Babel 03/2007

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ORIZZONTE EUROPA

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Trama europeaSe osserviamo chi guarda con grande interesse a ciò che l’Europa fa e dice in termini di politiche di immigrazione, cooperazione internazionale, cooperazione economica e commerciale, promo-zione di processi di democratizzazione e affermazione di diritti umani e civili e delle pari opportunità, allora i confini dell’influen-za europea si allargano, dai paesi dell’Est Europa alla sponda Sud del Mediterraneo, passando per i Balcani ed il Medio Oriente. Un intreccio di speranze, timori, interessi culturali ed economici, uo-mini e donne, di straordinaria importanza per il futuro di tutti noi.Un intreccio che riguarda direttamente anche la nostra asso-ciazione, perché siamo impegnati in molti paesi di questa area, perché in questi lavoriamo con organizzazioni e istituzioni che sono portatrici di tali speranze e timori, perché ci capita di incro-ciare i fili di questo intreccio anche in Italia, seguendo le rotte dei flussi migratori e le battaglie dei nuovi cittadini per l’acquisizione di pieni diritti di cittadinanza, perché su questa trama tentiamo di realizzare un’azione che sia anche culturale e di informazione.Crediamo infatti che sia necessario raccogliere e anche stimolare la produzione di informazione da questi paesi, realtà vivaci e variega-te, che spesso rimangono vittime di stereotipi, luoghi comuni che si perpetuano e contribuiscono a creare un immaginario distorto e troppo spesso strumentale ad altri scopi: abbiamo voluto, per esem-pio, un contributo originale dalla Romania, paese che, nel periodo di uscita di questo numero di Babel, sta vivendo un momento dram-matico quanto emblematico rispetto all’allargamento europeo.Se la Romania rappresenta, con il proprio processo di “integrazione” critico e sofferto, la spina del fianco di una istituzione che vorrebbe essere forte, libera e democratica, mettendone in luce debolezze e mancanze, la Turchia, di cui restituiamo in queste pagine un breve

profilo storico-politico, rappresenta un altro caso limite.Un paese che, con il suo simbolico ponte sul Bosforo, unisce l’Europa all’Asia, e con il sincretismo culturale che la caratterizza, solleva tutte le domande e le questioni che stanno dentro e intorno la democrazia, i diritti umani, il rispetto delle minoranze, la religione, il laicismo.Domande con cui, come cittadini, e ancora di più come membri di un’associazione come la nostra, dobbiamo porci. Anche a costo di un dibattito aspro.Anche per questo abbiamo deciso di pubblicare l’intervista a Muhammad Habib, portavoce dei Fratelli Musulmani, una contro-versa forza politica egiziana che fonda il proprio progetto politico su una rigida interpretazione coranica e che nega, per esempio, l’accesso a rilevanti ruoli politici a donne e a cristiani copti.I fratelli musulmani rappresentano, però, anche un interlocu-tore politico e sociale che non possiamo escludere, per potere e rappresentanza e di cui forse è inutile rendere conto.Infine, ci fa piacere ospitare la testimonianza e il racconto di Fatos Lubonja, noto scrittore e giornalista albanese, che con il suo intervento inquadra bene il tipo di rapporto tra Alba-nia e “modello europeo”.È nostra intenzione far diventare Babel, come promesso, sempre di più un “luogo” dove voci diverse e inedite, dei sud e dei nord del mondo, si incontrano.Una “torre di babele” che, grazie alle diversità, invece di crollare, cresca e continui a innalzarsi.Buona lettura

Fabio Laurenzi - Presidente [email protected]

È stato presentato il primo bilancio sociale Cospe (“Ascoltare, agire, rendere conto”- Bilancio sociale 2006): questo documento è la prima tappa di un percorso condiviso e partecipato e rappresenta uno strumento di verifica delle nostre finalità e principi; di valutazione del nostro operato secondo logiche di comunicazione e coinvolgimento degli stakeholder più significativi (dipendenti, collaboratori, soci, sostenitori, associazioni, istituzioni, media e partner esteri); di partecipazione e trasparenza. Il nostro bilancio è organizzato in quattro parti e redatto secondo le linee espresse dai più diffusi standard di rendicontazione sociale:1)“IL COSPE”: la sua storia, i valori in cui crede, l’organizzazione asso-ciativa e operativa nonché i portatori di interesse con i quali si relaziona.2) “LE ATTIVITÀ”: distinguendo quelle istituzionali da quelle realizzate dalle diverse aree organizzative.3)“IL BILANCIO”: il bilancio d’eser-cizio approvato nell’assemblea della scorsa primavera, semplificandolo e “de-strutturandolo” per facilitarne la comprensione anche a chi non ha competenze contabili.4) IL FUTURO: a partire dalle sol-lecitazioni, dai dubbi e dalle attese emerse nel percorso di preparazio-ne di questo documento sono state individuate le azioni da sviluppare e i tempi di realizzazione.

Il bilancio è disponibile e scaricabile sul nostro sito www.cospe.org

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Focus

IL DIRE l’ideale europa. da spinelli ai nostri giorni 4

IL FARE epa che cola 8

l’intervista hima fatimatou 8

i balcani aspettare stanca. i balcani e l’europa non mantenuta 10

ALBANIA IBRIDI STERILI. L’ATTUAZIONE DELLE ISTITUZIONI OCCIDENTALI IN ALBANIA 12

argomenti

PER UNA LOTTA EFFICACE AL RAZZISMO E ALLE DISCRIMINAZIONI: DALL’EUROPA ALL’ITALIA 14

LA NUOVA EUROPA

ROMANIA SEMICOMUNITARI 15

TURCHIA LA TURCHIA E L’EUROPA 16

MEDITERRANEO

il mare dentro 18

cooperare nel mediterraneo 19

egitto

l’Europa, l’islam e la democrazia secondo muhammad habib 20

TERZA PAGINA

stefano bollani: non solo piano 22

IN VIAGGIO

insieme in cina 24

in rete 25

profit 25

vicini e lontani

cartoneros: i nuovi lavoratori sociali 26

adotta un progetto

“Oasi di Chenini - Gestione sostenibile delle risorse naturali” Tunisia 27

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confronti

La questione dell’immigrazione sarà determinante per mettere alla prova il Sogno Europeo.Infatti, una cosa è parlare di incoraggiare la diversità e promuovere l’inclusione, un’altra è aprire la porta di casa propria a gente che viene da fuori, con cui condividere spazio e sorte. In qualche misura gli Europei si trovano fra l’incudine e il martello: senza un massiccio flusso di immigrazione, gli Europei invecchieranno e il progetto europeo morirà.Far aumentare il tasso di natalità e fare spazio a nuovi immigrati richiede sacrifici. In questo il nuovo Sogno Europeo si distingue: non è caratterizzato, come il Sogno Americano al suo esordio, dall’immagine di un popolo giovane prescelto per un destino di grandezza.É meno evangelico e più paziente; il suo obiettivo non è l’egemonia, ma l’armonia e prefigura un mondo futuro in cui le persone potranno convivere in pace, con buona qualità della vita e avendo la possibilità di soddisfare un sogno privato di evoluzione personale: in sintesi, non parla attraverso l’esuberanza dei giovani, ma attraverso la saggezza degli anziani.

(Jeremy Rifkin, “Il Sogno Europeo”)

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Il dire

L’ideale Europa.Da Spinelli ai nostri giornidi Giorgio [email protected]

la via da percorrere

non E’ facile,

nE’ sicura;ma deve essere

percorsa,

e lo sara’

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A 50 anni dalla nascita della Comunità Economica Europea e a 100 da quella del grande europeista (31 agosto 1907) pubblichiamo le riflessioni di Giorgio Anselmi, segretario nazionale del Movimento Federalista Europeo, già direttore dell’istituto di studi federalisti “Altiero Spinelli” e, attualmente, fra i promotori del referendum europeo sulla Costituzione.

In una novella del Decameron si narra di un tale Giannotto di Civignì, deciso a convertire un mercante ebreo alla fede cristiana. Alla fine Abraam, questo il suo nome, cede, ma a una condizione: vuole prima re-carsi a Roma per osservare se il comportamento del Papa e dei cardinali sia conforme allo spirito del Vangelo.Conoscendo le gravi magagne della Chiesa del tempo, Giannotto con-sidera persa la partita, non potendo certo negare all’amico il diritto di visitare il centro della cristianità.Tornato questi da Roma, con somma meraviglia di Giannotto, si dichiara disposto a farsi cristiano in base a questa sottile argomentazione: se la Chiesa riesce a sopravvivere ed anzi a prosperare nonostante il Papa ed i cardinali facciano tutto il possibile per «reducere a nulla» la religione cristiana, «meritatamente mi par discernere lo Spirito Santo esser d’essa,

sì come di vera e di santa più di alcun’altra, fondamento e sostegno».Altiero Spinelli, di cui si celebra que-st’anno il centenario della nascita, amava far ricorso a questo racconto irriguardoso di Boccaccio per far risaltare la grandezza dell’ideale europeo di fronte alla pochezza delle realizzazioni.In effetti, nei quasi sessant’anni che ci separano dalla “Dichiarazione Schuman” del 1950, la forza dell’idea europea si è dimostrata soprat-tutto nella capacità di risorgere dalle proprie ceneri dopo le più cocenti sconfitte.Qual è, allora, lo spirito che anima il progetto federalista e che lo ha reso finora capace di superare le più gravi crisi? Lo stesso Spinelli ha dato una risposta nel Manifesto di Ventotene, scritto con Ernesto Rossi nel 1941: «Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani». In altre parole, la federazione europea non è più un sogno di anime belle, ma è una neces-sità della storia, perché «insolubili sono diventati i molteplici problemi

Il nostro parlamento,i nostri principi

Giulia Uberti

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che avvelenano la vita internazionale del continente».Non, dunque, una possibile soluzione, ma l’unica soluzione, se si vuol «sfuggire alle vecchie aporie».Ebbene, pur consapevoli della inadeguatezza della Comuni-tà e poi dell’Unione rispetto alle ambizioni dei federalisti e alle esigenze della storia, bisogna riconoscere che i risultati ottenuti sono straordinari. Innanzitutto l’Europa ha realizzato per la prima volta, dopo secoli, la pace tra le nazioni europee, una pace che non si riduce ad una semplice tregua, ma che è fondata su istituzioni comuni, secondo l’insegnamento kantiano, e che dunque costituisce un modello per il mondo intero.Con la pace si sono create le condizioni per la prosperità e per il benessere, di cui ha potuto godere un numero crescen-te di cittadini, grazie ad un modello sociale che ha coniugato efficienza economica e solidarietà.Infine, ed è forse il merito maggiore, l’Europa si è dimostrata capace di affermare la democrazia e lo stato di diritto, al di là dei suoi iniziali confini, promuovendo con l’allargamento prima la fine dei sistemi autoritari di Grecia, Spagna e Porto-gallo e poi dei regimi comunisti dell’Est.Nonostante questi innegabili successi, si respira nel nostro continente un’aria di sfiducia e di impotenza. I cittadini percepiscono che l’Unione è inadeguata di fronte alle grandi sfide della globalizzazione e, dall’altro lato, capiscono che gli stati nazionali sono sempre più incapaci di risolvere i proble-mi del mondo d’oggi.Non resta, quindi, che completare l’edificio faticosamente co-struito. L’Europa ha un inno, una bandiera, una moneta. Non ha, però, né una politica estera, né una politica economica, perché non ha né un Governo, né una Costituzione. Come scrivevano Spinelli e Rossi nel 1941, «la via da percorrere non è facile, né sicura; ma deve essere percorsa, e lo sarà».

Romania-Europa day

Ahmed Ashour

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L’Unione, nelle menti di tanti europei, ha preso il posto che è del governo federale nell’immaginario di tanta America profonda: un potere remoto, con lati oscuri e formidabili e che si presenta nella forma di burocrati men in black supponenti e indisponenti.Per altri nostri concittadini l’Unione è invece diventata il possibile deus ex machina che ci libererà dalle pastoie burocratico-clientelari del funzionariato statale, in una nuova epoca di meritocrazia e efficienza.Ci sono buone ragioni per pensarla in entrambi i modi, che tuttavia condividono un’idea dell’Unione Europea come potere compiuto.Eppure l’Unione può essere pensata come un buffo esperimento istituzionale, ancora giovane e che ci riserva delle strane sorprese.A guardarla dalle pagine del sito – il più esteso del mondo – l’Unione Europea si descrive con qualche ragione “unica” nel suo genere, “né stato né organizzazione internazionale”. Manca, però, una definizione positiva che chiarisca di che stiamo parlando. Per rassicurare il confuso lettore si ricorre all’immagine della “famiglia di stati”. Dalla “famiglia fondamento dello Stato” allo “Stato che mette su famiglia”, siamo di fronte a una novità inattesa della scienza politica e non solo.Eppure di cose strane e uniche l’Unione Europea è piena: un Parlamento eletto a suffragio universale che, fin dalla sua nascita nel 1979, non

conta molto; una struttura di governo, o di governance, la Commissione, che disegna anche le leggi che dovrà applicare; una struttura informale come il Consiglio Europeo che diventa parte integrante del funziona-mento istituzionale.

Vista così, l’UE appare come un esperimento politico che registra l’evoluzione/involuzione della struttura di potere e delle istituzioni degli stati contemporanei.La cosa più strana è, ovviamente, l’euro: quando mai si era vista una moneta senza sovrano. Di un sovrano senza moneta si po-teva ridere, ma di una moneta senza sovrano non si sa davvero che pensare. Ci siamo abituati a quei biglietti con sopra porte e ponti e senza una faccia, e ce li portiamo ap-

presso ogni giorno, eppure nessun altro li ha così, allora oltre alla solita lamentela sulla moneta che la fa da sovrano, bisognerà anche chiedersi se non sarà la moneta a fare il sovrano, e come?A 50 e passa anni dagli inizi nel primo dopoguerra, il processo di inte-grazione continua nel suo andamento irregolare, momenti di stasi come fu negli anni ‘60 e ‘70 e altri di grandi passi in avanti, come fu la decade decisiva della presidenza Delors alla Commissione 1985-1995; rinvio come fu la lunga stagione dormiente dell’unificazione monetaria negli anni ’80. Fallimenti come quello iniziale della Comunità di Difesa Euro-pea nei primi anni ‘50 o la più recente strutturazione su tre pilastri fatta

Visioni d’Europa

di Davide Lombardo Docente Dipartimento di Analisi Culturale e Sociale, New York Universitydavide [email protected]

Dalla “famiglia

fondamento dello stato“ allo “stato che mette

su famiglia“, siamo

di fronte a una novita’ inattesa della scienza

politica e non solo.

GreggBucken

/Europa

Il dire

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a Maastricht e rimasta sostanzialmente una bella immagine, con l’Europa a forma di tempio greco che si regge su tre pilastri, economia, politica estera e cooperazione giudiziaria.Ogni tentativo di spingere sul pedale politico dell’integrazione è sostanzialmente fallito: il potere di trasferimento di sovranità è rima-sto saldamente nelle mani dei governi na-zionali. La proposta di Habermas and friends, basata sull’idea di un nucleo europeo – Fran-cia, Germania e Benelux – che rompesse gli indugi e procedesse ad una più sostanziosa unità politica, rappresenta l’ultimo tentativo sconfitto, fra gli altri, anche da un Berlusconi gongolante.Tuttavia, il sovrano si va, forse, facendo per altre vie. La modalità di cre-scita del potere dell’UE, da tenere d’occhio in futuro, è quella che passa dalla Corte di Giustizia Europea, la cui azione è in gran parte svincolata dall’influenza degli stati sovrani. È anche tramite le sue sentenze e de-cisioni che gli ambiti e le competenze delle istituzioni europee si vanno consolidando e, lentamente, ampliando.L’esperimento continua, e negli anni a venire dovrà reggere e mutare

sotto le tensioni che derivano da un’eco-nomia fiacca e dall’arrivo dei nuovi paesi. Un buon riassunto della situazione attuale dell’Unione l’ha fatto Peter Greenaway in un corto inserito nel film collettivo Visions of Europe, prodotto nel 2004 al momento dell’allargamento a est.Alla “doccia europea”– questo il titolo dell’episodio – si presentano prima un corpulento omone nudo con una bandiera tedesca dipinta sul sedere, lo raggiunge dopo qualche secondo una donna par suo con la bandiera francese dipinta sulle poppe

generose; i due si godono l’acqua che scende abbondante, si abbraccia-no, arrivano gli altri e sotto la doccia c’è posto. L’Italia è un anzianotto signore che si muove buffamente, altre nazioni arrivano nell’ordine dei vari allargamenti. C’è acqua per tutti e tutti ne approfittano. Un nuovo gruppo si raccoglie attorno alla doccia, ci sono uomini donne e anche dei bambini, siamo all’allargamento a est, desiderano entrare, si spoglia-no e proprio allora l’acqua finisce, tutti si guardano stupiti e restano a guardare l’ultima acqua che lentamente scorre via verso il tombino.

Secondo l’ultimo rapporto Caritas Europa e Cidse “L’impron-ta dell’Ue nel sud: la cooperazione allo sviluppo della Comunità europea fa la differenza per i poveri?” - ma anche secondo lo stesso portale europeo (www.europa.eu) - l’Unione europea è il maggiore donatore mondiale. (cfr.box). Eppure le cifre, in questo caso, non parlano da sole. Perché la politica europea nei confronti dei paesi in via di sviluppo, si è dimostrata poco coerente alla enunciazio-ne dei principi su cui si basa (cfr. “Dichiarazione del Consiglio e della Commissione, del 20 novembre 2000, relativa alla politica di sviluppo della Comunità europea”) e dai quali si evince che l’Unione dovrebbe utilizzare il commercio anche come strumento di sviluppo, aprendo i suoi mercati alle esportazioni provenienti dai paesi poveri e incoraggiando questi ultimi ad aumentare gli scambi tra di loro. Commercio e aiuti sono, dicono i documenti ufficiali “i due pilastri della politica di sviluppo dell’UE e si fondono nel momento in cui l’Unione si assume la parte di responsabilità che le spetta per aiutare i paesi in via di sviluppo a combattere la povertà e ad integrarsi nell’economia mondiale globalizzata”. Eppure è la stessa Unione europea che promuove e sostiene gli EPA (Accordi di Partenariato Economico) che - di fatto- escludono dal mercato europeo le economie più deboli piegan-dole a meccanismi del tutto liberisti. Così come, accanto a programmi che lavorano sulla governance, sul rafforzamento delle strutture democratiche e partecipate, molte sono state negli ultimi anni anche le azio-

ni di appoggio alle “grandi opere” (un esempio su tutti la costru-zione della panamericana che dovrebbe tagliare in due la foresta amazzonica) che, localmente sono criticate quando non avversate, da comitati, associazioni e gruppi di base che non trovano neppure in un attore internazionale come l’UE un interlocutore. Un’altra iniziativa piuttosto impopolare sono stati i General Budget Support, fondi erogati direttamente ai governi beneficiari che li inseriscono in voci di bilancio senza legarli esplicitamente a un progetto e un programma. Nonostante i GBS siano difesi da l’UE come controllati ad una prima valutazione risultano essere piuttosto poco efficaci e controproducenti, legando come fanno, le priorità di intervento a scelte governative piuttosto che a scelte partecipate, e continuando ad escludere gran parte della società civile dalle scelte politiche ed economiche di ogni paese. Perché la politica di cooperazione allo sviluppo, nonostante gli investimenti che vediamo ancora consistenti, sta di fatto perdendo sempre più importanza nelle relazioni tra UE e paesi terzi? Esiste

un problema di valutazione di impatto? L’UE sconta la man-canza di una politica estera comune e definita? Oppure la rincorsa a un posizionamen-to di rilievo nello scenario globalizzato dell’economia, prevalgono decisamente su un discorso di lungo periodo basato su “riduzione della povertà, potenziamento della democrazia, consolidamento della pace e sulla prevenzione dei conflitti? Tutte questioni aperte e, come tali, irrisolte.

