Attualità Ildesideriodivisitare - CAI sezione di Gorizia · 2018-07-06 · lui maledetta. Al di...

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIA DEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883 ANNO XXV - N. 3 (141) - LUGLIO-SETTEMBRE 2001 SPEDIZIONE IN A.P. - COMMA 20/C ART. 2 - LEGGE 662/96 - FILIALE DI GORIZIA In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia Attualità Il desiderio di visitare di LUCA MATTEUSICH meno se montata ad arte per dare riso- nanza ad un record -quello dei 14 “8000”- che ormai fa poca notizia), i due articoli contengono numerosi inte- ressanti spunti di riflessione. Seguirli tutti ci porterebbe troppo lontano e necessiterebbe di uno spazio ben mag- giore di quello concessoci. Limitiamoci dunque a sfiorarne alcuni che abbiano attinenza con l’etica alpinistica. Già definire cosa sia quest’etica è un’im- presa non da poco perché negli oltre due secoli di storia alpinistica essa ha subito –come si diceva all’inizio- una propria evoluzione. Probabilmente però, riducendo all’osso le tante que- stioni nate attorno all’argomento, esse si possono rincondurre al ruolo che la montagna deve occupare nell’attività alpinistica e ai mezzi leciti per raggiun- gere gli scopi che ci si prefigge. La montagna è il fine dell’alpinismo? Cioè, lo scopo ultimo dell’alpinismo è quello Settore orientale del Canin parecchie tra le cime più alte del mondo. Ebbene, si diceva, mentre Corona sembra millantare, ecco che Kammerlander parrebbe voler rinuncia- re al suo quattordicesimo ottomila (il Manaslu) perché su quella cima anni fa gli morirono due amici d’infanzia e lui ne uscì vivo per miracolo. Ergo, Kammerlander se ne infischia degli sponsor miliardari che gli vorrebbero veder coronare la leggendaria serie dei 14 “tetti del mondo” e rifiuta di riacco- starsi alla “Montagna degli spiriti”, per lui maledetta. Al di là di ogni ulteriore considerazione sull’artificiosa celebrità che circola attorno agli 8000 fondando il valore delle montagne sul raggiungi- mento di una data quota altimetrica (inoltre misurata in metri; misuriamola in piedi e tutta l’impalcatura degli 8000 va a rotoli) e sulla scelta di Kammerlander (stimabile se davvero basata su una tragedia vissuta, un po’ di averlo visto, mentre salivano l’antici- ma della montagna a 8450 metri, fer- marsi e fare marcia indietro a quota 8300. L’articolo si intitola “La fiaba del Makalu”, dove “fiaba” sta per “balla”, “frottola”. Il secondo articolo sembra il nega- tivo del primo. Mentre la guida trentina potrebbe millantare una vetta mai rag- giunta (ancora non si sa nulla di preciso e noi sinceramente ci auguriamo che lui in cima ci sia veramente arrivato), ecco che “la Repubblica” del 6 agosto dedi- ca un lungo pezzo a Hans Kammer- lander. Il nome non ha bisogno di lun- ghe spiegazioni a chi mastichi un po’ di recente storia dell’alpinismo. Sarà suffi- ciente ricordare la sua prima traversata a due ottomila (Gasherbrum II e Hidden Peak) con Messner, la tremenda parete nord dell’Annapurna o la mitica “Tomo Cesen” alla sud del K2, alle quali si aggiungono le discese con gli sci di I l problema di un’etica dell’alpinismo è antico quanto l’alpinismo stesso e ha subito l’inevitabile evoluzione alla quale sono sottoposte le cose umane che durano nel tempo. Nel corso degli anni, man mano che i mezzi tecni- ci concedevano sempre più ampie pos- sibilità di salita (nelle difficoltà tecniche o negli ambienti alpini più ostili), si sono quindi accese appassionate discussioni sul lecito o l’illecito in montagna. La posta in palio era il raggiungimento di cime sempre più difficili o il superamen- to di passaggi su roccia che facevano levitare vertiginosamente la Scala Welzembach verso numeri romani ogni volta più lunghi: V, VI, VII… Sono usciti in questo mese di ago- sto alcuni articoli che ancora una volta mettono in risalto il problema dell’eti- cità alpinistica, in particolare quello della spinta esponenziale che all’alpini- smo (specialmente a quello estremo) stanno danno gli interessi economici ormai strabilianti che gravitano attorno alle imprese più eccezionali. Non si tratta di un problema nuovo a chi una quindicina di anni fa seguiva con inte- resse la corsa ai 14 “8000” tra il pluri- sponsorizzato Messner e l’operaio polacco Jerzcy Kucuzka, che saliva all’Himalaya sfruttando le vacanze dalla fabbrica, già conosce la schiacciante pressione che i grandi sponsor da anni ormai esercitano sul mondo dell’alpini- smo d’altissima quota macinando nelle mole delle logiche di mercato qualsiasi altra filosofia improntata sul rapporto tra l’uomo e la montagna. Tornando agli articoli apparsi su quotidiani e riviste specializzate, sono soprattutto due a colpire per la loro apparente diametra- lità. Il primo è della rivista Alpin. Tratta della festa organizzata dalle guide tren- tine per celebrare il ritorno vittorioso di una spedizione da loro organizzata al Makalu, quinto dei “grandi 8000” con 8481 metri. La star dell’occasione è Giampaolo Corona, punta di diamante della spedizione e unico del suo staff ad aver raggiunto la vetta. Sarebbe tutto molto bello se un gruppo di alpini- sti austriaci impegnato negli stessi giorni al Makalu (maggio 2001) non mettesse fortemente in dubbio l’ascen- sione di Corona. Infatti Sebastian Ruckensteiner, Karin Katstaller e Alexander Lugger (uomini di punta delle due spedizioni austriache) sostengono

