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AZIONI PARALLELE

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FASCICOLO 1

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Azioni Parallele è una rivista on line a periodicità annuale, che continua in altre modalità la precedente ultradecennale esperienza di Kainós.

La direzione di Azioni Parallele è composta da Gabriella Baptist, Aldo Meccariello

e Andrea Bonavoglia.La distribuzione è affidata a Ergonet (VT).

La sede della rivista è Roma.

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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014

FASCICOLO 1 2014

DIMENTICARE

materiali

Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare editoriale

Gemme di primavera, foglie d’autunno. Introduzione ad Alexandru Dragomir di Gabriella Baptist

Sull’oceano dell’oblio di Alexandru Dragomir

saggi

The Internet is forever di Andrea Bonavoglia

Oblio e memoria di Massimo Piermarini

itinerari

Mnemosine e Lete di Giuseppe D'Acunto

Dimenticare Palermo di Antonino Infranca

Berlino. Topografie della memoria di Andrea Bonavoglia

discussioni

Matteo Borri, Storia della malattia di Alzheimer di Giovanna Frongia

Gűnther Anders, Dopo Holocaust, 1979 di Aldo Meccariello

Marco Fortunato, L’offesa, la colpa, il fantasma. di Aldo Meccariello

Tony Judt, L'età dell'oblio di Aldo Meccariello

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AZIONI PARALLELE on line

2014

www.azioniparallele.it

Visti: New York, Agosto 2014 di Andrea Bonavoglia

Letti: Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo. Agire nell’età del rischio di Roberto Caracci

Letti: Micaela Latini e Aldo Meccariello, L’uomo e la (sua) fine. Saggi su Günther Anders di Massimo Piermarini

Letti: Materiali per una bibliografia italiana di Günther Anders di Devis Colombo

Letti: Adolf Loos, Parole nel vuoto di Andrea Bonavoglia

Letti: Marcello Musto, Ripensare Marx e i marxismi

di Silvia Baglini e Antonino Infranca

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DIMENTICARE

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Per far memoria dell’oblio e ricordarsi di dimenticare

Saper dimenticare è una fortunapiù che un’arte. Le cose che si

vorrebbero dimenticare sonoquelle di cui meglio ci si ricorda.

La memoria non solo ha l’inciviltàdi non sopperire al bisogno, maanche l’impertinenza di capitare

spesso a sproposito

B. Gracián, Oráculo manual y artede la prudencia

A Simonide, il virtuoso della memoria che voleva insegnargli comericordare tutto, Temistocle, il grande politico e militare ateniese ormai banditodalla patria, avrebbe risposto di preferire piuttosto apprendere l’arte didimenticare, in modo da evitare la sofferenza ossessiva che impongono itraumi e gli scacchi: “nam memini etiam quae nolo, oblivisci non possumquae volo” – infatti ricordo anche ciò che non voglio, e non riesco adimenticare ciò che vorrei (Cicerone, De fin., II, 32, § 104).

Se l’antichità e la modernità sono state caratterizzate piuttostodall’esaltazione della memoria e delle sue tecniche, il Novecento più tragico,certamente anche in seguito alle sue esperienze estreme che ci impongono ildovere di non dimenticare, ha dato spunto a riflessioni che, senza tradirel’imperativo del ricordare – quello Zahor che invita a onorare le vittime e ildebito verso i trapassati –, hanno inteso restituire l’onore perduto al gestomisurato, giusto e pacificatore del voler sorvolare, si pensi solo agli studi diPaul Ricœur o alle indagini di Harald Weinrich. Ma si pensi anche alleesperienze storiche che hanno evidenziato lo spessore politico del perdonodifficile, arendtianamente capace di sciogliere il passato alleggerendone ilfardello, perdono che pure non sconfessa l’imprescrittibilità del criminecontro l’umanità, da contrapporre come un monito ai tradizionali usi tattici estrategici dell’amnistia, della grazia o del condono.

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Nei tempi stressati e stressanti che indeboliscono il pensiero a favoredell’efficienza, che cosa dobbiamo ricordare, che cosa dobbiamo ad ognicosto dimenticare? Sono quesiti urgenti che si impongono alle nostre societàmultimediali, caratterizzate da un eccesso di conoscenze e di saperi che siaccumulano in maniera impressionante, al punto da mettere in forse, in sensonietzscheano, i modi e la possibilità stessa di rievocare il passato. Si insegue,infatti, una memoria forsennata sempre più bulimicamente memorizzante finoal parossismo del non poter più cancellare da archivi mostruosamenteonnipresenti ciò che magari imbarazza o offende;. Nelle realtà sociali epolitiche che invecchiando e declinando da un lato si affannano inrottamazioni e discariche e dall’altro si consegnano alla demenza e allaregressione, forse è necessario saper dare nuovo lustro anche al ceselloselezionatore e inventariante dell’oblio, perché quando si parla di oblio non sideve pensare necessariamente al contrario della memoria, piuttosto a ciò cherende possibile la memoria stessa: certamente non si tratterebbe di celebraredemolizioni scriteriate, ma di fare spazio a un dimenticare illuminato che, nonpiù antagonista del ricordo, anzi come suo più geloso custode, additi lafinitezza e la vulnerabilità, rammemorandone disfatte e conquiste. L’oblionon è solo il segno del reale, e del reale come evento, ma è esso stessoevento, e come tale, passibile di oblio. Il memento più radicale non sarà piùsolo allora quello, ancora narcisistico, che ci richiama alla nostra individualemortalità, ma l’appello a ricordare che saremo dimenticati e ad essere perciòfinalmente anche un po’ più dimentichi di noi stessi, consapevolidell’incompiutezza, ma anche della bellezza e libertà del finito.

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Gabriella Baptist

Gemme di primavera, foglie d’autunno.

Introduzione ad: Alexandru Dragomir, Sull’oceano dell’oblio

Non si può certo sostenere che Alexandru Dragomir sia un filosofodimenticato, giacché questo presupporrebbe che egli sia statoprecedentemente riconosciuto o che si sia affermato in qualche modo. Invecela sua vicenda è quella di chi è stato sommerso dai tempi bui nei quali èvissuto e ai quali si è voluto opporre nell’unica postura onesta dellasottrazione assumibile dall’intellettuale che non voglia essere un ciarlatano;ma la sua storia è stata anche quella di chi poi però è stato salvato dalnaufragio definitivo nell’oblio grazie alla generazione successiva dei piùgiovani filosofi romeni, che nel suo destino hanno voluto riconoscere ilcompito del riscatto loro affidato.

Allievo di Heidegger e da lui altamente apprezzato per la lucidaintelligenza nel partecipare alle discussioni del celebre Oberseminar, cometestimonia Walter Biemel, suo compagno di studi a Freiburg, nell’ottobre del1943 Dragomir è costretto a lasciare gli studi perché reclutato in guerra.1

Dopo il ’45, impossibilitato a proseguire le ricerche dottorali, che comunquerisultavano ormai sospette per la nuova realtà politica romena, si guadagneràla vita con disparati lavori subordinati e modesti, mai abbandonando peraltrogli interessi filosofici e le letture poliglotte, clandestinamente perseguite. Solonell’ultimo scorcio degli anni Ottanta e negli anni Novanta del secolo scorsosi presterà a tenere seminari privati che lo faranno presto diventare una speciedi segreto e leggendario campione della filosofia romena, rimasta ardenteanche sotto la cenere delle devastazioni novecentesche.

1 W. Biemel, Erinnerungen an Dragomir, in «Studia Phænomenologica. Romanian Journal for Phenomenology», IV, 2004, n. 3-4: The Ocean of Forgetting. Alexandru Dragomir. A Romanian Phenomenologist 1916-2002, pp. 13-15. Le informazioni su Alexandru Dragomir sono in gran parte riprese dai saggi pubblicati nel numero a lui dedicato dalla citata rivista fenomenologica romena, cfr. in part. G. Liiceanu, The Notebooks from Underground, in ivi, pp. 17-64.

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Più o meno della stessa generazione dei vari Eliade, Ionesco, Noica,Cioran o Celan, nasce a Zalău, in Transilvania, nel 1916 da una famiglia diintellettuali. Dopo studi di lettere e legge presso l’Università di Bucarest edopo ripetute interruzioni per il servizio militare, dal settembre del ’41 èdottorando in filosofia a Friburgo grazie a una borsa di studio dellaFondazione “Alexander von Humboldt”.2 Di Heidegger segue le celebrilezioni sugli Inni di Hölderlin, su Parmenide ed Eraclito, oltre che seminarisulla Fenomenologia dello spirito di Hegel e sulla Metafisica di Aristotele.3

Spirito socratico, in vita non volle pubblicare nulla, ma alla sua morte, nelminuscolo appartamento in cui abitava sono stati ritrovati centinaia diquaderni con commenti, appunti, microanalisi fenomenologicamente condottesu temi spesso tratti dalla banalità della vita quotidiana (quali lo specchio –breve saggio che aveva preparato per la “scuola del sapere” di ConstantinNoica –, l’errore, il risveglio, l’usura), ma anche analisi sulle grandi questionifilosofiche del Novecento (per esempio sul tempo, l’unicità, l’attenzione).4

2 Il progetto di tesi sul concetto hegeliano di spirito, inizialmente concertata con Martin Heidegger,successivamente evolverà in un proposito di dissertazione, peraltro mai presentata, su intuizione e dialettica in Platone, come scriverà dalla Romania in una lettera a Heidegger del 1947, fino all’autoironica considerazione, riportata in una nota dell’8 gennaio del 1993, in cui Dragomir, ormai quasi ottantenne, riconosce di star preparando una tesi di dottorato sotto la supervisione del buon Dio.

3 Di Heidegger tradurrà in romeno con Walter Biemel, nella prima metà degli anni Quaranta, Was ist

Metaphysik?, pubblicazione però rifiutata in Romania giacché l’autore era considerato persona non gradita

agli occupanti tedeschi del tempo; la traduzione sarà successivamente pubblicata in Francia nel 1956 a cura

di Virgil Ierunca in una rivista della diaspora intellettuale romena: «Caiete de Dor».

4 A partire dal 2004 la casa editrice Humanitas di Bucarest ha pubblicato diverse raccolte di suoi testi (Crase

banalităţi metafizice, Cinci plecări din prezent. Exerciţii fenomenologice, Caietele timpului, Seminţe,

Meditaţii despre epoca modernă) in parte accessibili anche in altre lingue, cfr. Banalités métaphysiques, éd.

par G. Liiceanu et C. Partenie, Paris, Vrin, 2008; Id., Les Cahiers du temps, tr. par R. Otal, Paris, Vrin, 2010;

Chronos. Notizbücher über Zeit, hrsg. von B. Mincă, C. Partenie, Würzburg, Königshausen & Neumann, in

corso di stampa, annunciato in uscita per l’ottobre 2014. Su Dragomir si veda anche C. Ciocan, Philosophy

without Freedom: Constantin Noica and Alexandru Dragomir, in I. Copoeru, H.R. Sepp (ed. by),

Phenomenology 2005, vol. III: Selected Essay from Euro-Mediterranean Area, Bucharest, Zeta Books, 2007,

pp. 63-79, in part. pp. 74-78 (accessibile anche in rete all’indirizzo:

www.academia.eu/176069/Philosophy_without_Freedom_Constantin_Noica_and_Alexandru_Dragomir). Si

veda anche il sito dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel 2009 sotto gli auspici

della Società romena di Fenomenologia e diretto da Cristian Ciocan: institute.phenomenology.ro

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In uno dei suoi frammenti, datato al 28 dicembre 1988, così scrive:

I pensieri sono come alberi che gemmano in primavera, promessedi frutti, carichi di futuro; gli scritti sono come foglie d’autunno,estremamente colorate, ma presto disseccate, piene di nostalgia.Come le foglie d’autunno, scrivere ha la morte nel cuore.5

Lasciamo al lettore la scelta di decidere se la breve riflessione sull’oblioche presentiamo rechi in sé piuttosto gemme foriere di maturazioni future onon sia invece un’altra fascinosa foglia d’autunno che aggiungiamo allaraccolta di analisi sul tempo che il Novecento filosofico, scientifico e artisticoha prodotto in grande quantità. Certamente vi si ritroverà l’eco delle celebririflessioni fenomenologiche a proposito di ritenzioni e protensioni cheHusserl aveva affidato alle sue analisi sulla coscienza interna del tempo,notoriamente edite da Heidegger negli anni Venti.6 Si potranno poi ancheleggere le riflessioni di Dragomir nella sequela delle prospettive agostiniane eparallelamente alle coeve indagini ricœuriane su La memoria, la storia,l’oblio.7 Indubbiamente alcuni tratti dovranno essere considerati nella lorooriginalità, suggestione e profonda dirittura intellettuale: per esempio la stessaimmagine dell’oceano dell’oblio – il cui solo orizzonte certo è nelsoccombere – e del lago del ricordo che garantisce riparo e salvataggio, quasia sottolineare la consustanzialità liquida di memoria e oblio, riformulando altempo stesso la celebre metafora kantiana dell’oceano tempestoso dellaparvenza che circonderebbe l’isola dell’intelletto.8 Interessante risulta anche

5 Cit. in C. Partenie, Archive Relief. Dragomir’s Perspective, in «Studia Phænomenologica», IV, 2004, n. 3-4, cit. alla nota 1, p. 96.

6 E. Husserl, Vorlesungen zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins, hrsg. von M. Heidegger, Halle, Niemeyer, 1928 («Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», Bd. 3); cfr. anche Id., Zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstseins (1893-1917),hrsg. von R. Boehm, Husserliana. Gesammelte Werke, Bd. 10, Den Haag, Nijhoff, 1966; tr. it. di A.Marini, Per la fenomenologia della coscienza interna del tempo (1893-1917), Milano, Franco Angeli, 1981.

7 P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, Paris, Seuil, 2000; tr. it. di D. Iannotta, La memoria, lastoria, l’oblio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2003.

8 I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, A 235/B 294-295; tr. it. di P. Chiodi, Critica della ragion pura,Torino, UTET, 1967, p. 264. Per Paul Ricœur i ricordi si distribuiscono in arcipelaghi separati da abissi, cfr. P. Ricœur, La mémoire, l’histoire, l’oubli, cit., p. 116; tr. it. cit., p. 137.

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la messa in guardia contro gli errori e le distorsioni della memoria, così comelo scetticismo sull’onestà selettiva del “canone” culturale, spesso ispiratodalla moda del momento. Ma soprattutto colpisce il tratto socraticodell’accentuazione di un non sapere/dimenticare al quale siamoinevitabilmente consegnati e poi commuove, perché ha il tono amaro dellatestimonianza, la consapevolezza dolorosa del fatto che anche le civiltàmuoiono, che la regola è il naufragio, rispetto al quale assai poco riesce asalvarsi e a sopravvivere. La riflessione di Alexandru Dragomir sull’oceanodell’oblio diventa allora un appello ad essere consapevoli dell’immane lavorodi cernita affidato ad ogni tradizione e insieme un invito a ricordare tutti queicadaveri abbandonati sul fondo, nell’auspicio che, conShakespeare/Benjamin/Arendt, i loro occhi possano diventare perle e corallile loro ossa, invulnerabili alla decomposizione indotta dagli elementi e ormaisolo in attesa di un palombaro.9

9 Cfr. H. Arendt, Walter Benjamin, in “Merkur”, XII, 1968, pp. 305-315; tr. it. a cura di L. Ritter Santini, Walter Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle, in Il futuro alle spalle, Bologna, il Mulino, 1995, pp. 86-103 (il riferimento è a W. Shakespeare, The tempest, 1,2: “Full fathom five thy father lies; / Of his bones are coral made: / Those are pearls that were his eyes” – A cinque tese tuo padre è sepolto; / coralli gli si son fatte le ossa; / son perle gli occhi nel suo volto).

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Alexandru Dragomir

Sull’oceano dell’oblio*

Non intendo avanzare una tesi particolare; la mia sola ambizione èquella di condividere con voi ciò che mi sembra essere l’oblio.10

Tutto ciò che ci accade è còlto. Per dire il modo in cui cogliamo tutto ciòche ci accade Husserl ha utilizzato il termine “ritenzione”. Tutto ciò che miaccade mi è dato in modo ritenzionale, il che significa, per esempio, chequando ricordo che qualcuno mi ha detto una certa cosa – diciamo: che avevodetto una stupidaggine – io ricordo sia quando, sia in quale occasione questomi è stato detto. Certamente è possibile che io abbia trattenuto erroneamentenella memoria qualcosa che mi è successo: non era stata quella persona a direche avevo detto una stupidaggine, ma un’altra; non lo aveva detto esattamentea quel modo, ma in un altro; anche il momento in cui lo ha detto può esserestato memorizzato in maniera erronea. In ogni caso la costituzione dellanostra memoria ha comunque queste due caratteristiche: riteniamo nellamemoria ciò che ci accade e ricordiamo sempre anche le circostanzedell’evento e una certa data a questo connessa. Questa “ritenzione”, come lachiama Husserl, costituisce man mano il nostro capitale di ricordi,

* La traduzione è stata inizialmente effettuata a partire dalla versione inglese (About the Ocean of Forgetting) pubblicata in «Studia Phaenomenologica», IV (2004), n. 3-4, pp. 183-186, è stata successivamente confrontata con la traduzione in francese, Sur l’océan de l’oubli, in A. Dragomir, Banalités métaphysiques, Paris, Vrin, 2008, pp. 240-244, così come con il testo originale in lingua romena, Despre oceanul uitării, in Id., Crase banalităţi metafizice, Bucuresti, Humanitas, 20102, pp. 120-125. La traduzione in italiano avviene grazie alla gentile autorizzazione della casa editrice Humanitas, detentrice dei diritti d’autore, e grazie alla generosa mediazione del prof. Cristian Ciocan, direttore dello “Alexandru Dragomir – Institute for Philosophy”, fondato nel 2009 sotto gli auspici della Società romena di Fenomenologia. Ringraziamo entrambi con viva cordialità. [Nota del traduttore].

10 Questo testo raccoglie una delle numerose “piccole conferenze” tenute da Alexandru Dragomir a partire dal 1995. Queste erano presentate nel corso dei nostri incontri come delle “comunicazioni brevi” di 15 o 20 minuti, di fatto si trattava in genere di meditazioni ispirate dalle realtà con le quali tutti ci confrontavamo dopo il dicembre del 1989. Il testo si basa sulla trascrizione di una registrazione approntata da Sorin Vieru [nota dell’editore].

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indipendentemente dal fatto che questi ricordi possano alterarsi con il passaredel tempo, sia riguardo al loro contenuto che rispetto alla loro datazione.

Di fatto, se rifletto su che cosa accade alle cose che tratteniamo nellamemoria, posso distinguere tre situazioni: in primo luogo queste possonoessere trattenute correttamente per un lungo periodo, cosicché me le ricordodopo qualche giorno, dopo un anno o dopo diversi anni. Oppure, in secondoluogo, posso trattenerne il ricordo, ma, come stavo dicendo, con errori dicontenuto o di datazione. Oppure, infine, posso semplicemente dimenticaresia che cosa è accaduto, sia in quali circostanze, sia quando esattamente.

Se le cose stanno così, allora dovremmo chiedere – anche se la questionepuò forse essere mal posta – quanta oggettività abbiano i nostri ricordi.Quante delle cose che ci sono successe sono ritenute nella memoria e quantedi quelle trattenute lo sono correttamente sotto ogni aspetto? Coloro chehanno una buona memoria preservano i loro ricordi nel loro contenuto esecondo la loro datazione. Se, d’altro canto, alteriamo qualcosa di ciò che èavvenuto, questo significa che avviene una deformazione della facoltà dellamemoria. Questo non significa affatto che si ha a che fare con una malattiamentale. Un gran numero di motivi possono indurre una persona a deformarei suoi ricordi, sia poi che questo avvenga coscientemente o resti inconscio.

Ma che cosa significa dimenticare? La risposta è alla portata di ciascuno:dimenticare significa perdere qualcosa di ciò che so o di ciò che ho saputouna volta. È evidente che non posso dimenticare qualcosa che non ho maisaputo. Comunque a questo punto sento il bisogno di sollevare un problemache solitamente non siamo soliti porre e al quale non è facile dare unarisposta: quanto si dimentica, e perché, e quanto si ritiene invece nellamemoria, e perché, di ciò che si è saputo una volta? Una rispostaindubbiamente corretta, ma solo provvisoriamente, potrebbe essere: noitratteniamo nella memoria e ci ricordiamo quando e per tutto il tempo in cuisiamo interessati all’oggetto ricordato. Oggetti che non hanno per noi piùalcun interesse hanno la massima probabilità di essere dimenticati e perduti. Eallo stesso modo, quando non dimentichiamo che cosa ci è successo e ciò cheabbiamo saputo? Quando il ricordo resta vivo in noi per ragioni cheriguardano la nostra vita interiore.

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Comunque nel dare una risposta del genere restiamo, con Husserl, su unpiano soggettivo. Ma mi interesserebbe sapere quanto si trattiene nellamemoria e quanto si dimentica oggettivamente di tutto ciò che avviene e ditutto ciò che sappiamo. E qui la risposta, sebbene sia evidente e semplice, è inrealtà sorprendente: si perde molto di più di quanto si tiene a mente. Un veroe proprio oceano di cose entra nel regno dell’oblio in confronto con la scarsitàdi ciò di cui ci ricordiamo e che sappiamo. E giacché esiste un vero e propriobaratro tra quanto avviene realmente e quanto si trattiene nella memoria, illavoro della ritenzione di quanto è successo diventa subito significativo. E quidi nuovo è importante constatare che alcune cose accadono e il loro ricordo ècoltivato, mentre altre sono abbandonate all’oblio, come si dice in romeno.Parte delle responsabilità dei ministeri della cultura dappertutto nel mondoconsiste precisamente in questo mantenimento del ricordo di ciò che èunanimemente considerato degno di essere ricordato e che perciò non deveessere lasciato in preda all’oblio. Tutto rientra in questa rubrica, dalle pietretombali, alle chiese, ai monumenti e persino i discorsi. Si tratta sempre di duepiani distinti: l’evento in quanto tale e il lavoro necessario a mantenere ilricordo di questo evento. E se parliamo di oblio è precisamente perché cipreoccupiamo del lavoro necessario a mantenere il ricordo. Quando parlo de“il lavoro del mantenere il ricordo”, ho in mente una delle più importantiattività umane, un’attività che ha le sue tecniche, che comportaun’istituzionalizzazione e fa ricorso a specifici mezzi di azione nella sferainteriore e spirituale.

