Capitalismo e (dis)ordine mondiale

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Scuola Normale Superiore From the SelectedWorks of Mario Pianta 2010 Capitalismo e (dis)ordine mondiale Giovanni Arrighi Available at: hps://works.bepress.com/mario_pianta/74/

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Scuola Normale Superiore

From the SelectedWorks of Mario Pianta

2010

Capitalismo e (dis)ordine mondialeGiovanni Arrighi

Available at: https://works.bepress.com/mario_pianta/74/

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INCISIONI

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CAPITALISMOE (DIS)ORDINE MONDIALE

a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta

GIOVANNI ARRIGHI

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Indice

Introduzione 7Le lezioni di Giovanni Arrighidi Giorgio Cesarale

1. I tortuosi sentieri del capitale. Intervista con David Harvey 29

2. Secolo marxista, secolo americano. L’evoluzione del movimento 65operaio nel mondo

3. Le disuguaglianze mondiali 109

4. Capitalismo e (dis)ordine mondiale 143di Giovanni Arrighi e Beverly Silver

5. Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo 181di Giovanni Arrighi e Lu Zhang

Bibliografia completa di Giovanni Arrighi 223

© 2010 manifestolibri srlvia Bargoni 8 – Roma

per i capitoli 1, 2, 3copyright New Left Review, 1990, 1991, 2009

per il capitolo 4 e 5copyright degli autori

Traduzioni di Giulio Azzolini, Laura Cantelmo, Sara Labanti, Guido Parietti,Silvia Pianta.

ISBN [email protected]

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Introduzione

Le lezioni di Giovanni Arrighidi Giorgio Cesarale*

Nel dibattito sulla attuale crisi economica globale è diventatoormai quasi senso comune la critica all’incapacità della scienza economi-ca dominante di indicare e interpretare adeguatamente le cause di que-sta crisi, e in particolare di uno dei suoi fenomeni più abbaglianti, e cioèil processo di finanziarizzazione. Che legami ha questo processo con ciòche, peraltro impropriamente, si chiama “economia reale”? Che nessovi è fra questo processo e la vorticosa espansione economica di intereregioni del pianeta (il Sud-est asiatico delle quattro “tigri”, della Cina,del Vietnam ecc.)? Quale ruolo giocano in esso gli Stati, da quelli inascesa a quelli in più evidente difficoltà? Sono domande cruciali, cheobbligano a fornire una risposta alta e convincente. D’altro canto, perrispondere a queste domande è necessario collocare l’attuale crisi e laturbolenza globale che l’accompagna entro un orizzonte storico e geo-grafico più largo. Uno “sguardo corto” sulla crisi è precisamente ciò chepuò impedire di comprenderla in tutta la sua complessità. E tuttavia èproprio da questo “sguardo corto” che la maggior parte degli osservato-ri e degli studiosi appare caratterizzata. Le eccezioni sono rare1: tra que-ste c’è Giovanni Arrighi (1937-2009), una delle figure più rilevanti,insieme ad Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e TerenceHopkins, dell’approccio “sistemico” allo studio della storia e della strut-tura del capitalismo globale, dei movimenti sociali anticapitalistici, delledisuguaglianze mondiali di reddito e dei processi di modernizzazione.Nel discorso di Arrighi l’attuale crisi e l’inarrestabile processo di finan-ziarizzazione che le si collega sono interpretati alla luce dell’intera traiet-toria di sviluppo del capitalismo mondiale, dalle città-Stato italiane rina-scimentali all’ascesa degli Stati uniti alla guida del sistema economicointernazionale. In questa prospettiva, il processo di finanziarizzazioneche segna la nostra epoca deve essere inteso sia come sintomo delladecadenza dello Stato attualmente egemone a livello internazionale, gliStati uniti, sia come condizione della riapertura, in un diverso contestogeografico, di un nuovo ciclo di espansione economica “materiale”(industriale e commerciale).

L’eccezionalità della figura di Arrighi, il quale, e non solo ai nostri

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Vogliamo ringraziare per la collaborazione alla realizzazione di questolibro Beverly Silver, compagna di vita e di lavoro di Giovanni Arrighi, perla sua disponibilità e i suoi consigli.

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occhi2, appare come uno dei massimi studiosi dell’economia-mondocapitalistica della seconda metà del Novecento, ci fa ritenere che sianoormai giunti i tempi per avviare una riflessione a tutto tondo sulla suaopera. È un compito, questo, di cui anche altrove si è espressa l’impor-tanza3, e di cui urge preparare le condizioni di realizzazione. È anche atale scopo che è stata concepita la presente iniziativa editoriale: essainfatti contiene materiali – dall’intervista autobiografica concessa quasiin punto di morte a David Harvey (uno dei più insigni teorici marxisticontemporanei, autore de La crisi della modernità e Breve storia del neo-liberismo) ad alcuni dei più importanti, e ancora inediti in italiano, saggidi teoria sociale e di interpretazione storica scritti da Arrighi – che pos-sono aiutare a ricostruire meglio il suo profilo intellettuale complessivo,il senso della sua operazione teorica.

Su questi scritti e sulle ragioni che ci hanno condotto a proporne latraduzione in italiano diremo qualcosa al termine dell’introduzione. Invia preliminare, tuttavia, vorremmo provare a offrire al lettore il nostropunto di vista sia sull’itinerario intellettuale percorso da Arrighi sia sulsignificato della sua opera.

L’ECONOMIA POLITICA DELL’AFRICA

In relazione ai “fatti” che hanno costellato la sua biografia vi è, inverità, poco o nulla da aggiungere a quanto è detto da Arrighi stessonella intervista ad Harvey. Proveniente dai ranghi di una famiglia bor-ghese antifascista, Arrighi compie gli studi universitari di economia allaBocconi con l’intenzione di procurarsi le competenze necessarie a diri-gere l’azienda del padre, nel frattempo deceduto. Ma, come capod’azienda, Arrighi si accorge subito di non riuscire: decide perciò dicambiare ambiente di lavoro e di proseguire la carriera accademica,diventando assistente volontario. È un’occupazione, però, che non glifornisce di che mantenersi: Arrighi è perciò costretto prima ad accettareun impiego come apprendista manager presso la multinazionale anglo-olandese Unilever e poi a candidarsi per un posto di docente di econo-mia presso una sede distaccata in Rhodesia (l’odierno Zimbabwe)dell’Università di Londra. Sono gli anni in Africa della “decolonizzazio-ne”, delle lotte di liberazione nazionale e della formazione di nuoveentità statali autonome. Arrighi si fa da subito intellettualmente e anchepoliticamente partecipe di questa atmosfera: il suo primo e importantesaggio, The Political Economy of Rhodesia (da noi tradotto poi con il

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titolo Struttura di classe e sovrastrutture in Rhodesia), è scritto proprionel 1965, e cioè nell’anno in cui di solito si fa cadere la fine del processodi decolonizzazione.

Arrighi fin dal suo arrivo in Rhodesia non nutre illusioni sulla pos-sibilità di trasformare il riscatto nazionale dei popoli africani in unriscatto economico e sociale: la struttura polarizzata del capitalismomondiale, per la riproduzione della quale vi è la necessità da parte dei“centri” del sistema di drenare dividendi e profitti dagli investimenticompiuti nei paesi africani e di realizzarli in modo molto “selettivo”(tutti ad alta intensità di capitale e non indirizzati alla produzione dibeni strumentali), è un serio ostacolo a un decollo, in particolare indu-striale, di questi paesi. La Rhodesia rappresenta peraltro, da questopunto di vista, una sorta di case study privilegiato: è infatti uno deipochi paesi africani in cui sia esistita, per uno strano scherzo del destino– i sovrainvestimenti nel settore minerario, causati da un errore di valu-tazione, della British South Africa Company, e il tentativo, da parte diquest’ultima, di recuperarli stimolando uno sviluppo del paese e dellesue forze sociali –, una borghesia agraria nazionale in qualche modointeressata a puntare sulla crescita del paese. Non solo: è uno dei pochipaesi dell’Africa sub-sahariana ad aver ospitato un compiuto processodi proletarizzazione della propria forza-lavoro agricola, soprattutto acausa del crollo della produttività subito, tra gli anni Trenta e Sessanta,dai terreni posseduti dai produttori agricoli indipendenti. Esistendonele condizioni sociali (la presenza, da un lato, di una borghesia interessa-ta all’allargamento della base produttiva e, dall’altro, di una riserva diforza lavoro disponibile a vendersi sul mercato), sembra offrirsi unoscenario ideale per una transizione compiuta al capitalismo; eppure taletransizione non si dà. E non si dà per ragioni che successivamente Arri-ghi chiamerà “sistemiche”: ciò che conta in ultima istanza è la strutturadel capitalismo a livello mondiale, non la particolare configurazioneproduttiva e sociale all’interno di un determinato Stato-nazione. Se ilsistema capitalistico mondiale poggia sulla costante riproduzionedell’asimmetria fra regioni forti e deboli del pianeta, provare a guidareun paese “arretrato” verso lo “sviluppo” è un’impresa senza possibilitàdi successo. A meno che, dice qui Arrighi ispirato da Samir Amin, nonsi lavori sulla déconnexion, sullo sganciamento, dai paesi capitalistici svi-luppati, e si provveda a rompere con forza il cordone ombelicale chelega quest’ultimi ai paesi del Terzo mondo.

Si apre, con ciò, il versante più politico della riflessione di Arrighisull’Africa tropicale; versante che trova la sua più ampia esplicitazione nei

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saggi scritti dopo che il governo allora in carica in Rhodesia lo espelle dalpaese per attività sovversive, costringendolo a trovare riparo in Tanzania,all’università di Dar es Salaam. In questi saggi (L’offerta di lavoro in unaprospettiva storica, Società multinazionali, aristocrazie del lavoro e sviluppoeconomico nell’Africa tropicale, Socialismo e sviluppo economico nell’Africatropicale, Nazionalismo e rivoluzione nell’Africa sub-sahariana) e, in specienegli ultimi due, scritti con John Saul, Arrighi radicalizza la propria posi-zione, contestando i luoghi comuni del socialismo africano e del marxi-smo più volgare. Gli obiettivi critici sono, in particolare, due:

1) l’idea che occorra, per garantire lo “sviluppo”, “scendere a pat-ti” con il grande capitale internazionale;

2) l’idea che non sia economicamente e politicamente produttivointervenire sulla distribuzione del reddito di questi paesi, malgrado que-sta consegni nelle mani delle burocrazie statali e degli scaglioni medi esuperiori dei lavoratori, anche formalmente proletarizzati, delle grandiimprese private una quota della ricchezza sociale nazionale assoluta-mente sproporzionata.

Su quest’ultimo punto, e sulla sua importanza anche negli sviluppisuccessivi del continente africano, Arrighi non ha peraltro mai smesso diinsistere: nel suo ultimo, corposo, saggio sulle vicende africane, TheAfrican Crisis, apparso nel 2002 sulle pagine della “New Left Review”,la stessa involuzione autoritaria degli Stati africani, che li ha resi facilepreda dei golpe militari, è fatta risalire alla tendenza delle burocrazie,pubbliche e private, di conservare a ogni costo i privilegi garantiti lorodalla esistente distribuzione del reddito.

CRISI ED EGEMONIA NELL’ITALIA DEGLI ANNI SETTANTA

In Tanzania Arrighi rimane tre anni, dal 1966 al 1969, fino a quan-do non è richiamato in Italia a insegnare presso uno degli epicentri delmovimento del ’68, la nuova Facoltà di Sociologia dell’Università diTrento. Qui il suo insegnamento riscuote un successo quasi immediato.Gli studenti del movimento, infatti, pur con qualche rilevante dissensointerno – che Arrighi nell’intervista ad Harvey rievoca in modo sapido –affluiscono copiosi alle sue lezioni, attratti dalla fama di studioso “terzo-mondista” e “radicale” che Arrighi si è fatto in virtù della pubblicazio-ne, nell’estate del 1969 presso la casa editrice Einaudi, del suo primolibro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, che raccoglie tutti isuoi saggi redatti nel periodo africano.

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Il periodo italiano dura dal 1969 al 1979, ed è a sua volta suddivisoin due parti: nella prima, che va dal 1969 al 1973, l’azione di Arrighi sisvolge sull’asse Milano-Torino, e cioè tra la sinistra extraparlamentare e,per dirla con Raniero Panzieri, le lotte operaie nello sviluppo capitalisti-co; nella seconda, invece, che va dal 1973 al 1979, Arrighi, trasferitosi ainsegnare a Cosenza, all’Università della Calabria, abbandona di nuovoil terreno dello “sviluppo”, per reimmergersi nello studio dei processi diproletarizzazione degli immigrati, questa volta calabresi.

Nelle ricerche condotte nella fase calabrese Arrighi porta a nuovaverifica il risultato cui era già giunto negli studi sul reclutamento dellaforza-lavoro in Rhodesia: la proletarizzazione, la creazione di grandiriserve di forza lavoro prive dell’accesso ai mezzi di produzione, non è,contro Marx e il marxismo, la conditio sine qua non dello sviluppo capi-talistico. E non lo è perché, sia per i rhodesiani migrati dalla campagnaalla città sia per i calabresi spostatisi in Nord Italia, la proletarizzazionecoincide con la richiesta di alti salari, i quali abbassano il saggio di pro-fitto – e quindi la convenienza a investire dei capitalisti – e procurano alproletario quelle risorse monetarie che possono aiutarlo a ritrasformarsiin soggetto economico indipendente. Come si può agevolmente consta-tare, Arrighi viene qui articolando una tesi che già lo colloca nei fatti dallato della scuola sistemica di Wallerstein, Frank e Hopkins, che, come ènoto, ha largamente insistito sulla non centralità del lavoro salariato perla nascita e la promozione dello sviluppo capitalistico. In forme diverse,è una tesi che emergerà anche dai suoi più recenti lavori sulla Cina, rias-sunti nel capitolo 5 di questo volume.

Sennonché, per quanto importante, a noi non pare che la fase cala-brese aggiunga molto di più a quanto già maturato da Arrighi in Africa.Più determinante ci pare il corpo di esperienze teorico-pratiche acquisi-te da Arrighi a contatto con la fase ascendente del ciclo delle lotte ope-raie italiane degli anni Settanta, quella che va dall’autunno caldo del1969 alla stagione contrattuale del 1973. In questa postazione, Arrighiavverte in presa diretta i primi effetti dello scatenarsi della crisi capitali-stica mondiale nel quinquennio 1968-1973, dall’apparizione delle primevampate inflazionistiche negli Stati uniti allo shock petrolifero, passandoper la fine, sancita da Nixon nel 1971, della convertibilità fra dollaro eoro. E subito avverte l’importanza di questa crisi: come interpretarla?Che cosa ne sarà dell’ordine mondiale a egemonia statunitense stabilito-si dopo la fine della Seconda guerra mondiale? Che conseguenze avràtutto ciò per i movimenti sociali anticapitalistici?

Al di là dei molteplici e apparentemente divergenti interessi tema-

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tici che Arrighi ha coltivato lungo il resto della sua vita, a noi pare chequesto sia stato il fuoco principale della sua attività teorica dopo il 1973.Non a caso, uno dei testi più rilevanti di Arrighi negli anni Settanta è ilsaggio Verso una teoria della crisi capitalistica4. In questo saggio, Arrighicomincia ad articolare una distinzione teorica cui terrà fede fino al suoultimo libro, Adam Smith a Pechino5, e cioè quella fra una crisi capitali-stica causata dalla caduta del saggio di profitto e una crisi capitalisticacausata dalla sovrapproduzione, dall’assenza di domanda di merci.Entrambe sono determinate dal livello di remunerazione della forza-lavoro salariata: solo che in un caso, il primo, la crisi è determinatadall’alto livello di remunerazione (e di potere in fabbrica) del lavorosalariato, che diminuisce la quota dei profitti disponibili ai capitalisti;nell’altro, il secondo, la crisi è determinata dal basso livello di remunera-zione (e di potere in fabbrica) del lavoro salariato, che, poiché sul mer-cato ha poco da spendere, lascia invenduto un grande quantitativo dimerci. Arrighi era – e lo è in parte rimasto fino alla fine – dell’idea che lacrisi mondiale scatenatasi negli anni Settanta fosse del primo tipo, invirtù dell’elevato potere contrattuale e politico conquistato nella goldenage dalle organizzazioni sindacali e politiche della classe operaia. Questoprovvedeva, contro il parere a riguardo di buona parte della sinistramarxista e non, a differenziare la crisi degli anni Settanta da quella deglianni Trenta, che era stata, invece, una crisi del secondo tipo, una crisi dasovrapproduzione.

Pur non priva di interesse e di un certo grado di utilità euristica,questa distinzione non ci sembra tuttavia “tenere”: tutto il peso, nellaeziologia delle crisi capitalistiche, è fatto ricadere sulla forza, contrattua-le e politica, della classe operaia, dimenticando il nesso, altrettanto fon-damentale nella genesi delle crisi capitalistiche, fra le rivoluzioni tecno-logiche e la crescita delle pressioni competitive. Insomma, senza consi-derazione della crescita del quoziente tecnologico della produzione edella concorrenza, un adeguato schema interpretativo della crisi non èarticolabile. Arrighi di questo in qualche modo si è venuto progressiva-mente rendendo conto, tant’è che sia in Lungo XX secolo6, il suo opusmagnum, sia in Adam Smith a Pechino, è venuto rettificando il suo sche-ma iniziale di interpretazione dell’origine della crisi degli anni Settanta,facendo adeguato spazio alla questione della intensificazione, negli anniimmediatamente precedenti al suo scoppio, della concorrenza intercapi-talistica.

V’è da dire, peraltro, che la fedeltà all’idea che fosse stato l’elevatotasso di conflittualità operaia a determinare lo scoppio della crisi non ha

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sempre reso ad Arrighi un buon servizio in termini analitici: fino ad anni’80 inoltrati, infatti, Arrighi ha ritenuto irrevocabile la forza conquistatadalla classe operaia nei paesi del centro, con la conseguenza di sottova-lutare, forse più del dovuto, gli effetti sociali della rivoluzione monetari-sta e neoliberale di Reagan e della Thatcher.

In ogni caso, anche se per altri motivi, lo schema elaborato conVerso una teoria della crisi capitalistica comincia ad apparirgli non piena-mente soddisfacente già a metà degli anni Settanta, allorché inizia laredazione di Geometria dell’imperialismo7. Ciò che in quello schemanon trovava posto erano essenzialmente due punti:

1) lo sviluppo ineguale del capitalismo a livello mondiale;2) la composizione etnica e culturale della forza-lavoro a livello

mondiale.Sono due punti caratteristicamente “leniniani”, due pilastri della

teoria leniniana dell’imperialismo. Ma ad Arrighi la teoria leninianadell’imperialismo, contrariamente a gran parte della sinistra rivoluziona-ria del tempo, appariva, ed è sempre più apparsa dopo, largamenteinservibile. A renderla tale era stato lo sviluppo dei rapporti economici epolitici dopo la Seconda guerra mondiale: la fase della acuta conflittua-lità interimperialistica, quella nella quale Lenin aveva forgiato la sua teo-ria, era terminata e al suo posto era subentrato l’impero informale statu-nitense, la “pacifica” ricostruzione dell’ordine del mercato mondialesotto l’egida delle agenzie economiche e politiche internazionali a guidastatunitense (Onu, Fmi, Banca mondiale ecc.). La categoria di “imperia-lismo” era quindi diventata senza referente oggettivo. Per dissiparnefino in fondo l’indeterminatezza, Arrighi in Geometria dell’imperialismoallestisce una raffinata analisi, basata su una matrice teorica ricavata daImperialism di Hobson: vi sono quattro diversi tipi di relazioni intersta-tali in epoca moderna (colonialismo, impero formale, impero informale,imperialismo), e l’errore di Lenin è stato di pensare che l’imperialismosegnasse, all’interno del sistema capitalistico, la fase “suprema” di svi-luppo delle relazioni interstatali.

Si tratta di un punto cui Arrighi non rinuncerà più, e che anzi tro-verà ulteriore esplicitazione nella sua più matura teoria sistemica. Certo,una critica della categoria leniniana di “imperialismo” che fa a meno diindagare quello che a noi appare come il suo nocciolo teorico (l’imperia-lismo come fase contrassegnata dal dominio del capitale finanziario inte-so come unità di capitale bancario e industriale) non si può dire pro-priamente riuscita. Se si vuole, questa è la spia di un problema che, inqualche modo, Arrighi si è, fin da allora, trascinato dietro. Il problema è

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siamo approssimati a uno dei punti più qualificanti del discorso di Arri-ghi – era costituita dalla capacità degli Stati uniti di continuare a fungereda regolatore del mercato mondiale. Questa capacità, dice Arrighi acavallo fra anni Settanta e anni Ottanta, era stata definitivamente man-data in frantumi. Gli Stati uniti, infatti, soprattutto dopo aver sancito nel1971 la fine della convertibilità fra dollaro e oro, avevano rinunciato arappresentare gli interessi generali della intera classe capitalistica mon-diale, per badare solo alla crescita delle attività capitalistiche localizzateentro i propri confini. Gli Stati uniti avevano smesso, cioè, di esseregramscianamente “egemonici”, abbandonando il mercato mondialeall’instabilità e all’anarchia. Oggi è diventato abbastanza comune, anchepresso gli studiosi di relazioni internazionali, fare ricorso, per indagarele dinamiche di potere mondiali, alla categoria gramsciana di “egemo-nia”. Ma non bisognerebbe dimenticare di rendere merito a coloro, eArrighi è fra questi, che per primi hanno reso ciò possibile, esplorandole potenzialità in termini di interpretazione delle relazioni internazionalicontenute nel concetto gramsciano di “egemonia”12.

In un certo senso, il saggio Una crisi di egemonia si colloca teorica-mente – pur essendo stato pubblicato qualche anno più tardi della suaconclusione – al margine estremo del periodo italiano. Questo perché cipare che qui Arrighi tenda a ragionare sulla crisi degli anni Settanta intermini più strettamente marxisti di quanto farà in seguito. L’idea chesoggiace al saggio è ancora, infatti, quella tipica di molte delle interpre-tazioni marxiste della crisi: dopo un trentennio di matrimonio felice fraStato e capitale, quest’ultimo, per fuoriuscire dalla crisi di redditivitàche lo investe a partire dagli inizi degli anni Settanta, avrebbe rotto que-sto matrimonio, e le regole scritte e non scritte che lo avevano suggella-to. Il capitale, cioè, per dare piena soddisfazione ai suoi impulsi accu-mulativi avrebbe riguadagnato completa libertà d’azione, soprattuttorispetto ai vincoli imposti dai compromessi sociali e politici stipulati nel-la fase precedente, quella del boom.

L’INCONTRO CON LA SCUOLA SISTEMICA

Nel 1979, con il suo trasferimento a Binghamton, alla State Uni-versity di New York e al Fernand Braudel Center, si apre il periodoamericano di Arrighi, che è durato fino alla morte nel 2009. Questoperiodo coincide con una più piena inscrizione della sua operazioneconcettuale sotto le insegne della teoria sistemica di Wallerstein, Frank e

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il seguente: Arrighi diventerà in seguito famoso come uno dei più acutiteorici della centralità, entro l’assetto capitalistico contemporaneo, delprocesso di finanziarizzazione. E tuttavia, come hanno notato eminenticritici (Peter Gowan8, Robert Pollin9, Richard Walker10), non è maichiaro in Arrighi che cosa la categoria di “finanza” celi dentro di sé. Leoperazioni finanziarie saranno sempre analizzate a un grado troppo altodi generalità teorica, non saranno mai indagate nella loro concretezza. Ilsospetto che questi critici hanno avanzato è che l’incapacità di Arrighi disvolgere una analisi concreta della finanza nasconda una fondamentaleindeterminatezza concettuale, analoga a quella da egli rimproverataall’imperialismo leniniano.

Comunque sia, ad Arrighi va riconosciuto il merito di aver coltofin dall’inizio, e di averlo ribadito anche in seguito, che l’aprirsi della cri-si capitalistica mondiale non avrebbe coinciso con il riaccendersi di riva-lità di tipo “mercantilistico” e con la ripresa di politiche protezionisti-che. Come è soprattutto argomentato in un saggio di grande densitàteorica, Una crisi di egemonia11, a impedire la resurrezione di questerivalità e di queste politiche erano, in particolare, due caratteristicheapparse nell’ordine economico mondiale soprattutto a muovere dallafine della Seconda guerra mondiale:

1) il prevalere dell’investimento diretto all’estero sul “semplice”commercio internazionale;

2) una competizione oligopolistica giocata non sui prezzi ma sullainnovazione di prodotto.

Entrambe queste caratteristiche hanno a che fare con il nuovo tipodi impresa insediatosi sulla scena economica mondiale nel Novecento: lamultinazionale o transnazionale, integrata verticalmente e governata tra-mite una robusta burocrazia manageriale. Ora, dice Arrighi riferendosialla prima caratteristica, elevare barriere all’investimento diretto all’este-ro di questo tipo di impresa o potrebbe risultare inutile – estendendosiqueste imprese non attraverso transazioni, ma attraverso apertura difiliali nei paesi in cui si effettua l’investimento – o potrebbe essere con-troproducente, perché impedirebbe, suscitando reazioni omologhe neipaesi concorrenti, alle imprese transnazionali del paese “mercantilista”o “protezionista” di compiere le medesime operazioni di espansione. Lacompetizione, invece, giocata non sui “prezzi” ma sulle innovazioni di“prodotto” impedisce, più semplicemente, che si scatenino “guerre diprezzo”, capaci di minacciare seriamente per ciascuna impresa transna-zionale il livello dato di domanda delle merci.

La vera posta in gioco della crisi degli anni Settanta – e con ciò ci

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smo, era per Arrighi ormai irrimediabilmente compromessa?È qui che sopraggiunge Braudel: questi infatti aveva osservato in

Civiltà materiale, economia e capitalismo, che, da un lato, la finanziarizza-zione è una caratteristica ricorrente dello sviluppo capitalistico fin dal XVIsecolo, e che, dall’altro lato, quando questa finanziarizzazione si dà, essa èsintomo dell’“autunno”, della decadenza, di un certo ciclo egemonico. Dicolpo, ad Arrighi venivano offerti i mezzi per interpretare il nesso fra crisie finanziarizzazione, emerso negli anni Settanta, fuori dallo schema leni-niano: tale nesso poteva ora essere interpretato su uno sfondo storico piùlargo e complesso, quello costituito dal capitalismo nella sua intera traiet-toria di sviluppo, e, soprattutto, poteva ora essere compreso come indicedell’obsolescenza di una egemonia. L’esplosione negli anni ’80 della finan-ziarizzazione all’interno della cittadella capitalistica statunitense era perciòsintomo dell’avanzamento del processo di decadenza di quest’ultima,anziché, come argomentato da più parti, della sua rinascita.

Con ciò, anche i legami di Arrighi con la scuola sistemica diventa-no più intimi. Arrighi accetta ora dei sistemici le seguenti tesi:

1) il capitalismo è un modo di accumulazione di ricchezza e non,come in Marx, un modo di produzione;

2) come tale, il capitalismo ha una storia più lunga di quella tradi-zionalmente assegnatagli dai marxisti. Non nasce nel XVIII secolo, conla “rivoluzione industriale”, ma alla fine del Medioevo;

3) in questa storia, il capitalismo è stato contrassegnato dal succe-dersi di diversi cicli egemonici, ovvero dalla nascita, dallo sviluppo e daltramonto di diverse egemonie.

4) queste egemonie si esercitano sull’insieme, gerarchicamente arti-colato, dell’economia-mondo capitalistica, e cioè su quella combinazio-ne funzionale, tipica della modernità, fra unità del mercato mondiale,divisione internazionale del lavoro e sistema interstatale.

5) i soggetti egemonici sono nell’economia-mondo capitalistica gliStati, i quali esercitano una leadership sia sul sistema-mondo nel suocomplesso, regolandolo e ordinandolo a loro immagine e somiglianza,sia sugli altri singoli Stati.

Nella versione di Arrighi, consegnata soprattutto al Lungo XXsecolo, i cicli egemonici sono quattro:

1) il ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agli inizi del XVII;2) il ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo alla metà del XVIII;3) il ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secolo agli inizi

del XX;4) il ciclo statunitense, dalla fine del XIX secolo fino ad oggi14.

Hopkins e con una riformulazione dello schema di interpretazione dellacrisi fino ad allora adottato. In realtà, come abbiamo già anticipato, ilegami di Arrighi con i sistemici sono stati profondi fin dagli inizi: Wal-lerstein e Frank sono citati con molto favore per le loro tesi avverse allo“sviluppo” e alla “modernizzazione” fin da Sviluppo economico e sovra-strutture in Africa. Per ricapitolare, quattro ci paiono anzitutto gli ele-menti sistemici dell’Arrighi del periodo africano e italiano:

1) la superiorità di un approccio analitico che indaghi il capitali-smo su scala mondiale e non su scala nazionale;

2) l’articolazione gerarchica del sistema capitalistico mondiale, lasua divisione in zone centrali e periferiche;

3) la disgiungibilità di proletariato e capitalismo;4) l’importanza dei gruppi di status (le identità di razza, nazione e

genere) nella composizione sociale e politica della forza-lavoro mondiale.Sennonché, malgrado l’ispirazione sistemica abbia avvolto Arrighi

fin dagli inizi, non si deve sottovalutare l’impatto avuto sul suo pensierodal trasferimento negli Stati uniti e dal rafforzamento della sua collabo-razione con i principali esponenti della scuola sistemica. A noi, in parti-colare, pare che i sistemici siano stati decisivi nello sviluppo intellettualedi Arrighi soprattutto per averlo indirizzato verso l’apprezzamento dellacentralità dell’insegnamento di Fernand Braudel per la comprensionedel capitalismo moderno. Fino agli ultimi scritti del periodo italiano,Braudel è pressoché assente; la sua figura comincia appunto a stagliarsicon nettezza dopo l’apertura della collaborazione con i sistemici.

Braudel rappresenta per Arrighi un punto di svolta perché gli for-nisce le basi per comprendere il nesso fra capitalismo e ciò che Polanyiha chiamato haute finance. Dicevamo in precedenza che nell’indaginesulla categoria di ‘imperialismo” Arrighi aveva mancato il terreno delcapitalismo finanziario. L’esclusione, o poco più avanti la sottovalutazio-ne13, nella considerazione analitica di questa categoria del ruolo giocatonella sua elaborazione da Hilferding ne erano state manifestazioni elo-quenti. Eppure, fin dagli anni Settanta Arrighi non aveva trascurato diosservare la crescente propensione del capitale a effettuare, per sfuggirealla compressione dei profitti sul terreno produttivo, investimenti ditipo finanziario. La tendenza si era poi rafforzata decisamente a partiredal ’79, con il repentino e vertiginoso rialzo dei tassi di interesse decisodalla Federal Reserve a guida Volcker, con la nuova politica economicadi Reagan e la crisi messicana del debito nel 1982. Come interpretare,però, questo revival della finanziarizzazione, posto che la posizione leni-niana, che fa della finanziarizzazione lo stadio “supremo” del capitali-

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modo nei confronti dei centri capitalistici emergenti (Olanda, Inghilter-ra, Stati uniti). Sennonché per Arrighi l’idea di Marx diventa pienamen-te fruibile scientificamente solo quando la si sottragga al contesto in cuiè fissata, quello costituito dal discorso sull’accumulazione originaria.Questa tipologia di trasferimento di ricchezza ha infatti interessato tuttele transizioni egemoniche, e non solo quelle collocate agli albori delcapitalismo. Tutte, tranne una, l’ultima, quella che, a giudizio di Arrighi,noi staremmo vivendo: la transizione dall’egemonia americana a qualco-sa d’altro, di cui ancora non è possibile individuare compiutamente ilprofilo. In quest’ultimo caso, infatti, è l’egemonia declinante che, anzi-ché investire all’estero, si fa prestare capitali da tutto il mondo.

Le ragioni per cui ciò sta accadendo costituiscono in particolare iltema delle ultime fatiche teoriche di Arrighi, Caos e governo del mondo16

(pubblicato in collaborazione con Beverly J. Silver) e Adam Smith aPechino, e sono ben sintetizzate nel capitolo 4 di questo volume. Larisposta di Arrighi si concentra sul divorzio che, nell’ultimo ciclo ege-monico, si sarebbe verificato fra capacità militari e capacità finanziarie:il possesso di un ineguagliabile arsenale militare garantirebbe agli Statiuniti la possibilità di esercitare una continua pressione sulle potenzeemergenti, per sottrarre loro risorse finanziarie.

Le transizioni egemoniche non sono però processi fluidi e unifor-mi. In genere, sono accompagnate dall’esplosione dell’anarchia nei rap-porti interstatali e dell’instabilità nei rapporti economico-sociali interni einternazionali, in breve da ciò che Arrighi chiama “caos sistemico”. Lepotenze emergenti si dimostrano così davvero capaci di assumere entrodi sé funzioni egemoniche solo se, oltre a essere in grado di assorbire icapitali in eccesso della potenza egemonica declinante, si mostranoanche in grado di domare il caos sistemico. Per farlo, i paesi emergentidevono essere rispetto alla potenza in declino:

1) più larghi e diversificati geograficamente;2) più efficienti economicamente e organizzativamente; 3) più capaci di governare, tramite appropriate agenzie, mercato

mondiale e sistema interstatale;4) più inclusivi socialmente all’interno;5) più capaci di rappresentare gli interessi sociali generali presenti

nel sistema-mondo, da quelli più direttamente borghesi a quelli delleforze organizzate del lavoro subalterno.

Sono punti che pur investendo tutti i processi di transizione ege-monica, vengono meglio esemplificati dall’ultima delle transizioni verifi-catesi, quella dalla Gran Bretagna agli Stati uniti. In questo caso, gli Sta-

EGEMONIA E CICLO SISTEMICO DI ACCUMULAZIONE

Ma che cosa regola il ritmo vitale delle egemonie, la loro ascensio-ne e poi il loro tramonto? È qui che Arrighi introduce la sua idea forsepiù originale – che gli garantisce un posto di assoluta preminenza entrola scuola sistemica contemporanea – e cioè quella di “ciclo sistemico diaccumulazione”. Wallerstein aveva detto che uno Stato era da conside-rarsi in posizione egemonica all’interno dell’economia-mondo capitali-stica quando le imprese che in esso risiedono operano in modo più effi-ciente delle altre in tutte e tre le “maggiori arene economiche – produ-zione agro-industriale, commercio, e finanza. Il margine di efficienza dicui parliamo deve essere così grande da consentire a queste imprese dimettere fuori gioco le imprese che risiedono in altre grandi potenze, nonsolo nel mercato mondiale in generale, ma anche in particolar modoall’interno dei mercati interni delle stesse potenze rivali”15. Arrighi fa unpasso innanzi: tenta di descrivere la logica interna di ogni ciclo egemoni-co. E questa logica è rinvenuta nella marxiana formula generale delcapitale (D-M-D’), nell’accrescimento di valore (D’) del capitale origina-rio anticipato (D) tramite l’acquisto e poi il consumo produttivo di M,dei fattori produttivi soggettivi (il lavoro) e oggettivi (le macchine). Soloche, mentre in Marx D-M-D’ descrive lo schema generale di ogni singo-lo investimento capitalistico, in Arrighi descrive lo schema di sviluppodi ogni blocco egemonico: questo si afferma prima attraverso una fase diespansione materiale, di crescita delle sue operazioni industriali e com-merciali – fase rappresentata dal primo segmento del ciclo, da D-M – epoi, esauritesi, a causa della crescita dei salari e della concorrenza inter-capitalistica, le opportunità di investimento redditizio nella sfera mate-riale dell’attività economica, attraverso una fase di espansione finanzia-ria – rappresentata dal secondo segmento del ciclo, da M-D’. La fase diespansione finanziaria è, tuttavia, in quanto chiusura dell’intero ciclo, ilmomento dell’“autunno” del blocco egemonico in questione. Gli succe-derà un nuovo blocco egemonico, che compirà il medesimo percorso.

In Arrighi è cruciale lo sguardo sui meccanismi che regolano i rap-porti fra lo Stato egemonico in declino con quello in ascesa. Anche qui èMarx a fornire la giusta chiave teorica: attraverso il sistema del debito edel credito internazionale, dice Marx nel Capitale, si trasferisce capitaleda un paese, in declino, che ne ha in sovrappiù a uno, in ascesa, che neha bisogno per avviare la sua espansione produttiva. Nella storiadell’accumulazione originaria moderna, tutti i centri capitalistici giàaffermati (Venezia, Olanda, Inghilterra) si sono comportati in questo

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variante comunista. Analogamente, la gerarchia del sistema-mondo creai propri antagonisti nei movimenti di liberazione nazionale e nelle formedi resistenza al dominio della potenza egemonica – gli imperi colonialieuropei prima, la superpotenza americana poi. Entrambe queste rispo-ste antisistemiche, come si sostiene nel libro Antisystemic movements17,si sono sviluppate soprattutto entro un orizzonte nazionale con l’obietti-vo di conquistare il potere dello Stato.

Questo ha portato a una istituzionalizzazione e burocratizzazionedei movimenti antisistemici – sia nel caso delle socialdemocrazie occi-dentali, sia nei paesi del “socialismo reale” e di quelli del Terzo mondodopo la decolonizzazione – che li ha allontanati dalle richieste della lorobase sociale, integrandole nell’ordine internazionale definito dall’egemo-nia degli Stati uniti.

La protesta contro quest’ordine sociale e mondiale è venuta con la“rivoluzione mondiale” del 1968, destinata ad alimentare ondate succes-sive di mobilitazioni sociali che hanno avuto per protagonisti soggettidiversi – le categorie più deboli dei lavoratori salariati e gruppi di statusindividuati sulla base di identità e condizioni sociali eterogenee, daglistudenti alle donne, dalle minoranze etniche e religiose agli immigratiecc. Il loro obiettivo non è più la presa del potere statale o la costruzio-ne di stabili organizzazioni politiche, ma, da un lato, la soddisfazione diimmediate rivendicazioni “locali” per migliorare le condizioni di vita edi lavoro e, dall’altro lato, la costruzione di campagne su temi globaliche aprono la via a legami internazionali tra i movimenti. In questomodo, la sfida che i movimenti pongono al potere del capitale e degliStati è destinata ad influenzare l’evoluzione del sistema mondiale, indi-rizzandone il cambiamento.

L’ULTIMA GRANDE CRISI E L’ASCESA DELLA CINA

Allorché abbiamo parlato del passaggio di Arrighi dal periodo ita-liano a quello americano, dicevamo che il suo schema di interpretazionedella crisi cambia. La redazione di Lungo XX secolo a questo avrebbedovuto servire, a rendere, vale a dire, più chiara la sua nuova lettura del-la crisi apertasi negli anni Settanta. La sproporzione quantitativa esisten-te nel libro fra le parti dedicate alla descrizione dei quattro cicli egemo-nici del capitalismo storico e le parti più determinatamente indirizzatead affrontare il nuovo scenario dischiusosi con la crisi dell’egemonia sta-tunitense non deve ingannare: l’obiettivo rimane quello di offrire una

ti uniti hanno offerto al processo accumulativo:1) un territorio, uno spatial fix per dirla con Harvey, più vasto e

vario, senza perdere il carattere insulare di quello inglese; 2) un modello di impresa, la multinazionale, più profittevole eco-

nomicamente e più efficiente organizzativamente della manifatturainglese;

3) un quadro di agenzie di regolazione del mercato e del sistemainterstatale più complesso e stratificato (dall’Fmi all’Onu) di quelloinglese, basato su gold standard e concerto europeo;

4) un patto sociale, il New Deal, più aperto di quello inglese allasoddisfazione degli interessi dei lavoratori;

5) un New Deal globale, non fondato sul colonialismo e sulla con-servazione degli equilibri dati fra i diversi paesi capitalistici, ma capacedi elevare il livello di ricchezza di tutte le classi capitalistiche e di porzio-ni significative del proletariato mondiale.

Al caos sistemico che accompagna le transizioni egemoniche suc-cede quindi una riorganizzazione sistemica, che è storicamente ogni vol-ta diversa per ciascuna transizione egemonica. Nel caso del passaggioegemonico fra Gran Bretagna e Stati uniti vi è, per esempio, una diffe-renza storica relativa al rapporto fra egemonia e classi subalterne. GliStati uniti hanno pacificato le loro relazioni sociali interne prima dellaloro ascesa egemonica; la Gran Bretagna dopo.

La logica sistemica che soggiace alla sequenza che va dalle città-Stato italiane agli Stati uniti non è priva di una sua necessità: alla crescitadelle sfide ambientali, alla crescente difficoltà di ripristinare ogni volta lemigliori condizioni possibili del processo di accumulazione, si deverispondere, da parte delle potenze egemoniche in ascesa, mobilitandopiù risorse (territoriali, organizzative ecc.) e maggiori capacità di gover-no e di regolazione. A essere modificata da questa logica è la stessa visio-ne del capitalismo, ormai costretto a muoversi entro un fitto reticolo dideterminazioni geografiche e storiche.

I MOVIMENTI ANTISISTEMICI

Il capitale in cerca di accumulazione e gli Stati alla ricerca del pote-re non sono tuttavia gli unici protagonisti sulla scena mondiale. Lo svi-luppo del capitale crea i propri antagonisti, un movimento operaio chedalla “rivoluzione mondiale” del 1848 si è dato strutture organizzativestabili – sindacati e partiti, sia nella variante socialdemocratica sia nella

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quindi, pensare il capitale senza lo Stato non è per Arrighi teoricamentepossibile.

Da tutto ciò scaturiscono due conseguenze, una più particolare el’altra più generale. La più particolare è relativa alla crisi apertasi neglianni Settanta: questa non può essere collegata all’“egemonia dei mercatiglobali” o al neoliberismo, perché finanziarizzazione e industrializzazio-ne di nuovi paesi (dalle quattro “tigri” asiatiche alla Cina) sono concepi-bili solo sulla base di una intensa e prolungata attività statale. La piùgenerale è relativa, invece, al “ciclo sistemico di accumulazione”: poichél’espansione, materiale e finanziaria, del capitalismo è inscindibilmentelegata allo Stato, a ricoprire il ruolo di soggetto del ciclo è un bloccoorganico e articolato di agenzie governative e imprenditoriali. Su questopunto, sul necessario impasto di capitale e Stato che governa i cicli diaccumulazione, la distanza da Marx e dal marxismo – anche da unmarxismo, per altri versi, molto vicino alle sue posizioni, come quello diHarvey – ci sembra molto ampia.

Tutto ciò il lettore può trovarlo più ampiamente svolto in quelloche ci sembra il libro migliore di Arrighi, il già menzionato Lungo XXsecolo (“lungo”, come il XVI secolo in Braudel e Wallerstein, proprioperché cominciato con la Grande depressione del 1873-1896 e, in fon-do, non ancora terminato) e anche nel capitolo 4 di questo volume.Rimane da fare, all’interno del nostro viaggio interpretativo, un’ultimafermata, quella relativa ad Adam Smith a Pechino. Qui, dentro uno sce-nario teorico in cui rifluiscono molti dei temi già trattati nei libri prece-denti (l’interpretazione, in un dibattito serrato e appassionante conRobert Brenner, della crisi apertasi negli anni Settanta, il ciclo sistemicodi accumulazione, il rapporto fra logica territoriale e statuale e logicacapitalistica), appare un nuovo asse problematico: l’interpretazione diciò che Kenneth Pomeranz ha chiamato la “grande divergenza”, la diva-ricazione, dopo la fine del XVIII secolo, dei sentieri di sviluppo fraOccidente e Cina. È una divaricazione, allo stesso tempo, fra Marx eSmith, fra uno sviluppo capitalistico trainato dai massicci investimentilabour-saving e dalle trasformazioni tecnologiche e uno sviluppo di mer-cato trainato da una rivoluzione industriosa ad alta intensità di lavoro,fra un percorso “innaturale” di crescita economica, che comincia dalcommercio, passa per l’industria e finisce con l’agricoltura, e un percor-so “naturale”, che comincia dall’agricoltura, passa per l’industria e ter-mina con il commercio. Questa divaricazione ha permesso all’Occiden-te, prima, di recuperare il gap di ricchezza e benessere che ancora lo

analisi della crisi più credibile di quelle disponibili nel panorama intel-lettuale odierno (dalle letture regolazioniste a quelle basate sulla decisi-vità del passaggio dal “capitalismo organizzato” al “capitalismo flessibi-le”). In parte, è già evidente, dopo quanto abbiamo detto in precedenza,dove Arrighi è intervenuto per modificare il suo schema originario diinterpretazione: l’ultima crisi, con il suo inevitabile corollario costituitodal processo di finanziarizzazione, non è che la riproduzione, per limi-tarci alla penultima transizione egemonica, della Grande depressionedel 1873-1896 che colpì l’egemonia britannica. E tuttavia, le cose sonoancora più complesse: nel precedente schema veniva adombrata l’idea,dicevamo più marxista, di una liberazione del capitale dai vincoli che gliStati, in virtù del “patto socialdemocratico” stipulato nell’immediatosecondo dopoguerra, gli avevano imposto. Era una posizione, per alcuniversi, anche più vicina a quella che si è venuta consolidando successiva-mente in alcune aree del dibattito sulla cosiddetta “globalizzazione”. MaArrighi soprattutto a partire da Lungo XX secolo respinge fermamentequesta posizione: a suo giudizio parlare di “egemonia dei mercati globa-li” o di “neoliberismo” senza ulteriore specificazione non ha senso alcu-no. Perché questo ri-orientamento teorico?

A nostro giudizio la risposta, o almeno parte di essa, sta di nuovoin Braudel (ripreso su questo punto anche dagli altri sistemici): questidifferenzia nettamente fra mercato e capitalismo sulla base della presen-za o meno della concorrenza. Il mercato, poiché è attraversato dallaconcorrenza, è il luogo dei bassi profitti, mentre il capitalismo, poiché èpopolato dai monopoli, è il luogo degli alti profitti. I capitalisti natural-mente, visto che sono marxianamente pervasi dal demone dell’accumu-lazione, preferiscono installarsi sul terreno capitalistico piuttosto che suquello del mercato. Ma come vi riescono? Vi riescono stabilendo unarelazione simbiotica con il potere dello Stato, facendosi promuovere daesso. Ai piani alti del capitalismo, cioè, capitale e Stato sono inestricabil-mente connessi. Ma ai piani alti vi è anche, e diremmo soprattutto, lahaute finance. La simbiosi è quindi soprattutto fra capitale finanziario eStato.

Per stabilire questa connessione organica fra capitale e Stato, Arri-ghi ricorre anche a un altro argomento, tratto da Weber: per avviare iprocessi di espansione materiale e poi, ancora di più, quelli di espansio-ne finanziaria, occorre vincere la concorrenza per attrarre a sé il capitalemobile, la liquidità che fluisce a livello mondiale. Ma questa concorren-za è di solito attuata e vinta solo dagli Stati, anzi da Stati che disponganodi una sufficiente concentrazione di potenza. Anche a questo livello,

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governo o auto-governo della società (che nesso vi è, cioè, fra cicli siste-mici di accumulazione e politica democratica e non?), la scarsa attenzio-ne per una sfida globale come quella ecologica (appena riscattata dallepagine finali di Adam Smith a Pechino), un legame fra necessità delleriorganizzazioni sistemiche e contingenza della storia che è contingenteanch’esso (è un elemento, questo, su cui non a caso anche Harvey insi-ste nell’intervista ad Arrighi). È anche su questi punti che la discussionedeve proseguire.

I SAGGI DEL VOLUME

Qualche parola, infine, sui saggi qui proposti. Ciascuno di essiintegra tematicamente, da una diversa prospettiva, il materiale testualedi Arrighi già disponibile sul mercato editoriale. Dell’intervista ad Har-vey si è detto, e non vi ritorneremo sopra. Il secondo saggio, Secolomarxista, secolo americano. La formazione del movimento operaio nelmondo, si occupa, invece, di una questione di cui Arrighi si era ripro-messo di parlare in Lungo XX secolo e che invece non riuscì, da ultimo,a introdurre nel libro: la storia del movimento operaio novecentesco let-ta alla luce della teoria sistemica. Il saggio è, infatti, incardinato attornoalla polarità fra riformismo socialdemocratico bernsteiniano (il modellovincente di movimento operaio nei paesi del centro) e leninismo (ilmodello vincente di movimento operaio nei paesi della periferia). Inchiusura, ci si diffonde sulle possibilità del movimento operaio nel futu-ro: queste sono del tutto affidate alla costruzione di quei “movimentiantisistemici” su cui ci siamo trattenuti poco sopra.

Nel terzo saggio, Le disuguaglianze mondiali, Arrighi invece riflet-te, sempre in modo sistemico, sulla questione delle disuguaglianze mon-diali. Il risultato teorico principale del saggio è duplice: all’affermazionedella chiusura, nel secondo dopoguerra, del differenziale di reddito fra ipaesi europei e quelli del Nord America – quindi fra i paesi del centro –si contrappone la constatazione del mantenimento del differenziale pre-gresso di reddito fra i paesi del centro e quelli della periferia (ex bloccosovietico e paesi del Sud del mondo). In chiusura, la riflessione si con-centra sulle potenzialità del socialismo in un tale contesto. Va detto chele conclusioni analitiche del testo, come registrato anche da Harveynell’intervista, andrebbero aggiornate, vista la crescita del reddito neipaesi del Sud-est asiatico. Ma Arrighi è rimasto fino all’ultimo convintodella loro bontà: grazie, in particolare, alla Cina si sono ridotte le spere-

divideva dalla Cina nel secolo XVIII secolo, e, poi, di superarla, anchegrazie alla superiorità militare garantita dallo sviluppo tecnologico acce-lerato. Ma l’epoca della “grande divergenza” è ormai finita: il Partitocomunista cinese, quasi ispirandosi alle raccomandazioni di AdamSmith (donde il titolo del libro), ha sapientemente puntato su un effica-ce mix di “buona” concorrenza intercapitalistica, promozione della divi-sione sociale e non tecnica del lavoro, investimento nelle tecnologie capi-tal-saving, valorizzazione di nuovi modelli di impresa (le cosiddette“imprese di municipalità e di villaggio”), governo “centralizzato” deglistrumenti creditizi e monetari, che ormai quasi consente alla Cina diattestarsi sui livelli di ricchezza occidentali. Chiusa la “grande divergen-za” che cosa ne seguirà? Un caos sistemico generalizzato, una nuovatransizione egemonica, con la Cina a prendere il posto degli Stati uniti,o la realizzazione dell’“utopia” smithiana, un riequilibrio, cementato dalmercato, di potere e ricchezza fra tutte le aree in cui il mondo è diviso?La risposta è per Arrighi aperta, e affidata al libero corso degli avveni-menti.

Uno dei meriti più duraturi di Arrighi, e della scuola sistemica nelsuo complesso, è quello di aver scompaginato le frontiere disciplinariche si sono fissate nelle scienze storico-sociali: la divisione fra scienzenomotetiche (sociologia, economia) e idiografiche (storia) non ha alcunfondamento. Peraltro, Arrighi questo lo ha affermato fin da Sviluppoeconomico e sovrastrutture in Africa, dove si protesta energicamente con-tro la tendenza dell’economia neoclassica a separare rigidamente il “fat-to” economico dalla storia e dalla società. Il capitalismo è un oggettocomplesso, per comprendere il quale occorre guadagnare profonditàstorica, affinare lo sguardo sociologico e saper utilizzare il metro geogra-fico. È anche da qui che derivano gli altri meriti della ricerca di Arrighi:l’aver indagato le dinamiche globali prima della globalizzazione, l’avercapito la centralità del processo di finanziarizzazione, l’aver intuitol’importanza del nesso fra capitale e potere statale dentro i cicli mondialidi accumulazione. E tuttavia non sono pochi neanche i punti in cui Arri-ghi pare non riuscire pienamente persuasivo: la sottovalutazione, chetocca il suo picco proprio in Adam Smith a Pechino, della “rivoluzioneindustriale”, l’indeterminatezza in cui è avvolto il nesso fra produzionedella ricchezza e finanza, l’indebita “spazializzazione”, nel ciclo sistemi-co di accumulazione, del rapporto fra primo e secondo segmento delciclo (fra D-M, produzione e commercio, e M-D’, la finanza), un nessofra capitale e forma-Stato che lascia scoperto il piano delle forme di

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4 Pubblicato prima, in italiano, nel 1972-1973 su “Rassegna comunista”, 2, 3, 4 e7 (1972-3) e poi, in inglese, sulla “New Left Review”, 111 (Sept-Oct 1978). È statoripubblicato anche in GIOVANNI ARRIGHI et al., Dinamiche della crisi globale, a cura diR. Parboni, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 85-113.

5 Adam Smith in Beijing. Lineages of the Twenty-First Century, Verso, London-New York 2007; tr. it., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Fel-trinelli, Milano 2008.

6 The Long Twentieth Century. Money, Power, and the Origins of Our Times,Verso, London-New York 1994; tr. it., Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini delnostro tempo, il Saggiatore, Milano 1996.

7 Pubblicato nel 1978, in contemporanea, per Feltrinelli e New Left Books.8 Cfr. Review di GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY SILVER ET AL., Chaos and Governan-

ce in the Modern World System, in “New Left Review”, 13 (2002), pp. 140-141.9 Cfr. Contemporary Economic Stagnation in World Historical Perspective, in

“New Left Review”, 219 (1996), pp. 114-116. Arrighi ha risposto a Pollin in FinancialExpansions in World Historical Perspective. A Reply to Robert Pollin, in “New LeftReview”, 224 (1997), pp. 154-159.

10 Cfr. Karl Marx between Two Worlds: The Antinomies of Giovanni Arrighi’sAdam Smith in Beijing, in “Historical Materialism”, 18 (2010), p. 61.

11 A crisis of hegemony è stato pubblicato in edizione originale in S. AMIN ET AL.,Dynamics of global crisis, MacMillan, London 1982, pp. 11-54 e in italiano in GiovanniArrighi et al., Dinamiche della crisi globale, cit., pp. 153-201.

12 La relazione di Arrighi con Gramsci è, in verità, ancora più complessa e meri-terebbe un’indagine a parte. Nell’intervista ad Harvey sono rievocate le circostanze bio-grafiche del suo interesse per Gramsci: l’amicizia con Romano Madera, uno dei pochiquadri “gramsciani” della sinistra extraparlamentare italiana degli anni Settanta – ingenerale, come è noto, poco incline a farsi affascinare dall’elaborazione teorica del pen-satore dei Quaderni –, la costituzione del Gruppo Gramsci, la valorizzazione nella bat-taglia sociale e politica di quegli anni dei concetti di “autonomia”, “intellettuale organi-co” ecc.

13 Cfr. GIOVANNI ARRIGHI, “Imperialismo”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino1979, vol. VII, pp. 161-174.

14 Wallerstein ha invece la tendenza a parlare di tre cicli egemonici (olandese, bri-tannico, statunitense). Si tratta di una differenza importante anche se non essenziale peril discorso che stiamo conducendo: Arrighi è dell’idea che il capitalismo sia nato nelcontesto delle città-Stato italiane del XIV e XV secolo e non in corrispondenza dellapiù tarda epoca delle scoperte geografiche.

15 IMMANUEL WALLERSTEIN, Alla scoperta del sistema mondo, Manifestolibri, Roma2003, p. 284.

16 Ed. originale: GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET AL., Chaos and Gover-nance in the Modern World System, University of Minnesota Press, Minneapolis 1999;tr. it., Caos e governo del mondo. Come cambiano le egemonie e gli equilibri planetari,Bruno Mondadori, Milano 2003.

17 Pubblicato per Verso nel 1989 da Arrighi insieme a Terence Hopkins e Imma-nuel Wallerstein e tradotto in Italia, con lo stesso titolo, tre anni più tardi da Manifesto-libri.

quazioni internazionali di reddito, ma grazie alla Cina è anche aumenta-to il tasso di disuguaglianza all’interno degli Stati.

Il quarto saggio, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, è una limpidae riuscita sistematizzazione delle tesi sostenute da Arrighi in Lungo XXsecolo e dallo stesso insieme a Beverly Silver in Caos e governo del mon-do. Importa qui soprattutto sottolineare come in questo saggio Arrighi eSilver insistano sul carattere effimero della New Economy e della politicaestera “unilateralista” inaugurata dagli Stati uniti all’alba degli anniDuemila. Nel poscritto, allegato a questo testo, Arrighi e Silver confer-mano, a cinque anni di distanza, la validità delle proposizioni analitichedel loro saggio.

Nel quinto e ultimo saggio, Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo delSud del mondo, qui pubblicato in contemporanea con la versione ingle-se, si avvalorano le possibilità, con l’inasprirsi della crisi delle politicheneoliberiste dettate dal centro e l’assestamento della crescita cinese, chesorga una nuova Bandung, un nuovo patto fra i paesi che una volta veni-vano chiamati “in via di sviluppo”. Una Bandung tuttavia diversa dallaprima, quella nata negli anni Cinquanta e subito dopo fallita, perchéfondata non su una solidarietà di tipo puramente politico, ma sulla piùsolida roccia della progressiva convergenza, fra i paesi del Sud del mon-do, dei rispettivi interessi economici.

NOTE

* Ringrazio Mario Pianta per gli utili commenti ad una precedente versione deltesto. Naturalmente l’intera responsabilità di quanto scritto rimane mia.

1 Ha insistito giustamente su questo punto TOM REIFER, Capital’s Cartographer.Giovanni Arrighi: 1937-2009, in “New Left Review”, 60 (2009), p. 119.

2 Il board della “New Left Review” ha definito Arrighi come “one of the finestlights of the period through which we lived”.

3 LIAM CAMPLING, Editorial Introduction to the Symposium on Giovanni Arrighi’sAdam Smith in Beijing, in “Historical Materialism”, 18 (2010), p. 32.

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Capitolo 1

I tortuosi sentieri del capitale.Intervista con David Harvey*

Ci potresti parlare delle tue origini familiari e della tua formazioneculturale?

Sono nato a Milano nel 1937. Per parte di madre la mia famigliaera di origini borghesi. Mio nonno, figlio di svizzeri emigrati in Italia,era partito da un livello di aristocrazia operaia fino a diventare lui stessoindustriale nei primi anni del XX secolo. Produceva macchine per il set-tore tessile e in seguito apparecchiature per il riscaldamento e condizio-natori. Mio padre era toscano, figlio di un ferroviere. Era venuto a Mila-no e aveva trovato lavoro nella fabbrica del mio nonno materno, finen-do poi per sposare la figlia del proprietario. In seguito vi furono tensioniche portarono mio padre a fondare una propria impresa in concorrenzacon quella del suocero. Erano entrambi antifascisti, il che ebbe grandeinfluenza sulla mia prima infanzia che fu dominata dalla guerra,dall’occupazione nazista dell’Italia settentrionale dopo la resa di Romanel 1943, la Resistenza e l’arrivo degli Alleati.

Mio padre morì in un incidente d’auto quando avevo 18 anni.Decisi allora di portare avanti la sua azienda, benché mio nonno mi con-sigliasse il contrario, così entrai all’Università Bocconi come studente dieconomia nella speranza che ciò mi aiutasse a capire come gestire la fab-brica. La Facoltà di Economia era un caposaldo di indirizzo neoclassico,neppure minimamente sfiorato dalla teoria keynesiana e non mi fu dinessun aiuto nella gestione dell’impresa paterna. Alla fine mi resi contoche dovevo chiuderla. Trascorsi due anni in una delle fabbriche di miononno raccogliendo dati sull’organizzazione della produzione. Quellostudio mi convinse che l’elegante equilibrio generale dei modelli neo-classici non serviva affatto per capire la produzione e distribuzione delreddito. Questo fu l’argomento della mia tesi di laurea. Mi fu poi asse-gnato un incarico come assistente volontario, cioè non pagato, che allorain Italia era il primo gradino della carriera universitaria. Per vivere trovaiun impiego alla Unilever come apprendista manager.

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più problemi che vantaggi al settore capitalistico1. Fintanto che la prole-tarizzazione era stata parziale aveva creato delle condizioni in cui i con-tadini sussidiavano l’accumulazione capitalistica, poiché essi produceva-no parte dei loro mezzi di sussistenza, ma quanto più i contadini diven-tavano proletari, tanto più il meccanismo cominciava a non funzionare.I lavoratori totalmente proletarizzati potevano essere sfruttati solo sericevevano un salario che consentisse loro di vivere. Così, invece di faci-litare lo sfruttamento, la proletarizzazione lo rendeva più difficile daattuare e spesso richiedeva che il regime divenisse più repressivo. Mar-tin Legassick e Harold Wolpe, ad esempio, sostenevano che in Sudafri-ca l’apartheid fosse dovuta principalmente alla necessità di una maggiorerepressione della forza lavoro, poiché essa aveva subito un processo dicompleta proletarizzazione e non poteva più sussidiare l’accumulazionedi capitale com’era avvenuto in precedenza. L’intera regione sudafricanache andava dal Sudafrica al Botswana, passando per l’ex Rhodesia, ilMozambico, il Malawi che a quel tempo si chiamava Nyasaland, fino alKenya come estremità nord orientale, era caratterizzata da giacimentiminerari, da un’agricoltura stanziale e da un’estrema povertà dei conta-dini. È molto diversa dal resto dell’Africa, compreso il nord. L’economiadei paesi dell’Africa occidentale era sostanzialmente agricola. Ma laregione meridionale – quella che Samir Amin ha chiamato “l’Africa del-le riserve di lavoro” – sotto molti aspetti rappresentava un paradigma diestrema spoliazione dei contadini, quindi di proletarizzazione. Molti dinoi sostenevano che tale processo di espropriazione estrema era con-traddittorio. All’inizio aveva creato delle condizioni in cui i contadinisussidiavano l’agricoltura capitalistica, lo sfruttamento minerario, la pro-duzione manifatturiera e così via. Ma aveva provocato sempre maggioridifficoltà per lo sfruttamento, lo spostamento e il controllo di quel pro-letariato che si veniva creando. Il lavoro a cui allora ci dedicavamo – ilmio L’offerta di lavoro in una prospettiva storica e i lavori ad esso correla-ti di Legassick e Wolpe – portò alla definizione di quello che vennechiamato il paradigma dell’Africa meridionale sui limiti della proletariz-zazione e dell’espropriazione.

Diversamente da coloro che tuttora identificano lo sviluppo capi-talistico con la proletarizzazione tout court – come Robert Brenner, adesempio – l’esperienza dell’Africa meridionale dimostrava come la pro-letarizzazione di per sé non favorisca lo sviluppo capitalistico – ben altrecondizioni sono necessarie. Quanto alla Rhodesia, individuai tre fasi nelprocesso di proletarizzazione, una sola delle quali favoriva l’accumula-zione capitalistica. In una prima fase i contadini avevano reagito allo svi-

Perché nel 1963 ti recasti in Africa a lavorare presso l’University Col-lege di Rhodesia e Nyasaland?

La ragione è semplice. Venni a sapere che le università britannichepagavano chi insegnava e faceva ricerca, contrariamente a quanto avve-niva in Italia, dove l’assistente volontario doveva lavorare senza stipen-dio per quattro o cinque anni prima di poter sperare in una retribuzio-ne. All’inizio degli anni Sessanta gli inglesi fondavano sedi universitariein tutti i territori dell’ex-impero come sedi distaccate delle universitàdella madrepatria. L’UCRN dipendeva dall’Università di Londra. Avevofatto domanda per due sedi, una in Rhodesia e l’altra a Singapore. Michiamarono a Londra per un colloquio, mi offrirono una cattedra dieconomia e io accettai.

Fu una vera rinascita intellettuale. La tradizione neoclassica basatasu modelli matematici a cui ero abituato non aveva nulla da dire su ciòche trovavo in Rhodesia o sulla realtà della vita africana. All’UCRN mitrovavo a fianco di antropologi sociali, come Clyde Mitchell che stavagià lavorando sull’analisi delle reti e Jaap Van Velsen, che stava introdu-cendo l’analisi situazionale, in seguito ridefinita come analisi estesa deicasi-studio. Seguivo regolarmente i seminari di entrambi e ne fui forte-mente influenzato. Abbandonai gradualmente i modelli astratti perl’antropologia sociale che si basava su teorie di carattere empirico e sto-rico. Cominciò così la mia lunga marcia dall’economia neoclassica versola sociologia storico-comparativa.

Questo era il contesto del tuo saggio del 1966, Struttura di classe esovrastrutture in Rhodesia, che analizzava le modalità di sviluppo dellaclasse capitalistica in quel territorio e delle sue specifiche contraddizioni,spiegando le dinamiche che avevano portato alla vittoria del Partito delFronte Rhodesiano degli ex-coloni nel 1962 e alla Dichiarazione di indi-pendenza unilaterale di Smith nel 1965. Quale fu lo stimolo da cui nacquequel saggio, quanto fu importante per te, considerandolo oggi?

Quel saggio fu scritto grazie ai consigli di Van Velsen, che eraestremamente critico sui miei modelli matematici. Avevo scritto unarecensione del libro di Colin Leys, European Politics in Southern Rhode-sia, e Van Velsen mi consigliò di ampliarla fino a farne un articolo. Qui,e in L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, analizzavo le modalità incui la completa proletarizzazione dei contadini rhodesiani avesse creatodelle contraddizioni all’accumulazione capitalistica, finendo per creare

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ricerca sul Frelimo e molti altri, tra cui, naturalmente, John Saul.Lavorando con John Saul a Dar es Salaam spostai i miei interessi

dal reclutamento di mano d’opera ai movimenti di liberazione nazionalee ai nuovi regimi emergenti dalla decolonizzazione. Eravamo scettici sul-la capacità di quei regimi di emanciparsi da quello che cominciava adessere definito come neocolonialismo e di mantenere le promesse di svi-luppo economico. Ma tra di noi c’era una differenza che credo perman-ga tuttora: la cosa mi sconcertava assai meno di quanto non accadesse alui. Per me quelli erano movimenti di liberazione nazionale e non movi-menti di carattere socialista, anche quando adottavano la retorica socia-lista. Si trattava di regimi populisti, perciò non mi aspettavo molto al dilà della liberazione nazionale, che ambedue consideravamo di per sémolto importante. Ma se, al di là di quello, vi fossero possibilità di svi-luppo di tipo politico rimase un motivo di contrasto tra di noi su cuischerziamo ancor oggi quando ci incontriamo. Tuttavia i saggi che scri-vemmo insieme erano pienamente condivisi.

Al tuo ritorno in Europa il mondo che hai trovato era molto diversoda quello che avevi lasciato sei anni prima?

Sì. Tornai in Italia nel 1969 e mi trovai subito immerso in duesituazioni. Una fu all’Università di Trento, dove mi venne offerto unposto di professore associato. Trento era allora il centro della militanzastudentesca, oltre a essere l’unica Università italiana a rilasciare la laureain Sociologia. La mia nomina era sostenuta dal Comitato organizzatoredell’Università, tra cui Nino Andreatta, democristiano, il liberalsocialistaNorberto Bobbio e Francesco Alberoni: era un tentativo di domare ilmovimento degli studenti reclutando un estremista. Al mio primo semi-nario avevo solo quattro o cinque studenti, ma nel semestre autunnale,dopo la pubblicazione del mio libro sull’Africa nell’estate del 1969, allemie lezioni c’erano quasi mille studenti2. Il mio corso divenne un grandeevento e spaccò persino Lotta continua: la corrente di Boato voleva chegli studenti frequentassero le mie lezioni per sentire una critica di tiporadicale alle teorie sullo sviluppo, mentre i seguaci di Rostagno cercava-no di disturbare lanciando sassi nell’aula dal cortile.

