Autoimmunità, tardo-capitalismo, tecno-fascismo, di Raoul Kirchmayr

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Autoimmunità, tardo-capitalismo, tecno-fascismo RAOUL KIRCHMAYR 1. Tardo-capitalismo e autoimmunità Se assumiamo che la nostra epoca mostra un tratto essenziale, cioè il nesso tra globalizzazione e nichilismo, la questione che occorre porre al presente riguarda la stessa possibilità che la democrazia possa avere un avvenire nel quadro di un mondo forgiato tecni- camente e su scala globale dal capitalismo. Se vi sarà un avvenire, questo non potrà che dischiudersi a partire dallo scioglimento di un nodo che, al contrario, pare stringersi ulteriormente, quello tra il dominio della tecnica, il capitalismo e le forme di tramonto del politico che disegnano lo scenario attuale. È difatti questa lal- leanza che pare non sciogliersi e che ci porta a chiedere se ciò che il XX secolo ci ha consegnato, perlomeno a quel mondo occi- dentaleche si riconosce nel cosiddetto modello di democrazia li- berale, non sia affatto leredità di una libertà concreta, ma un bi- nomio costituito da una libertà astratta e da più o meno marcate forme di servitù, di dipendenza e di oppressione. Di fronte al saldarsi del connubio tra potere tecnico e sovranità politica si può avanzare lipotesi, dunque, che possa non essere la democrazia la forma di governo politico più adatta alla modernità tardo-capitalista, ruolo che potrebbe meglio svolgere una sua imi- tazione autoritaria in grado di far lavorare il binomio libertà astrat- ta/servitù concreta, conservando cioè come apparenze tutte le for - me del diritto borghese, ma piegate alla salvaguardia, più o meno violenta, di posizioni di forza e di dominio. È in questa prospetti- va che si dovrebbe guardare al berlusconismoe al cosiddetto aut aut, 350, 2011, 77-91 77

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Autoimmunità, tardo-capitalismo,tecno-fascismo

RAOUL KIRCHMAYR

1. Tardo-capitalismo e autoimmunitàSe assumiamo che la nostra epoca mostra un tratto essenziale, cioèil nesso tra globalizzazione e nichilismo, la questione che occorreporre al presente riguarda la stessa possibilità che la democraziapossa avere un avvenire nel quadro di un mondo forgiato tecni-camente e su scala globale dal capitalismo. Se vi sarà un avvenire,questo non potrà che dischiudersi a partire dallo scioglimento diun nodo che, al contrario, pare stringersi ulteriormente, quello trail dominio della tecnica, il capitalismo e le forme di tramonto delpolitico che disegnano lo scenario attuale. È difatti questa l’al-leanza che pare non sciogliersi e che ci porta a chiedere se ciò cheil XX secolo ci ha consegnato, perlomeno a quel “mondo occi-dentale” che si riconosce nel cosiddetto modello di democrazia li-berale, non sia affatto l’eredità di una libertà concreta, ma un bi-nomio costituito da una libertà astratta e da più o meno marcateforme di servitù, di dipendenza e di oppressione.

Di fronte al saldarsi del connubio tra potere tecnico e sovranitàpolitica si può avanzare l’ipotesi, dunque, che possa non essere lademocrazia la forma di governo politico più adatta alla modernitàtardo-capitalista, ruolo che potrebbe meglio svolgere una sua imi-tazione autoritaria in grado di far lavorare il binomio libertà astrat-ta/servitù concreta, conservando cioè come apparenze tutte le for-me del diritto borghese, ma piegate alla salvaguardia, più o menoviolenta, di posizioni di forza e di dominio. È in questa prospetti-va che si dovrebbe guardare al “berlusconismo” e al cosiddetto

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“caso italiano” che, per le loro caratteristiche e soprattutto per laloro ormai considerevole durata, paiono essere più che il risulta-to di un “laboratorio” in cui si sono incubate alcune tendenze del-l’Occidente tardo-moderno.