Nonostante esista tutta questa attività, nonostante tutti gli sforzi umanipossano ottenere risultati importanti, resta il fatto oggettivo che la maggiorparte della realtà finisce nel dominio dell’oblio. Come ho già detto, abbiamoun intero oceano dell’oblio in confronto col minuscolo lago del ricordo. Maciononostante lo sforzo immenso del preservare deve essere consideratoseparatamente. È impressionante il fatto che possiamo ancora leggere – dopo2.800 anni! – l’Iliade e l’Odissea. In linea generale tutta la nostra culturaconsiste in effetti di tutto ciò che si è potuto salvare dal naufragio dell’oblio.

Comunque, si profila un nuovo problema: nel salvare tutto ciò che riescea salvare, lo spirito umano applica sempre una giusta misura? Ci affrettiamo arispondere: se oggi sappiamo chi è Omero è solamente perché 2.800 anni faegli ha creato dei veri e propri capolavori. Diciamo lo stesso di Shakespeare e

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di un gran numero di altri eiusdem farinae. Siamo poi inclini a credere,quando si tratta delle creazioni dei nostri tempi, che si preserverà ciò che è dimaggior valore e solo per il fatto che ha un valore. Ma ho molti dubbi inproposito. Perché? Perché la misura che si applica a queste creazioni, in altreparole il nostro giudizio, appartiene ad un certo Zeitgeist. Consentitemi diproporre il primo esempio che mi viene in mente. Quando ero uno studente,ci chiedevamo chi fosse il più grande poeta del nostro tempo. Come gli altri,io credevo e insistevo fortemente sul fatto che, per quanto riguardava lapoesia, Rilke, l’autore dei Sonetti e delle Elegie, fosse insuperabile. Che eglifosse né più e né meno che un nec plus ultra. Soprattutto dopo essermisforzato di padroneggiare il tedesco dei Sonetti a Orfeo, tutto mi sembravaessere di una bellezza senza pari. Dopo la grande stagione di Goethe eSchiller, gli altri poeti sembravano dei pigmei in confronto con Rainer MariaRilke. Egli saliva sul podio della poesia universale ottenendo la medaglia dibronzo, se non la medaglia d’argento. Così ho incominciato a pensare cheRilke rappresentasse il culmine insuperabile della poesia e che nulla potessepiù venire dopo di lui. Oggi non credo affatto che la selezione operata abbiaun significato assoluto. Mi chiederete allora chi metterei al suo posto e comesarebbe articolata una selezione giusta. Risponderei innanzitutto che sipotrebbero citare anche altri nomi e risponderei soprattutto che, in generale,non ci si pone più il problema di scegliere chi sia il più grande tra i poeti, gliautori o le correnti. E in secondo luogo risponderei che nel frattempo hoimparato che anche le culture e le civiltà muoiono.

Che cosa merita di essere ritenuto nella memoria di tutto ciò che ho dettofinora? In primo luogo che la norma è l’oblio e che, sebbene rappresenti unfenomeno negativo e che non sembra essere necessario, l’oblio è parte dellanostra natura e ha effetti decisivi sulla natura della realtà. Ne risulta unsecondo aspetto, e cioè che l’evento non può essere preservato senza unosforzo di mantenimento, che il nostro passato è fatto di ciò che è statopreservato, che la nostra storia e ogni sua parte è tutto ciò che si è potutosalvare da un naufragio. Non credo ne siano consapevoli né l’uomo comunené l’uomo di cultura. Quest’ultimo lavora con materiali che tende aconfondere con la realtà passata, piuttosto che vedervi quel poco che se ne èpotuto conservare. In altri termini, non è affatto consapevole che si tratta diun resto salvato dal naufragio dell’oblio. Per finire, l’aspetto più vulnerabiledi tutta questa storia è che la conservazione presuppone una selezione e non

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abbiamo argomenti e prove per dimostrare che questa selezione è stataeffettuata in maniera obiettiva. Tutto il resto non selezionato – il cumulo difatti, eventi e canali attraverso i quali circola l’informazione e anche idocumenti – è condannato, attraverso l’oblio, a non essere. Da questo puntodi vista, il lavoro culturale sembra derisorio in confronto a tutto ciò cherimane destinato all’oblio. Ciò che ho voluto comunicarvi è che siamo tutto iltempo installati dentro un oceano di oblio.

(Traduzione di Gabriella Baptist)

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DIMENTICARE

saggi

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Andrea Bonavoglia

The Internet is forever

Anche se gli utenti di Internet nei paesi occidentali sono diventati la

maggioranza assoluta tra i cittadini e quindi si calcolano in varie centinaia di

milioni, non sono molti tra loro gli utenti accorti e informati su ciò che Internet

è realmente. Ad esempio, il rapporto tra Internet e Google è molto poco chiaro

e, anche qui, solo pochissimi sanno che cos'è realmente Google. Di fondo,

prevale l'idea che Google sia una specie di padron di casa che ci fa da guida nei

meandri delle stanze: per molti, assurdamente, “Google è Internet”.

Le spiegazioni che cercherò di fornire su questo argomento nascono da una

esperienza ventennale, da una conoscenza non professionale ma appassionata

dei meccanismi della rete e dalla curiosa congruenza tra alcuni recenti aspetti

della storia di Google e il tema socio-filosofico dell'oblio. Capita spesso che

qualche amico o collega mi rivolga domande semplici: “Dopo quanto tempo una

notizia entra in Google?”; oppure, “Posso cancellare un sito da Google?”, e

anche “Cosa significa che Google fornisce la possibilità di recuperare l'oblio?”.

Ma le risposte non sono così semplici, e per definirle bisogna prima capire che

cos'è Google, prima ancora che cos'è Internet e al principio di tutto che cosa è

un server.

Che cos'è Google?

I server sono computer grandi, o meglio molteplici, in grado di registrare

documenti e di metterli a disposizione tramite una linea telefonica che trasmette

dati. È utile sottolineare come i termini “registrare” e “cancellare” (in inglese,

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“save” e “delete”) siano in questa dimensione trattabili come sinonimi di

ricordare e dimenticare.

Un server connesso a Internet, che è l'insieme di alcuni milioni di server, può

quindi fornire documenti registrati da un utente americano a un utente italiano

che li stia cercando. Il modo in cui questa fornitura di documenti avviene è

vario, ma da vent'anni la forma popolare del passaggio di documenti è il World

Wide Web, cioè un meccanismo di trasferimento dati, denominato HTTP

(HyperText Transfer Protocol), molto intuitivo, di facile accessibilità e dotato di

veste grafica. Quando sul nostro schermo appare un articolo con una fotografia

di Obama, noi stiamo aprendo grazie a un browser (Chrome, Explorer, Firefox,

…) un documento che si trova su un server probabilmente americano, e di fatto

quel server americano ce lo sta fornendo tramite la rete telefonica e il protocollo

HTTP. La fotografia e il testo si trovano peraltro inseriti tra altri testi e altre

immagini, video, reclame: la pagina composta da tutti questi elementi si

definisce un ipertesto ed è la risultante di un montaggio voluto da un

impaginatore, il webmaster, che è in grado di costruire quelle pagine usando un

codice denominato HTML (HyperText Markup Language).

Internet è solo un gigantesco magazzino

Non andiamo oltre nell'ambito del codice HTML, ma limitiamoci a determinare

che l'ipertesto che compone una pagina web è composto da vari documenti

diversi e che di pagine web oggi nel mondo ne esistono alcuni miliardi. Come

fare a rintracciare in questo gigantesco archivio o magazzino le cose che ci

interessano?

Vent'anni fa in Internet i dati erano molti di meno, la velocità di trasferimento

mille volte più lenta di oggi, la posta elettronica lo strumento più usato, il web

agli albori, e le ricerche basate su elementi semplici; il magazzino era ordinato e

si cercava di tenerlo ordinato, e infatti con un po' di esperienza le ricerche

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(effettuate tramite programmi che oggi sembrano ridicoli, come Gopher e

Veronica) avvenivano in tempi accettabili, magari alcuni minuti. Certamente,

vent'anni fa in rete c'erano soprattutto documenti recenti, pochissime immagini,

nessun video e quindi Internet era utile soprattutto ai professionisti di alcuni

settori per trasferire notizie, o a chi, come me, trovava straordinario scambiare

opinioni tramite email con altri studiosi sparsi nel mondo.

In seguito, in parallelo col progredire del Web, i sistemi di ricerca si affinarono e

nacquero i primi veri Search Engines, i motori di ricerca, cioè siti web che

dispongono di un sofware per cercare altre pagine web. La risposta alle ricerche

degli utenti avveniva in modo quasi casuale e i siti venivano elencati senza

criterio apparente; stava all'utente cercarsi tra tanti il sito giusto, che in qualche

caso non era neppure presente. Yahoo!, Lycos e Altavista sono stati per qualche

anno i motori più usati, fino all'avvento improvviso e prepotente di Google, nato

nel 1997, che a partire dal 2000 all'incirca ha soppiantato tutti gli altri sistemi

creando un vero e proprio monopolio e generando una società informatica

gigantesca. Si pensi che i server utilizzati da Google sono oltre un milione e non

si dimentichi che Google possiede anche Youtube, Gmail, Android e molti altri

marchi.

Perchè Google è il motore migliore?

I creatori di Google hanno visto l'errore di fondo dei loro predecessori e hanno

basato la ricerca su un algoritmo, cioè su una procedura che elenca i siti in base

alla loro popolarità; la popolarità non si basa - come molti credono - sul numero

dei visitatori, ma soprattutto sull'interconnessione di un sito dentro la rete.

Ma come fa Google a risponderci in micosecondi, se la rete è fatta di miliardi di

pagine web? Innanzitutto, Google effettua la ricerca sui suoi server e non sul

web; infatti, Google dispone di una serie di programmi automatici, sempre in

funzione, detti spider, che perennemente analizzano tutti i dati pubblici dei

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server di tutto il mondo e li registrano. Sia chiaro che gli spider non possono

accedere in siti protetti, quindi l'interno delle pagine di Facebook o i clienti di

una banca o i libri di una biblioteca restano invisibili.

I dati raccolti vengono indicizzati, cioè rapidamente analizzati e catalogati in un

indice di veloce consultazione. Quando uno spider trova un sito nuovo, lo

colloca in un limbo d'attesa; semplificando, si può dire che la “scoperta” di un

sito nuovo viene registrata da Google nell'arco di 24 ore dalla sua pubblicazione

(la brevità di tempo ci dice qualcosa sulla mostruosa efficienza degli spider).

Questo non significa tuttavia che il sito entri nelle ricerche degli utenti così

presto, anzi; l'algoritmo di Google usa un sistema a livelli (rank) per cui la

miglior posizione di un sito negli indici è determinata da molti fattori, tra cui -

semplificando - la presenza del suo indirizzo nelle pagine di altri siti (tanto più è

interconnesso tanto più il sito è rilevante), la sua mutevolezza (tanto più cambia

tanto più un sito è attivo) e naturalmente il rilievo che il termine cercato ha nella

pagina web (se si trova nel titolo o meno).

Un esempio personale

Per evitare di fare solo teoria, parliamo ora di casi reali; il mio nome è presente

non solo nel mio sito personale ma anche in molti altri, e alla ricerca “andrea

bonavoglia” (se i termini sono messi tra virgolette diventano un unico termine di

ricerca) Google risponde in 30 centesimi di secondo che ricorre in oltre 2600

pagine web. Analizzando con attenzione gli elenchi forniti da Google, posso

tuttavia stabilire che - a parte pochi omonimi - i siti che ospitano il mio nome

sono molti di meno; al termine delle pagine di ricerca, che si raggiunge in pochi

secondi, appare una dicitura in cui Google segnala che un numero altissimo

delle 2600 pagine ha indirizzo “molto simile” ed è stato per praticità ignorato; i

siti principali quindi sono soltanto 178. La spiegazione è semplice: in uno stesso

sito sono spesso proposti elenchi e indici nelle parti fisse dell'impaginato (i

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menu, i moduli, le sezioni, le annate, ecc.); il nome di un autore può trovarsi

scritto e indicizzato in tutte le 100 pagine di un sito se anche in una sola di

quelle pagine appare un suo scritto.

Cancellarsi

Poniamo ora che io decida di cancellare la mia presenza in rete. La cosa ha

implicazioni interessanti da un punto di vista psicologico e antropologico, ma in

questa sede le ignoreremo, facendo finta appunto che io stesso - che di Internet

sono un profondo sostenitore - sia entrato in una crisi esistenziale e abbia preso

la drastica decisione di sparire dalla rete. Per i motivi che abbiamo detto prima,

molta gente crede che cancellarsi da Internet o da Google sia la stessa cosa, e la

società californiana ha dovuto adeguarsi al fatto che gli utenti le si rivolgano per

ottenere l'oblio. Google ha ricevuto un'ingiunzione dall'Unione Europea, ma

poteva benissimo rifiutarsi di farlo, e chi ha seguito i miei ragionamenti avrà

capito perché; sta di fatto che una buona politica societaria prescrive che i

clienti, più che le autorità, hanno sempre ragione.

Quindi Google ha preparato il modulo (vedi qui sopra) per richiedere l'oblio, nel

senso che la società si impegna per quanto possibile a cancellare l'utente dai

propri server; è evidente che Google non può cancellare alcunché da siti che non

possiede, ma si suppone che una volta oscurata la ricerca, quel nome sia di fatto

oscurato a sua volta.

Tutto ciò ricorda la famosa poesia di Bertolt Brecht, “Die unbesiegliche

Inschrift” (la scritta invincibile, che è poi un evviva a Lenin): cercare di

cancellare la scritta da un muro è impossibile, l'unica soluzione è togliere il

muro.

Il nostro risultato in definitiva è questo: non sto cancellando i miei dati dal

magazzino, ma sto chiedendo al magazziniere di non trovarmi più. Una simile

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scelta ha dei limiti evidenti, e in particolare si poggia su un'ipotesi falsa, che

Google resti per sempre il miglior motore di ricerca.

The Internet is forever

In una qualche serie poliziesca americana i detective ottengono prove risalendo

a dati molto vecchi della rete e chiosano l'indagine con la battuta “The Internet

is forever”. Non è del tutto vero, ma molte cose in rete sopravvivono al di là

delle aspettative e procurano non solo affollamento di dati, ma anche una grande

confusione. Molte pagine web non sono datate in modo visibile e la loro lettura

può generare equivoci notevoli. Google - come detto - abbassa di rank le pagine

che non cambiano, ma non le cancella dai suoi archivi; in una ricerca selettiva, è

quindi facile incorrere in dati antiquati che appaiono attuali.

Tornando al mio caso, 178 siti mi citano, e quindi a parte l'invio del modulo a

Google, potrei chiedere ai webmaster dei 178 siti di cancellare ciò che mi

riguarda. Posso farlo, con evidente fatica, ma resta un problema: con quale

diritto lo chiedo? Ho messo io a disposizione della rete i miei articoli e le mie

costruzioni web, e quindi le citazioni, i riferimenti, le repliche ai miei lavori

sono state sempre benvenute; inoltre, molte citazioni del mio nome sono

automatiche, perché risalgono ad esempio alla pubblicazione di un libro. Se ora,

in preda a depressione, voglio cancellarmi dalla rete, devo anche cancellare

alcuni fatti concreti della mia vita. Nel mio caso, dovrei cancellare molte pagine

di carta, la mia attività di insegnante, il mio ruolo stesso di progettista web, la

mia partecipazione a seminari e conferenze, ecc. ecc. Si vede bene, credo, che

tutto ciò è da un lato impossibile, dall'altro inutile.

E quindi, cercare l'oblio di Google non equivale forse a cercare l'oblio assoluto?

In questa meraviglia/follia di un mondo che non nasconde più nulla, ha senso

cercare di nascondersi? Come si può cancellare/dimenticare ciò che comunque è

destinato a restare, per quanto sommerso nel caos delle cose? Il confine tra rete

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e vita si manifesta nella sua totale precarietà, molto semplicemente perché la

rete ormai è parte della vita.

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Massimo Piermarini

Oblio e memoria

Non c’è fuoco o gelo che possa sfidareciò che un uomo può immagazzinare

nella memoriaF. Scott Fitzgerald, Il grande Gatsby

Sembra che il pensiero occidentale, da Platone in poi, non sappiamuoversi al di fuori dell’anamnesi e che il desiderio di ricordare risponda adun’esigenza profonda di sicurezza.11 Ma l’uomo è un essere che dimentica. Ilrovesciamento dell’orizzonte platonico, lo smemoramento contro larammemorazione (l’Andenken heideggeriano) è il rischio sempre presente,nell’ambito della memoria, individuale e collettiva. I ricordi sono circoscrittidall’oblio, come i concetti sono circoscritti dal caos del divenire: si pensasempre contro l’impensabile, il caos, si ricorda ai bordi dell’oblio, circondatida esso e attraverso di esso, incapaci di mantenere il governo della nave dellamemoria.12 La conoscenza è, per Deleuze, un taglio, una coupure neldivenire13 e, rispetto alla continua azione dell’oblio, una specie di durasianadiga contro l’Oceano. Il principio di sicurezza esige un orientamento nel

11Platone, Menone, 811, c-d. Sul ricordo dell’antica Grecia, patria della libertà-uguaglianza,si fonda la poesia-filosofia di Hölderlin, per cui l’allontanamento dall’En kai Pan, in direzione eccentrica, è l’inizio del grande inverno, in cui gli dei sono volati via, senza lasciare traccia di loro,eccetto che nell’entusiasmo e nell’ispirazione poetica, nella Begeisterung dionisiaca. Nell’orientamento verso il passato lo stesso Heidegger conferma il problema della metafisica: l’oblio dell’essere. Cfr. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari, 1991, pp. 78-79. La dimenticanza dell’Essere a favore dell’ente è all’origine della “deviazione dell’Occidente”. Questo è un occultamento, perché l’Essere non scompare. Heidegger indica, ispirandosi a Hölderlin, nell’Andenken, la rammemorazione come il compito del pensiero, la retrospezione verso ciò che non è ancora pensato. Cfr. sull’essenza del pensiero poetante M. Heidegger, Rammemorazione, in Id., La poesia di Hölderlin, Adelphi, Milano, 1988, pp. 95-180.

12«Ogni concetto ha un contorno irregolare, definito dalla cifra delle sue componenti. È per questo che, da Platone a Bergson, si ritrova l’idea che il concetto sia una questione di articolazione,di ritaglio e di accostamento. È un tutto, perché totalizza le sue componenti, ma è un tutto frammentario. Soltanto a questa condizione il concetto può uscire dal caos mentale che lo attende al varco e non cessa di minacciarlo per riassorbirlo». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, Torino,Einaudi, 1996, p. 23.

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tempo, un’organizzazione delle sue latitudini, una disciplinadell’immaginario, una classificazione dei frammenti del passato, sotto formadi ricordi, tracce, rilievi, per disegnare mappe e topiche in cui si eserciti ilnostro potere di saltare nel passato, installarsi nei suoi livelli, catturarlo, ericondurne alla coscienza immagini e segni. Nella memoria il “soggetto”cerca essenzialmente la sicurezza di sé, costruisce un piano stabile, in cuiinsediarsi, per penetrarne il paesaggio. I gradi di tensione della memoria e losforzo di espansione che compie per localizzare i ricordi possono però fallire.L’oblio si presenta come una rottura della nostra storia individuale14 cherivela la natura della memoria: non un deposito di cose morte, ma un campodi forze e di molteplici piani, in cui la coscienza, contraendosi edespandendosi, gioca le sue chances. «La statua glorifica il marmo» scrivevaBlanchot. La statua è però il prodotto di una demolizione, di una sottrazionedi marmo. Lo stesso si può dire dell’oblio. Ma chiediamoci: l’oblio èveramente la negazione della memoria? Nell’oblio si elimina la solidarietà tramemoria-abitudine e memoria integrale del passato, ricordi recenti e remoti? Irisultati delle indagini cliniche e delle esplorazioni filosofiche convergono:l’oblio è un sistema dinamico di strati e livelli, si articola in una molteplicitàdi modi, proprio come la memoria, ed è sempre legato ad affetti, a situazioniemotive, patologiche e normali, in cui si vive la temporalità. La potenzaselettiva dell’oblio – come avviene nell’Eterno ritorno dell’Identiconietzscheano15 – glorifica la materia del passato: gli oggetti, gli atti, i simboli,le cifre del suo passaggio, le stazioni e i transiti e i passaggi del suo snodarsi.

13«Il piano di immanenza è come un taglio del caos e agisce come un setaccio. Il caos, in realtà, non è tanto caratterizzato dall’assenza di determinazioni quanto dalla velocità infinita con cui queste si profilano e svaniscono […]. Il caos non è uno stato inerte o stazionario, non è un miscuglio casuale. Il caos rende caotica e scioglie nell’infinito ogni consistenza». Ivi, p. 51. Cfr. H.Bergson, L’évolution créatrice, ed. digit. in Classiques des sciences sociales, Chicoutimi, Université du Québec, 2003, p. 149 sul taglio (coupe) operato dall’intelligenza sul flusso del reale, sul divenire universale: «Les choses se constituent par la coupe instantanée que l’entendement pratique, à un moment donné, dans un flux de ce genre, et ce qui est mystérieux quand on compare entre elles les coupes devient clair quand on se reporte au flux». La stessa intelligenza, d’altra parte, è «ritagliata» da una realtà più vasta e creatrice, la vita come slancio, H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Milano, Raffaello Cortina, p. 48. Sull’immagine del corpo come «taglio trasversale del divenire universale» si veda H. Bergson, Materia e memoria, in Opere 1889-1896, Milano, Mondadori, 1986, p. 259.

14Cfr. H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 275.

15Cfr. infra, le note n. 42 e 43.