La seconda situazione fu a Torino, tramite Luisa Passerini, impor-tante divulgatrice degli scritti situazionisti, e con una notevole influenzasu molti dei quadri di Lotta continua, anch’essi attratti allora dal Situa-zionismo. Mi spostavo da Trento a Torino, passando per Milano – dalcentro del movimento studentesco al centro del movimento dei lavora-

luppo capitalistico delle campagne fornendo prodotti agricoli e avreb-bero fornito forza lavoro solo in cambio di alti salari. Tutta l’area fucaratterizzata da scarsità di mano d’opera perché il diffondersi dell’agri-coltura capitalistica o dello sfruttamento minerario creava una domandadi prodotti locali che i contadini africani furono rapidamente in gradodi soddisfare; essi partecipavano all’economia monetaria vendendo pro-dotti invece che mano d’opera. Uno degli scopi dell’aiuto statale all’agri-coltura dei coloni era quello di creare concorrenza per i contadini afri-cani, per far sì che fossero costretti a vendere mano d’opera invece cheprodotti. Ciò condusse a un lungo processo che andò da una proletariz-zazione parziale a una completa, il che, come ho già detto, rappresenta-va tuttavia un processo contraddittorio. Il problema del modello sempli-ficato “proletarizzazione come modello di sviluppo capitalistico” sta nelfatto che esso ignora non solamente le realtà del capitalismo dei colonidell’Africa meridionale, ma anche quella di molti altri casi, come gli Sta-ti uniti stessi, dove il modello fu del tutto diverso – una combinazione dischiavitù, genocidio dei nativi e immigrazione di mano d’opera ecceden-te dall’Europa.

Sei stato uno dei nove docenti arrestati per attività politica durante larepressione del giugno 1966 sotto il governo Smith, vero?

Sì, ci tennero in prigione per una settimana e poi fummo espulsi.

Sei poi andato a Dar es Salaam, che a quel tempo sembrava essere unparadiso di scambi intellettuali. Parlaci di quel periodo e della tua collabo-razione con John Saul.

Furono giorni entusiasmanti, sia dal punto di vista intellettuale chepolitico. Quando giunsi a Dar es Salaam nel 1966 la Tanzania avevaconquistato l’indipendenza da pochi anni. Nyerere favoriva una formadi socialismo di tipo africano. Nel periodo della rottura tra Cina e Urssmanteneva una posizione equidistante e intratteneva ottimi rapporti coni paesi scandinavi. Dar es Salaam divenne l’avamposto di tutti movimen-ti di liberazione nazionale dell’Africa meridionale, dalle colonie porto-ghesi alla Rhodesia, al Sudafrica. Rimasi tre anni all’università e feciincontri di ogni tipo: attivisti del Black Power statunitense, studiosi eintellettuali come Immanuel Wallerstein, David Apter, Walter Rodney,Roger Murray, Sol Picciotto, Catherine Hoskins, Jim Mellon, che fu poiuno dei fondatori dei Weathermen, Luisa Passerini che lavorava a una

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ho maggiori possibilità di comprendere il contesto più ampio entro ilquale si sviluppa la lotta. Così il nostro rapporto deve basarsi sul fattoche voi mi riferite della vostra situazione e io vi dico come si collega neiconfronti del contesto più ampio che voi non potete conoscere, o che,da dove vi trovate, potete vedere in modo parziale”. Su questa base vifurono sempre ottimi rapporti sia con i movimenti di liberazionedell’Africa meridionale che con i lavoratori italiani.

Gli articoli del 1972 sulla crisi del capitalismo si fondavano suscambi di questo tipo3. Ai lavoratori veniva detto: “c’è la crisi economi-ca, dobbiamo starcene tranquilli. Se continuiamo le lotte, la fabbricaverrà portata altrove”. Così i lavoratori ci chiedevano: “Siamo in crisi? Equali sono le conseguenze? Dobbiamo starcene buoni solo per que-sto?”. Gli articoli che comprendevano Verso una teoria della crisi capita-listica vennero concepiti all’interno di questa problematica, definita dailavoratori stessi, che dicevano: “Dicci che cosa sta accadendo nel mon-do esterno e che cosa ci dobbiamo aspettare”. Il punto di partenzadell’articolo era: “Le crisi hanno luogo sia che voi lottiate o no – nonsono effetto della militanza operaia, o di “errori” nella gestione manage-riale, ma sono alla base dell’accumulazione capitalistica stessa”. Quelloera l’orientamento di partenza. Scrivevo agli inizi della crisi, prima chese ne riconoscesse l’esistenza. Divenne importante come schema di rife-rimento e mi è servito per monitorare negli anni quanto stava avvenen-do. E ha funzionato abbastanza bene.

Torneremo ancora sulla teoria delle crisi capitalistiche, ma primavolevo chiederti del tuo lavoro in Calabria. Nel 1973, proprio nel momen-to in cui cominciava il riflusso del movimento, accettasti una cattedra aCosenza, vero?

Uno dei motivi del mio interesse per l’Università di Calabria eraquello di proseguire la mia ricerca sul reclutamento della forza lavoro inuna nuova sede. In Rhodesia avevo avuto modo di constatare come, nelmomento in cui gli africani avevano raggiunto una completa proletariz-zazione, ovvero, per essere più precisi, quando se ne erano resi conto,avevano iniziato a lottare per ottenere un salario che permettesse loro divivere nelle aree urbane. In altri termini, la storia secondo cui “siamoscapoli, i membri delle nostre famiglie continuano a vivere in campagnada contadini” non regge più quando si deve vivere in città. Era quantodicevo in L’offerta di lavoro in una prospettiva storica. Ciò divenne anco-ra più chiaro in Italia poiché c’era un problema: negli anni Cinquanta e

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tori. Mi sentivo attratto da questo movimento e allo stesso tempo mipreoccupava il suo rifiuto della “politica”. A volte nelle assemblee vierano militanti operai che si alzavano per dire: “Basta con la politica. Lapolitica ci porta nella direzione sbagliata. Ciò che serve è essere uniti”.Per me fu un trauma notevole arrivare dall’Africa e scoprire che i sinda-cati comunisti erano considerati reazionari e repressivi dai lavoratori inlotta e che in questo vi era un considerevole elemento di verità. La rea-zione contro i sindacati del Pci si trasformò in una reazione contro tuttii sindacati. Potere operaio e Lotta continua si proponevano come alter-nativa sia ai sindacati che ai partiti di massa. Insieme a Romano Made-ra, che era ancora studente, ma anche quadro politico di indirizzogramsciano – una rarità all’interno della sinistra extraparlamentare –cominciammo a pensare a una strategia di carattere gramsciano per ilmovimento.

Fu così che emerse per la prima volta l’idea di autonomia – diautonomia intellettuale della classe operaia. Oggi essa viene solitamenteattribuita ad Antonio Negri, ma in realtà era nata dall’interpretazione diGramsci da noi elaborata nei primi anni Settanta nel Gruppo Gramsci,fondato da Madera, da Passerini e da me. Consideravamo che il nostroprincipale contributo al movimento non fosse fornire un sostituto di sin-dacati o partiti, ma un aiuto offerto alle avanguardie dei lavoratori daparte di studenti e intellettuali perché sviluppassero la loro autonomia –autonomia operaia – attraverso la comprensione dei processi più ampi alivello nazionale e globale all’interno dei quali si attuava la loro lotta. Intermini gramsciani questo significava formare gli intellettuali organicidella classe operaia in lotta. A questo scopo costituimmo i “Collettivipolitici operai” noti come “area dell’autonomia”. Man mano che si svi-luppava la loro pratica autonoma, il Gruppo Gramsci avrebbe esauritoil suo ruolo e avrebbe potuto sciogliersi. Quando il gruppo di fatto sisciolse nell’autunno del 1973, entrò in scena Negri e trascinò i “Colletti-vi politici operai” e l’“area dell’autonomia” in una direzione avventuri-stica molto lontana da quanto si era inteso all’inizio.

C’era qualcosa secondo te che accomunava le lotte di liberazione afri-cane e quelle della classe operaia italiana?

Ciò che le accomunava erano gli ottimi rapporti che avevo conmovimenti più ampi. Volevano sapere su quale base partecipassi allaloro lotta. La mia posizione era la seguente: “Non intendo dirvi che cosafare, dato che voi conoscete la vostra situazione molto meglio di me. Ma

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La prima stesura di quella ricerca ti fu rubata dall’auto a Roma, per-ciò la versione finale fu redatta negli Stati uniti, molti anni dopo il tuo tra-sferimento a Binghamton nel 1979, dove si sviluppava l’analisi del siste-ma-mondo. Era la prima volta che affrontavi apertamente il confronto conWallerstein e Brenner sul rapporto tra proletarizzazione e sviluppo capita-listico?

Sì, anche se non lo feci in modo sufficientemente esplicito, purcitando en passant sia Wallerstein che Brenner. Il saggio è nel comples-so, infatti, una critica ad entrambi4. Wallerstein sostiene la teoria secon-do cui i rapporti di produzione sono determinati da come essi si pongo-no all’interno di una struttura centro-periferia. A suo parere nella perife-ria si tende ad avere rapporti di lavoro coercitivi, non si ha una proleta-rizzazione completa, come invece si raggiunge nel centro. Sotto certipunti di vista Brenner pensa il contrario, ma per altri rispetti le loro teo-rie sono simili: sono i rapporti di lavoro a determinare la posizione nellastruttura centro-periferia. In entrambi c’è un legame diretto tra strutturacentro-periferia e i rapporti di produzione. La ricerca calabrese dimo-strò che ciò era falso. All’interno della situazione periferica noi indivi-duammo tre diversi percorsi che si sviluppavano contemporaneamentee che si rafforzavano a vicenda. Per di più, i tre percorsi mostravanonotevoli affinità con gli sviluppi che storicamente caratterizzavano situa-zioni del centro di tipo diverso. Uno di essi è molto simile al modello“Junker” di Lenin – il latifondo con una completa proletarizzazione; unaltro assomigliava al percorso “americano” di Lenin, con fattorie mediee piccole fortemente inserite nel mercato. Lenin non ha un terzo percor-so, quello che noi chiamammo “svizzero”: migrazioni verso paesi lonta-ni e successivamente investimento e acquisizione di proprietà nella terrad’origine. In Svizzera non vi è l’espropriazione dei contadini, ma unatradizione migratoria che ha portato al consolidarsi di piccoli agricolto-ri. Per quanto riguarda la Calabria è interessante notare che i tre percor-si, che altrove si collocano in posizioni del centro, si trovano invece allaperiferia – il che costituisce una critica sia del processo unico di proleta-rizzazione di Brenner sia del tentativo di legare i rapporti di produzionealla posizione geografica, come teorizzato da Wallerstein.

La tua Geometria dell’imperialismo uscì nel 1978, prima che tuandassi negli Usa. Nel rileggerlo mi ha colpito la metafora di tipo matema-tico – la geometria – a cui fai ricorso per spiegare la teoria imperialista diHobson – che risulta utilissima. Ma al suo interno c’è una questione geo-

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nei primi Sessanta i migranti provenienti dal sud venivano portati nelleregioni industriali del nord e facevano i crumiri. Ma alla fine degli anniSessanta essi si trasformarono in avanguardie della lotta di classe, il cheè tipico dei migranti. Quando riuscii a costituire un gruppo di ricercato-ri in Calabria, feci loro leggere gli antropologi sociali che si erano occu-pati dell’Africa e in particolare di migranti, dopo di che analizzammo lamano d’opera di origine calabrese. Le domande erano: che cosa avevacreato le condizioni per quella migrazione? E quali erano i suoi limiti –posto che, a un certo punto, invece di creare una mano d’opera docileda usare per ridurre il potere contrattuale della classe operaia del nord,anche i migranti diventavano avanguardie di lotta?

Da quella ricerca emersero due cose. Primo, lo sviluppo capitalisti-co non ha necessariamente bisogno della completa proletarizzazione.D’altro canto, le migrazioni da luoghi lontani non provenivano da terri-tori dove aveva luogo un’espropriazione, ai migranti era persino possibi-le acquistare terreni dai proprietari. Ciò avveniva grazie al sistema diprimogenitura, per il quale solo il figlio maggiore ereditava la terra. Pertradizione, i figli cadetti finivano negli ordini religiosi o nell’esercito, fin-ché le migrazioni verso paesi lontani non offrirono un’importante alter-nativa per guadagnare il necessario per l’acquisto di terreni nel paesed’origine e avere una propria impresa agricola. In zone di grandepovertà, viceversa, dove il lavoro era interamente proletarizzato, non cisi poteva permettere di emigrare. L’unico modo per farlo fu, per esem-pio, quando in Brasile fu abolita la schiavitù nel 1888 e vi era bisogno disostituirla con mano d’opera a basso salario. Reclutarono lavoratori dal-le aree più povere dell’Italia meridionale, pagarono loro il viaggio e liresero stanziali in Brasile per sostituire gli schiavi emancipati. Questesono forme diverse di migrazione, ma generalmente non sono i piùpoveri ad emigrare, è necessario avere mezzi e agganci per farlo.

Il secondo risultato della ricerca calabrese aveva delle affinità con laricerca condotta in Africa. Anche qui la disponibilità alla lotta di classe neiluoghi in cui si erano trasferiti dipendeva dal fatto che considerassero lacondizione in cui si trovavano una soluzione di vita permanente oppure no.

Non è sufficiente dire che è la situazione del luogo di insediamentoa determinare i salari e le condizioni di lavoro. Si deve dire qual è il limi-te oltre il quale i migranti percepiscono che il loro sostentamento pro-viene dal lavoro salariato – questo è il punto focale da individuare emonitorare. Ciò che emergeva, tuttavia, era soprattutto una criticadiversa dell’idea di proletarizzazione come processo tipico dello svilup-po capitalistico.

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dovetti estrapolare questa idea e coniugarla con quanto venivo appren-dendo da Pursuit of power di William McNeill, il quale a sua voltasostiene, da un altro punto di vista, che il sistema delle città-Stato prece-dette e preparò l’affermarsi di un sistema di Stati territoriali.

Un’altra idea, alla quale attribuisci maggiore profondità teorica, mache deriva comunque da Braudel, è il concetto secondo cui l’espansionefinanziaria annuncia l’autunno di un sistema egemonico e precede il pas-saggio a una nuova egemonia. Si direbbe che questo è un punto chiave deIl lungo XX secolo.

Sì. L’idea era che l’organizzazione capitalistica dominante di unacerta epoca sia anche dominante nell’espansione finanziaria, che ha luo-go quando l’espansione materiale delle forze produttive raggiunge illimite. La logica di questo processo – sebbene ancora una volta Braudelnon la fornisca – è che quando la concorrenza aumenta, gli investimentinell’economia materiale diventano sempre più rischiosi e quindi siaccentua la preferenza per la liquidità da parte di chi controlla l’accu-mulazione, il che, a sua volta, crea le condizioni per l’espansione finan-ziaria. L’altra questione, naturalmente, è come si creino le condizioni didomanda di espansione finanziaria. A questo riguardo, ho fatto riferi-mento alla teoria di Weber secondo cui la concorrenza tra gli Stati per ilcapitale mobile costituisce la specificità storica su scala mondialedell’era moderna. Sostenevo che tale concorrenza crea le condizioni perla domanda di espansione finanziaria. È fondamentale l’idea di Braudeldell’“autunno” come fase conclusiva di un processo di leadershipnell’accumulazione – che va da quella materiale a quella finanziaria, efinisce con essere sostituita da un’altra leadership. Ma lo è pure l’idea diMarx secondo cui l’autunno di uno Stato particolare che vive un’espan-sione finanziaria, rappresenta anche la primavera per un altro Stato: ilsurplus accumulato a Venezia va in Olanda; quello accumulato in Olan-da va in Gran Bretagna e quello accumulato in Gran Bretagna va negliStati uniti. In tal modo Marx completa ciò che è insito nell’idea diautunno di Braudel: l’autunno diventa primavera in qualche altro luogo,provocando una serie di sviluppi interconnessi tra loro.

Il lungo XX secolo analizza questi cicli successivi di espansione capi-talistica e di potere egemonico dal Rinascimento ai nostri giorni. Nel tuotesto le fasi di espansione materiale del capitale finiscono per esaurirsi sot-to la spinta di un eccesso di concorrenza, dando luogo a fasi di espansione

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grafica molto utile: mettendo insieme Hobson e il capitalismo, all’improv-viso tu fai emergere la categoria dell’egemonia come spostamento dallageometria alla geografia. Qual è stato lo stimolo iniziale che ti ha indotto ascrivere Geometria e quale importanza ha per te?

A quel tempo mi infastidiva la confusione terminologica sul termi-ne “imperialismo”. Il mio intento era di dissipare un po’ di quella con-fusione creando uno spazio topologico in cui si potessero distinguerel’uno dall’altro i differenti concetti riferiti all’imperialismo su cui spessosorgeva confusione. Ma come esercizio sull’imperialismo, per me fun-zionò anche come transizione verso la categoria di egemonia. Lo dissiesplicitamente nella postfazione alla seconda edizione, quella del 1983,dove asserivo che la categoria gramsciana di egemonia poteva essere piùutile che quella di “imperialismo” nell’analisi delle dinamiche contem-poranee tra gli Stati. Da questo punto di vista ciò che io e altri facemmofu semplicemente riapplicare la categoria gramsciana di egemoniaall’ambito delle relazioni tra gli Stati, in cui era originariamente collocataprima che Gramsci l’applicasse a un’analisi dei rapporti di classeall’interno di uno Stato. Così facendo, ovviamente, Gramsci arricchì ilconcetto sotto molti aspetti che in precedenza non erano visibili. Il pas-saggio alla sfera internazionale fu favorito da questo arricchimento.

Un riferimento fondamentale per il tuo saggio Il lungo XX secolo, pubbli-cato nel 1994, è rappresentato da Braudel. Dopo averne assimilato il pen-siero, ora ti senti di muovergli qualche obiezione?

L’obiezione è abbastanza facile. Braudel rappresenta una fonted’informazione ricchissima sul tema dei mercati e del capitalismo, mamanca di un quadro teorico. O meglio, come ebbe a dire Charles Tilly, ètalmente eclettico da avere innumerevoli teorie parziali la cui somma ènessuna teoria. Non ci si può basare solo su Braudel, bisogna avvicinarsia lui avendo bene in mente cosa si vuole cercare e si vuole trarre da lui.Un tema su cui mi sono concentrato e che distingue Braudel da Waller-stein e dagli altri analisti del sistema-mondo, per non dire degli storicidell’economia di impostazione tradizionale, marxisti o altro – è l’ideache il sistema degli Stati-nazione come emerse nei secoli XVI e XVII, fupreceduto da un sistema di città-Stato e che le origini del capitalismo èlà che vanno cercate, nelle città-Stato. Questo distingue l’Occidente,ovvero l’Europa, dalle altre parti del mondo. Ma se si segue Braudel ci siperde, dato che si viene portati in molte direzioni diverse. Ad esempio,

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tissimo dall’esempio olandese, così come gli Stati uniti dalla Gran Breta-gna. Si tratta di Stati interconnessi – una sorta di effetto valanga. Perciò,sì, c’è un effetto dovuto alla contingenza, ma ci sono anche collegamentisistemici.

Il lungo XX secolo non si occupa del destino del movimentooperaio. Non te ne sei occupato perché a quel tempo lo consideravi disecondaria importanza oppure perché l’architettura del libro, il cui sottoti-tolo è Denaro, potere e le origini del nostro tempo, era così ambiziosa ecomplessa che trattare anche di quello l’avrebbe appesantita?

Per la seconda ragione. Il lungo XX secolo originariamente avrebbedovuto essere scritto a quattro mani con Beverly Silver, che ho incontra-to per la prima volta a Binghamton, e doveva essere diviso in tre parti.Una sulle egemonie, che in effetti costituisce il capitolo 1, la secondadoveva trattare del capitale – l’organizzazione del capitale, l’impresa – insostanza, la concorrenza; la terza avrebbe affrontato il lavoro – il lavoroe i rapporti capitalistici, il movimento operaio. Ma la scoperta dellafinanziarizzazione come modello ricorrente all’interno del capitalismostorico mandò all’aria l’intero progetto. Mi costrinse a tornare indietronel tempo, cosa che mai avrei voluto fare, dato che il libro doveva effetti-vamente trattare del lungo XX secolo, vale a dire dalla grande depressio-ne del decennio 1870 fino ai nostri giorni. Quando scoprii il paradigmadella finanziarizzazione fui preso di sorpresa e Il lungo XX secolo diven-ne sostanzialmente un libro sul ruolo del capitale finanziario nello svi-luppo storico del capitalismo, a partire dal secolo XIV. Così fu Beverly aoccuparsi del lavoro nel suo Forces of Labour, uscito nel 20035.

Il vostro libro comune, Caos e governo del mondo, del 1999, rispet-ta il piano iniziale de Il lungo XX secolo?

Sì. In Caos e governo del mondo vi sono capitoli sulla geopolitica,sull’impresa, sul conflitto sociale, ecc.6. Il progetto originale non fu dun-que mai abbandonato, ma non compare ne Il lungo XX secolo, dato chenon riuscivo a concentrarmi sulla ricorrenza ciclica dell’espansionefinanziaria e dell’espansione materiale e contemporaneamente trattaredel lavoro. Una volta spostato il centro d’attenzione nella definizione dicapitalismo verso un’alternanza di espansione materiale e finanziaria,diventa molto difficile mantenere il lavoro dentro il modello. Non solooccuperebbe molto spazio, ma c’è anche una notevole variazione nel

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finanziaria la cui estinzione fa precipitare una situazione di caos tra gli Sta-ti che si risolve con l’emergere di un nuovo potere egemonico capace diristabilire l’ordine globale, riavviando nuovamente il ciclo di espansionemateriale grazie a un nuovo blocco sociale. Stati egemoni sono stati a tur-no Genova, i Paesi Bassi, la Gran Bretagna e gli Stati uniti. Fino a chepunto consideri la loro affermazione, che pone fine ogni volta a un periododi turbolenza, come frutto di fatti contingenti?

Domanda bella e difficile! C’è sempre un elemento di contingenza.Allo stesso tempo la ragione per cui queste transizioni durano così alungo, attraversando periodi di turbolenza e di caos, è che le forze chepoi emergono per organizzare il sistema attraversano un processo diapprendimento. Ciò appare chiaro nel caso più recente, quello degliStati uniti. Alla fine del XIX secolo gli Stati uniti presentavano già dellecaratteristiche che li rendevano possibili successori della Gran Bretagna.Ma ci vollero più di mezzo secolo, due guerre mondiali e una depressio-ne catastrofica prima che essi sviluppassero le strutture e le idee che,dopo la Seconda guerra mondiale, li misero in grado di assumere vera-mente l’egemonia. Fu soltanto una contingenza a rendere possibilel’egemonia degli Stati uniti che potenzialmente esisteva già nel XIXsecolo o c’è qualcosa d’altro? Non lo so. Chiaramente vi era un aspettogeografico contingente – il Nord America aveva una diversa configura-zione spaziale rispetto all’Europa, che permise la formazione di uno Sta-to che non avrebbe potuto sorgere nella stessa Europa, se si esclude laparte orientale, dove a sua volta la Russia si stava espandendo territorial-mente. Ma c’era anche un elemento sistemico: la Gran Bretagna creò unsistema di credito internazionale che a un certo punto favorì in modoparticolare la formazione degli Stati uniti.

È certo che, fossero mancati gli Stati uniti, con la loro particolareconfigurazione storico-geografica, la storia sarebbe stata molto diversa.A chi sarebbe andata l’egemonia? Si possono fare solo congetture. Ma cifurono gli Stati uniti, che si stavano costruendo, sotto molti aspetti, sulmodello olandese e su quello britannico. Genova era un po’ diversa:non dico mai che è stata egemone; era più vicina al tipo di organizzazio-ne finanziaria internazionale che si verifica nelle diaspore, compresa ladiaspora cinese contemporanea. Ma non era egemone in senso gram-sciano come lo furono l’Olanda e la Gran Bretagna. La geografia contamolto, ma anche se questi tre Stati erano così diversi sotto l’aspetto spa-ziale, essi si erano costruiti sulla base di caratteristiche organizzativeapprese dallo Stato che li aveva preceduti. La Gran Bretagna trasse mol-

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coltà a integrare il lavoro nell’analisi, poiché in un certo senso il rapportocapitale-lavoro non è centrale in quell’aspetto della dinamica capitalistica.Concordi su questo punto?

Certamente, con una precisazione: il fenomeno dell’accelerazionedella storia sociale a cui accennavo. Le lotte operaie degli anni Sessantae Settanta, ad esempio, sono state un fattore di fondamentale importan-za nella finanziarizzazione degli anni Settanta e Ottanta e nel modo incui essa si è evoluta. Il rapporto tra lotte degli operai e degli oppressi ela finanziarizzazione cambia nel tempo e recentemente ha assunto carat-teristiche prima inesistenti. Ma se si cerca di spiegare il periodico ritor-no dell’espansione finanziaria non ci si può concentrare troppo sul lavo-ro, altrimenti si parla soltanto del ciclo più recente. Si finisce per com-mettere l’errore di considerare il lavoro come causa dell’espansionefinanziaria, mentre i cicli precedenti si sono attivati senza l’interventodelle lotte operaie e degli oppressi.

Riferendoci ancora alla questione del lavoro, potremmo tornare altuo saggio del 1990 sul cambiamento del movimento operaio mondiale,Secolo marxista, secolo americano7, dove sostenevi che nel Manifesto laconsiderazione in cui Marx tiene la classe operaia è profondamente con-traddittoria, giacché sottolinea la crescente importanza del potere collettivodel lavoro, man mano che procede lo sviluppo capitalistico, e al contempoil suo progressivo immiserimento legato alla presenza di un esercito indu-striale attivo e di un esercito di riserva. Marx, come fai notare, pensava chele due tendenze avrebbero investito la medesima base sociale, però haisostenuto che nei fatti all’inizio del XX secolo esse subirono una polarizza-zione spaziale: in Scandinavia e nel mondo anglo-sassone prevalse la pri-ma, in Russia e più a Oriente, prevalse la seconda. Bernstein colse l’oppor-tunità offerta dalla prima, Lenin dalla seconda – il che causò la frattura trariformisti e rivoluzionari all’interno del movimento operaio. Nell’Europacentrale – Germania, Austria e Italia – secondo te vi è stato un equilibriopiù fluttuante tra esercito attivo e esercito di riserva, con gli equivoci diKautsky, che, incapace di scegliere tra riforma e rivoluzione, contribuì allavittoria del fascismo. Alla fine del saggio dici che potrebbe emergere unaricomposizione del movimento operaio, con il ritorno della povertà inOccidente, legata alla disoccupazione diffusa e con un nuovo potere collet-tivo dei lavoratori all’Est – era il tempo della nascita di Solidarnosc – conla possibilità di ricomporre quello che lo spazio e la storia avevano diviso.Qual è il tuo parere oggi riguardo a questa possibilità?

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tempo e nello spazio dei rapporti capitale-lavoro. Innanzi tutto, comesottolineiamo in Caos e governo del mondo, c’è un’accelerazione nellastoria sociale. Quando si mettono a confronto un regime di accumula-zione con un altro, ci si accorge che nella transizione dall’egemoniaolandese a quella britannica nel secolo XVIII, il conflitto sociale arrivatardi, in concomitanza con l’espansione finanziaria e le guerre. Nellatransizione attuale – verso destinazione ignota – l’esplosione del conflit-to sociale alla fine degli anni Sessanta e nei primi Settanta ha precedutol’espansione finanziaria ed è avvenuto senza guerre tra le maggioripotenze.

In altre parole, se prendiamo in considerazione la prima metà delXX secolo, è in prossimità delle guerre mondiali e poco dopo la loroconclusione che si hanno le più importanti lotte dei lavoratori. Questaera la base della teoria della rivoluzione di Lenin: le rivalità tra i varicapitalismi, trasformandosi in guerre, avrebbero creato le condizionifavorevoli alla rivoluzione, il che si può osservare empiricamente finoalla Seconda guerra mondiale. In un certo senso, si potrebbe dire che,nella transizione attuale, l’accelerazione del conflitto sociale ha evitatoche gli Stati capitalistici si facessero la guerra tra loro. Perciò, tornandoalla tua domanda, ne Il lungo XX secolo ho scelto di concentrarmisull’espansione finanziaria, sui cicli sistemici di accumulazione capitali-stica e sulle egemonie mondiali. Ma in Caos e governo del mondo siamoritornati al tema delle interrelazioni tra conflitto sociale, espansionefinanziaria e transizioni egemoniche.

Nella discussione sull’accumulazione originaria, Marx si occupa deldebito nazionale, del sistema creditizio, della bancarotta – in un certosenso dell’integrazione tra finanza e Stato che si verificava durante l’accu-mulazione originaria – come di fenomeni essenziali che influenzano ilmodo in cui si evolve il sistema capitalistico. Ma l’analisi del Capitalenon tratta del sistema creditizio fino al Terzo libro, perché Marx non vuo-le occuparsi del concetto di interesse, anche se il sistema creditizio diventauna questione fondamentale per la centralizzazione del capitale, perl’organizzazione del capitale fisso e così via. Questo pone la questione dicome effettivamente funzioni la lotta di classe sul tema dei rapporti traStato e finanza, rapporti che assumono il ruolo vitale che hai indicato.Nell’analisi di Marx sembra esserci una lacuna: da una parte dice che ladinamica principale è tra capitale e lavoro, dall’altra il lavoro non pareessere fondamentale nei processi di cui tu parli – spostamenti di egemo-nia, salti di livello. Si capisce come Il lungo XX secolo abbia avuto diffi-

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cresciuti gli atteggiamenti anti-immigrati che sono una manifestazionedella tendenza a creare distinzioni di status all’interno della classe lavo-ratrice. Perciò il quadro è molto complesso, specie se si osservano i flus-si migratori transnazionali e una situazione in cui l’esercito di riserva èconcentrato soprattutto nel Sud globale, più che al Nord.

Nel 1991 nel tuo articolo, Le disuguaglianze mondiali, dimostri lastraordinaria stabilità nella gerarchia della ricchezza tra le regioni del mon-do durante il XX secolo. L’entità del divario nel reddito pro-capite tra ilcentro nel Nord/Ovest, la semi-periferia e la periferia nel Sud/Est delmondo è rimasto inalterato, anzi, si è accentuato dopo mezzo secolo di svi-luppo8. Il comunismo, come tu dici, non è riuscito a colmare questo divarioin Russia, nell’Europa dell’Est e in Cina, pur non avendo operato peggiodel capitalismo in America latina, nell’Asia sud-orientale o in Africa, men-tre sotto altri punti di vista aveva operato decisamente meglio - una distri-buzione più equa del reddito all’interno della società e una maggiore indi-pendenza dello Stato dal centro Nord-occidentale. Dopo vent’anni la Cinaha rotto lo schema che tu descrivevi a quel tempo. Fino a che punto ciò tiha stupito?

Innanzi tutto non si deve esagerare l’importanza della rottura delloschema da parte della Cina. Il livello di reddito pro-capite in Cina eracosì basso – e lo è tuttora se confrontato con quello dei paesi ricchi –che persino i progressi più rilevanti vanno visti con cautela. La Cina haraddoppiato la sua posizione nei confronti dei paesi più ricchi, ma ciòsignifica solo passare dal 2% al 4% del reddito pro-capite medio deipaesi ricchi. È vero che la Cina è stata determinante nel provocare unariduzione delle disuguaglianze di reddito tra i vari paesi. Se si esclude laCina, la situazione del Sud è peggiorata a partire dagli anni Ottanta; sela si tiene in considerazione, allora il Sud è un po’ migliorato, propriograzie al progresso della Cina. Ma naturalmente vi è stata anche unanotevole crescita delle disuguaglianze all’interno della RepubblicaPopolare, quindi la Cina negli ultimi decenni ha contribuito alla crescitadelle disuguaglianze all’interno degli Stati a livello mondiale. Unendo ledue misure – la disuguaglianza tra paesi e all’interno degli Stati – a livel-lo statistico, la Cina ha provocato una riduzione della disuguaglianza suscala globale. Ma non si deve esagerare con questo dato – la situazionemondiale è ancora segnata da enormi divari che vengono ridotti a picco-li passi. È comunque importante, perché cambia i rapporti di potere tragli Stati. Continuando così, potrebbe persino arrivare a cambiare la

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La prima cosa da dire è che, oltre a questo scenario ottimistico dilivellamento delle condizioni della classe operaia in una prospettiva glo-bale, nel saggio ce n’era uno più pessimistico, che metteva in evidenzaquello che ho sempre considerato un serio problema nel Manifesto diMarx ed Engels. C’è un salto logico insostenibile sotto l’aspetto intellet-tuale e storico – l’idea che, per il capitale, ciò che oggi noi chiamerem-mo genere, etnia, nazionalità, non abbia alcuna importanza. Che l’unicacosa che interessa al capitale sono le possibilità di sfruttamento e chequindi il gruppo sociale più sfruttabile all’interno della classe lavoratriceè quello che verrà impiegato, senza discriminazioni di razza, etnia ogenere. Questo è assolutamente vero. E tuttavia non è detto che i varigruppi sociali all’interno della classe lavoratrice lo accetteranno tran-quillamente. In effetti, proprio quando c’è una generalizzazione dellaproletarizzazione e i lavoratori sono sottoposti a questo potere del capi-tale, essi utilizzeranno tutte le differenze di status che si possono indivi-duare o costruire per ottenere un trattamento privilegiato da parte deicapitalisti. Essi si mobiliteranno sulle basi del genere, della nazionalità,dell’etnia o altro per avere un trattamento privilegiato dal capitale.

Perciò Secolo marxista, secolo americano non è ottimista comepotrebbe sembrare, perché mette in evidenza la tendenza esistenteall’interno della classe lavoratrice ad accentuare le differenze di status perproteggersi dalla tendenza del capitale a trattare i lavoratori come massaindifferenziata da impiegare solo nella misura in cui consente al capitale diottenere profitti. L’articolo si concludeva con una nota ottimistica, dicen-do che vi è una tendenza al livellamento, ma allo stesso tempo che ci sideve aspettare che i lavoratori lottino per proteggere se stessi attraverso laformazione o il consolidamento di gruppi basati sullo status.

Questo significa che la distinzione tra esercito attivo ed esercito indu-striale di riserva tende ad essere definita sulla base dello status e della razza?

Dipende. Se osserviamo il processo in una dimensione globale –nella quale l’esercito di riserva non è costituito solo da disoccupati, maanche da disoccupati occulti e da emarginati – allora tra i due esercitiesiste decisamente una divisione di status. La nazionalità è stata usata dasegmenti della classe lavoratrice, dell’esercito attivo, come segno didistinzione rispetto all’esercito di riserva globale. Questo è meno evi-dente a livello nazionale. Se prendiamo gli Stati uniti o l’Europa, la divi-sione di status tra l’esercito attivo e quello di riserva è molto meno evi-dente. Ma con l’attuale immigrazione da paesi molto più poveri, sono

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ria tradizione di lotte che non trova paragoni in nessuna altra parte delmondo. Di fatto molte transizioni dinastiche furono favorite da ribellio-ni, scioperi e manifestazioni – non solo di lavoratori e contadini, maanche di commercianti. Una tradizione che permane ancora oggi.Quando Hu Jintao, alcuni anni fa, disse a Bush: “Non si preoccupi chela Cina provi a sfidare il dominio degli Stati uniti, abbiamo troppepreoccupazioni al nostro interno”, alludeva a una delle principali carat-teristiche della storia cinese: come contrastare la concomitanza di ribel-lioni interne delle classi subalterne e di invasioni esterne, fino al XIXsecolo, da parte dei cosiddetti “barbari” provenienti dalle steppe, e, suc-cessivamente, a partire dalle guerre dell’oppio, dal mare. Questi sonosempre stati problemi fondamentali per i governi cinesi e hanno postolimiti molto stretti al ruolo della Cina nelle relazioni internazionali.L’impero cinese nel tardo XVIII secolo e nel XIX secolo era sostanzial-mente una specie di welfare state pre-moderno. Tali caratteristiche furo-no riprodotte nell’evoluzione successiva. Negli anni Novanta JiangZemin ha scatenato le forze capitalistiche. I tentativi di metterle sottocontrollo si collocano nel contesto di questa tradizione molto più lunga.Se le ribellioni delle classi subalterne cinesi porteranno a un nuovo wel-fare state, questo inciderà sul modello delle relazioni internazionali neiprossimi venti o trent’anni. Ma l’equilibrio tra le classi in Cina almomento è ancora incerto.

C’è contraddizione tra essere il principale centro di lotte sociali edessere una potenza emergente? Non necessariamente – negli anni Tren-ta gli Stati uniti erano all’avanguardia nelle lotte dei lavoratori propriomentre cresceva la loro egemonia. Che queste lotte avessero successonel pieno della grande depressione fu un fattore che contribuì a renderegli Usa egemoni dal punto di vista sociale anche per la classe lavoratrice.Ciò vale anche per l’Italia, dove l’esperienza americana divenne unmodello per alcuni sindacati di ispirazione cattolica.

Notizie recenti dalla Cina segnalano preoccupazione sull’alto tasso didisoccupazione provocato dalla recessione mondiale e una serie di misureper contrastarla. Ne potrebbe conseguire un modello di sviluppo secondolinee che, alla fine, costituirebbero una sfida per il capitalismo globale?

Il problema è se le misure prese dalle autorità cinesi, in rispostaalle lotte dei gruppi subalterni, possano funzionare altrove, dove non sidanno le stesse condizioni. Se la Cina possa diventare un modello peraltri Stati – in particolare per altri grandi Stati del Sud, quali l’India –

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distribuzione globale del reddito, che è ancora molto polarizzata, ren-dendola più normale, come la intendeva Pareto.

Se questo mi ha stupito? In un certo senso sì. Infatti questa è laragione per cui negli ultimi quindici anni ho spostato i miei interessi ver-so lo studio dell’Asia orientale, avendo compreso che essa – se si escludeil Giappone, naturalmente – pur essendo parte del Sud, presentava dellecaratteristiche che la mettevano in condizione di dar vita a uno sviluppoche non rientrava in quello schema di disuguaglianze stabili tra le regio-ni. Contemporaneamente nessuno ha mai sostenuto – io no di certo –che la stabilità della distribuzione del reddito a livello globale significavaanche immobilità per certi Stati o certe regioni. Una struttura abbastan-za stabile di disuguaglianze può permanere, con alcuni paesi che salgo-no e altri che scendono. Fino a ora, entro certi limiti, le cose sono anda-te così. In particolare dagli anni Ottanta e Novanta lo sviluppo piùimportante è stata la biforcazione tra un’Asia orientale molto dinamica eun’Africa che andava precipitando in basso, in particolare l’Africa meri-dionale – ancora una volta “l’Africa delle riserve di lavoro”. È proprioquesta biforcazione a interessarmi più di ogni altra cosa: per quale ragio-ne l’Asia orientale e l’Africa si sono mosse a tal punto in direzioni oppo-ste. È un fenomeno molto importante da capire, poiché aiuterebbeanche a cambiare l’idea che abbiamo delle basi del successo nello svi-luppo capitalistico, chiarendo fino a che punto esso sia basatosull’espropriazione – la completa proletarizzazione dei contadini – comesi è visto nell’Africa meridionale, oppure sulla parziale proletarizzazioneverificatasi in Asia orientale. Perciò la divergenza tra queste due regionipone una importante questione di natura teorica che ancora una voltamette in discussione l’identificazione fatta da Brenner dello sviluppocapitalistico con la completa proletarizzazione della forza lavoro.

Ancora prima, nel 1999, in Caos e governo del mondo sostenevi chel’ascesa dell’Asia orientale e in modo particolare della Cina, avrebbe pro-vocato il declino dell’egemonia americana. Contemporaneamente avanzavil’ipotesi che in futuro sarebbe stata questa la regione in cui il lavoro avreb-be sfidato più duramente il capitale a livello mondiale. È stato osservatoche c’è una tensione tra queste prospettive – l’ascesa della Cina comepotenza rivale degli Stati uniti e le lotte crescenti della classe lavoratrice inCina. Quale relazione vedi tra le due?

La relazione è strettissima, poiché, prima di tutto, diversamente daquanto molti pensano, i contadini e gli operai cinesi hanno una millena-

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reale venga colpita come negli anni Trenta. Non sto dicendo che la gran-de depressione è stata meno importante, ma sono convinto che non siripeterà in un futuro prossimo. La situazione dell’economia mondiale èradicalmente diversa. Negli anni Trenta era molto segmentata, il chepotrebbe aver creato le condizioni per il tracollo. Adesso è molto piùintegrata.

In Verso una teoria della crisi capitalistica descrivi un profondo con-flitto strutturale all’interno del capitalismo, in cui distingui tra le crisi pro-vocate da un livello di sfruttamento troppo alto, che porta a una crisi direalizzazione per l’inadeguata domanda effettiva, e quelle provocate da untasso di sfruttamento troppo basso, che riduce la domanda di mezzi di pro-duzione. Fai ancora questa distinzione e, se sì, potresti dire che ci troviamoin una crisi di realizzazione camuffata da un indebitamento personale e dauna finanziarizzazione crescente a causa del contenimento dei salari che hacontraddistinto il capitalismo negli ultimi trent’anni?

Sì, credo che nel corso degli ultimi trent’anni ci sia stato un cam-biamento nella natura delle crisi. Fino ai primi anni Ottanta erano carat-terizzate dalla diminuzione del tasso di profitto causata dalla concorren-za crescente tra le agenzie capitalistiche e dal fatto che i lavoratori eranopiù attrezzati a difendersi di quanto non lo fossero durante le precedentidepressioni – sia alla fine del secolo XIX che negli anni Trenta. Questaera la situazione negli anni Settanta. La contro-rivoluzione monetaristadi Reagan e della Thatcher mirava a corrodere quel potere, la capacitàdelle classi lavoratrici di auto-proteggersi – non era l’unico obiettivo, maera uno dei più importanti. Credo che tu ti riferisca a qualche consiglie-re della Thatcher che afferma che quello che hanno fatto era …

… la creazione di un esercito industriale di riserva; esattamente …

… ciò che Marx dice che dovrebbero fare! Questo ha cambiato lanatura della crisi. Negli anni Ottanta e Novanta e adesso, negli anniDuemila, stiamo assistendo a una vera e propria crisi di sovrapproduzio-ne, con tutte le sue caratteristiche. I redditi sono stati ridistribuiti a favo-re di gruppi e classi che hanno grande liquidità e tendenze speculative;in tal modo i redditi non tornano in circolazione come domanda effetti-va, ma si danno alla speculazione creando bolle che regolarmente scop-piano. Perciò, sì, da crisi conseguente alla caduta del tasso di profittoper l’aumento della concorrenza tra i capitali, la crisi si è trasformata in

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dipende da molte specificità storiche e geografiche che forse non si pos-sono riprodurre altrove. I cinesi lo sanno e non si pongono come model-lo da imitare. Quanto avviene in Cina sarà fondamentale per i rapportitra la Repubblica popolare cinese e il resto del mondo, ma non comemodello per gli altri. E tuttavia da quelle parti vi è una interpenetrazionedelle lotte – di operai e contadini contro lo sfruttamento, ma anche con-tro problemi ambientali e la devastazione ecologica – che è difficileriscontrare altrove. In questo momento le lotte stanno crescendo e saràimportante vedere la risposta del governo. Penso che il cambiamento dileadership a Hu Jintao e Wen Jiabao sia quantomeno legato all’inquietu-dine di fronte alla prospettiva di abbandonare una lunga tradizione diwelfare. Dobbiamo tenere d’occhio la situazione e stare attenti ai possi-bili esiti.

Tornando al problema delle crisi del capitalismo, il tuo saggio del1972, Verso una teoria della crisi capitalistica presenta un confronto tra lalunga recessione del periodo 1873-96 e le previsioni, rivelatesi esatte, diun’altra crisi dello stesso tipo che storicamente ha avuto inizio nel 1973.Da allora sei tornato più volte su questo confronto, mettendo in evidenzale affinità, ma anche le importanti differenze tra le due. Però hai scrittomeno della crisi iniziata nel 1929. Ritieni che la grande depressione conti-nui ad essere meno importante?

No, non meno importante, essendo stata la crisi più grave mai vis-suta dal capitalismo; di certo fu un momento di svolta. Insegnò allefuture potenze a fare in modo che l’esperienza non si ripetesse. Esistonosvariati strumenti più o meno riconoscibili per prevenire un nuovo crol-lo di quella portata. Anche oggi, benché il crollo della borsa venga para-gonato a quello degli anni Trenta, penso – ma potrei sbagliarmi – che siagli organismi monetari che i governi che contano stiano facendo tutto ilpossibile per evitare che il crollo dei mercati finanziari abbia gli stessieffetti sociali degli anni Trenta. Non se lo possono permettere politica-mente e quindi se la cavano alla meno peggio e facendo quello che pos-sono. Persino Bush – e Reagan prima di lui – con tutta la sua ideologiadel libero mercato, si è affidato in modo estremo a politiche keynesianedi spesa in deficit. Una cosa è l’ideologia, altro è quello che fanno, datoche reagiscono a situazioni politiche che non possono permettersi dilasciar peggiorare più di tanto. Gli aspetti finanziari possono assomiglia-re a quelli del Trenta, ma c’è maggiore consapevolezza ed esistono vin-coli più stretti perché i governi non lascino che la cosiddetta economia

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avuto l’effetto contrario: la credibilità dei militari americani è stata ancorpiù corrosa, la posizione finanziaria si è aggravata in modo disastroso.Perciò il compito che Obama si trova davanti adesso penso sia quello digestire il declino in modo intelligente. Questo è quello che può fare. Mala sua idea di escalation in Afganistan è, a dir poco, preoccupante.

Nel corso del tempo, mentre il tuo lavoro si fondava sul concettomarxiano di accumulazione capitalistica, non hai risparmiato critiche aMarx – la sua sottovalutazione delle lotte di potere tra gli Stati, la suaindifferenza per lo spazio geografico, le contraddizioni nella sua analisi del-la classe lavoratrice. Da molto tempo subisci il fascino di Adam Smith, cheoccupa un ruolo centrale nel tuo lavoro più recente, Adam Smith a Pechi-no. Quali riserve nutri su di lui?

Le riserve sono le stesse che su di lui nutriva Marx. Marx ha trattomolto da Smith – la tendenza alla caduta del tasso di profitto sottol’impatto della concorrenza inter-capitalistica, ad esempio, è un’idea diSmith. Il Capitale è una critica dell’economia politica; Marx criticavaSmith per aver ignorato quanto accadeva nei segreti laboratori dellaproduzione – come diceva lui. La concorrenza inter-capitalistica puòridurre il tasso di profitto, ma viene contrastata dalla tendenza edall’abilità dei capitalisti di spostare i rapporti di potere con la classelavoratrice a proprio favore. Da questo punto di vista la critica di Marxall’economia politica di Smith era fondamentale. Si deve comunque sta-re attenti al periodo storico, perché quella di Marx era una costruzioneteorica che partiva da presupposti che possono non corrispondere allarealtà storica di luoghi e periodi particolari. Noi non possiamo dedurrerealtà empiriche da costruzioni teoriche. La validità della sua critica aSmith va valutata sulla base degli eventi storici. Ciò vale per Smith, perMarx come per chiunque altro.

Una delle conclusioni di Marx, specie nel Primo libro del Capitale, èche l’attuazione del sistema di libero mercato di Smith porta all’aumentodelle disuguaglianze di classe. Fino a che punto l’attuazione del regimesmithiano a Pechino comporta il rischio di disuguaglianze di classe ancorapiù nette in Cina?

Nel capitolo teorico su Smith in Adam Smith a Pechino sostengoche nelle sue opere non troviamo alcuna nozione di auto-regolamenta-zione dei mercati come si trova nel neoliberismo. La mano invisibile è

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crisi di sovrapproduzione dovuta alla scarsità sistemica di domandaeffettiva, creata dalle tendenze dello sviluppo capitalistico.

Un recente rapporto del National Intelligence Council ha previsto lafine del dominio globale degli Stati uniti per il 2025 e il sorgere di unmondo più frammentato, multipolare, più conflittuale. Pensi che il capita-lismo come sistema mondiale richieda, come condizione di possibilità, unapotenza egemone unica? L’assenza di una tale potenza equivale necessaria-mente a un caos sistemico instabile – è impossibile un equilibrio tra poten-ze di peso quasi uguale?

No, non direi che è impossibile. Molto dipende da quanto e fino ache punto la potenza egemone attuale accetti un compromesso. Il caosdegli ultimi sei o sette anni si deve alla reazione dell’amministrazione Bushall’11 settembre 2001; da un certo punto di vista è stato un caso di “suici-dio di una grande potenza”. È molto importante il comportamento dellapotenza in declino, perché è capace di creare caos. Tutto il “Progetto perun nuovo secolo americano” è stato un rifiuto di accettare il declino, ed èstato una catastrofe. C’è stata la sconfitta militare in Iraq e la conseguentetensione finanziaria relativa alla posizione degli Usa nell’economia mon-diale che l’ha trasformata da paese creditore nella nazione più pesante-mente indebitata della storia mondiale. La sconfitta in Iraq è più grave diquella del Vietnam, poiché in Indocina c’era una lunga tradizione di guer-riglia: avevano un capo del calibro di Ho Chi Minh e avevano già sconfit-to i francesi. Per gli americani in Iraq la tragedia è che, anche nelle condi-zioni migliori, sarà ben difficile che vincano la guerra e ora stanno cercan-do di uscirne in qualche modo salvando la faccia. La resistenza che hannoopposto al compromesso ha portato prima a un’accelerazione del lorodeclino e poi a molta sofferenza e grande caos. L’Iraq è un disastro. Laquantità di profughi è molto superiore a quella del Darfur.

Non si capisce bene che cosa voglia fare Obama. Se pensa di poterribaltare il declino avrà delle brutte sorprese. Quello che può fare ègestire con intelligenza il declino – vale a dire, cambiare la politica da“Noi non trattiamo. Vogliamo un altro secolo americano” a una gestio-ne del declino, individuando politiche che si adattino al cambiamentonei rapporti internazionali. Non so se seguirà questa strada perché èmolto ambiguo; o perché in politica certe cose non si possono dire, operché non sa cosa fare, o perché è ambiguo e basta. Non lo so. Ma ilcambiamento da Bush a Obama offre davvero possibilità di gestire ildeclino degli Stati uniti in modo tale che non sia catastrofico. Bush ha

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distruggere l’ambiente devono andare ad Amsterdam e non a Los Ange-les. Ad Amsterdam tutti vanno in bicicletta: alla stazione ci sonomigliaia di biciclette parcheggiate per tutta la notte, dato che la gentearriva in treno, prende la bicicletta al mattino e la sera la riporta lì. Men-tre in Cina, dove la prima volta che ci andai negli anni Settanta non esi-stevano automobili – c’era solo qualche autobus in un mare di biciclette– ora le biciclette sono state messe da parte. Sotto questo aspetto il qua-dro è molto confuso, preoccupante e pieno di contraddizioni. L’ideolo-gia della modernizzazione ha perso credito dovunque, ma in Cina restaforte, anche se in modo molto ingenuo.

Da Adam Smith a Pechino si evince che a noi occidentali occorrereb-be qualcosa come una rivoluzione industriosa e dunque questa categorianon riguarda solo la Cina, ma potrebbe estendersi molto di più.

Sì. Ma la tesi fondamentale di Sugihara è che lo sviluppo tipicodella rivoluzione industriale, cioè la sostituzione del lavoro con le mac-chine e l’energia, non presenta solo limiti ecologici, come sappiamo, maanche limiti economici. Infatti i marxisti dimenticano spesso che l’ideadi Marx dell’aumento della composizione organica del capitale, che por-ta alla riduzione del profitto, deve fare i conti con il fatto che incremen-tare l’uso delle macchine e dell’energia intensifica la concorrenza tra icapitalisti al punto da ridurre il profitto, oltre ad essere distruttivadell’ambiente.

Sugihara sostiene che ci sono limiti alla separazione tra manage-ment e lavoratori, alla crescente importanza del management rispetto allavoro, alla perdita di qualifiche del lavoro, compresa la capacità diauto-gestirsi, che è tipica della rivoluzione industriale. Nella rivoluzioneindustriosa c’è una crescente mobilitazione di tutte le risorse delle fami-glie, che consente lo sviluppo, o per lo meno il mantenimento, dell’abi-lità gestionale dei lavoratori. In definitiva i vantaggi di queste capacità digestione diventano più importanti dei vantaggi derivanti della separazio-ne tra concezione ed esecuzione, tipica della rivoluzione industriale.Penso che abbia ragione, nel senso che questo è essenziale per compren-dere l’attuale ascesa della Cina. Conservare queste capacità di autoge-stione ha posto limiti molto seri al processo di proletarizzazione. Ora laCina è in grado di avere un’organizzazione dei processi lavorativi che sibasa più che altrove sull’abilità di autogestione dei lavoratori. Probabil-mente nella nuova situazione della Cina questa è una delle principalifonti del vantaggio competitivo cinese.

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quella dello Stato, che dovrebbe agire in modo decentrato, con un mini-mo di interferenza burocratica. Nella sostanza, l’azione del governo inSmith è a favore del lavoro e non del capitale. Dice esplicitamente dinon essere favorevole a provocare competizione tra lavoratori per otte-nere una riduzione dei salari, ma è favorevole alla concorrenza tra capi-talisti affinché si riduca il profitto a un minimo accettabile che compensiil rischio. Le moderne teorie ribaltano totalmente il suo pensiero. Perònon è chiaro dove voglia arrivare la Cina oggi. All’epoca di Jiang Zemin,negli anni Novanta, andava certamente nella direzione di una competi-zione tra i lavoratori a favore del capitale e del profitto, su questo non visono dubbi. Adesso si registra un’inversione di tendenza che, come hodetto, tiene conto non solamente della tradizione della Rivoluzione edell’era maoista, ma anche degli aspetti di welfare della Cina tardo-imperiale sotto la dinastia Ching negli ultimi anni del XVIII e nel XIXsecolo. Non scommetto sugli esiti della Cina, ma dobbiamo saper vede-re dove sta andando.

In Adam Smith a Pechino fai riferimento anche all’opera di Sugiharache contrappone una “rivoluzione industriosa”, ai primordi dell’era moder-na in Asia orientale, basata sul lavoro intensivo e su un saggio rapporto conla natura, alla “rivoluzione industriale” basata sulla meccanizzazione e su diun utilizzo predatorio delle risorse naturali, dicendo di sperare in una con-vergenza delle due tendenze per l’umanità futura. Secondo te a che punto sitrova oggi l’equilibrio tra queste due tendenze in Asia orientale?

È un equilibrio molto precario. Diversamente da Sugihara nonsono così ottimista da pensare che nella tradizione asiatica la “rivoluzio-ne industriosa” sia talmente radicata da tornare a essere dominante, opossa per lo meno giocare un ruolo importante in qualsiasi formazioneibrida possa emergere. Questi concetti sono più importanti per teneresotto controllo quanto avviene, piuttosto che per dire “l’Asia va in que-sta direzione, oppure gli Usa vanno in quell’altra”. Abbiamo bisogno divedere che cosa fanno realmente. Si sa che le autorità cinesi sono preoc-cupate per l’ambiente e per le lotte sociali, però poi fanno cose assoluta-mente stupide. Forse stanno elaborando un piano, ma non mi pare chevi sia sufficiente consapevolezza del disastro ecologico provocato dallaciviltà dell’automobile. Da questo punto di vista è già stata una follia inEuropa copiare gli Stati uniti, e lo è ancor di più in Cina. Ai cinesi hosempre detto negli anni Novanta e Duemila che andavano a visitare lecittà sbagliate. Se vogliono vedere come si possa essere ricchi senza

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riflettono un equilibrio di potere tra gli Stati del Nord e del Sud –all’interno degli Stati del Nord, tra Nord e Sud e così via. In linea diprincipio, non c’è nulla che escluda la possibilità che tali istituzioni pos-sano funzionare per governare l’economia globale in modo tale da pro-muovere una più equa distribuzione del reddito su scala mondiale. Ma èaccaduto esattamente il contrario, negli anni Ottanta il Fondo moneta-rio internazionale e la Banca mondiale sono divenuti gli strumenti dellacontro-rivoluzione neoliberista, promuovendo una distribuzione piùdisuguale del reddito. Ma poi, come ho detto, alla fine non è peggioratatanto la distribuzione del reddito tra Nord e Sud, c’è stata piuttosto unagrande biforcazione all’interno dello stesso Sud, con l’Asia orientale cheandava a gonfie vele e l’Africa meridionale che andava malissimo, e lealtre regioni in mezzo.

Che relazione ha tutto ciò con il concetto di società di mercatomondiale di cui tratto in Adam Smith a Pechino? A questo punto è chia-ro che uno Stato mondiale, anche del tipo più embrionale e confederalepossibile, sarà molto difficile da realizzare, non è ipotizzabile in modoserio per il prossimo futuro. Ci sarà una società di mercato mondiale nelsenso che gli Stati si rapporteranno tra loro attraverso meccanismi dimercato che non sono affatto lasciati a se stessi, ma vengono regolamen-tati. Questo valeva anche per il sistema sviluppato dagli Stati uniti, cheera estremamente regolamentato; l’eliminazione di tariffe e quote diimportazione, o le restrizioni alla mobilità del lavoro erano semprenegoziate dagli Stati – in particolare da Stati uniti ed Europa, e poi traquesti e gli altri paesi. Ora la questione è quale tipo di regolamentazioneverrà introdotta per evitare un crollo del mercato analogo a quello deglianni Trenta. Quindi la relazione tra i due concetti è che l’organizzazionedell’economia mondiale si baserà principalmente sul mercato, ma conun’importante partecipazione degli Stati nel regolare l’economia.

Ne Il lungo XX secolo hai delineato tre possibili esiti del caos siste-mico a cui ha condotto l’onda lunga della finanziarizzazione iniziata neglianni Settanta: un impero mondiale controllato dagli Stati uniti, unasocietà di mercato mondiale in cui nessuno Stato domina sugli altri, oppu-re una nuova guerra mondiale che distruggerebbe il genere umano. In tut-te e tre le eventualità il capitalismo, nel modo in cui si è storicamente svi-luppato, scomparirebbe. In Adam Smith a Pechino concludi che, con ilfallimento dell’amministrazione Bush, la prima ipotesi si può escludere,mentre restano le altre due. Non esiste, però, nel tuo pensiero, almeno sulpiano logico, la possibilità che la Cina possa emergere progressivamente

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Questo ci potrebbe far tornare alla politica del Gruppo Gramsci perquanto riguarda i processi lavorativi e l’ autonomia?

Sì e no. Ci sono due diverse forme di autonomia. Ora stiamo par-lando di autonomia di gestione, mentre l’altra era autonomia delle lotte,nell’antagonismo dei lavoratori verso il capitale. In quel caso l’autono-mia era su come formulare un programma che unisse i lavoratori nellalotta contro il capitale, piuttosto che dividere il lavoro creando le condi-zioni per la riaffermazione del potere del capitale sul luogo di lavoro. Lasituazione attuale è ambigua. Molti guardano all’autogestione cineseconsiderandola un modo per subordinare il lavoro al capitale – in altreparole il capitale risparmia sulle spese di gestione. Queste capacità digestione vanno contestualizzate – dove, quando e a quale scopo, non ètanto facile classificarle in un modo o nell’altro.

Nel 1991 hai terminato il tuo articolo su Le disuguaglianze mondia-li sostenendo che, dopo il crollo dell’Urss, l’inasprimento e l’ampliamentodei conflitti sulle scarse risorse nel Sud del mondo – la guerra Iran-Iraq ola Guerra del Golfo sono emblematiche – costringono l’Occidente a crearestrutture embrionali di governo mondiale per affrontarli; il G7 come stru-mento di governo della borghesia globale, il Fondo monetario internazio-nale e la Banca mondiale come Ministero delle finanze, il Consiglio disicurezza dell’Onu come Ministero della difesa. Ipotizzi che queste struttu-re nel giro di quindici anni potrebbero finire in mano a forze non conser-vatrici. In Adam Smith a Pechino parli di una società di mercato mondia-le, senza più alcuna potenza egemone, come di un futuro di qualche spe-ranza. Che relazione esiste tra queste due prospettive?

In primo luogo, non ho detto che le strutture di governo mondialesarebbero sorte in seguito ai conflitti nel Sud del mondo. Molte di esseerano organizzazioni nate a Bretton Woods, istituite dagli Stati unitidopo la Seconda guerra mondiale come meccanismi necessari a evitare iproblemi che nascono dai mercati autoregolati nell’economia globale, ecome strumenti di governo. Quindi strutture embrionali di governomondiale sono esistite dal dopoguerra in poi. Negli anni Ottanta si èverificato un aumento di turbolenza e di instabilità, di cui i conflitti nelSud erano un aspetto, e queste istituzioni hanno dovuto gestire l’econo-mia mondiale in modo diverso rispetto al passato. Potrebbero passaresotto il controllo di forze non conservatrici? Il mio atteggiamento versoqueste istituzioni è sempre stato ambivalente, poiché sotto molti aspetti

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carta dell’economia molto più di quanto abbiano mai fatto gli Usa, gliinglesi o gli olandesi.

Prevedi un’integrazione più vasta in Asia orientale? Si parla, adesempio, di creare una specie di Fondo monetario regionale, di unificare lemonete. Vedi la Cina al centro di un potere egemonico dell’Asia orientale,piuttosto che come paese singolo? E in tal caso, come si collega tutto ciòcon il crescente nazionalismo in Corea del Sud, Giappone e Cina?

La cosa più interessante in Asia orientale è il modo in cui, in defi-nitiva, l’economia condiziona i rapporti e le politiche degli Stati tra loro,a dispetto dei loro nazionalismi. I nazionalismi sono ben radicati, madipendono da una ragione storica che in Occidente spesso si dimentica:Corea, Cina, Giappone, Thailandia e Cambogia erano Stati nazionaliben prima che esistesse un solo Stato-nazione in Europa. Hanno tuttistorie di tensioni nazionaliste l’uno verso l’altro, in un contesto di naturaprevalentemente economica. Di tanto in tanto scoppiavano guerre el’atteggiamento dei vietnamiti nei confronti della Cina, o dei coreani neiconfronti del Giappone è profondamente radicato nella memoria diquelle guerre. Al contempo sembra però essere l’economia a dominare.È stato sorprendente vedere come il ritorno nazionalista in Giapponecon il governo Koizumi sia stato improvvisamente frenato quando si ècapito che le imprese giapponesi volevano fare affari con la Cina. Anchein Cina c’è stata una forte ondata di manifestazioni anti-giapponesi, mapoi sono finite. Il quadro generale in Asia orientale è che ci sonoprofonde spinte nazionaliste, ma contemporaneamente c’è la tendenza asuperarle in nome degli interessi economici.

L’attuale crisi del sistema finanziario mondiale sembra la confermapiù clamorosa che si potesse immaginare delle previsioni teoriche che haisviluppato da tempo. C’è qualche aspetto della crisi che ti ha sorpreso?

Le mie previsioni erano molto semplici. La ricorrente tendenza allafinanziarizzazione è, come diceva Braudel, il segno dell’autunno di unaparticolare espansione materiale, centrata su uno Stato particolare. Ne Illungo XX secolo considero lo sviluppo della finanziarizzazione come laspia della crisi di un regime di accumulazione, e facevo notare che coltempo – di solito circa mezzo secolo – ad essa segue la crisi terminale.Per gli Stati che in precedenza si erano affermati come egemoni è statopossibile individuare sia la crisi-spia sia, successivamente, la crisi termi-

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come nuova potenza egemone, sostituendo gli Stati uniti, senza modificarele strutture del capitalismo e del territorialismo da te descritte? Escludiuna possibilità di questo genere?

Non la escludo, ma cominciamo col puntualizzare quanto sosten-go. Il primo dei tre scenari che ho delineato alla fine de Il lungo XXsecolo è quello di un impero mondiale governato non solo dagli Statiuniti, ma dagli Stati uniti insieme ai loro alleati europei. Non ho maipensato che gli Usa sarebbero stati così imprudenti da promuovere dasoli un nuovo secolo americano – era come progetto troppo folle daconsiderare – e naturalmente è subito fallito, con gravi contraccolpi. Trai responsabili della politica estera statunitense c’è una corrente che vuo-le ricostruire i rapporti con l’Europa messi a dura prova dall’unilaterali-smo dell’amministrazione Bush. Questa è ancora una possibilità, anchese meno probabile di prima. Il secondo punto è che una società di mer-cato mondiale e l’accresciuto potere della Cina nell’economia globalenon si escludono a vicenda. Se si considera come la Cina si è comportatastoricamente con i suoi vicini, si vede che i rapporti si sono basati piùsugli scambi economici che sulla potenza militare: ed è ciò che avvieneanche oggi. Spesso si fraintende questo, si pensa che io dipinga i cinesicome più morbidi o migliori rispetto all’Occidente, non è questo il pun-to. Il punto sono i problemi di governance di un paese come la Cina, dicui abbiamo parlato. La Cina ha una tradizione di ribellioni che nessunaltro paese di quelle dimensioni e così densamente popolato ha maiaffrontato. I suoi governanti sono ben consapevoli della possibilità dinuove invasioni dal mare – in altre parole, dagli Usa. Come faccio nota-re nel capitolo 10 di Adam Smith a Pechino, gli Stati uniti hanno diversipiani riguardo alla Cina, nessuno dei quali è del tutto rassicurante perPechino. A parte il piano Kissinger, che prevede una cooptazione dellaCina, gli altri ipotizzano una nuova Guerra fredda contro la Cina oppu-re il suo coinvolgimento in una serie di guerre con paesi vicini, nellequali gli Usa avrebbero il ruolo di “beato terzo”. Se, come penso, laCina emergerà come nuovo centro dell’economia globale, il suo ruolosarà del tutto differente da quello dei paesi egemoni precedenti. Nonsolo per i contrasti di tipo culturale, radicati nelle differenze storico-geo-grafiche, ma proprio perché la diversità della storia e della geografiadell’Asia orientale avrà un impatto sulle nuove strutture dell’economiaglobale. Se la Cina sarà egemone, lo sarà in modo molto diverso daglialtri. Il potere militare sarà molto meno importante del potere culturaleed economico – di quello economico in particolare. Dovranno giocare la

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quel tempo era la seconda multinazionale al mondo per numero didipendenti. Ho avuto così la fortuna – dal punto di vista dell’analisi del-le imprese capitalistiche – di lavorare in imprese sempre più grandi, ilche mi ha aiutato a capire che non si può parlare di impresa capitalisticain generale, dato che le differenze tra quella di mio padre, quella di miononno e l’Unilever erano incredibili. Ad esempio, mio padre impiegavatutto il suo tempo visitando i clienti nelle zone di produzione tessile estudiando i problemi tecnici che essi avevano con le macchine. Poi tor-nava in fabbrica e ne discuteva con il suo ingegnere per personalizzarele macchine per ogni cliente. Quando tentai di gestire la sua impresanon avevo strumenti: tutto si fondava su abilità e conoscenze che faceva-no parte dell’esperienza di mio padre. Potevo visitare i clienti, ma nonsapevo risolvere i loro problemi – non riuscivo neppure a capirli. Nonc’era speranza. Da giovane, quando dicevo a mio padre: “Se arrivano icomunisti avrai problemi”, lui rispondeva: “No, non avrò problemi,continuerò a fare quello che ho sempre fatto, avranno bisogno di genteche faccia queste cose”.

