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Avv. Alberto Venezia www.albertovenezia.it UGIVI Unione Giuristi della Vite e del Vino Verona – Vinitaly – 7 aprile 2001 Nuovi oneri e adempimenti nel rapporto di agenzia Patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto Indennità di fine rapporto e diritto alla provvigione Premessa. - 1. L’attuazione della direttiva 86/653 ed il criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia. 2. Il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto e la legge comunitaria 2000. – 3. La forma del contratto. – 4. La provvigione e gli obblighi del preponente : i nuovi articoli 1748 e 1749 cod. civ. – 5. Lo «star del credere» e la legge comunitaria 1999. - 6. Il ruolo agenti e rappresentanti di commercio alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia del 30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000. L’atteggiamento della giurisprudenza italiana. – 7. Affinità e differenze tra la figura dell' agente e quella del procacciatore d' affari. – 8. Lo scioglimento del contratto: l’indennità di fine rapporto e l’evoluzione della giurisprudenza italiana in ordine alla validità dei criteri di quantificazione individuati dalla contrattazione collettiva. Premessa Questa relazione si propone di analizzare le novità introdotte nella disciplina italiana del contratto di agenzia dal d. lgs. 65/99 e, più di recente, dalla legge comunitaria 2000 1 . La normativa dedicata al contratto di agenzia è stata infatti oggetto di rilevanti modifiche negli ultimi dieci anni, a seguito dell’emissione della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653 2 , dei decreti legislativi attuativi della stessa n. 303/91 e n. 65/99, delle pronunce della Corte di Giustizia (del 1998 e 2000) relative alla compatibilità del ruolo agenti e rappresentanti (ed in particolare della sanzione di nullità del contratto, comminata in caso di mancata iscrizione dell’agente nel ruolo) con la direttiva 86/653, della legge comunitaria 1999, che ha sostanzialmente eliminato lo star del 1 Legge 29 dicembre 2000, n. 422, in G.U. 20 gennaio 2001, n. 16 (suppl. ord. n. 14). 2 In G.U.C.E. L 31 dicembre 1986, n. 382, 17

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Avv. Alberto Venezia

www.albertovenezia.it

UGIVI Unione Giuristi della Vite e del Vino

Verona – Vinitaly – 7 aprile 2001

Nuovi oneri e adempimenti nel rapporto di agenzia

Patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto

Indennità di fine rapporto e diritto alla provvigione

Premessa. - 1. L’attuazione della direttiva 86/653 ed il criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia. 2. Il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto e la legge comunitaria 2000. – 3. La forma del contratto. – 4. La provvigione e gli obblighi del preponente : i nuovi articoli 1748 e 1749 cod. civ. – 5. Lo «star del credere» e la legge comunitaria 1999. - 6. Il ruolo agenti e rappresentanti di commercio alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia del 30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000. L’atteggiamento della giurisprudenza italiana. – 7. Affinità e differenze tra la figura dell'agente e quella del procacciatore d'affari. – 8. Lo scioglimento del contratto: l’indennità di fine rapporto e l’evoluzione della giurisprudenza italiana in ordine alla validità dei criteri di quantificazione individuati dalla contrattazione collettiva.

Premessa

Questa relazione si propone di analizzare le novità introdotte nella disciplina italiana del contratto di

agenzia dal d. lgs. 65/99 e, più di recente, dalla legge comunitaria 2000 1.

La normativa dedicata al contratto di agenzia è stata infatti oggetto di rilevanti modifiche negli

ultimi dieci anni, a seguito dell’emissione della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653 2, dei

decreti legislativi attuativi della stessa n. 303/91 e n. 65/99, delle pronunce della Corte di Giustizia

(del 1998 e 2000) relative alla compatibilità del ruolo agenti e rappresentanti (ed in particolare della

sanzione di nullità del contratto, comminata in caso di mancata iscrizione dell’agente nel ruolo) con

la direttiva 86/653, della legge comunitaria 1999, che ha sostanzialmente eliminato lo star del

1 Legge 29 dicembre 2000, n. 422, in G.U. 20 gennaio 2001, n. 16 (suppl. ord. n. 14). 2 In G.U.C.E. L 31 dicembre 1986, n. 382, 17

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credere, quanto meno nell’accezione precedente, e della legge comunitaria 2000, che ha inserito un

nuovo secondo comma nell’art. 1751 bis cod. civ., dedicato al patto di non concorrenza dopo la

cessazione del rapporto.

Affronteremo preliminarmente la novità più recente, costituita dalla modifica della disciplina del

patto di non concorrenza dopo la cessazione del contratto, per passare poi, in sintesi, alla

problematica relativa alla forma del contratto, anche alla luce delle precisazioni contenute nei

decreti legislativi n. 303/91 e n. 65/99.

Verranno poi analizzate la principale obbligazione del preponente, ovvero il pagamento delle

provvigioni, e le modifiche apportate agli articoli 1748 e 1749 cod. civ.

Passeremo quindi all’esame dello star del credere, come modificato dalla legge comunitaria 1999 ed

alle possibilità residue, compresa l’eventuale introduzione di una clausola penale connessa

all’inadempimento dell’obbligo di informazioni.

Verrà inoltre esaminato il ruolo agenti e rappresentanti di commercio ed i riflessi delle sentenze

della Corte di Giustizia del 30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000 sulla giurisprudenza italiana che

tradizionalmente considerava la mancata iscrizione dell’agente nel ruolo quale causa di nullità

dell’intero contratto.

Analizzeremo poi le più rilevanti differenze esistenti tra il contratto di agenzia ed il contratto di

procacciamento d’affari ed i riflessi delle novità emerse nella disciplina del ruolo sui procacciatori

d’affari che dissimulino in realtà un vero e proprio contratto di agenzia.

Infine ci occuperemo del problema più rilevante, quanto meno dal punto di vista economico, emerso

a seguito dell’attuazione della direttiva comunitaria 86/653 e più precisamente i criteri di

quantificazione dell’indennità di fine rapporto e l’atteggiamento della giurisprudenza più recente, e

più in generale del contenuto dell’art. 1751 cod. civ.

1. L’attuazione della direttiva 86/653 ed il criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia.

L’attuazione della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653 è stata effettuata dal legislatore

italiano in due tempi: il primo intervento (d. lgs. 303/91) è stato infatti caratterizzato da una certa

imprecisione ed ha dato luogo a modifiche in parte insufficienti ed in parte addirittura in contrasto

con il contenuto stesso della direttiva.

La situazione italiana non è peraltro passata inosservata agli organi comunitari, che hanno avviato

una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia affinché si uniformasse al contenuto della

direttiva, con particolare riferimento ad un errore evidente contenuto nel testo dell’art. 1751 cod.

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civ. dove le condizioni per il sorgere del diritto erano state indicate come alternative anziché

concorrenti.

Da questa procedura di infrazione è scaturito il d. lgs. 15 febbraio 1999, n. 65, che ha apportato

modifiche agli articoli 1742, 1746, 1748, 1749 e 1751 cod. civ., rispettivamente dedicati alla

nozione del contratto (le modifiche apportate attengono alla forma), agli obblighi dell’agente (agire

con lealtà e buona fede), ai diritti dell’agente (con particolare riferimento al compenso), agli

obblighi del preponente ed all’indennità di fine rapporto.

Prima di affrontare i temi più rilevanti oggetto della presente relazione, è opportuno menzionare il

criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia in tema di direttive comunitarie (la cui

efficacia nei singoli ordinamenti interni, come è noto, è ben diversa da quella dei regolamenti),

consistente nella necessità per il giudice nazionale, e conseguentemente anche ed a maggior ragione

per l’operatore del diritto, di interpretare le disposizioni nazionali di attuazione di una direttiva

comunitaria, quanto più è possibile, alla luce della lettera e dello scopo della direttiva stessa.

2. Il patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto e la legge comunitaria 2000.

L’art. 5 del d. lgs. 10 settembre 1991, n.303, ha inserito nel codice civile italiano l’art. 1751 bis, che

regola il patto di non concorrenza a carico dell’agente dopo la cessazione del contratto.

Trattasi in sostanza di una sorta di estensione temporale del vincolo di esclusiva, che in precedenza

veniva disciplinata facendo ricorso all’art. 2596 cod. civ., che prevedeva la necessità di prova scritta

del patto, la limitazione ad una zona determinata ed una durata non superiore a 5 anni.

L’applicazione dell’art. 2596 cod. civ., certamente più sfavorevole per l’agente, è ora superata

integralmente dalla disciplina di cui al predetto art. 1751 bis cod. civ.

L’art. 1751 bis, conformemente al testo della direttiva, prevede che il patto di non concorrenza

debba essere redatto per iscritto, così inserendo la forma scritta (in precedenza prevista dall’art.

2596 cod. civ. esclusivamente per la prova dell’accordo) tra i requisiti di validità della clausola,

debba riguardare la medesima zona, clientela e genere di beni o servizi per i quali era stato concluso

il contratto di agenzia, e debba essere di durata non superiore ai due anni successivi all’estinzione

del contratto (così riducendo drasticamente il precedente limite quinquennale dell’art. 2596 cod.

civ.).

Prima dell’emissione della legge comunitaria 2000, non era previsto alcun compenso quale

corrispettivo per l’assunzione dell’obbligo da parte dell’agente.

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La legge comunitaria 2000, con il suo art. 23, ha inserito un nuovo secondo comma all’art. 1751 bis,

che sostanzialmente prevede il diritto dell’agente ad un’indennità in relazione all’assunzione

dell’obbligo di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto.

Preliminarmente va ribadito che il riferimento ad una presunta attuazione dell’art. 20 della direttiva

86/653 (contenuto nell’art. 23) appare difficilmente comprensibile poiché, come detto, l’art. 20 non

si occupa minimamente del diritto dell’agente ad una indennità, mentre l’art. 17 2a), ultimo

capoverso, della direttiva, si limita a menzionare la possibilità per gli Stati membri di prevedere

l’eventuale esistenza di un patto di non concorrenza dopo la cessazione del rapporto tra le

circostanze da prendere in considerazione per la corresponsione dell’indennità 3 (con riferimento al

requisito dell’equità).

Il nuovo comma prevede, in occasione della cessazione del rapporto, il diritto per l’agente alla

corresponsione di una indennità in relazione all’accettazione del patto.