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L’attualizzazione dei ricordi puri, virtuali, rappresenta sempre,congiuntamente, un taglio, un’esclusione: il presente, l’attuale si colloca suun piano diverso dal virtuale, il passato puro. È inevitabile il rischio diperdita, di abbandono del passato: l’oblio. Noi non portiamo il presente nelpassato, perché esso lo è già da sempre. Scaviamo i giacimenti dellamemoria, per corroborare il nostro senso di sicurezza, la posizione disoggetto, in vista dell’azione, che può aprirsi, almeno sul piano etico“spinoziano”, ad un’avventurosa esplorazione di dimensione “cosmica”.16 Inquanto “soggetti” ci rendiamo estranei alle linee divergenti e anomale che ildivenire produce, al mondo dei viventi o cosmo in nome di un retro-mondo osovra-mondo che la metafisica spaccia per fondamento, guadagnandone inattribuzione di senso, in identità certa. Il mondo nel quale viviamo si collocain una rete che, in termini deleuziani, si può definire uno “spazio mentalestriato”, cioè gerarchizzato. Una memoria gerarchica sarà uno spazio diquesto tipo, che cerca di sradicare la possibilità stessa del fallimento,dell’abbandono all’oblio. Ma, per Deleuze, il Piano di consistenza o diimmanenza

ignora le differenze di livello, gli ordini di grandezza e le distanze […] tral’artificiale e il naturale. Ignora la distinzione dei contenuti e delle espressioni,come quella delle forme e delle sostanze formate, che esistono solo mediantegli strati e rispetto agli strati.17

Ciò può significare che è il passaggio allo spazio mentale “liscio” adincaricarsi di affrontare il disordine di un ordine fittizio (quello dellemetafisiche e dei poteri) come il suo problema principale. Il caos e l’obliodiventano la sfida della sua attività. Se Paul Ricœur, nell’operaDell’interpretazione. Saggio su Freud, ha indicato l’oblio come origine dellariflessione, situazione iniziale a partire dalla quale si possa recuperare“qualcosa che dapprima è stato perduto”, separato dall’io e divenuto estraneo,per cui ricordare diventa, in tale contesto, un compito di valenza morale,Gilles Deleuze collega invece la memoria alla fenomenologia del desiderio eall’intervento attivo della potenza di oblio, che si declina necessariamente nel

16Questa esplorazione e il pathos gioioso dell’ascesi filosofica aderiscono alla condotta di vita in cui ci si istalla nel piano di immanenza e lo si costruisce, cfr. G. Deleuze, Spinoza. Filosofiapratica, Milano, Guerini e associati, 1991, cap. 6: “Spinoza e noi”.

17G. Deleuze. F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, ed. digitale, Roma, Cooper, 2003, p. 273.

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dispositivo di memoria. La memoria inizia con uno “scarto” che è l’alba dellasoggettività e si compie nella contrazione in cui, nella coesistenza di passatointegrale e presente, essa si inverte e si converte, per vibrare verso il futuro.18

Ricordare, dunque, ha sempre a che fare con una distanza e con un divenire,cioè con il desiderio, che non è altro che un passare per i divenire, unarelazione tra due termini eterogenei che si deterritorializzano e, dal punto divista del soggetto, l’apertura ad un’altra maniera di sentire e vivere, ches’inviluppa nella nostra e la fa fuggire. Il desiderio ha, infatti, delle lineeprofonde di relazione, che congiungono il “cuore” della “piega”, cioè dellasoggettività prodotta dall’essere e messa a punto come abito e punto di vista,con il corpo. Il sopravvenire del desiderio, la sua pienezza che non manca dinulla è, allora, per noi, un evento, una cesura, un punto di disgiunzione nellaserie cronologica dei presenti, che, in un certo senso, interrompe il tempo perriprendere, con uno slittamento di senso, su un altro piano. L’evento insommasi produce nel tempo, ma non vi si riduce, costituendo un tempo vuoto omorto, condizione stessa delle serie cronologiche. Solo degli uomini“semplici”, i più “naturali”, o degli scrittori maledetti, i più possibilmente“anormali”, sembra, secondo Deleuze, che abbiano familiarità con esso,emancipandosi dalla soggezione ad un’eternità mitologica, “fuori del tempo”e trascendente. Soffermiamoci un momento sulla nozione di “piega” inrapporto alla coppia “memoria-oblio”. Non bisogna pensare, per Deleuze, lapiega a partire da un centro “puro”. La piega è un taglio dell’Essere, unareplicazione-sdoppiamento-piegatura del suo dispositivo ontologico. È ilFuori che genera un dentro.19 Lo stesso piano di immanenza, il movimentoassoluto al di là dell’oggetto e del soggetto, in Che cos’è la filosofia, non èconcepibile senza riferirsi alla piega, figura centrale del saggio su Leibniz e ilBarocco.20 Il risultato de La piega. Leibniz e il Barocco (già intravisto nel

18G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Torino, Einaudi, 2001, pp. 42-43. Ma sulla contrazione-concentrazione di energie e di emozioni-eccitazioni operata dalla memoria, che mostracosì di appartenere appieno alla dinamica del desiderio e del piacere cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 100, 106. Sull’apertura al futuro della sintesi ordinale “scardinata” del tempo, connessa alla ripetizione, vedi le pp. 119, 120-121.

19G. Deleuze, La Piega. Leibniz e il Barocco, Torino, Einaudi, 2004, pp. 73 sgg., si veda in particolare pp. 83 sgg. sul nuovo statuto del soggetto.

20«Il movimento infinito è definito da un’andata e ritorno, perché esso non va verso una destinazione senza fare già ritorno su se stesso, essendo l’ago anche il polo. […]. Il movimento infinito è doppio, tra l’uno e l’altro non c’è che una piega [...]. I diversi movimenti dell’infinito

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volume su Foucault) è la scoperta della possibilità di una nuova posizionedella soggettività come espressione del piano di immanenza. Il “residuominimo” di soggettività di Mille piani viene così, nella elaborazionesuccessiva, riletto in chiave ontologica. Che cosa accade? Avvolgendosi,piegandosi, ripiegandosi su di sé, l’Essere definisce, con il limite, anche undentro, a partire dal quale il pensiero svolge ciò che avvolge, dal dentro alfuori. Il pensiero si flette perché riflette le forze del fuori, la cui attivitàdefinisce un limite. La riflessione diventa il prodotto di un rapporto di forze,in cui il dentro e il fuori si forzano e si sforzano:

Il momento più profondo dell’intuizione è dunque quello in cui il limite èpensato come piega, e in cui di conseguenza l’esteriorità si rovescia ininteriorità. Il limite non è più quel che intacca il fuori, ma una piega del fuori.È un’auto-affezione del fuori (o, il che è uguale, della forza […] il limitecomune delle forze eterogenee, che esteriorizzano completamente gli oggetti ole forme, è l’azione stessa dell’Uno come piegamento di sé.21

L’identità di pensiero ed essere, invocata da tanti pensatori comeprincipio dell’ontologia, diventa così possibile, e dunque reale, quando essodiventa una piega, «la cui essenza vivente è la piega dell’Essere».22 Questointreccio modifica lo statuto dell’intuizione filosofica, la funzione dellamemoria e dell’oblio, con inevitabili connessioni che, a partire dall’idea di“soggettivazione”, si riflettono sulla concezione del tempo, che si emancipadal movimento in senso fisico-matematico, e sulla concezione del mondo, chesi emancipa dalla trascendenza.23 L’interiorità diventa uno spazio del dentro,co-presente e coestensivo allo spazio del fuori, sulla linea della piega e cessadi presentarsi come un principio ontologico indipendente dall’Essere

sono talmente mischiati gli uni con gli altri che, lungi dal rompere l’Uno-Tutto del piano di immanenza, ne costituiscono la curvatura variabile, le concavità e le convessità e, in qualche modo, la natura frattale». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 47 (il corsivo è nostro, cito dall’ed. dig.).

21A. Badiou, Deleuze, il ‘clamore dell’essere’, Torino, Einaudi, 2004, p. 218 (cito dall’ed. dig.).

22Ivi, p. 219.

23La linea anticartesiana di Deleuze non scende a patti né con l’idealismo né con la fenomenologia: la piega non si può scambiare per l’Io dell’idealismo o della fenomenologia e rompe altresì con la tradizione neoplatonica e agostiniana-creazionista di un’origine unitaria (e trascendente) del tempo.

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univoco24 nella piega, diventando il raddoppiamento, la piegatura del fuori inun dentro. Ora, nella piega, è l’Essere stesso che si fa Memoria, memoria disé e del mondo, integrale memoria del passato o intuizione della Durata. Laformula rinvia alla riflessione bergsoniana,25 che Deleuze accoglie e di cuiformalizza l’impianto immanentistico. L’essere del Tempo, in cui la Memoriaè iscritta, si “soggettivizza” grazie alla piega e sotto la condizione della piega,ma la memoria non può più in nessun caso considerarsi un’attività delsoggetto, sottoposto com’è, in quanto isola di ordine, punto di vista, alcontinuo costruirsi e svanire e ridotto, quindi, ad una forma in continuaformazione-deformazione: inflessione, piegatura, spiegatura, ripiegatura delFuori. Non si tratta più soltanto, come avveniva in Mille piani,26 di conservareun’oncia di soggettività, necessaria a quel “piano di immanenza”, che tendead assorbire la Terra, il cui compito è il taglio del caos delle forze deldivenire. Si tratta invece di risolvere la soggettività, che si dilata e si contraenel ricordare, nell’ontologico puro o nell’essere in sé, il Virtuale del passato.27

L’Essere si dà dunque come Memoria o meglio come Durata. Lamemoria non è la creazione di un soggetto ipostatizzato e di un’interioritàpresupposta e trascendente gli eventi, come in Platone, che

24Sulla tesi ontologica dell’Univocità dell’essere in rapporto alla ripetizione dell’Eterno ritorno si veda G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 53-61.

25Si veda H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 258-259 per la distinzione tra due memorie, la memoria-abitudine, “fissata nell’organismo” e condizionata dall’adattamento alla situazione presente e la vera memoria “coestensiva alla coscienza” che evoca l’esperienza passata, svincolandosi dal presente e dai suoi meccanismi. Cfr. sul rapporto soggetto-oggetto, memoria-percezione, e quindi spirito-materia, il ruolo centrale della concentrazione-contrazione della memoria che collega le visioni istantanee, spaziali, del reale, ivi, pp. 192-193.

26G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., pp. 583-584: «Dell’organismo bisogna conservare quanto basta perché si riformi a ogni alba; […] bisogna conservare piccole razioni di soggettività, in quantità sufficiente per poter rispondere alla realtà dominante. […] Siamo in una formazione sociale; vedere innanzitutto come è stratificata per noi, in noi, nel posto in cui ci troviamo; risalire dagli strati al concatenamento più profondo in cui siamo presi; far capovolgere il concatenamento con molta precauzione, farlo passare dalla parte del piano di consistenza».

27G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, cit., p. 45; cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 119. L’abitudine a ricondurre ogni manifestazione della memoria al presente, alla presenza e al riconoscimento del ricordo ci confina nel regno della psicologia, dell’io o dell’Es, e della sua temporalità, Chronos, ma nulla ha a che fare con la concezione bergsoniana e deleuziana della durata.

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mette il tempo nel concetto ma questo tempo deve essere l’Anteriore.Costruisce il concetto ma come testimone della preesistenza di un’oggettività,sotto forma di una differenza di tempo capace di misurare la distanza o laprossimità dell’eventuale costruttore. […] La verità si pone come presupposta,come già esistente.28

Uscire dalle nomenclature concettuali del platonismo, rovesciare le suescatole vuote, confutarne le pretese di verità è l’esigenza imperativa diDeleuze. Gli Universali della metafisica sono soltanto grida nel deserto,vibrazioni minime, movimenti di palpebre in una fossa oceanica. Ladimensione di “piega” della soggettività, emancipata dalla trascendenza edall’ordine plurivoco (o “analogico”) dell’essere, si appresta alle sue catture,alle sue “cacce sottili”, ai tagli delle forze caotiche del divenire nel piano diimmanenza, che

i concetti popolano senza dividere […]. Il piano assicura il raccordo deiconcetti con delle connessioni in perenne aumento e i concetti assicurano il

popolamento del piano su una curvatura sempre rinnovata, sempre variabile.29

La soggettività, si è visto, non scompare, ma riforma radicalmente sestessa, si configura nella dimensione virtuale dei suoi divenire, dei suoi flussie delle sue metamorfosi.30 Gli io si confermano esistere soltanto come«soggetti larvali».31

Punto di oblio

Ogni vita è, si capisce, un processo di demolizioneG. Deleuze, F. Guattari, Millepiani

Avviciniamoci alla memoria, a quella memoria pura che è tangente nonsoltanto al piano della percezione presente, secondo la nota immagine del

28G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 37.

29Ivi, p. 44.

30«I flussi d’intensità, i loro fluidi, le loro fibre, i loro continua e le loro congiunzioni d’affetti, il vento, una segmentazione fine, le micropercezioni hanno sostituito il mondo del soggetto. I divenire, divenir-animali, divenire-molecolari, prendono il posto della storia, sia essa individuale o generale». G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 587.

31G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 106.

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“cono rovesciato”32 ma anche al punto di oblio,33 da cui parte la strategia diattacco del complotto (la “pretesa”) in cui il soggetto-piega opera, con ladisposizione d’animo della sorpresa, con la velocità infinita del Pianod’immanenza. Il soggetto minoritario non cessa, malgrado tutto, di svolgere ilsuo ruolo e non si dissipa senza residui nei flussi di divenire.34 La coppiacategoriale striato-liscio (attribuita allo “spazio”, ma ad uno “spaziomentale”) di Mille piani, consente infatti di ridefinire i rapporti della memoriacon l’oblio. In particolare lo spazio mentale liscio o nomadico significacancellazione dei ricordi, l’oblio relativo e la negazione-scomposizione dellasua organizzazione arborescente o striata. Ogni sedimento di memoria striataè connesso sia al “punto di vista” in cui il soggetto ha voce, che allo slanciodi un sorvolo assoluto, alla velocità infinita del Piano di Immanenza. Sipresenta così, nell’attualizzazione dei ricordi, in tutta la sua forza, quelradicamento della memoria nel territorio dell’oblio, da cui si generano le lineeirregolari e le asimmetrie della memoria. Forse l’oblio non si può più pensare,secondo la celebre immagine dell’Introduzione alla Metafisica di Bergson,come un “fondo” inerte dal quale i ricordi affiorano per guadagnare lasuperficie (la coscienza), né come un limite che minaccia la memoria. Esso èpotentemente attivo nel piano in cui la memoria opera il taglio dei ricordi econnette il passato recente con la memoria profonda, accessibile soltanto, neisuoi livelli molteplici e nei piani in cui cerchiamo di collocarli, nel sogno. Ilcarattere di flusso della realtà pura, la Durata, che incontriamo, secondoBergson, procedendo dalla periferia verso il centro del soggetto, è infatti

32H. Bergson, Materia e memoria, cit., pp. 259-260.

33Il mutuo appoggio, la solidarietà tra memoria-abitudine del corpo e dei suoi meccanismi senso-motori e vera memoria del passato (dei ricordi in sé) non è garantita per Bergson che dalla normalità, cioè dall’equilibro degli individui ben adattati alla vita, cfr. ivi, p. 260. La sfera del patologico e della sperimentazione-costruzione di vita dell’arte (o della filosofia in senso deleuziano) ne sono dunque escluse. Se la parte immediata del passato che, proteso sul futuro lavora per realizzarlo e annetterselo, può essere schiarita dal bagliore della coscienza, il resto, afferma Bergson, «rimane nell’oscurità», ivi, p. 258.

34G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 588. Con riferimento al libro di Carlos Castaneda sugli insegnamenti esoterici di Don Juan, Deleuze e Guattari scrivevano: «Non è più un Io che sente, agisce e si ricorda, è “una bruma brillante, una nebbia gialla e scura” che ha affetti e prova movimenti, velocità. Ma l’importante è che non si disfa il Tonal distruggendolo di colpo. Occorre diminuirlo, restringerlo, pulirlo e per giunta soltanto in certi momenti. Occorre conservarlo per sopravvivere, per poter sventare l’assalto del Nagual» (corsivo nostro).

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prima e fuori del taglio dei ricordi (“cristalli ben tagliati”) e della superficiedelle percezioni di oggetti. La continuità di flusso fa sì che gli stati successivisi prolunghino l’uno nell’altro35 e siano più simili all’arrotolarsi «come quellodi un filo sul gomitolo»36 in cui si costruisce la coscienza, cioè la memoria,con un’operazione nella quale la contrazione-tensione della “piegatura”assume un rilievo essenziale. Per Deleuze l’immersione nel caos del divenirespinge la memoria a varcare i bordi dell’oblio, a forzarne i limiti.Nell’inseguire i ricordi siamo inseguiti dall’oblio e incapaci di manteneredurevolmente la nostra direzione di viaggio, centrata sul presente di un ordinecardinale del tempo.37

La conoscenza si conferma essere un taglio (una coupure)38 del divenire:ciò che si conosce è circoscritto dal divenire caotico, ciò che si ricorda ècircoscritto e definito dall’oblio, relativamente impenetrabile. Il caos mentalenon cessa di esercitare la sua presa. La stessa biografia dei romanzi – laletteratura lo testimonia – e, aggiungiamo, quella continua biografia chescriviamo di noi stessi in ogni concatenamento, non riproduce e salva, maelimina e demolisce porzioni del passato, ripetendolo su livelli e modalitàsempre nuovi. La critica senza sconti del platonismo e della sua anamnesi,della psicoanalisi col suo psicologismo, mira alla costruzione speculativa diun percorso di uscita da tali territori:

Dove la psicoanalisi dice: Fermatevi, ritrovate il vostro Io, bisognerebbe dire:Andiamo ancora più lontano, non abbiamo ancora trovato il nostro CsO [Corposenza Organi], non abbiamo ancora disfatto abbastanza il nostro Io. Sostituitel’anamnesi con l’oblio, l’interpretazione con la sperimentazione. Trovate ilvostro corpo senza organi, sappiatelo fare, è una questione di vita o di morte,di giovinezza e di vecchiaia, di tristezza e di allegria. Ed è qui che tutto sigioca.39

35H. Bergson, Introduzione alla Metafisica, Laterza, Bari, 1983, p. 48.

36Ibidem.

37Il presente, nella sua posizione intratemporale, non è altro che «la concentrazione massima di tutto il passato» con cui coesiste e che coesiste in sé (G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 111) e appartiene al tempo cronologico.

38G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 21.

39G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 553 (corsivo nostro).

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Il paradigma del rizoma o del “corpo senza organi” elabora una viad’uscita nel movimento del nomadismo, il viaggio continuo e immobile in cuiè possibile sperimentare e costruire la soggettivazione, al di là di ogniorganizzazione e fissazione:

Consideriamo i tre grandi strati rispetto a noi, cioè quelli che ci imprigionanopiù direttamente: l’organismo, la significanza e la soggettivazione. Lasuperficie d’organismo, l’angolo di significanza e d’interpretazione, il punto disoggettivazione o d’assoggettamento. […] Sarai un soggetto, e fissato cometale, soggetto d’enunciazione ripiegato sopra un soggetto d’enunciato,altrimenti non sarai che un vagabondo. All’insieme degli strati, il CsO [Corposenza organi] oppone la disarticolazione (o le n articolazioni) come proprietàdel piano di consistenza, la sperimentazione come operazione su questo piano(nessun significante, non interpretate mai!), il nomadismo come movimento(muovetevi anche stando fermi, non cessate di muovervi, viaggio immobile,desoggettivazione).40

Due memorie: lunga e corta

La filosofia deleuziana liquida

l’immagine classica del pensiero e [del]la striatura dello spazio mentale cheessa opera […] con due “universali”, il Tutto come ultimo fondamentodell’essere od orizzonte che ingloba, il Soggetto come principio che convertel’essere in essere per-noi. Imperium e repubblica. Fra l’uno e l’altro, tutti igeneri del reale e del vero trovano il loro posto in uno spazio mentale striato,dal duplice punto di vista dell’Essere e del Soggetto, sotto la direzione di un“metodo universale”.41

Confutata la tesi di un’appropriazione da parte del Soggetto umano dellaRealtà del passato (la Durata è l’essenza variabile delle cose, come insegnaBergson nel primo capitolo di Materia e memoria), Deleuze accoglie ladivisione di due memorie: lunga e corta, arborescente e rizomatica. Lamemoria corta non comprende soltanto la dimenticanza, l’oblio, nel suoprocesso, ma, si potrebbe dire, che fa centro sull’oblio, cioè contrae,concentrandola al massimo, quella memoria del passato che saltando eistallandosi in esso, cioè dilatandosi, ha conquistato, secondo una

40Ivi, p. 579.

41Ivi, p. 1306.

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modulazione e un’inclinazione asimmetrica. Le due modalità di memoriasono molto diverse:

Ora la differenza non è soltanto quantitativa: la memoria corta è del tiporizoma, diagramma, mentre la lunga è arborescente e centralizzata (impronta,engramma, calco o foto). La memoria corta non è per nulla sottomessa a unalegge di continuità o di immediatezza con il suo oggetto, essa può essere adistanza, venire o rivenire molto tempo dopo, ma sempre in condizioni didiscontinuità, di rottura e di molteplicità. Ancor più, le due memorie non sidistinguono come due modi temporali di percezione della stessa cosa; non è lastessa cosa, non è lo stesso ricordo, non è neppure la stessa idea che colgonoentrambe.42

La memoria corta rappresenta, paradossalmente, l’oblio, ladimenticanza, rispetto alla memoria lunga. Essa non ricorda ciò che ricorda lamemoria lunga e non si confonde con l’istante presente, ma con il rizomacollettivo, temporale e nervoso.43

Liscio e striato, curvatura del tempo

Ciò che si “salva”, nella memoria, sembra dunque salvarsi grazieall’oblio, attraverso l’oblio. Il momento migliore della memoria è la suacurvatura, la sua conversione, la sua vocazione “liscia”, l’emissione delle suegrida.44 Tale lisciatura dello striato appare agli occhi della normalità come unacancellazione, una demolizione dei ricordi, un passo indietro,apparentemente, della memoria rispetto alla potenza dell’oblio. La memoriavi guadagna invece il suo modo di essere più proprio, la sua virtualitàpotenziata. Mostra di possedere il potere di svincolarsi dalla ricostruzione delpassato e dal mero riconoscimento nel presente del ricordo. Tale forzatura è il

42Ivi, p. 103. Sulla memoria in rapporto al tempo soggettivo e al tempo vissuto in patologia si veda E. Borgna, Noi siamo un colloquio, Milano, Feltrinelli, 1999, p. 62 e passim, testo ricco di suggestioni filosofiche e letterarie, che conferma, con l’esperienza clinica, la tesi delle molteplicità di memoria.

