AV Scelta

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Quaderno di lavoro e riflessione per ragazzi in ricerca vocazionale a cura dei Salesiani.

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Michel ciRYLa miglior parteolio su tela, 56x371994Maria è concentrata sulla parlata del maestro, totalmente rapita dalla sua figura, la sua espressione è intensissima, la sua posa protesa in avanti. Viene definita dalla sorella Marta come ‘inattiva’, ma il suo corpo esprime semmai pro-tensione profonda, com-prensione, sforzo di assimilazione e il movimento della sua veste suggerisce che questa contemplazione porta il divino nel movimento. è un ‘fare’ nuovo. Il colore del cuore e della passione è reso evidente all’esterno della sua figura e l’avvolge completamente, sarà sotto l’effetto di questa stessa veste che Maria continua ad operara perchè è vivere “come Lui”.

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4Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: «Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca». 5Simone rispose: «Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti». 6Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. 7Allora fecero cenno ai compagni dell’altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare. 8Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore». 9Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; 10così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini». 11E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.12Mentre Gesù si trovava in una città, ecco, un uomo coperto di lebbra lo vide e gli si gettò dinanzi, pregandolo: «Signore, se vuoi, puoi purificarmi». 13Gesù tese la mano e lo toccò dicendo: «Lo voglio, sii purificato!». E immediatamente la lebbra scomparve da lui. 14Gli ordinò di non dirlo a nessuno: «Va’ invece a mostrarti al sacerdote e fa’ l’offerta per la tua purificazione, come Mosè ha prescritto, a testimonianza per loro». 15Di lui si parlava sempre di più, e folle numerose venivano per ascoltarlo e farsi guarire dalle loro malattie.

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L’antefattoGesù si trova presso il lago di Genèsaret e la folla gli fa ressa in-torno per ascoltarlo. Il numero degli ascoltatori crea un certo disa-gio. Il Maestro vede due barche ormeggiate alla sponda; i pescatori sono scesi e lavano le reti. Egli chiede allora di salire sulla barca, quella di Simone, e lo prega di scostarsi da terra. Sedutosi su quella cattedra improvvisata, si mette ad ammaestrare le folle dalla barca (cfr. 5,1-3). E così la barca di Pietro diventa la cattedra di Gesù. A questo punto Gesù, in modo inaspettato, esce con l’ordine peren-torio: «Prendi il largo e calate le reti per la pesca», che introduce alla prima scena della pesca miracolosa, cui segue, come il secon-do sportello di un dittico, la straordinaria guarigione del lebbroso.

La prima scena (vv. 4-11) Quante volte avevano calato le reti inutilmente!Quella stessa notte non avevano preso nulla. Per un pescatore non pescare è il fallimento. Ne va della sua identità. È come per l’uomo non essere uomo. L’ordine di Gesù, rivolto a dei pescatori di professione, appare un po’ offensivo, oltre che insensato: non conoscono bene il loro mestiere e non è forse di notte che si pesca? Dovranno comprendere che non è per forza e per volontà propria che agiscono e che l’azione è fruttuosa proprio di giorno, perché obbediscono al sole che è sorto per rischiarare coloro che prima erano nelle tenebre e nell’ombra di morte (cfr. 1,78-79).

Ma ogni volta che obbedisce alla parola del Signore, l’uomo sperimenta la realtà della sua promessa. Solo nell’obbedienza di fede la Parola è efficace e la promessa di Dio si realizza. Per questo l’essenziale è giungere a quest’obbedienza di fede. Essa porta il frutto infallibile e traboccante di questa pesca, che eccede ogni aspettativa e capacità umana: le reti quasi si rompono perché incapaci di contenere la realizzazione della promessa che è superiore a ogni fama (cfr. Sal 138,2). E nulla va perso!

La barca di Pietro, che ha pescato dando fiducia alla parola di Gesù, contiene non solo Pietro stesso, ma probabilmente anche Andrea (i verbi sono al plurale). Ma, oltre la sua, c’è anche un’altra barca associata alla pesca, che ne condivide le fatiche; ambedue sono «riempite», simbolo della benedizione di Dio, fino ad affondare; ma non affondano!

A questo punto, nell’obbedienza Pietro scopre la potenza effettiva di colui che opera ciò che dice: cade alle ginocchia di Gesù, il Signore, e si scopre «uomo peccatore». Luca sa che si scoprirà ancora più peccatore in futuro (cfr. 22,33s.; 54-62), ma che la fedeltà del suo Signore lo convertirà (cfr. 22,32.61s). Sarà per grazia che lui confermerà nella fede i fratelli. Il recipiente di questa grazia è la scoperta che fa qui: il proprio peccato. Davanti alla verità di Dio e al suo dono di misericordia, l’uomo scopre la propria verità. Si sente

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lontano e per questo gli dice di allontanarsi da lui e si vede perduto: sa di non essere quello che deve essere e si sente indegno. Non c’è rivelazione di Dio senza coscienza del proprio peccato: la sua infinita altezza si conosce contemporaneamente alla nostra infinita bassezza, e solo da questa! Nel cuore di Pietro nasce un sentimento di timore/stupore; del resto dove non c’è timore, stupore e senso del peccato, non si sta alla presenza di Dio, ma solo di un idolo, maneggevole, a propria immagine e somiglianza.

Finalmente vengono nominati anche Giacomo e Giovanni, che in questo stupore, da semplici soci della pesca, diventano compagni, che hanno in comune la stessa esperienza del Signore e del suo dono. Formano un unico corpo con un unico Signore, generati come fratelli dalla stessa Parola cui obbediscono. Allo loro presenza Gesù dice a Simone «Non temere», come l’angelo a Zaccaria (cfr. 1,13) e a Maria (cfr. 1,30), cioè «abbi fede». Sono le parole con le quali Dio si rivolge all’uomo sconvolto dalla sua presenza. Pietro riceve la sua missione mentre si riconosce peccatore e viene chiamato ancora Simone (cfr. Gv 21,15-19): la sua missione non decadrà neanche per il suo peccato e Simone diventerà Pietro e riceverà l’incarico di confermare nella fede i suoi fratelli proprio quando avrà consumato fino in fondo la propria esperienza di debolezza. La missione di Pietro, che ha fatto esperienza della misericordia del Signore che lo ha pescato dal peccato, consisterà nel «pescare uomini». Ciò che Gesù ha fatto e farà con tutti, cioè l’azione di salvare dall’abisso del peccato, sarà la «pesca» alla quale i discepoli stessi saranno associati, in favore di tutti gli uomini. Saranno infatti suoi testimoni fino agli estremi confini della terra (cfr. At 1,8), continuando la stessa sua missione di inviati del Padre «a salvare ciò che era perduto» (cfr. 19,10). Davanti a questa vocazione di Gesù, lasciano tutto (la barca per la pesca dei pesci) e lo seguono, obbedendo alla divina chiamata.

La seconda scena (vv. 12-15)

L’uomo che si presenta a Gesù è pieno di impurità e di morte; infatti l’unica legge che il lebbroso è tenuto ad osservare è quella di escludersi dal consorzio umano e da ogni legge (cfr. Lv 13,45). Ma il lebbroso vede Gesù come Gesù, che significa «il Signore salva». Per questo si prostra e lo supplica. Se Levi / Matteo il Pubblicano sarà il primo che Gesù vede (cfr. 5,27), il lebbroso è il primo che vede lui! Ciò che ci abilita a vedere il Salvatore e il Signore non è la nostra giustizia o santità, non la legge osservata, ma la nostra lebbra e il nostro male, che la legge non fa che evidenziare. Non ci accostiamo a Dio perché giusti e mondi, ma perché ingiusti e immondi, bisognosi di giustizia e di santità... Il lebbroso, come Pietro (v. 8), si prostra davanti a Gesù ed eleva il suo grido di supplica, riconoscendone il mistero di «Signore» e Salvatore. Il lebbroso può incontrare Gesù perché lui per primo gli è venuto incontro, gli si è fatto talmente vicino da prendere su di sé la sua lebbra.

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Gesù allora «stende la mano» verso di lui. È il segno dell’intervento salvifico di Dio (cfr. Es 4,4; 7,19). Se il lebbroso lo vede e va a lui con l’occhio, Gesù viene a lui con la sua misericordia e stende la mano; quegli si prostra, lui lo tocca; quegli lo supplica, lui esaudisce. È importante il fatto che lo «toccò». In Gesù l’uomo è realmente toccato da Dio salvatore. Questo contatto non avviene sulla base della bontà o dei meriti secondo la Legge. Gesù insomma tocca l’intoccabile: sfonda barriere e leggi, e raggiunge l’uomo nella sua debolezza e dichiara al lebbroso la sua volontà di salvarlo. È la stessa di Dio in cielo, che lui esegue sulla terra (cfr. 5,32; 19,10), perché tutti siano salvati e giungano alla conoscenza della verità (cfr. 1Tm 2,4). Solo Dio può salvare e lo vuole; per questo ci è venuto incontro in Gesù. Gesù infine impone al salvato il silenzio. È una traccia del segreto messianico, tipica di Marco, che Luca conserva. Questo rivela, sul piano storico, che Gesù non ricerca la pubblicità (questo distingue l’uomo religioso da quello mondano!). Gesù poi invia l’ex-lebbroso ai sacerdoti, tutori della legge, perché constatino, secondo la legge, che ciò che la legge non può fare è avvenuto: mondare l’uomo dalla morte. In breve, nel racconto del lebbroso è cancellato il sospetto di Adamo che Dio sia geloso e si contrapponga a lui nella sua santità. È presentato un Dio che tocca l’uomo nella sua miseria, un Dio la cui tenerezza si espande su tutte le creature (cfr. Sal 103,8; 145,8s) nella misura del loro bisogno. L’unica misura dell’amore è il bisogno dell’amato; la grandezza della misericordia è quella della stessa miseria.

La Parola si diffonde da quella città tutt’intorno; di orecchio in bocca e di bocca in orecchio, giunge fino agli uditori più lontani che sono i lettori del Vangelo di Luca, che siamo noi, ora! Tutti da ogni città, noi compresi, sono invitati ad accorrere a lui per la forza centrifuga di questa parola su di lui che si diffonde. Nelle molte persone che accorrono «per ascoltare ed essere curate dai loro mali», è da vedere tutta la folla di coloro che, udito il racconto, riconoscono, con la propria lebbra, il potere e la volontà che Gesù ha di liberarli e accorrono a lui per fare la stessa esperienza del lebbroso. È interessante l’accostamento tra «ascoltare» la parola di Gesù ed «essere curati». L’ascolto della sua parola, il racconto del Vangelo, è la potenza stessa di Gesù che guarisce chi accorre a lui con la coscienza e la fede del lebbroso.

e ein sintesi…

L’elemento che collega queste due scene, l’una ambientata sul Lago di Tiberiade, l’altra in una città, l’una che narra di un miracolo sulla natura, l’altra di un miracolo su un uomo malato, è il riconoscimento della nostra miseria, che ci apre all’incontro con Cristo, Figlio di Dio mandato sulla terra a rivelarci la divina misericordia.Nella prima scena Gesù entra quasi con “prepotenza” nella vita di Simone e lo “costringe” a riconoscersi bisognoso di salvezza; nella

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seconda invece è il lebbroso che, per primo, vede in Gesù l’unica speranza per liberarsi dal peccato e dalla morte.Al centro c’è la “proposta vocazionale” di Gesù (“Sarete pescatori di uomini”) e la Risposta di Simone, Andrea e Giovanni, che lasciano tutto e lo seguono.

per rifLettere…

Sulla tua parola getterò le reti. La fiducia piena di speranza nella Parola di Dio e nella Sua volontà è per Simone la “partenza con il piede giusto” nel suo cammino vocazionale. Hai il coraggio di buttarti e di fidarti di Dio e delle mediazioni che ti mette accanto? Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore. Il senso del proprio peccato e della propria indegnità non è altro che la scoperta della verità di se stessi. Davanti al tuo limite che cosa provi? Scoraggiamento o abbandono fiducioso in Cristo che salva? Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini. Simone accoglie Gesù che ha voluto salire sulla sua barca e condivi-dere con lui il lavoro della pesca, trasformandolo e trasfigurandolo in qualcosa di diverso. E’ stato questo per lui il “segno vocazionale” per eccellenza, che all’inizio ha faticato a decodificare. Ti fai aiutare a decodificare i segni vocazionali presenti nella tua vita? Ti sforzi di leggerli alla luce di Dio? E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono. Simone, Giovanni ed Andrea non possono “stare fermi” dopo che hanno incontrato Gesù e con il suo aiuto hanno riletto la loro vita. Sei capace di concretizzare alcune scelte della tua vita oppure, dopo lunghe riflessioni, ti trovi sempre bloccato dalla paura?

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35 Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36 e, fissando lo sguardo su Gesù

che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37 E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38 Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro –, dove dimori?». 39 Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio.40 Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41 Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – 42 e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

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Siamo al terzo giorno del racconto del Vangelo (cf. vv. 19.29). Il Battista, che da sempre attende, in un giorno imprecisato incontra l’atteso che viene a farsi battezzare, ma non lo riconosce. Solo più tardi, dopo aver risposto all’interrogatorio e aver confessato la propria identità (vv. 19-28), lo incontra nuovamente il giorno dopo e lo riconosce (vv. 29ss). Il giorno dopo ancora (v. 35), avendolo incontrato di nuovo, lo indica a due suoi discepoli, dei quali uno è Andrea, l’altro probabilmente Giovanni (alcuni dicono Filippo). Come sempre capita nel IV Vangelo, ogni lettore può identificarsi con i diversi personaggi che rappresentano i vari livelli del suo incontro con il Signore.A questo antefatto seguono due scene: l’incontro all’ora decima tra Gesù e i due discepoli (vv. 35-39) e il successivo incontro tra Gesù e Pietro, condotto da Andrea (vv. 40-42).

La prima scena (vv. 36-39)

Gesù comincia il suo cammino che, da oltre il Giordano, porta a Gerusalemme e in questo cammino si rivela: la verità si fa via per condurci alla vita. Il Battista, uomo dell’attesa, è il solo in grado di vederla e indicarla ad altri, per questo prende parola e la indica anche agli altri.

La parola di Giovanni dice lo stupore della scoperta, già fatta e proclamata il giorno prima in modo assoluto, senza nominare uditori (vv. 29ss), e che ora si esprime davanti ai discepoli, invitati a guardare l’agnello inviato da Dio: è l’uomo Gesù, che cammina. Nessuno giunge alla Parola se non mediante l’ascolto di una voce che la testimonia. Inizia così l’avventura dei discepoli: seguire Gesù, fare il suo stesso cammino di Figlio, è la sintesi dell’esperienza cristiana. Il cristianesimo non è infatti un insieme di belle teorie o imperativi morali; è la realtà di una persona, l’uomo Gesù, che si segue perché lo si ama. Chi segue lui non cammina nelle tenebre, ma ottiene la luce della vita (cf. 8,12). Con questi due, che seguono l’Agnello, sorge il giorno del nuovo popolo: è l’inizio della Chiesa. A sua volta Gesù si volge a chiunque lo segue e gli rivolge la parola. Non può non dirsi e manifestarsi, perché è la Parola, che esiste in quanto detta. È però necessario che trovi chi ascolta. Alla nostra iniziativa di cercarlo, Gesù si volta; non attendeva altro poiché è venuto per farsi cercare e trovare.Per la prima volta allora Gesù apre la bocca e il lettore lo ascolta. La sua prima parola è una domanda, che attende risposta. La sua domanda è: «Che cercate?». Gesù si rivolge a noi non con affermazioni o comandi, ma con un interrogativo che ciascuno deve porsi: «Cosa veramente cerco nella mia vita, nel mio lavoro, nelle mie relazioni?». A questa domanda di Gesù i discepoli rispondono con un’altra domanda, per sapere dove egli abita. La casa infatti non è il covile o la tana, dove l’animale si ripara e nasconde; è luogo di relazioni e affetti, che rendono umana la vita. Altrove l’uomo è estraneo a sé e a tutti. «Dove abiti?» significa insomma: «Chi sei?» Gesù, colui che viene, dice: «Venite». Venire a Gesù significa

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aderire a lui, facendo il suo stesso cammino. Chi viene a lui non sarà respinto: vedrà il Figlio e avrà la vita eterna (cf. 6,37-40); egli ci invita ad andare a lui per essere anche noi là dove lui da sempre è, presso il Padre. Gesù infatti tiene che i propri fratelli ritornino a casa.Solo dopo averlo seguito, si vedrà dove porta il cammino. «Vedere» in Giovanni è carico di significato; è l’illuminazione di chi «conosce» il Figlio dell’uomo, mistero di Dio e dell’uomo (cf. v. 51), dove Dio è di casa con l’uomo e l’uomo con Dio.Andando infatti dietro a lui, appagano il loro desiderio di vedere ciò che cercano. Il lettore si chiede: «Cosa videro?», ma il Vangelo non lo dice subito: suscita la curiosità, per stimolare la voglia di cercare. Il Vangelo piuttosto ci dice che dimorarono presso di lui La loro esperienza è descritta con queste parole semplici e dense; dimorare insieme è avere la stessa casa; anzi, farsi l’uno casa dell’altro. I discepoli sperimentano allora la gioia iniziale di una vita fruttuosa e realizzata, propria del tralcio unito alla vite. Quel giorno (cf. 14,20), in cui dimorano presso di lui, è il «giorno lungamente atteso» in cui trovano ciò che da sempre hanno cercato. Non sono più «orfani»: sono finalmente a casa, di casa con il Padre ed il Figlio. L’ora indimenticabile di quel giorno segna il passaggio decisivo: l’ansia di chi cerca si muta nella gioia di chi trova. Sono infatti le quattro del pomeriggio, quando la fatica del lavoro lascia posto al riposo.

La seconda scena (vv. 40-42)

Stando al testo, Andrea incontra il fratello il giorno stesso in cui dimora presso il Figlio; chi infatti dimora presso il Figlio, incontra il fratello che è colui al quale comunica la sua esperienza. In Andrea vediamo la sorpresa di chi ha scoperto il tesoro per cui comunica la sua gioia al fratello, perché gli interessano sia Gesù che il fratello, al quale pure interessa il Messia. Il Messia (unto, in greco Cristo) è il re che avrebbe realizzato ogni promessa di Dio e attesa dell’uomo. È il fratello che conduce al Figlio. Ognuno giunge a incontrare l’Altro per la mediazione di un altro che glielo testimonia. A questo punto l’incontro tra Gesù e Pietro è un gioco di sguardi che penetrano il cuore. Gesù poi gli dice il suo nome senza che alcuno in precedenza glielo abbia comunicato. Lui stesso è la Parola, che per prima ha detto il suo nome e lo fa esistere. Ma c’è anche un nome segreto, che nessuno conosce e solo il Signore rivela (cf. Ap 2,17; Is 62,2): è l’identità di una persona, la sua «vocazione», che sarà la sua «missione». E’ Kefas, che significa «pietra», per cui da allora il suo nome sarà «roccia», attributo di Dio.

in sintesi…

Il passo evangelico su cui abbiamo meditato si potrebbe riassumere in alcuni verbi: vedere Gesù; seguire Gesù; rispondere a Gesù; rimanere con Gesù. Attraverso cioè l’esperienza di Andrea e di Giovanni l’Evangelista ci dice che la conoscenza di Gesù non passa attraverso uno studio intellettuale di quanto egli ha detto o fatto, ma piuttosto attraverso l’esperienza diretta della sequela e della

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condivisione della vita con lui. E’ l’unica condizione possibile per capire noi stessi (cioè cosa cerchiamo nella vita) e per comprendere chi sia egli realmente. Non sappiamo che cosa si siano detti in quel giorno, all’ora decima; di certo sappiamo che qualcosa di sconvolgente è accaduto nella vita di Andrea, tanto che può con certezza dire al fratello Pietro “Abbiamo trovato il Messia” e condurlo da lui.

per rifLettere…

“Ecco l’Agnello di Dio”. Giovanni Battista manifesta la vera identità di Gesù: colui che viene da Dio e si fa carico del mio peccato e del mio dolore. Gesù insomma non è un supereroe (che quindi potrebbe rimanermi estraneo) ma colui che si fa vicino a me nella mia miseria. Chi è veramente per me Gesù? E’ una persona viva e vicina alla mia vita, oppure è solo un’idea lontana? Un concetto da studiare, o una persona amata con cui costruire intimità? “Che cosa cercate?” Ponendo questa domanda a Giovanni ed Andrea, Gesù li costringe a “guardarsi dentro”. Conoscendo Gesù, mi conosco e mi accetto sempre più? Oppure il mio cammino spirituale è così superficiale che non riesco mai andare in profondità di me stesso? “Venite e vedrete”. Gesù invita i due discepoli a stare un poco con lui a casa sua. Nella tua vita hai un “luogo stabile” (cioè una situazione, un impegno, una scelta fatta) dove puoi essere “di casa” con Gesù, cioè dove lo conosci ogni giorno standovi con fedeltà? Oppure passi da un esperienza (anche bella) all’altra senza senza crescere nella conoscenza di Gesù? Rimasero con lui. Per conoscere Gesù bisogna essere fedeli all’intimità con lui e alla forma di vita che egli ci fa vivere. Sei capace di fedeltà nella preghiera, nella direzione spirituale, nelle scelte del tuo cammino vocazionale, oppure alla prima difficoltà lasci? Ti verifichi su questo aspetto con la tua guidi, o vivi sull’onda delle emozioni?

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note

o Ulisse uno degli eroi achei descritti e narrati da Omero, è l’emblema dell’uomo affascinato dall’ignoto e in costante ricerca - sino a voler superare i limiti - condotto dalla smania di conoscenza. Per Dante potrebbe rappresentare la volontà di oltrepassare la sua finitezza usando stratagemmi, menzogne e dolore, confidando più in sé che non nella Grazia divina.

» “Dove abiti?” “Vieni e vedi”. Tre parole tanto semplici quanto piene di significato:

abitare, recarsi, vedere. Il Signore facendosi uomo ha voluto abitare tra noi; l’esperienza dell’abitare definisce profondamente l’uomo a partire dalle sue radici, a partire da una familiarità con un ambiente non sostituibile con altri. » Il cammino vocazionale è vivere alla presenza di Dio, abitare la Sua casa; ma la familiarità con la Sua casa è sempre un aprire le porte della nostra casa al Suo desiderio di dimorare presso di noi. » Questa forma del cammino vocazionale che chiede di conoscere la dimora di Dio, per aprirsi al desiderio di Dio di dimorare presso di noi, illumina una povertà del nostro tempo, che con i suoi mezzi di trasporto, le sue velocità ha fatto dell’uomo di oggi un nuovo Ulisse, sazio di spazi e disperatamente alla ricerca di dimore. » L’uomo di oggi è risucchiato da una vita in perenne movimento, una navigazione senza dimora, affogata nelle distanze, esposta al rischio di infiniti naufragi, ma sempre tentata di attribuirne la responsabilità all’insidia delle ultime acque solcate. » La sfida del dimorare, con l’impegno di mettere radici, di divenire familiari di qualcuno, fedeli ad uno stile, riconoscibili per una cittadinanza, è vissuta con timore dall’uomo di oggi, ammaliato e insieme deluso dalla libertà equivoca delle acque internazionali, dei mari di nessuno. » Così le flotte di naviganti senza ancore ospitano schiere di naufraghi rassegnati… » La parola di Dio svela la menzogna del nostro tempo, l’illusione delle sue false avventure, le trappole dei suoi non luoghi, e ci invita a prendere dimora nelle tende di Dio, perché a Dio sia permesso di fare della nostra vita la sua tenda.

oggila fuga, tentazione di ulisse

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» I grandi magazzini»: qui il cliente circola silenziosamente, consulta le etichette,

pesa la verdura o la frutta su di una macchina che unitamente al peso gli indica il prezzo, poi tende la sua carta di credito ad una ragazza anch’essa silenziosa, o poco loquace, che sottopone ogni articolo alla registrazione di una macchina decodificatrice prima di verificare la validità della carta di credito. Dialogo più diretto ma ancora più silenzioso: quello che ogni titolare di carta di credito intrattiene con il cash-dispenser in cui l’inserisce e sul cui schermo gli sono trasmesse istruzioni generalmente incoraggianti ma che a volte costituiscono veri e propri richiami all’ordine (“Carta mal introdotta”, “ritirate la vostra carta” […]). » Tutte le interpellanze provenienti dalle nostre vie di comunicazione, dai nostri centri commerciali o dalle avanguardie del sistema bancario […] mirano simultaneamente, indifferentemente, a ciascuno di noi; non importa chi di noi: esse fabbricano “l’uomo medio”, definito come utente del sistema stradale, commerciale o bancario. » […] Se era l’identità degli uni e degli altri, attraverso le connivenze del linguaggio, i punti di riferimento del paesaggio, le regole non formulate del saper vivere, che costituiva il “luogo antropologico”, è il non luogo a creare l’identità condivisa dei passeggeri, della clientela o dei guidatori della domenica. Indubbiamente, il relativo anonimato derivante da questa identità provvisoria può anche essere avvertito come una liberazione da coloro che, per un po’ di tempo, non devono più mantenere il proprio rango, il proprio ruolo o essere sempre presenti a se stessi. Duty-free: appena declinata l’identità personale (quella del passaporto o della carta di identità), il passeggero in attesa del prossimo volo si avventa nello spazio “libero da tasse”, egli stesso liberato dal peso dei bagagli e degli impegni della quotidianità, forse non tanto per comprare ad un prezzo più conveniente quanto per provare la realtà della sua disponibilità del momento, la sua irrecusabile qualità di passeggero in attesa di partenza. Solo, ma simile agli altri, l’utente del nonluogo si trova con esso (o con le potenze che lo governano) in una relazione contrattuale. AUGÈ M., Non luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano 1993, pp. 91-93.

pRovocazione la casa e “lo staRe con” don Bosco

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26 gennaio 1854. A Torino fa un freddo polare. Ma nella cameretta di don Bosco c’è un tepore particolare. Don Bosco parla, e quattro giovanotti galoppano con la fantasia fiduciosa dietro le sue parole: » “Voi vedete che don Bosco fa quello che può, ma è da solo. Se voi mi darete una mano, invece, insieme faremo miracoli di bene, migliaia di fanciulli poveri ci aspettano. Vi prometto che la Madonna ci manderà oratori vasti e spaziosi, chiese, case, scuole, laboratori, e tanti preti pronti a darci una mano. E questo in Italia, in Europa e anche in America”. » I quattro giovanotti si guardano in faccia sbalorditi. Sembra di sognare. Eppure don Bosco non scherza, è serio e sembra leggere nel futuro: » “La Madonna vuole che noi iniziamo una società. Ho pensato a lungo che nome darle. Ho deciso che ci chiameremo Salesiani”. » Tra quei quattro giovanotti ci sono le pietre fondamentali della Congregazione Salesiana. Sul suo taccuino, quella sera, Michele Rua annota diligentemente: «Ci siamo radunati nella stanza di don Bosco, Rocchietti, Artiglia, Cagliero e Rua. Ci è stato proposto di fare, con l’aiuto del Signore e di san Francesco di Sales, una prova di esercizio pratico di carità verso il prossimo. In seguito faremo una promessa, e poi, se sarà possibile, faremo un voto al Signore. Le «previsioni future» che don Bosco comunica ai suoi giovanotti quella sera, sono le stesse che alcuni anni prima lo hanno fatto credere pazzo o rischiare il manicomio. […] » Il 9 dicembre 1859. Don Bosco pensa che sia giunto il momento di parlare apertamente di Congregazione religiosa. I ragazzi convocati nella sua camera erano divenuti diciannove ai quali disse: » «Da molto tempo pensavo di fondare una Congregazione. Ecco giunto il momento di venire al concreto... Veramente questa Congregazione non nasce adesso: esisteva già per quell’insieme di Regole che voi avete sempre osservato per tradizione... Si tratta ora di andare avanti, di costituire formalmente la Congregazione e di accettarne le Regole. Sappiate però che vi saranno iscritti soltanto coloro che, dopo averci riflettuto seriamente, vorranno fare a suo tempo i voti di povertà, castità e obbedienza... Vi lascio una settimana di tempo per pensarci sopra». » All’uscita dalla riunione ci fu un silenzio insolito. Ben presto, quando le bocche si aprirono… Alcuni borbottavano tra i denti che don Bosco voleva fare di loro dei frati. Cagliero misurava a grandi passi il cortile in preda a sentimenti contraddittori. » Ma la forza di attrattiva di quell’uomo e di quel santo, l’esperienza degli anni passati, la fiducia ricevuta, la gioia che caratterizzava quella povera casa di Valdocco, il dono continuo che don Bosco faceva di sé, non permettevano di tirarsi indietro. «Stare con don Bosco»: questo il segreto! Cagliero, preso allora da vivo entusiasmo, non si trattenne: «Frate o non frate, io rimango con don Bosco».

SaleSiaNo la casa e “lo staRe con” don Bosco

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pRovocazione Don Bosco chiede» “Vuoi stare con me?”1: è un ritornello ricorrente, o

“stare con noi”2 parlando della decisione di fermarsi in casa. » “Stare con don Bosco” è porre radici, è entrare in quella familiarità, che fa proprio lo stile, la passione, la vita dell’altro percepito come dono e dono di Dio per la vita. »“Stare con Don Bosco”: sentire che la sua è la mia casa e che lì mi trovo bene non è solo un sentimento, non è una pura formalità, ma è porsi in gioco totalmente inserendo i propri passi nelle orme di un altro che dà il passo, che delinea una forma, che conduce verso una meta che da soli non si definisce. » Allora iniziare questo cammino significa “abitare” nella casa e non farsi ospitare in un albergo prendendo solo ciò che serve, interessa, aggrada. » Significa assumere in tutto il ritmo del cuore, la mens e gli atteggiamenti Suoi. » La necessità dello studio, dell’emulazione e dell’invocazione diventano allora un metodo. Senza più i mille riferimenti, ma attraverso la condivisione totale con colui che ha offerto la casa. Se questo vale per don Bosco, prima e assolutamente. vale

1 » Egli un giorno disse ad un buon giovane: Voglio che facciamo insieme un contratto.- E quale contratto?- Te lo dirò un’altra volta.Il giovane passò una settimana agitato da viva curiosità e andato a confessarsi dallo stesso D. Bosco si affrettò ad interrogarlo.- Mi dica! Qual contratto vuol fare con me?- E tu dimmi! rispose D. Bosco: Ti fermeresti volentieri nell’Oratorio per stare sempre con D. Bosco? - Magari! esclamò il giovane, senza però intendere la portata di questa proposta.- Ebbene, va da D. Rua e digli che io voglio fare un contratto con te.Il giovane andò a fare la commissione. D. Rua stette alquanto sopra pensiero non avendo a tutta prima inteso, ma poi lo condusse ad una conferenza che D. Bosco teneva ai Salesiani. Il giovane assistette a questa e a più altre, si ascrisse alla pia Società ed è zelante sacerdote Salesiano.MB VI, 439.Cfr. MB XIV, pp. 563-564; XV, pp. 564-571

2 » MB IX, pp. 69-70; 265-272; 274-282; VI, pp. 753-757

note

pReMessa

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» il criterio misterioso dell’incontro con il signore. Non si riuscirà mai a scoprire perché ognuno di noi è finito qui. Ogni incontro sembra casuale, ma in realtà ci sta dietro un progetto che sempre ci sfugge e ci abbraccia, che non possiamo comprendere, perché noi siamo semplicemente un tassello di un grande mosaico. Perché siamo nati in una famiglia cristiana? Perchè siamo entrati in una casa salesiana? Perché siamo qui? Tutte domande che ci superano, che trovano la loro risposta solo nel cuore di Dio. » un ordine del tutto inatteso e inadeguato! Fa parte del movimento di Dio nei nostri confronti, del suo stile ‘impossibile’ (Lc 1) e profondamente superiore ad ogni nostra aspettativa. L’estro di Dio: Dio è creativo, inaspettato, pensa per noi qualcosa che noi nemmeno possiamo immaginare (chi avrebbe immaginato prima di Gesù che Dio sarebbe stato crocifisso per noi?). Tutte le cose che in genere Dio chiede sono umanamente senza soluzione: come posso mettere al mondo un figlio se sono vergine (Maria), come posso pescare di giorno se tutta la notte, tempo propizio, e stato un insuccesso (Pietro), come posso donare la mia vita agli altri se vivo ancora in uno stile di egoismo e di peccato (profeti e apostoli), come posso mettermi ad annunciare il vangelo se sono incapace di comprenderlo e di viverlo (ministri)... Impossibile agli uomini, ma possibile a Dio. » La distanza tra me e dio emerge per ogni chiamato “L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazareth ad una vergine chiamata Maria”; “allontanati da me che sono peccatore” (Pietro). è la consapevolezza che Lui è veramente Dio, perché mi ha creato, mi custodisce, mi cura, mi rende suo discepolo. La consapevolezza che i suoi ordini sono la mia riuscita, che le sue parole mi salvano e ci salvano, che la sua presenza illumina tutta la mia esistenza...al di là o meglio a partire dalla sproporzione fra la mia povertà e la sua grandezza che mostra il fatto che SOLO Lui chiama e salva. » L’obbedienza come necessità assoluta. “Eccomi sono la serva del Signore, si compia in me secondo la tua Parola” (Maria); “Sulla tua parola calerò le reti in profondità” (Pietro) . Per crescere nella fede bisogna obbedire, ovvero ritenere che la Parola di Dio sia più vera, più forte, più bella, più efficace di ogni nostro pensiero. Anche per quanto riguarda la nostra personale vocazione: le reti della nostra vita devono essere donate al Signore, perché Lui le getti dove Lui vuole. II voto di obbedienza è il primo e il principale tra i voti, perché mette nelle mani di Dio ciò che di prezioso l’uomo possiede, ovvero la sua libertà...

