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AZMAUT INDIPENDENZA העצמאותPERIODICO DI INFORMAZIONE E CULTURA IL DIRITTO E LA LIBERTà DI ISRAELE , IL PLURALISMO DEI POPOLI DEL MEDITERRANEO a cura dell’Associazione Italia-Israele di Napoli N. 1 ( Aprile 2009 – Nissan 5769 ) Direttore : Antonio Cardellicchio Redattore capo: Davide Tagliacozzo Redazione: Luigi Caramiello, Valerio Filoso, Giuseppe Fitto, Massimiliano Panico, Maddalena Schiavo Associazione Italia-Israele di Napoli: Presidente Giuseppe Crimaldi, Vice-Presidenti Luigi Caramiello e Antonio Cardellicchio, Segretario Francesco Lucrezi SOMMARIO INTERVENTI Notte a Ginevra…………………… Editoriale GinoAji … …….. …………………... Redazione Un albero di vita …..……................ Antonio Cardellicchio Dichiarazione di Indipendenza…....Francesco Lucrezi Guerra e pace nell’ Ebraismo ……. .Roberto Della Rocca Il Negev: la frontiera …………….. Luciano Tagliacozzo Facebook ed Israele ………………....Massimiliano Panico 1

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Periodico di Informazione e Cultura

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AZMAUT INDIPENDENZA העצמאות

PERIODICO DI INFORMAZIONE E CULTURA

IL DIRITTO E LA LIBERTà DI ISRAELE , IL PLURALISMO DEI POPOLI DEL MEDITERRANEO

a cura dell’Associazione Italia-Israele di Napoli

n. (1) N. 1

( Aprile 2009 – Nissan 5769 )

Direttore : Antonio Cardellicchio

Redattore capo: Davide Tagliacozzo

Redazione: Luigi Caramiello, Valerio Filoso, Giuseppe Fitto, Massimiliano Panico, Maddalena Schiavo

Associazione Italia-Israele di Napoli:

Presidente Giuseppe Crimaldi, Vice-Presidenti Luigi Caramiello e Antonio Cardellicchio, Segretario Francesco Lucrezi

SOMMARIO

INTERVENTI

Notte a Ginevra…………………… Editoriale

GinoAji … …….. …………………... Redazione

Un albero di vita …..……................ Antonio Cardellicchio

Dichiarazione di Indipendenza…....Francesco Lucrezi

Guerra e pace nell’ Ebraismo ……. .Roberto Della Rocca

Il Negev: la frontiera …………….. Luciano Tagliacozzo

Facebook ed Israele ………………....Massimiliano Panico

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Israele e la Sinistra italiana ……….. Giuseppe Fitto

Animali di Giobbe……………............Redazione

LIBRI

Ehud Gol ……………… …………… Giuseppe Fitto

Stefania Ecchia …………………….... Antonio Cardellicchio

CULTURA

Esilio, tempo e memoria…………………………….. Roberto della Rocca

Musica classica da Israele ………………………….Angela Amato

Incontri del centro studi ebraici……………… .Maddalena Schiavo

Contatti:

E-mail: [email protected]

Recapiti telefonici: 339.6952427-340.0699695

INTERVENTI

Notte a Ginevra

Editoriale

Regime negazionista. Leggi razziali di furore antiebraico. Complicità ONU. Antifascismo capovolto.

“…è passato a volo un messo infernale/tra un alalà di scherani”. Questo verso di Eugenio Montale (La primavera hitleriana capolavoro scritto per reagire alla visita ufficiale di Hitler in Italia nel 1938) ci viene in mente ora. Di fronte alla mitologia carnefice dell’Hitler–Haman dell’Iran alla Conferenza ONU di Ginevra. Tutto previsto, poi è accaduto…quel che non doveva accadere. Offesa tremenda alla giustizia e alla pace nel mondo.

Una sede dell’ONU, dopo l’infamia di Durban, dopo tante risoluzioni di aggressione politica e civile ad Israele, pone al centro una tribuna di propaganda totalitaria di un regime di odio razziale antiebraico, negazionista e della Shoah e della vita e del diritto di Israele, centrale di un terrorismo globale che attacca le libertà e le democrazie nel mondo. Un regime che, infine, esercita il ricatto nucleare di morte per gli Ebrei per il loro Stato.

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In termini semplici e universali un sistema politico che vuole cancellare dalla carta geografica un altro stato rappresenta una violazione smisurata dei documenti fondativi dell’ONU e della Dichiarazione dei diritti del’uomo. Il fanatismo ideologico uccide anche il senso comune e l’ONU che lo coltiva nega se stessa. Uomini e popoli civili vedono il rischio di una nuova Shoah atomica.

In ogni caso, da Durban a Ginevra, è evidente l’uso politico corrente di questo ricatto, e già solo questo produce tonnellate di veleno e venti di guerra.

La civiltà è una crosta sottile ci ricordava Tullia Zevi.

Chi non ha perso la propria anima ha visto e compreso: proprio nello Yom ha Shoah, quando l’intero Israele, nell’intima commozione del mondo civile, si ferma nella memoria di sei milioni di martiri, l’ONU inaugura una conferenza dove viene disegnato un programma di odio razziale e di distruzione di Isarele. Eli Wiesel, testimone esemplare e lucido intenso scrittore della memoria e della resistenza ebraica, costretto alla protesta antinegazionista a Ginevra, di fronte ala sede delle Nazioni Unite. Costretto a ricordare: “se avessimo imparato la lezione, non ci sarebbero stati i campi della Cambogia, il Ruanda o il Darfur. Neppure Auschwitz è riuscito a guarire il mondo dal male antico dell’entisemitismo”.

Un rappresentante di un centro Simon Wiesenthal testimonia di un insulto di un delegato dell’Iran a Wiesel. Lo storico prigioniero A-7713, dal numero che gli venne tatuato ad Auschwitz sul braccio sinistro, è stato chiamato “nazi-sionista”. Quello che impressiona, che rende molto pericolose le forze razziste e di guerra, sono i diversi centri concentrici delle complicità, dalle sottovalutazione e illusioni alle connivenze ideologiche.Si, un certo numero di paesi: Israele, Stati Uniti, Canada, Australia, Italia, Olanda, Germania, Polonia e Nuova Zelanda, ha deciso la propria assenza come forma di resistenza, davanti all’antisemitismo della bozza preparatoria, al precedente di Durban, alla natura del regime iraniano, ai legami con il terrorismo globale. Così hanno salvato la decenza del diritto internazionale e, più che aiutare Israele, hanno tutelato i propri interessi nazionali nei confronti del terrore e mantenuto aperta la possibilità di una strategia e cultura di pace.

Ma quella platea di delegati dell’ONU, un centinaio, che ha applaudito il delirio del mostro infernale, ha espresso la fisicità delle forze del male, l’arroganza degli impuniti, la sicumera di chi sa di contare su una rete di complicità, sulla viltà dell’indifferenza, sulla copertura ufficiale dell’ONU, sull’incapacità e non volontà di difesa di diverse democrazie, sulla debolezza delle forze di resistenza.

Un’orda barbarica in doppio petto, approvata, giustificata, blandita da legioni di intellettuali astratti e sofisti, artefici o strumenti di culture di odio e di morte. Non certo una novità, se ricordiamo le complicità e i servilismi di tanti intellettuali schierati nei totalitarismi.

I delegati dell’Unione Europea usciti dall’aula e poi rientrati hanno salvato la faccia a meno della metà, hanno ottenuto degli emendamenti in pezzi di carta inutili e ambigui.

E poi il Vaticano, che in un inveterato stile Pio XII, fa restare in aula il proprio delegato anche quando escono gli europei, e che ha creduto giustificarsi invocando ragioni morali contro ragioni politiche, quando sembra il contrario, che abbia seguito un calcolo politico contro profonde ragioni morali. Il Vaticano ha ridotto un orrore ad errore, magari emendabile. Quando anche i delegati di Giordania e Marocco hanno, in modo significativo e coraggioso, lasciato l’aula con i delegati dell’UE.

Nel complesso, la gamma delle complicità e dei silenzi configura la pretesa, sul piano politico e del condizionamento dell’opinione pubblica, di una “tirannia della maggioranza” su scala mondiale contro le minoranze morali, nazionali e religiose. Già solo l’uso sistematico del peso statistico delle legge del numero come criterio discriminatorio a danno delle ragioni specifiche costituisce una violenza e contiene una tendenza totalitaria.

Con franchezza, proviamo fastidio per quelle dichiarazioni di solenne “Mai più!”pronunciate nel Giorno della Memoria, quando corrispondono a un silenzio di

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fronte al negazionismo che oggi da minoranza fanatica è diventato il regime politico di una media potenza nucleare e un criterio regolatore di un movimento terrorista. Il silenzio di fronte alla delegittimazione violenta della libertà e dell’ indipendenza politica e morale del popolo ebraico di oggi si assuma la sua responsabilità.

Perché accade che nell’ideologia dell’ONU e in una certa doxa maggioritaria gli Ebrei sono riconosciuti solo come vittime sacrificali e invece disconosciuti, odiati, negati, in quanto popolo vivente nella compiutezza del suo diritto inalienabile, roccia di libertà e speranza.

Se la Memoria per l’identità ebraica non è un mero passato rievocato ma vita e vitalità, al presente e al futuro, per gli ipocriti la memoria diventa solo quella dei cimiteri e dei musei. Contribuendo a questo esito: gli Ebrei tornati nella loro Terra Promessa, dopo una plurimillenaria domanda di libertà, vengono criminalizzati proprio per questo.

Ma, attenzione, la morte per gli Ebrei, è solo la punta di diamante di una strategia geopolitica diretta a capovolgere l’attuale legalità internazionale. Come ha osservato Carlo Panella, il regime iraniano unifica l’antisemitismo con un revisionismo che vuole cancellare le responsabilità storiche del nazifascismo nello scatenamento della seconda guerra mondiale e del verdetto politico- morale sul fascismo. Teheran “ripropone una visione revisionista della storia del Novecento-scrive Panella- che ha un notevole spessore nella tradizione iraniana (Là dove, non soltanto lo scià Reza, ma anche ampi settori del clero nel 1940 sostenevano apertamente l’Asse), così come in quella araba (tutti i gruppi dirigenti post coloniali in Iraq, Siria, Egitto, Palestina, ma anche in Tunisia e Algeria si erano schierati o avevano complottato con il nazifascismo sino al 1945)”.

Ne deriva la delegittimazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU, per la permanenza in esso dei membri della colazione antinazista, a favore di una strategia aggressiva contro il “complotto” degli Ebrei e di un “capitalismo e un liberalismo che hanno fallito”. Il maggiore pericolo dell’azione iraniana risiede in questo disegno di ristrutturazione dell’ONU che elimini il diritto di veto e legalizzi un’alleanza internazionale di attacco alle libertà istituzionali, all’economia di mercato, alla convivenza tra le culture. Ideologia e prassi di un terrore che si pone in continuità con il fascismo e con l’altro totalitarismo, il comunismo, sia sovietico, sia quello dell’ “alleanza antimperialista dei popoli oppressi” della quale l’ideologia khomenista esprimeva l’eredità.

Nera notte a Ginevra, ma la speranza e la volontà di agire possono andare nella direzione di un aumento della resistenza dei popoli e degli stati. Il pensiero va agli studenti dell’Università di Teheran, in regime di carcere duro o scomparsi, all’opposizione coraggiosa di giovani e donne nel popolo dell’Iran.

Nei giorni più oscuri dobbiamo far venire fuori la luce della ragione e della dignità umana, favorire la resistenza antitotalitaria. Di tale luce ricordiamo che “Essa si alza quando ancora è notte” (Proverbi. 31, 15).

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Ricordando Gino Ajì

Redazione

Il 20 dicembre del 2008 un male crudele, come si dice, ha strappato Gino Ajì alla sua compagna (l’amatissima Rossana), alla sua famiglia, ai suoi numerosissimi amici e all’Associazione Italia-Israele di Napoli, di cui è stato Presidente, per nove lunghi anni (fu eletto nel maggio del 2000), fino all’ultimo giorno della sua vita. Cittadino partecipe, generoso, conosciuto e rispettato nei più qualificati ambienti della nostra regione, Gino ha fortemente contribuito, con il suo impegno, a difendere le ragioni e l’immagine di Israele e a farne apprezzare, in tutte le occasioni possibili, i valori, le conquiste, le bellezze e i tesori nascosti. Il suo impegno non aveva una matrice politica, religiosa o ideologica, ma era parte integrante del suo più generale amore per la vita, gli uomini, la natura. Di quella terra amava i colori, i paesaggi, i volti, la cucina, la musica. Gli stessi che amava in tutti i Paesi del mondo, compresi quelli oggi nemici di Israele, per i quali non desiderava altro che un comune futuro di benessere, pace e fratellanza. Grande sportivo, sua altra grande passione fu la bicicletta; e due distintivi, nel suo ultimo viaggio, gli sono stati appuntati sul petto, come due medaglie: quello di Italia-Israele e quello del club dei “Cicloverdi”. Ed è facile immaginare quale dovette essere il suo entusiasmo quando, nell’ottobre 2007, le sue due passioni si intrecciarono, allorché poté partecipare a un grande giro ciclistico per Israele, insieme a circa cinquecento compagni, di tutto il mondo, riuniti per raccogliere fondi di sostegno per l’ospedale Alyin di Gerusalemme, specializzato nella cura dei fanciulli disabili. C’erano, fra quei cinquecento, ragazzi di quindici, sedici anni; molti ventenni, molti trentenni; alcuni quarantenni; pochi cinquantenni; due sessantenni. Un solo settantenne, da subito divenuto il “beniamino delle folle”, spinto (pur non essendocene bisogno: non pochi giovanotti erano costretti a cedergli il passo, e non per cavalleria), nei passaggi più duri, da allegre grida di incoraggiamento: “Gino, Gino!”.

Come nel recente film “The bucket list” (in Italia, “Non è mai troppo tardi”) (nel quale i due protagonisti, interpretati da Morgan Freeman e Jack Nicholson, ottengono, prima dell’annunciata fine, di esaudire i loro più improbabili desideri inappagati), possiamo ritenere che Gino, con quel festoso giro ciclistico attraverso Erez Israel, abbia coronato un grande sogno della sua vita.

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E vogliamo ricordarlo così, mentre pedalava felice per le strade di Galilea, onorando lo sport e l’Italia e portando un suo concreto contributo di solidarietà alla patria degli ebrei e ai suoi bambini meno fortunati.

Un sogno realizzato, dunque. Se, domani o fra mille anni, si realizzerà anche il sogno di potere pedalare, in amicizia e allegria, da Sderot a Gaza e da Haifa a Beirut, fino a Damasco e a Teheran, lo si dovrà, un pochino, anche alla sua energia, al suo ottimismo e alla sua fiducia.

Fabrizio Gallichi, consigliere nazionale dell’Ucei, ha lanciato in un’assemblea della Comunità Ebraica di Napoli la bella proposta di piantare un albero dei giusti in memoria di Gino in Erez Israel, mentre la signora Alberta Levi Temin lo ha ricordato con semplici commosse parole. L’Associazione di Napoli, nell’eleggere il nuovo Presidente, Giuseppe Crimaldi, giornalista de Il Mattino, e due vice-presidenti, ha espresso un rinnovato impegno nella continuità dell’esemplare figura umana di Gino. Nell’inaugurare il periodico Azmaut, ricordando Gino ci vengono in mente le parole di un insigne scrittore israeliano Aharon Applefeld:

“Chi sono i veri amici?...

Se hanno una parola giusta la porgono come un pezzo di pane in tempo di guerra, e se non ce l’hanno ti siedono accanto, e tacciono”.

Un albero di vita

Liberi di esistere, Shalom e pluralità delle nazioni

Antonio Cardellicchio

Un popolo piccolo per quantità, la voce di una minoranza che ha un messaggio universale per le grandi maggioranze, una striscia di terra unica al mondo, una cultura che ha la pace e la giustizia nella propria radice e nel proprio orizzonte, una religione di pura fede e regole morali di condotta per il proprio popolo, che riconosce le fedi e costumi degli altri popoli, che è una religione non proselite e non clericale, antitetica a ogni forma di religione di stato ed imperialismo religioso, una terra di libertà con una comunità politica di genere liberale e democratico, garante della pluralità interna e di quella delle nazioni vicine.

Il diritto, santo e inalienabile, laico risorgimentale e storico razionale, di un popolo alla sua libertà e indipendenza, in una terra di cui non è proprietario ma ‘affittuario’ per obblighi morali, come una nazione particolare fondata su valori universali, che è la negazione vivente e permanente di ogni nazionalismo coatto. Con un diritto vivente che risiede nella capacità autorealizzata nel duro lavoro dei pionieri che è stato capace di trasformare “un deserto in un giardino”.

Tutto questo è riconosciuto e negato, riconosciuto anche come esemplare da diverse culture e persone, negato invece con un odio e una violenza tanto furibondi e irrazionali da raggiungere l’estremo della cultura della morte e della distruzione, cioè l’autodistruzione stessa delle forze del male.