Si precisa che l’indennità ha natura non provvigionale, e pertanto non sarà possibile, come talvolta

avvenuto in passato, considerare adempiuto l’obbligo di pagamento con l’inclusione dell’indennità

nella percentuale provvigionale, sia tramite una pattuizione generale (che consideri compresa nella

provvigione già riconosciuta anche l’indennità), sia con la scomposizione della provvigione e con la

correlativa indicazione di una apposita percentuale a titolo di indennità.

La norma precisa che l’indennità dev’essere determinata ad opera delle parti, tenendo conto degli

accordi economici nazionali di categoria 4, e dev’essere commisurata ai seguenti parametri:

- la durata del patto (nel limite biennale di cui al primo comma);

- la natura del contratto;

- l’indennità di fine rapporto.

In difetto di accordo tra le parti, è previsto un meccanismo di quantificazione giudiziale in via

equitativa. Il giudice, nella sua valutazione, dovrà tenere presenti anche i seguenti quattro elementi:

1) la media dei compensi dell’agente nel corso del rapporto e la loro incidenza sul fatturato

complessivo dell’agente nello stesso periodo;

2) la causa di cessazione del contratto;

3) l’ampiezza della zona;

4) il fatto che l’agente sia o meno monomandatario.

3 Questa possibilità non è stata utilizzata dal legislatore italiano, che non contempla il patto di non concorrenza tra gli elementi da valutare per l’esistenza e la quantificazione dell’indennità. 4 Che peraltro, allo stato, nulla dispongono in proposito.

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Gli anzidetti criteri appaiono senz’altro abbastanza generali, con la conseguenza che viene lasciato

al giudice un ampio margine di discrezionalità.

Margine di discrezionalità che, se da un lato dovrebbe consentire di considerare tutte le possibili

varianti delle singole fattispecie, dall’altro non depone certamente in favore della creazione di

orientamenti giurisprudenziali uniformi, quanto meno nelle sue prime applicazioni.

Resta poi il problema dell’eventuale impugnazione dell’accordo in ipotesi raggiunto dalle parti,

laddove ritenuto non conforme ai parametri sopra evidenziati.

L’art. 23, dopo aver riportato il nuovo secondo comma dell’art. 1751 bis, prosegue precisandone i

limiti di applicabilità soggettiva (che peraltro avrebbero potuto essere inseriti all’interno del comma

medesimo).

Il nuovo comma si applicherà infatti esclusivamente agli agenti che esercitino la propria attività in

forma individuale, di società di persone o di società di capitali con unico socio. Si prevede inoltre la

possibilità di applicazione anche alle società di capitali costituite esclusivamente o prevalentemente

da agenti commerciali, ove ciò sia previsto dagli accordi nazionali di categoria (che allo stato nulla

dispongono in proposito).

Infine è indicata l’entrata in vigore del nuovo comma, che acquisterà efficacia dal 1 giugno 2001.

Vari sono i problemi che potranno sorgere da questa nuova disposizione, sia con riferimento ai

contratti in corso che in relazione ai nuovi rapporti, anche in considerazione dell’inesistenza di una

disciplina transitoria.

Per quanto attiene ai limiti di operatività del patto di non concorrenza, la giurisprudenza di merito,

in relazione ad un contratto nel quale la zona era individuata sulla base di un criterio esclusivamente

geografico, ha ritenuto valida l’estensione dell’obbligo di non concorrenza a tutti i potenziali clienti

della zona, in quanto anche il contratto non prevedeva limitazioni di sorta per lo svolgimento

dell’attività promozionale all’interno della zona stessa.

La violazione del patto ad opera dell’agente costituisce un inadempimento che senza dubbio potrà

consentire al preponente di agire nei suoi confronti per ottenere il risarcimento del danno subito.

E’ inoltre possibile prevedere, sin dalla stipula del contratto, una penale per l’ipotesi di

inadempimento (è altresì consigliabile in questi casi fare salvo espressamente l’eventuale maggior

danno derivante dall’inadempimento, ad evitare che la penale debba considerarsi onnicomprensiva).

A questo proposito è opportuno segnalare alcune pronunce dei giudici di merito che hanno ritenuto

ammissibile una richiesta di inibitoria della prosecuzione dell’attività dell’agente con la ditta

concorrente (tramite un provvedimento d’urgenza), a condizione peraltro che non sia prevista

alcuna clausola penale.

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La predetta soluzione è stata ritenuta opinabile dalla dottrina, con la quale concordiamo, sul

presupposto della differenza esistente tra norme proibitive (che comporterebbero la nullità del

contratto che venisse stipulato in violazione delle stesse) e norme statuenti obbligazioni negative,

quale il patto di non concorrenza, la cui violazione non può comportare la nullità del contratto.

Va detto inoltre che il terzo preponente è del tutto estraneo ai rapporti tra le parti originarie e

conseguentemente il contratto stipulato in violazione del divieto dovrebbe poter consentire al

preponente originario di agire nei confronti dell’agente inadempiente esclusivamente per il

risarcimento del danno e non per ottenere l’adempimento coattivo del patto stesso.

3. La forma del contratto.

In tema di forma del contratto di agenzia, prima di esaminare le disposizioni dettate in materia dal

codice civile, e più precisamente dall’art. 1742 cod. civ. 5, e dalla contrattazione collettiva, è

opportuno esaminare brevemente il testo della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986, n. 653 che al

requisito della forma del contratto dedica il suo art. 13 6.

Il primo comma stabilisce che ciascuna delle parti ha il diritto di chiedere ed ottenere dall’altra parte

un documento firmato che riproduca il contenuto del contratto, incluse eventuali clausole

addizionali. Si precisa inoltre che tale diritto è irrinunciabile.

Il secondo comma consente poi a ciascuno Stato membro di considerare la forma scritta7 quale

requisito di validità dell’intero contratto.

Il testo previgente dell’art. 1742 cod. civ., in ossequio al principio della libertà di forma, immanente

nel nostro ordinamento 8, nulla disponeva in tema di forma del contratto, che trovava invece una

certa regolamentazione ad opera della contrattazione collettiva, che sin dall’accordo economico

collettivo erga omnes 9 20 giugno 1956 prevedeva (art. 2):

5Oggetto, come vedremo, di una doppia modifica, sia ad opera del d. lgs. 303/91 che del successivo d. lgs. 65/99. 6Inserito nel capitolo IV: Conclusione ed estinzione del contratto di agenzia. 7 «Nonostante il paragrafo 1, uno Stato membro può prescrivere che un contratto di agenzia sia valido solo se documentato per iscritto». 8Principio che comporta l’impossibilità di considerare la forma della volontà negoziale come un requisito di validità del negozio. Trattasi di una regola generale suscettibile di eccezioni, le quali però debbono essere specificamente indicate dalla legge. 9La cui efficacia non è dunque limitata agli iscritti alle associazioni stipulanti ed a coloro che l’abbiano esplicitamente o implicitamente richiamato nel singolo contratto di agenzia, costituendo un trattamento economico normativo minimo inderogabile nei confronti di tutti gli agenti e rappresentanti di commercio delle imprese industriali: ciò in quanto è stato a suo tempo recepito dal DPR 16 gennaio 1961, n. 145.

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«...All’atto del conferimento dell’incarico all’agente o rappresentante debbono essere precisati per

iscritto, oltre al nome delle parti, la zona assegnata, i prodotti da trattarsi, la misura delle

provvigioni e compensi, la durata, quando questa non sia a tempo indeterminato».

Previsioni di analogo tenore sono state successivamente inserite altresì negli accordi economici di

diritto comune del settore industria (aec 16 novembre 1988 - modifica del precedente aec 19

dicembre 1979 - art. 3 primo comma) e del settore commercio (aec 9 giungo 1988 - modifica del

precedente aec 24 giugno 1981 - art. 2 terzo comma), con l’unica precisazione che gli elementi del

contratto da precisarsi per iscritto debbono essere contenuti in un unico documento.

La dottrina prevalente e una parte della giurisprudenza (dopo alcune sentenze che ritenevano

necessaria la forma scritta ad substantiam o non la ritenevano necessaria né ad substantiam né ad

probationem) hanno, peraltro correttamente, ritenuto che le predette disposizioni non consentissero

di affermare che la forma scritta potesse essere richiesta ad substantiam, cioè quale condizione di

validità dell’intero contratto, ma al più ad probationem, e cioè al mero fine di fornire la prova

dell’esistenza del contratto.

La differenza sopra evidenziata comporta quale conseguenza che, laddove la forma rivesta un

carattere meramente probatorio (e sia dunque richiesta ad probationem e non ad substantiam), il

contratto dovrà ritenersi perfettamente valido ed efficace anche se concluso oralmente, mentre

potranno sorgere complicazioni solo nell’ipotesi in cui ne venga contestata l’esistenza. In tale

ultima ipotesi, non sarà possibile fornire la prova dell’esistenza del rapporto tramite testimoni o

presunzioni.

La prova dell’esistenza del rapporto (salva l’ipotesi, peraltro abbastanza rara nella prassi, della

perdita incolpevole del documento contrattuale, che consentirebbe il ricorso alla prova per testi)

dovrà quindi essere fornita tramite documenti scritti o con gli strumenti del giuramento (decisorio,

che può essere deferito alla controparte) e/o della confessione eventualmente resa dalla controparte

(che può essere provocata richiedendo in giudizio l’interrogatorio formale sul punto; per la

confessione stragiudiziale invece, non pare che la stessa possa essere provata tramite testimoni

vertendo su di un oggetto - l’esistenza del rapporto - per il quale la prova testimoniale non è

ammessa dalla legge).

Ulteriore ipotesi è quella in cui l’esistenza del rapporto non venga contestata in giudizio dalla

controparte.

A seguito dell’emissione della direttiva comunitaria, l’art. 1742 cod. civ. ha subito un primo

intervento modificativo ad opera del d. lgs. 303/91 (art. 1) che, inserendo un nuovo secondo

comma, ha previsto il diritto per ciascuna delle parti di ottenere dall’altra una copia del contratto

debitamente sottoscritta.

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Dopo questo primo intervento, ed a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione

europea nei confronti dell’Italia per la non corretta attuazione della direttiva 86/653, si è resa

necessaria l’adozione di un secondo strumento normativo, costituito dal d. lgs. 65/99, che con il suo

art. 1 ha sostituito integralmente il secondo comma dell’art. 1742 cod. civ.

Il nuovo testo stabilisce che il contratto dev’essere provato per iscritto e che ciascuna parte ha il

diritto irrinunciabile di ottenere dall’altra un documento firmato che riporti il contenuto del

contratto e di eventuali clausole aggiuntive.

