Aura Christi, La sfera del freddo. Dall’inferno, con amore...

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Aura Christi, La sfera del freddo. Dall’inferno, con amore trad. dal romeno di Maria Floarea Pop Milano, Rediviva Edizioni («Phoenix»), 2015, 212 p. ISBN: 978-88-97908-26-5 [ed. orig., Sfera frigului. Poeme. Din infern, cu dragoste Bucuresti, Contemporanul, 2011] © 2015 Rediviva Edizioni, Milano sito web: www.redivivaedizioni.com inizio del libro: pp. 15-19, 168-172.

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Aura Christi, La sfera del freddo. Dall’inferno, con amore

trad. dal romeno di Maria Floarea Pop Milano, Rediviva Edizioni («Phoenix»), 2015, 212 p. ISBN: 978-88-97908-26-5

[ed. orig., Sfera frigului. Poeme. Din infern, cu dragoste

Bucuresti, Contemporanul, 2011] © 2015 Rediviva Edizioni, Milano

sito web: www.redivivaedizioni.com inizio del libro: pp. 15-19, 168-172.

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Aura Christi

La sfera del freddoDall’inferno, con amore

Poesie

Prosa autobiografica, saggi, ritratti

Traduzione dal romeno diMaria Floarea Pop

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Libro tradotto e pubblicato con il contributodell’Istituto Culturale Romeno di Bucarest

AURA CHRISTILa sfera del freddo. Dall’inferno, con amore

Traduzione:Maria Floarea Pop

Titolo originale:Sfera frigului. Poeme

Din infern, cu dragoste

© 2011 Editura Contemporanul, Bucureşti

Immagine copertina:Hieronymus Bosch, Ecce homo

1475-1480, olio su tela, 50x52 cmPhiladelphia, Museum of Art

Impaginazione:Gabriel Popescu

Editing e correzione bozze:Davide ArrigoniFrancesco Corsi

© 2015 Rediviva Edizioni, Milanowww.redivivaedizioni.com

Prima edizione: aprile 2015

Finito di stampare nel mese di aprile 2015 pressoUNIVERSAL BOOK SRL, Rende (CS), 2015

ISBN: 978-88-97908-26-5

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ai loro prediletti, proprio tutto,

J. W. Goethe1

“Vicino

Ma dov’è il pericolo, cresceanche ciò che salva.Nella tenebra hanno dimorale aquile e senza tema scavalcano

su leggerissimi ponti.Perciò, poiché intorno si ammassano,i culmini dei tempi, e chi più si amavive vicino, esausto sumonti separatissimi,allora da’, acqua innocente,dacci ali per partire e ritornarepiù fedeli al senso”. Friedrich Hölderlin, Patmos2

1 trad. di Vito Di Chio, in Id., Bisogno di maestri, Roma, Armando, 2010, p. 108.2 F. Hölderlin, “Patmos. Al langravio di Homburg (prima stesura)”, in Id., Poesie scelte, traduzione e cura di Susanna Mati, Milano, Fel -trinelli, 2010, p. 205, vv. 1-15.

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O Infinito…

Tra cenere e canto ti raccoglisull’orlo dei labirinti saggiamente liberatida un invisibile imbuto– giorno dopo giorno – dallo stesso Straniero,di cui non conosci né il nome,né l’odore, né il colore degli occhi,né il volto e – oh – neppure le cadute.Avverti solo la sua forza oscurasempre più spesso.Non è angelo, né arcangelo.Oh, non è neppure uomo!Sa di antica musicaselvaggia, udita nel sonnospecie di notte.

Non ha confini. (Lo chiami: o Infinito).Se ne avesse avuti,sarebbe parso quasi erba oppure sarebbe stato proprio l’erba degli dèi fin dal principio.Per gli astri assonnati – forse – l’avresti scambiatoOppure per i fulmini che segnanoGli abissi neri irreprensibili…

Neppur parenti ha. Ve ne fossero stati,si sarebbe identificato con l’aquilaoppure con i suoi affini, portando nelle viscerela brama di volare sulle vettelà dove si coglie l’eterno.Però no. Avvitato ècon precisione ineffabile Au

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tra mondi, tra pianeti,tra regni, tra ere.