Molti discorsi giubilatori risuonati nel dibattito politico du-rante gli anni novanta – i quali, con la fine della Guerra fredda,avevano perlopiù proclamato la vittoria della liberal-democraziae del sistema capitalista di produzione – appaiono oggi come pre-coci sintomi di una crisi del senso della democrazia più che quel-li di un effettivo radicarsi di quest’ultima in aree geopolitichenon appartenenti all’Occidente. Costitutivamente ambigui, pos-siamo cogliere un diverso significato di tali discorsi, una volta ri-contestualizzati nella cornice di un nichilismo reattivo, il qualesi nutre, indifferentemente, tanto del repertorio “progressista”e illuministico quanto di esaltazioni imperialistiche e coloniali-stiche, tanto del mito della partecipazione popolare quanto del-l’immaginario bellico. Dalla fine della Guerra fredda a oggi pos-siamo dire di sapere per esperienza e non solo più per annuncio,o profezia, quali forme può assumere la reazione delle forze che,con il declino del politico, mirano a imporre la conservazionedello status quo, cioè dei rapporti mondiali di dominio, sfrutta-mento delle risorse, accumulazione e circolazione del capitale.Lo scenario attuale è pertanto disegnato dall’orizzonte della vio-lenza e del conflitto (nella forma esplicita della guerra e in quel-la implicita della competizione economica globale), mentre le re-toriche ufficiali si nutrono di formule che occultano o deneganoi processi in corso, con lo scopo di non incrinare la rappresen-tazione dominante della liberal-democrazia come unico model-lo di governo auspicabile e, al tempo stesso, quale fine politicouniversale cui tendere.

Anche a un’osservazione rapida e di sorvolo, si può vedere co-me il nesso tecnica-sovranità abbia ampiamente trasformato il pae-saggio politico e sociale nel corso del XX secolo verso una sempremaggiore interdipendenza dei sottosistemi locali – quelli che ven-gono pure chiamati i sistemi-paese – nel quadro globale. Inoltre,l’impatto della globalizzazione ha prodotto estese operazioni di

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trasformazione interna degli stati-nazione, tant’è che da tempo neviene descritta la tormentata senescenza di fronte al realizzarsi diun’economia-mondo dominata dal sapere tecnico.

A dispetto del fatto che fosse il socialismo reale a essere eti-chettato con la formula di “esperimento di ingegneria sociale”, èlo stesso modello capitalistico ad avere condotto un processo dicostruzione tecnica della società grazie a Umwelten che funzio-nano omeostaticamente e garantiscono così la loro stabilità siste-mica attraverso la costante riduzione dell’impatto sull’intero si-stema provocato dai fattori estranei, potenzialmente destabiliz-zanti e perfino distruttivi. Di fronte al paradosso generato dal-l’aumento di complessità del sistema e, parallelamente, dalla suavulnerabilità, le risposte che il tardo-capitalismo occidentale è riu-scito a dare sono state di tipo autoimmunitario,1 con le quali èemersa la contraddizione tra la “logica” del capitale, che presideal funzionamento del capitalismo globalizzato, e le singole archi-tetture giuridico-politiche delle democrazie occidentali.2 Il pro-cesso autoimmunitario non riguarda che il sistema medesimo e ilsuo procedere per crisi interne che hanno lo scopo di consolidar-lo: pur evocando, suscitando o attivando un’“esteriorità” (fino al-la costruzione della figura del “nemico”, in modo da delimitareschmittianamente uno spazio politico), è grazie alla mobilitazionedelle sue risorse interne che se ne garantisce il rafforzamento: co-sì il sistema risponde aggressivamente ai fattori esterni – reali, pre-sunti o artificiali – finendo per intaccare se stesso, ma pure accre-scendosi.3 Da un punto di vista ottimistico esso potrebbe essere

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1. L’emergere dell’autoimmunità in relazione alla sovranità, la risposta autoimmunitariadelle democrazie occidentali di fronte alla globalizzazione, il vincolo tra stato d’eccezione elogica autoimmunitaria ecc. sono temi che di recente si sono imposti nel dibattito sulle tra-sformazioni del pensiero politico. Cfr. per esempio J. Derrida, J. Haberman, Filosofia del ter-rore (2002), Laterza, Roma-Bari 2003 e, in un’altra prospettiva, R. Esposito, Bíos. Biopoliti-ca e filosofia, Einaudi, Torino 2004.

2. Il caso cinese e, più in generale, di alcuni paesi dell’Estremo Oriente, come l’Indone-sia, mette ampiamente in discussione l’assunto delle teorie politiche liberali e neoliberali chepongono l’interrelazione reciproca di economia di mercato e liberalismo giuridico-politico:infatti ciò che lo scenario ci mostra oggi è la possibilità che altre forme di governo, non de-mocratiche, possano garantire sviluppo economico in senso capitalistico.

3. Ciò si traduce politicamente nei termini di una paranoia, alimentata dai media, versotutto ciò che all’interno potrebbe essere esterno.