Ciò comporta da un lato la conferma che la forma scritta non è un requisito di validità del contratto,

ma un semplice elemento necessario per fornire la prova dell’esistenza dello stesso, e dall’altro che

il contratto di agenzia deve considerarsi valido anche se stipulato verbalmente.

Come detto in precedenza, non sarà possibile (salva l’ipotesi eccezionale di perdita incolpevole del

documento) fornire la prova dell’esistenza del rapporto tramite testimoni o presunzioni, essendo

all’uopo necessario un documento scritto.

La seconda parte della norma, che riporta fedelmente il contenuto della direttiva, recependo le

osservazioni di cui al punto 2 del parere motivato 10, mentre conferma la validità di contratti verbali

di agenzia, prevedendo il diritto irrinunciabile ad ottenere un documento scritto che riproduca il

contenuto del contratto, fissa un preciso obbligo a carico delle parti, che dovranno dunque recepire

in un documento scritto il contenuto dei reciproci accordi, con la correlata possibilità, in caso di

rifiuto di una di esse, di agire giudizialmente per ottenerne la redazione.

4. La provvigione e gli obblighi del preponente : i nuovi articoli 1748 e 1749 cod. civ.

La disciplina del compenso dell’agente, a seguito della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986,

n.653, ha subito drastici mutamenti.

Nella sua versione originaria l’art. 1748 cod. civ. prevedeva che l’agente avesse diritto alla

provvigione solo per quegli affari che avessero avuto una regolare esecuzione e, in caso di

esecuzione parziale, la provvigione andava corrisposta in proporzione alla parte eseguita.

L’art. 1749 cod. civ. precisava inoltre che l’agente conservava il diritto alla provvigione laddove il

difetto di esecuzione fosse stato imputabile al preponente.

10Parere motivato emesso il 13 luglio 1998, a seguito della procedura di infrazione avviata dalla Commissione europea in data 24 settembre 1996 a carico dell’Italia per l’attuazione incompleta della direttiva 86/653.

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La regolare esecuzione dell’affare, per concorde orientamento della giurisprudenza, si riteneva

coincidente con il concetto di buon fine elaborato nell’ambito della contrattazione collettiva 11, e

cioè con il pagamento da parte del terzo, che seguiva l’adempimento del preponente (di norma

costituito dalla consegna della merce).

A seguito della direttiva 86/653 e del successivo intervento della Commissione, è stato effettuato un

radicale cambiamento (peraltro non così radicale laddove si utilizzi la possibilità di deroga) dei

principi di carattere generale posti a base del diritto al compenso in favore dell’agente.

Il primo intervento legislativo di attuazione della direttiva comunitaria (d. lgs. 303/91) per la verità

non ha inciso sul concetto di regolare esecuzione dell’affare, limitandosi a modificare la rubrica

dell’art. 1748 cod. civ. ed inserendo un nuovo terzo comma che, in applicazione peraltro parziale

dell’art. 8 a) della direttiva, ha stabilito il diritto dell’agente alla provvigione anche sugli affari

conclusi dal preponente dopo lo scioglimento del contratto, a condizione che la conclusione sia

ascrivibile all’attività svolta dall’agente in costanza di rapporto.

Questa trasposizione parziale presentava il limite costituito dall’assenza, nel dettato legislativo, di

qualunque riferimento ad un termine dopo la cessazione del contratto oltre il quale il diritto al

compenso doveva considerarsi escluso: la genericità della previsione ha suscitato infatti un certo

disorientamento.

Non vi era dunque in diritto italiano alcun riferimento al periodo di tempo da prendere in

considerazione per poter valutare in concreto l’esistenza del diritto dell’agente alla provvigione per

affari conclusi dopo lo scioglimento del contratto. Va detto peraltro che, proprio in questo caso, era

possibile utilizzare quel criterio interpretativo elaborato dalla Corte di Giustizia (esaminato nel

paragrafo 1) e risalire dunque al testo della direttiva recuperando il concetto di «termine

ragionevole» ivi contenuto.

Sul contenuto del decreto legislativo 303/91, ed in relazione alla sua scarsa conformità al testo della

direttiva comunitaria, la Commissione delle Comunità Europee il 24 settembre 1996 ha avviato,

come detto, una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia, costretta a correre ai ripari con

l’emissione di un ulteriore decreto legislativo (d. lgs. 65/99) che, al contrario del precedente, ha

inciso profondamente sul diritto dell’agente al compenso.

Il testo dell’art. 1748 cod. civ. è stato integralmente sostituito dall’art. 3 (I comma) del d. lgs. 65/99

che, applicando letteralmente il contenuto della direttiva, ha apportato una serie di modifiche.

Il nuovo testo del primo comma dell’art. 1748 cod. civ. stabilisce infatti che l’agente ha diritto alla

provvigione in relazione a tutti gli affari conclusi durante il contratto, quando l’operazione è stata

conclusa per effetto del suo intervento.

11 Art. 4 a.e.c. 25 maggio 1935, art. 4 a.e.c. 30 giugno 1938, art. 5 a.e.c. 20 giugno 1956, art. 4 a.e.c. 9

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Il secondo comma precisa poi che il preponente è tenuto a corrispondere all’agente la provvigione

anche per quegli affari che il preponente ha concluso direttamente con clienti in precedenza

acquisiti dall’agente (per affari dello stesso tipo), con clienti appartenenti alla zona riservata

all’agente o con clienti facenti parte di un gruppo contrattualmente riservato all’agente stesso, salvo

deroga ad opera delle parti.

Queste ultime precisazioni, pur contenute nel testo della direttiva, appaiono sovrabbondanti in

quanto ben potevano, quanto meno per la maggior parte, ritenersi assorbite dalle previsioni dell’art.

1743 cod. civ. in tema di esclusiva e dal vecchio testo dell’art. 1748 cod. civ. in tema di provvigioni

per affari conclusi direttamente dal preponente.

Anche in relazione al diritto alle provvigioni, come avvenuto in tema di indennità di fine rapporto,

appare evidente l’influsso determinante della legislazione tedesca (dove l’esclusiva automatica non

esiste) che, unitamente alla legislazione francese, può dirsi caratterizzare integralmente il testo della

direttiva.

Il quarto comma dell’art. 1748 precisa poi il momento nel quale la provvigione, già attribuita

all’agente sulla base del criterio generale contenuto nel primo comma, costituito dalla conclusione

dell’affare nel corso del contratto per effetto dell’attività dell’agente 12, matura in favore di

quest’ultimo («spetta all’agente»).

Questo momento viene individuato con un criterio di carattere generale, peraltro derogabile,

consistente nel «…momento e nella misura in cui…» il preponente ha eseguito la sua prestazione o

avrebbe dovuto eseguirla in base al contratto concluso con il terzo.

Al precedente criterio generale della regolare esecuzione dell’affare viene dunque sostituito quello

dell’esecuzione della prestazione da parte del preponente.

In applicazione di questo principio il preponente dovrebbe quindi corrispondere all’agente le

provvigioni (nei termini precisati all’art. 1749 cod. civ. 13) del tutto indipendentemente dal

pagamento da parte del terzo, ed è in quest’ottica che si giustifica il contenuto del sesto comma che

prevede l’ipotesi di restituzione delle provvigioni riscosse da parte dell’agente 14.

In sostanza il diritto dell’agente alla provvigione maturerebbe al momento dell’esecuzione della

prestazione da parte del preponente, e cioè per norma al momento della consegna della merce.

Il criterio generale contenuto nel quarto comma è peraltro suscettibile di deroga ad opera delle parti,

che possono dunque accordarsi diversamente, posticipando (o in ipotesi anche anticipando)

giugno 1988 e art. 6 a.e.c. 16 novembre 1988. 12 Salva l’esistenza dell’esclusiva, come precisato nel secondo comma. 13 Entro la fine del mese successivo al trimestre nel quale le provvigioni sono maturate. 14 L’obbligo di restituzione è limitato all’ipotesi ed alla misura in cui sia certo che il contratto tra il cliente ed il preponente non avrà esecuzione. Tale mancata esecuzione dovrà inoltre essere del tutto indipendente da eventuali cause imputabili al preponente.

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l’esigibilità della provvigione ad un momento successivo (o anteriore) rispetto all’adempimento da

parte del preponente.

Tale possibilità incontra però un limite nella seconda parte del quarto comma, dove si precisa che al

più tardi la provvigione è da considerarsi esigibile, inderogabilmente, dal momento e nella misura in

cui il terzo ha eseguito la prestazione o avrebbe dovuto eseguirla qualora il preponente avesse

eseguito la prestazione a suo carico.

Ciò significa in sostanza che è possibile posticipare la maturazione (o esigibilità) delle provvigioni

sino al pagamento da parte del terzo (e cioè sino al buon fine dell’affare).

In definitiva dunque, dal punto di vista pratico, è ad oggi possibile prevedere che la provvigione

maturi al momento del pagamento da parte del cliente, con il solo limite derivante dall’impossibilità

di attendere l’integrale pagamento, in quanto anche pagamenti parziali sembrano determinare la

maturazione, pro quota, della provvigione.

La differenza rispetto al regime previgente consiste nella necessità di inserire un’apposita

pattuizione che preveda la predetta deroga, in quanto il regime generale applicabile

automaticamente è, come detto, radicalmente cambiato.

Il terzo comma dell’art. 1748 cod. civ. attiene alla disciplina delle provvigioni per affari conclusi

dopo la cessazione del contratto. Disciplina questa che, come abbiamo visto in precedenza, era già

stata inserita nel codice civile, anche se in maniera lacunosa, dal d. lgs. 303/91.

Il d. lgs. 65/99 precisa che l’agente ha diritto alla provvigione in due ipotesi:

- se la proposta è pervenuta all’agente o al preponente prima della fine del contratto;

- se gli affari sono conclusi entro un termine ragionevole dopo lo scioglimento del contratto e la

conclusione è da attribuirsi prevalentemente all’attività svolta dall’agente.

Nella seconda ipotesi è stata colmata la lacuna in precedenza evidenziata, con l’inserimento della

dizione «entro un termine ragionevole».

La regola generale, che prevede il diritto alla provvigione in favore dell’agente uscente, è però

suscettibile di eccezioni nel caso in cui, in relazione a specifiche circostanze, risulti equo ripartire la

provvigione tra gli agenti intervenuti per la conclusione dell’affare.