per la SCelTa pReMessa

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» La riposta alla chiamata di Dio. Ci sono molti che sentono ripetutamente la chiamata di Dio, senza prenderla sul serio [...] chiudono il loro cuore, come se tutto ciò non li riguardasse personalmente, come se il loro ruolo si limitasse a quello di essere degli osservatori, tutt’al più dei testimoni. […] Essere svegli, tenersi a disposizione, saper aspettare, ma anche disponibilità che si trasforma subito in atto: ecco le condizioni per udire la chiamata. E nessuno, che una volta abbia risposto, l’ha fatto in modo perfetto, ha dato tutto il possibile, è andato fino in fondo. Perché nessuno può supporre che ciò che egli fa sia sufficiente, che ormai la chiamata non lo riguardi più, che egli abbia compiuto ciò che ci si aspettava da lui. » La chiamata non è solamente un invito, ma è al contempo anche una parola di incoraggiamento di chiarimento, d’amore, qualche cosa che porta il suo frutto nell’uomo stesso, una chiamata che per la sua comunicazione vivifica, aiuta, stimola. Il Signore riprende nuovamente la sua chiamata nella risposta umana che lo soddisfa, ma appena la risposta è pervenuta vicina al Signore, egli la ritrasmette sotto forma di una nuova chiamata. » Donandosi, non potrà garantire che resterà fedele né che delimiterà la sua fedeltà e la sua perseveranza. Non potrà dire: fin qui e non oltre; sarebbe come ridurre arbitrariamente la sua risposta a uno spazio, a un tempo o a qualunque altra cosa. Per restare viva nell’uomo, la chiamata di Dio non conosce altro tempo che l’eternità, altro spazio che l’infinito [...] La sua educazione è presa in mano da Dio stesso e, per la sua messa alla prova, nessun momento viene fissato in anticipo. In ogni caso egli dovrà trasformarsi, rispondere in maniera diversa; ciò avviene perché la sua disponibilità non può essere assolutamente programmata. […] » Appena risuona la chiamata avviene una sorta di cancellazione della personalità, l’uomo non è stato chiamato a titolo privato, ma in lui qualche cosa nella Chiesa è stato apostrofato e svegliato a nuova vita. Così la Chiesa ha su di lui un diritto che egli deve soddisfare. Che sia chiamato al sacerdozio o allo stato dei consigli evangelici, è molto raro trovare da soli la strada che conduce alla porta del seminario o del noviziato. [...] Egli deve diminuire. La preoccupazione della sua propria salvezza, e suo ideale di perfezione, della sua virtù è come se gli venisse alienata; egli accetta lo sforzo di una vita nuova. Le sue opinioni personali su tutto ciò e sulle strade per realizzarlo non contano più, ma contano le opinioni che si sono sperimentate nella Chiesa, che hanno preso forma molto prima che egli formulasse il suo sì, prima che egli stesso esistesse. [...] Ciò che egli porta: la sua personalità, la sua esperienza, il suo passato ha perso il suo carattere di proprietà inalienabile, gli è divenuto come indifferente. Ogni cosa partecipa di un’obiettività che a fino ad oggi egli ignorava. […] » I sacrifici della decisione. Il giovane che pensa di poter percepire una chiamata di Dio, può sicuramente provare una gioia misteriosa, ma egli si sente incapace di rappresentarsi la sua vita attuale e passata unita a questa chiamata, come una vita all’interno di questa chiamata. Egli ha l’idea di se stesso, conosce i propri errori, in qualche modo anche i propri talenti e le aspirazioni della sua vita, vede ciò che ha realizzato fino ad oggi e quanto resta da fare; tutto ciò in modo molto sobrio. Egli cozza dappertutto contro i suoi limiti. Vive in parte in un mondo di sogno e di fantasia, dove le cose hanno

il peRiodo della scelta

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altri nomi, le parole altri suoni. Là egli stesso aggiusta la propria esistenza, evitando ciò che potrebbe diventargli sgradevole, dando a ciò che egli ama una presenza e un valore più grande; anche quello che egli vorrebbe avere di diverso in sé stesso, comincia forse a credere, per pura immaginazione, che sia già così... » Ma quando la chiamata di Dio echeggia davvero, tutti i giudizi e i valori utilizzati fino qui vengono messi tra parentesi, quelli reali come quelli riguardanti la fantasia. La chiamata è fatto assoluto, l’obiettività incorruttibile; è la voce di Dio che si rivolge ad una persona determinata e, attraverso questa chiamata, egli, l’apostrofato, diventa ciò che è […]. » La chiamata raschia la persona di tutto il superfluo, ma la carica pesantemente del nuovo che inizia a trasformarla, lei e la sua vita, nel senso della scelta fatta. La trasformazione non avverrà mai più secondo la misura dei suoi sogni e dei suoi desideri, ma a norma della chiamata reale e dei suoi effetti reali. è probabile che ora, già durante il periodo che precede l’entrata, abbia luogo un certo orientamento in vista della comunità o del seminario futuri, che si faccia un’impressione di ciò che sta per accadere. [...] Ciò che Dio rigetta, viene eliminato. Ciò che egli vuole accogliere, viene acquisito. L’uomo diventa un altro. Questa trasformazione è prima di tutto interiore, nascosta; riguarda soprattutto la sua preghiera, la sua vita interiore la sua concezione del mondo e delle cose. [...] Ma questo sviluppo non può avvenire che a spese dell’attaccamento del chiamato alla propria volontà. Egli ha risposto liberamente; il fatto che rimanga libero nella risposta ora dipende dalla sua libertà accresciuta della chiamata alla quale egli ha detto sì, ha acquistato in lui ogni prerogativa ed egli la deve conservare. La chiamata distrugge ciò che le è incompatibile, esige ciò che le è favorevole, senza preoccuparsi delle preferenze e delle decisioni previe dell’uomo. [...] » Ciò che l’uomo considerava fino a qui come suo privilegio sacro, egli lo restituisce liberamente a Dio. Prima del suo sì, una tale perdita lo avrebbe influenzato dolorosamente; adesso questo non conta più, quello di cui una volta non sembrava preoccuparsi, diventa ora più difficile [...] Deve imparare a considerare l’inatteso come l’unica cosa possibile. Ciò che Dio nella sua libertà gli dà come l’unica cosa necessaria. Non serve a nulla che egli si dedichi, sí offra e si doni tutto intero e sempre di nuovo, se al contempo egli non tiene conto dello sforzo nel dettaglio, lento, faticoso. Il dono di sé deve compiersi, unendo la generosità alla fedeltà nelle piccole cose. Questo atteggiamento non è innato in noi […] Chi è chiamato, deve fare di tutto per dimorare in questa voce [...] La voce produce la sequela. Essa è il sì e, al contempo, il non-poter-dire-no. [...] è necessario dunque ubbidire, perché non si può sapere se la voce si farà sentire un’altra volta.[...] Chi dice sì, sa che dovrà lottare molto. Non sarà sempre nella gioia, conoscerà dei momenti di dubbio, i suoi errori e le sue debolezze non lo lasceranno in pace, rischierà di ingrossare la folla dei tiepidi. Non ha la sensazione che il convento, il seminario, la comunità che l’accolgono guadagnino gran che. Egli è un regalo dubbio, meno qualificato per rendere servizio della maggior parte di quegli altri che avrebbero potuto presentarsi. Tuttavia non gli resta nessuna scelta, poiché è lui che Dio ha designato. Dio lo vuole e per questo Dio assume un ruolo di garante. Se Dio gli dà la forza di dire sì, può dargli anche la forza di perseverare nella disponibilità a lasciarsi modificare. […]

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» Il periodo della scelta. Donarsi perfettamente al Signore, senza condizioni, è un atto ascetico che abbraccia, o almeno dovrebbe abbracciare, tutto ciò che i disegni di Dio in relazione all’uomo possono implicare. In questo atto la prima cosa è dunque la disponibilità; una disponibilità aperta, che non cerca continuamente di calcolare ciò che ci è possibile, di facilmente possibile, di appunto ancora possibile e, infine, di completamente impossibile. Una disponibilità così aperta che ha il coraggio di abbandonare al Signore ciò che gli appartiene. [...] Non si sa ancora in che senso e per quale scopo si viene chiamati, si sa soltanto che è Dio che parla, che la sua parola può essere percepita. Questo deve incitare l’uomo a una suprema disponibilità, a volere con un amore ardente e premuroso ciò che Dio vuole — che il contenuto di questa volontà venga svelato o no. [...] Questa ascesi della disponibilità richiede di certo anche una preghiera più intensa, una ricerca di Dio maggiormente approfondita, una lucida attenzione alla sua parola. E ciò non nella forma di un intrattenimento, ma in un discernimento d’amore. [...] L’uomo prova a rispondere quanto meglio può ai desideri e ai nuovi ordini di Dio. In principio questo significa: stimare di meno sia se stessi, sia ciò che è proprio, abbandonare ogni cosa sempre di più a Dio, fino a che alla fine questo significhi dimenticarsi completamente di se stessi e trovare ogni senso in Dio. [...] Tutto deve accadere nella semplicità dei bambini di Dio, nella gioia e nella gratitudine della vocazione. Non in modo affettato, non in modo assolutamente “manierato”, ma con amore e semplicità. Gioia nella preghiera, gioia dovunque Dio si fa conoscere, gioia per il suo mondo e per il suo cielo, gioia per questo tempo che passa, come espressione del tempo eterno. [...] Chi si sa chiamato, non può più discutere con Dio della chiamata. Occorre che egli si attenga al suo sì unicamente come un bambino. […] In ogni caso occorre questo sentimento filiale e, a questo titolo, anche la semplicità, per distogliere gli occhi da se stessi per avere la vista libera su Dio. [...] » La preghiera deve esprimersi in tutto l’atteggiamento esistenziale e deve fare del chiamato un essere amabile, uno che ama e che sa comunicare il suo amore agli altri. Essi non soltanto devono sentirsi amati; occorre che la domanda dell’amore si risvegli in loro: «Come deve essere fatto un amore per poter trasformare in questo modo quest’uomo? Per quale strada vi è pervenuto?» Simili domande concernenti l’amore possono essere delle strade che conducono a Dio. Tutto nel chiamato deve rinviare a Dio, nulla a se stesso. Il suo apostolato sarà molto meno un apostolato della parola che dell’azione. E questa nel senso del «fiat» piuttosto che come un intervento attivo. Là dove una parola è necessaria, egli la dirà, ma senza fare delle prediche né dei discorsi. Partendo dalla propria felicità, proverà soltanto a farla vedere. VON SPEYR A., E seguirono la sua chiamata - Vocazione e ascesi, Centro Ambrosiano, Milano 2010.

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Se questo vale per don Bosco, prima e assolutamente, vale per Gesù, unico modello a cui i santi attingono

totalmente. a » Il cammino si apre allora con la lettura sistematica, quotidiana, interiorizzata del Vangelo di Marco guardando: » a cosa pensa Gesù ?

» a come parLa ?

» a come aGisce ?

facendo un confronto con la propria vita per arrivare, a partire da Lui, a discernere pensieri, parole, scelte. B » C’è bisogno di un tempo quotidiano, costante, scelto per incontrarsi con Lui in questa forma. Almeno dieci minuti, segnando su un quaderno quanto emerge di giorno in giorno. c » La condivisione con la vita salesiana in comunità.

tRe passi

per L’approfondimento ti suggeriamo come testo per il mese la lettura sistematica continuativa ed interiorizzata delle “Memorie dell’Oratorio”, testo autobiografico di don Bosco, per far emergere quanto attiene alla tua vita in relazione con quanto “io penso, esprimo e agisco”.

un liBRo

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oBBeDieNZapoVerTÀCaSTiTÀ

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gustav KliMtolio su tela180x1801907-1908Un gesto così intimo, così umano e passionale si riflette nelle labbra vermiglie dell’amata ed è allo stesso tempo espresso con un pudore e una naturalità bellissima. è l’oro a dominare la scena e a donarle importanza sacrale. Il bacio avviene, anche simbolicamente, tramite le forme geometriche rappresentate sui due abiti dei protagonisti, tra l’uomo e la donna; la parte femminile e la parte maschile s’incontrano com’è nella naturalità umana, in un istante che è eternamente vero, che sa più di atto creativo d’Amore, piuttosto che di scena romantica. è nei piedi installati nella natura del terreno e nei corpi protesi in uno spazio celeste che si traccia la realtà che congiunge gli estremi. Così l’amore eterno della consacrazione.

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13Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». 14Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti». 15Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». 16Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». 17E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. 18E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. 19A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». 20Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

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iL contesto

La scena è ambientata nelle parti di Cesarea di Filippo, cioè all’estremo nord della Palestina, ai piedi dell’Hermon, nel punto più lontano da Gerusalemme, in zona pagana. Ci troviamo nella seconda sezione del vangelo matteano (capp. 14-28); se nella prima (capp. 1-13) Gesù è stato sempre in Galilea, si è presentato in parole ed in opere al suo popolo, ma è stato rifiutato, ora, nella seconda sezione, Gesù prende le mosse dalle regioni limitrofe alla Galilea, lontane da Gerusalemme e abitate da pagani e percorre la strada verso la città santa, che sarà anche il suo cammino di manifestazione attraverso la passione, morte e resurrezione. Non a caso nei versetti immediatamente successivi al nostro passo leggiamo il primo annuncio che Gesù fa della sua morte e resurrezione (cfr. 16, 21-23), cui fanno seguito altre due (cfr. 17,22-23; 20,17-19), che introducono il suo ingresso nella città santa (cfr. 21,1-11).La nostra scena è un dialogo serrato tra Gesù ed i suoi, costruito da due coppie domanda / risposta (vv. 13-14; 15-16), cui segue una promessa di Gesù (vv. 17-19) e la chiusura dell’azione (v. 20).

La prima coppia domanda / risposta Fin qui erano stati gli altri a interrogarsi su Gesù. Ora è lui che interroga. La fede inizia dove noi smettiamo di mettere in questione il Signore e accettiamo di essere messi in questione da lui. L’interrogato si fa interrogante e viceversa. Il problema non è interrogarci su Dio o interrogarlo, ma lasciarci interrogare da lui. Lasciarsi interrogare da lui e rispondergli secondo lo Spirito è parte dell’avventura di essere uomo. Dio è eterna domanda; l’uomo ne è la risposta, nella misura in cui ne ascolta la Parola e la incarna nella propria vita.Infatti anche su Gesù c’è un «si dice», un parlare generico e irresponsabile che non corrisponde mai a verità. In esso ciò che è già noto, o si presume tale, diventa in realtà motivo di confusione. Le nostre convinzioni ci velano la realtà del Figlio dell’uomo e dell’uomo stesso, che è sempre più grande di quanto possiamo già sapere. Gesù con questa domanda fa uscire allo scoperto le risposte scontate che spontaneamente diamo. Le opinioni della gente, riportate nella risposta dei discepolisono le figure religiose più eminenti del passato, con una storia di azione e di passione per la Parola. Hanno in comune il non essere state capite in vita e l’essere già morte. Riducono insomma Gesù ad un grande passato che non c’è più, ad un monumento funebre che non scomoda più che tanto; richiede solo un po’ di venerazione.

La seconda coppia domanda / risposta Nella seconda coppia domanda / risposta, Gesù riprende parola con una particella avversativa (ma) giacchè la risposta dei discepoli è un «ma» rispetto a quella della gente, come il pensiero di Dio è un «ma» rispetto a quello dell’uomo: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri; le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55,8).

v. 1

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v. 1

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Non rispondono tutti, ma Pietro per primo risponde personalmente alla domanda. Lo riconosce come il Cristo e il Figlio del Dio vivente: è il salvatore atteso che compie ogni promessa del cielo e desiderio della terra, è l’inatteso Figlio di Dio, che in ogni promessa si compromette, dono oltre ogni desiderio.Quella di Pietro è la professione di fede cristiana: Gesù è il Cristo, l’unico Cristo, è il Figlio, il Figlio unigenito del Padre della vita (cfr. 14,33; 26,63; 27,40.43.54; cfr. 28,18s). Vedere nella carne di Gesù , il Cristo, il Figlio di Dio è il centro della rivelazione: è entrare nella conoscenza del mistero del rapporto Padre/Figlio, rivelato ai piccoli (cfr. 11,25-27).Da questa risposta Pietro è generato uomo nuovo, partecipe del segreto di Dio. Con ulteriore sorpresa, negli annunci della morte e risurrezione di Gesù, dovrà capire in seguito che il Cristo non è quello che lui pensa, ma un Cristo che lui non si aspetta; scoprirà anche che il Figlio di Dio è un Figlio che lui neanche sospetta e che il Dio vivente è altro da quello che lui immagina.

La promessa di Gesù. A chi gli dice «Tu sei», Gesù risponde «Beato te», e comincia il dialogo tra i due. Pietro infatti vede quanto occhio umano mai non vide; vede ciò che Dio ha preparato per coloro che lo amano nella carne del Figlio (cfr. 1Cor 2,9). Il figlio di Giona legge nel Figlio dell’uomo il segno di Giona, la rivelazione di Dio. Il cristianesimo è conoscere e amare la persona di Gesù. Credere al suo messaggio non è apprezzare o adottare la sua dottrina: è conoscere e amare lui come il Figlio di Dio, che si è fatto mio fratello per darmi il suo stesso rapporto col Padre.

Pietro allora diventa «pietra», attributo di Dio (cfr. Dt 32,4;Is 17,10), come lo fu anche di Abramo, padre dei credenti (cfr. Is 51,Is). La fede nel Figlio gli dona la prerogativa di Dio stesso. La Chiesa si costruisce su questa pietra come la casa di coloro che sono ormai familiari di Dio (cfr. Ef 2.19-22). Ogni potere di morte si infrangerà contro il Dio vivente e quelli di casa sua. La sua fedeltà ha l’ultima parola su ogni nostra infedeltà, al di là di ogni nostra fragilità e peccato, che pure Pietro sperimenterà (cfr. 14,29-31; 26,32-35.69-75; 28,7.10).

In conclusione la fede di Pietro è la chiave che apre il Regno. «Darò» è al futuro: la promessa vale per il tempo che segue. La fedeltà di Dio garantisce la fede di Pietro, nella quale poi egli confermerà i fratelli. “Legare e sciogliere” (i due verbi applicati da Gesù a Pietro) significano proibire e permettere, interpretando autenticamente la Parola. Inoltre significano ammettere ed escludere dalla comunità. In base al dono della fede, a Pietro è dato il pegno/impegno di dire ciò che è conforme o meno ad essa e, di conseguenza, dichiarare chi appartiene o meno al Regno.

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chiusura

Gesù ordina di non dire ad alcuno la sua vera identità poichè il Figlio dell’uomo non è il Cristo che pensa Pietro, ma quello che si rivelerà subito dopo, e che Pietro non vorrà accettare.

La persona di Gesù interpella i discepoli (e quindi anche noi) a riconoscerlo nella sua vera identità; da questo riconoscimento nasce la professione di fede, cioè il rapporto con lui per quello che egli realmente è; da questa relazione si sviluppa la possibilità di una chiamata ad una vocazione che eccede ogni nostra attesa e ci lancia in una missione per il bene dei fratelli.

per rifLettere

“Ma voi, chi dite che io sia? “Chi è Gesù per te? Una bella idea del passato od una persona viva con cui relazionarsi?

“Tu sei il Messia”.Colui che salva e che stavamo aspettando. E’ l’atto di fede che determina una vita; è così anche per me?

“E io a te dico: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”. La vocazione nasce dal rapporto vero con Gesù. Coltivi il rapporto con Cristo per capire la tua vocazione o pensi che sia un tuo “affare privato”?

“A te darò le chiavi del regno dei cieli”. La vocazione ci è data per il bene dei fratelli e la si scopre solo coltivando la generosità nella vita quotidiana. Vivi nella logica della gratuità o sei tutto centrato su di te?

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20 Allora gli si avvicinò la madre dei figli di Zebedeo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa.

21 Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno». 22 Rispose Gesù: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere?». Gli dicono: «Lo possiamo». 23 Ed egli disse loro: «Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo: è per coloro per i quali il Padre mio lo ha preparato».24 Gli altri dieci, avendo sentito, si sdegnarono con i due fratelli. 25 Ma Gesù li chiamò a sé e disse: «Voi sapete che i governanti delle nazioni dóminano su di esse e i capi le opprimono. 26 Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore 27 e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo. 28 Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

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iL contesto

Ci troviamo nella seconda sezione del vangelo matteano (capp. 14-28). Se nella prima (capp. 1-13) Gesù è stato sempre in Galilea, si è presentato in parole ed in opere al suo popolo, ma è stato rifiutato, ora, nella seconda sezione, Gesù prende le mosse dalle regioni limitrofe alla Galilea, lontane da Gerusalemme e abitate da pagani, e percorre la strada verso la città santa, che sarà anche il suo cammino di manifestazione attraverso la passione, morte e resurrezione. Siamo in prossimità al suo ingresso nella città santa (cfr. 21,1-11) e nei versetti immediatamente precedenti (20,17-19) al nostro passo leggiamo il terzo annuncio che Gesù fa della sua morte e resurrezione, cui fa seguito, in modo paradossale, la curiosa richiesta della madre dei figli di Zebedeo. La nostra scena, che si svolge a Gerico, si divide in due parti: il dialogo tra Gesù e la madre di Giacomo e Giovanni (vv. 20-23) e il rimprovero di Gesù agli altri discepoli che discutevano tra loro (vv. 24-28).

iL diaGoLo tra Gesu’ e La madre dei fiGLi di zeBedeo

Una domanda viene a Gesù dalla madre di Giacomo e Giovanni. Questa donna adora e chiede; tuttavia anche una preghiera devota e ossequiosa nella forma può essere perversa nel contenuto. L’involucro della religiosità può nascondere qualcosa di poco divino e molto umano, addirittura diabolico (cfr. 16,23): un tentativo di ridurre Dio a mediatore dei nostri fini egoistici. Il Signore però non si sottrae alle richieste di quella donna; egli vuole che esprimiamo i nostri desideri, anche sbagliati, in modo che possiamo confrontarli con i suoi. La madre infatti si sente libera e chiede un “posto speciale” per i suoi due figli. È cosa buona desiderare e chiedere di essere vicini al Signore nel suo regno; tuttavia questa donna ignora, come tutti, qual è il «suo» regno, che si realizzerà sulla croce. Lì sarà intronizzato; ma con altri due suoi fratelli, uno a destra e l’altro a sinistra. La risposta di Gesù è allora netta poiché sia la donna che gli altri ignorano che il suo regno è quello del Figlio perfetto come il Padre, che ama e serve i fratelli, e sa dare loro la vita.Chi vuole stare accanto a lui deve bere il calice della passione, che Gesù stesso sarà tentato di non bere. Nel momento decisivo chiederà al Padre: «Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (26,39). Gesù è il primo uomo che chiede a Dio di non fare ciò che la sua volontà umana desidera, ma ciò che la volontà del Padre nel suo amore desidera per lui. I due discepoli danno una risposta positiva anche se non sanno ancora che calice sia; lo berranno, ricevendo il suo stesso battesimo (cf. Mc 10,39). Di fatto Giacomo sederà alla sua destra poiché sarà il primo tra gli apostoli a bere il calice di Gesù, martirizzato nell’anno 42 (At 12,2). Giovanni, a sua volta, sederà alla sua sinistra poiché secondo la tradizione, sarà l’ultimo a testimoniare il suo Signore. Essere associato alla gloria del Figlio è dono del Padre,

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preparato fin dalla fondazione del mondo (25,34) per tutti gli uomini, creati appunto nel Figlio per essere figli.

iL rimprovero di Gesù (vv. 24-28)

Gli altri dieci discepoli discutono animatamente. Infatti, quando si litiga, è perché si desidera la stessa cosa. Anche loro intendono la gloria in modo umano e sono mossi da rivalità contro i due, perché vogliono la stessa cosa. Gesù allora li chiama e li rimprovera. Anche i discepoli conoscono e vogliono la stessa gloria dei capi delle nazioni. Il potere dei potenti non è servizio e liberazione, ma dominio e schiavitù; il loro modello di gloria, che tutti invidiano, è il contrario di quello di Dio. Per questo Gesù rivolge un severo monito a quanti salgono con lui a Gerusalemme. Il vero potere, che sviluppa le possibilità dell’uomo e lo rende simile a Dio, è l’amore, che serve tutti e non opprime nessuno. È importante che l’autorità nella Chiesa non sia esercitata secondo i criteri, evangelicamente stupidi, della vanagloria. La vera grandezza è quella di Dio, la cui gloria è servire (cfr. Gv 13.1ss), al contrario asservire gli altri è proprio dell’uomo fallito. Quindi non solo dobbiamo essere grandi, ma anche primi, secondo però il criterio del Signore Gesù. Il primo è colui che si è fatto ultimo per amore. Servo è uno il cui lavoro appartiene all’altro; schiavo è uno che appartiene lui stesso all’altro. La perfezione dell’amore consiste nell’«essere dell’altro», come Dio. È il capovolgimento della vanagloria dell’uomo, che destina tutto al vuoto del nulla. La gloria non è servirsi dell’altro, ma servirlo; non è possederlo, ma appartenere a lui per amore. La libertà è essere nell’amore «schiavi» gli uni degli altri (Gal 5,13), così come iI Figlio dell’uomo, il Signore stesso, sta in mezzo a noi come colui che serve (Le 22,27; cf. Gv 13,1-17). Egli dà la vita: fa vivere l’altro, realizzando così pienamente se stesso a immagine di Dio, datore di vita. La dà in riscatto per tutti: dal dono del Figlio dell’uomo viene il riscatto di ogni figlio d’uomo, che torna ad essere figlio di Dio.

in sintesi…

Il filo rosso che collega la richiesta della madre dei figli di Zebedeo e lo sdegno degli altri dieci è il completo fraintendimento della missione di Gesù. La sua gloria di Messia mandato dal Padre consiste nel pieno dono di sé fino alla morte. Un dono offerto perché i fratelli abbiano la vita; un dono che si concretizza nel servizio di colui che lava i piedi ai suoi discepoli.Bere il calice di Gesù, partecipare alla sua gloria, sedere alla sua destra ed alla sua sinistra significa fare le sue stesse scelte, mettersi al servizio dei fratelli, essere disposti a morire per dare la vita.

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per rifLettere…

Egli le disse: «Che cosa vuoi?».Gesù vuole che la madre dei due fratelli chiarifichi i propri desideri alla luce del Vangelo. Ti stai abilitando a vivere secondo questo criterio di discernimento? Ti confronti con qualcuno per verificare la natura dei tuoi desideri? Nella preghiera chiedi luce per essere illuminato, oppure vivi sull’onda di voglie momentanee e sregolate? Potete bere il calice che io sto per bere? La domanda di Gesù è un invito ai discepoli a mettersi nella logica della piena obbedienza. Obbedisci a qualcuno? Sei disposto a recedere dalle tue posizioni, anche se ti costa sacrificio? Sai che morire a noi stessi è l’unico modo per dare la vita, anche se può essere molto amaro? Tra voi non sarà così. Gesù ci ricorda che nella sua comunità la logica è quella del dono di sé, dell’amore che è carità. Sei capace di servizio generoso e disinteressato? Perseveri nel tuo impegno di servizio anche quando costa, non è gratificante, non si viene ringraziati? Oppure cerchi sempre di essere il protagonista, di essere approvato e ringraziato, di mietere successi? Come il Figlio dell’uomo, che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti. Solo chi si dona completamente, senza trattenere nulla per sé, come ha fatto Gesù, può essere causa di salvezza per altri. Ti stai abilitando a donarti sempre più, ogni giorno? Verifichi con la tua guida spirituale il tuo cammino nell’amore? Sei attaccato a qualcuno/qualcosa che ti blocca nel donarti completamente?

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note o Mida fu un mitico re della Frigia. Per un favore fatto a Dioniso chiese il potere di trasformare in oro tutto ciò che toccava. E venne esaudito. Ma il re si accorse presto che in tal modo non poteva neppure sfamarsi, in quanto tutti i cibi che toccava diventavano istantaneamente d’oro e che la sua cupidigia di denaro lo avrebbe portato alla morte. Implorò Dioniso di togliergli tale potere.

» In fondo al cuore dell’uomo è presente un sogno ambiguo, pericoloso: quello di

essere il protagonista solitario ed assoluto della propria felicità. Ma questo cuore illuso, che si vorrebbe padrone dei propri desideri, quando si affaccia al mondo con la sua fame si scopre schiavo infelice delle proprie rapine di felicità: la felicità che nel sogno è a portata di mano, al tocco dell’ingordigia del cuore diventa schiavitù. » Noi, in fondo, siamo questo sogno di potere diretto alla felicità, ma siamo anche le vittime deluse dei corpi e delle cose cui abbiamo venduto il potere di prometterci una felicità irraggiungibile. » La vocazione è accogliere la buona novella del dono: tutto ci è stato donato da Dio e saremo felici sono donando, nella libertà dai nostri capricci, dalle nostre cose, dalle nostre voglie. » Dobbiamo liberarci dal ridicolo miraggio del re Mida tanto presente al nostro cuore… quando sogniamo il potere di disporre da soli della nostra felicità stiamo dando a un’illusione il potere di renderci suoi schiavi.

oggiMida, il Re del poteRe

» I prodotti di consumo oggi ci promettono di non essere invadenti né noiosi. Ci

assicurano che ci devono tutto e non vogliono nulla in cambio. Ci promettono di essere subito pronti per l’uso, di offrirci una soddisfazione immediata che non richiede né lungo apprendistato, né un risparmio prolungato: essi ci gratificano senza indugi. Ci giurano con la mano sul cuore che sapranno accettare il momento in cui perderanno i nostri favori e che quando il loro tempo sarà finito ci lasceranno tranquillamente senza proteste, astio o rancore. Il mercato dei consumi è il sogno di re Mida che si avvera, in una versione da ventunesimo secolo (decisamente mutante). Qualsiasi cosa questo mercato tocchi si trasforma in una merce di consumo, anche le cose che cercano di sottrarsi ad esso, e persino i modi e mezzi che esse impiegano nei loro tentativi di fuga.BAUMAN Z., Vita Liquida, Economica Laterza, Roma- Bari 2008.

pRovocazione

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» Miei cari figliuoli voi sapete quanto io vi amo nel Signore e come io mi sia tutto consacrato a farvi quel bene maggiore che potrò. Quel poco di scienza, quel poco di esperienza che ho acquistato, quanto sono e quanto posseggo, preghiere, fatiche, sanità, la mia vita stessa, tutto desidero impiegare a vostro servizio. In qualunque giorno e per qualunque cosa fate pure capitale su di me, ma specialmente nelle cose dell’anima. Per parte mia, per strenna vi do tutto me stesso; sarà cosa meschina, ma quando vi do tutto, vuol dire che nulla riserbo per me. (MB VI, 362)

» Lo stesso diciamo ora al principiar del ‘64. Molti di noi non saranno più al ‘65.Al cominciare di quest’anno nuovo che cosa debbo io chiedervi? Che cosa promettervi e che consigliarvi? Sono tre cose. Quanto a chiedervi non posso altro che domandarvi quanto forma il programma di questa casa e che sta scritto nella mia camera: “Da mihi animas caetera tolle”. Io non chieggo che le vostre anime, non desidero che il vostro bene spirituale. » Promettervi? lo vi prometto e vi do tutto quel che sono e quel che ho. Io per voi studio, per voi lavoro, per voi vivo e per voi sono disposto anche a dare la vita. » Consigliarvi? Statemi bene attenti ad intendermi. Immaginatevi di vedere un gran globo sospeso pei due poli a due colonne. Sopra una sta scritto: Regina mundi; sopra l’altra: Panis vitae. Ma notate che il polo appoggiato alla colonna Regina mundi è distaccato da essa mentre l’altro è attaccato alla colonna Panis vitae. (MB VII, 586)Un alunno della quinta, svelto ma posato, passeggiava con parecchi compagni vicino a Don Bosco sotto i portici. Sembrava un po’ soprapensiero e desideroso di parlare. Don Bosco che se n’avvide, lo interrogò:- Tu vorresti dirmi qualche cosa, non è vero?- Ha indovinato, sissignore.- E che cosa vorresti dirmi?- Mah!... Non vorrei che gli altri sentissero: - E in così dire tirò Don Bosco in disparte e gli sussurrò all’orecchio: - Vorrei farle un regalo che le farà piacere.- E che regalo vuoi tu farmi?- Ecco qui, ripigliò, rizzandosi quasi in punta di piedi, stendendo e allargando le braccia e componendo il volto a serietà: vorrei regalarle me stesso, perchè d’ora innanzi faccia di me quello che vuole e mi tenga sempre con sè.- Veramente, gli rispose Don Bosco, non potresti farmi regalo più gradito. Io lo accetto, non già per me, ma per offrirti e consacrarti tutto al Signore. (MB XII, 328-336)

SaleSiaNo daRe la vita

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pRovocazione Don Bosco è cosciente, da ottimo educatore, che la libertà si realizza solo nel dono di sé, dove la gratuità

assume i caratteri della consegna, della purezza, della leggerezza da ogni zavorra. Non fa un trattato sui voti ma costantemente delinea i tre voti, sia con i ragazzi (il fazzoletto1, la bella virtù2, lo spreco), sia con i suoi primi salesiani3, nella cifra del dono totale di sé: senza trattenere alcuna cosa, senza riserve nello spendersi, senza alcuna resistenza. La dinamica fondamentale è allora per don Bosco “cosa o quanto uno trattiene per sé”. La confidenza ed obbedienza è consegna totale di ciò che si è, l’essenzialità di vita è condivisione totale con i fratelli, soprattutto i più poveri, la castità è amore autentico perché all’insegna della gratuità e della libertà relazionale. Dono totale di sé e lotta sono inscindibili perché il nostro “io” vuole prevalere, su Dio e sui fratelli nella sua insaziabilità.

1 » Una sera don Bosco, stando in mezzo ai sui giovani chiese loro se volessero rimanere per sempre con Lui: Io – Io – risposero

tutti ad una voce. Questa entusiastica risposta fece sorridere d. Bosco, il quale continuò a parlare in questo modo: - ma se volete venir con me, bisogna che voi siate al mio cenno, e concedermi che io faccia di voi come fò di questa pezzuola che ho tra mano. - In così dire, come era solito fare…aveva tirato fuori di scarsella un bianco fazzoletto e lo piegava ora in un modo ora in un altro; se lo metteva nella mano sinistra e lo stropicciava; lo aggomitolava; e poi vi faceva qualche nodo, ovvero lo sciorinava all’aria per ripiegarlo di nuovo in altra foggia. I giovani guardavano meravigliati quella strana mimica di d. Bosco e molti non l’intendevano; ed egli ripigliò a dire: - Ogni cosa sarà possibile, se lascierete che io faccia con voi ciò che avete veduto aver io fatto del fazzoletto! Se mi obbedirete, se farete la mia volontà, la volontà del Signore, vedrete che Egli farà miracoli col mezzo dei giovani dell’oratorio.

MB VI, 11-12.

MB III, 546-550.

2 » Cfr. MB III, 17-18.

3 » povertà. Accettando la povertà dobbiamo accettare anche i compagni e le conseguenze della povertà; badare a noi e interrogarci: son povero o no?... SI. E allora perchè lamentarmi? Obbiezioni: - Toccano sempre a me gli affari più rognosi ... E quegli ha la camicia più bella... si lascia andar meglio vestito ... A me mai libertà; se esco al passeggio, devo badare agli altri... Tutti i lavori crescono su me, gli altri fanno quel che vogliono... A tavola se v’è qualcosa di meno, o di schifoso, sempre a me […] Pauperes spiritu; bisogna anche intenderlo nel senso, che la nostra povertà non è piena; siamo ancor lungi dal raggiungere l’ideale della povertà monastica e quella di G. C.. Convien dunque che almeno la teniam davanti al pensiero. Allora sì che ci moriranno sul labbro tutti i lamenti. Contempliamo adunque la povertà in quelli che l’ebbero veramente. S. Filippo per amor di povertà beveva in bicchiere zoppo di un piede, che ora si venera come una reliquia a Colonia... Quando adunque a tavola mi si porrà dinanzi un bicchiere difettoso o guasto, rammenterò il bicchiere di Filippo e dirò: - Vo’ esser povero come Filippo!

La castità. […] Per questa virtù noi ci rendiamo simili agli angeli, e, come G. C. ci dice, noi lo saremo un giorno […] Tre mezzi si hanno per conservare questa preziosa virtù; custodia dei sensi, orazione e Sacramenti, custodia del cuore.[1] Custodia degli occhi: foedus pepigi cum oculis meis, ne quidem cogitarem... dice Giobbe. Che han da fare gli occhi coi pensiero? basta un’occhiata per infiammarsi

note

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di mille voglie (il ponte dei sospiri, ragazzi che vedono un balocco). Custodia della lingua, noi specialmente che abbiamo a trattar con giovani; una parola equivoca può bastare a creare mali immensi nell’anima loro. Custodia delle orecchie; non ascoltare discorsi cattivi, adoperarsi anche perchè non ne ascoltino le orecchie altrui. Custodia del tatto; non mai le mani sulla persona altrui. Custodia del gusto: in vino luxuria, epa piena... [2] Orazione. Dice il Savio che capì che non poteva essere casto se non mercè di Dio, a nulla valgono i nostri sforzi: Nisi Dominus custodierit civitatem… Il nostro cuore è come una cittadella, i sensi altrettanti nemici. Sacramenti: la Comunione è vinum germinans virgines; nella confessione si hanno quegli avvisi che più specialmente possono fare pel caso nostro. Al confessore diciamo tutto che si riferisce a simile materia; ben inteso, colle debite precauzioni, accenniamo anche le tentazioni; tutto è sdrucciolevole su questo terreno; in generale non vi è parvità di materia in colpe commesse contro la purità. [3] Custodia del cuore, preservandolo dalle affezioni smodate anche a compagni buoni; si schivi la troppa familiarità, essa è assai pericolosa […]

sull’obbedienza. La più gran cosa in questo mondo è di fare la volontà del Signore. Ma per farla convien conoscerla, per non crederci di seguire la volontà del Signore, mentre poi non seguiam che la nostra. A questo fine sempre teniam a mente la bella preghiera di David: Doce me facere voluntatem tuam; rendiamola nostra giaculatoria. L’obbedienza è quella che sostiene le religioni. Ma quest’obbedienza dev’essere intera; cioè non fare le cose a metà, o farne una sola parte. ilare, cioè non dobbiam mostrar l’uggia nostra nell’obbedire in certe cose che non ci vanno perfettamente a genio. Alle volte il Superiore sapendo d’incontrar il broncio del soggetto, finisce per nemmen comandargli quel che gli voleva comandare, benchè ne venga anche un danno alla Congregazione e una minor gloria a Dio. pronta, vale a dire quando si è sentita la voce del Superiore, o questa si manifesta per un mezzo qualunque, suoni un campanello, ubbidir subito. S. Luigi lasciava a mezzo la parola incominciata, appena sentiva il campanello. umile, cioè non pensarci che il Superiore ci abbia ordinato una stravaganza, che meglio avrebbe fatto a dire od ordinare così e così... Il Superiore è nel suo stato assistito da Dio: può forse aver avuto in mente le stesse idee che vi vengono ora a voi e non averle giudicate convenienti. Parimente poi è segno di ubbidienza il non esser solleciti nel domandare e nel ricusare […] Nemmeno ricusare. Il Superiore ordinerà ad uno che è stanco di una giornata di lavoro: - Domani riposerai fino alle sette. - L’altro vorrebbe invece alzarsi alle 6 per poter fare la Comunione; ma ubbidisce, ebbene ei s’ha il merito della Comunione che avrebbe voluto fare, ha per giunta il merito dell’obbedienza. Il Superiore dirà: - Tu farai la tale scuola. - Ei non si crede capace, ricusa; contravviene a questa massima di non esser sollecito nel ricusare. S. Francesco di Sales, in punto di morte, lasciava per ultimo ricordo alle monache della Visitazione di non esser sollecite nel domandare nè nel ricusare. Noi, che lo abbiam pure per nostro Patrono, dobbiamo altamente fissarci nel cuore questa massima (I).