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visto come un caso particolare e anomalo di una supposta leggegenerale che descriverebbe l’espansione virtualmente ad infinitumdel modello della liberal-democrazia capitalistica. Ma che accadese, invece di pensarla come una deviazione rispetto alla norma,l’autoimmunità viene considerata come la norma stessa o, meglio,come la sua verità? Secondo quest’altro punto di vista, dunque,che cosa viene intaccato e che cosa salvaguardato dai processi au-toimmunitari?

2. One World e violenza del capitaleIl mondo del capitale ha imposto una determinata configurazio-ne del rapporto tra potere e techne, che si compendia nella no-zione di sistema. Per sistema intendo una forma di organizzazionedi elementi anche eterogenei tra loro secondo un principio d’ordi-ne. Il principio d’ordine permette la costruzione di un mondo-ambiente (Umwelt) e necessita di regole e codici con cui il mondo-della-vita (Lebenswelt) viene domesticato attraverso un’operazio-ne di traduzione e riscrittura. Il suolo del mondo-della-vita vienedissodato, lavorato e reso adatto all’impianto di nuove forme di vi-ta che, come protesi tecniche, sono funzionali alla conservazione-riproduzione del sistema complesso e dipendono dal principio d’or-dine che lo regola. Il principio d’ordine è ciò che conferisce ra-zionalità al mondo, il suo essere cosmos: può essere di natura fi-losofica (il bene), teologica (dio), politica (il sovrano), economi-ca (il capitale). Storicamente il sistema del capitale si è dotato diapparati tecnici, dallo stato e i suoi organi fino alle odierne con-centrazioni finanziarie e alle corporation globali. Le tecno-strut-ture producono un mondo-ambiente artificiale che avviluppa, in-globandola e trasformandola, la Lebenswelt.4 Alle tecno-struttu-re appartiene pure la sfera della comunicazione generalizzata, cheaderisce come una pellicola al mondo-ambiente domesticato. Ognimessa-in-ordine della Lebenswelt, cioè ogni costruzione-del-mondo, implica una violenza che è generata dall’imposizione delprincipio d’ordine razionale al mondo-della-vita “esteriore/estra-

4. Facendo tuttavia attenzione a riconoscere alla “struttura” il senso di “organizzazioneinterna” del sistema, e non un apparato estrinseco che si aggiunge a esso.

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neo” al sistema. Questo processo di appropriazione funzionaliz-zante dell’esteriorità/estraneità è, paradossalmente, il principalefattore stabilizzante attraverso una continua destabilizzazione de-gli equilibri sistemici.

Se il capitalismo è violenza nella forma dell’autoconservazionee dell’accrescimento sistemici, occorre pensarla non più come unamodalità di dominio dei soggetti e come coartazione delle loro li-bere volontà, ma piuttosto come una tendenza del sistema che mi-ra a erodere, fino a cancellarla, la possibilità stessa che vi sia un“fuori” rispetto al “dentro”, il che significa la neutralizzazione ola distruzione di regole e codici che possono interferire con la “vi-ta” del sistema nel suo complesso. Gli è perciò indispensabile for-nire una visione irenica del suo funzionamento, mediante una co-stante rimozione e denegazione della violenza da esso prodotta, euna sua proiezione su figure-schermo indicate come potenziali fat-tori di instabilità che, sotto il profilo immaginario, il sistema crea.Rimozione, denegazione e proiezione indicano dunque dei pro-cessi ideologici con cui ha luogo l’autoconservazione e l’aumentodel sistema.

La sfera ideologica tende così a coincidere con lo stesso mon-do-ambiente, dove l’esperienza è quadrettata, classificata, map-pata, compresa in una media standard grazie alla quale è possibi-le determinare tanto i comportamenti più generali quanto le va-riazioni rispetto alla curva, per mezzo di una calcolata routinizza-zione degli choc. Si tratta infatti di fabbricare soggetti docili at-traverso un’opera costante di addomesticamento di credenze, abi-tudini e stili di vita. Ora, la natura aggressiva del sistema capitali-stico non riguarda affatto la morale e la psicologia di quella cheveniva chiamata “classe borghese”, e dunque il “carattere” svi-luppato dall’homo œconomicus, ma è coessenziale all’imposizionedel principio d’ordine che autoregola il sistema. Di questo, in ve-rità, le culture, le psicologie e i comportamenti dominanti sono l’e-spressione quali sue declinazioni storiche e geografiche, per cui èpossibile parlare di capitalismo e di società capitalistiche naziona-li nei diversi momenti del loro sviluppo, e delle culture che essoha prodotto e nelle quali si è riconosciuto, ivi comprese, perfino,

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le diverse forme di critica e di smascheramento del suo funziona-mento. L’emergere di nuove forme di fascismo, che proliferano neltramonto delle categorie del politico, rivela la natura violenta delsistema capitalistico. Inoltre esse denunciano una volta di più ilcarattere astratto, tecnicistico ed estrinseco della democrazia tar-do-moderna, pur affidandosi a essa come fonte del diritto e dun-que come il principio stesso della loro legittimazione.