Il V comma dell’art. 1748 precisa che laddove preponente e terzo (cliente) si accordino per non dare

in tutto o in parte esecuzione al contratto l’agente avrà diritto, per la parte ineseguita, ad una

provvigione ridotta nella misura determinata dagli usi, o dal giudice secondo equità 15.

15 Disposizione questa che non ha subito modifiche rispetto al passato e che era in precedenza contenuta nell’art. 1749 II comma, che per la verità si riferiva anche alle norme corporative.

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Anche l’art. 1749 cod. civ. è stato integralmente sostituito dal d. lgs. 65/99 (art. 4, I comma), ma in

realtà le modifiche rispetto al precedente testo introdotto dal d. lgs. 303/91 si riducono all’obbligo

per il preponente di agire, nei rapporti con l’agente, con lealtà e buona fede.

Questa precisazione, pur in linea con il testo della direttiva, appare superflua poiché il medesimo

risultato poteva ottenersi tramite l’applicazione dei principi generali del nostro ordinamento relativi

all’esecuzione del contratto secondo buona fede.

Per il resto l’art. 1749 riprende disposizioni in precedenza contenute nell’art. 1748 (come

modificato dal d. lgs. 303/91).

La parte più interessante dell’art. 1749 si connette ai problemi da sempre esistenti, dal punto di vista

probatorio, in relazione al diritto dell’agente alle provvigioni; problemi che già in passato avevano

fatto nascere accesi dibattiti sull’utilizzabilità o meno della richiesta di esibizione in giudizio delle

scritture contabili del preponente e relativa CTU.

Una lettura superficiale dell’art. 1749 cod. civ. potrebbe far ritenere che l’agente abbia attualmente

il diritto di ottenere senza difficoltà sia l’esibizione in giudizio delle scritture contabili del

preponente sia la relativa CTU.

A ben guardare però, la situazione non è esattamente in questi termini poiché l’articolo citato si

limita a garantire il diritto all’ottenimento di un estratto delle scritture contabili relative alle

provvigioni corrisposte e pare dunque non autorizzare una richiesta esplorativa e generalizzata

tendente a verificare la congruità di quanto corrisposto in relazione a qualunque affare concluso.

In altri termini, il contenuto dell’art. 1749 cod. civ. (in origine inserito dal d. lgs. 303/91 nell’art.

1748 cod. civ.) non significa che si determini una sorta di inversione dell’onere probatorio, che

rimane invece completamente a carico dell’agente, dovendo ritenersi che gli strumenti processuali

dell’esibizione delle scritture contabili del preponente e della consulenza tecnica siano dei mezzi

eccezionali, tali in ogni caso da non poter supplire ad eventuali carenze di carattere probatorio

dell’agente.

E’ stato infatti precisato16 che, pur avendo le leggi di attuazione della direttiva previsto un regime di

maggior favore per l’agente sia in ordine al momento genetico del diritto alla provvigione che in

relazione al relativo onere probatorio, in ogni caso grava sull’agente l’onere di provare la

conclusione del contratto e altresì di precisare, in caso di una pluralità di contratti promossi, quali

siano stati i contratti conclusi e per quale ammontare. Allo stesso modo, laddove l’esigibilità delle

provvigioni sia condizionata al pagamento da parte del terzo, pare doversi ritenere che l’agente

abbia l’onere di dimostrarlo.

16 Cass. 2 maggio 2000, n. 5467.

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Sembra dunque continuare a gravare sull’agente l’onere di precisare i fatti e di fornire la prova degli

elementi costituitivi del suo diritto alla provvigione, ed in particolare la promozione di affari e la

conclusione degli stessi.

La Corte di Cassazione si è peraltro pronunciata in maniera non sempre conforme in questa materia.

5. Lo «star del credere» e la legge comunitaria 1999.

Con la legge comunitaria 1999 17, e più precisamente con il suo art. 28, la disciplina del contratto di

agenzia, ed in particolare la possibilità di inserimento nel testo del contratto del patto cosiddetto

dello «star del credere», ha subito un’ulteriore modifica 18.

Le disquisizioni sulla natura giuridica della clausola relativa allo star del credere, unitamente alle

varie e molteplici problematiche sorte attorno alla stessa nell’evoluzione dottrinale e

giurisprudenziale che si è susseguita nel corso degli anni, perdono di rilevanza, quanto meno in gran

parte, in relazione al contenuto del predetto art. 28 19, che sancisce un divieto espresso e

generalizzato di porre a carico dell’agente una responsabilità, anche solo parziale, per

l’inadempimento del terzo.

L’obbiettivo primario di questo intervento è senza dubbio quello di eliminare la possibilità per le

parti di prevedere una clausola generale relativa allo star del credere.

La prima modifica elimina infatti la possibilità di richiamare l’art. 1736 cod. civ., che disciplina lo

star del credere nel differente contratto di commissione.

Sulla possibilità di applicazione analogica di questa norma al contratto di agenzia, con la

conseguente necessità di prevedere un compenso per l’agente, si è svolto in passato, un vivace

dibattito dottrinale e giurisprudenziale, risolto in favore dell’impossibilità di applicazione analogica,

e pertanto l’espressa eliminazione del rinvio all’art. 1736 cod. civ. può apparire superflua. Ciò

anche in considerazione del divieto espresso contenuto nel nuovo terzo comma.

Il terzo comma dell’art. 1746, dopo aver sancito il divieto di inserire una clausola generale che

preveda la responsabilità dell’agente, sia totale che parziale, per l’inadempimento del terzo,

contempla però una possibilità di deroga. Alle parti è infatti consentito, eccezionalmente, di

concordare una apposita garanzia a carico dell’agente, ma con limitazioni ben precise.

17 Legge 21 dicembre 1999, n. 526, in G.U. 18 gennaio 2000, n. 13, Serie Gen., Suppl. Ord. n. 15/L. 18 Peraltro riesce difficile comprendere quale attinenza possa avere la disciplina dello star del credere con la legge comunitaria, considerando che il testo della direttiva 86/653 non prende in considerazione l’argomento. 19 L’art. 28 ha infatti inserito una precisazione nel secondo comma dell’art. 1746 cod. civ. ed ha aggiunto un nuovo terzo comma.

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Deve trattarsi di accordi singoli, da concordare di volta in volta, con riferimento ad affari

determinati individualmente, di valore rilevante e di natura particolare, con ciò ribadendo

l’inadeguatezza di previsioni di carattere generale.

E’ fissato inoltre un limite quantitativo alla garanzia dell’agente, che non può superare l’importo

della provvigione spettante allo stesso per il singolo affare.

E’ infine necessario che l’agente riceva di volta in volta un compenso per l’assunzione della

garanzia.

Non è prevista una disciplina transitoria, cosa che avrebbe senza alcun dubbio potuto essere

opportuna, né è prevista alcuna deroga per l’entrata in vigore, da ritenersi quindi coincidente con

quella della legge comunitaria 20.

La prima conseguenza di queste modifiche è la nullità, per contrarietà a norma imperativa, di tutte

le clausole contenute nei singoli contratti, sottoposti al diritto italiano, che prevedano l’applicazione

dello star del credere, così come delle relative pattuizioni contenute nella contrattazione collettiva.

Appare quindi evidente l’impossibilità di inserire nel contatto clausole generali che, direttamente o

indirettamente, comportino una responsabilità, totale o parziale, da parte dell’agente per

l’inadempimento del terzo. E’ questo un divieto decisamente esplicito, che prevede delle eccezioni

altrettanto dettagliatamente disciplinate, e che non lascia dunque molto spazio all’autonomia delle

parti per elaborare sistemi alternativi, che correrebbero peraltro il rischio di essere considerati nulli

poiché indirettamente contrari al principio predetto. Anche la stessa eccezione al criterio di carattere

generale appare di non facile attuazione.

Sarà quindi opportuno e necessario imporre all’agente il rispetto rigoroso dell’obbligo di

informazioni di cui al primo comma dell’art. 1746 cod. civ., limitare al massimo il potere di

rappresentanza conferito agli agenti, con la conseguente necessità di approvazione da parte del

preponente per la valida conclusione di contratti, ed in generale una maggiore accortezza del

preponente nella valutazione degli ordini ricevuti.

A questo proposito è opportuno segnalare una tendenza dottrinale che, proprio sulla base

dell’obbligo di informazioni (la cui violazione potrebbe essere sanzionata da una clausola penale)

ha tentato di ricostruire una disciplina lecita dello star del credere, in quanto nulla vieterebbe di

commisurare la penale ad una percentuale del valore della perdita subita dal preponente.

Soluzione questa da valutarsi con estrema prudenza.

Da ultimo è opportuno fare presente che gli altri Stati membri destinatari della direttiva 86/653

applicano una disciplina senza dubbio meno restrittiva di quella introdotta in Italia dalla legge

20 2 febbraio 2000.

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comunitaria 1999, così confermando che la modifica della normativa italiana non era imposta da

nessun obbligo di carattere comunitario.

6. Il ruolo agenti e rappresentanti di commercio alla luce delle pronunce della Corte di Giustizia del

30 aprile 1998 e del 13 luglio 2000. L’atteggiamento della giurisprudenza italiana.

La problematica dell’iscrizione dell’agente al ruolo e quella connessa delle conseguenze della sua

mancanza sulla validità del contratto e sull’attività posta in essere dall’agente in esecuzione dello

stesso21, hanno creato sin dagli anni settanta accese discussioni e dibattiti in dottrina e

giurisprudenza, sfociati nella declaratoria di nullità del contratto concluso con agente non iscritto al

ruolo e nella possibilità per l’agente di vedere accolte in parte le proprie pretese con il

riconoscimento di provvigioni tramite l’azione di indebito arricchimento e la conversione del

contratto nullo in un valido contratto di procacciamento d’affari e, in alcune recenti pronunce 22,

altresì a titolo di indennità di fine rapporto, tramite l’applicazione dei principi generali in tema di

indebito arricchimento.

A questi contrasti pare aver posto fine la sentenza 30 aprile 1998 della Corte di Giustizia, che ha

stabilito la contrarietà di quella parte della normativa sul ruolo che impone l’iscrizione dell’agente

(e dalla quale la giurisprudenza passata faceva discendere la nullità del contratto per contrarietà a

norma imperativa) con il contenuto della direttiva comunitaria 18 dicembre 1986 n. 653.