Niente di nuovo sotto il sole.

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Nella esistenza plurimillenaria di un popolo che ha trasmesso di generazione in generazione la propria identità, fede, cultura, in positivo, ed è stata ed è oggetto di persecuzioni e massacri, sporadici e sistematici, ai limiti dell’estinzione.

Lo Stato degli Ebrei ha molti amici e ammiratori nel mondo ed ha diverse legioni di nemici che ne negano l’esistenza e la legittimità, in un nuovo antisemitismo che ora ha perduto la maschera dell’antisionismo, che lo confina a “Ebreo delle Nazioni” per distruggerlo o sottoporlo a minaccia costante, riducendolo a un paese – ghetto.

L’attuale antisemitismo che nega il diritto di Israele è come tutti gli antisemitismi, l’espressione puramente negativa e aggressiva di gravi problemi irrisolti e irrisolvibili nel loro ambito da parte dei nemici stessi. Le tirannie statali e l’imperialismo da “grande nazione” arabo islamista, politico secolare e – o fanatico religioso, i fascismi e totalitarismi di vario genere, scaricano i loro problemi irrisolti sulla attuale “morte agli ebrei”. Nemici ottusi che non riescono neppure ad essere amici di loro stessi, a non concepire percorsi di soluzione positiva per i loro problemi e i loro popoli, trovano comodo fabbricarsi un capro espiatorio, istigare centinaia di milioni a odiare, aggredire, uccidere gli Ebrei di Israele, in una tipica cultura totalitaria “di massa”, che già di per se stessa è nemica della dignità e libertà della persona e dunque, ostacolo insormontabile alla loro evoluzione civile. L’antisemitismo di sempre è, come scriveva Thomas Mann, “il socialismo degli stupidi”, perché quasi nessuno è ebreo; per cui proprio perché la loro stessa identità nazionale è debole o inesistente al positivo, viene artificialmente generato l’antiebraismo ideologico e fisico, come alibi violento all’impotenza delle classi dominanti a favorire l’evoluzione delle loro specifiche possibili civiltà.

Certo, Israele e gli ebrei non possono risolvere i loro problemi. Possono solo:

1) restare se stessi, vivere la propria vita in indipendenza 2) mantenere il proprio messaggio di civiltà e di convivenza 3) esercitare l’autodifesa verso un’aggressione permanente, misurata alla

straordinaria distruttività dei nemici e, nello stesso tempo, preservare il proprio codice etico in tempo di guerra, di tregua, di pace, rigorosamente evitando di diventare come loro, anche solo di una virgola.

Impresa difficile, ma giusta e possibile. Fondamentalmente realizzata, quasi sempre. Osservare certe regole anche durante la necessaria guerra di difesa, lasciare sempre aperta la porta di una pace futura.

L’autodifesa di Israele per chi riconosce i termini reali della drammatica contesa appare ed è parte integrante di una prospettiva di pace e giustizia su scala regionale capace di esprimere gli interessi legittimi dei diversi popoli. Un dilemma è presente nella coscienza degli Ebrei e degli amici di Israele: l’indipendenza e la libertà di Israele, ostacolate, aggredite, negate, si mantengono con il coraggio costante di un’iniziativa di vigilanza e difesa, senza retrocedere d’un passo di fronte a nemici fanatici, razzisti, ultrabarbari continuatori in modo implicito o esplicito del nazionalsocialismo hitleriano, strumenti di un terrorismo globale e di un imperialismo panarabo e islamista politico militare. In quanto tali nemici estremi di Israele e nemici di tutti gli ordini giuridici e civili di libertà nel mondo. Nemici dunque di tutti i popoli anche di quelli che dicono di rappresentare in senso razziale nazionalistico. L’altro lato del dilemma: vivere ed agire essendo se stessi fino in fondo, nell’identità ebraica, nello stile liberale e democratico degli amici di Israele, attori cioè di un ordine civile di relazioni pacifiche e pluraliste. Nel fondamento di quella radicale cultura della persona e della libertà-responsabilità, di inaudita e ardita potenza etica, di eterna fecondità che, nel messaggio della Torah, è nello tzélem Elohìm (Genesi), l’immagine di Dio con la quale accade la creazione divina della creatura umana. Un ordine che fa di ogni persona singola il titolare originario di diritti inalienabili, umani e divini, pre-politici. E dunque la singola, concreta, semplice esistenza della persona diventa contraria alla schiavitù, riduzione a cosa, sudditanza, umiliazione; ed è invece associata con le relazioni orizzontali di prossimità, nel rispetto e nell’amore, nella trama dei diritti e dei doveri, nella regola etica del Kevòd ha-berìot, il rispetto per tutte le persone.

Rivoluzione spirituale corporale senza pari nel tempo dei tempi.

Radice sia santa sia secolare di ogni civiltà, di ogni fede, di ogni umanesimo. Sommersa e riemersa nelle vicende tragiche o luminose dell’intera storia umana,

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calpestata e distrutta dalle tirannie, idolatrie, totalitarismi. Vivente nell’amore per il prossimo, nelle coscienze illuminate, nelle relazioni civili e pacifiche.

Ma è poi veramente un dilemma? Non è forse il riconoscimento pieno dell’indipendenza di Israele più che compatibile, parte integrante di un messaggio e di una cultura di convivenza, della pluralità diversità dei popoli e delle nazioni nella regione mediorientale e nel mondo? Chi ha occhi per vedere e udito per sentire ha compreso da tempo che la leggenda nera dell’odio per Israele è una fabbrica del mostro, una nebbia ideologica con cui gli oppressori interni dei popoli arabi e islamici rinforzano le catene, irreggimentano le masse, negano in partenza anche solo l’evocazione dei diritti della persona.

La logica politica dell’amico-nemico è sempre assoluta e spietata, è una politicizzazione integrale che genera militarizzazione, nega in un monismo manicheo ogni complessità, varietà, molteplicità, più semplicemente tappa la bocca, fucila, impicca e sgozza. La continua guerra di aggressione a Israele è una necessità totalitaria delle classi dominanti islamiste, utile per eliminare anche le più pallide tipologie formali di democrazia rappresentativa .

Gli amici di Israele chiedono il suo riconoscimento come paese normale, questo è il loro compito istituzionale, lo chiedono agli uomini normali, in nome del diritto internazionale.

Molti uomini e popoli credono che Israele costituisca l’unica democrazia nel Medio Oriente, opposta a regimi tirannici, e per questo esprimono la loro amicizia e solidarietà. Una ragione sufficiente e persuasiva.

Israele non solo è diventata spontaneamente una democrazia liberale con il ritorno in Eretz Israel e l’indipendenza politica, ma, nella sua esistenza plurimillenaria è stata l’origine, la sorgente di vita e il cuore profondo dell’intero fiume delle azioni e delle idee di uomini e popoli per la libertà e la democrazia, di tutte le rivoluzioni e riforme istituzionali costituzionali, in forme e gradi molto diversi, in modi sia indiretti che diretti.

Se nella civiltà greca l’uomo, antropos, era riconosciuto solo perché diventava cittadino della polis, zoon politikon, cioè solo in quanto membro della comunità politica, nella civiltà ebraica, nella Torah, invece, la creatura umana in quanto creazione divina, è persona di per se stessa. È un’antropologia della libertà che è cultura della persona in modo radicale, in senso prepolitico e la politica stessa è riconosciuta se è limitata e se essa riconosce la preesistenza originaria della persona soggetto del diritto.

Così l’idea del Patto (parola chiave presente trecento volte nella Torah) tra Dio e il popolo d’Israele, stabilito su fondamentali regole di condotta, ispira diverse genealogie e storie delle politiche di libertà, nella visione, di tipica matrice ebraica, di istituzioni legittime perché pattizie e associative, con tutto lo straordinario dinamismo rivoluzionario che questa visione scatena. Con una de-sacralizzazione del potere politico capace di motivare le azioni umane a favore di una limitazione incessante del potere politico, per la salvaguardia dell’indipendenza delle persone e delle libere comunità.

Indipendenza dalla servitù o sudditanza politica e, nel contempo, vita di relazioni etiche di un popolo, di una comunità volontaria, dove l’elezione divina di Israele si esprime in un carico di doveri per sé ma non per gli altri.

La trascendenza divina richiede amore e rispetto per il prossimo (a una verticalità di fede corrisponde un’orizzontalità di relazioni umane molteplici), il Patto con l’Eterno è garanzia suprema di un ordine morale e giuridico, così nei termini etico religiosi. Mentre in termini secolari razionali significa che la limitazione del potere politico è resa possibile dalla capacità e consapevolezza dell’autogoverno popolare, dalla libera responsabilità delle persone e di un popolo. Esercizio della libertà, libertà esercitata, nel pluralismo della vita sociale, di una società civile autonoma, in una rete di corpi intermedi, libere iniziative e poteri originari diffusi.

La compatibilità e l’interazione della propria libertà con le altrui libertà, della libertà individuale con le relazioni di prossimità, del proprio piccolo mondo privato con le

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sfere private degli altri e lo spazio pubblico, comportano, nel Diritto e nell’Etica dell’Ebraismo, una libertà che agisce come responsabilità, un’autolimitazione ‘spontanea’della propria libertà nel pieno riconoscimento dei doveri.

Doveri verso Dio e verso il prossimo, ci ricorda un insigne giurista ebreo israeliano Alfredo Mordechai Rabello:

“…non è quella dei diritti la prospettiva normalmente presa in considerazione dal Diritto ebraico nell’affrontare i problemi; tale diritto ci ha abituato a fissare l’attenzione sui doveri dell’uomo verso D-o, che si traducono anche in doveri verso il nostro prossimo.

Per esempio, la Bibbia non parla del diritto del genitore ad essere onorato dal figlio e del diritto del nostro prossimo all’amore, ma essa parlerà del nostro dovere, vero e proprio precetto affermativo di onorare nostro padre e nostra madre (come apprendiamo dal quinto dei Dieci Comandamenti) e del dovere di amare il nostro prossimo come noi stessi”.

Il diritto ebraico è considerevolmente singolare, possiede la vita millenaria di una tradizione vitale e solida e l’attualità di un diritto vivente capace di rispondere ai problemi complessi e sofisticati di oggi. Da un lato, si fonda sulla Torah e sul Talmud esprimendo valori e regole perenni nel cambiamento incessante delle generazioni e del mondo, dall’altro (anzi, proprio per questo) è capace di individuare la concretezza del caso, il volto della singola persona, la specificità della relazione tra uomini.

Comunità ebraiche senza un proprio stato e disperse in mondi diversi, spesso ostili, hanno saputo realizzare durante millenni un autogoverno giuridico che presenta alcuni aspetti esemplari. Che appaiono in sintonia con i più avanzati problemi giuridici del tempo dell’odierna rivoluzione telematica.

Paradossale secondo le pretese di una logica monistica, ma ben comprensibile e ben funzionante, perché è un Diritto tanto fermo e roccioso nei suoi fondamenti, quanto flessibile e aperto nella sua regolazione concreta perché, da entrambi i lati, è un diritto vivente e non una normazione astratta e impersonale.

Accade dunque che, mentre il diritto di legislazione politica, sempre più proliferante e invasivo, il diritto statizzato, sempre più astratto e impersonale, è entrato in una crisi profonda e irreversibile e si mostra impotente nella soluzione dei problemi giuridici del nostro tempo. Si veda, tra l’altro, l’Unione Europea, diventata un pachiderma burocratico che impone normative astrattissime, spesso irrazionali, sempre politicizzate, su tutto e a tutti, portando all’apice la divaricazione tra diritto di legislazione e diritto di giurisprudenza e quella tra i cittadini singoli, le diversità delle persone e dei popoli, e un super-stato di apparato, forse al limite estremo di una frontiera tra uno statalismo senza diritto e il diritto in quanto tale. Mentre invece il diritto ebraico si mostra capace di navigare nell’ultra-modernità, di individuarne i problemi e offrire risoluzioni di casi, proprio perché già come diritto ultra-tradizionale è un diritto vivente, affidato a una pluralità di decisori, a un corpo di sterminata interpretazione e diversificazione, al faccia a faccia di uomini singolari, al caso concreto come fondamento del diritto e non come un semplice adattamento di una legislazione uniformata, deliberata dal comando politico, come accade nella maggior parte dei diritti di stato.

Al contrario del diritto statale contemporaneo e del diritto canonico moderno, il sistema ebraico non attribuisce una funzione centrale alla legislazione, anzi non ha una centralità e si fonda invece sui maestri e i loro giudizi, in un pluralismo complessivo. Perché semplicemente non esiste né il decisore centralizzato della sovranità statale, né un’istituzione centrale come nella Chiesa Cattolica, che stabiliscono deliberazioni obbligatorie e coercitive per un intero paese o un’ intera comunità.

L’impianto del diritto ebraico è molto significativamente reticolare e non piramidale e proprio questo lo rende diritto vivente dai tempi millenari alla contemporaneità.

Si è visto che Israele, per tanti aspetti, non è proprio un paese normale, che è investito da un incommensurabile valore simbolico e da una reale singolarità.

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Ma come l’elezione del suo popolo vuole dire solo l’intensità e l’estensione dei suoi doveri morali, così la segullah (singolarità) di Israele contiene il fondamentale e pieno riconoscimento della specificità e diversità di tutte le nazioni e culture del mondo. Come dire che la propria diversità ha nel suo dna il rispetto per tutte le altre nazioni e un universalismo della pluralità, costitutivo per tutti i popoli del mondo, e dunque

contiene dentro di sé la richiesta e la speranza di relazioni pacifiche di convivenza e mutuo rispetto con tutti. Per la fede e la cultura ebraica non ci può e non ci deve essere un’unica legge e un’unica religione per tutti gli uomini, perché ciascun popolo ha un proprio carattere peculiare, una sua evoluzione e cultura. Israele è l’unica minoranza al mondo che non vuole e non può diventare maggioranza, e dunque contiene nel suo messaggio universale il pluralismo come senso di verità, esperienza esistenziale insopprimibile, grande incessante apertura orizzontale, necessità e capacità di dialogo inter-culturale, bisogno assoluto di vivere in pace con se stessi e con gli altri.

Che tale modo di essere e di agire, di intrinseci e intimi valori positivi, di regole di condotta e di pace, venga dipinto dalla leggenda nera come un’Israele razzista e imperialista, prova solo che la tirannia della maggioranza su scala globale non tollera e non accetta, ma odia e minaccia di morte le minoranze che vivono la propria diversità, difendono la propria indipendenza e si mostrano esemplari per la libertà e responsabilità di tutti i popoli.

Che imperialisti e razzisti, secolari e religiosi, fanatici e idolatri, seminatori di odio e di morte, di terrore e distruzione, siano naturalmente antisemiti, prova solo che, come sempre, ogni programma di “morte agli ebrei” significa schiavitù e oppressione per tutti.

E riprova l’esemplarità ebraica che, proprio perché respinge la subalternità e l’assimilazione all’egemonia altrui per vivere la propria vita in libertà, afferma un messaggio e un sentiero di giustizia, pace e libertà per tutti gli altri.

(La seconda parte nel n.2; in particolare sugli argomenti di Shmuel Trigano sulla demonizzazione di Israele, il sacrificalismo, il nuovo antisemitismo) (Questo articolo esprime alcuni argomenti e accenti ‘personali’. Azmaut e l’Associazione sono plurali e richiedono la libera partecipazione di voci e accenti diversi).

Dichiarazione d’indipendenza

Francesco Lucrezi

Di imminente pubblicazione in Francesco Lucrezi, Ebraismo e Novecento, diritti, cittadinanza, identità., Edizione Belgorte, Livorno.

1.- Ebraismo, esilio, sionismo.

La Dichiarazione di Indipendenza di Israele, pronunciata a Tel Aviv, il 14 maggio 1948 (5 di Iyar 5708), dal governo provvisorio, presieduto da David Ben-Gurion, atto fondativo del risorto stato ebraico, rappresenta, sul piano giuridico, un documento alquanto peculiare, frutto della particolare congiuntura storica in cui fu steso e approvato e delle singolari caratteristiche tanto della diaspora ebraica quanto dell’ideale sionista. Se il sionismo, secondo il progetto di Theodor Herzl, avrebbe dovuto porre fine alla diaspora (cosa che, invece, non è avvenuta, se non in parte), così la rifondazione di Israele avrebbe dovuto portare al compimento, e quindi alla fine dello stesso sionismo

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(come ebbe a dire lo stesso Ben Gurion, poco dopo la conquista dell’indipendenza, da quel momento un ebreo avrebbe potuto essere sionista solo per poche ore, quelle della durata di un volo per Tel Aviv). Anche questa idea, però, la fine del sionismo, si è rivelata illusoria, in ragione della persistenza tanto della diaspora quanto dell’incancellabile legame tra essa ed Erez Israel (ossia tra l’ebraismo ‘dentro’ e ‘fuori’ i confini della patria ebraica): la Dichiarazione d’Indipendenza, così, non è lo spartiacque tra età dell’esilio ed età della nazione, tra sionismo e post-sionismo, ma una sorta di palingenesi, di salto di qualità dell’intero ebraismo mondiale. E di tale

indissolubile legame, così come delle contraddizioni e aporie da esso implicate, la Dichiarazione stessa dà eloquente testimonianza.Per apprezzare il valore giuridico di tale atto, cercheremo di dare risposta a quattro domande di fondo:

a) Qual è, alla luce della Dichiarazione, la legittimità del risorto Stato ebraico?b) Qual è il valore costituzionale della Dichiarazione stessa?c) Di chi, secondo la Dichiarazione, è la patria lo Stato di Israele, chi ha diritto a esserne cittadino?d) Israele, sempre secondo la Dichiarazione, nasce come Stato moderno, o ‘rinasce’ come la nazione cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano?

