Autoconfutazione Della Confutazione Di Severino - PDF

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1 Roberto Fiaschi ELENCHOS: AUTOCONFUTAZIONE DELLA <<CONFUTAZIONE DI SEVERINO>>. Risposte a Paolo De Bernardi. (Prima parte). - 1 - Al link http://www.istitutocalvinocittadellapieve.it/liceo_file/Docenti_home/De_Bernardi_Paolo/studi%20filosofi ci/dialettica%20dello%20elenchos.Confutazione%20di%20Severino.pdf. , è possibile leggere un testo del Prof. Paolo De Bernardi, dal titolo Dialettica dello Elenchos. Confutazione di Severino”, pubblicato in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. Studi filosofici”, vol. XXXII, n.s. XVIII, 1994/1995. Paolo De Bernardi (= d’ora in poi PDB), rende subito esplicito il proprio intento, affermando: <<Questa indagine ha per scopo di mostrare l’effettiva conseguenza cui va incontro la pretesa di un accertamento immediato della verità ( l’originario ), proprio di ([Aristotele] e degli epigoni [= Emanuele Severino, n.d.r.]); e cioè si mostra che tali conseguenze sono un’antinomica>>. Inoltre: <<Con questa indagine viene discusso il valore metodico dello elenchos e quindi il valore di principium firmissimum del principio di non contraddizione in quanto risultato di tale procedimento. Non riconoscere il principio di non contraddizione come principium firmissimum omnium significa invalidare le sue premesse ontologiche, ossia negare la sua validità per l’intero del reale>>. Questo l’obiettivo principe di PDB. Come Aristotele, anche Descartes con la sua meditatio _ prosegue _ , ha avuto <<come obiettivo l’innegabile>>, e costituiscono entrambi <<i due più notevoli tentativi di sottrarre la coscienza alla sua propria dialettica, allorché questa progetta di sollevarsi alla verità>>. Prosegue PDB: <<Del percorso cartesiano non dovrebbe sfuggire questo: alla verità inconcussa Descartes perviene già al 3° capoverso della II meditatio (ed. Adam- Tannery), quando cioè risulta impossibile negare: “io sono”. [ … ] A partire dal dal 4° capoverso si entra nella metafisica, e cioè nelle Meditationes metaphisicae. Al 3° capoverso Descartes trova l’innegabile nell’indeterminabile, ma la coscienza avverte il bisogno di determinazione (= certezza), che perciò si chiede (segnando il passaggio dalla meditatio alla metaphisica): “che cosa sono?” […] Qui si insedia l’anfibolia: la metafisica tenta di spacciare per innegabile il suo prodotto (“io sono questo” = res cogitans) dopo aver tentato di appropriarsi dell’innegabile (“io sono”) scoperto dalla meditatio, facendo apparire legittima ed imprescindibile la domanda: “che cosa, dunque, sono?”. Come se quella cogitatio (“io sono res cogitans”) fosse

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Roberto Fiaschi

ELENCHOS: AUTOCONFUTAZIONE

DELLA <<CONFUTAZIONE DI SEVERINO>>.

Risposte a Paolo De Bernardi.

(Prima parte).

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Al link http://www.istitutocalvinocittadellapieve.it/liceo_file/Docenti_home/De_Bernardi_Paolo/studi%20filosofi

ci/dialettica%20dello%20elenchos.Confutazione%20di%20Severino.pdf. , è possibile leggere un testo del Prof. Paolo De Bernardi, dal titolo “Dialettica dello Elenchos. Confutazione di Severino”, pubblicato in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia. Studi filosofici”, vol. XXXII, n.s. XVIII, 1994/1995.

Paolo De Bernardi (= d’ora in poi PDB), rende subito esplicito il proprio intento, affermando: <<Questa indagine ha per scopo di mostrare l’effettiva conseguenza cui va incontro la pretesa di un accertamento immediato della verità ( l’originario ), proprio di ([Aristotele] e degli epigoni [= Emanuele Severino, n.d.r.]); e cioè si mostra che tali conseguenze sono un’antinomica>>.

Inoltre: <<Con questa indagine viene discusso il valore metodico dello elenchos e quindi il valore di principium firmissimum del principio di non contraddizione in quanto risultato di tale procedimento. Non riconoscere il principio di non contraddizione come principium firmissimum omnium significa invalidare le sue premesse ontologiche, ossia negare la sua validità per l’intero del reale>>.

Questo l’obiettivo principe di PDB.

Come Aristotele, anche Descartes con la sua meditatio _ prosegue _ , ha avuto <<come obiettivo l’innegabile>>, e costituiscono entrambi <<i due più notevoli tentativi di sottrarre la coscienza alla sua propria dialettica, allorché questa progetta di sollevarsi alla verità>>.

Prosegue PDB: <<Del percorso cartesiano non dovrebbe sfuggire questo: alla verità inconcussa Descartes perviene già al 3° capoverso della II meditatio (ed. Adam-Tannery), quando cioè risulta impossibile negare: “io sono”. [ … ] A partire dal dal 4° capoverso si entra nella metafisica, e cioè nelle Meditationes metaphisicae. Al 3° capoverso Descartes trova l’innegabile nell’indeterminabile, ma la coscienza avverte il bisogno di determinazione (= certezza), che perciò si chiede (segnando il passaggio dalla meditatio alla metaphisica): “che cosa sono?” […] Qui si insedia l’anfibolia: la metafisica tenta di spacciare per innegabile il suo prodotto (“io sono questo” = res cogitans) dopo aver tentato di appropriarsi dell’innegabile (“io sono”) scoperto dalla meditatio, facendo apparire legittima ed imprescindibile la domanda: “che cosa, dunque, sono?”. Come se quella cogitatio (“io sono res cogitans”) fosse

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meno revocabile in dubbio delle altre cogitationes (“io sono un corpo”, “c’è un mondo” ecc.), precedentemente espresse ed epochizzate. Eppure, tra quella specie di punto inesteso che è l’ “io sono”, risultato della meditatio dubitativa, e quella quasi tangibile concretezza, che è l’ “io sono questo (res cogitans)”, figlia della metafisica, c’è una profonda differenza, i cui estremi sono per la coscienza anche gli estremi della sua antinomia: l’ “io sono”, innegabile, ma indeterminato, da un lato; e l’ “io sono questo”, determinato, ma revocabile in dubbio come ogni altra cogitatio, dall’altro>>.

Nelle argomentazioni che seguono, si delineeranno chiaramente i presupposti che guidano l’intera critica di PDB al <<valore del principium firmissimum del principio di non contraddizione>> ritenuto erroneamente <<risultato>> del <<procedimento élenchico aristotelico e severiniano, ed in quanto tale, è considerato come una <<oggettivazione>> della verità.

<<Proprio nell’ “io sono” è emersa una “forma” dell’essere che sfugge al linguaggio, se per linguaggio si intende il segno che fa riferimento all’essenza. All’ “io sono”, conduce la meditatio, che nel suo procedere è strutturalmente negativa, non il procedere asseverativo della metafisica. Senonché la coscienza resta delusa nel suo bisogno di contenuti (= determinazioni = certezze); il suo “ineliminabile bisogno di metafisica” è il suo ineliminabile bisogno di avere la verità nella forma dell’oggettività. Ma una verità oggettivamente accertabile è appunto una certezza, come tale negabile (= non sempre vera). Il successo di Descartes è dovuto all’illusione che ha saputo dare alla coscienza di poter tenere uniti in compossibilità la verità inconcussa (“io sono”) e la sua (pretesa) oggettivazione (il concreto “io sono questo – res cogitans”). Unione immediatamente non possibile>>.

Proseguiamo.

<<Tuttavia, l’importanza di Descartes alle soglie della filosofia moderna non sta certo nella definizione della res cogitans, tantomeno nell’aver enumerato le scontate regole del metodo, quanto piuttosto nel ritrovamento della via meditativa e negativa che affaccia all’abisso del γνωθι σεαυτον, unico vero testamento filosofico della Tradizione, che la reclamata scaltrezza della modernità ha per lo più interpretato in senso gnoseologico, morale o, peggio, psicologico>>.

Qui è presto intravista anche la collocazione esistenzial-culturale di PDB, ossia la <<Tradizione>>, quel patrimonio spirituale mistico-realizzativo, che si distende nella storia all’interno di ogni religione essoterica, come ambito nel quale, partendo dal <<γνωθι σεαυτον>> [= conosci te stesso, n.d.r.], il sapere razionale deve superarsi e cedere il passo al “saper di non sapere”, su su attraverso l’autotrascendimento egoico, che conduce all’identità col Brahman, l’Aham, l’ “Io sono universale” _ o anche il Sé o <<l’originario essere>> della tradizione delfica, coscienza trascendentale _, fino al vertice della realizzazione: “Aham Brahmasmi”, “Io sono il Brahman”.

<<Nell’apparente semplicità della meditatio cartesiana è possibile scoprire il limite di quel contenuto di certezza e con esso il limite della forma fondamentale di ogni certezza (il principio di non contraddizione = p.d.n.c.). L’espressione “io sono certo di essere” pone una differenza tra l’essere quale contenuto della certezza (“certo di essere”) e l’essere (“io sono”) che testimonia di tale certezza; ogni certezza di essere, su me e sul mondo (cogitatio), rimanda al fondamentale sapere (sentir): “io sono”>>.

Cominciando ad entrare più nel dettaglio, PDB precisa che: <<Solo l’ “essere” quale contenuto della certezza è sottoposto al principio di non contraddizione ed è da questo fermamente tenuto nel suo limite (Parmenide), per il quale non diviene nulla, etc. L’ “essere” che rende possibile l’accadere di ogni certezza _ e che non diremo più determinatamente “essere”, perché non è contenuto di certezza _ è piuttosto

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l’illimitato (apeiron, illimitabile da qualsiasi principio) che rende possibile l’accadere di ogni determinato (certezze determinate) e che ne testimonia. Nonostante affiori dalla meditatio come “io sono”, tale essere non va confuso con un soggetto-che-conosce-un-oggetto: quest’ultimo infatti si costituisce come la seguente certezza: “io sono questo”, e cioè trova la sua determinatezza in contrapposizione all’oggettività, e quella determinatezza si dice “corporeità” (non si dà soggettività senza il senso della corporeità). L’originario essere, al quale ha rimandato la tradizione sapienziale delfica, è sottratto alla vicenda del divenire nonostante il principio di non contraddizione, non grazie ad esso. Dirlo “essere” _ come altrimenti _ è improprio poiché, dire “essere” è sempre dire “essere-che-non-è-non-essere”, dunque p.d.n.c.; essendo non determinato non può divenire contenuto di certezza. Si tratta, con esso, del luogo in cui le determinazioni sono eternamente testimoniate (dunque: originario sapere) nel loro essere interne alla coscienza e quindi, come tali, sottoposte alla necessaria (ananke) vicenda della diversificazione (= il divenire come instabilità di ogni determinato)>>.

Difficile non scorgere una profonda consonanza con alcune concezioni tratte dal “Rigpa, consapevolezza” (Torino, 1997, pagg. 11-12), mirabile opera di Padmasambhava: “Dopo che il pensiero passato si è dileguato senza lasciar tracce e il pensiero futuro non è ancora sorto, la mente è fresca e come nuova; in questo momento, mentre si osserva nudamente sé stessi, […] il sentire ordinario, qui e ora, è una chiarezza in cui non c’è nulla da vedere; è una limpidezza in cui la consapevolezza è evidente e nuda; è uno stato puro e vuoto in cui non c’è nulla di determinabile; […] Non è una cosa, infatti è del tutto indeterminabile; non è neppure nulla, perché è uno stato di limpida chiarezza. […] Non è estrinseca, è proprio la consapevolezze di sé”.

“Non è neppure nulla”, precisa a ragione Padmasambhava, e vedremo presto perché (= par. 3).

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Fermiamoci per il momento qui, poiché il percorso sarà lungo e conviene metter subito a fuoco i punti salienti.

In prima istanza, si tratterà ora di esaminare se queste affermazioni introduttive di PDB riescano nell’intento di <<invalidare le [ … ] premesse ontologiche>> del principio di non contraddizione (= d’ora in poi PDNC), e quindi se possano realmente evitare di riconoscerlo <<come principium firmissimum omnium […] per l’intero del reale>>. Questo, prima di esaminare nel dettaglio le critiche specifiche che egli rivolge all’élenchos aristotelico e severiniano. All’eventuale replica che sarebbe invece stato metodologicamente corretto e necessario prima esaminare dette critiche, per poi farle funzionare in favore di quanto sostenuto da PDB, si risponda che _ ed il perché sarà chiaro alla fine della seconda parte _ se tali critiche dovessero effettivamente confutare l’élenchos, allora il suo discorso (= qualsiasi discorso) fin qui svolto perderebbe paradossalmente ogni intelligibilità e valore, anziché venir confermato: ma poiché tale intelligibilità e valore lo perde sin dalle prime battute, non è decisivo l’aver esaminato prima il valore di dette critiche.

Intanto, per avere sempre ben presente l’oggetto del contendere, cominciano con l’esporre il significato del ‘principium firmissimum omnium’, la ‘bebaiotàte arché pasōn’, ossia del PDNC. Nelle parole di Aristotele (Metafisica IV, 1500 b 15-20), questo principio viene espresso così (a seconda delle traduzioni): “E’ impossibile che lo stesso attributo convenga e non convenga, ad un tempo, ad una medesima cosa, secondo lo stesso rispetto”.

Tuttavia, nella presente trattazione ci riferiremo ad esso sempre nella sua accezione trascendentale, universale (= della quale la formulazione aristotelica è una individuazione), ossia: ‘il positivo (= un

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determinato) non è il negativo (= non è il proprio altro da sé, sia questo il nulla o un altro positivo/determinato)’, o anche “l’essere non è non-essere”: quindi identità/opposizione originaria, la quale altro non è che l’esser sé dell’essente (= identità con sé) ed il suo esser altro dal (= opposto al) proprio altro.

Nel corso della presente discussione, non si dimentichi mai questa formulazione universale del PDNC.

Riportiamo ora le due figure dell’élenchos, quella aristotelica (1), e quella <<cosidetta neoparmenidea>> (2), come la chiama PDB.

Poiché la struttura originaria è l’apparire dell’identità/opposizione dell’essente, l’élenchos (ossia l’autonegazione della negazione dell’identità/opposizione), si può formulare così:

(1)A: la negazione del determinato _ cioè dell’identità/opposizione _ è un determinato, cioè una identità/opposizione;

(1)B: la negazione del determinato è negazione di sé.

(2)A: la negazione dell’opposizione è affermazione dell’opposizione;

(2)B: la negazione dell’opposizione è negazione di sé.

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Dunque, secondo PDB, <<Solo l’ “essere” quale contenuto della certezza è sottoposto al principio di non contraddizione ed è da questo fermamente tenuto nel suo limite (Parmenide)>>, cioè l’ “essere” delle “cose” con le quali abbiamo quotidianamente a che fare, quelle che ci circondano in ogni istante e che comunemente e complessivamente denominiamo “il mondo”. Tutt’al contrario andrebbe la situazione per <<L’ “essere” che rende possibile l’accadere di ogni certezza>>, cioè <<l’illimitato (apeiron, illimitabile da qualsiasi principio) che rende possibile l’accadere di ogni determinato (certezze determinate) e che ne testimonia>>. Questo è <<L’originario essere, al quale ha rimandato la tradizione sapienziale delfica>> il quale, <<essendo non determinato>>, è quel <<luogo in cui le determinazioni sono eternamente testimoniate (dunque: originario sapere) nel loro essere interne alla coscienza>> pertanto, esso è <<sottratto alla vicenda del divenire nonostante il principio di non contraddizione, non grazie ad esso>>.

Si tenga presente che PDB non nega il valore del PDNC tout court, tuttavia, la sua validità resterebbe <<circoscritta all’esperienza, a tutto ciò che è interno alla coscienza, o, in altre parole: quanto è sottoposto alla sua legislazione son soltanto cose (πραγματα)>>. In altre parole, egli intende operarne una <<sua invalidazione (non “negazione”, perché il p.d.n.c. è innegabile)>>.

Bene, è tutto chiarissimo.

Afferma Immanuel Kant, nella “Critica della ragion pura” (Bari 1995): “Ogni concetto, rispetto a ciò che non è contenuto in esso, è indeterminato, e sottostà al principio della determinabilità, che solo uno di due predicati opposti contraddittori gli può convenire”. Questo principio lo chiama “principio di determinabilità” ed è analogo al principio del terzo escluso. Inoltre, egli descrive anche il “principio di determinazione completa”, il quale mostra la condizione necessaria affinché la totalità del reale _ di qualunque significato, di qualsiasi essente _, sia possibile, possa esistere, e dice: “Ogni cosa, per la sua possibilità, sottostà ancora al principio della determinazione completa, in forza del quale di tutti i possibili predicati delle cose, in quanto essi sono paragonati

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coi loro opposti, gliene deve convenire uno”. Pertanto: “La proposizione ‘ogni esistente è completamente determinato’, significa non soltanto che di ogni paio di predicati dati, opposti tra loro, ma anche di tutti i predicati possibili, gliene spetta sempre uno” (pag. 368).

Laddove è chiaro che senza nessun predicato, allora nessun esistente, nessun significato tout court, poiché di tutti gli infiniti possibili predicati, ad un essente (= significato) ne deve convenire (= almeno) uno.

Premesso ciò, torniamo ora alle considerazioni di PDB.

<<L’originario essere>> anche detto <<l’essere (“io sono”) […] indeterminato>> di cui parla PDB, s’è visto coincidere appunto con il <<non determinato>>, cioè con l’assolutamente privo di qualsivoglia determinazione. L’indeterminato o <<l’illimitato (apeiron)>> costituirebbero le sue designazioni più appropriate, giacché dirlo <<“essere”>> sarebbe <<sempre dire “essere-che-non-è-non-essere”, dunque p.d.n.c.>>, e questo è esattamente ciò da cui PDB vuol prender le distanze. Sennonché, questo tentativo è fallimentare sin da subito, ossia sin dalla stessa enunciazione della differenza che egli pone tra l’ <<“essere”>> inteso come <<determinato>> (= le <<cose (πραγματα)>>) _ il quale solo <<è sottoposto al principio di non contraddizione>> _ e <<L’originario essere […] sottratto alla vicenda del divenire nonostante il principio di non contraddizione>>. Tale differenza è esplicitamente dichiarata esistente da PDB, allorché, attribuendo il <<successo di Descartes […] all’illusione che ha saputo dare alla coscienza di poter tenere uniti in compossibilità la verità inconcussa (“io sono”) e la sua (pretesa) oggettivazione (il concreto “io sono questo – res cogitans”)>>, afferma che tale unione è però <<immediatamente non possibile>>. Dunque questa unione <<non possibile>> presuppone la differenza tra ciò che non è (= ancora) unito.

Se _ e poiché _ PDB intende mantenere questa differenza, il PDNC è già pienamente dispiegato, in azione, diciamo così, ossia è già manifesto nella <<differenza tra l’essere quale contenuto della certezza (“certo di essere”) e l’essere (“io sono”) che testimonia di tale certezza>>, in quanto per esser quei differenti che sono, ognuno dev’esser necessariamente identico a sé e quindi diverso dal proprio altro; <<dunque p.d.n.c.>>. Il suo <<originario essere […] non determinato>> non riesce perciò ad esser tale perché nella relazione con <<l’essere quale contenuto della certezza>> esso è differente da questo, quindi è identico a sé poiché è appunto differente da ciò da cui differisce, <<dunque p.d.n.c.>>. Perciò, in tale rapporto, il supposto indeterminato dovrà andare incontro a questi due significati alternativi: o sarà un determinato anch’esso, oppure coinciderà con il nihil absolutum, in quanto la pretesa mancanza di determinazioni _ assoluta e totale _ del <<non determinato>> significa il nihil absolutum, e come tale è nulla assoluto delle determinazioni. Se a questo presunto essere indeterminato non conviene nessuna delle infinite possibili determinazioni e dei possibili significati, allora esso è nulla di sé, poiché esser <<L’originario essere>> senza _ al contempo _ esser almeno una determinazione e quindi non significare niente di tutto ciò che è possibile essere e significare, vuol dire esser NULLA ASSOLUTO.

Pertanto, se tale <<essere (“io sono”)>> coincide col nulla, allora esso è il positivo significare del nulla, cioè il significare l’assolutamente insignificante, il contraddittorio, quindi il suo significato non può sottrarsi _ in quanto nihil absolutum, ossia “non-essere” _, al rapporto con il significato “essere”, cioè con quell’<<“essere-che-non-è-non-essere”, dunque>>, nuovamente, <<p.d.n.c.>>.

Diversamente, qualora si intenda differenziare (= negare l’identità di) tale indeterminatezza dell’<<originario essere>> dal nihil absolutum mantenendola però sempre ferma come indeterminatezza, allora questa implode in una contraddizione, perché non ponendola più come nihil absolutum ed anzi, contrapponendovisi, quella indeterminatezza si rivelerà una determinatezza (= sui generis quanto si vuole: cfr. infra, par. 5) la quale è appunto diversa, ALTRA dal nihil absolutum dal quale ha preso le distanze.

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Del resto, che tale <<essere (“io sono”)>> non riesca in nessun modo a porsi come reale e radicale alter-nativa a quell’<<“essere-che-non-è-non-essere”, dunque p.d.n.c.>>, è lo stesso PDB a confermarlo, suo malgrado, allorché precisa che esso è:

1) ciò <<che rende possibile l’accadere di ogni determinato (certezze determinate)>>;

2) è cioè quel <<luogo in cui le determinazioni sono eternamente testimoniate>>;

3) <<dunque: originario sapere>>.