EUCOOPERAZIONE - questioni aperte

La modalita’ di crescita del potere

dell’UE, da tenere d’occhio

in futuro, e’ quella che

passa dalla Corte

di Giustizia Europea,

la cui azione e’ in gran

parte svincolata

dall’influenza

degli stati sovrani

UE e la cooperazione

in cifreL’Unione europea è il maggiore donatore mondiale di aiuti allo sviluppo. L’Unione, infatti, contribuisce con il 44% del totale,

e la Commissione europea (Ce) risulta il primo donatore multilaterale (seguita dall’Associazione internazionale

per lo sviluppo della Banca mondiale) e il terzo maggior donatore ufficiale (dopo Stati Uniti e Giappone).

Nel 2005 la sola Ce ha fornito un contributo di circa 7,5 miliardi di euro (6,9 miliardi di euro nel 2004) per l’assistenza

allo sviluppo, che rappresentano il 20% degli aiuti europei globali.

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Il fare

EPA che coladi Gianni [email protected]

La nuova politica commercialedell’Unione Europea con i Paesiin via di sviluppo

Restano poche settimane, e dal gennaio 2008 dovrebbero entrare in vigore gli EPA, Economic Partnership Agreements, il nuovo strumento che andrà a regolare gli scambi commerciali tra Unione Europea ed ex-colonie dei paesi ACP (Africa, Carabi, Pacifico), quasi tutti i Paesi in via di sviluppo (PVS).Accordi a dir poco controversi, definiti unanimemente deleteri per i paesi ACP dalle loro stesse organizzazioni di base e dalla società civile interna-zionale, impegnata sui diritti umani e le eque relazioni internazionali.Per capire in quale quadro nascono gli EPA, è bene ricordare brevemente che, con la nascita e l’imporsi del WTO (World Trade Organi-zation) come organizzazione dominante delle politiche commerciali a livello globale, tutti i PVS, già reduci da anni di Politiche di Aggiustamento Strutturale imposte dal sistema Fondo Monetario Internazionale-Banca Mondiale e mirate alla privatizzazione massiccia delle economie e dei servizi pubblici, hanno assistito al collasso di interi comparti produttivi, dopo aver già smantellato i pur mi-seri sistemi di welfare, con la conseguenza del dilagare della povertà e dell’insorgere di conflitti sociali gravi e duraturi.Per ricordare la metafora di Serge Latouche, il liberismo puro imposto dal WTO mette sullo stesso ring del mercato globale, a fronteggiarsi, due pugili, di cui uno muscoloso e allenato, e l’altro magro e debilitato.Il fallimento della Conferenza Ministeriale WTO di Cancun, nel 2003, con la nascita del fronte comune tra i principali PVS, aveva anche messo a nudo i limiti del funzionamento del WTO e della nuova governance globale, fa-cendo registrare una battuta d’arresto in molti settori delle liberalizzazioni. Ma questa illusione è durata poco, poiché, già nel corso della Ministeriale WTO del 2005, il ciclo di liberalizzazioni è stato rimesso in moto.In questo quadro sono nati e si sono sviluppati gli EPA, sotto la spinta dell’UE, per accordi basati su un’interpretazione molto rigida delle regole

liberiste del WTO. Con gli EPA, infatti, si prevede l’eliminazione di tutte le barriere commerciali su più del 90% degli scambi tra i paesi UE e ACP.Questo si traduce in perdite nette per i paesi ACP, che non potranno più contare sulle entrate fiscali derivanti dall’applicazione dei dazi doganali a protezione delle proprie deboli economie.Gli EPA, infatti, vanno ad abolire il “sistema delle preferenze”, che finora ha governato i rapporti UE-ACP, aprendo così la strada del libero mer-cato, in sostanza, in ogni settore economico, dall’agricoltura all’acqua, all’industria, alla sanità.Inoltre si reintroducono alcuni degli ambiti di negoziato già respinti a Cancun, proprio per la delicatezza dei loro contenuti: investimenti, concorrenza, agevolazioni commerciali, commesse governative. Così,

per il “pugile debole”, si perdono i minimi vantaggi fiscali e si introducono nuovi ambiti di rilevanza strategica, che saranno campo di battaglia e di facile bottino per l’UE.Il tutto con la pretesa che questi provvedi-menti e la totale apertura dei mercati allo scambio internazionale siano in grado di innescare un circolo virtuoso di sviluppo nei paesi più poveri.I dati sull’expo dei paesi ACP, tuttavia, non confermano queste teorie, se è vero che le li-beralizzazioni degli ultimi anni hanno ridotto, e non aumentato, la partecipazione di questi

paesi al commercio mondiale.Inoltre, poiché il 60% delle esportazioni dei paesi ACP si concentra solo su 9 prodotti, il preteso ampliamento delle opportunità di esportazio-ne per questi paesi sembra beffardo: l’UE non potrà farsi inondare da quantità maggiori di un numero ristretto di prodotti, né si può pensare che nuovi prodotti penetreranno i già forti mercati europei.Al contrario, l’assoluta liberalizzazione degli scambi renderà i mercati nei paesi ACP facile terreno di conquista per le esportazioni dell’UE. Per cita-re un esempio, in Senegal è già possibile trovare, su alcuni mercati locali, passata di pomodoro importata dall’Italia che costa meno del pomodoro locale. E se una situazione di questo genere può essere assorbita nel mercato italiano, come ad esempio accade per i prodotti a basso costo

il liberismo puro imposto

dal WTO mette sullo

stesso ring del mercato

globale, a fronteggiarsi,

due pugili, di cui

uno muscoloso e allenato,

e l’altro magro

e debilitato

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le produzioni

made in UE

avranno buon gioco

nell’invadere i mercati

dei paesi ACP,

danneggiando

inevitabilmente

i produttori locali

A cura di Francesca Baldanzi [email protected]

Dal 1992 Hima Fatimatou è membro della Rete delle Organizzazioni dei Produttori Rurali Africani (ROPPA) in difesa dei diritti e dei doveri dei contadini e delle donne rurali del Niger.Di seguito, presentiamo uno stralcio dell’intervista rilasciata al convegno “Terra Futura” tenutosi a Firenze il 19 maggio.

w Quale futuro si prospetta con gli EPA?Gli EPA non stabiliscono un mercato equo e reciproco. I mercati afri-cani sono inondati dai prodotti occidentali che costano meno perché sovvenzionati dai singoli governi.Una volta che gli accordi saranno firmati, i prodotti del Nord pene-treranno ancora di più, uccidendo le produzioni locali. Al contrario, i nostri prodotti spesso non penetrano nei mercati europei perché non soddisfano i diversi standard europei e di qualità imposti dall’Unione Europea.

w L’azione politica di ROPPA per far rivedere gli accordi?A livello locale, la rete cerca di educare i produttori e i consumatori, affinché contestino gli EPA e preferiscano il prodotto africano a quello europeo.A livello continentale, cerchiamo di sensibilizzare la società civile e i politici sul tema della sovranità alimentare dell’Africa come diritto universale.

w Il fatto che alcune produzioni saranno penalizzate anche in Europa vi aiuta?Ognuno difende i propri interessi, ma è importante stabilire una sinergia d’azione. Se le cose si muoveranno in Italia come in Burkina, in Spagna come in Senegal, in Grecia come in Niger, il nostro impe-gno andrà più lontano.In questo senso, le ONG europee potrebbero assisterci e farci da mediatori per trovare nuove soluzioni e farci discutere allo stesso tavolo.

Hima Fatimatouimportati dalla Cina, rappresenta invece un enorme danno per i produttori e per l’agri-coltura del Senegal.A questo si aggiungano i già soffocanti stru-menti del dumping per le produzioni agricole in UE e delle controver-se barriere fito-sani-tarie alle importazioni in UE.

In questo quadro, quindi, le produzioni made in UE avranno buon gioco nell’invadere i mercati dei paesi ACP, danneggiando inevitabilmente i produttori locali, e le stesse casse degli Stati, in paesi poveri e privi di valuta pregiata, in cui l’eliminazione delle tasse sulle importazioni riduce drasticamente le entrate fiscali, causando il taglio delle spese per la salute, l’acqua, l’istruzione, la sicurezza alimentare.Per non parlare, inoltre, delle conseguenze anche sulle econo-mie locali nei paesi UE. Ponendo l’attenzione sull’agricoltura, per esempio, gli EPA, privilegiando le esportazioni delle grandi industrie dell’agro-business, favoriranno i grandi produttori del-l’Europa centro-settentrionale a danno di quelli del Sud e dell’Est Europa, e soprattutto a danno delle piccole imprese agricole, che costituiscono la vera ossatura dell’agricoltura UE.Le organizzazioni contadine europee hanno già identificato 14 prodotti a rischio, essenzialmente frutta, verdura e olive, che potranno subire forti riduzioni dei volumi di produzione, a causa della concorrenza che verrà esercitata dai colossi dell’agro-indu-stria: prodotti molto significativi, in quanto rappresentano più del 45% del valore aggiunto agricolo in 35 diverse regioni europee.Di fronte a questa realtà, le organizzazioni e i movimenti della società civile internazionale hanno promosso una mobilitazione tesa non solo alla denuncia e all’informazione, ma anche alla pressione nei confronti dei governi e della Commissione Europea, ottenendo, ad esempio, delle audizioni tra i rappresentanti delle organizzazioni contadine africane e i negoziatori europei.In Italia, intanto, si è riusciti ad ottenere un impegno formale del Governo per un maggiore approfondimento degli effetti degli EPA, se questi dovessero essere già applicati dal gennaio 2008. Allo stato attuale, anche grazie a questa mobilitazione, i negoziati hanno comunque subito un rallentamento, per cui i relativi effetti sembrano essere rimandati, nella speranza che l’azione politica possa portare a sostanziali modifiche in favore dei diritti umani di tanti popoli impoveriti.

Sono diverse le iniziative internazionali che denunciano gli effetti e promuovono mobilitazioni contro gli EPA. Tra queste, COSPE aderisce alla campagna Europafrica/Terre Contadine, per un’agricoltura solidale e sostenibile nel nord e nel sud del mondo.La campagna, oltre a fare informazione sul ruolo e l’importanza dell’agricoltura contadina in Europa e in Africa, ha promosso concreti partenariati tra diverse realtà regionali italiane e il ROPPA, la più grande or-ganizzazione contadina africana, che raccoglie oltre 10 milioni di aderenti da 12 paesi dell’Africa Occidentale. w

ww.e

uropafric

a.info

L intervista

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Stanchezza. È questa la parola che userei per descrivere lo stato delle relazio-ni tra Unione Europea e Balcani. Ormai c’è una vasta letteratura sulla fatica dell’integrazione, e sul conseguente rallentamento nel processo di avvicina-mento di nuovi paesi all’UE.Sfugge invece a molti che, anche nei Balcani, è cresciuta la stanchezza. Rispetto a quattro o cinque anni fa la parola Europa non ha più la stessa presa, e si è indebolito lo stesso potere di condizionamento dell’UE sui paesi dell’area.Lo si vede nella difficoltà di spingere la Bosnia Erzegovina verso le riforme, pure indispensabili, per sbloccare il suo assetto istituzionale insostenibile.Lo si vede nel nodo del Kossovo, dove, in assenza di un incentivo forte, la Serbia ha meno interessi a mediare, mentre i kossovari albanesi non possono confrontarsi con un progetto concreto alternativo all’indipendenza.E proprio la questione indipendenza-riconoscimento internazionale del Kossovo potrebbe portare riper-cussioni pesanti sulla stessa tenuta dell’Unione.Si è creata, insomma, una stanchezza su entrambe le sponde dell’Adriatico, che mette a rischio tanto la stabilità dell’area balcanica quanto l’avanzamento dell’intero progetto europeo.C’è il rischio di creare nuove fratture geografiche, come paradossalmente avvenuto nel 2004, quando otto paesi dell’est Europa sono entrati nell’UE.

Quell’allargamento ha creato anche nuovi muri verso le aree rimaste escluse: ad esempio, per i cittadini della Vojvodina – regione serba con una forte componente ungherese – che d’improvviso hanno visto irrigidirsi i confini fra Serbia e Ungheria.Lo stesso accadrà fra Croazia e Slovenia il primo gennaio 2008, quando quest’ultima entrerà nell’area Schengen. O potrebbe accadere quando la Croazia entrerà nell’Unione e il confine con il Montenegro diventerà frontiera comunitaria, spezzando a metà l’Adriatico.Oltre alle fratture geografiche, rischiano di aumentare le fratture sociali.È vero che tutta l’area balcanica cresce economicamente, però, guardando la qualità di questa crescita, si coglie una forte polarizzazione: c’è l’arricchimen-to dei ricchi ma anche l’impoverimento dei poveri.

Altri rischi di fratture, poi, si possono cogliere lungo la tradizionale divisione città-campagna. O lungo quella costa-entroterra, la prima ricca di turismo e flussi commerciali, il secondo abbandonato e deindustrializzato.E, infine, il rischio di fratture culturali.A partire dal risveglio di conflitti vissuti nel secolo scorso lungo il confine orientale d’Italia; è un bene che quel confine si sia scongelato, ma con esso si sono riaperte questioni mai elaborate come quelle delle foibe, dell’esodo, delle memorie divise tanto tra est e ovest quanto all’interno di ciascun popolo.

Aspettare stanca. I Balcanie l’Europa non mantenuta

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i balcani

di Mauro Cereghini Osservatorio sui [email protected]

anche nei Balcani, e’ cresciuta la stanchezza.

Rispetto a quattro

o cinque anni fa

la parola Europa non ha

piu’ la stessa presa,

e si e’ indebolito

lo stesso potere di

condizionamento dell’ UE

sui paesi dell’ area

l’inutile cancello

Paolo Del Signore

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Si e’ creata, insomma,

una stanchezza su

entrambe le sponde

dell’Adriatico, che mette

a rischio tanto la

stabilita’ dell’area

balcanica quanto

l’avanzamento

dell’intero progetto

europeo.

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E poi le fratture per i traumi delle guerre recenti, che non saranno cancellate solo dal tempo o dallo sviluppo economico. Anche se oggi il clima politico e sociale nei Balcani è più disteso, permangono in ciascuna comunità ricostruzioni storiche diverse e confliggenti.Del resto, paure e stereotipi negativi restano o addirittura aumentano nella nostra stessa Italia, ultimo il caso dei rom.Cosa può fare allora la cooperazione internazionale con l’altra sponda dell’Adriatico? Il punto da cui partire non sono i soldi.È invece fondamentale imparare a leggere i territori con cui si entra in relazione. Spesso si ignora la realtà concreta dei diversi paesi balca-nici, si agisce come fossero rimasti quelli di cinque o dieci anni fa e si dedica troppo poco tempo ad esplorarne i mutamenti.Seconda necessità è quella di costruire coerenze. Vari attori agiscono nei Balcani: serve allora un po’ di coerenza tra quanti intervengono, senza per questo pensare a rigidi centralismi. Piuttosto luoghi aperti, tavoli di lavoro tematici o geografici, occasioni di scambio orizzon-tale e di co-progettazione tra soggetti diversi, mediati da un centro – il Ministero degli Affari Esteri – da concepire come facilitatore di relazioni, anziché controllore di legittimità procedurali.Allo stesso modo va costruita coerenza nelle tematiche d’interven-to, perché è vero che sono cose diverse la cooperazione solidale, l’internazionalizzazione economica, la penetrazione commerciale, le

politiche migratorie, le politiche culturali; però, con i nostri vicini dell’est e del Mediterraneo, tutte queste politiche si fanno assieme, e quindi è neces-sario adeguare i diversi strumenti d’intervento.Infine la dimensione cul-turale: occorre affiancare all’azione concreta sul campo, fatta di interventi materiali, una dimensione culturale che favorisca la conoscenza reciproca tra cittadini d’Europa.

L’Adriatico e il Danubio sono canali storici di comunicazione, ma bisogna ricominciare ad usarli e far riemergere i simboli di comunan-za nella diversità. Per anticipare quella riunificazione promessa che i Balcani aspettano, e che l’Europa non riesce a mantenere.

* Questo articolo si basa sulla rielaborazione di un intervento tenuto al Forum delle Città dell’Adriatico e dello Ionio, svoltosi a Pescara il 28 e 29 settembre 2007.

Cospe tra balcani e Ue

Il lavoro del Cospe nei Balcani è frutto di una conoscenza approfondi-ta della regione e di una lunga riflessione sulla cooperazione e sui suoi strumenti, anche tenendo conto delle politiche europee e dei cambia-menti socio-politico-economici dei contesti in cui si trova a operare.I punti fondamentali su cui siamo oggi chiamati ad agire sono, la promozione della democrazia partecipativa, i diritti di cittadinanza, i diritti umani, la democrazia di genere, il miglioramento delle condi-zioni socio-economiche delle popolazioni più vulnerabili.Tutto questo lavorando in stretta collaborazione con le più avanzate espressioni della società civile organizzata di questi paesi, a nostro parere vero e proprio snodo cruciale nell’ambito della cooperazione internazionale.Il parere positivo della Commissione all’apertura dei negoziati per l’adesione con la Croazia costituisce un segnale positivo sulle prospet-tive di allargamento a sud est dell’Unione, in linea con le aspettative di allargamento anche alla Romania e alla Bulgaria.Mentre più problematica resta la situazione degli altri paesi dell’ex Jugoslavia e dell’Albania. Oggi la nuova politica europea di Prossimità e di Vicinato verso i paesi della sponda sud del Mediterraneo rappre-senta, più che una realtà, un’importante sfida, a cui Cospe partecipa, per la ricerca di un equilibrio nell’intera regione Euro-Mediterranea.

In Bosnia Erzegovina: Cospe opera prevalentemente in partenariato con l’Associazione per l’Imprenditoria e il Lavoro – Link di Mostar. Link è un’associazione di cittadini e imprenditori che si pone l’obiettivo di contribuire alla crescita sociale, politica ed economica la-vorando sui temi della giustizia economica e della responsabilità sociale delle imprese.In questo territorio, si è scelto di lavorare allo sviluppo locale di un territorio con un’ottica di pacificazione, partendo dalla ricostruzione del tessuto economico quale motore di sviluppo sociale e strumento di riconciliazione.