MB X, 1086-1091.

aMoRe e voti

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» L’amore perfetto consiste nella offerta di sé senza condizioni […]Contenuto di ogni amore reale è questo atto di offerta, che pone a disposizione di Dio tutto ciò che ha di proprio, gli affida tutto come un dono consacrato, con la forma interiore di un voto. Ogni voto esteriore, formale, vive ultimamente di un voto che inabita nell’amore stesso, identico al suo movimento di offerta. E questo tanto più, quanto la volontà d’offerta dell’amore, se questo è perfetto, è assoluta, irrevocabile. […] è l’espressione di una volontà assoluta, che deve essere definitiva. Come l’amore di Dio è esclusivo e, in una certa maniera, inclusivo, cioè tale da non conoscere o non voler conoscere niente di ciò che è al di fuori del suo chiuso segreto, così anche l’amore di risposta della creatura si verifica una volta per tutte nel circolo chiuso della disposizione divina e chiude le porte dietro di sé a tutto ciò che si trova al di fuori dell’amore. Offrendo a Dio la propria libertà nell’atto di dedizione, l’amore creaturale si priva liberamente della libertà di cercare e decidere qualcosa al di fuori della libertà di Dio. Sceglie Dio una volta per tutte e rinuncia così una volta per tutte a qualsiasi libertà di scelta che possa scegliere qualcosa d’altro rispetto a ciò che Dio per lui sceglie. Poiché la sua libertà deve consistere d’ora in poi non più nello scegliere ciò che gli piace, ma nello scegliere ciò che è gradito all’amato. Solo per colui che sta al di fuori dell’amore e per il quale la libertà coincide con l’egocentrica autodeterminazione quest’offerta della libertà nell’amore apparirà come una privazione di libertà. […] » La definitività è contenuta nel senso dell’offerta stessa. Un’offerta a tempo sarebbe perciò portata a non essere una reale offerta […] » Il momento del votarsi, intrinseco all’amore stesso, si esprime nelle parole del Signore: «Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà» (Mt 10,39). «Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25). «Chi ama la sua vita, la perde, e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). Il perdere di cui qui si parla è la totale e definitiva offerta dell’amore, che però perde la sua energia piena ogni volta che egoisticamente si getta uno sguardo a lato per assicurarsi ancora qualcosa a dispetto della «perdita», per limitare questa perdita sotto qualche aspetto, nel tempo o a livello di contenuto. […] » La forma dell’obbedienza diventa quella forma generale di offerta che rende ogni comandamento, ogni consiglio, ogni singolo atto di offerta un’espressione di totale offerta d’amore, e conferisce cosi ad ogni azione limitata l’illimitatezza dell’amore divino […] » L’amore si rapporta così ai triplici voti in maniera triplice: nella misura in cui i voti espressi formalmente oppure esistenzialmente sono di aiuto all’amore ancora imperfetto a sgombrare la strada dagli ostacoli verso l’amore perfetto, essi appaiono come un mezzo per il fine che è l’amore che li trascende. […]La consegna della volontà umana alla divina volontà di scelta è l’offerta della libertà personale e la rinuncia ad essa, in quanto questa viene presentata o

per la SCelTa aMoRe e voti

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è presente come una grandezza speciale esistente accanto a quella divina: «Prendi, Signore, e ricevi tutta la mia libertà» (Eserc. Nr 234), affinchè questa viva soltanto di quella divina, affinchè non abbia più altro oggetto che la stessa divina libertà di scelta. Nel non voler attuare la possibilità umana di libertà come una possibilità autonoma, separata rispetto a Dio, nel perfetto legame d’obbedienza a chiamata, grazia e missione viene vista la più alta possibilità (Chance) di ottenere in Dio parte alla libertà assoluta. » L’identificazione dell’io con la missione ottenuta da Dio è l’atto del credere perfetto e quindi l’unità della nostra opera e dell’opera di Dio in noi (Gv 6,28-29). […] » Niente rende l’uomo più autonomo che la missione divina, che egli assume su di sé in libera obbedienza e con piena responsabilità. […] » L’obbedienza di fede cristiana rimane sempre, anche sulle «vette della mistica», nella massima unione della volontà divina con quella creaturale, un dialogo vivo, drammatico: chiamata d’amore e risposta d’amore della creatura a partire dall’energia d’amore della chiamata stessa, ma non senza vera e permanente partecipazione della libertà creaturale alla risposta e all’esecuzione del compito della «vocazione». Solo così la creatura perviene alla sua intera verità cristiana. VON BALTHASAR H.U., Gli Stati di vita del cristiano, Jaca Book, Milano 1977.

i tRe voti » L’ubbidienza. Essere un bambino di Dio vuol dire essere ubbidiente; attingere, per viverne, da un’ubbidienza che ha la sua sorgente nell’ubbidienza del Figlio stesso. L’ubbidienza non è un atteggiamento di fronte a Dio che l’uomo possa interpretare a suo piacimento. Il Figlio di Dio è stato obbediente fino alla morte; e questo non per passività né per rassegnazione oppure per un lasciar correre indifferente, ma per amore. E l’amore che lascia fare, che patisce; esso accetta passivamente ciò che deve accadere. è l’amore che dà agli stessi atteggiamenti anche controversi il loro senso autentico. » Il Signore è obbediente da un duplice punto di vista: ubbidisce al Padre e al suo compito. Non c’è un istante, nel quale egli prenda in mano la sua missione, come se questa gli appartenesse, appropriandosene e modificandola a suo piacimento. La sua missione resta tra le mani del Padre; dalla volontà del Padre deriva ciò che egli gli riserva, ciò che il Padre in genere desidera. Ed egli, contemplando in questo modo il Padre, rimane nell’ubbidienza. Ma anche come uomo, egli sarà obbediente di fronte agli uomini. Maria e Giuseppe hanno in lui un figlio obbediente, che apprende quaggiù da essi l’ubbidienza umana e che è loro sottomesso. E questo in modo da non fare costantemente differenza tra i suoi genitori umani e il Padre nel cielo, per scoprire qualche discordanza nelle loro opinioni e nei loro ordini che susciterebbe un «conflitto di doveri». [...] » La breve parola di san Paolo — «è stato ubbidiente fino alla croce» — riassume in sé tutto il cammino del Signore. Su questo cammino non c’è tregua, non c’è riflessione; l’ubbidienza conduce direttamente alla morte, alla morte prevista dalla missione del Signore. Non va compresa come una morte simbolica, spirituale, ma come la più dura realtà. […]

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» Colui che ubbidisce, proprio perché ubbidisce, non deve immischiarsi nelle disposizioni di Dio per quanto riguarda la Croce. E questo, non per evitare l’ascesi. Noi restiamo aperti ad ogni grazia della Passione del Signore. Non disporre di noi stessi è soltanto l’espressione del nostro abbandono.[...] » Se un bambino ubbidisce a sua madre, è perché è sua madre, con il suo sapere superiore. Egli avverte la necessità di dover ubbidire. Quando cresce, gli resta qualcosa di questa necessità, ma l’ubbidienza diventa più personale, più fine, si applica ora anche ai desideri e alle intenzioni che la madre non ha mai formulato espressamente. Nel bambino si è svegliata l’intelligenza di un orientamento spirituale, che adesso egli prova a seguire. [...] » La povertà. Ai principi di una normale vita borghese appartiene ogni genere di “organizzazione”. Il giovane si appropria delle conoscenze acquisite, per poterle utilizzare più avanti. E se questa idea non gli fosse venuta naturalmente, ci avrebbe pensato il suo ambiente. Come le sue conoscenze, così ogni altro genere di arricchimento spirituale o materiale, ogni capitale finanziario o intellettuale si inserisce in questo piano generale di organizzazione della sua vita. Il suo avvenire sta davanti a lui, pieno di esigenze, che si rivolgono a ciò che egli è e, ancor di più, a ciò che egli ha. L’agiatezza viene in ogni modo elogiata. E quando studia gli elenchi delle garanzie propostegli, egli sperimenta che può assicurarsi da qualsiasi cosa: dalla malattia e dagli incidenti, dai danni, dai furti e dall’invalidità. E tutte queste garanzie intendono preservarlo da un’unica cosa: la povertà. Anche lo sfruttamento delle sue conoscenze contribuiranno a consolidare la sua agiatezza, per procurargli una posizione migliore. Ma se egli sceglie il cammino della sequela di Cristo, bisogna che rinunci di colpo a tutte queste prospettive. [...] » Dio lo vuole per sé. E né il suo spirito, né il suo corpo, né la sua salute, né la sua formazione e la sua esperienza, niente di tutto ciò avrà più un valore assoluto. Dio non vuole che lui, e lo vuole in maniera così totale da rinunciare a tutto ciò che può riagganciarsi ancora a sé. Lo vuole spoglio di tutte le sue garanzie terrene, nudo. Una nuova vita ha inizio, e Dio stesso vi metterà ciò che giudica buono. Forse egli sceglierà questa o quest’altra cosa di ciò che prima gli apparteneva, per affidargliela di nuovo, ma non è certo. » Questa è la via della povertà. Di una povertà che vuole essere povera, che si fa da sé. Di una miseria e anche di una solitudine specifica, che appartengono alla povertà. E le cose alle quali l’uomo sembrava naturalmente avere diritto fino a qui — i suoi vestiti, il suo letto ed altre cose del genere — fanno parte ora di ciò che gli viene donato, di ciò che egli deve chiedere, per cui ora egli deve ringraziare. Egli non deve più decidere dell’assetto di queste cose, della loro qualità, del loro effetto. Deve piuttosto essere stupito del fatto che lo si alimenti ancora, che si pensi al proprio bisogno di riposo, che gli sia offerta una formazione supplementare. Alla fin fine sono tutti dei doni della grazia divina, che gli toccano senza che egli ne abbia diritto.[...] » Comunque sia, egli non possiede nulla, tutto è in prestito. E gli scopi di questi doni non sono più i suoi, ma quelli di Dio. [...] Preoccupazioni e

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garanzie, ricordi del passato: tutto ciò è di oltraggio alla povertà.[...] » Nella nuova vita si possono porre gli stessi problemi di vita che nella vecchia: non sarebbe ragionevole conservare ciò che mi faceva del bene, ciò che aumentava la mia energia, ciò che mi tornava indietro di diritto, non sarebbe dunque ragionevole chiederlo e difenderlo? Qui il chiamato deve contemplare di nuovo il Figlio. […]» La verginità. L’ascesi richiesta dalla verginità consiste innanzitutto nell’entrare nelle vie della Madre del Signore, nella sua semplicità e nella sua fiducia. [...] » La verginità autentica è sempre ricca di effetti. Essa non finisce mai in una restrizione, nella monotonia della vita quotidiana, nell’isolamento; è invece partecipazione a ogni mistero dell’uomo adulto; nella forma particolare del suo rapporto con Dio e con la Chiesa, essa gli conferisce una condizione e una potenza nuove. Essa scaturisce in misura così totale dalla forza del sì che questa ne è il cibo permanente. Non sono degli originali coloro che si sottopongono all’ascesi della verginità, ma coloro che rinunciano e che, a causa della loro rinuncia, moltiplicano il bene degli altri. Sono delle persone piene di energia, capaci di condurre sino alla fine le cose e di non guardare indietro quando si sono messe all’opera. La purezza e la spensieratezza che caratterizzano la verginità, diventano degli indicatori per l’amore e l’intelligenza. Non si può recitare la più semplice Ave o non ci si può formare l’idea più ordinaria della Chiesa, senza essere toccati in un modo o in un altro dalla forza di questo carattere verginale. [...] L’«io ho scelto tutto» della Piccola Teresa [di Lisieux], non esprime altro che l’assoluto del sì e la fedeltà ad esso.[...] » Questa verginità non è mai un atteggiamento di fuga, di evasione, di angoscia, ma è una fiducia, un abbandono a Dio, una perdita di sé, un’offerta del corpo e dell’anima, da cui Dio può far sgorgare ciò che gli piace. Qualche cosa di assolutamente incondizionato che, in Maria, resta senza riserva alcuna. [...] » Ma l’uomo che vive nella sequela, non si distaccherà così facilmente dal suo andamento terreno. Proprio là dove si vuole abbandonare a Dio, egli guarda il suo vecchio io che gli fa parecchio male. Spesso avrebbe voglia di riprendere il suo sì; spesso egli l’ha donato in una sorta di fiducia momentanea, senza riflettere che la fede non è fatta solamente di fiducia. E Dio lo mette alla prova. Oppure il credente non ha considerato che ci sono delle esigenze divine che l’uomo può sopportare e patire. O egli si è tracciato il suo proprio cammino, ha tollerato i desideri e gli appetiti del suo corpo e ha assegnato loro un posto sempre più grande, che d’improvviso si è fatto talmente ampio da renderlo ansioso. Oppure che invece si rivela così stretto, che non si può più percepire nessuna uscita. Il credente ritiene di aver presunto troppo dalle sue forze o di aver disposto di forze che non gli appartenevano. Egli sente parlare di leggi biologiche, e ciò lo impressiona. Si ricorda della parola della Genesi: «Fate frutti e moltiplicatevi». Comprende questa parola come un dovere e un dovere per sé. D’altra parte, c’è la parola che il Signore gli rivolge, che esige inesorabilmente la sequela. Egli deve rinunciare ai suoi desideri più legittimi. Egli troverà forse una certa consolazione nell’immagine della Chiesa, nell’abbandono della Madre di Dio al Figlio, nelle promesse che sono state compiute. Ma questo può

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essere una consolazione molto astratta, inventata da altri; per lui non sembra sufficiente. Si è arrischiato, certamente in buona fede, in una sfera di rinuncia che lo supera. » Sono le tentazioni che molti altri prima di lui hanno conosciuto. [...] » Ciò andrà e deve andare, ciò può anche andare, proprio perché gli viene offerta ogni grazia; non è lui che lotterà e vincerà, ma è la grazia in lui. [...] Egli deve sperimentare che i suoi argomenti più forti sono crollati, che ciò che ha costruito attorno a sé per proteggersi, è demolito. E a partire da questa disfatta, diventa realmente un credente, qualcuno che il Signore ha ricostruito, che la Chiesa ha segnato con la sua impronta, un’immagine che troverà il suo estremo completamento nella vita eterna. Egli resta un lottatore. Ma Dio è vincitore, e soltanto su questa vittoria riposa il suo avvenire […] » Per la verginità, occorre piuttosto raffigurarsi, partendo dal Cristo e dalla Chiesa, una fecondità in formazione, in divenire, in via di compimento che, per dispiegarsi pienamente, ha bisogno del terreno di un voto [...] » La Chiesa, con i suoi innumerevoli bambini, di cui alcuni arrivano alla vera santità e altri finiscono in peccati miserabili, dispone unicamente della grazia santificante di Dio, che dà ad ogni vita il suo senso e la sua forza e ai voti la loro giustificazione. La grazia ecclesiale dà la forza là dove non c’era altro che debolezza e miseria.VON SPEYR A., E seguirono la sua chiamata - Vocazione e ascesi, Centro Ambrosiano, Milano 2010.

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tRe passi

per L’approfondimento ti suggeriamo come testo per il mese: BIANCO E., Versilia e Caravario,

i pastori danno la vita = Testimoni, LDC, Torino-Leumann 2000.

un liBRo

appunti

Don Bosco è un uomo dello Spirito ma anche un uomo di grande concretezza ed è cosciente che non

si può fondare un autentico cammino sulle sole buone intenzioni. O vi sono passi oggettivi o non si procede. Per questo proponiamo 3 passi concretissimi per una verifica sul campo del desiderato dono totale di sé. a » Esercizio di sobrietà: “Nulla chiedere”: in questo tempo accogliere quanto ci viene offerto dalle persone o dalle situazioni, senza cercarci il completamento, ciò che desideriamo, ciò di cui a volte possiamo anche aver bisogno. Senza lamentarci o mormorare. B » Esercizio di obbedienza: “Nulla rifiutare” direbbe, per completare l’espressione, S. Francesco di Sales. Per cui nella relazione con le mediazioni umane (genitori, guida spirituale) e nelle mediazioni storiche (situazioni ed eventi) obbedire cercando di fare in quelle situazioni ciò che ci viene chiesto, senza lamentarci o ribellarci. c » Esercizio di purezza : taglio deciso con ogni forma di “contagio” ed ambiguità di tipo linguistico-visivo-gestuale.

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UNioNe CoN Dio

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vincent van goghNotte stellataolio su tela di 73x921889Già Daubigny e Rousseau avevano descritto cieli stellati come questo, ma per Van Gogh le stelle sono qualcosa di più, amici, uno sguardo sul divino, sul possibile, anche se non in questo mondo: “Dichiaro di non saperne assolutamente nulla, ma la vista delle stelle mi fa sempre sognare [...]”. Il suo sguardo contemplativo del firmamento è un profondo sentimento di vicinanza al celeste. «Quando sono colto dal mio “terribile bisogno di religione” vado fuori di notte a dipingere le stelle... e sogno sempre un quadro così, come un gruppo di amici vivi». (lettera al fratello Theo). Questo è il Mistero che ha invaso gli occhi, la bocca, il cuore. “E si fece carne”.

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1Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».

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iL contesto

La celebrazione della Pasqua per Giovanni, a differenza che negli altri Vangeli, inizia non il giovedì, ma il venerdì sera, quando sulla croce sarà immolato l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (cfr. 1,29). La scena che stiamo leggendo ne anticipa il significato. Siamo nell’ora di Gesù, la «sua ora», preannunciata all’inizio (cfr. 2,4) e richiamata alla fine del libro dei segni (cfr. 12,23); è quella del ritorno al Padre, l’ora della Gloria. Tutto «il giorno» di Gesù punta a questo momento. È l’ora della croce, dove Creatore e creatura finalmente si incontrano. E’ l’ora in cui Gesù ci manifesta l’insondabile ricchezza dell’amore del Padre. Ma è anche l’ora del tradimento, quando già il diavolo aveva messo nel cuore un pensiero maligno a Giuda.. Gettare o mettere nel cuore significa deliberare. Il cuore è il centro delle decisioni. Per quanto sembri strano, anche il diavolo ha un cuore: una volontà menzognera e omicida sin dall’inizio (cfr. 8,44). L’evangelista sottolinea che è lui, con il suo inganno, il primo responsabile del male (cfr. Gen 3); per sua invidia entrò la morte nel mondo (cfr. Sap 2,23s). Giuda allora è attore, non autore del male. La consegna di Gesù da parte di Giuda è opera di un suggeritore, che al momento decisivo entra in lui e agisce mediante lui (cfr. v. 27). Il male nasce sempre da una parola ingannatrice (cfr. Gen 3,4ss). Giuda, come Adamo e ogni uomo, ha prestato orecchio alla parola del nemico invece che a quella del Padre. Gesù sa che quanto sta per compiere nasce dalla sua coscienza di Figlio: egli sa che «il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (cfr. 3,35;17,2). Con questa consapevolezza affronta la passione. Il suo gesto di lavare i piedi a chi rinnega e tradisce realizza la possibilità ultima del potere di Dio: la libertà di amare fino all’estremo. La misura dell’amore infatti è il non avere misura. Gesù inoltre sa di essere il Figlio venuto in questo mondo per portare agli uomini perduti l’amore incredibile del Padre, che li ama come ama lui (cfr. 17,23), ancor prima della fondazione del mondo (cfr. 17,24). Non si vergogna di farsi loro fratello.

Le azioni di Gesù

L’evangelista ci parla di 7 azioni compiute da Gesù durante quella cena. Vediamole una per una.• Si alzò da tavola. Gesù lava i piedi non prima, ma durante la

cena. Non è quindi una purificazione per il pasto: è il centro del «suo» pasto. Questo conferisce al gesto un significato specifico, di anticipo della «sua» Pasqua.

• Depose le vesti. Non si spoglia solo della veste (mantello), ma delle vesti; rimane nudo, come sulla croce, dove ci dona se stesso.

• Prese un asciugamano. Questo telo, insieme al grembiule e all’asciugatoio, diventa la sua veste definitiva: quella del servo.

• Se lo cinse attorno alla vita. La sua nudità è rivestita di servizio. In esso consiste la gloria del Dio amore; è la sua vera

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veste.• Versa l’acqua nel catino. Come l’acqua delle purificazioni

divenne vino per le nozze di Cana, così quest’acqua sarà tra poche ore il sangue e l’acqua che egli effonderà per noi, perché abbiamo parte con lui (cfr. v. 8b). Dio nel Mar Rosso rivelò «la sua gloria» affogando i nemici e salvando il suo popolo (cfr. Es 14,4.17-18); ora rivela la sua gloria dando la vita per i nemici.

• Lava i piedi. Lavare i piedi è gesto di ospitalità e di accoglienza, riservato allo schiavo non giudeo. Ma è anche gesto di intimità della sposa verso lo sposo e di riverenza del figlio verso il padre. Questa ospitalità e accoglienza, questa intimità e riverenza nei nostri confronti, sono le caratteristiche proprie del «Signore e Maestro» (cfr. vv. 13s). Qui il Maestro rivela chi è il Signore: non è un padrone, ma un servo. La qualità più profonda dell’amore è l’umiltà di essere a servizio dell’altro.

• Li asciuga con il telo di cui era cinto. I piedi dei discepoli, immersi nell’acqua di colui che dà la vita per loro, sono ora asciugati e rivestiti della sua veste di servo per amore.

La reazione di pietro e Le risposte di Gesù Quando Gesù si avvicina a Pietro questi ha tre obiezioni, cui Gesù risponde.

La prima oBiezione

Pietro chiama Gesù col nome di «Signore» ma ha una reazione di rifiuto: non vuole che il Signore gli lavi i piedi. Lo vuole diverso da quello che è, perché è diverso da quello che pensa lui. La contrapposizione «tu/me» indica la distanza tra Gesù e Pietro. In realtà non Gesù è lontano da Pietro, ma Pietro da Gesù. Lavare i piedi è il modo più proprio nel quale il Signore si rivela, mettendo in crisi la concezione che abbiamo di lui e di noi. A questa obiezione Gesù risponde che solo dopo la Pasqua Pietro comprenderà il mistero della donazione totale di Gesù.

La seconda oBiezione

Pietro reagisce perché non capisce. Pietro non accetta che Gesù lo serva, come non accetta che il Signore dia la vita per lui; preferisce darla lui per il Signore. Gesù risponde che non accettare il suo servizio è rifiutare lui e non conoscere la gloria che lui ha prima della fondazione del mondo: l’amore stesso del Padre (cfr. 17,24). Accettare lui che «lava i piedi» ci dona la capacità di amare come lui ci ha amati, di aver parte alla sua vita di Figlio.

La terza oBiezione

Pietro vuol essere con Gesù. Anche se non lo capisce, aderisce a lui. Senza saperlo, dice una verità: il Signore, lavandogli i piedi, gli sanerà la radice del suo camminare. L’uomo è il cammino che fa: il nuovo modo di camminare gli laverà anche le mani e il capo. Gli darà infatti un nuovo modo di agire (mani) e di pensare (capo), perché gli donerà un cuore nuovo, quello di figlio a immagine del

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Padre. Gesù risponde con una frase misteriosa. Forse significa che, pur avendo fatto il bagno, con ogni possibile abluzione e purificazione, battesimo compreso, se non accettiamo il Signore che ci lava i piedi, non siamo «puri», non abbiamo parte con lui alla vita di Dio. NB: durante la cena si pensa a Giuda fin dall’inizio (cfr. v. 2). Il gesto di lavare i piedi è volutamente incluso nella duplice menzione di Giuda. I brani del Vangelo che seguono evidenziano il rapporto tra Gesù e Giuda, qui messo sullo sfondo per dare il vero significato al tutto.

in sintesi…

Gesù, compiendo il gesto della lavanda dei piedi, ci avvolge tutti con la sua carità, una carità che raccoglie tutti, anche Giuda il traditore, la cui presenza include questo racconto all’inizio (v. 2) e alla fine (v. 11). Anche a lui Gesù ha lavato i piedi; e solo a lui darà il boccone, segno di affetto particolare (cfr. Mt 26,23). Gesù infatti come conosce l’amore del Padre, conosce anche quanto i fratelli ne siano privi. Essi sono nella morte; per questo viene a dare loro la sua vita.

per rifLettere…

Durante la cena…Cominciò a lavare i piedi dei discepoli. Gesù cerca l’intimità con i suoi discepoli. Sei cosciente che Gesù desidera sedere a me sa con te, vivere nell’intimità con te, farti sapere la ricchezza del suo amore? Coltivi il rapporto personale con lui nella preghiera? La tua preghiera personale è dialogo profondo di amicizia o un susseguirsi di parole vuote, di formule ripetute a memoria, di distrazioni? Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo.Pietro non comprende che la verità del suo Signore e maestro è quella di amare sino a farsi servo, sino a dare la vita. Coltivi la preghiera profonda, l’ascolto regolare della Parola di Dio per conoscere chi è veramente Gesù? Oppure lo conosci solo a livello di testa, come una nozione appresa sui libri? Se non ti laverò, non avrai parte con me. La conoscenza di Gesù, l’intimità con lui si costruisce non a partire da una nostra iniziativa, ma dalla Grazia che lui ci dona nei Sacramenti: Battesimo, Eucaristia, Confessione. Sei fedele alla confessione regolare? Partecipi con fede all’Eucaristia domenicale? La vivi come un momento importante per crescere nell’intimità con Gesù oppure come un dovere, come una tassa da pagare settimanalmente?

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25Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. 26Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». 27Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!». E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.

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iL contesto

Siamo al culmine dell’”ora” di Gesù, dopo che i soldati si sono spartiti le sue vesti (vv. 23-24) ed immediatamente prima che egli “consegni” lo Spirito (vv. 28-30).In questa scena riconosciamo 12 personaggi, tutti focalizzati sulla croce, da cui parla Gesù con tono sovrano (mentre tutti tacciono): in alto sta appunto Gesù con i suoi due compagni di pena, in basso quattro soldati da una parte e quattro donne dall’altra, più il discepolo che egli amava (gli altri discepoli sono fuggiti, mentre rimangono le donne, «che stanno in piedi», segno di fedeltà e attesa). Come nell’ultima cena riconosciamo chi è fedele a Gesù (il discepolo, le donne) e chi è contro Gesù (i quattro soldati che si spartiscono le sue vesti); ai piedi della croce insomma tutti sono uno, lontani e vicini, nemici e amici. «Del resto fin dall’inizio il Vangelo puntava a farci stare presso la croce di Gesù: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia vita eterna» (3,14). Qui vediamo che «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (3,16); qui conosciamo “lo-Sono” (8,28) e, vinto il capo di questo mondo, siamo attirati a lui (cfr. 12,31s). Queste donne vedono e ascoltano quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore d’uomo; queste cose ha preparato Dio per coloro che lo amano (1Cor2,9). Particolare rilievo ha la figura della madre, che evoca numerosi echi biblici. Era infatti presente alle nozze di Cana, quando l’acqua diventata vino anticipò l’ora della Gloria. L’episodio delle nozze non è solamente principio dei segni, ma chiude la prima rivelazione di Gesù come agnello di Dio (cfr. 1,29.36), Figlio di Dio (cfr. 1,34.49), Messia (cfr. 1,41), re d’Israele (cfr. 1,49), Figlio dell’uomo (cfr. 1,51). A Cana Gesù è lo Sposo: anticipa simbolicamente le nozze, che qui si compiono. La madre di Gesù rappresenta l’Israele che attende, la sposa fedele che dice: «Fate ciò che vi dirà» (2,5). È quanto fa lei stessa, accettando la «sua gloria», la croce. Maria, donna/sposa e madre, è la convergenza dell’antico e del nuovo popolo, il fine dell’antica e l’inizio della nuova alleanza. Perciò Gesù si rivolge anzitutto a lei, che racchiude nella sua figura tutti coloro che amano il Signore.

Le paroLe di Gesù aLLa madre

Giovanni non dice che le donne guardano Gesù. È lui che «vede» poiché nella sua morte il Signore è sovranamente attivo. In quell’«ora», turbato per il loro dramma, Gesù non si preoccupa per se stesso, ma per loro. Chi lo ama e chi è amato si sentono abbandonati e soli, perso ognuno dietro le cose sue (cf. v. 27). Il loro vivere resta senza senso, più tragico del morire. Questa è la vera morte, non quella di chi da la vita per amore. Accanto alla madre vede il discepolo che egli amava, altra figura che suscita numerosi echi scritturistici. Questi ha fatto la sua prima comparsa in 13,23-25, mentre posava sul grembo e sul petto del Signore, depositario del suo segreto; nominato come «l’altro» rispetto a Pietro, riappare nel processo davanti a Caifa (cfr. 18,15s). Ora, stando presso la madre che sta presso la croce, vede ciò che aveva intuito quando poggiava

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il capo sul cuore del Maestro. Questo discepolo, testimone di ciò che ha visto sulla croce (cfr. 19,35), giungerà per primo al sepolcro e crederà (cfr. 20,8), riconoscerà dalla barca il Risorto (cfr. 21,7) e resterà con noi fino al suo ritorno (cfr. 21,20-24). Egli che, attraverso il suo Vangelo, canta l’amore del Figlio, è l’uomo nuovo. Anche questo discepolo assurge a figura universale, complementare a quella della madre: rappresenta chiunque è amato dal Figlio di Dio.Con la morte di Gesù, la madre che ama e il discepolo amato resterebbero ambedue privati dell’amore, rispettivamente dato e ricevuto. Ma Gesù, affidandoli reciprocamente l’uno all’altro, realizza sulla terra l’amore compiuto. Tra madre e discepolo inizia a circolare l’amore corrisposto, gloria di Dio e vita dell’uomo.Per questo è bene che lui se ne vada, e in questo modo, altrimenti non viene a noi lo Spirito (16,7). Le parole di Gesù alla madre non sono un atto di adozione una rivelazione: Gesù le apre gli occhi sulla nuova realtà che nasce ai piedi della croce. Gesù dice alla madre di guardare il discepolo come suo figlio, uguale a lui, che egli riconosce fratello. Da lei nasce l’uomo nuovo, rappresentato appunto dal discepolo prediletto, primo dell’innumerevole schiera di coloro che seguiranno. Infatti «il piccolo diventerà un migliaio, il minimo un immenso popolo; io sono il Signore: a suo tempo farò ciò speditamente» (Is 60,22).

Le paroLe di Gesù aL discepoLo

A sua volta la Chiesa, popolo messianico, raffigurata nel discepolo amato, è chiamata a guardare Israele, la donna/sposa del suo Signore. Come ha detto alla madre: «Vedi il tuo figlio», così dice al discepolo: «Vedi la tua madre». Con i possessivi «tuo» e «tua», il Signore trasmette ciò che più è intimamente «suo»; il discepolo alla madre e la madre al discepolo. Questo avviene in quell’«ora». Nel Vangelo c’era un prima, che era l’attesa di quest’ora (cfr. 2,4; 12,27: 13,1; 16,4.21.32; 17,1). Adesso, con l’affidamento del figlio alla madre e della madre al figlio, tutto è già compiuto (v. 28). «Da quell’ora» c’è un «dopo» che da essa scaturisce. «L’ora» della croce sta al centro della storia comune tra Dio e uomo: tutto porta ad essa e da essa parte; è il cuore del tempo, l’incrocio di passato e futuro con Colui che è, eterno presente.E’ l’ora in cui il discepolo accoglie la madre di Gesù “tra le sue cose”, come sua madre, casa e bene supremo, da cui deriva la propria esistenza. L’«ora» dell’afflizione, in cui si nasce e si muore, allora non è più solitudine e separazione, dove ciascuno si perde dietro le proprie cose (cf. 16,32): è ora in cui diventa nostro ciò che è proprio del Figlio, l’ora della gioia in cui la «donna» diventa «madre» e dà alla luce «il figlio» (16,21). È l’«ora» in cui tutto è compiuto (cf. v. 30): chi ama e chi è amato sono «uno» nell’unico amore. Accade finalmente in terra, tra gli uomini, ciò che avviene in cielo, tra Padre e Figlio. La madre e il discepolo sono il seme della Presenza, che abbraccerà tutti gli uomini. Attraverso di loro il mondo conosce Gesù come mandato dal Padre e sa di essere amato come il Figlio Unigenito (17,22s).E’ l’«ora» dell’intimità!

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in sintesi…

La croce di Cristo potrebbe apparire come un momento di strappo, di lacerazione, di solitudine; in realtà è l’ora della massima comunione poiché Gesù morendo dona la vita e stabilisce una comunione nuova tra Dio e l’uomo, tra la madre ed il discepolo che la prende tra le sue cose, tra l’antico popolo ed il nuovo popolo; nasce l’uomo nuovo poiché da quell’ora decisiva, cui converge tutta la storia, la sua presenza non verrà mai meno e abbraccerà ogni persona.Anche tra gli uomini nasce una comunione intima e nuova, resa possibile dalla croce di Cristo e concretizzata in modo eminente dal rapporto tra la Madre ed il discepolo.

per rifLettere…

Stavano presso la croce. Maria e le altre donne stanno in piedi presso la croce, vivendo a pieno la fedeltà dell’amore. Sei fedele nell’ora della croce e della prova? Oppure fuggi, quando bisogna pazientare e resistere? Qual è la tua prima reazione quando si presenta la croce nella tua vita? Da quell’ora. L’ora della morte è anche l’ora della Signoria di Gesù; da quel momento la presenza del Signore sarà così forte che egli riempie tutta la nostra storia. Come vivi il tuo presente? Sei cosciente che esso è sempre – quando è sereno ma anche quando è tormentato - abitato dalla sua presenza? Ti sforzi di vivere sempre alla presenza di Dio ed in unione con lui? Donna, ecco tuo figlio. Maria, in cui si raccoglie tutta l’antica e la nuova alleanza, è una presenza ineludibile per chi vuol essere intimo del suo figlio Gesù. Qual è il tuo rapporto con lei? La preghi ogni giorno? La senti vicina? Ti affidi a lei come maestra della tua vita spirituale? Chiedi il suo aiuto nel momento della croce e della tentazione? Il discepolo l’accolse con sé. L’ora della croce non è ora di afflizione, ma, paradossalmente, di gioia, in cui diventa nostro ciò che è proprio del Figlio, in cui tutto è compiuto. La costante letizia del cuore, anche nei momenti di prova, è segno che siamo in unione a Dio. Ti verifichi su questo aspetto? Sei costante nei tuoi sentimenti oppure sei in preda ad abbattimenti e scoraggiamenti? Hai mai provato a vedere se un tuo sentimento negativo, che ti toglie la letizia e la pace, non nasce forse da una tua lontananza da Dio, dalla mancanza di intimità con lui?