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TRIMESTRALE DELLA SEZIONE DI GORIZIADEL CLUB ALPINO ITALIANO, FONDATA NEL 1883

ANNO XXV - N. 3 (141) - LUGLIO-SETTEMBRE 2001

SPEDIZIONE IN A.P. - COMMA 20/C ART. 2 - LEGGE 662/96 - FILIALE DI GORIZIA

In caso di mancato recapito restituire a CAI Gorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia

Attualità

Il desiderio di visitaredi LUCA MATTEUSICH

meno se montata ad arte per dare riso-nanza ad un record -quello dei 14“8000”- che ormai fa poca notizia), idue articoli contengono numerosi inte-ressanti spunti di riflessione. Seguirlitutti ci porterebbe troppo lontano enecessiterebbe di uno spazio ben mag-giore di quello concessoci. Limitiamocidunque a sfiorarne alcuni che abbianoattinenza con l’etica alpinistica. Giàdefinire cosa sia quest’etica è un’im-presa non da poco perché negli oltredue secoli di storia alpinistica essa hasubito –come si diceva all’inizio- unapropria evoluzione. Probabilmenteperò, riducendo all’osso le tante que-stioni nate attorno all’argomento, essesi possono rincondurre al ruolo che lamontagna deve occupare nell’attivitàalpinistica e ai mezzi leciti per raggiun-gere gli scopi che ci si prefigge. Lamontagna è il fine dell’alpinismo? Cioè,lo scopo ultimo dell’alpinismo è quello

Settore orientale del Canin

parecchie tra le cime più alte delmondo. Ebbene, si diceva, mentreCorona sembra millantare, ecco cheKammerlander parrebbe voler rinuncia-re al suo quattordicesimo ottomila (ilManaslu) perché su quella cima anni fagli morirono due amici d’infanzia e luine uscì vivo per miracolo. Ergo,Kammerlander se ne infischia deglisponsor miliardari che gli vorrebberoveder coronare la leggendaria serie dei14 “tetti del mondo” e rifiuta di riacco-starsi alla “Montagna degli spiriti”, perlui maledetta. Al di là di ogni ulterioreconsiderazione sull’artificiosa celebritàche circola attorno agli 8000 fondandoil valore delle montagne sul raggiungi-mento di una data quota altimetrica(inoltre misurata in metri; misuriamolain piedi e tutta l’impalcatura degli 8000va a rotoli) e sulla scelta diKammerlander (stimabile se davverobasata su una tragedia vissuta, un po’

di averlo visto, mentre salivano l’antici-ma della montagna a 8450 metri, fer-marsi e fare marcia indietro a quota8300. L’articolo si intitola “La fiaba delMakalu”, dove “fiaba” sta per “balla”,“frottola”.