43«La memoria lunga (famiglia, razza, società o civiltà) ricalca e traduce, ma ciò che traduce continua ad agire in essa, a distanza, in contro tempo, “intempestivamente”, non istantaneamente». G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 103.

44Sono le stesse grida lanciate da Spinoza: «voi non sapete ciò di cui siete capaci, nel bene enel male, non sapete in anticipo ciò che può un corpo o un’anima, in un dato incontro, in una data concatenazione, in una certa combinazione». G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, cit., p. 270.

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suo potere di oblio, di cancellazione rispetto alla memoria-ricordo.L’orientamento inverso del Tempo, d’altra parte, in direzione del futuro e nondel passato, è sempre immanente alla sua attività. Il presente, non più unadimensione del tempo tra due altre dimensioni del tempo, è vòlto in direzionedel futuro come attesa e costruzione e si immerge nel passato. La memoria,come ricordo puro, sempre virtuale, non si disloca nel presente ma vale, percosì dire, per l’insieme del tempo. È la memoria-mondo, liberata dallaprigionia della psicologia individuale, in forza 1) della stessa de-soggettivazione relativa del “punto di vista”, che la dottrina della “piega” hamesso a punto e 2) dell’incrinatura che la memoria corta, liscia, producenell’edificio apparentemente inattaccabile della memoria lunga, striata.

L’Immagine-tempo di Bergson, che la cinematografia contemporanea haattuato nell’arte, si presenta così completamente emancipata dal mito dellaVerità e dal Movimento preordinato e auto-celebrativo in cui si costruisce lacatena concettuale delle metafisiche, la processione delle loroipostatizzazioni. Nell’immagine-tempo il Tempo diventa la declinazionemolteplice degli eventi, la curvatura-contrazione, il movimento delleindividuazioni all’interno del Piano di Immanenza o dell’Uno-Tutto.

Oblio e memoria

Ricorda il tempo, quando la notte saliva al monte con noi,ricorda il tempo,

ricorda che io ero ciò che sono:un maestro delle torri e prigioni,

un alito nei tassi, un bevitore in mare,una parola su cui bruciando ti accasci

Paul Celan, Acqua e fuoco

La vera memoria non è percezione, né abitudine o memoria del corpo,ma memoria “pura”, che conserva l’indistinzione e la coesistenza di tutti imovimenti del tempo. Come Memoria-mondo sembra che la memoria, nellesue direzioni imprevedibili, sia debitrice dell’orgiaco (che ricorda l’aorgicohölderliniano45) o del Chaos, sino al punto di sorvolo in cui cessa di essere

45Cfr. sul rapporto tra Tempo, Ripetizione, Eterno ritorno G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 120-121. Il tempo come forma pura e “vuota” diventa il protagonista dell’eterno ritorno come «circolo decentrato della differenza» in cui la forma del tempo sta per la rivelazione dell’informale (nell’accezione

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prossima ad una individuazione, ad una “ecceità”, per rivendicare la totalitàdel Tempo. In sintesi: la Memoria o il Tempo senza dimensioni e senzamisura del movimento è ciò che si attua attraverso la forzatura, lamanipolazione, la resezione di frammenti seriali, che imprigionano gli eventiin un ordine dicibile, narrabile, in funzione delle istanze dell’azione presente.Essa opera inevitabilmente l’azzeramento, la “lisciatura” di quello spaziomentale striato nel quale il tempo e la memoria-mondo si traducevano inrappresentazione, secondo le pretese del soggetto di coscienza. La stessaforzatura dell’immagine-ricordo, immessa nella sfera molare e striata, viene“piegata”, riconducendola al piano liscio, al molecolare, e ricondotta allamemoria creatrice. Nella Durata, come pensiero dell’Essere, l’intero passato èmobilitato e l’intero Tempo è convocato, per coincidere, allora, con l’Eterno:gli eventi si riuniscono (svaniscono) nella Durata.46 Quando una memoria“gigantesca”, “totale”, prende il posto della memoria “psicologica” ecoincide, come durata pura, non temporale, con il Tutto virtuale e aperto deltempo, il Tempo stesso diventa la verità, così che ogni presente (e ogniricordo del passato ricondotto al presente) viene azzerato, cade nell’oblio.Nulla si perde. Ogni passato (un passato reversibile e illimitato perchévirtuale, che vibra nell’attesa di futuro47) si “conserva”, virtualmente, nellaMemoria totale. Il Tempo-Soggetto inaugura, nel dispositivo di potenza chevirtualizza il passato totale, l’irruzione del futuro. Tutti gli oggetti, imovimenti, i piani che tagliano il caos perdono allora i loro contorni nelladurata pura e si riuniscono nella concentrazione massima della memoria.

Il Tempo non ha cronometri che lo registrino, né bilance che possanopesarlo né metri e scale matematiche di misurazione. Ci invita a salire sullasua altalena e ad oscillare tra prossimità e distanza, congiunzione e

hölderliniana) nell’eterno ritorno (ivi, pp. 122-123). Si veda F. Hölderlin, La morte di Empedocle, Milano, Garzanti, 1998 e M. Piermarini, Diotima, Introduzione all’Iperione di F. Hölderlin, Massarosa, Del Bucchia, 1998, cap. I.

46Aìon, il tempo indefinito dell’“evento”, è il tempo paradossale, la linea instabile che conosce solo le velocità. Esso fonda Chronos, il tempo cronologico, secondo la distinzione stoica ripresa da Deleuze, cfr. F. Zourabichvili, Le vocabulaire de Deleuze, Paris, Ellipses Édition, 2003, alla voce “Aiôn” e G. Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli, 2009, pp. 134-135 sulla coppia Kronos-Aion. Cfr. anche G. Deleuze, F.Guattari, Mille piani, cit., p. 898.

47Lo stesso circolo dell’Eterno ritorno «non fa ritornare che l’a-venire» (ivi, p. 122) e nella terza e ultima sintesi del tempo «il presente e il passato non sono più a loro volta che dimensioni dell’avvenire: il passato come condizione, il presente come agente», ivi, p. 123.

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separazione, memoria ed oblio. Cullati dal suo movimento, assumiamo ilritmo dei nostri piegamenti, cerchiamo di fonderci con il suo slancio. Nonpossiamo scendere dall’altalena, ma possiamo partecipare alle intensità delsuo dondolio. Il nostro corpo diventa allora la punta dello slancio dellamateria che avanza nel tempo, nel suo movimento puro. Questo slanciogenera serie divergenti. Ci è data allora una chance: incidere nella nostracarne-corpo il marchio del rifiuto della “biografia”, che in ultima istanza è uncerimoniale di morte, un legame tra inumazione, memoria, compimento diuna vita singola e rappresentazione artistica (M. Bachtin). Possiamo cioèattivare le strategia del nascondimento, dell’occultamento, per mezzo dellacancellazione della memoria, l’interruzione delle sue cerimonie. Infine, coldispositivo della simulazione teatrale barocca – penso soprattutto a El eroe diBaltasar Gracian e al rapporto tra segreto, eccesso e sovranità della volontà –ci è data un’altra chance: avviare il complotto dei nostri desideri, dei nostriprocessi emergenti e svilupparne la virtualità in potenza. La dimenticanza,frutto amaro della seduzione dell’oblio, immanente alla stessaconcentrazione-tensione della memoria, è sempre un rifiuto o prepara unrifiuto, un giudizio in cui si condanna la celebrazione del passato al suo luttolamentoso. La volontà di ricordare, di trovare un termine in cui laricostruzione-scrittura del passato si compia, è sempre legata all’idea dellamorte e della tragica contraddizione «tra l’infinità della vita e la finitezzadella vita umana», manifestazione particolare di quella tra codice genetico el’essere individuale dell’organismo (J. Lotman).48 In essa si celebra il trionfonefasto di quella tristitia, ragione del passaggio ad una minore perfezionedella mente, che genera la melanconia.49 L’oblio è sempre, comesconnessione tra i livelli di memoria e tentativo fallito di aggancio tra i suoipiani molteplici, interruzione dei ricordi, l’azzeramento che consentel’apertura al nuovo, l’interruzione della “storia” individuale,50 il punto in cui

48Cfr. J.M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità, Milano, Feltrinelli, 1993, pp. 199-200.

49B. Spinoza, Etica, III, prop. 11, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 181.

50Alain Badiou, in dissenso con Bergson e Deleuze circa il primato della Memoria scrive: «Ma se il “c’è” (“il y a”) è pura molteplicità, se tutto è attuale, se l’Uno non è, non è più dal lato della memoria che bisogna cercare la verità. La verità è al contrario carica di oblio, è addirittura, al contrario di quanto pensa Heidegger, l’oblio dell’oblio, l’interruzione radicale, catturata nella sequenza dei suoi effetti. E questo oblio non è oblio di questo o quello, ma l’oblio del tempo stesso, il momento in cui viviamo come se il tempo (questo tempo) non fosse mai esistito. O se

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la vita riprende sempre il suo slancio, si rianima, attiva e attua le suevirtualità, le modula secondo altre linee di sviluppo e altri flussi. Prendecommiato da quel passato, che, con la sua massiccia presenza sullo sfondo,sembra imprigionare le nostre energie. È un abbandono. Ma l’abbandono chesignifica un lasciare, un consegnare a sé ciò che impetrava un segno, unarappresentazione accettabile.51 La memoria e l’oblio, insieme, costruiscono edecostruiscono trame, organizzano complotti, cui si dà il nome di “io”.Declinano un processo il cui soggetto spesso non è assegnabile o si riduce aduna fluttuazione. La letteratura ne è testimone: si presenta come un teatrointerno, una rappresentazione che seleziona personaggi e azioni, taglia flussi emobilizza istanti vissuti espandendoli, ripetendoli, contaminandoli con serieeterogenee di “ricordi-stati dell’essere”, attraverso l’ablazione, la consegnaall’oblio. Essa cattura, attua un concatenamento, che lega degli eterogenei eforma quel teorema di deterritorializzazione in cui ciascuno dei termini odegli individui biologici, sociali, noetici si riterritorializza sull’altro, senzaimitazione e senza somiglianza, entrando in rapporti variabili che ne operanola trasformazione. Questa selezione52 della memoria sulla linea dell’oblio53 èuna costruzione, in termini di individuazione, del tempo che si dice ritrovato

vogliamo, in linea con la profonda massima di Aristotele, dato che l’essere comune a ogni tempo è la morte, come se fossimo immortali»” (A. Badiou, Deleuze, il ‘clamore dell’essere’, cit., p. 159). Il tempo vuoto o istantaneo (Aion) dell’evento deleuziano sembra rispondere a tale esigenza di radicale novità senza sdoppiare il reale in eternità (trascendente) e temporalità.

51«Ogni movimento percorre tutto il piano facendo immediatamente ritorno su se stesso, piegandosi ma anche piegandone altri o lasciandosi piegare, generando delle retroazioni, delle connessioni, delle proliferazioni, nella frattalizzazione di questa infinità infinitamente ripiegata (curvatura variabile del piano)». G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia, cit., p. 48.

52Evidente il riscontro con il carattere selettivo che assume la dottrina nietzscheana dell’Eterno ritorno dell’identico, la cui forza centrifuga espelle, nella ripetizione, il nichilismo e ogni negatività e passione triste (cfr. G. Deleuze, Nietzsche, Milano, SE, 1997, pp. 36-37) per elevare il molteplice e il divenire alla più alta potenza, che genera la gioia del diverso come «il soloimpulso a filosofare» (ivi, pp. 33-34). Ma cfr. Henri Bergson, che considera i ricordi celati nelle profondità oscure dei “fantasmi” che, nel sonno, nella notte dell’inconscio, eseguono una danza macabra e vogliono accedere alla “porta” che sta per schiudersi della coscienza, «Ma non possono. Sono troppi». H. Bergson, Il sogno, in Id., L’energia spirituale, Milano, Raffaello Cortina, 2008, pp. 195-197, ed. dig.

53Il dimenticare non è il segno di una privazione, ma una risorsa del ricordare, ossia selezionare. Ma la selezione diviene, dal punto di vista del divenire, possibile soltanto come Ripetizione, nel rapporto tra volontà di potenza ed eterno ritorno. Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi, 2002, pp. 101-107.

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dalla coscienza. Essa giustifica la molteplicità di memorie possibili e la stessadivaricazione tra memoria lunga e corta. La memoria in realtà dispiega le suelinee divergenti, proprio a partire da ciò che cancella. L’omesso, il rimosso,l’innominato, il non-detto costituiscono il punto di forza, di massimaconcentrazione e di discriminazione tra ricordo-oblio. Paradossalmente ilpieno di conoscenza del passato, la sua virtualità, è anche, sempre, il suovuoto, la sua attualità. Soltanto allo stato virtuale i ricordi, che esistono in sé,si “conservano” sul piano ontologico, ma non sempre si attualizzano su quellopsicologico. La coesistenza bergsoniana delle dimensioni del tempo (o deitempi) esige anche la coesistenza e l’interazione di memoria e oblio. Lapotenza di oblio-memoria trascrive nella “scrittura” gli eventi sacrificandonemigliaia in nome di un singolo, di una singolarità, di una ecceità. Senzariferirci al sogno, in cui è evidente la condensazione di segni, azioni epersonaggi sulla base della cancellazione di molte identità e contrassegnioriginari, troviamo numerosi esempi di questo processo in letteratura.54

La memoria molecolare, minoritaria ed estremamente concentrata delloscrittore non si occupa più di storie individuali e di ricordi, ma di blocchideterritorializzati:

Il divenire è un’anti-memoria. Probabilmente c’è una memoria molecolare, macome fattore di integrazione a un sistema molare o maggioritario. Il ricordo hasempre una funzione di riterritorializzazione. Un vettore dideterritorializzazione, invece, non è per nulla indeterminato, ma in presadiretta sui livelli molecolari e tanto più in presa quanto più è deterritorializzato:è la deterritorializzazione a far “tenere” insieme le componenti molecolari.55

La memoria “pura”, erroneamente riferita ad un soggetto psicologico,normale o patologico, esiste soltanto, in sede ontologica, come essere in sédel Tempo. La memoria liscia, proprio perché “impura”, non subisce ascesi,non disciplina i suoi slanci, non moltiplica rinunce. Non si consegna alle

54I personaggi, i luoghi e i nomi, evocati nella Recherche da Marcel Proust, costituiscono una macchina di oblio, un’esplosione di silenzio e di non-detto in cui il loro potere rappresentativo si riproduce. Lo stesso avviene in Virginia Woolf per i ricordi d’infanzia. Nella sua scrittura «si oppone un blocco d’infanzia, o un divenire-bambino, al ricordo d’infanzia: “un” bambino molecolare è prodotto […] “un” bambino coesiste con noi in una zona di vicinanza o in un blocco di divenire, su una linea di deterritorializzazione che ci trasporta entrambi – contrariamente al bambino che siamo stati, di cui ci ricordiamo o fantasmiamo, il bambino molare di cui l’adulto è l’avvenire» G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani, cit., p. 997.

55Ivi, p. 997.

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passioni tristi, ma contrae le eccitazioni del desiderio contemplandole, nelruolo insieme di Narciso e di Atteone.56 Non si riduce all’immediatezza dellabruta natura, dello strato inorganico, ma si mischia ai corpi e agli affetti, ailuoghi e ai percetti, agli ambienti e alle fisionomie in cui si individuano iflussi, li avvolge, li incorpora e si traduce in essi. Il linguaggio, da parte sua,tradisce il reale-visibile e presenta i suoi enunciati come codificazioni, inrealtà prodotte da una selezione che scaturisce soltanto in rapporto ad unapotenza di oblio. La stessa scrittura, secondo Blanchot, è oblio e morte.L’individuo umano non è affatto «l’arca intima e pura di tutte le cose, ilrifugio in cui esse si mettono al riparo», ma colui che le immerge «in undiluvio più profondo, in cui scompaiono in modo prematuro e radicale».57

Pensiamo alla forza di annichilimento, vero trionfo dell’oblio, della poesia diCelan. La scrittura è il silenzio. La sua lingua è la lingua straniera di chi dà lamorte. Non cifra il dicibile ma lo cancella. Nessuno e niente è il suo campo.La storia di nessuno e di niente. Il non-luogo di nessuno e di niente: «noi unNulla / fummo, siamo resteremo, fiorendo: / la rosa del Nulla, / la rosa diNessuno».58 L’omissione della parola, la dimenticanza – il silenziodell’esistenza, l’oblio della memoria – segnano degli scarti dell’essere. Conessi si replica il rifiuto di nominare l’essere e gli enti e di sacrificaresull’altare della rappresentazione, del racconto-storia, la velocità “infinita”del Tempo e i flussi asimmetrici della sua memoria.

56G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 101.

57M. Blanchot, Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1975, p. 119.

58P. Celan, Salmo, in Poesie, Milano, Mondadori, 1999, p. 379.

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DIMENTICARE

itinerari

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Giuseppe D’Acunto

Mnemosine e Lete

Weinrich a proposito di oblio e memoria

Nel 1997, Harald Weinrich (1927) pubblica il volume: Lethe. Kunst und

Kritik des Vergessens (Lete. Arte e critica dell’oblio).1 Nella «Premessa», egli

muove da una definizione dell’uomo come quell’«animale che dimentica

(animal obliviscens)» (L VII). Per cui ritiene necessaria una ricognizione tesa

a valorizzare non solo l’arte dell’oblio, ma anche la critica che, nel corso del

tempo, ad una tale arte è stata mossa.

Riguardo al primo punto, Weinrich parte dall’interrogare la «saggezza

discreta» che è implicita nell’uso linguistico ordinario dei termini che

afferiscono alla costellazione semantica dell’oblio. Si inizia con il latino

oblivisci, un verbo che, per le sue caratteristiche strutturali, ben si addice al

significato che esso veicola. In quanto deponente ha, infatti, una forma

passiva e un contenuto semantico attivo, esattamente come il dimenticare «si

trova in una posizione intermedia tra attività e passività» (L 7). Ma, nella

nostra lingua, accanto al verbo “obliare”, da tempo sono di uso comune anche

altri due verbi: “dimenticare”, nel senso di perdere dalla mente o dalla

memoria, e “scordare”, nel senso di perdere dal cuore. Per cui, colpisce come,

1 Tr. it. di F. Rigotti, il Mulino, Bologna 1999. D’ora in poi, le citazioni tratte da questa opera sarannoinserite direttamente nel testo, con indicazione della pagina, preceduta dalla sigla L. Iniziamo ricordando anche che una bibliografia completa della produzione scientifica di Weinrich, dagli inizi (1956) fino al 2006, dove sono elencati ben 308 titoli, si trova nel volume che comprende la sua Lectio magistralis, tenuta presso l’Università di Cagliari, in occasione del conferimento della laurea honoris causa in Lingue e Letterature Moderne Euroamericane: Quante lingue per l’Europa?, a cura di F. Ortu, Cagliari, CUEC, 2006, pp. 37-95.

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nella lingua italiana, in particolare, «le espressioni […] per oblio siano

illuminate da una luce negativa».2

Una differente prospettiva presentano, invece, le lingue germaniche. In

inglese, ad esempio, (to) forget è composto da get, ricevere, e dal prefisso

for-, con cui si produce una conversione del movimento verbale “da” nel

movimento, opposto, “verso”. Abbiamo così il significato di «“ricever via

(qualcosa)” nel senso di allontanare», il quale è «già quasi una definizione di

oblio» (L 9). Costruzione, questa, la quale, in modo meno evidente, sta alla

base anche del verbo tedesco vergessen [= Weg-(be)kommen].

Il termine “dimenticare” tende, inoltre, ad essere frequentemente associato ad

espressioni modali, per cui si viene a produrre un autentico gioco di incastro

nella lingua, nel senso che la negazione lessicale della memoria, rappresentata

dall’oblio, può essere raddoppiata da una seconda negazione che produce un

significato, questa volta, affermativo.3

Passando a prendere in considerazione la metaforica dell’oblio, Weinrich nota

che essa è strettamente imparentata con quella della memoria. Nel senso che,

laddove la seconda sta per un paesaggio rigoglioso naturale, il primo sta,

invece, per un tratto desertico «in cui le cose da dimenticare vengono soffiate

via dal vento» (L 11). Oppure, laddove la memoria si è data,

tradizionalmente, come referente l’immagine del libro, l’oblio si è

configurato, invece, come una lacuna nel testo, un vuoto che va sì riempito,

2 Weinrich ha delucidato i significati che i termini italiani mente e memoria rivestono in Dante, dove ricoprono due campi semantici ben distinti l’uno dall’altro, nel suo La memoria di Dante, Firenze, Accademia della Crusca, 1994, pp. 9-10. Sotto lo stesso titolo, questo testo è stato poi ripreso in H. Weinrich,Il polso del tempo, a cura di F. Bertoni, tr. it. di F. Bertoni, D. Giglioli, D. Meneghelli, C. S. Nobili, F. Vittorini, F. Cilia e A. Zagatti, Firenze, La Nuova Italia, 1999, pp. 23-45.

3 Circa il fatto che la linguistica, fino ad oggi, si è occupata poco delle strategie della negazione, all’interno del discorso, si veda anche H. Weinrich, Lingua e linguaggio nei testi, tr. it. di E. Bolla, Milano, Feltrinelli, 1988. Qui leggiamo che bisognerebbe cercare di rimediare ad una tale carenza, «tramite l’immissione [nella linguistica] di più logica e forse anche tramite una maggiore severità nella formalizzazione» (p. 81).