3. Principio d’ordine e tecno-fascismoCon il nome di “tecno-fascismo” intendo tutte quelle forme di go-verno che, nella tarda modernità, richiedono un’adesione fideisti-ca al sistema, alle sue tecno-strutture e al suo principio d’ordine,cioè, più in generale, al mondo globalizzato nell’One world. Sonoforme che fanno convivere il carattere politicamente conservati-vo-reazionario del sistema con il movimento rivoluzionario di cri-si-assimilazione-incorporazione-espansione. La categoria di tec-no-fascismo non è rigida, descrive tendenze e movimenti, curve edistribuzioni, più che una forma stabile o addirittura un’essenzadel governo; assume come secondarie le definizioni che i sistemisi danno, poiché tali definizioni scontano la contraddizione traprocessi reali e mistica del fondamento politico (ovverosia dei fi-ni che il sistema dovrebbe realizzare). Perciò non è una categoriapolitica in senso stretto, poiché, se così fosse, essa incontrerebbele stesse difficoltà cui va incontro, nel contesto presente, la se-mantica del lessico politico tradizionale. È una categoria che as-sume invece il nesso potere-techne come cuore della reductio adunum che regola il funzionamento sistemico, pertanto dovrebbeavere il vantaggio di superare le dispute, più o meno nominalisti-che, sulla definizione che viene data dei regimi politici.

Il tecno-fascismo è un “nuovo fascismo” di cui possiamo co-minciare a riconoscere i lineamenti ora, a vent’anni dalla fine del-la Guerra fredda. Sarebbe errato vedere in esso una riproposi-zione edulcorata dei fascismi storici, o una loro riedizione ag-giornata in veste postmoderna, secondo due modalità dello stes-so desiderio consolatorio, per il quale il passato non ritorna per-ché è passato, o, se ritorna, tutt’al più è in forma di commedia.

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Qui, non solo occorre prendere seriamente l’aspetto di grottescacomédie con cui appare, ma serve pure affermare che con il tec-no-fascismo si può assistere al ritorno di un passato che non èmai veramente passato: piuttosto esso costituisce un’eredità re-cente della storia dell’“umanità europea”, e che nulla esclude co-stituisca ancora uno strato attivo della nostra memoria storicacollettiva. I fascismi prossimi venturi, così, sono dell’ordine delritorno di contenuti psichici collettivi stratificati e depositati neirecessi della nostra eredità storica. Ciò che questo “ritorno delrimosso” porta alla luce è la cogenza del principio d’ordine si-stemico, nella sua forza di imposizione violenta che avviene, og-gi, con l’impiego di più raffinate tecniche di controllo e di inge-gneria collettiva delle anime.

Se i fascismi storici furono totalmente dipendenti dalle loro con-figurazioni storico-empiriche, ovvero dai fatti storici che portaro-no al loro successo in Europa tra le due guerre mondiali, qui il tec-no-fascismo è inteso come reazione a una crisi di sistema internaa esso.5 Infatti, ciò che hanno mostrato i fascismi storici è stata unastraordinaria capacità tecnica di modellamento del mondo socialecome progetto di salvaguardia e di ricomposizione del sistema chetuttavia legittimava le sue pretese storiche (e destinali) all’internodi una concezione della storia universale quale conflitto tra i dif-ferenti nazionalismi. I fascismi storici hanno rappresentato un “de-lirio” del sistema per eccesso autoimmunitario, perché hanno pro-dotto una reazione fuori misura di fronte alla crisi sistemica, e noncerto perché avessero contestato il principio d’ordine capitalisti-co quale regolatore della tarda modernità dell’Occidente, nel cor-so del XIX secolo fino alla Prima guerra mondiale. Al contrario, èstata proprio la furia dei fascismi ad avere posto sotto attacco ilprincipio: spinti dalla loro forza di sregolamento, essi suscitaronopotenze ctonie, telluriche e “irrazionali”, chiamate a raccolta conlo scopo di conservarlo.