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note o Minosse, re di Creta, chiese a Dedalo di costruire il labirinto per il Minotauro. Essendone l’architetto venne rinchiuso col suo figlio Icaro nella sua stessa costruzione precludendone ogni via di fuga. Per scappare costruirono delle ali e le attaccarono ai loro corpi con la cera. Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro si fece prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicinò troppo al sole; il calore fuse la cera, facendolo cadere nel mare dove morì.

» Una delle espressioni di fede più care alla vita della Chiesa, la Via Crucis, è

fatta di stazioni; parola curiosa, stazione: uno dei più efficaci simboli del movimento caotico contemporaneo è l’espressione cristiana di una sosta immobile di contemplazione e preghiera. » Le sorti della storia si decidono per il cristiano in una drammatica stazione: vi regna una croce, che sta, piantata in vetta ad un monte, e sta su di essa il Signore del mondo, e stanno sotto di essa la Madre e il Discepolo, e solo nella definitiva stabilità di questo evento di salvezza si produce il movimento dell’amore, un vortice di reciproche consegne. » Vocazione è stare nella vita di Dio, per essere accesi al vero movimento dell’amore. » La buona novella della vocazione al seguito di Gesù smaschera l’illusione del nostro mondo, affollato da schiere di Icaro incapaci di stare ed alle prese con improbabili ali e pericolose evoluzioni; Icaro esperti di esperienze bruciate, fuggiaschi ignari di realistiche fedeltà. » Per accostare l’incandescenza delle cose di Dio non ci si può affidare agli slanci illusori dell’emotività istantanea, bisogna saper stare sotto la croce, rapiti dalla contemplazione e dalla gratitudine.

Nelle forme di fanatismo religioso-consumistico è visibile l’edonista devoto, che si muove da Chiesa a Chiesa, da confessione a confessione, cercando nuove esperienze, nuovi stimoli. Tra le variopinte vetrine dei negozi, il sé plastico consuma sermoni (dove sono ancora disponibili), nuove e vecchie forme liturgiche, e musica folk o da chiesa senza mai fermarsi abbastanza a lungo da poter essere coinvolto in una qualsiasi di queste cose. LYON D., Gesù a Disneyland, Editori Riuniti, Roma 2002.

oggi

pRovocazione

l’espeRienza BRuciata di icaRo

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» Prima di proseguire e ritirarsi accondiscese alle istanze di chi lo supplicava di rivolgere una parola speciale alle Capitolari;

quindi, con Don Bonetti al suo fianco, entrò nel parlatorio, dove le Madri aspettavano ansiose tanta grazia, e disse loro: “Oh dunque voi volete che io vi dica qualche cosa. Se potessi parlare, quante cose vi vorrei dire! Ma sono vecchio, vecchio cadente, come vedete; stento perfino a parlare. Voglio dirvi solo che la Madonna vi vuole molto, molto bene. E, sapete, essa si trova qui in mezzo a voi!” » Allora Don Bonetti, vedendolo commosso, lo interruppe, e prese a dire, unicamente per distrarlo: “Sì, così, così! Don Bosco vuol dire che la Madonna è vostra madre e che essa vi guarda e protegge”.“No, no, ripigliò il Santo, voglio dire che la Madonna è proprio qui, in questa casa e che è contenta di voi e che, se continuate con lo spirito di ora, che è quello desiderato dalla Madonna...” » Il buon Padre s’inteneriva più di prima e Don Bonetti a prendere un’altra volta la parola: “Sì, così, così! Don Bosco vuol dirvi che, se sarete sempre buone, la Madonna sarà contenta di voi”.“Ma no, ma no, si sforzava di spiegare Don Bosco, cercando di dominare la propria commozione. Voglio dire che la Madonna è veramente qui, qui in mezzo di voi! La Madonna passeggia in questa casa e la copre con il suo manto”. » In così dire stendeva le braccia, levava le pupille lacrimose in alto e pareva voler persuadere le Suore che la Madonna egli la vedeva andare ivi di qua e di là come in casa sua e che tutta la casa era sotto la sua protezione. MB XVII, 557.

SaleSiaNo“staRe” con dio

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note 1 La cronaca serba anche il ricordo di una visita fatta allora da

Don Bosco alle Suore di Alassio. Interrogatele se avessero molto lavoro e udito che sì: - Ebbene, guardate, disse, quando io vado nelle case e sento che c’è molto da lavorare, vivo tranquillo. Dove c’è lavoro, non c’è il demonio. - Ne andò a vedere tre che erano ammalate. Dopo voltosi alle altre che tutte ve l’avevano accompagnato, domandò: - Di quale virtù volete che vi parli? - Esse che avevano sempre tanto da fare e non sapevano come praticare quella regola che diceva di «stare continuamente alla presenza di Dio», unanimi risposero: - Ci parli dello stare sempre alla presenza di Dio. - Ed egli: - Sarebbe veramente bello che le Figlie di Maria Ausiliatrice stessero perpetuamente alla presenza di Dio!... Ma possiamo fare così: rinnovare l’intenzione di far tutto alla maggior gloria di Dio ogni volta che si cambia occupazione. - Sopra il quale argomento ragionò un poco e infine conchiuse: - Come vedete, non è poi tanto difficile farsi l’abito della continua unione con Dio.

MB XIII, 116-117.

2 Il primo effetto dell’orazione chiamata «di unione semplice» è l’unico di cui le prove sono praticamente inafferrabili. Lo possiamo indicare con il nome di «liquefazione». E un termine suggerito dal Cantico dei Cantici, in cui si dice: «L’anima mia si è liquefatta appena egli (l’Amore) ha parlato» (antica traduzione di Ct 5,6, ndr). Si direbbe uno struggimento del cuore per un dolcissimo sentimento di amore divino. […]

pRovocazione Don Bosco malato e stanco, fisicamente quasi immobile nelle gambe ma che riconosce la presenza del Mistero di Dio nelle cose di tutti i giorni, nei luoghi, nei tempi, nelle

vicende della vita. Don Bosco ora “sta” e “vede”, sintesi di una vita passata nell’inarrestabile dono di sé per la gloria di Dio e la salvezza dei giovani. Dono fino a consumarsi per un unico mistero, dono consumante con a fianco Dio, dono consumato in/dentro il dono crocifisso di Gesù. Unione con Dio, non formalità da sbrigare, non vocalità abitudinaria, non impegno che obbliga ma relazione continua che: • convertecontinuamentelemotivazioni,1

• conduceall’umiltàdisapersistrumentienonsignoridellapropriavita e della vita dei giovani, perchè tutto è colto come dono; 2 • faviveredimeravigliasinoallacommozione,3 • riconoscelapresenzacostantediDioinognimomentochevieneilluminato di significato, • donaforza,coraggio,pazienzagioiosainognisituazione,4 • apreallariconoscenzaedallalode,5 senza lamentele• accresceildesideriodelbenealtrui,sinoallapienaamiciziaconGesù 6

• vivelevirtùinformasemprepiùtotalizzante7

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Prima osservazione. Tra i frutti della contemplazione uno dei più cospicui è l’umiltà. Il contemplativo, che conosce meglio di ogni altro le grandezze di Dio, ha maggiore la consapevolezza del proprio nulla. Quindi, invece di compiacersi del dono divino, ha perfino paura che qualcuno lo sappia, e non si confida con nessuno se non ha urgente necessità di chiedere consiglio. Usa anzi ogni mezzo per coprire la piena dell’amore che ha in sé. Ma la sua volontà non può tutto, e anche il temperamento gioca la sua parte. La grazia opera nella natura, non la sopprime. […]

La seconda osservazione. Don Bosco era padrone dei suoi nervi, aveva una tempra di acciaio. Don Bosco era un uomo tale che si possono applicare a lui le parole del salmista: «L’anima mia è nelle mie mani sempre» (vecchia traduzione di Sal 118,109). A servizio della sua umiltà ebbe una volontà dominatrice delle energie inferiori, e quindi capace anche di comprimere la veemenza dei suoi sentimenti, in maniera che non ne era soverchiato.

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, ELLE DI CI, Torino Leumanm 2003, pp. 169-170.

3 Il secondo effetto dell’unione semplice è un soave bisogno di pianto. Nell’intima unione dell’anima con Dio, l’amorosa conoscenza della divina bontà sveglia così dolci, e vive, e traboccanti emozioni nel cuore, che esso, secondo l’immagine usata da santa Caterina, «chiede aiuto agli occhi». Don Bosco ebbe il dono delle lacrime, alle quali non aveva più la forza di comandare. Nell’ultimo viaggio a Roma, celebrando nella nuova chiesa del Sacro Cuore, non riuscì a trattenere il pianto più di quindici volte. Il sacerdote che l’assisteva cercava di distrarlo perché potesse finire. Il pianto riprese finita la Messa, con commozione straordinaria di quelli che lo circondavano.

Durante tutta la vita sacerdotale, quando predicava su certi argomenti, per evitare di piangere doveva pensare a cose buffe, ma invano. Queste sue lacrime, però, facevano un bene grandissimo a chi era presente, e forse anche per questo la Provvidenza gli aveva dato in modo abbondante questo dono. Ne abbiamo parlato altrove e non serve ripeterci.

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, o.c., pp. 170-171.

4 Terzo effetto è sentire la presenza di Dio con una certezza assoluta. Santa Teresa espone questo effetto così: «Dio viene a porsi nell’intimo dell’anima in maniera tale che l’anima, rientrando in sé, non può minimamente dubitare di essere stata in Dio e che Dio è stato in lei. Questa verità le rimane così saldamente impressa che, anche se passassero anni prima di avere di nuovo quell’esperienza, non le sarebbe possibile né dimenticare il favore ricevuto, né dubitare della sua realtà».

Don Bosco era pieno del pensiero di Dio. Derivava da questo il suo fascino. Monsignor Tasso, nella sua deposizione giurata, dice: «Bastava trattenersi solo un poco con lui per accorgersi che era veramente “uomo di Dio”. Il soprannaturale traspariva da ogni sua parola e da tutta la sua persona. Questo l’ho provato io per esperienza».

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, o.c., p. 171.

5 Quarto effetto: forza, coraggio, inalterabile pazienza nel soffrire tutto per amor di Dio. Queste anime, anzi, sono così accese di amore divino, che ardono dal desiderio di patire per Dio. Questo desiderio cresce man mano che diventano sempre più sue. Don Bosco fu così. […]

Don Rua, nel processo di beatificazione, dopo aver parlato delle pene morali patite da Don Bosco, prosegue: «Fu sempre ammirabile la sua pazienza, la sua rassegnazione,

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il suo coraggio. Pareva che le difficoltà e le tribolazioni gli infondessero forza. Sebbene addolorato, specialmente quando le opposizioni gli venivano dall’autorità ecclesiastica, non perdeva mai la sua serenità. Pareva anzi che appunto in quei tempi di tribolazione, egli acquistasse maggior coraggio, poiché lo si vedeva più allegro e più scherzoso del solito». Riguardo poi alle pene fisiche numerose e gravi, già da noi descritte, don Lemoyne testimonia nel processo di beatificazione: «Egli non pregava mai per la sua guarigione, e così le sue sofferenze divenivano volontarie. Non se ne lamentò mai, né mai perse la pazienza. E continuava a lavorare».

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, o.c., pp. 171-172.

6 Quinto effetto. Un desiderio ardente di lodare Dio. La persona, infiammata di amore divino, vorrebbe non far altro che dar lode a Dio. Vorrebbe che Egli fosse da tutti amato, glorificato, lodato. Sa bene che Dio è più grande di ogni lode, ma al pensiero di così immensa grandezza e bontà, non trova piacere più grande che nell’onorare, adorare, ringraziare Dio. […] Don Bosco, anima innamorata di Dio, aveva tre modi suoi caratteristici per incitare a lodare Dio: poneva la più scrupolosa diligenza nel decoro del culto divino; parlava con profondo affetto di Dio e delle cose divine a tutti quelli che anche solo di sfuggita lo avvicinavano; si sacrificava con impegno grande a promuovere sempre la gloria di Dio. […]

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, o.c., p. 172.

7Sesto effetto. Desiderio grande di far del bene al prossimo. L’anima che vive di Dio, riesce sovente ad essere utile al prossimo senza nemmeno accorgersene. Perché nell’accogliere, consolare o soccorrere, che sono secondo san Tommaso le tre maniere di aiutare i bisognosi, l’anima che vive di Dio è aiutata dall’alto, perché la sua opera sia efficace. […] è bello leggere, su questa carità soprannaturale, il pensiero sintetico di don Rua, che fu l’ombra di Don Bosco e che con lui portò per lunghi anni il peso e la fatica di ogni giorno: «La sua vita fu consumata nell’esercizio di questa carità. La sua carità in parte è stato un dono speciale di Dio, e poi andò crescendo e perfezionandosi man mano che avanzava negli anni... Egli vedeva nel suo prossimo l’opera di Dio, e Dio stesso nel prossimo. Vedeva in ciascun uomo un fratello di Gesù Cristo, e quindi li amava per amor di Dio, e impiegava tutte le sue sollecitudini senza risparmio per attirare tutti a Dio. Non era semplice simpatia naturale, era l’amore di Dio, la carità di Gesù Cristo che lo stimolava a spendersi per il suo prossimo».

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, o.c., pp. 172-173.

8 Settimo e ultimo effetto dell’orazione di unione semplice. E il più mirabile per un povero figlio di Adamo. è la pratica di tutte le virtù teologali, cardinali e morali in grado eroico, in una misura cioè che supera per intensità e per costanza quella di un comune uomo virtuoso. […]

Dunque, anche Don Bosco è stato un mistico? A molti di noi questa può sembrare un’idea peregrina, per non dire di peggio. Ma la colpa non è certamente della mistica. Un autore che se ne intende, De Montmorand, tratteggia così la figura dei mistici: «I veri mistici sono figure di pratica e di azione, non di ragionamento e di teoria. Hanno il senso dell’organizzazione, il dono del comando e si rivelano forniti di ottime doti per gli affari. Le opere da essi fondate sono vitali e durevoli. Nel concepire e dirigere le loro imprese danno prova di prudenza e di ardimento, e di quella giusta idea delle varie possibilità che è il carattere del buon senso. E infatti il buon senso pare proprio sia la loro qualità predominante: un buon senso non turbato né da esaltazioni morbose né da immaginazioni disordinate, e unito a una rara facoltà di discernimento». Questo, se non c’inganniamo, è il ritratto vivo di Don Bosco, nel quale la contemplazione ha illuminato e diretto l’azione.

E. CERIA, Don Bosco con Dio, Trascrizione di T. BOSCO, o.c., pp. 173-175.

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alla pResenza di dio

per la SCelTa » «Davanti a Te sono solo preghiera». […] Ne deriva una prima regola d’oro per la preghiera e la vita spirituale. Non è per merito dei nostri sforzi che Dio ci accorda questa grazia, ma perché il suo Volto si intenerisce e splende su di noi. […] Quando Dio scopre un uomo davvero colmo di desiderio, un essere che tende verso di lui con tutte le sue forze, lo viene a prendere e lo eleva fino a sé. […] » Vivere costantemente alla presenza di Dio non dipende quindi dai nostri sforzi; a rigore di termini, noi non possiamo fare neppure un passo verso Dio, ma se teniamo lo sguardo abbastanza a lungo rivolto verso di lui, egli scenderà e ci attirerà facilmente a lui […] » Bisogna accettare la nostra povertà, rinunciando ad allungare le mani su Dio per catturarlo o costringerlo a scendere verso di noi. […] » Quando si resta a guardare Dio, a contemplarne il Volto, esprimendogli la propria fame e sete di lui, senza volerlo possedere o assimilare a noi, egli ci viene vicino e inonda il nostro cuore del suo Volto. Il momento decisivo in cui ha inizio la mia vita alla presenza di Dio non sta nel mio andare verso di lui, ma nel mio retrocedere fino ad annullarmi davanti a lui. […] » «Ti scongiuro, Signore, è la fame che mi spinge a cercarti, fa’ che io non rinunci a questa ricerca, poiché sono privo di te. Ti sono venuto vicino affamato, fa’ che non mi allontani senza essere stato nutrito» (sant’Anselmo, Proslogion, cap. 1).[…] » Pregare non è altro che discendere nel più profondo del nostro cuore per ritrovare quella chiamata alla creazione e dire a Dio: «Tu». […] » Quando qualcuno ci guarda con amore, non siamo più gli stessi, diventiamo altri, siamo «alterati» nel vero senso della parola (alter=altro). Bisogna che ci intendiamo bene quando usiamo le categorie spazio temporali per parlare del rapporto con Dio. Si dice che si è davanti a lui, accanto a lui, ma si potrebbe dire anche che siamo con lui o in lui. […] » Pregare è dunque esporre allo sguardo di Dio il profondo del nostro essere. Non importa che cosa diciamo, che cosa pensiamo o facciamo; dal momento in cui il nostro cuore si lascia penetrare dallo sguardo di Dio, siamo in preghiera. è l’essere che conta davanti a Dio; il pensiero, la volontà e l’amore vengono dopo. La preghiera più perfetta è quella in cui non diciamo nulla ma stiamo davanti a Dio e lo contempliamo come si guarda un amico. […] Ne deriva una seconda regola per la preghiera, sia personale sia comunitaria: prima di manifestare a Dio i nostri sentimenti, prima di parlare, impariamo a tacere e a stare davanti a lui con la coscienza del suo sguardo d’amore. Lo sguardo di Dio non ci mette a nudo, ma ci ripara: «Essere visto da lui non ci fa sentire abbandonati, bensì protetti dal più sicuro dei ripari» (Guardini). Per questo ci lasciamo penetrare dal suo sguardo.LAFRANCE J., Preferire Dio, Gribaudi, Milano 1997.

consigli peR la pReghieRa

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» L’unica cosa essenziale che il cristiano deve domandare nella preghiera, con la certezza di essere esaudito è lo Spirito santo (cf. Le 11,13), Spirito che permette di discemere qual è la volontà di Dio su di sé e sugli altri e di distinguerla dagli appetiti individuali e dalla volontà propria [...]. Ciò di cui devi essere convinto è che ogni contatto con Dio è preghiera, ma non ogni preghiera è contatto con Dio! Molti infatti pregano senza esservi preparati e senza alcun desiderio di comunicare con Dio. Ma questa non è preghiera, perché la preghiera è un’opera realizzata in collaborazione tra l’uomo e Dio. […] » Se sei cosciente che la vigilanza del cuore e la santificazione di ogni momento della giornata costituiscono la base della disciplina nella preghiera, puoi anche adattare queste norme al tuo ritmo di lavoro quotidiano. […] » Ogni volta che ti metti dinanzi a Cristo per pregare con fervore nella supplica, la tua volontà incontra la sua e ottiene misericordia. Attraverso la frequenza e la sincerità della preghiera le due volontà tendono ad avvicinarsi. » Solo nella preghiera Cristo può raggiungerti e manifestarti la sua volontà. Cristo attende, desidera la tua preghiera: “Ecco, sto alla porta e busso” (Ap 3,20). Nell’evangelo egli ha rivelato l’importanza e la necessità della preghiera, insistendo perché preghiamo sempre, incessantemente e senza stancarci mai (cf. Lc 18,1). Questo perché è proprio nella preghiera che può raggiungerti, rivelarti la sua volontà e darti la sua grazia. […] » è impossibile che tu inizi una preghiera umile e sincera e che Dio resti assente da te; perché l’amore che Dio ha per ogni uomo che si pente gli impedisce di prestare attenzione ai tuoi peccati o di provare disgusto per le tue impurità o per i tuoi dubbi. […] » La preghiera autentica è un vero “riscatto del tempo” (Ef 5,16), perché trasforma il tempo morto in un’opera divina eterna. Perciò l’accesso alla preghiera autentica si accompagna necessariamente a una liberazione rispetto alla percezione del valore umano e materiale del tempo. Il movimento dell’orologio deve lasciare il posto al movimento dello spirito. […] » La fretta nella preghiera, così come il senso di stanchezza, sono il segno che ti aggrappi al tempo materiale, privo delle benedizioni dello Spirito e delle aspirazioni all’eternità. La percezione del tempo materiale, dell’importanza dei minuti, delle ore, delle azioni umane temporali che ti attendono dopo la preghiera, contribuisce a soffocare in te lo Spirito e a impedirti di godere della percezione dell’eternità e di vivere in essa durante la preghiera. » Così, la fretta e la stanchezza sono sufficienti per togliere alla preghiera il suo autentico carattere spirituale. Essa si riduce allora a nulla più di uno dei tanti atti della vita temporale che compi con il pensiero o con il corpo, come quelli di incontrare un superiore, di pronunciare un discorso o di prendere il pasto. […] » Cristo ascolta la tua preghiera. Anzi, molto di più: vi prende parte in

consigli peR la pReghieRa

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modo effettivo. […] » Cristo è dunque personalmente presente alla tua preghiera; è lui che la presenta al Padre avvalorandola con il suo merito. La preghiera quindi non è un’opera unilaterale da parte tua. Tutto ciò che pronunci nella preghiera non ha valore se Cristo non dice “Amen”, se cioè non lo avvalora presso il Padre con il suo merito, sostenendo la tua debolezza e intercedendo per i tuoi peccati. […] » La preghiera frequente, […] è uno dei mezzi più efficaci che possiedi per rinnovarti trasformando la tua mente (cf. Rm 12,2). […] Questa preghiera assidua opera, nel più profondo della tua mentalità, del tuo cuore, del tuo carattere e del tuo comportamento, un mutamento fondamentale. Tu stesso non ne prendi facilmente coscienza, ma chi ti è vicino può notarlo senza difficoltà. » Quando volgi lo sguardo a Cristo con perseveranza nella preghiera, la sua immagine mistica e invisibile si imprime segretamente nel tuo essere interiore. Ricevi allora le sue qualità, vale a dire il riflesso della sua infinita bontà e dolcezza. […] » La tua pazienza, la tua gioia in mezzo alle prove, la sopportazione di fronte alle sofferenze e all’ingiustizia sono altrettanti segni che testimoniano la saldezza della tua fede. Allora non sarai sorpreso dalle tenebre, secondo la promessa del Signore (cf. Gv 12,35). La frequenza della preghiera esercita dunque nel tuo intimo un’azione divina che ti porta infine a ricevere la potenza della grazia. E lì ha inizio l’unione mistica permanente con il Signore. […] » Il Signore viene verso di te per risvegliare e correggere la tua coscienza e per esortarti a riceverlo nella tua vita e ad aderire a lui per sempre, per una vita eterna. […] » Il primo segno che il tuo cuore è stato toccato dall’amore di Dio è un’aspirazione a dirigerti verso Dio per intrattenerti con lui: esattamente questo è la preghiera. [...] » Se è vero che all’inizio della tua esperienza di preghiera sei portato soprattutto ad accusare il tuo peccato, è per il semplice motivo che l’amore divino - che ha invitato e attirato il tuo cuore alla preghiera - è un amore estremamente puro, che non può venire a compromessi con il peccato. […] » Questa sottomissione allo Spirito d’amore e alla sua azione purificatrice all’interno del cuore durante la preghiera è la prima e la più importante manifestazione di obbedienza a Dio, di obbedienza al suo amore. […] » Se non hai imparato, per prima cosa, a obbedire a Dio attraverso la preghiera continua, non puoi, nelle circostanze difficili, improvvisare un’obbedienza pronta, facile e serena. L’obbedienza a Dio, mediante la preghiera del cuore continua, offre l’occasione al tuo spirito di diventare più forte e di prevalere sulle tentazioni, sui piaceri e sulle sollecitudini della carne. […] » Se non impari a essere docile a Dio mediante la preghiera, ti illudi di

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poter obbedire in qualsiasi occasione; ma non appena Dio ti chiamerà al dono di te e al sacrificio, ti troverai preso alla sprovvista di fronte alla ribellione della carne, che s’impenna e avanza sempre mille falsi pretesti per sfuggire all’appello di Dio. […] » L’obbedienza a Dio è una delle esigenze più difficili della relazione fra l’uomo e Dio. […] Perché con la preghiera acquisti progressivamente lo spirito di abbandono, vale a dire la disposizione a consegnare l’intera tua vita al progetto di Dio e al disegno della grazia. L’obbedienza diventerà così una parte integrante del tuo modo di pensare, dei tuoi sentimenti e della tua volontà, e questo trasparirà nel tuo comportamento.Cristo stesso ha imparato l’obbedienza, come sta scritto: “Pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì” (Eb 5,8). […] » Lo spirito di abbandono che ricevi durante la preghiera è in realtà un abdicare alla tua volontà. Perciò non ci puoi arrivare facilmente, ma solo al termine di un lungo conflitto fra l’”io” umano con le sue false speranze - sia religiose che temporali - e la volontà divina, che non desidera altro che la tua salvezza. La volontà propria - l’”io” - viene distrutta solo per mezzo delle contrarietà inviate da Dio per turbare la falsa quiete dell’”io” e abbattere i monumenti d’illusione che questi innalza a propria gloria dinanzi agli uomini. Se durante questo conflitto tu smetti di pregare, perdi il tuo attaccamento e la tua sottomissione alla volontà divina e non discerni più lo scopo della lotta e della vita spirituale, che è unicamente la tua salvezza. Ti schiererai allora dalla parte della tua volontà, del tuo “io”, e comincerai a mormorare contro le prove che Dio ti manda per la tua salvezza. Rifiuterai le contrarietà e gli oltraggi che Dio, nella sua somma sapienza e provvidenza, dispone per te al fine di liberarti dalla vanagloria. Troverai il colmo dell’amarezza, al punto di desiderare la morte piuttosto di vederti così umiliato dinanzi agli uomini e al mondo, perché il tuo “io” assumerà ai tuoi occhi un’importanza maggiore che non Dio stesso, il Signore della vita! » Se invece trovi rifugio nella preghiera e vi aderisci, vedrai nelle sofferenze, nelle contrarietà e nelle umiliazioni una condiscendenza di Dio che si degna di intervenire nella tua vita per correggerti e per completare in te il miracolo dell’umiltà. Mediante la perseveranza nella preghiera riceverai finalmente lo spirito di abbandono e di sottomissione alla volontà di Dio; la grazia rischiarerà la tua intelligenza per farti vedere quanto la tua salvezza dipenda in realtà dal modo in cui ti disponi ad accettare le sofferenze, le contrarietà, le malattie e ogni sorta di umiliazioni. Ti schiererai sempre più dalla parte della volontà divina, fino alla totale sottomissione della tua volontà, fino alla soppressione di ogni tuo desiderio. Tutta la tua felicità consisterà ormai nel compiere la volontà di Dio; vi troverai la tua gioia più grande, pur nelle circostanze più difficili. La preghiera è quindi in grado di conferirti la capacità di aderire alla volontà di Dio e di abbandonarti in lui con gioia. II progresso nella preghiera determina il progresso nell’obbedienza. E la pienezza dell’obbedienza è in se stessa la pienezza dell’amore.MATTA’ EL MESKIN, Consigli per la preghiera, Ed. Quqajon, Bose 1988.

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tRe passi

per L’approfondimento ti suggeriamo come testo per il mese: BOSCO T., Madre Mazzarello - Biografie,

LDC, Torino-Leumann 2007.

un liBRo

a » La cura del silenzio: non si può giungere ad una relazione continuativa con il Signore nell’

“inquinamento acustico” degli istanti. Abilitarsi a riconoscere il Signore negli eventi chiede di entrare attraverso lo spazio del “silenzio sottile” di Elia (1Re 19). B » La scelta delle letture: nutrire il cuore è determinante per aguzzare la vista. La frequentazione di letture che innalzino, che sviluppino lo sguardo profondo e che abilitino a leggere il quotidiano con gli occhi di Gesù fa maturare salti di qualità. c » La cura dei segni: se i segni divengono simboli allora non solo significano qualcosa ma rimandano a Qualcuno che ci sta accanto, di fronte e orienta. Ecco perché è determinante curare i segni su di noi (croce, rosario) ma anche davanti al nostro sguardo.

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ViTa FraTerNa iN CoMUNiTÀ

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Jean fRançois MilletNel vignetoolio su tela di 37,5x29,61852-1853Svolgere il proprio lavoro, in un ambiente che sa di casa, in armonia con coloro che svolgono lo stesso lavoro. Questo è il quadro delle vigne che il pittore ci restituisce. Si coglie quasi come parte integrante della pittura lo svolgersi rituale ma concitato dell’attività. Anche la sommaria descrizione dei volti dei vignaioli non è spersonalizzante, semmai punta a rendere universale e quasi sospesa nel tempo la scena che si svolge davanti agli occhi dello spettatore. In quell’ambiente carico di serenità tutto parla di un vivere e lavorare in armonia. come nel primo giorno della creazione e il giorno dell’eternità.

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22Subito dopo costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. 23Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo. 24La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. 25Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. 26Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «è un fantasma!» e gridarono dalla paura. 27Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!». 28Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». 29Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. 30Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». 31E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». 32Appena saliti sulla barca, il vento cessò. 33Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

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L’antefatto Ci troviamo all’inizio della seconda sezione del Vangelo di Matteo, quando Gesù, dopo il martirio del Battista (cfr. vv. 1-12), prende le mosse dalle regioni limitrofe alla Galilea, lontane da Gerusalemme (siamo infatti sul lago di Genesaret), e percorre la strada verso la Città Santa, che sarà anche il suo cammino di manife-stazione attraverso la passione, morte e resurrezione. Gesù ha moltiplicato cinque pani e due pesci, dando da mangiare a cinquemila persone (cfr. vv. 13-21); quindi, mentre i discepoli vorreb-bero trattenere la folla, Gesù la conceda poiché egli non si serve del pane per trattenerla e dominarla, ma si fa servo del pane per farla camminare. Siamo di notte; lui è lassù sul monte da solo a pregare, avvolto dalla presenza del Padre suo, i discepoli nella notte, qui, giù nel mare, da soli a remare. È la condizione normale di noi uomini, che dobbiamo attraversare la notte (giacchè la vita è piena di oscurità) ed il mare (cioè dobbiamo combattere le forze del male, le forze ostili a Dio).

La scena notturna Nella scena notturna riconosciamo l’epifania di Gesù nella tempesta (vv. 24-27), la prova della fede di Pietro (vv. 28-31), la pro-fessione di fede dei discepoli (vv. 32-33).

L’epifania di Gesù nella tempesta.Avvolti dal buio, sospesi tra cielo e abisso, i discepoli sono lontani dal punto di partenza e da quello di arrivo (“la barca distava da terra molti stadi” dice letteralmente il testo greco). Il vento solleva il mare: lo spirito contrario (cioè le potenze del male) agita contro l’uomo lo spettro della morte. La situazione è angosciante.

Siamo alla quarta veglia della notte. È la veglia dalle tre alle sei del mattino, carica del buio di tutta la notte - la luce sembra lontanissima! - piena di fatica e di angoscia. È notte fonda; eppure preludio del nuovo sole. In quest’ora Dio interviene a salvare (cfr. Es 14,24; Sai 46,6; Is 17,14). Sarà l’ora della risurrezione di Gesù (cfr. 28,1). Infatti Gesù compare come risorto, cammina sulle acque: la morte non ha più potere su di lui. Non essere inghiottiti dall’abisso è il sogno impossibile di ogni uomo, superamento della realtà che ben conosce, fatta di notte, solitudine, lontananza, fatica, tormento, angoscia, terrore e sprofondamento. Camminare sul mare è di fatto il tema del brano, ripetuto quattro volte (vv. 25.26.28.29). Davanti a questa scena il discepolo è colto da terrore: camminare sulle acque è eccessivo, impossibile, divino! Pertanto chi è giocato dalla paura scambia le proprie fantasie per realtà e la realtà per fantasia. I disce-poli pensano che il Vivente in mezzo a loro sia un fantasma, un morto (cfr. Lc 24,37) e gridano dalla paura.

La paura è pochezza di fede (cfr. 8,26; 9,22). La fede invece è il coraggio di credere e osare l’impossibile - impossibile all’uomo, ma non a Dio. Colui che cammina sulle acque non è un fantasma, ma “Io-Sono”, Gesù in persona che si manifesta richiamando la rivela-

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vv.

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zione del Dio dell’Esodo. La salvezza attraverso l’acqua non è un’illu-sione: è la paura che fa loro ritenere illusione la realtà di Dio.

La prova della fede di Pietro. La prova che davvero è Gesù, il Signore-che-salva, è che io stesso sia salvo: che sulla sua parola vada da lui camminando come lui sull’a-bisso. La prova è chiesta dal dubbio: «Se sei tu!».

A questo dubbio Gesù risponde con una parola di vocazione (vieni), che è la vocazione definitiva: sulla sua parola, siamo chiamati da lui a camminare come lui e con lui sull’abisso. In obbedienza a lui, Pietro riesce a fare come lui ha fatto.

Tuttavia lo spirito contrario spaventa Pietro. Se guarda Gesù, cammina; se guarda le sue paure, sprofonda. La paura che fa spro-fondare è il luogo stesso nel quale il Signore ci chiama a una fede maggiore; diversamente siamo colti da angoscia e disperazione. A questo punto, mentre affoga nel mare, Pietro grida a Gesù, che signi-fica “il Signore-salva” (cfr. 8,25); Gesù offre il suo aiuto stendendo il suo braccio, che indica l’intervento di Dio, che afferra e salva dalle grandi acque chi lo invoca. Nel contempo però Gesù rimprovera Pie-tro come uomo “di poca fede”. Infatti la fede c’è, ma è poca, insuffi-ciente davanti a prove dure come questa; il cammino di affidamento e di riconoscimento dura tutta la vita.

La professione di fede dei discepoli. La calma viene sulla barca solo dopo che ciascuno ha fatto in prima persona l’esperienza dell’ascoltare il Signore, camminare sulle ac-que, andare a fondo, invocare il suo nome ed essere salvati. Solo al-lora nella barca riconosciamo il Signore e sperimentiamo la salvezza che porta all’adorazione e alla professione di fede. È l’anticipo della professione di 16,16. Ciò tuttavia non impedisce che Pietro, anche più avanti, non lo capisca e lo rinneghi, sperimentando sempre più a fondo la salvezza.

in sintesi…

In questo passo evangelico troviamo tratteggiate sia la si-tuazione dell’uomo, sia l’identità di Gesù rispetto a noi.La situazione di noi uomini è quella di un cammino che va fatto di notte, quando non si vede, attraverso il mare, che è infido, e combat-tendo contro le forze ostili a Dio (la tempesta).In tale condizione Gesù si manifesta a noi come “Dio che salva” e porta il suo aiuto a chi grida a lui. La nostra fede è sempre debole, inadeguata, rispetto alla lotta che dobbiamo affrontare nella storia, ma tenendo lo sguado fisso su Gesù Risorto, che sconfigge tutte le potenze del male, superiamo ogni difficoltà.