2.- Legittimità dello stato di Israele.

La Dichiarazione di Indipendenza fa riferimento, come base della legittimità dello Stato, essenzialmente a tre fattori: l’antico diritto storico degli ebrei sul suolo della “propria antica patria” (3° comma: nella parte centrale della Dichiarazione, si parla di “diritto naturale e storico”); la Dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 (5° c.); la Risoluzione 181 del 29 novembre 1947 delle Nazioni Unite (9° c.). Di questi tre, il prevalente sembra senz’altro essere il primo, che rinvia alla millenaria sovranità statuale ebraica in terra d’Israele, nonché al mai interrotto legame di appartenenza tra popolo ebraico ed Erez Israel.

Il riferimento al “diritto naturale” richiama quello alla “legge di natura” scritto nella Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America, giustamente definita “figlia del giusnaturalismo”: ma se i “Founding Fathers” si appellarono alle “Laws of Nature and of Nature’s God”, i padri costituenti d’Israele, pur rappresentanti di un popolo nato e cresciuto nella fede nel Dio unico, preferirono dare allo Stato un fondamento puramente laico, evitando qualsiasi riferimento alla divinità come sorgente di legittimità, ma sancendo unicamente un appello al suo sostegno (finale della

Dichiarazione: “confidando nell’Onnipotente, noi poniamo le nostre firme…”): una scelta, questa, che è il segno della netta prevalenza, tra le forze che realizzarono l’indipendenza, di quelle di ispirazione laico-socialista (e che, forse, con più difficoltà potrebbe essere oggi ribadita, tenuto conto dell’accresciuto peso, nella società israeliana, dei partiti di ispirazione religiosa).

Quanto ai riferimenti alla Dichiarazione Balfour (così detta dal nome del Ministro degli Esteri Britannico, che dichiarò il favore di Sua Maestà alla costituzione di un ‘focolare nazionale’ ebraico in Palestina) e alle Nazioni Unite (che, com’è noto, nl ’47 sancirono la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico e uno arabo: spartizione accettata dagli ebrei, ma rifiutata dalla totalità del mondo arabo), essi denotano un evidente bisogno di legittimazione innanzi alla comunità internazionale. Entrambi potrebbero essere considerati superflui, se si tiene conto che la Dichiarazione Balfour non fu altro, in origine, che una semplice lettera di intenti, significativa sul piano politico, ma priva di effetti vincolanti sul terreno del diritto. (Un vero e proprio riconoscimento giuridico, sul piano internazionale, del contenuto della Dichiarazione si sarebbe avuto solo nel 1922, quando essa venne inclusa, parola per parola, nel testo del Mandato conferito dalla Società delle Nazioni, che investì la Gran Bretagna della “responsabilità di mettere in pratica la dichiarazione fatta originariamente il 2 novembre 1917… a favore della creazione in Palestina di una sede nazionale per il popolo ebraico”). Quanto alle Nazioni Unite, la cui Risoluzione del 1947 è spesso addotta (o criticata) come primo fondamento giuridico del diritto all’esistenza di Israele, va ricordato che a esse non è mai stato riconosciuto, in nessun modo, alcun potere di ‘fare’ o ‘disfare’ gli Stati, la cui esistenza, sul piano del diritto internazionale, va constatata esclusivamente sulla base del principio dell’effettività, ossia della semplice presa d’atto della loro esistenza. La maggioranza degli Stati arabi creati dopo lo smembramento dell’impero turco erano stati fondati, dopo la prima guerra mondiale, a seguito di

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semplici accordi (spesso soltanto bilaterali) tra le potenze ex coloniali, né, dopo la seconda guerra e la fondazione delle Nazioni Unite, l’accettazione dei numerosissimi nuovi membri nell’Assemblea dell’Organizzazione è stata mai vista come una ‘creazione’ di sovranità, piuttosto che come un mero riconoscimento diplomatico.

Evidentemente la nascita dell’ONU, nel 1945, aveva suscitato l’effettiva speranza di un nuovo ordine di legalità mondiale, che in tale Assemblea avrebbe visto il primo riconoscimento dei diritti dei popoli: una speranza talmente radicata, nei padri di Israele, che le Nazioni Unite sono menzionate, in un testo di soli 18 commi, ben cinque volte; e una speranza, si può dire, che sarebbe poi stata, segnatamente dal punto di

vista israeliano, ampiamente delusa, se si considera l’atteggiamento a dir poco severo che avrebbe sovente assunto, negli anni successivi, l’Assemblea Generale dell’ONU (che sarebbe arrivata, nel 1977, ad approvare una vergognosa risoluzione [n. 3379], poi revocata il 16/12/91, di equiparazione di sionismo e razzismo). Ma c’è anche da ricordare che, al momento della loro costituzione, nel ’45, le Nazioni Unite contavano tra i propri membri una maggioranza di Paesi democratici (e della stessa Unione Sovietica di Stalin si aveva una conoscenza alquanto lontana dalla realtà) - al contrario della situazione odierna, che vede una netta prevalenza di regimi totalitari -, e che gli ideali delle Nazioni Unite, indicati, nella Carta di San Francisco, nella costruzione di un mondo di pace, giustizia e fratellanza, sembravano in assoluta sintonia con l’ideale sionista. Quanto questi ideali siano stati disattesi (e non solo dal punto di vista dello stato ebraico), è sotto gli occhi di tutti, ma Israele, se così si può dire, resta condannata dalla stessa Dichiarazione di Indipendenza a vedere la propria esistenza legata al benestare di una istituzione che così poco mostra di amarla e rispettarla, e che tanto si è allontanata dalla propria originaria missione.

3.- Valore costituzionale della Dichiarazione d’Indipendenza.

La Dichiarazione di Indipendenza, com’è noto, non è una carta costituzionale. Come ha chiarito la Corte Suprema israeliana, già il 2 dicembre 1948, essa “non fa che stabilire il fatto stesso della creazione dello Stato… Essa esprime la volontà del popolo e la sua professione di fede, ma non può in alcun modo essere considerata come una regola costituzionale alla luce della quale sarebbe possibile verificare la costituzionalità di leggi e ordinanze”. E lo stesso Ben Gurion, nella discussone del Governo provvisorio precedente all’approvazione della Dichiarazione, il medesimo giorno 14 maggio del ’48, disse: “Non è una Costituzione, vi sarà una Costituzione a parte”. Tuttavia, tale fondamentale Documento riveste, indubbiamente, un alto valore sul piano giuridico e costituzionale: il valore – secondo la definizione di Meir Shamgar, ex presidente della Corte Suprema – di “un atto politico con significato giuridico”. La Dichiarazione stessa, al 12° comma, prevedeva che una Costituzione avrebbe dovuto essere promulgata da un’Assemblea Costituente, da eleggersi non più tardi del 1° ottobre 1948. L’Assemblea fu eletta, ma la sua prima delibera, nel ’49, fu quella di spogliarsi della funzione costituente, trasformandosi in Parlamento ordinario (la

Knesset), e ciò in quanto, essendo stata eletta dal popolo, si vide depositaria di un’autorità di gran lunga superiore rispetto a quella del governo provvisorio - che era privo di tale legittimazione –, e fu pertanto subito chiamata ad affrontare le vitali emergenze della guerra e della ricostruzione. Né la redazione di una Costituzione scritta sarebbe mai stata affrontata operativamente in seguito, nonostante reiterate, autorevoli richieste in tal senso: “the time has come to write a Constitution”, per esempio, è il titolo di un’intervista rilasciata, nel 1998, dal grande giurista Haim Cohn, già Vice-Presidente della Corte Suprema d’Israele. Le ragioni della mancata stesura, a tutt’oggi, di un testo costituzionale unitario vanno ricondotte a una serie di diversi e gravosi problemi, quali quello della controversa conciliabilità tra la natura ‘ebraica’ dello stato e il suo carattere ‘democratico’ (Theodor Herzl, nel suo famoso opuscolo, Der Judenstaat, non a caso aveva parlato, infatti, di uno ‘Stato degli ebrei’, piuttosto che di uno ‘Stato ebraico’), e quindi della definizione del diritto di appartenenza delle minoranze musulmane e cristiane (composte da cittadini a pieno diritto, ma non ebrei), della stessa natura laica o religiosa dell’identità ebraica dello Stato (forte è stata ed è ancora l’opposizione all’idea di Costituzione da parte della maggioranza dei religiosi, secondo cui fondamento di uno stato ebraico non può essere altro che la Torah) o, ancora, della perenne presenza di altre, non rinviabili emergenze nazionali, a cui dare la precedenza. Nel 1950 una legge, chiamata Harari dal nome del deputato proponente, avrebbe comunque dato il via a un lungo e lento processo costituente ‘a tappe’, attraverso l’emanazione, a maggioranza qualificata di voti, di una serie di ‘leggi fondamentali’, destinate a dar corpo, in un non definito futuro, a una forma di Costituzione (la prima legge fondamentale, sulla Knesset, non sarebbe stata approvata che nel 1958). Nel 1992 due leggi fondamentali, sulla ‘Libertà di occupazione’ e sulla ‘Dignità umana e libertà’ (implicanti, secondo l’allora Presidente della Corte Suprema, il grande giurista Aharon Barak, una “rivoluzione costituzionale”), avrebbero portato, per la prima volta, una ‘clausola limitativa’, la quale così recitava: “Non vi saranno violazioni di diritti

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previsti da questa legge, tranne che per una legge consona ai valori fondamentali dello Stato di Israele, designata per una giusta causa e in misura non superiore al necessario”. Le leggi ordinarie, dunque, sono state assoggettate al giudizio della Corte Suprema, la quale (diventando, così, oltre che Corte di Appello e Cassazione, anche un equivalente di Corte Costituzionale) avrebbe potuto e dovuto sindacarne la conformità alle leggi fondamentali (assurte quindi al rango di ‘leggi costituzionali’, come riconosciuto in una successiva pronuncia della stessa Corte), giudicando, in caso di presunta violazione, se questa avvenga nel rispetto dei “valori fondamentali” dello stato. Sorse, però, il problema di definire quali fossero questi “valori fondamentali”, cosicché, il 9 marzo del 1994, fu approvato un testo riveduto della legge fondamentale sulla

Libertà di occupazione, nel quale si spiegava che tali valori erano quelli indicati in una bozza del Ministero della Giustizia, che faceva a sua volta esplicito riferimento alla Dichiarazione di Indipendenza. Le leggi ordinarie, quindi, devono conformarsi alle Leggi fondamentali, ma possono ad esse derogare in ossequio alla Dichiarazione di Indipendenza. Com’è evidente, la Dichiarazione di Indipendenza, in quanto norma sovrastante rispetto alle Leggi fondamentali, è quindi salita su un rango superiore a quello di una stessa Carta Costituzionale.

4.- Patria e cittadinanza.

La Legge del Ritorno, approvata (non come legge fondamentale, la prima delle quali, come detto, risale al 1958) nel luglio 1950 dalla Knesset (e poi completata dalle successive Leggi della Cittadinanza, del 1952 [che chiariva la posizione dei cittadini non ebrei] e dell’Ingresso, sempre del ’52 [sui visti di entrata e i limiti di soggiorno nel Paese per i non israeliani]), sancisce che ogni ebreo che lo desideri, al momento del suo trasferimento (attraverso la ‘aliyà’, la ‘salita’ nella Terra Promessa) in Israele, acquisti immediatamente (in quanto ‘olè’, ‘salito’) la cittadinanza israeliana. Tale legge deriva direttamente da quanto statuito nella Dichiarazione di Indipendenza, che stabilisce che lo Stato ebraico “aprirà le porte della patria a ogni ebreo” che vi faccia ritorno, conferendo all’intero “popolo ebraico la condizione di membro nella famiglia delle nazioni con tutti i privilegi” (6° c.), e “sarà aperto all’immigrazione ebraica e alla riunione degli esiliati” (12° c.). Se la “completa uguaglianza di diritti sociali e politici”, “senza distinzione di religione, razza o sesso” (12° c.), è garantita a tutti gli abitanti del Paese, e quindi anche alla minoranza araba, è evidente che il carattere ‘ebraico’ dello Stato, e la sua incondizionata accoglienza verso tutti gli ebrei del mondo, pongono le basi di una singolare estensione della cittadinanza nei confronti dell’intero popolo mosaico. La cittadinanza israeliana, è da notare, non viene automaticamente estesa a tutti gli ebrei, ma solo a coloro che esercitino tale facoltà, effettuando la aliyà, e ciò crea un indissolubile, peculiare rapporto di appartenenza tra il popolo israeliano e la golà, l’ebraismo della diaspora, ‘potenziale’ cittadino dello Stato. Se alcune insofferenze serpeggiano, da tempo, in alcuni settori della società civile israeliana, verso la perpetuazione della legge del ritorno come diritto incondizionato (in particolare nei confronti degli ebrei residenti nei Paesi liberi e opulenti, che avrebbero ormai avuto più di mezzo secolo per esercitare tale diritto), è da credere che queste non potranno mai valere a rinnegare tale principio basilare, che è scolpito in modo ineludibile nella Dichiarazione di Indipendenza. Israele sarà sempre la ‘patria potenziale’ di tutti gli ebrei.Si noti che la Dichiarazione di Indipendenza non si pronuncia sulla definizione di chi possa dirsi ‘ebreo’, cosicché tale problema, ai fini dell’esercizio dei diritti previsti dalla Legge del ritorno, si è più volte presentato innanzi alla giurisdizione israeliana, fino alla Corte Suprema. Particolarmente noto il caso dell’ebreo Rufeisen, noto come ‘fratello Daniel’, convertito al cattolicesimo ed entrato in un ordine religioso, che chiese di essere registrato come ebreo, vedendosi respinta la richiesta dalla Corte Suprema, nel 1962, con la motivazione che nell’ebraismo nazionalità e religione non possono essere separati. Altro caso controverso fu quello dei figli di un padre ebreo e una madre non ebrea, gli Shalit, per i quali i genitori chiesero la cittadinanza, pur non avendo provveduto alla loro conversione; la Corte Suprema, nel 1968, accolse, a maggioranza, la richiesta. Solo nel 1970 la Legge del Ritorno è stata emendata, per includervi una definizione di chi sia ebreo, secondo la quale è da considerare tale chi sia nato da madre ebrea o si sia convertito all’ebraismo e non appartenga ad altra confessione religiosa (lasciando tuttavia aperta la questione di quali conversioni siano da considerare valide, se solo quelle effettuate secondo il rito ortodosso, o anche quelle promosse dalle sinangoghe riformate: la Corte Suprema, nel 1987, emanò una sentenza di apertura, ma il problema è tuttora oggetto di discussioni e contrasti).

5.- Israele antico e moderno.