In Croazia: Cospe, in partenariato con la ONG Desa di Dubrov-nik, con il SE.A (iniziativa per il Segretariato Adriatico) e con una rete di enti locali marchigiani, opera con un programma di promozione di iniziative imprenditoriali nell’ambito dell’ecoturismo. Il programma supporta gruppi svantaggiati a divenire protagonisti nella loro realtà, attraverso l’avvio di attività generatrici di reddito, l’imprenditoria e la partecipazione attiva allo sviluppo della società civile.

Nell’area Sud Est Europa Cospe interviene nei seguenti am-biti: Democrazia, Diritti delle minoranze, Politiche di Genere, Sviluppo locale, Responsabilità sociale delle imprese, Micro finanza, Tutela e gestione ambientale, Micro impresa e Artigianato, Commercio Equo, Turismo responsabile.

Nei Balcani i processi di privatizzazione delle grandi imprese statali hanno determinato la progressiva espulsione dal mercato del lavoro di molti lavoratori con grosse difficoltà di successivo ricollocamento.Il sostegno a programmi per lo sviluppo della PMI privata hanno rappresentato una risposta al disagio sociale. Oggi appare evi-dente come, oltre ai progetti in favore della nascita della PMI, sia necessario lavorare alla crescita politica dei piccoli imprendi-tori, quali soggetti attivi per la crescita economica dei territori ed interlocutori degli enti di governo nella determinazione delle scelte di politica economica del territorio.A questo si aggiunge il ruolo dello strumento microcredito,

visto come fondamentale nell’operare per la nascita e lo sviluppo di sistemi democratici d’impresa. Secondo Cospe, però, sebbene il microcredito rappresenti oggi l’esperienza più conosciuta della finanza etica - promuovendo reti sociali tra soggetti rappresentativi della piccola impresa promossa “dal basso”- non può essere, di per sé, il fine di un intervento di sviluppo.Lo strumento del microcredito va inserito in una politica di intervento articolata, che includa anche programmi di formazione, assistenza tecnica e reti di relazioni che fondino la loro esistenza sulla “concertazione” tra i diversi attori di sviluppo.

Diritti economici e microcredito

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i balcani

Fatos Lubonja, nato nel 1951 a Tirana, scrittore, giornalista, attivista dei diritti dell’uomo, ex-prigioniero politico.Nel 1994 ha fondato la rivista trimestrale “Perpjekja” (“Impegno”).È autore di diversi libri, di cui due pubblicati in Italia: “Diario di un intellettuale in un gulag albanese”, Marco Editore, Lungro, 1994 e “Intervista sull’Albania. Dalle carceri di Enver Hoxha al liberismo selvaggio”, a cura di Claudio Bazzocchi, Il Ponte, Bologna 2004.Nel 1997 ha vinto il premio “Colomba d’oro per la pace, premio giornalistico” dato da Archivio Disarmo e COOP Italia e nel 2002 il premio Moravia per la narrativa straniera dato dal Fondo Moravia.

Breve StoriaNel 1998, pochi anni dopo l’abolizione della pena di morte in Albania e poco dopo l’approvazione della nuova Costituzione ritenuta pienamente conforme agli standard europei dagli esperti occidentali, mi capitò di fare un viaggio nel nord del paese, insieme ad un giornalista tedesco del “Die Welt”. Cercava storie sul tema del Kanun, il codice tradizionale che regola la vita sociale dei clan, in particolare le faide, ancora esistenti nel Nord dell’Albania.Sembrava che le faide e le storie sul ngujime (isolamento in casa dei maschi sopra i 15 anni di età facenti parte della famiglia di un assassino) avessero un fascino quasi esotico fra i lettori tedeschi.Nella città di Scutari, venimmo a conoscenza di molte storie, in particolare quella di un poliziotto in compagnia di suo figlio, aggredito per la strada da due banditi che volevano rubargli la pistola. Difendendosi, sparò e uccise uno dei banditi. Poco tempo dopo, nel rispetto della legge del Kanun, la famiglia del bandito uccise il fratello del poliziotto, che lasciava una moglie e due bambini piccoli. Secondo il Kanun, la vendetta era compiuta, secondo il Codice Penale, il poliziotto aveva agito secondo legittima difesa e l’assassino di suo fratello doveva essere punito.Forti tensioni si erano create fra le due famiglie, per la cui riconciliazione si era impegnata una ONG locale. Il suo intervento si rivelò un “successo”, testimo-niato da un atto di riconciliazione che venne mostrato a me e al giornalista tedesco: il documento portava, da una parte, la firma di tre membri di una famiglia, dall’altra quella di tre membri dell’altra famiglia. Vicino ad esse, erano apposte le firme del presidente della ONG intervenuta e – qui la storia acquisisce tratti surreali – quella del capo della polizia di Scutari e quella del rappresentante OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) a Scutari.Durante una conversazione, i rappresentanti della ONG promotrice della riconciliazione ci illustrarono il progetto che avevano in mente di

realizzare: «Vorremmo apportare delle modifiche al Kanun, per attuare ciò che si è già compiuto in Montenegro, che la vendetta delle faide non ricada su tutti i membri di sesso maschile di una famiglia, ma solo su chi ha compiuto l’omicidio».

La caduta del comunismoe la problematica dell’avvioQuando cominciarono la transizione post comunista, i paesi ex comunisti erano concentrati sull’idea di avviare istituzioni democratiche governative e non sul modello occidentale per realizzare importanti trasformazioni, quali attuare la separazione dei poteri, colmare il vuoto tra istituzioni e società civile e compiere il passaggio da un’economia pianificata ad una di mercato.A più di dieci anni dall’inizio del processo di transizione post comunista, è chiaro che i vari paesi dell’Europa orientale hanno proceduto in dire-zioni e a velocità diverse. Non ha senso paragonare la Polonia, l’Unghe-ria, la Repubblica Ceca ai Balcani o alla Federazione Russa. Negli stessi Balcani in questi anni, abbiamo assistito ad esperienze di transizione diverse. Mi concentrerò sull’esperienza dell’Albania, anche se molte delle seguenti questioni sono comuni ad altri paesi.

Le problematiche principaliCome instaurare e far prosperare istituzioni democratiche di derivazio-ne occidentale in un terreno dalla cultura e mentalità diverse? In altri termini: i paesi uscenti dal regime comunista si sono trovati di fronte al sistema pluralista e al libero mercato. Entrambi significano competizio-ne. Com’è possibile conservare l’aspetto costruttivo senza che degeneri in conflitto, in una cultura priva dei valori della competizione e del pluralismo?

Gli ibridi steriliI germogli delle istituzioni democratiche trapiantate dall’Occidente non sono stati seminati in un terreno neutro, ma sono stati innestati nel tronco di mentalità e cultura tradizionali. Nella maggior parte dei casi, il risultato di questo processo è un ibrido, la cui caratteristica principale è la sterilità e l’incapacità di riprodursi. Focalizziamoci su alcuni di questi ibridi.

Pluralismo politico Il lungo periodo di totalitarismo, monopartitismo e egualitarismo forza-to, ha impedito nei paesi dell’Est la formazione di classi socio-economi-che e quindi di basi per la crescita di partiti che rappresentino interessi socio-economici diversi.

Ibridi Sterilil’attuazione delle istituzioni occidentali in Albania

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albania

di Fatos Lubonja

andrea frazzetta

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Non ci sono state basi per la creazione di un partito conservatore o liberista, di un polo di sinistra o di destra. Il primo grande nuovo partito in Albania dopo l’autoriz-zazione al pluripartitismo è stato il partito creato dal movimento anticomunista: il Partito Democrati-co (PD), opposto al partito laburista

(comunista), che presto ha cambiato il nome in Partito Socialista.Il PD così come i socialisti, il primo tra 1992-1997 e i secondi dal 1997 al 2003, hanno promosso lo stesso programma: incoraggiare le privatizzazioni per rendere il paese capitalista. Entrambi sono cresciuti velocemente, occu-pando l’intera scena politica, rappresentando gli interessi di tutto il popolo e ottenendo profitti attraverso il potere, in presenza di un’opposizione di facciata. La situazione descritta è lontana dal concetto di sistema pluripar-titico di tipo occidentale. In effetti, siamo in presenza di due partiti le cui attività politiche si sono tradotte in una battaglia fra forti oligarchie intorno a gruppi politici diversi. Societa’ CivileIn Albania l’idea di società civile è stata introdotta con successo, ma la sua concretizzazione non può dirsi riuscita. Paradossalmente, ciò che teoricamente la concezione occidentale considera “società civile” risulta essere qualcosa di diverso se trasposto nella realtà albanese, per il solo fatto che è il risultato di un processo innestato dall’Occidente. L’Occidente rappresenta un fattore terzo nella dicotomia Stato-società civile e la sua influenza è forte per due fattori.Primo, la società civile creata con il denaro degli stati occidentali è come un albero con le radici rivolte al cielo: il suo nutrimento deriva da fattori esterni al paese, non solo in termini di supporto finanziario, ma anche perché in molti casi la motivazione della sua creazione viene dall’Occidente.È un prodotto artificiale, che ha dimostrato e continua a dimostrare la sua incapacità a produrre effetti durevoli e ad affondare le radici nel Paese.In secondo luogo, l’Occidente ha spesso confuso l’idea della creazione di una società civile con l’azione di aiuto umanitario, usando le ONG per favorire la diffusione di una mentalità liberal-democratica e del libero mercato tra la popo-lazione. Di conseguenza, la società civile è diventata uno strumento per riciclare l’intellighenzia comunista dipendendo dagli aiuti e dalle politiche occidentali.Il risultato è drammatico: il Paese ha problemi nell’ambito dei diritti umani, libertà dei media, salute, educazione, ambiente, ecc ed è difficile, ad oggi, trovare una ONG che alzi la voce per contestare decisioni del Governo, inadeguate su questi temi. Al contrario, le poche che ancora provano a fare qualcosa, non hanno alcuna influenza.

Liberta’ dei media I mezzi di comunicazione sono al servizio di gruppi politici ed economici e la maggior parte dei giornalisti e intellettuali lavorano per loro.L’industria dei media è “sponsorizzata” dai soldi che questi oligarchi hanno otte-nuto dai favori dei politici, creando un mondo virtuale che strumentalizza l’opi-nione pubblica anziché informarla, come ai tempi della propaganda comunista.

Libero mercatoDopo più di dieci anni passati a sviluppare un’economia capace di compe-tere con il libero mercato occidentale, l’Albania è lontana da poter essere considerata un’economia di mercato.È il frutto mostruoso di un ibrido tra libero mercato, illegalità, crimine orga-nizzato, corruzione, tradizione dei clan.È impensabile una politica restrittiva che impedisca i traffici illegali, crei lavoro in patria, costringa ad osservare le norme.Non solo, quindi, la maggior parte delle persone sono povere, ma non si sentono neanche rappresentate e non hanno gli strumenti per controllare chi detiene il potere.

ConclusioneSe si considera l’estrema sinistra come una combinazione di uguaglianza e metodi autoritari e il polo opposto, l’estrema destra, come una combi-nazione di ineguaglianza e metodi autoritari1, al momento della caduta del comunismo l’Albania aveva un regime di estrema sinistra. Adesso, dopo il periodo di transizione post comunista, il pendolo si è spostato velocemente all’estrema destra. Un gruppo di oligarchi controlla allo stesso tempo politica, finanza, media e crimine organizzato, minacciando non solo la sopravvivenza economica della popolazione, ma anche la sua libertà.

1 Norberto Bobbio, Destra e Sinistra, Donzeli Editore, Roma, 1994

*Estratto dell’intervento tenuto nella conferenza “Concerning intervention” tenutosi a Montreal (Canada) 2003

Alla crisi di un modello di welfare (e tanto avanzato quanto fragile), come si aveva nei regimi comunisti dei Balcani e dell’Est Europa, non se ne è sostituito un altro, anzi ha preso vita una corruzione diffusa nel pubblico, o modelli privatistici a cui hanno accesso solo le classi sociali più alte.La fine dei regimi, infatti, non solo ha eliminato quelle forme di tute-la riconosciute, ma, anzi, la cultura patriarcale ha trovato nuovi spazi.I Balcani hanno inoltre conosciuto il dramma della disintegrazio-ne della Jugoslavia, tensioni politiche anche con i paesi confinanti, conflitti etnici e guerre che hanno portato ad una forte polarizzazione politica, destabilizzazione, intolleranza, migrazioni forzate, nonché ad una grande crisi economica, al diffondersi della disoccupazione e all’impoverimento di gran parte della popolazione.Tutto questo ha contribuito a indebolire soprattutto le donne: sono loro le più colpite da questi processi. Ed è per tutto questo che le donne de-vono essere considerate soggetto centrale per promuovere democrazia e diritti umani, processi di pacificazione, di integrazione in Europa.

Cospe in Albania: Cospe è presente sin dal 1995 con vari interventi a sostegno sia della società civile che delle istituzioni locali nella regione settentrionale del Paese, la regione di Shkodra. Dal 1998 Cospe opera nell’area rurale della Zadrima, sostenendo il decentramento amministrativo in un’ottica di democrazia partecipativa, attraverso il sostegno all’associazione di 5 comuni albanesi, l’Intercomunale della Zadrima, (prima esperienza nel paese) sulle tematiche della good governance. Dal 2001, inoltre, Cospe ha promosso e sostenuto la nascita e lo sviluppo di un Centro Donna, che porta il nome “Passi Leggeri”, che oggi rappresenta spazio pubblico riconosciuto anche dalle istituzioni locali dove le donne sperimen-tano aggregazione, iniziative economiche, progettualità sociale e difesa dei diritti, lobbing istituzionale.

EQUITa’ DI GENERE

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sul tema del Kanun,

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in particolare le faide,

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il modello occidentale

Pino d’amico

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La Rete RAXEN ha raccolto, per l’anno 2005-2006, informazioni sull’ap-plicazione sulla Direttiva Europea sulla Parità di Trattamento. All’interno del suo rapporto conclusivo, le legislazioni dei paesi europei sono state classificate a seconda della certezza, della consistenza e della frequenza delle sanzioni ai comportamenti discriminatori sulla base della razza, della nazionalità o della religione.Mentre ci sono paesi in cui le sanzioni sono certe e frequenti (Francia e Regno Unito), è emersa in altri paesi (come la Spagna o la Germania) l’assenza di enti operativi specializzati sul tema.In questa statistica, l’Italia resta in una situazione in cui, pur esistendo la possibilità per le vittime di ricorrere in giudizio, non sono previste effettive e regolari sanzioni, mentre la lotta alle discriminazioni resta soprattutto una questione di “moral pressure”.In Italia le mobilitazioni e le pratiche di contrasto al razzismo e alle discriminazioni promosse dalle associazioni di tutela sono state sempre inquadrate nelle azioni di accesso ai diritti per i migranti.I migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati sono certamente fra i più colpiti da atti e pratiche discriminatorie, ma c’è il rischio di considerare le discriminazioni basate su razza, nazionalità e religione come dovute alle politiche migratorie e di asilo.In realtà le pratiche razziste e discriminatorie colpiscono anche persone che immigrate non sono, e che necessitano di politiche specifiche.Una delle manifestazioni più evidenti dell’intreccio tra politiche d’im-migrazione e contrasto alle discriminazioni si trova nella previsione del Testo Unico 286/98 di due articoli anti-discriminazione per “motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”, che prevedono delle misure di tutela, non modificate dalla successiva “Legge Bossi-Fini” e anzi completate dalla direttiva UE.

Trasposizione della Direttiva sulla Parita’ di TrattamentoNel modo in cui la Direttiva 2000/43/CE è stata trasposta nella legislazione nazionale spiccano alcune fondamentali omissioni e stravolgimenti.La prima riguarda la mancata introduzione della condivisione dell’onere della prova, che nella forma adottata resta completamente a carico del ricorrente.La seconda riguarda la mancata previsione delle misure necessarie per abro-gare le disposizioni legislative e amministrative contrarie al principio della parità di trattamento. Obbedendo alla direttiva, è stato creato nel novembre 2004 l’UNAR (Ufficio Nazionale Anti-Discriminazione Razziale), presso il Dipartimento Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, con lo scopo

di promuovere la parità di trattamento: seri dubbi tuttavia ci sono sulla sua reale indipendenza (dato che la sua struttura dipende dal Governo in carica) e accessibilità (visto che la sua unica sede è a Roma). Infine, il percorso scelto per la trasposizione della direttiva non ha coinvolto le organizzazioni della società civile: per esempio, dopo due anni ancora non è stata ancora costi-tuita la “lista speciale”, prevista dal decreto, a cui le associazioni dovranno iscriversi per poter agire in giudizio per conto e su mandato delle vittime di discriminazioni.

Razzismo e discriminazioni ai tempi della “Bossi-Fini”Pur non modificando gli art.43 e 44 del TU sulla tutela dei diritti, la “Legge Bossi-Fini” ha creato delle condizioni nelle quali possono manifestarsi nuove e ulteriori discriminazioni. L’istituto del “contratto di soggiorno” – con alloggio e spese di rimpatrio a carico del datore di lavoro – pone il migrante in condizione di svantaggio nella ricerca di un lavoro, mentre il legame stretto fra l’essere occupato e l’accesso al titolo di permanenza in Italia ne indebolisce di molto il potere contrattuale.Oltre a questo, la legge “Bossi-Fini” ha creato anche il contesto nel quale sono maturate delle discriminazioni da parte di altri soggetti – ad esempio il Consiglio Regionale della Lombardia, che ha previsto condizioni di svan-taggio per gli immigrati nell’accesso alla casa – e, in generale, ha creato un clima nel quale l’immigrazione è vista negativamente, favorendo, da parte del precedente governo di centro-destra, perfino l’ostilità all’applicazione della “Legge Mancino” che proibisce l’incitamento all’odio razziale e alla discriminazione.

Prospettive future per la parita’ di trattamentoPer una politica alternativa di contrasto del razzismo e delle discrimina-zioni, occorre innanzitutto migliorare la conoscenza del fenomeno, con indagini che ne chiariscano le dinamiche nei vari settori della vita pubblica e integrando i contributi delle associazioni, della ricerca accademica e delle autorità pubbliche. Mentre sul fronte delle istituzioni pubbliche occorre che il principio di parità di trattamento entri a far parte delle politiche a vari livelli, sul fronte delle associazioni, dei sindacati e dei gruppi religiosi occorre rafforzare le reti informative e di scambio di esperienze sul campo.E, oltre a ciò, una sempre più valida formazione dei vari soggetti che hanno responsabilità e interesse sul tema rappresenta un indiscutibile valore aggiunto.

