Autologia - specimen antologico

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Tu, allora. Indefinito stesso del diverso addivenire eterno della Cosa ragione conclusiva del mio verso ubiqua e inabitabile mia casa stupenda mia dolcissima ossessione, Tu! Abisso immemorabile del tempo. Coscienza superiore al tutto estesa. Immane commessura d’universo e della Vita ascosa fioritura Tuo principio eterno e fine nostro Tu liberando sciogli la farfalla che incatenata posa dentro al cuore a chi soltanto prova ad ascoltare il silenzioso essere del mondo - diuturna meraviglia fai la vita che al nome Tuo risplende illuminata come le stelle in cielo al Tuo respiro la prodigiosa fonte di natura e da se stessa evolvi, al mondo trai di fuoco che nel fuoco fiamma accende e tutta interamente la sostieni dalla parte viva dell’Amore: il mondo risillaba in Te che in noi ti rappresenti e ti contieni verbo innovatore, alito animante che sulle acque soffia per creare carne dello spirito immortale che ne riveste il vuoto di natura la sostanziale forma delle cose la melodia che vibra nelle rose e l’innodia celeste, al punto dove divampa la scintilla, stella pura nell’interiore sguardo alla creatura il mistico silenzio, pietra dura mutabile armonia dei nostri cuori Tu vertice assoluto dei pensieri inesistente bianco dei colori Tu equilibrio inquieto, pace e guerra del cielo porta schiusa e continente sorridi al nostro essere di niente e fondi la Tua Luce sulla terra che doni ad ogni briciola di vita dei regni eterni solo eterno re. Vorrei saperti degnamente celebrare per i segni che ci parlano di Te su questo piccolissimo pianeta…

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BIRBAL Sì, sono un bambino. Un marmocchio capriccioso e inconcludente. Un idiota, un dilettante. Ho sempre voglia di giocare l’occhio luccicante e spalancato sul destino cieco che si apre: e non mi basta mai. Per esser serio. Perché nulla, in fondo, io conosco per davvero. E sono aperto al mondo, al suo infinito. Anche per questo tutto mi stupisce mi prende dall’interno e mi emoziona. La mia esistenza è la notte insonne che precede un giorno di vigilia. Ogni minuto un pacco infiocchettato da scartar nel tuffo del mio cuore che il silenzio dal futuro mi consegna perché mi ama ed ama trasformare in festa ogni giornata, anche questa… Sono un uomo innamorato che pregusta con ansia il campanello del postino o lo squillo di un telefono improvviso un di-segno generoso dalla vita.

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* Acqua, giovane chiarezza flutto incantatore del suo velo morbida carezza dolce di silenzio e di tepore sul divinante pelo delle cose e il suono azzurro in aria sboccia rose di spuma scintillante e profumata - fiori che spiccano il volo divampando in fuoco nell’abisso vorticoso vento che li nutre e in cielo le alte nuvole di luce ardono improvvise e il mondo è un pozzo vuoto di misteri un arazzo di leggeri incantamenti di morituri suoni e sortilegi vani in mezzo ai denti la musica del cuore, la presenza un sonno dentro il sogno di domani insonne batticuore, muto verbo capienza delle grandi meraviglie le mie mani…

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* Dolci chiome d’acqua il sole annoda in matasse soffici di spuma che si apron come fiori di magnolia. Pettinando il filo l’onda muta l’anguiforme brivido dell’alga. E’ il silenzio lucido di sole e matura l’aria il gran di luce. Quieto d’orazzurro sogna amore sul pelo inargentato delle cose. Le forze si contengono. Le fiamme vigili sorvegliano. Tutto insomma procede.

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CROLLO Le rose, le rose di novembre! Apoteosi insulsa di colori il balenante rosso - ultimo grido prima che il buio dell’inverno lo divori, scintilla nel silenzio del suo vuoto tristissimo epicedio di un amore che non si vuole rassegnare, ma è finito… Corpuscolo di forme, soffio vano nascondimento stesso del suo dono crepuscolo sospeso dentro il cielo vastissimo orizzonte del crollo ch’è fatale nelle cose nel misterioso abisso l’intervallo il disperante senso della fine.