Il secondo articolo sembra il nega-tivo del primo. Mentre la guida trentinapotrebbe millantare una vetta mai rag-giunta (ancora non si sa nulla di precisoe noi sinceramente ci auguriamo che luiin cima ci sia veramente arrivato), eccoche “la Repubblica” del 6 agosto dedi-ca un lungo pezzo a Hans Kammer-lander. Il nome non ha bisogno di lun-ghe spiegazioni a chi mastichi un po’ direcente storia dell’alpinismo. Sarà suffi-ciente ricordare la sua prima traversataa due ottomila (Gasherbrum II e HiddenPeak) con Messner, la tremenda paretenord dell’Annapurna o la mitica “TomoCesen” alla sud del K2, alle quali siaggiungono le discese con gli sci di

I l problema di un’etica dell’alpinismoè antico quanto l’alpinismo stesso eha subito l’inevitabile evoluzionealla quale sono sottoposte le cose

umane che durano nel tempo. Nel corsodegli anni, man mano che i mezzi tecni-ci concedevano sempre più ampie pos-sibilità di salita (nelle difficoltà tecnicheo negli ambienti alpini più ostili), si sonoquindi accese appassionate discussionisul lecito o l’illecito in montagna. Laposta in palio era il raggiungimento dicime sempre più difficili o il superamen-to di passaggi su roccia che facevanolevitare vertiginosamente la ScalaWelzembach verso numeri romani ognivolta più lunghi: V, VI, VII…

Sono usciti in questo mese di ago-sto alcuni articoli che ancora una voltamettono in risalto il problema dell’eti-cità alpinistica, in particolare quellodella spinta esponenziale che all’alpini-smo (specialmente a quello estremo)stanno danno gli interessi economiciormai strabilianti che gravitano attornoalle imprese più eccezionali. Non sitratta di un problema nuovo a chi unaquindicina di anni fa seguiva con inte-resse la corsa ai 14 “8000” tra il pluri-sponsorizzato Messner e l’operaiopolacco Jerzcy Kucuzka, che salivaall’Himalaya sfruttando le vacanze dallafabbrica, già conosce la schiacciantepressione che i grandi sponsor da anniormai esercitano sul mondo dell’alpini-smo d’altissima quota macinando nellemole delle logiche di mercato qualsiasialtra filosofia improntata sul rapportotra l’uomo e la montagna. Tornando agliarticoli apparsi su quotidiani e rivistespecializzate, sono soprattutto due acolpire per la loro apparente diametra-lità. Il primo è della rivista Alpin. Trattadella festa organizzata dalle guide tren-tine per celebrare il ritorno vittorioso diuna spedizione da loro organizzata alMakalu, quinto dei “grandi 8000” con8481 metri. La star dell’occasione èGiampaolo Corona, punta di diamantedella spedizione e unico del suo staffad aver raggiunto la vetta. Sarebbetutto molto bello se un gruppo di alpini-sti austriaci impegnato negli stessigiorni al Makalu (maggio 2001) nonmettesse fortemente in dubbio l’ascen-sione di Corona. Infatti SebastianRuckensteiner, Karin Katstaller eAlexander Lugger (uomini di punta delledue spedizioni austriache) sostengono