Successivamente all’emissione di questa pronuncia della Corte di Giustizia, si sono riscontrati

atteggiamenti divergenti da parte della giurisprudenza di merito italiana, ai quali è seguita, nel

maggio del 1999, una sentenza della Corte di Cassazione 23 che, in applicazione del principio

stabilito in sede comunitaria, ha cassato con rinvio la sentenza di secondo grado disponendo la

disapplicazione della normativa interna ad opera del giudice di rinvio, con la conseguenza che

l’iscrizione al ruolo non va ritenuta come un requisito di validità del contratto. Ulteriori pronunce

conformi sono state emesse dal Supremo Collegio nel novembre del 1999.

La questione è stata nuovamente sottoposta alla Corte di Giustizia da parte del Tribunale di Brescia 24, e la decisione è stata emessa in data 13 luglio 2000, confermando da un lato l’incompatibilità con

il testo della direttiva 86/653 di una legge nazionale che condizioni la validità del contratto

21 Per un esame più approfondito della normativa sul ruolo e dell’efficacia delle direttive comunitarie nell’ordinamento dei singoli Stati membri, si rimanda a un nostro precedente scritto: Venezia, Il ruolo agenti e l’efficacia delle direttive comunitarie, in I Contratti, 1999, p. 1056 e ss. 22 Cass. 30 maggio 1997, n. 4798 e 4799. 23 Cass. 18 maggio 1999, n. 4817. 24 Causa c 456/98 Centrosteel srl c Adipol Gmbh, in Dir. com. scambi int. 2000, p. 581 e ss., con nota di Venezia, In tema di efficacia della direttiva sugli agenti commerciali: come volevasi dimostrare.

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all’iscrizione in un albo od elenco e dall’altro la necessità di interpretare il diritto nazionale alla luce

delle lettera e della ratio della direttiva.

Con la sua prima pronuncia del 30 aprile 1998 Corte di Giustizia, adita su iniziativa del Tribunale di

Bologna, ai sensi dell’art. 177 (ora 234) del Trattato CE, per la soluzione di una questione

pregiudiziale attinente all’interpretazione della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1986, n. 653, ha

ritenuto assolutamente incompatibile con il testo della direttiva comunitaria 86/653 una normativa

nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all’iscrizione dell’agente di commercio

in un apposito albo.

Questa presa di posizione della Corte, molto chiara dal punto di vista del principio di diritto

enunciato, ha sollevato il problema degli effetti di tale sentenza sia sul giudizio per la cui soluzione

era sorta la questione pregiudiziale, sia su eventuali futuri giudizi che avrebbero potuto presentarsi

dinanzi al giudice nazionale.

La questione è senza dubbio molto delicata e comporta l’esame di problematiche di diritto

comunitario abbastanza complesse attinenti all’efficacia delle direttive comunitarie nei singoli

ordinamenti interni 25, nel caso in cui non siano state emesse conformi norme nazionali di

attuazione entro i termini previsti dalle direttive stesse. In particolare, in relazione ai soggetti

coinvolti nella singola controversia ci si domanda se sia possibile attribuire alle disposizioni della

direttiva un’efficacia diretta, nel rispetto del principio generale dell’efficacia esclusivamente

verticale delle direttive comunitarie.

Passando dalla teoria alla pratica, è utile segnalare quale sia stato l’atteggiamento della

giurisprudenza di merito e di legittimità, anche al fine di chiarire, allo stato, l’importanza da

attribuire nel singolo caso concreto all’eventuale mancata iscrizione dell’agente nel ruolo.

Una delle prime pronunce di merito, emessa nel 1998 dal Tribunale di Milano sezione lavoro (in

qualità di giudice di appello), ha ritenuto determinante la pronuncia della Corte di Giustizia, con la

conseguente disapplicazione della normativa interna sul ruolo agenti e rappresentanti e la totale

irrilevanza ai fini della validità del contratto dell’eventuale mancata iscrizione dell’agente al ruolo

stesso. Questa sentenza, senza dubbio molto chiara sulla soluzione da dare al problema , non lo è

stata altrettanto nella motivazione della propria scelta, limitandosi ad un richiamo alla sentenza

della Corte dalla quale sarebbe derivata la predetta irrilevanza.

Una successiva pronuncia del Tribunale di Lodi (investito della questione solo incidentalmente,

quale giudice di rinvio di un precedente giudizio per Cassazione) ha invece assunto un

atteggiamento diametralmente opposto, confermando la nullità del contratto e ritenendo dunque

ininfluente la pronuncia della Corte di Giustizia. Ciò in quanto la direttiva comunitaria 86/653

25 Si rimanda sul punto al nostro articolo cit. in nota 21.

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potrebbe avere efficacia diretta solo ed esclusivamente nell’ambito di rapporti verticali, nei quali sia

parte uno Stato membro, e conseguentemente, trattandosi nella fattispecie di rapporti tra privati

(intercorrenti tra un agente ed un preponente), nessuna rilevanza poteva essere attribuita alla

sentenza della Corte, che al più avrebbe consentito all’agente di adire l’autorità giudiziaria

chiedendo la condanna dello Stato italiano al risarcimento dei danni subiti a causa della mancata

corretta attuazione della direttiva comunitaria 86/653 26.

Questa impostazione che, al contrario della precedente, ha determinato la conferma della

declaratoria di nullità del contratto, è stata, come detto, completamente sovvertita da una successiva

pronuncia della Corte di Cassazione del maggio del 1999. La Corte, effettuando un’interpretazione

estensiva del concetto di rapporto verticale, ha affermato la diretta applicabilità della direttiva

comunitaria 18 dicembre 1986, n. 653, anche nei rapporti intercorrenti tra agente e preponente

(privati), dove dunque, almeno dal punto di vista dei soggetti processuali, non sia parte lo Stato.

Questa interpretazione è basata sulla considerazione che debba badarsi più che alla qualità dei

soggetti, agli interessi tutelati dalla norma (nella specie l’art. 9 della legge 204/85), interessi che

legittimerebbero una qualificazione in termini di rapporto verticale, con la conseguente applicabilità

diretta di quelle disposizioni della direttiva dalle quali discende l’incompatibilità con la legge sul

ruolo, e la possibilità di disapplicazione da parte del giudice nazionale della normativa interna sul

ruolo agenti e rappresentanti (nella parte in cui legittima la sanzione di nullità del contratto per

contrarietà a norma imperativa).

Sulla medesima linea interpretativa si pongono una serie di successive pronunce del novembre 1999 27, nelle quali si afferma che, in seguito alla decisione della Corte di Giustizia 30 aprile 1998, le

disposizioni delle leggi nazionali degli Stati membri non possono stabilire la nullità dei contratti di

agenzia stipulati con soggetti non iscritti in un apposito ruolo.

Pertanto, allo stato, in considerazione della presa di posizione del Supremo Collegio, può affermarsi

che l’iscrizione al ruolo agenti e rappresentanti non è più considerata come un requisito di validità

del contratto di agenzia.

L’irrilevanza dell’iscrizione al ruolo ai fini della validità del contratto di agenzia è suscettibile di

generare problematiche non secondarie in tutti quei rapporti di procacciamento d’affari, con

procacciatori non iscritti al ruolo, che poco abbiano a che vedere con lo svolgimento di attività

saltuaria e senza obblighi di promozione, essendo invece veri e propri contratti di agenzia,

formalmente inquadrati negli schemi del procacciamento d’affari per evidenti motivi di

convenienza.

26 Corretta attuazione che avrebbe dovuto comportare l’abolizione da parte del legislatore italiano dell’obbligo di iscrizione quale condizione di validità del contratto 27 Cass. 12 novembre 1999, dal n. 12580 al n. 12585

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In passato infatti, nonostante le varie aperture giurisprudenziali in termini di indebito arricchimento,

la mancata iscrizione al ruolo poteva considerarsi una circostanza decisiva per ottenere la reiezione

in giudizio di eventuali richieste di riconoscimento dell’esistenza di un rapporto di agenzia, da

considerarsi in ogni caso nullo.

Attualmente invece, in considerazione dell’orientamento giurisprudenziale della Cassazione sopra

menzionato, non si può escludere che, laddove il contratto di procacciamento d’affari sia stato

utilizzato a fini elusivi, un’eventuale richiesta di riconoscimento dell’esistenza di un contratto di

agenzia possa essere accolta, con le relative conseguenze in termini di diritto alle provvigioni ed

alle indennità di preavviso (o risarcimento del danno) e di fine rapporto.

Da ultimo è opportuno segnalare che la Corte di Giustizia ha avuto modo di pronunciarsi

nuovamente, il 13 luglio 2000, sulla medesima problematica già affrontata dalla sentenza del 30

aprile 1998. In tale nuova pronuncia, pur confermandosi l’incompatibilità tra la direttiva

comunitaria ed una legge nazionale che consideri l’iscrizione in un albo quale requisito di validità

del contratto, la Corte di Giustizia ha posto l’accento sulla possibilità per il giudice nazionale di

escludere la nullità del contratto di agenzia concluso con soggetto non iscritto, per via interpretativa.

Queste conclusioni sono basate sul già menzionato principio secondo il quale, applicando il diritto

interno, la giurisdizione nazionale chiamata ad interpretarlo è tenuta a farlo, per quanto possibile,

alla luce del testo e delle finalità della direttiva per pervenire al risultato da questa perseguito.

La soluzione proposta lascia perplessi in quanto è in netto contrasto con la possibilità di

applicazione diretta della direttiva affermata dalla pronuncia del maggio 1999 della Corte di

Cassazione. Oltre a ciò, va detto che la stesa Corte di Giustizia menziona la predetta sentenza della

Cassazione quale prova dell’intervenuto adeguamento della giurisprudenza italiana per via

interpretativa. Appare evidente che la Corte di Giustizia non abbia esaminato in profondità la

motivazione della pronuncia della Corte di Cassazione. Bisognerà quindi presumibilmente attendere

un’ulteriore sentenza della Corte di Giustizia per stabilire se l’ampliamento del concetto di rapporto

verticale effettuato dalla Corte di Cassazione possa ritenersi in linea con la giurisprudenza

comunitaria, e come tale efficace.

7. Affinità e differenze tra la figura dell'agente e quella del procacciatore d'affari.

Il contratto di procacciamento d’affari è un contratto atipico, che non trova cioè la sua

regolamentazione in alcuna specifica norma di legge.

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L’oggetto del contratto è abbastanza simile a quello di agenzia, anche se se ne differenzia

decisamente in virtù delle sue peculiari caratteristiche.