Ora, si deve rilevare come questi significati, cioè il rendere <<possibile l’accadere di ogni determinato>>; l’esser quel <<luogo>> che ne testimonia; l’esser <<originario sapere>>, non siano dei significati indeterminati, non sono indeterminazioni, ossia non significano il nihil absolutum né assenza di determinazioni, bensì significano DETERMINATAMENTE ciò che intendono significare, e tutto ciò rende velleitaria la pretesa che l’<<essere (“io sono”)>> o l’<<originario essere […] non determinato>> si sottragga al PDNC, perché se così fosse, esso non potrebbe venir connotato nei tre modi su indicati, e così finirebbe per esser ciò che NON <<rende possibile l’accadere di ogni certezza>>; NON sarebbe quel <<luogo in cui le determinazioni sono eternamente testimoniate>> e NON sarebbe <<dunque: originario sapere>>.

Più nel dettaglio.

Una delle determinatezze dell’<<originario essere>> è appunto _ come afferma PDB _ , la capacità di 1) rendere <<possibile l’accadere di ogni determinato>>. Cosa significa ciò ? Significa che esso è ciò grazie/mediante il quale un qualsiasi determinato può palesarsi, manifestarsi, prodursi, avvicendarsi. Il nihil absolutum non possiede questa capacità, poiché in quanto nulla, è NULLA di capacità, ossia è assoluta privazione di qualsivoglia determinatezza, essendo la capacità (= il rendere <<possibile l’accadere>>), quel determinato diverso sia dal nihil absolutum sia da ogni altro determinato. Ne deriva che quella capacità-di-render-possibile-l’accadere dev’essere necessariamente una capacità (= una determinazione) identica a sé e diversa dal proprio altro, ossia diversa da ciò che non è (= differisce da) quella capacità or ora presa in considerazione.

L’altra determinatezza dell’<<originario essere>> 2) è il suo esser IL <<luogo>> per eccellenza, nel quale/mediante il quale tutte <<le determinazioni sono eternamente testimoniate>>; che le determinazioni siano <<testimoniate>> non può però significare che siano ‘non-testimoniate’. E non può significare nemmeno che ciò che è testimoniato (= albero, montagna, camminare, mangiare, sentimenti, nihil absolutum, … etc.) sia (= identico a) ciò che testimonia. Le determinazioni testimoniate ed il <<luogo in cui [esse] sono eternamente testimoniate>> differiscono, altrimenti non potremmo parlare di testimoniati e di testimonianti. In quanto differiscono, ognuna di esse è se stessa e differente dal proprio altro, appunto perché il testimoniato differisce dal testimoniante. D’altronde _ ricordiamolo ancora _, è lo stesso PDB ad affermarlo nel modo più esplicito, laddove ha scritto che <<L’espressione “io sono certo di essere” pone una differenza tra l’essere quale contenuto della certezza (“certo di essere”) e l’essere (“io sono”) che testimonia di tale certezza>>. Tale <<differenza>> è però già essa stessa l’apparire dell’identità/differenza, ossia è già PDNC, altrimenti, se così non fosse, la <<differenza>> indicata da PDB non potrebbe nemmeno costituirsi. L’apparire di quella <<differenza>> rende l’indeterminato un determinato sub eodem, cioè un significato contraddittorio, e come tale è un positivo significare del nulla, di un contenuto impossibile.

Infine, lo stesso dicasi della determinazione 3), consistente nell’<<originario sapere>>. Quel saper _ tanto più se si pretende <<originario>> _, non potrà certamente esser il proprio contrario, non può cioè esser un non-sapere originario. E’ quel positivo determinato consistente nella differenza tra sé e tutto ciò che non è siffatto <<originario sapere>> e questo, sarebbe il <<fondamentale sapere (sentir): “io sono”>>. Ora, anche il <<(sentir): “io sono”>> potrà mai esser un non-sentire ? Potrà mai esser sinonimo di nihil absolutum ? Evidentemente no, altrimenti non vi sarebbe alcun <<(sentir): “io sono”>>, nulla di nulla. La determinazione di

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quel <<sentire>> consiste nell’esser-capacità-di-sentire, la quale capacità implica che essa sia se stessa, e non qualcos’altro, quindi, nuovamente, PDNC !

Pertanto, se quell’<<essere (“io sono”)>> intende porsi con le proprie specifiche caratteristiche appena esaminate _ le quali, ricordiamolo, non ce le siamo inventate noi, bensì le ha introdotte lo stesso PDB _, allora esso cessa immediatamente di esser un <<non determinato>>, senza alcuna possibilità di evitare o scavalcare il PDNC.

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Ancora. Prendiamo in esame la seguente frase.

<<Nonostante affiori dalla meditatio come “io sono”, tale essere non va confuso con un soggetto-che-conosce-un-oggetto: quest’ultimo infatti si costituisce come la seguente certezza: “io sono questo”, e cioè trova la sua determinatezza in contrapposizione all’oggettività, e quella determinatezza si dice “corporeità” (non si dà soggettività senza il senso della corporeità)>>.

Tuttavia ciò che testimonia la contrapposizione tra soggetto ed oggetto _ ossia tra l’<<“io sono”>> empirico e l’oggetto _, è quell’<<essere (“io sono”)>> che includendo detta contrapposizione tra soggetto ed oggetto si differenzia a sua volta da entrambi, altrimenti non vi sarebbe né testimone né testimonianza della contrapposizione. Così differenziandosi, è allora impossibile la pretesa che esso non sottostia al PDNC, proprio perché è il testimone (= cioè è identico a sé, in quanto testimone, ed è diverso dal proprio altro da sé, ossia è diverso dal soggetto-contrapposto-all’oggetto-testimoniati), ed è a sua volta un determinato, una identità, sebbene non al modo circoscritto e spazialmente limitato del soggetto-contrapposto-all’oggetto.

Più semplicemente, ad esempio, questa sequenza di lettere/significati che si sta leggendo può apparire (= esser sé) soltanto se appare (= unitamente) insieme allo sfondo bianco che la include, che ne testimonia la presenza; viceversa, anche questo <<luogo>>, questo sfondo, può apparire (= esser sé) così includente soltanto se la sua differenza da detta sequenza appare, ossia se esso non è questa sequenza, altrimenti esso non potrebbe esser il <<luogo in cui le determinazioni [= le sequenze di lettere/significati, n.d.r.] sono […] testimoniate>>.

Pertanto, ANCHE ciò che affiora <<dalla meditatio come “io sono”>>, è riconfermato esser (= parte di) quell’<<“essere-che-non-è-non-essere”, dunque p.d.n.c.>>.

All’obiezione che rilevi come queste considerazioni avvengano a loro volta inevitabilmente all’interno della giurisdizione del PDNC, e quindi che esse non dimostrino nulla se non che soltanto all’interno di tale giurisdizione è inevitabile avanzare dei significati determinati, si risponda che, oltre a presupporre ciò che invece andrebbe dimostrato _ ossia si presuppone l’esistenza di quell’ambito nel quale detto principio sarebbe invalidato _, tale presunto ambito è appunto (= pre-sup-) posto come quel <<luogo>> che è ALTRO, ossia differisce dal “mondo” nel quale invece le <<cose (πραγματα)>> sottostanno al PDNC. Ma appunto, così differendo, è altresì in rapporto di alterità col mondo, ossia NON è il mondo, gli si oppone come ALTRO da esso (sebbene in osmosi con esso o lo includa), ché, se così non fosse, NON si distinguerebbe affatto dal mondo. Così distinguendosi _ e tale distinzione è stata resa esplicita, come s’è visto, dallo stesso PDB _, anch’esso (cioè <<originario essere […] non determinato>>) è in realtà un determinato, cioè è nulla come indeterminato, quindi rientra nell’universale identità/opposizione _ di cui il PDNC ne è intrascendibile espressione _, che si vorrebbe relegata al solo contesto esperienziale-oggettuale, il mondo appunto.

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Infine, arriviamo anche all’affermazione secondo la quale <<L’originario essere>> sarebbe <<sottratto alla vicenda del divenire nonostante il principio di non contraddizione, non grazie ad esso>>.

Domandiamo: la differenza tra la <<vicenda del divenire>> e ciò che non è quella medesima vicenda, ossia <<L’originario essere>>, è una differenza oppure no ? Giacché se non lo fosse, PDB non potrebbe asserire che <<L’originario essere>> sia <<sottratto alla vicenda del divenire nonostante il principio di non contraddizione, non grazie ad esso>>. Poiché la differenza (e che differenza !) è invece affermata _ ossia è affermata l’identità/opposizione, ossia PDNC _, ecco allora che <<L’originario essere>> è <<sottratto alla vicenda del divenire […] grazie ad esso>>, cioè, daccapo, grazie al PDNC.

A questo punto è però opportuno introdurre anche la figura severiniana dell’apparire trascendentale _ autocoscienza trascendentale _ , all’interno del quale entra ed esce (testimonia dunque) ogni essente che in esso si mostra. Esso è l’intramontabile, non comincia ad apparire né mai cessa, è INDIVENIENTE dunque, essendo ciò mediante il quale comincia ogni incominciante apparire e tramontare. Ma detto questo, non è affatto possibile sottrarre l’apparire trascendentale al PDNC. Certo, esso non una “cosa” _ <<πραγμα>> _ come le altre. Non è tangibile, misurabile, pesabile, manipolabile, circoscrivibile (= cfr. supra, par. 3). Ciò nonostante non è neanche il nihil absolutum (= come anche Padmasambhava precisava; cfr. supra, par. 1), bensì è ciò la cui determinatezza consiste unicamente nel lasciar esser (= apparire, testimoniare) ciò che appare nel modo in cui appare, giacché se tale apparire consistesse in una determinazione circoscritta _ ad esempio, se fosse rossa _, tutto apparirebbe rosso. L’apparire è pura trasparenza, diafania e chiarezza assoluta, e questa è la sua unica e propria determinazione, ossia il suo proprio esser identico a sé e diverso dal proprio altro (= da tutto ciò che in essa vi appare). (Cfr. anche Aristotele, “De Anima”, 429a 18-21).

La pretesa immunità dell’<<originario essere […] non determinato>> dall’identità/differenza è dovuta dall’indebita RESTRIZIONE del significato di “essere”. Poiché si fa coincidere tale significato con gli “oggetti” di tutti i giorni (= <<πραγματα>>), manipolabili, tangibili, limitati, transitori, divenienti, allora ciò che eccede queste caratteristiche viene ritenuto totalmente oltre e/o totalmente altro da essi, perdendo così di vista il significato trascendentale di essente, ossia di ciò che non è un nulla.

In relazione a ciò, dovremmo chiamare in causa anche ad un altro breve ma pregevole testo di PDB, intitolato <<Il divenire e la cosa>>, estratto da Rivista di Teoretica – Anno II – N. 1, 1986.

In esso, <<l’intento è di dimostrare che l’on [= l’essente, n.d.r.] è sempre pragma>>. Si tratta altresì di <<discutere se quel ti [= qualcosa, n.d.r.] che appare può dirsi senz’altro on>>. <<L’intento nichilistico non solo è insediato nella persuasione del divenire dell’ente, ma altresì, anzi soprattutto, nella persuasione che sia ente ciò che appare. Le due persuasioni concrescono all’interno di una medesima volontà di dominio dell’essere _ che in quel duplice modo non evita di essere volontà che l’essere sia nulla _, e per tale volontà le due persuasioni sono indissociabili tra loro>>. Di tutto questo però, ce ne occuperemo in un prossimo articolo.

Qui dunque, finisce la prima parte, ma avremmo anche potuto concluder qui tutta la nostra disamina, essendo apparso presto evidente come le premesse teoretico-ontologiche di PDB non riescano in alcun modo a sottrarre un ambito del reale (= qualsiasi configurazione gli si voglia dare) al PDNC (= cfr. soprattutto il par. 5 nella seconda parte). Tuttavia, riteniamo opportuno non sottrarci al confronto analitico ed esaustivo, onde render ancor più argomentata la conclusione ora espressa, senza residui di dogmatismi e di presupposti celati.

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(Fine prima parte).

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ELENCHOS: AUTOCONFUTAZIONE

DELLA <<CONFUTAZIONE DI SEVERINO>>.

(Seconda ed ultima parte).

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Richiamando che per PDB la validità del PDNC <<resta circoscritta all’esperienza, a tutto ciò che è interno alla coscienza, o, in altre parole: quanto è sottoposto alla sua legislazione son soltanto cose (πραγματα)>>, ci accingiamo ora ad esaminare nel dettaglio le sue critiche al PDNC.

Egli rileva che <<L’innegabilità del principio è tale solo per la coscienza, che nella incontraddittorietà trova la forma di ogni sua certezza possibile (= per la coscienza nulla è contraddittorio; o anche: la contraddizione è per essa il vero e proprio nulla, ossia: l’impensabile, di cui nemmeno l’opposizione all’essere può essere pensata)>>. E ancora: <<La pretesa di accertarsi immediatamente dell’originario è la pretesa della coscienza di affrontare la questione della verità senza prima affrontare se stessa (= dialettica), e cioè pretesa (vana) di poter evitare il cammino del proprio trascendimento […] omissione che fa della filosofia una autofilìa, perché il volersi accertare che il vero sia vero sottende la volontà di assicurare se stessi alla immutabilità di quello, permanendo l’estraneità reciproca (alienazione)>>.

Una prima sosta.

Se <<L’innegabilità del principio è tale solo per la coscienza>>, v’è da domandarsi allora per CHI o per COSA quella <<innegabilità>> non sarebbe più tale, dal momento che la <<la coscienza>> è il solo luogo in cui appare qualsiasi contenuto, cioè è testimonianza (= coscienza di sé) di ogni significato che si mostra significante nel modo determinato in cui appare significante. Supporre un contesto diverso dalla coscienza ordinaria in cui <<L’innegabilità del principio>> di non-contraddizione non sia più innegabile, significa porre un’altra coscienza (= giacché si afferma che un altro ambito nel quale l’innegabilità del PDNC non sia più tale APPARE nel <<proprio trascendimento>> della coscienza) all’interno della quale si mostri (= si sappia) la negabilità di tale principio. A meno che PDB non intenda differenziare tra coscienza individuale, egoica, empirica, finita _ o per dirla coi termini del Vedanta, il jīvatman _, e coscienza assoluta, trascendentale, onni-includente _ ātman/Brahman _, dove solo all’interno di quest’ultima apparirebbe la negabilità del PDNC. In tal caso, anche qui, è soltanto un presupposto, una fede, che la coscienza assoluta sia l’apparire dell’invalidità del PDNC. Se non altro perché _ come minimo _

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anche quel presunto apparire (= vedere, sapere, esperire, realizzare), sarebbe un apparire (= vedere, un sapere, un esperire, un realizzare) che è identico a sé, non è la negazione di sé.

Quanto alla filosofia come <<autofilìa, perché il volersi accertare che il vero sia vero sottende la volontà di assicurare se stessi alla immutabilità di quello, permanendo l’estraneità reciproca (alienazione)>>, si deve far presente che ANCHE l’articolo di PDB in esame consiste pur sempre nel <<volersi accertare che il vero sia vero>>, nel suo caso _ ossia nella sua ottica _, <<il vero>> essendo tutto ciò che conforterà le proprie tesi, onde ANCHE il suo argomentare <<sottende la volontà di assicurare>> se stesso alle conseguenze che discenderebbero appunto dalle sue tesi, le quali evidentemente condivide. Domandiamogli: forse tutto ciò che ha scritto non vuol <<accertare>> niente di niente ? Bene, se così, allora che valore potrà avere sottoporre a critica il PDNC, se tale critica non accerta alcunché ? Allorché invece PDB s’è apprestato a redigere l’articolo in oggetto _ con l’intento ovvio di <<accertare che il vero sia vero>>, relativamente almeno, al valore delle sue critiche _, nemmeno lui avrà potuto evitare d’esser mosso dalla <<volontà di assicurare>> sé al valore di ciò che ha scritto e a ciò che ne conseguirebbe sul piano teorico-esistenziale …

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Entrando così nel vivo del tema, PDB comincia con la seguente convinzione:

<<Dell’originario non può darsi accertamento immediato poiché […]>>.

Tronchiamo subito _ momentaneamente _, questo esordio, per far notare come egli non metta a fuoco il significato di <<originario>>; non lo esplicita (come del resto non esplicita nemmeno la struttura del PDNC) , lo dà per scontato, ma dall’articolazione della sua critica, emerge che ciò che intende con tale termine non è (= non significa) l’<<originario>> inteso da Severino, poiché affermando che <<Dell’originario non può darsi accertamento immediato>> vuol dire pensare un <<originario>> che non coincide con l’<<immediato>>, cosicché esso non è certamente tale. L’affermazione di PDB può avere senso soltanto in riferimento ad un significato di <<originario>> depotenziato, mediato, di seconda mano, ossia ciò che è nascosto, non immediatamente evidente, raggiungibile per via mediazionale, ALTRO da questo mondo, alterità radicale non riconducibile agli essenti immersi incessantemente nel flusso del divenire, anzi, essi stessi supposti esser flussione pura. Ma un <<originario>> conseguito mediatamente potrebbe esser tale soltanto come antecedenza cronologica, ontologica se si vuole _ in tal caso esso è solitamente connotato come l’Essere con la E maiuscola, cioè il vero essere o se si preferisce, l’apeiron, l’Assoluto illimitato o indeterminato _, il cui <<accertamento>> si muove nell’ambito delle ipotesi, se non della fede, col la conseguenza di esser un falso <<originario>> perché è un derivato, non-originario dunque, un aporetico ‘originario-non-originario’ raggiunto per via inferenziale la quale, questa, si mostrerebbe paradossalmente più originaria dell’originario che risulta conseguito dalla mediazione ...

Cerchiamo allora di chiarire. L’originario _ come ampiamente ed analiticamente descritto da Severino nei suoi scritti _, è l’essere nella sua immediatezza, in quanto è l’immediatamente presente e noto, presente e noto per sé, e non per altro, giacché non c’è un altro, oltre all’essere. Naturalmente, con “essere” non si intende un significato semplice, astratto, vuoto, indifferenziato, bensì una correlazione di significati, un’unità di differenti (= unità di identici a sé e diversi dal proprio altro: l’essente). In quanto tale, esso è originaria ed immediata identità/opposizione trascendentale, la cui innegabilità consiste nell’impossibilità che si realizzi la propria negazione, come le due formulazioni elenchiche _ (1)A, B e (2)A, B _ mostrate sopra (cfr. prima parte, paragrafo 2), hanno inequivocabilmente evidenziato.

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Detto questo, riprendiamo ora nella sua interezza il primo punto della critica di PDB che avevamo interrotto, ossia <<Dell’originario non può darsi accertamento immediato poiché:

a) l’originario non nega la propria negazione: nel negarla la riconoscerebbe come altra da sé e non la negherebbe davvero>>.

Come si accennava, la mancata esplicitazione da parte di PDB del significato di <<originario>>, conduce ad una formulazione della critica piuttosto vaga, approssimativa, come tale soggetta ad equivoci, pertanto inadeguata.

In primo luogo, non è propriamente l’originario in quanto tale che <<nega la propria negazione>>. E’ la negazione che nega se stessa. Negando se stessa, l’originario non rimane negato dalla negazione.

In secondo luogo, la negazione dell’originario _ ossia la negazione della determinatezza e dell’opposizione del positivo e del negativo, la negazione cioè dell’identità/opposizione; élenchos (1)A e (2)A _ è parte integrante dell’originario, è essa stessa l’originario come sua individuazione, ossia è una determinatezza che non è altro dall’essere, è co-originaria ad esso, appartiene al suo medesimo orizzonte. Vi appartiene però come quel significato in cui consiste il suo esser negazione dell’identità/opposizione. Tale negazione NON può venir riconosciuta <<come altra da sé>> ché, se così fosse, essa _ non appartenendo all’originario _, non sarebbe nemmeno un contenuto (= una determinazione, un significato) che appare. Se la negazione dell’essere non fosse co-originaria ad esso, l’essere non sarebbe l’innegabile (= o anche, la negazione dell’essere non sarebbe autonegazione), col risultato che l’essere avrebbe ‘accanto’ a sé la propria negazione come non tolta. Quindi, negare che la negazione appartenga all’originario (= o affermare che essa sia <<altra>> dall’originario) è autocontraddittorio, è autonegazione, giacché tale negazione appare (= in quanto è saputa), e poiché appare, non è <<altra>> dall’originario.

Il secondo punto, b), lo dividiamo in due parti per comodità:

I] <<b) il tentativo del negare l’originario non lo riafferma: o perché non è originario ciò che compare nell’intento di negare (o affermare), con la conseguenza che non è mai l’originario ciò che ogni volta si nega (o si afferma)>> ;

Formulata così, questa osservazione rischia di sfiorare il dogmatismo: infatti non viene spiegato il perché ciò che comparirebbe <<nell’intento di negare>> non possa esser l’originario, dato che tale intento è appunto <<l’intento di negare>> l’originario inteso come identità/opposizione e non l’intento di negare qualcos’altro. La negazione dell’originario è negazione, appunto, DELL’originario, non di altro: ciò è del tutto chiaro ed esplicito.

Ripercorriamo le formulazioni elenchiche già presentate nella prima parte, evidenziandone in MAIUSCOLO ciò che ora ci interessa:

(1)A: la NEGAZIONE DEL DETERMINATO _ cioè dell’identità/opposizione originaria in cui consiste il determinato _ è un determinato, cioè è una identità/opposizione;

(1)B: LA NEGAZIONE DEL DETERMINATO è negazione di sé.

………….

(2)A: LA NEGAZIONE DELL’OPPOSIZIONE ORIGINARIA tra il positivo (= un determinato) ed il negativo (= il proprio altro da sé, sia questo il nulla o un altro positivo/determinato), o tra l’essere ed il non-essere _ È AFFERMAZIONE DELL’OPPOSIZIONE ; quindi identità/opposizione originaria.

(2)B: LA NEGAZIONE DELL’OPPOSIZIONE è negazione di sé.