Quando chiusi l’azienda di mio padre per andare da mio nonnotrovai un’organizzazione più fordista. Non studiavano i problemi deiclienti, producevano macchine standardizzate, che piacessero o no aiclienti. Gli ingegneri progettavano macchine sulla base di quello cheritenevano sarebbe stato il mercato, e dicevano ai clienti: questo è quelloche abbiamo. Era una forma embrionale di produzione di massa, concatene di montaggio embrionali. Quando andai all’Unilever quasi nonvedevo la produzione. C’erano molte fabbriche: una faceva margarina,un’altra sapone, un’altra profumi. C’erano dozzine di prodotti diversi,ma il centro dell’attività non erano né la produzione, né la vendita, ma lafinanza e la pubblicità. Questo m’insegnò che è difficilissimo individua-re una forma specifica come “tipicamente” capitalistica. In seguito, stu-diando Braudel, mi resi conto che l’idea della natura estremamenteadattabile del capitalismo poteva essere osservata nella storia.

Uno dei maggiori problemi della sinistra, ma anche della destra, èpensare che esista un’unica forma di capitalismo che storicamente siautoriproduce, mentre invece il capitalismo si è trasformato in modosostanziale – soprattutto su base globale – con modalità inaspettate. Permolti secoli il capitalismo ha utilizzato la schiavitù, e sembrava talmentevincolato alla schiavitù, sotto tutti punti di vista, da non poterne farne ameno. Poi fu abolita la schiavitù e il capitalismo non solo sopravvisse maprosperò più che mai, sviluppandosi sulla base del colonialismo edell’imperialismo. A quel punto pareva che colonialismo e imperialismo

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nale. Quanto agli Stati uniti, ho ipotizzato che la crisi-spia si fosse regi-strata negli anni Settanta e che la crisi terminale dovesse ancora venire –ma sarebbe arrivata. In che modo sarebbe arrivata? L’ipotesi di base erache quell’espansione finanziaria fosse fondamentalmente insostenibilepoiché attirava verso la speculazione più capitali di quanti si potesserogestire – in altri termini, quest’espansione finanziaria aveva la tendenza asviluppare bolle di vario tipo. Prevedevo che quell’espansione finanzia-ria avrebbe finito per portare a una crisi terminale perché le bolle sonoinsostenibili oggi come lo sono state in passato. Non avevo previsto,però, i dettagli delle bolle: il boom delle attività legate a internet, leimprese dot.com, oppure la bolla immobiliare.

Inoltre sono stato ambiguo su quale fosse il punto a cui eravamoarrivati negli anni Novanta, quando ho scritto Il lungo XX secolo. Inqualche modo pensavo che la belle époque degli Stati uniti fosse finita,mentre invece era solo all’inizio. Era stato Reagan a prepararla provo-cando una grave recessione, che aveva poi creato le condizioni per lasuccessiva espansione finanziaria; ma è stato poi Clinton a controllare labelle époque, che è poi terminata con il crollo finanziario degli anni Due-mila, soprattutto del Nasdaq, la Borsa delle imprese tecnologiche. Conl’esplosione della bolla immobiliare a cui stiamo assistendo, la crisi ter-minale dell’egemonia finanziaria statunitense è divenuta del tutto evi-dente.

Quello che distingue il tuo lavoro dagli altri nel tuo campo è l’atten-zione alla flessibilità, adattabilità e fluidità dello sviluppo capitalisticoall’interno del contesto del sistema inter-statale. Eppure nello schema dellalongue durée, la prospettiva dei 500, 150 e 50 anni che hai adottatonell’analisi della posizione dell’Asia orientale nel sistema inter-statale,emergono dinamiche straordinariamente chiare, nettissime nella lorodeterminazione e semplicità9. Come definiresti la relazione tra contingenzae necessità nel tuo pensiero?

Qui ci sono due questioni: una riguarda la mia considerazione del-la flessibilità dello sviluppo capitalistico e l’altra è il ricorrere di certeregolarità, e fino a che punto siano determinate dalla contingenza o dal-la necessità. Quanto alla prima, l’adattabilità del capitalismo, deriva dal-la mia esperienza giovanile nelle imprese. All’inizio avevo provato agestire l’azienda di mio padre, che era relativamente piccola; poi feciuna tesi sull’azienda di mio nonno, che era una società di medie dimen-sioni, poi litigai con mio nonno e andai a lavorare all’Unilever, che a

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mulazione; questo mobilita denaro e risorse su scala crescente, che por-tano a problemi di aumento di concorrenza e sovra-accumulazione. Ilprocesso capitalistico di accumulazione di capitale – contrappostoall’accumulazione di capitale non capitalistica – ha un effetto valangache provoca un’intensificarsi della competizione e riduce il tasso di pro-fitto. Così, coloro che si trovano nella posizione migliore per individuareun nuovo spatial fix realizzano il nuovo assetto, in un contesto ogni voltapiù ampio. Prima le città-Stato, che accumulavano grandi masse di capi-tale in piccoli luoghi, poi l’Olanda del Seicento, che era più di una città-Stato, ma meno di uno Stato-nazione, poi la Gran Bretagna del Sette-cento e dell’Ottocento, con il suo impero di vastità planetaria, e infinenel Novecento gli Stati uniti, di dimensioni continentali.

Ora il processo non può procedere nello stesso senso, mancandoun contesto ancora più ampio in grado di sostituire gli Stati uniti. Visono grandi Stati-nazione – di fatto “Stati-civiltà”, come la Cina el’India, che non sono più estese degli Usa in termini di spazio, ma hannouna popolazione cinque o sei volte superiore. Così ora stiamo passandoa un nuovo meccanismo: invece di andare da un contesto a un altro piùampio in termini spaziali, andiamo da uno spazio a bassa densità dipopolazione a contenitori ad alta densità. Per di più, prima ci si sposta-va da un paese ricco a un altro paese ricco. Adesso ci muoviamo inveceda un paese ricchissimo a paesi sostanzialmente poveri – il reddito pro-capite in Cina è ancora un ventesimo di quello degli Stati uniti. Da unlato si potrebbe dire: “Bene, l’egemonia, se è questo di cui stiamo par-lando, si sta spostando dai ricchi ai poveri”. Ma d’altro lato questi paesihanno al loro interno enormi differenze e disuguaglianze. È tutto moltoconfuso, sono tendenze contraddittorie ed è necessario elaborare ulte-riori strumenti concettuali per comprenderle.

Adam Smith a Pechino si conclude con la speranza di una comunitàdi civiltà, che vivano in modo paritario, con un rispetto condiviso per laTerra e le risorse naturali. Useresti il termine “socialismo” per questa visio-ne, o lo consideri superato?

Non avrei difficoltà a definirlo socialismo, ma purtroppo questotermine è stato eccessivamente identificato con il controllo dello Statosull’economia. Non ho mai pensato che questa fosse una buona idea.Vengo da un paese dove lo Stato viene disprezzato e in molti casi consi-derato inaffidabile. Identificare il socialismo con lo Stato crea grossiproblemi. Di conseguenza, se un sistema mondiale di questo tipo doves-

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fossero essenziali – ma poi, dopo la Seconda guerra mondiale, il capitali-smo li ha abbandonati, e sopravvisse più prospero. Nel corso della storiadel mondo il capitalismo si è continuamente trasformato e questa è unadelle sue caratteristiche principali: sarebbe davvero miope cercare di fis-sare una volta per tutte le caratteristiche del capitalismo senza prenderein considerazione queste trasformazioni cruciali. Ciò che rimane costantein tutte queste mutazioni e definisce l’essenza del capitalismo è perfetta-mente espresso dalla formula del capitale di Marx “Denaro-Merce-Denaro allargato” (D-M-D’), alla quale mi riferisco per individuarel’alternanza di espansione materiale e finanziaria. Osservando la Cinaodierna, possiamo dire che forse si tratta di capitalismo o forse no – cre-do che la questione sia ancora aperta. Ma se lo consideriamo capitalismo,non è uguale a quello delle epoche precedenti, è totalmente trasformato.Il problema è identificarne le specificità, in quale modo è diverso daicapitalismi precedenti, sia che lo chiamiamo capitalismo o altro.

E la seconda parte della domanda – l’affermarsi di caratteristiche par-ticolari nella longue durée, e le trasformazioni di scala?

C’è una dimensione geografica molto chiara nei cicli ricorrenti diespansione materiale e finanziaria, ma questo è un aspetto che si nota senon si resta concentrati su un paese particolare – perché in tal caso sivede un processo tutto diverso. Molti storici hanno fatto così: si concen-trano su un paese e ne analizzano le linee di sviluppo. Invece in Braudell’idea è che l’accumulazione di capitale proceda per salti, e se non si sal-ta con lei non si riesce a seguirla da un territorio all’altro, non la si vede.Se ti concentri sull’Inghilterra o sulla Francia ti perdi i fatti più impor-tanti dello sviluppo capitalistico in una prospettiva storica mondiale. Tidevi spostare con lei per capire che il processo di sviluppo capitalistico èsostanzialmente questo passaggio da una condizione nella quale ciò chetu hai definito come spatial fix è divenuto troppo angusto e la competi-zione si è accentuata, a un altro assetto in cui un nuovo spatial fix, conscala e finalità più ampie, consente al sistema un altro periodo di espan-sione materiale. E poi, naturalmente, a un certo punto il ciclo si ripete.

Quando ho formulato per la prima volta questa teoria, traendonelo schema da Braudel e Marx, non avevo ancora avuto modo di apprez-zare fino in fondo il concetto da te elaborato di spatial fix nel duplicesignificato di localizzazione del capitale fisso investito e di soluzione perle precedenti contraddizioni dell’accumulazione capitalistica. C’è unanecessità intrinseca in queste dinamiche che deriva dal processo di accu-

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2 GIOVANNI ARRIGHI, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, cit..3 Cfr. GIOVANNI ARRIGHI, Verso una teoria della crisi capitalistica, prima pubblicato

in “Rassegna comunista”, 2, 3, 4 e 7 (1972-3) e poi in GIOVANNI ARRIGHI ET AL., Dinamichedella crisi mondiale, a cura di R. Parboni, Editori Riuniti, Roma 1988, pp. 85-111.

4 Cfr. GIOVANNI ARRIGHI, FORTUNATA PISELLI, Capitalist Development in HostileEnvironments: Feuds, Class Struggles and Migrations in a Peripheral Region of SouthernItaly, in “Review (Fernand Braudel Center)”, 4 (1987).

5 BEVERLY J. SILVER, Forze del lavoro. Movimenti operai e globalizzazione dal 1870,Bruno Mondadori, Milano 2008.

6 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER et al., Caos e governo del mondo, BrunoMondadori, Milano 2003.

7 GIOVANNI ARRIGHI, Marxist Century, American Century: The Making andRemaking of the World Labour Movement, in “New Left Review”, I/179 (Jan-Feb1990), pp. 29-64, cap. 2 di questo volume.

8 GIOVANNI ARRIGHI, World Income Inequalities and the Future of Socialism, in“New Left Review”, I/189 (Sept-Oct 1991), pp. 39-65, cap. 3 di questo volume.

9 GIOVANNI ARRIGHI, TAKESHI HAMASHITA, MARK SELDEN (ed. by), The Resurgen-ce of East Asia: 500, 150 and 50 Year Perspectives, Routledge, London 2003.

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se essere chiamato socialista, dovrebbe essere ridefinito in termini dirispetto reciproco tra gli esseri umani e di rispetto collettivo per la natu-ra. Ma lo si dovrebbe organizzare attraverso scambi di mercato regolatidagli Stati, in modo tale da rafforzare i lavoratori e indebolire il capitale,secondo l’idea smithiana, piuttosto che attraverso la proprietà e il con-trollo statale dei mezzi di produzione. Il problema del termine “sociali-smo” è che se ne è abusato in molti modi, screditandolo. Se mi chiediun termine migliore, non ne ho idea, penso che dovremmo cercarne unaltro. Tu sei bravissimo a coniare nuove espressioni e dovresti darci deisuggerimenti.

Va bene, dovrò pensarci.

Devi riuscire a trovare un termine che sostituisca socialista, liberan-dolo dall’identificazione con lo Stato legata alla sua storia, per avvicinar-lo a un’idea di maggiore uguaglianza e di rispetto reciproco. Lascio a tequesto compito.

NOTE

*The Winding Paths of Capital. Interview by David Harvey, in “New LeftReview”, 56 (2009), pp. 61-94. Traduzione dall’inglese di Laura Cantelmo. Una versio-ne precedente della traduzione è apparsa sul sito www.overleft.it

1 Si vedano rispettivamente: GIOVANNI ARRIGHI, Struttura di classe e sovrastruttu-re in Rhodesia, in ID., Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, Einaudi, Torino1969; COLIN LEYS, European Politics in Southern Rhodesia, Clarendon Press, Oxford1959; GIOVANNI ARRIGHI, L’offerta di lavoro in una prospettiva storica, in ID., Sviluppoeconomico e sovrastrutture in Africa, cit..

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Capitolo 2

Secolo marxista, secolo americano.L’evoluzione del movimento operaio mondiale*

Nei paragrafi conclusivi della prima sezione del Manifesto del Par-tito Comunista, Marx ed Engels propongono due diversi argomenti sullaragione per la quale il dominio della borghesia giungerà al termine. Daun lato, la borghesia “non è capace di dominare perché non è capace digarantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù,perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale,invece di essere da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società nonpuò vivere sotto la classe borghese, vale a dire l’esistenza della classeborghese non è più compatibile con la società”. Dall’altro lato: “Il pro-gresso dell’industria, di cui la borghesia è veicolo involontario e passivo,fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, laloro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppodella grande industria, dunque, viene tolto di sotto i piedi della borghe-sia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essaproduce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria delproletariato sono del pari inevitabili”1. La mia tesi è che queste due pre-visioni rappresentano allo stesso tempo la forza e la debolezza dell’ere-dità marxiana. Rappresentano la sua forza perché, in molti aspetti cru-ciali, sono state convalidate da tendenze fondamentali dell’economia-mondo capitalistica nei 140 anni successivi. Rappresentano invece la suadebolezza perché i due scenari sono in parziale contraddizione l’unocon l’altro e – per di più – la contraddizione è rimasta irrisolta nelle teo-rie e nelle pratiche dei seguaci di Marx.

La contraddizione, a mio parere, è la seguente. Il primo scenario èquello dell’impotenza del proletariato. La concorrenza impedisce che ilproletariato condivida i benefici del progresso industriale, e lo porta aun tale stato di povertà che, invece che una forza produttiva, diventa unpeso morto per la società. Il secondo scenario, invece, è quello del cre-scente potere del proletariato. Il progresso dell’industria sostituisce laconcorrenza con l’unione dei proletari, in modo tale da indebolire lacapacità della borghesia di appropriarsi dei benefici del progresso indu-striale.

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Questa visione deterministica, tuttavia, si riferisce solo al sistemanel suo insieme e su un ampio arco temporale; l’esito in particolari luo-ghi e tempi rimane completamente indeterminato. Si verificano sconfittee vittorie del proletariato, ma entrambe sono necessariamente tempora-nee e localizzate e tendono ad essere controbilanciate dalla logica dellaconcorrenza tra imprese capitalistiche e tra proletari. L’unico elementoinevitabile nel modello è che nel lungo periodo l’accumulazione capitali-stica crea le condizioni per un aumento delle vittorie del proletariatorispetto alle sue sconfitte, finché l’ordine borghese viene eliminato,sostituito o completamente trasformato.

I tempi e le modalità della transizione a un ordine post-borgheserestano a loro volta indeterminati. Dato che la transizione dipende dauna molteplicità di vittorie e sconfitte che si combinano in modo impre-vedibile nello spazio e nel tempo, poco è detto nel Manifesto sul profilodella società futura, eccetto che essa avrebbe avuto l’impronta della cul-tura proletaria – quale che questa possa essere al momento della transi-zione.

Un secondo postulato è che gli agenti del cambiamento sociale alungo termine e su larga scala sono personificazioni di tendenze struttu-rali. La concorrenza tra capitalisti assicura il progresso dell’industria e laconcorrenza tra lavoratori salariati assicura l’afflusso di profitti alla bor-ghesia. Il progresso dell’industria, tuttavia, significa una crescente coo-perazione all’interno del processo di produzione, e, a un certo stadio disviluppo, questa trasforma il proletariato da un insieme di individui incompetizione tra di loro in una classe coesa capace di mettere fine allosfruttamento.

Coscienza e organizzazione sono riflessi di processi strutturali diconcorrenza e cooperazione che non dipendono da una volontà indivi-duale o collettiva. Le molteplici lotte dei proletari sono un elementoessenziale per trasformare i cambiamenti delle strutture economiche incambiamenti nell’ideologia e nell’organizzazione, ma hanno a loro voltaradici nei processi strutturali. Questa è l’unica “nozione” che può essereutilmente “portata” al proletariato dall’esterno:

I comunisti non sono un partito particolare di fronte agli altri partitioperai.I comunisti non hanno interessi distinti dagli interessi di tutto il proletariato.I comunisti non pongono principi speciali sui quali vogliano modellare ilmovimento proletario.I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solo per il fatto che

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Per Marx, ovviamente, non c’era nessuna contraddizione. La ten-denza verso l’indebolimento del proletariato riguardava l’esercito indu-striale di riserva e intaccava la legittimità del governo della borghesia. Latendenza verso il rafforzamento del proletariato riguardava invece l’eser-cito industriale attivo e diminuiva la capacità della borghesia di appro-priarsi del surplus. Inoltre, queste due tendenze non erano concepitecome indipendenti l’una dall’altra. Quando la capacità della borghesiadi appropriarsi del surplus diminuisce, si manifestano due effetti riguar-danti l’esercito industriale di riserva. Si riducono i mezzi a disposizionedella borghesia per “nutrire” l’esercito di riserva, ovvero per far sì cheesso si riproduca, e diminuisce l’incentivo a impiegare forza lavoro pro-letaria per aumentare il capitale, facendo così aumentare, ceteris paribus,l’esercito industriale di riserva. Quindi, l’aumento del potere dell’eserci-to industriale attivo di resistere allo sfruttamento si traduce pressochéautomaticamente in una perdita di legittimità dell’ordine borghese.

Allo stesso tempo, la perdita di legittimità dovuta all’incapacità diassicurare la sopravvivenza dell’esercito di riserva finisce per tradursi inun potere maggiore (e qualitativamente superiore) dell’esercito attivo.Nella visione di Marx, infatti, l’esercito attivo e quello di riserva eranocostituiti dalle stesse persone, che si assumeva passassero pressoché con-tinuamente dall’uno all’altro. Gli stessi individui avrebbero fatto partedell’esercito attivo oggi e di quello di riserva domani, a secondadell’andamento delle imprese, delle attività e dei luoghi di produzione.L’ordine borghese avrebbe così perso legittimità allo stesso tempo tra imembri dell’esercito di riserva e di quello attivo, alimentando così latendenza di chi si trova a essere parte dell’esercito attivo a trasformarel’associazione dei lavoratori nel processo produttivo da strumento disfruttamento da parte della borghesia a strumento di lotta contro la bor-ghesia.

Tre postulati

La forza di questo modello sta nella sua semplicità. È basato su trepostulati. Primo, come Marx avrebbe affermato nel Terzo libro del Capi-tale, il limite del capitale è il capitale stesso. In altre parole, lo sviluppo ela fine del capitale sono inscritte nei suoi “geni”. L’elemento dinamico è“il progresso dell’industria”, senza il quale l’accumulazione capitalisticanon può procedere. Ma l’avanzamento dell’industria sostituisce la con-correnza tra i lavoratori, su cui si basa l’accumulazione, con la loro unio-ne. Prima o poi, l’accumulazione capitalistica si sconfigge da sé.

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mezzi di sussistenza, o un membro di una classe universale che lottacontro la borghesia. Tra la classe universale e l’individuo atomizzato nonc’è aggregazione intermedia capace di fornire sicurezza o status in com-petizione con l’appartenenza di classe. La concorrenza rende tali aggre-gazioni intermedie instabili e, di conseguenza, transitorie.

Allo stesso modo, lo schema marxiano riduce le lotte per il poterea un mero riflesso della concorrenza o della lotta di classe. Non c’è spa-zio per la ricerca del potere fine a se stessa. L’unica cosa che viene ricer-cata in sé è il profitto, la principale forma di surplus, attraverso la qualesi genera l’accumulazione. I governi sono strumenti della concorrenza odel potere di classe, semplici comitati “per la gestione degli affari comu-ni all’intera borghesia”. Ancora una volta, è la concorrenza che imponeai governi questo modello. Se non si conformano alle regole del giococapitalistico, sono destinati a perdere anche nel gioco del potere:

I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale [laborghesia] spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe allacapitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte lenazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se nonvogliono andare in rovina, le costringe a introdurre in casa loro la cosid-detta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola, essa si crea unmondo a propria immagine e somiglianza6.

In conclusione, l’eredità marxiana consisteva originariamente di unmodello della società borghese che presentava tre previsioni forti: 1) Lasocietà borghese tende a polarizzarsi in due classi, la borghesia stessa e ilproletariato, inteso come una classe di lavoratori che si riproduconosolo finché trovano lavoro, e trovano lavoro solo finché la loro forzalavoro fa incrementare il capitale; 2) L’accumulazione capitalistica tendea impoverire e, allo stesso tempo, a rafforzare il proletariato all’internodella società borghese. Il rafforzamento si riferisce al ruolo del proleta-riato come produttore di ricchezza sociale, l’impoverimento al suo ruolodi forza lavoro pressoché mercificata, soggetta alle vicissitudini dellaconcorrenza; 3) Le leggi della concorrenza, socialmente e politicamentecieche, tendono a far confluire queste due tendenze in una generale per-dita di legittimità dell’ordine borghese, che provoca la sua sostituzioneda parte di un ordine mondiale senza concorrenza né sfruttamento.

Per valutare in che misura queste previsioni siano state conferma-te dalla successiva storia del capitalismo, è utile dividere i 140 anni che

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da una parte essi mettono in rilievo e fanno valere gli interessi comuni,indipendenti dalla nazionalità, dell’intero proletariato, nelle varie lottenazionali dei proletari; e dall’altra per il fatto che sostengono costante-mente l’interesse del movimento complessivo, attraverso i vari stadi disviluppo percorsi dalla lotta fra proletariato e borghesia2.

Il terzo postulato del modello è la supremazia dell’economia sullacultura e sulla politica. Il proletariato stesso è definito in termini pura-mente economici come “la classe degli operai moderni, che vivono solofintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il lorolavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi alminuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sonoquindi esposti a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte leoscillazioni del mercato”3.

La condizione del proletariato

Tutta l’opera di Marx ha avuto come obiettivo smascherare lamistificazione legata a considerare la forza lavoro una merce come lealtre. Essendo inseparabile dal suo proprietario, e quindi dotata divolontà e intelligenza, la forza lavoro era diversa da ogni altro “articolocommerciale”. Nello schema marxiano, però, questo emergeva solo nel-le lotte del proletariato contro la borghesia, e anche lì solo come indiffe-renziata volontà e intelligenza del proletariato. Le differenze individualie di gruppo all’interno del proletariato sono minimizzate o respintecome residui del passato, che vengono via via eliminati dalle leggi dellaconcorrenza. Il proletario non ha nazione né famiglia:

Per la classe operaia non hanno più valore sociale le differenze di sesso edi età. Oramai ci sono solo strumenti di lavoro che costano più o meno aseconda dell’età e del sesso4.Il soggiogamento moderno al capitale, identico in Gran Bretagna e inFrancia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni caratterenazionaleLe separazioni e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno scomparen-do sempre più già con lo sviluppo della borghesia, con la liberta di com-merciò, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione indu-striale e delle corrispondenti condizioni d’esistenza5.Nello schema marxiano, quindi, il proletario è o un membro ato-

mizzato in concorrenza con altri individui (ugualmente atomizzati) per i

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del proletariato, la polarizzazione della società in due classi distinte econtrapposte sembrava una tendenza indiscutibile, seppur in misuradiversa tra paesi.

A venir in evidenza fu anche la tendenza dell’accumulazione capi-talistica a impoverire e rafforzare allo stesso tempo il proletariato. Lamaggiore concentrazione del proletariato associata alla diffusionedell’industrializzazione rese molto più facile la sua organizzazione in sin-dacati, e la posizione strategica dei salariati nei nuovi processi di produ-zione diede a tali organizzazioni un potere considerevole, non solorispetto ai datori di lavoro, ma anche rispetto ai governi. I successi delmovimento operaio inglese nella fase di espansione dell’economia dellametà del diciannovesimo secolo, con la limitazione dell’orario di lavorogiornaliero e l’estensione del diritto di voto, furono la più visibile, manon la sola, espressione di tale potere. Al contempo, tuttavia, il proleta-riato si impoveriva. A ogni vittoria le forze di mercato rispondevanolimitando la capacità dei lavoratori di resistere alle imposizioni economi-che e politiche della borghesia. Fu in questo periodo che la disoccupa-zione acquistò nuove dimensioni qualitative e quantitative, riducendo imiglioramenti nelle condizioni di lavoro e di vita del proletariato eintensificando le pressioni competitive al suo interno.

Infine, come previsto dal Manifesto, le due opposte tendenzeall’impoverimento e al rafforzamento del proletariato ebbero l’effettocomune di ridurre il consenso del proletariato nei confronti del dominiodella borghesia. Una circolazione relativamente libera delle merci, delcapitale e dei lavoratori all’interno degli Stati e tra Stati diversi diffuse icosti e i rischi della disoccupazione tra le famiglie proletarie. La conse-guente perdita di legittimazione portò a un nuovo livello di autonomiapolitica del proletariato nei confronti della borghesia. Solo in quelmomento iniziò l’era dei partiti politici operai. Ma indipendentementedalla creazione di tali partiti, i lavoratori salariati in tutti i paesi del cen-tro si liberarono della tradizionale subordinazione agli interessi politicidella borghesia e iniziarono a perseguire i propri interessi in modo indi-pendente e, se necessario, in opposizione ad essa. L’espressione piùspettacolare (e drammatica) di questa emancipazione politica fu laComune di Parigi del 1871. Nella Comune per la prima volta il proleta-riato detenne il potere politico “per due interi mesi” (come scrisse entu-siasticamente Marx nella prefazione dell’edizione tedesca del 1872 delManifesto). Sebbene sconfitta, la Comune di Parigi fu salutata da Marx

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ci separano dal 1848 in tre periodi di lunghezza analoga: dal 1848 al1896; dal 1896 al 1948; e dal 1948 a oggi. Questa periodizzazione èsignificativa per molti dei problemi in questione. Tutti i periodi corri-spondono a un’“onda lunga” dello sviluppo economico, ciascuna com-prendente una fase di “prosperità” in cui prevale la cooperazione, euna fase di “depressione”, in cui prevale la concorrenza. Tuttavia, ogniperiodo di cinquant’anni ha le sue caratteristiche peculiari.Tra il 1848 eil 1896 il capitalismo concorrenziale e la società borghese analizzati daMarx raggiunsero il loro apogeo. In questo periodo nacque il movi-mento operaio moderno e divenne immediatamente la principale forzaanti-sistemica. Dopo una lunga lotta tra dottrine rivali, il marxismodivenne l’ideologia dominante del movimento. Nel periodo dal 1896 al1948 il capitalismo concorrenziale e la società borghese, come teorizza-to da Marx, entrarono in una crisi prolungata che risultò fatale. Ilmovimento operaio raggiunse il suo apogeo come principale forza anti-sistemica, e il marxismo si consolidò ed estese la sua egemonia suimovimenti anti-sistemici. Tuttavia, nuove divisioni comparveroall’interno di questi movimenti, e il marxismo stesso si spaccò in unacorrente rivoluzionaria e una riformista. Dopo il 1948 il capitalismomanageriale emerse dalle ceneri del capitalismo concorrenziale comestruttura dominante dell’economia-mondo. La diffusione dei movi-menti anti-sistemici crebbe ancora, ma con essa aumentò la frammenta-zione e gli antagonismi reciproci. Sotto la pressione di tali antagonismi,il marxismo è caduto in una crisi dalla quale non si è ancora ripreso, edalla quale potrebbe non riprendersi più.

1. L’ASCESA DEL MOVIMENTO OPERAIO MONDIALE

Le tendenze e gli eventi fondamentali del primo periodo (1848-1896) confermarono le previsioni del Manifesto. La diffusione del liberocommercio e la rivoluzione dei trasporti nei 20-25 anni successivi al1848 fecero del capitalismo concorrenziale una realtà globale come maiprima. La concorrenza nel mercato globale s’intensificò e l’industria sisviluppò rapidamente per la maggior parte del cinquantennio. La prole-tarizzazione degli strati intermedi della società si accentuò, anche se nonsi diffuse ovunque in modo irreversibile, come si è spesso sostenuto. Inparte per la contrazione degli strati intermedi, in parte per l’aumentodel divario tra i redditi delle famiglie proletarie e delle famiglie borghesi,e in parte per la maggiore concentrazione e segregazione residenziale

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peri si propagarono come mai prima in un paese dopo l’altro, mentrepartiti operai nascevano in tutta Europa, secondo le linee enunciate daMarx nel 1871. Nel 1896 una nuova Internazionale, basata stavolta supartiti operai con una larga unità di intenti, divenne realtà.

Il successo del Manifesto nel prevedere le tendenze generali delcinquantennio successivo fu ed è tuttora stupefacente. Tuttavia, non tut-ti i fatti rilevanti rientrarono nello schema marxiano, in particolare lastessa politica proletaria. L’unico tentativo significativo da parte del pro-letariato di imporsi come classe dominante secondo le linee teorizzateda Marx, la Comune di Parigi, fu quasi completamente priva di legamicon le tendenze che, secondo tale teoria, avrebbero dovuto portare allapresa rivoluzionaria del potere. Non fu, infatti, il risultato di fattoristrutturali (il rafforzamento del proletariato dovuto al progresso indu-striale, combinato con il suo impoverimento dovuto alla mercificazio-ne), ma soprattutto di fattori politici: la sconfitta della Francia da partedella Prussia e le dure condizioni imposte dalla guerra. In altre parole, ilproletariato tentò una rivoluzione politica non per la crescente contrad-dizione tra l’aumento del suo sfruttamento e del suo potere nel processodi produzione, ma perché lo Stato borghese aveva dimostrato di essereincapace di “proteggere” la società francese in generale, e il proletariatoparigino in particolare, da un altro Stato.

Si potrebbe sostenere che la sconfitta in guerra fu solo il detonato-re di contraddizioni strutturali che erano in realtà la vera causadell’esplosione. È senza dubbio vero che dove le contraddizioni struttu-rali erano più sviluppate (in Gran Bretagna, nel periodo esaminato, enegli Stati uniti, a partire dalla fine degli anni Settanta del XIX secolo) illivello di scontro diretto tra capitale e lavoro era più alto che altrove(come si vede, ad esempio, dalla frequenza degli scioperi)8. Il problemaè, tuttavia, che le agitazioni operaie in questi paesi non mostrarono alcu-na propensione a tradursi in rivoluzione politica. Se il proletariato indu-striale inglese (fino ad allora il più sviluppato come classe in sé, e, intor-no al 1871, il più incline a usare l’arma dello sciopero) avesse mostratouna qualche propensione rivoluzionaria, i suoi rappresentanti nella Pri-ma Internazionale avrebbero assunto un atteggiamento più favorevoleriguardo alla Comune di Parigi. Il loro atteggiamento negativo fu inrealtà sintomatico di un rilevante problema della teoria marxiana, e pro-babilmente giocò un ruolo decisivo nell’indurre Marx ad abbandonareil terreno della politica attiva.

Il distacco tra forme di lotta di classe dirette e indirette fu confer-mato in altro modo dopo la Comune di Parigi. Come abbiamo visto,

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come un esempio della futura organizzazione del proletariato come clas-se dominante.

La stretta corrispondenza delle tendenze e degli eventi del periodotra il 1848 e il 1896 con le previsioni del Manifesto spiega in gran partel’egemonia che Marx e i suoi sostenitori stabilirono sul nascente movi-mento operaio europeo. Il loro successo arrivò solo dopo prolungatelotte intellettuali intorno all’irreversibilità storica della proletarizzazione– se essa costituisse la giusta base a partire dalla quale far avanzare le lot-te del presente per la società del futuro, come teorizzato da Marx, o se ilproletariato potesse storicamente recuperare la sua indipendenza econo-mica perduta attraverso qualche forma di produzione cooperativa. Que-st’ultima visione era stata propugnata in precedenza dagli owenisti inGran Bretagna e dai fourieristi in Francia, ma persisteva in nuove ediverse forme tra i sostenitori di Proudhon e Bakunin in Francia, Belgio,Russia, Italia e Spagna, e tra quelli di Lassalle in Germania.

La Prima Internazionale fu essenzialmente una cassa di risonanzadi questa lotta intellettuale, che vide Marx dalla parte dei sindacalistiinglesi (gli unici veri rappresentanti di un proletariato industriale effetti-vamente esistente), in opposizione a un insieme di intellettuali rivoluzio-nari e riformisti (alcuni dei quali di estrazione proletaria) dell’Europacontinentale. Sebbene Marx riuscì quasi sempre a dominare la partita,non ottenne mai una netta vittoria e, quando ci riuscì, l’impatto sulmovimento reale fu illusorio. Il momento della verità arrivò con laComune di Parigi. Le conclusioni che Marx trasse da quell’esperienza(la necessità di costituire partiti operai legali in ogni paese come presup-posto della rivoluzione socialista) gli alienarono, per ragioni opposte, lesimpatie dei rivoluzionari continentali e dei sindacalisti inglesi. La finedell’Internazionale era segnata7.

Verso una nuova Internazionale

Proprio mentre, intorno al 1873, la Prima Internazionale si stavadisgregando senza nessun vincitore e con molti sconfitti, la fase di “pro-sperità” della metà del secolo sfociò nella grande depressione della finedel secolo, e si crearono le condizioni sia per lo sviluppo del movimentooperaio nella sua forma moderna, sia per il consolidamento dell’egemo-nia marxista sul movimento. L’intensificazione della pressione competi-tiva ampliò e approfondì i processi di proletarizzazione e moltiplicò leoccasioni di conflitto tra capitale e lavoro. Tra il 1873 e il 1896, gli scio-

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raio (e del marxismo al suo interno), queste anomalie dovevano sembra-re dettagli trascurabili. Inoltre, era ancora ragionevole aspettarsi che lamano invisibile del mercato avrebbe appianato le divergenze nazionali, eavrebbe fatto convergere il movimento operaio di tutti i paesi verso uncomune percorso di lotta, coscienza e organizzazione. Come si è com-preso solo più tardi, quella che era stata un’anomalia irrilevante è diven-tata nella successiva metà del secolo una tendenza storica fondamentale,che ha diviso il movimento operaio in due campi opposti e avversi.

2. GUERRE MONDIALI, MOVIMENTI E RIVOLUZIONE

Tra il 1896 e il 1948 l’ordine del mercato mondiale per gli attoripolitici e sociali si spezzò, e le aspettative di Marx sull’omogeneizzazionedelle condizioni di vita del proletariato mondiale furono disattese.Seguendo l’ideologia liberale del XIX secolo, Marx assumeva che ilmercato mondiale operasse sopra le teste, anziché attraverso l’azionedegli attori statali. Questo si rivelò un grave errore, perché il mercatomondiale del suo tempo era anzitutto uno strumento del dominio ingle-se sul sistema statale allargato dell’Europa. In quanto tale, la sua effica-cia si basava su una particolare distribuzione di potere e ricchezza trauna molteplicità di gruppi dominanti il cui consenso, o per lo menoacquiescenza, era essenziale al mantenimento dell’egemonia inglese.

La grande depressione del 1873-1896 costituì sia l’apice sia il pun-to terminale dell’ordine del mercato mondiale per come questo era statoistituito nel XIX secolo. Un aspetto fondamentale della depressione ful’afflusso in Europa di grandi quantità di grano a basso costo dalle zoned’oltremare (e dalla Russia). I principali beneficiari furono i produttorid’oltremare (gli Stati uniti in primo luogo) e la stessa Gran Bretagna,che era il principale importatore di grano e controllava la maggior partedell’intermediazione commerciale e finanziaria mondiale. A essere dan-neggiata fu soprattutto la Germania, poiché la sua crescente ricchezza epotere si basavano molto sulla produzione agricola interna e molto pocosull’organizzazione del commercio e della finanza mondiali. Minacciatedai nuovi sviluppi, le classi dominanti tedesche reagirono rafforzando ilcomplesso militare-industriale con l’intenzione di sostituire o affiancarela Gran Bretagna ai vertici dell’economia-mondo. Il risultato fu una lot-ta di potere aperta e generalizzata nel sistema interstatale, che si risolsesolo dopo due guerre mondiali.

Nel corso di questa lotta, l’ordine del mercato mondiale venne

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l’inizio della grande depressione della fine del XIX secolo coincise conun forte aumento degli scioperi (la forma più diretta di lotta di classe) econ la formazione dei partiti operai (una forma indiretta di lotta di clas-se). Anche se queste due tendenze sembrarono convalidare le previsionidel Manifesto, il fatto che si presentassero in aree geografiche diversenon corrispondeva allo schema marxiano. I paesi che erano in testaquanto a frequenza degli scioperi (Gran Bretagna e Stati uniti) eranoquelli più in ritardo nella formazione di partiti operai; il contrario acca-deva in Germania. In generale, la formazione di partiti operai sembravaavere poco a che fare con lo sfruttamento economico, la formazione del-la classe operaia e il conflitto tra capitale e lavoro. I fattori determinantisembravano piuttosto essere la centralità reale o percepita dello Statonella regolazione sociale ed economica, e la lotta per i diritti civili fonda-mentali (in primo luogo il diritto di riunione e di voto) del e per il prole-tariato. In Germania, dove lo Stato era molto presente e al crescenteproletariato industriale erano negati i diritti fondamentali, la lotta diclasse prese la forma indiretta dell’organizzazione di un partito operaio.Solo alla fine della grande depressione, in particolare nella fase di espan-sione economica successiva ad essa, la lotta di classe prese la forma diuno scontro diretto tra capitale e lavoro. In Gran Bretagna e negli Statiuniti, dove lo Stato era meno centralmente organizzato e al proletariatoerano già assicurati i diritti fondamentali, la lotta di classe prese la formadello sciopero e della formazione di sindacati, mentre i tentativi di for-mare significativi partiti operai nazionali ebbero successo solo molto piùtardi (in Gran Bretagna) o mai (negli Stati uniti).

Tali differenze verranno discusse nella prossima sezione. Per ora cilimitiamo a notare che la storia della lotta di classe nel cinquantenniosuccessivo alla pubblicazione del Manifesto fornisce sia prove molto for-ti a supporto delle sue più importanti previsioni, sia materia di riflessio-ne sulla validità della relazione, postulata da Marx ed Engels, tra lotta diclasse e rivoluzione socialista. Più specificamente, la formazione socio-economica del proletariato industriale ha condotto allo sviluppo di for-me dirette di lotta di classe, ma non allo sviluppo di tendenze politiche,per non dire rivoluzionarie, all’interno del proletariato. L’atteggiamentodel proletariato nei confronti del potere politico è rimasto puramentestrumentale a meno che, come nell’Europa Continentale, le stesse condi-zioni politiche (relazioni tra Stati e relazioni tra Stato e cittadini) nonrichiedessero una partecipazione politica più diretta e, se necessario,rivoluzionaria. Nei grandi progressi di fine secolo del movimento ope-

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In una delle sue risoluzioni finali, il Congresso dell’Internazionalesocialista del 1896 prevedeva un’imminente crisi generale che avrebbemesso nell’agenda dei partiti socialisti la questione dell’esercizio delpotere statale. Sottolineava quindi per il proletariato di tutti i paesi“l’impellente necessità di apprendere, in quanto cittadini dotati dicoscienza di classe, come amministrare gli affari dei loro rispettivi paesiin vista del bene comune”. In linea con questa risoluzione, si decise chei congressi futuri sarebbero stati aperti solo ai rappresentanti delle orga-nizzazioni che si impegnassero nella trasformazione dell’ordine capitali-stico in un ordine socialista e che fossero preparate a partecipare all’atti-vità legislativa e parlamentare. Gli anarchici vennero quindi esclusi.

Movimento e fine

La fine della vecchia controversia tra i sostenitori di Marx e diBakunin segnò l’inizio di una nuova controversia tra gli stessi seguaci diMarx. Se l’obiettivo di lavorare per la trasformazione socialista dell’ordi-ne capitalistico era espresso in termini tanto vaghi e ambigui da potersiadattare a tutte le sfumature di opinione tra i sostenitori di Marx, ladefinizione di un obiettivo politico comune per il proletariato di tutti ipaesi poneva problemi teorici e pratici fondamentali. Eduard Bernsteinfu il primo a mettere allo scoperto tali problemi.

Anche se Bernstein è passato alla storia come il “grande revisioni-sta” del pensiero marxiano, il suo revisionismo era molto moderato,soprattutto rispetto a quello di alcuni dei suoi oppositori “ortodossi”. Inlinea con i principi del socialismo “scientifico”, egli cercò una confermao una smentita delle tesi marxiane sull’aumento di lungo periodo sia delpotere sociale che della miseria del lavoro. Bernstein, come Marx, pen-sava che il modello migliore per il futuro del movimento operaionell’Europa continentale, e in particolare in Germania, fosse da ricerca-re nel passato e presente del movimento operaio inglese e concentròquindi la sua attenzione sulle tendenze di quest’ultimo.

Muovendo da tali premesse, Bernstein trovò molte prove chesostenevano la prima tesi, ma poche che sostenevano la seconda: nonsolo c’erano stati significativi miglioramenti dei livelli di vita e di lavorodel proletariato industriale, ma la democrazia politica si era estesa e tra-sformata da strumento di subordinazione in strumento di emancipazio-ne della classe operaia. Scrivendo alla fine della grande depressione del1873-96 e all’inizio della belle époque del capitalismo europeo, egli nonvedeva motivi per cui queste tendenze si sarebbero dovute rovesciare

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limitato e del tutto sospeso durante e dopo la Prima guerra mondiale.La fine dell’ordine del mercato mondiale non fermò, tuttavia, il “pro-gresso dell’industria” e la “mercificazione del lavoro”, le due tendenzeche, nello schema marxiano, avrebbero dovuto generare un contempo-raneo aumento del potere sociale e della miseria della forza lavoro. Alcontrario, le guerre mondiali e la loro preparazione furono fattori piùsignificativi, per il progresso industriale e la miseria di massa, di quantol’ordine di mercato fosse mai stato. Ma la fine del mercato mondialesignificò che il potere e la miseria del proletariato mondiale vennerodistribuiti in modo molto meno uniforme di prima.

In generale, nei periodi di mobilitazione bellica aumentava l’eserci-to industriale attivo (sia in assoluto, sia rispetto all’esercito di riserva)nella maggior parte delle zone dell’economia-mondo, inclusi i paesi nondirettamente coinvolti in guerra. Inoltre, la crescente “industrializzazio-ne della guerra” tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo aveva reso lacooperazione delle reclute industriali importante quanto (se non di più)la cooperazione delle reclute militari per gli esiti degli sforzi bellici. Ilpotere sociale della forza lavoro aumentò così di pari passo con l’escala-tion della lotta per il potere nel sistema interstatale.

Tuttavia, le guerre mondiali assorbirono una crescente quantità dirisorse e disgregarono allo stesso tempo le reti di produzione e scambioattraverso le quali queste stesse risorse venivano procurate. Di conse-guenza, la capacità complessiva delle classi dominanti di accontentare lerichieste dei lavoratori si ridussero, o non crebbero con la stessa rapiditàdel potere sociale del lavoro. Le guerre mondiali crearono così quellacombinazione di potere e povertà del proletariato che, nello schemamarxiano, avrebbe dovuto condurre a un’intensificazione della lotta diclasse e, da ultimo, alla fine del dominio del capitale.

Entrambe le guerre mondiali, in effetti, innescarono ondate globalidi lotte di classe. Gli scioperi diminuirono all’inizio delle due guerre,per aumentare rapidamente negli ultimi anni dei conflitti. Le agitazionimondiali del lavoro toccarono picchi senza precedenti, che non sonostati più eguagliati. Ciascun picco è stato associato a una rivoluzionesocialista, prima in Russia e poi in Cina. Anche se queste ondate di lottedi classe non posero fine al dominio del capitale, determinarono cam-biamenti fondamentali nei modi del suo esercizio. Questi cambiamentisi svilupparono lungo due traiettorie radicalmente diverse e divergenti,che corrispondono in modo piuttosto stretto alle posizioni prese daBernstein e Lenin nel corso della controversia sul revisionismo, la cosid-detta Bernstein Debatte.

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continentale, e dell’impero russo in particolare, era l’aumento dellamiseria e la continuazione dell’oppressione politica, malgrado la pre-senza di movimenti operai forti e ben organizzati.

Ne seguivano due conclusioni. In primo luogo, le conquiste (o gliinsuccessi) dei movimenti operai producevano idee sbagliate nella lea-dership e tra i membri del proletariato. La consapevolezza della neces-sità e della possibilità di una rivoluzione socialista poteva svilupparsisolo fuori dai movimenti e doveva essere portata loro da un’avanguardiarivoluzionaria di professione. In secondo luogo, le organizzazioni delmovimento operaio dovevano essere trasformate in “cinghie di trasmis-sione” capaci di far pervenire alle masse proletarie gli ordini delle avan-guardie rivoluzionarie. Nella sua teorizzazione, il movimento era davve-ro nulla, un mero mezzo, e il fine tutto.

Un bilancio contraddittorio

Guardando retrospettivamente allo sviluppo effettivo del movi-mento operaio nell’intero periodo 1896-1948, troviamo moltissime coseche convalidano tanto la posizione di Lenin quanto quella di Bernstein,ma poche che confermano la posizione intermedia di Kautsky. Tuttodipende dalla prospettiva che assumiamo. La previsione/prescrizione diBernstein che organizzazione e azione energica fossero sufficienti acostringere o a indurre le classi dominanti ad adattarsi economicamentee politicamente all’aumento di lungo periodo del potere sociale del lavo-ro, associato al progresso dell’industria, coglie l’essenza della traiettoriadel movimento operaio nel mondo anglosassone e scandinavo. Nono-stante due guerre mondiali e una catastrofica crisi economica globale,che Bernstein non seppe prevedere, il proletariato continuò in quellezone a conoscere un miglioramento di benessere economico e rappre-sentanza governativa commisurato al suo ruolo sempre più importantenel sistema della produzione sociale.

I progressi più spettacolari si verificarono in Svezia e in Australia.Ma gli avanzamenti più significativi dal punto di vista della politicadell’economia-mondo ebbero luogo in Gran Bretagna (lo Stato egemo-nico in declino, ma ancora potere coloniale dominante) e negli Stati uni-ti (lo Stato egemonico emergente). Le organizzazioni del lavoro, cheavevano un ruolo marginale e subordinato nella politica nazionale dientrambi gli Stati nel 1896, erano diventate nel 1948 il partito al gover-no in Gran Bretagna e una forza con un’influenza decisiva sul governonegli Stati uniti. Questi risultati vennero raggiunti proprio secondo le

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nel futuro. Le istituzioni liberali della società moderna erano destinate adurare, ed erano sufficientemente flessibili per adattarsi a un aumentoindefinito del potere sociale del lavoro. Come in passato, tutto ciò cheera necessario era “una organizzazione e una azione energica” (corsivoaggiunto). Una rivoluzione socialista, nel senso di una dittatura rivolu-zionaria del proletariato, non era né necessaria né desiderabile9.

Bernstein riassunse la sua posizione nello slogan “Il movimento ètutto, il fine è nulla”. Questo suonò come una provocazione sia per imarxisti riformisti, sia per i rivoluzionari. In effetti, fu un riformista,Karl Kautsky, a guidare l’attacco contro il revisionismo di Bernstein.Kautsky affermava che le vittorie economiche e politiche del proletaria-to erano congiunturali, che una crisi generale era inevitabile e in procin-to di verificarsi, e che in tale crisi la borghesia avrebbe provato a ripren-dere con la forza ogni concessione economica e politica fatta preceden-temente al proletariato. In tali circostanze, tutto sarebbe andato perso, ameno che il proletariato e le sue organizzazioni non fossero state prontea impadronirsi e a conservare, se necessario con mezzi politicamenterivoluzionari, i vertici del potere statale ed economico. Cosi, sebbeneKautsky conservasse tutte le ambiguità di Marx sulla relazione tra le lot-te attuali del proletariato (il “movimento” nello slogan di Bernstein) egli obiettivi finali della rivoluzione socialista (il “fine”), la sua posizione aquel tempo non era lontana dalla conclusione che il fine fosse tutto e ilmovimento nulla.

Kautsky, tuttavia, non giunse mai a tale conclusione. Fu Lenin,che era stato dalla parte di Kautsky contro Bernstein, a portare l’argo-mentazione di Kautsky alle sue logiche conclusioni. Se soltanto unapresa del potere statale da parte dei socialisti avrebbe potuto salva-guardare ed espandere le precedenti conquiste del movimento ope-raio, allora essa avrebbe dovuto avere netta priorità rispetto a questeultime. Ne seguiva che le conquiste del movimento operaio erano illu-sorie. In primo luogo, non tenevano conto delle future perdite che ilmovimento operaio, lasciato a se stesso, avrebbe inevitabilmenteincontrato. In secondo luogo, riflettevano solo un lato della condizio-ne del proletariato. Aggiungendo nuova enfasi alla tesi dell’“aristocra-zia operaia”, Lenin respingeva implicitamente la visione di Marx che ilmigliore esempio d’azione per il movimento operaio nell’Europa con-tinentale e altrove fosse da ritrovare nella storia del movimento ope-raio inglese. L’aumento del potere sociale del lavoro in Gran Bretagnaera un fenomeno locale e di breve periodo, legato alla posizione delpaese nell’economia mondiale. L’avvenire del proletariato dell’Europa

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dimostravano l’impenetrabilità storica del proletariato industriale alleideologie e alle pratiche del socialismo rivoluzionario. Dove il poteresociale del proletariato industriale era forte e in crescita, la rivoluzionesocialista non trovava sostenitori; dove questa aveva sostenitori, il prole-tariato industriale non aveva potere sociale. Come abbiamo visto prece-dentemente, la correlazione inversa tra potere sociale del lavoro e orien-tamenti rivoluzionari era già comparsa in forma embrionale al tempodella Comune di Parigi, ed era stata probabilmente la causa principaledello scioglimento della Prima Internazionale. Di fronte alla scelta, teo-rica e politica, tra un movimento operaio forte ma riformista in GranBretagna e uno rivoluzionario ma debole in Francia, Marx scelse di nonscegliere e lasciò la questione in sospeso.

Scelte fatali

Quando il marxismo cominciò a istituzionalizzarsi, contro le inten-zioni originarie di Marx ed Engels, una scelta doveva essere fatta, ancheperché la separazione tra potere sociale e orientamenti rivoluzionari delproletariato stava aumentando piuttosto che diminuire. Bernstein poseil problema e scelse di stare dalla parte del potere sociale del lavoro (il“movimento”); Lenin scelse di stare dalla parte delle inclinazioni rivolu-zionarie che venivano dalla crescente miseria di massa (il “fine”nell’antinomia di Bernstein); Kautsky, come Marx trent’anni prima, scel-se di non scegliere. Fu questa, in fin dei conti, la sua unica legittima pre-tesa all’“ortodossia”.

La decisione di non scegliere ebbe implicazioni politiche disastro-se. Se la scelta di Bernstein fu convalidata dalle successive affermazionidel movimento operaio nel mondo anglosassone e in Scandinavia, e lascelta di Lenin dalle successive affermazioni della rivoluzione socialistain quelli che erano stati l’impero russo e l’impero cinese, la decisione diKautsky di non scegliere si rivelò una strategia politica disastrosa, per lesuccessive affermazioni della contro-rivoluzione nell’Europa centrale emeridionale. Le cause dell’ascesa del fascismo e del nazionalsocialismo,infatti, possono essere trovate, almeno in parte, nella cronica incapacitàdelle più importanti organizzazioni della classe operaia di scegliere traun deciso riformismo e una decisa azione rivoluzionaria.

Questa cronica incapacità di scegliere era senza dubbio connessaalla situazione sociale più complessa che le organizzazioni operaie ave-vano di fronte in queste regioni, una situazione caratterizzata da unacrescita sia del potere sociale che della miseria, piuttosto che dal preva-

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linee previste e prescritte da Bernstein, cioè attraverso azioni energiche eben organizzate, capaci di sfruttare ogni occasione per trasformare ilcrescente potere sociale del lavoro in un maggior benessere economico erappresentanza politica. In questo contesto, l’obiettivo della rivoluzionesocialista non si affacciò mai, e le avanguardie rivoluzionarie del proleta-riato trovarono pochi sostenitori.

Tuttavia, il periodo tra il 1896 e il 1948 fu anche il periodo di mag-gior successo per le rivoluzioni socialiste, il periodo, cioè, in cui le auto-proclamatesi avanguardie del proletariato assunsero il controllo sugliStati di quasi metà dell’Eurasia. Anche se diverse in molti aspetti, leesperienze del proletariato nell’impero russo e in quello che era statol’impero cinese presentavano importanti analogie. Forti movimenti diprotesta (nel 1905 in Russia, tra il 1925 e il 1927 in Cina) non erano riu-sciti a migliorare le condizioni di vita del proletariato: la sua esperienzaera dominata dalla crescita della miseria di massa, piuttosto che da unmaggior potere sociale. L’escalation nella lotta di potere interstatale(“l’imperialismo” nella teoria della rivoluzione di Lenin) aveva poi ulte-riormente diminuito la capacità delle classi dominanti di garantire alproletariato una minima protezione.

In tali circostanze un’avanguardia di rivoluzionari di professione,esperti nell’analisi scientifica degli eventi sociali, delle tendenze e dellecongiunture, poteva trarre vantaggio dalla disgregazione delle reti dipotere nazionali e mondiali e realizzare con successo rivoluzioni sociali-ste. Il fondamento del potere di questa avanguardia era l’impoverimentodi masse sfruttate sempre più grandi, senza riguardo alla loro precisacollocazione di classe. La crescente miseria sociale trasformava, infatti,la grande maggioranza della popolazione in membri reali o potenzialidell’esercito industriale di riserva e, allo stesso tempo, impediva a chiun-que si trovasse nell’esercito industriale attivo di sviluppare un’identità diclasse distinta da quella di altri gruppi o classi subalterne. In questo con-testo, i movimenti di protesta che si svilupparono sulla base della con-tingente e precaria condizione della forza lavoro salariata non garantiva-no né un’adeguata base per un movimento strutturato, né una direzioneper un’azione politica orientata verso la trasformazione socialistadell’ordine sociale. I percorsi e gli strumenti di quella trasformazione sidovevano sviluppare fuori dal movimento di protesta spontaneo dellemasse proletarie, e spesso in opposizione ad esso.

La caratteristica più impressionante di queste tendenze divergenti(lo sviluppo del potere sociale del lavoro in alcune aree e di una rivolu-zione socialista contro la miseria di massa in altre) è che, prese insieme,

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È importante sottolineare che questa prodigiosa espansione delpotere politico di rappresentanti – eletti o autonominatisi – del proleta-riato industriale si verificò nel contesto di una quasi totale scomparsa divocazioni rivoluzionarie autonome da parte del proletariato industrialestesso. Durante e dopo la Seconda guerra mondiale quest’ultimo nontentò in nessun luogo di prendere il potere statale attraverso “comuni”o “soviet”, neanche nei paesi sconfitti, come aveva fatto in Francia nel1871, in Russia nel 1917 e in Germania e Austria-Ungheria tra il 1919 eil 1920. L’espansione dei territori governati da regimi socialisti e rivolu-zionari era essenzialmente dovuta a una vittoria di eserciti contro altrieserciti, una versione proletaria della “funzione del Piemonte” nell’uni-ficazione italiana di Gramsci10.

Nell’Europa orientale i regimi comunisti furono istituiti, in manie-ra sostanziale se non formale, dall’esercito sovietico. Altrove, come inJugoslavia, Albania e, soprattutto, in Cina, i regimi comunisti furonoistituiti da eserciti indigeni creati e controllati da élite politiche rivolu-zionarie e da quadri che avevano preso la guida della lotta di liberazionenazionale contro i poteri dell’Asse. Anche in Italia e in Francia, dove ipartiti comunisti acquisirono l’egemonia su rilevanti settori del proleta-riato industriale, tale influenza era in gran parte il risultato della leader-ship formatasi nella lotta armata contro l’occupazione tedesca. Respintadal movimento operaio dei paesi del centro, la rivoluzione socialistatrovò sostenitori nuovi e reattivi nei movimenti di liberazione nazionale.

3. L’EGEMONIA DEGLI STATI UNITI E LA TRASFORMAZIONE DEL MOVIMENTO

OPERAIO MONDIALE

Nel 1948 una semplice estrapolazione delle principali tendenzesociali e politiche della prima metà del secolo avrebbe indicato una fineimminente del dominio del capitale. Ogni ciclo generalizzato di guerra edi lotta di classe aveva portato a grandi progressi della rivoluzione socia-lista nella periferia e nella semiperiferia dell’economia-mondo e a grandiprogressi del potere sociale e politico del proletariato industriale neipaesi del centro. Se le tendenze non fossero cambiate, l’unica questioneaperta sarebbe stata non se il capitalismo sarebbe sopravvissuto, maquale combinazione di riforme e rivoluzione l’avrebbe distrutto.

Ma il rovesciamento delle tendenze ci fu, e nel ventennio successi-vo il capitalismo conobbe una nuova “età dell’oro” di espansione senzaprecedenti. Lo sviluppo più rilevante fu la pacificazione delle relazioni

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lere di una delle due tendenze. La contraddizione era reale e localizzata.Essa generò all’interno del proletariato industriale forti orientamentirivoluzionari insieme a propensioni più riformiste, una combinazioneche lasciò la leadership del movimento in un dilemma permanente. Lascelta di Kautsky di non scegliere, e l’impressionante apparato teorico epolitico che la sosteneva, fornì moltissime giustificazioni a una leader-ship che, invece di far pendere la bilancia in una determinata direzione,rifletteva passivamente le divisioni che spaccavano il movimento, accre-scendo la confusione e il disorientamento politico.

Non è possibile sapere se un’azione riformista o rivoluzionaria piùdecisa da parte della socialdemocrazia tedesca avrebbe portato a esitidiversi nella successiva storia tedesca e mondiale. Ma, se non bisognasminuire le responsabilità storiche della socialdemocrazia tedesca (oanche del socialismo italiano) nell’aprire la strada al nazionalsocialismoe al fascismo, non bisogna neanche ingigantirle. Infatti, i successi ege-monici delle élite reazionarie nell’impadronirsi del potere in paesi tantodiversi come la Germania, il Giappone e l’Italia avevano sia cause siste-miche mondiali sia cause locali. Le cause sistemiche mondiali erano lacombinazione dei processi di disintegrazione dell’ordine del mercatomondiale e dell’escalation nella lotta di potere interstatale esaminataall’inizio di questa sezione. Questi processi diedero importanza ai pre-parativi di guerra, che nel XX secolo consistevano, da un lato,nell’espansione e modernizzazione del complesso militare-industriale, edall’altro, nell’accesso esclusivo o privilegiato alle risorse economicheglobali necessarie per quell’espansione e modernizzazione. In Staticaratterizzati da uno squilibrio strutturale tra un apparato militare-indu-striale troppo esteso e una ristretta base economica, le ideologie revan-sciste esercitavano una forte attrattiva su gruppi sociali di tutti i tipi,incluse frazioni non irrilevanti del proletariato industriale.

In tali circostanze, l’indeterminatezza politica generata dagli orien-tamenti contraddittori del proletariato industriale nei confronti delriformismo e della rivoluzione contribuirono a indebolire la legittimitàdelle organizzazioni operaie, indipendentemente dal loro ruolonell’accrescere tale incertezza. A prescindere dalle sue cause, l’ascesa delnazionalsocialismo in Germania divenne l’evento decisivo che fece pre-cipitare in un nuovo ciclo generalizzato di guerra e lotte di classe. Pro-prio nel corso di questo ciclo, le organizzazioni del lavoro divennero unfattore con un’influenza politica determinante sulle grandi potenze delmondo anglosassone e sull’assetto dei regimi socialisti rivoluzionari chegiunsero a includere quasi metà dell’Eurasia.

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Un obiettivo secondario, ma comunque molto importante, dellastrategia egemonica mondiale di Roosevelt era il riconoscimento delpotere sociale del lavoro negli Stati uniti e la sua estensione all’estero.Questa politica aveva diversi vantaggi per la coalizione di interessi cheera giunta al governo negli Stati uniti. Dal punto di vista del capitalismodelle grandi imprese, tale politica avrebbe creato in Europa e altrovemercati interni per consumi di massa simili a quello degli Stati uniti,aprendo la strada a un’ulteriore espansione transnazionale. Dal punto divista delle organizzazioni del lavoro, tale politica riduceva la minacciadelle pressioni concorrenziali che venivano dai più bassi livelli di remu-nerazione presenti in tutti gli altri paesi del mondo. Dal punto di vistadel governo, infine, e in modo più decisivo, una politica di riconosci-mento interno ed espansione all’estero del potere sociale del lavorosignificava soprattutto che gli Stati uniti potevano presentarsi, ed esserelargamente percepiti, come i portatori degli interessi non solo del capi-tale ma anche del lavoro. Fu questa politica, insieme al sostegno alladecolonizzazione, a trasformare la supremazia militare e finanziariadegli Stati uniti in una vera egemonia mondiale11.

Il potere militare e finanziario americano divenne così il veicoloattraverso il quale l’ideologia e la prassi del primato del movimento sulfine, tipiche del movimento operaio americano, furono esportate ovun-que tale potere arrivasse. L’esportazione ebbe particolare successo inquei paesi sconfitti (Germania occidentale e Giappone) dove l’esercitoUsa, da solo o insieme ai suoi alleati, manteneva un potere di governoassoluto e, allo stesso tempo, dove l’industrializzazione era progreditaabbastanza da garantire alle organizzazioni del lavoro una solida basesociale. Anche dove ebbe più successo, tuttavia, questa ristrutturazionedall’alto dei rapporti di classe, da parte di una potenza straniera, nonavrebbe portato a molto se non fosse stata accompagnata, come avven-ne, dalla ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale e da una rapidadiffusione delle strutture di accumulazione su cui si basava il poteresociale del lavoro negli Stati uniti.

Nella sezione precedente il movimento operaio degli Stati uniti èstato esaminato come parte di un modello anglosassone più generale, incui il “movimento” prevaleva sul “fine”. Tuttavia, nel periodo tra le dueguerre, il movimento operaio americano giunse a incarnare meglio diogni altro paese il potere sociale che l’accumulazione di capitale mettevanelle mani del lavoro. In altri paesi, specialmente in Gran Bretagna,Australia e Svezia, un forte movimento operaio aveva trovato espressio-ne nell’ascesa di partiti laburisti, che pur restando sotto il suo controllo,

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interstatali e la ricostruzione del mercato mondiale sotto l’egemoniadegli Stati uniti. Fino al 1968, tale ricostruzione fu parziale e fortementedipendente dalle capacità militari e finanziarie degli Stati uniti. Poi, tra il1968 e il 1973, il collasso del sistema di Bretton Woods e la sconfittaamericana in Vietnam mostrarono che queste capacità da sole non eranoné sufficienti né necessarie per la ricostruzione del mercato mondiale. Èproprio dal 1973 in poi che il mercato mondiale sembra essere diventa-to, entro certi limiti, una “forza autonoma” che nessuno Stato, neanchegli Stati uniti, può controllare. Stati, grandi imprese e agenzie governati-ve, coordinandosi, possono stabilire i limiti del mercato mondiale, edeffettivamente lo fanno, ma non senza difficoltà e conseguenze non desi-derate. Di fatto, sembrerebbe che in nessun momento della storia delcapitalismo l’ordine del mercato mondiale si sia tanto avvicinatoall’idealtipo marxiano come negli ultimi 15-20 anni.

Oggi, le basi sociali del mercato mondiale sono piuttosto diverseda quelle del XIX secolo. Alla fine della guerra, gli Stati uniti non pro-varono a ristabilire lo stesso tipo di mercato mondiale che era crollatonei cinquant’anni precedenti. A parte le lezioni storiche di tale collasso ele differenze strutturali tra il capitalismo inglese del XIX secolo e quellodegli Stati uniti del XX secolo, che verranno discusse in seguito, il pote-re e l’influenza ottenuti dalle organizzazioni del lavoro negli Stati uniti ein Gran Bretagna e le vittorie della rivoluzione socialista in Eurasia ren-devano tale ricostruzione né possibile, né auspicabile. I settori più illu-minati delle classi dominanti statunitensi avevano da tempo capito chenon era possibile alcun ritorno all’ordine strettamente borghese del XIXsecolo. Un nuovo ordine mondiale non poteva essere fondato sul poteresociale e sulle aspirazioni della sola borghesia mondiale, ma dovevaanche includere la più ampia parte del proletariato mondiale che essiritenessero integrabile.

L’aspetto più importante di questa strategia fu l’appoggio degliStati uniti alla “decolonizzazione” e all’espansione/consolidamento delsistema degli Stati sovrani. Come Wilson prima di lui, Franklin D. Roo-sevelt condivideva implicitamente l’idea di Lenin che la lotta per i terri-tori e i popoli tra i paesi capitalistici del centro era un gioco a sommanegativa che creava condizioni favorevoli alle rivoluzioni socialiste e altramonto del dominio mondiale del capitale. Se l’ondata di rivoluzionisocialiste in Eurasia doveva essere fermata prima che fosse troppo tardi,questa lotta doveva essere conclusa e doveva essere riconosciuto il dirit-to all’autodeterminazione delle frazioni più deboli della borghesia e delproletariato mondiale.

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che per la valorizzazione di tecnostrutture complesse e costose conferì alpotere sociale del lavoro una base nuova e più ampia.

Questa nuova base si manifestò per la prima volta nel corso dellalunga ondata di scioperi e agitazioni operaie che si dispiegò negli Statiuniti tra la metà degli anni Trenta e la fine degli anni Quaranta del XXsecolo. L’ondata di scioperi cominciò come reazione spontanea dellabase militante del proletariato industriale ai tentativi del capitale di sca-ricare sulla forza lavoro il peso della grande depressione dei primi anniTrenta14. La principale, e di fatto unica, organizzazione pre-esistente delproletariato industriale di una qualche rilevanza (l’American Federationof Labour, la Federazione americana del lavoro, Afl) non fece nulla perlanciare gli scioperi. Divenne attiva nell’organizzazione e guida delmovimento solo quando quest’ultimo si era mostrato capace di soste-nersi da sé e di costruire strutture organizzative alternative, che si con-cretizzarono nel Congress of Industrial Organisations (il Congresso delleorganizzazioni industriali, Cio).

Le lotte ebbero un successo particolare nel periodo della mobilita-zione bellica, che, come già segnalato, aumentò il potere sociale dellavoro. Nonostante il maccartismo, la maggior parte delle vittorie deglianni di guerra fu consolidata nel periodo di smobilitazione, e per dieci-vent’anni il proletariato industriale americano conobbe un benessereeconomico e un’influenza politica senza precedenti e senza pari. Tutta-via, il potere sociale del lavoro negli Stati uniti venne anche contenuto;le forme di lotta più efficaci furono delegittimate, il conflitto istituziona-lizzato, e l’espansione delle grandi imprese all’estero conobbeun’improvvisa accelerazione.