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ma che, al tempo stesso, «rende enigmatico e interessante proprio il testo

lacunoso» (L 13).

Con l’evoluzione della funzione dello scrivere, si sono modificate poi anche

le metaforiche della memoria e dell’oblio. Dimenticare qualcosa di scritto

sulla carta è diventato sinonimo di cancellato o, se era scritto su una lavagna,

di spazzato via con un colpo di spugna.

L’«Introduzione» al volume si chiude con una ricognizione genealogica della

figura dell’oblio nella mitologia greca. Lete, divinità femminile che fa coppia

oppositiva con Mnemosine, dea della memoria e madre delle Muse, nasce

dalla stirpe della Notte e ha per madre Eris: la Discordia. Ma Lete è anche il

nome di un fiume degli Inferi, la cui acqua, se bevuta, dispensa dimenticanza

alle anime dei defunti, liberandole dalla loro precedente esistenza, nonché

facendole rinascere in un corpo nuovo. Naturalmente, ciò che qui non va

perduta è la connessione fra l’oblio e l’elemento liquido dell’acqua.

Il volume si articola, da questo punto in poi, in nove capitoli, il primo dei

quali («Oblio mortale e immortale») parte da una ricognizione dell’atto di

nascita della mnemotecnica, fatta risalire da Cicerone (De Oratore, Libri II,

357 e III, 160) al poeta lirico greco Simonide di Ceo. L’espediente utilizzato

da quest’ultimo sarebbe dato da una spazializzazione topica della memoria,

pensata come una costellazione fissa strutturata in “luoghi” (topoi, loci) che

ospitano contenuti convertiti in immagini, le quali possono essere

rapidamente percorse nel pensiero, ogni volta che qualcosa deve essere

richiamato a mente. Qui, «tutto ciò che deve essere ricordato ha una sua

precisa allocazione. Solo l’oblio non vi trova posto» (L 21).4

Ma le fonti ci raccontano anche un altro aneddoto che, avendo di nuovo per

protagonista Simonide, finisce per stringere un nesso molto stretto fra oblio e

memoria. Mentre il poeta avrebbe chiesto al politico Temistocle se era

4 Sulla spazializzazione topica della memoria, si veda anche H. Weinrich, Il polso del tempo, cit., pp. 247-256.

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interessato ad apprendere un’arte della memoria (ars memoriae), il secondo

gli avrebbe risposto che egli non era interessato tanto a quest’ultima, quanto

ad apprendere un’arte dell’oblio (ars oblivionis).

Alla ricerca dello statuto di questa seconda arte, Weinrich ne individua le

prime tracce nell’Odissea di Omero, laddove Ulisse, narrando ai Feaci le sue

peregrinazioni per mare (canti IX-XII), riferisce di tre episodi al cui centro

c’è il tema dell’oblio: l’approdo alla terra dei Lotofagi, nonché le sue

permanenze temporanee presso la maga Circe e presso la ninfa Calipso.

Un altro esempio in cui l’arte della memoria è messa al servizio dell’arte

dell’oblio ci è dato poi da Ovidio, il quale, nel suo poema didattico Remedia

amoris, elargendo consigli per coloro che soffrono di mal d’amore, stabilisce

il precetto secondo cui, per dimenticare l’amata, la prima cosa da fare è

richiamare alla memoria, il più chiaramente possibile, tutti i suoi difetti,

nonché tutte le pene che ci ha procurato.

E arriviamo così alla teoria della reminiscenza di Platone, per il quale nascita

significa ipso facto oblio. Oblio però non totale, in quanto, grazie al metodo

maieutico, è possibile richiamare alla memoria le conoscenze apprese nella

nostra esistenza prenatale. Decisivo, in una tale teoria, è il paragone

dell’anima, quando prende dimora in un corpo, con una tavoletta di cera su

cui non è incisa nessuna impronta. Paragone cui va aggiunta anche la critica

del filosofo nei confronti della scrittura, capace di prestare soccorso alla

memoria solo dall’esterno.

Dopo Platone, chi riflette sullo stretto intreccio fra oblio e memoria è

Agostino. Anzi, è prima di tutto la sua vita a fornire una grande testimonianza

in tal senso: vita divisa fra una prima metà, che precede la conversione,

segnata dalla dimenticanza di Dio, e una seconda, successiva ad essa, segnata

dal ricordo devoto di Lui. Sul modello della mnemotecnica antica, la

memoria è configurata nelle Confessioni (Libro X) come un paesaggio, fatto

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di interminabili spazi, fra le cui componenti c’è persino l’oblio. È il luogo in

cui Dio stesso ha preso dimora, anche nel peccatore, e dove attende il giorno

in cui quest’ultimo, convertendosi, ritroverà la strada che lo riporta a Lui.

Si è parlato della mnemotecnica. Ebbene, non sono mancate le possibilità di

leggere proprio in questa chiave la Divina Commedia di Dante, nel senso che

le anime dei morti, in cui il poeta si imbatte nel suo viaggio attraverso i tre

regni dell’oltretomba, possono essere viste come immagini mnemoniche che

egli si imprime nella memoria, insieme ai luoghi che le ospitano, così che,

quando, una volta ritornato fra i vivi, scriverà il suo poema, potrà rievocarle

nell’ordine esatto in cui le ha incontrate.5 Dante fa inoltre sua la

corrispondenza agostiniana fra le figure della Trinità e la triade delle facoltà

dell’animo: memoria/intelletto/volontà. Ora, poiché Dio Padre, che

rappresenta la memoria, è anche il creatore del mondo, ecco che quest’ultimo

ha il suo essere proprio nel venire conservato da essa, per cui la Commedia

può anche dirsi come un’indagine poetica, condotta dalla memoria umana,

che ha per oggetto la memoria divina. È così che, nel poema in questione, la

memoria è onnipresente, anche nel senso che essa, in tutte le anime

incontrate, si conserva come un possesso che rimane sempre inalterato.6

Fra i tre regni descritti da Dante, Weinrich ritiene che, dal punto di vista della

memoria, il più interessante sia senz’altro il Purgatorio. Rispetto agli altri due

regni, qui le anime penitenti hanno un destino non ancora completamente

segnato, tant’è che il tempo che vi devono passare non è stabilito una volta

5 Circa il fatto che Dante, nel presentare i dannati, penitenti o salvati, nei tre regni dell’al di là, si attiene sempre alla «regola della localizzazione» dell’ars memoriae classica, giacché li “colloca” tutti entro spazi determinati cui essi sono consegnati, così che «ogni anima […] si definisce per il luogo […] assegnatole nell’oltretomba», cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 15.

6 Scrive Weinrich che, nell’interazione fra le anime dell’altro mondo e Dante, queste «hanno buona memoria per tutti gli eventi della loro vita, cosicché si manifestano capaci di raccontarli fedelmente al loro interlocutore». Egli, «da parte sua, si fregia ugualmente di una memoria “finissima”, non solo per gli eventi della sua propria vita, ma anche per i racconti uditi dalle anime incontrate nell’altro mondo. In questo modo, la memoria è onnipresente in tutte le interazioni della Divina Commedia». Cfr. ivi, p. 16.

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per tutte, per cui la grazia divina può sempre intervenire.7 Per accelerare il

loro accesso al Paradiso, decisive sono le preghiere dei vivi o, in altre parole,

il fatto che questi ultimi devono praticare sempre la commemoratio

mortuorum. Si stabilisce così una vera e propria catena di intercessioni che va

dal penitente, attraverso Dante, cui si chiede di intervenire presso i vivi, a

questi ultimi, ai santi e, finalmente, a Dio stesso: catena di cui nessun

passaggio deve mai cedere il passo all’oblio.8

Proprio per vincere il pericolo dell’oblio, che incombe sempre sulla nostra

mente, nella Commedia si trovano ben due invocazioni alle Muse, all’inizio

della discesa all’Inferno e alla fine, Muse che aiutano la memoria, proprio

promuovendo le arti che sono di loro competenza.

Dopo Dante si passa, nel II capitolo («L’ingegno smemorato»),

all’Umanesimo e al fondatore della pedagogia moderna: Juan Luis Vives. In

diversi scritti sulle arti liberali, egli si occupa di incrementare lo sviluppo

artificiale della memoria, fornendo consigli pratici atti a promuovere una vera

e propria «dietetica mnemotecnica» (L 61), al fine di sradicare del tutto la

dimenticanza nella vita del discente. In Montaigne, all’opposto, cade

completamente in discredito il precetto di imparare a memoria e comincia a

prendere vita l’idea secondo cui il vero sapere è quello non formato sui libri,

ma derivato dall’esperienza, per cui, più che alla memoria verborum, si invita

a prestare attenzione alla memoria rerum.

7 Nella voce Zeit in der Literatur, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XII, Basel, Schwabe, 2004, coll. 1254-1258, Weinrich, ribadendo questo motivo, afferma quanto segue: «A differenza dei luoghi dell’Inferno e del Paradiso, il Purgatorio è, per Dante, interamente sottomesso ad un computo divino del tempo» (col. 1257). In tal senso, il Purgatorio è il regno più interessante fra i tre descritti da Dante, proprio perché segnerebbe la conquista del «tempo degli uomini»,collocato «tra la duplice eternità, dell’Inferno da una parte e del Paradiso celeste dall’altra». Nel Purgatorio, la pena stessa «va intesa […] anche quantitativamente», ossia «va misurata in termini temporali», per cui la giustizia divina è qui «soprattutto una giustizia temporale». Cfr. H. Weinrich, Il tempo stringe. Arte ed economia della vita a termine, tr. it. di F. Rigotti, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 90 e 92.

8 Scrive Weinrich: «tutti gli anelli di questa catena dipendono dal buon funzionamento della memoria. Se solo un anello si rompe, […] tutta la catena di preghiere si spezza per sempre». Cfr. H. Weinrich, La memoria di Dante, cit., p. 22.

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Una contrapposizione che ricorre frequentemente in età moderna è quella fra

ingegno (ingenium, esprit, agudeza, Witz)9 o intelletto e memoria. La si

ritrova in J. Huarte, in G. de Cordemoy, in C.-A. Helvétius e, infine, anche in

Kant.

Nel III capitolo («Oblio illuminato») si muove dal fatto che oblio e memoria

sono al centro anche del nuovo metodo prospettato da Cartesio. Dopo una

prima fase in cui sono obliati sistematicamente tutti i contenuti che si sono

annidati in noi contro la nostra stessa volontà, c’è una seconda in cui

interviene un «ri-cordare metodologicamente controllato» (L 89). Prende

inizio qui un discredito nei confronti della memoria, che – nell’Illuminismo –

finirà per collegarla, piuttosto che al giudizio, al pregiudizio. Nel

Dictionnaire philosophique (1764) di Voltaire, ad esempio, la voce memoria

(come, del resto, la voce oblio) non compare affatto. E, non diversamente,

Rousseau ritiene che, nella prassi educativa della sua epoca, la memoria

giochi un ruolo decisamente esagerato.

Kant poi non elabora una vera e propria teoria mnemonica, ma, nelle sue

lezioni di pedagogia e di antropologia, tratta della memoria e dell’oblio solo

dal punto di vista pratico. Nelle seconde, distingue la memoria in meccanica,

ingegnosa e giudiziosa: del tutto priva di valore è, la prima, problematica, la

seconda invece è razionale, la terza infine è l’unica in grado di promuovere

l’istanza critica di pensare autonomamente. Sembra così che egli «si trovi più

a suo agio con l’oblio che con la memoria» (L 104), perché solo chi

9 Sull’ingegno, di Weinrich si veda anche la voce Ingenium, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1976, coll. 360-3. Significativamente, il primo vol. pubblicato da Weinrich è dedicato proprio all’ingegno, in connessione con la figura di Don Chisciotte: cfr. H. Weinrich, Das ingenium Don Quijotes. Ein Beitrag zur literarischen Charakterkunde, Münster, Aschendorff, 1956. Sulla figura dell’ingenioso hidalgo, Weinrich ritorna anche in Id., Il polso del tempo, cit., pp. 89-105. Qui leggiamo che Cervantes, descrivendo con ironia Don Chisciotte, lo fa proprio perché quest’ultimo è «totalmente privo di ironia» (p. 95). Infine, un riferimento a Don Chisciotte si trova anche in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter e K. Gründer, vol. IV, cit., coll. 577-582, in part. 579.

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dimentica, non assecondando alcuna opinione errata, può dar prova di essere

davvero illuminato.

Nel IV capitolo («Rischi della memoria, rischi dell’oblio»), si riferisce di un

caso, raccontato dal neuropsichiatra russo A.R. Lurija nel suo volume Un

piccolo libro, una grande memoria (1965), relativo ad uno mnemonista: un

uomo che non poteva dimenticare, che soffriva di ipermnesia, ossia di un

eccesso patologico di memoria. Egli aveva difficoltà a pensare per concetti, in

quanto, per formare questi ultimi, bisogna lasciar cadere tutte le proprietà

particolari dei singoli individui. Sorge così la domanda: in che modo

quest’uomo può riuscire a dimenticare? Lurija conia, al riguardo, il termine

«letotecnica», ossia una strategia per favorire l’oblio, come, ad esempio,

scrivere su carta ciò che si intende dimenticare. In tal modo, dopo Platone, la

scrittura è accusata, ancora una volta, di essere nemica della memoria

naturale.

Un altro esempio di ipermnesia è fornito da Borges con il suo racconto Funes,

o della memoria (1942). Qui il protagonista deve far ricorso anch’egli a

strategie dell’oblio, per riuscire ad addormentarsi, visto che, assecondando

questo bisogno, finirebbe per perdere qualsiasi possibilità di presa sul mondo.

Nel V capitolo («Nuova forza sorta dall’arte dell’oblio»), le figure dell’oblio

studiate sono quelle corrispondenti ai nomi di Goethe, Nietzsche e Freud. Nel

Faust del primo, chi rappresenta l’arte dell’oblio è Mefistotele, il quale, in

diverse situazioni, la mette a punto sperimentandola proprio su Faust.10 In

Nietzsche l’oblio si configura come quel principio che apre la strada al

nuovo. Il riferimento è, ovviamente, alla seconda delle sue Considerazioni

inattuali: Dell’utilità e del danno della storia per la vita (1873), dove il

filosofo fa espressamente appello alla forza e all’arte del poter dimenticare. Si

chiede, a questo punto, Weinrich: «Che cosa vuole dimenticare Nietzsche, e

10Su questo punto, si veda anche H. Weinrich, Faust’s Forgetting, in «Modern Language Quaterly», 1994, n. 3, pp. 281-295.

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dimenticarlo ad arte? La risposta sommaria è: la storia (Historie)» (L 175),

ossia ciò che, gravando con il suo peso opprimente sulla coscienza dello

storico, fa sì che quest’ultimo smarrisca quella capacità di agire per la quale è

richiesta, appunto, la dote dell’oblio. Ma la seconda delle Considerazioni

inattuali non è l’ultima parola di Nietzsche sull’arte del dimenticare. Torna

sul tema anche nella Genealogia della morale (1887), dove celebra nella

dimenticanza attiva la forma più alta e vigorosa di salute.11

Significativamente, proprio da queste riflessioni «si svilupperà in seguito un

brano importante del pensiero utopico» (L 178).

Freud «comincia a occuparsi del fenomeno dell’oblio in relazione alla

sintomatologia dei lapsus e degli atti mancati» (L 181). Quando poi scopre

l’inconscio, lo intende come un deposito in cui giace non un che di

semplicemente non-conosciuto, ma tutto ciò che è stato dimenticato. Con lo

psicoanalista viennese, l’oblio perde così la sua innocenza, in quanto chi

dimentica o vuole dimenticare qualcosa è costretto, d’ora in poi, a

giustificarsi.

Il VI capitolo («Poesia dell’oblio») prende in considerazione due fra i

massimi poeti nell’arco che va dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima

metà del Novecento: Mallarmé e Valéry, nonché lo scrittore a cui dobbiamo,

forse, il più grande affresco letterario dedicato alla memoria: Proust. Il primo

dei tre si accosta al tema dell’oblio, prima che nella sua produzione poetica,

nella sua riflessione teorica. Nella prefazione, del 1885, al Trattato del verbo

del collega R. Ghil, l’oblio è elevato a principio grazie a cui il linguaggio

poetico consegna al regno dell’assenza, ossia alla purezza astratta della

visione mentale, la cosa presente nominata. È questo un principio che

Mallarmé segue pure nella sua poesia, per cui si può dire essa si caratterizza

11Sull’arte e il potere del dimenticare in Nietzsche, cfr. anche H. Weinrich, Nietzsche’s art and powerof forgetting, in «Social Science Information», 1997, n. 1, pp. 7-14.

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per il fatto che il poeta, estraendo dall’oblio ciò che manca nelle cose, lo

lascia risplendere limpidamente nelle parole.12

Non diversamente da Mallarmé, in Valéry, il tema dell’oblio appartiene alla

dimensione più profonda della poesia, nonché si trova sviluppato anche nella

sua riflessione teorica. Al riguardo, suo intento – mai però realizzato – era di

elaborare una compiuta teoria della memoria, tracciando con nettezza i

confini che separano il ricordo dall’oblio. Ciò che egli ha fatto è, però, di aver

distinto fra due tipi di memoria: una memoria grezza, che trattiene con fedeltà

assoluta tutto ciò che è accaduto, e una memoria intelligente, selettiva. Ora, lo

strumento di cui noi ci serviamo per operare una tale selezione è proprio

l’oblio, il quale è distinto, a sua volta, in un qualcosa che comporta una pura

perdita, oppure che può aiutare il pensiero a giudicare.

In Proust, si può trovare poi una vera e propria ontologia della memoria, in

quanto egli è convinto che la realtà inizia a prendere forma proprio nella sua

sfera. Famosa è la sua distinzione fra memoria volontaria o dell’intelligenza e

memoria involontaria. La prima, a differenza della seconda, è inutile per la

letteratura, appunto perché non ci fornisce nessuna vera immagine del

passato. Nello scrittore francese, Weinrich rinviene così ciò che egli chiama

una «mnemopoetica», che presenta caratteristiche «molto diverse da quelle

della mnemotecnica» (L 207), la quale, stando ai parametri del primo, sarebbe

da ricondurre, piuttosto, sotto il regime della memoria volontaria.13

Nel VII capitolo («Diritto all’oblio, pace dall’oblio?»), il primo personaggio

letterario oggetto di interesse è il protagonista del romanzo di Pirandello Il fu

12Alcune riflessioni di taglio linguistico sulla lirica moderna, in riferimento anche a Mallarmé, sono condotte in H. Weinrich, Literatur für Leser. Essays und Aufsätze zur Literaturwissenschaft, München, dtv, 19862, pp. 132-48.

1313 Weinrich chiama la «mnemopoetica» di Proust anche «mnemologia». Quest’ultima sarebbe la «base teorica» della Recherche e si qualifica per il fatto che i sensi non hanno, in essa, «una portata spaziale [come nel caso della vista], bensì temporale». Cfr. H. Weinrich, Il senso sensuale della memoria, in Aa. Vv., Il senso della memoria, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 2003, pp. 135-142, in part. p. 139.

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Mattia Pascal (1904): «uomo in stato di oblio», come viene definito. Naturale

si impone il parallelismo fra un tale personaggio e il Peter Schlemihl di

Chamisso: «uomo senz’ombra», il secondo, e «ombra senz’uomo» (L 218)

invece il primo. Le differenze stanno nel fatto che lo scrittore italiano, che

scrive quasi un secolo dopo lo scrittore tedesco, accentua, rispetto a

quest’ultimo, gli aspetti sociali del tema dell’oblio e della memoria,

presentando il suo personaggio come qualcuno che non può ricevere nessuna

soddisfazione quanto alla sua onorabilità pubblica.

Altri esempi letterari presi in considerazione sono dati dalle storie di amnesia

raccontate da Giraudoux, in una versione prima romanzata (Sigfried et le

Limousin, 1922) e poi drammatica (Siegfried, 1928), da Anouilh (Il

viaggiatore senza bagaglio, 1936),14 nonché dalla poesia di Celan Vigore e

dolore (1967/68), dove si parla di una ferita che, poiché non si cicatrizza, mai

potrà essere dimenticata: la Shoah.15

Proprio a questo tema è dedicato l’VIII capitolo («Auschwitz e l’oblio

impossibile»). Qui si parla di letteratura dell’Olocausto, nelle figure di Elie

Wiesel, che inizia a scrivere, dieci anni dopo la liberazione, per il voto di non

dimenticare, da lui fatto la prima notte passata ad Auschwitz, di Primo Levi,

secondo cui, nella vita del lager, «il prigioniero deve fare un uso

parsimonioso persino della memoria» (L 266) e di Jorge Semprún.

Quest’ultimo fu sì detenuto in un campo di concentramento, ma era un

repubblicano spagnolo, non un ebreo. È autore di un libro di testimonianza

dal titolo La scrittura o la vita (1994), che allude al fatto che egli si decide a

14Agli esempi letterari, appena visti, costituiti dai nomi di Pirandello, Giraudoux e Anouilh, Weinrichsi riferisce anche al termine della sua voce Vergessen, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di J. Ritter, K. Gründer e G. Gabriel, vol. XI, Basel, Schwabe, 2001, coll. 671-676, dove afferma che essi risentono chiaramente dell’influsso delle ricerche mediche sull’amnesia, condotte negli anni del primo dopoguerra.

15Su Celan cfr. anche H. Weinrich, Kontrationen. Paul Celans Lyrik und ihre Atemwende, in Aa. Vv.,Über Paul Celan, a cura di D. Meinecke, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1970, pp. 214-225.

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scrivere cinquant’anni dopo i fatti che racconta, optando per una vita che

ricorda piuttosto che per un oblio liberatorio. Il capitolo si chiude con

un’analisi del romanzo Estinzione. Uno sfacelo (1986) di Thomas Bernhard,

dove oblio e memoria si intrecciano fra loro, a tal punto che il narratore non

solo può ricordare, con la massima chiarezza, un trauma da lui subito in

passato, ma può «anche “estinguerlo” con tutta la forza dell’oblio. Il che si

verifica scrivendo i ricordi proprio in questo libro dal titolo Estinzione» (L

282).