Per una lotta efficace

al razzismo e alle discriminazioni:dall’Europa all’Italia

RAPPORTO ANNUALE RAXEN 2006

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INTRODUZIONE Il Rapporto Annuale Raxen fornisce ogni anno dal 2002 una panoramica completa della situazione in Italia relativa al razzismo e alle discriminazioni in 5 aree tematiche: istruzione, occupazione, alloggio, legislazione, violenza e crimini razzisti e costituisce anche la base per i rapporti comparativi della FRA-Agenzia Europea per i diritti fondamentali. In tutti i settori analizzati nel rapporto Raxen 2006 il problema principale rimane la discriminazione basata sulle origini “razziali”, etniche o nazionali. Allo stesso tempo i documenti ed i rapporti esaminati confermano una crescente consapevolezza da parte di numerosi stakeholders e delle vittime in particolare, della necessità di utilizzare gli strumenti esistenti per contrastare tale problema e promuovere la parità di trattamento. Questa nuova consapevolezza è testimoniata anche dalla positiva risposta pubblica al numero verde gratuito istituito dall’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR). Nel dicembre del 2005, l’UNAR ha presentato il suo primo rapporto annuale 1.

Su 3438 chiamate, solo 282 sono state reputate attinenti a casi di discriminazione razziale, sui quali gli esperti sono intervenuti.L’istruttoria dell’UNAR, pur prevedendo la messa a disposizione di consulenza legale e assistenza giudiziale alla presunta vittima, non ha condotto, in nessun caso, ad intraprendere un procedimento giurisdizionale 2, essendo state rimosse, a quanto emerge dalla relazione, le condotte discriminatorie attraverso un’attività informale di tipo conciliativo, di mediazione e moral suasion.Sul totale dei casi trattati, il 43,3% (122 casi) è costituito da molestie. Tra gli immigrati che denunciano di aver subito atti di intolleranza, quelli provenienti dall’Africa sono i più numerosi (37,6%). Gli ambiti di maggiore discriminazione sono quelli lavorativo (28,4%) e abitativo (20,2%) e ben il 16% degli abusi è da parte di Enti pubblici e locali.Il testo che segue è una sintesi del rapporto completo, disponibile sul sito http://www.cospe.org.

RAPPORTO ANNUALE RAXEN 2006

RAXENLa rete di informazione europea su razzismo e xenofobia, è stata creata nel 2000 dall’EUMC, l’Osservatorio di Vienna su razzismo e xenofobia (che dal marzo 2007 si è trasformato in FRA – Agenzia Europea per i Diritti Fondamentali) al fine di fornire all’Unione Europea e agli Stati membri dati obiettivi, affidabili e comparabili a livello europeo su razzismo, xenofobia ed antisemitismo.La rete è attualmente composta da 27 punti focali nazionali (uno per ogni stato membro) e dal 2001 il punto focale nazionale per l’Italia è il Cospe.

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Casi di violenza razzistasettembre 2005 - settembre 2006

Tipologie di violenza razzista numero di casi

Violenze verbali 94

Sentenze dei tribunali e della Cassazione 15

Violenze fisiche 94

Totale 203

Sul numero totale di casi di violenza razzista (203)

Casi di antisemitismo 36

Casi di islamofobia 28

Casi che coinvolgono stranieri, immigrati, profughi, figli di coppie miste, irregolari, “extracomunitari” ecc... 117

Casi che coinvolgono rom 22 Fonte: quotidiani, siti d’informazione on-line, agenzie di stampa

LEGISLAZIONENel 2006 vi sono stati pochi sviluppi legislativi rilevanti in tema di contrasto alle discriminazioni e di promozione dell’eguaglianza.Il cambiamento più significativo ha riguardato l’approvazione di una nuova legge sui “reati d’opinione”3, che modifica gli articoli del Codice Penale contro l’incitamento all’odio razziale, rendendo le pene più lievi ed interviene su due sezioni della legge n. 654/75 di ratifica della Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di ogni Forma di Discriminazione Razziale.Il nuovo provvedimento restringe il campo di applicazione della precedente normativa e riduce il massimo della pena detentiva per incitamento all’odio razziale o alla violenza da tre anni a otto mesi, dando al giudice la possibilità di sostituire la pena detentiva con una pena pecuniaria.Inoltre, la nuova legislazione estende ad altre religioni la stessa protezione accordata alla religione Cattolica, in materia di offese contro il sentimento religioso o verso un’autorità religiosa, vandalismi contro i templi e altri luoghi di culto.Altri interventi legislativi hanno riguardato la prevenzione dei fenomeni di violenza, anche razzista, in manifestazioni agonistiche o sportive in genere: la legge 17 ottobre 2005 n. 210 ha convertito, con modificazioni, il dl del 17 agosto 20054 n. 162, recante ulteriori misure per contrastare i fenomeni di violenza in occasione di competizioni sportive. Nel marzo 2006, la FIFA, massimo organismo del calcio mondiale, ha modificato l’art. 55 del codice di disciplina sportiva5, stabilendo pene severe per chi si rende colpevole di episodi di razzismo all’interno degli stadi.Il Consiglio dei Ministri ha approvato due schemi di decreto legislativo, successivamente inviati al Parlamento per l’approvazione: il primo riguarda l’attuazione della Direttiva Europea 2003/109/CE relativa allo status dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo; il secondo contiene una riforma dell’ attuale legge sull’acquisizione della cittadinanza italiana.Il nuovo progetto di legge cambierà le condizioni di accesso alla cittadinanza per i bambini nati in Italia da genitori stranieri, limiterà l’acquisizione della cittadinanza tramite matrimonio e ridurrà da dieci a cinque anni il periodo minimo di residenza legale e continuativa nel paese affinché un cittadino straniero possa presentare domanda di cittadinanza.L’acquisizione della cittadinanza da parte dei bambini nati in Italia da genitori stranieri sarà agevolata, anche se rimarrà soggetta al possesso da parte di almeno uno dei genitori del requisito reddituale previsto per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo.Il progetto di legge prevede inoltre che in tutti i casi in cui siano coinvolti adulti, l’acquisizione della cittadinanza sia soggetta ad una prova per determinare il livello linguistico e l’integrazione sociale.Nella Legge Finanziaria relativa al 2006 è stato inserito un articolo che prevedeva un contributo statale di 1.000 euro ai genitori dei bambini nati nel 2005 e nel 2006, dal quale erano esclusi i bambini dei cittadini non comunitari6. Ciò nonostante, prima delle elezioni legislative del mese di aprile 2006, l’allora presidente del consiglio Berlusconi ha mandato una lettera a tutti i bambini nati nel 2005 e nel 2006, inclusi i figli degli immigrati non comunitari, nella quale si affermava che per ricevere il buono di mille euro era sufficiente recarsi in un ufficio postale, portando con sé una copia della lettera e l’atto di nascita del bimbo.Molti genitori stranieri hanno richiesto e ricevuto tale somma in buona fede, tuttavia per molti di loro la magistratura ha avviato un’inchiesta per truffa aggravata ai danni dello Stato, perché non avevano diritto ad avere il bonus, benché avessero ricevuto la lettera a loro nome, che apparentemente li autorizzava a riscuotere tale somma.Nel luglio 2006, il nuovo Governo ha deciso di non chiedere la restituzione del bonus ai genitori stranieri che l’hanno riscosso e di non richiedere nemmeno i 3.000 euro di multa previsti per il reato. Tuttavia, alcuni magistrati hanno rinviato in giudizio alcuni degli immigrati coinvolti per appropriazione illecita e, sebbene in caso di condanna questa accusa comporti una multa minore, tutto questo potrebbe avere conseguenze negative sul rinnovo del loro permesso di soggiorno.Nel 2006 la Corte di Cassazione ha adottato una serie di decisioni controverse ed evidentemente contraddittorie sul tema dei comportamenti che costituiscono insulti razziali.La Quinta Sezione Penale7, chiamata ad esprimere un giudizio su un caso di un sessantenne italiano che aveva insultato una bambina di sei anni in un luogo pubblico chiamandola “sporca negra”, ha affermato che nell’uso di quelle parole vi era un intento discriminatorio.La Corte ha ritenuto che l’insulto implicasse un evidente pregiudizio di inferiorità di una specifica “razza” o gruppo e dunque avesse un intento discriminatorio basato sull’odio etnico e razziale. Questa decisione è importante, poiché proviene dalla stessa Sezione della Corte di Cassazione che, non molto tempo prima, aveva emesso una sentenza molto differente in un caso simile.Nel marzo del 20068 ha prosciolto una donna che aveva indirizzato le stesse parole ad un collega di origini mediorientali. In quel caso la Corte ha affermato che, poiché il querelante e l’imputato si erano scambiati insulti vicendevolmente e la donna aveva agito in uno stato emotivo alterato dall’ira, la reciprocità degli insulti ha reso non punibile la donna.Nel dicembre 2005, ancora la stessa Sezione aveva assolto da un’accusa simile un uomo che aveva aggredito fisicamente due donne chiamandole “sporche negre”. Anche in quel caso i giudici hanno deciso che si trattava di un insulto “generico” e che non potevano quindi essere applicate in questo caso le leggi che puniscono gli insulti razziali

OCCUPAZIONEGli immigrati continuano ad essere imprigionati in impieghi precari, con difficili condizioni di lavoro caratterizzate da orari lunghi, bassi salari e indennità non riconosciute.La maggior parte di loro ricopre mansioni non specializzate, compie pochissimi progressi in carriera e, per gli immigrati regolari provenienti da paesi terzi, resta attualmente impossibile l’accesso al pubblico impiego.Un’alta percentuale di donne immigrate è confinata nel lavoro domestico e di cura, settori in cui il fenomeno delle discriminazioni multiple è molto esteso. In questo modo, le donne immigrate scontano la progressiva riduzione delle risorse per i servizi sociali.Una ricerca di Medici senza Frontiere ha rivelato le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati impiegati in agricoltura9. Oltre a metterne in luce le terribili condizioni abitative, sanitarie e alimentari, l’indagine svela lo stretto legame tra il lavoro nero (il 95,8% degli stagionali intervistati sono privi di un contratto di lavoro), la sottoccupazione gestita dal caporalato (la maggior parte degli intervistati riesce a lavorare solo 2 o 3 giorni alla settimana) e l’alto grado di sfruttamento perseguito (la maggior parte percepisce un salario giornaliero pari o inferiore ai 25 euro per una giornata di lavoro che in genere è di dieci ore).

Anche nel 2006 si osserva una forte presenza di lavoratori immigrati nel settore edile. Le stime della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle morti bianche indicano l’edilizia, con una media di 330-350 morti l’anno, come uno dei settori a maggior rischio infortunistico. I dati Inail del 2005 mettono in luce che il settore edile è il comparto nel quale si registra il maggior numero di infortuni sul lavoro (104.554) e il più alto numero di morti (263)10 e che, in questo settore, infortuni e condizioni di lavoro irregolare riguardano in primis i lavoratori immigrati.L’aumento degli infortuni subiti dai lavoratori immigrati (tra il 2003 e il 2004 del 7%) a fronte di una diminuzione di quelli subiti dagli autoctoni e l’incremento degli infortuni del 56% rispetto al 200111 sono dati molto indicativi.Non è casuale, infatti, che a dover essere più facilmente obbligati al lavoro nero e ad essere maggiormente esposti ad infortuni siano i lavoratori immigrati, maggiormente vulnerabili nel mercato del lavoro a causa di una doppia discriminazione, istituzionale e razziale.

RAPPORTO ANNUALE RAXEN 2006

Casi di violenza verbale per tipo valori assoluti

settembre 2005 - settembre 2006

Tipologie di violenza verbale numero di casi

Offese, ingiurie, discorsi discriminatori da parte di esponenti politici, istituzioni e attori non istituzionali, ecc. 40

Insulti e manifestazioni razziste da parte di tifoserie e sportivi 10

Scritte, immagini e vignette razziste, antisemite o islamofobe 38

Manifestazioni pubbliche di razzismo 6

Totale 94 Fonte: quotidiani, siti d’informazione on-line, agenzie di stampa

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gli autorivalori assoluti

settembre 2005 - settembre 2006

Tipologie numero di casi

Individui o gruppi (comuni o ignoti) 85

Attori istituzionali 40

Forze dell’ordine 19

Tifoserie e sportivi 9

Esponenti dell’estrema destra 27

Esponenti della Lega Nord 23

Totale 203 Fonte: quotidiani, siti d’informazione on-line, agenzie di stampa

Gli infortuni e l’insorgere di malattie professionali sono spesso attribuiti alla mancata conoscenza e all’inosservanza delle norme di sicurezza.Nel caso degli immigrati, per spiegare la maggiore incidenza tra di essi di questi episodi, si ricorre al leit-motiv della limitata comprensione delle norme anti-infortunistiche (a causa di problemi linguistici) o ad una scarsa abitudine all’osservanza delle norme dovuta alla loro mancanza nei paesi di provenienza, ma non si intuisce perché, se la comprensione della lingua è sufficiente per capire le mansioni da svolgere, non dovrebbe esserlo per cogliere le modalità con cui tutelarsi.Un così alto numero di incidenti nel settore si deve piuttosto al ricorso a più livelli di subappalto, alla mancanza di controlli dovuta alla intrinseca inacessibilità e mobilità dei cantieri, oltre che alla carenza di personale deputato, che hanno comportato un aumento dei ritmi di lavoro, della precarietà, del ricorso al lavoro nero.Un’inchiesta del Sole 24 Ore ha rivelato che il 15% degli iscritti alle agenzie di lavoro interinale, pari a 650 mila lavoratori, è costituito da immigrati12.L’alto numero di lavoratori immigrati che hanno accesso all’impiego attraverso il lavoro interinale, notoriamente caratterizzato da precarietà, scarse tutele, mancanza di ammortizzatori sociali, è indice di una discriminazione in corso.Tutte le sentenze emesse nel 2006 riguardanti le discriminazioni nel settore dell’occupazione hanno a che fare con il problema dell’accesso dei cittadini al settore dell’impiego pubblico.Mentre la maggior parte delle sentenze dei tribunali ordinari considerano discriminatorio l’utilizzo della cittadinanza come requisito essenziale e determinante per l’accesso all’impiego pubblico (per impieghi che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri e che non attengono alla tutela dell’interesse nazionale), le sentenze dei tribunali amministrativi tendono a considerare come legittime le esclusioni basate sulla mancanza del requisito della cittadinanza.

RAPPORTO ANNUALE RAXEN 2006

ISTRUZIONEIl sistema educativo italiano è generalmente giudicato inclusivo, tuttavia anche nel 2006 emergono prove che confermano l’esistenza di situazioni di discriminazione vissute dagli alunni con cittadinanza non italiana.Il principio ispiratore della politica di inclusione dei ragazzi non italiani resta l’educazione interculturale, costruita sui concetti di promozione della diversità e del dialogo tra le persone e le culture, senza però necessariamente mettere in dubbio le disuguaglianze esistenti e promuovere la parità di opportunità e di trattamento.Il numero di bambini non italiani nelle scuole continua ad aumentare, sia nei numeri assoluti che in termini di incidenza sulla popolazione totale della scuola. Nell’anno scolastico 2005/2006, la percentuale di studenti stranieri nelle scuole italiane si è attestata sul 4.8% del totale della popolazione scolastica, con grandi differenze in termini di distribuzione tra le regioni (7,8% nelle regioni del nord-ovest, 8,4% nel nord-est, 6,4% al centro, 1,2% al sud e 1,0% nelle isole)13.Secondo i dati del Ministero dell’Istruzione, gli studenti stranieri sono caratterizzati da forte ritardo nelle loro carriere scolastiche. All’inizio della scuola primaria, uno studente straniero su dieci è iscritto in una classe più bassa rispetto alla sua età e la situazione peggiora ai livelli scolastici più alti. Al primo anno della scuola media, circa la metà degli studenti non italiani ha un ritardo di uno o più anni nella carriera scolastica, mentre nella scuola superiore questa percentuale sale al 75%.La sproporzione nel tasso di promozione non è molto diversa. Nonostante il Ministero dell’Istruzione richieda alle autorità scolastiche di iscrivere gli studenti non italiani nelle classi corrispondenti alla loro età (ad eccezione di un limitato numero di casi), le iniziali difficoltà nella lingua che incontrano gli studenti nati all’estero e che non hanno iniziato la scuola in Italia vengono usate come giustificazione da molte istituzioni scolastiche per iscriverli in una o più classi inferiori rispetto a quella corrispondente alla loro età anagrafica.In un importante documento emanato dal Ministero dell’Istruzione nell’aprile del 200614, gli insegnanti vengono invitati a prendere in considerazione diversi fattori per valutare i progressi degli studenti non italiani, inclusi il loro percorso formativo precedente, le conoscenze e le capacità acquisite in relazione ai risultati di apprendimento previsti, la motivazione, ecc.L’attenzione è inoltre rivolta alla posizione dei bambini non italiani diversamente abili nel mondo della scuola e si sottolinea il rischio che iniziali o persistenti problemi di linguaggio per molti bambini non italiani siano scambiati per problemi di apprendimento.

ALLOGGIO Per quanto riguarda la discriminazione nel settore dell’alloggio, le statistiche rimangono scarse e spesso incoerenti. Alcune tendenze emerse negli anni scorsi sono state confermate anche nel 2006: molti immigrati comprano casa in parte per migliorare le loro condizioni abitative ed evitare di pagare un affitto sempre più oneroso e in parte come risposta alla discriminazione operata dagli agenti immobiliari e dai locatori, i quali si rifiutano di affittare appartamenti a cittadini non comunitari.Una percentuale significativa di casi di discriminazione monitorati dall’UNAR sono nel settore immobiliare. Nel suo rapporto 2006, l’ufficio ha messo in evidenza l’esistenza di una diffusa discriminazione diretta in questo settore ed ha reso nota l’esistenza di annunci di affitto, pubblicati in giornali specializzati o in Internet, che escludono esplicitamente i migranti con cittadinanza extraeuropea.Uno studio del CNEL sugli indici di integrazione degli immigrati in Italia ha analizzato l’indicatore di disagio abitativo utilizzando i dati del Censimento 200115. Tale indicatore mostra, per ciascun contesto territoriale, quanti, tra i cittadini originari di paesi a forte pressione migratoria o apolidi che occupano a vario titolo un’abitazione, vivono in condizioni di grave sovraffollamento16.Nelle regioni in cui il disagio abitativo risulta meno pesante, la quota di residenti stranieri in condizioni di grave sovraffollamento oscilla tra il 4,3% del Friuli e il 6% delle Marche. Si collocano invece nella fascia alta del disagio abitativo la Puglia, la Lombardia, la Campania, la Sardegna e la Valle d’Aosta, con percentuali tra il 10,1% e il 13,8%.Per comprendere le forti differenze di condizione abitativa tra cittadini italiani e stranieri, basta ricordare che solo lo 0,9% di italiani è colpito dal problema del sovraffollamento.Nel suo Terzo Rapporto sull’Italia17, ECRI ha analizzato le condizioni abitative degli immigrati e delle minoranze, in particolare rom e sinti, evidenziando le condizioni di segregazione in cui vivono all’interno dei campi nomadi.Già nel precedente rapporto del 2002, ECRI aveva raccomandato alle autorità italiane di intervenire con politiche volte a migliorare le condizioni abitative dei rom, ma in questi anni ci sono stati pochissimi progressi nella lotta alla discriminazione e alla segregazione abitativa, anche perché l’approccio delle autorità nazionali e locali al disagio abitativo di rom e sinti continua a basarsi sul principio che siano popolazioni nomadi e quindi debbano essere relegate in campi.Il problema della formazione di “quartieri ghetto” e della segregazione abitativa nelle grandi e medie città italiane è emerso nel 2006 in maniera evidente. Roma e Milano presentano situazioni di estremo disagio e degrado, che spesso vengono alla ribalta della cronaca e che le politiche comunali non riescono a fronteggiare adeguatamente18.Un caso che ha suscitato molte polemiche è quello di via Anelli a Padova, un quartiere ad alto tasso di criminalità, formato da alcuni grandi palazzi abitati per lo più da cittadini stranieri che, dopo una serie di problemi di ordine pubblico, è stato circondato da una barriera in metallo lunga 80 metri e larga 3, con un check-point all’entrata presidiato dalle forze dell’ordine.La decisione dell’autorità comunale ha incontrato il favore dei cittadini della zona e suscitato le proteste di molte associazioni anti-razziste, che considerano la barriera un vero e proprio “simbolo di segregazione” urbana19.