La tendenza del capitalismo delle grandi imprese Usa a espanderea livello transnazionale le proprie attività anticipò di molto l’ondata discioperi degli anni Trenta e Quaranta del XX secolo. Era insita nel pro-cesso d’integrazione verticale e di burocratizzazione del management,che, apparso sul finire del XIX secolo, costituì la forma essenziale diespansione del capitale. Negli anni Trenta e Quaranta, tuttavia, l’escala-tion nella lotta per il potere interstatale ostacolò seriamente gli investi-menti diretti Usa in Europa e nelle sue colonie, proprio nel momento incui l’aumento del potere sociale del lavoro in patria rendeva l’espansio-ne estera più vantaggiosa e urgente. Non dovrebbe sorprendere, quindi,che non appena Washington ebbe creato le condizioni più favorevoliall’espansione delle grandi imprese nell’Europa occidentale (soprattuttoattraverso il Piano Marshall), il capitale americano colse l’occasione e siavviò a ricostruire l’Europa a sua immagine e somiglianza.

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potevano agire come sostituti e forze di complemento del movimento see quando era necessario. Negli Stati uniti non c’era stato tale sviluppo;al massimo, un partito già esistente era diventato il principale rappresen-tante politico delle organizzazioni del lavoro. Il movimento operaioavanzava o arretrava a seconda delle sue capacità di mobilitarsi e orga-nizzarsi.

Le nuove strutture di accumulazione

Queste capacità erano la conseguenza non desiderata delle trasfor-mazioni strutturali del capitale statunitense nella precedente metà delsecolo. A questo riguardo, la grande depressione del 1873-96 era stataun punto di svolta decisivo. Fu in quel periodo che il capitale americanoaveva creato strutture di accumulazione integrate verticalmente e ammi-nistrate burocraticamente che corrispondevano al pieno sviluppo della“produzione di plusvalore relativo” di Marx12.

Come ha puntualmente dimostrato Harry Braverman, la creazionedi queste strutture di accumulazione fu associata a una scomposizionedi classe tale per cui, mentre il processo di produzione diventava piùcomplesso, le capacità richieste ai lavoratori diventavano minori e piùfacili da acquisire (portando così alla “dequalificazione”)13. Questaristrutturazione della divisione tecnica del lavoro indebolì il poteresociale della classe dei lavoratori salariati relativamente poco numerosa(principalmente gli operai professionali) che era in possesso delle com-petenze necessarie per compiere mansioni complesse. Tuttavia, la dimi-nuzione del potere sociale degli operai professionali era solo una facciadella medaglia. L’altra era l’aumento del potere sociale che ottenne laclasse ben più numerosa dei lavoratori salariati destinati a compiere lemansioni più semplici (i semi-qualificati).

La “dequalificazione” fu, in verità, un’arma a doppio taglio, chefacilitò da una parte il processo di valorizzazione del capitale, rendendo-lo più problematico da un’altra. La valorizzazione del capitale era facili-tata perché era resa meno dipendente dalle conoscenze e dalle abilitàdegli operai professionali. Ma ciò si legava a un’imponente espansionedelle gerarchie manageriali (le “tecnostrutture” di Galbraith), la cuivalorizzazione dipendeva dalla velocità del processo di produzione e,quindi, dalla volontà di una larga massa di lavoratori a basse qualifichedi cooperare l’uno con l’altro e con il management per far funzionare iflussi di produzione alla velocità richiesta. Questa maggiore importanzadello sforzo produttivo di una larga massa di lavoratori a basse qualifi-

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L’espansione transnazionale

Alla fine, il riconoscimento del potere sociale del lavoro fu rallen-tato e poi fermato dal riorientamento dello sviluppo produttivo versozone più periferiche dell’economia-mondo. Fino al 1968, l’espansionecapitalistica transnazionale, misurata ad esempio dagli investimentidiretti verso l’estero, fu essenzialmente un fenomeno americano, mentrela controparte europea era un residuo delle precedenti attività ed espe-rienze coloniali. Anche imprese capitalistiche di paesi europei piccoli ericchi, come la Svezia e la Svizzera, si erano impegnate in questo tipo diespansione, ma quelle dei paesi più grandi e più dinamici del centro,come la Germania e il Giappone, brillavano per la loro assenza nellacostruzione di reti transnazionali di produzione e distribuzione.

Poi, tra il 1968 e il 1973, si verificò un’improvvisa accelerazione diinvestimenti diretti all’estero nella quale i paesi fino ad allora in ritardo, inparticolare il Giappone, ebbero un ruolo preponderante. Nel 1988 il con-trollo di reti transnazionali di produzione e distribuzione era diventato unacaratteristica comune del capitale del centro, indipendentemente dallanazionalità, con quello giapponese prossimo a superare il capitale statuni-tense per estensione e portata. La leadership del Giappone nell’improvvisaimpennata di investimenti diretti all’estero negli anni Settanta e Ottantanon era solo legata a tassi di crescita eccezionalmente alti. Dietri questi ulti-mi c’era la capacità del Giappone di anticipare e adattarsi rapidamente alletendenze dell’economia-mondo nei rapporti tra capitale e lavoro. Nonappena scioperi e costi di produzione iniziarono ad aumentare all’interno, ilcapitale giapponese rilocalizzò rapidamente all’estero i processi produttiviche più dipendevano da un’ampia disponibilità di manodopera a bassocosto. Per di più, almeno nei suoi stadi iniziali, l’espansione transnazionaledel capitale giapponese, a differenza di quello Usa, si orientò principalmen-te verso la riduzione dei costi, piuttosto che verso l’espansione dei redditi15.

La leadership del Giappone nell’espansione transnazionale delcapitale degli anni Settanta e Ottanta era fondata sull’anticipazione delledifficoltà create all’accumulazione di capitale dalla generalizzazione dellestrutture del capitalismo delle grandi imprese all’intero centro dell’eco-nomia-mondo. Finché il capitalismo delle grandi imprese restava unfenomeno quasi solo statunitense, le corporation Usa potevano sceglieretra un’ampia gamma di possibilità l’area dove cercare di valorizzazione leloro gerarchie manageriali. Questa mancanza di concorrenza fu la ragio-ne principale per cui le grandi imprese americane negli anni Cinquanta eper quasi tutti gli anni Sessanta riuscirono contemporaneamente a espan-

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Il capitale statunitense non fu l’unico attore coinvolto in questaricostruzione dell’Europa. I governi e le aziende europee si unironoprontamente all’impresa, in parte per eguagliare i nuovi standard dipotere e ricchezza stabiliti dagli Stati uniti e in parte per affrontare laconcorrenza portata in mezzo a loro dalle imprese Usa. Il risultato fuun’espansione senza precedenti delle capacità produttive, che incorpo-rava le nuove strutture di accumulazione sperimentate per la prima vol-ta negli Stati uniti nella prima metà del secolo. Con le nuove strutture diaccumulazione si verificò anche un considerevole aumento del poteresociale del lavoro in Europa, che si manifestò tra la fine degli anni Ses-santa e l’inizio degli anni Settanta con un ciclo di scioperi che presentaforti analogie con quello sviluppatosi negli Stati uniti tra gli anni Trentae Quaranta. In primo luogo, tale ciclo si basava largamente sulla capa-cità di mobilitarsi e di auto-organizzarsi della base del proletariato indu-striale. Le organizzazioni operaie preesistenti, indipendentemente dalloro orientamento ideologico, non ebbero alcun ruolo nell’avvio dellelotte, e furono coinvolte nella guida e organizzazione della protesta soloquando questa si mostrò capace di resistere e di costruire strutture orga-nizzative alternative. Spesso, i nuovi movimenti entrarono in conflittocon le organizzazioni operaie tradizionali, perché queste tentavano diimporre i loro obiettivi politici, mentre i movimenti lottavano per man-tenere la propria autonomia rispetto a obiettivi estranei alla propria con-dizione sociale.

In secondo luogo, le basi della mobilitazione e dell’auto-organizza-zione del proletariato industriale erano del tutto interne alla condizioneproletaria. La mobilitazione autonoma del proletariato era una rispostaspontanea e collettiva ai tentativi del capitale di scaricare le crescentipressioni competitive dell’economia-mondo sulla forza lavoro, peggio-rando il rapporto tra salari e produttività (in primo luogo esigendo unmaggiore sforzo produttivo). E l’auto-organizzazione si avvalse dell’or-ganizzazione tecnica del processo di produzione per coordinare dispara-te azioni di lotta.

In terzo luogo, il movimento ebbe molto successo, non solo perquanto riguarda i suoi obiettivi immediati, ma anche nell’indurre le clas-si dominanti a riconoscere il potere sociale dimostrato dal lavoro nellelotte. Tra il 1968 e il 1973, i livelli di remunerazione salirono rapidamen-te in tutta l’Europa occidentale, avvicinandosi agli standard nordameri-cani. Contemporaneamente, o poco dopo, caddero le restrizioni formalio sostanziali ai diritti civili e politici del proletariato industriale ancorapresenti in molti paesi dell’Europa occidentale.

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La riduzione dei costi

Per quanto riguarda la riduzione dei costi, essa ha assunto tre for-me principali: 1) la sostituzione delle riserve di lavoro salariato piùcostose con altre più economiche all’interno di ogni Stato del centro –attraverso, anzitutto, la femminilizzazione del lavoro salariato e, insecondo luogo, l’impiego di manodopera immigrata di prima generazio-ne, spesso illegale; 2) la sostituzione della forza lavoro più costosa conquella, più economica, al di fuori dei confini nazionali, in particolare inregioni più periferiche – principalmente attraverso la delocalizzazionedegli impianti e la sostituzione di produzioni nazionali con importazio-ni; 3) la sostituzione, nei processi produttivi, del lavoro dequalificatocon lavoro intellettuale e scientifico, principalmente attraverso l’automa-zione e l’uso di tecnologie basate sulla scienza.

Le due prime sostituzioni sono state le più importanti nella diffu-sione della miseria di massa tra il proletariato dei paesi del centro. Tutta-via, nessuna delle due implica una riduzione del potere sociale comples-sivo del proletariato mondiale. Implicano invece un trasferimento dipotere sociale da un settore a un altro del proletariato mondiale. Neipaesi del centro, la sostituzione trasferisce potere sociale dagli uominialle donne e dai lavoratori nazionali agli immigrati, all’interno del prole-tariato industriale; la sostituzione oltre i confini nazionali trasferiscepotere sociale dal proletariato di uno Stato a quello di un altro. Inentrambi i casi, il potere sociale cambia di mano, ma resta nelle mani delproletariato industriale.

L’automazione e le tecnologie basate sulla scienza implicano, inve-ce, una riduzione del potere sociale del proletariato nella sua formaattuale. Trasferendo il controllo della qualità e della quantità della pro-duzione dai lavoratori salariati subordinati a manager, intellettuali escienziati, questa sostituzione trasferisce potere sociale da lavoratoriproletarizzati a lavoratori che, nel migliore dei casi, sono proletarizzatisolo nel senso che lavorano per uno stipendio. Tuttavia, tanto più taletendenza è forte e tanto più è consistente la forza lavoro manageriale etecnologica all’interno del sistema produttivo, quanto più si accentua latendenza del capitale a sottomettere questa forza lavoro al suo dominio,e a rendere la sua proletarizzazione più sostanziale di quanto fosse pri-ma. In questo caso, quindi, c’è un trasferimento di potere sociale dalproletariato industriale, ma solo come premessa per un futuro amplia-mento delle sue dimensioni e del suo potere.

Ne consegue che il deterioramento degli standard di vita del proleta-

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dere la loro base produttiva all’estero e in patria, riconoscere il poteresociale del lavoro che accompagnava quell’espansione, e aumentare lamassa di profitti. Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Set-tanta, le gerarchie manageriali del capitale americano si trovarono, tutta-via, a non esser più le sole a perseguire la valorizzazione fuori dal loroambito originario. Imprese capitalistiche dell’Europa occidentale e delGiappone avevano sviluppato le stesse capacità, e le aree che offrivanosimili opportunità di espansione dei profitti erano diminuite. L’Europaoccidentale, che aveva rappresentato l’area primaria di valorizzazione delcapitale americano all’estero, stava a sua volta cercando uno sbocco red-ditizio per le proprie tecnostrutture sovradimensionate. Le opportunitàper investimenti diretti all’estero nel resto del mondo erano strettamentelimitate o da controlli statali centralizzati sulla produzione e distribuzione(come nei paesi comunisti), o dalla miseria di massa (come in gran partedel Terzo mondo), o da una combinazione dei due fattori.

La corsa alla riduzione dei costi degli anni Settanta e Ottanta ha lesue radici in questa situazione di sovraffollamento, cioè in una situazio-ne in cui troppe grandi imprese “inseguono” poche aree capaci di offri-re opportunità di espansione redditizie. Negli anni Settanta, i tentativida parte di Stati e grandi imprese di sostenere l’espansione produttiva edi riconoscere il crescente potere sociale del lavoro che l’accompagnavasi risolsero in un’accentuazione delle pressioni inflazionistiche. Tali pres-sioni, a loro volta, aumentarono la redditività della riduzione dei costi el’appetibilità delle attività speculative che, negli anni Ottanta, hannoattratto crescenti risorse monetarie ed energie imprenditoriali.

La speculazione finanziaria e la riduzione dei costi sono stati così iriflessi dell’incapacità delle grandi imprese di adattarsi al crescente pote-re sociale del lavoro. L’effetto principale è stato una diffusione limitatama significativa della miseria di massa nelle zone centrali. Il fenomenoha assunto forme diverse: la caduta dei salari reali (soprattutto negli Sta-ti uniti), la crescita della disoccupazione (soprattutto nell’Europa occi-dentale) e un peggioramento del rapporto tra salari e sforzo produttivoin quasi tutte le aree centrali.

Questa crescita della miseria di massa non si è tuttavia associata auna diminuzione proporzionale del potere sociale del lavoro. La specu-lazione finanziaria riflette l’emergere di un’incompatibilità tra l’espan-sione del capitalismo delle grandi imprese e il crescente potere socialedel lavoro. Non si può fermare questo senza bloccare la prima. L’effettoprincipale è l’indebolimento del consenso sociale su cui il dominio delcapitale si è basato a partire dalla Seconda guerra mondiale.

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nazione tenta di aggirare, contenere e indebolire il potere sociale dellavoro del centro.

La riconfigurazione del proletariato

Il risultato è stato una profonda riconfigurazione dei soggetti checostituiscono l’esercito industriale attivo e quello di riserva. Rispetto avent’anni fa, un settore molto più ampio dell’esercito industriale attivonel mondo è ora localizzato nella periferia e nella semiperiferia dell’eco-nomia-mondo, mentre l’esercito attivo del centro ospita al suo interno,ai livelli più bassi, un gran numero di membri femminili e immigrati e, ailivelli più alti, intellettuali e scienziati formalmente proletarizzati. Questariconfigurazione ha messo sotto pressione i lavoratori maschi dei paesidel centro occupati ai livelli medi e bassi dell’esercito attivo, mettendolinella condizione di dover accettare livelli più bassi di remunerazione inrapporto allo sforzo produttivo, pena l’estromissione dall’esercito attivo.

La resistenza contro questo deterioramento dei livelli di vita nelcentro è stata finora piuttosto debole e inefficace soprattutto perché i set-tori del proletariato industriale che ne sono stati investiti più direttamen-te sono stati colpiti anche da una perdita di potere sociale, mentre i setto-ri che hanno acquistato potere sociale non hanno ancora conosciuto undeterioramento significativo del loro standard di vita. Nel caso delle don-ne e degli immigrati che hanno occupato i ranghi più bassi del proletaria-to industriale, ci sono state due circostanze che hanno attenuato l’impat-to del deterioramento. Da una parte, i livelli di retribuzione delle lorooccupazioni precedenti erano in molti casi anche più ridotti di quelliottenuti nei ranghi più bassi dell’esercito industriale attivo. D’altra parte,essi continuano spesso a considerare le loro retribuzioni come supple-mentari ad altre entrate e il loro lavoro come aggiunta temporanea al lorocarico di lavoro quotidiano. Salari bassi rispetto allo sforzo richiesto sonocosì maggiormente tollerati di quanto accadrebbe se essi fossero conside-rati come l’unica o principale fonte di reddito, e se lo sforzo fosse perce-pito come un’aggiunta permanente al loro quotidiano carico di lavoro.

Entrambe le circostanze sono però transitorie. Nel corso del tem-po, i livelli di retribuzione si basano sulle condizioni attuali piuttostoche su quelle passate. Inoltre, più si diffonde l’impiego della forza lavo-ro femminile e immigrata ai livelli più bassi dell’esercito industriale atti-vo, più i bassi salari diventano la principale fonte di reddito e lo sforzoelevato diventa una condizione permanente. Quando ciò accade,l’acquiescenza lascia spazio alla ribellione aperta, nella quale il potere

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riato nei paesi del centro è legato non tanto a una perdita, quanto a unaredistribuzione del potere sociale all’interno delle sue fila, presenti e futu-re. Potere sociale e miseria di massa non sono più così polarizzati in settoridiversi del proletariato mondiale com’erano a metà del XX secolo. Lamiseria di massa ha iniziato a diffondersi tra il proletariato dei paesi delcentro, mentre il potere sociale ha iniziato a diffondersi tra il proletariatodella periferia e della semiperiferia. In breve, ci stiamo avvicinando alloscenario prefigurato da Marx e Engels nel Manifesto, nel quale il poteresociale e la miseria di massa della forza lavoro investono gli stessi soggetti,piuttosto che settori differenti e separati del proletariato mondiale.

In realtà, il potere sociale e la povertà materiale sono ancora distri-buiti in modo estremamente non uniforme tra i vari settori del proleta-riato mondiale. Per quanto ci è possibile osservare, tale disparità si man-terrà ancora per molto tempo. Tuttavia, la tendenza della prima metàdel XX secolo verso una polarizzazione spaziale del potere sociale e del-la miseria della forza lavoro in regioni differenti e distinte dell’econo-mia-mondo ha iniziato a invertirsi. Tra il 1948 e il 1968, il potere socialeprecedentemente detenuto quasi esclusivamente dal proletariato indu-striale del mondo anglosassone si è diffuso tra il proletariato industrialedell’intera zona centrale, che è giunta a includere la maggior partedell’Europa occidentale e il Giappone, mentre la miseria ha continuatoa essere l’esperienza predominante delle masse proletarizzate e semi-proletarizzate del Terzo mondo. A partire grosso modo dal 1968, tutta-via, questa polarizzazione è diventata controproducente per l’ulterioreespansione del capitale. Nelle regioni centrali, l’ampliamento del poteresociale del lavoro ha iniziato a interferire seriamente con il controllo delcapitale sui processi di produzione, Nelle regioni periferiche, invece,l’aumento della miseria del proletariato ha indebolito la legittimità deldominio del capitale, impoverito i mercati, e interferito con la mobilita-zione produttiva di larghi settori del proletariato.

Di fronte a questi ostacoli alla sua ulteriore espansione – ostacoliche si rafforzano a vicenda – il capitale ha tentato di superare le sue dif-ficoltà facendo in modo che la miseria di massa del proletariato dellasemi-periferia e della periferia dell’economia-mondo condizionasse ilpotere sociale del lavoro dei paesi del centro. Il tentativo è stato facilita-to dall’attuale ricostruzione del mercato mondiale che, a partire dal1968, è diventato sempre più indipendente dal potere e dagli interessispecifici degli Stati uniti. Questo riflette, tra le altre cose, un’organizza-zione transnazionale del processo di produzione e distribuzione che siva allargando e approfondendo, attraverso la quale il capitale di ogni

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Marx e Engels nel Manifesto.4. LA CRISI DEL MARXISMO NELLA PROSPETTIVA DELLA STORIA MONDIALE

La tesi che le previsioni del Manifesto sul movimento operaiomondiale possano essere più rilevanti nei prossimi 50-60 anni di quantolo siano state negli ultimi 90-100 anni può sembrare contraddettadall’attuale crisi delle organizzazioni della classe operaia e marxiste.Non si può negare, infatti, che negli ultimi 15-20 anni i sindacati, i parti-ti dei lavoratori e gli Stati guidati da governi socialisti, in particolarequelli comunisti, sono stati sottoposti a forti pressioni per riformarsi ecambiare orientamento, in modo da evitare il declino. Queste pressioni,tuttavia, non sono affatto incompatibili con l’argomentazione qui svilup-pata; al contrario, la rendono più evidente.

Come tutte le altre organizzazioni sociali, quelle proletarie (marxi-ste e non) seguono strategie e presentano strutture che riflettono le cir-costanze storiche nelle quali hanno avuto origine, anche quando tali cir-costanze siano cambiate. Le ideologie e organizzazioni proletarie chesono spinte al cambiamento o al declino riflettono tutte le circostanzestoriche tipiche della prima metà del XX secolo, un periodo in cui l’eco-nomia-mondo capitalistica differiva in aspetti essenziali dallo scenariodelineato nel Manifesto. Nella misura in cui l’economia-mondo capitali-stica torna a corrispondere in misura maggiore a quello scenario, c’è daaspettarsi che le organizzazioni le cui strategie e strutture riflettono lecircostanze storiche di un’epoca precedente siano messe duramente allaprova e poste davanti alla prospettiva del declino. Alcune possono esse-re in grado di evitare il declino, di prosperare addirittura, attraverso unsemplice cambiamento di strategia. Altre possono ottenere lo stessorisultato, ma solo attraverso una profonda ristrutturazione. Altre ancorapossono solo declinare, indipendentemente da ciò che faranno.

Più specificamente, Marx aveva ipotizzato che l’ordine di mercatoavrebbe costantemente riconfigurato, all’interno delle e tra le diversearee dell’economia-mondo capitalistica, il crescente potere sociale e lacrescente miseria di massa del lavoro. In realtà, per lungo tempo questonon avvenne. Nella prima metà del XX secolo l’escalation nella lotta dipotere interstatale limitò e poi bloccò completamente il funzionamentodel mercato mondiale. Il potere sociale e la miseria di massa del lavoroaumentarono a un ritmo senza precedenti, ma in maniera polarizzata,con il proletariato di alcune regioni che conosceva soprattutto unaumento del potere sociale, e il proletariato di altre regioni che conosce-va soprattutto un aumento della miseria. Come Marx aveva previsto,

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sociale delle donne e degli immigrati si rivolta contro la crescente dimiseria di massa nei paesi del centro. Anche negli anni Settanta e Ottan-ta le donne e gli immigrati nei paesi centrali hanno mostrato una forteinclinazione a ribellarsi e a usare il loro potere sociale, ma non abbiamoancora registrato un’ondata di conflitti sociali specificamente centratisulle loro rivendicazioni. Se e quando ciò avverrà, tale ondata potrà inte-ragire positivamente e negativamente con i movimenti di protesta deiranghi più alti dell’esercito industriale attivo.

Questi ranghi superiori sono sempre più occupati dal lavoro intel-lettuale e tecnico, che assume una gamma sempre più ampia di compitiproduttivi. Per ora, sono loro i principali beneficiari dell’attuale corsaalla riduzione dei costi, che fa aumentare la domanda della loro forzalavoro e fornisce loro beni di lusso relativamente poco costosi. Tuttavia,più il loro peso nella struttura dei costi del capitale aumenta, più essidiventeranno i principali destinatari della corsa alla riduzione dei costi.A quel punto, ci si può aspettare che questi strati superiori dell’esercitoindustriale attivo mobilitino il loro potere sociale in movimenti di prote-sta per impedire alla miseria di massa di diffondersi tra le loro fila.

Questi sono i movimenti del futuro del centro. Ma nella semiperi-feria il futuro ha già avuto inizio. Gli anni Ottanta hanno conosciutoesplosioni di agitazioni operaie in paesi diversi come la Polonia, il Suda-frica, e la Corea del Sud, solo per ricordare i casi più significativi. Nono-stante i regimi politici e le strutture sociali radicalmente differenti, que-ste esplosioni presentano importanti caratteristiche comuni, alcune dellequali somigliano a quelle dei cicli di lotta di classe degli anni Trenta eQuaranta negli Stati uniti e della fine degli anni Sessanta e dell’iniziodegli anni Settanta nell’Europa occidentale. In tutti i casi, il conflittoindustriale si è largamente fondato sulla capacità di mobilitazione eorganizzazione della base del proletariato industriale. Le radici di questecapacità sono del tutto interne alla condizione proletaria e consistononello squilibrio fondamentale tra il nuovo potere sociale e la vecchiamiseria di massa del proletariato industriale.

Le somiglianze sono, sotto questi riguardi, impressionanti, ma ledifferenze tra quest’ultimo ciclo e quelli precedenti sono altrettantosignificative. Questi movimenti sono stati difficili da reprimere quanto iprecedenti, ma è stato molto più difficile accogliere le loro richieste. Ilmotivo non sta nelle rivendicazioni in sé, che sono molto più elementaridi quelle dei cicli precedenti, ma nelle capacità limitate degli Stati e delcapitale nella semiperiferia di accoglierle. Il risultato potrebbe essereuna situazione di conflitto sociale endemico del tipo prospettato da

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guida seguite dall’avanguardia per modellare e plasmare i movimentiproletari reali, cosa che avvenne subito dopo. Quando una variante diquesto percorso diede al marxismo la sua prima base territoriale (l’impe-ro russo), la teoria leninista della supremazia dell’avanguardia rivoluzio-naria sul movimento divenne il cuore dell’ortodossia marxista.

Infine, avendo acquisito una base territoriale, il marxismo comeortodossia sviluppò interessi propri, non necessariamente né evidente-mente coincidenti con quelli del proletariato mondiale. Le lotte intesti-ne che seguirono la presa del potere statale nell’impero russo ridefiniro-no il marxismo come potere autoritario (del partito sullo Stato e delloStato sulla società civile); il fine non era tanto l’emancipazione proleta-ria, quanto raggiungere la ricchezza e il potere dei paesi del centrodell’economia-mondo capitalistica. Questa strategia trasformò l’UnioneSovietica in una superpotenza e favorì un’espansione eccezionale deiterritori controllati da governi marxisti. Potere autoritario e industrializ-zazione diventarono il nuovo cuore dell’ortodossia.

Partito, Stato e classe

Nonostante questa progressiva negazione dell’eredità di Marx, ilmarxismo continuava a reclamare la rappresentanza degli interessidell’intero proletariato e del movimento operaio mondiale. Questa pre-tesa, tuttavia, era sempre più svuotata di senso da una costante ridefini-zione degli interessi del proletariato mondiale in modo da farli coincide-re con gli interessi di potere delle organizzazioni marxiste (Stati, partiti,sindacati). Fin dall’inizio, gli interessi comuni del proletariato mondialefurono ridefiniti, in primo luogo, per escludere gli interessi materiali diquei settori del proletariato mondiale (le cosiddette “aristocrazie ope-raie”) che rifiutavano l’idea che i partiti marxisti avessero un ruolonecessario nella loro emancipazione e, in secondo luogo, per includeregli interessi di potere delle organizzazioni marxiste indipendentementedalla loro partecipazione alle reali lotte proletarie. In seguito, quando leorganizzazioni marxiste giunsero a includere l’Unione Sovietica, gli inte-ressi comuni del proletariato mondiale furono ridefiniti per dare prioritàal consolidamento del potere marxista in Unione Sovietica, e del suoruolo nel sistema interstatale. Infine, quando l’Unione Sovietica divenneuna superpotenza impegnata nella lotta con gli Stati uniti per l’egemoniamondiale, gli interessi comuni del proletariato mondiale vennero ridefi-niti ancora una volta per farli coincidere con quelli dell’Unione Sovieti-ca in quel conflitto.

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questa accentuazione delle tendenze verso un maggior potere e miseriadiede un enorme impulso alla diffusione delle lotte, delle ideologie edelle organizzazioni proletarie. Tuttavia, il modo polarizzato con cui simanifestarono le due tendenze fece sviluppare le lotte, le ideologie e leorganizzazioni proletarie lungo traiettorie che Marx non aveva né previ-sto né proposto.

L’ipotesi che le due tendenze avrebbero interessato gli stessi sog-getti nello spazio dell’economia-mondo capitalistica era un elementoessenziale della teoria marxiana della trasformazione socialista del mon-do. Solo in questa ipotesi le lotte quotidiane del proletariato mondialesarebbero state intrinsecamente rivoluzionarie, nel senso che avrebberofatto valere nei confronti degli Stati e del capitale un potere sociale chequesti ultimi non avrebbero potuto né reprimere né accontentare. Larivoluzione socialista era concepita come un processo a lungo termine esu larga scala per mezzo del quale l’insieme di queste lotte avrebbeimposto alla borghesia mondiale un ordine basato su consenso e coope-razione invece che su coercizione e concorrenza.

In questo processo il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie, sec’era, avrebbe dovuto essere morale e pedagogico piuttosto che politico.Secondo il Manifesto, le vere avanguardie rivoluzionarie (“i comunisti”)non avrebbero dovuto formare partiti diversi, opposti ad altri partitioperai; non avrebbero dovuto sviluppare interessi propri separati daquelli del proletariato nel suo insieme; e non avrebbero dovuto stabilireprincipi settari con cui dar forma al movimento proletario. Piuttosto,avrebbero dovuto limitarsi a esprimere e rappresentare all’interno dellelotte proletarie l’interesse comune di tutto il proletariato mondiale e delmovimento nel suo insieme (si veda il passaggio citato sopra). La cosache colpisce di più in questa lista di azioni che le avanguardie rivoluzio-narie non avrebbero dovuto intraprendere è che è l’elenco di quello chei marxisti hanno effettivamente fatto da quando sono diventati agentistorici collettivi.

La formazione, alla fine del XIX secolo, di partiti distinti, e spessoin competizione con altri partiti operai fu la prima cosa che fecero imarxisti. Di fatto, la formazione di partiti politici separati segna il veroatto di nascita del marxismo come soggetto storico effettivo e identitàideologica condivisa. Poco tempo dopo, la controversia sul revisionismoeliminò dal marxismo l’idea che il movimento delle lotte proletarie con-crete avesse la priorità sui principi (socialisti o no) definiti dalle avan-guardie rivoluzionarie. Questo sviluppo era un tacito invito a fissare prin-cipi particolari come criteri delle lotte proletarie e, quindi, come linee

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aspetto che senza dubbio aveva avuto un ruolo nell’indurli a impegnarsinella politica di classe.

La scelta di Bernstein era svantaggiosa da entrambi i punti di vista.Se l’accumulazione del capitale assicurava al proletariato il potere socia-le necessario per eliminare la miseria, i marxisti, o la maggior parte diloro, avrebbero perso motivazione o ruolo: l’indignazione morale eraingiustificata perché la miseria era un fenomeno transitorio, e l’autosti-ma sarebbe stata fuori luogo perché il proletariato aveva tutto il poteredi cui aveva bisogno per emanciparsi da solo. È plausibile ipotizzare chequesta fosse una ragione importante, anche se non esplicita, per cui la“scelta” di Bernstein fu respinta e il marxismo storico fu costituito siateoricamente che praticamente sulle basi della crescente miseria dellavoro, piuttosto che sul suo crescente potere sociale.

Una doppia sostituzione

Quali che fossero le motivazioni, questa decisione si rivelò fatale, nonsolo per il marxismo, ma per il proletariato mondiale, il movimento ope-raio e il sistema capitalistico mondiale. Impose ai marxisti una doppia sosti-tuzione che aumentò fortemente il loro potere di trasformare il mondo, mali fece allontanare sempre più radicalmente dalla lettera e dallo spiritodell’eredità di Marx. All’inizio, impose ai marxisti la necessità storica disostituire organizzazioni create da loro alle organizzazioni di massa cheriflettevano le spontanee azioni di rivolta del proletariato e di altri gruppi eclassi subalterne. Poi, una volta al potere, impose alle organizzazioni marxi-ste la necessità storica di sostituirsi alle organizzazioni della borghesia edegli altri gruppi e classi dominanti nell’eseguire gli sgradevoli compiti digoverno che queste ultime non avevano saputo o voluto svolgere.

Le due sostituzioni (la prima associata fondamentalmente con ilnome di Lenin, e la seconda con quello di Stalin) erano complementarinel senso che la prima preparava la seconda e la seconda portava a com-pimento, come meglio si poteva, il lavoro iniziato dalla prima. Quali chesiano le loro relazioni, entrambe le sostituzioni erano radicate nella pre-cedente decisione dei marxisti di scegliere come base sociale della teoriae della prassi rivoluzionaria la crescente miseria di massa piuttosto che ilcrescente potere sociale del lavoro. Una miseria crescente era condizio-ne necessaria per il successo della strategia di Lenin di impadronirsi delpotere in modo rivoluzionario. Ma non appena il potere statale fu con-quistato, la miseria di massa divenne una seria limitazione per quello cheLenin e i suoi successori avrebbero potuto fare con quel potere.

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Questa traiettoria di negazioni successive e cumulative dell’ereditàdi Marx da parte di individui, gruppi e organizzazioni che, nondimeno,continuavano a rivendicare fedeltà a tale eredità, non descrive un “tradi-mento” del marxismo, qualsiasi cosa ciò possa significare. Piuttosto,descrive il marxismo per quello che è, una formazione storica che riflet-te l’effettivo sviluppo dell’eredità marxiana in circostanze da essa noncontemplate. Per dirlo in altri termini, il marxismo fu costruito da soste-nitori in buona fede di Marx, ma in circostanze storiche non prefigura-te, né definite da loro.

L’escalation nelle lotte di potere tra Stati e il concomitante crollodell’ordine del mercato mondiale imposero ai sostenitori di Marx lanecessità storica di scegliere tra strategie alternative che per Marx nonerano affatto tali. Come sostenuto nella seconda sezione, la scelta inquestione era lo sviluppo di legami organici o con i settori del proleta-riato mondiale che erano più direttamente e organicamente interessatidalla tendenza all’aumento della miseria di massa, o con i settori delproletariato mondiale che erano interessati più direttamente e organica-mente dalla tendenza all’aumento del potere sociale. La scelta era impo-sta dalla crescente separazione delle due tendenze nello spazio dell’eco-nomia-mondo. Marx pensava, e sperava, che questa separazione, giàosservabile in forma embrionale al suo tempo, sarebbe diminuita con iltempo. Invece l’escalation nelle lotte per il potere interstatale rafforzòentrambe le tendenze e aumentò la loro separazione spaziale. Di qui lanecessità di scegliere, e di farlo tempestivamente.

Quando Bernstein sollevò la questione e propose di sviluppare unlegame organico con il settore più forte del proletariato mondiale, imarxisti rifiutarono quasi unanimemente la sua proposta, indipendente-mente dal loro orientamento rivoluzionario o riformista. Le vere ragionidi questa reazione quasi unanime, che fissò la rotta del marxismo per idecenni a venire, vanno al di là dei temi di questo saggio. Dobbiamosolo sottolineare che possono essere imputate a motivazioni che noncontraddicono in alcun modo la lettera e lo spirito dell’eredità marxista.

Il legame organico con i settori più deboli, piuttosto che con quellipiù forti del proletariato mondiale presentava un doppio vantaggio per imarxisti. In primo luogo, corrispondeva al loro senso di indignazionemorale per la miseria del proletariato mondiale, indignazione che erastata senza dubbio un’importante motivazione che aveva spinto molti diloro a seguire le orme di Marx. In secondo luogo, mobilitava il senso diautostima, la sensazione, cioè, che c’era qualcosa che essi potevano farein prima persona per superare la miseria del proletariato mondiale, un

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paesi del centro riuscivano a ottenere una parte del potere e della ric-chezza dei loro rispettivi Stati, più arrivarono ad essere percepite e pre-sentate dai marxisti come soggetti subalterni e corrotti del blocco socia-le dominante che governava il mondo.

Questo reciproco antagonismo è stato uno sviluppo storico che nes-suno aveva voluto, né previsto. Una volta in atto, tuttavia, fornì alla bor-ghesia mondiale una forte arma ideologica nella lotta per ricostruire il suovacillante dominio. Come abbiamo visto, l’egemonia degli Stati uniti dopola Seconda guerra mondiale si basò fortemente sull’affermazione chel’esperienza del proletariato americano potesse essere riprodotta a scalamondiale. Se si lascia procedere senza ostacoli l’espansione del capitali-smo delle grandi imprese – si sosteneva – tutto il proletariato mondialeotterrebbe un potere sociale sufficiente a eliminare la miseria dalle sue fila.

Il movimento operaio negli Stati uniti e nel mondo

Come sappiamo, quest’affermazione (come tutte le pretese egemo-niche) era per metà vera e per metà falsa. Come promesso, l’espansioneglobale del capitalismo delle grandi imprese, che seguì e rafforzòl’instaurazione dell’egemonia degli Stati uniti, diffuse effettivamente ilpotere sociale del lavoro nell’intero centro, in quasi tutta la semiperife-ria, e in alcune parti della periferia dell’economia-mondo. E, come pro-messo, la parte del proletariato mondiale con un potere sociale suffi-ciente per allontanare la miseria aumentò, se non in termini relativi,sicuramente in termini assoluti.

Ma la pretesa che il movimento operaio mondiale potesse esserericostruito a immagine degli Stati uniti si rivelò anche un inganno.L’aumento del potere sociale della forza lavoro non ha portato a una dimi-nuzione proporzionale della miseria del lavoro, come è accaduto negli Sta-ti uniti. Più il capitalismo delle grandi imprese si è sviluppato, più è diven-tato incapace di accettare il potere sociale che la sua stessa espansione met-teva nelle mani del lavoro. Di conseguenza, l’espansione è rallentata e si èaperta la corsa alla riduzione dei costi degli anni Settanta e Ottanta.

Il disvelamento degli aspetti ingannevoli dell’egemonia statuniten-se è stato un fattore determinante nel precipitare della sua crisi tra lafine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. Tuttavia, né le orga-nizzazioni dei lavoratori, né quelle marxiste sono state in grado inapprofittare della nuova situazione. Al contrario, sono state entrambecolpite da una crisi strutturale, come quella dell’egemonia americana.

La forza precedente delle organizzazioni dei lavoratori nei paesi

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L’incapacità o la mancanza di volontà delle precedenti classi domi-nanti di fornire protezione (in primo luogo militare) al proletariato e aglialtri gruppi e classi subalterne in una situazione di crescente violenzainterstatale erano state il fattore principale della loro caduta. Le organiz-zazioni marxiste potevano così sperare di restare al potere solo fornendoal proletariato e agli altri gruppi e classi subalterne una migliore prote-zione di quella garantita dai gruppi dominanti precedenti. In pratica ciòsignificava, o così sembrò a tutti gli attori coinvolti nel consolidamentodel potere marxista, raggiungere o almeno stare al passo con il comples-so militare-industriale delle grandi potenze del sistema interstatale.

L’attenuazione della miseria di massa venne di conseguenza subor-dinata al perseguimento di questo fine. Poiché l’arretratezza militare-industriale era stata una causa importante, se non determinante, dellacrescita della miseria del proletariato nell’impero russo, sembrava ragio-nevole a coloro che erano coinvolti nel consolidamento del poteremarxista in Urss ritenere che la riduzione della miseria sarebbe venutacon l’industrializzazione pesante. Questa assunzione, tuttavia, non sem-brava così ragionevole a un gran numero di cittadini sovietici (inclusimolti proletari) i cui modi di vita vennero sconvolti dall’avanzamentodell’industrializzazione pesante in condizioni di miseria di massa. Datatale contrapposizione, il potere autoritario divenne il necessario comple-mento all’industrializzazione pesante.

Il successo dell’Unione Sovietica nel diventare una delle duesuperpotenze del sistema interstatale e, allo stesso tempo, nel ridurre lamiseria del suo proletariato fece del potere autoritario e dell’industrializ-zazione il nuovo cuore della teoria e della prassi marxista. Il marxismovenne così identificato ancor più strettamente che in precedenza con lamiseria del proletariato mondiale, aumentando le sue capacità egemoni-che nella periferia e nella semiperiferia dell’economia-mondo. Ma, pro-prio per questa ragione, perse quasi tutta la sua attrattiva per quei setto-ri del proletariato mondiale la cui esperienza prevalente non era la mise-ria, ma il crescente potere sociale.

Il rifiuto del marxismo da parte del proletariato dei paesi del cen-tro e la soppressione delle lotte proletarie reali nella teoria e nella prassidel marxismo storico procedettero insieme. Più il marxismo storico ven-ne identificato con la crescente miseria di massa e con le lotte sanguino-se con cui le organizzazioni marxiste cercarono di superare la mancanzadi potere che si accompagnava alla miseria, più esso divenne estraneo,anzi, inviso ai proletari dei paesi del centro. E, al contrario, più le orga-nizzazioni proletarie basate sul crescente potere sociale del lavoro nei

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del lavoro nel resto dell’economia-mondo, associata alla ricostruzionedell’ordine di mercato, ha aumentato lo svantaggio comparatodell’industrializzazione forzata nella corsa per inseguire i livelli di poteree ricchezza dei paesi capitalistici del centro. Di conseguenza, gli Statimarxisti sono diventati sempre meno capaci di tenere il passo con queilivelli, di adattarsi al crescente potere sociale dei lavoratori, o di fareentrambe le cose.

Le forme della crisi

Le crisi delle organizzazioni del lavoro e delle organizzazionimarxiste sono così due facce della stessa medaglia. La crisi delle orga-nizzazioni dei lavoratori è dovuta principalmente alla loro incapacitàstrutturale di fermare la diffusione della miseria tra il proletariato delcentro, mentre la crisi delle organizzazioni marxiste è dovuta soprattuttoalla loro incapacità strutturale di impedire la diffusione del potere socia-le nella propria base, attuale o potenziale. Ma la crisi è la stessa, perchéentrambi i tipi di organizzazione proletaria sono mal attrezzati peraffrontare una situazione in cui il lavoro ha un potere sociale maggioredi quello che le istituzioni economiche e politiche esistenti possono rico-noscere.

In tali circostanze, la vecchia opposizione tra il “movimento” e il“fine”, che stava alla base dello sviluppo duale del movimento operaiomondiale nel corso del XX secolo, non ha più senso per i protagonistidelle lotte. Come Marx aveva teorizzato, il semplice esercizio del poteresociale che si sta accumulando nelle mani della forza lavoro è di per séun atto rivoluzionario. Un crescente numero di lotte proletarie dal 1968in poi ha mostrato un incipiente ricongiungimento tra “movimento” e“fine”.

Tale ricongiungimento fu previsto e proposto esplicitamente nelloslogan “praticare l’obiettivo”, coniato dai lavoratori italiani nel ciclo dilotte della fine degli anni Sessanta. Sulla base di questo slogan sono staterealizzate diverse pratiche di azione diretta. Anche se non erano unanovità, i loro effetti, socialmente rivoluzionari, lo erano. Il potere socialedispiegato in queste lotte ha imposto un significativo rimodellamentodelle istituzioni economiche e politiche, incluse le organizzazioni deilavoratori – marxiste e non –, per accogliere la spinta democratica edegualitaria del movimento16.

Prove più evidenti dell’incipiente ricongiungimento tra “movimen-to” e “fine” sono giunte dalla Spagna degli anni Settanta e dal Sudafrica

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del centro era radicata in una situazione in cui un settore del proletaria-to aveva un notevole potere sociale, e gli Stati e il capitale avevano lacapacità di riconoscerlo. Le organizzazioni del lavoro, per come sonocostituite, si sono sviluppate garantendo pace sociale agli Stati e al capi-tale e alti salari ai propri membri. L’attuale corsa alla riduzione dei costi,tuttavia, ha reso gli Stati e il capitale più riluttanti o meno capaci digarantire alte remunerazioni al lavoro, e ha trasferito potere sociale nellemani di settori del proletariato (donne, immigrati, lavoratori stranieri)con i quali le organizzazioni del lavoro esistenti hanno scarsi legamiorganici. Le organizzazioni del lavoro hanno così perso la loro prece-dente funzione sociale, la propria base sociale, o entrambe.

La forza delle organizzazioni marxiste, invece, era radicata in unasituazione in cui la loro base aveva poco potere sociale e gli Stati e ilcapitale non erano in grado di fornire la minima protezione. Le organiz-zazioni marxiste, come ora costituite, sono cresciute sulla base della lorocapacità di garantire una maggiore protezione di quella che le classidominanti precedenti erano state in grado o avevano voluto fornire.Tuttavia, la strategia di tenere il passo e raggiungere il complesso milita-re-industriale più potente del sistema interstatale, attraverso la quale leorganizzazioni marxiste hanno consolidato e sviluppato il loro potere,era viziata da una contraddizione fondamentale.

Da un lato, tale strategia richiedeva che, consapevolmente o meno,le organizzazioni marxiste mettessero nelle mani della loro base un pote-re sociale paragonabile a quello del proletariato del centro. Col tempo,questo crescente potere sociale era destinato a interferire con la capacitàdelle organizzazioni marxiste di perseguire i propri interessi a spese diquelli della loro base. Più ritardavano ad adattare le loro strategie estrutture al crescente potere sociale dei loro membri, più gravi sarebbe-ro poi stati gli aggiustamenti necessari.

La ricostruzione dell’ordine del mercato mondiale sotto l’egemo-nia degli Stati uniti ha aggravato tale contraddizione in molti modi. Lerelazioni interstatali sono state pacificate e la guerra come strumento diespansione territoriale è stata delegittimata. Questo cambiamento haindebolito la capacità delle organizzazioni marxiste di mobilitare il con-senso per una strategia di industrializzazione forzata. Nella situazione dipreparativi di guerra generalizzati e di conflitti militari negli anni Trentae Quaranta, questa strategia rifletteva probabilmente un vero interessedel proletariato. Ma con l’instaurarsi dell’egemonia degli Stati uniti, èvenuta a riflettere sempre più gli interessi delle organizzazioni marxistee delle loro clientele politiche. Allo stesso tempo, la crescente divisione

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nella formazione di un’identità proletaria distinta ma collettiva, l’esperien-za di Solidarnosc ha fatto molto più di questo. Insieme ad altre lotte prole-tarie contemporanee – innanzi tutto l’esperienza sudafricana – ci mette inguardia dal fare eccessivo affidamento sullo schema marxiano per prefigu-rare il futuro del movimento operaio. Infatti, lo schema marxiano stessoresta gravemente imperfetto in un aspetto determinante, e cioè il modo incui affronta il ruolo che hanno fattori come l’età, il sesso, la razza, la nazio-nalità, la religione e altre specificità naturali e storiche nel dare formaall’identità sociale del proletariato mondiale. La considerazione di taliquestioni complesse va oltre i temi di questo saggio17. Ma data la loroimportanza per il futuro del movimento operaio mondiale, occorre segna-larle per qualificare meglio le conclusioni di ciò che è stato detto finora.

La corsa alla riduzione dei costi degli ultimi 15-20 anni ha senzadubbio fornito prove ulteriori a favore dell’osservazione secondo cui per ilcapitale tutti i membri del proletariato rappresentano forza lavoro, più omeno costosa a seconda dell’età, del sesso, del colore, della nazionalità,della religione, ecc. Tuttavia, ha anche mostrato che non è possibile inferi-re, come fa Marx, da tale tendenza del capitale una tendenza del lavoro amettere da parte le differenze naturali e storiche come mezzi per afferma-re, individualmente e collettivamente, un’identità sociale distinta.

Ogni volta che si sono trovati di fronte alla tendenza del capitalea trattare la forza lavoro come massa indifferenziata, senza specificitàdiverse da quella determinata dalla differente capacità di aumentare ilvalore del capitale, i proletari si sono ribellati. Quasi sempre hannoutilizzato, o costruito appositamente, quei caratteri distintivi (età, ses-so, colore, specificità geografiche e storiche) che permettevano loro diimporre al capitale un qualche tipo di trattamento speciale. Di conse-guenza, il patriarcato, il razzismo e il nazionalismo sono stati parteintegrante della costruzione del movimento operaio mondiale inentrambe le sue traiettorie del XX secolo, e permangono in una formao nell’altra nella maggior parte delle ideologie e delle organizzazioniproletarie.

Come sempre, la disgregazione di queste pratiche, e delle ideologiee organizzazioni nelle quali si sono istituzionalizzate, può essere solo ilrisultato delle lotte di coloro che sono stati da esse oppressi. Il poteresociale che la corsa alla riduzione dei costi mette nelle mani dei settoritradizionalmente deboli del proletariato mondiale non è che il preludioa queste lotte. Nella misura in cui queste lotte avranno successo, saràpreparato il terreno per la trasformazione socialista del mondo.

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e dalla Polonia degli anni Ottanta. In Spagna, un prolungato movimen-to di lotte proletarie, che la dittatura franchista non poteva né reprime-re, né riconoscere, fu la causa più importante della fine della dittatura edel conseguente emergere della socialdemocrazia. In modo meno netto,lo stesso percorso può essere colto nelle successive crisi delle dittature inBrasile, Argentina e Corea del Sud, e può anche essere individuato nellelotte del proletariato in corso in Sudafrica e in Polonia. In questi dueultimi casi, tuttavia, il movimento operaio presenta specificità che lorendono particolarmente significativo.

Il significato speciale del movimento operaio in Polonia è che esso èemblematico delle contraddizioni e dell’attuale crisi del marxismo storicocome ideologia e organizzazione del proletariato. Il movimento si basafondamentalmente, se non esclusivamente, sul potere sociale che è statomesso nelle mani del lavoro dalla strategia d’industrializzazione forzataperseguita dalle organizzazioni marxiste. Il dispiegamento di questo pote-re sociale per rivendicare migliori condizioni di vita e i diritti civili fonda-mentali è intrinsecamente eversivo dei rapporti politici ed economici esi-stenti in Polonia, come lo è stato in tutti gli altri paesi sopra citati. Non ènecessaria né possibile alcuna distinzione tra il fine della rivoluzione socia-le e l’attuale sviluppo del movimento, come testimonia, tra l’altro, il tipodi leadership e organizzazione che il movimento ha prodotto.

L’ironia della situazione è che, nel lottare contro un’organizzazionemarxista, Solidarnosc ha seguito (consapevolmente o no) le indicazionidi Marx per le avanguardie rivoluzionarie molto più di quanto qualsiasialtra organizzazione marxista abbia mai fatto. Si è astenuto da: 1) forma-re un partito politico opposto agli esistenti partiti operai; 2) sviluppareinteressi propri distinti da quelli del proletariato mondiale; 3) stabilireprincipi settari con i quali modellare e plasmare il movimento proleta-rio. Inoltre, come sostenuto da Marx, la sua funzione è stata più moraleche politica, anche se le sue implicazioni politiche sono state effettiva-mente rivoluzionarie.

Il fatto che un’istituzione marxista sia la controparte di un’organiz-zazione dei lavoratori così marxiana non dovrebbe sorprenderci. Ineffetti, l’esperienza di Solidarnosc fornisce una vivida dimostrazione del-le due principali tesi di questo saggio: la tesi secondo cui le previsioni ele prescrizioni di Marx stanno diventando sempre più rilevanti per ilpresente e per il futuro del movimento operaio mondiale; e la tesi che ilmarxismo storico si è sviluppato in una direzione che è in alcuni aspettichiave antitetica a quella prevista e sostenuta da Marx.

Portando poi alla ribalta il ruolo della religione e della nazionalità

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10 ANTONIO GRAMSCI, Quaderni dal carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einau-di, Torino 1975, vol. 3, pp. 1822-1823.

11 Uso il termine “egemonia” nel senso gramsciano di un dominio esercitatoattraverso una combinazione di coercizione e consenso. Vedi Antonio Gramsci, Qua-derni dal carcere, cit., vol. 3, p. 1638.

12 Cfr. ALFRED D. CHANDLER, JR., La mano visibile. La rivoluzione managerialenell’economia americana, Franco Angeli, Milano 1993 e Michel Aglietta, A Theory ofCapitalist Regulation, New Left Books, Londra 1979.

13 Cfr. HARRY BRAVERMAN, Lavoro e capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1978. 14 Un’analisi più dettagliata dei temi di questa sezione si trova in GIOVANNI ARRI-

GHI, BEVERLY J. SILVER, Movimento operaio e migrazioni di capitale: gli Stati uniti el’Europa in una prospettiva storica mondiale, in “Stato e Mercato”, 11 (1984).

15 Cf. TERUTOMO OZAWA, Multinationalism, Japanese Style: The Political Economyof Outward Dependency, Princeton University Press, Princeton 1979.

16 Cfr. IDA REGALIA, MARINO REGINI, EMILIO REYNERI, Labor Conflicts and Indu-strial Relations in Italy, in C. CROUCH, A. PIZZORNO (ed. by), The Resurgence of ClassConflict in Western Europe since 1968, vol. 1, New York 1978.

17 Ma si veda GIOVANNI ARRIGHI, TERENCE H. HOPKINS, IMMANUEL WALLERSTEIN,Antisystemic Movements, Manifestolibri, Roma 1992.

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NOTE

* Marxist century, American century. The making and remaking of the worldlabour movement, in “New Left Review”, I/179 (1990), pp. 29-63. Pubblicato anchecome capitolo 2 del volume di S. AMIN, G. ARRIGHI, A. G. FRANK, I. WALLERSTEIN,Transforming the Revolution: Social Movements and the World System, Monthly ReviewPress, New York 1990. Ringrazio Terence K. Hopkins e Beverly J. Silver per i lorocommenti e le loro critiche a una versione precedente di questo testo. Traduzionedall’inglese di Silvia Pianta.

1 KARL MARX, FRIEDRICH ENGELS, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Tori-no 1998, pp. 19-20.

2 Ivi, p. 23.3 Ivi, p. 14. In questa definizione del proletariato, che useremo in tutto il testo,

non vi è nessuna indicazione del tipo di occupazione (“colletti blu”, ad esempio) chequalifica i lavoratori come membri del proletariato. Anche espressioni come “proleta-riato industriale” indicano la forza lavoro che è abitualmente impiegata dalle impresecapitalistiche attive nella produzione e distribuzione, a prescindere dal tipo di lavorocompiuto o dal settore di attività in cui opera l’impresa.

La definizione di Marx è ambigua, tuttavia, sui confini superiori e inferiori delproletariato. In alto, ci troviamo davanti al problema di classificare lavoratori che ven-dono la loro forza lavoro per un salario, ma da una posizione di forza individuale chepermette loro di chiedere e ottenere compensi che, a parità di condizioni, sono superio-ri a quelli ricevuti in media dai lavoratori. Questo è, con tutta evidenza, il caso deglistrati superiori del management, ma una grande varietà di individui (i professionisti)lavora per un salario o uno stipendio senza essere proletarizzata in senso vero e proprio.In ciò che segue, questi individui sono implicitamente esclusi dalle fila del proletariato,a meno che non ci si riferisca loro come solo formalmente proletarizzati.

In basso, ci troviamo di fronte al problema opposto di classificare i lavoratori chenon trovano un acquirente per la loro forza lavoro (che loro venderebbero più chevolentieri al salario prevalente) e quindi vengono impiegati in attività non salariate chehanno compensi che, a parità di condizioni, sono inferiori a quelli ricevuti in media daisalariati. È questo il caso della maggior parte di quello che Marx chiama l’esercito indu-striale di riserva. Di fatto, l’intero esercito di riserva si trova in questa condizione, aeccezione di una minoranza di individui che beneficiano dei sussidi di disoccupazione opossono permettersi per altri motivi di rimanere disoccupati per un certo tempo. In ciòche segue, i lavoratori non salariati nella condizione qui descritta saranno implicitamen-te inclusi nel proletariato (nel suo esercito di riserva, per essere precisi).

4 Ivi, p. 15.5 Ivi, p.18, 29.6 Ivi, p. 11.7 Cfr. WOLFGANG ABENDROTH, Storia sociale del movimento operaio europeo,

Einaudi, Torino 1977.8 Tutti i dati riguardanti le agitazioni operaie contenuti in questo articolo sono

tratti da una ricerca condotta dal World Labor Research Working Group del FernandBraudel Center della State University of New York di Binghamton. I principali risultatidi questa ricerca sono stati pubblicati nel 1991 in un numero speciale della “Review(Fernand Braudel Center)”.

9 EDUARD BERNSTEIN, I presupposti del socialismo e i compiti dellasocialdemocrazia, Laterza, Bari 1968, p. 203.

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Capitolo 3

Le disuguaglianze mondiali*

La tesi di questo articolo è che i grandi sconvolgimenti politici deinostri giorni – dall’Europa orientale e dall’Urss fino al Medio Oriente –hanno avuto origine da una trasformazione radicale della strutturasociale dell’economia-mondo, combinata con l’approfondirsi della disu-guaglianza di reddito tra le regioni e gli Stati in cui l’economia-mondo siarticola. La trasformazione radicale a cui mi riferisco è iniziata pocodopo la fine della Seconda guerra mondiale, ha subito un’accelerazionedurante gli anni Sessanta e ha perso vigore alla fine degli anni Settanta enegli anni Ottanta. Come ha scritto Eric Hobsbawm “il periodo dal1950 al 1975…ha visto il cambiamento sociale più spettacolare, rapido,notevole, profondo e a scala mondiale della storia… [Questo] è il primoperiodo in cui i contadini sono diventati una minoranza, non soltantonei paesi industriali avanzati, in molti dei quali erano ancora rimastinumericamente forti, ma anche in paesi del Terzo mondo”1. Il cambia-mento in questione ha oltrepassato le divisioni Est-Ovest e Nord-Sud edè stato, in prima istanza, il risultato di iniziative volte a ridurre il divarioche, intorno al 1950, separava il benessere delle popolazioni situate nellazona privilegiata del sistema-mondo (l’Ovest/Nord) dalla povertà asso-luta o relativa dei popoli delle zone svantaggiate (l’Est/Sud). La piùimportante di queste iniziative è stato l’impegno per lo sviluppo econo-mico da parte dei governi. Incorporando nei loro territori alcuni deitratti caratteristici delle nazioni ricche, come l’industrializzazione ol’urbanizzazione, i governi speravano di cogliere il segreto del loro suc-cesso, e raggiungerle in ricchezza e potere. Ugualmente importanti,come elementi complementari o sostitutivi delle politiche dei governi,sono state le azioni intraprese da organizzazioni private e individui –come le migrazioni dei lavoratori, di capitali e di risorse imprenditorialiattraverso i confini nazionali.

Malgrado il successo di singoli casi, questa strategia ha fallito nel ten-tativo di promuovere una più equa distribuzione della ricchezza all’inter-no dell’economia-mondo capitalistica. Pochi Stati sono riusciti a spostareparte della ricchezza mondiale nella propria direzione e molti individuihanno ottenuto lo stesso risultato muovendosi oltre le frontiere. Ma i suc-cessi di pochi Stati o di molti individui non hanno modificato la comples-

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Nel concentrarmi sulle disuguaglianze persistenti e sempre piùprofonde nella distribuzione del reddito nell’economia-mondo capitali-stica, voglio sottolineare che – a parte poche eccezioni – l’industrializza-zione non ha mantenuto le sue promesse. C’è stata moltissima industria-lizzazione (e ancora più urbanizzazione), con costi umani e ambientaliincalcolabili per la maggior parte delle persone coinvolte. Ma c’è statoben poco avvicinamento agli standard di ricchezza dei paesi dell’Occi-dente. Perciò l’industrializzazione o, più in generale, la modernizzazionenon ha mantenuto ciò che aveva promesso, e questo fallimento è allaradice dei gravi problemi affrontati oggi dalla maggior parte degli Statidell’Est e del Sud. Questi problemi non sono né locali né congiunturali,sono sistemici e strutturali. Sono problemi del sistema-mondo a cuiappartengono tanto l’Ovest/Nord, quanto l’Est e il Sud. Previsioni eprogetti sul futuro del socialismo in un Ovest/Nord ignaro delle originie delle conseguenze sistemiche di questi problemi, sono nel migliore deicasi irrilevanti e nel peggiore pericolosamente fuorvianti.

1. GLI STANDARD DEL SUCCESSO E DEL FALLIMENTO ECONOMICO

Che cosa intendiamo quando diciamo che il comunismo ha “falli-to” nell’Europa orientale e nell’Urss, o che il capitalismo ha avuto ”suc-cesso” in Giappone e altrove nell’Asia orientale? Naturalmente, ciascu-no può intendere cose differenti. Tuttavia, si è venuto consolidando unostandard più o meno universale in base al quale valutiamo la performan-ce dei regimi politici ed economici del mondo. Questo standard è la ric-chezza dell’Ovest/Nord – non di una regione o di uno Stato particolarein cui si articola l’Ovest/Nord, ma dell’Ovest/Nord come insieme diunità statali differenziate, impegnate in una cooperazione e competizio-ne reciproca.

Le sorti di queste unità sono soggette ad alti e bassi, che contanomolto in queste aree, ma che appaiono irrilevanti – e giustamente – se sitratta di valutare le prestazioni degli Stati e delle regioni che non appar-tengono, o non appartenevano fino a poco tempo fa, all’insieme Ove-st/Nord. È a Svezia, Germania, Francia, Gran Bretagna, Stati uniti,Canada o Australia che ci riferiamo quando diciamo che il comunismoha fallito nell’Europa orientale e che il capitalismo ha avuto successo inGiappone? A tutti questi in generale, naturalmente, ma a nessuno inparticolare. Ciò a cui ci riferiamo, consapevolmente o meno, è una sortadi media o standard composito di ricchezza che ciascuna regione e Stato

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siva gerarchia della ricchezza. Al contrario, dopo più di trent’anni di sforzidi tutti i tipi per lo “sviluppo”, il divario che separa i redditi dell’Est e delSud da quelli dell’Ovest e del Nord è più ampio di prima.

Così negli anni Ottanta, gli Stati dell’Est e del Sud si son venuti atrovare in questa situazione: sono riusciti a incorporare alcuni elementidella struttura sociale dei paesi più avanzati, attraverso i processi dimodernizzazione, ma non a internalizzare la loro ricchezza. Di conse-guenza, i governi e i gruppi dominanti di questi paesi non dispongonodei mezzi per soddisfare le aspettative e accogliere le richieste delle forzesociali che essi stessi hanno contribuito a creare attraverso il processo dimodernizzazione. La ribellione di queste forze apre una crisi generaledelle pratiche e delle ideologie dello sviluppo. La crisi del comunismonell’Europa orientale e in Urss non è che un lato della medaglia dellacrisi generale dell’ideologia dello sviluppo. L’altro lato è la crisi dellavariante capitalistica dello sviluppo – una crisi che è particolarmentevisibile con l’ascesa del fondamentalismo islamico nel Medio Oriente enel Nord Africa, e che tuttavia si manifesta, in una forma o nell’altra, intutto il Sud del mondo.

In ciò che segue mi concentrerò sulla crescente disuguaglianza nel-la distribuzione globale del reddito, perché, a mio parere, quest’ultimasta rapidamente diventando la questione centrale dei nostri tempi. Daròper acquisito che i processi di urbanizzazione e industrializzazione sonoormai largamente diffusi nel Sud del mondo e che numerosi paesi delTerzo mondo hanno avuto una rapida industrializzazione. Ma non assu-merò, come fanno in molti, che ”industrializzazione” e “sviluppo” sianola stessa cosa.

Quest’ultimo punto di vista è così radicato da essere rimasto indi-scusso anche dopo la recente ondata di deindustrializzazione che hainvestito alcuni tra gli Stati occidentali più ricchi e potenti. Questi Staticontinuano a essere identificati come “industriali” o “industrializzati”,mentre la corrispondente rapida industrializzazione di Stati più povericontinua a essere ritenuta equivalente allo “sviluppo”. Questa concezio-ne oscura il fatto che l’industrializzazione è stata perseguita non comefine in sé, ma come strumento per conseguire maggiori livelli di ricchez-za. Se l’industrializzazione rappresenti o meno lo “sviluppo” dipendedal fatto se sia stata o meno un mezzo efficace per raggiungerlo. Comeabbiamo mostrato altrove, l’efficacia dell’industrializzazione in terminidi creazione di ricchezza all’interno nell’economia-mondo è diminuitaman mano che si estendeva, fino a quando i suoi benefici, in media,sono diventati negativi2.

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TABELLA 1PRESTAZIONI ECONOMICHE COMPARATE IN OCCIDENTE (CENTRO ORGANICO)

Note: 1. Le cifre rappresentano il rapporto tra il Pnl pro-capite di ciascuna regione e il Pnl pro-capitedell’insieme delle tre regioni moltiplicato per cento. Tra parentesi la percentuale della popola-zione della regione rispetto alla popolazione totale dell’insieme delle tre regioni.2. L’Europa occidentale è composta da Benelux e Paesi scandinavi, Germania (Ovest), Austria,Svizzera, Francia e Regno Unito. L’America settentrionale è composta da Stati uniti e Canada.

Fonti: I Pnl pro-capite delle regioni sono stati calcolati in base ai dati forniti in W.S. Woytinsky e E.S.Woytinsky, World Population and Production: Trends and Outlook, New York 1953, per il1938 e il 1948; e da World Bank, World Development Report, Washington D.C. 1982 e 1990,e World Tables, voll. 1 e 2, Washington D.C. 1984, per gli altri anni.

Questa traiettoria riflette ben note tendenze dell’economia-mondocapitalistica durante il periodo preso in considerazione. L’iniziale espan-sione del divario rispecchia “il grande balzo in avanti” dell’economiadell’America settentrionale nel corso della Seconda guerra mondiale enell’immediato dopoguerra. Grazie a questo balzo in avanti l’Americasettentrionale si è collocata davanti a tutte le altre regioni dell’economia-mondo – Europa occidentale compresa. È stato fissato in questo modoun nuovo e più elevato standard di ricchezza ed è iniziata una corsa ser-rata per raggiungerlo. Nel perseguire questo obiettivo, gli Statidell’Europa occidentale, avvalendosi di una considerevole assistenzafinanziaria e istituzionale da parte della nuova potenza egemonica (gliStati uniti), hanno ristrutturato rapidamente le loro economie nazionalia immagine e somiglianza dell’economia dell’America settentrionale.

Come mostrato dalla tabella 1, l’inseguimento ha avuto successo. Nel1970 il divario di reddito che separava l’Europa occidentale dall’America

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dell’Ovest/Nord ha goduto in qualche modo da lungo tempo, anche senon sempre in egual misura, e per tutto il tempo.

Al fine di valutare in maniera meno incerta del solito successi e fal-limenti nell’economia-mondo, prenderò come indicatore di questo stan-dard composito il Prodotto nazionale lordo (Pnl) pro-capite di ciò chechiamerò il “centro organico” dell’economia-mondo capitalistica. Per inostri scopi, definisco come “centro organico” tutti quegli Stati chenell’ultimo mezzo secolo hanno occupato le posizioni più alte nellagerarchia globale della ricchezza e, in virtù di questa posizione, hannofissato (individualmente o collettivamente) gli standard di ricchezza chei loro governi hanno cercato di mantenere e che gli altri governi hannocercato di raggiungere.

Questi Stati appartengono a tre regioni geografiche distinte. La piùsegmentata delle tre, culturalmente e politicamente, è l’Europa occiden-tale – definita qui come Regno Unito, Paesi scandinavi, Belgio, Olanda,Lussemburgo, ex Germania Ovest, Austria, Svizzera e Francia. Gli Statial margine occidentale e meridionale della regione (Irlanda, Portogallo,Spagna, Italia e Grecia) non sono stati inclusi nel centro organico per-ché per gran parte degli ultimi cinquant’anni sono stati “parenti poveri”degli Stati più ricchi dell’Europa occidentale ? ?parenti poveri” che nonhanno contribuito a fissare uno standard globale di ricchezza, e che han-no lottato essi stessi con più o meno successo, per mezzo dei loro gover-ni, per raggiungere i livelli goduti dai loro vicini. Le altre due regioniincluse nel centro organico sono meno segmentate culturalmente e poli-ticamente. Una è l’America settentrionale (Stati uniti e Canada) e l’altra– piccola per popolazione ma vasta per territorio – è costituita daAustralia e Nuova Zelanda.