L’ultimo capitolo, il IX («“Salvare in memoria”, ovvero dimenticare»), dove

si fa riferimento al titolo di una poesia di H.M. Enzensberger, si apre con

l’analisi del racconto Il cestinatore (1957) di Heinrich Böll. Qui il

protagonista eccelle nell’arte del “cestinare”, la quale altro non è che una

variante di quella dell’oblio, attività che egli conduce, in segreto, nelle

cantine dell’archivio presso cui lavora, allusione possibile ai luoghi

sotterranei della memoria.

Archivio fa da pendant con biblioteca. Direttore di biblioteca, nella vita, è

stato Borges, non solo, è anche una metafora che ricorre frequentemente nella

sua opera, si pensi, ad esempio, a La biblioteca di Babele (1941). Nello

scrittore argentino, oblio e memoria sono così strettamente legati che il primo

è configurato come il luogo sotterraneo della seconda, la faccia segreta di

questa. Per non dire poi che quando, da anziano, Borges divenne cieco,

lodando i doni dell’oblio, egli viveva «solo leggendo “ancora nella

memoria”» (L 293).

La fine del capitolo è costituita da un paragrafo che funge da epilogo al

libro. Raccogliendo le fila dell’argomentazione svolta fin qui, si ribadisce

che, se la scienza antica era fondata sull’alleanza fra la scienza stessa e la

memoria, oggi il carico schiacciante di informazioni con cui veniamo a

contatto in qualsiasi disciplina fa sì che nessuna di esse possa «più essere

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praticata senza una precisa componente di oblio» (L 296). Ogni ricercatore

dovrebbe essere in grado così di dominare l’arte corrispondente, «se non

vuole che la sua attività scientifica venga paralizzata da un’iperinformazione

cronica», fenomeno che Weinrich definisce, appunto, come «oblivionismo

della ricerca scientifica» (L 297).16 In questo, dal punto di vista metodologico,

egli vede «una sinossi dell’insegnamento di Kuhn e Popper», ossia che

l’impresa scientifica, conscia delle condizioni della sua memoria,

progredendo «da una spinta all’oblio all’altra», perviene così «verso nuove

conoscenze, che in caso fortunato saranno anche le migliori» (L 300). Tale

istanza deve farsi valere, naturalmente, non solo nelle scienze esatte, ma

anche in quelle umane e sociali. La difficoltà sta proprio nel farsi artefici di

un nuovo, «moderato politeismo» che, «a dispetto del principio di non

contraddizione», tenga insieme il culto di due opposte divinità: «Mnemosine

e Lete» (L 301).17

16Weinrich ribadisce questo motivo, secondo cui «di fronte alla memoria tecnica ed elettronica artificiale [è] necessaria un’arte dell’oblio», anche nell’intervista da lui rilasciata a U.M. Olivieri, Arte della memoria, arte dell’oblio, in «Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura», 2001, n. 1, pp. 23-30. Oggi, noi dobbiamo non solo «archiviare informazioni di cui non si conosce bene l’uso», ma anche imparare ad apprendere «l’arte di rifiutare e di scegliere cosa conservare»: «un’operazione necessaria per ritrovare la tranquillità della nostra anima nell’epoca moderna e postmoderna», ivi, p. 26.

17Al riguardo, ricordiamo che, per Weinrich, la metaforicità essenziale del linguaggio si dà quando, sospendendo il paradigma binario imposto dal principio di non contraddizione e riabilitando il “terzo escluso”, noi apriamo così il linguaggio stesso all’orizzonte della multivocità semantica. Cfr. H. Weinrich, Metafora e menzogna: la serenità dell’arte, a cura di L. Ritter Santini, tr. it. di P. Barbon, I. Battafarano e L. Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1976, in part. il cap. V: «Metafora e contraddizione», pp. 99-108. Qui, leggiamo: «Le metafore sono […] una forma di enunciato contraddittorio al di là dei rigidi confini dei paradigmi binari. Con la regola del terzo escluso la logica si protegge perciò da problemi indesiderati» (p. 108). Il che è proprio ciò cui intende alludere il sottotitolo stesso del presente fascicolo, quando stabilisce il principio secondo cui si dovrebbe «far memoria dell’oblio», nonché «ricordarsi di dimenticare». Sulla metafora si veda, infine, anche la voce H. Weinrich, Metapher, in Historisches Wörterbuch der Philosophie, acura di J. Ritter e K. Gründer, vol. V, Basel-Stuttgart, Schwabe, 1980, coll. 1179-1186.

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Antonino Infranca

Dimenticare Palermo

Si può dimenticare Palermo? La domanda appare sicuramente assurda achi non è palermitano, e anche a un siciliano che non è mai vissuto a Palermorisulta eccessiva. Una cosa è certa: l’autrice di quell’incredibile libro che èDimenticare Palermo (tr. it. L. Magrini, Milano, Bompiani, 1989, II ed., pp.366), cioè Edmonde Charles-Roux, non può dimenticare Palermo, non perchéla ricordi in forma indelebile, ma perché non l’hai mai conosciuta, eppure hascritto forse il libro più evocativo su Palermo, ha trasformato la bellissima estruggente capitale della Sicilia in un luogo della memoria, in una sorta distruttura dell’anima dei personaggi del suo romanzo, che vi sono vissuti.Come abbia fatto a narrare una città come una struttura dell’anima, pur nonessendoci mai stata, è il segreto dell’arte di Edmonde Charles-Roux. Maappunto l’ha narrata, perché non poteva descriverla, non avendola mai vista,l’ha in pratica ricreata, sapendone cogliere quel carattere decadente,struggente, ma invasivo dell’anima, quel carattere che riempie lo spirito e nonsolo gli occhi, perché a Palermo gli occhi, e non solo gli occhi, ma tutti isensi, sono riempiti di una spiritualità eccessiva. Ecco il senso eccessivo diquella domanda: si può dimenticare Palermo? Se vi si è stati, è difficiledimenticarla; se non vi si è stati è un’arte inventarla. Ma inventarla significacercarla, cercarla dentro se stessi.

Come è noto da quel romanzo, nel 1990, Francesco Rosi trasse un film,a 24 anni dalla pubblicazione del libro. Da quel grande regista che è, ne hasconvolto la trama, ha fatto sparire l’io narrante del romanzo, ha dato piùrilevanza a uno dei protagonisti, Carmine Bonavia, ma ha saputo narrarePalermo con le immagini del film, immagini spesso commoventi, perchériprendevano monumenti importanti della città dal basso, quindi stagliandonealcuni dettagli più elevati sul cielo della città, uno dei cieli più belli delmondo, perché di un azzurro, appunto, celestiale. Una delle riprese, poi,raggiunge il vertice della perfezione filmica: una lunga ripresa su unpavimento a scacchi, poi un balcone, una spiaggia punteggiata di sassi, e

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infine il mare, dello stesso colore del cielo, cielo e mare si confondono nellostesso celeste, sono la stessa cosa, un colore.

Il film riprende praticamente la terza parte del romanzo, vi aggiungeelementi non presenti nella narrazione, come la legalizzazione della drogaavanzata da Carmine Bonavia nella sua campagna elettorale, e personaggicome il principe che vive rinchiuso nell’Hotel delle Palme di Palermo,interpretato superbamente da Vittorio Gassman. In verità questo personaggioè l’unico personaggio effettivamente esistito. Si tratta del barone Giuseppe DiStefano, che per aver compiuto uno sgarro all’Onorata Società, fu condannatoall’esilio nel ricco albergo palermitano e non ne uscì, se non con i piedidavanti, cioè in una bara. Visse per più di cinquant’anni nell’Hotel piùlussuoso di Palermo e se ne allontanò solo in incognito e molto raramente.Nel film assume una funzione speciale di memoria corporea dell’esistenzadella mafia che nel romanzo è appena citata, visto che se ne nota la terribileesistenza soltanto indirettamente al momento dell’uccisione di CarmineBonavia, che negli Stati Uniti aveva sempre cercato di evitarla e, appunto, perquesta misura di prudenza sarà ucciso a Palermo.

Nel romanzo, invece, i colori e le immagini non si presentano cosìimperiosamente, anzi ad un lettore attento non sfugge il fatto che Palermonon è mai descritta precisamente come avrebbe fatto chiunque l’avesseconosciuta effettivamente. Palermo è uno stato d’animo, la dimensionepsicologica della memoria, di una memoria che si vorrebbe dimenticare, mache rimane radicata nell’anima come le cozze rimanevano aggrappate agliscogli, come ricorda una felice immagine di Verga a proposito dei siciliani.Nel film si guarda a Palermo con meraviglia e stupore per la sua stranezza,cioè con gli occhi del personaggio della moglie di Carmine Bonavia – Carrienel film, Babs nel romanzo. Nel romanzo soltanto i personaggi siciliani o diorigine siciliana sono ovviamente portatori di questa memoria scomoda,mentre i personaggi statunitensi sono portatori di una cultura dell’effimero edella superficialità, della banalità contro la verità: «Succede spesso che labanalità espressa a voce alta finisca col soffocare così la verità che si tienesegreta» (p. 15). Per essere vera questa situazione richiede che chi esprime labanalità a voce alta sia un essere umano effimero e superficiale, oppure unuomo di potere, cioè deve essere agli estremi della scala sociale, chi è inmezzo è costretto invece a sostenere il potere o a esserne schiacciato, come

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sarà il caso di Carmine Bonavia, o ad aiutare chi è in basso, come farà GiannaMeri e, soprattutto, suo padre, medico di tutti, ricchi e poveri, che morirà inguerra e non se ne ritroverà più il corpo, stesso destino del fidanzato diGianna, Antonio: di loro sopravvive soltanto il ricordo di Gianna. Logicaconseguenza è che «la verità non è una, muta secondo la bocca che laesprime» (p. 32). I personaggi statunitensi, non hanno queste ricchezze didimensioni, sono monodimensionali, sono interamente tesi al successo e allaricchezza – «È il dollaro la vostra cancrena» (p. 101) dirà uno dei personaggiprincipali del romanzo rivolto agli statunitensi. Il romanzo ha, quindi, unospessore antropologico molto forte, ma è anche altrettanto psicologicamenteforte.

In alcune parti del romanzo c’è un Io narrante, Gianna Meri – che nelfilm è interpretata da Carolina Rosi, la figlia del regista, a cui cambiano ilcognome in Magnardi –, combattuta tra la memoria e la dimenticanza:«Vivevo in agguato delle sorprese che avrebbero saputo rendere infedele lamia memoria» (p. 14). Questa memoria è ingombrante da un lato, mastruggente da un altro, è difficile dimenticarla, piacevole conservarla. Sonogli elementi di una psicologia degli opposti, che spesso si ritrova nell’animodei siciliani, non perché siciliani, ma perché esclusi o dominati da un potereassoluto che è invisibile, ma potentissimo, che vive intorno a loro e dentro diloro. Carmine Bonavia ne farà mortale esperienza personale, come l’avevafatta il barone Di Stefano, che accettò la condanna all’esilio in patria a cuiCosa Nostra lo aveva sottoposto. In un mondo – perché la Sicilia è un mondo– così dominato dal potere, l’unica certezza che rimane è quell’immensamenzogna che è la vita (cfr. p. 153), constata il barone di D., altropersonaggio del romanzo, a cui è sottratta la moglie e la gioia della vitamatrimoniale, nonché la passione per la musica, da Enrico Caruso, il famosotenore. La storia di questa conquista sentimentale è inventata, l’unico datocerto è il fallimento da tenore di Caruso nella natia Napoli, di cui si narrarapidamente nel romanzo. Altro fallimento da tenore di Caruso, di cui si parlafugacemente nel romanzo, fu Trapani, e chi scrive si ricorda di quanto abbiaascoltato questa narrazione, nella propria infanzia trapanese, come una sortadi mito, un’altra forma di memoria collettiva di una disgrazia, di un incidenteprofessionale.

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Rispetto ai personaggi statunitensi, però, nei personaggi siciliani c’èuna punta di orgoglio, un riconoscimento di superiorità, atteggiamento tipicodi chi autocostruisce psicologicamente una situazione di superiorità a partiredalla propria inferiorità, è una forma di autodifesa della propria dignità,perché non riesce ad uscire da questo stato di minorità, per dirla alla Kant delChe cos’è l’illuminismo. Questa situazione psicologicamente è palesesoprattutto in Gianna Meri, l’Io narrante siciliano, quando, riflettendo sullapropria formazione educativa in convento e su quella della sua amica Babs,osserva: «Eravamo libere, sì, lo confermo, mille volte più libere tra i nostrimuri ruinanti, sotto le nostre coltri di divieti, che tutte le Babs d’America,ossessionate di riuscire, oppresse da insegnamenti ricevuti non come unarricchimento, ma come mezzo per far fuori l’asso: l’uomo» (p. 32), ilmaschio da sposare per avere successo sociale e scalare la gerarchia dellasocietà statunitense. Gianna sa che non ha fatto parte di una teleologia socialepreordinata e preesistente, non è stata una portatrice di valori estranianti,semmai di oppressione, ma nessuno le impediva di vivere liberamente entrol’oppressione, se veniva accettata. È la libertà che decantava la Alliata aproposito dell’harem islamico, è la riconoscenza verso il padrone che non èperfido, che rispetta i limiti del proprio dominio, è la libertà delle vittimeconviventi della mafia.

Nella citazione c’è un accenno allo spazio, “i muri ruinanti”, e propriosullo spazio ci sono alcune interessanti osservazioni sulla diversa concezionedello spazio urbano e architettonico tra Sicilia e Stati Uniti, tra uno spaziocarico di storia e, quindi, di memoria e uno spazio privo di questa dimensionetemporale. A Palermo si puntella, cercando di conservare, tutte le vestigia delpassato, fosse anche quello con minor valore artistico e architettonico, inmodo che il passato sia sempre attuale, e si ricordi sempre che in quellospazio/tempo vigono leggi eterne e immodificabili; mentre a New York sidistrugge, in modo che non rimanga nulla del passato, perché si possaricostruire continuamente il presente, perché il presente sia sempre attuale, esi sia consapevoli che tutto cambia velocemente, che nessuna legge è eterna eimmodificabile. Anche chi fugge da quel mondo eterno, come Alfio, il padredi Carmine Bonavia, o il barone di D., o la stessa Gianna Meri, continuano avivere con la memoria dentro quello spazio/tempo, perché quella memoria èuna forma di difesa rispetto al presente estraneo dentro al quale si vive:«Considerare il presente solo il tempo necessario per spogliarsene, evitare il

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passato prossimo, aggirare l’ieri, dimenticarlo, sottrarsi alle sollecitazionidella pena, affondare sempre più lontano nel passato, incontrare il vuoto, ilbuco spalancato, l’oblio, credersi perduta e ritrovare come una dimorasegreta, il paesaggio dell’infanzia» (p. 27). Qui il ricordo è una riserva disicurezza, è l’infanzia trasformata in una dimensione temporale mitica in cuiviveva incontrastata la serenità.

In conclusione i personaggi siciliani vivono una vita bidimensionale,vivono nella vita quotidiana, o negli Stati Uniti, o in Sicilia, in mezzo aglialtri, ma per loro è una vita estraniata; la vita autentica è dentro di loro non inmezzo agli altri o con gli altri, è la vita che hanno vissuto, la vita passata, cherivivono continuamente con la memoria. È una condizione psicologica chepermette di vivere in mezzo alle difficoltà e non è una soluzione a una vitaestraniata, è scambiata con la stessa condizione umana, come se non sipotesse vivere altrimenti. C’è un forte senso di abisso interiore, allaKierkegaard, perché si vive continuamente in confronto con l’estremoassoluto dell’essere umano, la morte. Il senso della morte è fortissimo neipersonaggi siciliani del romanzo, anzi sono soltanto loro a morire; possonoanche vivere, ma sono morti dentro, come il barone di D., che, tradito dallamoglie, si sceglie un esilio interno, si richiude nel suo castello di Solánto, ene esce soltanto alla nascita del nipote, Antonio, il quale morirà in guerra,quindi il barone soffrirà un altro esilio, questa volta a New York. I sicilianivivono perennemente nella condizione di vittime, in attesa di qualche eventomortifero e definitivo e hanno adeguato la loro psicologia a questo modo divivere. La conseguenza più forte è la totale incomprensione della psicologiamonodimensionale dei personaggi statunitensi, che invece vivono sullasuperficie della vita, scivolano facilmente da una situazione all’altra, nonsentono il peso della vita, perché non hanno passato, né tradizioni, né valoriponderosi, sono semplici, banali, piatti.

Questa situazione psicologica ha anche un corrispettivo nella linguaparlata dai siciliani, che usano il passato remoto e non il passato prossimo,come spesso avviene nell’italiano parlato, che imita in ciò l’inglese degli StatiUniti. E poi, per chi non lo sappia, rifletta sul fatto che in siciliano sonoassenti i verbi che si formano dall’infinito, quindi manca il futuro, espresso daun eterno presente (“tra 30 anni moro”, in italiano: “tra 30 anni morirò”), oancor peggio il condizionale, espresso dal congiuntivo infinito (“su sapessi u

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facissi”, in italiano: “se lo sapessi, lo farei”). Quindi ogni siciliano, se pensanella propria lingua nativa, non ha futuro e non ha alcuna condizione, ètotalmente libero, niente lo costringe, anche se vive in una condizione dicostrizione.

Chiudo queste note da lettore con un augurio: Dimenticare Palermo èun romanzo talmente bello che non si vede l’ora di dimenticarlo, per poterlorileggere di nuovo.

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Andrea Bonavoglia

Berlino. Topografie della memoria

Veduta dall'alto di Topographie des Terrors

Il Monumento agli ebrei d'Europa assassinati di Peter Eisenman,

inaugurato a Berlino nella primavera del 2005 in occasione del 60°

anniversario dell'Olocausto e della fine della seconda guerra mondiale, venne

ad affiancarsi idealmente all'altra grande iniziativa realizzata nella capitale

tedesca, la costruzione nel 1998 del nuovo Museo Ebraico, progettato da

Daniel Libeskind. In seguito, nel 2010, sulla base di un progetto nato nel

1987 le cui primarie intenzioni erano la catalogazione, la documentazione e la

pubblicazione di ogni atto del regime hitleriano nei suoi dodici anni di vita, il

Senato di Berlino ha aperto una terza struttura fisica legata alla memoria, il

Museo Topographie des Terrors , sulla Niederkirchnerstraße 8, là dove si

trovavano la sede centrale della Gestapo e il comando delle SS. Le storie

progettuali ed esecutive di questi tre monumenti sono complesse, tra concorsi

conclusi e poi riaperti, costi sempre troppo alti, progettisti non confermati o

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divisi tra loro, ma i risultati sono straordinari e sono tuttora premiati da un

numero di visitatori altissimo. La capitale tedesca sembra attirare folle di

turisti soprattutto desiderosi di vedere e ricordare le tracce del Muro, gli

orrori del nazismo, e le nuove grandiose architetture amministrative: uno

strano connubio.

In verità, la Germania ha scelto di ricordare, e ricordare vuol dire

soprattutto non dimenticare. Gli orrori del nazismo sono presenti nella

coscienza del popolo tedesco, che cerca ancora oggi di capire che cosa ha

potuto permettere lo svolgersi di un simile atroce percorso, una topografia,

appunto, del terrore e dell'omicidio di massa. La capitale oggi sfavillante e

riunificata rivela ed espone le cicatrici della sua divisione - sfregi curati ma

sempre in vista - e non nasconde ciò che fu abbattuto e cancellato, dopo i

bombardamenti bellici, nel periodo di dominio sovietico tramite la DDR.

Scomparsi il palazzo imperiale, la cupola del Reichstag, la nuova grandiosa

Cancelleria di Hitler, le sedi dei Ministeri, la sede della Gestapo, oggi i

berlinesi ricostruiscono (come la cupola e in futuro lo Schloss) o rievocano le

immagini o ricostruiscono i frammenti di quel mondo e di quel tempo

maledetti. Come è tipico della cultura tedesca, un enorme sforzo è rivolto alla

documentazione e alla catalogazione, che razionalizza e trasforma il passato

in un terribile archivio della memoria.

Topographie des Terrors sorge nell'area sotto il livello stradale che

fungeva da fondamenta per gli uffici della Gestapo e delle SS. Siamo a due

passi da Potsdamer Platz, affiancati al Martin-Gropius-Bau e sul versante

orientale della città divisa; un frammento autentico del Muro fa da sponda al

museo, sulla strada. L'accesso è libero e ciò che è esposto è semplicemente la

narrazione degli anni del regime nazista; il museo peraltro organizza

seminari, ospita una biblioteca e rende partecipi dell'esistenza di una

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Fondazione che lo gestisce. Perduto nella burocrazia il progetto poderoso di

Peter Zumthor, l'attuale struttura semplice e giustamente anonima è stata

progettata da Ursula Wilms e da Heinz W. Hallmann. La visita informa e

rivela, tramite tabelloni, fotografie, filmati, la storia di un orrore.

I lavori di Libeskind e Eisenman sono legati invece, nel panorama unico

e sensazionale dell'architettura della nuova Berlino, a un'interpretazione

espressionista e drammatica dell'arte in genere. Dopo le informazioni

meticolose di Topographie des Terrors, è quindi il momento delle emozioni e

della meditazione.

Per la pianta del nuovo Museo Ebraico, sua prima grande realizzazione,

Daniel Libeskind ha immaginato una saetta, un fulmine, una gigantesca

scarica elettrica a forma di zigzag, una linea a suo dire derivata dalla stella di

Davide; nel grande volume creato su questo zigzag nulla ha l'aspetto consueto

di una parete, di una finestra, di un cortile. Le simbologie e i numeri usati

come elementi generatori, secondo un metodo caro tanto alla cultura ebraica

quanto a quella musicale, si perdono sicuramente nella normale utilizzazione

dell'architettura, ma contribuiscono al carico di fascinazione e di mistero.