Non somiglia a nessuno.Non è nato da donna. Né madresofferenza, vita gli diede; ha per controtanta forza vitale da tenerci tutti in vita.Lo accompagna Lino, che per tempo fu preso da [Caronte.Ma non solo dalla morte giunge.Colto non è dall’ariadell’orizzonte, pur nutrendosi a voltedel veleno delle lontananzee il miele bianco dei grandi successiincontenibile lo riversa loro dinanzi.Non somiglia a nulla. Assolutamente.Un tempo si destava forse negli alberiin cui io la sera – alcune volte- spesse volte – tramonto,come se partissi per inimmaginabili imperi attici,per placare nelle tenebre senza traccia la mia sete.Potremmo essere stati un tempo a caccia di leoni [insieme. Sì.Ma d’averne cacciato mai uno – non ho ricordo. Eppure, lo conosco, lo conosco, mi dico.Non può essere altrimenti.Tutto di lui, a me medesimacon violenza porta, strappandomidai luccicanti piccoli cerchi del mondo verso i magmatici muri dell’anima.

… Vicinanze che la vitale morte spronano– senza-di-cui-non-si-può – accrescono la solitudine e la brama di vitaAura

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così come vorticose,s’increspano le sorgenti indotte da una forzaverso le profondità del fiume maternoirrorate d’amoree del più atroce odio…

Piantato tra l’eccesso di vitae l’eccesso di morte – siedi; segui i saltimbanchi, il re, il mendicante,e la tua ombra, solo alla fine,a poco a poco, sparisce.Poi – il grande meriggio, come una fortezza mai vista, svettante, tornita, alta. Vertiginosamente pura.Sotto il suo sole nero tu spii, finché lo straniero– sì, lui, l’Infinito – col tuo petto respira, respira,respira. E con i suoi occhi vedi…E tutto cresce, si gonfia, si gonfia.Sferraglia, sferraglia, sferraglia qualcosa d’indistintole cose attorno, in una linguache vagamente rammenti.Per questo forse la sua comparsagenera terrore; e qualcosa di piùd’indefinito. Altrimenti non lo attenderesti,le sue assenze gettandotinelle fauci di paure più grandi. E se fosse il tempo la sua maschera?E se – messo in disparteCon un magistrale gesto deciso – il tempoSvelasse dell’infinito l’essenza di mitica origine?!Chi è costui e da dove vienesenza farsi annunciare almeno una volta?Au

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In sua attesa serenamente sconvolta, ti rigiri tra lamento, canti neri,cadute, inchini, sperpero e viva cenere,pregando che per una volta a te si possa rivelareda alberi, cenere, musica,da quell’imbuto mai visto,sorretto dal grande nessuno,e dal quale ti sorseggia, luiche in vita – nel profondo sonno – ti fa tardare.

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DALL’INFERNO, CON AMORE

Prosa autobiografica, saggi, ritratti

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I sinonimi del freddo

Ogni volta che mi tornano in mente le grandi capitali visitate nel passato, in modo del tutto strano e inverosimi-le, il filo conduttore metaforico che persiste a lungo nel-la mia mente è quello del freddo, seguito dalla bellezza. Ammetto tuttavia la forzatura di limitare le cose a un’u-nica dimensione, rispettivamente del freddo e, poi, della bellezza.

Eppure...Che tipo di affinità potrebbe esserci tra il devastante

freddo e la bellezza, tra il freddo e il sublime, tra la so-lennità e la grandezza? Questi paradigmi staranno forse in una relazione di strana corrispondenza, oppure in una sinonimia impercettibile all’occhio eccessivamente fret-toloso, che preferisce scivolare sulla superficie delle cose come facevano gli antichi greci, superficiali – secondo il creatore del superuomo – per eccellenza? Sarà che la bel-lezza in un primo momento respinge, tiene le distanze, sconforta, esige rispetto?