Sul piano storico, civile, culturale e religioso, non c’è dubbio che quella di Israele, nel 1948, sia non una ‘nascita’ ma una ‘rinascita’, a distanza di quasi 19 secoli, della stessa identità statale cancellata, nel 70 d.C., dall’impero romano. Una rinascita compiuta dai discendenti degli esiliati, che, sulla stessa terra degli antichi re, profeti e

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sacerdoti di Israele, intorno alla stessa Gerusalemme di Davide e Salomone, hanno fatto rifiorire la patria perduta – caso unico nella storia -, professando la stessa religione, parlando la stessa lingua, osservando le stesse tradizioni del remoto passato. Significativamente, il numero degli ebrei presenti in ‘Erez Israel’ al momento dell’Indipendenza (circa 650.000 anime, in gran parte scampati alla Shoah) è ritenuto coincidente, secondo la tradizione, con quello dei seguaci di Mosé che, verso il 1200 a.C., si affrancarono dalla schiavitù d’Egitto e, traversato il deserto, raggiunsero la Terra Promessa, per ivi dar luogo alla prima ‘nascita’ della nazione. Sul piano giuridico e costituzionale, si può senz’altro dire che la rinascita di Israele, nel senso non solo di un riacquisto di sovranità e indipendenza da parte di un popolo che ne era stato spogliato in età antica, ma di una vera e propria ricostituzione di un’identica identità statuale, ‘interrotta’ o ‘sospesa’ per una quasi bimillenaria

‘parentesi’, rappresenti un unicum, una realtà senza analogie o precedenti storici (nessuno, per esempio, vedrebbe una qualche forma di continuità giuridica tra l’Italia di oggi e la Roma di Cesare, o tra l’Egitto odierno e quello dei Faraoni). Eppure, nel caso di Israele, tale continuità esiste, anche sul piano del diritto, e trova proprio nella Dichiarazione di Indipendenza la sua solenne sanzione, già nel 1° comma (che apre la Dichiarazione ricordando che il popolo ebraico proprio in Erez Israel “ha ottenuto per la prima volta un proprio stato”), e poi nel 2° (che ricorda l’ininterrotta fedeltà, nei secoli dell’esilio, alla patria perduta), nel 3° (che ricorda i secolari sforzi degli ebrei per “ristabilirsi nella propria antica patria”), nel 4° (ove si rammenta la proclamazione, in occasione del Primo Congresso Sionistico, del 1897, del “diritto del popolo alla rinascita nazionale nel proprio Paese”), nel 5° (che afferma l’esigenza di ‘ristabilire’ lo stato ebraico in Erez Israel). Certamente, i concetti di ‘stato’ e di ‘sovranità’ nel mondo antico erano ben diversi da quelli contemporanei, ma proprio la singolare, ancorché unica, realtà del caso israeliano dovrebbe, a nostro avviso, contribuire a fare accettare un’interpretazione più ‘estensiva’ ed elastica dell’idea di statualità, facendo prendere atto che una moderna sovranità possa riproporre la realtà storica e giuridica di un’entità del passato, sospesa ma non cancellata. Perché la continuità tra l’antico e il moderno Israele non è simbolica ma concreta, reale, come può essere dimostrato da svariati esempi. La Knesset, il Parlamento unicamerale israeliano, si presenta come la ricostituzione della stessa Knesset Ha-Ghedolah dei tempi di Esdra e Neemia (V sec. a.C.), di cui riproduce, anche nel numero di membri (120) la funzione di rappresentanza popolare. La legge istitutiva dello Yad Va-Shèm, il sacrario della Shoah, del 1953, estende una ‘cittadinanza della memoria’ (non ‘onoraria’ o ‘simbolica’, ma giuridicamente effettiva, ancorché post mortem) a tutti gli ebrei d’Europa sterminati durante l’Olocausto, mostrando un’estensione retroattiva della sovranità dello stato risorto. Tale forza retroattiva è evidente e dichiarata anche nella legge della Knesset che permette di perseguire, senza limite di prescrizione, i crimini nazisti contro il popolo ebraico (e la Corte, durante il processo Eichmann, nel 1961, respinse, in ragione di questa dichiarata retroattività legale, le eccezioni della difesa, secondo cui il processo sarebbe stato illegittimo, venendo l’accusato giudicato in forza di una norma non solo scritta dopo i fatti oggetto del giudizio, ma addirittura promulgata da uno stato che, al tempus commissi delicti, non esisteva). Molti settori del vigente diritto israeliano (in particolare in tema di diritto di famiglia: matrimonio, divorzio ecc.) sono ancora disciplinati dalla halachà (la parte precettiva della Torah, ricavata dai 613 precetti [mitzvòt] del Pentateuco), ossia dalla medesima normativa in vigore nell’antico Israele, ed è sempre ad essa che si fa riferimento – attraverso l’interpretazione del Rabbinato, a volte sollecitata dalle stesse autorità civili – per la soluzione di alcune questioni controverse (p. es., in tema di bioetica). E ancora, quando, agli inizi degli anni ’60, furono scoperti 27 scheletri sulla rocca di Masada (dove, nel 73, d.C., si tolsero la vita gli ultimi zeloti combattenti contro Roma, per non cadere vivi nelle mani del nemico, e dove periodicamente, ai giorni d’oggi, i soldati di Israele giurano di difendere la patria [“Masada shall never fall again”]), il governo d’Israele, avendo mostrato di credere all’identificazione – pur contestata – di tali resti nelle spoglie di alcuni dei resistenti, volle ad essi tributare onoranze di stato. Gli esempi addotti – pur potendosi l’elenco allungare – dovrebbero essere sufficienti. Ma non si può chiudere questa nota senza accennare al lungo e triste capitolo della presunta ‘continuità negativa’, ossia agli ostili pregiudizi di chi ha mostrato (o mostra ancora) di ritenere che lo stato ebraico non sia risorto ‘creditore’, nei confronti della storia, di milioni e milioni di martiri, ma piuttosto ‘debitore’, per sempre, per la sola, ‘eterna’ e terribile colpa del ‘deicidio’. Singolare esempio di tale idea ‘malata’ di continuità, e di un suo risvolto giuridico, si ebbe in un’iniziativa concertata che, subito dopo la costituzione della Corte Suprema israeliana, nel 1949, vide giungere al Tribunale, da varie parti del mondo, una serie di istanze tendenti a chiedere la revisione della sentenza di condanna pronunciata, dal Sinedrio di Gerusalemme, contro Gesù di Nazaret. Il Presidente del Tribunale, Moshè Smoira, chiese al giovane Procuratore Chaim Cohn, studioso di diritto ebraico e romano antico, nonché suo genero, di rispondere con cortesia – nonostante l’evidente spirito malevolo delle richieste – ai sottoscrittori,

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spiegando le ragioni dell’incompetenza della Corte (invito che fu volentieri raccolto da Cohn: il quale, anzi, si interessò talmente al caso richiamato da dedicare anni di studi alla vicenda, poi sfociati nel celebre libro, ora tradotto anche in italiano, Processo e morte di Gesù. Un punto di vista ebraico).L’Israele moderno, dunque, è veramente nato – per usare il titolo dell’altro, noto libro di Herzl – come ‘Altneuland’, patria nuova e antica. Oggi, a distanza di sessantuno anni dalla sua fondazione, esso non solo non più figura più, e da tempo, tra i membri ‘iuniores’ dell’Assemblea delle Nazioni Unite, ma si conferma anche, e per sempre, il Paese più antico del mondo.

Guerra e pace nell’ Ebraismo

Rav Roberto Della Rocca

Guerra e pace sono da sempre temi che assillano l’ebraismo.

Basta dare un’occhiata alla Bibbia per convincersi che di tanto in tanto ed anche con troppa frequenza siamo stati coinvolti in qualche guerra.

Lo stesso ingresso del nostro popolo nella Terra di Israele con Giosuè è stato contrassegnato da grandi e continue battaglie.

In verità le testimonianze bibliche della storia ebraica vedono come eccezionali i periodi di pace. Spesso la Bibbia ci racconta che la "terra è stata in pace per quarant’anni" (Giudici, 3:11, 5:31) oppure per ottant’anni (3:30) e questi intermezzi tra guerre furono evidentemente degni di essere registrati.

Quello che è vero per il popolo ebraico al tempo dei regni, è del resto vero per tutta l’umanità: ovunque la pace è sempre stata una parentesi fra molte guerre.

Tuttavia le norme ebraiche relative alla guerra presentano molte restrizioni e riserve. Nella sua opera "Mishnè Torah" nel trattato relativo all’istituto monarchico. Maimonide dedica diversi capitoli alle norme da osservare in guerra e alla guerra stessa. In sostanza Maimonide raccomanda che una guerra deve avere una sua giustificazione morale che però non può essere una giustificazione arbitraria ma deve essere sancita da una decisione del Sinedrio e non demandata alla esclusiva volontà del re; inoltre devono essere prese strettissime misure atte ad assicurare un trattamento umano al nemico anche allo scopo di preservare la stessa umanità e moralità ebraica.Ed ancora secondo Maimonide non si deve muovere guerra contro alcuno al mondo prima che venga fatta un’offerta di pace conformemente a quanto è detto nel Deutoronomio (20:10): "Quando ti avvicinerai ad una città per combattere contro di essa, prima le rivolgerai un appello di pace".

Aggiunge Maimonide che quando si cinge una città d’assedio per conquistarla non si dovrà circondarla da tutti o da quattro lati ma solo in tre direzioni, lasciando la possibilità alla popolazione assediata di fuggire e, per chi lo desidera di salvarsi la vita … non si dovranno abbattere gli alberi da frutta nell’area adiacente, né si priverà la popolazione dei flussi d’acqua come è detto "non distruggere alcun albero" (Deuteronomio 20:19) e ciò si applica non solo per un assedio ma in ogni circostanza.

Secondo Maimonide il divieto include non solo gli alberi ma non si potranno rompere gli utensili, gli abiti, non si potrà gli edifici, chiudere i pozzi o distruggere il cibo (Hilchòt Melachim 6:7-10).

Queste norme, che vanno sotto il nome di "bal tashchìt", vietano appunto le distruzioni indiscriminate gli sprechi di risorse e l’inquinamento esse mostrano l’orientamento delle leggi ebraiche finalizzate ad evitare che la guerra ci svilisca e che quando siamo coinvolti nella violenza perdiamo la nostra umanità infliggendo ad altri forme di brutalità che nemmeno la guerra può giustificare.

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Altra importante norma ebraica è quella che non bisogna mai godere della sconfitta dei nostri nemici. Nella celebrazione di Pesach quando ricordiamo la vittoria sui crudeli oppressori egiziani, in tutti i nostri canti non vi è una sola parola di gioia per la distruzione del nemico. Al contrario negli ultimi sei giorni della festività recitiamo solo metà Hallel (Salmi, 113-118) perché il Signore disse agli angeli: "… Le mie creature stanno annegando nel Mar Rosso e voi intonate canti di lode?"

Gli egiziani ci perseguitarono, essi furono nemici mortali eppure anche le loro vite erano preziose vite umane. Per quanto odioso sia un nemico, non si ha mai il diritto di gioire per la sua caduta. "Non gioire quando il tuo nemico cade" (Proverbi, 24:17). Per la stessa ragione quando nel Seder di Pesach enumeriamo le dieci piaghe inflitte agli egiziani, versiamo una goccia di vino fuori dai nostri bicchieri per mitigare la nostra allegria con la triste constatazione che la nostra liberazione è costata la sofferenza da altri esseri umani.

Il nostro bicchiere di felicità non può essere stracolmo, se la nostra libertà ha comportato una tragedia per altri, siano essi pure nostri acerrimi nemici.

Quindi la guerra non è mai stata vista come prima o desiderabile soluzione ai conflitti umani. A David, re di Israele, Dio non consentì la costruzione del Tempio, rimandata al figlio Salomone: "… Tu non costruirai il Mio Tempio, una Casa per il Mio Nome poiché tu sei un uomo di guerra e hai sparso sangue…" (Cronache, 22:8; 28:3). Le guerre condotte da David furono certo guerre giuste ma per quanto giusta sia una guerra chiunque vi sia rimasto coinvolto non è qualificato per costruire un tempio a Dio, poiché il Tempio è simbolo di pace.

La pace è il supremo ideale ebraico: nella visione profetica il centro focale di tutte le nostre speranze messianiche risiede nella pace universale.

In ebraico si dice "shalom". La parola si rifà alla radice "shalem" che dà l’idea di completezza e di interezza. Non vi è completezza in n mondo lacerato dalla guerra e dall’intolleranza.

Per la pace, dicono i Maestri (Trattato Derech Eretz Zutà cap. 9) si può anche mentire e secondo Rabban Shimon ben Gamliel, il mondo si regge su tre cose: la verità, il giudizio e la pace (Trattato di Avòt, 1:18). La verità e il giudizio sono i requisiti essenziali e la più sicura salvaguardia per il mantenimento della pace. La massima sopraccitata di Rabban Shimon ben Gamliel viene così commentata nel talmud: "…Le tre cose in realtà sono una sola: se il giudizio è eseguito, la verità è rivendicata e ne risulta la pace…".Nessuna benedizione può essere tale se non vi è la pace che la completi e la attui pienamente.

Nella tradizione ebraica dunque la pace è un punto centrale dell’esistenza umana; ogni sforzo deve essere teso al suo raggiungimento, nulla va tralasciato per scongiurare la guerra. La guerra è il male più grande che può toccare l’uomo perché lo sminuisce e lo disumanizza, cancellando la sua componente divina. Ogni ebreo al termine della Amidà, parte principale delle tre preghiere quotidiane, recita la formula: "… Concedi una pace buona su di noi…". La pace non è tale se solamente tacciono i cannoni, perché sia completa dovrà essere buona. Se tacciono i cannoni è già un gran successo, ma è solo il punto di partenza verso la buona pace, che sarà prima di tutto rispetto per ogni persona.

Sempre presente dunque è nella mente dell’ebreo il concetto di pace come bene supremo, dono di Dio, emanazione diretta dell’Eterno tanto che la parola "shalom" pace è divenuta il saluto abituale dell’ebreo quale espressione di buon augurio, conformemente a quella massima rabbinica che cita: "… Sii tu il primo a porgere lo shalom a qualsiasi persona… " (Trattato di Avòt, 4:15).

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Il Negev: la Frontiera

Luciano Tagliacozzo

Seguendo una ispirazione dei fondatori dello Stato Ebraico, in particolare di David Ben Gurion, il KKL (Fondo Nazionale Ebraico) ha stabilito nel 2005 un piano di nuovi insediamenti nel Sud di Israele, il deserto del Negev, che diventa il nuovo terreno per la “colonizzazione interna”, cioè l’espansione demografica , agricola e industriale israeliana. A tutt’oggi il Negev è dimora di 379.000 ebrei e 174.000 beduini. Questo pianeta-deserto verrà dunque nei prossimi anni ad essere completamente cambiato, dalle nuove città oasi e foreste. Vediamo di esaminarne la storia la geografia e le prospettive socio-politiche.

STORIA DEL NEGEV

Il deserto del Negev è abitato da popolazioni nomadi almeno dal 7000 A.E.V. La testimonianza della Bibbia (Genesi) che ci indica Abramo e Isacco presenti o fondatori di Beer Sheva, Arad distrutta all’epoca di Moshe e dell’Esodo, sono confortate in gran parte dai ritrovamenti archeologici, che hanno ritrovato gli insediamenti Amaleciti ed Idumei. Recentemente l’archeologo Emmanuel Anati ha ritrovato sull’Har arkom, nel Negev meridionale insediamenti del’epoca dell’Esodo e ha ipotizzato che questa montagna fosse il vero Sinai-Horev su cui Mosè ricevette i dieci Comandamenti. Nel testo biblico la parte settentrionale del Negev fu territorio della tribù di Jehudah e quella meridionale della tribù di Simeone; durante il regno di Salomone il territorio israelita si estese fino ad Eilat, sul mar Rosso.

Nel 1948 la divisione della Palestina britannica in due stati, e lo Stato d’Israel pone una amministrazione militare sul Negev, e dichiara l’85% del territorio del Negev “State Land” ; Beer Sheva che è una città araba di 4000 abitanti nel 1947 diventa una città ebraica di più di 200.000 abitanti. Arad, viene fondata nel 1962 presso l’antico insediamento dell’epoca biblica. Eilat, viene conquistata nel Marzo 1949 da una spedizione della Brigata Golani dello Zahal. Attualmente è un fiorente porto di 46900 abitanti, con attrattive turistiche e un importante parco marino .Importante ricordare Dimona, sede della centrale nucleare,città di 32700 abitanti, abitata in gran parte da immigrati ebrei del Nord Africa, e i Kibutzim, es Sde Boker, in cui si ritirò Ben Gurion, che vedeva nel Negev il futuro d’Israele. Recentemente gli insediamenti ebraici di Gaza sono stati ricostruiti nel Negev, ed è in corso una risistemazione delle strade e della ferrovia.

Nel 1979 Ariel Sharon dichiara 100000 mq di deserto parco Naturale, aprendo però un contenzioso con alcune tribù beduine, che lamentano di non potere più avere le loro materie prime tradizionali (es. il pelo di capra nera per costruire le tende). Il governo. Decine di migliaia di beduini sono sedentarizzati nelle nuove città arabe costruite nel Negev dal governo, e in parte sono emigrati verso le città industriali del Nord d’Israele.

Il programma Blueprint Negev per una prima fase da realizzare entro il 2013, con 250.000 nuovi insediamenti ampliamento dei Kibutzim della valle dell’Aravah, sistemazione del Prco naturale del Nahal Beer Sheva , con 40.000 nuovi alberi, creazione di nuove oasi come Halutzit, fonte di vita e lavoro. Come hanno detto i Profeti d’Israele “I profughi di Sefarad abiteranno le città del Negev”.

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Facebook e Israele: quando la rete si schiera al lato giusto

Massimiliano Panico

L’iniziativa più eclatante è stata sinora quella organizzata dal generale Roberto Martinelli: in sole tre settimane, grazie all’ausilio di Facebook e dell’Associazione Amici di Israele Abruzzo, è riuscito a mobilitare tremila persone contro la decisione del Comitato organizzatore dei “Giochi del Mediterraneo” di lasciare a casa gli atleti israeliani. In pochi giorni il gruppo “Israele deve partecipare ai prossimi Giochi del Mediterraneo” ha raggiunto quasi 1500 aderenti, provocando l’interrogazione parlamentare di Fiamma Nirenstein e la presa di posizione (da più parti accusata di eccessiva moderatezza) del ministro degli esteri Frattini, che ha dichiarato che quelli di Pescara 2009 saranno gli ultimi Giochi senza atleti israeliani. Il generale Martinelli, già al comando della Multinational Force and Observers (MFO), la forza internazionale schierata in Sinai per verificare il rispetto degli accordi di pace siglati a Camp David da Egitto e Israele, ha così mostrato quali risultati è possibile ottenere con i c.d. “social network”, i gruppi che su internet condividono interessi, foto ed esperienze di vita.