Se non si tengono ben presenti queste due formulazioni dell’élenchos, si rischia di criticare qualcos’altro senza rapporto col nostro discorso. In entrambi i due casi indicati dall’élenhos, la

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negazione è quella negazione che CONTIENE IN SÉ l’oggetto del proprio predicato, ossia l’originario, come soggetto sul quale ricade il predicato consistente nella negazione di esso. In tal modo, quella negazione DELL’originario è _ necessariamente _ negazione di sé, autonegazione. Perché ? Allorché la negazione della determinatezza/opposizione dell’essere si pone come siffatta negazione, poiché questa è a sua volta determinata (= è questa specifica negazione) e si oppone alla (= nega la) determinatezza/opposizione dell’essere, allora è necessariamente negazione di sé, autonegazione, giacché la sua pretesa toglie se stessa in quanto anch’essa è un determinato opposto a ciò che intende (= quindi contraddittoriamente) negare. Perciò, si deve dire che <<il tentativo del negare l’originario […] lo riafferma>> perché _ sarà ormai chiaro _ è riaffermazione dell’identità/opposizione, cioè riaffermazione dell’originario. Pertanto, contrariamente a quanto vien asserito da PDB al punto b), si dovrà dire che _ essendo la negazione dell’essere co-appartenente al medesimo orizzonte originario che intende negare _, allora <<la conseguenza>> è che sarà proprio <<l’originario ciò che ogni volta si nega>> senza però potervi riuscire perché è negazione autonegantesi, quindi riconfermante l’innegabile come innegabile.

II] <<b) Il tentativo del negare l’originario non lo riafferma: […] perché se originario potesse essere ciò che compare nell’intento di negare, la negazione sarebbe riconosciuta nella sua originarietà (ad essa si manifesterebbe l’originario come originario) e quello non sarebbe riaffermato (è già negato nell’essere riconosciuto dalla sua negazione)>> ;

Come appena mostrato, l’originario è <<ciò che compare nell’intento di negare>> perché se così non fosse essa sarebbe negazione di altro, e non DELL’originario. Del resto, è la negazione stessa ad esser esplicita su ciò. Essa è, pertanto, <<riconosciuta nella sua originarietà>> in quanto tale negazione APPARE, non è un nulla, e ciò che appare è l’immediato, orizzonte originario noto per sé e non per altro. Pertanto, anche IN ESSA si manifesta <<l’originario come originario>> nel senso che essa è una identità/opposizione, ossia è un essente identico a sé e diverso dal proprio altro, come lo è qualsiasi altro essente, ma NON nel senso che essendo l’originario, lo debba riconoscere come tale, nella sua verità. Una negazione è e rimane una negazione, rimane cieca su ciò che intende negare, perciò non riconosce ciò che nega (= cioè non lo riconosce come l’innegabile), altrimenti non lo negherebbe simpliciter. Un errore non vede la verità: è e rimane un errore.

La negazione è quindi _ si badi bene _ quell’essente consistente nell’esser (= nel significare) la negazione DELL’identità/opposizione, ed essendo così significante, nega se stessa nel senso che il suo significare (= il suo esser) quella negazione, non riesce a negare ciò che intende negare (= pur rimanendo la negazione che è, in quanto anch’essa è un essente identico a sé e diverso dal proprio altro) bensì lo riafferma suo malgrado, come detto; riafferma ciò che nega proprio nell’atto in cui lo intende negare, perché _ si ribadisca _ quell’atto (= quel significare) in cui consiste la negazione presuppone ciò che nega, ossia presuppone che tale negazione sia se stessa e diversa dal proprio altro, quindi NON nega: riafferma l’opposizione originaria senza la quale essa non esisterebbe, e così si auto-nega, toglie cioè la realizzazione del suo significare. Il suo negare è un significare autocontraddittorio, dunque è tolto, originariamente tolto. Poiché la negazione dell’identità/opposizione dell’essente è tolta in quanto autocontraddittoria, l’identità/opposizione si ri-afferma come l’innegabile perché la sua negazione è autocontraddittoria, negazione della negazione.

In base a ciò, è interamente frutto di equivoco l’affermazione secondo la quale <<ad essa [= alla negazione, n.d.r.] si manifesterebbe l’originario come originario) e quello non sarebbe riaffermato (è già negato nell’essere riconosciuto dalla sua negazione)>>, equivoco consistente nel non distinguere la negazione dal proprio contenuto irrealizzabile, perché _ si ripeta _, alla negazione (= la quale è pur parte o momento dell’originario), non può manifestarsi la verità dell’originario (= non gli si manifesta <<l’originario come originario>>), altrimenti

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scomparirebbe (= non apparirebbe) come negazione, pertanto la realizzabilità del proprio contenuto rimane originariamente TOLTA.

Che poi l’originario sia <<già negato nell’essere riconosciuto dalla sua negazione)>> è una delle tante curiose affermazioni che incontreremo via via, poiché qualora la negazione riconoscesse l’originario, non lo negherebbe ‘tout court’, VEDENDO già l’impossibilità di realizzare _ da parte della negazione _ il proprio progetto negante …

Il terzo punto c), anch’esso diviso in due parti, afferma:

I] <<c) il negarsi della negazione altrettanto non consente alcuna certezza dell’originario, perché o è il negarsi di una negazione che non intende negare l’originario, e in tal caso il suo togliersi non serve a provare>>;

sarà ormai chiaro come la negazione in oggetto, per esser tale, debba realmente essere negazione, cioè debba esser l’intenzione-di-negare-l’identità/opposizione dell’essente, altrimenti _ semplicemente _, non staremmo parlando di negazione bensì di non si sa cosa …

D’altra parte, affermare che la negazione sia <<il negarsi di una negazione che non intende negare l’originario>> è affermazione aporetica, giacché per sostenere che tale negazione non intenda negare l’originario, si presuppone, deve cioè apparire tale intenzione come intenzione di negazione l’originario, altrimenti PDB non potrebbe supporre che essa intenda negare qualcos’altro …

II] <<Ovvero, se è una negazione che intende negare l’originario si ricade in b).

Ma come s’è visto, il ricadere nel punto b) non conduce alle conseguenze prospettate da PDB, dal momento che negare che detta negazione sia parte dell’originario (= o affermare che la negazione dell’identità/opposizione sia ALTRO, ossia qualcosa di estraneo dall’originario), è affermazione (o negazione) autocontraddittoria, perché comporta il riaffermare detta identità/opposizione.

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Sostiene PDB che <<Il principio di non contraddizione, ritenuto l’inconcusso, costituisce l’ultimo e più radicale ormeggio per la coscienza, in quanto ritiene ancora che la verità possa avere carattere tematico e come tale non implicante il suo (di lei coscienza) trascendimento>>.

Anche qui si presuppone ciò che invece si dovrebbe dimostrare. Infatti in base a che cosa si afferma che <<la verità>> debba implicare il (= e quindi situarsi nel) trascendimento della coscienza ? Cosa garantisce che tale presunta verità così conseguita o realizzata sia incontrovertibilmente <<la verità>> e non piuttosto un formidabile abbaglio ? Non basta infatti asserire che, ad esempio, essa è quello stato <<che rende possibile l’accadere di ogni determinato (certezze determinate)>>; né _ quindi _ affermare che sia quel <<luogo in cui le determinazioni sono eternamente testimoniate>>. Non basta, si diceva, perché in queste dichiarazioni non è ancora implicata la smentita incontrovertibile della loro negazione. Per attuare ciò, sarà nuovamente necessario ricorrere ad un procedimento elenchico che escluda la loro negazione mostrandola esser autonegazione. L’approdo all’autotrascendimento della coscienza finita è chiamato da PDB <<l’ “io sono”, innegabile, ma indeterminato>>. Tuttavia, l’<<indeterminato>>, secondo PDB non sottostarebbe al procedimento elenchico _ giacché, s’è visto, secondo lui esso vige soltanto per le <<cose>> determinate, per il mondo _, ed ogni

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determinato, sempre secondo PDB, è <<revocabile in dubbio come ogni altra cogitatio>> in quanto <<una verità oggettivamente accertabile è appunto una certezza, come tale negabile (= non sempre vera)>>. Queste considerazioni di PDB non fanno perciò uscire <<l’ “io sono”, innegabile>> dall’ambito della fede o delle ipotesi, e come tale è tutt’altro che <<innegabile>> ! Qualora si replicasse che l’innegabilità dell’<< “io sono”, innegabile, ma indeterminato>> è data dal fatto che la sua negazione lo presupporrebbe nuovamente, poiché è sempre l’<<“io sono”>> ciò mediante il (= all’interno del) quale si effettua la sua negazione, allora anch’esso non potrà sfuggire all’élenchos, cioè a ciò la cui negazione si traduce in autonegazione …

Su questa scia, PDB afferma che l’<<“ineliminabile bisogno di metafisica” [= dell’essere umano] è il suo ineliminabile bisogno di avere la verità nella forma dell’oggettività>>. Alla innegabilità dell’<< “io sono”>>, egli contrappone la negabile <<verità nella forma dell’oggettività>>, onde questa viene così ad assumere i connotati di una “cosa” tra le altre, negabile come le altre, e le conseguenze di tale contrapposizione si sono ben osservate nelle critiche esposte sopra ai punti a), b) c).

Sennonché il PDNC non è qualcosa di separato, di altro dall’essente. Se così fosse, l’essente sarebbe nulla prima ed al di là del PDNC, e questo a sua volta sarebbe parimenti nulla, giacché sarebbe principio di niente, quindi esso stesso NIENTE. Tale principio non conviene all’essente in un secondo momento, come aggiunta successiva ed estrinseca ad esso. Ne è parte integrante, anzi: il PDNC È LO STESSO ESSENTE. L’essente non è altro che lo strutturarsi del principio di identità/non contraddizione, o anche, dell’identità/opposizione, giacché esser essente significa esser identico a sé ed altro da ciò che è diverso da sé. Non è possibile esser un “che”, un “qualcosa” (= un significato) a prescindere dal PDNC. Ne deriva che così configurandosi, non si può più parlare di <<verità nella forma dell’oggettività>>, poiché questa <<oggettività>> _ nel caso del PDNC _ non è “qualcosa” che mi stia innanzi nel modo in cui l’oggetto si rapporta al soggetto. Esso ricomprende entrambi ed il loro rapporto. E’ il cuore dell’esistente, è l’esistente stesso in quanto tale, cioè in quanto non è un nulla, e pertanto è l’orizzonte universale ed insuperabile oltre il quale vi è il nulla, ossia non vi è nulla.

Infine, domandiamo: ma che la <<la verità>> sia raggiungibile oltre la coscienza ordinaria, è affermazione effettuata all’interno di detta coscienza oppure al di là (= nel trascendimento) di essa ? Nel primo caso, che statuto veritativo potrà mai avere ? Sarà bensì un’opinione tra le altre, appunto perché enunciata all’interno di quell’ambito non-veritativo per eccellenza, il nostro mondo, luogo nel quale vige la <<verità oggettivamente accertabile>>, la quale, proprio perché tale, è _ ripetiamolo con le parole di PDB _ <<negabile (= non sempre vera)>>. E allora, ci permetteremo di respingerla senza troppe difficoltà. Nel secondo caso, se ne dovrà incontrovertibilmente dimostrare la verità.

Proseguiamo.

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PDB scrive che <<Lo elenchos mostra la necessità (o innegabilità) del principio, rilevando come il tentativo di negazione sia riaffermazione del principio stesso. Sì che questo è innegabile per l’autonegarsi della negazione progettata. Il principio può valere come ciò che dalla propria negazione è restituito, solo se viene oggettivato nel progetto di negazione, e se si pretende di ravvisarlo nella formulazione con cui esso compare nel progetto di negazione, e dunque solo se _ così oggettivato _ esso cessa di essere principio “firmissimum” secondo il quale si struttura la stessa negazione. Il principio è bensì innegabile nel suo esserci (in quanto di esso si progetta negazione), ma è negabile (o negato) come “firmissimum”, ossia come struttura dello stesso negare, allorché il negare lo tiene

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fuori di sé nell’oggettivazione. Per questo lato, lo elenchos restituisce un principio, ma non come il firmissimum>>.

Tenendo presente quanto appena detto circa la <<verità nella forma dell’oggettività>> ma soprattutto sulla co-originarietà in cui consiste l’opposizione originaria tra l’essere ed il non-essere _ (= o tra un essente e tutto ciò che non è quell’essente) la quale IMPLICA L’ORIGINARIETÀ DELLA LORO STESSA NEGAZIONE (= giacché se così non fosse, che l’essere non si opponga ma sia non-essere e che un essente non si opponga ma sia l’altro da sé, non sarebbe originariamente negato, quindi non sarebbe opposizione originaria e quindi non sarebbe opposizione simpliciter, in quanto senza l’originarietà della loro negazione unitamente alla propria originaria autonegazione, quelli non sarebbero ciò la cui negazione è tolta, cosicché non sarebbero incontrovertibili) _, che il principio possa <<valere come ciò che dalla propria negazione è restituito, solo se viene oggettivato nel progetto di negazione, e se si pretende di ravvisarlo nella formulazione con cui esso compare nel progetto di negazione, e dunque solo se _ così oggettivato _ esso cessa di essere principio “firmissimum”>>, è affermazione perentoria ma del tutto immotivata. Infatti, non si capisce perché debba esser una <<pretesa>> quella che lo vorrebbe ravvisato nella negazione, né si capisce perché <<se _ così oggettivato>>, tale principio debba cessare di valere come <<“firmissimum”>>. Purtroppo non sono poche _ come vedremo ancora_ le critiche che nell’articolo di PDB oscillano tra una certa vaghezza ed equivocità e una perentorietà non motivata in modo stringente o comunque molto debolmente giustificata.

Comunque, in questa critica egli separa, isola cioè i due aspetti, cioè isola il principio dalla sua negazione, ritenendo così che il principio sia <<restituito>> (= riaffermato) come risultato finale del processo di <<oggettivazione>> nel <<progetto di negazione>>. Così procedendo, secondo PDB tale principio rimarrebbe sì <<innegabile>> ma cesserebbe di esser <<firmissimum>> e come tale verrebbe negato, appunto perché mantenuto dalla negazione <<fuori di sé nell’oggettivazione>>. Ma intanto rileviamo che l’esser principio <<firmissimum>> significa (= equivale a) l’esser stabile, inamovibile, quindi <<innegabile nel suo esserci>>. Esso è <<firmissimum>> proprio in quanto è <<innegabile>>, altrimenti, cosa significherebbe esser appunto <<principio “firmissimum>>, “bebaiotàte arché” ? In tal modo, egli, involontariamente finisce per dire (= è come se dicesse) che <<Il principio è bensì innegabile nel suo esserci (in quanto di esso si progetta negazione), ma è negabile (o negato) come [innegabile], ossia come struttura dello stesso negare>>; o anche, è come se dicesse che <<Il principio è bensì [firmissimum] nel suo esserci (in quanto di esso si progetta negazione), ma è negabile (o negato) come “firmissimum”, ossia come struttura dello stesso negare>>, e poiché <<firmissimum>> ed <<innegabile>> sono significati equivalenti, afferma sub eodem che il principio è negabile e insieme non è negabile; è firmissimum e insieme non è firmissimum, sub eodem si diceva, giacché <<nel suo esserci>> il PDNC implica sé stesso in quanto è anche <<struttura dello stesso negare>>, essendo quest’ultima (= l’élenchos) una individuazione di detto principio.

Inoltre, il principio NON <<viene oggettivato nel progetto di negazione>>, e nemmeno << si pretende di ravvisarlo nella formulazione con cui esso compare nel progetto di negazione>>, poiché non è una pretesa aliena alla negazione, perché _ si ripeta _ è la negazione stessa (= la sua essenza) ad includere in sé ciò che vuol negare, che ripropone cioè esattamente il principio unitamente alla negazione di esso, ossia è (= il tentativo di) negazione DEL principio, non di qualcos’altro.

PDB prosegue aggiungendo:

<<D’altro canto, se si nega che sia principio quanto compare oggettivato nel progetto di negazione (= la formulazione del principio), allora lo elenchos rinuncia a mostrare il suo essere firmissimum (il suo essere struttura dell’affermare e del negare) mediante l’autonegarsi della negazione, infatti, per questo lato, lo si

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porrebbe come ciò che resta inoggettivato per ogni progetto di negazione, e senza questa, si sa, lo elenchos non può prendere avvio>>.

Non solo non lo si nega, ma non lo si può negare, giacché negare <<che sia principio quanto compare oggettivato nel progetto di negazione>>, equivarrebbe a dire che la formulazione elenchica (1)A, cioè che “la negazione del determinato, dell’identità/opposizione” è un determinato, cioè è una identità/opposizione”, significhi il contrario, ossia: “la negazione del determinato, cioè dell’identità/opposizione, NON è un determinato, cioè NON è una identità/opposizione”. Lo stesso dicasi per la formulazione (2)A: “la negazione dell’opposizione è affermazione dell’opposizione”. Anche qui, sarebbe come affermare _ stando a quanto asserisce PDB _ che “la negazione dell’opposizione NON è affermazione dell’opposizione”. Impossibile.

Tuttavia va nuovamente rilevato come il termine <<oggettivato>> sia fuorviante ed inadeguato, perché (1)A e (2)A _ ossia (1)A: “la negazione del determinato, dell’identità/opposizione _ è un determinato, cioè una identità/opposizione”. (2)A: “la negazione dell’opposizione è affermazione dell’opposizione” _ non sono ciò che verrebbe <<oggettivato nel progetto di negazione>>, essendo quest’ultimo espresso da (1)B: “la negazione del determinato è negazione di sé” e (2)B: “la negazione dell’opposizione è negazione di sé”. Non sono oggettivazioni, si diceva, in quanto “determinato” ed “opposizione” che compaiono in (1)A e (2)A sono già inclusi nelle negazioni (1)B e (2)B come parte integrante e strutturale di dette negazioni, senza la quale inclusione sarebbero pertanto negazioni di altro, o non sarebbero negazioni.

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PDB afferma: <<Avvertendo la difficoltà di uno elenchos che si limiti al “solo rilievo che la negazione della opposizione si costituisce solamente in quanto si oppone al suo negativo”, se ne è proposta una “seconda figura” che integri quella “prima aristotelica”. Quest’ultima non esclude la possibilità che la negazione del principium firmissimum omnium, pur accettando di costituire per sé, in quanto positività semantica, una individuazione del principio, riesca ad affermare un campo in cui il principio stesso è negato. L’intero del reale sarebbe diviso nei campi “C1” e “C2”; il primo costituirebbe l’ambito in cui vige l’opposizione di positivo e di negativo, a cui anche la negazione accetta di sottostare; il secondo costituirebbe il contenuto della negazione. La seconda figura è “quella radicale”, perché non si limita a rilevare che la negazione del principio (qui proposto come opposizione di positivo e negativo) ha come esito la sua riaffermazione, bensì perviene a mostrare come la tentata negazione si risolva in autonegazione. Per affermare, infatti, che in C2 “uomo è trireme”, la negazione deve tener fermi i significati determinati di “uomo” e di “trireme”, e, con ciò, riconoscendo il valore dell’opposizione, negherebbe se stessa. Va tuttavia osservato che si può ipotizzare anche un negatore che non ponga in C2 determinatezze quali “uomo” e “trireme”: si potrebbe negare il principio dicendo che in C2 non compaiono determinazioni di sorta, e che perciò, non potendosi in esso dire né pensare, l’unico atteggiamento (in C2) sarebbe l’afasia (non dire, non pensare). Sarebbe, allora, nel tener ferma l’irriducibilità di C2 e C1 che la negazione riconoscerebbe il valore dell’opposizione e si negherebbe>>.

Va innanzitutto detto che la cosiddetta <<seconda figura>> non è avanzata da Severino _ in “Essenza del nichilismo” _ come tentativo di superare una presunta <<difficoltà>> derivante dalla prima figura, quella aristotelica: questa è infatti tenuta ferma come “assolutamente valida, ma entro certi limiti […] La prima figura è cioè in grado di togliere assolutamente la negazione

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universale dell’opposizione del positivo e del negativo, ma non è in grado di togliere una prospettiva che neghi l’opposizione in un campo particolare del positivo” (= Emanuele Severino: “Essenza del nichilismo”, Milano 1982, pag. 119). Se un’autentica <<difficoltà>> ha da esservi, questa non consiste certo nella limitatezza dovuta al “campo particolare” di azione dell’élenchos della prima figura, bensì nel nichilismo cui il PDNC aristotelico va incontro allorché temporalizza l’essente senza avvertire contraddizione a che questo non sia _ quando non è ancora e quando non sarà più _, ma di ciò non ci occuperemo qui. I livelli di azione dell’élenchos sono diversi, pertanto la prima formulazione aristotelica non costituisce <<difficoltà>> alcuna, essendo perfettamente valida al suo livello.

Inoltre, PDB va incontro ad un fraintendimento, laddove scrive che <<La seconda figura è “quella radicale”, perché non si limita a rilevare che la negazione del principio (qui proposto come opposizione di positivo e negativo) ha come esito la sua riaffermazione, bensì perviene a mostrare come la tentata negazione si risolva in autonegazione>>. Qui c’è un errore. Viene infatti implicitamente suggerito che la prima figura si limiti <<a rilevare che la negazione del principio>> abbia <<come esito la sua riaffermazione>>, di contro alla radicalità della seconda figura dell’élenchos la quale, rispetto alla prima _ secondo PDB _, riesce <<a mostrare come la tentata negazione [del principio, n.d.r.] si risolva in autonegazione>>. Ma questo è completamente sbagliato, giacché quest’ultimo è l’esito ANCHE della prima figura. Le affermazioni Severino sono chiarissime: “Ma l’έλεγχος aristotelico deve essere scrutato più da vicino. Osservando innanzitutto che esso non consiste semplicemente nel rilevare che la negazione dell’opposizione è anche affermazione dell’opposizione, bensì consiste nel rilevamento che l’affermazione dell’opposizione, ossia l’opposizione, è il fondamento di ogni dire, e quindi, e perfino, di quel dire in cui consiste la negazione dell’opposizione. […] L’opposizione è fondamento […] Fonda anche la propria negazione […] Negando, quindi, nega il proprio fondamento, nega ciò senza di cui non sarebbe (o, che è il medesimo, non sarebbe significante): nega se medesima. In effetti, la negazione dell’opposizione include la dichiarazione della propria inesistenza, è un togliersi da sola”. (= Severino, ivi, pag. 43).