Casi di violenza fisica per tipovalori assoluti

settembre 2005 - settembre 2006

Tipologie di violenza fisica numero di casi

Maltrattamenti, aggressioni, ferimenti, ecc...da parte di attori non istituzionali 39

Abusi e violenze da parte delle forze di polizia 16

Maltrattamenti, aggressioni e scelte politiche discriminatorie e razziste da parte di istituzioni politiche e amministrative

26

Morti conseguenti ad aggressioni da parte di individui o ignoti 13

Totale 94 Fonte: quotidiani, siti d’informazione on-line, agenzie di stampa

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firenzevia Slataper, 10 - 50134 Firenze

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Nel corso del 2005 sono state emanate alcune interessanti sentenze riguardanti discriminazioni in ambito abitativo. Per la seconda volta, il TAR della Lombardia ha giudicato discriminatorio e incostituzionale il Regolamento Regionale per l’assegnazione e la gestione degli alloggi di Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), laddove prevede sia uno sbarramento di 5 anni – di residenza o lavoro in Regione – per l’ammissibilità delle domande, sia che l’anzianità di residenza sia conteggiata ai fini del punteggio per la collocazione in graduatoria delle domande accolte20.Anche una delibera della giunta comunale di Vicenza, contenente criteri di assegnazione del punteggio di alloggi ERP che miravano a favorire i residenti nella provincia di Vicenza da più di 25 anni, è stata giudicata discriminatoria e conseguentemente annullata dal TAR di Vicenza21.

VIOLENZA E CRIMINI RAZZISTI I dati e le informazioni sulle violenze e i crimini razzisti rimangono scarsi, sebbene alcune fonti governative abbiano reso disponibili dei dati riferiti ad anni precedenti al 200622.Si è rivelato tuttavia piuttosto difficile e inconcludente compiere un confronto tra le fonti nel tentativo di identificare una tendenza, anche in relazione agli altri rapporti Raxen: le fonti utilizzate, infatti, variano da anno ad anno e dunque non possono essere confrontate.In linea generale, da ciò che emerge dai sondaggi condotti nel 2006, nell’opinione pubblica italiana sembra essersi rafforzata l’equazione “immigrato=criminale”. Questa equazione e le immagini negative degli stranieri sono incrementate dal martellamento dei mass-media intorno ai temi della devianza degli immigrati e della “invasione dei clandestini”.Le due categorie più colpite dal processo di stigmatizzazione sono senza dubbio i rom ed i cittadini stranieri di fede musulmana.Le notizie sulle violenze razziste provenienti sia da organismi nazionali che internazionali, sottolineano come nei Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza (CPTA) si verifichino quotidianamente episodi di maltrattamenti e siano perpetrate violenze di vario genere.Sebbene non possano essere definiti come violenza razzista stricto sensu, i maltrattamenti subiti dai cittadini immigrati durante la loro permanenza nei centri devono essere considerati gravi violazioni dei diritti individuali fondamentali.Anche per il periodo settembre 2005-settembre 2006, l’analisi degli organi di informazione ha permesso l’elaborazione di una casistica abbastanza ampia di violenze razziste (203 casi).Rispetto ai dati raccolti nei precedenti rapporti con la stessa metodologia, per il 2006 si

nota l’aumento di violenze verbali e discorsi razzisti da parte di esponenti del Governo di centro-destra, oltre che di violenze fisiche attribuibili alle Forze dell’Ordine e la crescita del fenomeno delle iscrizioni razziste, nonché di striscioni e cori da stadio.Altro dato che emerge in maniera evidente dall’analisi dei rapporti di ricerca e dei media é quello dei gruppi più vulnerabili, tra i quali rom e i sinti sono in assoluto i più stigmatizzati e discriminati. Seguono, in forte aumento, le violenze razziste perpetrate ai danni dei migranti di religione musulmana. L’islamofobia si manifesta a più livelli ed è alimentata e diffusa, fra gli altri, dalla Lega Nord, che ne ha fatto tema primario della propria propaganda.Più velati, ma non per questo meno gravi, i casi di antisemitismo: quest’ultimi configurano una violenza razzista più di tipo verbale che fisico.Nel Terzo Rapporto sull’Italia pubblicato dall’ECRI nel maggio 2006 si evidenzia, accanto ad alcuni sviluppi positivi come la creazione di un organismo specializzato contro le discriminazioni, un aumento dei discorsi razzisti e xenofobi nei media e nel discorso politico di alcuni partiti contro gli immigrati non comunitari, in particolare migranti di religione musulmana e rom.La Commissione ha sottolineato il crescente aumento di discorsi che assimilano acriticamente le comunità musulmane col terrorismo e suggerisce che siano adottati provvedimenti, anche di tipo legislativo, nei confronti dei partiti responsabili della propaganda razzista, come ad esempio porre il rispetto delle leggi nazionali ed internazionali che proibiscono la propaganda razzista e l’incitamento all’odio razziale come condizione per l’ottenimento dei finanziamenti pubblici ai partiti.Il 2006 è stato segnato in modo particolare dalla vicenda delle vignette su Maometto, che, anche in Italia, ha dato luogo a numerosi casi di islamofobia e dalle dichiarazioni razziste e xenofobe della Lega Nord e in modo particolare, del suo ex-ministro, Calderoli, che detengono, insieme all’estrema destra, il primato negativo quanto a discorsi e pratiche razziste.Da segnalare anche il reportage del giornalista dell’Espresso Roberto Gatti, che documenta le condizioni semi-schiavili e di estrema precarietà in cui vivono i braccianti stranieri che lavorano nelle campagne della Puglia, nonché le violenze che subiscono.Tali condizioni e violenze sono state denunciate più volte dalla stampa. A maggio del 2006, un incendio di stampo razzista ha distrutto una bidonville nella campagna di Cassibile, in provincia di Siracusa, che tutti gli anni, da aprile a giugno, diventa il rifugio di centinaia di immigrati per buona parte “clandestini”, impiegati come schiavi nella raccolta delle patate.In seguito a questo episodio, numerose inchieste giornalistiche23 hanno documentato le condizioni subumane imposte ai braccianti stranieri nelle campagne siciliane.

1 UNAR (2006), Un anno di attività contro la discriminazione razziale, Rapporto 2005, Roma: Presidenza del Consiglio dei Ministri.2 UNAR (2006), Un anno di attività contro la discriminazione razziale, op. cit., p. 4. 3 pt3 Legge n. 85 (24/02.2006), disponibile all’indirizzo: http:// www.parlamento.it/leggi/060851.htm.4 http://www.parlamento.it/leggi/05210Leggehtm.5 http://www.fifa.com/documents/static/organisation/disciplinary_code_EN.pdf.6 Legge n. 266 (23.12.2005). 7 Corte di Cassazione, Decisione n. 9381 (17. 03.2006), disponibile all’indirizzo: http://www.cittadinolex.kataweb.it/article_view.jsp?idArt=37115&idCat=75. 8 Corte di Cassazione, Decisione n. 8475 (10.03.2006).9 Medici Senza Frontiere (2005), I frutti dell’ipocrisia, Roma: Sinnos.10 Inail (2006), Il fenomeno infortunistico nel 2005, Roma: Inail. Questi dati, seppur numericamente importanti, devono essere considerati una sottostima poiché non comprensivi degli infortuni dei numerosissimi lavoratori impiegati in nero nel settore. 11 Malossi, E., Mora, M. (a cura di) (2005), Lavoratori immigrati nel settore edile, Roma: Ires-Cgil.12 Extracomunitari il 15% dei lavoratori interinali, in: Il Sole 24 Ore (06.06.2006).13 Unica fonte per tutti i dati citati: Ministero della Pubblica Istruzione (2006) Alunni con cittadinanza non italiana. Scuole statali e non statali. Anticipazione dei principali dati. Anno scolastico 2005-2006, Roma: MPI.

14 Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (2006) Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, Roma: Miur.15 Cnel (2006) Indici di integrazione degli immigrati in Italia. IV rapporto, Rome: Cnel.16 Il sovraffollamento grave la condizione di una persona che vive in una casa con un rapporto tra numero di residenti e stanze superiore a 2. 17 European Commission Against Racism and Intolerance (ECRI) (2006) Third Report on Italy, Strasburgo: consiglio d’Europa, disponibile su: http://www.coe.int/t/e/human_ rights/ecri/1-ecri/2-country-by-country_approach/italy/Italy%20third%20report%20- %20cri06-19.pdf.18 V. il caso del “Residence Roma” , descritto nell’inchiesta del quotidiano Il Manifesto. Chianca, L., Iori, R. (2006) “Nelle tante Via Anelli d’Italia. Il Residence Roma tra lo sgombero e gli interessi dei palazzinari”, in: Il Manifesto (13.08.2006). Sulla situazione abitativa dei cittadini stranieri a Roma, gli sgomberi di case occupate ed i campi nomadi, v. Caritas di Roma (2006) Osservatorio Romano sulle Migrazioni 2005. Secondo Rapporto, Roma, gennaio 2006.19 Ravelli, F. (2006) “Il muro dei clandestini. Padova si divide in due”, in: La Repubblica (10.08.2006) e “Padova – Via il muro o lo tiriamo giù”, in : Il Manifesto (12.08.2006).20 TAR Lombardia, Ordinanza n. 108/06, (27.07.2006).21 “Il TAR boccia il bando razzista del Comune di Vicenza”, Comunicato stampa, disponibile su: http://www.unioneinquilini.it/ (20.09.2006).22 Istat (2006) Statistiche giudiziarie penali. Anno 2004, Roma: Istat.23 In particolare gli articoli di Giovanni Maria Bellu, per il quotidiano “La Repubblica”.

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Nel 2008 i romeni festeggiano un anno da cittadini europei. La domanda più legittima da fare è questa: cos’e’ cambiato davvero?Diverse stime parlano di un periodo tra 20 e 50 anni, per superare il divario tra il nostro Paese e l’Europa industrializzata.Non credo che ci sia stato qualcuno, in Romania, a credere che dopo il 1° gennaio il paese sarebbe cambiato da un giorno all’altro. Però qualche aspettativa c’è stata, magari nascosta sotto un pessimismo che ci caratterizza come popolo.Tirando le somme adesso, il pessimismo è stato moti-vato. La Romania è un paese con grandi disagi sociali, con la maggior parte della popolazione che riesce a malapena ad arrivare a fine mese, con uno stipendio minimo di poco più di 100 euro e uno stipendio medio di 250 euro mensili. Nello stesso tempo, un litro di benzina supera 1 euro, e paghiamo l’elet-tricità più cara d’Europa. Le multinazionali macinano utili da capogiro (tant’è che gli utili espatriati sono raddoppiati ogni anno), e questo perché il giro di affari è in mano ai gruppi stranieri.Non è più un segreto che la privatizzazione di quasi tutti i grandi gruppi romeni con gli “investitori strategici”, cosi li chiamavano, è stato il paga-mento del biglietto per l’ingresso in Europa. Cominciando proprio dalle risorse (cemento, petrolio, acciaio, ecc.), per finire con la distribuzione dell’acqua (per fortuna solo a Bucarest), gas e luce.Dobbiamo ridurre le differenze, ma con quali soldi? Se un intero paese produce utili per gruppi stranieri che non reinvestono quasi nulla sul posto, e se sui mercati finanziari sono entrati tantissimi fondi di investimento speculativi ad alto rischio, e se il disavanzo commerciale è quasi il doppio rispetto al 2006, cioè intorno ai 15 miliardi di euro, dove troviamo i soldi per investimenti strutturali?Siamo un mercato, gia conquistato, per merci straniere. In Romania non

si produce più quasi nulla. D’accordo che non possiamo far fronte alla concorrenza IT (Informatico Tecnologica), per produrre microchip e pro-dotti di alta tecnologia, ma quanti sanno che non alleviamo nemmeno

maiali?Nel 1990 c’erano 10 milioni di capi, adesso è rimasto un milione scarso, per la gioia degli importatori. E l’Europa ha dato man forte, imponendo delle condizioni molto rigide per le imprese romene. Tantissimi hanno chiuso, altrettanti lo faranno presto, perché per rispettare le norme CE servono investimenti e tempo.Prima del 1° gennaio, qualche analista politico l’ha detto: l’unico guadagno per la stragrande maggioranza

della popolazione sarà quello della libera circolazione della forza lavoro in Europa.I romeni potranno lavorare altrove e guadagnare. Adesso anche questo guadagno si deve ridimensionare. La Gran Bretagna ha fatto, prima del 1° gennaio, una grande opposizione alla libera circolazione e pochi stati l’hanno seguita.Adesso dobbiamo fare i conti con la crisi italiana, che si estende a mac-chia d’olio in tutta l’Europa. I lavoratori romeni non sono più benvenuti in Europa. E da comunitari siamo stati retrocessi ad uno status di semi-comunitari, che possono essere “espulsi” per i più vari motivi.L’atmosfera generale è di incoraggiare il ritorno in patria. Con le buone o con le cattive.Si calcola che all’estero ci siano 4 milioni di lavoratori romeni, milione più, milione meno. Nello stesso tempo, in Romania, ci sono posti vacanti per 1,5 milioni di lavoratori, specialmente in edilizia e industria.Il governo tratta con la Cina per un flusso di 150.000 lavoratori cinesi da portare in Romania, dove li aspettano stipendi da fame.Romania in Europa? Ancora tutto da vedere.

SemicomunitariSorin CehanDirettore Gazeta Româneascâ[email protected]

Romania

in Europa? Ancora tutto

da vedere

“pustiana”

massimo camussi

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L’accidentato percorso dell’ingresso turco nell’Unione Europea presenta molti problemi di fondo: la diffidenza degli altri paesi verso l’ingresso di uno Stato di religione islamica, la popolazione turca che diventerebbe la seconda europea dopo la tedesca, con il peso politico conseguente, la questione curda e quella dei diritti umani.Tutti questi problemi si collegano oggi a una delle più gravi crisi politico-istituzionali mai attraversate dal paese. Dal 27 agosto 2007 la Turchia ha un nuovo Presidente della Repubblica: Abdul-lah Gul, con un passato da islamista con-vinto. La sua candidatura aveva nei mesi scorsi suscitato l’allarme dell’esercito e dei movimenti laici e infine indotto a nuove elezioni politiche, e la sua elezione è stata possibile solo alla terza votazione parla-mentare, grazie ai soli voti del suo partito e all’appoggio indiretto dell’MHP (Partito del Movimento Nazionalista, formazione di estrema destra vicina ai Lupi Grigi).É il segno di una crisi istituzionale ben più ampia, che coinvolge l’identità politica interna e il ruolo internazionale della Turchia, nonché le radici stesse della repubblica creata da Mustafà Kemal e fino al 2002 dominata dal suo partito, il CHP (Partito Repubblicano del Popolo), oggi alleato con le sinistre laiche all’opposizione.

Dopo il suo fallimento nel formare una grande coalizione mode-rata di centrodestra, il premier e capo dell’AKP, Recep Erdogan, ha optato per un progetto di riforma costituzionale che, se approvata, porterà all’elezione diretta del Presidente della Re-pubblica per cinque anni, ma che è fortemente ostacolata dalle sinistre e da parte della Corte Costituzionale.Inoltre, se anche risolverà il costante stallo in cui si trova il

Parlamento, la riforma non risolverà certo i contrasti fra l’attuale classe dirigente, appoggiata dal mondo economico e dagli islamici moderati, e alcuni fondamentali soggetti politici e sociali della Turchia. Prima di tutto l’esercito, diffidente verso Erdogan sia per l’origine islamista del suo partito sia per le sue esitazioni sull’inter-vento in Iraq. In secondo luogo Erdogan dovrà confrontarsi anche con i movimenti nazionalisti e islamisti radicali, ostili alla linea europeista dell’attuale governo

di centrodestra. Le spaccature più gravi sull’identità turca si esprimono anche a livello regionale, con la parte occidentale del paese decisamente spostata verso l’Europa e quella orientale più legata alle proprie radici mediorientali e islamiche.Sulle ragioni storiche di questa sofferta identitò abbiamo sentito Massimo Introvigne, sociologo fondatore Cesnur (Centro Studi sulle Nuove Religioni).