“Israele deve partecipare ai prossimi Giochi del Mediterraneo” non è che uno dei gruppi presenti su Facebook e dichiaratamente schierati al fianco di Israele. Basti pensare a “Israele: Difendiamola”, amministrata da “Avanti Israele”, Mirella Coen (donna italo – israeliana che vive in Israele dal 1965) ed Emiliano Nepa, un giovane italiano vicino all’ebraismo: con i suoi 3.303 membri, è forse il gruppo più numeroso.

Ci sono poi “Sostegno a Israele - Support for Israel”, amministrato da Mattia Bacciardi, iscritto all’Università LUISS “Guido Carli” e candidato come delegato nazionale del PD a Roma, che conta quasi 600 iscritti, e “Sostegno incondizionato per Israele”, fondato da Edoardo Gaj e giunto a quota 300 aderenti.

Diverse sono le ragioni che hanno spinto uomini e donne di diversa età, estrazione politica e culturale, a creare questi gruppi pro Israele. Si va dal background culturale, politico e professionale del generale Martinelli, alla voglia di divulgare informazioni non faziose di Edoardo Gaj, alla reazione al boicottaggio anti-israeliano indetto dalla sinistra massimalista alla Fiera Internazionale del Libro di Torino di Bacciardi.

Giuseppe S. ricorda con orrore un episodio della Seconda Intifada, quando due palestinesi sterminarono una giovane donna israeliana incinta ed i suoi tre figli, tutti con meno di sette anni. “Da quell’episodio”, dice Giuseppe, “per me Israele rappresenta una giovane donna che difende i suoi figli”, e proprio per comprendere la ragione di quell’odio ha cominciato a studiare la situazione medio orientale.

Della cultura israeliana si apprezza la modernità che convive con una tradizione plurimillenaria, i suoi scrittori, “la capacità di costruire una società laica, liberale, plurale, insomma il meglio della civiltà occidentale”, secondo le parole di Mattia Bacciardi. Quasi tutti i gruppi erano già attivi al momento della reazione agli attacchi di Hamas da Gaza. L’operazione “Piombo fuso” è stata per molti degli organizzatori dei gruppi pro Israele un successo militare (anche se non è arrivata all’eliminazione di Hamas, è comunque riuscita a ridurne fortemente il potenziale bellico) ma anche, e soprattutto, un successo mediatico. Forse per la prima volta, la stampa e l’opinione pubblica non sono apparse aprioristicamente ostili ad Israele. La rottura della tregua, mai peraltro mantenuta dall’organizzazione terroristica con sede a Gaza, e la divisione esistente all’interno dello stesso gruppo dirigente palestinese, hanno indotto il pubblico ad una maggiore riflessione sulle ragioni del conflitto. Del resto, sin dai primi giorni degli scontri ci sono state, in Rete, iniziative di solidarietà ad Israele, come quella del professor …, che sul suo sito ha preteso l’immediata cessazione dei lanci di missili palestinesi sul territorio israeliano, segno tangibile della presenza di una nuova classe politica e culturale più incline alle ragioni dello Stato Ebraico.

Fatta eccezione per il generale Martinelli, acuto conoscitore della realtà medio orientale, un dato accomuna i sostenitori di Israele: nessuno di loro ha ancora visitato la terra che tanto difende. Anche se c’è chi corre ai ripari: “Andrò in Israele quest’anno

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per la prima volta”, dice Giuseppe S., mentre Mattia Bacciardi spera di andarci presto. Grazie ad internet, però, tutti hanno avuto modo di apprezzare la cultura e la mentalità israeliana, rimanendo affascinati dalla “joie de vivre”, dalla apertura mentale e dal loro essere “occidentali”.

E forse proprio dalla Rete, dalle possibilità di dialogo e di confronto, spesso anche duro, potrebbe venire la nuova speranza per il processo di pace medio orientale.

Israele e la Sinistra italiana

Giuseppe Nitto

Israele, da quando l’Unione Sovietica preferì dal 1956 appoggiare i paesi arabi, sospingendo lo Stato ebraico dal “non allineamento” nelle braccia americane, ha sempre diviso la Sinistra italiana (e così quella europea ed internazionale), provocando accesi scontri tra i politici, gli studiosi e i giornalisti ad essa riconducibili.Ma è soprattutto in questi ultimi anni, a partire dal fatidico 11 settembre 2001, che la questione israeliana, e il connesso conflitto con gli arabi e i palestinesi, è divenuta cruciale nell’elaborazione geopolitica della Sinistra. La quale ha dovuto misurarsi con una circostanza nuova e storicamente peculiare: il governo di centrodestra all’epoca in carica, aveva stretto un saldo rapporto con Israele e il suo capo di governo Ariel Sharon, temperando la consolidata politica estera perseguita dall’Italia verso il mondo arabo, musulmano e islamico, inaugurata da Enrico Mattei. La cosiddetta “politica di equivicinanza” nei confronti di palestinesi e israeliani, che ebbe il suo apogeo nei governi di pentapartito con Craxi a Palazzo Chigi e Giulio Andreotti alla Farnesina, venne infatti sostituita da una politica – ancorata ad un rinnovato e più robusto vincolo atlantico - più attenta e sensibile alle ragioni di Israele, colpito tra il 2001 e il 2003 da una violentissima “Seconda Intifada”, in un contesto di Quarta Guerra Mondiale, secondo il “neocon” Norman Podhoretz, che un Occidente, diviso e incerto, aveva ingaggiato, suo malgrado, contro il Grande jihad del network terrorista di Usama ibn Laden.

A ciò si aggiunga, quale motivo di ulteriore imbarazzo nella Sinistra, che la Destra erede del fascismo, con il suo leader Gianfranco Fini (frattanto al dicastero degli Esteri per poi assurgere nel 2008 alla seconda carica dello Stato), ripudiava solennemente il razzismo nazifascista rubricandolo quale “male assoluto”, suggellando una solida alleanza con Israele, e una sorta di riappacificazione con l’ebraismo italiano, recandosi a Yad Vashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme. Ora, al fine di dipanare ogni equivoco, è necessario rilevare che nella Sinistra (eccetto quella estremista e antagonista) c’è sempre stata una Sinistra per Israele – che poi è il nome dell’associazione fondata nel 1967 da un grande socialista milanese, il compianto “Iso” Aldo Aniasi. Una Sinistra che, sebbene minoritaria e trasversale, talvolta timida dinanzi al chiassoso e iperfazioso filopalestinismo della Sinistra comunista, è riuscita a dare una nuova sensibilità e una maggiore attenzione verso le ragioni di Israele, tant’è che l’associazione Sinistra per Israele è stata rilanciata in gran spolvero nel 2007. Presidente è l’ex direttore dell’Unità e deputato Furio Colombo, con l’esplicito supporto di vecchi amici d’Israele quali Piero Fassino, Giorgio Napolitano, Franca Chiaromonte, Umberto Ranieri, Peppino Caldarola, Franco Debenedetti, nonché il giovane deputato diessino Lele Fiano, animatore dell’associazione a Milano con, tra gli altri, Luciano Belli Paci, Felice Besostri, Bruno Segre e Gabriele Eschenazi.E’ possibile cogliere la rilevante novità che ha attraversato una parte della Sinistra circa il proprio rapporto con Israele – anche in una parte di quella radicale a cominciare da Fausto Bertinotti e Luciano Canfora – riflettendo su due eventi succedutisi a distanza di oltre tre anni.

Nell’aprile 2002, Massimo Teodori (parlamentare di Forza Italia, ex radicale e studioso di storia americana) lanciava sul Foglio di Ferrara la proposta di tenere un “Israel

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Day”, una marcia di solidarietà in favore del popolo israeliano provato dalla sanguinosa Intifada dei martiri suicidi. La proposta veniva subito raccolta dall’Elefantino e il 15 aprile 2002, a Roma oltre 15 mila persone si radunarono al Campidoglio per poi raggiungere il vecchio Ghetto ebraico al Portico d’Ottavia, dinanzi al Tempio Maggiore in un clima commosso e pacifico.

E tuttavia a quell’evento una parte di quella Sinistra amica di Israele, non partecipò, con l’eccezione di Ranieri, Caldarola e Debenedetti, giustificandosi con il timore di una presunta “strumentalizzazione”, omettendo di considerare che l’iniziativa era trasversale e bipartisan, tant’è che tra i promotori vi era anche Furio Colombo.

Timidezza, timore della Sinistra filopalestinese, paura che l’oceanico Popolo della Pace protestasse, insomma: fu un’occasione perduta che di certo allargò il solco tra la Sinistra e Israele e il medesimo ebraismo italiano, che accorse in massa, e che favorì il feeling tra il centrodestra e Israele e una larga parte degli ebrei italiani.

Tutto quindi lasciava presagire una Sinistra ancora ipotecata dai settori più antipatizzanti verso Israele e il suo odiatissimo leader Ariel Sharon, giacchè frattanto la polemica infuriava e la guerra all’Irak fece il resto.

Invece, fortunatamente, la Sinistra per Israele è riuscita con fatica e con tenacia, a sensibilizzare la questione di Israele presso l’opinione pubblica, - cioè il suo sacrosanto diritto a vivere in pace e in sicurezza; è riuscita a far comprendere che il terrorismo suicida va condannato senza esitazioni anche perchè esiziale per gli stessi palestinesi; è riuscita a marginalizzare i settori più faziosi e pregiudizialmente ostili ad Israele, condannando pericolose derive antisemite che purtroppo, come acutamente osservava Fiamma Nirenstein, prese piede anche in alcuni settori della Sinistra antagonista.

E infatti, quando il presidente iraniano Ahmadinejad dichiarò di voler cancellare dalla faccia dalla terra Israele, la Sinistra (eccetto le frange radicali con alcune significative eccezioni) non ha esitato a scendere in piazza il 3 novembre 2005 a Roma, per manifestare pacificamente sotto l’Ambasciata iraniana il diritto all’esistenza di Israele e sentimenti di simpatia verso il popolo iraniano.

A distanza di poco più di tre anni, quella stessa Sinistra che il 15 aprile 2002 se n’era restata a casa per timore che un luciferino Giuliano Ferrara potesse strumentalizzarla (sic!), cambiò idea e si riversò nelle strade di Roma guarda caso proprio su invito del direttore del Foglio.

Da ciò è ben possibile affermare che la Sinistra riformista e liberale, e soprattutto il PD, dove peraltro Rutelli e l’ex Sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti sono dei vecchi amici d’Israele, ha compiuto un tragitto decisivo, coraggioso e importante. Quel solco di diffidenza e di freddezza che si era creato con Israele e una buona parte dell’ebraismo italiano, è stato ricucito (come ad esempio l’ex Ambasciatore Ehud Gol riferì allo scrivente) e le ferme condanne delle indegne gazzarre avvenute a Milano durante alcune celebrazioni del 25 aprile, quando bandiere israeliane furono bruciate e la delegazione della Brigata Ebraica presa a fischi e ingiuriata, è un segno di un processo politico ormai irreversibile che fan ben sperare.

Tuttavia va segnalato che questa Sinistra non appena Israele usa la forza militare va in crisi e sbanda, come dimostrano la Guerra contro Hizbollah (luglio 2007) e la recente Guerra di Gaza contro Hamas, tant’è che in quelle occasioni si è imposta soprattutto la posizione di Massimo d’Alema, - e la sua ambigua equivicinanza – con ripetute condanne di Israele per un presunto uso sproporzionato della forza militare, stigmatizzando il numero di vittime civili, senza considerare le responsabilità di Hizbollah e Hamas.

La storia, come si dice, sarà galantuomo, e però chi scrive è convinto che la Sinistra riformista e liberale consoliderà un saldo e leale rapporto con Israele, nella consapevolezza che ogni ipotesi di pace deve premettere, senza condizioni, il diritto alla esistenza di Israele, in un futuro che veda due popoli, due Stati e soprattutto due democrazie che possano vivere una accanto all’altra in concordia.

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Animali di Giobbe

Redazione

Giovedì 2 aprile, nei locali del complesso monumentale di S.Maria la Nova, in occasione dell’inaugurazione del III anno di attività del Museo di Arte Sacra “ARCA”, è stato presentato il libro di Francesco LUCREZI Gli animali di Giobbe - LucianoEditore.Sono intervenuti Mariantonietta PICONE (Ordinario di storia dell'arte contemporanea presso l'Università Federico II di Napoli),Carmine MATARAZZO (Docente di filosofia dell'educazione presso la Facoltà Teologica - sez. San Tommaso), Rav Pierpaolo PINHAS PUNTURELLO (Ministro di Culto Comunità Ebraica di Napoli), Padre Giuseppe REALE (Presidente dell’Associazione Oltre il Chiostro e del Museo ARCA). Ha moderato Clotilde PUNZO (Direttrice del periodico Colloquionline).L’attrice Antonella STEFANUCCI ha letto i capitoli 38-40 del Libro di Giobbe, e il Coro Polifonico di Procida S.Leonardo, diretto dal M° Aldo De Vero, si è esibito in un concerto di musica sacra.

LIBRI

Ehud Gol, Da Gerusalemme a Roma, Mondadori, Milano, 2008, pp. 236, Euro 17,50

Giuseppe Nitto

Diplomatico di lungo corso, già di stanza negli Stati Uniti, in Spagna e in Brasile, portavoce dell’attuale Presidente d’Israele Shimon Peres, quando era Ministro degli Esteri, Ehud Gol è stato Ambasciatore dello Stato ebraico in Italia per circa sei anni, dal 2001 fino al 2007. Anni non facili, giacché culminati nella strage dell’11 settembre e dalla ripresa su grande scaladegli attentati kamikaze di estremisti palestinesi contro Israele, la Seconda Intifada, che Gol ha vissuto a Roma con fermezza, lucidità e determinazione, caratterizzando la propria mission diplomatica con un opportuno e felice protagonismo, anche di natura mediatica, che ha fatto storcere più nasi in quei settori antipatizzanti di Israele che tuttora esistono nel nostro paese.Come dimostra limpidamente il libro nel quale Gol ha ripercorso ilproprio ufficio (“Da Gerusalemme a Roma – il Medio Oriente, l’Italia, il Mondo: riflessioni di un Ambasciatore”, Mondadori, 2007), il diplomatico israeliano non ha lesinato il suo intervento sulla lotta globale al terrorismo islamista e sulla difesa di Israele, impegnandosi nel rasserenare i rapporti non facili tra Italia e Israele, benché il Premier Berlusconi (che non a caso ha prefato il libro di Gol) e la sua compagine governativa appena insediata, avevano stabilito con Israele delle buone relazioni, certo migliori dei Governi di centrosinistra. Specchio di questa cifra dell’Ambasciatore, sono i numerosi articoli sui più importanti quotidiani e periodici italiani che egli ha pubblicato e che sono raccolti nel libro, che peraltro offre al lettore un utile compendio per ricostruire le tormentate tappe che hanno scandito il faticoso processo negoziale che Israele ha intessuto con le Autorità palestinesi e il mondo arabo, dal quale è ben possibile evincere che Israele non ha mai rinunziato alla trattativa per giungere ad una pace vera e giusta. Certo Israele, dovendo difendere i propri cittadini e la propria sicurezza, ha dovuto suo malgrado utilizzare la forza militare, correndo il rischio di favorire incomprensioni e critiche ingenerose da parte di una

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opinione pubblica, soprattutto europea, poco incline a capire fino in fondo le ragioni dello Stato ebraico. Ragioni, come spiega perfettamente Ehud Gol, spesso misconosciute, talvolta manipolate, in taluni casi negate. Pure, va sottolineato il tenace impegno di Gol nel far conoscere all’Italia le straordinarie e poco conosciute realtà d’Israele: un paese che, nonostante sia in guerra da quando fu fondato, annovera eccellenze di altissimo profilo in tantissimi settori, come la sanità, l’università, la ricerca, per non parlare di arte, letteratura, cinema e teatro. Una mission che il suo successore, l’Ambasciatore Gideon Meir, ha fatto propria, raccogliendo il fertile testimone lasciatogli dal suo predecessore.

Stefania Ecchia, Sviluppo economico e innovazioni istituzionali nel distretto di Haifa sul finire dell’Impero Ottomano (1890-1915), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2008, pp.