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DUNQUE Cos’ è dunque il corpo che mi rappresenta? E’ un fuori a me stesso che io vedo da dentro? E’ un’immagine scelta o una sorte aleatoria? E nel solingo punto dell’addio: sarò io a lasciarlo od esso invece me? Sarà un sole spento all’alba, la spoglia di un bel cielo abbandonato nell’infinito abisso della storia, o un pieno di silenzio collimato; sarà la luce occulta della notte e insieme, l’ombra del giorno finalmente unite come gemelle nate, singole metà; sarà un cantico di stelle incoronate la suprema, ultima realtà come un’acqua limpida e leggera o come un fuoco freddo che non sale; sarà lo slancio vivo di un gabbiano che sciogliesi dal gelo millenario che lo chiudeva in forma come vetro spiegando le sue ali all’universo contento del suo essere diverso… oppure più ferocemente un semplice finire, così senza risvolto alcuno, senza dietro e senza niente dopo o all’incontrario: questo dubbio per lo scacco, forse è l’esistere dell’uomo, il suo destino? Al dunque di tutto non potrò mai ammettere a me stesso questa vita… Ma forse tu mi ascolti, Dio bambino?

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COSCIENZA Nell’occhio a questo cerchio che m’iscrive continuo nel suo corso inutilmente ovunque nel gran giro e mi consuma dall’onda smarginando la carena di un sasso levigato nella spuma, avverto i giorni passare, le stagioni che ammontano negli anni e nei decenni in una somma interminabile, infinita accompagnata ai casi e ai loro eventi gli straordinari incontri della vita e i mutamenti lenti e inesorati di nuvole che sfumano in sereno sincroniche al loro interno lampo quel devo sottinteso, la presenza movendo dappertutto a continuare. E’ il canto, è il suono della vita l’eternità d’istante, il divenire e il nome impronunciabile del cuore la forma di quel cirro nel mistero il soffio luminante dell’azzurro la dimensione ferma, la visione la mistica ossessione del suo vero. E’ proprio allora che mi sento in gabbia e immensamente ho di me coscienza come un granello perso tra la sabbia un filo ingarbugliato dentro a un cesto o una scintilla spenta giù nel mare. E’ il misterioso seme dei pensieri la traiettoria interna dei silenzi è il fuoco, bianco degli sguardi la scolatura a goccia dei bicchieri e il movimento lento dei destini, è la traccia di quest’oro dentro il blu e l’or domani eterno del mio ieri è il fulgido tesoro che non resta il senso della vita e della festa lo strepeante suono dei cantieri e dei lavori in corso che noi siamo. E intanto i giorni passano, passano per non tornare più… Che senso ha tutto questo?

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A UN GIORNO CHE NON SO Quante volte ti ho vissuto senza sapere chi fossi, sconosciuto tra i giorni che l’umano l’educato bipede ambulante racchiude nell’arco di mesi enumerando cifre in calendari… Ma di certo fra loro tu sarai e fosti, fin da ora tu già sei, solo in questo poi ti riconosco: non dove, non come, non quando fors’oggi, domani, chissà nessuno può dirlo ma è certo, è certo che sarai e un anno ti contempla e ti contiene. Così, ogni giorno della vita e della morte, forse io festeggio in tempo anniversari…

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UNANIME Dell’uomo son fratello universale del suo dolore amando il nostro averno questo dolore immenso che è nel mondo ed io catturo agli occhi dei passanti stremati, infaticabili, assonnati come cieli dove corrono all’interno senza soluzione, dai suoi sepolti in canti nelle vene le ombre delle nuvole dissolte

come giornate azzurre e innamorate nel cuore più interiore del granello il carico di sale che ci tiene di ciò che si può essere al di sotto se solo lo vogliamo veramente, e penso ch’è pur bello e necessario assaporar la luce e quella speme che ci fa ridere nel sole quando piove perché lo abbiamo in cuore, lo portiamo

nonostante tutto. (al popolo e alla città di Napoli)

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IL VIZIO IMBELLE Forza, forza: scrivere veloce dire tutto - una buona volta e farla poi finita, concludendo ché a furia di pensare questa vita di viverla io sto dimenticando donato a questa luce inutilmente e mordere la mela che pure è molto buona, a quanto pare e stuzzicante e dolce da gustare, tolti sporadici vermi e il torso, che di norma non si mangia. “Ma proprio per scrivere devi non vivere la vita”

- mi dice qualcuno da dentro, e aggiunge con tono risoluto e ultimativo: “Che si scelga l’una delle due”. Ci penso un attimo, ma subito mi dico che no, allora no, proprio non posso. Parole mie: non abbandonatemi, vi prego! Ancora una volta, dunque il vizio continua - domani smetterò a ottembre, forse oppur chissà: nel giorno dei buoni propositi, quindi oggi neppure.

La verità è che non posso non scrivere

perché, a viverla, la vita fa paura ed è un cambio piuttosto svantaggioso, insomma: una bella fregatura. Preferisco scrivere.