In sostanza, il pasticcio di PDB è consistito nell’aver scisso in due l’élenchos della prima figura aristotelica, SEPARANDONE la prima parte (=[(1)A]: la negazione del determinato _ cioè dell’identità/opposizione _ è un determinato, cioè una identità/opposizione) dalla seconda (= ossia da [(1)B]: la negazione del determinato è negazione di sé), identificando così quest’ultima con la seconda figura elenchica, quella da egli definita <<neoparmenidea>>, non accorgendosi che l’autonegazione è caratteristica ANCHE della prima figura. La vera differenza tra le due figure consiste pertanto nel fatto che la seconda è appunto <<radicale>>, universale, a differenza della prima che vale “in un campo particolare del positivo”.

Altresì molto curioso che PDB _ all’interno dello stesso contesto appena mostrato e relativamente alla prima figura aristotelica _ , ritenga di sfruttare a proprio favore la suddivisione dell’<<intero del reale>> il quale <<sarebbe diviso nei campi “C1” e “C2”>>. Ora, in “Essenza del nichilismo” (pag. 46), Severino afferma che a dividere “l’intero in due campi ", ossi in C1 e C2 non è la conseguenza di “un avversario del principio di non contraddizione”, bensì di “uno che lo afferma in un certo modo, ossia come avente una portata limitata. Per eliminare questa affermazione limitata basta dunque far vedere che è contraddittoria, ossia non riesce ad essere ciò che vuol essere. E lo è per più aspetti. A parte l’arbitrarietà dell’attribuzione dell’incontraddittorietà a quella zona particolare dell’intero, che è la stessa affermazione parziale dell’incontraddittorietà, basta osservare che questa affermazione divide l’intero in due campi, in uno dei quali (sia C1) il positivo si oppone al suo negativo, mentre nell’altro (sia C2) il positivo non si oppone al suo negativo. Pertanto, poiché C2 è il negativo di C1 e viceversa, si viene a dire (quando si vuol salvare l’incontraddittorietà di C1) che C1 si oppone a C2, e (quando si vuol porre la contraddittorietà di C2) che C1 non si oppone a C2. L’affermazione limitata dell’incontrovertibilità” _ conclude Severino _ “è autocontraddittoria”.

Curioso, dicevamo, perché in relazione al PDNC, quell’ “uno che lo afferma in un certo modo, ossia come avente una portata limitata” è precisamente PDB, il quale, come abbiamo già avuto modo di

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vedere, ha precedentemente sostenuto che la sua validità rimarrebbe <<circoscritta all’esperienza, a tutto ciò che è interno alla coscienza, o, in altre parole: quanto è sottoposto alla sua legislazione son soltanto cose (πραγματα)>>, aggiungendo che di esso si debba parlar di <<invalidazione (non “negazione”, perché il p.d.n.c. è innegabile)>>.

Bene. Tuttavia, circa la contraddittorietà dell’ “affermazione limitata dell’incontrovertibilità” del PDNC _ che è quella di PDB _, egli fornisce la seguente spiegazione: <<Per affermare, infatti, che in C2 “uomo è trireme”, la negazione deve tener fermi i significati determinati di “uomo” e di “trireme”, e, con ciò, riconoscendo il valore dell’opposizione, negherebbe se stessa>>. Qui però, PDB sta offrendo un esempio che attiene alla seconda figura dell’élenchos, <<“quella radicale”>>, la quale _ ripetiamolo _ afferma che: (2)A, la negazione DELL’OPPOSIZIONE è affermazione dell’opposizione; (2)B, la negazione DELL’OPPOSIZIONE è negazione di sé. Ora, il brano di Severino sopra richiamato non dice questo. Il campo C1 e C2 sono contraddittori (= ossia è contraddittorio il PDNC nell’ottica sostenuta da PDB, cioè “come avente una portata limitata”) perché volendo porre un ambito contraddittorio (= C2) che non si opponga (= appunto perché contraddittorio) a C1, si finisce contemporaneamente ed inevitabilmente per dire che C1 si oppone e non si oppone a C2 e viceversa, allorché si deve ANCHE salvaguardare l’incontraddittorietà di C1, e non solamente salvaguardare la contraddittorietà di C2.

Questa è la sostanza di ciò che è stato detto (= in altro modo) nella prima parte del presente scritto, allorché si è mostrata l’impossibilità di porre insieme/accanto (= comunque oltre) alle “cose” di tutti i giorni _ <<πραγματα>> _, un presunto <<originario essere, al quale ha rimandato la tradizione sapienziale delfica, […] sottratto alla vicenda del divenire nonostante il principio di non contraddizione, non grazie ad esso>>, onde questo si costituisca così come quel campo (= C2) nel quale sia negata <<la sua [= del PDNC, n.d.r.] validità per l’intero del reale>>.

Prosegue PDB: <<Va tuttavia osservato che si può ipotizzare anche un negatore che non ponga in C2 determinatezze quali “uomo” e “trireme”: si potrebbe negare il principio dicendo che in C2 non compaiono determinazioni di sorta, e che perciò, non potendosi in esso dire né pensare, l’unico atteggiamento (in C2) sarebbe l’afasia (non dire, non pensare). Sarebbe, allora, nel tener ferma l’irriducibilità di C2 e C1 che la negazione riconoscerebbe il valore dell’opposizione e si negherebbe>>.

Ma se in C2 <<non compaiono determinazioni di sorta>>, allora esso cessa di essere quel campo contraddittorio che dividerebbe l’intero del reale insieme a C1. Se C2 è vuoto, o se non lo si pone, C2 non esiste, simpliciter. Inoltre, se in esso non si può <<dire né pensare>> alcunché, allora C2 diventa il campo del nihil absolutum, ma così rientreremmo in C1, cioè nel campo dove “il positivo si oppone al suo negativo”, ossia, nuovamente, PDNC …

Tra l’altro, notiamo di sfuggita un altro pasticcio.

Sempre restando nello stesso contesto, PDB, immediatamente dopo aver scritto che <<L’intero del reale sarebbe diviso nei campi “C1” e “C2”; il primo costituirebbe l’ambito in cui vige l’opposizione di positivo e di negativo, a cui anche la negazione accetta di sottostare; il secondo costituirebbe il contenuto della negazione>>, interrompe questo discorso per inserirvi l’affermazione già vista secondo la quale <<La seconda figura è “quella radicale”, perché non si limita a rilevare che la negazione del principio (qui proposto come opposizione di positivo e negativo) ha come esito la sua riaffermazione, bensì perviene a mostrare come la tentata negazione si risolva in autonegazione>>: ma ecco che subito dopo riprende il discorso poco prima bruscamente interrotto, ossia scrive: <<Per affermare, infatti, che in C2 “uomo è trireme”, la negazione deve tener fermi i significati determinati di “uomo” e di “trireme”, e, con ciò, riconoscendo il valore dell’opposizione, negherebbe se stessa>>. Questa commistione di affermazioni riguardanti contesti diversi _ a meno che non si tratti di un refuso _ induce a pensare che la divisione del reale nei campi C1 e C2 sia qualcosa che riguardi la seconda

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figura elenchica, quella <<neoparmenidea>>, in caso contrario non si spiegherebbe perché inserire ex abrupto _ in un discorso già avviato _ la <<La seconda figura>> laddove si stava discutendo soltanto della prima (cfr. Severino, cit., pag. 46).

Infatti, stando al suo testo, pare che PDB identifichi <<La seconda figura>> elenchica con il campo C2 (= concernente questo, invece, il discorso sulla prima figura aristotelica), giacché di quest’ultimo campo egli scrive che in esso <<la negazione deve tener fermi i significati determinati di “uomo” e di “trireme”, e, con ciò, riconoscendo il valore dell’opposizione, negherebbe se stessa>>.

<<In ogni caso>> _ prosegue PDB _ <<l’osservazione sul carattere empirico della prima figura resta valida, e, dunque, resta valida l’esigenza di una nuova impostazione dell’elenchos, in grado di accertare il valore trascendentale dell’opposizione di positivo e negativo. Infatti la “prima figura”, limitandosi a rilevare che la tentata negazione riafferma il principio, non va oltre la ratifica di una presupposta inviolabilità del principio stesso, argomentata a partire dalla sola constatazione che di fatto mai lo si incontra violato. In tal modo (tutto empirico) resta accertata, più che la sua universalità e necessità, la sua inevitabilià. Dire, ad esempio, che il linguaggio fonetico è necessario e universale solo perché anche la sua negazione consiste in un insieme di fonemi (in modo da riaffermare ciò che si vuol negare) significa scambiare l’inevitabile per necessario. E’ infatti solo una serie di circostanze empiriche ed esteriori a far sì che quello fonetico sia l’unico linguaggio e che, dunque, solo foneticamente si costituisca la sua negazione. Non resta tolta, cioè, la possibilità di altri linguaggi>>.

Intanto, abbiamo già avuto modo di appurare come l’affermazione _ qui ribadita da PDB _ secondo la quale la prima figura dell’élenchos si LIMITEREBBE <<a rilevare che la tentata negazione riafferma il principio>> sia falsa, poiché non si LIMITA affatto a questo. Perciò proseguendo, va detto anche che la <<presupposta inviolabilità del principio stesso>>, la quale, secondo PDB, sarebbe <<argomentata a partire dalla sola constatazione che di fatto mai lo si incontra violato>> è in realtà inviolabile de jure. Avendo sotto gli occhi l’erronea convinzione che la prima figura si limiti soltanto a riaffermare il principio, a PDB sfugge che essa sia inviolabile di diritto, perché nega il proprio contenuto negante, cioè è autonegazione. Sennonché egli introduce la distinzione tra l’<<inevitabile>> ed il <<necessario>>, supponendo che la prima figura li equivochi scambiandoli l’uno per l’altro. Infatti _ continua _, affermare <<ad esempio, che il linguaggio fonetico è necessario e universale solo perché anche la sua negazione consiste in un insieme di fonemi (in modo da riaffermare ciò che si vuol negare) significa scambiare l’inevitabile per necessario>>. Purtroppo questo esempio va fuori strada, soltanto apparentemente cioè, sembra che riprenda il significato elenchico della prima figura aristotelica. Questa, dice che (1)A: la negazione del determinato _ cioè dell’identità/opposizione _ è un determinato, cioè una identità/opposizione; (1)B: tale negazione del determinato è negazione di sé.

Ora, se PDB avesse voluto avanzare un esempio calzante, avrebbe dovuto tradurlo nei termini coi quali la prima figura è espressa, e cioè: “la negazione [dell’esistenza] del linguaggio fonetico è [effettuata da] un linguaggio fonetico; tale negazione del linguaggio fonetico è negazione di sé” [perché negando il linguaggio fonetico, nega anche se stessa come linguaggio fonetico in cui consiste il suo esser negazione].

Per la precisione: in cosa consiste il negare, quando si dice <<che il linguaggio fonetico è necessario e universale solo perché anche la sua negazione […]>> ? Forse si vuol negare che sia <<necessario e universale>> ? Se così, l’esempio di PDB riconferma di aver mancato il bersaglio. La prima figura elenchica non afferma infatti soltanto di esser <<necessaria e universale solo perché anche la sua negazione consiste in un>> determinato (= nell’esempio di PDB, <<in un insieme di fonemi in modo da riaffermare

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ciò che si vuol negare>>). Nella sua interezza, oltre cioè ad (1)A, l’élenchos aggiunge che (1)B: la negazione del determinato è autonegazione, è negazione di sé. Quest’ultima frase, tradotta nell’esempio, suona così: “tale negazione del linguaggio [fonetico] è negazione di sé [poiché è negazione effettuata dal/con il linguaggio fonetico]”.

Poiché è negazione di sé, non riesce mai a costituirsi come negazione riuscita, effettiva, attuata. Questo non riuscire “mai a costituirsi come negazione riuscita”, è non solo <<inevitabile>> ma <<necessario>>, giacché _ a differenza del linguaggio fonetico, nell’esempio _, il determinato (= l’essente) non ha altro fuori di sé (= eccetto il nihil absolutum che non è, simpliciter), come invece ce l’ha il detto linguaggio, poiché questo è un determinato tra gli altri, mentre il determinato in quanto tale è l’orizzonte della identità/differenza, al cui interno gli essenti sono ciò che ognuno di essi è.

PDB aggiunge: <<E’ infatti solo una serie di circostanze empiriche ed esteriori a far sì che quello fonetico sia l’unico linguaggio e che, dunque, solo foneticamente si costituisca la sua negazione. Non resta tolta, cioè, la possibilità di altri linguaggi>>. Appunto, oltre ad un linguaggio _ <<quello fonetico>> _, ve ne sono altri, poiché esso non occupa l’intero del reale. Al contrario, <<resta tolta […] la possibilità>> dell’indeterminato, essendo questo _ come argomentato nella prima parte _, o un falso-indeterminato, in quanto, nell’accezione descritta da PDB, esso possiede (= è) almeno una determinazione, se non vuol rischiare di significare il nihil absolutum; oppure è appunto un nihil absolutum, cioè non è assolutamente.

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Proseguiamo con l’esposizione del testo di PDB.

<<Aristotele dice che il punto di avvio della dimostrazione elenchica è il significare qualcosa (σημαινειν τι) da parte dell’avversario e che “questo infatti è necessario, se egli vuol dire qualcosa. Poiché altrimenti costui non fa alcun discorso, né con se stesso, né con gli altri”. E cioè: si afferma, determinando, la validità del principio, se, e solo se, si vuol dire qualcosa. All’interno del “voler dire qualcosa” resta accertata la sua necessità, non oltre. Parimenti, dove si assuma il campo del pratico come elemento dell’accertamento, e si dica che Euclide deve prendere una direzione determinata se vuole andare a Megara, si guadagna la necessità del determinare solo relativamente a tale campo. Lo elenchos in prima figura, per poter accertare l’innegabilità del principio, è costretto a delimitare un campo semantico, che, nel mentre consente quell’accertamento, permette di guadagnare l’innegabilità del principio solo relativamente a tal campo. D’altro canto, se si tiene fermo che coloro che non dicono nulla _ ad esempio, l’afasia di Cratilo eracliteo _ non hanno bisogno di esser confutati, certo, non si limita la validità del principio a un campo (come la struttura dello elenchos impone), ma si rinuncia ad accertare la sua effettiva innegabilità>>.

Se la validità del PDNC è tale <<se, e solo se, si vuol dire qualcosa>> e che perciò è soltanto all’<<interno del “voler dire qualcosa”>> che <<resta accertata la sua necessità, non oltre>>, allora lo stesso deve dirsi per la sua confutazione. Infatti, <<se, e solo se, si vuol dire qualcosa>> è possibile effettuarne il tentativo confutatorio, non tacendo. PDB aggiunge: <<non oltre>>. Ma è possibile un tale <<oltre>> ? Ossia, non sarà forse anch’esso un qualcosa che appare all’interno del <<voler dire qualcosa>> ? Certamente. Che vi sia tale <<oltre>>, può

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esser accertato soltanto se il suo <<significare qualcosa (σημαινειν τι)>> appare; inoltre, che esso escluda di porsi come <<una arbitraria estensione>> del PDNC <<oltre l’ambito dell’apparire>> è nuovamente qualcosa che appare all’interno del <<σημαινειν τι>>, col che, resta esclusa la possibilità di quell’<<oltre>> il quale pretenderebbe di vigere come ambito non accessibile al PDNC, perché anch’esso appare soltanto <<se, e solo se, si vuol dire qualcosa>>. Il <<dire>> che altro è, se non l’apparire, l’affacciarsi cioè nel linguaggio dei significati che costituiscono la trama dell’esistenza ? Certo, è possibile non pronunciare <<alcun discorso, né con se stesso, né con gli altri>>, tuttavia ANCHE tale non-<<dire qualcosa>> è l’apparire di un significare, ossia è il disvelarsi di una determinata configurazione di essenti (= significati), onde per cui ANCHE <<l’afasia di Cratilo eracliteo>> (= che non è, quindi si oppone, alla loquela di <<Cratilo eracliteo>>) non è l’apparire del nihil absolutum, bensì è l’apparire appunto de <<l’afasia di Cratilo eracliteo>>, il quale sì <<non concede nulla, né quanto al dire, né quanto al fare>>, ma così facendo non concede nemmeno il tentativo della confutazione de PDNC: allora, <<si rinuncia ad accertare la sua effettiva innegabilità>> così come la sua negabilità …

In base a ciò, non è possibile asserire che <<Cratilo può essere negatore del principio senza dover necessariamente concedere qualcosa (σημαινειν τι) a colui che lo difende, senza, cioè presentarsi in quel campo che il difensore assume come elemento dell’accertamento (ovvero, vedremo più avanti, non riconoscendo sé in ciò che in quel campo si presenta);lo elenchos in prima figura rileva infatti l’impossibilità di Cratilo a negare, solo quando questi conceda qualcosa. Ma se Cratilo non concede nulla, né quanto al dire, né quanto al fare, ossia se non appare affatto al difensore _ e questi non può affermare che Cratilo non ci sia per il fatto che non gli appare in alcuno di quei campi di accertamento che assume _, non si può dire che quello afferma il principio, senza una arbitraria estensione di questo oltre l’ambito dell’apparire (ambito che lo elenchos stesso deve delimitare come luogo di una concessione determinata)>>; se Cratilo non concede qualcosa, in che senso si può definirlo un <<negatore del principio>> ? Negare significa <<concedere qualcosa>>, ossia concedere (= affermare) appunto la negazione, unitamente al suo <<σημαινειν τι>>. Poiché il negare è un significare, l’affermazione di PDB secondo la quale <<Cratilo può essere negatore del principio senza dover necessariamente concedere qualcosa (σημαινειν τι) a colui che lo difende>> è contraddittoria, in quanto implicherebbe che Cratilo possa negare il principio senza negarlo, ossia senza concedere la negazione, ma questo è palesemente impossibile … Egli, se vuol negare, DEVE <<necessariamente concedere qualcosa>>, altrimenti, non concedendo nulla, non concederà nemmeno la sua negazione, col risultato che non negherà alcunché …

<<Non serve ribattere che il progetto di negazione, per il quale si concede qualcosa di determinato, non implica la delimitazione della validità del principio al campo in cui si fa la concessione, dicendo che questo è solo occasione per attingere la validità universale del principio; perché se lo elenchos fonda solo occasionalmente la innegabilità del principio, non si ha che mera presupposizione della sua universalità, a meno che non si esibisca quella circostanza _ in cui il confutare deve avere valore costitutivo e non occasionale _ per la quale si sa universalmente quella validità, anche se attinta in occasione della dimostrazione ad hominem. Anche da questo livello emerge la necessità di esibire uno elenchos in “altra figura”, in grado di guadagnare la validità trascendentale del principio, senza che questa resti presupposta>>.

Invece qui ribattiamo che questo discorso è fuori luogo, giacché il <<campo in cui si fa la concessione [= C1, n.d.r.]>> è una individuazione del PDNC, la quale non comporta che quel campo C2 di cui si è già detto (= e nel quale vigerebbe la sospensione del principio) riesca costituirsi, essendo contraddittorio. Pertanto, tale individuazione non implica nemmeno che l’élenchos fondi <<solo occasionalmente la innegabilità del principio>>, non solo perché l’individuazione non ha nulla a che vedere con un’occasione fortuita e sporadica, ma anche perché _ molto semplicemente _ non può esservi (= è contraddittorio che vi sia) ambito alcuno (= C2)

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dove il principio venga sospeso o invalidato (cfr. supra, paragrafo 5). Tuttavia, vi è un ulteriore motivo che invalida anche la necessità di un negatore del PDNC che dica qualcosa, in assenza del quale _ secondo PDB _ <<si rinuncia ad accertare la sua effettiva innegabilità>>. Esso consiste nel fatto che se è vero _ com’è vero _ che <<il negatore del principio è essenzialmente la coscienza della negazione>>, allora <<tale coscienza appartiene già alla coscienza del “filosofo”, la quale non ha dunque bisogno di dialogare col negatore del “principio più saldo” per scorgere che la negazione di tale principio è negazione solo se si costituisce come significato determinato […] L’élenchos mantiene la stessa struttura e lo stesso valore, se si intende “il negatore” (ho amphisbētôn, [Aristotele, Metafisica] 1006 a 13) del principio come semplice personificazione della “negazione” che nella coscienza del “filosofo” si oppone a tale principio>> (Emanuele Severino, “Fondamento della contraddizione”, Milano 2005, pag. 71).

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PDB:

<<Ciò che rende difficile il passaggio ad una seconda figura dello elenchos come “accertamento dell’auto-toglimento della negazione” è l’impossibilità di rispondere alla seguente domanda: “cosa è ciò di cui si accerta che comparendo, sempre compare secondo l’opposizione del positivo e del negativo ?”. Lo elenchos non può rispondere, perché deve ammettere che quel ciò è già sottoposto all’opposizione, non potendo pensarlo come non sottoposto ad essa. Di conseguenza, lo elenchos nemmeno può presentarsi come accertante che quanto compare compare sottoposto all’opposizione; esso finisce in una tautologia che dice: “ciò che è sottoposto all’opposizione è sottoposto all’opposizione”; resta appunto impigliato nella prima figura che si limita a ratificare la validità presupposta del principio. La domanda non è arbitraria, poiché è lo stesso elenchos che la suscita nel momento in cui si dichiara accertante; di cosa, dunque ? Con ciò, la seconda figura (come, del resto, la prima) si trova nell’impossibilità di individuare il costituirsi di un progetto (o intenzione) di negazione che consenta l’avvio del procedimento elenctico; infatti, quel progetto è già sottoposto all’opposizione, altrimenti nemmeno potrebbe apparire. Su quale base certe determinazioni vengono considerate progetto di negazione del principio, se non si può concedere che negazione effettiva appaia, nemmeno a livello dell’immaginario ?>>.