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5. Da cui le frequenti analogie, nella pubblicistica corrente, tra le crisi d’inizio XXI seco-lo e la situazione del 1929.

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4. Tecno-fascismo e marginalità. L’“anomalia” italianaIl tecno-fascismo è un’intensificazione della risposta autoimmu-nitaria che ha luogo nelle aree periferiche o in via di marginaliz-zazione rispetto ai centri del sistema, cioè in quei punti della tec-no-sfera dove è più intensa e massiccia la circolazione globale deicapitali. È infatti l’indebolimento di un sottosistema a creare lanecessità di risposte autoimmunitarie standard più intense e fre-quenti, che possono manifestare così una tendenza storica. In que-sto modo sarà più semplice riconoscere che, se è possibile indivi-duare una continuità tra i fascismi storici e le tendenze attuali deitecno-fascismi, ciò sarà dato a partire dalla considerazione che iltecno-fascismo è un fenomeno geopolitico e geostorico con cuine va del controllo territoriale da parte del sistema. Nelle societàavanzate, il controllo territoriale è garantito dal funzionamentoefficiente delle macchine (produzione economica, sicurezza, sfe-ra dei media ecc.). Quanto maggiore è il grado di sviluppo di unsotto- o microsistema territoriale secondo i parametri sistemici,tanta minore violenza diretta e repressiva sarà necessario eserci-tare per conservarne il controllo. Così una transizione da una “de-mocrazia autoritaria” al fascismo non sarà che un gradiente concui è modificato lo status del sistema in senso più conservativo.Inoltre, quanto più l’istituzione di regimi fascisti avviene in areemarginali, tanto più tali regimi possono godere di una vita politi-ca medio-lunga. Così, il tecno-fascismo si definisce principalmentemediante la qualità e la natura della risposta aggressiva fornita dalsistema per neutralizzare i fattori riconosciuti come eversivi o de-stabilizzanti. E in questo la mediasfera gioca un ruolo strategicocome costruzione delle immagini del mondo, indispensabile peri processi di identificazione collettiva, di inclusione puramentevirtuale delle masse, e dunque a una generale opera di psicagogiacollettiva.

Il tecno-fascismo mostra infatti una intensificazione dei pro-cessi di inclusione omologante e identitaria, risultando un conti-nuatore sia della tradizione democratica e illuministica che per-segue l’inclusione e mira ad ampliare la sfera dei diritti, sia dellatradizione del pensiero autoritario e conservatore, per cui l’in-

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clusione è passivamente subita da parte del soggetto e non è il ri-sultato di un’azione volontariamente e liberamente perseguita.L’enfasi sul tratto identitario (etnico-linguistico, culturale e poli-tico) è d’altronde tipica del fascismo, poiché ogni fascismo si nu-tre di una volontà di unificazione che mira a suscitare le diffe-renze per risolverle nell’Uno: nel caso dei fascismi storici si trat-tava del corpo mistico dello stato, nel caso dei tecno-fascismi del-l’adesione quasi religiosa al mistero del capitale. Il tecno-fasci-smo, quindi, contiene sempre in sé una metafisica e una mistica– perfino nelle forme più radicalmente secolarizzate e neocini-che – che fungono da supplemento d’anima alla nuda efficaciadel binomio potere-techne.

Una volta che si sarà considerato il fascismo (tanto quello sto-rico quanto le sue forme più aggiornate) come un fenomeno pe-riferico, increspatura o turbolenza marginale rispetto ai centri delsistema, allora non sarà più necessario parlare di “anomalie”, poi-ché il comportamento apparentemente anomalo del sistema allasua periferia si rivela una risposta autoimmunitaria standard chesi scatena là dove (e quando) il sistema entra in crisi. A una rapi-da osservazione empirica non sfuggirà che i fascismi storici do-vettero la loro affermazione a processi di consolidamento dellearee periferiche del sistema capitalistico – una sorta di “mem-brana” garantita da regimi dittatoriali e repressivi –, capace diconservare le istituzioni del capitale nei suoi “centri” (le “capita-li” del mondo capitalistico: New York, Londra, Parigi, e in se-guito anche quelle dei fascismi storici: Berlino, Tokyo, in misuraminore Roma), e di salvaguardare gli interessi globali delle cor-poration. Nella logica della Guerra fredda ciò ha significato pro-vocare delle crisi locali nelle aree periferiche a rischio, e quindirisposte autoimmunitarie nei sottosistemi locali (America latinae centrale, Europa mediterranea).