L'allestimento del museo, nei piani superiori piuttosto abbondante e

ricco di oggetti ed immagini legati a una chiara vocazione didattica e

informativa, ha nascosto e mascherato molte scelte spaziali, ma non ha

cancellato l'aura che avvolge e penetra l'edificio. Dal piano sotterraneo, dove

si trovano spazi di informazione e di incontro, si accede a una torre vuota e a

un giardino, che quindi fuoriescono a livello del terreno senza essere

accessibili dall'esterno; la Torre commemora l'Olocausto, un vuoto della

ragione tagliato da ferite luminose, e il Giardino con i suoi 49 pilastri cavi di

cemento, disposti su una griglia inclinata e ricolmi di terra per nutrire gli

alberi d'olivo piangente piantati dentro, ricorda l'Esilio. Questa idea di oggetti

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geometrici disposti regolarmente a formare stretti percorsi che appaiono

labirintici, ma che sono in realtà del tutto aperti, è la stessa di Eisenman nel

suo Monumento.

Al piano terra del Museo si propone il vuoto come esposizione; spazi

obliqui e tagliati da aperture irregolari conducono a uno stretto cortile chiuso

tra pareti di cemento. Percorrendo il vuoto della galleria, un rumore

misterioso e spiacevole può accogliere i visitatori, come di ferraglia lavorata

in una fabbrica. Poco oltre, nel cortile, una singolarissima opera, "Shalechet"

("Foglie cadute" in ebraico) di Menashe Kadishman, svela il mistero di quel

rumore, prodotto da altri eventuali visitatori, invitati dai cartelli a utilizzare

l'opera camminandoci sopra. Sono centinaia di tondeggianti pezzi di ferro,

forati per creare la traccia infantile di un viso sofferente e buttati per terra

come foglie, per ricoprire più volte, su più strati, la superficie del cortile:

un'immagine terribile e inquietante del dolore e un modo inusuale di fruire di

un'opera d'arte.

Shalechet (Foglie cadute in ebraico), di Menashe Kadishman

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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014

Il Museo di Libeskind rappresenta l'ingrandimento di una struttura

culturale già esistente, fondata nel 1962 e ospitata in un edificio ottocentesco

piuttosto anonimo, che oggi funziona da ingresso e da spazio per esposizioni

temporanee; il contrasto tra quella semplice facciata e le lucide pareti

metalliche, incise dalle aperture oblique, del nuovo edificio, è fortissimo e

rientra nella forza espressiva del progetto. Siamo nel quartiere di Kreuzberg,

non lontani dalla piazza dedicata al ponte aereo che nel dopoguerra salvò la

città dall'assedio sovietico.

Veduta esterna della vecchia e della nuova parte del Museo Ebraico

Per trovare il Monumento di Eisenman dobbiamo invece ritornare nel

pieno centro della città, non lontano da Topographie des Terrors. L'area

prescelta e il monumento sono il frutto di un dibattito politico, culturale e

artistico che ebbe inizio nel 1983 e che sicuramente non si è ancora concluso.

Senza entrare nel dettaglio di una storia complessa e intricata tanto per la

scelta del sito, quanto per la scelta del monumento stesso, basti ricordare che

il progetto vincitore dell'ultimo concorso, nel 1997, portava la firma non solo

di Eisenman, ma anche di Richard Serra e che quest'ultimo rinunciò

all'incarico nel 1998. Altri cinque anni di polemiche e di compromessi

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dovevano passare prima che il tenace Eisenman potesse vedere l'inizio dei

lavori nell'area occupata in epoca nazista dai giardini del Ministero degli

Interni, a pochi passi dagli scomparsi centri del potere hitleriano e

praticamente sul retro della ricostruita Pariser Platz, la piazza simbolo di

Berlino, dove si trova la Porta di Brandeburgo e dove gli americani e i

francesi hanno costruito le loro nuove ambasciate (a poche decine di metri si

trovano anche l'ambasciata russa e quella britannica).

Il monumento con lo sfondo del retro di Pariser Platz

Si può entrare nel Monumento quando e dove si vuole, non ci sono

cancelli; potrà dare fastidio, a volte, che qualche visitatore corra o scherzi

dentro questo luogo inquietante che a volte rimanda a un labirinto, senza

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esserlo affatto, più spesso a un cimitero le cui normali strutture si stringano

intorno a noi, ma è nella normalità delle cose che ciò accada. I visitatori

diventano parte dell'opera e reciproco riferimento visivo.

Ma si tratta di una scultura o di un'architettura? Eisenman, architetto di

fama sin dalla sua inclusione nei Five Architects di New York, e saggista

teorico di profonda capacità analitica, ha spesso dichiarato la sua

ammirazione per Adolf Loos; qui forse ha voluto costruire un luogo che

corrispondesse alla perentoria affermazione di Loos nel celebre saggio

Architettura del 1910, "Solo una piccola parte dell'architettura appartiene

all'arte: il cimitero e il monumento".59

59Nur ein ganz kleiner Teil der Architektur gehört der Kunst an: das Grabmal und das Denkmal.

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Una superficie di due ettari non può essere la base di una scultura e una

scultura non può possedere mille vedute interne e mille vedute esterne;

nonostante le indicazioni di qualche guida turistica o di qualche interprete

superficiale, allora, il Monumento di Eisenman è senza alcun dubbio una

geniale, discutibile, controversa e memorabile opera di architettura, costruita

nel centro della capitale della nuova Germania e costituita da una selva di

parallelepipedi di cemento grigio distribuiti su una griglia ortogonale di vicoli

percorribili solo a piedi. La pianta del monumento presenta infatti uno

schema regolare a scacchiera, come la pianta di certe antiche città greche e

romane o di molte moderne città americane. Non è per nulla regolare invece

l'andamento verticale, perchè le stele, tutte uguali alla base, sono tutte diverse

per l'altezza e per la lieve inclinazione, creando così una forma globale

imprevedibile e tormentata. Anche i vicoli, di eguale larghezza, pavimentati

da grigi cubetti stesi regolarmente, non sono piani, ma si inclinano senza

logica apparente, giungendo a sprofondare nel terreno in corrispondenza delle

stele più alte. In un livello sotterraneo è inoltre ospitata la Fondazione che si

occupa di catalogare e censire i nomi di tutti gli ebrei sterminati dalla follia

nazista.

Alcuni numeri possono fornire una pallida indicazione sulla singolarità

di questa costruzione: la superficie è di 19.000 metri quadrati; il primo

progetto firmato da Eisenman e Serra prevedeva 4200 stele, il progetto

realizato 2711; le stele sono di calcestruzzo, prodotto in modo tale da

garantire una facile pulizia della superficie esterna, larghe alla base 95

centimetri, lunghe 2 metri e 38, alte da zero fino a 4 metri e 70, inclinate tra

0,5 e 2 gradi; il peso medio di una stele è di 8 tonnellate; i vicoli sono 54 in

direzione nord-sud e 87 in direzione est-ovest; l'illuminazione è fornita da

180 lampade fisse. Sul lato della Ebertstrasse sono stati piantati 41 alberi.

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Nel suo discorso all'inaugurazione del Monumento, il 10 maggio del

2005, Eisenman ha detto: "Non mi resta che tacere adesso e consegnare

questo monumento al popolo tedesco, adesso e per il futuro, e lasciare che il

vostro monumento parli a e per il popolo tedesco, e al mondo intero. Nel

cuore io sono un newyorkese, ma da oggi parte della mia anima resterà per

sempre qui a Berlino"60.

60For now it remains for me to become silent, to give this memorial to the German people, now and in the future, and to let your memorial speak to and for the German people and to the world. At heart I am a New Yorker, but from today, part of my soul will always remain here in Berlin.

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DIMENTICARE

discussioni

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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014

Matteo BorriStoria della malattia di Alzheimer

Bologna, il Mulino, 2012, pp. 181,

ISBN 978-88-15-23365-3, € 16,00

recensione di Giovanna Frongia

«La lettura storica di un fatto scientifico comporta il non dimenticare le

caratteristiche dei vari momenti che lo hanno definito» (p. 164). È questo il

principio sotteso al saggio Storia della malattia di Alzheimer di Matteo Borri

che, nel descrivere in maniera dettagliata e minuziosa il percorso che ha

portato alla sistematizzazione nosografica della Alzheimer’s Disease, ci svela

la storia di un vero e proprio processo scientifico che non procede in forma

lineare: «È possibile affermare che questa storia della malattia di Alzheimer

ha le caratteristiche di un “particolare” intreccio fra motivi scientifici e motivi

comunicativi, un processo di costruzione di un sapere attraverso

l’unificazione di più saperi diversi. La storia della malattia di Alzheimer è

così una storia esemplificativa di un processo scientifico che, come tale,

rimane ancora oggi aperto» (pp. 147-148).

Paolo Rossi, nella sua bella “Presentazione” al testo (pp. 7-23), ci

ricorda come la dimensione della dimenticanza sia caratteristica essenziale

del procedere della scienza che, per costruirsi come sapere sistematico e

organico, avanza dimenticando le vecchie teorie superate e le riflessioni

critiche costruite intorno ad esse, ma anche le stesse relazioni fra le teorie e

l’ambiente scientifico nel quale si sono generate per diventare «qualcosa di

simile ad un organismo, a un corpus coerente e compatto di definizioni,

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teorie, esperimenti» (p. 17). A perdere la memoria non è solo il paziente

diagnosticato Alzheimer, anche la visione organicista della malattia come

correlazione tra sintomo e lesione organica rischia di cancellare lo stesso

individuo malato e le sue sofferenze: «Quando è diagnosticata una malattia

mentale cronica come la malattia di Alzheimer le persone scompaiono dalla

vita sociale. L’individuo e la sua storia attraverso l’etichetta della malattia,

resa realtà ontologica con il nome della diagnosi, entrano in un mondo che

non ne riconosce più l’individualità, riducendo il soggetto a un insieme di

sintomi, di mancanze, di disgregazione. Nella malattia di Alzheimer

scompaiono i neuroni e scompare anche l’individuo» (p. 168). Lo studio

minuzioso di tali fatti dimenticati, intersecati dall’analisi di un secolo di storia

della psichiatria, è il vero oggetto del volume, che ripercorre la storia della

malattia di Alzheimer a partire dal 25 novembre 1901, giorno in cui il medico

tedesco Aloysius – Alois – Alzheimer incontra per la prima volta la paziente

Auguste Deter nell’istituto psichiatrico di Francoforte sul Meno.

Lo studio di una malattia, afferma Borri nell’“Introduzione”, «riguarda

sia i fatti scientifici e la loro descrizione, sia quei particolari rapporti umani

che si instaurano fra il paziente e il suo medico» (p. 25). Il primo capitolo,

intitolato “Trovare” (pp. 31-78), si apre con l’incontro tra la signora Auguste

e il giovane medico Alois Alzheimer. Il quadro clinico della paziente e

soprattutto i severi disturbi del linguaggio manifestati in età non avanzata –

51 anni – colpiscono subito il medico, che continuerà a seguire il suo caso

anche dopo aver abbandonato l’istituto di Francoforte per recarsi a Monaco a

lavorare nella clinica dello psichiatra Emil Kraepelin. Alla morte della

paziente, Alzheimer si fa inviare il cervello per effettuare un’autopsia,

scoprendo nell’indagine istologica un fatto da lui stesso definito come un

“insolito” caso, un quadro anatomopatologico non ancora descritto dalla

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comunità scientifica del tempo. L’esame istologico mostrerà infatti la

degenerazione delle neurofibrille e il nuovo caso clinico sarà comunicato alla

comunità scientifica nel 1906, senza però riscuotere particolare interesse. È

solo a partire dal 1910, anno in cui Kraepelin inserisce la malattia nell’ottava

edizione del suo manuale di psichiatria, che si apre un primo fecondo periodo

di studi sulla nuova forma patologica, nel riferimento a diversi ambiti

disciplinari. Utilizzando per la prima volta il termine Alzheimerische

Krankheit per indicare quello specifico insieme di dati clinici e

anatomopatologici osservati da Alzheimer e confermati da altri casi studiati

dai suoi collaboratori italiani Gaetano Perusini e Francesco Bonfiglio,

Kraepelin propone una nuova categoria nosografica supportata da prove

istopatologiche.

Nel secondo capitolo – “Cercare” (pp. 79-118) – Borri analizza il

contesto scientifico nel quale si inserisce la scoperta del medico tedesco,

nonché le metodologie di indagine da lui utilizzate. Per la psichiatria di inizio

Novecento la malattia mentale aveva come causa principale lesioni cerebrali e

doveva essere quindi compresa correlando i sintomi della demenza con le

caratteristiche del tessuto cerebrale. Alzheimer impostò la sua carriera di

studioso intorno all’anatomopatologia del cervello, ma fu anche un bravo

clinico e proprio attraverso il colloquio clinico e l’attenta osservazione della

sua paziente il medico tedesco fu spinto ad approfondire l’insolito caso,

confermato poi collegando i comportamenti patologici intra vitam con

specifiche alterazioni corticali esaminate post mortem. Analizzando il testo

originale di Alzheimer del 1907, qui presentato per la prima volta in una

traduzione integrale dello stesso autore, Borri afferma: «In realtà pur in

presenza di dati diversi e di diversa natura, il medico ha comunque di fronte a

sé una concreta unicità: l’individuo in situazione di malattia e questo porta il

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suo sistema conoscitivo a cercare una sintesi concettuale. L’occhio del clinico

assume dunque tutto il complesso dei fatti che si sviluppano e si intersecano

nella storia dell’ammalato, storia che può essere oggetto di un racconto» (pp.

39-40).

Il terzo capitolo – “Comunicare” (pp. 119-161) – ripercorre il processo

di “giustificazione” che ha portato alla visione condivisa del concetto di

malattia di Alzheimer, dai primi del Novecento fino all’attuale

sistematizzazione nel manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali

(DSM). L’analisi di Borri si concentra sul periodo 1910-1974 e offre una

dettagliata indagine sul contributo degli studiosi italiani, tra i quali spicca

Ugo Cerletti, al tema delle demenze e alla malattia di Alzheimer, per passare

poi all’analisi delle categorizzazioni delle demenze presenti nei DSM, dalla

prima versione del 1952 fino al DSM-IV del 2004. Tale analisi mostra come

nella psichiatria moderna assuma un’importanza primaria, rispetto al passato,

il sintomo connesso alla perdita della memoria e il tema della personalità e

dell’individualità. La malattia di Alzheimer non deve essere compresa solo

attraverso la correlazione tra sintomi della demenza e caratteristiche del

tessuto cerebrale, ma anche come il risultato di una serie di deficit cognitivi

dovuti a diverse cause. Negli studi sulla malattia di Alzheimer riveste

particolare importanza l’analisi dei disturbi del linguaggio di un individuo

affetto da demenza, il che non riguarda solo una precisa e localizzata

disfunzione organica, ma la persona nella sua integrità. Nella presa in carico

di pazienti Alzheimer, suggerisce l’autore, la direzione che oggi si auspica è

quella di porre una sempre maggiore attenzione agli aspetti residui del

linguaggio che presenta il paziente per «andare al di là di un’ottica centrata su

ciò che viene a mancare» (p. 159).

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Nel quarto capitolo – “Casi clinici, ricerche in laboratorio e domande ancora

aperte: bastava leggere?” (pp. 163-173) – Borri offre notevoli spunti di

riflessione su questioni tuttora aperte nel dibattito contemporaneo sulla

malattia di Alzheimer. Una lettura attenta mostra come tante delle riflessioni

epistemologiche odierne sulla malattia siano le stesse presenti all’inizio del

Novecento, in particolare il rapporto fra l’etiologia della malattia e la senilità.

Se restiamo all’interno dell’ottica centrata sulla malattia, rischiamo di

dimenticare «come la struttura del problema della Alzheimer’s Disease non

sia “solo” un fatto scientifico, ma anche un tema profondamente umano» (p.

26), che non deve quindi essere letto soltanto da un punto di vista biomedico,

ma anche contemplare un ambito più esteso che prenda in considerazione

persino i fattori psico-sociali dell’individuo malato. Tali aspetti non si

esauriscono nella cura dell’organo o della disfunzione, ma si inseriscono in

un sistema più complesso di relazioni sociali, di sofferenza e di affetti,

dimostrando come la malattia sia in primo luogo un nuovo modo di esistere

per l’individuo. L’attenzione degli studiosi oggi è centrata non solo sulla

malattia, ma sulla sofferenza della persona affetta da Alzheimer e sul

miglioramento della qualità di vita attraverso strategie di arricchimento e

valorizzazione delle sue abilità residue. La storia di una malattia, infatti, è

sempre la storia di quel malato particolare e in un’ultima analisi, conclude

l’autore, «La comprensione della storia naturale della malattia si

concretizzerà nelle storie degli individui che vivranno un invecchiamento

accolto come una vera realtà personale, anche se di tipo Alzheimer. Questa

però è un’altra storia, ancora da costruire e documentare» (p. 173).

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Günther AndersDopo Holocaust, 1979

Torino, Bollati Boringhieri, 2014, pp. 97ISBN 978-88-339-2588-2, € 13,00

recensione di Aldo Meccariello

Può un film provocare lacerazioni nella coscienza di un intero popolo e allo stesso tempo aprire un dibattito storiografico, culturale e civile? Quando Holocaust, una miniserie americana diretta da Marvin Chomsky con James Woods e Meryl Streep apparve nel 1979 sugli schermi televisivi in Europa e in Germania, pochi avrebbero scommesso sulle reazioni contrastanti e sulle infinite discussioni che ne seguirono. Holocaust raccontava in modo molto convenzionale ed hollywoodiano la genesi dello sterminio degli ebrei nel duro decennio 1935-1945 attraverso la storia di due famiglie tedesche, una ebrea, i Weiss, e l’altra ariana, i Dorf, il cui padre di famiglia, spinto dalla disoccupazione, si arruola nelle SS fino a diventare un criminale di guerra al fianco di Hitler. Il film, che non piacque a Claude Lanzmann, il regista di Shoah, era un’occasione per rappresentare l’atrocità e la follia dei crimini nazisti contro gli ebrei, trattando direttamente argomenti come la creazione dei ghetti e l’uso delle camere a gas. Dopo tribunali e processi, il popolo tedesco sembrava rimuovere l’interrogazione su ciò che era accaduto e già nel1946 il grande filosofo tedesco Karl Jaspers, alla fine della guerra, invitava tutti a guardare nelle stratificazioni della colpa e della responsabilità della Germania, ma tale monito rimase confinato in ristrette discussioni filosofiche di natura accademica, se non risultò addirittura un ingombro fastidioso di cui liberarsi. Come è noto, Jaspers elencava quattro distinti gradi di colpa (criminale, politica, morale e metafisica) da cui muovere per un generale scuotimento delle coscienze. Ebbene, trentatré anni dopo, nel 1979, un altro filosofo ebreo-tedesco, Günther Anders, l’allievo irregolare di Cassirer e Heidegger, il primo marito di Hannah Arendt, rilancia il monito jaspersiano approfittando della proiezione sugli schermi televisivi tedeschi nel gennaio

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del 1979 di Holocaust, che è visto da venti milioni di tedeschi. L’impatto è forte sul piano mediatico, poco rilevante su quello storiografico, culturale e civile. In realtà ciò che Anders scrive dopo nei suoi appunti è uno straordinario compendio di estetica negativa, perché ciò che Holocaust trasmette «è l’orribile parvenza o meglio la parvenza dell’orrore, che la realtà che percepiamo non riesce a trasmettere come invece riesce a fare il mezzo artistico. E ciò che percepiamo non è la “parvenza”, bensì la realtà di allora che, per essere colta, doveva essere innanzi tutto trasformata in fiction» (p. 59). Proviamo a seguire le annotazioni diaristiche andersiane in Dopo Holocaust, 1979 (con una Prefazione di David Bidussa e la traduzione e la Postfazione di Sergio Fabian), che in parte rinviano al suo precedente diario di viaggio, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966 (Torino, Bollati Boringhieri, 2008) e lo faremo montando alcune parole essenziali.

Colpa. Holocaust spalanca il vortice oscuro della vita collettiva tedesca. Perché senza Holocaust, verosimilmente, non sarebbe riaffiorato nulla. «Quando le potenze vincitrici coniarono l’espressione “colpa collettiva” non si trattò semplicemente di una formula psicologica astratta o irrazionale, ma della più che comprensibile reazione dei vincitori al totalitarismo» (p. 55). Anders ritiene che sia giusto parlare di colpa collettiva perché vi fu una mancata ribellione collettiva contro lo stato nazista che si era macchiato di crimini efferati. E nessuno poteva dire di non sapere. Dunque, il silenzio, l’omissione sono espressioni della colpa.

Ebrei. Hitler ha trasformato in un postulato la tesi darwinistica che per vivere dobbiamo sopravvivere agli altri. Lo sterminio degli ebrei non fu mezzo bensì un fine e fu il prodotto di un lavoro industriale, compiuto da milioni di uomini medi e insignificanti che il nazismo seppe però trasformare in nobiltà, in élite di massa di milioni di nobili e puri chiamati a realizzare la purificazione del paese dagli ebrei impuri. Anders ricostruisce con straordinaria lucidità l’identificazione di ebraismo e capitalismo stigmatizzatadal dittatore nazista che aveva già sorprendenti progeniture nella Questione ebraica di Marx fino a Grosz e a Weber. «La condizione dell’essere è l’assassinio. […] Modello e personificazione della vittima indispensabile per

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la sopravvivenza è dunque […] l’ebreo. Auschwitz […] è piuttosto l’incarnazione dell’ontologia nazionalsocialista» (p. 79). I tedeschi non vollero vedere prima né capire dopo ciò che era accaduto.