Premesso che la prima figura dell’élenchos NON <<si limita a ratificare la validità presupposta del principio>> _ ne abbiamo già mostrato il motivo (cfr. paragrafo 5), pertanto, di questa convinzione qui nuovamente ripetuta da PDB per la terza volta, si deve dire per la terza volta che è falsa _, la presunta <<impossibilità>> di rispondere alla domanda <<cosa è ciò di cui si accerta che comparendo, sempre compare secondo l’opposizione del positivo e del negativo ?>> è soltanto l’apparenza di detta impossibilità, derivante da una (in-) comprensione dell’élenchos viziata ab origine. Di tale domanda, PDB afferma che essa <<non è arbitraria, poiché è lo stesso elenchos che la suscita nel momento in cui si dichiara accertante; di cosa, dunque ?>>. Non è infatti arbitraria: è semplicemente il segnale che non si è inteso l’élenchos. Ma <<accertante; di cosa, dunque ?>>. Quel <<ciò di cui si accerta che comparendo, sempre compare secondo l’opposizione del positivo e del negativo>> è la negazione che nega l’opposizione del positivo e del negativo, quindi se ne accerta l’impossibilità di negare detta opposizione, giacché negandola, nega se stessa in quanto è anch’essa un positivo (= appunto è siffatta negazione) che si oppone al proprio negativo (= l’opposizione del positivo e del negativo). Negando se stessa _ il proprio contenuto _, si accerta che la negazione <<comparendo, sempre compare secondo l’opposizione del positivo e del negativo>>.

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Eppure, secondo PDB <<Lo elenchos non può rispondere, perché deve ammettere che quel ciò è già sottoposto all’opposizione, non potendo pensarlo come non sottoposto ad essa>>. L’élenchos non deve preventivamente <<ammettere>> alcunché: l’accertamento che la negazione dell’opposizione sia negazione di se stessa appare nel momento in cui la negazione nega che il positivo si opponga al negativo; il tentativo della negazione di sottrarsi all’opposizione originaria (negandola), toglie se stessa come negazione, col risultato che essa dice del proprio contenuto: “io non esisto, non riesco ad esistere come estranea/non soggiacente all’opposizione, perché io stessa sono una siffatta opposizione”.

Continua PDB affermando: <<Di conseguenza, lo elenchos nemmeno può presentarsi come accertante che quanto compare compare sottoposto all’opposizione; esso finisce in una tautologia che dice: “ciò che è sottoposto all’opposizione è sottoposto all’opposizione”>>. No, l’élenchos accerta l’insuperabilità dell’opposizione grazie/mediante l’apparire della negazione autonegantesi di tale opposizione, non previamente all’apparire di essa. Infatti, sostenere che l’élenchos <<finisce in una tautologia che dice: “ciò che è sottoposto all’opposizione è sottoposto all’opposizione”>>, significa presupporre l’accertamento aprioristicamente rispetto alla negazione, cioè prescindendone, la quale negazione invece, è essa stessa l’accertamento dell’impossibilità di negare l’opposizione originaria.

Del tutto erroneo è sostenere che <<la seconda figura (come, del resto, la prima) si trova nell’impossibilità di individuare il costituirsi di un progetto (o intenzione) di negazione che consenta l’avvio del procedimento elenctico; infatti, quel progetto è già sottoposto all’opposizione, altrimenti nemmeno potrebbe apparire>>, giacché il <<progetto (o intenzione) di negazione>> è l’incontrovertibile apparire della negazione (= ne stiamo parlando del resto …), la quale costituisce essa stessa sia <<l’avvio del procedimento elenctico>> sia la sua conclusione consistente nella propria autonegazione. Quindi, l’osservazione secondo cui <<quel progetto è già sottoposto all’opposizione>> è il riconoscimento che l’opposizione è appunto originaria, non-scavalcabile, per questo motivo la negazione è parte dell’originario, perché se fosse altro da esso, l’originario resterebbe esposto al sopraggiungere della negazione, in quanto questa non sarebbe sottoposta ad esso. Poiché invece la negazione non riesce a negare l’originario, essa è parte integrante di quello come sua negazione tolta, impossibile.

E dunque, quando ci si domanda <<Su quale base certe determinazioni vengono considerate progetto di negazione del principio, se non si può concedere che negazione effettiva appaia, nemmeno a livello dell’immaginario ?>>, si mostra di non aver colto pienamente il significato globale dell’élenchos nella sua pregnanza. Infatti il <<progetto di negazione del principio>> s’è visto esser la stessa negazione che appare come negazione; tuttavia, che questa appaia non implica che appaia ANCHE la <<negazione effettiva>> di ciò che detta negazione intende negare. Quella <<negazione effettiva>> è ciò che è impossibile che si realizzi, appunto per questo si dice che la negazione dell’opposizione originaria è impossibile, autocontraddittoria, e resta soltanto un’intenzione ...

Il <<progetto di negazione del principio>> appare dunque innegabilmente, altrimenti non potremmo dire di esso esser progetto di negazione. Ciò che non riesce ad esser <<effettiva>> è la negazione dell’opposizione, il suo esser tolta, negata; ma si badi bene, non in quanto così significante (= ché tale è, appunto, il suo significare: esser negazione dell’opposizione) bensì come risultato conseguito, realizzato, effettivo _ nel quale risultato cioè, l’opposizione sarebbe realmente negata (= ossia apparirebbe senza contraddizione la non-verità dell’opposizione del positivo e del negativo) _, appunto perché quella negazione nega se stessa anziché l’opposizione.

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PDB:

<<La seconda figura [= dell’élenchos, n.d.r.], per costituirsi, deve senz’altro scansare questa difficoltà, per porre l’intenzione di negare (= la negazione in actu signato), che, riaffermando il principio in actu exercito, neghi se stessa. Se non si tien ferma l’intenzione di negare, lo actus exercitus non può mai venire fatto valere come autonegarsi della negazione; semmai lo si può far valere solo come affermazione del principio _ si badi nemmeno come riaffermazione _; e se non si dimostra che la negazione si risolve in autonegazione, nemmeno si guadagna il valore trascendentale dell’innegabilità del principio. Si richiede perciò che lo actus exercitus significhi un “io non ci sono” della negazione. Inoltre, l’intenzione di negare deve venire mantenuta, perché è proprio essa ciò di cui si intende accertare la sottoposizione al principio di opposizione: è essa che evita il risolversi dell’accertamento elenctico nella tautologia: “ciò che è sottoposto all’opposizione è sottoposto all’opposizione”. L’autonegarsi della negazione viene allora pensato come un “secondo lato” del contraddirsi, che significa “dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre” [= Emanuele Severino, “La struttura originaria”, 1981, pag. 347]. Secondo Cratilo, anche qui, resta ακαταληπτος [= incomprensibile, imprendibile, n.d.r.]>>.

A leggere frasi come questa: <<Se non si tien ferma l’intenzione di negare, lo actus exercitus non può mai venire fatto valere come autonegarsi della negazione […] e se non si dimostra che la negazione si risolve in autonegazione, nemmeno si guadagna il valore trascendentale dell’innegabilità del principio >> si ha la sensazione di trovarsi innanzi a precisazioni tanto ovvie quanto inutili, giacché è palese che se non vi è negazione, nemmeno vi sarà autonegazione della negazione; e se la negazione non si traducesse in autonegazione, ciò che verrebbe negato non sarebbe appunto innegabile. “Se non infilo il dito nell’acqua bollente, non me lo scotterò; se non si dimostra che il dito nell’acqua bollente si è scottato, <<nemmeno si guadagna>> che l’acqua bollente scotti” …

Comunque, iniziamo prima dal significato che PDB attribuisce all’<<autonegarsi della negazione>> il quale viene <<pensato come un “secondo lato” del contraddirsi, che significa “dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre” [= Emanuele Severino, “La struttura originaria”, 1981, pag. 347]>>. Anche qui, tale significato NON coincide con ciò che PDB vorrebbe che significasse allorché lo pone in rapporto all’affermazione di Severino sopra riportata la quale, nel testo indicato si riferisce alla contraddizione C, cioè la contraddizione dialettica dell’originario, della struttura originaria come contraddizione dialettica. L’<<autonegarsi della negazione>> invece, esprime la “contraddizione normale” (= nichilistica, impossibile). In base a ciò, l’<<autonegarsi della negazione>> NON significa <<“dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre”>>.

Poiché _ afferma Severino _ contraddirsi “significa affermare e negare la stessa cosa: dove l’affermare si realizza come un affermare, e il negare come un negare. Per questo lato, contraddirsi significa tenere insieme l’affermare (che è un affermare) e il negare (che è un negare)” (= Severino, ibidem), o anche “il contraddirsi non è l’identità tra l’affermazione e la negazione esplicita (= posta), ma è il tenerle insieme” (ibidem), allora l’<<autonegarsi della negazione>> è un siffatto “porre e non porre ciò che effettivamente si pone […] Se, pertanto, il contraddirsi fosse un affermare che è esso in quanto tale un negare, cadere in contraddizione significherebbe cadere in nulla […] appunto perché un affermare, che sia esso in quanto tale un negare, non è” (ibidem). Dunque il contraddirsi, inteso in questo modo, “significherebbe non essere” (ivi, pag. 348). Riguardo a questo tipo di contraddizione, a pag. 346 si dice: “Che un contenuto sia insieme posto e non posto, questo è quanto è contraddittorio che si realizzi”. “Se la

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posizione di un contenuto, la quale sia, simpliciter, non posizione di questo stesso contenuto, è ciò che non si realizza _ è ciò che non è […] _ questo nulla è insieme nullità posizionale di tale contenuto” (ibidem).

Invece, “che ciò che di fatto si pone non sia ciò che si intende porre, questo non è contraddittorio che si realizzi” (ibidem), esprime la contraddizione C, secondo la quale, “contraddirsi significa dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre” (ivi, pag.347).

Che PDB _ riferendosi all’<<autonegarsi della negazione>> _ le attribuisca il significato della contraddizione C è gravemente fuorviante, poiché quell’autonegarsi non consiste affatto (= è impossibile che consista) nel <<“dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre”>>. Se così fosse, la contraddittorietà di tale autonegazione verrebbe tolta non autonegandosi _ ossia mostrando la propria auto-contraddittorietà, cioè il suo significare il nulla _, bensì mostrando (= apparendo) in concreto ciò che è posto soltanto formalmente, astrattamente, il quale pertanto <<non è ciò che si intende dire o porre”>> appunto perché è soltanto formalmente detto e posto: in breve, l’autonegazione della negazione reclamerebbe, per il superamento della propria contraddittorietà _ qualora la intendessimo, equivocandola, come contraddizione C _ , l’impossibile apparire, l’impossibile realizzarsi della contraddizione, cioè della contraddizione concretamente esistente !

Purtroppo questo è l’ennesimo pasticcio, il quale, passando inavvertito, influenzerà tutto il prosieguo della critica di PDB trattata nel seguente paragrafo 9, che ora andiamo a considerare.

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Prima però, dobbiamo capire cosa sia la contraddizione C.

S’era anticipato sopra che essa è contraddizione dialettica della struttura originaria. Quest’ultima, “è il senso, la cui negazione è autonegazione. Esso è l’apparire dell’ente e dell’impossibilità che l’ente, come tale, cioè ogni ente, non sia. Cioè il Tutto è eterno, come Tutto e in ogni sua parte […]. Ma l’ente che appare_ l’ente che appare nella (e come) struttura originaria _ è una parte del Tutto” (op. cit., pag. 72). Pertanto l’ente che appare non è la totalità del Tutto, in quanto questo non appare nell’esaustività della propria infinitezza bensì appare in modo finito.

Prosegue Severino, affermando che “la determinazione, cioè il significato ‘Tutto’ (‘il Tutto’, ‘la Totalità dell’ente’) _ il semantema infinito _ è costante di ogni determinazione (cioè di ogni significato) e [… ] ogni determinazione è costante del semantema infinito” (ibidem). “Il Tutto è costante dell’originario, e quindi l’originario può apparire solo se appare il Tutto; e tuttavia il Tutto non appare, si nasconde all’originario, e insieme progressivamente si svela _ proprio perché si svela progressivamente, si nasconde, e viceversa. Il progressivo manifestarsi del Tutto nell’originario è il sopraggiungere, nell’apparire originario, delle costanti dell’originario. […] Come ogni determinazione dell’originario è unita da un legame necessario all’originario, cioè alla totalità concreta dell’originario (e la necessità dell’unione sta in questo, che è l’unione ciò la cui negazione è autonegazione), così l’originario è unito da un legame necessario al Tutto pieno dell’ente. E come l’isolamento di una determinazione dell’originario (dall’originario) implica la contraddizione dialettica [= contraddizione C, n.d.r.], così la contraddizione dialettica è implicata dall’isolamento dell’originario dal Tutto. L’isolamento dell’originario dal Tutto è lo stesso nascondersi del Tutto all’originario, lo stesso non svelarsi totalmente del Tutto nell’originario. La contraddizione (C) dell’originario sta dunque in questo, che poiché l’originario è e significa ciò che esso è e significa, solo nel suo legame col Tutto (questo essere e significare dell’originario viene indicato nel libro col simbolo S), nell’isolamento dell’originario dal Tutto (cioè nel non manifestarsi del Tutto nell’originario) l’originario non è l’originario, S non è S” (ivi, pag. 73).

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L’originario, “è contraddizione non perché affermi di essere altro da sé (e cioè che S è non-S), ma per un altro motivo. Mostrandosi circondato dal Tutto che si nasconde, mostrandosi isolato dal Tutto, l’originario mostra che il proprio esser significante come struttura della necessità è il significato (il significare) di ciò che non è la struttura della Necessità; e non lo è perché tale struttura è e significa ciò che essa è e significa, soltanto nella sua connessione necessaria col Tutto, cioè nell’apparire di questa connessione, nell’apparire del Tutto” (ivi, pag. 74). Pertanto _ continua Severino _, l’originario “è la struttura la cui negazione è autonegazione [= le due formulazioni elenchiche: (1)B: la negazione del determinato è negazione di sé. (2)B: la negazione dell’opposizione è negazione di sé. N.d.r.], perché esso è il toglimento formale della propria contraddizione (ossia non è l’adeguarsi, il rimettersi ad essa); e la negazione dell’originario, in quanto esso è contraddizione, non è autonegazione in quanto essa è il toglimento concreto della contraddizione originaria [= contraddizione C, n.d.r.], cioè in quanto essa nega l’originario non in quanto l’originario è un dire _ non per quello che esso dice _, ma in quanto esso è un non dire, per quello che esso non dice, in quanto cioè esso non dice il Tutto, ma una sua parte, dice il Tutto solo in modo formale; sì che il toglimento della contraddizione [= della contraddizione C, n.d.r.] dell’originario sarebbe lo stesso svelarsi, in esso, del Tutto” (ibidem).

A pag. 346 de “La struttura originaria”, al paragrafo 9.f) intitolato “La contraddizione C”, riguardo ad S, “cioè del significato originario nella sua concretezza” (ivi, pag. 335), ossia S come significato indicante “ ‘totalità dell’essere immediatamente affermato’ ” (significato originario)” (ivi, pag. 283), la cui analisi “per un verso esaurisce o include tutte le determinazioni immediate, e per altro verso include soltanto una parte di queste determinazioni” (ibidem), Severino afferma che: “Dire: ‘Nella posizione di S non implicante la posizione di una o più costanti di S, S è posto di fatto, ma insieme non può esser posto come tale’, significa che ciò che in questa posizione di S si intende porre, non è ciò che effettivamente o realmente si riesce a porre”.

Chiarito ciò, leggiamo quanto PDB scrive:

<<Si può dire che l’intenzione di porre C (= contraddizione) si autonega, ossia non si realizza, se, e solo se, essa ha come suo esito posizionale I (= incontraddittorietà); mentre ammettere come esito posizionale quello che realizzasse l’intenzione di porre C, e che, perciò, da questa possa venire riconosciuto, significherebbe ammettere la contraddizione, ossia proprio la negazione del principio che si vuole difendere. E così il procedimento elenctico di “seconda figura” cade in un diallele. Se l’intenzione di porre C non ha alcun esito posizionale, nemmeno è rilevabile come quell’intenzione che essa è, non essendovi base alcuna per rilevarla; d’altro canto, affinché qualcosa sia assumibile come suo esito posizionale, si deve presupporre il rilevamento di quella. La pretesa di fare di una concessione semantica (“nego l’incontraddittorietà” o “affermo la contraddizione”), come tal sempre sottoposta al p.d.n.c., la base del rilevamento di una intenzione (actus signatus della negazione), non solo si muove nel diallele indicato, ma è comunque nella effettiva impossibilità di rilevare una intenzione di negare il p.d.n.c. Proprio perché l’ipotizzata intenzione di porre C ha sempre I come esito posizionale,non è possibile, partendo da I, rilevare l’intenzione>>.

E’ qui evidente una certa farraginosità nell’articolazione del presunto <<diallele>>, poiché nemmeno in questo caso PDB si premura di esplicitare più di tanto alcuni significati quali ad esempio <<l’intenzione di porre C (= contraddizione)>> e <<ha come suo esito posizionale I (= incontraddittorietà)>>. Comunque sia, il supposto <<diallele>> della seconda figura elenchica, a suo dire scaturirebbe da ciò:

<<Se l’intenzione di porre C non ha alcun esito posizionale, nemmeno è rilevabile come quell’intenzione che essa è, non essendovi base alcuna per rilevarla>>; se con <<l’intenzione di porre C>> PDB intende dire l’intenzione di porre <<l’affermazione della

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contraddizione>> quale risultato raggiunto della negazione, cioè il suo affermarsi, il suo realizzarsi effettivamente e concretamente come contraddizione esistente, allora, il mancato <<esito posizionale>> _ ossia la mancata realizzazione del contenuto della negazione (= l’opposizione negata). _, NON può significare o implicare che quel mancato risultato non sia <<rilevabile>> per ciò che esso è, dal momento che la <<base>> per rilevarlo è lo stesso porsi dell’autonegazione dell’<<esito posizionale>> in cui consiste la negazione dell’opposizione o l’opposizione negata. Che la negazione dell’opposizione non sia conseguibile, non comporta l’irrilevabilità di tale inconseguibilità, tutt’altro !

Diversamente, se cioè con <<l’intenzione di porre C>> intendesse riferirsi alla posizione della sola intenzione di negare l’opposizione (= indipendentemente dall’esito di questa), si risponda in modo analogo, cioè che quell’intenzione di negare è palesemente <<rilevabile>> per ciò che essa è, ossia per il suo stesso porsi come negazione, il suo esserci, il suo apparire come siffatta intenzione.

Del resto, questo caos argomentativo è la diretta conseguenza _ come si diceva _, dell’aver incautamente applicato la dialettica della contraddizione C alla seconda figura elenchica, giacché per PDB l’<<autonegarsi della negazione viene allora pensato come un “secondo lato” del contraddirsi, che significa “dire o porre qualcosa che non è ciò che si intende dire o porre” [= Emanuele Severino, “La struttura originaria”, 1981, pag. 347]>> (= cfr. inizio del presente paragrafo), ed in base a ciò egli non può che considerare la non rilevabilità dell’<<intenzione di porre C>> come se significasse quel che NON <<si intende dire o porre>> allorché si intende porre detta intenzione.

Prosegue PDB; <<d’altro canto, affinché qualcosa sia assumibile come suo esito posizionale, si deve presupporre il rilevamento di quella [= il rilevamento dell’<<intenzione che essa è>>, n.d.r.]>>. Secondo PDB quindi, l’<<esito posizionale>> _ cioè la realizzazione della negazione dell’opposizione, l’opposizione negata _, può esser considerato tale solo presupponendo il rilevamento dell’intenzione, ossia _ nuovamente ed erroneamente _, solo se ciò che si intende <<dire o porre>> è questa volta realmente <<ciò che si intende dire o porre>>.

Dicasi quanto già espresso sopra circa la confusione tra contraddizione C e l’<<autonegarsi della negazione>>.

<<La pretesa di fare di una concessione semantica [= la negazione autonegantesi dell’opposizione, n.d.r.] (“nego l’incontraddittorietà” o “affermo la contraddizione”), come tal sempre sottoposta al p.d.n.c., la base del rilevamento di una intenzione (actus signatus della negazione), non solo si muove nel diallele indicato, ma è comunque nella effettiva impossibilità di rilevare una intenzione di negare il p.d.n.c. Proprio perché l’ipotizzata intenzione di porre C ha sempre I come esito posizionale, non è possibile, partendo da I, rilevare l’intenzione. Risalire dalla realizzazione alla intenzione non è possibile quando la realizzazione è estranea all’intenzione. E deve essere estranea, altrimenti avremmo la realizzazione dell’intenzione e cioè l’affermazione della contraddizione. Il realizzarsi come I dell’intenzione di porre C significa che la realizzazione non si connette all’intenzione, significa che non la soddisfa, significa che le è estrinseca>>.

Anche in questo caso, vedasi quanto già riferito sopra circa la commistione tra contraddizione C e l’<<autonegarsi della negazione>>. Con l’aggiunta che la negazione dell’originario _ cioè de “la struttura la cui negazione è autonegazione” (= Severino, cit., pag. 74) _ non dice <<“nego l’incontraddittorietà” o “affermo la contraddizione”>>, bensì nego (1)A: il determinato, e nego (2)A: l’opposizione del positivo e del negativo. L’affermazione <<“nego l’incontraddittorietà o affermo la contraddizione>> non è pertanto <<una

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concessione semantica>> bensì è ciò che resta escluso proprio dall’autonegazione di detta negazione dell’originario, giacché così autonegantesi, resta esclusa la realizzazione di ciò che la negazione si propone, ossia la negazione di (1)A e di (2)A.