Il procacciatore infatti, pur essendo anch’egli un collaboratore del produttore o del distributore di

beni o servizi, ha un legame con quest’ultimo assai debole.

L’incarico viene di norma conferito con una semplice autorizzazione e consiste nella raccolta di

proposte d’ordine (cioè ordinazioni) presso clientela potenziale, senza però che il procacciatore

assuma alcuna obbligazione nei confronti del produttore in merito allo svolgimento dell’attività di

promozione.

Quale compenso per l’attività svolta, al procacciatore viene riconosciuta una provvigione se l’affare

segnalato va a buon fine o se all’ordinazione inviata segue la conclusione di un contratto.

Il contratto di procacciamento d’affari è caratterizzato dall’occasionalità, e cioè dalla carenza di

stabilità e continuità.

Per norma non viene affidata al procacciatore alcuna zona ed il rapporto, di solito a tempo

indeterminato, si scioglie ad iniziativa di una qualunque delle parti, con preavviso minimo.

Normalmente non sono previste clausole di esclusiva e neppure clausole di non concorrenza,

soprattutto dopo la fine del rapporto.

Al procacciatore d’affari non è di norma conferito il potere di rappresentanza (ipotesi peraltro

eventuale anche nel contratto di agenzia) e pertanto il potere di concludere contratti è riservato,

salvo casi particolari, esclusivamente al produttore.

La sostanziale instabilità ed occasionalità dell’attività del procacciatore non esclude peraltro che, di

fatto, vengano segnalati molti nominativi e conclusi numerosi contratti, in quanto ciò che rileva non

è tanto la frequenza ed il risultato dell’attività, quanto piuttosto l’assenza dell’obbligo di svolgere

attività promozionale, così come di attenersi alle istruzioni del preponente (fatte salve ovviamente le

condizioni di vendita).

L’attività è in sostanza molto simile a quella dell’agente, ma caratterizzata dalla più totale assenza

di vincoli per il procacciatore, che agisce quindi in totale indipendenza ed autonomia, senza che sia

possibile ricondurre a questa figura l’assunzione di qualunque obbligazione, soprattutto in relazione

allo svolgimento di attività promozionale (che come è noto costituisce invece l’obbligazione

primaria dell’agente).

Quale contropartita per questa totale carenza di obblighi vi è una altrettanto totale assenza di tutela,

sia per quanto attiene alle modalità di scioglimento del rapporto che in relazione all’eventuale

indennità di preavviso o di fine rapporto, da considerarsi decisamente escluse.

Per questa sostanziale assenza di tutela il rapporto di procacciamento d’affari viene talvolta

utilizzato a meri fini elusivi della normativa prevista per il contratto di agenzia.

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Il criterio di differenziazione, oltre ovviamente al tipo di contratto adottato, è costituito dalle

concrete modalità di svolgimento del rapporto, dalle quali si evince chiaramente se ci troviamo di

fronte ad un autentico rapporto di procacciamento d’affari o ad un contratto di agenzia qualificato

come procacciamento d’affari a fini elusivi. Come già accennato nel paragrafo precedente, in

passato quest’ultima ipotesi poteva avere qualche possibilità di successo, consentendo al preponente

di andare indenne dall’applicazione della normativa prevista per il contratto di agenzia, laddove il

procacciatore non fosse stato iscritto al ruolo agenti in quanto, in tal caso, la sanzione era costituita

dalla nullità del contratto di agenzia la cui esistenza fosse stata in ipotesi accertata.

Attualmente però, come detto, la situazione è radicalmente cambiata.

Infine non va sottovalutata l’eventualità che l’E.N.A.S.A.R.C.O., a seguito di ispezione, accerti la

predetta simulazione, con la conseguente irrogazione di pesanti sanzioni.

In conclusione può dirsi che il contratto di procacciamento d’affari è senza dubbio uno strumento

assai flessibile e privo di particolari oneri e impegni, anche di carattere economico, ma che deve

essere utilizzato solo nel caso in cui si intenda effettivamente servirsi di collaboratori occasionali e

non nella ben differente ipotesi in cui si cerchi una collaborazione stabile senza voler sottostare alla

disciplina del contratto di agenzia poiché, in quest’ultimo caso, il rischio di una vertenza alla fine

del rapporto, per la richiesta del riconoscimento dell’esistenza di un contratto di agenzia, è senza

dubbio molto alto.

8. Lo scioglimento del contratto: l’indennità di fine rapporto e l’evoluzione della giurisprudenza

italiana in ordine alla validità dei criteri di quantificazione individuati dalla contrattazione

collettiva.

La disciplina italiana dell’indennità di fine rapporto, nonostante l’intervento della direttiva

comunitaria 86/653 e l’emissione di due decreti legislativi (303/91 e 65/99) di attuazione, è

particolarmente complessa, e ciò soprattutto in considerazione da un lato della presenza della

normativa prevista dalla contrattazione collettiva e dall’altro delle difficoltà di trasposizione della

direttiva nell’ordinamento italiano, che hanno reso necessaria, come detto, l’emissione di due

decreti legislativi.

La complessità della situazione è inoltre accentuata dalla carenza di coordinamento tra la normativa,

anche derivante dalla contrattazione collettiva, vigente prima dell’emissione della direttiva 86/653 e

le modifiche e integrazioni apportate dai decreti legislativi 303/91 e 65/99.

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L’indennità di fine rapporto è disciplinata dall’art. 1751 cod. civ. che, come detto, ha subito drastici

cambiamenti in esecuzione della direttiva comunitaria.

Il primo decreto legislativo di attuazione (d. lgs. 303/91) ha infatti sostituito integralmente (art. 4)

l’art. 1751, non riportando però fedelmente le disposizioni della direttiva e creando così accesi

dibattiti in dottrina e in giurisprudenza. Dibattiti alimentati dalle organizzazioni di categoria che nel

1992, nell’intento di dare attuazione alla lacunosa disciplina prevista dall’art. 1751 cod. civ., hanno

emesso a loro volta nuovi accordi economici collettivi, al fine di stabilire criteri idonei alla

quantificazione dell’indennità, ma che di fatto hanno riproposto, con alcune modifiche meramente

formali, la medesima normativa vigente prima dell’emissione della direttiva.

Questo atteggiamento ha fatto sì che la giurisprudenza, avendo a propria disposizione i criteri di

quantificazione previsti dalla contrattazione collettiva e, come vedremo, una normativa di

attuazione lacunosa, in molti casi abbia optato per la soluzione più semplice, e cioè l’applicazione

degli accordi economici, senza badare peraltro alla circostanza che, prescindendo dalla validità dei

predetti accordi, così facendo la disciplina dell’indennità di fine rapporto finiva per non subire alcun

cambiamento rispetto al passato.

Questa abnorme situazione è stata rilevata dagli organi comunitari, che hanno avviato, come detto,

una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per la non corretta attuazione della direttiva

86/653. E’ quindi divenuto improcrastinabile un secondo intervento legislativo al fine di sanare il

contrasto con il testo della direttiva, armonizzando così la normativa italiana con le disposizioni

dettate in sede comunitaria.

E’ stato quindi emesso il d. lgs. 65/99 che, tra le altre variazioni apportate alla disciplina codicistica,

ha modificato l’art. 1751 cod. civ. risolvendo però, come vedremo, solo parzialmente i problemi

emersi a seguito del primo intervento di adeguamento.

I molteplici problemi di attuazione della direttiva, con particolare riferimento all’indennità di fine

rapporto, sono derivati principalmente dalla sostanziale diversità tra la disciplina contenuta nel testo

della direttiva e la previgente normativa italiana. In Italia infatti, al momento dell’emissione della

direttiva, l’indennità era costituita da due componenti: la prima riconosciuta in ogni ipotesi di

cessazione del contratto e la seconda (indennità suppletiva di clientela) laddove il contratto a tempo

indeterminato fosse risolto ad iniziativa del preponente, per fatto non imputabile all’agente.

Nella direttiva comunitaria invece non è prevista alcuna corresponsione automatica in caso di

cessazione del rapporto, ed è garantita a ciascuno Stato membro la facoltà di scelta tra due soluzioni

(l’una derivante dalla legislazione tedesca e l’altra da quella francese), ispirate la prima ad un

criterio meritocratico, che riconosce dunque il diritto ad un’indennità solo se e nella misura in cui

l’agente abbia apportato clientela al preponente (o sviluppato quella esistente) con sostanziali

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vantaggi per il preponente dopo la cessazione del rapporto in relazione alla clientela apportata e la

corresponsione risponda ad equità, e la seconda ad un criterio risarcitorio, essendo l’ammontare

dell’indennità rapportato al pregiudizio subito dall’agente in relazione alla cessazione del rapporto

(da valutarsi secondo determinati indici).

Il legislatore italiano si è dunque trovato a dover scegliere tra due meccanismi entrambi alquanto

differenti rispetto alla normativa italiana allora vigente.

La scelta, com’era prevedibile, è caduta sulla cosiddetta soluzione tedesca, ovvero la prima delle

predette, rispondente ad un criterio ispiratore di carattere meritocratico, scelta che ha comportato,

come detto, a seguito dell’emissione del d. lgs. 303/91, la sostituzione integrale dell’art. 1751 cod.

civ.

Questo primo intervento del legislatore italiano è stato però caratterizzato dalla presenza di un

errore e di due omissioni, che hanno comportato molteplici problemi di carattere interpretativo ed

applicativo, una presa di posizione da parte delle associazioni di categoria che, come detto, nel 1992

hanno stipulato nuovi accordi nel tentativo di individuare idonei criteri di quantificazione

dell’indennità ed una conseguente proliferazione di vertenze giudiziarie, accompagnate da

contrastanti orientamenti dottrinali e giurisprudenziali.

L’errore commesso è costituito dall’aver previsto le due condizioni, indicate nell’art. 17 del testo

della direttiva come necessarie entrambe per il sorgere del diritto, in via alternativa, così

potenzialmente legittimando la corresponsione dell’indennità una volta riscontrata l’esistenza anche

di una sola di esse, e dando così luogo ad una situazione di potenziale squilibrio.

Questo primo errore, peraltro rimediabile in via interpretativa, è stato sanato dal d. lgs. 65/99, che

ha modificato l’art. 1751 cod. civ. precisando che le due condizioni (apporto o sviluppo della

clientela e rispondenza ad equità) debbono sussistere entrambe per il venir in essere del diritto.