404, Euro 40,00

Antonio Cardellicchio

Un libro accurato, motivato e argomentato, su una fase storica di un luogo cruciale del Medio Oriente e del mondo intero. Che rende meglio comprensibili le ragioni di un percorso che condurrà all’attuale Haifa israeliana, modello di convivenza pluralista, di identità, culture, edi ed etnie diverse e centro prepulsore di innovazione tecnoscientifica ed economica. L’analisi di Stefania Ecchia, ricercatore in Storia economica all’Università di Salerno, dopo un periodo di ricerca all’Università Ebraica di Gerusalemme, mostra l’effetto delle riforme istituzionali dell’Impero ottomano nel periodo dei Tanzimat (plurale di tanzim: riorganizzazione) sulla Palestina e sul distretto di Haifa. Le riforme istituzionali favoriranno una più esplicita affermazione dei diritti di proprietà terriera, attraverso l’attivazione del Codice fondiario del 1858, e tale dinamica permetterà un aumento significativo della produzione agricola nell’ambito di un sistema di piccola proprietà legalmente garantito. La realizzazione di riforme politiche ha consentito l’inserimento della Palestina nei mercati internazionali senza che ciò abbia comportato una subordinazione periferica o una dipendenza, ma, al contrario, tale realtà ha indotto uno sviluppo economico e sociale sostenuto, realizzato con l’iniziativa della popolazione locale in un contesto di effervescente competizione tra le diverse componenti etnico-religiose.

L’indagine, condotta su fonti concrete di prima mano, atti notarili locali inediti, sembra comprovare e arricchire per certi aspetti determinate tendenze internazionali di analisi nel cosiddetto terzo mondo, che confutano una serie di luoghi comuni su un pauperismo, una dipendenza, uno sfruttamento imperialistico, propri di un’ottica ideologica.

Come quella, fondamentale, di Hernando de Soto, che ha suscitato un vivace dibattito internazionale e diversi programmi di ricerca e d’intervento innovativi (tranne che in Italia, dove l’eco è stata marginale o latitante). de Soto, fondatore e presidente dell’ILD (Institute of Liberty and Democracy) di Lima in Perù, che l’Economist considerò tra le think thank più influenti del pianeta, analizza con rigore l’economia informale, illegale, “sommersa”, di certe metropoli del terzo mondo e indaga sulle ragioni della diseguaglianza economica. Nella sua visione l’economia sommersa non è il cancro del capitalismo, è invece un “capitale morto” che aspetta di emergere, di venire alla luce. Ovunque nel mondo i poveri sono dotati di talento e sorprendente abilità nel ricavare profitto ingegnosamente dal nulla, e a volte riescono ad accumulare abbastanza per realizzare imprese di successo. Quello di cui sono invece privi è quella relazione diretta tra mercato e legalità che è sempre la condizione essenziale dell’autentico investimento economico.

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L’opera di de Soto ha demolito le spiegazioni convenzionali della miseria urbana del terzo mondo e ha mostrato che un ordine legale contrattuale sarebbe determinante per un nuovo sentiero di sviluppo autopropulsivo.

Il lavoro di Stefania Ecchia ci fa vedere in modo significativo che un’analisi puntuale sul campo, con una metodologia efficace, riesce ad essere sorprendente e realistica e a smentire tipologie concettuali macroeconomiche e schemi ideologici. Viene alla luce un caso emblematico di crescita economica su scala locale, resa possibile da un circuito di riforme istituzionali, certezza del diritto privato contrattuale, incremento demografico, sedentarizzazione delle tribù beduine.

Ricordiamo a proposito i noti grandi paradigmi delle relazioni tra sviluppo economico e cambiamento istituzionale: la prima fondamentale rivoluzione industriale al mondo, quella britannica di fine ‘700, è preceduta dalle due rivoluzioni politiche costituzionali del ‘600 e da un solido ordine contrattuale di common law; il formidabile dinamismo economico e sociale degli Stati Uniti dell’ 800-‘900 è preceduto dalla rivoluzione americana che instaura un sistema costituzionale di libertà e garanzie, con un ordine liberale e federale che agisce da cornice giuridica ottimale per l’intraprendenza e la mobilità del mercato e della società. La ricerca dell’autrice prova i vantaggi che il distretto di Haifa e l’intero Impero ottomano ebbero dalla loro integrazione nell’economia capitalistica internazionale, originata da una scelta riformista e da una convergenza di interessi tra la Sublime Porta e i Paesi occidentali. Una scelta temperata dal rispetto della specifica tradizione islamica ottomana che poteva dare quella ferma identità necessaria a un’entità multietnica e multireligiosa come l’Impero ottomano.

Un quadro di evoluzioni, tolleranze, convivenze, riforme, che verrà poi travolto dai nazionalismi arabi e da quello turco con i loro carico di odio, fanatismo e violenza. Repressioni antisemite, strage degli Armeni, regimi tirannici, forti diseconomie, non erano neppure concepibili nell’Impero ottomano del periodo in esame.

Di particolare interesse le vivaci pagine dedicate alla “questione sionista”, mostrate nella loro intricata complessità, dalla prima aliyà del 1882-1903, formata da circa 25.000 ebrei askenaziti che fuggono dai pogrom, alle transazioni per l’acquisto di terre avvenute tra notabili arabi ed ebrei ottomani, i quali spesso agivano da prestanomi per i coloni sionisti.

“I Tanzimat crearono i presupposti legali ed economici che resero possibile la colonizzazione ebraica. Se nella maggioranza delle vicende di colonizzazione, l’appropriazione del territorio è avvenuta attraverso l’espropriazione delle terre della popolazione nativa in forza della superiorità militare della potenza coloniale, al contrario, la colonizzazione ebraica non fu sostenuta da un potere militare o politico: l’appropriazione delle terre avvenne attraverso l’acquisto della proprietà terriera privata nel libero mercato. Senza la duplice possibilità creata dai Tanzimat, quella di un mercato della terra e di una nuova classe di proprietari terrieri pronta a rivendere la terra statale di recente acquistata, la colonizzazione sionista non si sarebbe mai potuta realizzare.” (pp. 206-7).

Lo sviluppo dell’impresa agricola sionista in Palestina è sempre ultra-motivata in senso ideale nazionale, dove la coltivazione della terra dei padri viene considerata l’unico tramite per raggiungere la meta della formazione di uno Stato ebraico indipendente.

Le moshavot furono il tipo di insediamento sionista prevalente fino al 1914, ancora con l’impiego di manodopera araba, ma ebbero una produttività bassa rispetto alle colonie ebraiche del successivo periodo mandatario. Con la seconda aliyà del 1904-1910, ben 40.000 nuovi pionieri socialisti stabiliscono i primi kibbutzim e creano l’iniziale architettura del futuro Stato d’Israele. Il loro scopo era il ribaltamento della struttura socio-economica dell’ebraismo della diaspora fondata sulle attività terziarie. Il fondamento socio-economico del “nuovo yshuv” era proprio la coltivazione della terra.

“Il lavoro agricolo in Palestina diventava così il punto focale del programma pioneristico, perno irrinunciabile della colonizzazione sionista e terreno indispensabile sul quale costruire la futura indipendenza nazionale. La necessità di rigenerare il popolo ebraico in Palestina tramite il lavoro della terra, presupponeva, nell’ottica dei nuovi coloni, una profonda trasformazione sociale. A questo proposito, i pionieri della seconda aliyà sposarono l’ideale di un uomo nuovo, di un ebreo nato da Eretz Israel, dalla terra di Israele, conquistata e fecondata esclusivamente dal lavoro ebraico. Il fine del movimento non era solo quello di far

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rinascere la terra ebraica ma anche, attraverso il lavoro agricolo, lo stesso popolo ebraico, da qui l’avversione dei pionieri della seconda aliyà verso il modello coloniale offerto dalle precedenti moshavot” (p. 224).

Per questi pionieri la terra apparteneva di diritto a chi la lavorava, dunque se fosse stata coltivata dai contadini arabi sarebbe restata proprietà araba.

“Al contempo, nell’ottica dei nuovi coloni, il diritto alla terra sulla base del lavoro poneva ebrei ed arabi su un piano di parità: la questione del possesso della Palestina si sarebbe risolta attraverso una grande competizione sul lavoro, che avrebbe visto i due popoli impegnarsi pacificamente per conquistare quanta più terra possibile” (p. 225).L’ideale sionista della rinascita del popolo ebraico in Eretz Israel attraverso il lavoro agricolo, fondato sul criterio che la terra è di chi la lavora presentava una grande affinità con lo spirito semitico contenuto nel diritto fondiario ottomano che appunto riconosceva la proprietà della terra a coloro che la coltivavano di fatto. Questo stesso spirito è adottato dal Jewish National Fund che parcellizzava la terra acquistata e la cedeva in concessione perpetua ai coloni ebrei per essere coltivata esclusivamente da loro, mentre la proprietà restava all’intero popolo

ebraico.“Attraverso l’opera del JNF, più della metà della terra in mano agli ebrei, al momento della nascita dello Stato di Israele, era costituita da proprietà di questo stato. Forte è dunque l’analogia con la concezione ottomana della terra miri, possesso dell’intera comunità musulmana; concezione dietro la quale si profila l’originaria fede religiosa, comune a ebrei e a musulmani, che la terra non può essere di nessuno perché in realtà è solo di Dio”. (p. 227).

CULTURA

Esilio, Tempo e Memoria

Rav Roberto Della Rocca

il 14 gennaio 2009, per iniziativa dell'Associazione Italia Israele e della Comunità Ebraica di Napoli, con l'Istituto Studi Filosofici, si è tenuto nellasede dell'Istituto un interessante dibattito tra Rav Roberto Della Rocca,Direttore del Dipartimento Cultura Educazione dell'Ucei e il noto filosofo prof. Aldo Masullo sul tema dell'esilio, tempo e memoria Ecco il testo, intenso e suggestivo,dell'intervento di Rav. Della Rocca, su aspetti essenziali del modo di pensare ebraico.La Tradizione ebraica è caratterizzata dall'imperativo categorico zachor, ricorda.

" Noi ebrei - scriveva Martin Buber nel 1938 - siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere........".

Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte, e nella maggior parte dei casi ha per soggetto o Israele o Dio. La memoria, infatti, incombe su entrambi.

Il concetto di ricordare trova il suo complemento e completamento in quello di segno opposto: dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di ricordare e al tempo stesso viene anche imposto di non dimenticare. La Toràh in particolare nel versetto del Deuteronomio, 32; 7, ci sprona ripetutamente a ricordare e a non dimenticare.

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Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo: " Ricorda i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi ( il corso della storia ), interroga tuo padre e ti racconterà i tuoi anziani e te lo diranno....".

Ma sbaglierebbe chi intendesse questa affermazione come un mero invito a fondare la nostra esistenza sul passato che ci appartiene. Per quanto glorioso questo possa essere. Mosè viceversa intende insegnareche da una generazione all'altra viene trasmesso un patrimonio la cui portata aumenta sempre di piu', si accresce costantemente sia per nuovi fatti accaduti, sia per nuovi messaggi ed emozioni.

La letteratura rabbinica interpretando questo verso della Bibbia afferma che la memoria, custodita di generazione in generazione è l'antidoto piu' potente contro la morte, rappresentando una ferma determinazione, una volontà di non abbandonare nel nulla le tracce di ciò che è già trascorso e passato ed è ormai sparito dalla storia. Nell'ebraismo, infatti, il passato non è qualcosa di sorpassato, privo di utilità, ma al contrario costituisce un valido aiuto per affrontare la vita. Anche se ci consideriamo esperti e intraprendenti, la Toràh ci induce a renderci conto che possiamo imparare molto dai nostri genitori e che persino i nostri nonni hanno ancora molto da insegnarci.

Per questo nella Toràh ci viene detto che ricordare gli avvenimenti non può bastare; "...binu scenot dor vador...." "...cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi...", bisogna riflettere su di essi, ponderarli capirne a fondo il significato.

L' insegnamento della Toràh, come si vede, è ben differente rispetto alla saggezza di Plutarco, secondo cui " la storia si ripete ". No, per la cultura ebraica la storia non si ripete. E' semmai l'uomo che puo' perpetuare i suoi fallimenti e i suoi successi. Ricordare il passato, ma soprattutto comprenderlo, ci aiuta amettere a fuoco correttamente gli eventi attuali. Non a caso Rashi', , forse il piu' autorevole commentatore della Bibbia, ( 1040-1105 ), nel suo commento a Deuteronomio, 32; 7, interpreta il passaggio "... Binu scenot dor vador..." non tanto come " gli anni dei secoli trascorsi ", ma piuttosto come " gli anni delle future generazioni ", nella convinzione che il futuro sarà tanto migliore quanto meno si dimenticheranno le lezioni del passato.

Ma cosa devono ricordare gli ebrei e in che modo?

Nel corso dei secoli, accompagnato dalla memoria e dalla speranza messianica, l'ebreo ha individuato nella Tradizione orale il punto di riferimento della sua storia, lo spazio sacro entro cui collocare la propria dimensione esistenziale.

L’oralità intesa come il momentum, il momento privilegiato per l'innesto in un tempo che è simultaneità, un tempo la cui dimensione particolare si riferisce contemporaneamente al presente, al passato e al futuro; si tratta di una dimensione dove non c'è solo l'attimo che fugge via e che non è piu' afferrabile, ma anche un tempo che diventa fusione, prolungamento, coesistenza e quindi memoria.

Il ricordare quindi non è un semplice rievocare un evento passato, poichè la catena della trasmissione del ricordo non solo custodisce l'evento stesso, ma lo riattiva in forma potenziata, lo restituisce ad una nuova vita nel momento in cui viene rimesso nel circolo della narrazione e della celebrazione. Grazie a questo rapporto sempre rinnovato con il tempo, il popolo ebraico itinerante nello spazio, lontano dalla Terra di Israele e in particolare da Gerusalemme e dal suo Santuario, ha sviluppato una profonda coscienza storica e un forte senso di memoria collettiva creando alcune province della sacralità temporali, che possono essere osservate e celebrate dovunque.

E' proprio l'osservanza di questi "santuari del tempo", come vengono definiti dal filosofo A.J. Heschel (1907-1972), ha permesso all'ebraismo di preservarsi dall'estinzione e di non essere assorbito completamente dalle culture dominanti.

A differenza delle civiltà impegnate a costruire nello spazio, come quelle egiziane, greche e romane, che esprimevano in magnificenze architettoniche le loro forme di culto e di identificazione, nell'ebraismo è prevalsa nel corso dei secoli, la santificazione del tempo.

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Sulla base di tali premesse anche la storia cambia la sua sostanza, cessando di essere come per gli antichi greci, un'oggettiva registrazione dei tempi passati, una data collezione di aneddoti suscettibili di interesse e di ricerca. I saggi ebrei sembrano giocare a proprio piacimento con il tempo, espandendolo e contraendolo come una fisarmonica; la precisa coscienza del tempo e del luogo, la specificità della storia, cede il passo al piu' sfacciato anacronismo. Le comuni barriere del tempo vengono rimosse, addirittura ignorate e le varie epoche possono intessere un dialogo l'una con l'altra con assoluta disinvoltura.

Il Talmud appare come un' antologia del subconscio ebraico che guarda sì alla Bibbia come fonte di ispirazione continua, ma con quel suo caratteristico metodo analogico e interrogativo che ricorre ai piu' strani espedienti interpretativi, a distorsioni, a capovolgimenti di epoche e di episodi sulla base di quel principio ermeneutico, che indica che nella Toràh " non c'è né un prima , né un dopo". Non si tratta tanto di una dimensione atemporale, quanto piuttosto di un’indipendenza da un criterio cronologico e deterministico del ragionamento..

Si puo' cosi' ben comprendere come, nel vocabolario ebraico, la parola storia non abbia diritto di cittadinanza. Al suo posto troviamo "toledot" letteralmente "genealogie ", o "divrè ajamim", "cronache, avvenimenti".Eventualmente, talvolta la si prende a prestito dalle lingue greca e latina. Ma il significato della parola "historia" (che esso riprende direttamente da tali lingue) è fedele all'approccio di queste due civiltà agli eventi : ricerca, indagine.

Nella Tradizione ebraica la parola chiave per fissare gli eventi è zachor, ricorda che ha un significato molto diverso dalla parola historia.

Ci si trova di fronte a una storia della memoria in cui sono i flashback e le libere associazioni a dominare il campo e dove l’approccio tematico appare sicuramente privilegiato rispetto a quello cronologico. E' proprio una tale memoria individuale e collettiva, talvolta confusa e sede di connessioni e associazioni di date e di avvenimenti, che vede episodi tragici richiamare alla mente altri episodi tragici, momenti di gioia richiamare alla mente altri momenti di gioia.

La letteratura rabbinica è cosparsa così di simili anacronistiche confusioni. Il ricongiungersi al zecher liziat mitzraim, il ricordo dell'esodo dall'Egitto, è sempre associato al zecher lemaasè bereshit, il ricordo della creazione del mondo, cosi' come al dono della Toràh e alla permanenza del popolo ebraico nel deserto nelle capanne. A un punto tale che la Toràh rende noi stessi,che viviamo ai giorni nostri, protagonisti dell'uscita dall'Egitto e del patto del Sinai, tanta è l'intensità di una simile congiunzione con il passato proiettata verso il futuro.

Il tempo non è piu' colto come un insieme di momenti frammentati e staccati tra loro, per diventare continuità e attualità.