Dopo il 1989, nel mondo ridisegnato dal crollo della cortina diferro, è nuovamente mutato il rapporto tra aree centrali e perife-riche, a causa della crescita molto rapida di alcuni paesi emergen-ti, un tempo facenti parte o dell’area comunista o dei paesi non-allineati. Secondo questa prospettiva, l’Italia sta subendo da al-

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meno vent’anni una progressiva marginalizzazione geo-strategicanel quadro dei paesi occidentali.6 Di conseguenza, si può parlaredi “anomalia” solo assumendo il punto di vista “centrale” del si-stema e, pertanto, alla sola condizione di adottare come metro ilmodello del mercato e delle democrazie liberali quale “norma”(con il problema, non secondario, di avere posto come premessaindiscussa tale “norma”). Questo approccio rischia di discono-scere come la presunta “anomalia” sia del tutto funzionale alla lo-gica di conservazione del sistema, fino ad arrivare al punto in cuilo stato, inteso come riproduzione molecolare del sistema, intac-ca se stesso e collassa per garantire risorse, se non vitali quantomeno utili, al sistema complessivo.7

Le turbolenze locali, dunque, possono senza dubbio portarealle disgregazioni e alle riconfigurazioni dei sottosistemi (si con-fronti per questo la carta politica dell’Europa prima e dopo il1989) senza escludere possibili esiti catastrofici, allorquando ledinamiche autoimmunitarie prendono la forma di conflitti en-demici generati dallo stesso corpo politico entrato in crisi. Se al-cuni anni fa Alain Badiou si era chiesto di che cosa fosse il nomeSarkozy8 – per alcuni versi espressione di tendenze analoghe alberlusconismo italiano –, alla domanda circa chi o che cosa espri-me Berlusconi, possiamo provare a rispondere che quel nome in-dica il sintomo di un processo autoimmunitario di un sottosistemaperiferico con cui è reso visibile il nucleo tecno-fascista del mon-do tardo-capitalista. Hanno pertanto ragione coloro che, con mag-giore o minore preoccupazione sulle sorti della democrazia a ve-nire, considerano l’Italia come un “laboratorio” post-politico del-le tendenze attuali.

6. Per una considerazione della riduzione del peso dell’Italia nello scenario internazio-nale e del suo riposizionamento rispetto ai tradizionali assi della politica estera italiana, vediil numero monografico di “Limes”, 6, 2010, dedicato a Berlusconi nel mondo.

7. È in tale ottica che dovrebbe essere letto l’intero processo di privatizzazione dei benidello stato che, avviato nel corso degli anni novanta, in una fase in cui la politica non ha rap-presentato un contrappeso sufficiente agli interessi economici – tanto interni quanto esternial paese –, ha portato alla dismissione e alla liquidazione di rilevanti attività economiche sta-tali, e dei conseguenti interessi a esse collegate.

8. A. Badiou, Sarkozy: di che cosa è il nome? (2007), Cronopio, Napoli 2008.

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5. La democrazia come spettacolo (tecno-fascismo emedia)

Il crollo dei regimi socialisti dell’Europa dell’Est ha ampiamentedimostrato la forza dispiegata dai media occidentali, la televisio-ne in primo luogo, che da oltrecortina si apriva come una finestrasu un mondo cui non era possibile accedere se non in immagine.Il desiderio di libertà che mosse i popoli dell’Europa dell’Est, seera stato acceso, letteralmente, dall’ansia di una vita diversa, ven-ne pure incanalato nell’alveo di un immaginario onirico prefab-bricato altrove, con la conseguenza che l’anelito al cambiamento(del socialismo) si tradusse di fatto nell’accettazione dei “valori”del capitalismo. Quel caso esemplare ha mostrato come i mediaabbiano grandemente accresciuto la sfera d’efficacia del potere-techne, mediante la cattura del desiderio e la sua messa a regimecapitalistica con cui viene data risposta alla domanda collettiva dicambiamento e di trasformazione.

Il generale arretramento dei discorsi critici, emancipatori, per-fino riformisti, se non addirittura rivoluzionari, deve essere mes-so in relazione con la sconfitta delle forze storiche di sinistra sulterreno della costruzione mediatica del mondo, dovuta alla sotto-valutazione dei mezzi di comunicazione di massa non tanto comeorientamento della pubblica opinione (tesi classica del pensiero li-berale) quanto come opera costante di mitopoiesi con cui il capi-tale può rappresentarsi fantasmagoricamente come naturale: dalpiano dei processi economici, alle forme tradizionali di legittima-zione culturale (giurisprudenza, etica, politica, letteratura), a quel-lo della visione universale del mondo (arte, spettacolo, comunica-zione e media).