PDB inoltre, sostiene che la NEGAZIONE non può avanzare la PRETESA di esser <<la base del rilevamento di una intenzione (actus signatus della negazione)>> per negare il PDNC; essa si troverebbe perciò <<nella effettiva impossibilità di rilevare una intenzione di negare il p.d.n.c.>>. Allora domandiamo: se la negazione non rileva l’intenzione di negare, che cos’altro mai la rileverà ? L’apparire della negazione è GIA’ (= è incluso ne) l’apparire dell’intenzione di negare. Se tale negazione apparisse senza l’apparir dell’intenzione di negare, non sarebbe apparire della negazione, bensì sarebbe una negazione che non intende negare, una negazione che non nega, una non-negazione, ossia non negherebbe né non-negherebbe. “Nego-il-determinato-e-l’opposizione” _ ossia negare (1)A e (2)A _, è l’apparire di questa negazione (=“Nego-il-determinato-e-l’opposizione”), unitamente all’intenzione di ciò che intende negare, essendo l’intenzione, espressa dal (= “Nego-”).

Pertanto, in base a tutto quanto finora argomentato, non è nemmeno più possibile opinare che: <<Proprio perché l’ipotizzata intenzione di porre C ha sempre I come esito posizionale, non è possibile, partendo da I, rilevare l’intenzione. Risalire dalla realizzazione alla intenzione non è possibile quando la realizzazione è estranea all’intenzione [= in virtù del già menzionato equivoco determinato dall’intromissione indebita _ qui _ della contraddizione C, n.d.r.]. E deve essere estranea, altrimenti avremmo la realizzazione dell’intenzione e cioè l’affermazione della contraddizione [= idem, n.d.r.]. Il realizzarsi come I dell’intenzione di porre C significa che la realizzazione non si connette all’intenzione, significa che non la soddisfa, significa che le è estrinseca [= idem, n.d.r.]. Ma lo elenchos (in entrambe le sue “figure”) su questo fa affermazioni contrastanti (e cade nell’insignificanza), poiché, quando afferma che I non realizza l’intenzione di porre C, sostiene l’estraneità tra intenzione e realizzazione, mentre, quando pretende di risalire dalla realizzazione all’intenzione, sostiene la loro intrinseca connessione, non avvedendosi di assumere I come se fosse realizzazione della intenzione di porre C. [= idem, qui in maniera ancora più eclatante e chiara, col risultato che, a cadere <<nell’insignificanza>>, è tutto il presente discorso di PDB, n.d.r.]>>, in quanto ormai già conosciamo la matrice di questa lunga serie di equivoci ...

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PDB: <<L’impossibilità di rilevare un’intenzione di porre C è dovuta anche a quest’altra aporia. La proposizione “nego l’incontraddittorietà” non è significante perché di fatto l’incontraddittorietà non è negata; tuttavia tale proposizione nemmeno può essere considerata come intenzione di porre C, perché la contraddizione nemmeno si può solo intendere; (“c’è l’unicorno” non è significante, perché non è percepibile l’unicorno. Tuttavia la proposizione “c’è l’unicorno” può valere come intenzione di affermare l’esistenza del mitico animale, perché ciò che è intenzionato è una rappresentazione mentale (dicesi idea) di unicorno. Lo stesso non può dirsi per la contraddizione, la quale non solo non è significante come proposizione, ma nemmeno come intenzione, non essendo possibile alcuna rappresentazione della contraddizione che faccia da oggetto all’intenzione. Poiché dunque non può porsi né rilevarsi una intenzione di porre C, nemmeno è dimostrabile un contraddirsi, inteso come impossibilità di porre ciò che si intende

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porre. E così non è argomentabile l’innegabilità trascendentale del principio, mentre resta provato che la filo-sofia (in quanto soggetta a un sapere alienato non può pervenire a certezze inconcusse (conseguenza della disattesa lezione cartesiana)>>.

[NB = l’apertura di parentesi poi NON richiuse, appartiene al testo originale di PDB].

Premettendo e quindi ricordando nuovamente che la proposizione <<“nego l’incontraddittorietà”>> è un arbitrio ermeneutico che PDB effettua indebitamente nei confronti dell’élenchos _ giacché, ripetiamolo, questo afferma nella prima figura che (1)A: la negazione del determinato, cioè dell’identità/opposizione, è un determinato, cioè una identità/opposizione; nella seconda (2)A: la negazione dell’opposizione è affermazione dell’opposizione; in tal modo la proposizione <<“nego l’incontraddittorietà”>> è certamente inadeguata e non rispecchia il senso delle due figure. L’impossibilità di negare l’originario è ciò che viene certificato proprio dall’autonegazione della negazione, e non da un a-priori che le stia dinanzi prescindendo da detta autonegazione. Se così fosse, la negazione avrebbe già di fronte a sé l’incontraddittorietà come risultato, ed essa sarebbe pertanto inutile, superflua per la certificazione di ciò che sarebbe già certificato nonostante essa. S’è precedentemente mostrato (cfr. supra, seconda parte, par. 2) che la negazione dell’identità/opposizione dell’essente è co-originaria alla stessa identità/opposizione, in quanto l’élenchos ne è una individuazione _ ; avendo dunque premesso ciò, all’affermazione di PDB secondo la quale l’<<impossibilità di rilevare un’intenzione di porre C è dovuta anche a quest’altra aporia. La proposizione “nego l’incontraddittorietà” [= ossia, nella sua formulazione corretta: (1)A: la negazione del determinato, cioè dell’identità/opposizione, è un determinato, cioè una identità/opposizione; nella seconda (2)A: la negazione dell’opposizione è affermazione dell’opposizione, n.d.r.] non è significante perché di fatto l’incontraddittorietà non è negata; tuttavia tale proposizione nemmeno può essere considerata come intenzione di porre C, perché la contraddizione nemmeno si può solo intendere>>, si risponda che essa è completamente fuori carreggiata. Ma ormai sarebbe oltremodo noioso ripetere perché. Comunque, anche assumendo come valida l’inadeguata proposizione <<“nego l’incontraddittorietà”>>, in primo luogo NON è vero che essa <<non è significante perché di fatto l’incontraddittorietà non è negata>>, perché se è vero come è vero che il determinato e l’opposizione non riescono ad esser negati, ciò è dovuto proprio al significare della negazione, altrimenti, se questa fosse non-significante, che senso avrebbe affermare che <<l’incontraddittorietà non è negata>> ? Essa _ l’incontraddittorietà _ può così non esser negata proprio perché la sua tentata negazione HA SENSO, È SIGNIFICANTE; diversamente, NON si potrebbe sensatamente asserire che <<l’incontraddittorietà non è negata>>. Una cosa è l’intenzione di negare o la negazione come intenzione; tutt’altra cosa è la capacità o la possibilità di riuscire a negare. Se voglio andare sulla Luna, non mi si potrà poi far notare che la proposizione “voglio andare sulla Luna” sia non-significante sol <<perché di fatto>> sulla Luna non ci sono potuto andare; tutt’al più si dovrà dire che il viaggio non è stato realizzato. La realizzabilità di qualcosa presuppone la sua significanza. Sembra un discorso talmente ovvio ed elementare che è imbarazzante sovvermarvisi oltre, ma tant’è …

In secondo luogo, è completamente improponibile la seguente dichiarazione, secondo la quale <<tale proposizione nemmeno può essere considerata come intenzione di porre C, perché la contraddizione nemmeno si può solo intendere>>: ah no ? Allora di cosa starebbe parlando PDB, allorché afferma che <<la contraddizione nemmeno si può solo intendere>> ? A cosa si riferisce ? Per poter dire che essa <<nemmeno si può solo intendere>> deve pur avere presente (= intendere) il significato della contraddizione, consistente nel suo significare l’impossibile, l’irrealizzabile, il contraddittorio appunto. Dunque ? Certo, per tornare ancora al famoso ‘cerchio-quadrato’, questo non si può <<intendere>> poiché è contraddittorio e quindi impossibile; ma il significato di CONTRADDITTORIO è intendibile, intendibilissimo, significando appunto l’impossibile (= il predicato negato dal soggetto e viceversa), cioè ciò che<<nemmeno si può solo intendere>>.

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Come spesso gli accade, PDB confonde o non distingue i due aspetti, col risultato di vedere aporie e dialleli laddove non ve n’è traccia alcuna ...

Egli prosegue col seguente esempio; <<(“c’è l’unicorno” non è significante, perché non è percepibile l’unicorno. Tuttavia la proposizione “c’è l’unicorno” può valere come intenzione di affermare l’esistenza del mitico animale, perché ciò che è intenzionato è una rappresentazione mentale (dicesi idea) di unicorno>>.

Non è vero che la proposizione <<“c’è l’unicorno”>> non sia significante, perché quel <<c’è>> _ nel suo significato generale, senza determinarne l’ambito _, è la stessa posizione dell’unicorno, il cui esserci gli conviene in quanto animale ritenuto mitico, di fantasia. In tal senso esso <<c’è>>: non esiste nel modo in cui altri animali esistono ‘in rerum natura’, ma non per questo quell’affermazione è insignificante; al limite sarà sbagliata, e l’errore non è insignificante, poiché intende significare la contraddizione derivante dal porre l’inesistente come esistente (= e viceversa), è cioè il positivo significare del nulla. Tuttavia precisa che <<la proposizione “c’è l’unicorno” può valere come intenzione di affermare l’esistenza del mitico animale>>: benissimo, ma allora non è insignificante.

Continua perciò PDB:

<<Lo stesso non può dirsi per la contraddizione, la quale non solo non è significante come proposizione, ma nemmeno come intenzione, non essendo possibile alcuna rappresentazione della contraddizione che faccia da oggetto all’intenzione. Poiché dunque non può porsi né rilevarsi una intenzione di porre C, nemmeno è dimostrabile un contraddirsi, inteso come impossibilità di porre ciò che si intende porre. E così non è argomentabile l’innegabilità trascendentale del principio>>.

Anche qui, equivoco completo. La contraddizione è significante, cioè significa (= dice) l’impossibilità del suo contenuto, cioè del contraddittorio. Se l’impossibile, il contraddittorio, non fosse dicibile (= non significasse) la propria impossibilità, non potremmo semplicemente avere nozione dell’impossibile. Affinché si possa parlare dell’impossibile, è necessario che questi appaia nel suo significare come tale, cioè nel suo significare ciò che non può essere perché è contraddittorio che sia. “Il cerchio è quadrato” è affermazione significante, è un positivo significare, giacché “cerchio”, “è” e “quadrato” sono significanti. Poiché il predicato nega il soggetto, il contenuto di tale espressione è impossibile. Ma non è impossibile il suo significare come impossibile, infatti quella proposizione appare, si mostra, ma non può mostrarsi la realizzazione del suo contenuto.

Secondo PDB, non è <<possibile alcuna rappresentazione della contraddizione che faccia da oggetto all’intenzione>>. Eppure, dicendo ciò, sta rappresentando la contraddizione, ossia ne sta parlando, ne presuppone la conoscenza del significato, cioè il termine <<contraddizione>> ha un significato conosciuto, altrimenti di cosa starebbe parlando allorché scrive <<contraddizione>> ? Certo, di essa non è possibile alcuna rappresentazione>> _ nel senso che non è possibile rappresentare come sia un “cerchio-quadrato” _ , appunto perché la <<contraddizione>> significa ciò che (= il cui contenuto) non è rappresentabile, non è realizzabile, è impossibile. Parlare (= scrivere) di/sulla contraddizione presuppone l’apparire del significato di questa, altrimenti PDB di cosa starebbe parlando (= scrivendo) ?

Egli confonde pertanto il significare della contraddizione col suo contenuto impossibile, contraddittorio, come se fossero la medesima cosa ...

Prosegue affermando che <<nemmeno è dimostrabile un contraddirsi, inteso come impossibilità di porre ciò che si intende porre>>. Osservazione, questa, derivante dal riemergere di quella confusione tra contraddizione normale e contraddizione C di cui abbiamo riferito sopra, nei paragrafi 8 e 9. L’autonegazione in cui incappa la negazione dell’originario (= mostrata dalle figure dell’élenchos (1)B: la negazione del determinato è negazione di sé; (2)B: la negazione dell’opposizione è negazione di sé), non è _ ricordiamolo _ l’<<impossibilità di porre ciò che si intende porre>>, perché la negazione dell’originario PONE (= è la posizione

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di) ciò che intende porre (= ossia intende porre la negazione dell’opposizione/identità, cioè pone se stessa come negazione), essendo invece, l’<<impossibilità>> di cui parla PDB quella concernente la contraddizione C, la quale scaturisce _ posta una determinazione x, la cui costante, cioè il cui predicato necessario è y, l’apparire di questa determinazione è implicato dall’apparire di x appunto perché ne è costante, è una parte necessaria del significato di x _, allorché appare x senza che appaia ciò che ne è parte integrante (y), allora x “è posto di fatto, ma insieme non può esser posto come tale” (Severino, op. cit., pag.283), questo comporta “che ciò che in questa posizione di [x] si intende porre, non è ciò che effettivamente o realmente si riesce a porre”. In tal caso, x è soltanto formalmente posta, non concretamente, e il toglimento di questa contraddizione _ appunto C _, è costituito dall’APPARIRE (= dal sopraggiungere) di y, onde così x sia concretamente posto. Tutto ciò non accade con le due figure dell’élenchos più volte mostrate, poiché l’esser sé dell’essente (= del determinato, di una determinazione) è una costante sintattica, la quale APPARE SEMPRE, il cui (= impossibile) non apparire sarebbe l’apparire (= impossibile) di niente, ossia il non apparire simpliciter, il niente dell’apparire, il nihil absolutum …

Purtroppo PDB ha imbastito su questa grave commistione di significati tutto un argomentare che a volte rasenta l’incomprensibilità, proprio perché ha sovrapposto dei piani diversi che sono e dovevano rimanere distinti, e da tale confusione originaria ne è derivata un’articolazione critica per alcuni aspetti alquanto contorta.

Infine, aggiunge che <<resta provato che la filo-sofia (in quanto soggetta a un sapere alienato non può pervenire a certezze inconcusse (conseguenza della disattesa lezione cartesiana)>>.

Si deve porre un’altra domanda a PDB: questa sua affermazione è una <<certezza inconcussa>> oppure è opinabile ? Se <<la filo-sofia [è …] soggetta a un sapere alienato>>, ciò che egli ha scritto da quale punto di vista è espresso ? Da quello filosofico ? Se sì, allora <<resta provato>> che ANCHE la sua osservazione è frutto di <<un sapere alienato>>, e come tale non può pretendere di <<pervenire a certezze inconcusse>> _ come invece vorrebbe essere pervenuta _, e questo ci dà il diritto di non prenderla sul serio. Altrimenti, da dove ? … A lui il compito di definire un ambito di certezze inconcusse e non alienate, sempre che voglia conferire un valore cogente a quanto ha scritto. Qualora si rispondesse che tale ambito non esiste, nuovamente saremmo autorizzati a non prendere sul serio la sua dichiarazione, col che, NON resta affatto <<provato che la filo-sofia […] non può pervenire a certezze inconcusse>>.

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Continuiamo.

<<E qui, non solo si deve svincolare Cratilo dallo actus exercitus, non riconoscendosi in esso, ma nemmeno lo si può relegare nella sfera dello actus signatus. Il motivo per cui lo actus exercitus deve significare un “io non ci sono” (= io, che ci sono in quanto io, non ci sono), ossia la contraddizione, trova fondamento nella duplice impossibilità di significare: 1) un esser posta tout-court della negazione, che ammetterebbe la negazione in atto del principio di opposizione; 2) una semplice soppressione della negazione (il mero nulla), che non servirebbe ad argomentare l’innegabilità trascendentale del principio. Di qui, sulla scorta di tale esigenza di fondazione, trova origine una quanto mai improbabile differenza tra il nulla e la contraddizione. (Per un esempio di tale differenza: E. Severino, La struttura originaria, […] pp. 213-214). Di più: dovendo lo actus exercitus significare

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la contraddizione senza risolversi in contraddizione esso stesso, si è costretti a porre la differenza _ altra caduta dalla filosofia alla retorica _ tra pensiero della contraddizione e contraddizione del pensare. (Cfr. E. Severino, Ritornare a Parmenide, p. 56)>>.

Sarà bene precisare che l’<<actus exercitus >> dice sì: “Io non ci sono” (= Emanuele Severino, “Volontà, destino, linguaggio”. Torino 2010, pag. 86), ma “io non ci sono” è il significato dell’autonegazione del contenuto (= impossibile, irrealizzabile) della negazione (= la quale c’è, esiste), poiché tale negazione, negando l’opposizione originaria (= e per poterla negare deve essere negazione, quindi esistere), nega il proprio contenuto, il proprio significato (= che perciò non si può realizzare), è come se dicesse “io” _ come contenuto _ non ci sono”, ossia “non mi realizzo”. Non essendoci la realizzazione di quel contenuto, è tale contenuto a non esistere, non la negazione in sé, perché l’autonegazione è autonegazione di quel contenuto del quale la negazione è portavoce. Si deve tener distinto il significare della negazione (= la quale _ ripetiamo_ c’è, esiste) dal suo contenuto contraddittorio (= che non può esistere), proprio perché si auto-toglie.

Detto ciò, <<Il motivo per cui lo actus exercitus deve significare un “io non ci sono”>>, cioè l’autonegazione, si baserebbe _ secondo PDB _, sull’impossibilità che 1) l’autonegazione cui esso significa possa esser posta <<tout-court>>, perché ciò significherebbe la concretizzazione, la realizzazione concreta ed effettiva della negazione dell’opposizione originaria; sull’impossibilità 2) che essa significhi <<il mero nulla>>, poiché ciò non riuscirebbe <<ad argomentare [???] l’innegabilità trascendentale>> del PDNC.

Inoltre, dall’esigenza di fondare detto principio, nascerebbe _ da parte di Severino _, <<una quanto mai improbabile differenza tra il nulla e la contraddizione>>; pertanto, si sarebbe così <<costretti a porre la differenza _ altra caduta dalla filosofia alla retorica _ tra pensiero della contraddizione e contraddizione del pensare>>.

Quanto al punto 1), l’autonegazione della negazione dell’opposizione che si attua in actu exercito è l’impossibile attuarsi del contenuto della negazione, la quale _ ricordiamolo_ dice: “La negazione [(1)B] del determinato in actu signato, è negazione di sé in actu exercito. La negazione [(2)B] dell’opposizione in actu signato, è negazione di sé in actu exercito”.

Pertanto l’autonegazione, la negazione di sé in actu exercito _ contrariamente a quanto asserito da PDB _ è certamente il porre LA NULLITÀ del contenuto (= dell’intento negatorio) di ciò che la negazione nega in actu signato, perché se così non fosse, l’actus exercitus non sarebbe negazione di sé, toglimento di quel contenuto (= di quell’intento). Che tale contenuto sia NULLA, ossia non si realizzi, non significa che sia nulla la negazione dell’opposizione in quanto tale. Questa appare, altrimenti non vi sarebbe alcuna negazione, ed appare significante come negazione. Quel che non appare, è la realtà del suo contenuto, il quale è, appunto, NULLA, negazione di sé. Pertanto tale autonegazione NON ammette <<la negazione in atto del principio di opposizione>>, poiché ciò che viene negato è un significato autocontraddittorio, un significato nullo, inattuabile.

Quanto a 2), che cioè l’autonegazione non possa significare _ secondo PDB _ <<una semplice soppressione della negazione (il mero nulla), che non servirebbe ad argomentare l’innegabilità trascendentale del principio>> è affermazione un po’ criptica: se con <<negazione>> si intende quella effettuata in actu signato, cioè la negazione dell’opposizione universale, si risponda che tale negazione (= che è un essente, non scordiamolo), non si sopprime come tale (= è e rimane negazione), bensì si sopprime _ è <<mero nulla>> _ il contenuto del suo significare, e si sopprime (= è già da sempre soppresso) perché è contenuto contraddittorio, quindi originariamente NULLA, ossia non perviene mai a costituirsi effettualmente. Che questo porre <<il mero nulla>> di ciò che è appunto originariamente NULLA non serva <<ad argomentare l’innegabilità trascendentale del principio>> è affermazione completamente gratuita _ tra l’altro non se ne vede il nesso _ , giacché ritenere che la sua innegabilità resti soltanto <<circoscritta all’esperienza, a tutto ciò che è interno alla coscienza, o, in altre parole>> soltanto alle <<cose (πραγματα)>> (= cfr. supra, paragrafo 3 della prima parte e par. 1 della seconda), è affermazione contraddittoria, impossibile (= cfr.

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supra, par. 5, seconda parte), poiché quell’altro supposto ambito nel quale non vigerebbe il detto principio, per costituirsi come tale, ossia come un altro ambito, deve opporsi a ciò in cui il PDNC vige (= altrimenti, se NON gli si opponesse, sarebbe a questo identico e il principio opererebbe anche in esso), ed insieme deve NON opporvisi per poter esser contraddittorio (= perché se gli si opponesse, allora in esso non opererebbe la sospensione del PDNC). Insomma, esso è un’impossibilità completa ed assoluta, cosicché resta ulteriormente ed inconfutabilmente confermata <<l’innegabilità trascendentale del principio>> …

Per quanto concerne la presunta <<quanto mai improbabile differenza tra il nulla e la contraddizione>>, anche qui rileviamo analoga sovrapposizione di piani i quali avrebbero dovuto rimanere distinti. Si è già visto _ a proposito della contraddizione C (cfr. supra, i paragrafi 8 e 9) _ come PDB incappi spesso nella mancata distinzione dei diversi. Tra l’altro non motiva in alcun modo il perché della supposta improbabilità di tale differenza. La <<contraddizione>> è ciò che si dice riguardo ad un contenuto contraddittorio. Se tra l’affermazione contraddittoria (= che dice appunto la contraddizione, ad esempio “il cerchio è quadrato”) e il nulla (= ossia il contenuto contraddittorio, nullo) non vi fosse alcuna differenza, semplicemente non avremmo il dire la contraddizione, il suo significare, e quindi non avremmo alcuna nozione di cosa significhi “contraddizione” né “contraddittorio”, a maggior ragione non avremmo (= non apparirebbero) nemmeno i relativi concetti. Non solo: ma non distinguendosi più dal positivo significare (= l’asserto contraddittorio), il nulla sarebbe essente, cioè il non-essente sarebbe essente, la contraddizione sarebbe reale, effettiva, concreta.