La tabella 1 mostra, scegliendo come termini di riferimento alcunianni dell’ultima metà del secolo, il Pnl pro-capite di ognuna di questetre regioni come percentuale del Pnl pro-capite del centro organico,cioè dell’insieme di queste regioni prese insieme. Tra parentesi, la tabellamostra anche la percentuale della popolazione di ogni regione rispettoal totale della popolazione del centro organico. Il dato più importanteche emerge dalla tabella è il forte allargamento, seguito da una costanteriduzione e infine dalla chiusura, del divario di reddito tra l’America set-tentrionale e l’Europa occidentale – le due regioni in cui si è concentratala maggior parte della popolazione dell’Ovest/Nord.

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2. MIRACOLI E MIRAGGI

Le dottrine filo-capitalistiche sostengono, in aggiunta, che il picco-lo gruppo di nazioni che fissa gli standard di ricchezza nell’economia-mondo è un “club” aperto a cui ogni nazione si può unire, se sa mostra-re il proprio valore con appropriate strategie e politiche di sviluppo.Questa credenza è stata rafforzata dall’esistenza di alcuni casi vistosi dimobilità ascendente nella gerarchia globale della ricchezza – casi chesono stati in verità così pochi da meritare il titolo di “miracoli economi-ci”. Quanti sono stati questi miracoli? E quanto “reali”? Come si con-frontano l’uno con l’altro?

La tabella 2 ci fornisce una visione d’insieme degli esempi piùimportanti dei reali o presunti ”miracoli economici”. Mostra – per glistessi anni della tabella 1 – il Pnl pro-capite dei luoghi considerati comepercentuale del Pnl pro-capite del centro organico. Tra parentesi, latabella indica inoltre la percentuale della popolazione di questi luoghirispetto alla popolazione totale del centro organico.

TABELLA 2“MIRACOLI ECONOMICI” COMPARATI

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settentrionale era tornato ai livelli del 1938, per scomparire del tutto nel1980. La tabella in realtà mostra che nel 1980 il reddito pro-capitedell’Europa occidentale superava quello dell’America settentrionale, ma nelcorso degli anni Ottanta è di nuovo arretrato rispetto ad esso. Questi recen-ti alti e bassi nel rapporto fra le regioni dell’Europa occidentale e dell’Ame-rica settentrionale sono largamente dovuti alle fluttuazioni del dollarorispetto alle valute dell’Europa occidentale. Se queste fluttuazioni sianosemplici aggiustamenti ciclici che segnano la fine del processo di insegui-mento dei trent’anni precedenti, o se siano un segno di cambiamenti strut-turali che preludono a una nuova e importante divaricazione delle sorti del-le due regioni, come accaduto tra il 1938 e il 1948, è una questione che esu-la dallo scopo di questo articolo. Per i nostri fini, è sufficiente dire chedurante l’ultima metà del secolo le disuguaglianze di reddito tra le regionidel centro organico non sono mai state ridotte come negli anni Ottanta.

Questa conclusione tiene anche se si prende in considerazione latraiettoria più irregolare della regione australiana – demograficamentedi gran lunga la meno significativa delle tre. Nel 1938 questa regione erala più ricca del centro organico. Come l’Europa occidentale, sperimentòun forte peggioramento della sua posizione rispetto all’America setten-trionale tra il 1938 e il 1948, ma, diversamente dall’Europa occidentale,ha continuato a perdere terreno tra il 1948 e il 1960. Dopo il 1960 la suaposizione relativa ha iniziato a migliorare ma, dopo il 1980, è nuova-mente peggiorata. Essendo partita come la più ricca tra le regioni piùricche, la regione costituita da Australia e Nuova Zelanda ha finito perdivenire la più povera delle tre nel 1988.

Questa traiettoria irregolare non modifica, comunque, la conclusioneper cui durante l’ultimo mezzo secolo i differenziali di reddito tra le regionidel centro organico dell’economia-mondo non sono mai stati tanto ridottiquanto negli anni Ottanta. Così, il rapporto tra il Pnl pro-capite più alto equello più basso delle tre regioni è stato di 1,6 nel 1938, di 2,6 nel 1948, di2,1 nel 1960, di 1,7 nel 1970, di 1,3 nel 1980 e di 1,6 nel 1988. In sintesi, selimitiamo la nostra attenzione alle regioni più ricche dell’economia-mondo,sembrano venir confermate alcune delle più importanti affermazionidell’ideologia filo-capitalistica. Solo una volta, infatti, in cinquant’anni èavvenuta una rilevante crescita delle disuguaglianze di reddito, e questacrescita – spronando i paesi ritardatari a competere più efficacemente – haattivato forze che nel tempo hanno ridotto tali disuguaglianze. Inoltre,all’interno di questa fascia ristretta e stabile di disuguaglianze, sembra ci siastata una considerevole mobilità ascendente e discendente. L’ultimo è difatto potuto diventare il primo e il primo l’ultimo.

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Questo “comando” diseguale sulle risorse tra due luoghi dell’eco-nomia-mondo non deve essere confuso con la nozione di “scambio ine-guale” di Emmanuel3. Almeno in linea di principio, un rapporto di“comando” economico diseguale può esistere e persistere tra due luoghiin assenza di qualsiasi relazione di scambio ineguale nel senso di Emma-nuel; e lo scambio ineguale può diventare un fattore che mette a repen-taglio i rapporti economici diseguali4. Quale che sia il rapporto tra que-sti due tipi di disuguaglianza in un particolare momento e luogo, il“comando” economico relativo misurato dal nostro indicatore non èespressione dello scambio ineguale come tale, ma della totalità dei rap-porti di potere (politici, economici e culturali) che hanno privilegiato gliabitanti del centro organico nei loro affari diretti o indiretti con gli abi-tanti delle regioni e degli Stati al di fuori del centro.

Volgendoci ora ai dati della tabella 2, il primo paese che vi trovia-mo, il miracolo dei miracoli, è il Giappone. Il nostro indicatore ci forni-sce un’immagine vivida del successo giapponese. Mostra sia la straordi-naria distanza economica percorsa dal Giappone, sia la straordinariavelocità con cui il divario è stato colmato. Con un Pnl pro-capite legger-mente superiore a un quinto (il 20,7%) del Pnl pro-capite del centroorganico già nel 1938, il Giappone era parte del gruppo degli Stati amedio reddito (semiperiferici). Nel 1988, invece, il Pnl pro-capite delGiappone era superiore di quasi del 20% alla media del Pnl pro-capitedel centro organico. Questa ascesa è sorprendente soprattutto per il fat-to che, tra il 1938 e il 1948, il Pnl pro-capite giapponese è precipitatodal 20,7% al 14,5% del Pnl pro-capite del centro organico. Perciò, insoli quarant’anni il Giappone ha raggiunto e superato lo standard di ric-chezza delle regioni il cui Pnl pro-capite era quasi sette volte più altorispetto al proprio.

Il paese successivo nella lista è la Corea del Sud – demografica-mente la più grande tra quelle che sono state soprannominate le “quat-tro Tigri”. Le altre tre “Tigri asiatiche” non sono elencate, o per unamancanza di dati comparabili (come nel caso di Taiwan, per il qualenessuna delle fonti fornisce dati), o per il fatto di essere città-Stato(Hong Kong e Singapore), la cui performance economica non può esse-re valutata se non all’interno delle economie regionali di cui sono com-ponente essenziale.

Si dice spesso che la Corea del Sud sia sulla strada di replicarel’impresa del Giappone. Potrebbe essere così, ma i dati della tabella 2invitano alla cautela. Diversamente dal Giappone, la Corea del Sud hainiziato a guadagnare terreno rispetto allo standard di ricchezza del cen-

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Note:Le cifre presentano il rapporto tra il Pnl pro-capite dello Stato e il Pnl pro-capite del centro orga-nico (si veda la tabella 1) moltiplicato per cento. Tra parentesi la percentuale della popolazionedello stato rispetto alla popolazione totale del centro organico.n.d. = non disponibile

Fonti: si veda la Tabella 1.

Per evitare fraintendimenti, precisiamo subito che non consideria-mo il reddito pro-capite relativo – misurato dal rapporto tra i diversi Pnlpro-capite – come un indicatore valido e affidabile del benessere degliabitanti della regione o dello Stato a cui il rapporto si riferisce rispetto aquello degli abitanti del centro organico. Perciò, quando diciamo che ilPnl pro-capite del Brasile è stato per gran parte dell’ultima metà delsecolo approssimativamente un ottavo (il 12% circa) del Pnl pro-capitedel centro organico – come mostra la tabella 2 ? non stiamo affermandoche il benessere degli abitanti del Brasile è stato otto volte inferiore aquello degli abitanti del centro organico. Potrebbe essere stato maggioreo minore di quello a seconda di un certo insieme di circostanze – comele differenze nella distribuzione dei redditi o nei costi umani e socialirichiesti dalla produzione di un dato reddito; circostanze su cui il nostroindicatore non dice nulla. Né consideriamo i rapporti tra i Pnl pro-capi-te come indicatori validi e affidabili della produttività media degli abi-tanti della regione o Stato a cui il rapporto si riferisce, rispetto alla pro-duttività media degli abitanti del centro organico. Anche da questo pun-to di vista, se la produttività media degli abitanti del Brasile sia o norimasta pari a un ottavo della produttività media degli abitanti del cen-tro dipende da circostanze – come i cambiamenti nelle ragioni di scam-bio, nei tassi di tassi di cambio, nel potere di ottenere redditi da abitantidi altri Stati, nei flussi di denaro in entrata o in uscita dalla regione e dal-lo Stato, e così via – su cui il nostro indicatore non dice nulla.

Ciò di cui il rapporto fra i diversi Pnl pro-capite è un indicatore –il miglior indicatore immediatamente disponibile – è il controllo che gliabitanti di una determinata regione o Stato hanno sulle risorse umane enaturali del centro organico rispetto al controllo che gli abitanti del cen-tro organico hanno sulle risorse umane e naturali della stessa regione oStato. Pertanto, il nostro indicatore ci dice che il controllo che gli abi-tanti del Brasile hanno in media sulle risorse umane e naturali del centroorganico è – e lo è stato per gran parte degli ultimi cinquant’anni – circaotto volte inferiore al controllo che in media gli abitanti del centro orga-nico hanno sulle risorse umane e naturali del Brasile.

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La caratteristica più stupefacente della traiettoria brasiliana, comemostra il nostro indicatore, è che è stata assolutamente e quasi ininter-rottamente piatta. Dal 1938 al 1970 il Pnl pro-capite del Brasile è rima-sto fermo al 12% circa di quello del centro organico. Tra il 1970 e il1980 è salito al 17,5%, ma nel 1988 è tornato al suo solito 12%. È statoquesto balzo in avanti transitorio che nei tardi anni Settanta portò moltiad affermare che un nuovo miracolo economico fosse allora in corso inBrasile e che, grazie ad esso, il Brasile avrebbe raggiunto gli standard diricchezza del centro organico.

Il balzo in avanti non fu altro che un lieve salto in una traiettoriaaltrimenti piatta. Tuttavia, non dovremmo essere troppo frettolosi neldichiarare che il miracolo brasiliano sia stato solo un “miraggio”. Certo,in confronto ai miracoli stile giapponese – o anche italiano e coreano –le traiettorie del Brasile e della Spagna sembrerebbero ritrarre un picco-lo fallimento, piuttosto che un grande successo. Questa valutazione sibasa tuttavia su una visione distorta di quello che è stato un risultatonormale nell’economia-mondo capitalistica degli ultimi cinquant’anni.Prima di dare un giudizio sulla performance apparentemente poco bril-lante del Brasile e della Spagna, dobbiamo perciò ampliare l’orizzontedelle nostre osservazioni per includervi le regioni in cui vive la maggio-ranza della popolazione mondiale.

3. L’ALLARGAMENTO DEL DIVARIO DI REDDITO TRA RICCHI E POVERI

Dalla tabella 3 (costruita allo stesso modo della tabella 2) emergel’immagine di un allargamento delle già rilevanti differenze di redditoche cinquant’anni fa separavano i popoli del Sud da quelli del centroorganico dell’economia-mondo capitalistica. Tali differenze si sonoampliate in modo molto diseguale nello spazio e nel tempo, come vedre-mo, ma la tendenza generale di lungo termine è inequivocabile: la gran-de maggioranza della popolazione mondiale è rimasta sempre più indie-tro rispetto agli standard di ricchezza dell’Occidente.

Questo peggioramento generale della situazione economica non hacolpito indistintamente tutte le regioni considerate nella tabella 3. Se cilimitiamo a considerare le aree per cui abbiamo dati sia per il 1938 siaper il 1988, il peggioramento minore è avvenuto in America latina (sia seincludiamo o escludiamo il Brasile), e quello più grave si è verificatonell’Asia meridionale, seguita dall’Africa meridionale e centrale. Piùspecificatamente, tra il 1938 e il 1988 i differenziali di reddito tra le aree

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tro organico solo negli anni Settanta e Ottanta. Inoltre, la sua ascesa haavuto inizio da un livello di reddito pro-capite molto più basso rispettoa quello del Giappone. Il risultato è che nel 1988 la posizione dellaCorea del Sud rispetto al centro organico era analoga a quella che ilGiappone aveva cinquant’anni prima, nel 1938. Di conseguenza – perquanto notevole da altri punti di vista – l’ascesa economica della Coreadel Sud ha ancora davanti a sé una lungo cammino prima che si possaaffermare che essa abbia replicato il successo giapponese. Se disponessi-mo di dati comparabili, è possibile che Taiwan avrebbe mostrato risulta-ti analoghi, o anche migliori, della Corea del Sud. In ogni caso, dovrem-mo ricordare che il miracolo economico sudcoreano (e ancor di piùquello taiwanese) ha migliorato le condizioni di una massa di popolazio-ne molto più ridotta di quella giapponese.

Il secondo gruppo di miracoli economici citati nella tabella 2riguarda i due paesi più grandi dell’Europa meridionale: l’Italia e la Spa-gna. Negli anni Ottanta l’Italia è stata talvolta definita il “Giapponedell’Europa” e la Spagna è stata considerata dai paesi dell’Europa orien-tale (particolarmente in Polonia) come un esempio di ciò che il paeseavrebbe potuto diventare se non ci fosse stato il sistema comunista. Unconfronto tra gli indicatori italiani e giapponesi rivela in effettiun’importante analogia tra le loro traiettorie: entrambe sono declinatenotevolmente tra il 1938 e il 1948, e salite in modo costante fino aglianni Ottanta. La differenza principale – a parte il peso demograficomaggiore del Giappone – è che la traiettoria italiana è più piatta di quel-la giapponese: inizia a un livello più alto (32 contro 20,7%) e termina aun livello più basso (74,8 contro 117,9%). L’Italia perciò non ha mairaggiunto (né tantomeno superato, come ha fatto il Giappone) lo stan-dard di ricchezza del centro organico. Tuttavia, nel 1988 l’Italia eradiventata più ricca delle regioni più povere del centro organico (Austra-lia e Nuova Zelanda), e il suo Pnl pro-capite era solo il 25% inferiore aquello del centro organico nel suo complesso.

La traiettoria spagnola è ancora più piatta di quella italiana. Crollasensibilmente tra il 1938 e il 1948, sale tra il 1960 e il 1980, e diminuisceleggermente negli anni Ottanta. Da queste fluttuazioni risulta che nel1988 il Pnl pro-capite della Spagna in percentuale del Pnl pro-capite delcentro organico era pressappoco lo stesso del 1938 (43,4% contro41,6%). Da questo punto di vista il miracolo spagnolo – quale esso sia –non assomiglia tanto a quello giapponese, quanto invece al “miracolo”brasiliano, oggetto di attenzione nei tardi anni Settanta, per poi essereconsiderato come un “miraggio” negli anni Ottanta.

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TABELLA 3PRESTAZIONI ECONOMICHE COMPARATE NEL “SUD”

Note:1. I dati presentano il rapporto tra il Pnl pro-capite della regione o dell’area e il Pnl pro-capitedel centro organico moltiplicato per cento. Tra parentesi la percentuale della popolazione dellaregione (o aggregato) rispetto alla popolazione del centro organico.2. L’aggregato I comprende: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Repubblica Domenica-na, Ecuador, El Salvador, Giamaica, Messico, Paraguay, Perù, Venezuela. L’aggregato II com-prende: Algeria, Egitto, Libia, Sudan, Siria e Turchia. L’aggregato III.1 comprende: Benin,Burundi, Camerun, Ciad, Etiopia, Costa d’Avorio, Kenia, Madagascar, Malawi, Mali, Maurizia-na, Mozambico, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Somalia, Tanzania, Burkina Faso. L’aggregato

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citate nella tabella 3 e il centro organico – come risulta dal rapporto trail Pnl pro-capite del centro organico e il Pnl pro-capite di ciascuna diqueste aree – sono aumentati di un fattore di 1,8 nel caso dell’AmericaLatina (di 2,4 se escludiamo il Brasile), di 2,6 nel caso del Sudest asiatico(come risulta dall’aggregato di Indonesia e Filippine), di 2,7 nel caso delMedio Oriente e del Nord Africa (come risulta dall’aggregato di Tur-chia e Egitto), di 4,1 nel caso dell’Africa meridionale e centrale e di 4,6nel caso dell’Asia meridionale.

Le irregolarità nel peggioramento delle posizioni economiche rela-tive delle regioni povere del mondo hanno portato, negli ultimi cin-quant’anni, ad allargare i differenziali di reddito tra le stesse regionipovere. Così, il rapporto tra il Pnl pro-capite più alto e quello più bassodelle cinque aree prese in considerazione era di 4,2 nel 1938, di 4,6 nel1960, di 5,5 nel 1970, di 9,9 nel 1980 e di 5,9 nel 1988 (non sappiamoquale fosse il rapporto nel 1948 perché non vi sono dati disponibili perl’aggregato del Sudest asiatico, che a quel tempo aveva presumibilmenteil reddito pro-capite più basso di tutte e cinque le unità. Tuttavia, si puòsupporre che tra il 1938 e il 1948 l’indice del Sudest asiatico non abbiasubito una caduta sufficiente [27% o più] a far salire il rapporto in que-stione sopra il suo valore del 1938).

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sembrare e sentire più povere di quanto fossero nel 1938 tutte le altreregioni dell’economia-mondo – incluse le regioni tradizionalmente ric-che come l’Europa occidentale. È vero che le distruzioni e gli sconvolgi-menti della Seconda guerra mondiale avevano impoverito molte regionie molti paesi non solo in termini relativi, ma anche in termini assoluti.Ma le regioni del Sud non andavano peggio, né in termini assoluti né intermini relativi, delle regioni del centro diverse dall’America settentrio-nale o dei paesi che hanno poi registrato “miracoli economici”. Al con-trario, in termini comparati, ebbero buoni risultati. Tutti gli indicatoridella tabella 3 sono diminuiti tra il 1938 e il 1948 – l’America Latina del27% (32% se escludiamo il Brasile), l’Africa meridionale e centrale del26%, il Medio Oriente e il Nord Africa del 13% e l’Asia meridionaledell’8%. Ma queste riduzioni sono dello stesso ordine o più piccole del-le contrazioni degli indicatori dell’Europa occidentale (32%), Australiae Nuova Zelanda (37%), Giappone (30%), Italia (29%) e Spagna(56%) (calcolati dalle tabelle 1 e 2).

Fissando un nuovo e più elevato standard di ricchezza nell’econo-mia-mondo, il grande balzo in avanti dell’economia dell’America setten-trionale ha preparato il terreno per le politiche per lo sviluppo deitrent’anni successivi. La stessa nuova potenza egemonica (gli Stati uniti)proclamava che sotto la sua guida sia le nazioni vecchie che quelle nuo-ve avrebbero potuto raggiungere i suoi standard, naturalmente a pattoche seguissero al meglio la via americana alla prosperità economica.Come poi definita nel “Manifesto non-comunista” di W. W. Rostow,questa dottrina sosteneva che le nazioni attraversano una serie di stadidi sviluppo politico ed economico sostanzialmente simili – stadi cheportano dalla povertà delle economie tradizionali alla prosperità delconsumo di massa. La maggior parte delle nazioni attraversava ancora iprimi stadi dello sviluppo, ma l’adesione ai principi della libera impresaavrebbe alla fine assicurato che tutte le nazioni avrebbero raggiunto lostadio del consumo di massa5.

Le varianti di questa dottrina hanno fornito il cemento ideologicoall’ordine mondiale statunitense, fino a quando la dottrina stessa nonvenne tacitamente abbandonata negli anni Ottanta. Per circa trent’anni,le nazioni del Terzo mondo vennero continuamente spinte a realizzarepolitiche per lo sviluppo, con l’obiettivo di raggiungere gli standard diconsumo di massa goduti dalla popolazione dell’America settentrionalee, in maniera crescente, dell’intero Occidente, che era arrivato a inclu-dere il Giappone come membro onorario. Ci furono diversi successiparziali e temporanei, come testimoniato dai miglioramenti negli indica-

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III.2 comprende: Sudafrica, Zaire, Zambia e Zimbabwe. L’aggregato IV comprende: Bangladesh,India, Pakistan e Sri Lanka. L’aggregato V comprende: Indonesia, Malesia, Filippine, Thailan-dia e Singapore.n.d. = non disponibile

Fonti: Si vedano le tabelle 1 e 2.

In breve, durante gli ultimi cinquant’anni le disuguaglianze di red-dito tra le regioni più povere dell’economia-mondo hanno seguito unandamento che in alcuni aspetti chiave è l’opposto di quello seguito dal-le disuguaglianze di reddito tra le regioni ricche (si veda la sezione 1).Tra il 1938 e il 1948, quando le disuguaglianze di reddito tra le regionipiù ricche sono aumentate notevolmente, quelle fra le regioni più pove-re sono rimaste probabilmente uguali o sono diminuite. Tra il 1948 e il1980, invece, quando le disuguaglianze tra le regioni più ricche si sonoprogressivamente ridotte, quelle tra le regioni più povere sono cresciutesistematicamente. E tra il 1980 e il 1988, quando le disuguaglianze tra leregioni più ricche sono aumentate, quelle tra le regioni più povere sonodiminuite notevolmente. Come risultato di questi movimenti opposti, latendenza delle disuguaglianze di reddito negli ultimi cinquant’anni èstata alla riduzione tra le regioni ricche, e all’aumento tra le regioni piùpovere.

Il crescente divario di reddito tra ricchi e poveri si è realizzato inmodo estremamente irregolare non solo nello spazio, ma anche nel tem-po. La gran parte delle perdite del Sud rispetto all’Ovest sono concen-trate nei primi e negli ultimi decenni dei cinquant’anni presi in conside-razione. Solo una regione (l’Asia meridionale) ha sperimentato nell’ulti-mo cinquantennio un deterioramento costante e ininterrotto della suaposizione economica rispetto al centro organico. Prima o poi, tutte lealtre regioni hanno avuto un’inversione di tendenza: l’America Latinanel 1948-60 e di nuovo nel 1970-80, l’Africa meridionale e centrale nel1960-70, e tutte le altre regioni (a eccezione dell’Asia meridionale) nel1970-80. Ma nessuna regione ha migliorato la sua posizione rispetto alcentro organico tra il 1938 e il 1948 o tra il 1980 e il 1988. Durante que-sti due periodi, tutte le regioni considerate nella tabella 3 hanno persoterreno rispetto allo standard di ricchezza del centro organico e, inmedia, le perdite sono state molto più pesanti in questi due periodi chein ogni altro.

Le perdite del periodo 1938-48 sono in gran parte un riflesso delgrande balzo in avanti dell’economia dell’America settentrionale in que-sto decennio (si veda la sezione 1). Nel 1948, questo balzo in avanti fece

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tori, la diffusione di organizzazioni di base di mutuo aiuto, i movimentireligiosi radicati tra i poveri (come lo sciismo nel mondo islamico o lateologia della liberazione in America Latina), i movimenti per i dirittiumani e per la democrazia, sembrano avere poco in comune fra di loro.Tuttavia, nel corso dell’ultimo decennio sono stati tutte varianti dellaresistenza dei popoli del Terzo Mondo contro le ideologie e le pratichedello sviluppo che hanno imposto costi umani e sociali esorbitanti aigruppi e alle classi subalterne, senza mantenere quanto avevano origina-riamente promesso.

Stretto fra le sfide provenienti dall’alto e dal basso, un numero cre-scente di governi del Terzo Mondo è stato spinto a rinunciare alle strate-gie di sviluppo e ad accontentarsi – più o meno a malincuore – di unaposizione subordinata nella gerarchia globale della ricchezza. Oggi sonoveramente in pochi, fra coloro che sono al governo nel Sud – come alNord –, a credere ancora alla favola del “Manifesto non-comunista” diRostow. La maggioranza di loro sa – anche quando non lo ammettono –che i paesi del mondo non stanno procedendo tutti sulla stessa stradadel consumo di massa. Al contrario, hanno posizioni diverse in una rigi-da gerarchia della ricchezza, in cui l’occasionale ascesa di una nazione odue lascia tutte le altre ancora più fermamente bloccate ai loro punti dipartenza.

La legittimazione di questa dura realtà nella mente e nei cuori deipopoli condannati a restare ai gradini più bassi della gerarchia globaledella ricchezza – popoli che costituiscono la stragrande maggioranza delgenere umano – è e resta problematica. Per il momento, la legittimazio-ne delle enormi disuguaglianze di reddito che sono emerse negli anniOttanta è stata facilitata dalla percezione generale della crisi dell’ideolo-gia dello sviluppo, crisi che è stata assunta come segno del fallimentonon del capitalismo storico come sistema-mondo, ma dei suoi opposito-ri – innanzitutto del comunismo e, di riflesso, del socialismo. Guardia-mo ora alla natura e alle origini di questa percezione.

4. IL FALLIMENTO DEL COMUNISMO IN UNA PROSPETTIVA STORICO-MONDIALE

Come modello di governo, il comunismo ha fallito sotto moltiaspetti. Generalmente si pensa però che il suo più grande fallimento siastato economico – l’incapacità di creare nei propri territori un’abbon-danza di risorse comparabile a quella esistente in Occidente. La scarsitàdi dati confrontabili rende difficile valutare accuratamente le dimensioni

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tori della tabella 3. Ma proprio nel momento in cui tutti gli indicatorisembravano diretti verso l’alto – più o meno nel 1980, con la sola ecce-zione dell’Asia meridionale – sono crollati tutti insieme, senza eccezioni,nel decennio successivo.

Il crollo degli anni Ottanta differisce dalla contrazione degli anniQuaranta sia quantitativamente che qualitativamente. Quantitativamen-te è stato molto più acuto. Tra il 1980 e il 1988, l’indicatore per l’Ameri-ca Latina (incluso il Brasile) è caduto del 46% (54% se escludiamo ilBrasile), quello per il Medio Oriente e il Nord Africa del 27% (31% peril più piccolo aggregato di Turchia e Egitto), quello per l’Africa occiden-tale e orientale del 66%, quello per l’Asia meridionale del 10% e quelloper il Sud-Est asiatico del 35% (50% per il più piccolo aggregato diIndonesia e Filippine). Anche se queste contrazioni si riferiscono a unperiodo di otto anni invece che di dieci, sono tutte superiori – la mag-gior parte molto superiori – delle corrispondenti contrazioni del perio-do 1938-48 citate in precedenza.

Ma la differenza più importante tra le due contrazioni è di tipoqualitativo, piuttosto che quantitativo. Come abbiamo visto, la contra-zione precedente fu soprattutto un riflesso del grande balzo in avantidell’economia dell’America settentrionale e ha segnato l’inizio dei tenta-tivi di inseguire gli standard americani di consumo. La contrazione deglianni Ottanta, invece, è stata un riflesso del collasso generale di questepolitiche, e ha segnato il loro abbandono di fronte al crescere di sfidedall’alto e dal basso.

La principale sfida dall’alto è venuta dal rovesciamento delle poli-tiche e dell’ideologia della potenza egemonica mondiale. Intorno al1980 gli Stati uniti hanno abbandonato la dottrina dello “sviluppo pertutti” a favore della dottrina secondo cui i paesi poveri avrebbero dovu-to risparmiare il più possibile per onorare il servizio del debito estero, econservare le loro credibilità come debitori. La solvibilità, invece dellosviluppo, è diventata la parola chiave. Allo stesso tempo, il governo e leimprese degli Stati uniti hanno aumentato rapidamente il proprio inde-bitamento – interno ed estero –, iniziando a competere aggressivamentecon gli Stati più poveri sui mercati finanziari mondiali.

Quest’inversione di marcia è stata probabilmente il fattore piùimportante che ha scatenato il crollo improvviso dei redditi del TerzoMondo nei primi anni Ottanta. Ma non è stato l’unico. Le politiche perlo sviluppo sono state messe in discussione non solo dall’alto, ma anchedal basso. Le sfide dal basso sono state estremamente diversificate, aseconda delle circostanze locali. Forti e persistenti agitazioni dei lavora-

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È inutile dire che il fallimento assume proporzioni catastroficheconfrontando le performance economiche dei territori con governicomunisti con i casi più notevoli di mobilità verso l’alto nel mondo capi-talistico. Così, nel 1938 il Prodotto nazionale lordo (Pnl) pro-capite delGiappone era circa la metà di quello della Jugoslavia, circa quattroquinti di quello di Ungheria e Polonia e circa cinque volte quello dellaCina. Nel 1988 era più di otto volte quello della Jugoslavia, più di diecivolte quello di Ungheria e Polonia, e più di sessantacinque volte quellodella Cina. Inoltre, per quel che possiamo giudicare dall’indicatoreUngheria e Polonia, in questo confronto – o in quello analogo con l’Ita-lia o la Spagna – le perdite degli ultimi cinquant’anni sono concentrateproprio nei quarant’anni di governo comunista (1948-88). Così, tra il1938 e il 1948 il Pnl pro-capite di Ungheria e Polonia non ha perso qua-si nulla rispetto a quello di Giappone o Italia, e ha guadagnato relativa-mente a quello della Spagna. Nei successivi quaranta anni, di contro, èdeclinato di un fattore di 13,4 rispetto al Pnl pro-capite giapponese, di5,6 rispetto a quello italiano e di 3,9 rispetto a quello spagnolo.

I confronti fatti finora conducono inevitabilmente alla conclusioneche i regimi comunisti hanno completamente fallito nel realizzare leaspettative e le promesse di superare la prosperità dell’Occidente capita-listico. Poiché non abbiamo ragioni di credere che l’Urss e gli altri paesisatellite est-europei, per i quali non sono disponibili dati confrontabili,si siano comportati molto meglio di Ungheria e Polonia o della Jugosla-via, possiamo estendere questa conclusione all’insieme dell’ ‘impero’sovietico. Ciò ammesso, non ne consegue però che, come molti pensa-no, l’insieme dell’Est – in opposizione ad alcuni dei suoi componenti –avrebbe ottenuto risultati economici migliori se solo non si fosse trovatosotto il dominio comunista.

Molti in Europa orientale e nell’Urss ritengono che il dominiocomunista abbia impedito loro di raggiungere almeno i risultati dellaSpagna, ma questa sensazione non ha fondamento fattuale, né logico.Fattualmente, essa non considera ciò che è stata la norma – contrappo-sta all’eccezione – sotto il dominio capitalistico. Logicamente, si basasulla falsa premessa che lo standard di ricchezza dell’Occidente avrebbepotuto essere generalizzato a una porzione molto più ampia della popo-lazione mondiale di quanto non sia avvenuto. Cominciamo con l’affron-tare la mancanza di fondamenti fattuali.

Come argomentato nella sezione precedente, i pochi casi di ‘mobi-lità verso l’alto’ nella gerarchia di ricchezza dell’economia-mondo capi-talistica dell’ultimo mezzo secolo sono alquanto eccezionali, e meritano

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storiche di questo fallimento. Nondimeno, le fonti a disposizioni forni-scono dati sufficienti per consentire alcune stime plausibili.

Questi dati sono stati usati per calcolare gli indicatori della tabella4, nello stesso modo di quelli delle tabelle 2 e 3. Pur essendo lacunosi,questi indicatori ci danno un’idea delle proporzioni storiche di ciò cheusualmente s’intende per fallimento del comunismo. Lungi dal raggiun-gere i livelli di ricchezza dell’Ovest, l’Est è rimasto sempre più indietro.Tra il 1938 e il 1988 il divario di reddito tra il centro organico e le trearee per cui abbiamo dati confrontabili è aumentato di un fattore di 2,3nel caso della Cina, di un fattore di 2,4 per l’aggregato di Ungheria ePolonia, e di un fattore di 2,9 per la Jugoslavia. Poiché in tutti e tre i casii regimi comunisti sono stati istituiti intorno al 1948, le loro performan-ce dovrebbero essere valutate a partire da quell’anno, piuttosto che dal1938. Sfortunatamente, i soli dati confrontabili disponibili per il 1948riguardano Ungheria e Polonia. Giudicando da questo singolo caso, laperformance è stata in qualche modo migliore nei quarant’anni deldominio comunista rispetto al più lungo periodo – la posizione econo-mica relativa è peggiorata di un fattore 1,7 in quattro decenni, contro2,4 in mezzo secolo – ma non si tratta di un risultato tale da impedirci diconcludere che i regimi comunisti abbiano fallito, non solo nel raggiun-gere gli standard di ricchezza occidentali, ma anche nel mantenere inva-riato il distacco.

TABELLA 4 PRESTAZIONI ECONOMICHE COMPARATE NELL’‘EST

Fonti: Gli indicatori sono calcolati nello stesso modo e dalle stesse fonti di quelli delle tavole 2 e 3.

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mento relativamente a ciò che hanno ottenuto nel medesimo periodo ditempo altre regioni a medio reddito che non hanno fatto ricorso allapianificazione centralizzata e non si sono distaccate dai circuiti globalidel capitale. Pianificazione centralizzata o meno, sconnessione o nonsconnessione, le regioni a medio reddito sono rimaste tali, perdendo ter-reno rispetto alle regioni ad alto reddito e guadagnandone rispetto aquelle a basso reddito.

Ciò naturalmente non significa che uno o più degli Stati in cuil’Europa orientale è stata divisa – e in cui l’Urss stessa avrebbe potutoessere divisa se fosse crollata nella Seconda guerra mondiale – nonavrebbero potuto registrare un “miracolo economico” del tipo spagnoloo brasiliano (forse, perfino della varietà giapponese o italiana) se nonfossero stati “sconnessi” negli ultimi quarant’anni. Tuttavia, se si consi-dera il grosso della popolazione della regione, non c’è alcuna ragioneper cui i territori presenti e passati del dominio comunista nell’Europaorientale e nell’Urss avrebbero potuto ottenere risultati migliori rispetto,diciamo, all’America latina, se non fossero stati con un’economia piani-ficata e sconnessa dai circuiti globali del capitale. In realtà, ci sono buo-ne ragioni per cui probabilmente non avrebbero fatto meglio di così.Prima di discuterle, confrontiamo brevemente la performance dellaCina con quella dell’Asia meridionale e sud-orientale.

Per quel che valgono i dati, questa comparazione offre prove cir-costanziali perfino più forti a supporto delle conclusioni appena rag-giunte sull’Europa orientale e altre regioni a medio reddito. Secondo lanostra fonte per il 1938, la Cina era allora di gran lunga la regione piùpovera dell’Asia. Il suo reddito pro-capite era la metà di quello dell’Asiameridionale e poco più di due terzi di quello del Sud-est asiatico, stima-to dall’aggregato di Indonesia e Filippine. Non abbiamo dati per il1948, ma poiché le distruzioni subite dalla Cina tra il 1938 e il 1948, inconseguenza dell’invasione giapponese e della guerra civile, sono statemolto più grandi di quelle subite dalle altre due aree – in particolarel’Asia meridionale – la posizione relativa della Cina alla vigilia dellacostituzione del governo comunista nel 1948 non poteva essere miglioredi quanto fosse nel 1938.

Se ciò è vero, i quarant’anni di governo comunista hanno visto ungrande miglioramento relativo rispetto all’Asia meridionale e uno mino-re (o un minimo peggioramento) rispetto al Sud-est asiatico. Nel 1988 ilPnl pro-capite cinese era lo stesso dell’Asia meridionale (contro la metà,soltanto, nel 1938 e presumibilmente nel 1948) e il 78% di quello diIndonesia e Filippine (contro il 68% nel 1938). (Poiché dal 1960 in poi

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il titolo di “miracoli economici”. La regola, per gli Stati e le regioni abasso e medio reddito, non è stata né quella di raggiungere gli standarddi ricchezza dell’Occidente (come hanno fatto Giappone e Italia) e nep-pure di mantenere la propria posizione relativa al di sotto di tali stan-dard (come Brasile e Spagna). Piuttosto, la regola è stata che (1) ladistanza tra le regioni e gli Stati poveri e quelli ricchi è aumentata e che(2) le regioni e gli Stati ricchi sono rimasti ricchi, e le regioni e gli Statipoveri sono rimasti poveri, praticamente senza alcun ricambio tra i duegruppi.

Questa regola si applica ai territori con governi comunisti tantoquanto agli altri. Un confronto tra gli indicatori delle tabelle 3 e 4 rivelache le performance economiche dei territori comunisti non sono statené migliori né peggiori di quelle delle regioni che, nel 1938 o 1948,occupavano una posizione simile nella gerarchia globale della ricchezza.Per quanto riguarda l’Europa orientale e l’Urss, tali regioni eranol’America latina (includendo o escludendo il Brasile), l’Africa centrale emeridionale – che, per un curioso caso statistico, aveva esattamente lostesso Pnl pro-capite dell’Urss sia nel 1938 sia nel 1948 – e, in misuraminore, il Medio Oriente e l’Africa del Nord, misurate dall’aggregato diTurchia ed Egitto. Per la Cina, i confronti rilevanti sono con l’Asia meri-dionale e con il Sud-Est asiatico, quest’ultimo misurato dall’aggregato diIndonesia e Filippine.

Nel primo insieme di confronti, tra il 1938 e il 1988 la Jugoslaviaha fatto peggio dell’America latina (escludendo o includendo il Brasile),più o meno lo stesso di Turchia ed Egitto e molto meglio dell’Africacentro-meridionale; e tra il 1948 e il 1988 Ungheria e Polonia hanno fat-to molto meglio sia dell’Africa centro-meridionale sia di Turchia edEgitto, solo marginalmente peggio dell’America latina, includendo ilBrasile, ed esattamente lo stesso se lo si esclude. La stabilità di lungo ter-mine del rapporto tra il Pnl pro-capite di Ungheria e Polonia e quellodell’America latina ad esclusione del Brasile colpisce in modo particola-re: il rapporto era 1,12 nel 1938, 1,14 nel 1948 e ancora 1,14 nel 1988.

Nella misura in cui questi indicatori riflettono la performancecomplessiva dell’Europa orientale e dell’Urss nel loro insieme, possiamoconcludere che il fallimento economico dei regimi comunisti in questaregione è stato tale soltanto rispetto alla promessa e all’aspettativa cheuno sviluppo centralmente pianificato e lo sforzo per “sconnettersi” daicircuiti globali del capitale avrebbe potuto creare, entro i territori deldominio comunista, un’abbondanza di risorse comparabile a quelladell’Occidente capitalistico, o perfino maggiore. Ma non c’è alcun falli-

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più bassi dell’America latina (Brasile incluso) nel migliorare gli standarddi alimentazione, salute e istruzione. E il miglioramento è stato persinopiù grande per gli strati sociali più bassi della Cina a confronto conquelli dell’Asia meridionale o del Sud-est asiatico.

Anche se dimenticati in questo momento di crisi, tali risultati poli-tici e sociali sono stati e restano impressionanti. Tuttavia, essi sono staticompletamente oscurati e svuotati dalla pretesa e dalla convinzione deigruppi dirigenti degli Stati comunisti (in particolare dell’Urss) che i loroterritori fossero in procinto di raggiungere gli standard di ricchezzadell’Occidente, mentre in realtà stavano allontanandosi sempre piùrispetto ad essi. Con questo allontanamento, le capacità di competere intermini militari, diplomatici, culturali e scientifici con l’Occidente dimi-nuivano drammaticamente, mentre le forze sociali poste in esseredall’incessante modernizzazione cominciavano a mettere in discussionela capacità delle élite dominanti di realizzare ciò che promettevano. Allafine, la strutturale incapacità delle regioni a basso e medio reddito di‘scalar È la gerarchia globale della ricchezza è diventata un fattore di cri-si politica e ideologica sia all’Est che nel Sud. I maggiori successi deiregimi dell’Est hanno semplicemente reso la loro crisi più visibile e spet-tacolare di quella del Sud.

5. LA RICCHEZZA OLIGARCHICA E LA RIPRODUZIONE DELLE DISUGUAGLIANZE

DI REDDITO

È tempo di fornire qualche spiegazione plausibile dell’apparente‘legge ferrea’ di una gerarchia globale della ricchezza che rimane stabilea prescindere da ciò che fanno o non fanno i governi sui gradini più bas-si della gerarchia – indipendentemente, vale a dire, dal fatto che essi sisconnettano o meno dai circuiti globali del capitale, tentino o meno diottenere potere e status nel sistema interstatale, eliminino o no le disu-guaglianze tra i propri cittadini. Mi sembra che un passo necessario ver-so tale spiegazione sia riconoscere che i livelli di ricchezza godutidall’Occidente corrispondono a ciò che Roy Harrod ha definito ‘ric-chezza oligarchica’, in contrapposizione alla ‘ricchezza democratica’.Questi concetti contrapposti sono stati definiti da Harrod con riferi-mento alla ricchezza personale – definita in senso ampio come redditoa lungo termine – senza considerare la nazionalità o residenza delle per-sone coinvolte. Nondimeno, con poche modifiche sostanziali gli stessiconcetti possono essere applicati ai redditi a lungo termine degli indivi-

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l’aggregato ‘Indonesia e Filippine ha fatto peggio di quello più ampiodel Sud-est asiatico, come mostra la Tabella 3, è possibile che il piccologuadagno della Cina nei confronti del Sud-est asiatico sia in effetti unpiccolo peggioramento).

A ogni modo, che la Cina abbia perso o guadagnato terreno rispet-to al Sud-est asiatico, lo spostamento è stato minimo – certamente nongrande quanto il miglioramento nei confronti dell’Asia meridionale –cosicché la conclusione precedente rimane valida. Il fallimento econo-mico del comunismo è tale soltanto rispetto alle aspettative e alle pro-messe, completamente irrealistiche, dei comunisti stessi, che pensavanodi poter portare grandi masse di popolazione fino ai livelli di ricchezzadell’Occidente attraverso una sconnessione sistematica dai circuiti glo-bali del capitale. Tuttavia, in nessun modo questo fallimento può essereconsiderato tale rispetto a ciò che è stato ottenuto dai regimi che hannogovernato regioni con livelli di reddito comparabili a quelle comuniste,e che non si sono sconnessi dai circuiti globali del capitale. Chiusura oapertura ai circuiti globali del capitale sembrano aver fatto poca diffe-renza nel fermare – e tantomeno rovesciare – la tendenza complessivaverso una distribuzione sempre più diseguale del reddito.

La chiusura o l’apertura ai circuiti globali del capitale ha natural-mente avuto effetti importanti per altri aspetti. Più di ogni altra cosa, hafatto la differenza in termini di status e potere nel sistema-mondo. Perpiù di trent’anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, assieme oseparatamente, l’Urss e la Cina sono riuscite a controbilanciare l’esten-sione globale dell’egemonia statunitense e a estendere le loro reti dipotere nel Sud – dai Caraibi all’Indocina, dall’Africa meridionale eorientale al Medio Oriente. Persino in questo momento di crisi, il pesodell’Urss nella politica mondiale è molto più grande di quello di tutti gliStati dell’America latina messi assieme, e quello della Cina è molto piùgrande di quello di tutti gli Stati dell’Asia meridionale – per considerareregioni di dimensioni comparabili in termini di popolazione e redditopro-capite.

Inoltre, la chiusura o l’apertura hanno avuto un grosso impattonello status e nel benessere degli strati sociali più bassi delle regioni inquestione – gruppi che nelle regioni a medio e basso reddito compren-dono tra la metà e due terzi della popolazione. Come argomentatosopra, probabilmente l’Urss non ha fatto meglio (e poteva fare peggio)dell’America latina nella ‘gara’ per raggiungere gli standard di ricchezzaoccidentali. Ma gli strati sociali più bassi della sua popolazione hannoavuto risultati incomparabilmente migliori di quelli degli strati sociali

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In una economia-mondo capitalistica, gli Stati che sono alla ricercadi una maggiore ricchezza nazionale si trovano a fronteggiare un proble-ma di ‘addizion È analogo, e più serio sotto molti aspetti, a quello degliindividui che ricercano la ricchezza personale in una economia naziona-le. Le opportunità di avanzamento economico, presentandosi di volta involta a uno Stato dopo l’altro, non costituiscono opportunità equivalentiper l’avanzamento economico da parte di tutti gli Stati. In questo senso,lo sviluppo economico è un’illusione. La ricchezza dell’Occidente è ana-loga alla ricchezza oligarchica di Harrod. Non può essere generalizzataperché si basa su processi relazionali di sfruttamento ed esclusione chepresuppongono la riproduzione continua della povertà relativa dellamaggioranza della popolazione mondiale.

I processi di esclusione sono tanto importanti quanto quelli disfruttamento. Il secondo termine qui si riferisce al fatto che la povertàassoluta o relativa degli Stati ai gradini più bassi della gerarchia di ric-chezza dell’economia-mondo induce di continuo i governanti e i cittadi-ni di questi Stati a partecipare alla divisione mondiale del lavoro in cam-bio di guadagni marginali che lasciano il grosso dei benefici nelle manidei governanti e dei cittadini degli Stati posti ai gradini superiori. I pro-cessi di esclusione, di contro, si riferiscono al fatto che la ricchezza oli-garchica degli Stati ai gradini superiori fornisce ai loro governanti e cit-tadini i mezzi necessari per escludere governanti e cittadini degli Statidei gradini inferiori dall’uso e dal godimento di risorse che sono scarse osoggette a congestione.

I due processi sono distinti ma complementari. Processi di sfrutta-mento forniscono agli Stati ricchi e ai loro agenti i mezzi per iniziare emantenere processi di esclusione. E i processi di esclusione generano lapovertà necessaria per indurre i governanti e i cittadini degli Stati relati-vamente poveri a cercare continuamente di rientrare in una divisionedel lavoro mondiale strutturata secondo condizioni favorevoli agli Statiricchi.

Questi processi complementari operano in modo molto irregolarenel tempo e nello spazio. Di fatto, ci sono periodi nei quali essi operanoin modo tanto poco efficace da creare l’impressione che molti Stati sistiano effettivamente ‘sviluppando’ – vale a dire, che stiano superandol’insuperabile abisso che separa la loro povertà, o moderata ricchezza,dalla ricchezza oligarchica dell’Occidente. Questi sono i periodi di crisisistemica, durante i quali i tentativi della maggioranza di ottenere la ric-chezza oligarchica – che per definizione non può essere generalizzata –minacciano di farla svanire anche per la minoranza.

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dui come membri di ‘famiglie nazionali’ (Stati) coinvolte nelle reti glo-bali del commercio e in competizione l’una con l’altra per il controllosulle risorse umane e naturali del pianeta.

Nella concezione di Harrod, la ricchezza democratica e quella oli-garchica sono separate da un ‘abisso insuperabile’. La ricchezza demo-cratica è il tipo di controllo sulle risorse che, in linea di principio, èdisponibile per tutti, in relazione diretta con l’intensità e l’efficienza delproprio impegno. La ricchezza oligarchica, di contro, non ha alcunarelazione con l’intensità e l’efficienza degli sforzi di chi ne gode i frutti,e non è mai disponibile per tutti, non importa quanto intensamente econ quanta efficienza s’impegnino. Così è, secondo Harrod, per dueragioni principali. La prima corrisponde a ciò che normalmente inten-diamo per sfruttamento. Non è possibile che tutti siano in grado diottenere servizi e prodotti che incorporino tempo e lavoro maggiori diquelli producibili da una persona di media efficienza. Se qualcuno puòfarlo, ciò significa che qualcun altro sta lavorando per meno di quel chepotrebbe ottenere se tutti gli sforzi di pari intensità ed efficienza fosse-ro ricompensati egualmente. In più, e questa è la seconda ragione, alcu-ne risorse sono scarse in senso assoluto o relativo, o sono soggette aproblemi di congestione o sovraffollamento quando vengono usate dif-fusamente. Perciò, il loro uso presuppone l’esclusione di altri, attraver-so un sistema di prezzi o di razionamento, che porta alla formazione direndite e quasi-rendite6.

La lotta per raggiungere la ricchezza oligarchica, perciò, è intrinse-camente condannata al fallimento. Come sottolineato da Fred Hirsch –che ha ripreso il concetto di ricchezza oligarchica di Harrod – l’ideache tutti possano ottenerla è una illusione.

Nella sua azione individuale ogni persona cerca di ottenere il meglio dallapropria posizione. Ma la soddisfazione di questa preferenze individualialtera di per sé la situazione in cui vengono a trovarsi gli altri che cercano disoddisfare bisogni simili. Alla conclusione del giro di transazioni atte a sod-disfare questo tipo di bisogni personali, ogni individuo si ritrova ad averconcluso un affare peggiore di quello che aveva preventivato al momentodi intraprendere la transazione, poiché la somma di tali operazioni nonmigliora in misura corrispondente la posizione di tutte le persone nel loroinsieme. Vi è un problema di ‘addizione’. Le occasioni di avanzamento eco-nomico, mentre si presentano di volta in volta a una persona dopo l’altra,non costituiscono occasioni equivalenti di avanzamento economico per tut-ti. Quel che ciascuno di noi può ottenere, non possiamo ottenerlo tutti7.

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economico degli anni Settanta – il solo periodo in cinquant’anni in cuitutte le regioni e tutti gli Stati a basso e medio reddito per i quali abbia-mo dati disponibili (con l’eccezione dell’Asia meridionale) sembranoaver ridotto il distacco che li separava dal centro organico (si vedano leTabelle 2, 3 e 4). Questo è stato il periodo in cui gli Stati a basso e,soprattutto, medio reddito sono stati inondati da offerte, da parte delleistituzioni del centro capitalistico, di linee di credito praticamente illi-mitate per investimenti produttivi e improduttivi, e da offerte di jointventure e altre forme di assistenza per costruire strutture produttive incompetizione l’una con l’altra e con quelle del centro. Perfino nei con-fronti degli Stati comunisti non c’è stata discriminazione. Al contrario,alcuni di essi sono stati tra i maggiori beneficiari di questa improvvisacornucopia e si sono mossi velocemente per agganciarsi ai circuiti glo-bali del capitale assumendo alcune tra le più pesanti obbligazioni finan-ziarie nel mondo9.

La cornucopia era destinata ad aver vita breve. Per prima cosa,l’improvvisa abbondanza di mezzi goduta da Stati a basso e medio red-dito ha condotto a una generalizzazione e intensificazione di politiche disviluppo in competizione tra loro, orientate verso qualche forma diindustrializzazione. Questi sforzi erano intrinsecamente destinati al falli-mento. Da un lato, accrescevano la scarsità a livello mondiale di inputnecessari per il loro successo. D’altro lato, creavano una sovrabbondan-za dei loro output più tipici, deprezzandone il valore sui mercati mon-diali. Presto o tardi il momento della verità sarebbe arrivato – ilmomento in cui soltanto i paesi più competitivi avrebbero ottenuto ibenefici dell’industrializzazione, mentre tutti gli altri sarebbero rimasticon guadagni inferiori ai costi sopportati – inclusi gli interessi sui debiticontratti nel corso del processo. A questo punto, la cornucopia si è tra-sformata nel suo opposto. Il credito e altre forme di assistenza sono statiristretti e i perdenti, per evitare di perdere ogni possibilità di credito,sono stati obbligati a cedere i loro beni di maggior valore, le loro entratefuture, o entrambe le cose.

Inoltre, l’abbondanza di mezzi goduta dagli Stati a basso e medioreddito negli anni Settanta ha teso ad eliminare la disgiunzione tra imaggiori orientamenti speculativi del capitale del centro e le politichedei governi del centro. Più il capitale del centro si spostava verso gli Sta-ti a basso e medio reddito, più i governi del centro comprendevano chei loro tentativi di spingere il capitale all’espansione produttiva entro ipropri territori non solo erano inefficaci, ma conducevano a una genera-lizzazione degli sforzi di sviluppo che minacciava la stabilità della gerar-

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Crisi di questo tipo tendono a manifestarsi quando l’espansioneproduttiva del capitale nel centro del sistema comincia a registrare ren-dimenti decrescenti. Questo è quanto accaduto nei tardi anni Sessantae nei primi Settanta. In quegli anni un’ ‘esplosione dei salari’ – comel’ha appropriatamente definita Phelps Brown8 – ha attraversato la mag-gior parte dell’Europa occidentale e, in misura minore, l’America delnord e il Giappone. Era il primo segnale che l’espansione produttivadel capitale nel centro stava velocemente avvicinandosi al punto deirendimenti decrescenti. L’esplosione dei salari era ancora in pieno svol-gimento quando avvenne il primo ‘shock petrolifero’ del 1973, il segnopiù visibile di un generale aumento dei prezzi delle materie prime dopovent’anni di diminuzioni relative. Ridotta dall’aumento dei salari e deiprezzi delle materie prime importate, la redditività dell’espansione pro-duttiva nel centro è diminuita e il capitale ha cercato di valorizzarsi innuove direzioni.

Due direzioni principali erano aperte all’espansione capitalistica.Da un lato, l’espansione produttiva poteva continuare in luoghi piùperiferici, che non erano stati colpiti dall’aumento dei costi del lavoro, oavevano beneficiato dei prezzi più alti delle materie prime. Dall’altro,l’espansione produttiva poteva interrompersi, e i profitti e gli altri sur-plus monetari essere investiti nella speculazione finanziaria, puntandoad acquisire, a prezzi stracciati, titoli che assicuravano rendite finanzia-rie e diritti sulle entrate dei governi. Per gran parte degli anni Settantaquesti due tipi di espansione si sono sostenuti reciprocamente, generan-do un massiccio flusso di capitale e altre risorse verso Stati a basso emedio reddito. Negli anni Ottanta, di contro, il secondo tipo di espan-sione ha eclissato il primo, e ha portato allo spostamento di risorsefinanziarie e d’altro genere verso il centro del sistema.

L’oscillazione in entrambe le direzioni (verso i luoghi più periferici evia da essi) è stata resa più violenta dal fatto che negli anni Settanta lamaggior parte dei governi in Occidente –innanzi tutto il governo degliStati uniti – hanno continuato a perseguire l’espansione produttiva entroi propri confini, senza rendersi conto che tale espansione stava indebo-lendo la profittabilità, uccidendo così la gallina dalle uova d’oro. Via viache la profittabilità nel centro veniva ridotta dalle politiche governative, ilcapitale fuggiva verso luoghi più periferici e forme di investimento –come i depositi denominati in dollari in banche dell’Europa occidentale– che erano fuori dal raggio d’azione dei governi.

La disgiunzione tra le necessità del capitale e le politiche deigoverni del centro ha creato le condizioni per il generale avanzamento

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Se questo è il caso, il collasso del comunismo nell’Europa orientale saràconsiderato retrospettivamente come la fine, non l’inizio, di un’era diprosperità e sicurezza per l’Occidente. Il fatto che il collasso del comu-nismo sia stato immediatamente seguito dalla crisi tra Iraq e Kuwait edalla prima seria recessione nell’economia statunitense dal 1982 suggeri-sce che questo potrebbe essere il caso.

Non ha senso fare ipotesi sulla forma e la sequenza degli eventi checaratterizzeranno il periodo di caos sistemico che abbiamo di fronte. Inlarga misura sono imprevedibili e, in ogni caso, irrilevanti per l’analisi diquesto articolo. Ma le tendenze del sistema-mondo che daranno forma glieventi del prossimo futuro non sono né imprevedibili né irrilevanti per lanostra analisi. In questa sezione finale vorrei perciò delineare brevementequeste tendenze e le loro implicazioni per il futuro del socialismo.

In termini geopolitici, il principale fattore del caos sistemico del 1914-48 è stato un conflitto sempre più vasto e profondo interno all’Occidente –con il Giappone già unitosi come membro onorario – riguardo la divisioneterritoriale del mondo tra potenze in ascesa e declinanti (il cosiddetto‘imperialismo’). Il suo esito principale fu il sorgere di forze antisistemicheche alla fine condussero all’istituzione di Ovest, Est e Sud come entità geo-politiche distinte e relativamente autonome. Il fattore principale del caossistemico a cui ci troviamo di fronte, per contro, è un conflitto sempre piùvasto e profondo interno al Sud e all’Est e in via di disintegrazione, per lerisorse sempre più scarse dell’economia-mondo. È probabile che l’esitoprincipale sarà la creazione di strutture di governo mondiale – inizialmentepromosse dall’Occidente – che alla fine condurranno a un superamentopiù o meno completo della scricchiolante tripartizione del mondo in Ovest,Est e Sud. In breve, ciò che è stato ‘costruito’ nel precedente periodo dicaos sistemico è probabile che venga ‘demolito’ nel corso del prossimo.

Questa dinamica è già stata evidente negli ultimi dieci anni circa.Così, lo scontro Iraq-Kuwait, esso stesso radicato nel precedente e mol-to più serio conflitto tra Iraq e Iran, ha indotto gli Stati uniti e i loro piùstretti alleati a riportare in vita strutture dormienti di governo mondiale– in particolare il Consiglio di sicurezza dell’Onu – come l’unico modoin cui avrebbero potuto intervenire legittimamente e con successo perrisolvere conflitti interni al Sud in modo per loro soddisfacente. Inoltre,senza la precedente parziale disintegrazione dell’Est, sotto le pressionidei propri conflitti, non sarebbero stati possibili né l’escalation dei con-flitti all’interno del Sud per l’appropriazione della rendita petrolifera, nél’uso da parte degli Stati uniti e dei loro alleati del Consiglio di sicurezzadell’Onu come strumento di risoluzione violenta di conflitti.

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chia di ricchezza su cui poggiava il loro potere. Allo stesso tempo, più lavalorizzazione del capitale del centro dipendeva dalla cessione di redditie patrimoni degli Stati a basso e medio reddito, più il capitale del centrorichiedeva l’assistenza dei governi del centro per legittimare e applicaretale alienazione.

Tra il 1979 (secondo ‘shock petrolifero’) e il 1982 (l’insolvenza suldebito del Messico) la marea è cambiata. Si è avviata la contro-rivoluzio-ne di Reagan e Thatcher, e la crisi generale delle politiche dello sviluppo(al Sud e all’Est) è precipitata. I governi del centro iniziarono a offrire lamassima libertà d’azione alle istituzioni capitalistiche impegnate nellaspeculazione finanziaria, incoraggiando questa tendenza attraverso lacessione delle loro stesse proprietà pubbliche, e di entrate future, aprezzi stracciati. Per di più, i governi del centro, agendo separatamenteo di concerto, hanno offerto al capitale del centro tutta l’assistenza chepotevano dare per indurre gli Stati a basso e medio reddito a rispettare iloro obblighi sul debito estero.

Non c’è bisogno di dire che il capitale rispose entusiasticamente aquesto ‘new deal’, con il quale né il Sud né l’Est potevano in alcunmodo competere. Così, mentre la festa finiva per il Sud e l’Est, i popolidell’Occidente – o perlomeno gli strati superiori – si potevano godereuna belle époque che ricordava per molti aspetti i ‘bei tempi’ della bor-ghesia europea di ottant’anni prima. La somiglianza che colpisce di piùtra queste due belles époques è la pressoché completa mancanza di com-prensione, da parte dei beneficiari, che l’improvvisa prosperità senzaprecedenti non si fondava su una soluzione della crisi di accumulazioneche aveva preceduto i bei tempi. Al contrario, la prosperità appena tro-vata riposava su uno spostamento della crisi da un insieme di relazioni aun altro. Era solo una questione di tempo prima che la crisi ‘rimbalzas-se’, in forme molto più problematiche, verso chi pensava di non esserse-la mai passata così bene.

6. LA FILOSOFIA DEL GIRINO E IL FUTURO DEL SOCIALISMO

La belle époque dell’inizio del ventesimo secolo è sfociata in unperiodo di caos sistemico (1914-1948) caratterizzato da guerre, rivolu-zioni e una crisi sempre più profonda dei processi globali di accumula-zione del capitale. È possibile che la belle époque del tardo ventesimosecolo stia per concludersi con un periodo di caos sistemico per certiversi analogo al periodo 1914-48 (ma per altri aspetti piuttosto diverso).

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È possibile che dei girini intelligenti si rassegnino agli inconvenienti del-la loro posizione, pensando che, sebbene la maggior parte di essi vivran-no e morranno girini e niente altro, i più fortunati della specie perderan-no un giorno la loro coda, allargheranno la loro bocca e il loro stomaco,e saltati agilmente sulla terra asciutta, gracchieranno sentenze verso iloro amici d’un tempo sulle virtù per mezzo delle quali i girini capaci dicarattere possono assurgere allo stato di ranocchi. Questa concezionedella società può essere indicata, forse, come la «filosofia del girino»,poiché la consolazione che offre per i mali sociali consiste nell’afferma-zione che individui eccezionali possono riuscire a sottrarsene... E qualevisione della vita umana implica un tale atteggiamento! Come se le pos-sibilità di ascendere concesse al talento potessero essere eguali in unasocietà in cui le condizioni che lo circondano fin dalla nascita sono inve-ce disuguali! Come se, quando fosse loro possibile, fosse naturale edappropriato che la posizione della massa del genere umano dovesse esse-re in permanenza tale, che gli uomini potessero accedere alla civiltà solosfuggendovi! E come se l’uso più nobile delle facoltà eccezionali, fossedi arrampicarsi frettolosamente sulla sponda, indifferenti al pensiero deicompagni che affogano...!11

Dopo aver citato questo passaggio, Wallerstein prosegue col direche, ‘per quelli che non vogliono “lanciarsi verso la spiaggia”, l’alternati-va è cercare di trasformare l’insieme del sistema, anziché approfittare diesso. Considero questa come la caratteristica che definisce un movimen-to socialista. La pietra di paragone della legittimità di un tale movimentoè la misura in cui l’insieme delle sue azioni contribuisce, nel massimogrado possibile, alla rapida trasformazione dell’attuale sistema-mondo,fino alla sostituzione dell’economia-mondo capitalistica con un governomondiale socialista12.

Quindici anni fa – quando fu scritto – il consiglio di Wallersteindi lavorare alla realizzazione di un governo mondiale socialista sembravafantasioso, o peggio. Se il concetto di governo mondiale appariva deltutto irrealistico, quello di un governo mondiale socialista era stato com-pletamente screditato dalle pratiche delle varie Internazionali socialiste,che hanno fallito nei loro intenti o si sono trasformate in strumenti didominio dei deboli da parte dei forti. Inoltre, negli anni Settanta la mag-gior parte delle varianti dell’ideologia dello sviluppo (incluse quellesocialiste) sembravano realizzare almeno qualcosa di ciò che avevanopromesso. Lavorare per la creazione di un governo mondiale socialista,perciò, non appariva né fattibile né consigliabile.

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Ci si può aspettare che le forze sociali che stanno dietro questa dina-mica divengano più forti, non più deboli, nel corso dei prossimi dieci oventi anni. E questo perché queste forze sono l’espressione, da un lato, deicambiamenti irreversibili avvenuti nella struttura sociale dell’economia-mondo tra il 1950 e il 1980 e, d’altro lato, della situazione di impoveri-mento assoluto e relativo causata da questi cambiamenti nel Sud e nell’Estnegli anni Ottanta. Finché restano i processi di sfruttamento ed esclusioneche riproducono continuamente la ricchezza oligarchica dell’Occidente ela povertà assoluta e relativa del Sud e dell’Est, i conflitti nelle regioni abasso e medio reddito saranno endemici e porranno per l’Occidente pro-blemi sempre più intrattabili di regolazione del sistema-mondo. Poichéper ora l’orientamento prevalente dell’Occidente è di usare il propriopotere e ricchezza per preservare a ogni costo l’attuale gerarchia di ric-chezza, anziché riformarla (per non parlare di rivoluzionarla), possiamoprevedere che per qualche tempo ogni soluzione di conflitti imposta oappoggiata dall’Occidente non sarà che il preambolo di un’ulteriore esca-lation dei conflitti in un momento successivo.

Ci si può aspettare inoltre che la continua, benché non ininterrot-ta, escalation dei conflitti nel Sud e nell’Est generi tendenze contraddit-torie all’interno dello stesso Occidente. Da un lato, i governi e i popolidell’Occidente saranno indotti a sviluppare forme ancora più intense dicooperazione per amministrare e proteggere le reti globali di commercioe accumulazione su cui poggia la loro ricchezza oligarchica. D’altro can-to, sempre più persone in Occidente si accorgeranno che, per quanto liconcerne, i costi della protezione della ricchezza oligarchica eccedono ibenefici che essi ne traggono. Se ci si può aspettare che la prima tenden-za conduca a rafforzare le strutture esistenti di governo mondiale ecrearne di nuove, la seconda tendenza probabilmente porterà a impor-tanti conflitti sulla distribuzione dei costi della protezione della ricchez-za oligarchica, o perfino sull’opportunità di continuare a perseguirla,quando i suoi costi eguagliano o eccedono i benefici per una parte cre-scente di strati sociali dell’Occidente.

La combinazione di queste due tendenze metterà le forze socialiste inOccidente di fronte a un dilemma cruciale. Attraverso il ventesimo secolo,queste forze, volenti o nolenti, si sono identificate sempre più con l’una ol’altra variante dell’ideologia dello sviluppo. Come evidenziato da Imma-nuel Wallerstein, questa identificazione costituisce un serio allontanamentodagli ideali di solidarietà umana e uguaglianza che costituiscono l’essenzadel credo socialista. Questo perché l’ideologia dello sviluppo non è altroche la versione globale della “filosofia del girino” di R. H. Tawney10.

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A quel punto, i discorsi gracidati dalle ‘ran È occidentali ai ‘girini’dell’Est e del Sud suoneranno anacronistici anche per le stesse ‘rane’, operlomeno per un numero crescente di esse. I socialisti occidentaliavranno allora il loro momento della verità. O uniranno le forze con icompagni dell’Est e del Sud e produrranno un progetto intellettuale eun programma politico capace di trasformare il caos sistemico in unordine mondiale più solidale ed egualitario, oppure i loro appelli al pro-gresso umano e alla giustizia sociale perderanno ogni residua credibilità.

NOTE

* World income inequalities and the future of socialism, in “New Left Review”,I/189 (Sept-Oct 1991), pp. 39-65. Versione riveduta e ampliata di un saggio presentatoalla Sesta conferenza sul futuro del socialismo: “Socialism and the economy”, organiz-zata dalla Fundacion Sistema, Siviglia 14-16 dicembre 1990. Vorrei ringraziare TerenceK. Hopkins, Mark Selden e Beverly Silver per i loro commenti a una versione preceden-te del testo. Traduzione dall’inglese di Sara Labanti e Guido Parietti.