Il principe Myškin medita con reale e allo stesso tem-po simulata goffaggine sulla tanto usata ed eccessiva af-fermazione – «la bellezza salverà il mondo» – e a un certo punto afferma che la bellezza è qualcosa di profondamen-te complicato. Nato dalla costola del sublime, il principe scivola spesso sulla pista dei dubbi; proprio lui che è capa-ce di vedere nelle cose e nelle persone, proprio lui che nel fagotto delle domande esistenziali possiede non poche risposte ed è in grado di trovare con celerità soluzioni ai problemi ultimi. Questa creatura fuori dal comune, su-blimata dalle qualità di origine messianica, non è ancora

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preparata a parlare della bellezza. Lev Myškin si prende carico di questa mancanza senza batter ciglio, anzi resta in riflessione per ammettere poi che si tratta di un con-cetto oltremodo complicato. Nonostante le esitazioni di un individuo che ha la stoffa di un possibile superuomo, il principe non esita a corteggiare Nastas’ja Filippovna, prototipo di una bellezza che dominerà il mondo, perché cresciuta alla scuola della grande sofferenza. Perlomeno questa è l’emozionante constatazione a cui giunge il finto idiota dopo aver scrutato il suo ritratto nello studio del generale Epančin.

Circa due decenni fa, arrivata a Parigi, rimasi abba-gliata dallo spettacolo di luci così forti che mi crearono il vuoto nello stomaco e mi fecero venir freddo. Per quanto tentassi di sfuggire al freddo nei giorni, nelle settimane e nei mesi successivi – ed è risaputo che la capitale della luce e dello spleen baudelairiano offre non poche tenta-zioni e pretesti per l’esaltazione dell’anima e degli occhi – vi riuscivo a malapena; qualunque tentativo di ingannare il freddo, quasi sempre, falliva.

Mosca la ricordo sommersa da una neve impressio-nante. San Pietroburgo era in preda alla nebbia e all’u-midità che scombussolavano l’anima, tanto che le visite all’Ermitage furono deliberatamente prolungate; i geni-tori ci permisero di restare a lungo al Palazzo d’Inverno sulla riva del fiume Neva, seguendoci mentre guardava-mo – io e mio fratello, che tenevo per mano – tanto l’in-finita schiera di quadri e icone, quanto, a volte, la bufera distruttiva che metteva a soqquadro la capitale del Nord, contemplata anche dalle finestre del celebre museo che ospita opere di Rembrandt e Paul Gauguin, Leonardo da Vinci e Picasso.

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Gerusalemme ci attendeva con le sue mattine fresche e con il freddo che diminuiva non appena tramontava su-bitaneo il sole.

Per quanto fossimo affascinati dall’azzurro imperiale della Moschea Blu nella capitale della Turchia, Istanbul, o dalla solenne impetuosità della Cattedrale di Santa Sofia, le mattine e le sere riportavano il freddo umido e pene-trante nella cruda realtà.

Sin dall’inizio, la nebbia e l’umidità di Roma ci pene-trarono, mettendoci a dura prova con le basse tempera-ture, nonostante le previsioni meteo avessero annunciato un tempo particolarmente mite.

Per quanto mi sforzi di cercare nella memoria, pure altre capitali visitate creano in me la stessa sensazione ele-vata a rango di metafora: il freddo seguito da una travol-gente bellezza, tanto da ridurti al silenzio.

Probabilmente, la capitale della cultura imperiale è tutt’altro che ospitale. Per essere minimamente bene ac-colti, non è escluso che si venga messi alla prova e, su-perata la serie di esami sempre più complicati, alcuni difficilmente immaginabili, i doni di cui si avrà parte, di solito, non si lasciano attendere. Per addentrarsi nello spazio di una cultura superiore, bisogna essere senz’altro preparati. E bisogna sicuramente armarsi di ciò che, in modo imperativo, il severo Rodin suggeriva al suo disce-polo frettoloso e infreddolito, Rilke: di pazienza.