2 Alpinismo goriziano - 3/2001

di rapportare l’uomo alla montagnasenza nessun’altra finalità che quellaappunto di salire i monti? Scriveva neglianni Venti sulle pagine del bollettinoCAI di Gorizia (maggio 1923) ErvinoPocar: “Crediamo di esser nel veroaffermando che l’alpinismo comincianel punto in cui si sale sulle cime deimonti – per salire sulle cime dei monti,o diciamo forse meglio ancora, quandosi sale alle vette senza alcuno scopo.[…] Questo esclude il concetto econo-mico dell’utilità e rientra quindi nella piùvasta cerchia delle attività umane chesono al di là del bene e del male. […]Ora, è soltanto la passione del belloche può portare gli uomini a metter arischio tutta la loro esistenza, senzauno scopo, senza un fine utilitario. […]Ed ecco il punto dove arte e alpinismosi toccano: parti tutte e due di quelmondo ideale e superiore…” È questadi Pocar una concezione assolutamen-te “pura” dell’alpinismo, che vedeuomo e montagna protagonisti di unatensione molto simile a quella del fareartistico. Ancora più radicale nella suaessenzialità appare Mallory, il pionieredell’Everest, che alla domanda sul per-ché sopportare tante fatiche per salirel’altissima cima pare rispondessedurante una conferenza negli Stati Uniti(siamo negli stessi anni dello scritto diPocar): “Semplicemente perchél’Everest c’è” dando così all’attivitàalpinistica una dimensione di assolutafatalità, di risposta ad un richiamo cuinon è lecito sottrarsi. All’interno di que-sta dimensione si apre la domanda suquali siano i limiti da imporsi (se ce nesono) per superare gli ostacoli che lamontagna oppone. Già agli inizi del XXsecolo ci fu chi (valgano per tuttiMummery e Prusik), notando la cre-scente “tecnicizzazione” dei mezzi disalita, si schierò per la filosofia del “byfair means” cioè dei “mezzi leali” inten-dendo in tal modo opporsi a tutti i mar-chingegni che consentono di superaredifficoltà altrimenti impossibili all’uomo,in favore di un alpinismo umanisticoche non snaturi l’armonia di chi sale edell’ambiente in cui sale. Negli anniSessanta questo argomento divenneaddirittura rovente, quando la nuovagenerazione di arrampicatori (uno degliideologi fu certo Messner) cominciò arifiutare la consuetudine delle “vie apiombo” che piegavano la morfologiadelle pareti a logiche di totale verticali-smo facendo un uso spropositato disupporti esterni (chiodi di progressio-ne, staffe, scale etc…). Naturale evolu-zione di questa avanguardia etica fu lanascita del “free climbing” americanoche si opponeva totalmente tanto aisupporti esterni quanto al concettostesso di “salita alla cima” facendo del-l’arrampicata il fine unico e ultimo delclimber e inaugurando addirittura unanuova disciplina sportiva. Dall’epoca diMummery però si era nel frattempoaccesa la corsa alle più alte montagnedella terra. Massima espressione delleforze naturali e fantastiche scenografieper esaltare il coraggio e la tenaciadelle nazioni, le cime himalaiane benpresto divennero palchi su cui si gioca-va ben altro che la pura tensione del-l’uomo alla cima. Basti ricordare l’asse-dio infinito che la Germania nazistapose negli anni Trenta al Nanga Parbate che costò la vita tra gli altri a WilloWelzembach (forse il più forte arrampi-catore tra le due guerre) o la tragicadisfatta della gigantesca spedizionesovietica alla Nord dell’Everest nel1952. Le montagne venivano “assedia-te” e le spedizioni partivano per “con-quistarne” le vette ancora intatte utiliz-zando terminologie tratte dal vocabola-rio bellico, che già da sole bastano adimostrare quanto poco ci fosse dietico in quei tentativi che muovevanodecine di alpinisti e centinaia di porta-

Oltre le vette

Comici ineditodi FLAVIO FAORO

tori rinunciando a ogni “lealtà” pur diarrivare per primi. Del resto, quando inpalio ci fu un primato d’altezza o ilnome di una vetta dominante, anche trai singoli si aprirono spesso diatribe avolte anche meschine. La prima nacquecoll’alpinismo e oppose Paccard eBalmat per il primato sul Bianco, maanche Mallory (fautore accanito del “byfair means”) si trovò a tradire se stessoutilizzando gli odiati respiratori artificia-li nell’ultimo tragico tentativoall’Everest del 1924. Ricordiamo infinel’accusa quasi di omicidio che Bonattilanciò contro Lacedelli e Compagnonidurante la prima ascensione al K2 o loscandalo del Cerro Torre (nelle Andepatagoniche) che vide accusato CesareMaestri di spergiuro quando lui assicu-rava di aver salito con Tony Egger(scomparso nella discesa portandosidietro la macchina fotografica) la “cima

più difficile del mondo” in prima assolu-ta e da nord.

Si potrebbe continuare ancora alungo ad elencare “casi” confronto aiquali episodi quali quello di Corona alMakalu e di Kammerlander col Manasluriescono come eventi senz’altro secon-dari. Ogni volta che politiche o interes-si “altri” rispetto a quelli schiettamentealpinistici entrano nella storia dellaMontagna, il rapporto schietto e onestotra l’uomo e la più appariscente manife-stazione naturale del pianeta ne esceincrinato o comunque alterato. E que-sto non accade solo ai nostri giorni congli sponsor, ma è successo già in pas-sato, quando in montagna si giocavanointeressi che riguardavano non le multi-nazionali ma addirittura le nazioni.