1 ERIC HOBSBAWM, Comment in Reflecting on Labor in the West since Haymarket:A Roundtable Discussion, in J.B. JENZ e J.C. MACMANUS (ed. by), The Newberry Papersin Family and Community History, vol. 86, n. 2, 1986, p. 13.

2 GIOVANNI ARRIGHI, L’illusione dello sviluppo. Una riconcettualizzazione dellasemiperiferia, “Marx centouno”, 6 (1991), pp. 67-69; GIOVANNI ARRIGHI e JESSICA

DRANGEL, The Stratification of the World-Economy: An Exploration of the Semiperiphe-ral Zone, in “Review (Fernand Braudel Center)”, 10: 4 (1986), pp. 53–57.

3 ARGHIRI EMMANUEL, Lo scambio ineguale, Einaudi, Torino 1972.4 Si veda ARRIGHI, L’illusione dello sviluppo, cit., pp. 67-69.5 Cfr. WALT W. ROSTOW, Gli stadi dello sviluppo economico, Einaudi, Torino 1962.6 Si veda ROY HARROD, The Possibility of Economic Satiety – Use of Economic

Growth for Improving the Quality of Education and Leisure, in Committee for Econo-mic Development, Problems of United States Economic Development, Volume I, NewYork 1958.

7 FRED HIRSCH, I limiti sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano 1981, p. 13.8 E.H. PHELPS BROWN, A Non-Monetarist View of the Pay Explosion, in “Three

Banks Review”, 1975, p. 105.9 Si veda ILIANA ZLOCH-CHRISTY, Debt Problems of Eastern Europe, Cambridge

University Press, Cambridge 1987.10 IMMANUEL WALLERSTEIN, The Capitalist World-Economy, Cambridge University

Press, Cambridge 1979, p. 76.11 RICHARD H. TAWNEY, Eguaglianza, pp. 630-31, in Opere, UTET, Torino 1975.12 IMMANUEL WALLERSTEIN, The Capitalist World-Economy, cit., p. 101.

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Oggi, il concetto di governo mondiale sembra meno fantasiosorispetto a quindici anni fa. Il Gruppo dei sette si incontra regolarmenteed è giunto ad apparire sempre più come un comitato per gestire gli affa-ri comuni della borghesia mondiale. Negli anni Ottanta, l’Fmi e la Bancamondiale hanno agito sempre più come un ministero mondiale dellefinanze. Infine, gli anni Novanta si sono aperti con il rinnovamento delConsiglio di sicurezza dell’Onu come un ministero di polizia internazio-nale. Sotto la pressione degli eventi e secondo modalità del tutto nonprogrammate, una struttura di governo mondiale viene posta in esserpezzo per pezzo dalle stesse grandi potenze economiche e politiche.

Certamente, l’intero processo di formazione di un governo mon-diale è stato sostenuto e controllato da forze conservatrici, preoccupatequasi esclusivamente di legittimare e controllare la distribuzione globaledella ricchezza estremamente diseguale emersa con il collasso delle poli-tiche di sviluppo del Sud e dell’Est negli anni Ottanta. In realtà, non èstato un caso che il processo di formazione di un governo mondialeabbia accelerato proprio quando le politiche di sviluppo sono crollate.Molto probabilmente, l’accelerazione non è stata che una risposta prag-matica al vuoto politico e ideologico lasciato nel sistema interstatale dalcollasso dell’ideologia dello sviluppo. Come può – ci si potrebbe chie-dere – un processo nato per legittimare e imporre disuguaglianze glo-bali essere trasformato in un mezzo per il fine di promuovere più egua-glianza e solidarietà nel mondo?

In un’epoca di avidità rampante e collasso dei progetti socialisti delpassato, l’impresa sembra disperata. Ma facciamo un altro salto di quin-dici anni, stavolta nel futuro. Come già detto, ci si può aspettare che iproblemi strutturali che sono alla base della formazione di un governomondiale saranno divenuti più gravi, non meno. Ma, se il processo diformazione di un governo mondiale sarà molto più avanzato di quantonon sia oggi, anche i costi del caos sistemico per i popoli dell’Occidentesaranno molto più alti. I costi di protezione in particolare – intesi insenso ampio per includere non solo gli investimenti in strumenti di vio-lenza e forze armate, ma anche la corruzione e gli altri pagamenti aiclienti e alle forze amiche nel Sud e nell’Est in via di disintegrazione,oltre i danni gravi o irreparabili alla psiche umana – saranno cresciuti alpunto che il perseguimento della ricchezza oligarchica inizierà ad appa-rire a molti per ciò che sempre è stato: un’impresa altamente distruttivache sposta il costo della prosperità e della sicurezza di una minoranza(non più di un sesto dell’umanità, e probabilmente di meno) sulla mag-gioranza, e sulle generazioni future della minoranza stessa.

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Capitolo 4

Capitalismo e (dis)ordine mondiale*

di Giovanni Arrighi e Beverly J. Silver

Nel sistema storico-sociale del mondo moderno sta prendendopiede una trasformazione di grandi proporzioni, che crea un diffusosenso di incertezza sul presente e l’immediato futuro. Nelle parole diEric Hobsbawm, mentre “i cittadini di questa fine di secolo cercano,nella nebbia globale che li avvolge, la strada per avanzare nel terzo mil-lennio, l’unica cosa che sanno con certezza è che un’epoca storica è fini-ta. La loro conoscenza non va oltre”1.

Tuttavia quale sia l’epoca storica che si è compiuta è ancora ogget-to di discussione. Per Hobsbawm gli anni Settanta e Ottanta del Nove-cento hanno costituito la fase conclusiva del “secolo breve” (1914-1991). Dal suo punto di vista, il collasso dei regimi comunisti “hadistrutto […] il sistema che per quarant’anni aveva stabilizzato le rela-zioni internazionali […] e ha mostrato la precarietà degli assetti politicistatali che si erano sostanzialmente retti su quella stabilità internaziona-le”. Il risultato è stato l’emergere di “incertezza politica, instabilità, caose guerra civile su un’area enorme del pianeta. […] Il futuro della politi-ca è oscuro, ma la sua crisi alla fine del secolo breve è evidente” 2.

A giudizio di Hobsbawm, il tardo ventesimo secolo ha segnatoanche la crisi degli assunti razionalistici e umanistici, condivisi tanto dalcapitalismo liberale quanto dal comunismo, “sui quali la società modernasi era fondata fin da quando i Moderni vinsero la loro celebre battagliacontro gli Antichi all’inizio del Settecento”3. In un’ottica simile, ImmanuelWallerstein ha sostenuto che il 1989 ha sancito la fine dell’era politico-cul-turale aperta dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione Francese: per Waller-stein, però, quell’anno ha coinciso anche con l’inizio della crisi terminaledel sistema-mondo moderno venuto alla luce nel “lungo sedicesimo seco-lo”4. Anche James Rosenau, pur partendo da premesse differenti, condivi-de questa prospettiva: dal suo punto di vista, oggi i parametri che hannodefinito le coordinate d’azione nell’ambito del sistema internazionale sistanno trasformando tanto profondamente “da dar vita alla prima veraturbolenza nel sistema politico mondiale da quando una trasformazionedi simile portata non culminò nel trattato di Vestfalia del 1648”5.

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analitici il cui orizzonte temporale è troppo breve per poter scorgere,entro il capitalismo storico, una dinamica ciclica di lungo termine.

Questo ci conduce alla seconda osservazione. Come sottolineavaFernand Braudel, le caratterizzazioni di primo Novecento che ritraeva-no il capitale finanziario come una nuova fase dello sviluppo capitalisti-co erano miopi. “Il capitalismo finanziario”, egli faceva notare, “non è ilnuovo nato del Novecento; vorrei semmai sostenere che già nel passato– in particolare a Genova o ad Amsterdam – esso ha saputo, sull’onda diuna fase di crescita del capitalismo mercantile e di un’accumulazione dicapitale eccedente la capacità degli ordinari canali di investimento, con-quistare terreno e dominare, almeno per un certo periodo, l’insieme delmondo degli affari”11.

L’idea che molto prima degli inizi del ventesimo secolo l’accumula-zione di capitale attraverso la compravendita delle merci “su una scalaeccedente la capacità degli ordinari canali di investimento” abbia permes-so al capitalismo finanziario di “conquistare terreno e dominare, almenoper un certo periodo, l’insieme del mondo degli affari” è un tema ricor-rente del secondo e del terzo volume della trilogia braudeliana Civiltàmateriale, economia e capitalismo. Questo a conferma dell’opinione diBraudel, secondo cui le caratteristiche essenziali del capitalismo storicolungo il suo intero arco vitale, ossia nell’ottica della longue durée, sono sta-te la “flessibilità” e l’“eclettismo” del capitale, piuttosto che le forme con-crete assunte da quest’ultimo in differenti luoghi e in epoche diverse. Inalcuni periodi, anche lunghi, il capitalismo sembrò “specializzarsi”, comenel diciannovesimo secolo, quando esso “si lanciò in modo tanto spettaco-lare nell’immensa novità dell’industria”. Questa specializzazione indussemolti a “presentare l’industria come la realizzazione ultima che avrebbeconferito al capitalismo il suo ‘vero’ volto”. Ma si trattava di una prospet-tiva di breve termine: “[dopo] il primo boom del macchinismo, il capitali-smo più elevato tornò all’eclettismo, ad una specie di indivisibilità, comese lo specifico vantaggio di trovarsi in quei punti dominanti […] consi-stesse proprio nel non irrigidirsi in una sola scelta: nell’essere eminente-mente adattabile e quindi non specializzato”12.

Questi passaggi possono essere interpretati come una ridefinizionedella formula generale del capitale di Karl Marx: D-M-D’ (denaro-mer-ce-denaro allargato). Il capitale monetario (D) indica liquidità, flessibi-lità, libertà di scelta. Il capitale-merce (M) indica capitale investito inuna particolare combinazione di input-output in vista di un profitto.Significa quindi concretizzazione, rigidità e riduzione delle opzioniaperte. D’ indica liquidità, flessibilità e libertà di scelta allargate. Intesa

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Quale che sia l’epoca in via di conclusione – quella della Guerrafredda, la più lunga epoca del “liberalismo” e dell’Illuminismo, o l’anco-ra più lunga epoca del sistema degli Stati nazionali –, questi autorisostengono che le strutture che per molto tempo hanno garantito stabi-lità al sistema-mondo moderno si stanno sgretolando e che una tenden-za all’incertezza e all’imprevedibilità caratterizzerà probabilmente il pre-sente e l’immediato futuro.

CICLI SISTEMICI DI ACCUMULAZIONE E TRANSIZIONI EGEMONICHE

I nostri propositi di dissipare almeno un po’ della “nebbia globa-le” che ci avvolge, ora che stiamo entrando nel terzo millennio, e direstringere l’incertezza e l’imprevedibilità sul presente e l’immediatofuturo6 si fondano su tre osservazioni strettamente connesse. La primaosservazione è che l’inizio e la fine del ventesimo secolo sono periodilargamente comparabili, accomunati anzitutto dalla centralità che in essiassume il “capitale finanziario”7. La seconda osservazione derivadall’argomento di Fernand Braudel secondo cui la finanziarizzazionedel capitale è una caratteristica ricorrente del capitalismo storico fin dalsedicesimo secolo. La nostra terza osservazione è che i periodi di espan-sione finanziaria non sono solo espressione dei processi ciclici del capi-talismo storico – come enfatizzato da Braudel; sono altresì momenti digrande riorganizzazione del sistema-mondo capitalistico, momenti chenoi chiamiamo “transizioni egemoniche”. Nel prosieguo di questo arti-colo discuteremo in ordine ciascuna di queste tre osservazioni8.

La centralità del capitale finanziario, alla fine del diciannovesimo eall’inizio del ventesimo secolo, promosse il delinearsi di teorie liberali emarxiste sul “capitale finanziario” e sull’“imperialismo” che leggevanoquesto fenomeno come segnale di un nuovo, eccezionale o supremo sta-dio del capitalismo9. Analogamente, alla fine del ventesimo secolo, la rin-novata centralità del capitale finanziario ha occasionato il profilarsi diteorie della “globalizzazione” e della “finanziarizzazione del capitale” cheguardano al presente come a una fase nuova e senza precedenti dello svi-luppo capitalistico10. Il linguaggio e i concetti sono cambiati, ma l’ideache il capitale finanziario costituisca una fase nuova, ultima e supremanello sviluppo del capitalismo è ampiamente condivisa oggi come unsecolo fa. La ricorrenza di un discorso nel quale il capitale finanziario vie-ne presentato come uno stadio nuovo, ultimo, e supremo dello sviluppocapitalistico, noi vorremmo sostenere, è in parte il risultato di metodi

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rente del capitalismo storico come sistema-mondo. L’aspetto centrale diquesto modello è costituito dall’alternanza di epoche di espansione mate-riale (le fasi D-M dell’accumulazione del capitale) ed epoche di rinascita edespansione finanziaria (le fasi M-D’). Nelle fasi di espansione materiale ilcapitale monetario “mette in movimento” una crescente massa di merci(forza lavoro mercificata e risorse naturali incluse); nelle fasi di espansionefinanziaria una crescente massa di capitale monetario “si libera” dalla suaforma-merce, e l’accumulazione procede attraverso transazioni finanziarie(come nella formula marxiana abbreviata D-D’). Insieme, le due epoche ofasi formano un intero ciclo sistemico di accumulazione (D-M-D’).

Partendo da queste premesse, possiamo identificare quattro ciclisistemici di accumulazione: un ciclo genovese-iberico, dal XV secolo agliinizi del XVII; un ciclo olandese, dalla fine del XVI secolo fino a buonaparte del XVIII; un ciclo britannico, dalla seconda metà del XVIII secoloagli inizi del XX; un ciclo statunitense, che ha avuto inizio alla fine delXIX secolo ed è proseguito fino all’attuale fase di espansione finanziaria.Ogni ciclo prende il nome (e viene definito) dal particolare blocco diagenzie governative e imprenditoriali che guidano il sistema-mondo capi-talistico dall’espansione materiale a quella finanziaria, e che insieme costi-tuiscono un intero ciclo. Le strategie e le strutture attraverso cui questeagenzie leader hanno promosso, organizzato e regolato l’espansione o laristrutturazione del sistema-mondo capitalistico costituiscono ciò che qua-lificheremo come “regime di accumulazione” su scala mondiale.

La nostra terza osservazione è che la ricorrenza sistemica delleespansioni finanziarie non è solo l’espressione di “una certa unità nelcapitalismo, dall’Italia del tredicesimo secolo fino all’Occidente dioggi”15, come sostiene Braudel; essa è altresì l’espressione di ricorrenti efondamentali riorganizzazioni del sistema-mondo capitalistico. Questoperché, come esemplificato dalla periodizzazione presentata, i nuovicicli sistemici di accumulazione sovrappongono i propri inizi alle con-clusioni dei precedenti. Tutte le fasi di espansione finanziaria infattisono state insieme l’“autunno” di grandi sviluppi del capitalismo mon-diale; ma sono state anche periodi di transizioni egemoniche, nel corsodelle quali una nuova leadership emergeva negli interstizi del sistema elo riorganizzava, rendendo così possibile un’ulteriore espansione.

Perciò, lungi dal procedere seguendo un unico percorso apertoquattro o cinque secoli fa – come suggerisce Wallerstein16 –, la formazio-ne e l’espansione del sistema capitalistico mondiale è invece avanzataattraverso cambiamenti di direzione, verso nuovi sentieri, aperti da spe-cifici blocchi di agenzie governative e imprenditoriali. Questi poteri-gui-

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in questo modo, la formula di Marx ci dice che le agenzie capitalistichenon investono denaro in particolari combinazioni di input-output, con laconseguente perdita di flessibilità e libertà di scelta, come fine in sé. Alcontrario, lo fanno come un mezzo per assicurarsi una flessibilità e unalibertà di scelta ancora maggiori in futuro. La formula di Marx ci diceanche che qualora non vi sia alcuna aspettativa da parte delle agenziecapitalistiche di un aumento della propria libertà di scelta, o qualoraquesta aspettativa risulti sistematicamente disattesa, il capitale tende afare ritorno a forme più flessibili di investimento, e soprattutto alla suaforma di denaro. In altre parole, le agenzie capitalistiche “preferiscono”la liquidità, e una parte insolitamente elevata delle loro disponibilitàfinanziarie tende a rimanere in forma liquida.

Questa seconda lettura è implicita nella caratterizzazione cheBraudel fa dell’“espansione finanziaria” come sintomo di maturità diuna particolare fase dello sviluppo capitalistico. Nel discutere il ritirodegli olandesi dal commercio per trasformarsi nei “banchieri d’Europa”intorno al 1740, Braudel suggerisce che quel ritiro corrisponda a unatendenza ricorrente del sistema-mondo. La stessa tendenza si era giàmanifestata nell’Italia del Quattrocento, e poi ancora verso il 1560,quando l’oligarchia capitalista della diaspora genovese si ritirò gradual-mente dal commercio per esercitare, per circa settant’anni, un governosulle finanze europee paragonabile a quello esercitato nel ventesimosecolo dalla Banca dei regolamenti internazionali di Basilea – “un ruolotalmente discreto e sofisticato che per molto tempo è sfuggito alle inda-gini degli storici”. Dopo gli olandesi, la tendenza fu confermata dagliinglesi durante e dopo la grande depressione del 1873-96, quando laconclusione della “fantastica avventura della rivoluzione industriale”creò una sovrabbondanza di capitale monetario13.

Dopo l’avventura egualmente “fantastica” del cosiddetto fordi-smo-keynesismo, il capitale statunitense ha seguito un percorso simile apartire dagli anni Settanta. Così possiamo facilmente riconoscere in que-st’ultima “rinascita” del capitale finanziario un ulteriore esempio diquella ricorrente inversione verso l’“eclettismo” che nel passato è stataassociata alla maturazione di un importante sviluppo capitalistico.“[Ogni] sviluppo capitalistico di tale portata sembra annunciare,entrando nello stadio dell’espansione finanziaria, una sorta di maturità:[è] il segnale dell’autunno”14.

Alla luce di queste osservazioni, possiamo considerare la formulagenerale del capitale di Marx (D-M-D’) come descrittiva, non solo dellalogica dei singoli investimenti capitalistici, ma anche di un modello ricor-

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cio e della produzione conduce inevitabilmente, come ha suggeritoBraudel, a un’accumulazione di capitale “su una scala eccedente lacapacità degli ordinari canali di investimento” o, come noi preferiamodire, in misura eccedente la quantità che si può investire nella compra-vendita di merci senza intaccare drasticamente i margini di profitto. Irendimenti diventano decrescenti, le pressioni competitive si intensifica-no, e si pongono le basi del cambiamento di fase dall’espansione mate-riale a quella finanziaria.

In questo passaggio da rendimenti crescenti a decrescenti, dallacooperazione alla competizione, a contare davvero non sono tanto lestrutture organizzative delle singole unità del sistema, bensì le strutturedel sistema stesso. Così, con specifico riferimento all’ultima fase, il ciclostatunitense, le strutture organizzative rilevanti non sono state tanto legrandi imprese a gestione burocratica e verticalmente integrate – chesono state solo una componente del blocco di agenzie governative eimprenditoriali che hanno guidato il capitalismo mondiale durantel’espansione materiale degli anni Cinquanta e Sessanta. Ad essere rile-vanti sono state piuttosto le strutture organizzative dell’ordine mondialedella Guerra fredda in cui l’espansione stessa era radicata. Una volta svi-luppatasi, tale espansione ha generato tre tendenze strettamente correla-te che hanno minato progressivamente la capacità di tali strutture siste-miche: la tendenza all’intensificazione delle pressioni competitive sullegrandi imprese statunitensi; la tendenza dei gruppi subordinati a recla-mare una fetta più grande della torta; e la tendenza delle grandi impresestatunitensi a reinvestire i profitti dell’espansione materiale in mercatifinanziari extraterritoriali. Già manifeste tra la fine degli anni Sessanta el’inizio dei Settanta, sono state queste le tendenze che hanno prodotto ilcambiamento di fase dall’espansione materiale a quella finanziaria20.

Come ha puntualizzato Robert Pollin, l’idea di ricorrenti e protrattefasi di espansione finanziaria pone una domanda fondamentale: “da dovevengono i profitti se non dalla produzione e dallo scambio di merci”?Come egli stesso suggerisce, la domanda ha tre risposte possibili, ciascunadelle quali individua una diversa fonte di profitto. Primo: alcuni capitalistiguadagnano a spese di altri capitalisti, con una redistribuzione dei profittientro la stessa classe capitalistica. Secondo: si espandono i profitti dellaclasse capitalistica nel suo complesso, poiché le transazioni finanziarie per-mettono una redistribuzione della ricchezza e del reddito a proprio van-taggio. Infine, “le transazioni finanziarie possono essere fortemente profit-tevoli […] se [consentono] ai capitalisti di spostare i propri fondi versoattività di produzione e di scambio molto più redditizie”21.

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da, detentori di volta in volta del ruolo di guida – il complesso olandesenel XVII secolo, il complesso britannico nel XIX secolo, il complessostatunitense nel XX secolo –, hanno tutti agito da “apripista” (per pren-dere a prestito un’espressione di Michael Mann17). Hanno guidato ilsistema in una nuova direzione, e allo stesso tempo lo hanno trasforma-to. Sotto la leadership olandese, con la pace di Vestfalia venne formal-mente istituito il sistema, allora emergente, degli Stati europei. Sotto laleadership britannica, il sistema di Stati sovrani imperniato sull’Europasi trasformò in un sistema di dominio globale. Infine, sotto la leadershipstatunitense, il sistema ha perso la propria natura eurocentrica, per svi-lupparsi ulteriormente in estensione e profondità.

Abbiamo illustrato nei dettagli le basi storiche di queste concettualiz-zazioni in due libri, uno dedicato alla ricostruzione dei quattro cicli siste-mici di accumulazione18 e l’altro al confronto fra le attuali trasformazionidel capitalismo mondiale e i due precedenti periodi di transizione egemo-nica – la transizione dall’egemonia olandese a quella inglese nel XVIIIsecolo e la transizione dall’egemonia inglese a quella statunitense nel tardoXIX secolo e agli inizi del XX19. Nelle pagine seguenti ci limiteremo a illu-strare la logica e i meccanismi sottostanti alle dinamiche dei cicli e delletransizioni. In primo luogo ci occuperemo dei cicli sistemici di accumula-zione e del modello di evoluzione che emerge dalla loro successione; poivolgeremo l’attenzione alle transizioni egemoniche e a ciò che ci possonosuggerire sulla direzione e i possibili esiti delle trasformazioni attuali.

ESPANSIONI FINANZIARIE ED EVOLUZIONE DEL CAPITALISMO MONDIALE

Espansioni materiali e finanziarie sono entrambe processi del siste-ma-mondo capitalistico – un sistema che, pur crescendo nei secoli indimensioni e raggio d’azione, si è servito fin dalle origini di una grandevarietà di soggetti politici ed economici. Le espansioni materiali sonolegate all’emergere di un particolare blocco di agenzie governative eimprenditoriali capace di guidare il sistema verso una più ampia eprofonda divisione del lavoro che crea le condizioni per rendimenti cre-scenti dei capitali investiti nel commercio e nella produzione. In questecondizioni, i profitti tendono ad essere abitualmente reinvestiti nell’ulte-riore espansione del commercio e della produzione e, consapevolmenteo no, i principali centri del sistema cooperano fra loro sostenendo cia-scuno l’espansione degli altri. Col tempo, tuttavia, l’investimento di unamassa sempre maggiore di profitti nell’ulteriore espansione del commer-

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so attività più redditizie – viene a configurarsi non tanto come un problemarispetto alla redditività delle transazioni finanziarie, quanto piuttosto comeun fattore propulsivo del loro superamento mediante nuove fasi di espansio-ne materiale. Particolarmente illuminante è l’osservazione di Marx secondocui il sistema creditizio è stato uno strumento chiave, sia a livello nazionaleche internazionale, per il trasferimento del surplus di capitale dai centrideclinanti ai centri in ascesa del commercio e della produzione capitalistici.Poiché le tesi di fondo di Marx nel Capitale fanno astrazione dal ruolo degliStati nei processi di accumulazione del capitale, il debito pubblico e la ces-sione dei patrimoni e dei redditi futuri degli Stati sono considerati come for-me di “accumulazione originaria”, vale a dire “un’accumulazione che non èil risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico”25.Questa concettualizzazione ha impedito a Marx di considerare, come inve-ce ha fatto Weber, il persistente significato storico dei debiti pubblici in unsistema-mondo capitalistico caratterizzato da Stati in concorrenza l’uno conl’altro per il capitale mobile. Marx non ha riconosciuto la persistente impor-tanza del debito pubblico, non soltanto come espressione della concorrenzatra gli Stati, ma come strumento di una cooperazione “invisibile” tra i capi-talisti, che ha ripetutamente “riavviato” l’accumulazione di capitale, nellospazio-tempo del sistema-mondo capitalistico:

Con i debiti pubblici è sorto un sistema di credito internazionale chespesso nasconde una delle fonti dell’accumulazione originaria di questoo di quel popolo. Così le bassezze del sistema di rapina veneziano sonoancora uno di tali arcani fondamenti della ricchezza di capitalidell’Olanda, alla quale Venezia in decadenza prestò forti somme didenaro. Altrettanto avviene fra l’Olanda e l’Inghilterra. Già all’inizio deldiciottesimo secolo […] l’Olanda ha cessato di essere la nazione indu-striale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più impor-tanti diventa, dal 1701 al 1776, quello del prestito di enormi capitali, chevanno in particolare alla sua forte concorrente, l’Inghilterra. Qualcosa disimile si ha oggi fra Inghilterra e Stati uniti26.

Marx non ha mai sviluppato le implicazioni teoriche di questa suaosservazione storica. Nonostante il grande spazio riservato al “capitalemonetario” nel Terzo libro del Capitale, egli resta fermo nel considerareil debito nazionale come meccanismo di un’accumulazione del capitaleche non è “il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzionecapitalistico”. Eppure è la sua stessa osservazione storica a evidenziarecome il punto di partenza dei centri emergenti (Olanda, Inghilterra, Sta-

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Nella nostra concettualizzazione delle espansioni finanziarie, cia-scuna di queste tre fonti di redditività gioca un ruolo distinto. La primafonte fornisce il legame tra le crisi di sovraccumulazione, che segnalano lafine delle espansioni materiali, e le conseguenti espansioni finanziarie.Dunque, all’insorgere di ogni espansione finanziaria “una sovraccumula-zione di capitale induce le organizzazioni capitalistiche a invadere reci-procamente i rispettivi campi di attività; la divisione del lavoro che inprecedenza definiva i termini della loro reciproca cooperazione vienemeno; e, sempre più, […] la concorrenza si trasforma da un gioco a som-ma positiva in un gioco a somma zero (o persino a somma negativa)”22.Ma questa fonte di profitto non fornisce una spiegazione sufficiente deilunghi periodi di espansione finanziaria – regolarmente superiori ai cin-quant’anni – interposti tra la fine di ogni fase di espansione materiale el’inizio della successiva. La concorrenza spietata tra le agenzie capitalisti-che crea quelle che potremmo definire le condizioni di “offerta” per leprolungate espansioni finanziarie; accentuando la tendenza generale allariduzione dei margini di profitto nel commercio e nella produzione, laconcorrenza rafforza la propensione delle agenzie capitalistiche a mante-nere in forma liquida una parte crescente dei flussi monetari.

Ma prolungate espansioni finanziarie si materializzano solo allorchéla maggiore preferenza per la liquidità delle agenzie capitalistiche incontraadeguate condizioni di “domanda”. Storicamente, il fattore cruciale nellacreazione delle condizioni di domanda di tutte le espansioni finanziarie èstata l’intensificazione della lotta interstatale per il capitale mobile – lottache Max Weber considerava “una peculiarità storica del mondo [moder-no]”23. L’avvento delle espansioni finanziarie in periodi di concorrenzaparticolarmente intensa per il capitale mobile non è un accidente storico,ma può essere spiegato con la tendenza delle organizzazioni territorialistea reagire ai più stretti vincoli di bilancio derivanti dal rallentamentonell’espansione del commercio e della produzione, attraverso una maggio-re competizione per il capitale accumulato sui mercati finanziari. Questadinamica ha portato a una massiccia redistribuzione di redditi e ricchezzada comunità di ogni tipo alle agenzie che controllano il capitale mobile,alimentando le dimensioni e la redditività di transazioni finanziarie sepa-rate dal commercio e dalla produzione di merci (la seconda fonte dei pro-fitti finanziari di Pollin). Tutte le belle époques di capitalismo finanziario –dal Rinascimento di Firenze alle epoche di Reagan e Clinton – sono statecaratterizzate da redistribuzioni di questo tipo24.

Infine, la terza fonte dei profitti finanziari di Pollin – la riallocazionedei fondi da attività di produzione materiale e scambio meno redditizie ver-

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All’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di accu-mulazione genovese, la Repubblica di Genova era una città-Stato picco-la nelle dimensioni e semplice nell’organizzazione, dotata di uno scarsopotere effettivo. Profondamente divisa dal punto di vista sociale e abba-stanza fragile militarmente, era uno Stato debole a confronto delle gran-di potenze del tempo, inclusa l’antica rivale Venezia, che appartenevaancora al novero delle grandi potenze. Eppure, grazie alle sue vaste reticommerciali e finanziarie, la classe capitalistica genovese, organizzata inuna “diaspora” cosmopolita, era in grado di trattare alla pari con i piùpotenti sovrani territorialisti d’Europa, e di trasformare la loro spietataconcorrenza per il capitale mobile in un potente motore di valorizzazio-ne del proprio capitale28.

All’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di accu-mulazione olandese, le Provincie Unite costituivano un genere di orga-nizzazione ibrida, che combinava alcune caratteristiche delle città-Statoin via di scomparsa con alcune caratteristiche degli Stati-nazione emer-genti. Di dimensioni e complessità assai maggiori rispetto alla Repubbli-ca di Genova, le Provincie Unite “contenevano” un potere sufficiente aconquistare l’indipendenza dalla Spagna imperiale, a ricavare dall’impe-ro navale e territorialista di quest’ultima un impero estremamente reddi-tizio di avamposti commerciali e a tenere a bada la sfida militare navaleinglese e quella terrestre da parte della Francia. Il maggior potere delloStato olandese rispetto a quello genovese permise alla sua classe capitali-sta di ripetere quello che i genovesi avevano già fatto – trasformare laconcorrenza interstatale per il capitale mobile in un potente motore divalorizzazione del proprio capitale – senza tuttavia dover “acquistare”protezione dagli Stati territorialisti, com’era invece accaduto ai genovesimediante una relazione di scambio politico con i sovrani iberici. Il regi-me olandese, in altre parole, “internalizzò” i costi di protezione che igenovesi avevano esternalizzato (si veda la Figura 1, colonna 4)29.

All’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime di accu-mulazione britannico, la Gran Bretagna non era solo uno Stato-nazionepienamente sviluppato; essa si accingeva anche a conquistare un imperocommerciale e territorialista di dimensioni mondiali, che avrebbe confe-rito ai suoi gruppi dominanti e alla propria classe capitalistica un control-lo senza paralleli né precedenti sulle risorse umane e naturali del mondo.Tale controllo permise alla classe capitalista britannica di fare quello dicui gli olandesi si erano già dimostrati in grado – volgere a proprio van-taggio la concorrenza interstatale per il capitale mobile e “produrre” dasé tutta la protezione richiesta dalla valorizzazione del proprio capitale –

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ti uniti) sia insieme il risultato di lunghi periodi di accumulazione dicapitale nei centri già affermati (Venezia, Olanda, Inghilterra). Per usarel’immagine di Braudel, ogni espansione finanziaria è simultaneamentel’“autunno” di uno sviluppo capitalistico di portata storico-mondialeche ha raggiunto i propri limiti in un luogo e la “primavera” di uno svi-luppo di portata maggiore che comincia in un altro posto.

La dinamica simile dei vari cicli sistemici di accumulazione – consi-stendo ciascuno nell’emergere di un nuovo regime accumulativo nel corsodell’espansione finanziaria del precedente – fa sì che essi siano confrontabilil’uno con l’altro. Ma non appena confrontiamo gli attori, le strategie e lestrutture dei cicli, scopriamo non solo che i cicli sono differenti, ma ancheche la loro sequenza descrive un modello di evoluzione costituito da regimidi dimensione, raggio d’azione e complessità crescenti. La prima colonnadella Figura 1 riassume questo modello di evoluzione considerando i “con-tenitori di potere” – come Anthony Giddens27 ha appropriatamente defini-to gli Stati – che, nei successivi cicli di accumulazione, hanno ospitato il“quartier generale” dell’organizzazione capitalistica egemone: la repubblicadi Genova, le Province Unite, il Regno Unito e gli Stati uniti.

FIGURA 1. LE DINAMICHE EVOLUTIVE DEL CAPITALISMO MONDIALE

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Istituzionigovernativedominanti

Stato mondiale

Stato nazione

Città Stato

Tipo di regime/ciclo Costi internalizzati

Estensivo Intensivo

USA

Britannico

Olandese

Genovese

Protezione Produzione Transazione Riproduzione

No

No

No

No

No

No

No

No

No

No

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talismo manageriale olandese (si veda la Figura 1, colonna 1 e 2)32.Questa periodica rinascita di strategie e strutture di accumulazione

precedentemente superate genera un movimento di tipo oscillatorio trastrutture organizzative “cosmopolitico-imperiali” e strutture “manage-rial-nazionali”, le prime caratteristiche dei regimi “estensivi” – comequello genovese e quello britannico – e le seconde dei regimi “intensivi”– come quello olandese e quello statunitense. Il regime “cosmopolitico-imperiale” genovese e quello britannico sono regimi estensivi, nel sensoche ad essi va attribuita la responsabilità della maggior parte dell’espan-sione geografica del sistema-mondo capitalistico. Durante il regimegenovese il mondo fu “scoperto”, sotto quello britannico fu “conquista-to”. I regimi “managerial-nazionali” olandese e statunitense, al contra-rio, sono intensivi, nel senso che sono stati responsabili del consolida-mento geografico piuttosto che dell’espansione del sistema-mondo capi-talistico. Durante il regime olandese, la “scoperta” del mondo, che ebbecome principali protagonisti gli iberici, alleati dei genovesi, fu consolida-ta in un sistema di depositi commerciali e società per azioni privilegiatecon il loro centro ad Amsterdam. E durante il regime statunitense la“conquista” del mondo, operata principalmente dagli stessi inglesi, fuconsolidata in un sistema di mercati nazionali e grandi imprese transna-zionali che ha avuto il proprio centro negli Stati uniti.

Questa alternanza di regimi intensivi ed estensivi rende confusa lapercezione della tendenza fondamentale di lungo termine versol’aumento delle dimensioni, del raggio d’azione e della complessità deiregimi di accumulazione. Quando il pendolo oscilla in direzione deiregimi estensivi, la tendenza sottostante viene esaltata, mentre quandooscilla in direzione dei regimi intensivi, essa appare meno significativa diquanto sia in realtà. Nondimeno, se controlliamo queste oscillazionimettendo a confronto i due regimi intensivi e i due estensivi – quellogenovese con quello britannico, e quello olandese con quello statuniten-se – la tendenza sottostante risulta inequivocabile.

Lo sviluppo del capitalismo storico come sistema-mondo si è basa-to sulla formazione di blocchi di organizzazioni governative e imprendi-toriali cosmopolitico-imperiali o managerial-nazionali sempre piùpotenti, dotati della capacità di estendere (o approfondire) la portatafunzionale e spaziale del sistema-mondo capitalistico. Eppure, quantopiù questi blocchi sono divenuti potenti, tanto più breve è stato il ciclodi vita dei regimi di accumulazione cui essi hanno dato origine – tantopiù breve, cioè, è stato il tempo necessario perché questi regimi emer-gessero dalla crisi del precedente regime dominante, divenissero essi

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senza tuttavia dover dipendere da organizzazioni territorialiste straniere espesso ostili per procurarsi la maggior parte della produzione agro-indu-striale su cui si reggeva la redditività delle proprie attività commerciali. Seil regime olandese rispetto a quello genovese aveva internalizzato i costidi protezione, il regime britannico rispetto a quello olandese internalizzòi costi di produzione (si veda la Figura 1, colonna 5)30.

Infine, all’epoca dell’ascesa e della piena espansione del regime diaccumulazione Usa, gli Stati uniti erano già qualcosa di più di uno Sta-to-nazione pienamente sviluppato. Erano un complesso militare-indu-striale di dimensioni continentali, dotato di un potere sufficiente agarantire a un gran numero di governi subordinati e alleati un’efficaceprotezione, e a effettuare minacce credibili di strangolamento economi-co o annientamento militare rivolte a governi ostili in qualunque partedel mondo. Assieme alle dimensioni, all’insularità e alla ricchezza natu-rale del suo territorio, questo potere permise alla classe capitalista statu-nitense di internalizzare non solo i costi di protezione e produzione –come aveva già fatto la classe capitalista britannica – ma anche i costi ditransazione, vale a dire i costi relativi alla gestione dei mercati su cui sireggeva la valorizzazione del proprio capitale (si veda la Figura 1, colon-na 6)31.

Questo aumento costante delle dimensioni, del raggio d’azione edella complessità dei successivi regimi di accumulazione del capitale suscala mondiale è in parte oscurato da un’altra caratteristica della sequen-za temporale di tali regimi. Questa caratteristica è rappresentata da undoppio movimento, in avanti e all’indietro allo stesso tempo: ciascunpasso in avanti nel processo di internalizzazione dei costi, a opera di unnuovo regime di accumulazione, ha comportato la rinascita di strategie estrutture governative e imprenditoriali già superate dal regime prece-dente.

Così, l’internalizzazione dei costi di protezione a opera del regimeolandese, rispetto al regime genovese, avvenne attraverso la rinascita del-le strategie e delle strutture del capitalismo monopolistico di Stato vene-ziano già rimpiazzate dal regime genovese. In modo analogo, l’internaliz-zazione dei costi di produzione operata dal regime britannico, rispetto alregime olandese, avvenne mediante la rinascita in forme nuove e piùcomplesse delle strategie e delle strutture del capitalismo cosmopolitagenovese e del territorialismo globale iberico. E lo stesso modello si èriproposto in occasione dell’ascesa e della piena espansione del regimestatunitense, che ha internalizzato i costi di transazione riportando inauge, in forme nuove e più complesse, le strategie e le strutture del capi-

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da tutte queste attività, furono per il capitale olandese puri e semplicistrumenti della propria valorizzazione. Quando, intorno al 1740, questimezzi non servirono più allo scopo, il capitale olandese, come già ilcapitale genovese 180 prima, li abbandonò in favore di una maggiorespecializzazione nell’alta finanza.

Da questa prospettiva, nel diciannovesimo secolo il capitale britan-nico si limitò a ripetere un modello che era stato istituito molto tempoprima che il capitalismo storico come modo di accumulazione divenisseanche un modo di produzione. L’unica differenza consisteva nel fattoche, nel ciclo britannico, in aggiunta ai trasporti, all’immagazzinamentoe ad altri aspetti del commercio di lunga e breve distanza e alle relativeattività di protezione e produzione, le attività estrattive e quelle manifat-turiere – cioè quelle che potremmo definire di produzione in sensostretto – erano divenute mezzi essenziali della valorizzazione del capita-le. Ma quando, intorno al 1870, la produzione e le attività commercialiad essa connesse non servirono più a questo scopo, il capitale britannicosi specializzò velocemente nella speculazione e nell’intermediazionefinanziaria, proprio come il capitale olandese aveva fatto 130 anni pri-ma, il capitale genovese 310 anni prima, e il capitale statunitense avreb-be fatto 100 anni dopo.

In ciascun caso, la contraddizione consiste nel fatto che sebbenel’espansione materiale dell’economia-mondo sia stata un mero strumen-to di sforzi tesi principalmente a incrementare il valore del capitale, essaha, nel corso del tempo, condotto sempre alla diminuzione del saggiodel profitto e dunque alla limitazione del valore del capitale. Grazie allaloro persistente centralità nelle attività dell’alta finanza, sono i centri giàaffermati quelli meglio posizionati per volgere l’intensificazione dellaconcorrenza per il capitale mobile a proprio vantaggio, alimentando ipropri profitti e potere a spese del resto del sistema. Da questo punto divista, il gonfiarsi dei profitti e del potere statunitensi negli anni Novantaha seguito un modello tipico del capitalismo mondiale fin dai suoialbori35. La questione che rimane aperta è se dobbiamo aspettarci chequesto modello consolidato possa condurre, come nel passato, alla sosti-tuzione del regime statunitense ancora dominante con un altro regime.

TRANSIZIONI EGEMONICHE: PASSATO E PRESENTE

La Figura 1 riassume i modelli di ricorrenza ed evoluzione cheabbiamo ricavato da un confronto tra i successivi cicli sistemici di accu-

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stessi dominanti e raggiungessero i loro limiti, com’è segnalato dall’ini-zio di una nuova espansione finanziaria. Sulla base della periodizzazionedi Braudel per stabilire l’inizio delle espansioni finanziarie, la durata deicicli è giunta quasi a dimezzarsi, sia confrontando il regime di accumula-zione britannico con quello genovese che confrontando il regime diaccumulazione statunitense con quello olandese33.

Questo modello di sviluppo capitalistico, in cui l’aumento delpotere dei regimi di accumulazione è associato a una riduzione dellaloro durata, richiama alla mente la tesi di Marx secondo cui “il verolimite della produzione capitalistica è il capitale stesso” e secondo cui laproduzione capitalistica supera continuamente questi limiti immanenti“unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti suscala nuova e più alta”34. Ma la contraddizione tra la valorizzazione delcapitale da un lato, e lo sviluppo delle forze materiali di produzione e diun corrispondente mercato mondiale dall’altro, può essere riformulatain termini ancor più generali rispetto a quelli di Marx. Il capitalismo sto-rico in quanto sistema-mondo di accumulazione è divenuto un “mododi produzione” – vale a dire, ha internalizzato i costi di produzione –solo nel suo terzo stadio di sviluppo (quello britannico). Eppure, il prin-cipio secondo cui il vero limite dello sviluppo capitalistico è il capitalestesso, e la valorizzazione del capitale esistente è in tensione costante edentra periodicamente in contraddizione con l’espansione materialedell’economia-mondo e con la creazione di un corrispondente mercatomondiale – tutto questo era già all’opera negli stadi di sviluppo genove-se e olandese, nonostante l’esternalizzazione della produzione agro-industriale da parte delle agenzie dominanti.

In entrambi gli stadi, genovese e olandese, il perseguimento delprofitto come fine in sé da parte di un particolare agente capitalistico hacostituito il punto di partenza e quello conclusivo dell’espansione mate-riale dell’economia-mondo. Nel primo stadio, quello delle “grandi sco-perte”, l’organizzazione del commercio di lunga distanza all’interno eattraverso i confini del vasto impero iberico e la creazione di un “merca-to mondiale” embrionale ad Anversa, Lione e Siviglia furono per il capi-tale genovese meri strumenti della propria espansione. E quando, nel1560 circa, questi mezzi non servirono più allo scopo, il capitale genove-se si disimpegnò dal commercio per specializzarsi nell’alta finanza. Allostesso modo, i trasporti tra giurisdizioni politiche lontane, la centralizza-zione del commercio di transito ad Amsterdam e delle industrie ad altovalore aggiunto in Olanda, la creazione di una rete mondiale di scambi edi avamposti commerciali e la “produzione” delle protezioni richieste

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cativo un loro confronto, una serie di anomalie ci mette in guardia suirischi di una proiezione meccanicistica di modelli passati sul futuro.

La Figura 2 riassume il modello complessivo delle transizioni ege-moniche emerso dall’analisi37. Il modello descrive le espansioni sistemi-che come inserite all’interno di particolari strutture egemoniche, che neltempo esse stesse tendono a minare. Le espansioni sono il risultato didue differenti tipi di leadership che, insieme, definiscono le situazioniegemoniche. Da un lato, la leadership di uno Stato sul sistema verso unadirezione ritenuta garante dell’interesse generale (riorganizzazione siste-mica), promuove l’espansione dotando il sistema stesso di una divisionedel lavoro e di una specializzazione delle funzioni più ampie e profonde.Dall’altro lato, la leadership di uno Stato su altri Stati, attraendoli sullasua traiettoria di sviluppo (emulazione), fornisce loro la spinta motiva-zionale necessaria a mobilitare energie e risorse per l’espansione (si vedala Figura 2, colonna 1)38.

FIGURA 2. LA DINAMICA DELLE TRANSIZIONI EGEMONICHE

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mulazione. Se il futuro del capitalismo mondiale fosse pienamenteinscritto in questi modelli – prospettiva che oggi, come vedremo, è assaimeno probabile di quanto non lo fosse nelle transizioni passate – il com-pito di prevedere che cosa ci attende nei prossimi cinquant’anni sarebbefacile e le nostre aspettative sarebbero le seguenti.

Primo: entro dieci o al massimo vent’anni il regime di accumula-zione statunitense vivrebbe la sua crisi terminale. Secondo: col tempo(diciamo un’altra ventina d’anni), la crisi verrebbe sostituita dalla forma-zione di un nuovo regime di accumulazione capace di sostenere unanuova espansione materiale del capitalismo mondiale. Terzo: le caratte-ristiche delle organizzazioni governative che guiderebbero questo nuovoregime di accumulazione si avvicinerebbero a quelle di uno “Stato mon-diale” più di quanto abbiano fatto gli Stati uniti. Quarto: a differenza diquello statunitense, il nuovo regime di accumulazione sarebbe di tipoestensivo (“cosmopolitico-imperiale”) anziché intensivo (“managerial-nazionale”). Infine la cosa più importante: il nuovo regime di accumula-zione internalizzerebbe i costi di riproduzione, cioè il tipo di costi che ilregime statunitense ha esternalizzato in modo sempre più massiccio.

Non possiamo scartare l’ipotesi che queste aspettative si realizzino,ma la loro realizzazione non è né l’unico né, di fatto, il più probabile deifuturi possibili, giacché le transizioni da un regime di accumulazione aun altro non sono del tutto inscrivibili entro modelli prestabiliti. Imodelli di ricorrenza ed evoluzione mostrano come la successione ditraiettorie di sviluppo, che nei secoli hanno alimentato l’espansione delsistema-mondo capitalistico fino alle attuali dimensioni globali, non siastata un processo casuale. L’emergere di traiettorie di sviluppo nuove edi successo nel corso di ciascuna transizione è dipeso ed è stato modella-to da una serie di fattori storici e geografici, i quali sono stati a loro voltatrasformati e ricombinati dalla concorrenza e dalle lotte che stanno die-tro alle espansioni finanziarie.

I modelli che osserviamo ex post, in altre parole, sono il risultatotanto di contingenze geografiche e storiche, quanto di necessità storica.Nelle congetture ex ante sui futuri esiti dell’attuale transizione dobbia-mo prestare eguale attenzione tanto ai fenomeni corrispondenti ai passa-ti modelli di ricorrenza ed evoluzione quanto ai fenomeni che se nediscostano, alle anomalie che potrebbero produrre esiti diversi rispettoai modelli passati. Nel tentativo di individuare tali anomalie, ci siamoimpegnati in un’analisi approfondita della dinamica dell’attuale transi-zione confrontandola con le transizioni egemoniche passate36. Se ci sonosomiglianze tra la transizione attuale e quelle passate da rendere signifi-

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Egemonia Transizione egemonica

Crisiegemonica

Crollo egemonico

Nuova egemonia

Riorganizzazionesistemicada parte dello Statoegemonico

Espansionesistemica

Emulazionedello Statoegemonico

Rivalità interstatalie concorrenzatra imprese

Conflitti sociali

Emergere di nuoveconfigurazionidi potere

Caos sistemico

Centralizzazionedelle capacitàdel sistema

Riorganizzazionesistemica da partedel nuovoStato egemonico

Emulazionedel nuovoStato egemonico

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in crolli egemonici è ambivalente. Per un verso, infatti, esse tengono lacrisi sotto controllo inflazionando temporaneamente il potere dello Sta-to egemonico in declino. Come l’“autunno” dei grandi sviluppi capitali-stici, le espansioni finanziarie sono l’autunno delle strutture egemonicheentro cui questi sviluppi sono inseriti; rappresentano il momento in cuila potenza-guida di una grande espansione materiale dell’economia-mondo giunge al punto di raccogliere finalmente i frutti della proprialeadership, nella forma di un accesso privilegiato alla sovrabbondanteliquidità accumulatasi sui mercati finanziari mondiali. Grazie alla suapersistente centralità nelle reti dell’alta finanza, il paese a egemoniadeclinante può volgere la concorrenza per il capitale mobile a propriovantaggio, rilanciando il suo potere in declino. Questa reflazione per-mette allo Stato a egemonia declinante di contenere, almeno per un po’,le forze che sfidano la prosecuzione del suo dominio.

Per altro verso, però, le espansioni finanziarie consolidano questeultime, ampliando e approfondendo la concorrenza tra Stati e tra impre-se e i conflitti sociali, e riallocando il capitale verso strutture emergentiche promettono maggiore sicurezza o rendimenti più alti di quelligarantiti dalla struttura dominante. Gli Stati egemonici declinanti si tro-vano di fronte a una fatica di Sisifo: contenere forze che rotolano giùcon sempre rinnovata energia. Prima o poi, anche una scossa minimapotrà far pendere l’ago della bilancia a favore delle forze che, consape-volmente o no, stanno minando la già precaria stabilità delle struttureesistenti, provocando il crollo dell’organizzazione sistemica.

I crolli egemonici costituiscono i punti di svolta decisivi delle tran-sizioni egemoniche. Sono i momenti in cui l’organizzazione sistemicacostruita dalle potenze egemoniche declinanti si disintegra e si instaurail caos sistemico. Ma rappresentano anche il momento in cui si formanole nuove egemonie.

La disorganizzazione sistemica diminuisce il potere collettivo deigruppi dominanti del sistema; più questo si riduce, più diventa ampia larichiesta di governance del sistema. Tuttavia, questa richiesta può esseresoddisfatta, e una nuova egemonia può emergere, solo se la crescentedisorganizzazione sistemica è accompagnata dalla comparsa di un nuo-vo blocco di agenzie governative e imprenditoriali dotato di maggioricapacità organizzative a livello di sistema rispetto a quelle del preceden-te complesso egemonico. Il crollo di un qualsiasi ordine egemonico è inultimo dovuto al fatto che l’incremento di volume e densità dinamicadel sistema supera, a un certo punto, le capacità organizzative del parti-colare complesso egemonico che aveva creato le condizioni dell’espan-

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C’è sempre una tensione tra queste due tendenze, perché mentreuna maggiore divisione del lavoro e specializzazione delle funzioniimplica cooperazione tra le unità del sistema, l’emulazione invece si basasulla reciproca concorrenza. Inizialmente, l’emulazione opera in un con-testo prevalentemente cooperativo e agisce quindi come motoredell’espansione. Ma l’espansione accresce ciò che Emile Durkheim chia-mava “volume” e “densità dinamica” del sistema39, cioè, da un lato, ilnumero delle unità socialmente rilevanti che interagiscono nel sistema,e, dall’altro, il numero, la varietà e la velocità delle transazioni che lega-no un’unità all’altra. Col tempo, questo incremento di volume e densitàdinamica del sistema tende a intensificare la concorrenza tra le unità delsistema al di là delle capacità di regolazione delle istituzioni esistenti.Quando ciò accade, riprende il sopravvento quella che Kenneth Waltzha chiamato “la tirannia delle piccole decisioni”40, la tendenza dei singo-li Stati a perseguire il proprio interesse nazionale senza riguardo per iproblemi sistemici che richiedono soluzioni a livello di sistema; lo Statoegemonico subisce una deflazione di potere e si ha una crisi egemonica.

Le crisi egemoniche sono state caratterizzate da tre processi distin-ti ma strettamente correlati: l’intensificazione della concorrenza tra Statie tra imprese; l’escalation dei conflitti sociali; e l’emergenza interstizialedi nuove configurazioni di potere (si veda la Figura 2, colonna 2). Laforma che questi processi hanno assunto e le loro relazioni nello spazio enel tempo variano da crisi a crisi. Ma una qualche combinazione dei treprocessi può essere rintracciata in ciascuna delle due transizioni egemo-niche finora compiute – dall’egemonia olandese alla britannica e dallabritannica alla statunitense – e nella transizione attuale dall’egemoniastatunitense verso una destinazione ancora sconosciuta.

Inoltre, nelle transizioni passate (sebbene non ancora in quella pre-sente), le crisi egemoniche hanno portato a un crollo egemonico e alcaos sistemico. Con “caos sistemico” intendiamo una situazione di gravee apparentemente irrimediabile disorganizzazione sistemica. Quando laconcorrenza e i conflitti si intensificano fino a eccedere le capacità diregolazione delle strutture esistenti, emergono interstizialmente nuovestrutture a destabilizzare ulteriormente la configurazione di poteredominante. Il disordine tende ad autoalimentarsi, minacciando di pro-vocare, o provocando de facto, il crollo definitivo dell’organizzazionesistemica (si veda la Figura 2, colonna 3).

Le espansioni finanziarie sono state un aspetto integrante delle cri-si egemoniche passate e presenti, nonché della loro trasformazione incrolli egemonici. Ma il loro impatto sulla tendenza delle crisi a risolversi

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no alla base, si conclusero 30 o 40 anni dopo il loro inizio, con il crollototale dell’ordine egemonico in declino. In entrambe le passate transi-zioni, dunque, le espansioni finanziarie che diedero nuovo spazio alpotere degli Stati egemonici declinanti si sono poi concluse sotto il pesodelle proprie contraddizioni. Ma la cecità che induceva i gruppi dirigen-ti di questi Stati a scambiare l’“autunno” del loro potere egemonico peruna nuova “primavera” provocò l’accelerazione e l’accentuarsi del carat-tere catastrofico della fine – soprattutto per se stessa nel caso dellaRepubblica Olandese, per l’Europa e il mondo nel caso della Gran Bre-tagna41.

Una cecità simile è oggi evidente. La facilità con cui gli Stati unitisono riusciti a mobilitare risorse sui mercati finanziari globali per scon-figgere l’Unione Sovietica in quella che Fred Halliday ha chiamato “laseconda Guerra fredda”42 e, in seguito, per sostenere una lunga espan-sione economica interna e un boom spettacolare nella Borsa di NewYork, ha portato alla convinzione che “America’s back!” Ma anche sup-ponendo che il potere globale statunitense si sia effettivamente ripreso,sarebbe comunque un tipo di potere molto diverso da quello dispiegato-si al culmine dell’egemonia statunitense. Quel potere riposava sullacapacità degli Stati uniti di elevarsi ed elevare gli altri Stati al di sopradella “tirannia delle piccole decisioni”, così da risolvere i problemi alivello di sistema che avevano tormentato il mondo nel caos sistemicodegli anni Trenta e Quaranta. Il nuovo potere di cui gli Stati uniti sonovenuti a godere negli anni Ottanta e Novanta riposa, invece, sulla capa-cità statunitense di avere successo nella competizione con gli altri Statisui mercati finanziari globali, risuscitando una tirannia delle piccoledecisioni in un contesto di sempre più pressanti problemi sistemici chené gli Stati uniti né un altro Stato sembrano oggi in grado di risolvere.

Inoltre, l’estensione della ripresa del potere Usa non è ampia quan-to generalmente assunto dalle élite statunitensi. In primo luogo, l’espan-sione finanziaria stessa sembra reggersi su basi sempre più precarie.Anche i più entusiasti sostenitori della concorrenza interstatale su mer-cati finanziari globalmente integrati hanno cominciato a temere che laglobalizzazione finanziaria stia tramutandosi in una “corsa sfrenata edistruttiva” e si preoccupano della possibile “crescita di una violentareazione” contro gli effetti di una forza tanto distruttiva, innanzituttol’“ascesa di nuova classe di politici populisti” favorita dal “senso […]d’insicurezza e ansia” che si sta impadronendo anche dei paesi ricchi43.Una reazione di questo tipo, del resto, è stata caratteristica anche delleespansioni finanziarie passate44: essa preannuncia che la massiccia redi-

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sione. In ultima analisi, quindi, il disordine che ne risulta può esseresuperato, e le condizioni di una nuova espansione sistemica possonoessere create, solo se emerge un nuovo complesso egemonico dotato dimaggiori capacità sistemiche rispetto a quello passato.

Storicamente, gli stessi processi che hanno generato caos sistemicohanno anche dato vita a una maggiore concentrazione di capacità siste-miche, conducendo alla creazione di una nuova egemonia. Quandol’egemonia emergente guida il sistema nella direzione di una maggiorecooperazione tra le sue unità, trascinandole sulla propria traiettoria disviluppo, il caos sistemico si riduce e un nuovo ciclo egemonico inizia (siveda la Figura 2, colonna 4). Ma ogni ciclo si differenzia dal precedentesotto due aspetti fondamentali: la maggiore concentrazione di capacitàorganizzative esercitata dal nuovo Stato egemonico rispetto al predeces-sore, e il maggiore volume e densità dinamica del sistema riorganizzatodal nuovo Stato egemonico.

Il nostro modello descrive uno schema di ricorrenza – l’egemoniaconduce all’espansione, l’espansione al caos e il caos a una nuova ege-monia – che è anche uno schema di evoluzione – ogni nuova egemoniariflette una maggiore concentrazione di capacità organizzative, un mag-giore volume e densità del sistema rispetto all’egemonia precedente.Questo schema binario si applica bene alle transizioni egemoniche pas-sate, mentre, per quanto riguarda la transizione presente, sono pochi isegnali di un imminente crollo dell’egemonia statunitense. Possiamo,tuttavia, rilevare alcune importanti analogie tra le attuali trasformazionidell’economia politica globale e quelle caratterizzanti le transizioni pas-sate. La più importante è l’analogia tra l’attuale espansione finanziariaimperniata sugli Stati uniti non solo, come molti osservatori hanno nota-to, con l’espansione finanziaria imperniata sulla Gran Bretagna di fineOttocento-primo Novecento, ma anche con quella imperniatasull’Olanda a metà del Settecento. Come vedremo, ci sono buone ragio-ni per ritenere che l’attuale espansione finanziaria si concluderà diversa-mente rispetto alle precedenti; tuttavia ci sono altrettante buone ragioniper interpretare l’attuale espansione e la concomitante ripresa del poterestatunitense come segnali di una crisi egemonica analoga a quelle di 100e 250 anni fa.

Nel passato, come nel presente, la ripresa del potere dei centri ege-moni declinanti è servita a dissimulare la natura sempre più fragile delloro dominio. La ripresa fu più tardiva ed ebbe minor peso nel casodegli olandesi; arrivò prima e fu maggiore nel caso degli inglesi. Ma inentrambi i casi i revival di potere, e le espansioni finanziarie che ne era-

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È difficile dire in che modo gli storici futuri ricorderanno gli anniNovanta. Tuttavia, l’attuale rovesciamento di fortune nel sistema finan-ziario internazionale tra Nord America47 e Asia orientale ha una fortesomiglianza con il rovesciamento di fortune tra Gran Bretagna e Statiuniti durante la transizione egemonica della prima metà del Novecento.Per essere precisi, inversioni di queste dimensioni portano sempre con séproblemi specifici, come testimoniato dalla turbolenza che ha caratteriz-zato le economie dell’Asia orientale, dal crack della Borsa di Tokyo del1990-1992 fino alla crisi asiatica del 1997-1998. Problemi di questo gene-re hanno caratterizzato tutti i nuovi centri emergenti del capitalismomondiale; nelle passate transizioni egemoniche, come Braudel stesso fecenotare, le crisi che segnarono la caduta dei vecchi centri finanziari furonoavvertite prima e più gravemente nei centri finanziari in ascesa, Londranel 1772 e New York nel 192948. Ne consegue che le crisi finanziarie asia-tiche degli anni Novanta non costituiscono di per sé il segnale di unadebolezza regionale di lungo termine, né quello di un’inversione dellatendenza al ritorno del centro di gravità dell’economia globale, com’eragià in epoca pre-moderna e primo-moderna, verso l’Asia orientale.

In sintesi, l’espansione finanziaria globale degli ultimi 25 anni nonè né un nuovo stadio del capitalismo mondiale né il sintomo dell’“ege-monia emergente dei mercati globali”. È, piuttosto, il più chiaro segnaledel fatto che ci troviamo nel mezzo di una transizione egemonica analo-ga alle transizioni olandese-britannica e britannico-statunitense. Un’ana-logia che ci rende scettici rispetto alla stabilità di lungo periododell’attuale dominio globale del capitale finanziario e alla ripresa delpotere degli Stati uniti. Ma questa prospettiva ci permette anche diidentificare le novità dell’attuale transizione a confronto con le prece-denti. In conclusione, proviamo a esaminare le più importanti tra questenovità, e le loro implicazioni per le trasformazioni in corso.

FUTURI POSSIBILI

Dal punto di vista geopolitico, la novità più importante delle tra-sformazioni attuali è una biforcazione tra capacità militari e finanziarieche non ha precedenti nelle passate transizioni egemoniche. In esse leespansioni finanziarie sono sempre state caratterizzate dall’emergenzainterstiziale di complessi governativo-imprenditoriali più potenti (oplausibilmente in attesa di diventarlo) sia militarmente che finanziaria-mente rispetto ai complessi governativo-imprenditoriali ancora domi-

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stribuzione di redditi e ricchezze su cui l’espansione si regge ha raggiun-to, o quasi, i propri limiti. Quando la redistribuzione non è più sosteni-bile – economicamente, socialmente e politicamente – la fine dell’espan-sione finanziaria è inevitabile. L’unica questione che rimane aperta, daquesto punto di vista, non è se, ma quanto rapidamente e quanto cata-stroficamente l’attuale dominio globale del capitale finanziario volgeràal termine. In questo senso, la bolla della new economy scoppiata tra il2000 e il 2001 potrebbe essere il primo segnale che l’espansione finan-ziaria e la concomitante ripresa del potere statunitense hanno raggiuntoi propri limiti.

Ultima ma egualmente importante considerazione è che l’espansio-ne finanziaria imperniata sugli Stati uniti è stata accompagnata da unospostamento del centro di gravità dell’economia globale dal Nord Ame-rica all’Asia orientale. Nel 1960, all’apice dell’egemonia statunitense, ilprodotto nazionale lordo dell’Asia orientale corrispondeva solo al 35%di quello nordamericano. Nel 1990, invece, i due erano quasi identici(91%). Negli anni Novanta, la combinazione della rinascita statunitensee del collasso giapponese hanno rallentato, ma non invertito, tale sposta-mento – il prodotto nazionale lordo dell’Asia orientale, soprattutto gra-zie alla crescita rapida e costante del “circolo della Cina” (Cina, Singa-pore, Hong Kong e Taiwan)45, è cresciuto più rapidamente di quellonordamericano, fino a raggiungerne il 92% nel 1998. Lo spostamento,comunque, è anche più significativo di quanto questi dati testimonino.Come Eamonn Fingleton ha recentemente notato, concentrandosi sola-mente sulle relazioni tra Stati uniti e Giappone, negli anni Novanta lacrescita dell’attività manifatturiera giapponese rispetto agli Usa ha gene-rato ampi e persistenti surplus nella bilancia commerciale del Giapponee deficit nella bilancia statunitense, approfondendo così il rovesciamentodi posizione tra i due paesi nel sistema finanziario internazionale.

Il Giappone è ora, dai giorni del dominio economico globale americanonegli anni Cinquanta, il maggior esportatore di capitale in termini reali almondo… [Come risultato], nei primi nove anni degli anni Novanta ilpatrimonio netto all’estero del Giappone è balzato da 294 a 1153 miliar-di di dollari. Contemporaneamente, le passività nette estere degli Statiuniti sono esplose da 49 a 1537 miliardi di dollari. Sul lungo periodo,questo cambiamento nell’equilibrio del potere finanziario sarà probabil-mente la sola cosa che gli storici ricorderanno della rivalità economicadell’ultimo decennio tra Stati uniti e Giappone, ma è anche l’unica sucui gli osservatori occidentali generalmente sorvolano46.

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di potere interstatali, questi movimenti hanno costretto i gruppi domi-nanti a formare un nuovo blocco sociale egemonico che includesse, inmodo selettivo, gruppi e strati sociali precedentemente esclusi.

Nella transizione dall’egemonia olandese a quella britannica, leaspirazioni delle classi proprietarie europee a una maggiore rappresen-tanza politica e delle borghesie coloniali delle Americhe all’autodetermi-nazione furono conciliate in un nuovo blocco sociale dominante. Non lofurono invece le aspirazioni delle classi nullatenenti europee e quelledegli schiavi africani nelle Americhe, nonostante i loro contributi alleagitazioni che avevano trasformato il blocco sociale dominante. Sottol’egemonia britannica, la schiavitù fu lentamente eppure definitivamenteabolita, ma i progressi verso l’uguaglianza razziale furono limitatidall’espansione europea in Asia e in Africa, e da nuove forme di subor-dinazione degli schiavi liberati nelle Americhe51.

Con la transizione dall’egemonia britannica a quella statunitense –sotto l’effetto congiunto della rivolta contro l’Occidente e delle ribellionidella classe operaia – il blocco sociale egemonico fu ulteriormente allar-gato con la promessa di un New Deal globale. Alle classi operaie dei pae-si più ricchi d’Occidente furono promessi sicurezza d’impiego ed elevaticonsumi di massa. Alle élite del mondo non occidentale furono promessidiritto all’autodeterminazione nazionale e sviluppo (cioè, assistenza nelraggiungimento degli standard di ricchezza e benessere stabiliti dagli Sta-ti occidentali). Divenne presto chiaro, però, che questo pacchetto di pro-messe non poteva essere mantenuto. Inoltre, esso generò negli stratisubordinati del mondo aspettative che minacciarono seriamente la stabi-lità e infine precipitarono la crisi dell’egemonia statunitense52.

Sta qui il peculiare carattere sociale di questa crisi, in confrontoalle precedenti crisi egemoniche. La crisi dell’egemonia olandese fu unprocesso lungo e protratto nel tempo, in cui l’espansione finanziaria siprodusse tardi e il conflitto sociale a livello di sistema ancora più tardi.La crisi dell’egemonia britannica si sviluppò più rapidamente, mal’espansione finanziaria precedette ancora il conflitto sociale. Nella crisidell’egemonia Usa, al contrario, l’esplosione del conflitto sociale di fineanni Sessanta-primi anni Settanta ha preceduto e influito profondamen-te sulla successiva espansione finanziaria.

In effetti, l’attuale espansione finanziaria è stata davvero in primoluogo – per parafrasare Wallerstein53 – uno strumento di contenimentodelle richieste dei popoli del mondo non occidentale (per beneficimodesti a ciascuno, ma per molti) e delle classi operaie occidentali (perbenefici per un numero relativamente ristretto di persone, ma di una

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nanti – come il complesso statunitense rispetto all’inglese nel primoNovecento, il complesso inglese rispetto all’olandese agli inizi del XVIIIsecolo, quello olandese rispetto al genovese nel tardo XVI secolo. Nellatransizione attuale, invece, tale dato non può essere ravvisato.