Non è la pazienza il sostantivo che avevo in men-te mentre vagavo nella Roma di fine novembre, avvolta, stranamente, da una nebbia e un’umidità che s’insinua-vano nel cuore, s’impadronivano del tuo corpo e, senza scrupoli, pure dell’altro corpo. Credo che, piano piano, si andasse generando una tensione tra l’inospitalità del po-tente impero di una volta e le nostre aspettative. E quando Au

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la tensione che cresceva come il pane nel forno di mia nonna arrivava all’apice, la ignoravamo, improvvisando diversioni estetiche. La gioia di perdersi in una delle capi-tali della bellezza diventava onnipotente; non potevamo che abbandonarci, subendo il freddo incredibile che era talmente forte che, tra due musei e qualche camminata, ci fermavamo in chiese, cattedrali e luoghi sacri, dove trova-vamo pulizia, raccoglimento, calore e non poche sorprese che ci suscitavano domande. Le domande ci inducevano poi al lento raccoglimento, dal quale prendeva vorticosa-mente forza il desiderio di continuare la splendida avven-tura nel regno della bellezza, di sopraffare le sue asperità, lo scompiglio e l’inospitalità. Nel vederci così concentrati in noi stessi, come la noce nel suo guscio, uno dei nostri cari – Marco credo, o forse Alla, Oxana o Artur – decretò: «Senz’ombra di dubbio, Roma va visitata d’estate. Novem-bre non è il mese che fa per questa città».

Era novembre. E noi eravamo a Roma. Lasciammo da parte le mappe, i dépliant e le guide turistiche; dimenti-cammo la stanchezza, l’elenco dei monumenti, cattedra-li, statue e piazze, fatto coscienziosamente su un foglio di carta, con tanto di mezzi pubblici necessari per rag-giungerli. Senza accorgercene ci ritrovammo sedotti da quell’impulso rilkiano  insinuato all’improvviso nell’im-mediatezza del cuore: «Guarda». Diventammo occhi sen-za volerlo. Occhi e cuore. Seguivamo le vergini dai capelli sciolti, le madonne dagli occhi sollevati al cielo, le donne trasformate in preghiera del cuore, le statue in pietra o marmo, unite nei sillabi di un’unica preghiera senza pa-role, rivolta all’entità superiore ritrovata dentro di loro. Contemplammo donne, santi e monaci tramutati in li-tanie, santa preghiera della quale diventavamo silenziosi abitanti. Preghiera ritrovata dovunque ci fermavamo a Aura

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Giovanni in Laterano, Santa Maria Maggiore, dov’è sepol-to Gian Lorenzo Bernini, San Paolo Fuori le Mura, con i giardini di una bellezza sconvolgente, insieme alla statua di San Paolo, di un’austerità pensante, San Pietro in Vin-coli, dove ci attardammo stregati dalla statua di Mosè, nel

-sa al centro del miracolo con le tre fontane – Sant’Agnese in Agone – di Piazza Navona, Santa Maria in Trastevere, la chiesa Santa Maria in Cosmedin sulla riva del Tevere, dove si trova la magica Bocca della Verità e, accanto, cir-condata dalle tranquille acque, si trova l’Isola Tiberina e il Tempio di Ercole, il conquistatore del Foro Boario co-nosciuto anche come il Tempio di Vesta. A qualche centi-naia di metri si trova la Casa dei Crescenzi. Nella Basilica di Santa Maria sopra Minerva davanti alla quale troneg-gia l’elefante del Bernini, a sinistra dell’altare, trovammo un Gesù Cristo nudo, scolpito da Michelangelo, davanti al quale ci attardammo, colpiti da quel Gesù dallo sguar-do perso, quasi annebbiato, che teneva la sua croce con le mani molto forti e lo sguardo distolto dalla croce che punta alla destra di chi guarda. Fummo poi colti dall’e-mozione della similitudine tra questa insolita statua e i

Gesù nella tomba – immagine che aveva sconvolto Do-stoevskij, secondo quanto riportato da Anna Grigor’evna nel suo diario – e la sconvolgente di Rubens, sulla quale scrissi nell’ , nello sforzo di trovare la chiave della resistenza, se non il granello di senape della fede.

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