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RADIO AMORE Io brucio tra il mio essere e il destino che srotolando annodo, sconosciuto in cerca di un passaggio, di un cammino profondo ed inviolato. Ma ho perso, ormai, strada facendo la luce dello sguardo, la scintilla la celestiale speme del mattino, ed è ridotto a nulla questo viaggio. Nella paterna casa tutto il giorno rinchiuso a comprendere chi sono captando mute sillabe d’amore rimando le mie onde all’universo io porto in questo mare senza rive il suono e lo stupore del mio verso che affido, nel ventre di parole dentro bottiglie vuote e sigillate come un bambino a una culla d’acqua che dolcemente accoglie e fa da nido. Mulino della gioia e del dolore io sento nel fragore del silenzio la voce delle stelle che mi chiama l’eternità del tempo, le stagioni il sogno di chi vive e di chi ama l’istante inesorabile che arriva dentro e in ogni luogo, intorno a me. E penso che abbraccio mia madre, la quale incanutisce come bulbo di pannocchia nel suo campo arsiccio sotto il sole ed è stupendo, poterlo ancora fare. Acre verrà l’ora del rimpianto la brama di donare anche la vita pur di tornare, un istante almeno a ciò che oggi scorre tra le dita leggero e inevitabile, essenziale come acqua che dal pugno scappa verso la terra e non si può fermare. L’uomo maturo si vedrà allo specchio e nella smorfia amara di un sorriso comprenderà in un soffio d’esser vecchio e non saprà la voce del ragazzo come la nube scivola nel cielo dimenticato al volgere di strada.

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Nulla poi ripaga l’armonia perduta della musica di un tempo quando ti risale dentro all’improvviso nel mezzo di una frase o di un pensiero e tu t’incanti fermo ad ascoltare perché è un obolo da nulla, un palliativo e finge, chi d’esso s’accontenta finch’è vivo. Ma perché ri-conosciamo quanto valgono le cose solo allora che ci vengano a mancare?

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BORGHESE Mi accade certe volte di tornare ricordo inaspettato all’improvviso ai giorni emozionati di vigilia quando da bimbo il cuore galoppava ed estasiato amavo questa vita non ero più me stesso, come pazzo per l’imminente arrivo della gita che facevamo tutti fuori porta. Bruciava l’impazienza dell’attesa e finalmente via, partire a razzo come orde di pirati all’arrembaggio sconosciute le frontiere al grande viaggio come puledri, ispide criniere noi ruzzar per l’erbe scatenati di umide brughiere, giù pei prati imperlar di verde mani e bocche aquiloni liberi nel vento che gonfiava quella luce di bandiere e impavesava il sole al pomeriggio. A un punto mezzano, che solo lei sapeva vigilante nostra madre da lontano riponeva il suo cucito ci chiamava alla merenda. Si giocava fino all’ombra della sera. Poi con l’eco su dell’ultimo saluto quando il sole s’intanava alla sua tenda si posava sazio alfine vagolante e sporco il mio pallone, e arrivava la tristezza del commiato che già subito sfumava in un sorriso perché certo era l’indizio della prossima occasione. E brillava la concordia, la festevole armonia e una luce calda in fondo agli occhi che da allora non ho più riconosciuto. Tutto questo, anno dopo anno per la forza del destino rovinò. E quei giorni dolci e spensierati che ho lasciato cari alla mia infanzia ormai solo l’estinguibile ricordo e a stento, con fatica li trattiene:

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perché il tempo dall’amore ci distanzia come il vento dell’autunno dalle spiagge chiassose e sfolgoranti dell’estate, e dalle cose belle a cui teniamo… Si spengono nell’ombra piano piano ché se le prende il vuoto, le divora vaniscono nel cielo come stelle, non torneranno più…

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BARNUM Caddi, in fondo al mio respiro al cuore duraturo del mio soffio all’interno gorgo del mio fuoco, piovendo sul giglio del tempo nel buco silente del tuono nel cavo dell’ombra che dilegua sorda conchiglia di mare casa inabitabile del vento. E’ il soffitto che diviene pavimento intrippata scatola di carne riccia cortina di stella molle tepore di membrana incubando il seme che distilla del vuoto, a goccia intermittente il nettare dolcissimo dal cielo. Caddi, grave del mio peso nel più basso punto di una rete elastica, sospesa sopra al nulla come quella che il volo acrobatico raccoglie nei circhi dal trapezio, una rete che mi abbraccia e mi contiene la sua onda dall’abisso muto senza fine che dappertutto in cuore mi circonda. Tutto è pien di nulla, tutto è vuoto ed ogni cosa è specchio d’ogni cosa. Attenderò quaggiù, più che paziente prigione della mia diversa mente la fine dell’eterno, l’infinito. Intanto, per ammazzare il tempo io penso a schiaffeggiare questa luce e tengo a bada mosche nel silenzio.