Come nelle transizioni passate, il complesso declinante ma ancoradominante (quello statunitense) si è trasformato da massimo creditoremondiale a Stato più indebitato del mondo. A differenza delle transizio-ni passate, però, le risorse militari globali si sono concentrate più chemai nelle mani del complesso ancora dominante. L’egemonia declinantesi ritrova così nell’anomala situazione in cui non ha avversari credibilidal punto di vista militare – circostanza che rende una guerra fra legrandi potenze del sistema assai meno probabile di quanto non fossenelle transizioni passate –, ma non ha i mezzi finanziari necessari a risol-vere i problemi che richiedono soluzioni a livello di sistema – circostan-za che potrebbe portare a un crollo egemonico anche in assenza di guer-re mondiali tra le grandi potenze del sistema.

Il rovescio di quest’anomala situazione è il riemergere di città-Stato(Hong Kong e Singapore) e Stati semi-sovrani (Giappone e Taiwan)come “salvadanai” del sistema capitalistico mondiale49. Mai, dopo l’eli-minazione della Repubblica Olandese dalla scena dell’alta politica euro-pea, simili “salvadanai” avevano esercitato tanta influenza sulla politicadel mondo moderno. Anche sotto questo aspetto – come nella sposta-mento del centro di gravità dell’economia globale di nuovo verso l’Asiaorientale – la transizione attuale sembra riesumare caratteristiche dellaprima modernità e dell’epoca pre-moderna. Dato che tutti questi “salva-danai” devono la loro fortuna a una rigorosa specializzazione nel perse-guimento della ricchezza piuttosto che del potere, da nessuno di loro –incluso il più grande, il Giappone – ci si può aspettare un cambio di rot-ta, il tentativo di diventare una potenza militare di portata più che regio-nale o di fornire soluzioni sistemiche a problemi sistemici. Questa èun’ulteriore ragione per ritenere che la crisi attuale non abbia alcunatendenza intrinseca né a degenerare in una guerra fra le unità più poten-ti del sistema, né a evitare un altro crollo egemonico50.

Importante quanto la novità geopolitica è la novità sociale delleattuali trasformazioni. Nelle transizioni egemoniche passate, le espansio-ni finanziarie di livello sistemico hanno contribuito all’aumento dei con-flitti sociali. La massiccia redistribuzione del reddito e gli spostamentinella scala sociale comportati dalle espansioni finanziarie hanno genera-to movimenti di resistenza e ribellione da parte di gruppi e strati socialisubordinati i cui stili di vita erano sotto attacco. Interagendo con le lotte

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Sotto l’egemonia statunitense, la mappa del mondo è stata ridise-gnata per accogliere le richieste di autodeterminazione nazionale. Nelcomplesso, questa nuova mappa rifletteva l’eredità del colonialismo edell’imperialismo occidentali, inclusa l’egemonia culturale che portò leélite non occidentali a rivendicare per se stesse “Stati-nazione” più omeno autosufficienti, a immagine e somiglianza delle organizzazioni poli-tiche metropolitane dei loro ex padroni imperiali. Ci fu, tuttavia,un’importante eccezione alla regola: l’Asia orientale. Tranne alcuni Statiai suoi margini meridionali (in particolare, l’Indonesia, la Malesia, leFilippine e le città-Stato di Hong Kong e Singapore), la mappa dellaregione rifletteva prima di tutto l’eredità del sistema-mondo imperniatosulla Cina, che l’ingerenza occidentale aveva destabilizzato e trasformatoin misura marginale, senza riuscire mai a distruggerlo e a ricrearlo sulmodello occidentale. Tutte le più importanti nazioni della regione, chefurono formalmente incorporate nel sistema allargato di Vestfalia – daGiappone, Corea e Cina a Vietnam, Laos, Cambogia e Thailandia –, era-no già diventate nazioni molto prima dell’arrivo europeo. E quel che èpiù importante, erano tutte nazioni legate l’una all’altra, direttamente otramite il centro cinese, da relazioni diplomatiche e commerciali, e tenuteinsieme da una condivisione di principi, norme e regole che disciplinava-no la loro interazione reciproca come un mondo tra altri mondi57.

Questo residuo geopolitico fu difficile da integrare nell’ordinemondiale statunitense della Guerra fredda, così come era stato perl’ordine mondiale britannico. Le linee di frattura tra le sfere d’influenzastatunitense e sovietica nella regione dell’Asia orientale cominciarono acrollare poco tempo dopo che erano state stabilite – prima, per la ribel-lione cinese contro la dominazione sovietica, poi per il fallimento deltentativo statunitense di separare la nazione vietnamita secondo lo spar-tiacque della Guerra fredda. In seguito, mentre le due superpotenzeintensificavano la loro rivalità nella stretta finale della Seconda Guerrafredda, i vari pezzi del puzzle dell’Asia orientale si riassemblarononell’economia regionale più dinamica al mondo58.

L’impressionante rapidità con cui quest’economia regionale èdiventata la nuova officina e salvadanaio del mondo ha contribuito alladiffusione della “paura di cadere” nel mondo occidentale. Una cadutapiù o meno imminente dell’Occidente dai vertici di comando del capita-lismo mondiale è certamente possibile, ma che cosa ci sia da temere inproposito non è del tutto chiaro.

La caduta è probabile perché gli Stati-guida dell’Occidente sonoprigionieri dei percorsi di sviluppo che hanno fatto le loro fortune, sia

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certa entità). L’espansione finanziaria e l’associata ristrutturazionedell’economia politica globale hanno avuto senza dubbio successo neldisorganizzare le forze sociali portatrici di queste domande nelle lottedegli anni Sessanta-primi Settanta. Allo stesso tempo, però, la contrad-dizione di fondo di un sistema capitalistico mondiale che promuove laformazione di un proletariato mondiale senza garantire un salario di sus-sistenza generalizzato (cioè, i più elementari costi di riproduzione), lungidall’essere risolta, è oggi più acuta che mai54.

La combinazione di anomalie geopolitiche e sociali nelle trasforma-zioni attuali mette in evidenza i rischi di estrapolare per il futuro le ten-denze di lungo periodo descritte nella Figura 1. Le pressioni sociali perl’internalizzazione dei costi di riproduzione all’interno delle strutture delcapitalismo mondiale non sono state eliminate. E, tuttavia, la biforcazio-ne di potere militare e finanziario e il decentramento del secondo versoStati politicamente deboli non depone a favore di un facile o imminentesoddisfacimento di queste pressioni. Questo non significa che non ci sia-no soluzioni alla crisi di sovraccumulazione sottostante all’espansionefinanziaria in corso. Significa, piuttosto, che la crisi ha più di una possibi-le soluzione – alcune in sintonia coi modelli passati, altre implicanti illoro rovesciamento, altre ancora l’emergere di nuovi modelli. Quale par-ticolare soluzione si materializzerà dipende dai processi e dai conflitti incorso che, per la maggior parte, stanno ancora davanti a noi.

A complicare ulteriormente le cose, possiamo attenderci che questiprocessi di lotta verranno influenzati anche da una terza importantenovità delle trasformazioni attuali. Questa consiste nel già richiamatospostamento dell’epicentro dell’economia globale in Asia orientale –una regione che, a differenza di tutti i precedenti centri di organizzazio-ne del capitalismo mondiale, si trova al di fuori dei confini storici dellaciviltà occidentale. È stato prima di tutto questo cambiamento ad averportato Samuel Huntington ad avanzare la sua tesi assai influente e con-troversa di un imminente “scontro di civiltà”55.

In realtà, uno scontro tra civiltà occidentali e non occidentali è sta-ta una costante del processo storico attraverso cui il sistema-mondocapitalistico si è trasformato da sistema europeo a sistema globale. Latransizione dall’egemonia olandese a quella britannica fu contrassegnatadalla conquista violenta e dalla destabilizzazione dei sistemi-mondoindigeni dell’Asia. La transizione dall’egemonia britannica a quella sta-tunitense fu caratterizzata prima da un’ulteriore estensione degli imperiterritorialisti occidentali in Asia e in Africa e poi da una rivolta collettivacontro la dominazione occidentale56.

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potenze economiche in ascesa dell’Asia orientale sono una condizioneessenziale per una transizione non catastrofica verso un nuovo ordinemondiale.

Condizione altrettanto essenziale è l’emergere di una nuova leader-ship globale a partire dai centri principali dell’espansione economicadell’Asia orientale. Questa leadership dovrà essere capace di assumersi ilcompito di fornire soluzioni sistemiche ai problemi sistemici lasciati irri-solti dall’egemonia statunitense. Il più grave di questi è l’abisso apparen-temente incolmabile tra le opportunità di vita di una piccola minoranzadella popolazione mondiale (tra il 10 e il 20%) e la grande maggioranza.Per fornire una soluzione praticabile e sostenibile a questo problema, gli“apripista” dell’Asia orientale dovranno inaugurare, per loro stessi e peril mondo, una nuova traiettoria di sviluppo che si discosti radicalmenteda quella ora giunta in un vicolo cieco.

Si tratta di un compito imponente che i gruppi dominanti degliStati dell’Asia orientale hanno appena cominciato ad affrontare. Nellepassate transizioni egemoniche, i gruppi dominanti intrapresero consuccesso l’impegno di modellare un nuovo ordine mondiale solo dopointense pressioni da parte di movimenti di protesta e autodifesa. Que-sta pressione dal basso si è ampliata e approfondita di transizione intransizione, portando a un allargamento dei blocchi sociali a ogni nuo-va egemonia. Possiamo quindi attenderci che le contraddizioni socialigiocheranno un ruolo più decisivo che mai nel plasmare la transizionein corso verso il nuovo ordine mondiale che emergerà dall’incombentecaos sistemico. Se i movimenti in gran parte seguiranno e saranno con-dizionati dall’escalation di violenza (come nelle passate transizioni) o seinvece la precederanno e contribuiranno a contenere il caos sistemico èuna questione aperta. La risposta, in ultima analisi, è nelle mani deimovimenti.

POSCRITTO60

Guardando indietro, con un minimo di prospettiva storica, agliinizi del ventunesimo secolo, il 2003 può essere visto come l’anno dipassaggio dalla crisi dell’egemonia mondiale statunitense a un periododi crollo egemonico e caos sistemico. Le sezioni precedenti di questosaggio sono state scritte agli inizi del 2001. Abbiamo sostenuto che larinascita del potere globale statunitense negli anni Ottanta e Novantanon fosse il segnale di un secondo “secolo americano”, ma fosse inve-

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politiche sia economiche. Oggi questi percorsi stanno procurando ren-dimenti decrescenti in termini di tassi di accumulazione, ma non posso-no essere abbandonati a favore del percorso più dinamico, quello regio-nale dell’Asia orientale, senza causare tensioni sociali tanto insopporta-bili da sfociare nel caos anziché nella “competitività”. Una situazionesimile si è presentata anche nelle transizioni passate. Al momento dellaloro rispettiva crisi egemonica, sia gli olandesi sia gli inglesi si addentra-rono ancora più profondamente nella specifica traiettoria di sviluppoche aveva fatto le loro fortune, malgrado il fatto che ai margini del lororaggio d’azione si stavano aprendo percorsi più dinamici. E non abban-donarono il percorso prestabilito fino a che il sistema mondiale imper-niato su di loro si ruppe.

Come ha suggerito David Calleo, il “sistema internazionale sirompe, non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressi-ve cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze indeclino, invece di adattarsi e cercare una mediazione, tentano dicementare la loro vacillante preminenza trasformandola in un’egemo-nia sfruttatrice”59. Il nostro confronto con le transizioni passate mostrache il ruolo delle nuove potenze aggressive nell’affrettare i crolli siste-mici è diminuito di transizione in transizione, mentre il ruolo giocatodalla dominazione sfruttatrice esercitata dalla potenza egemone indeclino è aumentato. Il potere mondiale olandese era così diminuitonei decenni di declino della sua egemonia che la resistenza olandese, aconfronto del ruolo svolto dagli Stati-nazione emergenti, aggressivi eimperialistici (in primo luogo Gran Bretagna e Francia), giocò un ruolomarginale nel crollo sistemico. Nel momento del suo declino egemoni-co, all’opposto, la Gran Bretagna era abbastanza potente da trasforma-re la sua egemonia in una dominazione sfruttatrice. Nonostante l’emer-gere di nuove potenze aggressive – prima fra tutte la Germania – abbiagiocato un ruolo molto importante nel crollo del sistema-mondoimperniato sulla Gran Bretagna, il rifiuto di quest’ultima all’adattamen-to e alla conciliazione fu comunque cruciale.

Oggi abbiamo raggiunto l’altra estremità dello spettro. Non cisono nuove credibili potenze aggressive in grado di provocare il crollodel sistema-mondo imperniato sugli Stati uniti, ma, rispetto della GranBretagna di un secolo fa, gli Stati uniti hanno capacità ancora maggioriper convertire la propria egemonia in declino in una dominazionesfruttatrice. Se il sistema alla fine crollerà, sarà prima di tutto perchégli Stati uniti avranno rifiutato accordi e compromessi. E, per conver-so, la conciliazione e l’adattamento degli Usa nei confronti delle

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Con il 2005, il progetto imperiale neoconservatore si è rivelato uncompleto fallimento, sulla base del quale si possono trarre le seguenticonclusioni61. Primo, la guerra in Iraq, anziché rappresentare per gli Sta-ti uniti un modo per liberarsi dalla “sindrome del Vietnam”, ha confer-mato le lezioni della sconfitta in Vietnam. Il fatto che gli Stati uniti con-trollino un apparato militare con una capacità di distruzione senza pre-cedenti nella storia significa poco o nulla in termini di capacità d’impor-re sul terreno la propria volontà agli altri popoli. Il fallimento in Iraq –in condizioni più favorevoli rispetto al Vietnam – ha minato il potereche gli Stati uniti potevano trarre da una credibile minaccia di uso dellaforza, in quanto unica superpotenza militare al mondo.

Secondo, la guerra ha ulteriormente indebolito la posizione degliStati uniti e del dollaro all’interno dell’economia politica globale, aggra-vandone la posizione di maggior debitore mondiale e consolidando lospostamento del centro di accumulazione del capitale (e delle riservefinanziarie) in Asia orientale – in particolare in Cina. All’inizio del 2001era ancora controverso sostenere che la forza militare Usa fosse in realtàuna risorsa insufficiente per il potere globale e che la fragilità finanziariamostrasse che gli Stati uniti non avevano più le risorse necessarie perrisolvere i problemi a livello di sistema (cioè, per agire come Stato ege-mone nel senso gramsciano del termine), né per imporre la propriavolontà attraverso l’uso della forza. Dal 2006 queste affermazioni nonsono più controverse.

Se il 2003 segna il crollo dell’egemonia mondiale statunitense, rap-presenta anche l’inizio di un lungo periodo di caos sistemico? La primaprecondizione che avevamo indicato affinché fosse evitato un lungoperiodo di caos sistemico era che gli Stati uniti, invece di promuovereaggressivamente un secondo “secolo americano”, accettassero di accom-pagnare il proprio declino. La sconfitta in Iraq ha screditato la strategiadel “Progetto per un nuovo secolo americano” che passava per l’avven-tura unilaterale in Asia occidentale. Il progetto Usa portava al caos siste-mico, e la sua sconfitta è una buona notizia. Resta però da vedere, in pri-mo luogo, quanti danni saranno fatti ancora prima che questa sconfittasia pienamente accettata dagli Stati uniti e, in secondo luogo, se la scon-fitta del progetto neoconservatore è il preludio a un riorientamentodegli Stati uniti verso l’accettazione del proprio declino o, al contrario,porterà a nuovi sforzi per un dominio meno unilaterale che nel progettoneoconservatore (mobilitando, ad esempio, la Nato e le Nazioni Unite)e/o a iniziative che prendono più direttamente di mira il paese che ilPentagono considera come principale avversario strategico – la Cina.

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ce intimamente legata a una crisi profonda dell’egemonia statunitense.Come nelle passate transizioni egemoniche, lo Stato egemonico decli-nante (gli Stati uniti) ha avuto una ripresa del proprio potere durantela fase di espansione finanziaria – scambiata per una nuova primavera.Lo scoppio della bolla della new economy nel 2000-2001, la diffusionedi proteste contro la globalizzazione neoliberista e lo spostamento delcentro di accumulazione del capitale in Asia orientale erano tutti indi-catori di quanto fossero precarie le basi della rinascita del potere mon-diale degli Stati uniti alla fine del ventesimo secolo. Tuttavia, all’iniziodel 2001 la crisi non si era ancora tradotta in un crollo dell’egemoniaUsa. Abbiamo sostenuto inoltre che, anche se le transizioni egemoni-che passate erano state caratterizzate da un lungo periodo di caossistemico, tale caos – e l’immensa sofferenza umana che ne risulta –non fosse una caratteristica inevitabile delle transizioni egemoniche.

Il fattore chiave – abbiamo sostenuto – sarebbe stato il comporta-mento della potenza egemonica declinante. Una transizione non cata-strofica verso un nuovo ordine mondiale sarebbe stata possibile solo segli Stati uniti avessero scelto di riconoscere e accettare il declino del pro-prio ruolo nel mondo. Certo, considerando le transizioni egemonichepassate, sono pochi i precedenti storici di declini accolti con serenità. E,per di più, la lunga espansione interna e lo spettacolare boom della Bor-sa di New York negli anni Novanta – combinati con la posizione milita-re degli Stati uniti quale unica superpotenza mondiale – hanno contri-buito, in qualche modo, ad aggravare la cecità sulle fondamenta preca-rie del potere mondiale degli Stati uniti.

A seguito degli attacchi dell’11 settembre 2001, la leadership Usa,invece di ritrovare la vista, è arrivata fino allo smarrimento completo ditutti i sensi. L’amministrazione Bush ha lanciato un nuovo aggressivoprogramma imperiale – il progetto neoconservatore per un “Nuovosecolo americano” – che tentava di restaurare la supremazia globaledegli Stati uniti attraverso l’uso senza limiti della forza militare in tuttoil mondo. L’invasione dell’Iraq nel 2003 doveva essere il primo passoper ristabilire il dominio globale degli Usa. Il piano era installare ungoverno amico in Iraq, fare lo stesso in Iran, consolidare la presenzastrategica Usa in Asia centrale e controllare i flussi petroliferi globali,dai quali dipendono i due principali concorrenti degli Stati uniti: Euro-pa e Asia orientale. La campagna “colpisci e terrorizza” (shock andawe) che ha aperto la guerra in Iraq nel marzo 2003 ha brutalmenteannunciato che un’“accettazione accomodante del proprio declino”non era nell’agenda statunitense.

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primi anni del ventunesimo secolo, il governo cinese ha dovuto affronta-re proteste di massa che comprendevano occupazioni delle fabbriche daparte degli operai licenziati da imprese statali, scioperi e petizioni daparte dei contadini-operai che lavorano nei settori in crescita legati alleesportazioni, e diffuse proteste dei contadini sul controllo delle terre, letasse e le conseguenze sulla salute dell’inquinamento ambientale.

Abbiamo sostenuto che, nelle passate transizioni egemoniche, igruppi dominanti hanno iniziato a fare i conti con l’opportunità di defi-nire una nuova visione egemonica solo quando sono stati messi sottopressione da movimenti popolari di protesta e autodifesa (all’interno delpaese e a livello globale). Possiamo osservare che, nel caso della Cina alivello nazionale, un’intensa pressione popolare dal basso ha prodotto unforte cambiamento nella retorica del governo (e in alcune sue politiche),sotto la leadership di Hu Jintao e Wen Jiabao. Lo spostamento verso unamaggiore attenzione alla giustizia sociale, al benessere, all’uguaglianza ealla protezione dell’ambiente, anziché alla crescita a tutti i costi, è unsegno di speranza. La chiave per determinare quanto lungo e profondosarà il periodo di caos sistemico che dobbiamo aspettarci dipenderà dallamisura in cui la leadership cinese sarà in grado di recepire i segnali deimovimenti sociali in Cina e della miriade di manifestazioni in tutto ilmondo dei movimenti per una giustizia sociale globale, in modo da defi-nire una nuova visione egemonica che apra una traiettoria di svilupporadicalmente nuova per la Cina e per il mondo. Non è un compito dapoco, e gli ostacoli – tecnologici, politici e di “immaginazione” – sonoalti; ciò è ulteriormente complicato dal problema di come gestire le ten-denze militariste del potere egemonico in declino.

Nella transizione dall’egemonia britannica a quella statunitense, ilmovimento operaio e gli altri movimenti di protesta non sono riusciti afermare la deriva verso un lungo periodo di guerra e caos sistemico. Se imovimenti attuali saranno forti abbastanza per contenere efficacementela deriva verso il caos sistemico resta una questione aperta. Le manife-stazioni di massa contro la guerra in Iraq, svoltesi in tutto il mondo pri-ma del suo inizio nel 2003 possono essere interpretate come un intuitivoriconoscimento popolare in tutto il mondo (Stati uniti inclusi) che ilprogetto imperiale Usa avrebbe portato al caos globale. Queste protestedi massa – le più grandi manifestazioni di massa nella storia mondiale –hanno mostrato la capacità dei movimenti popolari di prevedere il caose, in questo modo, potenzialmente contenerlo. Tuttavia, come sappia-mo, le manifestazioni non sono riuscite a evitare la guerra, anche se han-

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La seconda condizione che noi sostenevamo fosse necessaria perevitare un lungo e profondo caos sistemico era l’emergere di una nuovaleadership globale nei principali centri dell’espansione economicadell’Asia orientale – una leadership capace e disposta ad assumere ilcompito di fornire soluzioni sistemiche ai problemi sistemici lasciati irri-solti dall’egemonia statunitense. Scrivendo all’inizio del 2001 notavamo,nelle élite dell’Asia orientale, una scarsa capacità, visione e volontà diassumere questo ruolo. Da allora, però, la Cina è emersa come un’alter-nativa storica sempre più credibile all’egemonia Usa in Asia orientale ealtrove. Con gli Stati uniti impantanati in Iraq, la Cina ha continuato acrescere a ritmi elevati, accumulando riserve finanziarie e amicizie tantorapidamente quanto gli Stati uniti le stavano perdendo.

L’attuale crescita della Cina conferisce un significato completa-mente diverso all’espansione dell’Asia orientale. La Cina non è uno Sta-to vassallo degli Stati uniti, come il Giappone, la Corea del Sud oTaiwan, né una semplice città-Stato come Singapore o Hong Kong.Anche se gli sbocchi della sua industria manifatturiera dipendono anco-ra fortemente dalle esportazioni sul mercato statunitense, la ricchezza eil potere degli Stati uniti dipendono a loro volta, in eguale se non mag-gior misura, dall’importazione di merci cinesi a basso prezzo edall’acquisto cinese di titoli del Tesoro Usa. Ma ancora più importante èil fatto che la Cina abbia rimpiazzato gli Stati uniti nel ruolo di guidadell’espansione economica e commerciale in Asia orientale e oltre.

Il crescente peso economico della Cina nell’economia politica glo-bale non costituisce, di per sé, una fonte di ottimismo rispetto alla possi-bilità che emerga un nuovo progetto egemonico in grado di limitare ilcaos sistemico globale e condurre a un ordine mondiale più giusto edequo. Se da un lato segnala l’emergere di una capacità di leadership alivello mondiale, dall’altro non dice nulla sulla presenza di un nuovoprogetto egemonico – la possibile apertura di traiettorie di sviluppocapaci di risolvere i problemi del sistema. Nelle politiche del governocinese di Jiang Zemin, dal 1989 al 2002, si è visto assai poco che facessepensare a una visione egemonica – si è trattato di un periodo segnatodalla corruzione generalizzata dei funzionari, dalla distruzionedell’ambiente, da disuguaglianze crescenti tra regioni e classi sociali, eda un’esaltazione dell’avidità come punto fermo delle politiche del Par-tito comunista cinese.

In Cina, queste politiche hanno provocato forti agitazioni sociali apartire dalla metà degli anni Novanta, quando il governo, in nomedell’efficienza, incoraggiava i licenziamenti nelle imprese di Stato. Nei

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po capitalistico per come questo si dispiega nelle realtà nazionali (o sub-nazionali) con ladinamica dello sviluppo capitalistico per come questo si dispiega in un mondo che si articolaattraverso queste varie e numerose realtà. Sebbene queste due dinamiche si influenzino reci-procamente, ciascuna ha la sua logica e deve essere trattata in modo autonomo. La premessasu cui ci siamo basati in questo articolo è che la dinamica mondiale dello sviluppo capitalisti-co è qualcosa di più e di differente dalla “somma” delle dinamiche nazionali. Ma ciò puòessere colto solo se assumiamo come unità d’analisi non gli Stati individuali, ma il sistemadegli Stati in cui si inscrive il capitalismo mondiale.

9 JOHN HOBSON, L’imperialismo, ISEDI, Milano 1974 (1902); RUDOLF HILFERDING, Ilcapitale finanziario, Feltrinelli, Milano 1961 (1910); NIKOLAI BUKHARIN, L’imperialismo el’accumulazione del capitale, Laterza, Bari 1972 (1915); VLADIMIR I. LENIN, L’imperialismofase suprema del capitalismo, Editori Riuniti, Roma 1964 (1916).

10 Cfr., fra gli altri, ANDREW WALTEr, World Power and World Money: The Role ofHegemony and International Monetary Order, St. Martin’s Press, New York 1991; ERIK R.PETERSON, Surrendering to Markets, in “The Washington Quarterly”, 17: 4 (1995), pp. 103-15; MANUEL CASTELLS, La nascita della società in rete, UBE, Milano 2008.

11 FERNAND BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). Itempi del mondo, Einaudi, Torino 1982, pp. 637-640; corsivo nostro.

12 Ivi, p. 384. La traduzione è modificata su indicazione di IMMANUEL WALLERSTEIN, Lascienza sociale: come sbarazzarsene. I limiti dei paradigmi ottocenteschi, Il Saggiatore, Milano1995, pp. 228-229.

13 FERNAND BRAUDEL, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII). Itempi del mondo, cit., pp. 146, 155, 249-252.

14 Ivi, p. 235; corsivo nostro.15 Ivi, pp. 434-435.16 IMMANUEL WALLERSTEIN, The Politics of the World-Economy: The States, the Move-

ments and the Civilizations, Cambridge University Press, Cambridge 1984, in particolare cap. 4.17 MICHAEL MANN, The Sources of Social Power, vol. I: A History of Power from the

Beginning to AD 1760, Cambridge University Press, Cambridge 1986, p. 28; cfr. anche PETER

TAYLOR, Ten Years that Shook the World? The United Provinces as First Hegemonic State, in“Sociological Perspectives”, 37: 1 (1994), p. 27.

18 GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit.19 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, Caos e governo del mondo, cit.20 GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit., cap. 4; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J.

SILVER ET AL., Caos e governo del mondo, cit., pp. 243-250.21 ROBERT POLLIN, Contemporary Economic Stagnation in World Historical Perspective,

in “New Left Review”, 219 (1996), pp. 115-116.22 GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit., p. 298.23 MAX WEBER, Economia e società, Comunità, Milano 1968, p. 357; ID., Storia econo-

mica, Donzelli, Roma 1993, p. 294.24 GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit.; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET

AL, Caos e governo del mondo, cit., in particolare cap. 3.25 KARL MARX, Il capitale, Editori Riuniti, Roma 1970, Libro primo, p. 171.26 Ivi, p. 215.27 ANTHONY GIDDENS, The Nation-State and Violence, University of California Press,

Berkeley 1987.28 GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, cit., pp. 151-179, 194-202.29 Ivi, pp. 60-73, 172-202.30 Ivi, pp. 68-87, 232-314.31 Ivi, pp. 87-107 e cap. 4.

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no costretto gli Stati uniti a farla con molti meno alleati e risorse – facen-do sì che la sconfitta fosse più rapida e aprendo la possibilità che gli Sta-ti uniti “accettino il declino” più rapidamente come la via più ragione-vole da seguire. Ma considerando le ambiguità dei rapporti tra le spintealla guerra e i diritti dei cittadini e dei lavoratori, non possiamo esserecerti che le forze contrarie alla guerra avranno, nei primi anni del ventu-nesimo secolo, più successo che all’inizio del ventesimo secolo62. Se assi-steremo a un periodo di lungo e profondo caos sistemico, o a una transi-zione relativamente agevole verso un mondo più pacifico, giusto edequo, resta una questione decisamente aperta, la cui soluzione è affidataalla nostra azione collettiva.

NOTE

* Capitalism and world (dis)order, in “Review of International Studies”, 27 (2001), pp.257-279. Traduzione dall’inglese di Giulio Azzolini.

1 ERIC J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991, BUR, Milano 2006, p. 645.2 Ivi, p. 23.3 Ibid.4 IMMANUEL WALLERSTEIN, Dopo il liberalismo, Jaca Book, Milano 1999, pp. 11, 249;

Immanuel Wallerstein, La crisi come transizione, in G. ARRIGHI ET AL., Dinamiche della crisimondiale, a cura di R. Parboni, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 118.

5 James N. Rosenau, Turbulence in World Politics: A Theory of Change and Continuity,Princeton University Press, Princeton 1990, p. 10.

6 GIOVANNI ARRIGHI, Il lungo XX secolo, Net, Milano 2003; GIOVANNI ARRIGHI,BEVERLY J. SILVER ET AL., Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori, Milano 2006; GIO-VANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, Hegemonic Transitions: A Rejoinder, in “Political Powerand Social Theory”, 13 (1999), pp. 307–315.

7 Si tratta di un fatto ampiamente constatato: cfr., fra gli altri, DAVID GORDON, TheGlobal Economy: New Edifice or Crumbling Foundations?, in “New Left Review”, 168(1988), pp. 24–65; ROBERT ZEVIN, Our World Financial Market is More Open? If So, Why andWith What Effect?, in T. BANURI and J.B. SCHOR (ed. by), Financial Openness and NationalAutonomy: Opportunity and Constraints, Oxford University Press, New York 1992; DAVID

HARVEY, Globalization in Question, in “Rethinking Marxism”, 8: 4 (1995), pp. 1-17; PAUL

HIRST, GRAHAME THOMPSON, La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997.8 Qui occorre chiarificare la portata della nostra analisi. Gran parte delle spiegazioni

dello sviluppo capitalistico si è fondata su dati e quadri concettuali riferiti implicitamente oesplicitamente alle dinamiche di tipo nazionale. È un modo utile e perfettamente legittimoper analizzare lo sviluppo capitalistico, a patto che non si confonda la dinamica dello svilup-

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(1993), pp. 22–49. Per le prime risposte cfr. SAMUEL HUNTINGTON ET. AL., The Clash of Civili-zations? The Debate, Council on Foreign Relations, New York 1993. Per una valutazione cri-tica del dibattito, si veda HAYWARD ALKER, If Not Huntington’s “Civilizations”, Then Whose?,in “Review (Fernand Braudel Center)”, 18: 4 (1995), pp. 33–62.

56 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.253-306.

57 Sul sistema interstatale a base cinese cfr. in particolare TAKESHI HAMASHITA, TheIntra-Regional System in East Asia in Modern Times, in P. J. KATZENSTEIN, T. SHIRAISHI (ed.by), Network Power: Japan and Asia, cit., pp. 113-135 e SATO IKEDA, The History of the Capi-talist World-System vs. The History of East-Southeast Asia, in “Review (Fernand Braudel Cen-ter)”, 19: 1 (1996), pp. 49–76.

58 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER et al., Caos e governo del mondo, cit., pp. 306-314.

59 DAVID CALLEO, Beyond American Hegemony: The Future of the Western Alliance,Basic Books, New York 1987, p. 142.

60 Poscritto, scritto nel 2006, pubblicato nelle traduzioni brasiliana e francese di Capi-talism and world (dis)order.

61 Sulle origini e lo sviluppo del progetto imperiale neoconservatore cfr. GIOVANNI

ARRIGHI, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano 2008,parte terza.

62 Sul ruolo del lavoro e degli altri movimenti sociali nel fermare (o no) la tendenzaverso la guerra e il militarismo cfr. BEVERLY J. SILVER, Forze del lavoro. Movimenti operai eglobalizzazione dal 1870, Bruno Mondadori, Milano 2008, in particolare i capitoli 1, 4 e 5, eBEVERLY J. SILVER, Labor, War and World Politics: Contemporary Dynamics in World-Histori-cal Perspective, in BERTHOLD UNFRIED ET AL., Labour and Social Movements in a GlobalisingWorld System, Akademische Verlagsanstalt, Vienna, 2004, pp. 19-38.

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32 Ivi, pp. 86-87, 101-104, 319 e sgg.33 Ivi, pp. 284-285.34 KARL MARX, Il capitale, cit., Libro terzo, p. 306; corsivo nostro.35 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.

316-319.36 Ibid.37 Per modelli più specifici di transizione egemonica, considerati da differenti angola-

ture, cfr. GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.75, 141, 208.

38 Sulla distinzione fra questi due tipi di leadership e sulla loro relazione con il concet-to di “egemonia” cfr. Caos e governo del mondo (pp. 31-33).

39 EMILE DURKHEIM, Le regole del metodo sociologico, Comunità, Milano 1963, pp.108-109; ID., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano 1962, p. 258

40 KENNETH WALTZ, Teoria della politica internazionale, il Mulino, Bologna 1987, p.209.

41 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., capp.1, 3, e conclusioni.

42 FRED HALLIDAY, The Making of the Second Cold War, Verso, London 1986.43 Citato in DAVID HARVEY, Globalization in Question, cit., pp. 8, 12.44 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER eET. AL., Caos e governo del mondo, cit., cap.

3. 45 Calcolato dalla Banca Mondiale in World Development Indicators, CD ROM, World

Bank, Washington 2000, e da Republica Popolare Cinese in National Income in Taiwan Areaof the Republic of China, Bureau of Statistics, DGBAS, Executive Yuan, Taipei, vari anni.‘Nord America’ si compone di Stati uniti e Canada, ‘Asia oriental di Cina, Hong Kong,Indonesia, Giappone, Malesia, Filippine, Singapore, Corea del Sud, Taiwan e Thailandia.

46 EAMONN FINGLETON, Quibble All You Like, Japan Still Looks Like a Strong Winner,in “International Herald Tribune”, 2 Gennaio 2001, p. 6; cfr. anche EAMONN FINGLETON,Blindside: Why Japan Is Still on Track to Overtake the US by the Year 2000, Houghton Mif-flin, Boston 1995.

47 Il rovesciamento è ancora più grande di quello indicato da Fingleton se prendiamoin considerazione il rapido incremento dei patrimoni esteri dei paesi del “circolo della Cina”,poiché negli anni Novanta tutti i suoi membri hanno avuto avanzi dei conti correnti elevati ecrescenti.

48 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp. 85-86, 110-111, 319.

49 Sul Giappone come Stato semi-sovrano si veda BRUCE CUMINGS, Japan and Northea-st Asia into the Twenty-first century, in P. J. KATZENSTEIN, T. SHIRAISHI (ed. by), NetworkPower: Japan and Asia, Cornell University Press, Ithaca 1997, p. 155.

50 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.102-112, 306-314, 319-323, 333-337; GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER, ‘HegemonicTransitions’, cit., pp. 310–311.

51 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.177-204.

52 Ivi, pp. 204-250.53 IMMANUEL WALLERSTEIN, ‘Response: Declining States, Declining Rights?’, in “Inter-

national Labor and Working-Class History”, 47 (1995), p. 25.54 GIOVANNI ARRIGHI, BEVERLY J. SILVER ET. AL., Caos e governo del mondo, cit., pp.

328-333.55 SAMUEL HUNTINGTON, The Clash of Civilizations?, in “Foreign Affairs”, 73: 3

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Capitolo 5

Dopo il neoliberismo. Il nuovo ruolo del Sud del mondo*

di Giovanni Arrighi e Lu Zhang

Questo capitolo analizza quel che si può chiamare la “strana mor-te” del Washington consensus, con particolare riferimento al rafforza-mento economico della Cina e a un cambiamento fondamentale nellerelazioni tra il Nord e il Sud del mondo1. Ciò che è “strano” riguardoquesta morte è che essa sia avvenuta in un momento in cui le dottrineneoliberiste promosse dal consensus godono di un’autorità apparente-mente incontrastata. Proprio per questa ragione, questa morte è statapoco notata, e le sue cause e conseguenze rimangono avvolte in unagran confusione.

Parte della confusione sorge dalla persistente influenza sulla politicamondiale di vari aspetti del defunto consensus. Come notato da WaldenBello, “il neoliberismo [rimane], semplicemente per forza d’inerzia, ilmodello standard per molti economisti e tecnocrati che... non hanno piùfiducia in esso”. Inoltre, nuove dottrine stanno emergendo, principalmen-te nel Nord del mondo, che tentano di rianimare aspetti del vecchio con-sensus in forme più realistiche ed accettabili2. La nostra analisi non esclu-de né la residuale influenza del neoliberismo, come modello “standard”,né la possibilità di una sua rinascita in forme nuove. Semplicemente essaevidenzia che la contro-rivoluzione neoliberista dei primi anni Ottanta,della quale il Washington consensus è stato parte essenziale, ha fallito,creando le condizioni per un’inversione delle relazioni di potere tra ilNord e il Sud del mondo che sta già cambiando sia la politica mondialeche la teoria e la pratica dello sviluppo nazionale.

Inizieremo con lo schematizzare le origini e gli obiettivi della svol-ta, o contro-rivoluzione, neoliberista del 1979-82 nelle politiche enell’ideologia statunitense. Dopo aver sottolineato l’impatto della svoltaneoliberista nelle relazioni Nord-Sud, focalizzeremo l’attenzionesull’ascesa economica della Cina, quale sua conseguenza imprevista piùimportante, profondamente radicata nelle tradizioni cinesi, compresaquella rivoluzionaria dell’era di Mao. Concluderemo indicando l’impat-to dell’ascesa cinese sulle relazioni Nord-Sud, con particolare riferimen-to al possibile emergere di una nuova alleanza fra i paesi del Sud su fon-damenta più solide di quella stabilita a Bandung negli anni Cinquanta, e

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Stati Uniti, tuttavia, questo indebolimento del lavoro, più che un finein sé, era un mezzo per invertire il declino relativo della ricchezza e delpotere degli Stati uniti che aveva preso slancio con la sconfitta in Viet-nam ed era culminato alla fine degli anni Settanta con la rivoluzioneiraniana, l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la svalutazione deldollaro.

Benché il Washington consensus fosse prima di tutto una strategiavolta a ristabilire il potere degli Stai Uniti, è stato presentato come unanuova strategia di sviluppo. Prendendo per buona questa pretesa, lediscussioni sull’impatto della svolta neoliberista si sono generalmentefocalizzate sulle tendenze, dopo il 1980, nella disuguaglianza del redditoa livello mondiale, misurata da indicatori sintetici come l’indice di Ginio di Theil. Malgrado sia emerso un accordo abbastanza generale sul fat-to che la disuguaglianza interna ai singoli paesi sia aumentata, le tenden-ze a proposito della disuguaglianza tra paesi rimangono oggetto di con-troversie. Il consenso, comunque, è che:

i miglioramenti nella disuguaglianza di reddito e nella povertà mondia-le [dal 1980] non sono stati distribuiti ampiamente, ma sono dipesifortemente, come la crescita complessiva del reddito mondiale,dall’impressionante performance della Cina e dalla considerevole cre-scita dell’India. Escludendo la Cina dal calcolo, la disuguaglianzaaumenta secondo la maggior parte delle misure. Escludendo anchel’India, non soltanto c’è un deterioramento più marcato nella distribu-zione del reddito mondiale, ma l’incidenza della povertà rimaneall’incirca costante7.

In breve, riassume Albert Berry, “si può considerare che [la Cinae l’India] abbiano salvato il mondo da una pessima performance com-plessiva nel corso dei [due] ultimi decenni”8. I dati forniti da Berrymostrano anche che la modesta diminuzione nell’indice di Gini tra il1980 e il 2000 non ha influenzato negativamente il 10% più ricco dellapopolazione mondiale (che, in realtà, ha ulteriormente migliorato lapropria posizione relativa), ma dipende esclusivamente da una redi-stribuzione dai paesi a medio reddito verso quelli a reddito più alto epiù basso9.

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considerando le sfide e opportunità che l’attuale crisi economica creaper la Cina e altri paesi in via di sviluppo.

1. IL WASHINGTON CONSENSUS E LA CONTRO-RIVOLUZIONE NEOLIBERISTA

La svolta neoliberista iniziò nell’ultimo anno dell’amministrazio-ne Carter, quando una seria crisi di fiducia nel dollaro statunitenseindusse Paul Volcker, allora presidente della Federal Reserve, a passarea politiche monetarie fortemente restrittive, dopo quelle molto per-missive degli anni Settanta. La svolta si è materializzata pienamentesoltanto quando l’amministrazione Reagan, traendo ispirazione ideolo-gica dallo slogan di Margaret Thatcher “Non c’è alternativa” (There isno alternative), dichiarò obsolete tutte le varianti del modello socialekeynesiano, e procedette a liquidarle ravvivando la fede d’inizio vente-simo secolo nella “magia” di presunti mercati capaci di regolarsi dasé3. Tale liquidazione avvenne attraverso una drastica contrazionedell’offerta di moneta, un altrettanto drastico incremento dei tassi diinteresse, ampie riduzioni della tassazione sulle imprese, l’eliminazionedei controlli sui movimenti di capitale, e un improvviso cambiamentodelle politiche statunitensi nei confronti del Terzo mondo, dalla pro-mozione del “progetto sviluppo”, lanciato nei tardi anni Quaranta eprimi Cinquanta, a quella dell’agenda neoliberista, che più tardidivenne nota come Washington consensus. Direttamente o attraverso ilFondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca mondiale, il governostatunitense ritirò il suo appoggio alle strategie “stataliste” e “auto-centrate” (come l’industrializzazione per sostituzione delle importa-zioni) sostenute dalla maggior parte delle teorie dello sviluppo daglianni Cinquanta e Sessanta, iniziando a promuovere “terapie shock”favorevoli al capitale, miranti a trasferire la proprietà di attività econo-miche dal pubblico al privato a prezzi stracciati e a liberalizzare ilcommercio estero e i movimenti del capitale4.

Il cambiamento è stato comunemente caratterizzato come una“contro-rivoluzione” nel pensiero economico e nell’ideologia politica5.La svolta neoliberista è stata contro-rivoluzionaria sia rispetto al lavo-ro che al Terzo mondo. Come retrospettivamente ammesso pubblica-mente da Alan Budd, allora consigliere della Thatcher, “ciò che fucostruita era, in termini marxisti, una crisi del capitalismo che haricreato un esercito industriale di riserva, consentendo ai capitalisti diottenere, da allora in poi, alti profitti”6. Nel caso del governo degli

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***Paesi inclusi nell’Europa orientale ed ex-Urss: Europa orientale: Albania, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia,

Romania, Repubblica Slovacca, SloveniaEx-Urss: Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Estonia, Georgia, Kazakistan, Kirghizi-

stan, Lettonia, Lituania, Moldova, Federazione Russa, Tagikistan, Turkmenistan, Ucraina,Uzbekistan

La tabella 1 fornisce maggiori dettagli su questa redistribuzione.Come mostra la tabella, nella misura in cui si guardi al divario di redditocomplessivo tra Nord e Sud, la contro-rivoluzione neoliberista ha fattopoca differenza, portando inizialmente a una piccola diminuzione, e poi aun lieve incremento nel reddito pro-capite del Terzo mondo rispetto aquello del Primo. La contro-rivoluzione ha avuto invece grossi effetti perregioni specifiche del Nord come del Sud. Per i nostri scopi, è sufficientefocalizzare l’attenzione su tre tendenze principali. Primo, negli anniNovanta gli Stati uniti sono riusciti a invertire il loro declino relativo deglianni Sessanta e Settanta, ma l’inversione è stata interamente compensata daun deterioramento della posizione relativa dell’Europa occidentale e meri-dionale e del Giappone. Secondo, negli anni Ottanta l’Africa sub-saharianae l’America latina hanno subito entrambe un ampio declino relativo, dalquale non si sono più riprese, seguito da un egualmente significativo decli-no relativo della dissolta Unione Sovietica negli anni Novanta. Terzo, i gua-dagni più grandi sono stati quelli dell’Asia orientale e del Giappone fino al1990 e di India e Cina negli anni Ottanta e Novanta, con l’avanzata dellaCina che è stata assai più grande di quella dell’India10.

Queste tendenze sono state largamente interpretate come il risulta-to della più stretta integrazione di Cina, India ed ex-Unione Sovieticanell’economia globale. Richard Freeman, per esempio, ha sostenuto chetale maggiore integrazione abbia raddoppiato la forza lavoro che produ-ce per il mercato mondiale senza incrementare l’offerta di capitale. Poi-ché il doppio dei lavoratori compete per lavorare con lo stesso capitale,non soltanto i rapporti di forza si sono spostati verso quest’ultimo, masono anche peggiorate le prospettive per la crescita economica dei paesia medio reddito che erano già integrati nell’economia globale.

I paesi che avevano sperato di crescere esportando beni a bassi salari devo-no ora guardare a nuovi settori in cui avanzare, se vogliono farcela nell’eco-nomia globale... Messico, Colombia o Sudafrica non possono competerecon la Cina nella manifattura finché i salari cinesi sono un quarto dei loro –specialmente perché il lavoro cinese è grosso modo produttivo quanto illoro11.

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TABELLA 1: PRODOTTO NAZIONALE LORDO PRO-CAPITE COME PERCENTUALE DI QUELLO

DEL PRIMO MONDO

Fonte: Calcoli basati sui dati della Banca mondiale (WDI – 2001-2006)Pnl in dollari Usa a valori costanti del 1995 per il periodo 1960-1995, Pnl in dollari

Usa correnti secondo il metodo Atlas per il 2000 e il 2005.*Paesi inclusi nel Terzo mondo:Africa sub-sahariana: Benin, Botswana, Burkina Faso, Burundi, Camerun, Repubblica

Centrafricana, Ciad, Zaire, Congo, Costa d’Avorio, Gabon, Ghana, Kenya, Lesotho, Mada-gascar, Malawi, Mauritania, Mauritius, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Sudafrica, Tanzania,Togo, Uganda, Zambia, Zimbabwe

America latina: Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Colombia, Costarica, RepubblicaDominicana Ecuador, El Salvador, Guatemala, Haiti, Honduras, Giamaica, Mexico, Nicara-gua, Panama, Paraguay, Perù, Trinidad e Tobago, Uruguay, Venezuela

Asia occidentale e Africa del nord: Algeria, Egitto, Marocco, Arabia Saudita (1971per il 1970), Sudan, Siria, Tunisia (1961 per il 1960), Turchia

Asia del sud: Bangladesh, India, Nepal, Pakistan, Sri Lanka Asia orientale: Cina, Hong Kong, Indonesia, Corea del Sud, Malaysia, Filippine, Sin-

gapore, Taiwan (Taiwan National Statistics), Thailandia**Paesi inclusi nel Primo mondo: America del nord: Canada, Stati unitiEuropa occidentale: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Lus-

semburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia, Svizzera, Regno UnitoEuropa meridionale: Grecia, Irlanda, Israele, Italia, Portogallo, SpagnaAustralia e Nuova ZelandaGiappone

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I paesi a basso e medio reddito hanno fronteggiato una situazionecompletamente differente. In questi paesi, il ri-orientamento dei flussiglobali del capitale verso gli Stati uniti ha trasformato “l’inondazione” dicapitale sperimentata negli anni Settanta nell’improvvisa “siccità” degliOttanta. Segnalata in primo luogo dall’insolvenza del Messico nel 1982,tale siccità è stata probabilmente il fattore più rilevante nel favorire sial’escalation nella competizione tra gli Stati per il capitale, sia l’ampiadivergenza tra le regioni del Sud mostrata nella tabella 1. Alcune regioni(l’Asia orientale in particolare) sono riuscite a trarre vantaggio dall’incre-mento della domanda statunitense di prodotti industriali a basso costoche è derivata dalla liberalizzazione del commercio e dal crescente deficitnella bilancia commerciale degli Usa. Queste regioni hanno beneficiatodel ri-orientamento dei flussi di capitale verso gli Stati uniti, perché ilmiglioramento nella loro bilancia dei pagamenti ha ridotto il loro biso-gno di competere con gli Stati uniti sui mercati finanziari mondiali e, difatto, ha trasformato alcuni di loro nei maggiori creditori degli Usa. Altreregioni (soprattutto l’America latina e l’Africa sub-sahariana), al contra-rio, non hanno avuto successo nella competizione per una porzione della

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Se vera, questa tesi fornirebbe una spiegazione molto elegantedella doppia redistribuzione di reddito sopra osservata: dai gruppi abasso reddito a quelli ad alto reddito all’interno dei paesi e, tra paesi,da quelli a medio reddito a quelli a basso e alto reddito. L’affermazio-ne, tuttavia, non regge all’esame empirico perché, prima e dopo l’ado-zione della dottrina neoliberista da parte degli Stati uniti, la caratteristi-ca predominante dell’economia globale è stata un’ampia e crescenteofferta di capitale eccedente, tanto quanto (se non di più) l’illimitataofferta di lavoro eccedente. Mentre negli anni Settanta questa crescenteofferta di capitale eccedente fluiva anzitutto dai paesi ad alto reddito aquelli a basso e soprattutto medio reddito, comprimendo i profitti anzi-ché i salari, la svolta neoliberista ha spostato la pressione al ribasso daiprofitti ai salari, e, soprattutto, ha prodotto un massiccio ri-orientamen-to dei flussi di capitale verso gli Stati uniti. Questo ri-orientamento hareso il neoliberismo una profezia che si auto-avvera: che esistesse omeno un’alternativa prima del 1980 alla competizione selvaggia perassicurarsi capitali sempre più mobili, è diventata una questione irrile-vante una volta che l’economia più grande e ricca ha spinto tutto ilmondo a fare concessioni sempre più sfrenate al capitale. Questo è sta-to il caso specialmente dei paesi del Terzo e Secondo mondo (prevalen-temente a medio reddito) che, come risultato dei cambiamenti nellepolitiche Usa, hanno subito una netta contrazione sia nella domandaper le loro risorse naturali, sia nella disponibilità di credito e investi-menti a condizioni favorevoli.

La misura del ri-orientamento dei flussi di capitale può essere coltaa partire dal cambiamento nei conti correnti della bilancia dei pagamen-ti Usa. Come mostra la figura 1, per gli Stati uniti la presunta espansionedell’offerta mondiale di lavoro a basso costo è stata accompagnata daun’offerta di capitale virtualmente illimitata da parte del resto del mon-do. Inoltre, come mostra la figura 2, negli anni Ottanta e specialmentedopo la crisi dell’Asia orientale del 1997-98, quest’offerta illimitata dicapitale è venuta dai paesi del Terzo e Secondo mondo. Qualche che siala ragione dello spostamento nell’equilibrio del potere tra lavoro e capi-tale negli Stati uniti – dove lo spostamento è giunto prima ed è stato piùmarcato che in altri paesi ricchi – esso non può essere attribuito aun’espansione dell’offerta mondiale di lavoro a basso costo senza unaparallela espansione proporzionale dell’offerta globale di capitale, comeFreeman, tra gli altri, ritiene.

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FIGURA 1. SALDO DEI CONTI CORRENTI, 1980-2005miliardi di dollari Usa a prezzi correnti

x

x x xx

xx

x xx

xx

xx

xx x x

x

x

xx

x

x

x

x

x

Cina Giappone Stati Uniti Germania

400

1985

1990

1995

2000

2005

200

0

- 200

- 400

- 600

- 800

- 1000

Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database, Settembre 2006.

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la contro-rivoluzione possedevano ampie riserve di lavoro agricolo abassa produttività che potevano essere spostate verso lavori a maggioreproduttività nell’industria e nei servizi. Jeffrey Sachs e Wing Thye Woohanno sostenuto che l’esistenza di un grande settore agricolo sia la diffe-renza cruciale che spiega il maggior successo delle riforme economichein Cina rispetto alla Russia12.

Argomenti di questo tipo possono essere criticati su due piani. Pri-mo, come si è chiesto Thomas Rawski con specifico riferimento all’inter-pretazione di Sachs e Woo dei successi cinesi, “se milioni di agricoltoriscarsamente educati, sotto-occupati e sottoposti ad eccessiva regolazio-ne rappresentano ‘i vantaggi dell’arretratezza’, perché non osserviamoun’esplosione nella crescita di Egitto, India, Bangladesh, Pakistan, Nige-ria e altre nazioni che da lungo tempo godono di tali ‘vantaggi’?”13.Secondo, un’ampia riserva di lavoro agricolo a bassa produttività non èla sola fonte di lavoro sfruttabile. I marxisti, per esempio, da molto tem-po hanno sottolineato che lo sviluppo capitalistico tende a creare uncrescente esercito industriale di riserva che può impedire che i salarireali crescano tanto velocemente quanto la produttività del lavoro, ehanno considerato l’esistenza di una grande riserva di lavoro agricolocon accesso ai mezzi per produrre mezzi di sussistenza non come unvantaggio, ma come un ostacolo allo sviluppo economico14. Sorge allorala questione se una gran massa di contadini, soltanto parzialmente sepa-rata dai mezzi per produrre la propria sussistenza, come quella cinese,costituisca, nell’attrarre capitale e promuovere lo sviluppo economico,un vantaggio competitivo più grande rispetto alle masse urbane e semi-urbane di lavoratori disoccupati o sotto-occupati di cui l’Africa sub-sahariana e l’America latina sono più fornite rispetto alla Cina. Se è così,dovremmo allora rivedere o respingere le teorie marxiste dell’esercitoindustriale di riserva e dell’accumulazione attraverso l’espropriazione?E se non è così, quali altre circostanze possono spiegare il successo dellaCina, a confronto dell’Africa sub-sahariana e dell’America latina, nelvolgere a proprio vantaggio la congiuntura economica creata dalla con-tro-rivoluzione neoliberista?

2. LE RIFORME DELLA CINA E IL WASHINGTON CONSENSUS

I sostenitori istituzionali del Washington consensus – la Bancamondiale, l’Fmi, i ministeri dell’economia statunitense e britannico,appoggiati dal Financial Times e dall’Economist – si sono vantati del fat-

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domanda nordamericana e sono incorse in difficoltà nella bilancia deipagamenti che le hanno messe nella posizione, senza speranza, di dovercompetere direttamente con gli Stati uniti sui mercati finanziari mondiali.Le imprese e le agenzie governative statunitensi hanno potuto trarre van-taggio da entrambi questi esiti riguardanti il Sud: sono stati in grado disfruttare il credito e i beni a basso costo che i “vincitori” del Sud eranoben felici di fornire, così come le proprietà e i beni patrimoniali che i“perdenti” del Sud sono stati costretti, volenti o nolenti, a mettere invendita a prezzi stracciati. Come mostra la tabella 1, il risultato comples-sivo è stato che, mentre gli Stati uniti sono riusciti a invertire il loro decli-no economico relativo, i guadagni e le perdite delle regioni del Sudrispetto al Nord si sono in gran parte reciprocamente bilanciati.

In breve, il primo motore dell’intensificarsi delle pressioni compe-titive sul lavoro e sui paesi del Sud non è stato l’integrazione nei mercatimondiali dell’illimitata offerta di lavoro di Cina e India, bensì la contro-rivoluzione neoliberista sostenuta dagli Usa. L’enfasi di Freeman sull’illi-mitata offerta di lavoro a basso costo evidenzia il fatto che le regioni delSud che hanno ottenuto risultati migliori nella competizione aperta dal-

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FIGURA 2: SALDO DEI CONTI CORRENTI COME PERCENTUALE DEL PRODOTTO INTERNO

LORDO MONDIALE

Nord

1.5

0.5

- 0.5

- 1.5

1

- 1

- 2

0

Resto del Mondo

% d

el P

il m

on

dia

le

1980

1981

1982

1983

1984

1985

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1988

1989

1990

1991

19921993

1994

1995

1996

1997

1998

1999

2000

2001

2002

2003

2004

2005

2006

Fonte: International Monetari Fund, World Economic Outlook database, Settembre 2006.

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nazionale auto-centrata informalmente protetta da lingua, usanze, istitu-zioni e reti di rapporti accessibili agli stranieri soltanto attraverso inter-mediari locali. Un buon esempio di questa combinazione sono i grandidistretti industriali di esportazione che il governo cinese ha costruito dalnulla e che ora ospitano due terzi del totale dei lavoratori di tali aree alivello mondiale. Le dimensioni della Cina le hanno consentito dicostruire tre complessi manufatturieri, ciascuno con la propria specializ-zazione: il delta del Fiume delle Perle, specializzato in manifatture adalta intensità di lavoro, produzione di componenti e loro assemblaggio;il delta del fiume Yangze, specializzato in produzioni ad alta intensità dicapitale e nella produzione di automobili, semi-conduttori, telefoni cel-lulari e computer; e lo Zhongguan Cun, vicino a Pechino, la Silicon Val-ley della Cina, dove il governo interviene direttamente per favorire lacollaborazione tra università, imprese e banche di Stato nello sviluppodelle tecnologie dell’informazione18.

La divisione del lavoro tra i distretti industriali di esportazionemostra anche la strategia del governo cinese di promuovere lo sviluppodelle industrie basate sulla conoscenza senza abbandonare quelle ad altaintensità di lavoro. Nel perseguire questa strategia, il governo cinese hamodernizzato ed espanso il sistema educativo a un ritmo e a una scalasenza precedenti perfino nell’Asia orientale. Sulla base degli eccezionalisuccessi nell’educazione primaria dell’era di Mao, il numero di laureati ètriplicato tra il 2001 e il 2005, fino a superare i tre milioni l’anno. Il risul-tato è che le università statali cinesi producono laureati in un numerocomparabile a quello di paesi molto più ricchi. Anche se l’aumentoquantitativo ha indubbiamente comportato un peggioramento nellaqualità dell’offerta formativa, l’estensione alla fine del 2002 dell’istruzio-ne obbligatoria a nove anni a un’area nella quale vive il 90% della popo-lazione rappresenta comunque un successo impressionante. Inoltre, laCina ha il più gran numero di studenti stranieri negli Stati uniti, congruppi in rapida crescita in Europa, Australia, Giappone e altrove. Ilgoverno cinese ha offerto molti incentivi per spingere gli studenti cinesiall’estero a ritornare dopo aver completato i loro studi, e molti di loro,inclusi scienziati e manager, sono stati attratti dalle opportunità offerteda un’economia in rapida crescita19.

In breve, il gradualismo con cui le riforme economiche sono staterealizzate, e le azioni di bilanciamento con cui il governo ha cercato dipromuovere la sinergia tra un mercato nazionale in espansione e unanuova divisione sociale del lavoro, sono in netto contrasto con la fedeutopica del credo neoliberista nei benefici di terapie d’urto, governi

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to che la riduzione della disuguaglianza nel reddito mondiale e dellapovertà, che ha accompagnato la crescita economica cinese a partire dal1980, possono essere ricondotti all’adesione della Cina alle politiche daloro prescritte15. Come sottolineato da James Galbraith, questa tesi ècontraddetta dalla lunga lista di disastri economici provocati dall’adesio-ne a tali raccomandazioni nell’Africa sub-sahariana, in America latina enella dissolta Urss, e dal fatto che Cina e India, innanzi tutto, “si sonoliberate dalle banche occidentali negli anni Settanta, risparmiandosi lacrisi del debito”; in secondo luogo, dal fatto che Cina e India “hannocontinuato a mantenere fino a oggi i controlli sui movimenti di capitali,cosicché il capitale speculativo non può fluire liberamente dentro e fuo-ri dai paesi”; infine, dal fatto che entrambi “continuano ad avere unesteso settore statale nell’industria pesante”. Nell’insieme Cina e Indiahanno ottenuto buoni risultati, “ma sono dovuti alle riforme oppure alleregolamentazioni che hanno continuato a imporre? Senza dubbio, larisposta giusta è: in parte a entrambe le cose”16.

Per la Cina, la posizione di Galbraith concorda con quella diJoseph Stiglitz secondo cui il successo delle riforme cinesi – rispetto alfallimento di quelle nell’ex-Unione Sovietica – è legato al non averabbandonato il gradualismo a favore delle terapie d’urto sostenute dalWashington consensus; all’aver riconosciuto che la stabilità sociale puòessere mantenuta soltanto se la creazione di posti di lavoro procedeinsieme alle ristrutturazioni; all’aver cercato di assicurare nuovi impieghiproduttivi alle risorse divenute inutilizzate per la più intensa competi-zione17. Certamente, le riforme della Cina hanno esposto le imprese diproprietà dello stato (State-owned enterprises) alla competizione, traloro, con le imprese straniere e soprattutto con una varietà di nuoveimprese private, semi-private e di comunità locali. Tuttavia, se la cre-scente concorrenza ha fatto diminuire la quota di occupazione e produ-zione delle imprese statali rispetto al periodo 1949-1979, il ruolo delgoverno cinese nel promuovere lo sviluppo non è diminuito. Al contra-rio, esso ha investito grandi somme per lo sviluppo di nuovi settoriindustriali, per la creazione dei nuovi distretti industriali di esportazione(Export Processing Zones), per l’espansione e modernizzazione dell’edu-cazione superiore, e per grandiosi progetti infrastrutturali, in una misurasenza precedenti nei paesi con reddito pro-capite comparabile.

Grazie alla dimensione continentale e all’immensa popolazione delpaese, queste politiche hanno consentito al governo cinese di combinarei vantaggi dell’industrializzazione orientata all’esportazione, ampiamen-te controllata dall’investimento estero, con i vantaggi di un’economia

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sono più generosi, e i licenziamenti sono più difficili nel settore del lavo-ro regolare in Cina rispetto ad altri paesi con livello comparabile o addi-rittura maggiore di reddito pro-capite. Ancora più importante, l’espan-sione dell’educazione superiore, il rapido incremento di opportunitàalternative d’impiego nelle nuove industrie, i benefici fiscali per le cam-pagne, e altre riforme che incoraggiano gli abitanti dei villaggi a impie-gare più lavoro nell’economia rurale, si sono combinati nel creare caren-ze di manodopera che stanno minando le fondamenta del super-sfrutta-mento del lavoro migrante. “Stiamo assistendo alla fine del periodod’oro del lavoro estremamente a basso costo in Cina”, ha recentementedichiarato un economista della Goldman Sachs. “C’è abbondanza dilavoratori, ma la riserva di operai non qualificati sta diminuendo... ilavoratori cinesi... stanno risalendo la catena del valore più velocementedi quanto ci si aspettasse”24.

Tra i fattori che hanno contribuito all’emergere di questa scarsitàdi lavoro c’è il gradualismo delle riforme e l’azione dello Stato per allar-gare e migliorare la divisione sociale del lavoro, la grande espansionedell’educazione, la subordinazione degli interessi capitalistici alla pro-mozione dello sviluppo nazionale e l’attivo incoraggiamento della com-petizione inter-capitalistica. Ma il fattore decisivo è stato probabilmentel’espansione del mercato interno e il miglioramento delle condizioni divita nelle aree rurali associati alle riforme. La riforma chiave è statal’introduzione, nel 1978-1983, del Sistema di responsabilità familiare(Household Responsibility System), che ha riportato il potere decisionalee il controllo sui surplus agricoli dalle comuni alle famiglie rurali. Incombinazione con forti incrementi dei prezzi per gli approvvigionamen-ti agricoli nel 1979 e nel 1983, il risultato è stato un rilevante aumentodei guadagni nell’agricoltura, che ha rafforzato la precedente tendenzadelle comuni e delle imprese agricole collettive a produrre beni nonagricoli. Anche se il governo ha incoraggiato il lavoro rurale a “lasciarela terra senza lasciare il villaggio” attraverso vari impedimenti alla mobi-lità, nel 1983 ai residenti rurali venne concesso il permesso di cercaremercati per i loro prodotti effettuando trasporti e vendita a lungadistanza, e nel 1984 sono state ulteriormente semplificate le regole perconsentire ai contadini di lavorare nelle città vicine e nelle nuove impre-se di municipalità e di villaggio a proprietà collettiva (Township and Vil-lage Enterprises)25.

L’emergere delle imprese di municipalità e di villaggio è stato sti-molato da due altre riforme: il decentramento fiscale, che ha garantitoautonomia ai governi locali nella promozione della crescita economica e

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ridotti al minimo, e mercati auto-regolati. Nel promuovere le esporta-zioni e l’importazione di conoscenze tecnologiche, il governo cinese hachiesto la collaborazione degli interessi del capitale estero e della dia-spora cinese. In queste relazioni, tuttavia, il governo cinese ha conserva-to una posizione di forza, divenendo esso stesso uno dei principali cre-ditori dello Stato capitalista dominante (gli Usa) e accettando assistenzaa termini e condizioni conformi all’interesse nazionale della Cina. Nes-suno sforzo d’immaginazione sarebbe sufficiente a caratterizzare ilgoverno cinese come servo degli interessi del capitale straniero20. Anchela diffusa idea che tutte le industrie cinesi ad alta tecnologia siano con-trollate da capitali stranieri ignora l’ampia e crescente partecipazione diimprese e joint ventures cinesi nella produzione di beni tecnologici,come telefoni cellulari, computer e ogni tipo di elettrodomestico21.

La crescente competizione tra imprese pubbliche e private haindubbiamente causato notevoli peggioramenti nella sicurezzadell’impiego che gli operai urbani godevano nell’era di Mao, così comeinnumerevoli episodi di super-sfruttamento, specialmente dei lavoratorimigranti22. Tali difficoltà devono tuttavia essere considerate nel contestodi politiche governative che nemmeno sotto questo aspetto hanno accol-to le prescrizione chiave del neoliberismo di sacrificare il benessere deilavoratori ai profitti. Come David Schweickart ha evidenziato,

La Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza che vi fosse alcunaclasse capitalista. Questo fatto è stato enormemente importante. Nonsolo [non c’era alcuna] classe proprietaria che potesse bloccare il cam-biamento strutturale, ma la classe capitalista cui è stato consentito diemergere, incoraggiandola, è stata molto più imprenditoriale di quantotendano ad essere le classi capitaliste che sono dominanti da lungo tem-po, e quindi è stata più utile alla società in generale.

Inoltre, la storia della Cina del ventesimo secolo ha insegnato aisuoi gruppi dominanti che un malcontento su larga scala di operai ocontadini può mettere seriamente a rischio i successi della rivoluzione ele conseguenti riforme, e che la sola repressione non basta come rime-dio. “Questa condizione – la minaccia reale di rivolte di massa e caos –è assente in Occidente. Essa è presente in molte parti del Sud del mon-do, ma qui la struttura delle classi e i rapporti di forza sono alquantodifferenti rispetto alla Cina”23.

Come risultato di quest’equilibrio fra le classi, l’assistenza medica,le pensioni e altri benefici sociali per i lavoratori nelle joint ventures

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maggiore della mobilità del lavoro negli anni Ottanta è stata determina-ta dal trasferimento dei contadini dall’agricoltura al lavoro in impresecollettive nelle campagne. Secondo, poiché le imprese di municipalità edi villaggio erano relativamente poco regolate, il loro ingresso in nume-rosi mercati ha aumentato la pressione competitiva complessiva, spin-gendo tutte le imprese urbane, non solo quelle a proprietà statale, amigliorare le proprie performance29. Terzo, divenendo una tra le mag-giori fonti di entrate fiscali nelle campagne, le imprese di municipalità edi villaggio hanno ridotto il peso delle tasse sui contadini, contribuendocosì alla stabilità sociale30. Quarto, e per molti aspetti il più importante,reinvestendo i profitti e le rendite localmente, le imprese di municipalitàe di villaggio a proprietà pubblica hanno ampliato il mercato interno,creando le condizioni per un nuovo ciclo di investimenti, creazioned’occupazione e divisione del lavoro. Come osservato da Lily Tsai, sullabase di ampie ricerche nella Cina rurale, la famiglia di origine o l’affilia-zione con un particolare tempio religioso sono efficaci sostituti delle isti-tuzioni formali, democratiche e burocratiche, nel vincolare le autoritàgovernative locali a regole e norme informali che le obbligano a fornireil livello di beni pubblici necessario a mantenere la stabilità sociale31. Lapeculiare posizione delle imprese di municipalità e di villaggio comeimprese a proprietà pubblica è dunque stata una caratteristica centraledell’“età dell’oro” cinese (1978-1996) nell’era delle riforme del dopo-Mao. “In nessun’altra economia di transizione” – nota Barry Naughton– “le imprese pubbliche hanno svolto il ruolo fondamentale che leimprese di municipalità e di villaggio hanno avuto in Cina”32.