Anche una delle due omissioni, e più precisamente la meno grave, consistente nella mancata

previsione del diritto all’indennità in caso di decesso dell’agente, è stata eliminata dal d. lgs. 65/99,

che ha effettuato un’ulteriore modifica all’art. 1751 cod. civ., inserendo il nuovo comma 7, che

testualmente dispone: «L’indennità è dovuta anche se il rapporto cessa per morte dell’agente».

Ben più rilevante è invece la seconda omissione, alla quale peraltro non ha inspiegabilmente posto

rimedio il d. lgs. 65/99, consistente nel non aver preso in considerazione un aspetto essenziale

dell’indennità, così come disciplinata dalla direttiva, e cioè i criteri per la sua quantificazione.

L’art. 17 della direttiva prevede infatti che le medesime condizioni da prendere in considerazione

per valutare l’esistenza del diritto, vadano tenute presenti anche per la quantificazione dello stesso.

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La direttiva stabilisce che l’agente ha diritto ad un’indennità se e nella misura in cui sussistono le

due condizioni dell’apporto e sviluppo di clientela con sostanziali vantaggi per il preponente, anche

dopo la cessazione del rapporto, e della rispondenza ad equità della corresponsione.

Nell’art. 1751 cod. civ. invece non vi è traccia della locuzione «..nella misura in cui», che avrebbe

potuto risolvere senza difficoltà i vivaci dibattiti dottrinali e giurisprudenziali tuttora esistenti.

Pertanto, nell’art. 1751 cod. civ. non risulta previsto o indicato, anche in chiave di mero rinvio,

alcun criterio per la quantificazione dell’indennità, che viene determinata esclusivamente nel suo

limite massimo, corrispondente ad un anno di provvigioni, calcolate sulla media delle provvigioni

percepite negli ultimi 5 anni di durata del contratto o nell’intero contratto, se di durata inferiore a 5

anni.

Alla situazione di incertezza esistente dopo l’emissione del d. lgs. 303/91 28 è stato aggiunto un

elemento di ulteriore complicazione da parte delle associazioni di categoria che, in relazione alla

disciplina innovativa in tema di indennità di fine rapporto contenuta nel d. lgs. 303/91, hanno

ritenuto 29 di stipulare nuovi accordi economici 30 per fissare i criteri di quantificazione

dell’indennità.

Prima di esaminare i criteri elaborati dalla contrattazione collettiva, è opportuno far presente che

l’assenza di validi criteri di quantificazione dell’indennità di fine rapporto è più apparente che reale,

in quanto le modifiche all’art. 1751 cod. civ. sono state effettuate in esecuzione degli obblighi

derivanti da una norma di carattere comunitario, e cioè la direttiva 86/653.

Il d. lgs. 303/91, così come il successivo d. lgs. 65/99 sono quindi norme nazionali di attuazione di

una direttiva comunitaria e come tali sono suscettibili di essere interpretate dal giudice nazionale

alla luce del principio interpretativo, elaborato dalla Corte di Giustizia 31, consistente nella necessità

per i giudici nazionali di interpretare le disposizioni nazionali di attuazione di una direttiva

comunitaria, quanto più è possibile, alla luce della lettera e della ratio della direttiva medesima,

senza che a ciò possa essere di ostacolo l’eventuale errore in cui sia incorso il legislatore nazionale.

Pertanto il giudice nazionale, al fine di individuare i criteri di quantificazione dell’indennità, ha

l’obbligo di interpretare l’art. 1751 cod. civ. tenendo presente il testo della direttiva, e può quindi

28 Situazione che pare immutata anche a seguito del successivo d. lgs. 65/99 che, come detto, ha inspiegabilmente omesso di intervenire sul punto. 29 Anche in relazione al contenuto di un articolo dell’accordo economico 16 novembre 1988 (art. 19), che espressamente prevedeva che, qualora fosse stata intrapresa un’azione legislativa tendente a modificare le clausole dell’accordo, o che avesse comportato oneri nuovi per i preponenti, le parti avrebbero dovuto concordare provvedimenti idonei al fine di evitare che il complesso degli oneri dell’accordo subisse modificazioni di sorta, pena la decadenza dell’intero accordo. 30 AEC 30 ottobre 1992, per il settore industria, 19 novembre 1992, per il settore artigianato e 27 novembre 1992, per il settore commercio. 31 Anche al fine di mitigare l’esclusione di efficacia diretta, nei rapporti tra privati, delle disposizioni incondizionate e sufficientemente precise contenute in direttive comunitarie.

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utilizzare i due criteri dell’apporto o sviluppo di clientela e della rispondenza ad equità della

corresponsione non solo per il sorgere del diritto, ma altresì per la sua quantificazione.

Spetta dunque alla giurisprudenza il compito di elaborare validi criteri di quantificazione

dell’indennità, basati sulla misura dell’apporto di clientela e della rispondenza ad equità della

corresponsione, criteri la cui esistenza dovrà essere oggetto di accertamento nel singolo caso

concreto sulla base delle risultanze probatorie, il cui onere appare gravare esclusivamente

sull’agente.

Inquadrata correttamente la problematica dal punto di vista teorico, è opportuno esaminare la

soluzione elaborata dalle parti sociali e trasfusa negli accordi economici del 1992 al fine di

valutarne la compatibilità con la disciplina italiana e soprattutto con la normativa comunitaria.

Gli anzidetti accordi economici 32, nel dichiarato intento di dare pratica attuazione al nuovo testo

dell’art. 1751 cod. civ., non hanno fatto altro che riproporre sotto una veste formalmente differente,

la medesima disciplina esistente prima dell’emissione della direttiva 86/653.

Difatti, da un lato si è fatto coincidere il concetto di equità con l’indennità di fine rapporto, da

sempre accantonata presso il fondo F.I.R.R. dell’E.N.A.S.A.R.C.O., che come per il passato viene

riconosciuta in ogni ipotesi di scioglimento del contratto, e dall’altro è stata prevista la

corresponsione di un’indennità aggiuntiva, esattamente corrispondente alla previgente indennità

suppletiva di clientela, e da considerasi presumibilmente dovuta in relazione alla clientela apportata

o sviluppata dall’agente nel corso del rapporto.

In altri termini, le parti sociali, dopo aver riscontrato la necessità di variare le previsioni degli

accordi economici in considerazione delle novità contenute nell’art. 1751 cod. civ. (come

modificato dal d. lgs. 303/91) hanno di fatto riproposto esattamente lo stesso meccanismo previsto

in precedenza senza alcuna variazione, così disattendendo quelli che erano, quanto meno

formalmente, i propri obbiettivi.

Risulta inoltre completamente disatteso lo spirito della direttiva, che da un lato impone che la

valutazione sulla rispondenza ad equità della corresponsione venga effettuata a posteriori e non

prima ancora che il rapporto abbia inizio, e dall’altro commisura l’indennità dovuta all’effettivo

apporto o sviluppo di clientela, e cioè ad un criterio meritocratico che non si riscontra nel testo degli

accordi, che appaiono invece desiderosi esclusivamente di mantenere inalterata la situazione

previgente.

Infine, l’attribuzione di percentuali fisse al concetto di equità ed all’apporto di clientela non è

corretto in quanto equità ed apporto di clientela non sono due voci cui far corrispondere importi

32 Che si sono limitati a sostituire gli articoli dedicati all’indennità di fine rapporto, rimanendo per il resto in vigore gli accordi precedenti.

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determinati o determinabili su base percentuale, ma criteri di quantificazione che tali importi

debbono servire a determinare.

In conclusione, i criteri di cui ai predetti accordi economici a nostro avviso non possono ritenersi

applicabili, se non in via residuale, e cioè in quei casi nei quali l’agente non riesca in concreto a

fornire un idoneo supporto probatorio per dimostrare l’apporto di clientela e la rispondenza ad

equità della corresponsione.

Nonostante che, come rilevato in precedenza, a seguito di un corretto inquadramento teorico della

questione, la possibilità di applicare gli accordi economici collettivi del 1992 dovrebbe considerarsi

meramente residuale, va sottolineato un maggioritario orientamento giurisprudenziale che, quanto

meno in una serie di decisioni di merito, ha finito per applicare gli accordi economici quale criterio

ordinario di quantificazione dell’indennità.

In sostanza si sono delineati due orientamenti prevalenti:

- uno dei quali maggioritario che, come detto, ha ritenuto applicabili gli accordi economici;

- l’altro, decisamente minoritario, che ha interpretato l’art. 1751 cod. civ. seguendo la ratio della

direttiva, operando una differente quantificazione, basata sulla misura dell’apporto di clientela e

sulla rispondenza ad equità della corresponsione.

Nell’ambito dell’orientamento maggioritario, uniforme nel ritenere applicabili i criteri di

quantificazione contenuti negli accordi economici, varie sono state le prese di posizione dei giudici

di merito, che hanno addotto motivazioni di volta in volta differenti, così evidenziando una

disomogeneità di vedute.

Alcune pronunce hanno infatti utilizzato gli accordi economici quale criterio residuale di

quantificazione in relazione alle carenze di carattere probatorio riscontrate nei ricorsi presentati

dagli agenti: in altre parole, rilevata l’impossibilità di effettuare una quantificazione valutando la

misura dell’apporto e dello sviluppo della clientela in quanto tali elementi non erano stati forniti dai

ricorrenti, hanno ripiegato sul più agevole criterio di calcolo degli accordi economici.

Un altro nutrito gruppo di pronunce ha effettuato una valutazione aprioristica di maggior favore

degli accordi economici rispetto al contenuto dell’art. 1751 cod. civ., ed ha applicato i primi in

quanto non in contrasto con l’inderogabilità a svantaggio dell’agente stabilita dallo stesso art. 1751.

La situazione giurisprudenziale relativa ai criteri di quantificazione da utilizzare per la

determinazione nel singolo caso concreto dell’indennità dovuta è senza dubbio abbastanza delicata,

anche se non va sottovalutato quell’orientamento minoritario che, utilizzando correttamente il

criterio ermeneutico elaborato in materia dalla Corte di Giustizia, ha valutato il concreto apporto di

clientela e la rispondenza ad equità della corresponsione, tentando così di uniformarsi al testo della

direttiva.

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Non va infatti dimenticato che, quale che sia la giustificazione da addurre dal punto di vista teorico,

attualmente l’indennità di fine rapporto viene determinata dalla maggior parte della giurisprudenza

italiana con il medesimo meccanismo che la direttiva comunitaria doveva superare.