Etica. «Siamo all’anno zero della nuova etica» (p. 52). Le categorie etiche tradizionali, le filosofie morali con Auschwitz e Hiroshima sono diventate obsolete e superflue. Ma ha ancora senso fondare un’etica che sia all’altezza delle sfide di un mondo senza Dio e prossimo ad essere un mondo senza uomo? L’analisi andersiana è implacabile nella presa d’atto che «da un momento all’altro il nostro mondo può rovesciarsi dallo stadio finale in quello della fine del tempo» (p. 52). Allora occorre muovere dal postulato dell’elaborazione nato in ambito psicoanalitico che può fornire in sequenza (trauma – rimozione – presa di coscienza del rimosso – guarigione) gli strumenti necessari perché il popolo tedesco faccia i conti col proprio passato non lasciandosi, però, guarire, ma lasciandosi traumatizzare (pp. 41-42). Holocaust ha messo in moto questo processo e il turbamento che ha provocato in milioni di tedeschi è la condizione possibile per una «guarigionemorale» (p. 42). Il filosofo morale non può più far finta di nulla, deve prendere atto che amore e odio, bene e male sono sentimenti antiquati e perciò posizionarsi dentro le questioni drammatiche che riguardano la sopravvivenza del genere umano.

Fiction. Scrive Anders che «solo attraverso la finzione, solo attraverso i casi singoli, l’accaduto e l’innumerabile possono essere resi perspicui e rammemorabili […]. In realtà, il 1978 è il 1945 dal momento che solo oggi è sopraggiunto quello schock che avrebbe dovuto prodursi allora» (p. 30). Essere stati ignoranti o inconsapevoli è la vera colpa dei tedeschi. La finzionerichiama la possibilità che il cinema con le sue peculiari strutture narrative possa contribuire a focalizzare il discorso storico assai più dei documentari o degli stessi libri di storia. Prima Marc Ferro, poi Pierre Sorlin hanno spiegato a lungo interferenze e confluenze tra cinema e storia. ll film Holocaust è l’occasione che deve costringere i tedeschi a confrontarsi con il tragico della loro storia. «Ciò che dobbiamo fare, e ciò che il film ha fatto, è ritrasformare le cifre in esseri umani. E mostrare come i sei milioni di gassati siano stati sei

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milioni di individui» (p. 34). La finzione che fornisce i fatti diventa indispensabile proprio «perché la mostruosità e la dismisura di ciò che accadde, oggi non è più percepibile e conoscibile. […] Questa invisibilità deve essere revocata […] e per questo abbiamo bisogno di lenti, e precisamente non di lenti di ingrandimento, ma di lenti di rimpicciolimento» (pp. 63-64).

Male. Auschwitz e Hiroshima. Auschwitz o Hiroshima? È possibile quantificare e qualificare il male? Furono più malvagi gli auguzzini di Auschwitz o i piloti di Hiroshima? Anders si interroga, propone diagnosi, prospetta epiloghi, lui che aveva dialogato col pilota di Hiroshima Eatherly e si era spinto a scrivere una lunga lettera al figlio di Eichmann, Klaus. «Non esiste solo l’innocenza del male (Eatherly) e la banalità del male (Eichmann), ma anche – anzi non “anche” ma “soprattutto” la malvagità del vero male» (p.66). Tempi molto diversi erano quelli in cui il male si manifestava nel maligno e in cui dunque si poteva sperare di «vincere il male combattendo contro il male», mentre oggi esso si presenta irriconoscibile e sfuggente perché il male non è più distinguibile dal fondale di un universo quotidiano moralmente indifferente, essendo divenuto esso stesso il mondo (p. 67). Sottolinea con grande acume Sergio Fabian nella magistrale postfazione: «Piùil male è abnorme e lontano, più la coscienza fallisce e, proprio dal suo scacco, dice Günther Anders, deriva il senso d’integrità morale, l’attestato di buona condotta che sbianca le coscienze» (pp. 91-92).

Rimozione. Holocaust non solo è l’occasione per ripensare ciò che è accaduto, ma ha il merito di far affiorare il rimosso. È un film magnanimo e filosofico insieme. Dice il trauma o qualcosa di più, innesca procedimenti autoriflessi mai provocati prima nella coscienza di ogni tedesco. «Non solo non ci sono ricordi ma non ci sono nemmeno traumi. Furono indifferenti o si assuefecero all’indifferenza» (p. 37). Se non c’è ricordo non c’è nemmeno trauma.

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AZIONI PARALLELE FASCICOLO 1, 2014

Questo improvvisato e parziale vocabolario andersiano estrapolato dal testo riproduce rotazioni e derive del pensiero dell’Autore: il ritmo è incalzante, i concetti si solidificano, lo scacco dei sentimenti dilaga in superficie, il male, cambiando segno nella percezione di tanti altri olocausti che si compiono ogni giorno nel mondo dopo il tragico 1945, si fa sempre piùattivo e produttivo, il tempo della storia sembra ingovernabile e sgretolarsi in un imminente tempo della fine. Che cosa resta? Quale responsabilità o compito abbiamo di fronte? Forse l’attitudine a camminare in un universo di segni come scuciti (per dirla con Claudio Magris), a condizione che si apra unnuovo capitolo dell’etica che Anders chiama: MAXIMA MORALIA (p. 83).

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Marco Fortunato, L’offesa, la colpa, il fantasma. Muovendo da Caducità di Freud

Prefazione di Elio MatassiGenova, il melangolo, 2013, pp. 195, ISBN 9788870189193, € 22,00

recensione di Aldo Meccariello

Marco Fortunato coniuga in questo libro l’offesa, la colpa e il fantasma,esplorando con grande rigore analitico ed intelligenza ermeneutica i loroeffettivi rapporti e i loro transiti interdisciplinari. Si tratta di tre nozionicomplesse che rientrano tra quelle più dibattute soprattutto in ambitopsicoanalitico e trovano una propria collocazione esplicita in un celebre testodi Freud, Caducità, del 1915, pubblicato a Stoccarda un anno dopo nel cuoredella catastrofe della Grande guerra che «depredò il mondo delle suebellezze».

Nel tardo autunno, o all’inizio dell’inverno del 1915, Freud scrive di unapasseggiata «attraverso una contrada estiva in piena fioritura» avvenutanell’estate prima del conflitto mondiale, dunque nel 1913. Freud è incompagnia di Rainer Maria Rilke, il poeta delle Elegie Duinesi e di LouAndreas Salomé, che era stata l’amica prediletta di Friedrich Nietzsche. Temadella conversazione è la caducità, ossia il valore della caducità, l’evidenzache il nostro dominio sul mondo è precario e la certezza che ogni cosa perirà.Freud avverte in questo splendido testo che la percezione della caducitàanticipa lo choc della morte, dell’inabissarsi di tutte le cose, ma allo stessotempo si può intravedere una nuova luce che le avvolge e le protegge. «Nelcorso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpoe del volto umano, ma questa breve durata le aggiunge un nuovo incanto».

Il volume di Fortunato prende le mosse da Caducità, isolando dal testofreudiano «i tre più salienti approcci speculativo-esistenziali al problema-vulnus della caducità/della mortalità: la prima posizione è la consolazione

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metafisico-religiosa, la seconda posizione è la consolazione laica e la terzaposizione è la non consolazione. Proviamo ad esplorare ciascun approccio,evidenziando punti di forza e punti di debolezza, nonché il punto di vistadell’Autore. Certamente la prima posizione è quella classica di tanta filosofiae di tanta teologia, perché guarda oltre/dietro/al di sopra della caducità,aggirandola con un richiamo alla dimensione trascendente della realtà, «ad unalternativo binario di realtà, un livello della redenzione, della salvezza e dellapienezza che smentisca - neutralizzi - rovesci quel dramma e che sia, esso sì,la vera ultima parola» (p. 24). Il positivista, l’illuminista, l’ateo Freud,osserva Fortunato, non è tenero con questa posizione ritenuta non seria e pocorispettosa sul piano logico. Si tratta di una posizione ingenua che segna inmaniera fin troppo evidente «il trionfo del desiderio e della speranzasull’esperienza e sulla ragione, del sogno sulla dura effettualità, del principiodi piacere su quello della realtà» (p. 26).

Ma per il grande filosofo russo Šestov, che Fortunato interroga nelladiscussione della prima posizione, questo cosmo della ragione è destinato arivelare il suo carattere mendace e a crollare di fronte ad alcune esperienzedecisive dell’esistenza che ci toccano personalmente e ci restituiscono allanostra realtà di individui concreti, e quindi alla nostra paura. Tale èl’esperienza del dolore, legata alle disgrazie, alla malattia, alla vecchiaia,all’esperienza della morte, la cui deformità mostruosa e le cui sofferenze cicostringono a dimenticare ogni cosa, comprese le nostre verità evidenti, e apartire alla ricerca di una verità nuova. Queste esperienze, infatti, ci apronogli occhi su un universo di dis-armonie, di caos che recidono i legami con lanostra precedente esistenza e ci inducono a pensare che è il momento dicompiere il salto ad un’altra metafisica, o, in altri termini, ad un’altraontologia. Nessuna scienza può venire a capo dell’enigmaticità dell’esistenza,sostiene Šestov richiamando echi pascaliani e kierkegaardiani. Semmai,l’uomo deve trarre dalla disperazione estrema l’energia e l’audacia perresistere al male e provocare il suo ribaltamento in un bene ancora più grandeperché ripristini la sua piena padronanza e la sua piena felicità, «qui nelmondo reale creato da Dio» (p. 33).

Il ritmo di scrittura di Fortunato è serrato, dialettico, in specie quando,dopo aver illustrato la tesi, la ribalta, ne coglie i lati più problematici. Al bel

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raccontare di Šestov egli contrappone la linea Spinoza-Nietzsche, cui siaggiunge anche il Leopardi del Cantico del gallo silvestre, secondo cui loscenario del completo annientamento del mondo lascia ben poco sperare nellafelicità o infelicità dell’uomo. La seconda posizione che Fortunato isola neltesto freudiano è quella laica e sobria rispetto al problema-vulnus dellacaducità e mortalità di ogni cosa. Tutt’altro che un’umiliazione, la caducità èun dato di fatto, una verità inconcussa che semmai ha il valore della rarità. Lostesso Freud sembra riconoscerlo quando stabilisce una superiorità in fatto divalore del caduco/del mortale rispetto a quello che non lo è. Infatti Freud,durante la passeggiata, si accorge del turbamento del giovane amico e glienechiede la ragione. Il giovane poeta gli risponde che è diventato triste alpensiero che tutta quella bellezza intorno presto perirà con l’inverno. Freudrovescia l’interpretazione del poeta. Non è la bellezza che perirà, ma è l’uomoche scomparirà a causa della sua condizione umana. Quanto alla bellezzadella natura, essa ritorna a fiorire ogni anno dopo l’inverno e questo ritorno inrapporto alla durata della vita è un eterno ritorno. Caducità dunque davantiall’eterno alternarsi delle stagioni: l’uomo, al contrario delle piante, nonrinasce in primavera dopo la sua morte e un doloroso conflitto gli impedisce,dunque, di godere pienamente della bellezza della vita.

Ciò che Freud – osserva l’Autore – non può approvare, anzi sembragiudicare con severità, è che l’individuo-uomo tenga fermo, conrammemorazione commossa e addolorata, a un oggetto d’amore quandoormai è finito/perduto/morto in quanto realtà rilevabile e tangibile (p. 86). Laterza posizione è la non consolazione, di gran lunga quella preferitadall’Autore, al punto che occupa la metà del volume. L’argomentazione èsorretta da una sorta di «‘gusto’ paranarrativo» di cui parla Elio Matassi nellabreve e agile prefazione al volume. Il lettore è invitato ad inoltrarsi in unrepertorio di testi non solo filosofici, ma anche narrativi e filmici, che megliodanno conto di quella «pre-visione della rovina, del destino di caducità e dimorte cui è consegnato il grande e il bello» (p. 95).

Il giovane poeta di Caducità che rivela i sicuri tratti di Rainer MariaRilke non potrà mai ricavare piacere dall’incontro con tutto ciò che è bello ela sua «Stimmung melanconica è-non può che essere permanente e assoluta,inconsolabile, perché qui, chiunque e qualunque cosa si incontri-si veda-sitocchi (verrebbe fatto di dire: ovunque ci si giri), si incontra-si vede-si tocca

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sempre e comunque un caduco/caducità, un mortale/mortalità» (p. 95). Delresto il grande tema delle rilkiane Elegie Duinesi è che dallo spaventoso e, nelterribile di ciò che rapidamente muta, si possono costruire le ragioni dellanostra esistenza. A questo punto si può dire «che siano state poste le premessenecessarie all’espressione della nostra posizione circa l’idea del poeta diCaducità secondo cui le cose-gli individui sarebbero svalorizzati dalla lorofinitezza/dalla condanna a morte che è emessa contro di loro» (p. 136), ossiaesposte all’offesa del tempo.

Il lettore in questo punto del libro è affascinato da un’analisi sottile eraffinata del film Dimenticare Venezia, di Franco Brusati (1979), cheFortunato eleva a modello esemplare per questo tipo di considerazioni. Il filmracconta una comunità tutta al femminile che vive in una fattoria veneta; cisono due giovani donne, Claudia e Anna, zia Marta e la balia/servitrice dellacasa, l’anziana Caterina. Le quattro donne convivono senza grossi problemi.Anna è in pratica colei che si occupa della fattoria, dei raccolti e dellagestione vera e propria della casa, che è di proprietà di Marta, una ex cantantelirica a riposo dal bel passato e dal carattere gioviale. Claudia invece èun’orfana accolta nella casa e che lavora come maestra insegnando aibambini del vicinato e gestendo anch’essa la fattoria, alla quale presta la suaopera. L'efficace titolo rimanda a Venezia, città cristallizzata nella storia enella memoria, «terra maliosa ma potenzialmente paralizzante dei ricordi» (p.137). Lo snodo principale del film è probabilmente questo, il momentocruciale in cui il peso dei ricordi deve fare i conti con il presente, con l’etàadulta dei protagonisti che oscuramente sentono di dovere un pesante tributoproprio alla loro adolescenza. Claudia, la più giovane, vorrebbe che tuttorestasse così per sempre, che nulla mutasse più per loro, che non si verificassepiù alcun cambio di scena. Il tempo, però, non lo si ferma, i ricordi devonorestare tali per poter vivere il presente. Ma è un bene che l’uomo esigaimmortalità e unicità o l’immutabilità del tempo? Non si rende forse conto dicommettere un errore di valutazione, di contrarre la colpa, la massima colpa?L’Autore sviluppa su questo punto un complesso ragionamento che muovedall’antico detto di Anassimandro fino ad Heidegger passando per RomanoGuardini e Simone Weil. A rimuovere ogni residua traccia di violentaaffermazione dell’uomo è proprio Weil, che si è sottratta a qualsiasi sospettodi colpevolezza, lasciandosi morire fino all’in-esistenza, assecondando così lapropria estinzione fisica ad appena trentaquattro anni.

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Infine, resta il fantasma, il terzo termine del trittico che dà il titolo allibro di Fortunato. Qual è la natura del fantasma? L’inconsistenza, lafuggevolezza, l’inafferrabilità, l’evanescenza, l’invisibilità, tratti cheaboliscono essenzialmente «la pressione percettivo-sensoriale, che è lacomponente principale della generale e complessiva pressione e fatica dellarealtà» (p. 182). Il fantasma impegna la vista, sia pure solo quella interna, escorre nel silenzio di un solitario auto-ascolto, come nel caso in cui si ricevesenza preavviso un telegramma che preannuncia l’imminente visita di unamico perso di vista da tempo. Quello del fantasma o dei fantasmi è il temacaro a tanto cinema e a tanta letteratura (da Visconti a Borges, da Marias aCardarelli), come Fortunato evidenzia con raffinati ed efficaci commenti adUn cuore così bianco, il romanzo di Marias, a Funes o della memoria, ilcelebre racconto di Borges, a Passato, la struggente poesia di VincenzoCardarelli, o a La tragedia dell’Infanzia di Savinio. Richiami puntuali estringenti per esplicitare quella che l’Autore chiama l’esperienza delfantasma, che si situa «fra le sole forme e situazioni sublimi di trascendenzadivina – di permanenza nel mondo che però lo eccede, di uscita dal mondoche però rimane nel mondo – possibili e “frequentabili” dall’uomo, accanto aldolore, alla dis-interessata e in-utile dépense, al sacrificio di sé e a certefolgorazioni offerte dall’arte» (p. 186). Si chiude qui l’indagine che MarcoFortunato ha condotto in maniera eccedente ed estrema rispetto ai canonitradizionali dell’argomentazione filosofica, il cui significato resta tutto dacercare, dentro la trama o l’altrove di una scrittura che mima l’im-possibileoblio.

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Tony Judt L’età dell’oblio. Sulle rimozioni del ’900

Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 485ISBN 978-88-420-9632-0, € 20,00

recensione di Aldo Meccariello

Sulle rimozioni del ’900

Il libro di Tony Judt su L’età dell’oblio affronta le «rimozioni del ’900»,attraverso una raccolta di saggi pubblicati su varie riviste internazionali tra il1994 e il 2006 e divisi in quattro sezioni (Il cuore di tenebra, La politica delcompromesso intellettuale, «Lost in transition»: luoghi e memorie, Il (mezzo)secolo americano).

L’Autore, che è professore di Studi europei e direttore del CentroRemarque presso la New York University, disegna un intrigante affrescocomposto di vari blocchi tematici che si integrano coerentemente alla luce diun filo conduttore: la sua vibrante denuncia della rimozione dell’ereditàintellettuale, economica e istituzionale del Secolo breve. Nel dibattitopubblico e in certe tendenze storiografiche e politologiche è infatti diffusal’errata convinzione che nell’ultimo decennio del secolo scorso si sia entratiin un mondo nuovo, in un’era progressiva e di gran lunga migliore che non habisogno di apprendere alcunché dal passato.

Lo storico americano afferma ironicamente che «il passato non ha nulladi interessante da insegnarci», una convinzione largamente influente, a partiredalla fine del comunismo nel 1989-91, vissuta come il «trionfodell’Occidente» e la «fine della Storia». A dire dell’Autore, però, la fretta dilasciare un secolo alle nostre spalle lascia stupefatti: invece che ricordare, sitende a dimenticare e si dipinge il ’900 come «un palazzo della memoriamorale: una Camera degli Orrori Storici di valore pedagogico le cui stazionisono “Monaco”, “Pearl Harbor”, “Auschwitz”, “Gulag”, “Armenia”,“Bosnia”, “Ruanda”» (p. 6). Persino gli snodi cruciali del secondodopoguerra (dalla Guerra dei sei giorni alla crisi cubana, dalla caduta deipaesi comunisti alla politica estera americana negli anni della guerra fredda),costituiscono invece uno strumento essenziale per una lettura politica dellastoria presente. Ma tra le più rilevanti esperienze che abbiamo dimenticato visono, secondo Judt, il significato della guerra, l’ascesa e il conseguentedeclino dello Stato come Stato-nazione e come Stato politico, lo sviluppo e la

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dissoluzione definitiva del marxismo, il ruolo pubblico degli intellettuali. «IlNovecento è stato il secolo degli intellettuali […] per definizione“impegnati”: di solito a perseguire un ideale, un dogma o un progetto» (pp.14-15), come è stato sin dai tempi dell’affaire Dreyfus. E molti sono gliintellettuali presenti in questo libro: da Arthur Koestler a Manès Sperber, daHannah Arendt ad Albert Camus, da Primo Levi a Louis Althusser. Judt nonsolo tratteggia biografie esemplari del secolo trascorso, ma ne coglie linee dicontinuità e di discontinuità rispetto al ritmo impetuoso ed incalzante degliavvenimenti. Particolarmente acuto è il ritratto che l’Autore fa di un suocollega più celebre in: Eric Hobsbawm e il fascino del comunismo (p. 116).In realtà si tratta della recensione dell’autobiografia di Hobsbawm pubblicatada Judt nel 2003 sulla «New York Review of Books». Judt non è affattotenero con l’autorevole storico inglese che non si accorge della disastrosaesperienza del comunismo novecentesco, né si sforza di capire le tragedie del1956 e del 1968, provocate dall’invasione dei carri armati sovietici.«Hobsbawm, in breve, è un mandarino – un mandarino comunista – con lasicurezza e i pregiudizi della sua casta» (p. 122). Di tutt’altro tenore è ilritratto che Judt fa di Edward Said, il cosmopolita senza radici, il celebreautore di Orientalismo scomparso nel 2003, che è riuscito con la sua opera,«praticamente da solo, a mantenere aperto in America un dibattito su Israele,la Palestina e i palestinesi» (p. 173).

Tuttavia il saggio di Judt non diagnostica soltanto macerie e fallimentidelle ideologie novecentesche, ma dilata i confini storico-geograficidell’Europa dopo il 1945 indicando cicli e crisi di assetti geopolitici chestanno rimodellando la politica mondiale. La parte terza del libro esploraluoghi e memorie (la catastrofe della Francia nel 1940, l’Inghilterra di TonyBlair, il Belgio nella storia del ’900, la Romania dopo la dittatura diCeausescu, Israele e la guerra dei sei giorni del 1967) mentre la parte quartasi spinge ad analizzare gli snodi della storia americana durante la guerrafredda, anche nei suoi rapporti con il vecchio continente. L’Autore in piùpassaggi della sua esplorazione rammenta che «viviamo con il timorecrescente di dimenticare il passato, pensando che in qualche modo si perderàtra le cianfrusaglie del presente. Commemoriamo un mondo che abbiamoperduto, a volte prima ancora di averlo perso» (pp. 192-193).

Non ci si può proiettare verso il futuro ignorando i fatti che vengono dalpassato, rimuovendo con un colpo di spugna tutto ciò che il ’900 ha prodottonel bene e nel male. L’ovvietà di questa affermazione è presa invecetremendamente sul serio da Judt, che stigmatizza un vero mutamento delsenso storico e della sua relazione con la memoria e l’oblio. Il nuovo sensostorico tende a sopraffare la memoria e ad isolare nuovi nuclei fondativi comenel caso degli Stati Uniti d’America, che guardano all’11 settembre 2001come data simbolica e materiale di una rinascita della nazione. Si sta

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affermando la pericolosa tendenza di un recupero della memoria che è piegatasempre più a fini politici e comunque legati alle esigenze attuali, senzarispetto per la dimensione storica nel vero senso del termine. Questo librorobusto e ricco di stimoli può essere letto in molti modi come un’infinitaargomentazione intorno alla perdita della memoria storica e collettiva che, peressere rianimata, deve attraversare deserti senza più stelle polari.

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