Il fatto è che, come scrive Elie Wiesel nel suo libro Celebration Biblique, la storia ebraica si svolge al presente; negando in un certo senso la mitologia, essa viene a influire sulla nostra vita e sul nostro ruolo nella società. "....Giove è un simbolo, ma Isaia è una voce, una coscienza. Zeus è morto senza essere vissuto, ma Mosè resta vivo......La lotta di Giacobbe è la nostra stessa lotta e parlare di Mosè significa seguirlo in Egitto e fuori dall'Egitto....Tutti i personaggi biblici si esprimono attraverso ognuno di noi perchè essi sono dei degli esseri viventi e non dei simboli, persone e non dei....Tutte le storie riferite dalla Bibbia ci riguardano, non dobbiamo fare altro che rileggerle per constatare la loro attualità sorpendente.....Nella storia ebraica tutti gli avvenimenti sono collegati, è raccontandoli al presente, alla luce di certe esperienze di vita e di morte, che si possono comprendere.....Le storie che noi raccontiamo non iniziano con la nostra; si inseriscono nella memoria, che è la tradizione vivente del popolo ebraico....Le storie che noi raccontiamo sono quelle che noi stiamo vivendo...........".

Un esempio emblematico di come questa impostazione sia alla base della Tradizione ebraica mostra che la memoria ebraica è attraversata da una profonda ferita. La data del 9 del mese di Av, Tishàh Beav, ricorda la piu' grave delle sventure di Israele, segnando la fine dell'antico Stato ebraico e l'inizio dell'esilio. Si usano nel detto giorno parecchi segni di grave lutto, dal digiuno alla lettura di elegie ispirate alla rovina del Tempio di Gerusalemme e all'esilio del popolo ebraico. Dal punto di vista della storia è ben noto che le distruzioni del Tempio siano state due. La prima avvenuta ad opera del generale Nevuzardan agli ordini di Nabucodonosor il babilonese avvenuta il 7 del mese di Av del 586 a.e.v. ( Libro dei Re, 25; 8-9 ) e la seconda ad opera di Tito il 10 del mese di Av del 70 dell'era volgare ( Talmud babilonese, Taanit 29 a ). A quale delle due catastrofi intendono effettivamente riferirsi i saggi? Alla

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Tradizione sembra talmente poco significativo questo interrogativo che mira alla chiarezza cronologica, che ci viene tramandato un messaggio apparentemente impreciso. Queste due sventure avrebbero avuto luogo lo stesso giorno, il 9 del mese di Av, data che segnerà piu' tardi altre tragedie nazionali ebraiche, come l'espulsione degli ebrei dalla Spagna. La continua attribuzione retrospettiva di calamità nazionali al 9 del mese di Av rimane del resto un esempio significativo di tale impostazione. Tishàh Beav, il 9 di av, è divenuto così il simbolo di ogni disgrazia personale e collettiva, venendo a rappresentare il giorno del tormento per il popolo ebraico. Invero nella Mishnàh ( Taanit 4; 4 ) si legge: " Cinque grandi disgrazie colpirono i nostri padri nel 17° giorno del mese di Tamuz e cinque nel 9° giorno del mese di Av........ Il 9 di Av fu deciso inoltre che i nostri padri non entrassero nella Terra di Israele; il Tempio fu distrutto la prima e la seconda volta; a Betar capitolo' l'ultimo tentativo di rivolta contro i romani e Gerusalemme fu rasa al suolo ( 135 e.v. )......".

Non sorprende quindi, dato il peso di tali tradizioni, di trovare la medesima tendenza associativa in età successive. Cosi' la cacciata degli ebrei dalla Spagna del 1492 fu collocata egualmente al 9 del mese di Av; a quanto pare l'esegeta Itzchak Abravanel ( 1437-1508 ) è stato il primo a decidere in questo senso ( commento a Geremia, 2; 24 ). Ora possiamo tentare di comprendere meglio perchè i Maestri hanno voluto associare e concentrare emblematicamente nel 9 del mese di Av gli eventi piu' infausti della storia ebraica come la fallita missione degli esploratori, la distruzione dei due Templi di Gerusalemme e la cacciata degli ebrei dalla Spagna. Da queste considerazioni, dobbiamo dedurre che il rapporto fra tradizione ebraica e storia corre il rischio di restare oscuro ove non si colga il senso del Tishàh Beav e la sua dimensione fortemente significativa nell'organizzazione della stessa vita ebraica. L' ebraismo appare come il solo grande culto che considera una rovina come il piu' sacro dei luoghi. Questo è un elemento essenziale nella struttura del pensiero ebraico.

In contrasto con le altre grandi culture dell'antichità legate alle costruzioni in pietra e quindi inesorabilmente sprofondate in una dimensione puramente archeologica, il paradosso del "

“Hurban" ( “distruzione” ) sembra aver consentito la straordinaria sopravvivenza del popolo ebraico.

Proprio questa soprannaturale e paradossale capacità di sopravvivenza ha suscitato innumerevoli interrogativi. La caduta di quello che poteva equivalere al concetto del nostro "Santuario" ha determinato la scomparsa di tutte quelle culture coinvolte in un processo storico apparentemente ineluttabile. Se l'ebraismo ha potuto sfuggire a questa sorte, è perché un edificio invisibile si è sostituito a quello di pietra, come se l'edificio di pietra non fosse stato altro che l'immagine manifesta e la dimensione tangibile di un Tempio spirituale che non puo' essere né misurato né distrutto sulla base dei criteri conosciuti dall'uomo.

La prima metamorfosi in questo senso si puo' riscontrare nel periodo che segui' il primo esilio, quello in Babilonia, sotto l'impulso energico di Ezrà ( 4° sec. a.e.v. ), un Maestro che seppe trarre dalla catastrofe babilonese una lezione decisiva; nonostante l'esilio la nazione ebraica poteva essere ricostruita riconducendo il popolo a rivivere gli insegnamenti della Toràh. Nell'accettare l'entità semi-statale offerta da Ciro, semplice prottetorato persiano, Ezrà non ristabilisce tanto la monarchia, ma istituisce delle strutture molto flessibili articolate intorno alla "Keneset Ha-ghedolàh", la "Grande Assemblea dei Saggi". Anche se Ezrà ricostruisce il Tempio, questo sarà molto piu' modesto del primo, quello costruito dal Re Salomone. Forse questo avvenne per mancanza di fondi e di mezzi, ma probabilmente anche per diminuirne gradualmente lo speciale ruolo religioso. Ezrà, la guida di questo ritorno, conserva il culto precedente dei sacrifici animali ma vi affianca un secondo rito, la lettura settimanale e lo studio della Toràh dando inizio così a un’arte nuova ed essenziale per l'ebraismo, quella del Midrash e dello studio. Nessuno piu' di Ezrà si è impegnato nell'edificazione del Tempio invisibile. E' proprio in questo contesto di distruzione e di grande sconvolgimento che si sviluppa e si delinea quindi il passaggio dal Bet Ha-Miqdash, il Santuario, al Bet Ha- Midrash, la Casa di Studio. Il Midrash, inteso nella sua accezione piu' ampia, diviene quindi lo studio ebraico per eccellenza, rappresentando quello sforzo ripetuto generazione dopo generazione per la realizzazione del Tempio invisibile, una sorta di Tempio semovente, capace di seguire gli ebrei ovunque. Un tentativo di attutire e contenere attraverso una Tradizione orale la ferita inguaribile della distruzione del Tempio. Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle generazioni future è assegnato dall'ebraismo alla Tradizione orale che, anzichè essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è inserita nella continuità di un sistema culturale.

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"Non esistono libri migliori dei figli istruiti nella Toràh" (Talmud Babilonese, Bavà Batrà 116 a ). Il testo scritto, infatti, non è dotato di parola né forza di azione, non è realmente vivo, mentre la vita dei figli continua quella dei genitori. I Maestri interpretano il verso della Toràh: "Ze sefer toledot adam....", "Questo è il libro della posterità di Adamo..." (Genesi, 5: 1 ), affermando che il vero libro di cui si parla sono i figli dell'uomo, perchè essi portano nel cuore la Toràh trasmettendola cosi' ai loro discendenti. Nella Tradizione ebraica anche la scrittura non è fissità, non è rigido dogma; è invece convivenza e confronto delle contraddizioni, ed è punto di partenza e stimolo per una ricerca di nuovi significati: Per questo impegno costante e quotidiano la Tradizione orale continua a essere definita Toràh shebeal pèh (Toràh che è sulla bocca), nonostante i Maestri l’abbiano messa per iscritto diversi secoli fà. Come evitare che l’oblio prenda il sopravvento nella prospettiva storica, come è accaduto per le Crociate, per l'Inquisizione, per i progroms? La storia istituzionalizza il ricordo, ma quasi sempre come il monumento, sottrae la memoria alla sua appartenenza individuale per consegnarla alla collettività universale. La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. La memoria ebraica, viceversa, nell'insegnamento specifico della Haggadàh di Pesach ( Narrazione dell’Esodo dall’Egitto) per esempio, attualizza l’evento dell’Esodo attraverso la consegna del ricordo dal testo all'individuo, che pero' agisce in quanto componente della comunità. Questo significa inevitabilmente scegliere la strada del raccontare che nel pensiero ebraico vuol dire, tra l'altro, avvicinarsi anche all'idea di tempo, di redenzione e di libertà . Si è liberi solo se si ricorda e la dimensione del racconto che è radicata nella memoria diventa in tal senso condizione fondante della propria identità.

A ulteriore illustrazione del tema della memoria e del tempo, mi sembra di poter riprendere un racconto chassidico nato all'interno di quel movimento mistico e popolare sorto nel Settecento tra Polonia e PodoliaQuando il Baal Shem Tov - il fondatore del chassidismo - doveva assolvere un qualche compito difficile, qualcosa di segreto per il bene delle creature, andava allora in un posto nei boschi, accendeva un fuoco e diceva preghiere assorto nella meditazione: e tutto si realizzava secondo il suo proposito.

Quando una generazione dopo, il Magghid di Mesritz si ritrovava di fronte allo stesso compito, riandava in quel posto nel bosco e diceva: " non possiamo piu' fare il fuoco ma possiamo dire le

preghiere.." - e tutto andava secondo il suo desiderio. Ancora una generazione dopo, Rabbi Moshè Leib di Sassow doveva assolvere lo stesso compito, anche egli andava nel bosco e diceva: " non possiamo piu' accendere il fuoco, e non conosciamo piu' le segrete meditazioni che vivificano la preghiera; ma conosciamo il posto nel bosco dove tutto cio' accadeva e questo deve bastare". E infatti cio' era sufficiente. Ma quando di nuovo, un'altra generazione dopo, Rabbi Israel di Rizin doveva

anche egli affrontare lo stesso compito, se ne stava seduto in una sedia nel suo castello, e diceva:" Non possiamo fare il fuoco, non possiamo dire le preghiere e non conosciamo piu' il luogo nel bosco: ma di tutto questo possiamo raccontare la storia". E cosi' il suo racconto da solo aveva la stessa efficacia delle azioni degli altri.

Un tale racconto ci dice che narrare puo' equivalere a vivere nel senso forte, non ad immaginare di vivere ciò che si narra: il raccontare attualizza un'esperienza che a volte direttamente non si è più in grado di fare perchè è passata o perchè si sono perse alcune capacità necessarie. "Il racconto ha la stessa efficacia dell'azione". Questa mi sembra una sorta di chiave per comprendere il valore del raccontare nell'ebraismo. La narrazione dell'uscita degli ebrei dall'Egitto, per esempio, è nell'insieme un avvenimento pedagogico, una scena di trasmissione di valori e di esperienze alle nuove generazioni. I genitori stimolati dalle domande curiose dei figli, cominciano a raccontare, a volte passando attraverso commenti rabbinici e a volte perchè no? - con riflessioni personali. La narrazione si dipana e cosi' il figlio impara a conoscere la storia passata del popolo ebraico. Ma lo scopo della Haggadà non è culturale, o per lo meno non solo culturale: è esistenziale , di esperienza. Si deve giungere ad affermare in conclusione che "..in ogni generazione dobbiamo sentirci, come se noi stessi fossimo usciti dall' Egitto...", il testo non dice dalla terra d'Egitto ma dall'Egitto, a significare che ognuno di generazione in generazione deve liberarsi dal proprio Egitto e dalla concezione materialistica di cui quell'Egitto era il simbolo. L'uscita dall'Egitto di ieri, di oggi e di domani diventa cosi' la base, il punto di riferimento su cui misurare tutta la nostra esistenza e la nostra idea di

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libertà. Anche qui come nel racconto chassidico, è la narrazione che porta alla attualizzazione, al vivere e fare esperienza dell'uscita dall'Egitto e della libertà. E questo avviene grazie al raccontare dei genitori ai figli. Il passato diviene presente e in qualche modo si proietta nel futuro. Attraverso il racconto, l'ebreo rivive il passato di liberazione e anticipa il futuro di redenzione, tutto questo è il risultato della disposizione a raccontare e ad attualizzare la memoria.

Sembra dunque che in questo senso essere liberi e sentirsi liberi significhi anche poter giocare, in senso forte, con il tempo. Dopo venti secoli il lutto per la distruzione del Tempio è per chi ne conosce le regole straordinariamente presente nell'anima ebraica, nei giorni di dolore come di gioia. Viene significativamente rievocato nel giorno del matrimonio sotto la chuppàh, il baldacchino nuziale, con la frantumazione di un calice. Le parole del Salmo 127: " ....se ti dimentichero' o Gerusalemme, si paralizzi la mia mano destra..." furono un riferimento per i Maestri che imposero alla comunità di Israele l'obbligo della conservazione della memoria storica. Il matrimonio, in particolare, segno dell'inizio di un progetto nuovo e di una tappa della continuità biologica, deve arricchirsi di significati culturali con la funzione di trasmettere la memoria e l'identità.

Proprio nel grande momento della gioia e della commozione personale e familiare, non deve essere dimenticata l'identità collettiva e il senso di cio' che manca alla comunità perchè la felicità sia completa. Il bicchiere spezzato viene cosi' a ricordare simbolicamente che il popolo ebraico non puo' essere compiutamente nella gioia, perchè un'antica frattura storica, che ne ha segnato il destino per tanti secoli, non è stata ancora sanata.

Ma dall’esempio del bicchiere si puo' ricavare un altro grande insegnamento: soltanto quando la comunità ha collegato gli eventi dolorosi o gioiosi dell'esperienza ebraica al mondo delle mitzwot, e cioè all'osservanza dei momenti normativi, è riuscita a mantenerne la memoria: si pensi alla ricorrenza di Chanukkàh, festa dell'inaugurazione del Tempio, con l'accensione dei lumi, e a quella di Purim, festa delle sorti, con la lettura del Rotolo di Ester. Certo la capacità di rievocare il passato va mantenuta viva. Ma da solo il ricordo rischia di divenire la tomba del passato. Per l'ebraismo ricordare e agire devono sempre andare di pari passo. Parafrasando il " Lechàh Dodi' ( Vieni, o mio caro, incontro alla sposa, accogliamo lo Shabbat...) ", l'inno che segna l'ingresso dello Shabbbat, il sabato ebraico, " shamor vezachor bedibbur echad...", " osserva e ricorda è come se fossero un'unica espressione..."; osserva e ricorda sono infatti due diversi resoconti delle due Tavole del Patto ( Esodo, 20 e Deuteronomio, 5 ) ma il comandamento è uno solo.

All'imperativo zachor, ricorda, deve sempre accompagnarsi, o meglio precedere l'invito shamor, osserva, letteralmente, mantieni !

Soltanto attraverso le azioni si puo' garantire una sana e corretta trasmissione della memoria.

Ancora una volta la Tradizione ebraica vede quindi nelle azioni e nei significati che ne derivano gli strumenti piu' idonei per contrapporsi ad ogni tentativo di lacerazione e disgregazione .

Ecco perchè la rottura di un calice, puo' divenire un momento necessario di quel nuovo inizio e in quell' unità simboleggiata dalla chuppàh, il baldacchino nuziale.

Walter Benjamin, nell'ultima delle sue " Tesi di filosofia della storia ", osserva: "...è noto che agli ebrei era vietato investigare il futuro. La Toràh e la preghiera li istruiscono invece nella memoria. Cio' li libera dal fascino del futuro, a cui soggiacciono quelli che cercano informazioni presso gli indovini. Ma non per questo il futuro divento' per gli ebrei un tempo omogeneo e vuoto. Poichè ogni secondo, in esso, era la piccola porta da cui poteva entrare il Messia...." ( Walter Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1982 (IV), p.86 ).

Una piccola porta da cui entra il Messia, uno spiraglio da cui viene la salvezza per il popolo ebraico. Gli attimi futuri, pero' si possono trasformare in spiragli di speranza solo se noi siamo istruiti nella memoria, se noi sappiamo e ricordiamo chi siamo. Non sempre, pero', riusciamo ad avvertire gli stimoli di chi ci puo' aiutare; non sempre siamo disposti ad aprire la nostra porta.