La Turchia e l’Europa

e’ il segno di una crisi

istituzionale

ben piu’ ampia, che

coinvolge l’identita’politica interna

e il ruolo

internazionale

della Turchia

andrea frazzetta

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Mustafa Kemal Atatürk (1881-1938), il creatore della Turchia moder-na, ispirava consapevolmente la sua politica al positivismo di Augu-ste Comte (1798-1857), secondo cui la storia dell’umanità procede fatalmente dallo stadio religioso a quello scientifico, dove la religione rappresenta un fenomeno di retroguardia e un ostacolo al progresso destinato a sparire.Benché Atatürk abbia personalmente attraversato fasi diverse nella sua relazione privata con la religione, negli ultimi anni del suo governo il processo per instaurare il «laicismo» (laiklik, parola importata dalla Fran-cia, cui si guarda come modello da imitare) assume caratteri virulenti sul piano sia giuridico, sia pratico.Ma – a conferma che spesso i processi di modernizzazione generano il risveglio e non la scomparsa della religione – l’islam turco, cacciato dalla sfera pubblica, sopravvive e prospera da una parte nelle confraternite sufi, particolarmente nelle varie branche della Naqshbandiyya, dall’altra nel movimento riformista Nur («Luce») fondato da Said Nursi (1876-1960).Questo complesso movimento islamico com-prende in sé varie tendenze, ma ha in comune l’idea che il buon musulmano debba portare la sua moralità negli affari e che il successo econo-mico sia una prova visibile dell’aiuto di Dio.Quest’ultimo accostamento si afferma in particolare nella branca della confraternita Naqshbandiyya detta Gümüşhanevi raccolta intorno al carismatico shaykh Mehmed Zahid Kotku (1897-1980) e alla moschea skenderpaşa di Istanbul. Della cerchia di Kotku fanno parte tre futuri primi ministri: Turgut Özal (1927-1993), Necmettin Erbakan e l’attuale premier Recep Tayyip Erdoğan.Benché la Turchia kemalista sia una democrazia anomala, in cui il Consi-glio per la Sicurezza Nazionale, di cui fanno parte gli alti vertici militari, custode del laicismo, ha il potere costituzionalmente riconosciuto di in-terferire pesantemente sul governo civile, negli anni della Guerra fredda si verifica un allentamento delle politiche anti-religiose.Non senza qualche suggerimento statunitense, i generali si convincono che la religione è un antidoto necessario al comunismo che s’infiltra pericolosamente nel paese.Di fronte all’incapacità di governi civili laicisti, ma ampiamente corrotti, di fronteggiare il terrorismo di matrice comunista e separatista curda, il colpo di Stato del 1980 apre la strada a un governo «suggerito» dai generali ma guidato da una personalità religiosa di ambiente sufi, Turgut Özal, che gode di ampio consenso.La prematura scomparsa di Özal apre la strada a un nuovo periodo di in-stabilità, in cui emerge il partito Refah («Benessere») di un altro discepolo dello shaykh Kotku, Erbakan. Per la prima volta, a un partito religioso è consentito, nel 1995, di vincere le elezioni. Ma Erbakan, a differenza del prudente Özal, sfida i militari sul terreno del giudizio storico sul kemali-smo e lascia intendere pericolose svolte in politica estera, allontanandosi

dai tradizionali alleati Stati Uniti e Israele e avvicinandosi ai Fratelli Musulmani, esponenti di un fondamentalismo arabo assai diverso dal «fondamentalismo» turco.I militari reagiscono con il colpo di Stato «soffice» del 28 febbraio 1997, in cui lo stesso Erbakan è convinto a promulgare nuove leggi anti-reli-giose che porteranno alla messa al bando del suo partito Refah.I successivi governi «laici» non danno particolare buona prova sul terreno economico, mentre nel movimento islamico si manifesta una divisione fra i «vecchi» – legati a Erbakan – e i «giovani», raccolti intorno al cari-smatico sindaco di Istanbul, Erdoğan.La separazione, nel 2001, fra Erbakan e Erdoğan, dà visibilità politica alla differenza, divenuta sempre più netta, fra il vecchio fondamentalismo e il nuovo conservatorismo di Erdoğan, spesso paragonato a una versione islamica delle Democrazie Cristiane europee degli anni 1950.Alle elezioni del 2002 l’islam politico presenta due partiti, l’erbakaniano Saadet («Felicità») e l’erdoganiano Adalet ve Kalkınma (AKP, «Giustizia e

Sviluppo»), che presenta un programma islamico conservatore ma aperto ai diritti delle donne e delle minoranze religiose e all’alleanza con l’Occidente in politica estera.Gli elettori danno la maggioranza relativa (34,2%) dei voti e quella assoluta dei seggi all’AKP, mentre il partito Saadet si ferma al 2,5% e non raggiunge neppure il quorum, e il Partito Repubblicano kemalista registra, con il 19%, un’evidente sconfitta.Erdoğan, dopo complesse vicende, diventa

primo ministro. Il suo governo incontra difficoltà per un effettivo ingresso nell’Unione Europea, ma gode di ampi consensi. Una crisi con i militari si verifica nel 2007, quando la maggioranza AKP cerca di eleggere presidente il numero due del partito Abdullah Gul, che sarebbe il secondo presidente dopo l’Atatürk (la cui moglie, resistendo al marito, non abbandonò mai il velo) a portare al palazzo presidenziale una first lady velata.Il braccio di ferro porta alle elezioni anticipate, dove l’AKP aumenta i suoi consensi passando dal 24,2% del 2002 al 46,6%, il che permette anche l’elezione di Gul a presidente della Repubblica, senza che i militari stavolta reagiscano.La storia della Turchia è una prova empirica della fallacia della teoria classica della secolarizzazione. La modernizzazione – neppure in presen-za di un imponente sforzo di laicizzazione tramite la scuola e i mezzi di comunicazione, saldamente sotto controllo kemalista – non ha generato scomparsa, ma piuttosto risveglio della religione.L’AKP ha vinto perché ha saputo dare a questo risveglio un taglio conservatore ma non fondamentalista, gradito alla nuova borghesia del boom economico e a una parte rilevante delle élite culturali e produttive. Per l’Europa, continuare a sostenere un kemalismo sempre più declinan-te significherebbe puntare sul cavallo sbagliato.

La storia

della Turchia

e’ una prova empirica

della fallacia

della teoria classica

della

secolarizzazione

Massimo [email protected]

gianni cecconi

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Scipione Guarracino, storico dell’università di Firenze, è autore del libro “Mediterraneo. Immagini, storie e teorie, da Omero a Braudel”. Tanti punti di vista diversi attraverso cui osservare e raccontare la cultura mediterranea: l’agricoltura, le avventure dei mercanti, dei coloni,il sorgere delle religioni monoteiste, gli intrecci di sangue e di culture ecc. Non un testo di geopolitica, ma un libro che cerca di dare una visione completa del “mare nostrum” a partire dal nome…

w Partiamo da un nome: “Mediterraneo”. Come nasce e qual è il suo significato profondo? La storia della parola “Mediterraneo” è lunga e istruttiva. In principio è un aggettivo senza troppe pretese, da prendere alla lettera nel senso di “quel che si trova in un entroterra”, e quindi precisamente lontano dal mare. Alla fine della storia c’è, invece, da una parte un sostantivo, che indica un’area di storia e di civiltà (un mare e le sue terre) con precise caratteristiche; dall’altra un aggettivo riferito, appunto, a queste caratte-ristiche (ambiente, clima, cucina, bellezza, arte e via dicendo) e anche a un tipo umano, la donna e l’uomo mediterraneo, qualcosa che certo non è né più né meno vago di quel che intendiamo con “il tipo nordico” o “il tipo francese”. Questo non vuol dire, però, che sia esistito ed esista un ente o una sostanza che, di per sé, è il Mediter-raneo dei nostri più felici vagheggiamenti. La parola offre, invece, una suggestione molto ambigua: ciò che sta nel mezzo può unire come può anche dividere.

w Gli eventi di questi anni ci impongono sempre più l’idea del Mediterraneo come una frontiera fra Nord e Sud. È invece ancora possibile considerare il Mediterraneo come un ponte fra culture, o addirittura la culla di un’unica grande cultura?L’immagine della frontiera (minacciosa) nord-sud (dove sud suona come “islam” e “immigrazione clandestina”) si è imposta da non più di tre o quattro decenni. Restando sull’idea di relazione e, meglio anco-ra, di disposizione alla relazione, già da molto prima il Mediterraneo aveva perso l’antico ruolo di crocevia primario e sistema organico di scambi. Il commercio del mondo preindustriale non possedeva solo una dimensione economica; con le merci si muovevano e si mescolavano gli uomini, le idee, le lingue, le religioni, producendo come risultato più la felice confusione del mercato come luogo fisico, che la mercificazione omologante del mercato come meccanismo astratto degli economisti. Ciò posto, mi sembra difficile negare che al principio del XIX secolo le relazioni economiche, e poi le affinità di ogni genere, fra il versante nord del Mediterraneo e l’Europa continentale stavano diventando assai

più intense di quelle intermediterranee. In seguito, questo tropismo del Mediterraneo settentrionale, che ne faceva un’Europa meridionale più che mediterranea, è venuto crescendo. Ne traggo la conclusione che, per ridar vita al modello del ponte, non basta tentare di restaurare un pas-sato peraltro spesso idealizzato. Aggiungo poi che il Mediterraneo, come tipo ideale, non è il luogo adatto per chi tiene in maniera esclusiva alla propria identità nazionale, etnica, culturale e religiosa. Veniamo, invece (e ci siamo ancora dentro), da un periodo nel quale l’affermazione della propria identità è diventata una opprimente perversione dello spirito.

w Nel suo libro lei cita una frase di Albert Camus, secondo cui l’identità dell’Europa è piuttosto vaga, mentre quella mediterranea è più riconoscibile. È d’accordo?Scrivendo nel 1937, Camus poteva ancora rilevare una maggiore affinità antropologica e psicologica fra Genova e Algeri che, poniamo, fra Genova e Brest. In una affermazione del genere, estendendola a diverse altre terne di città, c’è ancora qualcosa di vero. Mi sembra innegabile, però, che col tempo la percezione delle affinità sia molto cambiata. Il Mediterraneo, inteso come area geografica, presenta allo stesso tempo una relativa unità climatica e ambientale e una grande frammentazione

ed eterogeneità nel disegno spaziale (mari, isole, penisole, golfi). Le due cose insieme sono state una precondizione per il Mediterraneo come area di civiltà. Ma è raro che gli ambienti impon-gano un’unica direzione alla creazione di una civiltà. Se il Mediterraneo è diventato un mondo peculiare, è stato perché gli uomini che là si

sono incontrati lo hanno voluto. Resta da chiedersi: e perché lo hanno voluto? In parte perché lo hanno trovato conveniente: il Mediterraneo, da Beirut a Genova, è il mare dei mercanti; in parte perché lo hanno trovato piacevole: il Mediterraneo è il mare della piazza dove si indugia a conversare.

w Da molto tempo il Mediterraneo è trattato come una “periferia”, per quanto strategica, di un potere che è altrove. In che modo può tornare un “centro”? Qual è, secondo lei, il futuro del Mediterraneo? Sarà di nuovo un centro, appunto, quando fra le sue sponde ci saranno anche i raggi, quelli del commercio e quelli della curiosità reciproca, che comporta essere disposti a rinunciare in parte a quel che si è. L’iniziativa economica tocca al nord, all’Europa; la buona disposizione culturale tocca a tutti. Con tutti i suoi ben noti limiti politici, l’Europa ha saputo negli ultimi cinquant’anni fondere la convenienza commerciale con il pluralismo culturale, arrivando a ospitare sotto lo stesso tetto i più sva-riati popoli, storie, religioni, dalla Grecia alla Lettonia. Non riesco ancora ad essere del tutto certo che alla fine toccherà anche alla Turchia o alla Tunisia. I precedenti sono, però, incoraggianti. Chi avrebbe mai detto nel 1970 che per Grecia, Spagna e Portogallo vi era un prossimo futuro europeo?

il mare dentro

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cio’ che sta nel mezzo

puo’ unire

come puo’anche dividere

A cura di Tommaso Sorbetti [email protected]

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il mare dentroIn un quadro politico finalizzato all’allargamento dell’Unione Europea sino ai confini della Russia, il Mediterraneo, o meglio i paesi della sponda Sud del Mediterraneo, entrano in un delicato gioco di equilibri per la definizione delle aree di influenza (e quindi per la definizione dei mercati) dei Paesi dell’UE a vocazione Mediterranea (tra cui l’Italia) e quelli che guardano con maggiore interesse alla parte continentale dell’Europa.Per questo, nella dichiarazione di Barcellona si afferma di voler fare del Medi-terraneo, entro il 2013, un’area di pace, stabilità e sviluppo economico, creando una zona di libero scambio, che vada ad integrarsi con i processi di pre-adesione e di allargamento delle frontiere ad Est dell’Unione Europea e che insieme sono l’oggetto della Politica Europea di Vicinato (ENP), cioè della strategia con cui l’Unione Europea allargata intende disegnare i rapporti con i suoi futuri vicini.Oggi, finalmente, l’Unione Europea si sta dotando anche di concreti stru-menti finanziari per mettere in atto le politiche definite. Ma chi saranno gli attori protagonisti della messa in atto di queste politiche? E quale sarà il ruolo riservato alla società civile organizzata?Sappiamo bene che, storicamente, l’Unione Europea ha sempre riconosciu-to al territorio-regione -nelle sue varie accezioni: amministrativa, storica, geografica, economica, politica, ecc. ecc., ma anche alla combinazione di due o più di queste accezioni – un ruolo predominante nella realizzazione delle politiche sovranazionali, partendo da un presupposto di principio, condivisi-bile, che l’Europa delle regioni fosse molto più vicina all’Europa dei cittadini. Ma stiamo parlando dell’Europa delle Regioni o delle regioni? Perché la piccola differenza data dalla lettera maiuscola o minuscola sposta il punto di osservazione (e quindi di partecipazione) alle politiche dell’Unione Europea.Infatti, se intendiamo le Regioni (con la maiuscola) intendiamo gli enti di governo di territori definiti, che stanno negli anni assumendo progressi-vamente un ruolo sempre più da protagoniste sui temi della cooperazione internazionale, intervenendo in maniera diretta e autonoma sui grandi temi di politica internazionale. Se, invece, parliamo di regioni (con la minuscola) intendiamo quel patrimonio di competenze, di impegno e di partecipa-zione che, senza prescindere dal ruolo e dall’importanza dell’ente, riesce a

mobilitare un territorio verso tematiche e metodologie di lavoro innovative ed inclusive, che possono contribuire con grande valore aggiunto alle grandi questioni che oggi la cooperazione nel Mediterraneo si trova ad affrontare.E non sono questioni di poco conto. Stiamo parlando certamente di sviluppo locale - tematica molto cara alle ONG e a quanti si occupano di coopera-zione - ma anche di migrazioni, di nuovi cittadini e diritti di cittadinanza, di co-sviluppo, di partecipazione e di democrazia partecipata.Il tutto in un quadro che non sia semplicemente quello del partecipare al mercato comune europeo (o in sub-ordine ad un’area di libero scambio) a fronte di politiche restrittive e di contenimento delle migrazioni, di malcelati tentativi di esportazione di modelli di sviluppo economico, del principio della salvaguardia della sicurezza e della paura dell’altro. Stiamo parlando di Governance o, meglio, di Good Governance.La prospettiva indicata dall’Unione Europea relativamente alle politiche di vici-nato euromediterraneo - e che sarà messa in atto attraverso gli ENPI (European Neighbourhood and Partnership Instruments), i programmi europei che saranno lanciati a breve dalle Autorità Nazionali di Gestione (le Regioni) – risulterebbe più convincenti se anziché proporre iniziative e soluzioni di tipo eurocentrico, consi-derasse con serietà il punto di vista dei Paesi del Sud del Mediterraneo (i partner) e aprisse un confronto politico effettivo su questi temi.In questo quadro di riferimento, crediamo che sia da valorizzare un approc-cio che, riconoscendo la ricchezza e la diversità delle culture del Mediter-raneo, metta in atto politiche di inclusione e partecipazione, di scambio e convivenza, da sempre promosse dalla società civile, dalle ONG, in una parola dalle regioni (minuscolo).Il Mediterraneo è una realtà, prima ancora che una necessità, e ciò ci porta ad attribuire massima importanza al perseguimento di stabili e fattive colla-borazioni di crescita reciproca.In questo senso, l’avvio della nuova politica europea di prossimità rilancia il processo di Barcellona offrendo strumenti più efficaci, almeno nelle intenzioni, all’integrazione euro-mediterranea e all’accelerazione di processi di sviluppo reciproco.

Il recente allargamento dell’Unione europea ha esteso i suoi confini fino alla Russia ed al Caucaso ad est, mentre a sud ha ulteriormente accresciuto l’importanza dei paesi che si affac-ciano sul Mediterraneo.La Politica europea di Vicinato (PEV) è la risposta strategica a questo mutato quadro relazionale. Essa si pone l’obiettivo di trasformare le frontiere da linee divisorie in aree di cooperazione, stabi-lendo relazioni privilegiate con i paesi vicini che non hanno prospettive di adesione.A questi paesi viene offerta la prospettiva di una partecipazione al Mercato Unico Europeo e la prosecuzione dei processi di liberalizzazione ed integrazione, al fine di promuovere la libera circolazione di persone, beni, servizi e capitali.Una prospettiva che è tuttavia condizionata dal fatto che essi compiano progressi concreti nel campo del rispetto dei valori comuni (stato di diritto, buon governo, rispetto dei diritti umani, principi dell’economia di mercato e sviluppo sostenibile), e nella realizzazione di riforme politiche, economiche ed istituzionali.La PEV, per il periodo 2007-2013, sarà realiz-zata attraverso un nuovo strumento finanziario: l‘European Neighbourhood and Partnership In-

strument (ENPI). Esso, in primo luogo, sosterrà la realizzazione di Piani d’azione nazionali nei quali il processo di avvicinamento all’UE sarà differenziato e progressivo secondo i desideri e la volontà politica di ciascuno dei paesi partner. Ad essi, infatti, è demandata la scelta dei settori nei quali concentrare la cooperazione (dialogo politico, misure di avvicinamento al mercato interno europeo, energia, ambiente, trasporti, politiche sociali, etc.) e l’intensità del livello di integrazione da raggiungere.L’ENPI prevede poi alcuni programmi regionali tra cui quello per il Mediterraneo, articolato secondo i capitoli del Processo di Barcellona (cooperazione politica, giustizia, sicurezza, immigrazione; sviluppo economico sostenibile; sviluppo sociale e patrimonio culturale).La promozione della cooperazione tra attori locali è una priorità specificamente prevista dal programma rivolto all’insieme dei paesi coperti dalla PEV, quale contributo allo sviluppo locale ed alla modernizzazione e democratizzazione dei loro sistemi politici.L’elemento più innovativo dell’ENPI è la sua componente di cooperazione transfrontaliera, che sancisce un importante punto di svolta

introducendo il principio dei benefici comuni, operando, quindi, il superamento del confine tra politiche comunitarie esterne ed interne.Essa permetterà la realizzazione di 15 pro-grammi articolati attorno alle seguenti priorità: sviluppo socio-economico, sfide comuni (ambiente e salute), frontiere efficienti, coope-razione people-to-people. Per quanto riguarda il Mediterraneo, il programma più rilevante è quello che copre tutto il bacino marittimo, coinvolgendo le regioni costiere di 19 paesi, Italia inclusa.A questo si aggiungono alcuni programmi bilaterali tra cui quello che coinvolgerà territori frontalieri di Sicilia e Tunisia.In questo mutato quadro strategico-politico si aprono quindi nuove opportunità, in particolare nel Mediterraneo. Per coglierle occorre tuttavia che gli attori locali, incluse le ONG, acqui-siscano nuove modalità di progettazione e, soprattutto, che essi investano nella costruzio-ne e nel rafforzamento di relazioni partenariali multi-livello e multi-attori in ambito locale, nazionale e transnazionale.Per maggiori informazioni sulla PEV: http://ec.europa.eu/world/enp/index_en.htm

La Politica di Vicinato per fronteggiare l’allargamento

Umiliana Grifoni Consulente Ministero Affari Esteri e Socia Cospe [email protected]

Cooperare nel mediterraneoGianni [email protected]

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L’Europa, l’Islame la Democraziasecondo Muhammad HabibIntervista alla vice guida dei Fratelli Musulmani in Egitto