A questo punto giova forse ricorda-re una lettera scritta da Petrarca nellontano 1336 nella quale il poeta rac-

conta all’amico Dionigi, docente di teo-logia a Parigi, l’emozione di una suasalita al Mont Ventoux: “Oggi, soltantoper il desiderio di visitare un luogofamoso per la sua altezza, son salito sulpiù alto monte di questa regione, chenon a torto chiamano Ventoso”.(Familiares, IV,I) In questo brano, spes-so considerato come la prima descri-zione di un’ascensione alpinistica nellastoria occidentale, il Petrarca ci comu-nica forse l’essenza stessa dell’eticache dovrebbe stare al centro dell’atti-vità alpinistica. Forse l’uomo dovrebbedavvero andare ai monti “soltanto per ildesiderio di visitare” luoghi nei quali lanatura ci offre spettacolo di sé. Alloramolte meschinità resterebbero al pianoe l’alpinismo (a tutti i livelli) diverrebbedavvero quell’attività artistica alla qualealludeva Pocar.

D urante la quinta edizione diOltre le vette: metafore, uomi-ni, luoghi della montagna, inprogramma a Belluno dal 13 al

28 ottobre, saranno presentati due fil-mati quasi sicuramente inediti riguar-danti Emilio Comici. Si tratta di duespezzoni di pellicola 16 mm, per untotale di oltre 28 minuti, che ritraggonoil grande scalatore triestino in arrampi-cata sulle pareti della Val Rosandra e sualtre palestre di roccia. Sono immaginimolto suggestive, con passaggi al ral-lentatore, salti acrobatici, esibizioni dipura eleganza arrampicatoria.

Il materiale in possesso dell’Asses-sorato alla Cultura del Comune diBelluno risulta diverso dai filmati suEmilio Comici oggi in circolazione: ciriferiamo, in particolare, a Scuola diRoccia di S. Casara, Le imprese diEmilio Comici, dello stesso Casara eEmilio Comici in arrampicata, di registaanonimo.

I film che saranno presentati aBelluno erano custoditi in un fondo pri-vato recentemente recuperato, costitui-to anche da centinaia di fotografie diEmilio Comici. Molte di queste sonostate a suo tempo utilizzate per illustra-re il libro Alpinismo Eroico, dello stessoComici, pubblicato postumo. Altresono state riprodotte sulle riviste Caidell’epoca, mentre altre ancora risulta-no assolutamente inedite. Con la partepiù significativa di questo materialedurante Oltre le vette sarà allestita unamostra, celebrando così nella manierapiù significativa i 100 anni dalla nascitadi Comici.

I filmati saranno proiettati alTeatro Comunale di Belluno nellaserata di sabato 13 ottobre e sarannopreceduti da una presentazione diSpiro Dalla Porta Xidias. Per tutta ladurata della rassegna, inoltre, i filmsaranno visionabili all’interno dellamostra fotografica dedicata a Comici.

Lo stesso Xidias, fra l’altro, presen-terà a Belluno il 15 ottobre il suo ulti-mo libro, proprio dedicato ad EmilioComici.

Ma Oltre le vette 2001 non è sol-tanto questo. Come nelle passate edi-zioni sono in programma decine dieventi e manifestazioni sui temi dellacultura della montagna: ben otto sonole mostre in programma, cinque leserate con alpinisti, quattro le presen-tazioni di libri, cinque le serate di cine-ma (di cui due di film muti con com-mento musicale dal vivo), e poi ancoraconcerti, gare di arrampicata, tavolerotonde, convegni e altro ancora, perdue settimane in cui Belluno sarà dav-vero la capitale della cultura della mon-tagna.

Per informazioni dettagliate sul pro-gramma si può consultare il sito inter-net www.comune.belluno.it oppuretelefonare al n. 0437 9132222.

Tre Cime di Lavaredo

Alpinismo goriziano - 3/2001 3

Campanula barbuta

Nuovi orizzonti

Il significato dell’esplorazione: ricreare la scopertadi FRANCO MICHIELI

La processionaria del pinonon legge la Gazzetta Ufficialedi PAOLO GEOTTI

Davvero le montagne perdono lacosiddetta verginità dopo chequalcuno le ha scalate? Davverosalire, denominare e cartografa-

re una montagna significa svelarne ilmistero, togliendo qualcosa a chi verràdopo? O siamo noi, piuttosto, ad esserepermanentemente schiavi della logicaastratta della “prima” e della “conqui-sta”, quasi che i tempi coloniali dellaspartizione della terra secondo la regoladi chi arriva prima (ignorando gli abitantimillenari dei luoghi) non fossero tramon-tati da un pezzo? E infine: davvero l’e-splorazione passata può averci datoun’immagine esauriente del mondo,quando per secoli è stata condotta dapersonaggi il più delle volte accecati dal-l’ambizione e dalla brama di gloria o, piùrecentemente, dall’ossessione della pre-stazione sportiva?