C'è un racconto, nel libro di Elie Wiesel, "Contro la malinconia", che rende efficacemente tale idea: " Quella notte Rabbi Meir di Peremyzljany era solo con Rebbe Ariè suo amico. Il maestro meditava, Rebbe Ariè recitava i Salmi. Fuori scendeva la neve, le strade parevano solchi. Il villaggio dormiva sotto il cielo che riluceva. A mezzanotte Rabbi Meir

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sospiro' e secondo la Tradizione, si sedette per terra a piangere sulla distruzione del Tempio e a lamentare l'esilio di Dio da un'eternità all'altra. Nella stanza c'era freddo, ma Rabbi Meir non lo sentiva; il suo pensiero l'aveva tratto altrove. Nel silenzio del suo cuore mormorava: " Fai presto Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la tua pazienza non è piu' una virtu'; noi tuoi figli siamo allo stremo. Guardaci siamo estenuati, piegati dalla fatica, fiaccati. Fai qualcosa, Signore. Se non per noi, fallo per amore del Tuo Nome........". All'improvviso Rabbi Meir si irrigidi': bussavano alla porta, Rebbe Ariè impallidi' :" chi è amico o nemico? un emissario del diavolo o la sua vittima?" "Apri!" ordino' Rabbi Meir - "ma non sappiamo chi è!" "Apri ti dico!" - "ma Rabbi se è un ubriaco che vuol farci del male?" - "Apri, forse è qualcuno che ha bisogno di aiuto. Un marito in ambasce, un padre disperato, un prigioniero in fuga, chi aspetti ad aprire?" Rebbe Ariè apri' e si trovo' di fronte un soldato che in jddish chiese il permesso di entrare. "Ho fame" disse. Rabbi Meir si precipito' in cucina e torno' con pane e latte che poso' sulla tavola. Il soldato mangio' in silenzio, "dimmi" fece Rabbi Meir "sembri affamato, in caserma non ti danno da mangiare?" - "Oh si"-"ma allora? " - " Semplicemente il loro cibo non fa per me. Io sono ebreo capite? Mi hanno arruolato di forza quando ero ancora bambino. Non avevo avuto il tempo di imparare cosa un ebreo deve o non deve fare. So soltanto che un ebreo deve mangiare kasher. Percio' dovunque passi il mio reggimento cerco una casa di ebrei per mangiare kasher, per ricordarmi che sono ebreo". Rabbi Meir turbato si avvicino' alla finestra e contemplo' la neve che pian piano seppelliva il villaggio. Taceva poi sospiro' e disse:" Ariè amico mio, ascolta, un giorno verrà il Messia, è sicuro, ma verrà grazie a chi? grazie a Meir? No! grazie a te forse? Nemmeno! Verrà grazie a questo soldato che bussa alle nostre porte per ricordarci chi siamo! " .

Anche secondo questa pagina scelta da Wiesel, la pratica delle mitzwot, l'osservanza della scansione normativa della nostra vita, rimane il segno tangibile della volontà di rimanere collegati alla memoria storica attraverso l'azione. Ma nel racconto si prospetta una vera sfida per noi: siamo noi, è ognuno di noi che deve avere il coraggio di aprire la porta alla quale qualcuno bussa. C'è da correre un rischio, potrebbe essere un nemico, il nostro gesto potrebbe avere cattive conseguenze per la nostra sopravvivenza come suggerisce l'anima prudente di Reb Ariè. Ma non si puo' lasciar passare la vita ad aspettare qualcuno o qualcosa che deve arrivare senza poi aprire la porta quando bussano; non si puo' chiedere senza correre il rischio di ricevere quello che non ci si aspettava. Ogni volta in realtà puo' essere la volta giusta.Questa porta rappresenta una metafora davvero significativa, anche di una certa condizione di molti di noi oggi: finchè non permetteremo a chi bussa di entrare perchè ci ricordi chi siamo, anche nelle piccole, piccolissime cose, resteremo condannati ad essere uomini senza memoria, irrimediabilmente destinati a vivere nell'oblio e nella dimenticanza.

" Dimenticare è alla base dell'esilio come la memoria lo è della liberazione " diceva il Maestro chassidico Nachman di Breslav ( 1772-1810 ).

Musica Classica da Israele

Angela Amato

Musica Classica Israeliana, sebbene avvolte poco valorizzata, sicuramente occupa uno spazio di rilievo artistico in tutto il 900'. Le varie scuole di appartenenza risalgono alle tradizioni di Compositori e musicisti Europei emigrati in Israele alla fine dell' 800', per poi giungere ad una vera e propria generazione di musicisti che tutt'ora svolge una intensa attivita' artistica Nazionale ed Internazionale, dove culture di diversa provenienza si incontrarono in un unico filone come un'immagine ben strutturata di un mosaico. Partendo da alcuni esempi, tra i maggiori esponenti va ricordato Paul Frankenberger, nato a Monaco nel 1907 città in cui svolse gli studi musicali presso l'Accademia delle Arti fino al 1920. Inizia la carriera come Direttore d'Orchestra e dopo una certa esperienza seguita da grossi successi artistici, si dedica completamente all'insegnamento e alla composizione. Nel 1933 emigra in Israele cambiando il suo nome in Paul Ben-Haim e nel 1953 gli viene conferito un Premio dallo Sato di Israele come

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compositore. Tra le sue opere musicali emergono le Sinfonie, un Concerto Grosso, Salmi per Arpa ed Orchestra. Nelle sue composizioni usa un linguaggio musicale tipico del tardo romanticismo, e come avvenne per la maggior parte dei musicisti che studiarono in Europa, anche Paul Ben-Haim mantenne strettissimi legami con lo stile musicale di provenienza, aggiungendo elementi e temi popolari appartenenti alla sua tradizione, così come erano usi fare Kodaly, Bartok, e tanti altri a lui contemporanei. Paul Ben-Haim muore nel 1984.

Josef Tal, nato nel 1910 nella Germania Polacca, fu compositore, pianista ed insegnante. Musicista di stile Contemporaneo ricevette una educazione di stampo Europeo che influenzo' tutto il suo linguaggio musicale. Fu allievo di Max Trapp e di Heintz Tiessen al Conservatorio di Berlino. Altri insegnanti furono Hindemit, Sachs, Kreutzer e Saal. Quando il governo fascista salì al potere Josef Tal emigro' in Palestina e lavoro' in un Kibbutz. Nel 1937 viene assunto presso l'Accademia Musicale di Jerusalemme come Maestro di composizione e pianoforte. Successivamente nel 1948, diviene Direttore dell'Accademia. Negli ultimi anni della sua carriera didattica viene nominato Professore di Musicologia presso la Hebrew University dove creo' il Centro di Musica Elettronica. E' stato invitato di frequente a conferenze in tutto il mondo ed e' considerato un compositore molto rappresentativoa livello internazionale per la musica contemporanea. Nel 1954 riceve il Premio del Festival della Musica Contemporanea, e dall'UNESCU il Premio Nobel per la Ricerca sulla musica elettronica, 1957. Riceve due Premi di riconoscimento dallo Sato di Israele. Le composizioni del Tal hanno influenze Mittle-Europee senza mai distaccarsi dallo stile musicale contemporaneo tipico della scuola compositiva Europea. Nella prima Sinfonia del 1952, nei suoi due quartetti per archi, il concerto per violoncello, usa un linguaggio tipico della seconda scuola Viennese, di Schonberg, Berg e Webern anche se la sua scrittura non fu mai troppo convenzionale. Nell'Opera, Ashmedai, eseguita dall'Opera di Hamburgo, il Libretto venne scrito in lingua Ebraica e il tema della trama e' allegorico riferendosi all'epoca Nazista in Germania. Massada invece fu composta in occasione del 25° anniversari della nascita dello Stato di Israele. Muore a Gerusalemme il 25 Agosto del 2008.

Un altro Compositore di rilievo e' Arthur Gelbrun, nato a Varsavia nel 1913. Studia all'Accademia di Varsavia e in Italia presso l'Accademia Chigiana, con Alfredo Casella. Violinista presso l'Orchestra Filarmonica di Varsavia, si trasferisce in Svizzera dove diviene Direttore Stabile dell'Orchestra Tonhalle di Zurigo fino al 1948. In quello stesso anno emigra in Israele dove dirige la Israel RSO, il Coro Giovanile del Kibbutz e la Inter-Kibbutz Orchestra. Attualmente e' Professore di Composizione e Direzione d'Orchestra presso l'Universita' di Tel Aviv. Uno dei piu' significativi lavori e' senza dubbio “Lamento per violoncello solista”. Tra i Compositori piu' recenti certamente Noam Sheriff occupa un posto di rilievo; appartenente alla prima generazione di quei musicisti nati in Israele, nel 1935 a Tel Aviv. Fin da piccolo mostra spiccate capacita' musicali divenendo allievo di Paul Ben-Haim e Ze'ev Price. Bernstein nel 1963, scelse il “Festival Overture” creato da Sheriff , per l'inaugurazione dell' Auditorio di Musica Mann a Tel Aviv, mentre molte sue opere vengono correntemente eseguite dai maggiori esponenti della musica classica in occasione di Congressi e Festival Internazionali. Il suo stile e' sperimentale e passa dalla scrittura atonale all'uso degli strumenti elettronici. In tempi piu' recenti, nel 1987, Il New York Times ci informa che nelle sale da concerto cittadine musica di compositori israeliani non raccoglie grossi successi, almeno e sicuramente molto poco rispetto al successo che aveva in Israele oppure rispetto al successo che i musicisti concertisti raccoglievano in tutto il mondo. La spiegazione che il New York Times da e' che sono stati ascoltati i musicisti meno rappresentativi e come prova riporta invece i successi della Compositrice Yardena Alotin ( 1930–1994 ), con i suoi brani per flauto solo e violoncello, la sonata per violino e pianoforte, il ciclo di canzoni ed il Trio. Il linguaggio musicale della Alotin, nativa di Tel Aviv, e' molto particolare e non esprime una filosofia o uno stile tipico, ma piuttosto qualcosa di piu' personale che allo stesso tempo mantiene stretti legami con le origini natie. La Compositrice usa forme molto classiche e uno stile musicale polifonico ricco di passaggi lirici e melodici, che si alternano a sviluppi di carattere drammatico a cui e' associato anche un senso ottimistico. Ultimo esempio rappresentativo e' Betty Olivero nata a Tel Aviv nel 1954, sebbene Israeliana svolge gli studi negli Stati Uniti e successivamente si perfeziona con Luciano Berio. Intraprende una carriera piena di successi in tutto il mondo e le sue composizioni vengono eseguite dai piu' celebri artisti ed orchestre rinomate. Olivero rappresenta una scuola compositiva molto moderna a cui associa un tipo di scrittura strumentale talvolta virtuosistica impermeata da caratteri stilistici tipici del linguaggio della musica popolare appartenente alle sue origini. Il suo pensiero musicale e' vicino alla musica tradizionale del folklore ebraico utilizzando temi della musica Chassidica, Kletzmer o melodie Ladine, dove ne modifica ed amplia le strutture senza stravolgerne il significato originario. Olivero sostiene che

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un compositore avvolte riscrive un brano modificandolo e queste modifiche possono avvicinare l'ascoltatore, ancor piu' della musica originaria, al suo vero significato spirituale. Dopo aver trascorso circa diciotto anni in Italia Olivero e' ritornata in Israele nel 2001 dove attualmente insegna Composizione dal 2002 alla Bar-Ilan University. Nell' ottobre 2008 il Boston Times riporta notizie sulla celebrazione del 60° anniversario dalla fondazione dello Satato di Israele nella quale occasione la musica classica di Compositori Israeliani assume un ruolo di rilevante importanza venendo proposti per l'Evento quattro compositori con il Progetto della Boston Modern Orchestra diretta da Gil Rose. Il Maestro in questa occasione esprime profondi apprezzamenti per aver potuto scoprire un nuovo aspetto della vita musicale Israeliana e dichiara di esser rimasto molto affascinato ed incuriosito da questo paese in cui ancora non ha avuto occasione di recarsi, ma che sicuramente lo affascina fortemente. Israele tutt'ora rappresenta uno dei centri di cultura musicale mondiale sia per la vasta rappresentanza musicale in tutto il mondo che per la produzione di musica classica contemporanea.

Incontri del Centro di Studi Ebraici

Maddalena Schiavo

Nell’ambito delle attività del Centro di Studi Ebraici di Napoli lo scorso 16 marzo presso l’aula

della Biblioteca Maurizio Taddei nella sede di Palazzo Corigliano la professoressa Amira Meir,

moglie dell’ambasciatore Gideon Meir, ha tenuto una conferenza dal titolo Tamar, Er’s wife: an

accidental heroine or a pioneer feminist? Studiosa di Bibbia e docente dello Hebrew Union

College di Gerusalemme, la Meir ha presentato una relazione sul brano biblico descritto in

Genesi 38 in cui si narra la vicenda di Tamar scelta da Giuda come moglie del suo primogenito

Er. Costui muore senza lasciare eredi e la donna si unisce, secondo quanto previsto dalla legge

del Levirato, ai fratelli del marito ma neanche da loro riesce ad avere figli. Tamar escogita un

piano per ingannare Giuda: si veste da prostituta e si unisce a lui. La donna rimane incinta e

grazie al pegno che lei stessa è riuscita a farsi lasciare dall’uomo può dimostrare che il bambino

che aspetta è proprio di Giuda. L’analisi presentata dalla professoressa Meir, condotta a partire

da una selezione di brani tratti dal Talmud, da testi apocrifi e pseudoepigrafi, fa luce sul

contesto in cui avviene la vicenda con particolare attenzione alla questione dell’astio nutrito dalla

madre di Er verso Tamar. Si narra infatti che la moglie di Giuda, originaria della terra di

Canaan, non veda di buon occhio Tamar, proveniente invece dalla Mesopotamia. Secondo questa

interpretazione è la madre che ostacola i figli nell’unione con Tamar la quale è costretta ad un

certo punto a tornare a casa di suo padre. Nella maggior parte dei commentari biblici viene

invece messa in risalto l’immagine di Tamar come eroina dotata di grande forza e astuzia, una

donna che ricorre all’inganno pur di avere dei figli. L’approfondimento di questo brano ci fornisce

degli spunti interessanti per la comprensione di importanti aspetti delle vicende bibliche e

l’analisi della figura di Tamar può costituire il punto di partenza per una rilettura in chiave

femminista del racconto.Dal 1 al 3 aprile il CSE in collaborazione con l’Istituto Italiano di Studi

Filosofici e l’Università Ben Gurion ha ospitato a Napoli il Convegno Women’s Literature and the

Establishment of the State. La tre giorni ha visto la partecipazione di importanti studiosi italiani e

internazionali che si sono confrontati sul tema del rapporto tra la scrittura femminile israeliana e

l’identità nazionale. Durante il primo giorno dei lavori l’attenzione era rivolta in modo particolare

all’incontro con Judith Rotem intervistata per l’occasione dalla professoressa Gabriella Steindler

Moscati. La scrittrice, proveniente da una famiglia ebrea ungherese, ha trascorso da neonata

alcuni mesi nel lager di Bergen-Belsen e da lì condotta in un campo profughi in Svizzera. Nel

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1945 è emigrata in Terra di Israele dove è cresciuta in un ambiente fortemente religioso. Poco

più che diciottenne ha sposato uno studente di una yeshiva ultra-ortodossa ed ha avuto nove

figli, due dei quali sono morti nei primi mesi di vita. Dopo circa vent’anni di matrimonio ha

deciso di lasciare il marito e la comunità ultra-ortodossa di Bnei-Barak, una località distante

pochi chilometri da Tel Aviv. Durante l’incontro la scrittrice ha dato ampio spazio al racconto

della sua esperienza di giovane donna cresciuta in un ambiente rigido e oppressivo, fatto di

regole e proibizioni, una società in cui non c’era spazio per la cultura e in cui persino leggere

diventava una “impresa difficile” poiché a casa così come a scuola tutto era controllato. La Rotem

ha iniziato la sua attività di scrittrice solo dopo il divorzio dal marito e il conseguente

allontanamento dall’ambiente ultra-ortodosso. Ha pubblicato diversi articoli, numerose ghost-

stories, quattro romanzi, di cui uno pubblicato in italiano con il titolo “Lo strappo” (Feltrinelli

2000), oltre a racconti e libri per bambini. La maggior parte delle sue opere ripercorrono in

maniera evidente l’esperienza autobiografica dell’autrice presentando figure femminili che si

ribellano o vogliono ribellarsi al mondo ultra-ortodosso. Dalle sue parole è emersa l’immagine di

una donna che ha trovato, attraverso l’amore per la scrittura, la forza di sottrarsi alle regole e

alle prescrizioni a cui era costretta e il coraggio di iniziare una nuova vita. Il distacco dal mondo

religioso, come lei stessa racconta, è servito tra l’altro a farle ritrovare il senso di appartenenza

alla nazione che rappresenta una delle problematiche principali all’interno della società ebraica

ultra-ortodossa.

Tra gli appuntamenti del CSE segnaliamo il ciclo di incontri del seminario “Il Dibbuk” che

proseguirà il prossimo 22 aprile e la presentazione del libro Sull’antisemitismo di Roberto

Piperno martedì 28.

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