La costruzione dell’immaginario è funzionale alla formazione,al consolidamento e alla conservazione del consenso di massa, poi-ché crea un soggetto collettivo – altrimenti frantumato – che si ri-specchia nel mito identitario e così è in grado di prendere corpo.Tuttavia si tratta di un corpo collettivo instabile e volatile (“liqui-do”, direbbe Bauman), che trova la sua ragion d’essere politica so-lo grazie alla pressione esercitata dai media sui singoli atomi. Se lapolitica tradizionale prevedeva il conflitto o la conciliazione di in-

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teressi particolari in nome di un più generale “bene comune” (oaddirittura in nome di valori universali), il XX secolo ha visto unaprogressiva trasformazione del campo politico dell’Occidente sot-to la spinta di interessi al contempo particolari e sovrastatali chesi sono intrecciati con la moltiplicazione della potenza dei media.L’unico vero universalismo rimasto è di fatto quello del “mercatoglobale”. Perciò, senza una strategia per i media, non ci può esse-re efficace contrasto alla logica del capitale.

Come la storia recente ha ulteriormente dimostrato, tertiumnon datur. L’abbandono del contrasto del capitalismo da parte del-la sinistra riformista occidentale nel corso degli anni novanta hafatto da terreno di coltura per l’evidente regresso politico-cultu-rale dell’inizio del XXI secolo, quando si è assistito alla recrude-scenza dei discorsi populisti, razzisti, xenofobi e quando, in Eu-ropa, l’affermazione delle nuove destre politiche ed economicheha ristrutturato in modo significativo la cornice politica e cultu-rale nella quale ci troviamo. L’idea, perdente oltre che ideologica,di riformare il capitalismo per garantirne la sopravvivenza, si è alcontrario dimostrata vincente per quelle forze che rivendicanoapertamente l’eredità dei fascismi storici o ne ripropongono, informa semplificata, alcune parole d’ordine che fungono da place-bo rassicuranti di fronte ai grandi mutamenti globali. Va da sé chel’accesso alla sfera pubblica e mediatica di tali discorsi e la loro ca-pacità di presa sulle masse non devono essere visti come un acci-dente, ma come la necessaria conseguenza di un’esigenza precisa:ridare stabilità immaginaria, mediante l’enfasi sulla sicurezza, a unmondo scosso da processi globali interamente riconducibili alletrasformazioni del tardo-capitalismo.

I processi sono materiali e concreti, la risposta è immaginariae mitopoietica. In essa consistono quei supplementi d’anima dicui il capitalismo necessita e che da esso vengono prodotti in con-tinuazione, con un’operazione di ricombinazione kitsch di bran-delli di memoria, di cascami di immagini e di discorsi che vannoa formare la stoffa di una “degenerazione reattiva”.9 Tale pout-

9. J. Derrida, Otobiographies. L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio(1984), Il poligrafo, Padova 1993, p. 77.

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pourri che mescola, stravolgendola, l’eredità storica delle cultu-re delle destre con il lessico della tradizione liberale e progressi-sta,10 è virulento ed efficace, poiché delimita l’orizzonte del mon-do che i media costruiscono, e rende perciò impossibile un’arti-colazione, interna al mondo così formato, dei discorsi e dei pun-ti di vista, specie di quelli antagonisti. La vocazione dei media inquesta fase tardo-capitalistica è dunque una vocazione totalitariao neototalitaria che conserva superficialmente la possibilità di ac-cesso e di critica, ma solo secondo modalità già previste e codifi-cate che escludono per principio la messa in discussione deglistessi codici. È l’impero del format e del mainstream, per le im-magini e i discorsi, a garantire la tenuta delle strutture e della lo-gica del sistema.

Il declino del “politico” – che si accompagna in questa fase sto-rica al declino dello stato, dei suoi organi e delle sue istituzioni –si riverbera in un’identità collettiva come “pubblico di spettato-ri”. Gli individui sono indotti a non identificarsi più con il desti-no dello stato (cosa che aveva marcato invece i fascismi storici),ma ad assumere un’appartenenza labile i cui contenuti possonoessere qualsiasi. Ciò che importa non è in nome di che cosa o a qua-le scopo si appartiene, importante è l’appartenenza in sé unita a unatteggiamento fideistico verso la capacità del sistema di fornire“beni” e “valori” a ciascuno. Il contratto sociale viene di fatto sop-piantato da una fidelizzazione alle ragioni propagandate, e il ruo-lo del cittadino sostituito con quello del consumatore/utente. È inquesto modo che gli apparati mediatici stanno dunque svolgendouna funzione di supplenza al politico: non propriamente sosti-tuendolo, ma infettandolo, svuotandolo così delle sue prerogati-ve e del suo senso storico.