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per rifLettere…

Era agitata dalle onde. Quali sono le difficoltà maggiori che tormentano la tua vita cristiana? Quali sono i combattimenti interiori più difficili? Sul finire della notte. Quali sono le “zone oscure” della tua vita, cioè le situazioni più complesse, in cui non riesci a trovare un senso o una via d’uscita? È un fantasma. L’inganno è sempre in agguato nella nostra vita spirituale. Quali sono nella tua vita, le situazioni in cui ti trovi ad essere vittima di questi pensieri ingannevoli, che fanno vedere le cose in modo confuso (se non addirittura completamente errato)? S’impaurì e, cominciando ad affondare... Quando ti trovi nella difficoltà, chiedi aiuto a qualcuno? Hai una per-sona di fiducia, una guida che ti possa aiutare a ritrovare la presenza di Gesù, oppure fai tutto da solo? E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?». Tenendo lo sguardo fisso su Gesù, la fede rimane salda anche nelle situazioni più dure e non “affondiamo”. Com’è il tuo rapporto con Gesù? Occasionale o intenso e vero, per cui sai di poterti sempre affidare a lui, anche nelle situazioni più difficili? Hai qualcuno che ti

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21 Dette queste cose, Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico: uno

di voi mi tradirà». 22 I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. 23 Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. 24 Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. 25 Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». 26 Rispose Gesù: «è colui per il quale intingerò il boccone e glielo darò». E, intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. 27 Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui. Gli disse dunque Gesù: «Quello che vuoi fare, fallo presto».la

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iL contesto

Ci troviamo all’inizio della seconda sezione del IV Vangelo, il cosiddetto “Libro dell’ora” (capp. 13-21). Gesù, dopo aver lavato i piedi ai suoi ed aver spiegato il senso di ciò che ha fatto (cfr. vv. 1-17), preannuncia, profondamente turbato, che uno dei dodici lo tradirà (cfr. vv. 18-20). Il suo turbamento non è per la propria morte, ormai imminente e già accettata (cf. 12,27); è piuttosto come quello davanti a Lazzaro morto, l’amico che amava (11,33). Gesù sente il male che si fa colui che gli fa male, prova pena per il male del mondo che lo rifiuta.

La dichiarazione di Gesù e La reazione dei discepoLi

Secondo la lettera del testo greco, Gesù ”testimoniò e disse”, cioè usa un linguaggio giuridico. Si sta infatti istruendo il processo contro il capo di questo mondo, che verrà espulso (cfr. 12,31). E’ la penultima volta che Gesù testimonia; l’ultima sarà davanti a Pilato. Quando dice di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità (cfr. 18,37), quella verità che vince la menzogna e ci fa liberi.Nel nostro passo il tradimento è previsto e affermato con autorità divina (Amen, amen). Il peccato, nostra parte di Vangelo, è il luogo in cui si rivela il perdono, la tenebra in cui brilla la luce, la disgrazia che manifesta la grazia. Il tradimento è di «uno di voi», uno dei Dodici giacché il nemico non è l’altro, l’estraneo, è l’amico intimo, amato e scelto dal Signore, che in anticipo ne conosce la defezione. I discepoli si guardano in faccia, per vedere chi è il traditore. Ognuno pensa che possa essere chiunque altro al di fuori di lui. Tranne Giuda, l’unico che sa; egli fa da specchio a tutti, chiamati a riconoscersi in lui, al quale è rivelato l’amore incondizionato con cui è amato.

Giovanni, pietro e Gesù

Nel gruppo dei dodici che circondano Gesù emergono Pietro e Giovanni, il discepolo che Gesù amava; come il Figlio è verso il grembo del Padre (1,18), così questo discepolo sta adagiato nel grembo di Gesù, figlio nel Figlio (è il senso letterale del testo greco del versetto). Egli segue il Signore nel processo (18,15s), sta ai piedi della croce (19,26), testimonia ciò che ha visto (19.35). Riceve l’annuncio della tomba vuota (20,2), giunge per primo al sepolcro e crede (20.8), riconosce il Risorto sulla riva del lago (21,7), rimane fino al ritorno del Signore (21,20ss) e sta all’origine del racconto evangelico (21,24). (11,5). In questo passo è colui che, invece di guardare se stesso che ha rinnegato o tradito – come fa Giuda - guarda il Signore che lo ama. Perciò Pietro ritiene che questo discepolo sia in grado di sapere da Gesù chi è il traditore.Il discepolo, che prima era nel grembo, ora è sul petto (cfr. testo originale in greco): passa dal grembo che lo genera al cuore che lo ama. È quel petto il cui fianco sarà aperto dalla lancia (cfr. 19,34). La sua intimità con il Figlio è risposta all’intimità del Figlio verso i fratelli, che si manifesterà pienamente nel boccone dato a chi Io tradisce.

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6Questo discepolo perciò chiede chi sia il traditore. II Signore glielo rivelerà attraverso il segno massimo di amore che si possa dare; nel tradimento infatti si manifesta il trionfo dell’amore (cf. vv. 31-32), come solo nell’amore si coglie il vero senso del tradimento.

La reazione “eucaristica” di Gesù

Gesù risponde intingendo un boccone nel piatto e offrendolo a Giuda. Questo boccone è Gesù stesso, battezzato nella morte per dare a noi la sua carne e il suo sangue. Il gesto di Gesù non è finzione per svelare il traditore, ma segno supremo del suo amore per lui: chi tradisce è colui per il quale il Signore immerge se stesso nella morte, dando per lui la vita. II boccone, dato a Giuda dopo la lavanda dei piedi, mostra il compimento dell’amore: l’amore non è solo servizio, ma, innanzi tutto, dono di se all’altro. Questo boccone, ricordato quattro volte (vv. 26bis.27.30), è Gesù stesso che si dona a colui che lo tradisce. Proprio così Gesù «ama a compimento» (v. 1): ci mostra come tutti siamo amati, perché anche noi possiamo amarci a vicenda (vv. 34s).Se poi andiamo più a fondo nel testo ne scopriamo un senso ulteriore. «Accogliere (= prendere) e dare» sono parole eucaristiche (cf. Mc 14,22; Mt 26,26; Lc 22,19; cf. 1 Cor 11,23). Poco prima il traditore è stato indicato come «Colui che mastica il mio pane» (v. 18); ora Gesù si consegna a chi lo consegna, si affida alla sua bocca come suo pane. A chi leva il calcagno contro di lui, il Figlio unigenito dona se stesso e la sua benedizione (cf. v. 18). Così si rivela la gloria di Dio ed è sbugiardato il satana che aveva mentito su di lui. Colui che ha fatto cadere Eva e insidierà il calcagno della sua discendenza, è schiacciato con questo gesto (cfr. Gen 3,15). L’esito è sorprendente. Come all’inizio della storia, dopo il dono di Dio all’uomo subentra Satana che vuole rovinarlo (cf. Gen 1-3). Ma il dono, che sta al principio, sta anche alla fine di tutto, come perdono. Satana entrò nei nostri progenitori con il boccone che Eva mangiò e diede ad Adamo (Gen 3,6). Ma ora l’ingannatore è ingannato. In Giuda non trova il boccone che l’uomo prese, mangiò e diede, ma il Signore stesso, che non mangia, perché è la vita, e si dà da mangiare. Proprio così satana, mentre credeva di aver trionfato, verrà sconfitto da questo boccone.Con le sue ultime parole Gesù «accelera la salvezza». Vuole e ordina ciò che l’amico sta compiendo, prendendo su di sé la morte dell’amato. Gesù non vuole il tradimento dell’amico o la propria croce: il male non è necessario per il bene. Se non ci fosse, sarebbe meglio. Però, siccome c’è, Dio ne fa un bene maggiore: lo vince portandolo su di sé per amore.

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per rifLettere…

Fu profondamente turbato. Il cuore di Gesù è inquieto perché un fratello, Giuda, si sta smarrendo. Come vivi la debolezza ed il peccato dei tuoi fratelli? E’ motivo per scandalizzarti e fare pettegolezzi, oppure per soffrire ed aiutare chi sbaglia? Preghi per un fratello quando è nell’errore? Intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda. La reazione di Gesù davanti al tradimento è eucaristica: risponde a chi lo vuol consegnare ai peccatori consegnandosi a sua volta come cibo che dà vita. Come reagisci davanti all’ingratitudine e all’egoismo del fratello? Sei capace di dono gratuito ed incondizionato anche verso chi ti fa soffrire? Che cosa fai per dare la vita alle persone che ti sono accanto? Chinatosi sul petto di Gesù. Giovanni ha un ruolo singolare nella comunità apostolica non per dei meriti “acquisiti sul campo”, ma perché è intimo di Gesù. Pensi mai che la comunità si edifica a partire dalla nostra intimità con Cristo? Quando ci sono difficoltà nella tua famiglia o nella tua comunità preghi? ...e dichiarò: «In verità, in verità io vi dico». Gesù ha una parola autorevole e definitiva sulla comunità apostolica. Nel costruire le tue relazioni in famiglia od in comunità quali criteri segui? Il vangelo oppure il tuo interesse, le tue opinioni, i tuoi gusti?

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note o Nell’Odissea Polifemo è un ciclope da un occhio solo, che dopo aver imprigionato Ulisse, viene sconfitto con una serie di stratagemmi: il vino che lo ubriaca, l’accecamento, la sostituzione del nome da “Ulisse” a “Nessuno” - che lo fa passare per pazzo di fronte agli altri ciclopi che domandano il nome del feritore - e la fuga sotto il vello del ventre delle pecora.

» Giovanni ci parla di Gesù come Luce giunta

a rischiarare le nostre tenebre, ci racconta di miracoli che rendono ai ciechi la vista. Nonostante i progressi delle nostre cliniche oftalmiche e i supporti che la tecnica ci fornisce per combattere le nostre miopie, una patologia tra gli uomini sembra non conoscere regressione: l’egoismo del cuore ossessivamente impegnato ad aguzzare la vista di un unico penetrante occhio rivolto a sé, alle proprie manie. Si ingrossano così le file dei visibilissimi ma inveduti Nessuno, calpestati nelle sfilate di solitari Polifemo. » Il Vangelo è buona novella capace di rendere prossimi quei Nessuno che sfuggono all’occhio consumato dall’egoismo. I primi discepoli del risorto sono stati riconosciuti come suoi testimoni perché incredibilmente capaci di vedere gli uni le indigenze degli altri, perché capaci di riconoscersi gli uni per gli altri come sacramento vivo del Signore. » La profezia della comunione mentre continua a portare il Vangelo in tutto il mondo vince la cecità del nostro sguardo, restituendo la dignità di fratelli del Signore ai troppi Nessuno creati dal nostro oculato egoismo.

Gran parte dei neo-ciclopi che frequentano le palestre del XXI secolo […] non ha alcun scopo a cui dedicare la sua forza, alcun senso ulteriore. Non si fonderanno in un gruppo, lo fanno solo per sé. Pompano il muscolo per farlo guardare, per ammirarlo allo specchio: per diventare uomo-bicipite. Siamo entrati in una dimensione umana senza precedenti. ZOJA L., La morte del prossimo, Einaudi, Torino5iti 2009.

oggilo stRaBisMo solitaRio di polifeMo

pRovocazione

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» Abbiamo compiuta una gran cosa, siamo in buone condizioni: abbiamo fatti gli esercizi spirituali. Non tutti, è

vero, perchè finora i soli studenti li fecero, ma fra poco li faranno anche gli artigiani. Voi mi fate fare sempre festa! Sì, è una vera festa per Don Bosco il poter prendere cura delle anime dei suoi giovani. Questo è il fine per cui si lavora, per questo fine esiste questa casa: perchè i giovani facciano del bene all’anima loro. […] » Qualcuno mi domandava una regola generale riguardo al conoscere la propria vocazione. La prima regola che io do è questa che tutti sanno: se uno non si sente inclinato allo stato ecclesiastico, non si faccia prete; se non si sente inclinazione allo stato secolare, non si faccia secolare: se poi non ostante l’inclinazione alcuno vedesse che uno stato è pericoloso per l’anima sua, prenda consiglio. Così pare faccia chi non sente speciale inclinazione a nessuno stato. Se poi uno non fosse non inclinato, ma avverso allo stato ecclesiastico, siccome questa avversione può essere tentazione del demonio, prescinda dal deliberare senza esame e si consigli. Altre regole sono gli Statuti Ecclesiastici, la probitas morum, lo spirito di santità, e questa sarebbe una buona caparra per attirare la benedizione del Signore. » Io do poi un’altra regola per scegliere lo stato, ed è questa. Si metta in un luogo donde possa vedere il Crocifisso, e dica: - Mio Dio, io voglio abbracciare quello stato che più mi deve consolare al punto di morte. Voi illuminatemi e fatemi conoscere la vostra santa volontà. - Poi dica un Pater noster, e quindi aspetti un poco, e consideri quanto gli dice il suo cuore. Molti a cui io ho già suggerito questo mezzo, deliberarono per uno stato contrario a quello che prima avevano l’intenzione di abbracciare. Il Signore queste grazie le fa a chi le domanda sinceramente, risoluto di seguire la divina vocazione. » Un’altra cosa ancora molti mi hanno già domandato. Qual differenza esista tra prete salesiano e prete nelle diocesi e dei seminari.Io rispondo: nessuna, rispetto alle persone sacre ed alla messa, perchè sono sempre le stesse persone e la stessa messa. » Ma vi sono molti che si fanno salesiani, a cui io non consiglierei di farsi preti nel secolo, poiché certo correrebbero grave pericolo. E questi sono quelli che provarono per loro danno nelle vacanze, quanto sia loro fatale vivere in mezzo al mondo. Mi domandano consiglio, ed io chieggo loro: - Le cose tue in collegio come vanno? qui sei tranquillo? » In collegio vanno sempre benissimo, mi rispondono, qui non trovo nessun pericolo, in quanto a cose di coscienza sono sempre sicuro. Solamente le vacanze mi sono proprio fatali! » Ebbene, costui, cui le vacanze sono causa di cadute, come potrà tenersi ritto in piedi stando continuamente nel mondo, e anche durante le vacanze del seminario? Sarà facilmente preso negli agguati del demonio. Invece in Congregazione potrà divenire un buon sacerdote e salvare l’anima sua. » Generalmente si crede che per farsi religioso sia necessaria maggior santità. Ciò non è vero. Se si è santi, certamente è meglio; ma per costui non è tanto necessaria la santità quanto ad uno che stia nel secolo. Il

SaleSiaNola custodia

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Signore gli darà i suoi aiuti secondo la sua buona volontà. E perciò almeno potrà farsi salesiano, domenicano, agostiniano, francescano od altro, mentre non potrebbe essere buon sacerdote in diocesi. Chi sta ritirato in una Congregazione, se cade ha subito chi lo solleva. La frequente confessione e la frequente comunione, la meditazione, le visite a Gesù Sacramentato, le letture spirituali, gli avvertimenti dei superiori, le frequenti conferenze che si fanno a tutti i confratelli radunati insieme, lo sosterranno e lo faranno subito risorgere da qualsiasi caduta. Questo vantaggio non l’ha certamente il sacerdote che vive nel secolo. » Anche gli artigiani, e non solo i signorini studenti, hanno da pensare alla loro vocazione; perché se io vedessi in alcuno di loro, la volontà di farsi salesiano, me lo prenderò molto a cuore, e sarò ben sollecito di raccogliere questa perla preziosa, e conservarla nell’Oratorio: » Noi tutti intanto pregheremo il Signore, perché ognun di voi ricavi il maggior frutto possibile dagli esercizi che ha fatti o che farà, e che voglia assistere quelli che sono già avviati alla carriera ecclesiastica, ed illuminare quelli che stanno per abbracciarla o per scegliere qualunquesia stato della loro vita, affinché noi tutti possiamo passare nella virtù i giorni del nostro pellegrinaggio su questa terra e dopo una santa morte trovarci un giorno tutti insieme riuniti a lodarlo in Paradiso. Buona notte! MB XIII, 422-423

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pRovocazione Il fratello e la comunità sono custodi dell’altro soprattutto nel dono più alto che è la chiamata di Dio per la vita e per

l’eternità. Ecco che don Bosco vede la vita fraterna dentro due orizzonti: la salvezza dell’anima dei suoi membri e l’unione che fa la forza per la salvezza di molti. Pone così in stretta relazione la carità che deve crescere tra i fratelli e la carità verso i giovani soprattutto quelli più poveri, gli abbandonati, i nessuno. Per questo ha voluto fare delle nostre realtà, “case” animate dallo “spirito di famiglia”. Allora la nostra vocazione originaria all’amore trova nella vita fraterna in comunità non solo il luogo del dono dato ma anche di quello ricevuto, che colma il cuore.

1 Ancora un’obiezione vi voglio sciogliere a questo riguardo, che mi fu già fatta da parroci e da altre persone ragguardevoli.

Dicono costoro: - Come va che D. Bosco suggerisce ad alcuni de’ suoi giovani che si facciano preti, purchè abbiano intenzione di ritirarsi in qualche Congregazione religiosa; e invece, se questi giovani dimostrano l’intenzione di stare in mezzo al mondo, suggerisce loro di non abbracciare lo stato ecclesiastico? - La ragione, miei cari giovani, è questa: vi sono molti, i quali, se stanno ritirati, praticano la virtù e adempiono con diligenza i doveri di religione; se invece si trovano anche per brevi istanti nel secolo, non sono più capaci di contenersi fra i tanti pericoli che vi s’incontrano e non fanno buona riuscita. Perciò quando io vedo un giovane, il quale, finchè si trova ricoverato nell’Oratorio o in altro collegio, conduce vita esemplare e poi va a casa in vacanza e cade in molti peccati e ripiglia le opere che faceva prima che venisse nell’Oratorio; e quindi ritorna dalle vacanze, e vedo che si mette di nuovo sul serio ad adempiere bene i suoi doveri ed essere assiduo alle pratiche di pietà e, restituitosi a casa un’altra volta, si hanno da lamentare di bel nuovo gravi cadute, oh, io allora richiesto da questo giovane di dargli consiglio sulla sua vocazione, gli rispondo assolutamente: - Se tu hai intenzione di andare nel mondo come prete, parroco, vice - parroco, assolutamente non entrare nella via del santuario, che questa sarebbe la via della tua rovina e chi sa di quante altre anime. Che se però ti senti inclinato, con fini retti, a farti prete, allora, se tu ti risolvi a condur vita ritirata in qualche Congregazione religiosa e regolare, volentieri ti consiglio e permetto di farti sacerdote.

E questo, credetelo, è ciò che diede già a me molti dispiaceri, poichè alcuni mi dicono: - Don Bosco ha suggerito al tale di indossare l’abito ecclesiastico e poi si dovette cacciarlo dal Seminario; ha consigliato al tal altro di farsi prete ed ora si vede che conduce vita tutt’altro che esemplare. - Ma questi critici non sanno come io avessi assicurati quei tali, che avrebbero potuto mantenersi buoni chierici e buoni preti, ma solo qualora avessero fatta vita ritirata. Essi domandavano in qual senso, ed io in quel senso rispondeva.

Io credo che se voi, miei cari figliuoli, terrete a mente questi miei avvisi, non avrete nessun umano riguardo nella scelta della vocazione; e che colui che è chiamato allo stato ecclesiastico lo abbraccerà, e chi non è chiamato, ne rimarrà indietro. Così voi sarete sicuri della strada per cui vi metterete, e sicuri della vostra stessa salvezza.

Raccomandatevi dunque allo Spirito Santo ed alla Beata Vergine, che vi illumini e vi aiuti.

MB XI, 238-239.

note

ii lieto annuncio peR la fRateRnità

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per la SCelTa ii lieto annuncio peR la fRateRnità » Le caratteristiche peculiari

della fraternità si possono raccogliere attorno a un elemento comune: il rimando all’esperienza naturale della famiglia e della consanguineità, come appartenenza a una medesima origine, a uno stesso utero. Questa origine può essere ampliata, dilatata sul piano simbolico, ma pur sempre nel rispetto di alcune sue condizioni:a. il riferimento a una linea verticale, quella della paternità e della maternità; b. la necessità di un riconoscimento dell’altro, poiché fra fratelli non ci si sceglie, ma ci si accoglie;c. l’esigenza di reciprocità e di una certa parità nell’intimità domestica, che delimita sempre uno spazio, la casa dei fratelli, rispetto alla quale c’è chi rimane estraneo;d. infine l’impegno totale della vita che fa sì che nella prossimità al fratello ciascuno determini il suo volto lasciandolo determinare dal volto dell’altro. » un nuovo codice genetico. Un elemento balza subito agli occhi anche a una lettura superficiale della scrittura evangelica: Gesù non si limita a estendere la fraternità, ma di fatto relativizza e per molti aspetti compromette i legami familiari, i vincoli immediati di carne e di sangue; giunge anzi a esigere la loro rottura, con una radicalità che prima di lui nessuno aveva preteso. L’esperienza stessa della vocazione implica un distacco dall’ambito familiare, e i pri-mi discepoli devono abbandonare non solo le reti e le barche, ma anche il padre e la sua casa. […] » Gesù strappa ai loro vincoli parentali coloro che chiama, ma poi li costituisce in una nuova fraternità. Anche questo è un tratto peculiare del suo ministero. […] Il discepolo quindi vive da una parte la rottura dei rapporti di consanguineità, ma dall’altra l’esperienza della restituzione centuplicata di una nuova e diversa fraternità. […] » Il fratello è sempre colui che sono chiamato a discernere, ad accogliere, a custodire come un dono, riconoscendo in lui un appello e una vocazione che provengono dalla paternità di Dio. Questa è stata l’esperienza stessa di Gesù, che ha fondato la fraternità sull’obbedienza alla volontà del Padre. » figli del padre. Qui si manifesta in modo nitido la novità di Gesù, perché fondare la fraternità su questa obbedienza non significa semplicemente estenderla a chiunque sia disposto ad assumere questo atteggiamento radicale, ma più profondamente implica porre come pietra di volta della fraternità quella volontà del Padre che nella rivelazione si attesta come volontà salvifica universale. […] » Essere figli del Padre, fratelli fra di noi, ha come condizione divenire come il Padre, perfetti come lui è perfetto, capaci di accogliere e obbedire a questa sua volontà, che oltrepassa davvero ogni discriminazione possibile fra gli uomini perché capace di integrare e ricomporre l’antitesi più profonda storicamente sperimentabile, quella fra giusti e ingiusti, fra buoni e cattivi. Dichiarare amati dal Padre sia gli uni sia gli altri significa istituire un codice di comportamento diverso, che ha come suoi presupposti da

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un lato il Padre e la sua volontà di salvezza per tutti, senza discriminazioni, dall’altro l’obbedienza a questa volontà che comporta l’imperativo a guardare al fratello con lo stesso sguardo del Padre. […]

» confini esteriori e confini interiori Fin dove giunge lo spazio della fraternità? » «Chi è il mio prossimo?» (Lc10,29) «Signore, quante volte dovrò perdonare a mio fratello se pecca contro di me? Fino a sette volte?» (Mt18,21). » La prospettiva di Gesù, che ricorda che il vero problema della fraternità non è quello dei confini, ma dell’atteggiamento del cuore, cioè della disponibilità a rispondere a quell’imperativo che ammonisce che per essere figlio del Padre e obbedire alla sua volontà, per essere come lui, occorre vivere nella fattiva volontà a farsi fratello dell’altro, chiunque egli sia. […]. L’Evangelo sollecita piuttosto ad assumere nella propria carne il suo bisogno. Ciò che ci affratella non è tanto quello che abbiamo in comune quanto paradossalmente quello che ci divide: ciò che io ho e lui non possiede. è la sua alterità che diventa non spazio della concorrenza, della gelosia o dell’invidia, ma rimane la distanza necessaria a consentire l’incontro reciproco attraverso il dono di sé. Non si crea la fraternità allargando i confini, ma dilatando lo spazio del cuore e della vita, perché l’altro possa entrarvi con la sua diversità e il suo bisogno. […] La risposta di Gesù è analoga, in primo luogo perché passa attraverso il racconto di due parabole, con le quali orienta lo sguardo sul comportamento del Padre; in secondo luogo perché risponde che confini non possono esistere. […] Il modo di Dio è caratterizzato dalla makrotimìa, la grandezza d’animo: «Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa» (Mt18,26: il testo greco più esattamente afferma: «Abbi un animo grande nei miei confronti»); qui appare la grandezza d’animo del re che dona più di quanto gli è stato richiesto. […] Questo il vero problema della fraternità: non tanto i confini. esteriori, quanto i confini interiori di un cuore disponibile a modellarsi sulla grandezza d’animo del Padre anziché sulla grettezza di un cuore angusto come quello del servo. » Il termine greco adelfòs significa «dallo stesso utero»: la fraternità in questo caso si attesta come provenienza da un’unica origine. Possiamo ampliare questo utero per allargare lo spazio della fraternità, ma la parola di Dio suggerisce di vivere un atteggiamento diverso. L’immagine stessa dell’utero rinvia simbolicamente alla misericordia del Padre: in ebraico utero si dice rachem e nella Bibbia il plurale rachamim designa le viscere di misericordia che caratterizzano l’amore di Dio. A detta dei rabbini l’utero è qualcosa che esiste unicamente in vista dell’altro da sé, per donargli la vita. Essere fratelli

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significa riconoscersi nati da queste viscere della misericordia di Dio. Non basta dunque sapersi uniti dalla coappartenenza a un’origine comune, occorre sentirsi impegnati, dal venire da queste viscere di misericordia, a una vita che esiste ed è sensata solo in quanto è capace di dare la vita all’altro da sé. Si è fratelli non in quanto si riconosce la comune appartenenza a un unico grembo materno, ma perché si sa trasformare la propria vita in questo grembo materno capace di donare vita all’altro, chiunque egli sia.

» Alcune immagini evangeliche suggeriscono quattro movimenti da attuare nella vita fraterna.

» discendere. Nella vita personale è la disponibilità a discendere che consente l’accoglienza del dono.Tale movimento comporta quello svuotamento di sé vissuto da Maria di Betania nell’umiltà del suo ascolto. […] Per entrare autenticamente in una relazione di fraternità, è indispensabile vivere questi atteggiamenti di discesa e di svuotamento di se stessi, per diventare capaci di relazioni che superino quelle difficoltà tipiche ben sintetizzate nella figura di Marta, questa donna generosa, ma incapace di accoglienza umile perché incapace di ascolto; così piena di sé da poter giudicare con tanta durezza l’atteggiamento della sorella e di Gesù stesso. […] Vivere la discesa, collocarsi nel punto più basso, consente di abbracciare tutti gli uomini senza esclusione. Proprio questo atteggiamento permette l’allargamento del cuore necessario per conformarlo alla larghezza d’animo del cuore di Dio, in una makrotimìa tale da consentire di portare nelle viscere ogni uomo senza distinzione. Ciò è possibile soltanto se si accetta l’abbassamento, l’umiliazione, la discesa, atteggiamenti che conformano a Gesù.

» decentrarsi. Questo movimento ne comporta un altro, il decentramento, nel senso di uscire da se stessi per trovare il centro in qualcun altro. » «“Chi è più grande nel Regno dei cieli?” Allora Gesù chiamò a sé un bambino e lo pose in mezzo» (Mt18,1-2). […] Nella metafora del bambino tutto ciò che rimane marginale e periferico viene collocato al centro. Nel discorso che segue, il termine «piccolo» assume significati diversi: viene via via a indicare la persona che non conta, che non vanta alcun indole sociale, poi il fratello da accogliere, e solitamente negli Evangeli l’accoglienza deve essere offerta a chi è nel bisogno; ancora, piccolo è il debole che non si deve scandalizzare, perché non ha una fede robusta come coloro che presumono di costituire le colonne portanti della comunità; infine è il peccatore stesso. […] In secondo luogo perché Gesù

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corregge quella fondamentale tentazione che è insita nella domanda dei discepoli: «Chi è il più grande nel Regno dei cieli?»; dietro queste parole si nasconde il vero interrogativo: «Come faccio a diventare il più grande nel Regno dei cieli? Come posso collocarmi al centro delle relazioni, nel cuore della fraternità?». […] La reciprocità è sempre tentata di chiudersi in sé, negando spazio alla gratuità, mentre d’altro canto la gratuità abbandonata a se stessa, che non cerchi anche una reciprocità, può correre il rischio di disincarnarsi in un amore generico, che finisce con il non amare più nessuno, divenendo così incapace di circoscrivere uno spazio in cui riconoscersi e accogliersi come fratelli, in cui sentirsi a casa propria fra fratelli. è necessaria dunque una reciprocità, che però non sia fondata su ciò che io faccio per l’altro o l’altro fa per me, ma su ciò che Cristo ha fatto per entrambi. […] » Sono fratello dell’altro solo per ciò che Gesù Cristo ha fatto per me e in me, l’altro mi è divenuto fratello per ciò che Gesù Cristo ha fatto per lui e in lui. Solo per mezzo di Cristo siamo fratelli: questo è un fatto d’incommensurabile importanza. Il fratello con cui ho a che fare nella comunità non è l’altro che mi si fa incontro nella sua serietà, nella ricerca di fraternità, nella devozione, ma è l’altro che è stato redento da Cristo, che è stato liberato dal peccato e chiamato alla fede e alla vita eterna. La nostra comunione non può motivarsi in base a ciò che un cristiano è in se stesso, alla sua interiorità e devozione; viceversa per la nostra fraternità è determinante ciò che si è a partire da Cristo. La nostra comunione consiste solo in ciò che Cristo ha compiuto in ambedue, in me e nell’altro, e questo non vale solo per l’inizio, come se poi nel corso del tempo si aggiungesse ancora qualcosa a questa nostra comunione, ma resta pur sempre nel futuro e nell’eternità. Solo per mezzo di Cristo c’è e ci sarà comunione fra me e l’altro. Via via che la comunione si fa più autentica e più profonda, scompare tutto ciò che si frappone ad essa e risulta con sempre maggior purezza e chiarezza l’unica cosa che la rende viva fra di noi: Gesù Cristo e la sua opera. Solo per mezzo di Cristo apparteniamo gli uni agli altri, ma grazie a questo mediatore l’appartenenza è effettiva, integrale, per tutta l’eternità. » Ciò che ha fatto Cristo per me esige poi di essere appropriato dalla vita dì ciascuno ed è quindi un carisma che richiede sempre lotta, conversione, apertura dell’accoglienza.

» respirare. Il perdono dei peccati è il segno della nuova creazione che nello Spirito il Risorto ha definitivamente compiuto.

» curvarsi. Un’ultima immagine: la fraternità cristiana è il luogo in cui esercitare un amore casto verso i fratelli. Tale castità è da interpretare anche come quella sana apertura escatologica che consente di vivere nella gioia delle relazioni

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fraterne ben sapendo che il compimento non appartiene al qui e all’oggi, perché lo donerà il Signore quando verrà. Possiamo assaporare la bellezza della fraternità, ma nella pazienza e nell’attesa, senza la pretesa di trovare sin d’ora quella pienezza di cui possiamo gustare un’anticipazione e una profezia, ma che soltanto il Signore porterà con sé nel giorno della sua venuta. Questa consapevolezza consente di vivere le relazioni fraterne non nella fuga o nel disimpegno, ma con la fedeltà e la perseveranza dell’amore verso i fratelli, proprio perché non si hanno pretese eccessive nei loro confronti o nei confronti della fraternità in quanto tale. Non possiamo pretendere di godere già di quel compimento che appartiene al giorno del Signore. Averne coscienza impegna a non sfuggire alla fatica della fraternità, a non cercare luoghi utopici che si presumono migliori di quelli che ci è donato di vivere. […] C’è tuttavia un kairòs, un tempo di Dio, un tempo dovuto, che occorre saper discernere: quello in cui dare il cibo necessario ai fratelli. […] Il quarto e ultimo movimento consiste allora nel curvarsi sui bisogni degli altri, per saper riconoscere il tempo dovuto delle loro necessità. Questo discernimento impegna ad accogliere le loro difficoltà nel tempo della nostra vita. Anch’esso è un kairòs della fraternità. » Di quattro movimenti ha bisogno la fraternità: discendere, decentrarsi, respirare, curvarsi. Sono quattro dimensioni che dicono la totalità dell’amore. Quattro è un numero che simboleggia l’intero, poiché altrettanti sono i punti cardinali che consentono di abbracciare tutto l’orizzonte dell’esperienza umana.FRATEL LUCA di VERTEMATE, La rugiada e la croce, Ancora, Milano, 2001.

tRe passi a » L’occhio vigile sul bisogno della casa e di chi ci sta accanto.

B » Il coraggio del “parto io” contro la bestemmia salesiana del “non tocca a me”. c » Il buon tratto nelle relazioni, l’opposizione a qualsiasi forma di mormorazione e critica, la cura del pensare bene, parlare bene, agire bene.

per L’approfondimento ti suggeriamo come testo per il mese: BIANCO E., Artemide Zatti - Testimoni 12, LDC, Torino-Leumann

2002.

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BaRtoloMé esteBan MuRilloVecchia che spidocchia un bambino (part.)olio su tela di 37,5x29,61670 circa“L’amico ti guarda là dove l’animo soffre, là dove sei debole, là dove sei cariato... o pidocchioso e non gira la faccia dall’altra parte” (A.M.) Quale gesto più umile di dedizione può compiere un adulto? Un bambino, quasi inconsapevole delle cure che sta ricevendo, gioca col cagnolino e mangia un boccone, come farebbe in qualsiasi altro momento ed una vecchia donna, sul cui viso consumato il tempo ha lasciato i segni del lavoro, è completamente dedita, al solo scopo di trovare le bestioline dannose tra i capelli del piccolo. Amicizia che senza farlo pesare, cura e purifica il... profondo.

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31Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; 32ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli». 33E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte». 34Gli rispose: «Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi».

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iL contesto Al cap. 22 di Luca, tra la conclusione dell’Ultima Cena (cfr. 22,20) e la partenza per il Monte degli Ulivi (cfr. 22,39), leggiamo il Discorso che Gesù tiene con i suoi discepoli, toccando diversi temi: l’annuncio del tradimento, la discussione sul più grande, la promessa del Regno e – sono i versetti su cui vogliamo riflettere - l’annuncio del rinnegamento e del ravvedimento di Pietro. Il passo che stiamo meditando è costruito come un brevissimo dialogo di tre battute: la vocazione da parte di Gesù (vv. 31-32); la dichiarazione entusiasta di Pietro (v. 33); la risposta definitiva di Gesù (v. 34).

La vocazione da parte di Gesù

Qui leggiamo la vera chiamata di Pietro. In Luca è la prima volta che Gesù lo chiama per nome (NB: il suo “vecchio” nome, Simone) e per ben due volte. È una vocazione solenne, come quella di Abramo, di Mosè, di Samuele, di Maria e di Saulo (cfr. Gn 22,1; Es 3,4; 1 Sam 3,10; Lc 10,41; At 9,4). Gesù subito gli annuncia che il nemico, Satana, si oppone al progetto di salvezza. Il suo intento è quello di togliere la fiducia nella Parola di Gesù, che chiama e manda; vuole rubarla dal cuore dell’uomo (8,12), come ha fatto con Adamo e ha tentato di fare con Gesù. La sua azione non sarà che un’azione di vaglio, come quella del contadino che separa il grano dalla pula, ma Dio se ne serve per il bene. Separando il frumento dallo scarto il Diavolo purificherà la fede dei discepoli, conducendoli a quella infedeltà che offrirà loro la possibilità di ritornare a Dio ed a una fede più pura. In forza della sua preghiera Gesù garantisce a Pietro non l’impec cabilità, ma l’indefettibilità della fede. Questa consiste nel fondare la propria vita nella sua misericordia. Pietro sbaglierà, ma «ritornerà», ossia si convertirà. La sua esperienza di infedeltà gli farà conoscere meglio se stesso e il suo Signore, la propria debolezza e la forza di colui che lo ama, la propria miseria e la sua misericordia. Così confermerà (letteralmente «indurirà») la fede dei suoi fratelli che attraverseranno le sue medesime difficoltà. La sua funzione, dirà lui stesso, non è quella di spadroneggiare sul gregge a lui affidato, ma di essere modello di umiltà e di confidenza nel Signore (cfr. 1Pt 5,lss).