Da ultimo, nel corso del 2000, si sono avute anche due pronunce della Corte di Cassazione che

però, basandosi su di una questione di carattere procedurale (non erano stati riprodotti nel ricorso gli

articoli degli aec da valutare), non hanno preso in considerazione il problema dell’efficacia degli

accordi economici collettivi del 1992.

Peraltro, va tenuto presente che l’interpretazione dell’art. 1751 cod. civ. in armonia con il testo della

direttiva, che senza dubbio comporterà l’attribuzione al giudice di un certo margine di

discrezionalità, non significa che l’indennità dovrà sempre essere riconosciuta nel suo ammontare

massimo, ma al contrario che tutte le circostanze dovranno essere attentamente valutate, comprese

ad esempio quelle relative al potere di attrazione del marchio ed all’attività promozionale e

pubblicitaria effettuata in zona dal preponente, alla luce del principio dell’onere della prova che,

come detto, appare gravare interamente sull’agente.

Pertanto, sul presupposto del futuro prevalere della corretta interpretazione dell’art. 1751 cod. civ., i

problemi di quantificazione dell’indennità sono destinati a spostarsi sul piano probatorio, anche in

considerazione del requisito consistente nei vantaggi sostanziali che il preponente continui a trarre

dalla clientela apportata.

L’art. 1751 cod. civ., dopo aver enunciato i requisiti necessari per il sorgere del diritto all’indennità

e prima della fissazione del limite massimo della stessa, prevede, conformemente al testo della

direttiva, tre ipotesi nelle quali l’indennità non è dovuta.

La prima si riscontra nel caso in cui il preponente risolva il contratto per un’inadempienza

imputabile all’agente la quale, per la sua gravità, non consenta la prosecuzione, anche provvisoria

del rapporto.

Trattasi di una forma di recesso risolutivo, che dovrebbe consentire di far luce su di un contrasto da

tempo esistente tra una parte della dottrina e la giurisprudenza dominante, vertente sulla possibilità

di applicare analogicamente al contratto di agenzia la disciplina del recesso per giusta causa prevista

per il rapporto di lavoro subordinato dall’art. 2119 cod. civ.

Mentre da un lato la giurisprudenza, anche recente 33, ammette pacificamente l’applicabilità della

norma in via analogica anche al rapporto di agenzia, tenendo conto solo di rado delle differenze

esistenti tra le due figure contrattuali, parte della dottrina ritiene che tale applicabilità contrasti con

il principio di specialità proprio delle norme dettate per il rapporto di lavoro subordinato.

33 Cass. 20 aprile 1999, dal n. 3898 al n. 3901, in Mass. giur. it. 1999, col. 462 (attinenti alle modalità di contestazione della giusta causa); Cass. 1 febbraio 1999, n. 845, in Mass. giur. it. 1999, col. 129 – 130 (dove

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L’art. 2119 cod. civ. 34non richiede l’accertamento dell’esistenza di un vero e proprio

inadempimento ad un obbligo contrattualmente assunto, essendo sufficiente il venir in essere di una

«giusta causa», che peraltro comporti conseguenze gravi, e cioè l’impossibilità di prosecuzione,

anche provvisoria del rapporto.

Il tenore dell’art. 1751 cod. civ. (come modificato dal d.lgs. 303/91), pur apparentemente

riprendendo pedissequamente il testo dell’art. 2119 cod. civ., se ne differenzia laddove parla

espressamente di grave inadempienza, con la conseguenza che il più ampio concetto di giusta causa

elaborato nell’area lavoristica, che consentirebbe di recedere dal contratto anche in relazione al

semplice venir meno del rapporto fiduciario esistente tra le parti, non può ritenersi applicabile al

contratto di agenzia.

In altri termini, ferma la possibilità di recedere dal rapporto in tronco (sulla scorta di

un’applicazione analogica dei principi contenuti nell’art. 2119 cod. civ.), l’art. 1751 cod. civ.

consente al preponente di non concedere il preavviso o alternativamente di non rispettare il naturale

termine di scadenza, e di non corrispondere né l’indennità di fine rapporto né l’indennità di mancato

preavviso o il risarcimento corrispondente, ma solo in relazione all’esistenza di un grave

inadempimento, ovvero di un inadempimento di non scarsa rilevanza, e non di un generico venir

meno del rapporto fiduciario esistente tra le parti o di qualunque altra causa che da tale

inadempimento ben potrebbe prescindere.

La seconda ipotesi attiene alle dimissioni dell’agente, che in quanto tali non gli consentono di

richiedere l’indennità di fine rapporto. A fronte di questa regola di carattere generale sono però

previste due eccezioni, che permettono dunque all’agente di mantenere il proprio diritto

all’indennità anche in caso di recesso.

Le anzidette eccezioni si riscontrano nell’ipotesi in cui il recesso sia giustificato da circostanze

attribuibili al preponente o da circostanze attribuibili all’agente stesso, quali l’età, l’infermità e la

malattia, per le quali non può più essergli ragionevolmente chiesta la prosecuzione dell’attività.

Appare evidente la differenza esistente tra la prima delle due eccezioni (recesso giustificato da

circostanze attribuibili al preponente) e la prima ipotesi di perdita del diritto all’indennità (recesso

risolutivo operato dal preponente per una grave inadempienza dell’agente), differenza che parrebbe

consentire all’agente di recedere dal rapporto per un inadempimento del preponente non

per la verità il riferimento all’art. 2119 viene effettuato tenendo presente la diversa natura dei rapporti); Cass. 14 gennaio 1999, n. 368 e 369, in Mass. giur. it. 1999, col. 38 – 39. 34 Art. 2119 cod. civ. :« Recesso per giusta causa. – Ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto prima della scadenza del termine, se il contratto è a tempo determinato, o senza preavviso, se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto. Se il contratto è a tempo indeterminato, al prestatore di lavoro che recede per giusta causa compete l’indennità indicata nel secondo comma dell’articolo precedente. Non costituisce giusta causa di risoluzione del contratto il fallimento dell’imprenditore o la liquidazione coatta amministrativa dell’azienda».

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particolarmente qualificato, al contrario di quanto avviene invece in caso di inadempimento da parte

dell’agente.

Questo squilibrio, originato dalla genericità con la quale si fa riferimento alle circostanze attribuibili

al preponente che possano aver indotto l’agente a recedere dal rapporto, lascia alquanto perplessi,

anche in relazione alla sinallagmaticità del contratto di agenzia ed alla posizione di sostanziale

autonomia ed indipendenza che caratterizza le due parti contrattuali. E’ peraltro necessario

attendere che la giurisprudenza prenda una posizione sul punto al fine di individuare un’esatta

delimitazione tra i due tipi di inadempimento.

La terza ed ultima ipotesi di perdita del diritto all’indennità, derivante dalla legislazione francese35,

consegue alla cessione del contratto da parte dell’agente, previo accordo con il preponente.

La perdita del diritto all’indennità per l’agente uscente si giustifica con il passaggio del diritto

all’agente subentrante, che senza dubbio avrà corrisposto un prezzo all’agente uscente per divenirne

cessionario.

Ancora l’art. 1751 cod. civ. prima di stabilire, in armonia con il testo della direttiva, un termine di

decadenza di un anno entro il quale l’agente deve comunicare al preponente l’intenzione di far

valere i propri diritti, prevede la possibilità per l’agente di ottenere, oltre all’indennità, anche il

risarcimento del danno.

Questa previsione ha fatto sì che una parte della dottrina si orientasse verso la tesi del risarcimento

da atto lecito, così teorizzando la possibilità per l’agente di effettuare una richiesta a titolo di

risarcimento del danno collegata al mero fatto della cessazione del rapporto (sia che avvenga

tramite recesso con preavviso, sia con lo spirare del termine in un contratto a tempo determinato).

A nostro modo di vedere, prescindendo dal rilevare che la stessa configurabilità di una categoria di

atti leciti dai quali possa derivare il diritto al risarcimento del danno non è pacifica in dottrina, va

fatto presente che, essendo l’art. 1751 cod. civ. riferito indifferentemente al contratto a tempo

determinato ed indeterminato, appare inaccettabile la ricostruzione interpretativa dell’ipotesi ivi

prevista che tende a considerarla come una fattispecie di risarcimento da atto lecito (nella specie

costituito dall’esercizio del diritto di recesso o dalla scadenza del termine) poiché, come detto,

35 Le origini francesi di questa previsione sono riscontrabili nel decreto del 5 novembre 1946 (successivamente dichiarato nullo dalla pronuncia del Consiglio di Stato del 30 aprile 1948) il cui oggetto era la disciplina del mandato commerciale. In tale normativa gli articoli da 34 a 48 erano dedicati al contratto di agenzia. Più precisamente era prevista la possibilità di cessione della propria “carte” da parte di un agente ad un altro agente, pervio accordo con il preponente. Laddove il preponente avesse negato il proprio consenso alla cessione del contratto, l’agente poteva richiedere il risarcimento del danno, quantificato equitativamente nelle due ultime annualità di provvigioni, e corrispondente al valore della “carte” cioè all’apporto di clientela dell’agente in favore del preponente. Nonostante la pronuncia del Consiglio di Stato, la giurisprudenza ha finito per adottare quale criterio di quantificazione di carattere generale per l’indennità di fine rapporto le due annualità di provvigioni anzidette.

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bisognerebbe riconoscere il diritto al risarcimento anche nell’ipotesi di semplice scadenza del

contratto a termine.

E’ quindi senza dubbio preferibile interpretare la norma sul risarcimento in armonia con i principi

generali, con la conseguente necessità di riscontrare, per il riconoscimento del diritto, un illecito (sia

di carattere contrattuale che extracontrattuale) commesso dal preponente in occasione della

cessazione del rapporto (in particolare in relazione alle modalità di cessazione, anche con riguardo

ad un eventuale affidamento che sia stato in ipotesi creato sulla prosecuzione del rapporto).

Quest’ultima opinione è stata di recente confermata da una pronuncia del Supremo Collegio 36.

E’ inoltre prevista l’inderogabilità dell’art. 1751 cod. civ. a svantaggio dell’agente, in ciò superando

le previsioni della direttiva che si limitavano a stabilirla durante la vigenza del contratto.

Infine, come detto in precedenza, il secondo intervento attuativo, effettuato dal d. lgs. 65/99, ha

inserito un nuovo settimo comma, che prevede il diritto dell’agente (o meglio dei suoi eredi)

all’indennità, anche in caso di decesso.

Milano, 9 Marzo 2001

Avv. Alberto Venezia

36 Cass. 30 agosto 2000, n. 11402.