La mia conclusione è che esplorarenon ha niente a che vedere col giungereper primi in un luogo. Significa semmaistringere con il territorio una relazionenuova, concreta, originale, interpretandola realtà così come appare a noi, consciche nessuna cultura, per quanto progre-dita, può possedere integralmente larealtà di un paesaggio: chi è venutoprima e chi verrà dopo ha colto e

coglierà elementi e significati che a noisfuggono del tutto, e viceversa. Se l’e-splorazione della terra e delle montagneda parte dei “conquistatori” ha seguitoun punto di vista molto parziale, nulla ciobbliga a perpetuarlo; senza pretenderedi essere “più perfetti” dei predecessori,possiamo comunque ricominciare dacapo, con occhi nuovi, e forse fare sco-perte anche più rilevanti di quelle delpassato.

Ma come realizzare questa possibi-lità? Propongo quattro esempi, tratti daaltrettanti esperimenti vissuti sul camponegli ultimi anni e realizzati grazie all’e-sperienza di una ventina di precedentilunghe traversate. Il primo, nel 1998, èstato la traversata est-ovest degli sconfi-nati altipiani disabitati della LapponiaNorvegese, condivisa con l’amicoAndrea Matteotti senza avere con noimappe, né orologio, né strumenti per l’o-rientamento o per le telecomunicazioni.Della grande regione, vasta come ilNorditalia, avevamo solo un’idea, un’ap-prossimativa “mappamentale” memoriz-zata da una carta stradale in scala1:400.000 prima della partenza. Conquesta minima base, e con l’aiuto di ele-menti naturali come il sole, le nuvole, ilvento, le alture e l’andamento dei corsi

d’acqua, siamo riusciti a “tenere la rotta”per circa 600 km senza mai perderci,avendo così conferma che la sensibilità ela mente umane non sono da meno del-l’istinto degli animali migratori. Unariscoperta che ci ha permesso, da quelmomento, di tornare a incontrare la gran-de natura solo con i nostri occhi, ricrean-do per noi un intero mondo da esplorare.L’anno successivo ho compiuto perciòun ulteriore passo in questa direzioneassieme a Mario Baumgarten, con la tra-versata delle Alpi del Lyngen, situate nelnord della Norvegia. Le Lyngsalpenesono una catena montuosa dalla morfo-logia molto aspra, tutta picchi rocciosi eghiacciai, priva di rifugi e di sentieri,lunga circa cento chilometri in linea d’a-ria e circondata dai fiordi; è molto bencartografata, le cime sono state scalateda tempo ed è già stata teatro di alcunetraversate integrali. Tuttavia, noi l’abbia-mo percorsa da un capo all’altro rinun-ciando alle mappe - senza averle con noie, questa volta, senza nemmeno osser-varle prima di partire - e facendo a menoancora una volta di informazioni, di qual-siasi strumento per l’orientamento, del-l’orologio e di mezzi di comunicazionecon l’esterno. Ci siamo perciò inoltratinella catena montuosa come se nessuno

l’avesse mai vista prima dall’interno: lecime, i ghiacciai, le valli sono tornati tuttisenza nome; da ciascuna delle oltre venticreste che abbiamo scavalcato nel cer-care una via, ogni volta ci è apparsodavanti un mondo nuovo, inaspettato,come appena creato; e proprio perché ètoccato a noi interpretare ogni cosa, iltempo vissuto in quel territorio è statopieno di rivelazioni; è stato veramente iltempo di scoperta di una realtà primige-nia.

Un’avventura dal forte significatoproprio in un’epoca che crede di nonaver più nulla da esplorare, ma solo didoversi dedicare alla “trasformazione”del mondo a proprio uso e consumo.Così nel 2000 e nel 2001 ho rinnovato l’e-sperienza in condizioni simili, ma conalcune varianti ambientali: ancora conBaumgarten tra i picchi di granito e ighiacciai presso le coste verdeggiantidella Groenlandia meridionale, dove oltremille anni fa i vichinghi fondarono fioren-ti fattorie; e poi con Sandro Fulghieri eMauro Bongianni nel deserto islandeseÓdádahraun - proprio in un’epoca che ciha lasciato un insegnamento da esten-dere alla vita quotidiana; in queste“esplorazioni” non abbiamo dato unnome a montagne sconosciute: al con-trario, l’abbiamo tolto a montagne che cel’avevano già; non abbiamo cancellatol’ultima “macchia bianca” dalle mappe,ma ne abbiamo ricreate dove si credevache non ce ne fossero più; non abbiamofatto delle “prime”, ma abbiamo mostra-to come chiunque dopo di noi potrà inol-trarsi tra quelle stessemontagne, e viver-le di nuovo come se nessuno le avesseviste prima.