La dichiarazione di pietro Pietro è uomo dai grandi desideri. Vuole stare «con» Gesù, disposto a sfidare ceppi e spade poiché ha capito che il suo bene è stare vicino al suo Signore, che solo ha parole di vita eterna. Tali desideri, come non vengono dalla carne, così non possono essere compiuti da essa. La carne è debole. Va riconosciuta come tale, per-ché non si ponga la fiducia in essa, ma in colui che «ha potere di fare molto più di quanto possiamo domandare o pensare» (cfr. Ef 3,20). Egli, nella nostra debolezza, manifesta pienamente la sua forza ( cfr. 2Cor 12,9),

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La risposta definitiva di Gesù Ora Gesù chiama Simone col nome nuovo, Kefa/Pietro, che significa «roccia», attributo di Dio nella sua sicurezza e fedeltà. Lo chiama così proprio mentre gli predice la sua sicura infedeltà, che si concretizzerà prima del canto del gallo. Questo ha un forte valore evocativo: il gallo preannuncia il sorgere del sole, simbolo di Cristo che viene a visitare il suo popolo (cfr. 1,78). Il rinnegamento di Pietro sarà, paradossalmente, l’annuncio della bontà misericordiosa del nostro Dio, che viene a visitarci dall’alto come sole che sorge. Infatti colui che deve confermare nella fede i fratelli, prima rinnegherà tre volte di conoscere il Signore e solo dopo lo conoscerà come «Gesù», che significa «Dio salva». Al suo tradimento non farà seguito l’abbandono definitivo del maestro, ma, in virtù della misericordia divina, il pentimento ed il rafforzamento della fede.La sua esperienza è per tutti i credenti paradigmatica per giungere alla fede nel Salvatore.

in sintesi…

Il passo evangelico che abbiamo letto ci delinea la figura di Pietro a tre livelli.Egli è un chiamato: la sua missione non nasce da iniziativa umana, ma da Gesù, che, nel momento cruciale della propria vicenda umana, lo chiama per confermare i suoi fratelli.Egli è un “lottatore”: alla chiamata di Gesù per realizzare il progetto della salvezza si oppone sempre ed instancabilmente Satana, che vaglia e purifica la fede dei discepoli.Egli è un peccatore perdonato: chi confida solo nelle proprie forze esce sconfitto da questa lotta, mentre chi si abbandona con fiducia alla misericordia di Dio alla fine esce rafforzato nella fede, poiché ha sperimentato la bontà di Gesù; pertanto può a sua volta confermare nella fede i propri fratelli.

per rifLettere…

“Simone, Simone”. Pietro sperimenta anzitutto di essere un “chiamato” ad una missione per il bene dei fratelli. Sei cosciente che il servizio che svolgi nel tuo oratorio/parrocchia nasce da una missione ricevuta da Gesù? Preghi per essere aiutato in questa missione o confidi solo nelle tue forze? Ti sei mai interrogato se questa missione potrebbe diventare per te una specifica e definitiva vocazione? “Satana vi ha cercati per vagliarvi”. Chi vive una missione per il bene dei fratelli deve prepararsi a lottare contro le potenze del peccato. Come si concretizza per te questa lotta? La vivi confidando solo in te stesso o attaccandoti al Signore Gesù?

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“Una volta convertito, conferma i tuoi fratelli”. Pietro sperimenta l’amarezza della caduta, ma anche la gioia della misericordia e della conversione; proprio per questo può efficacemente “confermare” la fede dei suoi fratelli. Quanto sento la responsabilità nei confronti di coloro che in vario modo mi sono affidati? Cerchi di essere per loro immagine di Gesù, ricco di amore e di misericordia per tutti i suoi fratelli? “Con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte”. Pietro sperimenta un facile entusiasmo che poi verrà meno nel momento della prova. Come vivi la fatica del quotidiano, “luogo” della lotta? La facilità con cui ci diciamo disponibili a seguire Gesù si concretizza nella fedeltà quotidiana alla preghiera, all’impegno nel tuo oratorio/parrocchia, al dovere?

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1 Il primo giorno della settimana, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora

buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. 2 Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». 3 Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. 4 Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro.5 Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6 Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7 e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. 8 Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9 Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti.

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L’antefatto

Prima della sepoltura si era parlato della preparazione di «quel sabato, che era un giorno solenne», cioè la Pasqua (cfr. 19,31.42). Di questo giorno, apparentemente vuoto, non si dice nulla; sappiamo solo che il corpo di Gesù è nel vuoto del sepolcro. Dicendo nulla, l’evangelista suggerisce molto: infatti il Verbo creatore, entrato negli inferi, si è inabissato nel caos; accogliendo la carne del Figlio dell’uomo, la terra e ogni carne accoglie il Figlio di Dio per cui creatore e creatura finalmente si incontrano e inizia la gioia senza fine dell’ottavo giorno.Ma ora siamo nel primo giorno dopo il sabato, proprio nell’ottavo giorno: è la «domenica», il giorno del Signore, in cui si compiono tutte le promesse di Dio; in esso vive la creazione nuova, riscattata dal male e abitata dallo Spirito di Dio.

i personaGGi

In questa scena compaiono 3 personaggi. Maria, la Maddalena. Mentre gli altri Vangeli ricordano anche altre donne (cfr. Mc 16,l), Giovanni nomina solo Maria Maddalena, facendone la figura tipica del discepolo. Infatti è stata ai piedi della croce (cfr. 19,25; Mc 15,40) e il suo nome richiama Maria di Betania, che vide la gloria di Dio nella risurrezione di Lazzaro (cfr. 11,4.40) e profumò il Signore (cfr. 11,2; 12,1-8); è pertanto come la sposa, conquistata dall’amore estremo dello Sposo e che ora, dopo averlo visto elevato sulla croce, lo cerca dove l’hanno posto. Luca poi dice che da lei erano usciti sette demoni (cfr. Lc 8,2): purificata dall’amore, è la prima che ha occhi per vedere il Signore. Simon Pietro. Pietro, che ha rinnegato (cfr 13,36-38; 18,12-27), è nominato per primo. È posto come primo dei discepoli perché ha sperimentato ciò che ci fa discepoli: la fedeltà del Signore alla nostra infedeltà. L’altro discepolo. Questo discepolo appare insieme a Pietro nell’ultima cena (cfr. 13,23-25) e nel processo (cfr. 18.15ss) per poi riapparire insieme nell’ultimo capitolo. L’«altro discepolo» non è semplicemente l’altro tra due, ma l’altro, il diverso; infatti ha appoggiato il capo nel grembo e sul petto di Gesù (cfr. 13,23-25), che ha poi visto trafitto (cfr. 19,34s). Normalmente è chiamato «il discepolo che Gesù amava», ma adesso, che l’ha visto sulla croce, è chiamato amico. L’amicizia è infatti amore reciproco e Gesù chiama i discepoli «amici» se compiono il suo comando (cfr. 15,14), che è amarci l’un l’altro come lui ci ama (cfr. 13,34; 15,12.17); chi ama allora può incontrare e credere nel Risorto, perché lui stesso è passato dalla morte alla vita (cfr. 1 Gv 3,14).

iL tempo ed iL LuoGo

La nostra scena è ambienta all’alba, mentre era ancora tenebra. L’alba, ultima veglia della notte, è l’ora in cui c’è insieme luce e

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tenebra: il sole già illumina il cielo, ma ancora non appare sulla terra; è la condizione interiore di Maria, che cerca lo Sposo giacché in lei c’è la luce dell’amore, ma anche lo smarrimento di non vedere l’amato.Il fulcro spaziale di tutta l’azione è il sepolcro vuoto di Gesù. Nei vv. 1-10 si menziona il sepolcro per ben sette volte per cui esso è, ossessivamente, il protagonista del brano. La memoria di morte che, incutendoci terrore, ci tiene schiavi per tutta la vita (cfr. Eb 2,15), diventa il luogo in cui incontriamo il Risorto. Infatti Gesù, che aveva fatto levare la pietra dal sepolcro di Lazzaro (cfr. 11,39.41), ora come l’agnello di Dio che leva il peccato del mondo (cfr. 1,29), è entrato lui stesso nel sepolcro per levare definitivamente la pietra che ci separa dalla vita; la gloria del Crocifisso ha insomma fatto esplodere l’inferno.

La corsa di maria e dei due discepoLi

Il nostro passo è costruito su due corse: quella di Maria dal sepolcro vuoto verso i discepoli e quella dei discepoli stessi verso il medesimo sepolcro. Ciò che Maria vede è segno dell’inconcepibile. Questa pietra, levata, leva all’uomo l’unica certezza, la morte. Maria non può capire per cui corre ad annunciare la scomparsa di Gesù. Pensa che l’abbiano rubato poiché non ha ancora compreso che l’amore vince la morte. Perciò corre dai discepoli. Dopo l’annuncio di Maria, Pietro e l’altro discepolo escono per andare al sepolcro e corrono insieme. Ma il secondo è più veloce e arriva prima al sepolcro, come giunge per primo a credere (cfr. v. 8) e a vedere il Risorto (cfr. 21,7). L’amico, che ama come è amato, precede colui che è il primo dei discepoli poiché il primato è sempre dell’amore, come si vedrà nel capitolo successivo. Il discepolo amico non entra; attende Pietro, come segno di stima per lui. Guarda però dentro e vede i lini stesi, che non sono abbandonati in disordine, come se il cadavere fosse stato sottratto. Infine Pietro viene al sepolcro seguendo l’altro discepolo, che già l’aveva preceduto nella casa di Caifa (cfr. 18,15s) poiché, seguendo chi ama, si è introdotti nel mistero di Gesù, nella sua passione per noi; entra e vede ciò che anche l’altro ha visto stando fuori. Pietro vede poi anche il sudario, che è il velo della morte, che copre il volto del defunto. Per Gesù, invece, si dice che era sulla sua testa, come il lembo del mantello di uno che dorma per cui ora, che si è svegliato, se lo è tolto. Non è però con i lini stesi, ma messo a parte, avvolto in un luogo determinato. Dopo la constatazione di Pietro, anche l’altro discepolo entra nel sepolcro e vede e crede.I lini stesi, con il sudario a parte, sono i segni che il Signore non è lì e non è stato rubato e, vedendo questo, il discepolo amato crede in Gesù, Signore della vita, pur senza averlo visto. L’osservazione finale sembrerebbe in dissonanza con il «vide e credette» che precede. Se si considera il testo nel suo insieme, sembra meglio ritenere

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che il discepolo amico, con l’anticipazione tipica dell’amore, ha sempre sufficienti segni per credere all’amato. Egli «vide» (i segni) e «credette» (nel Risorto): è il primo che, senza aver visto il Signore, ha in lui quella fede che propone ai suoi lettori (cf. vv. 29-31). Uno infatti non può proporre un’esperienza che lui non ha fatto. La Scrittura del resto non riporta speculazioni o deduzioni, ma il vissuto personale di chi scrive.Probabilmente nel v. 9 l’autore vuol dire - ovviamente al lettore - che solo dopo la risurrezione di Gesù, accertata dai testi oculari, è possibile capire la Scrittura, che tutta parla di lui (cfr. 5,39). La promessa del Signore è comprensibile solo dopo il suo compimento e alla luce del suo Spirito d’amore (cfr. 14,26). Per questo i discepoli possono credere alla Scrittura e alla parola di Gesù solo dopo la sua risurrezione (cfr. 2,22; 12,16). Rimane sempre un velo sul volto di chi legge la Scrittura, che viene eliminato dalla conversione a Cristo Signore (cf. 2Cor 3,12-16), la quale è donata a chi ha contemplato il suo amore e lo ama.I primi discepoli, che hanno incontrato il Risorto, lo testimoniano a noi nel Vangelo, che racconta e rende presente la carne del Verbo, realizzazione di ogni promessa di Dio. Per noi, che veniamo dopo i primi che l’hanno visto e toccato, i Vangeli e l’intera Scrittura diventano come il corpo di Cristo; sono il segno in cui lo incontriamo e vediamo Risorto.

in sintesi

Il discepolo amico di Gesù è il prototipo di quelli che, dopo di lui, crederanno in Gesù senza vederlo (cfr. v. 29), attraverso i segni raccontati dall’evangelista stesso (cfr. vv 30-31). Questo discepolo «altro» vede con il cuore. L’amore è il principio della fede, che dà vita. La connessione tra vedere e credere vuol dire che la fede, lungi dall’essere cieca, è occhio ben aperto sulla realtà.Di Pietro non si dice niente. Si può supporre, senza far violenza al testo, che l’autore voglia mostrare in lui l’aspetto oggettivo della fede: il sepolcro è vuoto e il corpo non fu trafugato. Nel discepolo amato invece evidenzia l’aspetto soggettivo della fede: l’amore «vede» i segni e «crede» in Gesù risorto, senza averlo visto.In Maria, infine, seguita dagli altri discepoli e da Tommaso, è riferita l’esperienza fondante riservata a coloro che ci trasmettono l’annuncio della risurrezione: essi vedono e toccano il Risorto.

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per rifLettere…

“Si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio”. Maria va al sepolcro perché desidera onorare Gesù, l’amato. Non si dà vita cristiana né, tantomeno, missione cristiana se prima non c’è il desiderio di Gesù. Le tue scelte quotidiane, lo spazio che assegni ogni giorno alla preghiera dicono che desideri stare con Gesù? Quanto è intenso questo desiderio?

“Vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro”. La potenza della risurrezione di Cristo fa esplodere gli inferi e sconfigge la morte. Dai questa testimonianza? Chi ti incontra percepisce che sei animato da questa speranza che rinnova la vita?

“Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo”. Maria corre dai discepoli per raccontare loro quello che ha visto. Ha il desiderio e l’entusiasmo di testimoniare la tua esperienza cristiana? Lo fai nel tuo ambiente? Il servizio apostolico che svolgi nel tuo oratorio/parrocchia ha la forma della testimonianza di un incontro con Cristo o è solo un modo per fare qualcosa che ti gratifica?

“L’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro”. Il discepolo amato corre più veloce e giunge per primo al sepolcro vuoto. Sai che l’entusiasmo nella missione e nell’annuncio è direttamente proporzionale al tuo amore per Cristo? Ti verifichi su questo aspetto con la tua guida spirituale?

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note o Narciso è un personaggio della mitologia greca, famoso per la sua bellezza ma anche incredibilmente crudele in quanto disdegnoso d’ogni persona affascinata da lui. Un dì vide la sua immagine riflessa in uno specchio d’acqua della quale si innamorò perdutamente. Non potendola possedere si lasciò morire in essa annegando.

» La buona novella del vangelo ci restituisce alla

nostra preziosità, custodita dal mistero di Dio. L’uomo per conoscere il proprio valore non può che puntare fisso lo sguardo negli occhi di Dio: nelle Sue pupille è generato alla vera dignità. La vocazione è annuncio di questa verità a chi si cerca alternando culto e disprezzo di sé. » E chi è stato strappato alla morte del proprio narcisismo può strappare i suoi fratelli alla loro sterile e disperata autocontemplazione. » Il mondo oggi ha bisogno di profeti, profeti capaci di liberare dalla loro rabbiosa solitudine schiere di Narcisi delusi di fronte ad un volto, il proprio, idolatrato ed odiato, vezzeggiato e sfregiato, truccato e infangato. Solo la contemplazione del volto del Signore, nella sua gloria crocifissa e risorta, può consegnare all’uomo la verità del proprio volto, eternamente scolpito come bellezza filiale, nel cuore di Dio.

Viviamo, si dice, nell’epoca del narcisismo. E il povero Narciso, si sa, era soprattutto un terribile egoista. Ciò che

lo appassionava era esclusivamente se stesso, anzi la propria immagine, che contemplava, innamorato, riflessa nell’acqua. Dietro quell’immagine cercava di afferrare il suo Ego, che per lui era tutto. […] Sappiamo come finì: con un annegamento. Tuttavia, e molto imprudentemente, oggi all’Ego, così come al culto di sé, si intitolano libri, trasmissioni, giornali. Si moltiplicano i: Per sé, Yourself, e altri periodici patinati, più svariate trasmissioni televisive, e tutti compongono un rumoroso coro che incita a occuparsi sempre dello stesso esploratissimo pianeta: il proprio Ego, la sua immagine, le sue paturnie, ansie, velleità. L’intenzione è quella tipica delle epoche di malessere: star bene. Siccome l’individuo avverte di non sentirsi benissimo, gli si consiglia di occuparsi sempre più di sé, dei suoi malesseri, del suo Io mal mostoso. E così il poveretto sta sempre peggio. Infatti la cultura del narcisismo confonde (tra l’altro) il nostro povero ombelico (non a caso sempre più esibito dalla moda), con la cornucopia, la mitica coppa dell’abbondanza. Non è così: possiamo guardarcelo e riguardarcelo, ma non ne uscirà mai nulla, e tanto meno oro, e magici profumi. è una feritina che fatalmente tende alla sporcizia, inutile girarci intorno o scrutarla con speciali obiettivi, non mostrerà mai altro che la sua insignificanza.RISE’ C., Felicità è donarsi - contro la cultura del narcisismo e per la scoperta dell’altro, Sperling Paperback, Milano 2004.

oggi

pRovocazione

la paRalisi dispeRata di naRciso

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» L’estate del 1854 portò una notizia paurosa: il colera. La morte si portava via

il 50 per cento dei colpiti. La zona di Torino più colpita, com’era facile prevedere, fu la zona più inquinata e sporca: Borgo Dora, confinante con Valdocco. In un mese 800 colpiti, 500 morti. Nelle case vicine all’Oratorio, ricorda Bonetti, «alcune famiglie scomparvero in brevissimo tempo» (CL 422). Don Bosco prese le misure del caso. «Si anticiparono gli esami – ricorda Francesia - e prima che finisse luglio (cioè con un mese di anticipo) tutte le scuole furono chiuse» (VBP 183). I ragazzi che vollero, poterono partire per le loro case. Furono ripulite camere, locali, si diradarono i letti nei dormitori, migliorò il vitto. » “Ma D. Bosco non pago dei provvedimenti terreni, si appigliò di gran cuore a provvedimenti di gran lunga più efficaci, ai provvedimenti celesti. Da persona degna di fede abbiamo saputo che fin dai primi giorni del pericolo, Don Bosco prostrato dinanzi all’altare fece questa preghiera al Signore: - “ Mio Dio, percuotete il pastore, ma risparmiate il tenero gregge“. Poscia rivolgendosi alla Beatissima Vergine disse: “Maria, voi siete Madre amorosa e potente; deh! preservatemi questi amati figli; e qualora il Signore volesse una vittima tra noi, eccomi pronto a morire quando e come a Lui piace”. » Era il buon Pastore, che offriva la vita pe’ suoi agnelletti. » Il 5 agosto, festa della Beata Vergine della Neve, che in quell’anno cadeva in sabato, egli ad una cert’ora della sera raccolse tutti i ricoverati intorno a sè, e tenne loro un discorsetto, che coll’aiuto dell’uno e dell’altro si potè ricomporre nella sua sostanza. » “ Come avrete già udito, egli disse, il colèra è comparso in Torino, e vi furono già alcuni casi di morte. Molti in città ne sono costernati, e so che non pochi di voi ne vivono in pena. Voglio pertanto suggerirvi alcune cose in proposito, le quali se voi metterete in pratica, io spero che andrete tutti esenti dal terribile morbo. » “[…] Oggi è festa della Madonna della Neve, e domani comincia la novena della più bella Solennità che la Chiesa celebri in onore di Maria Santissima; solennità che ci ricorda la sua placidissima e santa morte; solennità che ci rammenta il suo trionfo, la sua gloria, la sua potenza in Cielo. Io raccomando che domani ognuno di voi faccia una buona Confessione ed una santa Comunione, affinchè io possa offrirvi tutti insieme a Maria e pregarla a riguardarvi e proteggervi come suoi figli dilettissimi. Lo farete voi? ” - Sì, sì, fu risposto da tutti ad una voce. » Qui D. Bosco si fermò un istante, e poi, ripresa la parola, proseguì con tono singolare, che non saprebbesi ripetere. Disse adunque e conchiuse: » “ Causa della morte è senza dubbio il peccato. Se voi vi metterete tutti in grazia di Dio e non commetterete alcun peccato mortale, io vi assicuro che niuno di voi sarà tocco dal coléra; ma se mai qualcuno rimanesse ostinato nemico di Dio, e, quel che è peggio, osasse offenderlo gravemente, da quel momento io non potrei più essere garante nè di lui, nè per qualunque altro della Casa ”.[…]

SaleSiaNola teMeRaRietà che liBeRa

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» Da quel giorno in poi la condotta religiosa e morale dei giovani dell’Ospizio fu di una tale edificazione ed esemplarità, che non si sarebbe potuto aspettare di più. Preghiera, frequenza ai Sacramenti, lavoro, obbedienza, carità, timor di Dio erano portati al più alto grado di perfezione. […] » Intanto i casi di coléra in Torino e nei sobborghi facevansi ogni dì più frequenti, e D. Bosco appena ebbe notizia che l’epidemia era scoppiata nei dintorni dell’Oratorio, senz’altro accorse ad assistere gli appestati. […] » Anche i più coraggiosi temevano di contrarre il malore, e rifiutavano di esporre a cimento la propria vita. Allora fu che alla mente di D. Bosco balenò un gran pensiero: pensiero, che gli suggerì una generosa e nobile determinazione. Dopo essersi per parecchi giorni e parecchie notti prestato qua e colà all’assistenza dei colerosi, insieme con D. Alasonatti e con alcuni Sacerdoti di Torino addetti all’Oratorio festivo; dopo di aver veduto coi proprii occhi il bisogno in cui molti malati versavano, D. Bosco un giorno radunò i suoi giovani e fece loro una tenera parlata. Egli descrisse loro lo stato miserando, in cui tribolavano tanti poveri colerosi, alcuni dei quali soccombevano per mancanza del pronto e necessario soccorso. Disse il bell’atto di carità, che si era il consacrarsi in loro sollievo; che il divin Salvatore aveva assicurato nel santo Vangelo di riguardare come fatto a se stesso il servizio prestato agli infermi; che in tutte le epidemie, e nelle stesse pestilenze vi erano sempre stati Cristiani generosi, i quali avevano sfidata la morte allato degli appestati, per servirli ed aiutarli nel corpo e nell’anima. Loro notificava come il Sindaco stesso erasi raccomandato, per avere degli infermieri ed assistenti; che D. Bosco con varii altri già si erano esibiti; e conchiudeva esprimendo il desiderio che alcuni de’ suoi giovani si facessero suoi compagni in quell’opera di misericordia. - Queste parole di D. Bosco non caddero invano. I giovani dell’Oratorio le raccolsero religiosamente e si mostrarono degni figli di un tal padre. Quattordici di essi gli si presentarono bentosto, pronti a compiere i suoi desiderii, e gli diedero il proprio nome, per essere consegnato in nota alla Commissione sanitaria; e pochi giorni dopo altri trenta ne seguirono l’esempio. » Chi considera per una parte il terrore, che in quei giorni padroneggiava gli animi a segno che molti, non esclusi i medici stessi, fuggivano dalla città, e che molti infermi venivano abbandonati dagli stessi parenti; e per altra parte rifletta alla età e naturale timidezza della gioventù in simili casi, non può non ammirare questo nobile slancio dei figli di D. Bosco, il quale ne andò sì lieto, che ne pianse di consolazione. » […] Istruitili adeguatamente, venne stabilito un orario, e furono dispersi quali in uno e quali in un altro luogo. Gli uni dovevano porgere il loro aiuto nei lazzaretti, gli altri nelle case particolari, questi in una e quegli in un’altra famiglia. Alcuni poi giravano all’intorno per esplorare, se vi fossero malati non ancora conosciuti; altri rimanevano a casa, per essere ognora pronti alla prima chiamata. » Appena si seppe che i giovani dell’Oratorio eransi consacrati alla cura ed assistenza dei colerosi, e che riuscivano eccellenti infermieri, le domande per averli si moltiplicarono talmente, che dopo una settimana si dovette rinunziare allo stabilito orario. Parenti, vicini, conoscenti, Municipio, tutti facevano capo a D. Bosco, così che si può dire che i giovani erano sempre in moto. Alcuni giorni avevano appena tempo a prendere un boccone di

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pane, e talvolta in fretta nella casa stessa del coleroso. Di notte poi era un continuo andirivieni, e chi si levava e chi si coricava, e parecchie furono le notti che passarono insonni o presso gli infermi, o vegliando senza un bricciolo di riposo, ma sempre lieti e contenti. » Da principio, prima di recarsi al caritatevole uffizio, ciascuno si muniva di una boccetta di aceto, o di una dose di canfora e simili; ritornato poscia a casa si lavava e profumava, per disinfettarsi; ma in appresso questa operazione si sarebbe dovuta fare così di sovente, che fu d’uopo darle il bando, per non perdere tempo. Allora ad altro più non pensarono che ai loro poveri infermi, lasciando la cura di se stessi alla divina Provvidenza. » Nè in quei dolorosi frangenti l’opera dell’Oratorio fu solamente personale; poichè, quantunque poveri, poterono nondimeno provvedere anche materialmente a molti malati.(T. BOSCO, Storia di un prete, ELLE DI CI, Torino-Leumann 1988, pp. 204-206)

pRovocazione » Il colera è emblema non solo della malattia fisica ma della malattia sociale che isola e fa morire

nell’abbandono. Don Bosco ne coglie la gravità distruttiva sia a livello individuale che comunitario. Si rende protagonista e motore travolgente di carità che coinvolge creando l’antidoto nell’atteggiamento diametralmente opposto, la vicinanza, la presenza, la custodia dei suoi piccoli ma temerari seguaci. è la follia dei santi che coinvolgono altri là dove il bisogno interpella non solo dal punto di vista materiale ma pure nelle pieghe dello spirito che languisce nella solitudine, nel non senso, nella disperazione. Oggi come allora, o forse più di allora, la malattia è subdola perché non visibile, non colta come distruttiva, ma ugualmente isolante, via al non senso ed alla disperazione.Qui don Bosco è ulteriormente attuale e interpellante provocatorio. Vocazione al “dammi le anime prenditi tutto il resto”.

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per la SCelTa » Il “Da mihi animas, cetera tolle” porta […] alla sorgente dell’essere consacrati, in particolare al cuore della missione, che altro non è che l’essere totalmente presi da Dio così da diventare sua presenza trasfigurante tra i giovani. La passione per Dio e la passione per l’umanità, che la vita consacrata si sente oggi chiamata a suscitare, trova nel programma di Don Bosco del “Da mihi animas” una perfetta traduzione salesiana.

» programma di vita di don Bosco e del salesiano. Nel “Da mihi animas, cetera tolle” noi figli di Don Bosco troviamo il motivo e il metodo per affrontare l’attuale sfida culturale con lucidità e coraggio.Il “Da mihi animas” pone al centro della vita del consacrato salesiano il senso della paternità di Dio, le ricchezze della morte e della resurrezione di Cristo e la potenza dello Spirito, che sono donate ad ogni giovane. Nello stesso tempo sollecita in lui l’ardente desiderio di far conoscere e gustare ai giovani queste loro possibilità, perché abbiano una vita felice, illuminata dalla fede, in questo mondo, e l’abbiano salva per l’eternità. Lo spinge a darsi da fare, a impiegare tutte le forze e tutti i mezzi, anche quando si tratta di un solo giovane, di una sola anima. » Il “cetera tolle” motiva il consacrato salesiano a prendere le distanze da quel “modello liberale” di vita consacrata, descritto nella lettera “Sei tu il mio Dio, fuori di te non ho altro bene”. L’attribuzione della crisi alla cultura imperante, cioè a fattori quali il secolarismo, il consumismo, l’edonismo, non è sufficiente. La vita consacrata storicamente nasce come proposta alternativa, movimento contro-culturale, contestazione e ripresa della fede in situazione di stallo. è la debolezza di motivazioni e di identità di fronte al mondo che oggi la rende fragile. » Il motto programmatico di Don Bosco sintetizza la nostra spiritualità. Esso è valido per tutti i salesiani in ogni stagione della vita. Non solo per coloro che per età o salute si trovano pieni di energia, ma anche per gli anziani o gli ammalati. La passione del Da mihi animas significa il fuoco della carità. Essa non si esprime solo nell’instancabile laboriosità educativa pastorale, ma si manifesta pure nella pazienza e nella sofferenza, che nella croce di Cristo assumono valenza salvifica.

» identità carismatica: lo spirito salesiano. Mi permetto ora una citazione di 120 anni fa che, se non fosse per alcuni termini obsoleti, potrebbe essere scambiata per contemporanea. Si tratta di una fonte esterna a Don Bosco; essa ci offre la lettura che altri facevano della sua opera, rilevando l’identità del carisma del nostro santo fondatore.Si tratta del Card. Vicario di Roma, Lucido Maria Parocchi, che nel 1884 si domandava quale fosse lo specifico della Società salesiana e così rispondeva: «Intendo di parlarvi di ciò che distingue la vostra Congregazione, ciò che forma il vostro carattere; così come i francescani si distinguono per la povertà, i domenicani per la difesa della fede, i gesuiti per la cultura. Essa ha in sé

da Mihi aniMas coeteRa tolle

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qualche cosa che si apparenta a quella dei francescani, dei domenicani e dei gesuiti, ma se ne distingue per l’oggetto e le modalità… Che cosa dunque di speciale vi sarà nella Congregazione Salesiana? Quale sarà il suo carattere, la sua fisionomia. Se ne ho ben compreso, se ne ho ben afferrato il concetto, il suo carattere specifico, la sua fisionomia, la sua nota essenziale, è la carità esercitata secondo le esigenze del secolo: Nos credidimus Charitati. Deus caritas est. Il secolo presente soltanto colle opere di carità può essere adescato e tratto al bene. Il mondo ora null’altro vuole e conosce, fuorché le cose materiali; nulla vuol sapere delle cose spirituali. Ignora le bellezze della fede, disconosce le grandezze della religione, ripudia la speranza della vita avvenire, rinnega lo stesso Dio. Questo secolo comprende della Carità soltanto il mezzo e non il fine e il principio. Sa fare l’analisi di questa virtù ma non sa comporre la sintesi. Animalis homo non percipit quae sunt spiritus Dei: così S. Paolo. Dire agli uomini di questo secolo: “Bisogna salvare le anime che si perdono, è necessario istruire coloro che ignorano i principi della religione, è d’uopo far elemosina per amor di quel Dio che un giorno premierà i generosi”, gli uomini di questo secolo non capiscono. » Bisogna dunque adattarsi al secolo, il quale vola, vola. Ai pagani Dio si fa conoscere per mezzo della legge naturale; si fa conoscere agli Ebrei col mezzo della Bibbia; ai Greci scismatici per mezzo delle grandi tradizioni dei padri; ai protestanti per mezzo del Vangelo; al presente secolo colla carità. Dite a questo secolo: vi tolgo i giovani dalle vie perché non siano colti sotto i tramvai, perché non cadano in un pozzo; li ritiro in un ospizio perché non logorino la loro fresca età in vizi e nei bagordi; li raduno nelle scuole per educarli, perché non diventino il flagello della società, non cadano in una prigione; li chiamo a me e li vigilo perché non si cavino gli occhi gli uni gli altri, e allora gli uomini di questo secolo capiscono e incominciano a credere» (BS 8 – 1884 – n. 6, pp. 89-90). […] » Lo spirito salesiano è anzitutto lo “spirito di Don Bosco”, ossia la vocazione, la vita, l’opera e l’insegnamento del nostro padre […].

passione apostolica: “la gloria di dio e la salvezza delle anime”. La gloria di Dio e la salvezza delle anime furono la passione di Don Bosco. Promuovere la gloria di Dio e la salvezza delle anime equivale a conformare la propria volontà a quella di Dio, che comunica Se stesso come Amore, manifestando in questo modo la sua gloria e il suo immenso amore per gli uomini, che vuole siano tutti salvi. » In un frammento quasi unico della sua “storia dell’anima” (1854), Don Bosco confesserà il suo segreto circa le finalità della sua azione: «Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi aiuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita. Così sia». » In Don Bosco la santità rifulge dalle sue opere, ma le opere sono solo l’espressione della sua fede. Non sono le opere in sé che fanno l’apostolo, come ci dice Paolo: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità …non sono nulla» (1 Cor 13,1); ma è certamente

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una fede ravvivata dalla carità operosa che rende santo l’apostolo: “Dai frutti conoscerete le sue opere” (cf. Mt 7,16.20). » Alla “vita in Dio” e alla “unione con Dio”, reale e non solo psicologica, sono invitati tutti i cristiani. Unione con Dio è vivere in Dio la propria vita; è stare alla Sua presenza; è partecipazione alla vita divina che è in noi. Don Bosco fa della rivelazione di Dio la ragione della propria vita, secondo la logica delle virtù teologali: con una fede che diventa segno affascinante per i giovani, con una speranza che diventa parola luminosa per loro, con una carità che diventa gesto di amore verso i medesimi. » Don Bosco è sempre stato fedele alla sua missione di carità effettiva. Là dove un misticismo spurio avrebbe tagliato i ponti con la realtà, la fede lo ha obbligato a restare in trincea per estrema fedeltà ai giovani bisognosi. Là dove poteva subentrare stanchezza e rassegnazione, lo sorresse la via indicata da Paolo: Caritas Christi urget nos (2 Cor 5,14) La sua carità non si è mai arrestata di fronte alle difficoltà: “Mi sono fatto tutto a tutti per salvare ad ogni costo qualcuno” (1 Cor 9,22). Non temeva le sconfitte in campo educativo, ma l’inerzia e il disimpegno. » In Don Bosco si ha una teologia spirituale attiva; egli tende all’azione sotto lo stimolo dell’urgenza e della coscienza di una missione divina. La scelta dell’operosità offre al suo modo di interpretare l’ascesi un’accentuazione particolare: essa è solo in vista dell’azione apostolica. Se in S. Alfonso l’ascesi è soprattutto interna all’uomo, in Don Bosco acquista senso in relazione al lavoro: essa consiste nell’impegnarsi nelle opere che Dio assegna da compiere. » In Don Bosco si scopre il senso della relatività delle cose e contemporaneamente della loro necessaria utilizzazione per lo scopo che gli sta a cuore. Egli preferisce non attaccarsi rigidamente a certi schemi; meglio dunque una lettura più pratica, pastorale, spirituale, che teologico-speculativa. In lui la passione apostolica ha una sua specificità: la salvezza è da ottenere con i metodi dell’amorevolezza, della mitezza, allegria, umiltà, pietà eucaristica e mariana, della carità verso Dio e gli uomini.

» da mihi animas. Per Don Bosco la prima parte del motto, “Da mihi animas”, esprime dunque lo zelo per la salvezza delle anime, che si concretizza nella urgenza di evangelizzare e nella necessità di convocare vocazioni alla vita consacrata salesiana […]. » cetera tolle. Per Don Bosco la seconda parte del motto, “cetera tolle”, significa il distacco da quanto ci può allontanare da Dio e dai giovani. Per noi oggi esso si concretizza nella povertà evangelica e nella scelta di andare incontro ai giovani più “poveri, abbandonati e pericolanti”, essendo sensibili alle nuove povertà e collocandoci nelle nuove frontiere dei loro bisogni.

educare con il cuore di don Bosco. Educare con il cuore di Don Bosco significa, per l’educatore, coltivare prima e far sgorgare poi dall’interno del proprio cuore “ragione, religione, amorevolezza”, facendo dell’amorevolezza la punta di diamante, l’attuazione pratica di quanto religione e ragione propongono. Si tratta di vivere il Sistema Preventivo, che è una carità che sa farsi amare (cf. Cost. SDB 20), con una rinnovata presenza tra i giovani,

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fatta di vicinanza affettiva ed effettiva, di partecipazione, accompagnamento e animazione, di testimonianza e proposta vocazionale, nello stile dell’assistenza salesiana. Occorre una rinnovata scelta, soprattutto a favore dei giovani più poveri e a rischio, individuando le loro situazioni di disagio visibile o nascosto, scommettendo sulle risorse positive di ogni giovane, anche il più logorato dalla vita, impegnandosi totalmente per la loro educazione. » “L’amore di Don Bosco per questi giovani era fatto di gesti concreti e opportuni. Egli si interessava di tutta la loro vita, riconoscendone i bisogni più urgenti e intuendo quelli più nascosti. Affermare che il suo cuore era donato interamente ai giovani, significa dire che tutta la sua persona, intelligenza, cuore, volontà, forza fisica, tutto il suo essere era orientato a fare loro del bene, a promuoverne la crescita integrale, a desiderarne la salvezza eterna. Essere uomo di cuore, per Don Bosco, significava quindi essere tutto consacrato al bene dei suoi giovani e donare loro tutte le proprie energie, fin l’ultimo respiro!”[2] » Per comprendere la rinomata espressione di Don Bosco “l’educazione è cosa di cuore e Dio solo ne è il padrone” (MB XVI, 447)[3] e per capire quindi il Sistema Preventivo, mi sembra importante sentire uno dei più riconosciuti esperti del Santo educatore: “La pedagogia di Don Bosco s’identifica con tutta la sua azione; e tutta l’azione con la sua personalità; e tutto Don Bosco è raccolto, in definitiva, nel suo cuore”.[4] Ecco la sua grandezza ed il segreto del suo successo come educatore: Don Bosco ha saputo armonizzare autorità e dolcezza, amore di Dio e amore dei giovani.CHAVEZ P., Da mihi animas, coetera tolle, ACG n. 394, luglio - settembre 2006.

vocazione e via di santificazione. Non c’è dubbio che quello che spiega la capacità dell’educazione salesiana di attraversare i tempi, di inculturarsi nei contesti più variegati e di rispondere ai bisogni e alle attese sempre nuove dei giovani è l’originale santità di Don Bosco. » Una felice combinazione di doni personali e circostanze portarono Don Bosco a diventare “Padre, Maestro e Amico della gioventù”, come nel 1988 lo proclamò Giovanni Paolo II: il suo talento innato per avvicinare i giovani e guadagnare la loro fiducia, il ministero sacerdotale che gli diede una conoscenza profonda del cuore umano e una esperienza dell’efficacia della grazia nello sviluppo del ragazzo, un genio pratico capace di realizzare le intuizioni in forme semplici, la lunga permanenza tra i giovani che gli consentì di portare le ispirazioni iniziali a pieno sviluppo. » Alla radice di tutto c’è una vocazione. Per Don Bosco il servizio ai giovani fu la risposta generosa ad una chiamata del Signore. La fusione tra santità ed educazione, per ciò che riguarda impegni, ascesi, espressione dell’amore, costituisce il tratto originale della sua figura. Egli è un santo educatore e un educatore santo.[...]amore preveniente. Uno dei messaggi da raccogliere riguarda certamente la prevenzione, la sua urgenza, i suoi vantaggi, la sua portata e quindi le responsabilità coinvolte. Oggi essa si va imponendo con dati sempre più chiari e allarmanti, ma assumerla come principio ed attuarla efficacemente non è scontato nell’evoluzione attuale delle nostre società. Purtroppo questa non è la cultura prevalente. Anzi!