Certamente, l’intero settore delle imprese di municipalità e di vil-laggio ha subito straordinarie trasformazioni dopo la metà degli anniNovanta. Di fronte a un contesto più difficile (che includeva un cambia-mento delle politiche governative verso la costituzione di istituzioni diregolamentazione e la crescita dell’integrazione dei mercati e della com-petizione) il tasso di crescita complessivo delle imprese di municipalità edi villaggio è significativamente rallentato. Molte sono state ristrutturatee trasformate in imprese a prevalente proprietà privata. Tuttavia, alcuneimprese di municipalità e di villaggio a proprietà pubblica sono stateconvertite in società per azioni cooperative di proprietà dei lavoratori.Nel 2003 3,7 milioni di lavoratori erano impiegati in questo tipo di coo-perative33. In molte aree il governo ha mantenuto una partecipazionenell’impresa, realizzando joint venture con manager privati. In effetti,può essere difficile determinare quali siano le imprese private, oggi, trale imprese di municipalità e di villaggio cinesi, poiché i governi locali

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nell’uso degli avanzi fiscali come incentivi; e il passaggio alla valutazionedei quadri del partito sulla base delle performance economiche delleloro regioni, che ha fornito ai governi locali forti incentivi a favorire lacrescita. Le imprese di municipalità e di villaggio sono così divenute iluoghi primari del ri-orientamento delle energie imprenditoriali dei qua-dri di partito e delle autorità governative verso obiettivi di sviluppo.Perlopiù autosufficienti finanziariamente, esse sono anche divenute laprincipale agenzia per riallocare i surplus delle attività agricole versoattività industriali ad alta intensità di lavoro, capaci di assorbire produt-tivamente l’eccesso di lavoro agricolo26. Il risultato è stato una crescitaesplosiva della forza lavoro rurale impiegata in attività non agricole, da28 milioni nel 1978 a 176 milioni nel 2003. La maggior parte dell’incre-mento è avvenuto nelle imprese di municipalità e di villaggio, che tra il1980 e il 2004 hanno creato almeno il quadruplo dei posti di lavoro per-si nel settore statale e nelle cooperative urbane, e alla fine di tale periodoimpiegavano più del doppio dei lavoratori di tutte le imprese urbanestraniere, private e in comproprietà27.

Come ammesso da Deng Xiaoping nel 1993, la crescita esplosivadelle imprese di municipalità e di villaggio prese di sorpresa la dirigenzacinese. Soltanto nel 1990 il governo intervenne per legalizzarle e regolar-le, assegnandone la proprietà collettivamente a tutti gli abitanti della cittào del villaggio, ma conferendo ai governi locali il potere di nominare elicenziare i manager o di delegare quest’autorità a un’agenzia governati-va. L’allocazione dei profitti delle imprese di municipalità e di villaggio èstata anch’essa regolata, imponendo di reinvestirne più della metànell’impresa stessa per modernizzare ed espandere la produzione e incre-mentare i fondi per l’assistenza e gli incentivi, e di usare il resto per lacostruzione di infrastrutture agricole, servizi tecnologici, assistenza pub-blica e investimento in nuove imprese. Verso la fine degli anni Novanta cisono stati dei tentativi di trasformare i diritti di proprietà vagamente defi-niti, in qualche forma di società per azioni o proprietà privata. Ma tuttele regole sono state difficili da applicare, e le imprese di municipalità e divillaggio sono ora caratterizzate da una varietà di assetti proprietari localitale da rendere difficile la loro categorizzazione28.

Eppure, a dispetto della loro variabilità organizzativa, o forse gra-zie ad essa, le imprese di municipalità e di villaggio hanno contribuito inmodo cruciale al successo delle riforme. Primo, il loro orientamento ver-so attività ad alta intensità di lavoro ha permesso loro di assorbire il sur-plus di lavoratori e di aumentare i redditi rurali senza un massiccioincremento delle migrazioni verso le aree urbane. Di fatto, la quota

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Questo schema, Hart suggerisce, potrebbe essere osservato non sol-tanto in Cina ma anche a Taiwan:

Ciò che è specifico di Cina e Taiwan – e drammaticamente differentedal Sudafrica – sono le riforme per la redistribuzione della terra iniziatealla fine degli anni Quaranta che hanno effettivamente rotto il potere deiproprietari terrieri. Le forze politiche che hanno guidato le riforme agra-rie in Cina e Taiwan erano strettamente legate, anche se opposte. Sianella Cina socialista e post-socialista sia nella ‘capitalista’ Taiwan, leriforme che hanno definito le trasformazioni agrarie sono state affiancateda un’accumulazione industriale rapida e decentrata senza espropriazio-ne della terra... Il fatto che alcuni degli sviluppi più spettacolari dellaproduzione industriale nella seconda metà del ventesimo secolo abbianoavuto luogo senza l’espropriazione dei contadini-operai mette in eviden-za le forme distintivamente ‘non-occidentali’ di accumulazione su cui sifonda la competizione globale... Inoltre, [ciò dovrebbe anche spingercia] rivedere le assunzioni teleologiche sull’’accumulazione originaria’, incui l’espropriazione della terra viene vista come naturalmente associataallo sviluppo capitalistico37.

Il suggerimento di Hart che il successo economico della Cina sifondi su uno schema di accumulazione senza espropriazione ci riportaalla questione se un’ampia classe contadina soltanto parzialmente sepa-rata dai mezzi di produzione della sua sussistenza, come quella cinese,costituisca un vantaggio competitivo maggiore nel favorire la crescitaeconomica rispetto alle masse urbane e semi-urbane di disoccupati esotto-occupati di cui l’Africa sub-sahariana e l’America latina sono piùfornite rispetto alla Cina. La risposta che emerge dalla precedente ana-lisi è che in effetti le cose stanno così, purché le politiche governativeriescano a mobilitare i contadini come una fonte, non soltanto diabbondante offerta di lavoro a basso costo, ma anche e specialmente dienergie imprenditoriali e capacità manageriali necessarie ad assorbiretale offerta in modi capaci di espandere il mercato nazionale e leopportunità della nuova divisione del lavoro. Benché le riforme diDeng siano state un grande successo sotto questo aspetto, la loro riu-scita è dipesa in modo critico da due tradizioni che hanno preceduto eispirato le medesime riforme: la tradizione della rivoluzione industrio-sa della Cina del diciottesimo secolo e la sua più recente tradizione del-la rivoluzione socialista. È a queste tradizioni che ora volgiamo l’atten-zione.

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possono mantenere partecipazioni oscillanti tra il 20% e il 50%34.Dopo il 1996 le imprese di municipalità e di villaggio hanno conti-

nuato a crescere, benché con tassi d’incremento più vicini alla crescitamedia del Pil. Il valore aggiunto delle imprese di municipalità e di villag-gio come quota del Pil è aumentato dal 26% del 1996 al 30% del 1999,rimanendo poi stabile fino al 2004. Anche dopo la ristrutturazione, leimprese di municipalità e di villaggio sono rimaste radicate nei rapportipersonali tra i membri delle comunità rurali, continuando a reinvestirenelle comunità locali35. Le nostre osservazioni nella provincia di Shan-dong nel 2005 confermano queste affermazioni. Quando uno degliautori di questo capitolo ha domandato al dirigente e proprietario diuna impresa di comunità privatizzata - una fabbrica di cavi che è statatra i maggiori produttori nazionali dalla metà degli anni Novanta - checosa spingesse l’impresa a reinvestire i profitti localmente, anche dopoessere stata privatizzata, questi rispose che “anche se il governo incorag-gia innanzi tutto a diventare ricchi, non puoi ignorare la tua gente sevuoi continuare a vivere nel villaggio. Qui le persone sono così vicinel’una all’altra che, semplicemente, non è possibile andare avanti se si èaccusati di arricchirsi senza pensare alla propria gente”. In aggiunta atali incentivi sociali, abbiamo scoperto che le ricompense politiche –divenire membri del Partito comunista, rappresentanti al Congresso delpopolo, o essere nominati quadri rurali – costituiscono incentivi rilevan-ti che spingono i dirigenti delle imprese di comunità e gli imprenditori areinvestire i profitti nelle comunità locali36.

Nel riassumere i punti di forza per lo sviluppo della Cina rispettoal Sudafrica – dove i contadini sono stati da lungo tempo espropriatidei mezzi di produzione, senza che una corrispondente domanda dilavoro li potesse assorbire nel lavoro salariato – Gillian Hart ha sottoli-neato il contributo delle imprese di municipalità e di villaggio nel rein-vestire e ridistribuire i profitti nei circuiti locali, nelle scuole, cliniche ealtre forme di consumo collettivo. Inoltre, una distribuzione relativa-mente egualitaria della terra tra le unità familiari ha permesso ai resi-denti di molte imprese di municipalità e di villaggio di procurarsi davivere attraverso una combinazione di coltivazione intensiva di minu-scoli lotti e di lavoro nell’industria e in altre attività non agricole. Inrealtà, “una forza chiave nello spingere la crescita [delle imprese dimunicipalità e di villaggio] è che, a differenza delle loro contropartiurbane, esse non hanno bisogno di fornire alloggio, assistenza sanita-ria, pensioni ed altri benefici sociali agli operai. In effetti, gran partedel costo di riproduzione del lavoro non è a carico delle imprese”.

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Page 101: Capitalismo e (dis)ordine mondiale

L’osservazione di Hart che nelle imprese di municipalità e di villaggiola coltivazione intensiva di piccoli lotti di terra si combina con altre formedi lavoro nell’industria o comunque non-agricolo, e con investimenti emiglioramenti nella qualità del lavoro, supporta la posizione di Sugiharariguardo la persistenza dell’eredità della rivoluzione industriosa cinese. Dieguale importanza a tale riguardo è la tendenza a utilizzare il più pienamen-te possibile le risorse umane e di fornirle di competenze manageriali e tec-nologiche generali in ambito familiare. Assieme ai successi in campo educa-tivo della tradizione rivoluzionaria cinese, che sarà qui discussa, questa ten-denza può essere osservata persino nelle industrie urbane, il cui principalevantaggio competitivo è stato individuato nell’uso di lavoro specializzato abasso costo come sostituto di macchinari costosi e manager. Nella fabbricaautomobilistica di Wanfeng, vicino a Shanghai, per esempio, non si vedeneppure un robot. Come in molte altre fabbriche cinesi, la catena di mon-taggio è occupata da schiere di giovani, appena arrivati dalle scuole tecni-che, che lavorano con poco più che grandi trapani elettrici, chiavi inglesi emartelli gommati. I motori e i pannelli della carrozzeria, che nelle fabbricheoccidentali si muoverebbero da una postazione all’altra su nastri trasporta-tori automatici, sono portati a mano o spinti su carrelli. Evitando l’uso dimacchinari dal costo di molti milioni di dollari, Wanfeng può vendere lasua Jeep di lusso “Tribute” in Medio Oriente tra gli 8.000 e i 10.000 dolla-ri40. Inoltre, come ci si aspetterebbe a partire dalle affermazioni di Sugihara,le imprese cinesi impiegano lavoro specializzato a basso costo per sostituirenon solo macchinari costosi, ma anche costosi dirigenti. “Nonostantel’enorme numero di operai nelle fabbriche cinesi, i ranghi dei dirigenti cheli controllano sono esigui per gli standard occidentali... un’indicazione diquanto [gli operai] siano incredibilmente capaci di auto-gestirsi”41.

L’eredità della rivoluzione industriosa cinese avrebbe potuto nonsopravvivere, e tanto meno produrre questo tipo di effetti sullo sviluppo, senon fosse stata rivitalizzata e trasformata dalla tradizione rivoluzionaria.

Nonostante tutti gli errori, il caos e la sofferenza umana degli anni diMao, una trasformazione sbalorditiva ha avuto luogo in Cina nel corsodei precedenti tre decenni. Nel 1949 la Cina era un paese molto piùpovero e assai meno industrializzato di quanto fosse la Russia quando ibolscevichi fecero la loro rivoluzione trentadue anni prima. Già nel 1970la Cina aveva una base industriale che impiegava qualcosa come 50milioni di operai e pesava per più di metà del suo Pil. Il valore del suoprodotto industriale lordo era cresciuto di trentotto volte e quellodell’industria pesante di novanta volte. La Cina stava producendo aerei

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3. L’EREDITÀ DELLA “RIVOLUZIONE INDUSTRIOSA” E DELLA RIVOLUZIONE

SOCIALISTA IN CINA

Kaoru Sugihara ha sostenuto che nel diciottesimo secolo e nellaprima parte del diciannovesimo la Cina abbia sperimentato una “rivolu-zione industriosa”, che ha prodotto una traiettoria tecnologica e indu-striale specifica dell’Asia orientale e definito le sue risposte alle sfide ealle opportunità della rivoluzione industriale occidentale. Particolar-mente significativo, sotto questo riguardo, è stato lo sviluppo di un qua-dro istituzionale che assicurava l’assorbimento del lavoro, centratosull’unità familiare e, in misura minore, sulla comunità di villaggio. Con-trariamente all’opinione diffusa secondo cui la produzione su piccolascala non può sostenere lo sviluppo economico, questo quadro istituzio-nale ha avuto importanti vantaggi rispetto alla produzione su larga scala,a base di classe, che stava diventando dominante in Inghilterra nellostesso periodo. Mentre in Inghilterra gli operai venivano privatidell’opportunità di condividere le responsabilità dei manager e di svi-luppare le capacità interpersonali necessarie per una specializzazioneflessibile, nell’Asia orientale

la capacità di svolgere bene compiti molteplici, anziché la specializzazio-ne in uno solo, era preferita, ed era incoraggiata la volontà di cooperarecon altri membri della famiglia più che la promozione del talento indivi-duale. Soprattutto, era importante per ogni membro della famiglia inse-rirsi nel sistema di lavoro agricolo, rispondendo con flessibilità a necessitàulteriori o d’emergenza, mostrando comprensione per i problemi relativialla gestione della produzione, e anticipando o prevenendo potenzialiproblemi. Le capacità manageriali, con un generale background di abilitàtecnica, erano attivamente sviluppate a livello familiare38.

Inoltre, i costi delle transazioni commerciali erano esigui, e relati-vamente basso il rischio legato alle innovazioni tecnologiche. Benché ilquadro istituzionale dell’Asia orientale lasciasse poco spazio per grandiinnovazioni, o per investimenti in capitale fisso o nel commercio di lun-ga distanza, forniva eccellenti opportunità per lo sviluppo di tecnologiead alta intensità di lavoro che incrementavano il reddito pro-capiteannuale, anche se non incrementavano il prodotto giornaliero o orario.La differenza tra questo tipo di sviluppo e quello percorso dall’Occi-dente stava in una forte preferenza verso l’utilizzazione di risorse umaneanziché non-umane39.

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Page 102: Capitalismo e (dis)ordine mondiale

A questo proposito vale la pena di sottolineare che il successo delleriforme economiche in Cina rispetto all’ex-Unione Sovietica dovrebbeessere riportato non tanto all’esistenza di un grande settore agricolo,come ritengono Sachs e Woo, o al gradualismo e all’attenzione per ilbenessere comune delle riforme, come pensano Stiglitz e altri. Tale suc-cesso dovrebbe essere ricondotto anche e specialmente alle fondamenta-li differenze tra la tradizione rivoluzionaria cinese e quella russa. Questedifferenze hanno avuto origine nella specifica versione di marxismo-leninismo emersa per la prima volta con la formazione dell’Armata rossanei tardi anni Venti e si sono pienamente sviluppate dopo che il Giap-pone conquistò le regioni costiere cinesi verso la fine degli anni Trenta.Come Meghnad Desai ha evidenziato, a differenza del partito bolscevi-co russo, i comunisti cinesi dovettero lottare per ottenere l’appoggio deicontadini per un decennio e mezzo prima di giungere al potere nel1949. Nel corso di questa lotta essi “svilupparono il principio di darerisposte ai bisogni popolari entro i confini di un partito unico”44.

Quest’innovazione ideologica ha avuto due componenti principali.Una è stata la sostituzione degli aspetti insurrezionali della teoria di

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a reazione, moderne navi oceaniche, armi nucleari e missili balistici. Nel-le campagne erano state realizzate gigantesche opere di irrigazione econtrollo delle acque. Alla maggior parte della popolazione, prima anal-fabeta, era stato insegnato a leggere e scrivere. Un sistema sanitario pub-blico era stato creato dove non ne era mai esistito alcuno. La speranza divita media era aumentata da 35 a 65 anni. Tutto ciò è stato realizzatopraticamente senza alcuna assistenza esterna – il che ha significato chela Cina è entrata nel suo periodo di riforme senza nessun debito estero42.

In realtà, come mostrano le figure 3 e 4, se il maggiore incrementonel reddito pro-capite della Cina (mostrato dal movimento verso l’altodelle curve) è avvenuto a partire dal 1980, il grosso del miglioramentodell’aspettativa di vita degli adulti e, in misura minore, dell’alfabetizza-zione degli adulti (mostrato dallo spostamento verso destra delle curve),vale a dire delle condizioni essenziali di benessere, è avvenuto prima del1980. Questa dinamica conferma la tesi che “senza le realizzazioni delregime di Mao le riforme di mercato del 1979 e oltre non avrebbero maiprodotto i risultati impressionanti che hanno avuto”43.

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FIGURA 3: REDDITO PRO CAPITE E SPERANZA DI VITA DEGLI ADULTI, 1960-2000Prodotto nazionale lordo pro capite a prezzi costanti in dollari Usa 1995, scala logaritmica

Pn

l pro

cap

ite

(do

llari

Usa

)

Speranza di vita degli adulti (anni)

America Latina

India

Cina

Africa sub-sahariana

1960

1960

1960

1960

1980

1980

1980

1980

2000

2000

20002000

10000

1000

100

10

0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80

Fonte: calcoli basati sui dati relativi a Prodotto nazionale lordo, popolazione e speranza divita degli adulti tratti da World Bank, World Development Indicators 2004 e 2001.

FIGURA 4: REDDITO PRO CAPITE E ALFABETIZZAZIONE DEGLI ADULTI, 1970-2000Prodotto nazionale lordo pro capite a prezzi costanti in dollari Usa 1995, scala logaritmica

Pn

l pro

cap

ite

(do

llari

Usa

)

Percentuale di alfabetizzazione degli adulti

America Latina

1970

2000

India

Cina

Africa sub-sahariana

1970

1970

19701980

1990

2000

2000

2000

10000

1000

100

10

0 5 10 15 20 25 30 35 40 45 50 55 60 65 70 75 80 85 90 95 100

Fonte: calcoli basati sui dati relativi a Prodotto nazionale lordo, popolazione e speranza divita degli adulti tratti da World Bank, World Development Indicators 2004 e 2001.

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aree rurali, sotto la bandiera di un “nuovo socialismo nelle campagne”.Alle radici di questa complessa tradizione c’è il problema cruciale

di come governare e sviluppare un paese con una popolazione ruralepiù grande della intera popolazione dell’Africa, dell’America latina odell’Europa. Nessun altro paese, con l’eccezione dell’India, ha mai fron-teggiato un problema anche solo lontanamente comparabile. Da questopunto di vista, per quanto dolorosa sia stata l’esperienza per gli intellet-tuali e i quadri urbani, la Rivoluzione culturale ha consolidato le fonda-menta rurali della Rivoluzione cinese e preparato il terreno per il succes-so delle riforme economiche. È sufficiente ricordare che durante il corsodella Rivoluzione culturale il funzionamento irregolare delle industrieurbane ha incrementato considerevolmente la domanda per i prodottidelle imprese agricole, portando a una notevole espansione delle comu-ni e delle imprese agricole collettive dalle quali più tardi sono emersemolte delle imprese di municipalità e di villaggio48. Allo stesso tempo, laRivoluzione culturale ha messo in pericolo non soltanto il potere deiquadri dello Stato-partito e i successi politici della Rivoluzione cinese,ma buona parte della componente modernista della tradizione rivolu-zionaria. La sua condanna, a favore delle riforme economiche, è quindistata considerata essenziale per rilanciare tale componente. Dopo lametà degli anni Novanta, tuttavia, è stato il successo stesso di tale rilan-cio a minacciare la tradizione rivoluzionaria. Due sviluppi in particolarehanno segnalato questa tendenza: l’enorme aumento nella disuguaglian-za di reddito e il crescente malcontento popolare sulle procedure e gliesiti delle riforme.

L’enorme crescita della disuguaglianza di reddito tra le aree rurali eurbane, e all’interno di queste, che ha accompagnato il passaggio dellaCina a un’economia di mercato è un fatto ben documentato. Il coeffi-ciente di Gini della Cina, per esempio, è passato da un valore molto bas-so di 0,28 nel 1983, a uno piuttosto alto di 0.45 nel 2001 e di 0.47 nel200749. Fino ai primi anni Novanta questa tendenza ha potuto esserepresentata come il risultato d’una strategia di sviluppo non bilanciatoche creava opportunità di avanzamento per la maggior parte della popo-lazione. Per esempio, i dati della Banca mondiale suggeriscono che lariduzione della povertà è continuata ininterrotta – la percentuale dellapopolazione che vive con meno di un dollaro al giorno è caduta da oltreil 60% nel 1980 a meno del 20% nel 1997. L’incremento nella povertàrelativa che risulta dalla crescente disuguaglianza era quindi accompa-gnato da una diminuzione della povertà assoluta50. Inoltre, l’incrementodella disuguaglianza – come misurato da indicatori sintetici come il

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Lenin del partito d’avanguardia con la teoria di Mao della “linea di mas-sa”, secondo cui il partito avrebbe dovuto essere non soltanto l’inse-gnante, ma anche l’allievo delle masse. “Questa concezione di andaredalle-masse-alle-masse” – nota John Fairbank – “era in realtà una sortadi democrazia a misura della tradizione cinese, secondo la quale un fun-zionario della classe superiore governa bene quando ha a cuore le esi-genze della popolazione locale, governando così nel suo interesse”45.L’altra innovazione è stata la sostituzione della classe rivoluzionaria diMarx e Lenin – il proletariato urbano – con i contadini come principa-le base sociale della rivoluzione socialista. Negli anni Trenta il Partitocomunista e l’Armata rossa cinese sono stati allontanati dai centridell’espansione capitalistica dagli eserciti del Guo Min Dang, armati edequipaggiati dall’Occidente, e si sono radicati tra i contadini delle areepovere e remote. Il risultato è stato, secondo la caratterizzazione diMark Selden, “un processo di socializzazione a due vie”, attraverso ilquale il partito-esercito ha fatto degli strati subalterni della società ruralecinese una potente forza rivoluzionaria, ed è stato a sua volta formatosulla base delle aspirazioni e dei valori di tali strati sociali46.

La combinazione di queste due caratteristiche con la spintamodernista del marxismo-leninismo ha costituito le fondamenta dellatradizione rivoluzionaria cinese e aiuta a capire aspetti chiave del per-corso di sviluppo della Cina prima e dopo le riforme. Prima di tutto,contribuisce a spiegare perché, nella Cina di Mao, in netto contrastocon l’Urss di Stalin, la modernizzazione sia stata perseguita non attraver-so l’eliminazione dei contadini, ma attraverso il miglioramento delle lorocondizioni economiche e di istruzione. Secondo, aiuta a spiegare per-ché, prima e dopo le riforme, la modernizzazione cinese si sia basatanon soltanto sulla riproduzione al proprio interno della rivoluzioneindustriale occidentale, ma anche sul rinnovamento delle caratteristichedella rivoluzione industriosa, indigena e fondata sulle campagne. Terzo,contribuisce a spiegare perché, sotto Mao, l’emergere di una borghesiaurbana di intellettuali e quadri dello Stato-partito sia stato combattutoattraverso la loro “rieducazione” nelle aree rurali. Infine, aiuta a spiega-re perché le riforme di Deng furono lanciate prima nell’agricoltura,negli anni Ottanta – il decennio che si è dimostrato uno dei periodi piùvivaci delle riforme cinesi – mentre la svolta politica di Jiang Zemin,negli anni Novanta, con uno sviluppo squilibrato a favore delle areeurbane, abbia creato forti tensioni in termini di welfare47, e perché ilrecente cambiamento di politiche sotto Hu Jintao si sia concentratosull’espansione di servizi sanitari, istruzione e dei benefici sociali nelle

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Page 104: Capitalismo e (dis)ordine mondiale

Nelle aree urbane, dalla fine degli anni Novanta, la “vecchia” clas-se operaia delle imprese statali ha reagito ai licenziamenti di massa conun’ondata di proteste che hanno fatto appello ai criteri di giustizia dellatradizione socialista e al contratto sociale della “ciotola di riso d’acciaio”tra la classe operaia e lo Stato che è prevalso nei primi quattro decennidella Repubblica popolare cinese. Inizialmente, una miscela di repres-sione e concessioni ha avuto qualche successo nel contenere quest’onda-ta di proteste. Più recentemente, tuttavia, una serie senza precedenti discioperi ha segnalato la diffusione delle agitazioni nella “nuova” classeoperaia composta prevalentemente da giovani migranti, che costituiscela spina dorsale delle industrie cinesi rivolte all’esportazione. Combinatecon la crescente agitazione tra i lavoratori urbani nel settore dei servizi,queste due ondate stanno cancellando lo stereotipo occidentale secondocui “non c’è alcun movimento dei lavoratori in Cina:” “ora si può anda-re in quasi qualsiasi città del paese” – nota Robin Munro – “e si trove-ranno diverse proteste collettive dei lavoratori in corso nello stessomomento”. È un movimento spontaneo e relativamente rudimentale;ma così era il movimento dei lavoratori negli Stati uniti durante la suaetà dell’oro, negli anni Trenta55.

Quest’esplosione dell’agitazione sociale nelle aree urbane e ruraliha spinto la direzione del Partito comunista cinese a cercare uno svilup-po più equilibrato e sostenibile tra le aree urbane e rurali, tra le diverseregioni e tra l’economia e la società, e a introdurre una nuova legislazio-ne del lavoro mirante ad allargare i diritti dei lavoratori56. L’attualegoverno di Hu Jintao e Wen Jiabao sta facendo grandi sforzi per affron-tare le questioni rurali, facendo ancora una volta dello sviluppo dellecampagne la priorità dell’agenda politica. Tra le altre cose, il governo haabolito le tasse agricole, ha iniziato a ridurre, o non richiedere più, ilpagamento per l’istruzione nelle aree rurali e ha sperimentato un pro-gramma di assicurazione sanitaria di base che potrebbe coprire l’interapopolazione rurale entro il 201057.

In risposta alla crescita delle agitazioni e del malcontento tra igruppi svantaggiati nel decennio passato, il Partito comunista cinese hachiesto ai propri quadri di tornare alla tradizione rivoluzionaria della“linea di massa”, di ascoltare le richieste e le lamentele delle persone edi aiutare a risolvere i loro problemi. Come risultato, funzionari delleamministrazioni di comuni, provincie e distretti si sono regolarmenteincontrati con i cittadini e hanno visitato più spesso le comunità localiper affrontare i problemi che minacciavano la stabilità sociale58. La Cinaha già tenuto elezioni di base in più di 660.000 villaggi, benché siano

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Gini – riflette in gran parte un miglioramento (anziché un deteriorarsi)della posizione dei gruppi a medio reddito. Ugualmente importante, lacrescita della disuguaglianza è stata accompagnata da una crescita dellamobilità inter-generazionale (lavoro dei genitori/lavoro dei figli) e intra-generazionale (prima occupazione/occupazione attuale). Gli individuicon lavori a basso reddito hanno perciò avuto maggiori possibilità chenel periodo pre-riforme di volgere a loro favore il divario di reddito spo-standosi verso un’occupazione meglio retribuita51.

In queste circostanze, la resistenza all’aumento della disuguaglian-za è stata limitata e ha potuto essere facilmente repressa. Col tempo, tut-tavia, la crescente disuguaglianza si è scontrata con la tradizione rivolu-zionaria, minando seriamente la stabilità sociale. Benché le tradizionidella “linea di massa” e del “processo di socializzazione a due vie”abbiano apparentemente svolto un ruolo nelle riforme stesse52, più iquadri e i funzionari di partito provinciali hanno riorientato le loroenergie imprenditoriali verso la sfera economica e si sono dedicatiall’accumulazione e all’espropriazione, più la tradizione della “linea dimassa” è divenuta una finzione, e il “processo di socializzazione a duevie” tra il partito-Stato e gli strati subalterni della società cinese è statosostituito da un processo analogo tra il partito-Stato e l’emergente bor-ghesia. Eppure, la tradizione rivoluzionaria ha dato agli strati subalternidella Cina una fiducia in se stessi e una combattività, con una certa legit-timità conferita dal persistente ossequio pubblico del partito-Stato versotale tradizione, con pochi paralleli altrove nel Sud del mondo53.

La più recente manifestazione di questa combattività e fiducia inse stessi è venuta dall’impennata delle lotte sociali sia nelle aree urbanesia in quelle rurali. I casi ufficialmente riportati di “disturbi dell’ordinepubblico” – un riferimento a proteste, rivolte ed altre forme di agitazio-ne sociale – sono aumentati da circa 10.000 nel 1993, a 50.000 nel 2002,58.000 nel 2003, 74.000 nel 2004 fino a 87.000 nel 2005. Nelle areerurali, fino al 2000, le principali lamentele che spingevano all’azione dimassa erano le tasse, le tariffe e vari altri “oneri”. Più recentemente, ilcambiamento di destinazione della terra dall’agricoltura allo sviluppoindustriale, edilizio e infrastrutturale, il degrado ambientale e la corru-zione dei funzionari locali del partito e del governo sono divenute lequestioni più incendiarie. Episodi come la rivolta di Dongyang del2005, contro l’inquinamento da parte di una fabbrica di pesticidi, le cuioperazioni sono state sospese, sono entrati a far parte del folklore cinesequale prova che una determinata azione di massa può obbligare le auto-rità a far marcia indietro e tenere conto dei bisogni popolari54.

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Essa rimane piena di contraddizioni, tensioni e pericoli imprevisti. Tutta-via, molti elementi della crescita del paese hanno suscitato l’interesse delmondo in via di sviluppo61.

Tra questi elementi, Ramo menziona un modello di sviluppo nelquale “le massicce contraddizioni dello sviluppo cinese” rendono “lasostenibilità e l’uguaglianza... considerazioni primarie”, e “una teoriadell’autodeterminazione... che mette l’accento sull’uso dei propri stru-menti per influenzare le grandi potenze egemoniche, che potrebberoessere tentate di pestarti i piedi”62. La nozione di Ramo di un Beijingconsensus è stata criticata per aver supposto l’esistenza di un consensodove non ne esiste alcuno, o per aver stabilito un contrasto con ilWashington consensus che alcuni osservatori considerano eccessivo63.Entrambe queste critiche ci sembrano inappropriate, perché Ramo stes-so sottolinea la varietà dei percorsi di sviluppo implicita nel Beijing con-sensus, in netto contrasto con la dottrina uguale per tutti del Washingtonconsensus. Tuttavia, Ramo non ci dice se l’ascesa cinese potrà effettiva-mente contribuire a un rafforzamento collettivo del Sud del mondo, enon soltanto di una o più delle nazioni che ne fanno parte. La questionerilevante entro questo contesto è in quali circostanze il Beijing consensuspotrebbe condurre alla formazione di una nuova e più efficace Bandung– vale a dire una nuova versione dell’alleanza del Terzo mondo deglianni Cinquanta e Sessanta, più adeguata della vecchia a contrastare lasubordinazione economica e politica degli Stati del Sud a quelli delNord in un’era di integrazione economica senza precedenti64.

La tentazione, per la Cina, di accontentarsi d’essere cooptata in unmondo dominato dagli Stati uniti o dal Nord, e per gli altri paesi del Suddi cercare o accettare il sostegno del Nord nelle reciproche rivalità, nondovrebbe essere sottostimata. Tuttavia, non dovremmo nemmeno soprav-valutare la capacità degli Stati uniti, anche in collusione con l’Europa, diriuscire ancora una volta a impedire l’avanzata del Sud, come hanno fattoper quasi vent’anni con la contro-rivoluzione neoliberista. Per primacosa, la sconfitta in Iraq ha confermato i limiti dei mezzi coercitivi perimporre la volontà del Nord contro la resistenza del Sud. Cosa piùimportante, in un mondo capitalistico, le basi finanziarie del predominiodegli Stati uniti e del Nord si fondano su un terreno sempre meno sicuro.Un punto di svolta cruciale a questo riguardo è stata la crisi finanziariaasiatica del 1997-8. Robert Wade e Frank Veneroso hanno sostenuto chequesta crisi abbia confermato la validità del detto che “nel corso di unadepressione le proprietà tornano ai loro legittimi proprietari”.

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spesso manipolate. Ci sono piccoli segni di cambiamento, con grandicittà, come Nanjing e Guangzhou, che stanno aprendo posizioni politi-che più importanti alla competizione pubblica. Recentemente, ZhouTianyong, vice-capo della ricerca alla Scuola centrale di partito, hasostenuto che entro il 2020 la Cina completerà le sue riforme politiche eistituzionali con la realizzazione di un piano per costruire, nell’arco didodici anni, “la partecipazione pubblica democratica a tutti i livelli digoverno”59.

Resta da vedere se questi cambiamenti potranno salvare la tradi-zione socialista, dare potere al popolo e orientare lo sviluppo in unadirezione più egualitaria e sostenibile. Ma sono cambiamenti che segna-lano perlomeno uno spostamento dall’enfasi passata sulla crescita fine ase stessa a un più forte accento sulla qualità della vita, il consumo e lasicurezza personale. Inoltre, l’ascesa cinese sta già ponendo una seria sfi-da al sempre più screditato Washington consensus. Rivolgiamo oral’attenzione alla natura e alle prospettive future di questa sfida60.

4. VERSO UNA NUOVA BANDUNG?

Joshua Cooper Ramo, membro del Council on Foreign Relationsdegli Stati uniti e del Foreign Policy Centre in Gran Bretagna, ha caratte-rizzato l’apparire della sfida cinese come la sostituzione del Washingtonconsensus con un Beijing consensus – l’emergenza, guidata dalla Cina, di“un percorso per altre nazioni nel mondo” non semplicemente verso losviluppo ma anche “per inserirsi nell’ordine internazionale in modo daconsentir loro di essere davvero indipendenti, di proteggere il propriomodo di vita e le proprie scelte politiche”.

Il Washington consensus... ha lasciato una scia di economie distrutte erisentimenti in tutto il globo. Il nuovo approccio allo sviluppo della Cinaè... abbastanza flessibile da essere a mala pena classificabile come una dot-trina. Non crede in soluzioni uniformi per ogni situazione. È definito... dauna vivace difesa dei confini e degli interessi nazionali, e da una ponderataaccumulazione di strumenti per la proiezione di potenza asimmetrica...Mentre gli Stati uniti stanno perseguendo politiche unilaterali per proteg-gere i propri interessi, la Cina sta mettendo assieme le risorse per eclissaregli Usa in molte aree chiave degli affari internazionali, costruendo un con-testo che renderà l’azione egemonica statunitense più difficile... La viacinese allo sviluppo e al potere è, naturalmente, irripetibile da altri paesi.

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dell’Asian Development Bank poco dopo che la Cina aveva annunciatoun pacchetto straordinario di prestiti alle Filippine per due miliardi didollari l’anno per tre anni, che facevano apparire ben miseri i 200 milio-ni offerti dalla Banca Mondiale e dall’Asian Development Bank, e supe-ravano il prestito di un miliardo di dollari in corso di negoziazione con ilGiappone, proteggendo le Filippine dalle critiche da parte di Washing-ton dopo che la presidente Arroyo aveva ritirato le truppe dall’Iraq.Questo è stato solo uno dei molti accordi simili nei quali la Cina ha bat-tuto le agenzie del Nord, offrendo ai paesi del Sud termini più generosiper l’accesso alle loro risorse naturali; prestiti più ingenti con meno vin-coli politici, e senza costosi compensi per i consulenti finanziari; e gran-di e complessi progetti infrastrutturali in aree remote, a un costo inferio-re fino alla metà rispetto ai concorrenti del Nord69.

A complemento e rinforzo di queste iniziative cinesi, i paesi pro-duttori di petrolio hanno reindirizzato i loro surplus verso il Sud. È sta-to di grande significato politico e simbolico l’uso da parte del Venezueladei profitti straordinari dovuti all’alto prezzo del petrolio per assumereil ruolo di nuovo “prestatore di ultima istanza” per i paesi dell’Americalatina, con ciò riducendo l’influenza di Washington, storicamente enor-me, sulle politiche economiche nella regione70. Di eguale importanza epotenzialmente più distruttivo per il predominio finanziario del Nord èstato l’interesse che i paesi dell’Asia occidentale hanno recentementemostrato nel reindirizzare almeno parte dei loro surplus dagli Stati unitie dall’Europa all’Asia meridionale e orientale. Le ragioni sono in partenell’impopolarità della guerra in Iraq e nelle reazioni interne agli Usa,come quella che ha obbligato la società portuale di Dubai a vendere tut-te le proprietà americane dopo che ha comprato la società britannicaP&O. Ma la ragione più importante è economica: la Cina e tutte le eco-nomie asiatiche in rapida crescita desiderano il petrolio dell’Asia occi-dentale, e i capitali e la liquidità generati da tale petrolio sono in cerca diinvestimenti più profittevoli dei buoni del tesoro statunitensi71.

Quando nel maggio del 2006 il primo ministro indiano, Man-mohan Singh, all’incontro annuale dell’Asian Development Bank, haraccomandato alle nazioni asiatiche di reindirizzare i propri surplus ver-so progetti di sviluppo asiatici, un osservatore statunitense trovò ildiscorso “sbalorditivo” – “il presagio della fine del dollaro e dell’ege-monia americana”72. In realtà, che i paesi dell’Asia e del Sud continuinoa usare il dollaro non è la questione più importante. Proprio come lasterlina continuò a essere usata come valuta internazionale tre o quattrodecenni dopo la fine dell’egemonia britannica, così potrebbe capitare

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La combinazione di massicce svalutazioni, liberalizzazioni finanziarieforzate dall’Fmi, e riprese economiche favorite dai suoi interventipotrebbero aver prodotto il trasferimento più grande degli ultimi cin-quant’anni, a livello mondiale in tempo di pace, di beni economici daproprietari nazionali a stranieri, facendo impallidire i trasferimenti avve-nuti nell’America latina negli anni Ottanta, o in Messico dopo il 199465.

Focalizzandosi sugli effetti immediati della crisi, questa diagnosimanca, nondimeno, di notarne gli effetti a lungo termine sulle relazioniNord-Sud. Come mostra la figura 2, la crisi del 1997-8 è stata seguitadalla grande divaricazione tra il deficit del Nord e il surplus del resto delmondo nei conti correnti delle rispettive bilance dei pagamenti. Granparte di questo surplus si dirige ancora verso il porto franco finanziariodegli Usa, sia per finanziarne il crescente deficit, sia per essere reinvesti-to in giro per il mondo, compreso il Sud del mondo, a beneficio degliStati uniti. Ma il fatto fondamentale che sta dietro la divaricazione è cheil Nord, specialmente gli Stati uniti, è in grado di produrre sempremeno beni e servizi a prezzi più bassi del resto del mondo. Ancora piùimportante, una quota significativa e crescente di tale surplus non passapiù attraverso gli Stati uniti; è utilizzato per accumulare riserve valutarieo si dirige direttamente verso altre destinazioni nel Sud, indebolendocosì il controllo sui paesi del Sud dell’Fmi e delle altre istituzioni finan-ziarie controllate dal Nord66. Pieni di liquidità e desiderosi di riprendereil controllo delle loro politiche economiche, i paesi del Sud “hanno“praticato le loro scelte, rimborsato i debiti con l’Fmi ed evitato diseguirne i consigli”67. Gli incontri annuali dell’Fmi sono così divenuti“eventi solitari. Gli editoriali nella stampa finanziaria hanno cominciatoa chiedersi se il Fondo abbia ancora uno scopo”. E mentre i banchiericentrali pro-mercato iniziavano, in effetti, a nazionalizzare le banche, “ladifesa del libero mercato da parte dell’Occidente è stata irrisa da partedegli Stati che si erano opposti all’entusiasmo sulla ‘fine del governo’ deiglobalizzatori. La globalizzazione, ben lungi dall’aver seppellito lo Stato,ora dipende dagli Stati per il suo salvataggio”68.

Nonostante i suoi massicci acquisti di buoni del tesoro Usa, laCina ha giocato un ruolo guida sia nel riorientare il surplus del Sud ver-so destinazioni del Sud, sia nel fornire a paesi del Sud vicini e distantialternative appetibili al commercio, l’investimento e l’assistenza dei pae-si e delle istituzioni finanziarie del Nord. “Sta entrando in campo ungiocatore molto grosso, che ha il potenziale per cambiare il panoramadegli aiuti allo sviluppo”, notava nel 2006 il direttore per le Filippine

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ti di forza economici e politici a favore del Sud del mondo, i Cibs sonostati criticati per aver stabilito relazioni con altri paesi del Sud che sonosimili, per motivazioni ed esiti, alle tradizionali relazioni Nord-Sud. LaCina in particolare è stata accusata di aver stabilito con i propri partnercommerciali rapporti che riproducono la loro specializzazione nella pro-duzione primaria, a spese della manifattura e di altre attività ad altovalore aggiunto76.

Nella misura in cui evidenziano come fondamento della coopera-zione del Sud, l’interesse nazionale anziché l’idealistica solidarietà delTerzo mondo, queste critiche sono largamente corrette, anche se manca-no di cogliere i punti di forza della nuova Bandung rispetto alla vecchia.Esse non notano, prima di tutto, la sovversione delle fondamenta strut-turali della gerarchia globale di ricchezza e potere implicata dall’emerge-re dei Cibs, e specialmente della Cina, come concorrenti del Nord nellaproduzione, commercio e finanza mondiali. Non soltanto questi paesi,rispetto a quelli del Nord, forniscono migliori condizioni commerciali,di aiuto e investimento agli altri paesi del Sud – incluse sostanziali can-cellazioni del debito77; ma nel far ciò essi intensificano le pressioni com-petitive perché anche i paesi del Nord offrano termini migliori di quan-to non avrebbero altrimenti fatto. In stretta connessione, critiche cheenfatizzano la specializzazione nella produzione primaria dei partnercommerciali dell’India e della Cina non considerano il rovesciamentodelle ragioni di scambio tra manifattura e produzione primaria causatodalla convergenza industriale tra Nord e Sud. Proprio come l’“indu-strializzazione” ha smesso di essere sinonimo di “sviluppo”, così la spe-cializzazione nella produzione primaria in quanto tale potrebbe nonessere più sinonimo di “sottosviluppo”78.

Cosa più importante, nella misura in cui le critiche in questioneevidenziano le pratiche di sfruttamento sociale che i Cibs possono met-tere in atto a casa propria, o incoraggiare altrove attraverso i loro com-merci e investimenti esteri, esse non tengono conto del fatto che l’esclu-sione da commercio e produzione, piuttosto che lo sfruttamento di persé, è spesso la principale causa del “sottosviluppo” del Sud. Tali critichenon tengono conto neanche del fatto che le relazioni di potere giocanoun ruolo cruciale nel definire i criteri di moralità nell’economia politicaglobale. Oggi questi criteri sono per la maggior parte definiti da governie istituzioni dei paesi che occupano i gradini più alti nella gerarchia glo-bale della ricchezza. L’emergere dei Cibs potrebbe creare una situazionein cui i governi e le istituzioni di quei paesi che si trovano nelle posizioniintermedie e inferiori potrebbero almeno avere una voce. A questo pro-

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anche al dollaro. Ciò che realmente conta per il futuro delle relazioniNord-Sud è se i paesi del Sud continueranno a mettere i surplus delleproprie bilance dei pagamenti a disposizione della agenzie controllatedagli Stati uniti, perché siano trasformati in strumenti del dominio delNord, o se invece li useranno per l’emancipazione del Sud. Da questopunto di vista, non c’è nulla di sbalorditivo nella dichiarazione di Singh,che conferma semplicemente una pratica già in atto. Ciò che è veramen-te sbalorditivo è la mancanza di consapevolezza – nel Sud non menoche nel Nord – di quanto profondamente abbia fallito la contro-rivolu-zione neoliberista, creando condizioni altamente favorevoli per l’emer-gere di una nuova e più potente Bandung.

Le fondamenta della vecchia Bandung erano strettamente ideolo-gico-politiche e, come tali, furono facilmente distrutte dalla contro-rivo-luzione neoliberista. Le fondamenta della Bandung che potrebbe oraemergere, accanto a una componente ideologico-politica, sono innanzi-tutto economiche e, come tali, molto più solide. Come disse in undiscorso del 2003 Yashwant Sinha, ex-ministro degli esteri indiano: “Inpassato, il coinvolgimento dell’India con gran parte dell’Asia... si basavasu una concezione idealistica di fratellanza asiatica, basata su legami cul-turali e sulle condivise esperienze del colonialismo”. La dinamica asiati-ca di oggi, di contro, “è determinata... tanto dal commercio, gli investi-menti e la produzione quanto dalla storia e dalla cultura”73. L’afferma-zione di Sinha si applica non solo all’Asia, ma al Sud del mondo in gene-rale. Sotto la vecchia Bandung, la solidarietà politicamente e ideologica-mente motivata del Terzo mondo non aveva fondamento economico.Essa doveva andare controcorrente rispetto a processi del mercato glo-bale sui quali i paesi del Terzo mondo avevano poco o nessun controllo.Oggi, di contro, la rapida espansione di commercio, investimenti e coo-perazione Sud-Sud in una crescente varietà di campi – inclusa l’integra-zione economica regionale, la sicurezza nazionale, la salute e l’ambiente– si fonda anzitutto sulla crescente competitività dei paesi del Sud nellaproduzione mondiale. Benché concezioni idealistiche della solidarietàdel Terzo mondo giochino ancora un ruolo, raramente esse sono il solofattore, o il principale, della cooperazione Sud-Sud74.

Quattro paesi in particolare – Cina, India, Brasile e Sudafrica(Cibs) – stanno facendo da battistrada in questa direzione. Oltre a rap-presentare il 40% della popolazione mondiale, questi paesi stanno con-giuntamente emergendo come importanti fonti di capitale, tecnologia edomanda per i prodotti delle regioni circostanti e del Sud del mondonel suo insieme75. Nonostante il loro ruolo guida nello spostare i rappor-

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mondiali e l’attitudine generale verso la Cina s’invertirà, da positiva anegativa”83. Ma, come dovrebbe esser chiaro da questo capitolo, ci sonoanche buone ragioni per prevedere che la crisi economica del 2008 pos-sa alla fine condurre alla ripresa della crescita cinese su fondamenta piùsostenibili nel lungo termine, e a migliori prospettive per una nuovaBandung.

NOTE

* In pubblicazione in J. SHEFNER E P. FERNÀNDEZ-KELLY (a cura di), Globalization andBeyond: New Examinations of Global Power and its Alternatives, Penn State University Press,2010. Vorremmo ringraziare Astra Bonini, Kevan Harris e Daniel Pasciuti per l’aiuto nel pre-sentare le statistiche e Kevan Harris, Jon Shefner, Beverly Silver e gli studenti nel seminarioResearch in International Develpment alla John Hopkins University per i loro commenti sulleprime bozze del capitolo (versione del 16 marzo 2009). Traduzione dall’inglese di GuidoParietti.

1 Prendiamo a prestito l’espressione “strana morte” dalla classica trattazione di Geor-ge Dangerfield, pubblicata per la prima volta nel 1935, del drammatico cambiamento politi-co che investì l’Inghilterra liberale in un momento di apparentemente incontrastata suprema-zia economica e politica.

2 BELLO (2007).3 Sull’ascesa e la caduta di tali credenze nel tardo diciannovesimo e nel primo ventesi-

mo secolo, si veda la classica opera di POLANYI (2000). Per una comparazione della svoltaneoliberista della fine del ventesimo secolo con la sua antecedente del tardo diciannovesimo,si veda SILVER e ARRIGHI (2003).

4 MCMICHAEL (2000) e ARRIGHI (2002). Come HANS SINGER (1997) ha indicato, ladescrizione delle teorie dello sviluppo nell’era post-bellica come stataliste e auto-centrate ècorretta, ma nessuna delle due caratterizzazioni aveva le implicazioni negative acquisite poinegli anni Ottanta.

5 Si vedano, tra gli altri, TOYE (1993); GILPIN (2001: 78-79, 218-220); GLYN (2007: 53-54).6 Citato in HARVEY (2000: 7).7 Albert Berry e John Serieux come citati in BERRY (2005: 17). Su come questioni di

misurazione influenzino la trattazione delle tendenze nella disuguaglianza del reddito a livel-lo mondiale, si veda WADE (2004), KORZENIEWICZ e MORAN (2006).

8 BERRY (2005: 18).9 Così, mentre la porzione del reddito mondiale dei gruppi a medio e medio-alto red-

dito (decili 7-9) è scesa dal 42,1% al 36,7%, quella dei gruppi a basso reddito (decili 1-6) èaumentata dall’11,3% al 14%, mentre la parte dei gruppi ad alto reddito (decile 10) èaumentata dal 46,6% al 49,9%. Ciò calcolato dai dati forniti in BERRY (2005: 18).

10 I dati della Banca mondiale sono soggetti a frequenti e inesplicabili revisioni che lirendono particolarmente inaffidabili nel misurare le variazioni a breve termine tra paesi spe-cifici. Questa inaffidabilità, comunque, ha scarso effetto sulle tendenze a lungo termine tra le

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posito è cruciale ciò che la Cina e l’India – che ospitano da sole più diun terzo della popolazione mondiale – sceglieranno di fare. Se dovesse-ro scegliere di cooperare tra loro – come sull’“International Herald Tri-bune” ha commentato Howard French riflettendo sui grandi investi-menti della Cina e dell’India nelle reciproche economie – “i giorni incui il confortevole club dei ricchi – gli Stati uniti, le più forti economiedell’Europa occidentale e il Giappone – decide la strada del resto delmondo, dando istruzioni e assegnando voti, [arriverebbero] presto altramonto”79.

Il crollo di Wall Street del 2008 ha accelerato il collasso delWashington consensus. Mentre il capitalismo neoliberista di stile ameri-cano – con un intervento pubblico limitato, regolamentazioni minime el’allocazione del credito secondo regole di mercato – perdeva credibi-lità, molti commentatori si chiedevano se il capitalismo guidato dalloStato cinese potesse essere un’alternativa. Come notato da Huang,

Nel contemplare le alternative al decaduto modello americano, alcunihanno guardato alla Cina, dove i mercati sono strettamente regolati e leistituzioni finanziarie controllate dallo Stato. Di fronte alle conseguenzedel crollo di Wall Street, si preoccupava Francis Fukuyama su New-sweek, il capitalismo guidato dallo stato della Cina “sembra sempre piùattraente”. Il giornalista del Washington Post David Ignatius ha salutatol’avvento di un “nuovo interventismo” ispirato al Confucianesimo; citan-do l’ambiguo tributo di Richard Nixon a John Maynard Keynes, Igna-tius ha dichiarato, “adesso siamo tutti cinesi”80.

Allo stesso tempo, il fatto che l’economia cinese non sia stataimmune dalla crisi economica globale che ha avuto il suo epicentro negliStati uniti – specialmente per il declino delle esportazioni e il rallenta-mento della crescita economica – ha spinto a riconsiderare il modello dicrescita basato sull’esportazione adottato dalla Cina negli anni Novan-ta82. I governanti cinesi sono divenuti consapevoli dei vincoli impostialla crescita dai bassi livelli dei consumi interni. L’attuale crisi economi-ca potrebbe rappresentare ciò che era necessario per indurli a muovereverso una via di sviluppo più equilibrata, sostenuta dal consumo dome-stico. Un tale spostamento implicherebbe inevitabilmente una recessio-ne, che tuttavia sembra un passaggio necessario nella direzione di unosviluppo sostenibile a lungo termine. Come Naughton prevedeva nel2006, “centinaia di imprese falliranno, le tensioni commerciali aumente-ranno ulteriormente con i tentativi di vendere sottocosto sui mercati

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tistics Press and China Agricultural Yearbook 2005 (Zhongguo nongye tongji nianjian 2005)Beijing: China Agricultural Press.

28 WOO (1999: 129-137); BOUCKAERT (2005); HART-LANDSBERG e BURKETT (2004: 35);LIN e YAO (n. d.).

29 CAI, PARK e ZHAO (2004).30 WANG (2005: 177-8); BERNSTEIN e LU (2003).31 LIN e YAO (n. d.); TSAI (2007).32 NAUGHTON (2007: 287).33 TVE Yearbook, 2004, come citato in NAUGHTON (2007: 291).34 Per i dettagli sui cambiamenti dell’ambiente esterno e del processo di ristrutturazio-

ne delle imprese di municipalità e di villaggio dopo la metà degli anni Novanta, cfr. NAUGH-TON (2007: 285-293).

35 NAUGHTON (2007: 286).36 Molti studi hanno mostrato che il Partito comunista e lo Stato cinese sono stati in

grado di controllare il numero crescente di imprenditori privati incorporandoli nelle istitu-zioni formali. Ciò ha portato molti a ritenere che i capitalisti cinesi non siano davvero auto-nomi dallo Stato. Cfr., tra gli altri, TSAI (2007), DICKSON (2003), PEARSON (2002), SOLINGER

(1992), WANK (1999).37 HART (2002: 199-201).38 SUGIHARA (2003: 79-82, 87-90, 94, 117 n. 2).39 SUGIHARA (2003: 87).40 FISHMAN (2005: 226). Per altri esempi di sostituzione di macchinari costosi con lavo-

ro a basso costo cfr- G. STALK e D. YOUNG, Globalization Cost Advantage, in “WashingtonTimes”, 24 Agosto 2004 e A. TAYLOR, A Tale of Two Factories, in “Fortune Magazine”, 14Settembre 2005. Come evidenziato da un’inchiesta del “Wall Street Journal”, le statisticheche mostrano come gli operai statunitensi nelle fabbriche ad alta intensità di capitale sianomolto più produttivi delle loro controparti cinesi ignorano il fatto che la più alta produttivitàè dovuta alla sostituzione di molti operai con sistemi di automazione flessibile e trasportomateriali che riducono il costo del lavoro ma innalzano il costo del capitale e dei sistemi disupporto. Economizzando sul capitale e reintroducendo un ruolo maggiore del lavoro, lefabbriche cinesi invertono questo processo. La progettazione delle parti da costruire, traspor-tare e assemblare manualmente, per esempio, riduce il capitale richiesto fino a un terzo. Cfr.T. HOUT e J. LEBRETTON, The Real Contest Between America and China, in “The Wall StreetJournal”, 16 Settembre 2003.

41 FISHMAN (2005).42 SCHWEICKART (2005) citando dati forniti in MEISNER (1999: 415-19). Sui progetti di

irrigazione, l’espansione di strade e ferrovie, e la coltivazione di varietà ibride di riso nell’eradi Mao come basi per la crescita nell’era delle riforme, si veda anche BRAMALL (2000: 95-6,137-8, 153, 248).

43 POPOV (2007: 26-30).44 MEGHNAD DESAI nel dibattito con WILL HUTTON in Does the future really belogn to

China?, in “Prospect Magazine”, numero 130, Gennaio 2007.45 FAIRBANK (1992: 319).46 SELDEN (1995: 37-8).47 HUANG (2008a).48 LIN e YAO (n. d.); PUTTERMAN (1997).49 Cfr., tra gli altri, WEI (2000); RISKIN, ZHAO e LI (2001); WALDER (2002); WANG

(2003); WU e PERLOFF (2004); Li (2005), CIA, The World Fact Book, https://www.cia.gov/li-brary/publications/the-world- factbook/fields/2172.html

50 B. DAVIS, S. LYONS e A. BATSON, Globalization’s Gains Come with a Price, in “The

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regioni mostrate nella tabella 1.11 FREEMAN (2005).12 SACHS e WOO (1996: 3).13 RAWSKI (1999: 141).14 Si veda, per esempio, BRENNER (1981: 1, 4-6; 1977: 35-6).15 Per un esame critico di tali posizioni, si veda WADE (2004). L’idea che la Cina abbia

aderito alle prescrizioni neoliberiste del Washington consensus è stata tanto comune tra gliintellettuali di sinistra quanto tra gli stessi promotori del consensus. Deng Xiaoping, peresempio, compare preminentemente, accanto a Reagan, Pinochet e Thatcher, sulla copertinadi Breve storia del neoliberismo di Harvey, e un intero capitolo del libro è dedicato al “Neoli-berismo ‘con caratteristiche cinesi’”. Più esplicitamente, PETER KWONG (2006: 1-2) ha acco-stato lo slogan di Deng “lasciamo che alcuni divengano ricchi prima, cosicché altri possanodivenirlo dopo” all’ idea di Reagan che i benefici economici scendano dai ricchi ai poveri(trickle-down economics). Se i due slogan suonano allo stesso modo, ci viene detto, è perchésia Reagan sia Deng “erano grandi sostenitori del guru neoliberista Milton Friedman”. Lanostra critica delle tesi dei promotori del Washington consensus si applica anche alle posizio-ni di Harvey e Kwong.

16 GALBRAITH (2004).17 STIGLITZ (2006: 186-187). Per conclusioni simili, raggiunte sulla base di evidenze

statistiche, si veda POPOV (2007).18 AU (2005: 10-13).19 GUO (2005: 154-5); AU (2005); SHENKAR (2005: 5); P. AIYAR, Excellence in Educa-

tion: The Chinese Way, in “The Hindu”, 17 febbraio 2006; H. W. FRENCH, China LuringScholars to Make Universities Great, in “The New York Times”, 24 ottobre 2005; C.BUCKLEY, Let a Thousand Ideas Flower: China Is a New Hotbed of Research, in “The NewYork Times”, 13 settembre 2004.

20 Sui vari aspetti di questa relazione del governo cinese con il capitale estero, si vedaARRIGHI (2008: cap. 12).

21 POPOV (2007: 35), citando dati forniti da Dani Rodrik. A ciò dovremmo aggiungereche i recenti cambiamenti nelle leggi fiscali cinesi per le imprese mostrano che Pechino èassai meno preoccupata che in passato d’importare conoscenze tecnologiche da società stra-niere. Per quasi trent’anni, gli investimenti diretti stranieri sono stati incoraggiati da una tas-sazione del 15%, a fronte di un massimo del 33% sulle imprese locali. Con alcune eccezioniper le imprese ad alta tecnologia e quelle “a basso profitto”, entro cinque anni tutte le impre-se pagheranno lo stesso tasso del 25%. “Se gli effetti pratici della legge saranno trascurabili,il valore simbolico è immenso. Segnala la fine del periodo in cui il management e le tecnolo-gie straniere erano preferite alle competenze interne cinesi” (A. WOLFE, China’s Priorities onDisplay at the National People’s Congress, in “The Power and Interest News Report (PINR)”,21 Marzo 2007).

22 Cfr., tra gli altri, CHAN (2000); TANG (2003-4); LEE e SELDEN (2007).23 SCHWEICKART (2005).24 D. BARBOZA, Labor Shortage in China May Lead to Trade Shift, in “The New York

Times”, 3 Aprile 2006; T. FULLER, Worker Shortage in China: Are Higher Prices Ahead?, in“Herald Tribune”, 20 Aprile 2005; S. MONTLAKE, China’s Factories Hit an Unlikely Shortage:Labor, in “Christian Science Monitor”, 1 Maggio 2006; China’s People Problem, in “The Eco-nomist”, 14 Aprile 2005.

25 CAI, PARK e ZHAO (2004); UNGER (2002).26 OI (1999); LIN (1995); WHITING (2001); WANG (2005: 179); TSAI (2004); LIN e YAO

(non disponibile)27 China Statistical Yearbook 2005 (Zhongguo tongji nianjian 2005) Beijing: China Sta-

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IMF Misses Epoch-Making Changes in the Global Economy, in “International Herald Tribu-ne”, 19 Ottobre 2007). Un portafoglio prestiti sempre più piccolo riduce, oltre all’influenzadell’Fmi sui governi del Sud, anche le sue entrate per interessi e le sue riserve valutarie. “Conun’ironia che ha fatto sghignazzare molti ministri delle finanze [del Sud], l’agenzia che ha perlungo tempo predicato lo stringere la cinghia, deve adesso praticarlo essa stessa” (M. MOF-FETT e B. DAVIS, Booming Economy Leaves the IMF Groping for Mission, in “The Wall StreetJournal”, 21 Aprile 2006).

68 S. MALCOMSON, The Higher Globalization, in “The New York Times”, 12 Dicembre2008.

69 J. PERLEZ, China Competes With West in Aid to Its Neighbors, in “The New YorkTimes”, 18 Settembre 2006; V. MALLET, Hunt for Resources in the Developing World, in“Financial Times”, 12 Dicembre 2006; R. CAREW, J. LEOW e J. T. AREDDY, China Makes Spla-sh, Again, in “The Wall Street Journal”, 26 Ottobre 2007.

70 M. WEISBROT, The Failure of Hugo-bashing, in “The Los Angeles Times”, 9 Marzo2006. Cfr. anche N. CHOMSKY, Latin America and Asia are Breaking Free of Washington’sGrip, in “Japan Focus”, 15 Marzo 2006.

71 H. TIMMONS, Asia Finding Rich Partner in Mideast, in “The New York Times”, 1Dicembre 2006.

72 A. GIRIDHARADAS, Singh Urges Asian Self-reliance, in “International Herald Tribu-ne”, 5 Maggio 2006.

73 Citato in A. GIRIDHARADAS, India Starts Flexing Economic Muscle, in “InternationalHerald Tribune”, 12 Maggio 2005.

74 T. DEEN, U.N. Backs South-South Cooperation, in “Inter Press Service NewsAgency”, 5 Giugno 2007.

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76 Tra le molte critiche alla Cina, cfr. il capitolo di Bello in J. SHEFNER e P. FERNÀNDEZ-KELLY (ed. by), Globalization and Beyond: New Examinations of Global Power and its Alter-natives, Penn State University Press, 2010, e TULL (2006). Per una critica del Sudafrica comepotenza “sub-imperiale” nei confronti del resto dell’Africa, cfr. BOND (2007).

77 Sulle cancellazioni del debito (perlopiù africano) da parte di Cina, Brasile e India,cfr. T. DEEN, South-South Trade Boom Reshapes Global Order, in “Inter Press Service NewsAgency”, 21 Dicembre 2006.

78 Cfr. ARRIGHI, SILVER e BREWER (2003).79 H. W. FRENCH, The Cross-pollination of India and China, in “International Herald

Tribune”, 10 Novembre 2005.80 HUANG (2008b).81 Secondo “Xinhua News” (18 Dicembre 2008), le esportazioni della Cina sono dimi-

nuite nel novembre 2008 per la prima volta in sette anni. Nella provincia di Guangdong,dove ebbe inizio la crescita manifatturiera orientata all’esportazione, più di 7.000 compagniehanno chiuso o si sono spostate altrove nei primi nove mesi del 2008.

82 B. NAUGHTON, Arguing Against the Motion: Without significantly accelerated reformsand major new policy actions, China’s rapid growth will unravel before its economy overtakesthe U.S.”, in “Reframing China Policy: The Carnegie Debates Series 2: China’s Economy”, 1Dicembre 2006. U.S. Capitol, Washington DC.

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Wall Street Journal”, 24 Maggio 2007.51 Cfr., specialmente, WU e PERLOFF (2004: grafici 2 e 3) e Research Group for Social

Structure in Contemporary China (2005: capitolo 4).52 Nel trattare, per esempio, con i policy makers cinesi, come rappresentante della Ban-

ca mondiale, Ramgopal Agarwala “notò che leader importanti dimostravano un maggioreinteresse nell’interazione con i diversi livelli della società rispetto a società organizzate piùdemocraticamente, come quella dell’India.” (2002: 90). Cfr. anche RAWSKI (1999: 142).

53 SCHWEICKART (2005); AMIN (2005: 268, 274-5); WANG (2006: 44-5).54 H. W. FRENCH, Protesters in China Get Angrier and Bolder, in “International Herald

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55 B. SMITH, J. BRECHER e T. COSTELLO, “China’s Emerging Labor Movement.”, in ZNethttp://www.zmag.org, 9 Ottobre 2006. Sulle precedenti ondate di agitazione, vedi Lee e Sel-den (2007). Sul contrasto tra le due ondate, cfr. SILVER (2005: 445-7; 2003: 64-66).

56 E. CODY, China Confronts Contradictions Between Marxism and Markets, in “TheWashington Post”, 5 Dicembre 2005; J. YARDLEY, China Unveils Plan to Aid Farmers, butAvoids Land Issue, in “The New York Times”, 23 Febbraio 2005; J. KAHN, A Sharp DebateErupts in China Over Ideologies, in “The New York Times”, 12 Marzo 2006; MU MUYING,Dissenting Voices Within Communist Party Before 17th National Congress, in “Cheng MingMagazine”, 16 Agosto 2007.

57 HUANG (2008a: 293-4).58 Xinhua News, “China seeks smooth communication with citizens” Accesso online:

http://news.xinhuanet.com/english/2008- 10/14/content_10195062.htm 59 M. MOORE, China will be a democracy by 2020, says senior party figure, in “The Daily

Telegraph”, 15 Ottobre 2008. Accesso online: http://www.telegraph.co.uk/news/worl-dnews/asia/china/3195370/China-will-be-a-democracy-by-2020-says-senior-party-figure.html

60 La sempre più profonda crisi dell’egemonia statunitense a fronte della disastrosaavventura irachena ha giocato un ruolo cruciale sia nel facilitare l’ascesa cinese, sia nel minarela credibilità del Washington consensus. Questo doppio ruolo della crisi dell’egemonia statu-nitense va oltre l’ambito del presente articolo; si veda ARRIGHI (2008: parte II e III).

61 RAMO (2004: 3-5).62 RAMO (2004: 11-12).63 KENNEDY (2008).64 Cfr. DIRLIK (n.d.: 5-6).65 WADE e VENEROSO (1998).66 Per la maggior parte di questi paesi, “le riserve sono semplicemente assicurazioni

contro il disastro finanziario... Appena la polvere si posò sulle rovine di molte economie ex-‘emergenti’, un nuovo credo prese piede tra i policy makers nel mondo in via di sviluppo:accumula più valuta estera possibile” (E. PORTER, Are Poor Nations Wasting Their Money onDollars?, in “The New York Times”, 30 Aprile 2006; F. KEMPE, Why Economists WorryAbout Who Holds Foreign Currency Reserves, in “The Wall Street Journal”, 9 Maggio 2006).

67 Come risultato, il portafoglio prestiti del Fondo è sceso da 150 miliardi di dollari nel2003 a 17 miliardi nel 2007, il suo livello più basso dagli anni Ottanta (cfr. M. WEISBROT,

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finito di stampareper conto della manifestolibri - roma

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