L a diffusione del lepidottero cheinfesta i nostri pini neri non sem-bra sia stata validamente con-trastata in questi ultimi anni,

nonostante le diverse iniziative intra-prese. La difficoltà degli interventi piùdrastici, consistenti nel taglio e succes-siva bruciatura dei nidi quando non col-locati sulla cima vegetativa della pianta,ha di fatto favorito l’evoluzione negati-va del fenomeno.

Ove si consideri poi come l’ubica-zione del pino nero riguardi zone di dif-ficile accesso, quali i ripidi pendii delleAlpi Carniche e Giulie (in Val Fella adesempio) ed ancora il Carso isontino etriestino, risulta evidente come la batta-glia si presenti oltremodo difficile.

Accorgimenti vari adottati in talunezone carsiche, con la collocazione diinsetti dai richiami sessuali devianti,posti in apposite gabbiette direttamen-te sugli alberi, non sembra abbiano sor-tito effetti decisivi. Altro interventodifensivo è offerto dalle bande adesive,collocate sul tronco delle piante, adimpedire così la discesa degli insetti ela loro successiva riproduzione.

Né una legge può determinare con-dizioni diverse da quelle che già si evol-vono naturalmente. Che fare allora, difronte a un problema non solo estetico,per la bruttura che determina sui nostriappezzamenti boschivi, ma anchepotenzialmente di pericolo per la saluteumana?

Chi ha provato le conseguenze delcontatto più o meno accidentale edesteso con i bruchi e/o comunque con inidi e la polvere che ne proviene, sacome la cosa possa assumere aspettiben più fastidiosi di un semplice pruri-

to. Le piante per la verità sembra sof-frano meno e difficilmente soccombo-no al flagello. Ma lo spettacolo offertodalle macchie bianche dei nidi, sparsea pelle di leopardo sulle superfici verdidei boschi, non è certamente esaltante.

Ora il decreto del Ministero dellePolitiche Agricole del 17 aprile 1998,recante disposizioni sulla lotta obbliga-toria contro la processionaria del pino(Traumatocampa pityocampa), prevedetra l’altro l’obbligo per i proprietari e iconduttori dei terreni interessati alfenomeno di comunicare un tanto al-l’Osservatorio regionale per le malattiedelle piante competente per provincia.Tale ente stabilirà le modalità di inter-vento più idoneo.

Semplice per i casi di singole pian-te, in giardini privati o comunque facil-mente accessibili. Ma quando vi sianointeressati enti pubblici o addirittura lostato, nella loro qualità di proprietari didemani boschivi ben più vasti, come echi deve intervenire? Lo spettacoloofferto dalla diffusione del lepidottero,ben visibile semplicemente percorren-do l’autostrada, non rappresenta certoun episodio esaltante della lotta controla processionaria.

Concludendo, resta da valutare sele forme di intervento possibile possa-no considerarsi sufficienti e comunquerapportabili alla necessità di ottenererisultati, tenendo sempre conto dell’e-conomicità di ogni intervento. Ciò, con-siderando che i pericoli per l’uomorestano comunque circoscritti ed evita-bili con opportuni accorgimenti.Soprattutto tenendo conto, in definiti-va, che le piante nella generalità dei

casi riescono a superare il trauma con-seguente alla nidificazione.

Probabilmente, più che l’efficaciadelle leggi, l’insetto dovrà temere lemutazioni genetiche che la natura cer-

tamente sta approntando.Ma i tempi necessari per tali muta-

zioni non sono certamente misurabilicon i nostri sistemi: ne riparleranno altrifra qualche centinaio di anni!

4 Alpinismo goriziano - 3/2001

lezza anche oltre la morte. Questa cacciacon l’arco rende la drammatica uccisio-ne un po’ più nobile, preferisco pensarea un duello nel silenzio della selva inne-vata.

Un progenitore di questo felino haabitato questa regione e la California giàventimila anni fa. Era lo Smilodon o felinodai denti a sciabola (saber tooth cat).Una ricostruzione di questo antenatodomina un paesaggio di rocce allestitonel nuovo e curato Museo di StoriaNaturale di Albuquerque.