Con la conclamata debolezza del politico di fronte al potere

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10. Il caso italiano è particolarmente significativo di questa deriva linguistica con cui èavvenuta l’appropriazione del lessico della tradizione progressista da parte della nuova de-stra. L’elenco è lungo e varrebbe la pena analizzare le trasformazioni semantiche, talvolta ad-dirittura i rovesciamenti di senso, che caratterizzano la neolingua mediatica delle nuove de-stre. Mi limito qui a ricordare alcune parole, in primo luogo “libertà” (divenuta l’emblemadi tutte le nuove destre populiste europee), poi “democrazia”, “riforma”, “diritto”, “diffe-renza”, “riconoscimento” ecc.

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tecnico e mediatico, la risposta all’inquietudine delle masse fini-sce per non articolarsi più in termini di efficacia politica, ma sulpiano della psicologia collettiva. I media offrono così un reperto-rio di immagini e parole funzionale a una mitologia postmodernache semplifica la straordinaria complessità del nostro orizzontesimbolico e permette l’innestarsi di credenze che fungono da ele-mentari schemi di comprensione della realtà. La contrapposizio-ne (profetica) tra politicizzazione dell’estetica (rivoluzionaria e disinistra) ed estetizzazione del politico (intrinsecamente reaziona-ria e fascista), annunciata quasi ottant’anni fa da Benjamin, si stadunque risolvendo a vantaggio della seconda. È questo uno deglieffetti più rilevanti legati al tramonto delle tradizionali categoriedel politico: la traduzione costante e quotidiana di quest’ultimo inspettacolo.

Perciò il caso italiano è per molti versi cruciale, dal momentoche in Italia il potere sovrano si è configurato come effetto media-tico, prima e più di quanto non sia stato governo politico. Il casoitaliano mostra tuttavia un paradosso interessante: all’aumentaredella mediatizzazione del potere è seguita di pari passo una dimi-nuzione dell’efficienza sistemica, fatta eccezione per quella stret-tamente necessaria alla conservazione del potere e degli interessiparticolaristici di lobby e di potentati legati a doppio filo al go-verno. Dunque le ragioni del tramonto del berlusconismo comepeculiare esempio di tecno-fascismo possono essere trovate nellacontraddizione risultante dalla sproporzione tra la propaganda el’efficacia della policy. La conseguenza è che la perdita della fidu-cia e la de-fidelizzazione dipenderanno da una crisi interna del ber-lusconismo come risposta inadeguata alla domanda di efficienza edi composizione degli interessi particolari. Occorre perciò guar-darsi dal considerare la fine delle fortune politiche di Berlusconicome un tramonto del “berlusconismo”, il che sarebbe un altromodo di attribuire all’uomo doti e capacità di “individuo cosmi-co-storico”. Una volta che si saranno spente le luci sull’uomo, siaprirà l’autentico conflitto tra le tendenze dominanti, espressionedel nichilismo globale, e quelle tendenze, oggi disaggregate e mi-noritarie, che vi si oppongono. La fine dell’avventura politica di

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Berlusconi presenterà dunque il rischio, assai concreto, che alladomanda di efficienza segua una risposta “tecnica” e “impolitica”che, a dispetto della sua apparente “neutralità”, corrispondereb-be appieno alle esigenze sistemiche di liquidazione del politico edi una sua contemporanea conservazione come semplice spetta-colo. La grottesca figura dell’imprenditore-politico potrebbe ri-velarsi così, a posteriori, una figura-limite: in quanto “antipoliti-ca”, essa potrebbe mostrare ancora, in realtà, come quel minimodi politico che era stata in grado di mobilitare fosse eccessivo perle esigenze delle tecno-strutture capitalistiche. La sua forza me-diatica si potrebbe allora rivelare come il nocciolo della sua de-bolezza, poiché dal punto di vista sistemico generale l’affermarsidel berlusconismo non poteva che condurre al suo fallimento po-litico, in assenza di una strategia coerente e in sintonia con il do-minante neoliberismo globale. Il suo successo consisterà invecenell’aver reso desiderabile al paese una svolta più netta verso unsistema tanto più efficiente quanto più rispecchiantesi in un si-mulacro di democrazia.

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