Il Cairo, 31 ottobre 2007

Sono ormai passati più di 10 anni da quando la Conferenza di Barcellona ha tentato di avviare un processo di integrazione economica e di avvicinamento culturale tra le due sponde del Mediterraneo.Tuttavia, l’aggravarsi della crisi in Medioriente, la guerra aperta dichiarata dall’Amministrazione americana contro il terrorismo di matrice islamica, il bombardamento mediatico che coltiva il sentimento di “islamofobia” nell’opinione pubblica occidentale, sembrano aver inibito i timidi passi che l’UE ha intrapreso lungo il cammino dell’integrazione culturale.Alla costruzione di un Islam monolitico, ottuso e antidemocratico, prodotta e reiterata da buona parte dei media occidentali, vorremmo opporre la prospettiva dei Fratelli Musulmani in Egitto.Nonostante il nome di questa organizzazione venga spesso associato, a torto o a ragione, ai concetti di fondamentalismo, oscurantismo religioso e fanatismo, i Fratelli Musulmani rappresentano la più grande e attiva forza d’opposizione al governo Mubarak e, nonostante le quotidiane censure e repressioni, non smettono di gettare luce sulle drammatiche condizioni economiche e politiche in cui versa, al momento, il loro Paese.Abbiamo quindi deciso di non fermarci in superficie, come fanno i più, ma di andare ad ascoltare da vicino cosa ha da dire sulla democrazia e sull’Europa Muhammad Habib, professore di geologia all’Università del Cairo e vice guida dei Fratelli musulmani in Egitto.Ascoltare le opinioni di Habib potrebbe aiutare anche il più fervente laicista a iniziare a comprendere chi sono e cosa pensano i Fratelli Musulmani e a capire che, nonostante siamo diversi, anche con loro il dialogo è possibile.

w Professor Habib, quali effetti ha avuto in Egitto la colonizzazione europea dei secoli scorsi?Ci sono senza dubbio molti effetti che hanno seguito la colonizzazione britannica e francese nella regione, sul piano politico, sociale, economico e, naturalmente, culturale.Questi effetti si sono prodotti in primo luogo attraverso i giovani rampolli delle élites egiziane, che venivano mandati a studiare in Francia e nel Regno Unito, i quali ritornavano in Egitto con nuove idee e una nuova visione del mondo. D’altro canto i francesi e i britannici che vivevano nel nostro paese hanno tentato di imporre con forza l’idea che modernità e civiltà siano arrivate in Egitto insieme a Napoleone.In realtà queste idee hanno incontrato una resistenza tenace in Egitto, in particolar modo da parte di coloro che erano legati alla loro identità e alla loro cultura e desideravano preservarla e difenderla da questo processo di “francesizzazione” imposto dall’alto.

w Mentre oggi, nonostante il passato coloniale e le politiche di prossimità del partenariato euro-mediterraneo, gli Stati Uniti sembrano rappresentare comunque il partner numero uno dell’Egitto. Per quale motivo?Vede, oggi stiamo assistendo al tentativo dell’Amministrazione america-na di assumere il controllo del mondo. Ma per assumere il controllo del mondo è necessario assumere il controllo della nostra regione, in primo luogo attraverso la conquista dei luoghi strategici e dei centri nevral-gici del Mar Rosso e del Golfo; in secondo luogo, attraverso il controllo delle risorse petrolifere; infine, attraverso la protezione degli interessi sionisti nella regione e la schiacciante supremazia in termini tecnologici e militari di Israele sugli altri paesi arabi e islamici. Chi riuscirà ad avere il controllo totale della regione, riuscirà ad avere il controllo di tutte le prossime decisioni economiche e politiche a livello mondiale. L’Ammini-strazione americana sta inoltre tentando di minare il diritto dell’Europa ad avere una sua identità propria e una sua strategia politica autonoma nella regione.

w Quindi lei è convinto che l’Europa abbia oggi un ruolo subalterno all’amministrazione americana…Non completamente. Esiste un margine di differenza tra l’America e l’Unione Europea. Questo margine è ampio in alcuni casi, più stretto in altri. Talvolta, però, scompare completamente, facendo apparire l’Europa come fosse un’agenzia dell’Amministrazione americana.Noi, naturalmente, ci auguriamo che la distanza tra Stati Uniti ed Europa divenga più ampia, ed immagino che questo possa avvenire nell’interes-se dei paesi arabi e dei popoli europei.Perché esiste una storia condivisa, ed è molto auspicabile che questo patrimonio comune funga da ponte attraverso cui si stabilisca una comunicazione tra i popoli europei da un lato ed arabi dall’altro.

andrea frazzetta

a. f.

Ernesto [email protected]

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Purtroppo, però, i paesi dell’Unione Europea restano in linea con l’Ammi-nistrazione americana nel sostenere i regimi dittatoriali, e nel tentare di avere un ruolo nel reprimere i movimenti islamici nei loro paesi. Questo, senza dubbio, diminuisce le occasioni di sviluppo dei legami economici e diminuisce o annichilisce del tutto le occasioni di comunicazione tra noi e l’Europa.

w Cosa dovrebbe fare, secondo lei, l’Europa per cambiare questo stato di cose?L’Europa dovrebbe manifestare con sincerità e chiarezza la volontà di risolvere la questione mediorientale. Vede, noi abbiamo tante questioni aperte: la questione palestinese, la questione irachena, la questione del nucleare iraniano, la questione siriana, la questione libanese, la questio-ne sudanese.Se l’UE si allinea in un’unica trincea insieme all’Amministrazione ameri-cana, le frontiere tra UE e paesi arabi non faranno che innalzarsi, perché in tal caso il comportamento dell’UE sarà pedissequo, non autonomo e non costruito nell’interesse dell’Europa e del suo popolo.È assolutamente necessario che vi sia un’emancipazione dell’Europa dal-la sfera d’influenza dell’Amministrazione americana, perché si possano allacciare dei legami fruttuosi col mondo arabo e perché l’Europa giochi un ruolo di primo piano nello scenario mediorientale.Inoltre, penso che le generazioni di arabi e musulmani che sono cresciuti e vivono in Europa possano rappresentare l’anello di congiunzione tra il nord e il sud del Mediterraneo sul piano culturale, sociale ed economico…L’Unione Europea dovrebbe riuscire a trarre beneficio da questa presenza araba e islamica sul suo territorio.

w A proposito di migrazioni. Ogni anno migliaia di migranti arabi, tra cui molti egiziani, cercano di raggiungere illegalmente le coste italiane, anche a costo di perdere la vita. Qual è la soluzione secondo lei?Io penso che le ragioni reali che stanno dietro a questo fenomeno risie-dano nei regimi tirannici sotto i quali vivono tutti i paesi arabi.Se noi riuscissimo ad eliminare le dittature arabe potremmo porvi fine facilmente. Lo stato di paralisi e di rigidità della guida politica del paese produce l’arretratezza scientifica, tecnologica e culturale della quale è al momento testimone l’Egitto; produce il fallimento nel risolvere i problemi che ogni giorno affliggono il cittadino egiziano, come la disoc-cupazione, l’inflazione, le malattie, l’inquinamento, l’emergenza abitativa, quella dei trasporti ecc.; produce infine un forte ridimensionamento del ruolo dell’Egitto nello scenario strategico regionale e internazionale.Nessun cittadino egiziano vuole vivere sotto le vessazioni dell’ingiustizia e della dittatura. Al contrario, vuole respirare aria di libertà e vivere in un ambiente “pulito”, in cui i suoi diritti non vengano calpestati quotidia-namente.

E sta qui la responsabilità dell’Europa, l’aiutare i regimi dittatoriali non fa che alimentare il bilancio dell’immigrazione. Se invece, in questi paesi, si cercasse di sbloccare lo status quo attraverso l’instaurazione della democrazia e della libertà di espressione, si diminuirebbe di gran lunga il fenomeno dell’immigrazione illegale e anche di quella legale.

w In Europa molti ritengono che la laicità dello stato sia uno dei principi fondanti di un paese moderno e democratico, qual è invece, secondo lei, il ruolo che spetta alla religione nel governo di un paese?L’Islam ha le sue peculiarità: è un sistema completo, che attraversa tutti i campi della vita, dal punto di vista politico, sociale, culturale ed economico. Quindi non sarebbe corretto recidere una parte del sistema tenendosi solo un pezzo e gettando via il resto.Inoltre, noi diciamo che l’Islam è “religione e stato”: non è quindi necessario tenere separate le due dimensioni. D’altro canto, questo assunto non contraddice il principio della cittadinanza, né si oppone alla democrazia, anzi è la democrazia che noi auspichiamo, intesa come un sistema basato sull’educazione politica e l’alternanza pacifica dei gover-ni, che ha alla base la libera scelta da parte del popolo dei suoi rappre-sentanti e del programma politico che più si accorda alle loro esigenze e ai loro desideri.Noi sosteniamo che il governo islamico sia il governo della società civile per eccellenza. Ma faccia attenzione, in questo discorso non esiste nulla che porti i concetti di dominio della classe religiosa sulle questioni di go-verno, né esiste qualcuno, qui da noi, che parli in nome del diritto divino, né tanto meno auspichiamo a distinzioni di carattere religioso di fronte al diritto. Questo è inammissibile. Quando noi parliamo di Islam come “religione e stato”, intendiamo un ordine che si accorda al principio di cittadinanza, all’uguaglianza di diritti e doveri dei cittadini di fronte alla legge, a prescindere dalla loro religione.

w Possiamo concludere che non esiste una contraddizione tra Islam e democrazia?Assolutamente! Dovrebbe essere il popolo a scegliere il programma politico di questo o quel partito, laico o religioso, e mandare al potere il partito che prende la maggioranza dei voti.

w Perché, secondo lei, l’Europa non sembra comprendere a pieno il programma politico dei Fratelli Musulmani?Le attività, le idee e i programmi dei Fratelli Musulmani vengono svuo-tate di contenuto. Inoltre, vengono diffuse in Occidente idee che mirano a deformare l’immagine dei Fratelli. C’è anche da dire che noi non ci siamo mostrati capaci di produrre o esportare la nostra vera immagine in Europa, né l’Europa si è interessata ad approfondire le sua conoscenza nei nostri riguardi. Tuttavia, spero sinceramente che ci possa essere una vera opportunità di reciproca comprensione con l’Europa, nell’interesse di entrambi i popoli e della questione islamica.

a. f.

a. f.

a. f.

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Stefano Bollani:Non Solo Piano

Terza pagina

Trovare un musicista che sostiene e crede nei tuoi progetti è importante, trovare una persona acuta ed ironica, che lo fa senza troppo clamore lo è ancora di più.Da qualche mese il Cospe e Stefano Bollani hanno iniziato a dialogare e progettare alcune iniziative comuni, che riflettano e rispettino lo spirito dell’ong e la sensibilità del musicista.Proprio l’inizio di questa collaborazione è stata anche l’occasione per intervistare uno dei jazzisti italiani più apprezzati.

Come nascono i tuoi brani?Da qualsiasi spunto: un libro, un luogo che visito, una persona che incontro. Ogni brano nasce in modo diverso, ma la cosa più inte-ressante è che mi dimentico quasi subito da che cosa è scaturito. Ciascun pezzo acquista una vita ed un’identità propria.

Le tue esibizioni dal vivo sono appassionate, sembra che tu dialoghi con il pianoforte. Che rapporto hai con lo strumento che suoni?Il rapporto è buono, (scherza!) anche se a dire il vero ogni sera mi trovo a suonare con uno strumento diverso e non è detto che la qualità sia sempre eccellente. Ad ogni modo suono il piano da quando avevo sei anni, per cui non riesco ad immaginarmi senza.

A ritroso nel tempo: come è iniziata la tua passione per la musica?Da subito, io non me lo ricordo, ma i miei raccontano che quando ero piccolissimo già sceglievo i dischi. A quei tempi c’erano i 45 giri ed io avevo i miei preferiti. Mentre la scelta del pianoforte è del tutto casuale, avrebbe potuto essere una chitarra o qualsiasi altro strumento.A dire la verità, io volevo fare il can-tante e quando espressi questo mio desiderio mi dissero che ero ancora troppo piccolo e che era meglio se iniziavo a studiare musica e suonare.Mio padre aveva preso qualche

lezione di pianoforte ed aveva comprato un organo elettronico, lui ha smesso subito, ma io mi sono trovato in casa questo strumento ed ho cominciato a prendere lezioni. Per fortuna l’aveva comprato!In realtà la molla che ha innescato tutto, la passione della mia vita è la voglia fare qualcosa di creativo, accompagnata dal desiderio di stare su un palcoscenico. Avrei potuto essere anche uno scrittore o un attore e comunque, in maniera neppure troppo nascosta, conti-nuo a sognare di fare il cantante.

Nelle esibizioni dal vivo, così come nei tuoi dischi, ci sono passaggi molto veloci da atmosfere lievi, gioiose a sonorità più cupe. Quanto la musica riflette i tuoi stati d’animo?La musica funziona così, perché così funziona la vita. E se la musica scaturisce in qualche modo dalle esperienze che facciamo è naturale che abbia passaggi veloci dalla gioia alla tristezza. Mi capita spesso di passare in una sola ora attraverso stati d’animo contrastanti, è sufficiente una notizia, un piccolo evento, qualunque cosa per determinare un cambiamento. È per questo che non riesco a pensare un album o un concerto che abbiano un solo colore.

Hai collaboratocon numerosi artisti. Come cambia il tuo modo di suonare in relazione alle persone con cui ti trovi sul palco?Pressoché totalmente e in passato questo aspetto mi spaventava. La mia estrema adattabilità mi faceva temere di non avere uno stile personale, soprattutto quando suonavo con artisti che avevano caratteristiche ben definite, come ad esem-pio i concerti con Massimo Ranieri. In realtà, riascoltando le registrazioni, mi sono reso conto di essere riconoscibile.

In passato hai collaborato con Emergency e ti appresti a sostenere alcuni progetti del Cospe. Per te quanto c’entra la musica con l’impegno sociale, in senso lato?A dire il vero la musica non c’entra niente, i musicisti possono fare qualcosa, per il semplice fatto che sono persone pubbliche.Tuttavia è necessario essere cauti, non mi piacciono coloro che abusano di un microfono per esprimere opinioni e fare “sermoni”; non trovo giusto approfittare del tempo di persone che sono lì per ascoltarmi suonare. In fondo non è che i musicisti hanno una patente per essere bravi ed esperti di tutto.Di musicisti ne conosco abbastanza e coloro che sono in grado di espri-mere cose sensate ed interessanti sulla politica sono pochi.Non tutti si chiamano Fabrizio De Andrè, lui aveva veramente idea di ciò che stava dicendo e delle implicazioni che comportava.L’unica occasione in cui ho espresso un’opinione personale è stata per ribadire la mia contrarietà alla guerra nei giorni antecedenti all’attac-co all’Iraq; solitamente preferisco segnalare la presenza di un banco informativo dell’associazione ai concerti ed invitare chi lo desidera ad andare ad approfondire l’argomento.

Come si concretizzerà, dunque, la collaborazione fra Stefano Bollani ed il Cospe?Spero che il Cospe possa essere presente ai miei concerti, anche se so che non è sempre semplice raggiungere tutte le città di Italia in cui suono. Poi stiamo organizzato una tournèe insieme

che si terrà dal 1 all’11 marzo e che mi vedrà suonare con un gruppo di musicisti brasiliani.L’anno scorso sono statoin Brasile ed ho registrato un album che uscirà con l’Espresso il 7 dicembre ed il cui titolo dovrebbe essere Bollani Carioca.

a cura di Silvia [email protected]

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L’Europa vista dai documentaridel Sud del Mondo

di Jonathan [email protected]

«Non credo sinceramente che la politica europea, i suoi gendarmi o il trattato di Schengen, e men che meno figure come Nicolas Sarkozy o Angela Merkel possano contribuire a costruire il popolo europeo. Ci vogliono altri strumenti culturali per cementare un’appartenenza comune. Uno, ad esempio, può essere sicuramente il Cinema. Se si consolida uno stile europeo di fare cinema, valorizzando magari il documentario, questo può diventare una base potente per strutturare l’Europa culturale del futuro».

A pronunciare queste parole, con slancio europeista convinto e solido, non è qualche funzionario UE di Bruxelles, ma un giovane regista/documentarista argentino incontrato a Cordoba alla 5a Mostra del Cine-ma Sociale e Documentario “La Imagen del Sur”.La frase di Carlos Castro mi è rimasta in testa per diverso tempo e, a modo suo, è stata uno stimolo importante per organizzare il Terra di Tutti Film Festival, rassegna di documentari e cinema sociale dal Sud del mondo, che COSPE e GVC hanno portato a Bologna dal 12 al 14 ottobre scorso.Costruire l’Europa culturale di domani partendo dai film documentari, da storie raccontate in diversi angoli del pianeta, ma che in qualche modo riportano l’attenzione al vecchio continente, con le sue responsabilità coloniali, le sue politiche di aiuto allo sviluppo od i suoi drammatici conflitti bellici “umanitari”.

E così il cortometraggio sociale e d’inchiesta, nato per raccogliere le denuncie e le ingiustizie del Sud del mondo, riporta a casa, in Europa appunto, il suo conflitto d’appartenenza.Molto evidente in Merica, mediometraggio italiano di Manzolini/Ferrone/Ragazzi, dove la numerosa comunità brasiliana che stanzia in Veneto accusa le politiche europee sull’accoglienza agli immigrati di avere perso la memoria, di non ricordare di quando i migranti eravamo noi, italiani, spagnoli o irlandesi ed il Brasile era una patria accogliente e fertile.Oppure, ancora più carico di stimoli, il j’accuse della documentarista serba Ivana Todorovic, che nel suo Life of Roma Children of Block 71 ci racconta la vita di centinaia di Rom nelle baraccopoli serbe, portando alla luce storie di emarginazioni e xenofobia che questa comunità vive in ogni angolo d’Europa.E ancora Europa, quella delle contraddizioni epocali: se da un lato ha bisogno di manodopera straniera a basso costo, dall’altro innalza muri e dogane, incoraggiando paesi come la Libia ad espellere e fermare a tutti i costi le migrazioni dall’Africa SubSahariana, come ci racconta Andrea Segre nel viaggio/inchiesta A Sud di Lampedusa.Insomma, uno sguardo verso sud che in qualche modo riporta il do-cumentarista, e di conseguenza lo spettatore, a fare i conti con le sue responsabilità storiche, etiche e culturali.Nella speranza che cresca il Cinema Europeo, fondamentale strumento di coesione per i giovani del continente, ma anche, aggiungerei, di riflessio-ne, autocritica e di denuncia mediatica.

Tre mesi in viaggio sulle rotte dei migranti in Turchia, Grecia, Tunisia, Marocco, Sahara Occidentale, Mau-ritania, Mali, Senegal nel tentativo di restituire memoria a quanti sono co-stretti alla clandestinità e, a volte, anche alla morte, dalle politiche migratorie adottate dai paesi europei. Un percorso che Gabriele Del Grande ha compiuto nel suo libro-reportage “Mamadou va a morire. La strage dei clandestini in Europa”, in cui il giovane autore affronta il problema dei confini, semplici artifici convenzionali facilmente permeabili per alcune categorie di persone, mura impenetrabili dove si rischia di morire per chi è nato dalla parte del globo più debole, depredata delle sue risorse principali, strangolata dal nodo del debito, agitata da accordi commerciali destinati a rendere ancora più vulnerabili le già fragili economie locali.L’autore affianca alle testimonianze raccolte un’importante mole di dati, spesso poco conosciuta, disponibile su “Fortress Europe” (http://fortresseurope.blogspot.com/ ) l’osservatorio mediatico sulle vittime dell’immigrazione di cui Gabriele è fondatore. Dal 1988 ad oggi sono 11.120 le vittime “di frontiera” documentate, tra cui si contano 3.870 dispersi.