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» Eppure la prevenzione costa di meno e rende di più del solo contenimento della devianza e del recupero tardivo. Consente infatti alla maggioranza dei giovani di essere liberi dal peso delle esperienze negative, che mettono a repentaglio la salute fisica, la maturazione psicologica, lo sviluppo delle potenzialità, la felicità eterna. Consente pure loro di sprigionare le migliori energie, di approfittare al meglio dei percorsi più sostanziosi dell’educazione, di recuperarne altri nei primi passi di un eventuale cedimento. Fu questa la conclusione di Don Bosco, dopo l’esperienza con i ragazzi del carcere e il contatto con la manovalanza giovanile di Torino. » La prevenzione, da azione quasi poliziesca tendente a custodire l’ordine della società, divenne per lui qualità intrinseca e fondamentale dell’educazione. Essa era preventiva per la tempestività, ma anche per i contenuti e per le modalità. Doveva anticipare il sorgere di situazioni e di abitudini negative, materiali o spirituali; doveva contemporaneamente moltiplicare le iniziative che orientano le risorse ancora sane della persona verso progetti allettanti e validi. Egli era convinto che il cuore dei giovani, di ogni giovane, è buono, che persino nei ragazzi più disgraziati ci sono semi di bene e che compito di un saggio educatore è di scoprirli e svilupparli. Bisognava dunque creare una situazione generale positiva circa l’ambiente di famiglia, gli amici, le proposte, le conoscenze, che stimolasse la consapevolezza di sé, allargasse la conoscenza del mondo reale, desse il senso della vita e il gusto del bene. » Basterebbe pensare alla storia di Michele Magone, il “generale della ricreazione” alla stazione di Carmagnola, al quale Don Bosco offre prima la sua amicizia, quindi un microclima educativo nell’Oratorio di Valdocco, poi la sua guida competente (“Caro Magone, io avrei bisogno che mi facessi un piacere, … che tu mi lasciassi un momento padrone del tuo cuore”), sino a fargli trovare in Dio il senso della vita e la sorgente della vera felicità (“Oh quanto mai io sono felice!”) e a farlo diventare un modello per i giovani di ieri e di oggi. » Uno dei problemi delle nostre società oggi è l’insufficienza [...] » L’educazione, soprattutto dei ragazzi svantaggiati, più che problema di occupazione e qualificazione professionale, è principalmente questione di vocazione. Don Bosco fu un carismatico e un pioniere. Oltrepassò legislazioni e prassi. Creò tutto ciò che è legato al suo nome, spinto da uno spiccato senso sociale, ma attraverso una iniziativa autonoma, frutto di una vocazione. E forse oggi l’esigenza non è diversa: mettere a frutto le energie disponibili, favorire le vocazioni educative e appoggiare progetti di servizio. » L’efficacia preventiva dell’educazione risiede nella sua qualità. La complessità della società, la molteplicità di visioni e di messaggi che vengono offerti, la separazione dei diversi ambiti in cui si svolge la vita, hanno comportato rischi anche per l’educazione. Uno di questi è la frammentazione dei contenuti che si offrono e della modalità con cui si ricevono. Viviamo di pillole anche mentali. Lo slogan è il modello dei messaggi.[...] » Fu criterio di Don Bosco sviluppare quanto il giovane si porta dentro come spinta o desiderio positivo, mettendolo a contatto anche con un patrimonio culturale fatto di visioni, costumi, credenze, offrendogli la possibilità di un’esperienza profonda di fede, inserendolo in una realtà sociale della

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quale si sentisse parte attiva attraverso il lavoro, la corresponsabilità nel bene comune, l’impegno per una convivenza pacifica. Egli espresse ciò in formule semplici, che i giovani potevano capire ed assumere: “buoni cristiani e onesti cittadini”, “sanità, sapienza, santità”, “ragione e fede”. » I vantaggi personali acquisiti attraverso l’educazione erano finalizzati alla loro valorizzazione sociale in forma solidale e critica; il vivere con onesta prosperità in questo mondo era collegato con la dimensione spirituale, trascendente, cristiana; l’istruzione e la preparazione professionale erano uniti a una visione cristiana della realtà, alla formazione della coscienza, all’apertura verso i rapporti umani [...].Linguaggio del cuore. Anche il linguaggio del cuore è cambiato non poco dai tempi di Don Bosco. Eppure da lui vengono indicazioni che nella loro semplicità sono vincenti, se si trova la maniera di renderle operative. Una di tali indicazioni è: “amateli i ragazzi”. “Si otterrà di più – leggiamo nella cosiddetta “Lettera sui castighi” – con uno sguardo di carità, con una parola di incoraggiamento che con molti rimproveri” (MB XVI, 444).[6] » Amarli vuol dire accettarli come sono, spendere tempo con loro, manifestare voglia e piacere di condividere i loro gusti e i loro temi, dimostrare fiducia nelle loro capacità, e anche tollerare quello che è passeggero e occasionale, perdonare silenziosamente quello che è involontario, frutto di spontaneità o immaturità. Era questo il pensiero di Don Bosco: “Tutti i giovani hanno i loro giorni pericolosi, e voi anche li avete. Guai se non ci studieremo di aiutarli a passarli in fretta e senza rimprovero” (MB XVI, 445).[7] » C’è una parola, non molto usata oggi, che i salesiani conservano gelosamente perché sintetizza quanto Don Bosco acquisì e consigliò sul rapporto educativo: l’amorevolezza. La sua sorgente è la carità, come la presenta il Vangelo, per cui l’educatore scorge il progetto di Dio nella vita di ogni giovane e lo aiuta a prenderne coscienza ed a realizzarlo con lo stesso amore liberante e magnanimo con cui Dio l’ha concepito. Amorevolezza è amore percepito ed espresso. » L’amorevolezza genera un affetto che viene manifestato a misura del ragazzo, particolarmente di quello più povero; è l’approccio fiducioso, il primo passo e la prima parola, la stima dimostrata attraverso gesti comprensibili, che favoriscono la confidenza, infondono sicurezza interiore, suggeriscono e sostengono la voglia di impegnarsi e lo sforzo di superare le difficoltà. » Va maturando così, non senza difficoltà, un rapporto sul quale conviene portare l’attenzione quando si prospetta una traduzione delle intuizioni di Don Bosco nel nostro contesto. è un rapporto segnato dall’amicizia, che cresce fino alla paternità. » L’amicizia va aumentando con i gesti di familiarità e di essi si nutre. A sua volta fa nascere la confidenza. E la confidenza è tutto nell’educazione, perché soltanto nel momento in cui il giovane ci apre le porte del suo cuore e ci affida i suoi segreti è possibile interagire. L’amicizia ha per noi una manifestazione molto concreta: l’assistenza. » Non è possibile comprendere la portata dell’assistenza salesiana dal significato che il dizionario o il linguaggio attuale danno alla parola. è un termine coniato all’interno di un’esperienza e riempito di significati e applicazioni originali. Essa comporta un desiderio di stare con i ragazzi: “Qui

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con voi mi trovo bene”. è presenza fisica lì dove i ragazzi si intrattengono, scambiano esperienze o progettano; e, allo stesso tempo, è forza morale con capacità di comprensione, risveglio e incoraggiamento; è anche orientamento e consiglio secondo il bisogno dei singoli. » L’assistenza raggiunge il livello della paternità educativa, che è più dell’amicizia. è una responsabilità affettuosa ed autorevole che offre guida e insegnamento vitale ed esige disciplina ed impegno. La paternità educativa è amore ed autorevolezza. » Essa si manifesta soprattutto nel “saper parlare al cuore” in maniera personale, perché in tal modo si raggiunge ciò che occupa la mente dei ragazzi, si svela la portata degli avvenimenti della loro vita, si fa loro comprendere il valore dei comportamenti e dei sentimenti, toccando la profondità della coscienza. » Non parlare molto, ma in modo diretto; non in forma agitata, ma chiara. Ci sono nella pedagogia di Don Bosco due esempi di questo modo di parlare: “la buona notte”, quella parola rivolta a tutti che alla fine della giornata dava il senso di ciò che si era vissuto, e “la parolina all’orecchio”, quella parola personale che veniva lasciata cadere in momenti informali di ricreazione. Sono due momenti carichi di emotività, che riguardano sempre eventi concreti e immediati e che consegnano una sapienza quotidiana per affrontarli; insomma aiutano a vivere e insegnano l’arte di vivere. » Amicizia, assistenza e paternità creano il clima di famiglia, dove i valori diventano comprensibili e le esigenze accettabili. Così si traccia il confine tra l’autoritarismo, che rischia di non influire pur ottenendo risultati formali, e l’assenza di proposte; tra l’invadenza, che non lascia spazio al libero esprimersi, e la latitanza educativa, che non si impegna nel trasmettere valori; tra il cameratismo e la responsabilità dell’adulto. » Le manifestazioni della paternità di Don Bosco hanno avuto luogo in un contesto marcato dal carattere esemplare della famiglia patriarcale. I suoi ruoli servivano come punto di riferimento per tutti i tipi di autorità: civili, imprenditoriali, educativi. Tutto allora era “familiare”: l’educazione, l’impresa, l’economia. Era un assioma indiscusso che l’educatore dovesse assumere una “fisionomia paterna”. » Anche per noi la paternità ha un significato ancora insostituibile: è un amore che dà la vita e si fa responsabile del suo sviluppo, vuole bene di cuore, parla opportunamente, attende la maturazione, consente l’autonomia, accoglie con gioia il ritorno. » Prevenzione, proposta, rapporto si congiungono negli ambienti “giovanili”. I ragazzi hanno bisogno di esprimere la loro vitalità, quello che internamente vanno sentendo, accettando ed elaborando. I giovani debbono provarsi nella responsabilità, nella realizzazione dei valori che enunciano, nella solidarietà, nell’autogestione. » Per un educatore salesiano il “luogo educativo” della conoscenza del giovane non è principalmente il test psicologico, ma il cortile, lì dove egli si esprime spontaneamente. L’incontro educativo non è principalmente quello formale, ma quello spontaneo. Il cammino di crescita del giovane sta certamente nel rispetto delle norme e nella docilità all’educatore, ma molto di più esso si trova nella capacità di partecipare con gioia alle iniziative e alla vita che si creano nel gruppo, nella cooperativa, nella comunità giovanile, dove gli educatori hanno il non facile compito di motivare, spingere ed

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note

incoraggiare, aprire spazi, favorire la creatività. » Le opere, che anche oggi si rifanno a Don Bosco, presentano le caratteristiche che egli diede ai suoi ambienti. Esse cercano di rispondere alle necessità dei giovani con un programma concreto e potenzialmente integrale: insegnamento, alloggio, educazione al lavoro, tempo libero. Aggregano anche gli adulti, specialmente se appartengono ai settori popolari o sono interessati ad aiutare i giovani. Sono “aperte” e non esclusive. Lavorano in rete, in collegamento con le istituzioni, il territorio, il popolo e le autorità. » Oggi si sente l’urgenza di “spazi” per i giovani: piccoli, medi e grandi. Valga l’esempio delle discoteche e dei gruppi. C’è in agguato il male della solitudine, che è all’origine di molte devianze. L’analisi educativa ha colto nel segno quando, senza rigidità, ha fatto una distinzione tra luoghi istituzionali, organizzati per finalità precise, e luoghi vitali, aperti all’espressione spontanea, alla ricerca di senso, ai progetti, alla creatività: luoghi dell’obbligo e luoghi di propria scelta; luoghi imposti e luoghi della vita. Lo spazio ideato da Don Bosco è una sintesi dei due: così nel fluire della vita quotidiana si superano le dicotomie in cui si dibatte l’educazione.CHAVEZ P., Educhiamo con il cuore di don Bosco, ACG n. 400, gennaio - marzo 2008.

1 BS 8 – 1884 – n. 6, pp. 89-902 Cf. G. BOSCO, Piano di regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco. Introduzione, in P. BRAIDO (Ed.), Don Bosco Educatore. Scritti e Testimonianze. Roma, LAS 1997, p. 111.3 P. RUFFINATO, Educhiamo con il cuore di don Bosco, in “Note di Pastorale Giovanile”, n. 6/2007, p. 9.4 Cf. G. BOSCO, Dei castighi da infliggersi nelle case salesiane, in P. BRAIDO, Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1992, p. 340.5 Cf. P. BRAIDO, Prevenire non reprimere. Il sistema educativo di Don Bosco, LAS, Roma 1999, p. 181.6 Cf. G. BOSCO, Dei castighi da infliggersi nelle case salesiane, in P. BRAIDO, Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1992, p. 335.7 Cf. G. BOSCO, Dei castighi da infliggersi nelle case salesiane, in P. BRAIDO, Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1992, p. 336.

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tRe passi

per L’approfondimento ti suggeriamo come testo per il mese: V. CHIARI, Un Gabbiano

inBicicletta. Don Remo Prandini, LDC Torino Leumann, 1995.

un liBRo

a » Il cortile ed i tempi della ricreazione: lo spazio dell’incontro. Passione ed animazione. Il come è

determinante. (Lettura della lettera di don Bosco da Roma dell’84). B » I più refrattari ad un annuncio e i più soli: “clienti” privilegiati da farsi amici, senza giudizi immediati e taglienti da “piccolo psicologo”. c » I segni di una sofferenza che chiedono una vicinanza: attenzione e confronto con il salesiano che ci è accanto. Il confronto con chi ha più esperienza diventa determinante.

appunti ......................................................................................................................................................................................................................................................

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ViTaCoNSaCraTa

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WlliaM congdonCrocifisso 2olio su faesite 89x591960“L’incontro con Cristo, dopo il 1959, mi fa scoprire che il suo dramma di croce è pure mio.”. Così Congdon si accosta al tema del Crocifisso dopo la propria conversione. La croce e Cristo stesso si fondono, la pittura del corpo è stesa come se si trattasse di legno e il corpo stesso sottintende il legno, ne assume la forma. La morte in croce di Gesù Cristo è avvolta nel Mistero della sua carne, una macchia di luce che prelude alla futura resurrezione, ma che non tralascia di essere profondamente e dolorosamente umana.“é tutta una piatta schiacciata colata di lava secca, ma calpestata, come se il traffico del peccato ci fosse per o dall’eternità passato sopra, finchè il corpo, è diventato macchia. è la strada di Bombey, è il mondo che continuamente schiaccia Cristo. Il bitume delle strada è diventato Cristo, che è diventato bitume per lasciarsi schiacciare fino a colare, nel fuoco dell’amore, oltre qualsiasi confine. Cola ovunque e poi oltre ancora nelle schegge delle ceneri come un bombardamento di odio. E’ tutto un senza confine di peccato eppure, sotto e attraverso la colata, regge la forma, cioè l’immagine redime.”

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1Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: 2si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaele di Cana di Galilea, i figli di Zebedeo e altri due discepoli. 3Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. 4Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. 5Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». 6Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. 7Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «è il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. 8Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. 9Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. 10Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso ora». 11Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatré grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. 12Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. 13Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. 14Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. 15Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». 16Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». 17Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. 18In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». 19Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi».

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L’antefatto Dopo la prima apparizione alla sera di Pasqua e la secondaotto giorni a seguire (dopo questi fatti), per la terza e definitiva volta si manifesta il Signore ai discepoli riuniti insieme. Le tre manifestazioni «graduali» indicano il passaggio da quella riservata ai primi, che «credono perché vedono», a quella rivolta a noi che «non vediamo e crediamo». In mezzo c’è l’esperienza di Tommaso, che sta tra il primo e questo terzo modo di presenza del Risorto. In questo episodio evangelico possiamo riconoscere due parti: la vera e propria manifestazione del Risorto (vv. 1b-14), incorniciata dall’espressione ripetuto a 1b e 14 (manifestarsi ai discepoli); il serrato dialogo di 10 battute tra Gesù e Pietro (v. 15-19).

La manifestazione di Gesù risorto L’azione del manifestare (in greco phaneróo) significa rendere chiaro. Suggerisce un uscire dall’oscurità per venire alla luce: Gesù è ormai sempre presente e «si manifesta così». Questo sarà d’ora innanzi il suo modo di essere con i suoi discepoli. Mentre noi siamo nel mare del mondo a compiere l’opera che ci ha affidato, Luì è già a riva, sulla «terra». Da lì ci assiste e si manifesta nella Parola che rende fruttuosa la nostra pesca e nel banchetto che condivide con noi. Ricostruiamo lo “sfondo” di questa manifestazione, per poi seguire lo sviluppo delle azioni.

Lo “sfondo” deLLa scena Dove?Tale azione di Gesù si compie sul «mare di Tìberiade» (il nome pagano della capitale della Galilea, costruita in nome dell’imperatore Tiberio). Questo incontro con il Risorto non è dunque nel cenacolo, dove i discepoli hanno ricevuto il pane, lo Spirito e la missione. Avviene all’aperto, tra i pagani. A chi?Ai discepoli che, dopo il dono di Pasqua, sono «insieme». Si parla in particolare di sette discepoli. Simon Pietro. Dopo che discepolo e maestro si sono incontrati in tutti momenti salienti della vicenda terrena di Gesù, l’intreccio del loro cammino continua anche in questo racconto (cfr. vv. 1-14) e trova nel finale - come sintesi di tutto il Vangelo - la sua spiegazione (cfr. vv. 15-24).Tommaso, detto Didimo. Tommaso si era dichiarato disposto a morire accanto a Gesù (cfr. 11,16). Nell’ultima cena gli chiede inoltre dove va; e ottiene la risposta; «lo-Sono la via, la verità e la vita» (cfr. 14,5s). Riappare nel racconto precedente come l’incredulo che raggiunge la piena fede, esclamando: «Mio Signore e il mio Dio» (cfr. 20,28).Natanaele, quello di Cana di Galilea. È il vero israelita che, superando i suoi dubbi (cfr. 1,46), per primo riconosce Gesù come Figlio di Dio e re d’Israele (cfr. 1,49).Quelli di Zebedeo. Sappiamo dagli altri Vangeli che sono Giacomo

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e Giovanni (cfr. Mc 1,1), «l’altro discepolo», quello che Gesù amava, autore del quarto Vangelo.Altri due dei suoi discepoli. Chi sono questi due altri discepoli? Inutile chiederselo, perché sono anonimi. Sappiamo che sono due, principio di molti. Rappresentano i discepoli che verranno in seguito, chiamati «altri», come l’altro discepolo, quello che Gesù amava.Quando?Di notte, poiché qualunque giorno rimane notte fino a che non si manifesta la luce del mondo; infatti la notte finisce e viene l’alba con la presenza di Gesù. Con lui inizia il giorno nuovo (cfr. 20,1), che dissolve la tenebra in cui si trovano i discepoli.

Lo sviLuppo deLLe azioni.

Simon Pietro ha un ruolo di preminenza: prende l’iniziativa della pesca (v. 3), si butta nel mare (v. 7b) e tira a riva la rete piena di pesci, senza che si rompa (v. 11). Simon Pietro non ordina agli altri di pescare, per cui gli altri decidono spontaneamente dì andare con lui. Non sono dei subordinati, ma persone in comunione, per libera decisione dello Spirito. Questa comunione tra di loro resta però sterile fino a quando non è comunione con Gesù. L’iniziativa comune di Pietro e degli altri è infatti senza risultato poichè «il tralcio non può portare frutto da se stesso se non dimora nella vite, così anche voi, se non dimorate in me [...]. Chi dimora in me e io in lui fa molto frutto» (cfr. 15,4s). Lui dimora in noi come noi in Lui, se ascoltiamo la sua parola: «Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola; e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui» (cfr. 14,23). Ogni iniziativa apostolica, con tutte le reti e le perizie del mondo, se non scaturisce dalla comunione con il Signore resta infruttuosa. Gesù, ritto in piedi sulla riva, risorto e vivo, ha compiuto la sua missione, è già arrivato a riva. Da lì è presente ai discepoli che continuano la sua missione. Ma questa presenza rimane sterile e lui non è riconosciuto, fino a quando non osservano la sua parola. Egli si rivolge a loro con un appellativo affettuoso (figlioli) e li interroga sulla fatica notturna; chiede poi loro del «companatico». Il «pane» c’è già: è lui, che ha dato se stesso per la vita del mondo. Gesù aveva promesso ai discepoli che avrebbero compiuto le sue opere e anche di più grandi (cfr. 14,12), ma alla sua domanda sul risultato della pesca la loro risposta è un secco «no», pieno di delusione. Gesù allora ordina di gettare la rete da una parte precisa, l’unica che può essere feconda di vita. Per questo ci ha dato un preciso comando, il «suo», offrendoci il potere divino (richiamato dall’espressione «la parte destra»). Solo l’obbedienza a questo comando fa dimorare lui in noi e ci dona la sua vita.Pertanto in obbedienza al «comando» del Signore la loro pesca è abbondante. Nella rete tirata a terra c’è una «moltitudine» di uomini salvati dalle acque, una «pienezza» che abbraccia l’umanità intera. È il molto frutto del tralcio unito alla vite (cfr. 15, 5). Il discepolo che Gesù amava, colui che conosce l’amore di Gesù appare ora esplicitamente, sempre vicino e in contrappunto a Pietro. È lui che notifica a Pietro la presenza del Signore poiché

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solo l’amore vede. La descrizione della reazione di Pietro contiene vocaboli altamente evocativi che saranno ripresi nei vv. 18-19, quando si dirà che anche Pietro, finalmente, può seguire Gesù e diventare come lui. Simon Pietro si cinge la veste e si butta nel mare, come prima era entrato nel sepolcro (cfr. 20,6). Gettarsi in acqua e risalire, nudità e veste, sono allusioni al battesimo. Simon Pietro seppellisce il suo passato, affogando presunzioni e colpe, per risalire a riva e incontrare Gesù. La parola «cingersi» esce nella lavanda dei piedi, quando Gesù si cinge il panno del servo (cfr. 13,4s). Mentre Simon Pietro scompare nell’acqua, gli altri vengono con la barca, portando la moltitudine di pesci a terra, la terra promessa, dove Gesù è già arrivato e i discepoli approdano con il frutto della loro missione. Non si dice che essi vedono Gesù, ma brace con pesce e pane. La brace, evocando il rinnegamento di Pietro (cfr. 18,18), prepara il seguito della scena. Pesce e pane - c’è una sovrimpressione tra Gesù e i doni eucaristici - richiamano il fatto dei pani e dei pesci, quando Gesù anticipò la sua Pasqua (cfr. 6,9-11). Ora i discepoli capiscono il suo discorso fatto nella sinagoga di Cafarnao sul pane di vita (cfr. 6,26-59): Gesù è il pane offerto. La nostra pesca «adesso» è feconda perché abbiamo ascoltato il comando di Gesù. Pietro ora sale dall’acqua dove si è immerso, come Gesù nel suo battesimo (cfr. Mc 1,10) e tira verso la vita la grande moltitudine di uomini, simbolizzati dal gran numero di pesci (153) che riempiono la rete. Come il discepolo amato (v. 7), ora finalmente anche gli altri riconoscono il Signore. È il banchetto della nuova alleanza, che ci salva dal mare dei nostri fallimenti, offrendoci il perdono dei peccati. Lo riconoscono dall’abbondante frutto dell’obbedienza al suo comando, che ci fa partecipare attivamente al dono che lui fa di sé nel suo pasto (cfr. v. 13). Prima Gesù stava ritto a riva: è il Risorto, già arrivato sulla «terra», tornato al Padre e presente ai fratelli. Ora si dice che viene; infatti il Risorto viene a noi nell’eucaristia. Egli è «il Veniente», che di continuo viene a noi nel memoriale del suo amore. L’espressione richiama il dono dei pani e dei pesci (cfr. 6,11 ). «Prendere il pane e dare» sono le parole dell’eucaristia, dove riceviamo il pane del cielo che da vita eterna: chi lo mangia entra in comunione con lui e vive di lui, come lui del Padre (cfr. 6,48-58). È il compimento in noi del dono del Figlio.

iL diaLoGo con pietro

Terminato il pasto consumato insieme, inizia la seconda parte del racconto che, dopo la missione e il banchetto eucaristico, tocca il nodo dei rapporti all’interno della comunità. In questa nuova sezione si esplicita il rapporto di Pietro con Gesù e con i fratelli (vv. 15-19), in particolare con l’altro discepolo (vv. 20-23). Si tratta del servizio di Pietro, della sua sequela e del suo martirio. Il suo ministero è visto in stretta regione con l’altro discepolo, quello che Gesù amava. Abbiamo un dialogo serrato, di dieci battute: tre scambi di tre battute ciascuno, cui segue l’invito conclusivo di Gesù. Tema è il suo ruolo

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di guida e custode dell’unità, già emerso durante la pesca. Dopo il dialogo, centrato sull’amore, c’è la chiamata a seguire il Pastore bello che dà la vita per le pecore. Rimane ancora aperta la ferita del suo triplice rinnegamento, che Gesù aveva predetto (cfr. 13,38); ma questa non è la parola definitiva poiché il suo peccato lo apre a una storia nuova; lo rende capace di capire il mistero del Signore come perdono e della debolezza, propria e altrui, come luogo di maggior amore. iL primo scamBio

Gesù lo chiama con il nome suo e di suo padre, come all’inizio; colpiscono queste parole rivolte a Pietro e a ciascuno di noi che le ascoltiamo poiché fa tenerezza un Dio che si espone e mi chiede: «Mi ami tu?». Gesù usa la parola agapào, che indica l’amore originario e gratuito con il quale Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio (cfr. 3,16), l’amore estremo con il quale Gesù ci ha amati (cfr. 13,1), che è lo stesso con il quale il Padre ama noi (cfr. 15,9). La risposta affermativa di Pietro non si fonda sulla sua sicurezza di dare la vita per Gesù (cfr. 13,37). Si fonda su quanto il Signore sa: gli aveva predetto la sua defezione (cfr. 13,38), ma pure che lo avrebbe seguito più tardi (cfr. 13,36b). Pietro non usa la parola di Gesù (agapào), bensì philéo, che significa essere amico. Non è una semplice variazione stilistica. Il verbo agapào, come già detto, indica l’amore che dà la vita: origine di questo amore è solo lui, il Signore. Quando accettiamo che lui ci lavi i piedi, allora anche noi possiamo amare come lui. Il verbo philéo aggiunge sfumature di amicizia e reciprocità affettiva, ormai possibile perché abbiamo accolto il suo amore assoluto. Pertanto grazie all’esperienza di amore ricevuto, Pietro è associato alla missione del Pastore bello. Per questo il suo ministero sarà contrassegnato da perdono e riconciliazione. La sua preminenza non è nel dominio, ma nel servizio di misericordia e perdono (cfr. 20,21-23). iL secondo scamBio Non basta una volta: la domanda di Gesù sarà ripetuta sem-pre un’altra volta. Gesù infatti ripropone la stessa domanda, trala-sciando il «più di costoro». Pietro, nella sua esperienza di tradimento, è già sufficientemente guarito dalla pretesa di essere meglio degli altri. Però non è ancora guarito dalla sfiducia che gli impedisce di amare. Le parole tra Gesù e Simone di Giovanni sono allora un dia-logo di guarigione. Il vecchio Simone, tanto generoso e volenteroso quanto fragile e presuntuoso, viene alla luce come Pietro; diventa stabile come la Roccia da cui è tratto (cfr. Is 51,1), fratello di colui che è la Pietra (cfr. 1 Cor 10,4), scartata dai costruttori e diventata pietra angolare (cfr. Mc 12,10; At 4,11).Anche la seconda risposta di Pietro è identica alla prima per cui Gesù ribadisce la sua fiducia in lui. Rispetto al v. 15 c’è «pascola» invece di «pasci» e «pecore» invece di «agnelli». Pascolare, termine più ampio di pascere, indica l’azione del pastore che guida il gregge (cfr. Sal 23). Gesù affida a Pietro piccoli e grandi, agnelli e pecore, perché provveda loro il cibo, guidandoli ai pascoli. Pietro è associato al servizio di Gesù, senza però sostituirsi a lui. Non gli dice che è pastore: unico è il Pastore, l’Agnello che ha dato la vita per tutti e a

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tutti. Pietro deve condurre il gregge a quel pascolo dove il Signore è pastore e pastura. iL terzo scamBio

Questa terza volta è sottolineata nella sua diversità dalle altre e richiama il triplice rinnegamento. Gesù ora lo interroga su ciò che due volte Pietro ha affermato: è sicuro di essergli amico (philèo)? Grazie ad esso ha sperimentato il perdono di colui che lo conosce meglio di quanto lui conosca se stesso, perché lo ama più di se stesso. Solo allora è sicuro che nulla lo può ormai separare dall’amore di Dio.Pietro si contrista al ricordo della sua infedeltà. Eppure proprio questa è il fondamento del suo «amare di più», come Gesù gli ha chiesto all’inizio. E’ nella sua infedeltà che sperimenta chi è il Signore, fedele e misericordioso. Alla fine amplia, rispetto alle due precedenti, la propria risposta affermativa. Tu, Signore, sai tutto di me (cfr. Sal 139); e io so che sei tu a dare la vita per me, non io per te; tu sai che io ti rinnego e sai che, nella tua fedeltà a me, anch’io saprò riconoscerti e amarti. per La terza voLta aLLora GLi è confermata La fiducia Gesù quindi predice a Pietro che ora sarà in grado di seguirlo e andare dove lui stesso è andato (cfr. 13,36). Il testo è un contrappunto giovane/vecchio, cingersi/essere cinto, andare/essere portalo, volere/non volere. C’è una differenza tra il precedente Simone, che da giovane si cingeva la veste credendo di andare dove voleva, e il nuovo Simone, che da vecchio sarà cinto della veste da un altro e sarà portalo dove non vuole. È proprio quello il luogo dove prima voleva, ma non poteva andare (cfr. 13,36): è lo stesso dove il suo Signore e Maestro è andato, ponendo la propria vita a servizio dei fratelli. L’invito finaLe di Gesù

Anzitutto interviene il redattore con un suo commento: Gesù ha predetto il martirio del suo discepolo. Come era stato promesso, la Gloria che il Padre ha dato al Figlio, questi l’ha data ai discepoli (cfr. 17,22). Ora anche per Pietro l’andarsene dal mondo non sarà più un morire, ma un glorificare Dio (cfr. 11,4), manifestando in sé il suo amore (cfr. 12,26-33).Quindi, come Filippo all’inizio (cfr. 1,43), ora anche Pietro è chiamato dal Signore a seguirlo. Se prima non poteva (cfr. 13,36), adesso può, perché nel perdono conosce il suo amore. Pietro non è il pastore da seguire, ma l’agnello che segue l’Agnello, fino al martirio. Con la sua testimonianza offrirà ai fratelli il cibo di cui lui stesso si è nutrito. Seguire Gesù è un’espressione che dice in sintesi tutta la vita cristiana: si segue chi si ama, per essere con lui e come lui.

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in sintesi…

Il passo che abbiamo letto ci parla anzitutto della presenza del Risorto, che è vivo ed operante in mezzo a noi nel segno eucaristico del pane offerto e spezzato. Egli è la garanzia che la vocazione e la missione della Chiesa nel mare del mondo non nasce da une mera iniziativa umana, ma dall’obbedienza alla sua parola che salva; si tratta di una missione che ha come unico scopo di condurre gli uomini là dove li vuole l’Agnello-Pastore.Questa sua presenza tuttavia non può essere riconosciuta da tutti, ma solo dal cuore che ama e che cerca il Signore; nel contempo ci provoca all’amore poiché solo chi ama può seguire, come Pietro, l’Agnello-Pastore ovunque egli vuole.

per rifLettere…

Quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Solo l’amore ci rende capaci di riconoscere la presenza di Gesù Risorto e ci fa attenti alla sua parola. Ne sei convinto? Hai mai verificato questa verità nelle varie situazioni della tua vita? Quando hai incontrato qualche momento di prova, percepivi il Signore sempre presente nella tua vita? Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce.L’Eucarestia è la presenza certa e reale del Signore Risorto in mezzo a noi. Come vivi la messa domenicale o quotidiana? La prepari o ti ci accosti con superficialità? Hai con regolarità un momento di preghiera davanti all’Eucarestia? Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene? La vocazione e la missione che ciascuno di noi ha nella Chiesa ha come necessaria premessa questa domanda di Gesù. Senti di essere anzitutto amato e perdonato e, per questo, chiamato? Oppure pensi che la vocazione nasca da una tua scelta, dalla presenza di alcune qualità, dalla ricchezza dei doni che ritrovi nella tua vita?Per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. La disponibilità alla fatica, al sacrificio, a morire a se stessi è necessaria per chi vuol andare con Gesù e mettersi con lui in un serio cammino vocazionale. Quanta fatica sei -realisticamente- disposto a fare per compiere questo percorso? Seguimi. L’imperativo di Gesù è di andare con lui ovunque egli voglia condurci. Sei disposto, nel tuo cammino vocazionale, a lasciarti condurre dove egli vuole? Le tue scelte quotidiane che cosa dicono?

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1Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. 2E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce. 3Ed ecco, apparvero loro Mosè ed Elia, che conversavano con lui. 4Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». 5Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo». 6All’udire ciò, i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. 7Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete». 8Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo.9Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

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iL contesto

Ci troviamo nella seconda sezione del vangelo matteano (capp. 14-28), quando Gesù prende le mosse dalle regioni limitrofe alla Galilea e percorre la strada verso la città santa, che sarà anche il suo cammino di manifestazione attraverso la morte e resurrezione.La scena su cui stiamo meditando è incastonata tra il primo annuncio della passione (cfr. 16 ,21-23) ed il secondo annuncio (cfr. 17,22-23); entrambi si concludono con la non comprensione –da parte rispettivamente di Pietro e dei discepoli- della logica pasquale dell’offerta e della passione di Gesù.L’episodio richiama poi l’epifania divina che apre la prima sezione del Vangelo di Matteo, il Battesimo nel fiume Giordano (cfr. 3,13-17), quando i cieli si aprono ed una voce riconosce l’identità filiale del nazareno.