Ma questi significati appaiono, non sono dei nulla; ad esser nulla, è il contenuto dell’affermazione contraddittoria, il NULLA appunto (cfr. supra, par. 10).

Infine, a proposito dell’affermazione secondo la quale <<dovendo lo actus exercitus significare la contraddizione senza risolversi in contraddizione esso stesso, si è costretti a porre la differenza _ altra caduta dalla filosofia alla retorica _ tra pensiero della contraddizione e contraddizione del pensare>>, si risponda che l’<<actus exercitus>> NON si risolve <<in contraddizione esso stesso>> appunto perché _ come appena detto _, l’affermazione dell’autocontraddittorietà è distinta dal contenuto autocontraddittorio. Da ciò segue come NON vi sia costrizione alcuna nel dover <<porre la differenza […] tra pensiero della contraddizione e contraddizione del pensare>>, giacché tale differenza è intrinseca ai significati posti; il primo _ il <<pensiero della contraddizione>> _, significa la forma con/attraverso la quale il contraddittorio è detto: “Il cerchi quadrato” è appunto il <<pensiero della contraddizione>>.

Invece, la <<contraddizione del pensare>>, significa il contraddittorio come detto, come contenuto del <<pensiero della contraddizione>>. Il primo indica il contenuto inesistente, contraddittorio appunto; il secondo esiste, appare, è il positivo significare mediante cui si dice il contraddittorio.

Provi PDB a prescindere da questa differenza, e vedrà quale incomprensibilità ne deriva, naturalmente, unitamente all’onere di argomentare la presunta <<caduta dalla filosofia alla retorica>> da parte di Severino …

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PDB: <<Se si vuole allora guadagnare, con lo elenchos in seconda figura, l’innegabilità trascendentale dell’opposizione di positivo e negativo, si deve ipotizzare l’apparire della contraddizione (detta “autonegazione”), e se questa non è posta, nemmeno può dirsi posta l’innegabilità trascendentale del principio:

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semmai la si può solo presupporre (ma, con pari diritto, se ne può presupporre la negabilità)>>.

Che l’autonegazione appaia non è un’ipotesi, cioè qualcosa che appunto <<si deve ipotizzare>>: curiosissima convinzione questa, giacché l’apparire dell’autonegazione è incontrovertibilmente ed inevitabilmente attestato allorché appare la negazione dell’opposizione originaria. Se “io” _ che sono un determinato _, nego l’esistenza del determinato (= élenchos [(1)A]), nego me stesso [(1)B] perché anch’io sono un determinato, quindi, per poter esser me stesso (= cioè la negazione del determinato), devo presupporre il determinato, ossia presuppongo me stesso come determinato. Questa NON è un’ipotesi, bensì un’incontrovertibile ed innegabile attestazione.

Ugualmente, allorché “io” nego l’opposizione [(2)A], nego me stesso [(2)B] in quanto sono opposto a ciò che nego e quindi lo presuppongo, senza la quale opposizione non potrei esser quell’opposto che sono, cioè la sua (= impossibile) negazione.

Se l’apparire dell’<<autonegazione>> fosse il risultato di un’ipotesi, l’ipotesi è per definizione ciò che ammette una o più alternative: bene, allora PDB è invitato a sostituire l’ipotizzato apparire dell’autonegazione _ derivante dalla negazione dell’opposizione _, con qualsiasi altra possibilità, ferma rimanendo la negazione dell’opposizione. Sarebbe oltremodo interessante vedere in che modo si possa negare l’opposizione senza incappare in autocontraddizione …

Pertanto, poiché l’autonegazione è posta incontrovertibilmente, contro le intenzioni di PDB, <<può dirsi posta l’innegabilità trascendentale del principio>> …

Proseguendo, afferma che: <<Già nell’ammettere l’intenzione di negare (la negazione in actu signato) si ipotizza (con discorso insignificante) la contraddizione>>.

Apriamo una piccola parentesi su questa strana osservazione, per di più autocontraddittoria.

PDB afferma _ cioè tien fermo _ che <<nell’ammettere l’intenzione di negare […] si ipotizza (con discorso insignificante) la contraddizione>>, quindi, negherà necessariamente che ipotizzare <<la contraddizione>> sia un discorso SIGNIFICANTE, altrimenti avrebbe scritto il contrario di ciò che ha scritto. Bene, poiché NEGA tale SIGNIFICANZA, anche la sua convinzione testé espressa _ in quanto appunto ammette ed è essa stessa una <<intenzione di negare>> l’opzione contraria e per far ciò <<ipotizza […] la contraddizione>> _, sarà un <<discorso insignificante>>, perché negando, escludendo la possibilità di tener fermo il suo giudizio unitamente a quello ad esso contrario, intende evitare di cadere nella contraddizione. Evitare la contraddizione comporta che la si ipotizzi <<con discorso insignificante>> e poiché PDB la ipotizza per poterla evitare, daccapo, ecco che sotto questo aspetto, anche il suo è un <<discorso insignificante>> …

PDB sceglie dunque, è costretto a scegliere tra le due opposte convinzioni , giacché tutte e due non potrebbero stare insieme, pena la contraddizione. Siccome per lui ipotizzare la contraddizione è però un <<discorso insignificante>>, allora dovrebbe parimenti non aver alcun problema nel tenerle ENTRAMBE ferme _ la sua e quella opposta _ dal momento che la contraddizione in cui consiste la loro compresenza sarebbe _ a suo dire _ l’esito dell’insignificanza cui consisterebbe quel <<discorso>>, perciò un qualcosa da ignorare, a cui non dare nessun peso (= appunto perché insignificante). Tuttavia, se ciò che conduce ad ipotizzare la contraddizione fosse _ sempre a suo dire _ non-significante, il fatto che abbia scelto una tesi anziché quella opposta sta inequivocabilmente a testimoniare che egli abbia inteso evitare la contraddizione consistente nel ritenerle parimenti e tale scelta attesta che_ contrariamente alla sua dichiarazione _ l’ipotizzare la contraddizione sia un discorso SIGNIFICANTE, altrimenti perché l’avrebbe evitata a tutti i costi ?

Perciò: se PDB ritiene che ipotizzare la contraddizione sia un discorso insignificante, non avrebbe dovuto evitarla bensì avrebbe dovuto ammettere entrambe le tesi opposte.

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Poiché l’ha evitata scegliendone una sola, allora suo malgrado conferma che ciò che conduce alla contraddizione è un discorso SIGNIFICANTE (= giacché non ha consentito che la propria tesi fosse equivalente/stesse insieme a quella contraria, cioè non ha consentito alla contraddittorietà), altrimenti_ si ribadisca _ non l’avrebbe evitata …

Pertanto, se realmente intenderà onorare tale supposta non-significanza, dovrà senza difficoltà veruna ammettere la propria tesi unitamente alla sua antitesi, allo stesso tempo e con pari valore.

Ma, al di là delle parole, come s’è visto, PDB non ha proceduto così, com’era ovvio che fosse. Come dicevamo, egli HA SCELTO una delle due possibilità. Sceglierle entrambe avrebbe comportato la smentita della propria convinzione, ma così operando, ha certificato la significanza del dover evitare la contraddizione, dunque, ha certificato che il discorso conducente alla stessa sia pienamente significante (cfr. supra, par. 10).

Chiusa parentesi, riprendiamo daccapo il discorso di PDB, il quale sostiene che:

<<Già nell’ammettere l’intenzione di negare (la negazione in actu signato) si ipotizza (con discorso insignificante) la contraddizione. Lo actus exercitus, infatti, deve costituire l’affermazione dell’opposto di ciò che si intende porre, perciò, con esso, l’incontraddittorietà trova nella contraddittorietà progettata il suo opposto, che deve venir mantenuto nella stessa misura in cui lo actus exercitus deve mantenere lo actus signatus, per valere come tale, proprio mentre vuole valere come risultato dell’innegabilità. Se, volendo scansare tutto questo, si ponesse che lo actus signatus, come mera intenzione di negare il principio, non costituisca un campo in cui il principio viene realmente violato, bensì costituisca solo un campo dell’immaginario, allora anche immaginario e non reale sarebbe lo actus exercitus nel suo valere tanto come autonegazione della negazione, quanto come riaffermazione di ciò che si vuole negare, e sarebbe, infine, immaginaria anche la dichiarata innegabilità del principio. Altrettanto accadrebbe quando si volesse porre la realtà solo semantica della negazione in actu signato: solo semantica sarebbe l’autonegazione della negazione e solo semantica sarebbe l’innegabilità del principio. Se si ribatte che la realtà semantica di quella è già lo actus exercitus, in quanto “sia come unità semantica sia come singoli termini che si contraddicono, costituisce una determinatezza” (ivi ([= Severino, n.d.r.], pp. 47-48), allora, non potendosi esibire la negazione in actu signato, nemmeno si potrebbe assumere con diritto una determinatezza quale actus exercitus, ossia quale autonegazione della negazione, e resterebbe, infine, infondata la dichiarazione di innegabilità del principio stesso. Non si può dire che il discorso del negatore, volendo negare ciò in virtù di cui esso stesso sussiste, nega se stesso; piuttosto si dovrebbe dire: negherebbe se stesso solo se veramente potesse negare. Dicendo infatti “nega se stesso”, il difensore della innegabilità del principio ipotizzando l’autonegazione del negatore, e cioè, la contraddizione, fa un discorso insignificante (solo retorico). Ma, se dice “negherebbe se stesso se veramente potesse negare il principio”, allora rinuncia a fondare l’innegabilità del principio, proprio perché non può concedere che vi sia reale autonegazione della negazione (= contraddizione), e l’innegabilità del principio _ si concede _ consiste in ciò: che la sua negazione si risolve in autonegazione. Quando si dice, perciò, che la negazione del principio è solo “presunta”, funzionalmente richiesta ad accertare la validità del principio, anche si dice che la validità trascendentale del principio (che dovrebbe consistere nella “sua capacità di distruggere la propria negazione”), è solo presunta e funzionale. Senonché, la prima figura dello elenchos (che è quella aristotelica), rinunciando ad accertare la validità del principio oltre il campo in cui si concede qualcosa (semainein ti), rinuncia al suo valore trascendentale; per contro, la seconda figura (cosiddetta neoparmenidea), proprio per salvare la validità trascendentale, è costretta ad ipotizzare (con valore solo retorico) un apparire della autonegazione,

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cioè della contraddizione e dunque, l’apparire di un campo in cui si compirebbe la negazione del principio>>.

Cosa significa <<ammettere>>, nell’affermazione <<ammettere l’intenzione di negare>> ? Forse, che tale <<negare>> sia qualcosa di non necessario, una concessione gratuita che avrebbe anche potuto non esserci come <<intenzione>> e che la si potrebbe disconoscere come tale ?

Tutti i possibili significati (= tutti gli essenti) appartengono all’originario, appaiono come contenuti di esso, così come vi appartiene l’apparire della negazione dell’originario e della differenza tra la sua affermazione e la sua negazione, tra la verità e la non-verità e tale differenza appare attualmente _ ne stiamo parlando _; essa è parte di tutti i possibili significati che entrano ed escono dall’apparire. La stessa proposizione: <<Già nell’ammettere l’intenzione di negare (la negazione in actu signato) si ipotizza (con discorso insignificante) la contraddizione>> appare, e con/in essa appare anche il significato di <<negazione>>, così come vi appare la differenza tra la significanza della menzionata proposizione stessa e l’<<insignificante>>: con questo, cosa vogliamo far notare ? Intendiamo sottoporre all’attenzione che significati come l’<<ammettere l’intenzione>> e il <<si ipotizza>> _ i quali implicano aspetti o situazioni (= essenti) evitabili, occasionali, che avrebbero potuto non esserci, quindi estraniabili dal discorso sull’originario quale apparire attuale dell’impossibile negazione di tutto ciò che appare, in quanto ciò che appare è innegabilmente ed immediatamente noto per sé _, applicati all’originario così inteso, sono la negazione di se stessi, giacché il loro relegare nella mera possibilità l’apparire della negazione (= che è un essente) e quindi l’apparire della differenza tra la negazione e l’affermazione dell’essente (= che è un essente), comporta la riaffermazione (= appunto l’apparire) INEVITABILE di quei medesimi significati che si volevano relegare nell’occasionale o nel non-necessario. Lo stesso PDB, per effettuare la sua critica (= negazione) di Severino, ha dovuto presupporre detta negazione come ciò che inevitabilmente appare allorché ci si contrappone ad un’altra tesi, giacché contrapporsi significa negare un determinato volume di tesi.

All’eventuale obiezione secondo la quale avrebbe potuto benissimo non contrapporsi alle tesi severiniane né ad alcunché d’altro, si rilevi che l’evitare di contrapporsi è l’apparire della negazione di volersi contrapporre …

Detto ciò: <<Altrettanto accadrebbe quando si volesse porre la realtà solo semantica della negazione in actu signato: solo semantica sarebbe l’autonegazione della negazione e solo semantica sarebbe l’innegabilità del principio. Se si ribatte che la realtà semantica di quella è già lo actus exercitus, in quanto “sia come unità semantica sia come singoli termini che si contraddicono, costituisce una determinatezza” (ivi ([= Severino, n.d.r.], pp. 47-48), allora, non potendosi esibire la negazione in actu signato, nemmeno si potrebbe assumere con diritto una determinatezza quale actus exercitus, ossia quale autonegazione della negazione, e resterebbe, infine, infondata la dichiarazione di innegabilità del principio stesso>>.

Ennesima curiosissima osservazione: <<Altrettanto accadrebbe quando si volesse porre la realtà solo semantica della negazione in actu signato>>.

Porre <<la realtà solo semantica della negazione>> implicherebbe quell’altra possibilità consistente nel porre una realtà che NON sia <<solo semantica>>. Allora domandiamo: quale sarebbe questa realtà NON <<solo semantica della negazione >> ? Come sarebbe costituita tale negazione ?

Forse si intende una negazione concreta, oggettuale, concernente le “cose” che ci circondano nell’esperienza di tutti i giorni ? No, impossibile sostenere ciò, giacché qualsivoglia “cosa” che nell’esperienza quotidiana si voglia negare (= o affermare), sarà anch’essa inevitabilmente una

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negazione <<semantica>>, giacché dire che “questo tavolo non è (= è diverso da) questo computer”, significa rimanere all’interno dei significati, in quanto “questo”, “tavolo”, “non è” e “computer” sono appunto significati, semantemi che è vano tentare di scavalcare, illudendosi di raggiungerne la concretezza extra-semantica supposta reale (= o più reale), illudendosi di prescindere dall’aver a che fare con dei significati.

Perciò ? … Nell’impossibilità di offrire una qualche ragionevole configurazione a tale rilievo critico di PDB, non resta che passare oltre.

<<Non si può dire che il discorso del negatore, volendo negare ciò in virtù di cui esso stesso sussiste, nega se stesso; piuttosto si dovrebbe dire: negherebbe se stesso solo se veramente potesse negare. Dicendo infatti “nega se stesso”, il difensore della innegabilità del principio ipotizzando l’autonegazione del negatore, e cioè, la contraddizione, fa un discorso insignificante (solo retorico)>>.

Nemmeno questa volta ci viene spiegato in cosa consisterebbe il <<discorso insignificante (solo retorico)>> del <<difensore della innegabilità del principio>>, il tutto aggravato dalla convinzione arbitraria che il negatore <<negherebbe se stesso solo se veramente potesse negare>>. Il negatore può sì negare (= la negazione è un siffatto negare), ma in questo caso (= la negazione dell’opposizione) può solamente (auto) negare se stesso, proprio perché tentare di negare l’opposizione ha come risultato soltanto quello di negare se stesso. Negare che il cerchio sia quadrato significa che l’esser quadrato da parte del cerchio è negato, è nulla, dunque tale negazione riesce a togliere che il cerchio sia quadrato, è cioè negazione che riesce a negare, ossia a mostrare che quel predicato di quel soggetto è originariamente nulla, ché, in caso contrario, saremmo nell’impossibilità di formulare qualsiasi giudizio apofantico, in quanto non sussisterebbe più la possibilità della negazione simpliciter, dunque nemmeno della critica che PDB rivolge al PDNC, con la differenza che le sue negazioni, tentando di negare l’innegabile, riescono soltanto a negare il contenuto delle proprie negazioni. La negazione riesce a negare ciò che è negabile (= ciò che è negabile è originariamente nulla), certamente, ma non può negare l’innegabile, giacché ciò si traduce nella negazione della propria negazione.

<<Ma, se dice “negherebbe se stesso se veramente potesse negare il principio”, allora rinuncia a fondare l’innegabilità del principio, proprio perché non può concedere che vi sia reale autonegazione della negazione (= contraddizione), e l’innegabilità del principio _ si concede _ consiste in ciò: che la sua negazione si risolve in autonegazione>>.

Proprio perché NON riesce a <<negare il principio>>, il negatore riesce a negare solo se stesso, e proprio perché riesce a negare solo se stesso, viene confermata <<l’innegabilità del principio>>, giacché tale innegabilità è l’impossibilità di esser negato, ma non perché la negazione (= genericamente intesa) non riesca a negare tout court, bensì perché LA negazione specifica in cui consiste LA negazione DELL’opposizione non riesce a negare l’opposizione ma ha come esito soltanto la negazione del negatore (= del contenuto, dell’intento della negazione dell’opposizione).

In base a ciò, è del tutto gratuita l’affermazione che non <<vi sia reale autonegazione della negazione>>, perché è proprio l’autonegazione ad esser negazione reale di sé, in quanto non riesce ad esser reale la negazione dell’opposizione.

Essendo così innegabile, <<l’innegabilità del principio>> non è pertanto qualcosa che <<si concede>>: concludere in tal modo significa non avvedersi che l’autonegazione è necessaria, inevitabile, non una concessione che potrebbe anche venir ritirata ...

Proseguiamo.

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<<Quando si dice, perciò, che la negazione del principio è solo “presunta”, funzionalmente richiesta ad accertare la validità del principio, anche si dice che la validità trascendentale del principio (che dovrebbe consistere nella “sua capacità di distruggere la propria negazione”), è solo presunta e funzionale. Senonché, la prima figura dello elenchos (che è quella aristotelica), rinunciando ad accertare la validità del principio oltre il campo in cui si concede qualcosa (semainein ti), rinuncia al suo valore trascendentale; per contro, la seconda figura (cosiddetta neoparmenidea), proprio per salvare la validità trascendentale, è costretta ad ipotizzare (con valore solo retorico) un apparire della autonegazione, cioè della contraddizione e dunque, l’apparire di un campo in cui si compirebbe la negazione del principio>>.

Purtroppo, <<che la negazione del principio [sia] solo “presunta”>> è una fede che in nessun modo è riuscita a render ragione di sé, lo si è già visto in lungo ed in largo.

Del tutto fuori strada è inoltre la convinzione secondo la quale <<la prima figura dello elenchos (che è quella aristotelica), rinunciando ad accertare la validità del principio oltre il campo in cui si concede qualcosa (semainein ti), rinuncia al suo valore trascendentale>>. Infatti, essa non ha rinunciato e non rinuncia ad alcunché.

Altrettanto arbitraria l’osservazione che <<la seconda figura (cosiddetta neoparmenidea), proprio per salvare la validità trascendentale, è costretta ad ipotizzare (con valore solo retorico) un apparire della autonegazione>>, giacché è apparso evidente ed innegabile che l’<<apparire della autonegazione>> non è il risultato di un << ipotizzare>> né tantomeno <<con valore solo retorico>> _ ché, se così fosse, potremmo agevolmente ipotizzare un altro esito _ ; è il senso della necessità che PDB si lascia sfuggire costantemente impedendosi con ciò di scorgere come l’autonegazione della negazione dell’opposizione originaria sia individuazione o momento dell’innegabilità di detta opposizione. Scambiare una ipotesi con una necessità ci pare un equivoco piuttosto grave …

Avviamoci verso la conclusione dell’articolo di PDB.

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A proposito di quanto segue, PDB avverte che:

<<Perché lo schema sia intelligibile, dopo aver letto il punto “1”, si leggano i punti “2” e “3”. Poi “A”, e subito dopo “B”, etc.>>.

Precisato ciò, andiamo a leggere i punti.

<<1) Se si pone l’innegabilità del principio, si è costretti ad ammettere almeno un campo (dell’intenzionale o del progettuale) in cui quello è negato, e, con esso, non si può mantenere l’universalità del principio.

A) Se un tale campo è reale, il principio è negato, almeno in quel campo.

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a) Se ci si limita a rilevare che la negazione tentata dell’opposizione riafferma l’opposizione, non si pone l’innegabilità trascendentale di questa, ma solo si ratifica il suo dominio nell’ambito in cui è (ri-) affermata.

b) Se, invece, posto il risolversi della negazione in autonegazione, si tiene fermo l’apparire di questa, daccapo, si ripropone un campo in cui l’opposizione è negata (apparendo appunto la contraddizione), proprio mentre è posta la condizione per accertare l’innegabilità del principio.

c) Se l’autonegazione non appare, nemmeno può apparire l’innegabilità trascendentale del principio (e solo si presuppone che esso sia innegabile).

B) Se, invece, un tal campo non è reale, allora, non potendosi realmente parlare di riaffermazione del principio né di autonegazione della negazione, nemmeno è reale l’innegabilità del principio.

a) Se si pone quel campo come immaginario (o fantastico), altrettanto immaginari saranno sia la riaffermazione del principio in actu exercito, sia l’autonegazione della negazione, e, dunque, immaginaria sarà l’innegabilità del principio.

b) Se il campo dello actus signatus ha consistenza solo semantica (= se esso c’è solo in quanto se ne parla), altrettanto solo semantica sarà la riaffermazione del principio (actus exercitus), così come l’autonegazione della negazione; e l’innegabilità del principio resta non più che semantema>>.

