolo di Pensées sur la religione et sur quelques autres sujet (Pensieri), in una lettera confessa di ritenere una delle cose più invidiabili l’istituzione del principe, e si dice pronto a tal compito, cui avrebbe sacrificato la propria stessa vita, se glielo avessero chiesto. Nel Settecento cambia lo scenario: ciò che occorre formare non è più la politesse, ossia la cortesia mondana, né l’educazione del principe, ma il cittadino, liberandone la coscienza dal fanatismo e dalla superstizione della religione, facendo sì che gli individui conoscano i propri bisogni e desideri per diventare buoni consumatori e buoni produttori. La verità segue le leggi trasparenti del mercato, secondo gli economisti liberali del settecento, e non occorre dunque insegnarla. Nell’Ottocento occorre invece formare l’uomo adattato alla società in cui vive. Nascono a tal fine le scienze umane, orientate verso i criteri di verità delle scienze esatte. Il caso italiano Vincenzo Cuoco (1770-1823), autore del Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, afferma che “Essendo la nostra una rivoluzione passiva (cioè imposta dallo straniero), l’unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l’opinione del popolo”. Ma i patrioti parlavano un linguaggio che il popolo non capiva, e si perdevano in astratte affermazioni di principi. Da questo saggio, scritto pochi mesi dopo i fatti cui si riferisce, prende avvio il programma intellettuale di educazione del popolo, affidato ai letterati (romanzieri, filosofi, pubblicisti). Il solo modo di fare l’Unità senza passare dalla rivoluzione è sollevare il popolo dall’ignoranza. La missione non venne realizzata: il problema contadino non è stato affrontato neanche da Mazzini, il più convinto apostolo della missione educatrice della politica.