Gabriele Del GrandeMamadou va a morire. La strage dei clandestini in Europaintroduzione di Fulvio Vassallo Paleologo - Ed. InfinitoEuro 14,00

Fotogrammi d’EuropaPromosso e finanziato dalle Antenne Europe Direct e dai Punti

Europa dei comuni di Firenze, Grosseto, Livorno, Arezzo e Siena e dall’Università di Siena e realizzato in collaborazione con l’Istituto Stensen di Firenze, è il primo e unico festival del cinema europeo sul territorio toscano, che ogni anno1 affronta un tema d’attua-

lità concernente l’Europa utilizzando il cinema come spunto di riflessione e approfondimento sulle ricchezze e le criticità che la

caratterizzano.L’edizione 2007, intitolata “Confini senza limiti”,

ha avuto come tema l’allargamento delle frontiere dell’Unione, la discussa apertura alla Turchia e ha dato spazio alle interpretazio-

ni del concetto di confine. Confini geografici, politici, linguistici, sociali, in un continente formalmente unificato, ma marchiato da

profonde crepe invisibili e ancora caratterizzato da inquietanti barriere ideologiche che attraversano la nostra quotidianità.

Tra le ricche proiezioni, segnaliamo ‘Tickets’, un viaggio in treno attraverso l’Europa raccontato da Ermanno Olmi, Abbas Kiarostami e Ken Loach;

‘Ceuta e Gibilterra’ del fiorentino Corso Salani che sulla poetica “di confine” ha realizzato un’intera serie di documentari;

‘The bench – La panchina’,di forte impegno sociale, racconta storie sui diseredati della Danimarca;

un pacchetto di 25 cortometraggi, ‘Visioni d’Europa’, firmati da registi di varia provenienza (da Fatih Akin ad Aki Kauri-

smaki, da Theo Van Gogh a Francesca Comencini), mette in scena le diverse sensibilità di un continente in cerca di una nuova identità;

“Black Coffee, please” di Anders Nilsson, una storia sul pregiudizio e le apparenze che si è aggiudicata

il 1° premio del concorso internazionale di cortometraggi, inserito nell’ambito della rassegna.

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PROSSIME METEBRASILE

4-19 DICembre 2007

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3-18 gennaio 2008

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Un gruppo composito quello che, organizzato dal COSPE, il primo luglio scorso ha iniziato il suo lungo viaggio per la Cina.Composito per età dei viaggiatori: dagli undici anni della più giovane del gruppo, Ilaria, agli ultrasessanta dello scrivente; e per occupazione: studentessa, vigile urbano, architetto, pensionato e così via. Il tratto co-mune che ha portato quindici persone a passare insieme ventitré giorni a giro per il “continente Cina” è stato l’interesse per questo Paese.Interesse coltivato e vissuto in modo diverso: chi partendo dalle pro-prie esperienze di rapporti con alunni cinesi nelle scuole della piana fra Firenze e Prato, chi frequentando corsi di lingua e cultura cinese, chi facendo dei rapporti Italia-Cina o Cina-Italia (intendendo in primo luo-go le persone di nazionalità italiana e cinese) una profonda e costante ragione della propria vita.È il caso di Maria Omodeo e Huang Heini, che di questo viaggio sono state prima le ideatrici e organizzatrici, poi - in itinere - accompagna-trici, guide, consigliere, suggeritrici di significato e di senso. Ma mentre il nume tutelare se ne sta in alto, accigliato e pronto a perdere la pazienza, Maria e Huang Heini sono state invece sempre calme e sorri-denti e pronte ad affrontare gli incerti, le novità, i piccoli contrattempi che spostamenti di questo tipo comportano.A questo atteggiamento credo abbia corrisposto la favorevole dispo-nibilità di tutti i partecipanti. Uniti non solo dall’interesse per la Cina , ma anche dal desiderio di fare un viaggio secondo modalità diverse da quelle proposte dai normali “tour operator”.Innanzitutto niente alberghi extralusso, in qualche caso (nello Hunan) alloggio presso le famiglie; poi, utilizzo il più possibile dei mezzi di spo-stamento usati dai “locali” (treni, taxi, bus urbani e di linea, risciò) come pure – spesso - la frequentazione di ristorantini di rione e di strada.Questo stile di viaggio ha favorito la visita a “tempi lunghi” dei luoghi classici della cultura cinese (dalla piazza Tian’anmen, al Tempio del Cielo, alla Grande Muraglia, all’Esercito di Terracotta, alla valle dei diecimila Buddha di Longmen), ma anche di altri luoghi ugualmente “grandi” anche se meno noti al turismo di massa, come le rive e la “cultura fluviale” di PhengHuang, le colture, le acque, le case, i mercati dei villaggi della minoranza Miao.

Non uno di menoÈ a partire da questo contatto con la Cina di ogni giorno che si è potuti poi passare all’altra pagina della nostra storia di viaggio in Cina.Certamente quella più impegnativa: fra i luoghi della “lunga” (in ogni senso) alfabetizzazione e istruzione cinese. Alcuni elementi che abbiamo

colto in questo primo contatto con i luoghi dell’istruzione cinese (scuole materne private, scuole rurali, grandi campus): certamente l’esistenza di un sistema scolastico a “più velocità”; poi l’attenzione agli aspetti quantitativi dell’istruzione (classifiche di merito, misurazione dei risultati e degli standard, attenzione alle performances e alle prestazioni).Abbiamo avuto la percezione che il sistema di istruzione cinese, scuole e università, sia fortemente immedesimato - attraverso i suoi diversi attori - in una comune mission: far giocare alla Cina un grande ruolo nella competizione globale. Ha suscitato certamente perplessità in molti di noi (ed io fra questi) l’accentuato carattere meritocratico degli studi che, insieme al ricorso ad un sistema di reperimento misto delle risorse (Stato, governi locali, famiglie) e all’esistenza di un ceto sempre più ampio e forte di nuovi ricchi potrebbe aprire la strada – o forse lo hanno già fatto - a nuovi sistemi di selezione censitaria.Forse, però, la Cina ha in sé anche la spinta al “Non uno di meno”, che da titolo di film è divenuto poi efficacissimo slogan perfino nelle nostre scuole.Certamente si è colto ovunque e in tutti gli operatori didattici che abbiamo incontrato, il richiamo diffuso ai valori del sapere, dell’istru-zione, della ricerca scientifica, dell’impegno.

“Dovunque vi sonosassi bagnati dal mare…”La parte finale del nostro viaggio si è svolta nello Zhejiang. È la regione da cui provengono gran parte degli immigrati nei nostri paesi, e non solo. Mi hanno detto che un proverbio cinese dice “Dovunque vi sono sassi bagnati dal mare là arrivano abitanti dello Zhejiang”. I migranti dello Zhejiang, però, non sono oggetti trasportati dal mare, “boat people” sospinti alla deriva da insostenibili condizioni di vita, ma abitanti di un’area progredita e in sviluppo, che si fanno soggetti attivi di un progetto migratorio. I figli di questi “soggetti attivi di un progetto migratorio” li abbiamo incontrati in una scuola di Wendzhou, dove frequentano corsi appositamente istituiti per il recupero e/o il rinforzo della cultura, della lingua, dell’identità cinese. Ho avuto la percezione che la migrazione può creare, sta creando, nuove soggettività transnazionali aperte al mix di culture, alla transizione fra una lingua e l’altra, all’apertura di nuovi orizzonti di senso. Questa transna-zionalità l’abbiamo colta anche nelle fasi di partenza e di arrivo nei nostri aeroporti: essi forse non sono soltanto i non-luoghi, impersonali e asettici, di cui parla l’antropologo Marc Augè, ma anche luoghi emblematici dove nuove soggettività si incontrano, si fondono, si confondono, si scambiano.Ci ha veramente portato lontano questo viaggio in Cina.

INSIEME IN CINAMauro [email protected]

Ilaria e l’artista Huang Yongyua Pechino

Huang Heini

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Dal mese di ottobre Cospe sta promovendo una serie di incontri con gruppi e associazioni di volontariato in varie regioni d’Italia per for-malizzare la proposta di costruire una rete nazionale che, sulla base di un’agenda comune annuale, realizzi attività di sostegno a iniziative di cooperazione internazionale, di sensibilizzazione, informazione e raccolta fondi.La creazione di tale rete è conseguenza degli obiettivi associativi rilan-ciati nel corso dell’Assemblea Cospe 2007 e fa riferimento all’obiettivo fondamentale di essere in grado come associazione di svolgere un’ef-ficace azione di mobilitazione di persone e d’incidenza politica e culturale sui temi del nostro impegno.Durante gli incontri, avvenuti a Bologna, Torino e Verona, Cospe ha incontrato rappresentanti dell’associazionismo ambientalista, impre-se profit a responsabilità sociale, gruppi scout, comitati di cittadi-ni, cooperative: da una parte, Cospe mette a disposizione i contenuti,

l’esperienza, gli strumenti e la professionalità che lo caratterizzano per contribuire a diffondere un’informazione non stereotipata sul sud del mondo e per offrire una nuova e seria proposta ad una parte di quei soggetti del mondo del volontariato che s’impegna con aspettative crescenti in termini di qualità ed efficacia.Dall’altra, i soggetti coinvolti potranno valorizzare le loro reti terri-toriali e la capacità di mobilitazione territoriale, di iniziativa e gestione autonoma di eventi, partecipare alla vita associativa Cospe riportando proprie riflessioni e contributi nei momenti assembleari, seminariali ecc. dell’associazione.Per febbraio 2008 è annunciato un primo incontro collettivo dei gruppi, associazioni e persone coinvolte nel progetto per condividere valori, obiettivi e modalità di funzionamento della rete.Fino a quel momento, continueremo a incontrare altri gruppi, indivi-duati tra le esperienze più virtuose di partenariato e collaborazione che le Aree organizzative del Cospe stanno gestendo in Italia.

FAGIANI NEL MONDOUn modo di viaggiare ad occhi aperti

Il circolo è nato nel 1996 per diffondere idee ambientaliste nell’ambito del turismo responsabile ed ecosostenibile.l Propone a Legambiente idee e iniziative per il turismo alter-nativol Organizza escursioni ed altre proposte ecosostenibili per il tempo libero.l Partecipa e promuove manifestazioni, conferenze, iniziative di raccolta fondi su ambiente, cooperazione internazionale, ecologia, pace, turismo alternativo.“Fagiani nel mondo” collabora con il Cospe nell’ambito dei pro-getti Habana Ecopolis (Cuba) e Kunanisa (Swaziland).Visita il sito www.fagianinelmondo.itinfo 3490576137 - [email protected]

khodiyafoto di meena kadri

Cospe offre a differenti tipologie di donatore (privati, imprese, ban-che, attività commerciali, assicurazioni, fondazioni bancarie, gruppi e associazioni) numerose possibilità di sostenere le sue iniziative e di collaborare attraverso strumenti pubblicitari, di visibilità e di raccolta fondi.Questo numero si concentrerà sulla categoria dei privati.Ecco cosa puoi fare da privato cittadino: l richiedi la tessera AMICO (20 euro) o SOCIO (40 euro) per partecipare alle nostre attività, al di là della semplice donazione in denaro. Le tessere consentono l’accesso a convenzioni e sconti;l partecipa ad eventi di raccolta fondi, il cui prezzo del biglietto o quota partecipativa è in parte o interamente destinata ad un proget-to Cospe;l fai una donazione a sostegno del COSPE o di un suo specifico progetto;l fai un gesto di solidarietà in un giorno speciale della tua vita scegliendo le bomboniere e i regali tra i prodotti dei progetti COSPE o destinando la quota prevista ad un progetto;l gemella il tuo sito con quello del COSPE, se i temi sono inerenti;l acquista gadget COSPE e/o prodotti dell’artigianato provenienti dai progetti;l scegli i doni natalizi tra le idee regalo ed i prodotti del commercio equo e provenienti da progetti Cospe;l disponi il tuo lascito testamentario a favore del Cospe;l destina il 5x1000 dell’Irpef al Cospe.

FOCUS NATALE14 dicembre

ore 14-20 – Mercato di Sant’Ambrogio, Piazza Ghiberti Firenze16 dicembre

ore 16-20 - Partita abili-disabili, Scuola superiore Russell-Newton, Scandicci19/22 dicembre

Cospe a porte aperte, via S. Slataper, 10 Firenze (Sede Cospe)21 dicembre

ore 19 – Concerto di Stefano Bollani, Teatro Politeama, Via Garibaldi, Prato23 dicembre

ore 8-14 – Mercato delle Cascine, passerella piazza Isolotto

AZetaDopo anni di collaborazione, e grazie ad un reciproco rapporto di fiducia e stima, il centro AZETA, copisteria specializzata in stampe di alta qualità, è diventata sponsor Cospe per l’anno 2007/2008 e realizzerà parte dei materiali di comunicazione della nostra associazione. Il centro AZETA si trova in via Alfani a Firenze tel. 055 24 77 855 – 055 22 60 563 [email protected] - www.centroazeta.it

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Vicini e lontani

Il collettivo “Il Bondi che Parla”, una delle voci indipendenti delle comunità di Buenos Aires, ha prodotto un ciclo di trasmissioni che offre uno spaccato dell’eterogenea economia argentina, profondamente trasformata dopo la profonda crisi che ha investito il Paese alla fine degli anni ’90.Il crollo dell’intero sistema produttivo, infatti, ha messo in discussione i principi dell’economia tradizionale e la stessa de-finizione del concetto di lavoro, creando povertà diffusa, disoccupazione e gravi emergenze.Espulse dal mercato del lavoro, molte persone si sono impoverite a tal punto da dover cercare forme alternative di sussistenza. Nello scenario politico argentino hanno fatto il loro ingresso e si sono sviluppate pratiche diffuse di “economia sociale”: l’uomo e le sue relazioni umane e sociali, e non il mercato con le sue regole, sono diventati il principio regolatore delle attività economiche e produttive.Fra le numerose iniziative di auto-imprendito-rialità che sono nate, deve essere evidenziata l’affermazione del movimento dei cartoneros, uomini che hanno fatto di necessità virtù, creando un vero e proprio servizio di raccolta diffe-renziata dei rifiuti.Questa nuova forma di lavoro ha fatto sì che la raccolta differenziata, nata dall’esigenza di uscire da un’emergenza, diventasse tanto un’at-tività economicamente sostenibile quanto un modo per promuovere la salvaguardia dell’ambiente e il miglioramento della qualità della vita.I Cartoneros sono stati riscattati da una condizione di disprezzo ed emarginazione pubblica, divenendo nuovi lavoratori sociali.

Marcelo: Noi, adesso, abbiamo il cartonero nel cuore. Oggi lo sentia-mo con orgoglio, anche se preferiamo definirci promotori ambientali, perché abbiamo imparato che siamo promotori della cura dell’ambien-te e perché rivendichiamo il lavoro che facciamo. Cartonero per noi è un orgoglio. Siamo Cartoneros, siamo ciruja, altri sono quemeros. Questa è la nostra identità.

Alberto: Sono cartonero da 35, 40 anni. Io non dico che guadagniamo bene, ci piacerebbe. Per noi è un lavoro dignitoso, che è più importan-te dei soldi. Sei riconosciuto come un lavoratore. «Dove lavori? In una cooperativa di lavoro… È un’altra cosa… Ci sentiamo lavoratori».

Speaker: Il fenomeno cartonero sorge a partire dal 1998 e si con-solida con la crisi argentina del 2001, quando acquisisce visibilità e si converte in un fenomeno politico. Si tratta di persone che hanno iniziato quest’attività dopo essere stati espulsi dal mercato del lavoro. Come forma di sussistenza hanno trovato, nella raccolta informale dei rifiuti, un modo per ottenere un’entrata economica.In quel momento, solo a Buenos Aires, c’erano circa 100.000 persone che non trovavano altre forme di reddito se non raccogliere rifiuti tutti i giorni. Oggi il numero di cartoneros è diminuito. Non tutti i cartoneros vivono solo di quest’attività…La maggior parte dei cartoneros vive nelle zone marginali della peri-feria della capitale. Tutti i giorni, con i loro carri, i cartoneros partono per la capitale e raccolgono la pattumiera, a mani nude, nei quartieri centrali in cui si concentrano il potere e la ricchezza, e si trova, quin-di, una maggior produzione di rifiuti.La pattumiera è direttamente proporzionale al consumo: è il prodotto

della disuguaglianza sociale. Da una parte c’è un settore della società che consuma molto e produce una gran quantità di rifiuti, dall’altra parte invece esiste una parte di popolazione che non consuma e vive dei rifiuti e dell’immondizia altrui.Negli ultimi anni il lavoro del cartonero, in principio prettamente individualista, ha assunto un aspetto a carattere più associativo.

Riconoscere il lavoro dei cartoneros organizzati in cooperative può creare vantaggi. La raccolta differenziata, da una parte promuove un’at-tività sostenibile per uscire dall’emergenza, dall’altro la salvaguardia dell’ambiente e il miglioramento della qualità della vita. Pensare l’attività dei cartoneros come parte dell’eco-nomia sociale rappresenta una sfida, dato che un lavoro tradizionalmente individualista come quello del cartonero, si può trasformare solo costruendo la solidarietà, l’equità e il lavoro associativo.

Alberto: «All’inizio mi pesava molto: mi vergognavo del lavoro che facevamo, perché io non ero abituato a parlare con la gente. Ci hanno discriminato sempre. Andavamo in giro con il nostro carretto e ci discriminavano per essere cartoneros, non eravamo considerati lavo-ratori. E adesso, pensa: quello che ci diceva che gli rubavamo il lavoro, Mauricio Macri, è diventato sindaco di Buenos Aires.

Programma radiofonicoa cura de “Il Bondi che parla”

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Beneficiari:• 50-100 contadini e 40 donne allevatrici direttamente coinvolti nelle attività di formazione e assistenza tecnica sui metodi di agricoltura biologica e sull’allevamento. • ragazzi/e fruitori delle borse di studio per formazione nel settore allevamento e tecniche agricole ecosostenibili. • 1500 ragazzi delle scuole di Chenini • La controparte ASOC e i tecnici del progetto che usufruiranno della formazione interna effettuata dal consulente agronomo esperto di agricoltura biologica . • L’intera popolazione della Municipalità di Chenini (13.000 abitanti), in particolare i contadini e gli allevatori/trici dell’oasi che parteciperanno direttamente alle attività di volgarizzazione di pratiche agricole ecosostenibili e alle campagne di sensibilizzazione sul compostaggio e la raccolta dei rifiuti vegetali dell’oasi.• Le istituzioni locali e gli enti tecnici specializzati coinvolti in attività di ricerca e assistenza tecnica sul terreno al progetto.• Le ONG che operano nel settore della protezione ambientale in Tunisia

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