<<2) Se, invece, si ammette la sua universalità, anche si ammette la negazione del campo della progettualità, che non si distingue più dallo actus exercitus, essendo sottoposto come questo all’opposizione. E se si può argomentare l’innegabilità del principio solo dalla irrealizzabilità di quest’intenzione (che intanto deve venir posta), tolta questa, non resta che presupporre l’universalità del principio, che è un ratificare la sua presupposta universalità presso ogni determinatezza di fatto comparente>>.

<<3) Se lo elenchos come “accertamento del valore dell’originario è un momento dell’originario” (ivi [= Severino], p.53), allora dell’originario non v’è accertamento (si ricade in “2”), e si presuppone soltanto che sia originario ciò che si ritiene tale. Se, invece, lo elenchos, affinché dell’originario possa esservi accertamento, non si riduce a momento di questo, allora, essendogli estraneo, non è in grado di accertare l’originario, con la conseguenza che: o invalida se stesso, ovvero presume di essere originario; ma, con ciò, si ricade nel primo corno, venendo meno la possibilità che dell’originario possa esservi accertamento; all’infinito>>.

Dunque, è chiaro che il problema cruciale del PDNC si configura _ secondo PDB _ nel rapporto tra 1) l’innegabilità e 2) l’ universalità.

Iniziamo dal punto <<1) Se si pone l’innegabilità del principio, si è costretti ad ammettere almeno un campo (dell’intenzionale o del progettuale) in cui quello è negato, e, con esso, non si può mantenere l’universalità del principio>>.

Primo: <<l’innegabilità del principio>> non è qualcosa che si <<pone>> _ quasi fosse una decisione stabilita a priori quindi una concessione non necessaria, ipotetica, revocabile _ , bensì è essa stessa l’impossibilità della propria negazione in quanto questa, anziché negare il PDNC nega il proprio contenuto.

Secondo: che si sia <<costretti ad ammettere almeno un campo (dell’intenzionale o del progettuale) in cui quello è negato>> è affermazione completamente gratuita, sia perché non è dato scorgere il motivo cogente che costringa a ciò, sia perché, come s’è ampiamente visto (= cfr.

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supra, seconda parte, par. 5 ss.) non può esistere alcun campo _ <<dell’intenzionale o del progettuale>> _ in cui il PDNC venga negato, anzi, è innegabile l’opposto: l’esistenza di tale ambito è contraddittoria, ossia tale ambito non può esistere.

Terzo: detto ciò, assume tutta la sua arbitrarietà la convinzione che non si possa <<mantenere l’universalità del principio>>.

………………….

<<A) Se un tale campo è reale, il principio è negato, almeno in quel campo>>.

Tale campo non solo non è reale _ appunto perché contraddittorio _, ma la sua posizione conferma l’ineludibilità del PDNC.

………………….

<<a) Se ci si limita a rilevare che la negazione tentata dell’opposizione riafferma l’opposizione, non si pone l’innegabilità trascendentale di questa, ma solo si ratifica il suo dominio nell’ambito in cui è (ri-) affermata>>.

Dicasi quanto appena detto al punto 1), ricordando nuovamente che tale supposto campo C2 è appunto soltanto supposto da colui che afferma il solo valore parziale del principio (= tra i quali lo stesso PDB), in quanto non riesce a costituirsi perché contraddittorio. Pertanto, non vi è campo in cui il PDNC non riaffermi se stesso.

………………

<<b) Se, invece, posto il risolversi della negazione in autonegazione, si tiene fermo l’apparire di questa, daccapo, si ripropone un campo in cui l’opposizione è negata (apparendo appunto la contraddizione), proprio mentre è posta la condizione per accertare l’innegabilità del principio>>.

L’apparire dell’autonegazione non è un <<campo in cui l’opposizione è negata (apparendo appunto la contraddizione)>>, all’opposto: apparendo l’autocontraddittorietà della negazione dell’opposizione, questa rimane innegabile, altrimenti la sua negazione non sarebbe autocontraddittoria. Poiché è autocontraddittoria (= giacché nega se stessa), l’opposizione NON è negata. PDB ritiene incredibilmente che l’apparire della contraddizione significhi riproporre <<un campo in cui l’opposizione è negata>>, mentre invece significa esattamente il contrario, dal momento che la negazione dell’opposizione può apparire soltanto se appare l’opposizione da negare !!! Se tale opposizione non apparisse come ciò che va negato, non potrebbe nemmeno apparire la sua negazione. Poiché nega l’opposizione, questa è presupposta dalla negazione (= se intende esser, come è, negazione DELL’opposizione), pertanto l’apparire della contraddizione PRESUPPONE l’opposizione _ appunto perché si ha contraddizione allorché si intende tener ferma la tesi E l’antitesi _, ossia daccapo, l’opposizione !

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………………

<<c) Se l’autonegazione non appare, nemmeno può apparire l’innegabilità trascendentale del principio (e solo si presuppone che esso sia innegabile)>>.

Poiché l’autonegazione appare incontrovertibilmente, ecco che appare incontrovertibilmente <<l’innegabilità trascendentale del principio>>.

………………

<<B) Se, invece, un tal campo non è reale, allora, non potendosi realmente parlare di riaffermazione del principio né di autonegazione della negazione, nemmeno è reale l’innegabilità del principio>>.

L’irrealtà di <<tal campo>> significa la sua contraddittorietà, ossia C2 non può esistere ! Ma anche qui, incredibilmente PDB trae le conclusioni opposte a quella che dovrebbe trarre, affermando che allora <<nemmeno è reale l’innegabilità del principio>> !

Quel campo è irreale, cioè contraddittorio, proprio in virtù dell’innegabilità del PDNC, non a prescindere da esso ! Allorché il sostenitore della validità parziale del principio ritiene di individuare in C2 l’ambito nel quale esso non sarebbe più valido, si inganna, perché individua un campo impossibile, contraddittorio, ed è così contraddittorio grazie al PDNC, il quale si riafferma anche laddove il suo sostenitore parziale avrebbe voluto estrometterlo.

…………………

<<a) Se si pone quel campo come immaginario (o fantastico), altrettanto immaginari saranno sia la riaffermazione del principio in actu exercito, sia l’autonegazione della negazione, e, dunque, immaginaria sarà l’innegabilità del principio>>.

Che dire ? Ennesima incredibile affermazione. Infatti qui non c’entra nulla l’<<immaginario>> o il <<fantastico>>, poiché la contraddizione non è meno vera se è immaginaria né è più vera se creduta reale: ciò che è contraddittorio, impossibile, lo è in qualsiasi mondo, poiché è impossibile realizzarlo in qualunque campo si voglia immaginarlo, se non appunto come NEGATO. Il contenuto della contraddizione esiste solo come negato, cioè come impossibile, pertanto non ha nessun senso affermarlo presente in un <<campo […] immaginario (o fantastico)>> piuttosto che <<reale>>, essendo quest’ultimo ciò che non è contraddittorio (= la contraddizione è sì anch’essa reale, ma _ si ripeta _ non il suo contenuto contraddittorio, che in quanto tale è presente nella contraddizione come negato).

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<<b) Se il campo dello actus signatus ha consistenza solo semantica (= se esso c’è solo in quanto se ne parla), altrettanto solo semantica sarà la riaffermazione del principio (actus exercitus), così come l’autonegazione della negazione; e l’innegabilità del principio resta non più che semantema>>.

Per questo aspetto, si veda il paragrafo 12.

Qui si ricordi che se <<consistenza solo semantica>> significa <<c’è solo in quanto se ne parla>>, allora, come detto anche nel paragrafo 6): se la validità del PDNC è tale <<se, e solo se, si vuol dire qualcosa>> e che perciò è soltanto all’<<interno del “voler dire qualcosa”>> che <<resta accertata la sua necessità, non oltre>>, allora ugualmente deve dirsi per la sua confutazione. Infatti, se il principio <<c’è solo in quanto se ne parla>>, allora si può tentare di confutarlo soltanto se esso <<c’è solo in quanto se ne parla>>, non certo tacendo.

Non solo. Ricordiamo nuovamente un'altra ragione che toglie il bisogno di tale <<consistenza solo semantica>>; essa è costituita dal fatto che “il negatore del principio è essenzialmente la coscienza della negazione”, pertanto “tale coscienza appartiene già alla coscienza del ‘filosofo’, la quale non ha dunque bisogno di dialogare col negatore del ‘principio più saldo’ per scorgere che la negazione di tale principio è negazione solo se si costituisce come significato determinato […] L’élenchos mantiene la stessa struttura e lo stesso valore, se si intende ‘il negatore’ (ho amphisbētôn, [Aristotele, Metafisica] 1006 a 13) del principio come semplice personificazione della ‘negazione’ che nella coscienza del ‘filosofo’ si oppone a tale principio” (Emanuele Severino, “Fondamento della contraddizione”, Milano 2005, pag. 71).

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<<2) Se, invece, si ammette la sua universalità, anche si ammette la negazione del campo della progettualità, che non si distingue più dallo actus exercitus, essendo sottoposto come questo all’opposizione. E se si può argomentare l’innegabilità del principio solo dalla irrealizzabilità di quest’intenzione (che intanto deve venir posta), tolta questa, non resta che presupporre l’universalità del principio, che è un ratificare la sua presupposta universalità presso ogni determinatezza di fatto comparente>>.

Il presente punto 2) concerne l’universalità del PDNC, la quale _ secondo PDB _, dovrebbe costituire l’alternativa all’innegabilità, esposta nel già summenzionato punto 1), in quanto se si realizza l’una (= l’universalità) non si realizzerebbe l’altra (= l’innegabilità) e viceversa.

Ricordiamo il punto 1): <<1) Se si pone l’innegabilità del principio, si è costretti ad ammettere almeno un campo (dell’intenzionale o del progettuale) in cui quello è negato, e, con esso, non si può mantenere l’universalità del principio>>.

Facile osservare come lo stesso PDB non riesca a costituire l’alternativa tra il punto 1) e 2), giacché _ che si ponga l’innegabilità oppure (= aut) l’universalità del principio _, egli afferma che ad

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andarci di mezzo è sempre il medesimo <<campo (dell’intenzionale o del progettuale)>> (= nel punto 1), ed il <<campo della progettualità>> (= nel punto 2).

Ora, poiché PDB ritiene che l’ammissibilità del punto 1) escluda il 2) o viceversa, ciò comporterebbe allora che almeno in uno dei due punti il <<campo (dell’intenzionale o del progettuale)>> non ne debba fare le spese, cioè sia accettabile ed ammissibile, altrimenti non avremmo la possibilità dell’alternativa, nella quale detto <<campo>> sia invece invalido e quindi non avrebbe avuto senso neanche proporla. Ma così non procedendo, PDB invalida (= crede di invalidare) ambedue i punti e quindi non pone reale alternativa. Si potrebbe replicare che non vi fosse alcuna intenzione di offrire un’alternativa, cioè un ‘aut-aut’ tra i due punti. Ma allora che senso ha sostenere che l’accertamento dell’innegabilità comporta la rinuncia all’universalità, e l’accertamento dell’universalità l’esclusione dell’innegabilità ? Infatti afferma che <<la prima figura dello elenchos (che è quella aristotelica), rinunciando ad accertare la validità del principio oltre il campo in cui si concede qualcosa (semainein ti), rinuncia al suo valore trascendentale>> e che <<la seconda figura (cosiddetta neoparmenidea), proprio per salvare la validità trascendentale, è costretta ad ipotizzare (con valore solo retorico) un apparire della autonegazione>> …

Inoltre, scendendo maggiormente nel dettaglio, domandiamo: che cos’è <<quest’intenzione>> della quale PDB sostiene la sua <<irrealizzabilità>> ? A leggere le sue parole, sembrerebbe esser l’<<intenzione>> (= la <<progettualità>>) di negare l’opposizione del positivo e del negativo, mentre la sua <<irrealizzabilità>> sembrerebbe l’impossibilità che tale <<intenzione>> (= si badi bene: PDB dice l’<<intenzione>>, non il suo contenuto !) si attui, sebbene _ prosegue _ essa debba <<venir posta>> (= infatti tale intenzione appare, cioè è <<posta>>). Tuttavia, <<tolta questa>> intenzione _ continua PDB _, <<l’universalità del principio>> sarebbe soltanto <<presupposta universalità>>; ma _ (a parte il fatto che se si toglie l’intenzione, si toglie la possibilità di mostrare anche la negabilità del principio, cosicché di esso non si potrà affermare né l’innegabilità/universalità né la negazione di ciò. Ora, è la negazione che intende effettuare (= esser) la negabilità dell’opposizione, pertanto essa, se e poiché intende negare, deve necessariamente porsi come siffatta negazione ed esser originariamente inscritta, inclusa nell’originario) _, osserviamo che PDB sembra trattare l’<<irrealizzabilità di quest’intenzione>> di negare come se fosse la stessa cosa dell’<<irrealizzabilità>> del contenuto di quell’intenzione; la prima <<irrealizzabilità>> tale non è, infatti non solo è perfettamente realizzabile, ma appare innegabilmente realizzata come intenzione di negare, giacché appunto è, appare come negazione _, la seconda <<irrealizzabilità>> è invece realmente tale, in quanto il suo contenuto (= la negazione dell’opposizione) nega se stesso perché è un contenuto che a sua volta si oppone a ciò che intende negare.

Pertanto, laddove PDB _ circa l’irrealizzabilità dell’intenzione _, scrive <<tolta questa, non resta che presupporre l’universalità del principio, che è un ratificare la sua presupposta universalità >>, non si avvede che ad esser realmente <<tolta>> è soltanto la realizzabilità del contenuto della negazione, non l’intenzione di negare, giacché questa non è toglibile, poiché appare ed appare originariamente ed unitamente al contenuto originario in cui consiste l’opposizione del positivo e del negativo. Dunque, si deve concludere che <<si può argomentare l’innegabilità del principio solo dalla irrealizzabilità>> del contenuto <<di quest’intenzione>> di negare, la cui <<irrealizzabilità>> è _ come ormai stiamo dicendo da parecchie pagine _, auto-negazione, negazione di sé o, che è lo stesso, la cui auto-negazione è esattamente l’<<irrealizzabilità>> di quel contenuto …

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Arriviamo così all’ultimo punto.

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<<3) Se lo elenchos come “accertamento del valore dell’originario è un momento dell’originario” (ivi [= Severino, “Essenza del nichilismo”], p.53), allora dell’originario non v’è accertamento (si ricade in “2”), e si presuppone soltanto che sia originario ciò che si ritiene tale>>.

S’è appena visto che il punto 2) è del tutto inconsistente. Pare che PDB non colga il senso delle parole di Severino, che pure riporta: l’ “accertamento del valore dell’originario è un momento dell’originario”. Inseriamole ora nel contesto dal quale sono state tratte.

Scrive Severino: “l’opposizione è la verità originaria, immediata, tale cioè che non si appoggia su alcun’altra verità; se l’accertamento del valore dell’opposizione non appartenesse all’opposizione stessa, se non fosse incluso nella sua stessa area semantica, accadrebbe che il motivo per il quale si tien fermo l’originario sarebbe altro dall’originario, e quindi l’originario non sarebbe tale, ma derivato”.

Il che è ciò che esattamente capita a PDB allorché asserisce quanto scritto al punto 3) e che abbiamo anticipato poco sopra dicendo che la negazione dell’opposizione è originariamente inscritta, inclusa cioè nell’originario.

Perciò Severino prosegue dicendo: “L’accertamento del valore dell’originario è un momento dell’originario. E avviene appunto così: l’organismo apofantico, in cui consiste l’ έλεγχος, è una individuazione dell’opposizione universale; la quale si costituisce come verità originaria solo in quanto sia posta come attualmente inclusiva di quella sua individuazione. Se l’universale e questa sua individuazione vengono astrattamente separati, allora l’universale si trova privo di questa individuazione, sì che essa sopraggiunge come un che d’altro rispetto all’universale così posto; e quindi si verifica quell’impensabile situazione, in cui l’originario (l’universale non attualmente includente quella individuazione) trova in qualcosa d’altro (l’individuazione sopraggiungente) il motivo del suo esser tenuto fermo, e quindi si pone come un derivato. L’originario è la cooriginarietà dell’opposizione universale e di questa sua individuazione” (= cfr. supra, parte seconda, paragrafo 2).

PDB aggiunge:

<<Se, invece, lo elenchos, affinché dell’originario possa esservi accertamento, non si riduce a momento di questo, allora, essendogli estraneo, non è in grado di accertare l’originario, con la conseguenza che: o invalida se stesso, ovvero presume di essere originario; ma, con ciò, si ricade nel primo corno, venendo meno la possibilità che dell’originario possa esservi accertamento; all’infinito>>.

Inutile ripetersi ulteriormente. Si rileggano attentamente le precedenti parole di Severino.

…………………………..

Al termine del suo articolo, PDB conclude così:

<<Il tentativo di fondazione elenctica di un principio universale e innegabile si imbatte nello stesso tipo di difficoltà di chi volesse costruire un triangolo con due

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angoli retti. E’ questa la conseguenza della pretesa di un accertamento immediato del vero>>.

Ancora una volta, volendo mostrare l’impossibilità della <<fondazione elenctica di un principio universale e innegabile>>, PDB ottiene il risultato contrario, ossia riesce a riconfermarlo innegabilmente ed universalmente.

E’ facile capire perché. Se è impossibile fondarlo, ciò significherà che esso sarà privo di stabilità e potrà esser negato senza troppi sforzi. Quindi, dovrà essere ben possibile <<costruire un triangolo con due angoli retti>>: un momento però; perché PDB sostiene esservi <<difficoltà>> nel volere <<costruire un triangolo con due angoli retti>> ? Forse perché è contraddittorio, e il contraddittorio non è realizzabile ? E perché è contraddittorio ? Forse perché l’identità con sé cui consiste un triangolo è diversa, cioè non è quell’altro da sé (= opposizione del positivo e del negativo) in cui consiste l’unità di due angoli retti ? E dunque, quella <<difficoltà>> non sarà tale proprio in virtù di quel principio circa il quale egli dichiara la sua impossibilità <<di fondazione>> ? Risposta esatta !

Voler <<costruire un triangolo con due angoli retti>> è la stessa cosa che voler “costruire un cerchio quadrato”, ossia è volere realizzata la contraddizione ‘simpliciter’. Riconoscendo l’impossibilità di un triangolo che abbia due angoli retti, PDB riconosce immediatamente il valore innegabile del PDNC, in quanto l’angolo retto è identico a sé e diverso da quell’altro da sé che è l’angolo acuto; pertanto l’angolo retto è un determinato (= un positivo) che si oppone al proprio negativo, l’angolo acuto; questo a sua volta è un positivo che si oppone al proprio negativo, l’angolo retto ...

………………….

Siamo così giunti alla fine di questo lungo percorso; nel paragrafo 3 della prima parte abbiamo riportato il proposito _ da parte di PDB _ di effettuare una <<invalidazione>> del PDNC, non una <<“negazione”, perché il p.d.n.c. è innegabile>>; a questo punto sorgerebbe un’altra domanda, che però non approfondiremo, ossia: se il principio è <<innegabile>>, in che senso allora lo si può invalidare ? Se è possibile invalidarlo, allora qualche volta sarà anche negabile, perlomeno nel momento in cui è invalidato, giacché non-valido implica non-indiscutibile, cioè si può scuotere, abbattere, negare, quindi non sarà <<innegabile>> ‘tout-court’. Qualora invece fosse <<innegabile>> ‘tout-court’, allora non potrà esser invalidato nemmeno ‘partialiter’. PDB ha creduto che accertare l’innegabilità del principio a scapito della trascendentalità, o accertare la trascendentalità a spese dell’innegabilità significasse operarne una <<sua invalidazione>>, infatti: <<Non riconoscere il principio di non contraddizione come principium firmissimum omnium significa invalidare le sue premesse ontologiche, ossia negare la sua validità per l’intero del reale>> (cfr. prima parte, par. 1).

Tuttavia quel <<Non riconoscere il principio di non contraddizione come principium firmissimum omnium>> può soltanto esser frutto di un’intenzione, di una volontà di non riconoscerlo, poiché s’è determinatamente evidenziato come i due aspetti _ innegabilità e trascendentalità _ siano inscindibili, l’uno accompagna sempre l’altro, giacché la negazione realizzata del principio non riesce a costituirsi in nessun ambito dell’esistente (= quindi in nessun campo C2. Cfr. par. 5) e non potendo così attuarsi, la trascendentalità dello stesso è tutt’uno con la sua innegabilità.

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Sempre nella prima parte, par. 2, si diceva che se le critiche di PDB “dovessero effettivamente confutare l’élenchos, allora il suo discorso (= qualsiasi discorso) fin qui svolto perderebbe paradossalmente ogni intelligibilità e valore, anziché venir confermato”, ed il perché è ormai evidente: il senso di tutto ciò che ha scritto nel suo articolo, lo ha potuto esplicitare unicamente presupponendo la validità del PDNC, giacché il testo di PDB non esprime il contrario di ciò che ha voluto esprimere. Se le sue obiezioni avessero avuto un peso ed un valore determinante e definitivo, allora i significati per mezzo dei quali egli ha tentato di confutare Severino si sarebbero potuti tradurre nel loro contrario e quindi nella confutazione dei propri significati o intenti critici, in quanto sarebbe venuta meno quella determinatezza di senso in cui consiste appunto la sua critica. Invece, è grazie al PDNC che egli ha potuto esternare tutta quella serie di precisi e determinati convincimenti che si era proposto di comunicare allorché ha cominciato a redigere la sua fallita <<confutazione di Severino>> …

<<E’ questa la conseguenza della pretesa>> del tentar di invalidare il PDNC …

Roberto Fiaschi

http://emanueleseverinorisposteaisuoicritici.blogspot.it/2012/10/2-paolo-de-bernardi-elenchos.html

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