Gesù (non trasfigurato) prende con sé Pietro e Giacomo e Giovanni e li porta sul monte. Questi tre discepoli, che ora sentono il Padre che chiama il Figlio, nel Getsemani sentiranno il Figlio che chiama il Padre (cfr. 26,37.39). Monte degli Ulivi e Tabor si richiamano a vicenda: qui l’umanità di Gesù rivela la sua divinità, là la divinità mostra la sua umanità. Le azioni di Gesù. Secondo il testo greco Gesù compie una «metamorfosi», che significa cambiar forma, trasformarsi: qui l’umanità assume forma e splendore divino; lascia trasparire la Gloria del Figlio poiché questa è la destinazione di ogni uomo nel Figlio dell’uomo che ora brilla come il sole. La luce è infatti il simbolo più appropriato di Dio; principio di creazione e conoscenza, fa essere ogni cosa quello che è e la fa vedere per quello che è. Ma è anche sorgente di gioia, segno dell’amore che rende luminosi. II Figlio brilla della luce stessa di Dio, primizia della creazione nuova: come tutto è fatto attraverso lui, in lui e per lui, così tutto partecipa della sua medesima sorte nella luce (cfr. Col 1,16.12). Pertanto non solo il nostro spirito, ma anche il nostro corpo e per il Signore, destinato alla risurrezione (cfr. 1 Cor 6,13s). Accanto a Gesù (trasfigurato) compaiono Mosè ed Elia che conversavano con lui. Il mediatore della legge e il padre dei profeti conversavano con lui. Inoltre Mosè ed Elia non gustarono la morte: l’uno fu trasportato in cielo su un carro di fuoco (cfr. 2Re 2,lss); l’altro, che parlò con Dio faccia a faccia, secondo la tradizione fu rapito da un suo bacio sulla bocca.

Nell’esclamazione di Pietro, che vuole fermarsi sul monte e fare tre tende, vediamo come egli abbia colto la bellezza originaria che si diffonde da Gesù trasfigurato. La legge, data tramite Mosè, è la prima tenda di Dio tra gli uomini; la profezia, iniziata con Elia, è la seconda tenda di Dio tra gli uomini; la carne di Gesù è la tenda definitiva di Dio in mezzo a noi (cfr. Gv 1,14).

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Le azioni del cielo. Di Dio non conosciamo il volto, ma la Parola. La nube luminosa richiama Dio stesso che guidò Israele nel deserto (cfr. Es 14,20) ed è segno della sua presenza (cfr. Es 19,16; 24,15s;). La manifestazione di Dio è sempre oscura per eccesso di luce accecante - quasi che rivelandosi Dio si veli, e velandosi si riveli, come sulla croce. La nube inoltre è principio di vita: la pioggia è benedizione e fecondità.Da questa nube esce una voce eloquente. Questi. È l’uomo Gesù, che Pietro ha riconosciuto come il Cristo e il Figlio di Dio, ma non ancora come il Figlio dell’uomo sofferente. E’ il Figlio mio. Richiama il salmo 2,7, che parla dell’intronizzazione regale. Gesù, che va a Gerusalemme e sarà crocifisso, è il Messia, il Figlio del Dio vivente. L’amato. Richiama il sacrificio di Isacco (cfr. Gen 22,2.12.16). Gesù è il Figlio in quanto sarà sacrificato: conoscendo l’amore del Padre, darà la vita per i fratelli. In cui mi compiacqui. Richiama il Servo di JHWH (cfr. Is 42,1). Il Padre riconosce Gesù come Figlio, proprio perché si fa servo dei fratelli. Ascoltate lui! Gesù è lui stesso la Parola fatta carne, volto del Padre rivolto ai fratelli; chi ascolta lui diventa come lui, figlio.

in epiLoGo

Cosa sia la trasfigurazione, è difficile descriverlo, anche per i discepoli che l’hanno vista e che, storditi dall’eccesso del divino, cadono a terra e devono essere risvegliati da Gesù. Due cose però sono chiare: il fine e il principio. Il fine è dire: «È bello per noi essere qui!». Il principio è: «Ascoltate lui». Chi ascolta Gesù, diventa come lui, l’albero buono che fa il frutto buono (cfr. 7,18). L’ascolto della sua parola è l’accoglienza del seme, che cresce in noi e ci genera secondo la sua specie; la trasfigurazione pertanto comincia quando, invece di pensare e ascoltare noi stessi, ascoltiamo lui e pensiamo a lui. È la morte dell’uomo vecchio e la nascita dell’uomo nuovo; questo ascolto fa passare dalle opere della carne al frutto dello Spirito. Una cosa però è certa: prima che Gesù sia «risvegliato dai morti», i discepoli non possono parlare della trasfigurazione. La Gloria infatti resta segreta prima della croce (cfr. 16,28), che a sua volta è incomprensibile prima della risurrezione.

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in sintesi...

Il Mistero della trasfigurazione del Signore, collegato alla divina manifestazione del Battesimo ed alla Pasqua di morte e risurrezione, ci dice due verità; da un lato il destino della nostra esistenza è partecipare con la totalità della nostra persona (il nostro corpo, la nostra storia) alla vita luminosa e senza fine che Gesù risorto ha preparato per noi in Paradiso; dall’altro questo destino di gloria, che pure si intravede nella storia, per fiorire deve passare attraverso l’oscurità della croce.

per rifLettere…

Li condusse in disparte, su un alto monte. Gesù ci invita all’intimità con lui per rivelare chi egli sia realmente e quale destino ci attende. Coltivi una vera intimità con Gesù, in cui egli ti parla e ti fa scoprire i doni che ha preparato per te? Oppure la tua preghiera e la tua frequentazione eucaristica è superficiale e non dà un vero contatto con Cristo? Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo.Il Padre vuole che ascoltiamo Gesù poiché il suo corpo, la sua storia, sono la manifestazione di Dio nella vicenda umana. A che punto sei nell’ascolto della Parola di Dio? E’ per te una pratica regolare? Ti fai aiutare da qualcuno per imparare la lectio divina? Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti. Il mistero di Cristo si comprende solo a partire dall’oscurità della sua morte in cui brilla la luce della risurrezione. Sei disponibile a prendere la tua croce quotidiana? Nei momenti di fatica (o addirittura di oscurità) perseveri nella fede o vacilli? Hai mai sperimentato nella tua vita come la croce sia sempre seguita da un momento di risurrezione, di pace, di comprensione maggiore dell’amore di Dio per te? Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia. Nella Chiesa esiste una forma di vita (quella consacrata secondo i voti di obbedienza, povertà e castità) che è testimonianza qui ed ora della luce della Pasqua: una vita crocifissa con Cristo (nel dono totale di sé) per far vedere ai fratelli la bellezza dell’appartenere a lui e dell’essere in intimità con lui. Come senti questa forma di vita rispetto alla tua persona? E’ una cosa del tutto estranea o pensi che potrebbe corrisponderti?

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note o Sisifo è un personaggio della mitologia greca, fondatore e primo re di Corinto. In tutti i miti che lo riguardano, appare come il più scaltro dei mortali e il meno scrupoloso anche nello sfidare gli dei. A causa della sua arroganza, fu condannato a spingere un masso dalla base alla cima di un monte. Tuttavia, ogni volta che raggiungeva la vetta, il masso rotolava nuovamente alla base del monte, ricominciando per l’eternità da capo la sua scalata.

La retorica allegra della convivenza dell benessere sta quotidianamente facendo

i conti con la propria menzogna e con le numerose vittime che semina dietro di sé. Un vivere con la fatica che passa sempre all’incasso, con una sofferenza sempre in agguato, con un presente fugace nelle sue gioie ed interminabile nelle sue tristezze, rende insopportabile la leggerezza festaiola di troppi falsi profeti.La vita consacrata è profezia di una felicità che dà senso alla fatica, di una resurrezione che accende di amore il dolore crocifisso. Solo grazie al Vangelo e ai suoi testimoni il tempo sa di essere nato nell’eternità dell’Amore, e l’eternità è annunciata come meta risorta del tempo.La buona novella libera l’uomo dalla china di Sisifo, là dove la vita, ridotta all’apparente gaiezza di un gioco senza fine, non tarda a mutarsi in crudele condanna ad una fatica senza senso.

Il postmoderno è il momento in cui il moderno dissolvimento dell’identità vincolata raggiunge il suo compimento: adesso scegliersi un’identità è fin troppo facile. Tenersela stretta invece non lo è. Nell’istante in cui raggiunge il suo trionfo supremo la liberazione annulla lo scopo. Quanto più libera è la scelta tanto meno la si riconosce come tale. La scelta manca di consistenza e solidità. è possibile rimangiarsela con poco preavviso o senza alcun preavviso e non è vincolante per nessuno. Nemmeno per chi l’ha compiuta. Non lascia tracce. Non dà diritti né responsabilità e ciò che ne deriva può essere rifiutato o sconfessato a piacimento non appena si rivela sgradito o cessa di soddisfare. La libertà ci si ritorce contro come arbitrarietà. L’elogiata capacità di mettere in moto le cose ha dato ai cercatori d’identità postmoderni la forza di Sisifo. La postmodernità diventa uno stato di arbitrarietà nell’istante in cui diventa chiaro quanto sia irreparabile. Niente è impossibile tanto meno impensabile. Tutto ciò che è, è provvisorio. Niente di ciò che è stato vincola ciò che è. E ciò che è ha solo una debole presa sul futuro... SVENDSEN L.F.H. , Filosofia della noia, Guanda, Parma 2004.

oggi

pRovocazione

il Ballo ossessivo di sisifo

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Il fioretto per domani sia: Darò un buon consiglio ad

un mio compagno. Vi sono mille occasioni per esercitare quest’opera di carità. Se un negligente, un mormoratore, uno un po’ libero nelle parole, un rizzoso avesse al fianco chi gli dicesse una buona parola, quanto male sarebbe impedito, quanto bene di più si farebbe. Consigliare una visita in chiesa, di andarsi a confessare, di fare una buona lettura, quante volte è il principio dell’eterna salvezza di un giovane! Chi poi riceverà il consiglio lo riceva in buona parte. Un buon consiglio non si può avere sempre e noi dobbiamo crederci fortunati quando lo possiamo avere. Se qualcuno di voi lo darà a me, mi farà un gran piacere e gli prometto eterna gratitudine. Io intanto lo darò anche a voi. Ne darò uno in generale ed uno in particolare a ciascheduno. Il generale si è questo: Ad quid venisti? S. Bernardo quando ebbe abbandonata la sua casa paterna per ritirarsi a far vita santa in un convento, scrisse in tutti i luoghi pei quali doveva passare: Ad quid venisti? Questo pensiero era il suo continuo conforto nei momenti di scoraggiamento, di tentazione: son venuto per guadagnarmi il Paradiso; dunque avanti. Ecco il mio consiglio. Scrivete in un angolo di un qualche libro o quaderno queste parole: Ad quid venisti? E pensate: Ad quid venisti in questo mondo? Per amare e servire Iddio e guadagnarti il paradiso. Se fai altrimenti sei fuori di riga. Ad quid venisti in questo Oratorio? Son venuto per studiare, per fare profitto nella scienza e nella pietà, per conoscere quale sia la mia vocazione: se non faccio questo profitto il mio tempo è perduto. MB VI, 319. » Il 9 dicembre adunque 1859 si radunarono. Invocato colle solite preghiere il lume dello Spirito Santo e l’assistenza di Maria SS., fatto cenno di ciò che aveva esposto nelle precedenti conferenze, D. Bosco descrisse che cosa fosse una congregazione religiosa, la bellezza di questa, l’onore immortale di chi si consacra tutto a Dio, la facilità di salvare l’anima propria, il cumulo inestimabile di meriti che si può acquistare coll’obbedienza, la gloria immarcessibile e la doppia corona che attende il religioso in paradiso. » Quindi con visibile commozione annunziò essere venuto il tempo di dare forma a quella Congregazione, che da tanto tempo egli meditava di erigere e che era stato l’oggetto principale di tutte le sue cure; che Pio IX aveva incoraggiata e lodata; che già esisteva coll’osservanza delle regole tradizionali, benchè non ancora dichiarate obbligatorie in coscienza, alla quale la massima parte di loro apparteneva almeno in ispirito e alcuni per promessa o voto temporaneo. Aggiunse che in tale Congregazione sarebbero stati ascritti solamente coloro, che, dopo matura riflessione, avessero intenzione di emettere a suo tempo i voti di castità, povertà ed obbedienza. MB VI, 333.

SaleSiaNopeR la felicità nel teMpo e nell’eteRnità

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» La nostra società sarà forse tra non molto definitivamente approvata e perciò io avrei bisogno di parlare ai miei amati

figli con frequenza. La qual cosa non potendo fare sempre di persona procurerò almeno di farlo per lettera. » Comincerò adunque dal dire qualche cosa intorno allo scopo generale della Società e poi passeremo a parlare altra volta delle osservanze particolari della medesima. » Primo oggetto della nostra Società è la santificazione dei suoi membri. Perciò ognuno nella sua entrata si spogli di ogni altro pensiero, di ogni altra sollecitudine. Chi ci entrasse per godere una vita tranquilla, aver comodità a proseguir gli studii, liberarsi dai comandi dei genitori, od esimersi dall’obbedienza di qualche Superiore, egli avrebbe un fine storto e non sarebbe più quel “sequere me” del Salvatore, giacchè seguirebbe la propria utilità temporale, non il bene dell’anima. Gli Apostoli furono lodati dal Salvatore e venne loro promesso un regno eterno, non perchè abbandonarono il mondo, ma perchè abbandonandolo si professavano pronti a seguirlo nelle tribolazioni; come avvenne di fatto, consumando la loro vita nelle fatiche, nella penitenza e nei patimenti, sostenendo in fine il martirio per la fede. » Nemmeno con buon fine entra o rimane nella Società chi è persuaso di essere necessario alla medesima. Ognuno se lo imprima bene in mente e nel cuore: cominciando dal Superiore Generale fino all’ultimo dei socii, niuno è necessario nella Società. Dio solo ne deve essere il capo, il padrone assolutamente necessario. Perciò i membri di essa devono rivolgersi al loro capo, al loro vero padrone, al rimuneratore, a Dio, e per amor di lui ognuno deve farsi inscrivere nella Società, per amor di Lui lavorare, ubbidire, abbandonare quanto si possedeva al mondo per poter dire in fine della vita al Salvatore, che abbiamo scelto per modello: Ecce nos reliquimus omnia et secuti sumus te; quid ergo erit nobis? » Mentre poi diciamo che ognuno deve entrare in Società guidato dal solo desiderio di servire a Dio con maggior perfezione e di fare del bene a se stesso, s’intende fare a se stesso il vero bene, bene spirituale ed eterno. Chi si cerca una vita comoda, una vita agiata, non entra con buon fine nella nostra Società. Noi mettiamo per base la parola del Salvatore che dice: “Chi vuole essere mio discepolo, vada a vendere quanto possiede nel mondo, lo dia ai poveri e mi segua.” Ma dove andare, dove seguirlo, se non aveva un palmo di terra ove riporre lo stanco suo capo?“ “Chi vuol farsi mio discepolo, dice il Salvatore, mi segua colla preghiera, colla penitenza e specialmente rinneghi se stesso, tolga la croce delle quotidiane tribolazioni e mi segua. Abneget semetipsum tollat crucem suam quotidie, et sequatur me.” Ma fino a quando seguirlo? Fino alla morte e, se fosse mestieri, anche ad una morte di croce. » Ciò è quanto nella nostra Società fa colui che logora le sue forze nel sacro ministero, nell’insegnamento od altro esercizio sacerdotale, fino ad una morte eziandio violenta di carcere, di esiglio, di ferro, di acqua, di fuoco, fino a tanto che dopo aver patito, ed esser morto con Gesù Cristo sopra la terra, possa andare a godere con Lui in Cielo. » Questo sembrami il senso di quelle parole di S. Paolo che dice a tutti i

il cuoRe salesiano

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cristiani: Qui vult gaudere cum Christo, oportet pati cum Christo. » Entrato un socio con queste buone disposizioni deve mostrarsi senza pretese ed accogliere con piacere qualsiasi ufficio gli possa essere affidato. Insegnamento, studio, lavoro, predicazione, confessione in chiesa, fuori di chiesa, le più basse occupazioni devono assumersi con ilarità e prontezza d’animo, perché Dio non guarda la qualità dell’impiego, ma guarda il fine di chi lo copre. Quindi tutti gli uffizii sono egualmente nobili, perché egualmente meritorii agli occhi di Dio. » Miei cari figliuoli, abbiate fiducia nei vostri superiori: essi devono rendere stretto conto a Dio delle vostre opere; perciò essi studiano la vostra capacità, le vostre propensioni e ne dispongono in modo compatibile colle vostre forze, ma sempre come loro sembra tornare di maggior gloria di Dio e vantaggio delle anime. » Oh! se i nostri fratelli entreranno in Società con queste disposizioni, le nostre Case diventeranno certamente un paradiso terrestre. Regnerà la pace e la concordia tra gli individui di ogni famiglia, e la carità sarà la veste quotidiana di chi comanda, l’ubbidienza ed il rispetto precederanno i passi, le opere e perfino i pensieri dei Superiori. Si avrà insomma una famiglia di fratelli intorno al loro padre, per promuovere la gloria di Dio sopra la terra, per andare poi un giorno ad amarlo e lodarlo nell’immensa gloria dei beati in Cielo. » Dio ricolmi voi e le vostre fatiche di benedizioni e la Grazia del Signore santifichi le vostre azioni e vi aiuti a perseverare nel bene. » Il giovedì 21, D. Bosco, dopo che i chierici ebbero recitati alcuni versicoli del nuovo testamento disse loro: » “Se vuoi essere vero figlio di D. Bosco, bisogna che ricordi tu non essere più per la famiglia e per gli interessi materiali, ma di Dio e per Iddio: bisogna che lasci tua, tuos et te, i beni di questa terra, i parenti e quindi te stesso. Chi si sente di far questo è il più felice in questo mondo; egli sarà discepolo di Gesù Cristo, vero figlio di Dio. Iddio sopra di lui verserà le sue grazie, e gli riempirà il cuore del suo divino amore”. » Quindi in conferma di ciò raccontava la visione che ebbe S. Teresa, la quale aveva lungamente pregato il Signore che la riempisse del suo amore. Ella vide un sacco, che conteneva metà terra, e metà oro. La Santa corse subito per vedere se poteva prendere dell’oro, ma non trovava modo se non coll’aprire la bocca del sacco e toglier prima la terra. Si mette adunque a togliervi la terra e di mano in mano che la terra se n’andava, l’oro veniva ad occupare il posto. Allora comprese che se voleva avere il suo cuore pieno dell’amor di Dio, doveva bandirne ogni terreno pensiero ed affetto. » “Così, soggiunse, devono fare tutti i cristiani e specialmente quelli, e diciamolo noi che siamo chiamati ad uno stato tanto sublime”.

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pRovocazione Don Bosco fondando una congregazione ha coscienza di ciò che la caratterizza e ne esplicita i fini

fondamentali:- la bellezza del donarsi totalmente a Dio, portando a compimento quanto aveva scritto nel “Giovane Provveduto” dove invitava a darsi totalmente a Dio il prima possibile- l’obiettivo “primo” della salvezza della propria anima- la felicità eterna che attende coloro che da subito hanno fatto di Dio e del bene dei fratelli la loro felicità.La teologia della vita religiosa di don Bosco è sobria ma sostanziosa perché bellezza, salvezza e felicità sono in Dio un tutt’uno, sono proprie di Dio o sono “Dio stesso”. Allora per don Bosco la vita consacrata è essenzialmente essere nelle cose di Dio, essere in Dio e per questo da Lui trasfigurati, trasformati, santificati, a partire dalla povertà di ciò che siamo.

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per la SCelTadiaMante a Molte facce » La nuova e speciale consacrazione

avviene attraverso la professione dei consigli evangelici. I consigli hanno un’importanza centrale e vengono presentati come la cifra della totalità di donazione del consacrato. è nota la definizione del voto: il voto è “la promessa deliberata e libera di un bene possibile e migliore fatta a Dio”. La consacrazione a Dio avviene mediante la professione dei voti di castità, povertà e obbedienza. L’Esortazione apostolica, assieme al Concilio Vaticano II, preferisce parlare di consigli invece che di voti, per mettere in risalto più l’elemento evangelico che quello canonico. In passato la concentrazione sul dato giuridico e ascetico, proprio del voto, può aver favorito un certo impoverimento della vita consacrata, presentandola prevalentemente come un insieme di norme e doveri, senza la necessaria ispirazione. Tuttavia non vanno dimenticati gli impegni che di fronte a Dio la persona assume con i voti. » i consigli esistono per ripresentare la forma di vita di cristo. La professione dei consigli evangelici è intimamente connessa con il mistero di Cristo, avendo il compito di rendere in qualche modo presente la forma di vita che egli prescelse, additandola come valore assoluto ed escatologico. Gesù stesso, chiamando alcune persone ad abbandonare tutto per seguirlo, inaugurò questo genere di vita che, sotto l’azione dello Spirito, si svilupperà gradualmente lungo i secoli nelle varie forme della vita consacrata (VC 29). Si può notare che qui si afferma chiaramente che la vita consacrata fu inaugurata, iniziata, dalla persona stessa di Gesù, per un duplice motivo: per il fatto stesso che Gesù abbracciò quella forma di vita e perché chiamò i Dodici a condividerla. Si può dire dunque che, quando il Padre pronunciò la Parola ‘Gesù’, inaugurò anche la vita consacrata, dal momento che pronunciò il nome del Figlio fatto carne, vergine, povero, obbediente, missionario. E nel pronunciare quel nome, lo pose a modello insuperabile, quale primogenito della nuova creazione, pietra angolare d’ogni edifìcio. Occorre infatti rendersi conto, con ammirato e riconoscente stupore, che in Gesù il Padre ha detto tutto quanto voleva dire. Gesù è il tutto di Dio in una persona concreta, visibile, imitabile. Egli è “l’universale concreto”, la Parola eterna, per mezzo della quale tutto è stato creato, e nello stesso tempo la Parola incarnata, l’Eterno nel tempo, “il centro del cosmo e della storia”. La vita consacrata prende sul serio questo “universale concreto” e cerca di modellarsi su di lui, manifestazione definitiva di Dio, per proclamare, con una vita il più possibile conforme alla Sua e plasmata dai consigli: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. » Il Gesù a cui è invitata a guardare la vita consacrata è il Gesù trinitario: è il Gesù storico che, a sua volta, invita ad una peculiare forma di sequela; è il Gesù la cui forma di vita dice il suo totale orientamento al Padre; è il Gesù che continua la sua opera anche nel nostro tempo attraverso il suo Spirito, il quale suscita nuove forme di sequela che attualizzano la missione nei diversi contesti, dando occhi e mani per vedere e andare incontro alle sempre nuove necessità che la storia presenta.

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» L’unicità del Signore Gesù va affermata con parresia, con forza e coraggio, sapendo che è Lui il Salvatore e che Lui solo ha “parole di vita eterna”. Un compito missionario importante in un mondo in piena confusione, stordito da proposte provenienti da svariate religioni, saggezze, ciarlatanerie. » Lo spirito dei consigli è per tutti, nel senso che tutti devono avere una disposizione del cuore, devono essere cioè disposti a viverli in circostanze speciali. [...] Quindi i consigli evangelici, come sono vissuti dalla vita consacrata, sono al servizio della promozione dello spirito dei consigli evangelici presso il popolo di Dio. » un dono dall’alto. I consigli sono anzitutto un dono dall’Alto e non solo espressione di un ideale umano. Sono grazia, non scelta umana Sono capacità di comprendere e di vivere, concesse ad alcuni per puro dono, non per merito. Non sono appannaggio dei migliori: siamo tutti poveri peccatori, ai quali è stata fatta misericordia e ad alcuni dei quali è stato offerto il dono di accettare nella propria vita il mistero di Cristo per poi manifestarlo. » i consigli sono un dono della trinità fatto ad una persona che, rispondendo, diventa un segno dell’avvento del Regno di Dìo e della sua forza trasformante. Una traccia della Trinità eterna, in mezzo a questo mondo che passa. [...] » Prima di essere una scelta, i consigli sono un dono della Trinità beata e beatificante: lo Spirito Santo dice al cuore della persona umana, anche a quella del terzo millennio, che Cristo è il modello dell’uomo secondo Dio, illumina il cuore perché ne senta la divina seduzione, lo rassicura sulla giustezza di questa comprensione, infonde la forza di accettare e dì rispondere a questo dono. » La risposta trasforma i consigli in un’espressione d’amore per la stessa Trinità, che abita in una luce inaccessibile. Come non riconoscere che tutto è dono che viene dal Padre e che tutto deve ritornare a Lui, arricchito della nostra risposta d’amore? E come ritornare a Lui se non seguendo le orme del Figlio, che per noi si è fatto servo? Come non professare che tutto questo è reso possibile dalla luce, dalla forza e dall’amore diffuso nei nostri cuori dallo Spirito? » confessio trinitatis: riconoscimento grato ed esultante della Trinità e di un peculiare rapporto con il grande e sublime mistero. I consigli, essendo un dono che permette di comprendere meglio le realtà della di vino-umanità di Cristo, fanno innanzitutto della persona consacrata una vivente confessio Christi, il Figlio unigenito, il consacrato e il missionario del Padre. I consigli, quale risposta al dono, vengono assunti in vista della speciale sequela di Cristo: Gesù appare agli occhi della persona consacrata tanto importante, tanto significativo, tanto luminoso da essere l’Unico, il tesoro nascosto, per il quale vale la pena di vendere tutto, mettersi alla sua scuola e assumere la sua stessa forma di vita, la forma umana assunta dal Figlio unigenito. I consigli evangelici diventano allora la proclamazione dell’unicità di Cristo, della sua importanza decisiva, del suo essere tutto per ogni uomo che viene a questo mondo. Ma Cristo ha assunto questa forma di vita per proclamare che è una cosa sola con il Padre - il Padre per lui è tutto - e per rivelare qualche raggio del modo di essere in relazione con il Padre.

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» La Sua verginità dice che il Padre è l’unico Tu è l’unico suo amore, la Sua povertà dice che il Padre è la Sua unica ricchezza, la Sua obbedienza dice che il Padre è la Sua unica realizzazione. » Questo è il senso della peculiare forma di vita di Cristo: essere una cosa sola con il Padre, essere tutto orientato al Padre, essere lo specchio fedele del Padre. Tale affermazione dell’importanza unica del Padre, tale confessio Patris, è intenzionalmente accolta e professata anche dalla vita consacrata: per la persona consacrata il Padre diviene il vero Amore, la vera Ricchezza, la vera Realizzazione. E ciò già fin d’ora, quale anticipazione e segno di quanto avverrà un giorno per tutti. Tutto ciò è reso possibile dalla “infinita potenza dello Spirito Santo, mirabilmente operante nella sua Chiesa”, che permette a povere e fragili creature umane di entrare nel mistero luminoso delle realtà divine, di partecipare ad un ‘programma divino’ di vita umana, qual è quello espresso dai consigli: confessio Spiritus Sanctì. Meta altissima, che comporta anche una ‘adesione conformativa’ a Cristo, il “desiderio esplicito di totale conformazione”, d’immedesimazione conformativa”: è tutta una tensione che dice desiderio di totalità di dedizione, ideale che può apparire utopico, ma che diviene possibile per l’azione possente dello Spirito Santo. Anche la vita fraterna in comunità, resa possibile dai consigli, è presentata come una confessio Trinitatis, come “uno spazio umano abitato dalla Trinità, che estende così nella storia i doni della comunione propria delle tre divine Persone” (VC 41). Con tale “immedesimazione conformativa” al mistero di Cristo, la vita consacrata realizza a titolo speciale quella confessio Trinitatis che caratterizza l’intera vita cristiana, riconoscendo con ammirazione la sublime bellezza di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo e testimoniandone con gioia l’amorevole condiscendenza verso ogni essere umano (VC 16d). Così la vita consacrata diviene una delle tracce concrete che la Trinità lascia nella storia, perché gli uomini possano avvertire il fascino e la nostalgia della bellezza divina (VC 20b). » La dimensione profetica. Nella storia, la vita consacrata è stata avvertita frequentemente come un segno profetico, come una realtà capace di indicare realtà invisibili o di anticipare soluzioni innovative. [...] Al di là di ogni forma particolare, la vita consacrata è profetica nella misura in cui coltiva per sé e tiene vivo negli altri il desiderio di Dio, desiderio che è norma e misura di tutti gli altri desideri. » La dimensione pasquale. La forma di vita di Gesù è espressione della sua kenosis: “Cristo non si è attaccato gelosamente alle sue prerogative divine, ma è apparso in mezzo a noi come servo”. Questa kenosis o ‘abbassamento’ raggiunge il suo punto estremo nella croce: “...fattosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce”. [...] » Davanti alla stupefacente sovrabbondanza d’amore che viene dalla croce è sempre scaturita la domanda: come posso ringraziare il mio Signore per tanto amore? Come posso riamarlo? (VC 23b). La vita consacrata nasce da questa contemplazione e dall’esperienza d’essere trasformato da tanto amore: come posso essere riconoscente al mio Signore, come posso seguirlo anche nella sua kenosis, nella sua autoespropriazione, nella obbedienza fino alla morte di croce? [...] L’esperienza di questo amore gratuito di Dio è a tal punto intima e forte che la persona avverte di dover rispondere con la dedizione incondizionata della sua vita, consacrando tutto, presente e futuro, nelle Sue mani.

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» Proprio per questo si può comprendere l’identità della persona consacrata a partire dalla totalità della sua offerta, paragonabile ad un autentico olocausto (VC 17b). » La croce è il “di più di Dio nel mondo”: se la croce da una parte è segno della potenza del male e della debolezza del bene, dall’altra dice che Dio è più forte del male, dice che coloro che si affidano a Lui e non temono di percorrere il suo stesso cammino, amando come Lui ha amato, sono destinati a vincere, perché permettono all’amore vittorioso di Dio di travolgere tutti gli ostacoli, compresa la morte. » La vita consacrata, chiamata a ripresentare la forma di vita di Cristo, sa di non potersi sottrarre alle conseguenze alle quali porta questa vocazione: “[sulla croce] il suo amore verginale per il Padre e per tutti gli uomini raggiungerà la sua massima espressione, la sua povertà arriverà allo spogliamento di tutto, la sua obbedienza fino al dono della vita” (VC 23a). Le rinunce richieste alla persona consacrata - e non sono né poche né piccole la conducono a configurarsi più pienamente al mistero pasquale di Cristo, ad “amare sino alla fine”, a partecipare al mistero di salvezza espresso dalla croce. » La dimensione escatologica. La persona consacrata, che vive tutta per Dio, tiene vivo in sé il desiderio di ‘incontrare il Signore’. Il vuoto delle realtà umane scava il desiderio e aumenta la brama d’incontrare il Tutto della propria vita. » è un ‘segno’ importante, specialmente oggi, di fronte ad un deficit d’escatologia sentito anche nella Chiesa contemporanea: l’assorbimento nelle molte cose da compiere rischia di far dimenticare il ‘nulla’ di tutte le cose. [...] Anche la scelta verginale è sempre stata intesa come “un’anticipazione del mondo definitivo, che già sin d’ora opera e trasforma l’uomo nella sua interezza” (VC 26c). La vita consacrata, con il suo ‘lasciare tutto’, ricorda ad ogni uomo che viene a questo mondo che un giorno dovrà lasciare tutto: beni, amore, libertà. Quando giunge la morte, tutti devono “lasciare tutto”. » Proprio mentre ricorda queste realtà ineludibili, amare e misteriose, la vita consacrata annuncia anche la buona novella che questo lasciare tutto non è l’ultima parola, ma è la premessa per incontrare il Tutto, spesso inutilmente cercato nelle cose offerte dalla vita. Il momento di massima povertà, solitudine e impotenza diventa il momento dell’incontro della vera e incrollabile Ricchezza, dell’Amore senza nubi, della Realizzazione completa. » Questo testimonia una vita consacrata serena con la sua stessa esistenza: una persona consacrata che vive e attende l’incontro con il Signore come l’incontro con lo Sposo, come il momento delle nozze, come l’ingresso nella casa della felicità, sorride ed esulta di gioia al solo pensiero della Patria celeste. » Nonostante non si senta perfetta, essa sa che la sua gioia al pensiero di ‘arrivare a casa’ è la testimonianza più sorprendente per chi vive nella sola dimensione intramondana. Per questo coltiva il desiderio di Dio, la fame e la sete di Dio, la tensione verso l’infinito, il desiderio ardente di vedere Dio, di possederLo interamente, di essere integralmente con Lui e come Lui.

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» C’è un secondo aspetto, questo più tipico della vita attiva: la tensione escatologica non aliena dalla realtà che “si traduce in lavoro e missione”. La vita consacrata attiva ha compreso che, per andare in cielo, è necessario anticipare un poco di cielo in questo mondo per chi vive in uno dei numerosi inferni della storia, che la tensione escatologica non allontana dalle responsabilità verso i problemi e le necessità della storia e dei fratelli, anzi impegna al massimo le energie in vista di un mondo più umano. » La tensione verso il compimento aumenta e alimenta la laboriosità con il diventare servi come il Signore, col servire il Signore negli ultimi. » La persona consacrata che crede e spera fermamente nelle realtà definitive “è in grado di infondere speranza anche ai suoi fratelli e sorelle, spesso sfiduciati e pessimisti riguardo al futuro” (VC 27). » C’è un senso di pessimismo che aleggia nelle nostre società, che pure hanno raggiunto un livello di vita inimmaginabile fino a qualche tempo fa. Oggi siamo ben lontani dall’ottimismo degli ultimi decenni, quando sembrava fossimo in grado di volgere al meglio le varie situazioni. C’è bisogno di infondere fiducia non solo sul domani umano, ma soprattutto fiducia in Dio Padre, che aiuta a superare le difficoltà nel cammino che, attraverso le umane vicende, porta all’abbraccio finale. » La dimensione carismatica. La vita consacrata è frutto dell’”opera incessante dello Spirito Santo, che nel corso dei secoli dispiega le ricchezze della pratica dei consigli evangelici attraverso i molteplici carismi, e anche per questa via rende perennemente presente nella Chiesa e nel mondo, nel tempo e nello spazio, il mistero di Cristo” (VC). La vita consacrata, iniziata da Cristo, continua nel tempo, grazie all’infinita potenza dello Spirito Santo mirabilmente operante nella sua Chiesa, Spirito Santo che configura a Cristo vergine, povero e obbediente e, nello stesso tempo, configura ad uno dei misteri o attività o modi di essere di Cristo. » Lo stesso Spirito, lungi dal sottrarre alla storia degli uomini le persone che il Padre ha chiamato, le pone al servizio dei fratelli, secondo le modalità proprie del loro stato di vita e le orienta a svolgere particolari compiti, in rapporto alle necessità della Chiesa e del mondo, attraverso i carismi propri dei vari Istituti. Da qui il sorgere delle molteplici forme di vita consacrata (VC 19d).CABRA P.G , Breve corso sulla vita consacrata - appunti di teologia e spiritualità, Queriniana, Brescia 2006.

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tRe passi

per L’approfondimento ti suggeriamo come testo per il mese: BOSCO T., Michele Rua = Biografie, LDC,

Torino-Leumann 2009.

un liBRo

a » Vi è il fascino la bellezza per la radicalità della chiamata di Dio o sono ancora eccessive le paure della

consegna, i calcoli della riuscita, i sondaggi per una verifica? B » Il paradiso non può attendere. È qui e non ancora, contemporaneamente. Sta maturando in me la coscienza che tutta la chiamata di Dio è per la felicità, nel tempo e nell’eternità, mia e dei fratelli a cui sono inviato e che in questa linea si gioca la mia risposta? c » Il salto di qualità allora si gioca sul Cristo Crocifisso. Sposo e Signore. La sua logica, i suoi tempi, i suoi metodi. L’adesione non è primariamente ad un fare, o ad un essere, ma ad un rispondere al Suo appello d’essere con Lui, come Lui, in Lui! A Lui cosa rispondo?

appunti ..........................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................................

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