Altri leoni di montagna, raffigurati indiverse pietre, stanno in una bacheca delMuseo di Antropologia della stessa città.Appartengono alla collezione di feticcidegli indiani Zuñi. Tutti gli indiani delSouthwest americano producono eusano feticci, ma sono gli indiani seden-tari dei pueblos che ne hanno elaborato

Molti critici considerano D.H.Lawrence un grande poetadella natura, un sottile e spie-tato interprete della vita e del

cosmo. Nel saggio del 1918, “The Spiritof the Place”, Lawrence scrive: “...ognigrande località esprime se stessa perfet-tamente, nei suoi fiori, nelle sue bestie euccelli, meno attraverso gli uomini, leloro opere compiute...”. La sintesi diquesto pensiero è la raccolta di poesia“Birds, Beasts and Flowers”.

Alcune di queste furono scritte nelNuovo Messico durante il soggiorno aSan Cristobal de Taos che si protrasseper alcuni anni. Lawrence, invitato daMabel Dodge Sterne, arrivò nel 1922 aTaos dove una comunità di artisti si erastabilita da tempo vicino all’antico pue-blo, affascinata dalla cultura indiana e daquella che chiamavano “the region ofmagic”.

Pittori come Blumenshein e BertPhillis ritrassero i capi indiani, i pueblos ele montagne blu del Nuovo Messicodando origine a una scuola del verismoamericano delle regioni del Southwest.

Per Lawrence fu l’incontro con unpaesaggio che “...aveva uno splendoresilenzioso e terrificante, possedeva unavasta ed estesa magnificenza, la qualesuperava di gran lunga il concetto che disolito noi abbiamo della bellezza. In nes-sun altro luogo la luce è così pura e arro-gante e si arcua con regalità quasi cru-dele sul mondo vuoto e rovesciato.Coloro che hanno passato le mattinate insolitudine, in mezzo a quei pini chesovrastano quel superbo deserto, cono-sceranno la bellezza insopportabile delgiorno messicano. Esso ha una potenzatremenda...”.

Una poesia di Lawrence, “Il leone dimontagna”, descrive una mattina di gen-naio quando lo spirito del luogo gli vieneincontro, in uno splendore di vita e dimorte, dal canyon del Lobo.

Due cacciatori messicani emergonodal suo fondo scuro portando, appeso aun palo, il corpo morto di un animale.“Que tiene amigo? - Leon”. È una leo-nessa di montagna la creatura lunga esottile dal pelo fulvo, uscita dal buio dellamontagna. I cacciatori l’hanno presa conuna trappola, da poco. Davanti aLawrence sollevano la testa rotonda diun Felis concolor, il leone di montagna.

Lawrence così la descrive: “Scuri,fini delicati raggi nella brillante brina dellasua faccia. Bellissimi occhi morti”.Questo splendido felino gli appare comeil vero spirito del luogo, gli accende lafantasia per la sua solitaria bellezza diabitatore delle selve sulle montagneSangue de Cristo.

Alla fine della breve poesia pensache in questo mondo vuoto c’era spazioper lui e un leone di montagna e cheassieme avrebbero facilmente potutodivorare un milione o due di esseri umanisenza sentirne poi la mancanza. Mentreora: “...quale vuoto nel mondo, senza lafaccia bianca di brina del fulvo e snelloleone di montagna!”.

Un convegno mi porta vicino ai luo-ghi di Lawrence, nel piccolissimo centrodi Jemez Springs, sulle montagneJemez. Nel trading post, dove gli indianiJemez e i locali rancheros portano ecomprano ogni genere di mercanzia, inmezzo appunto agli oggetti più disparati,è imbalsamato, in una grande bacheca divetro, uno splendido esemplare di leonedi montagna.

Un cacciatore l’ha abbattuto lo scor-so febbraio. Una freccia silenziosa hacolpito in un paesaggio coperto di neve,come si capisce da una piccola fotogra-fia che ritrae il cacciatore accanto allapreda appena uccisa. Era un animale dioltre due metri di lunghezza e quasicento chili.

Un imbalsamatore accurato è riusci-to a dargli un’immagine di potenza e bel-

caccia, la diagnosi e la cura di malattie,la guerra, le iniziazioni, i riti di fertilità, peril malocchio e per proteggere il portatorecontro di esso.

La filosofia degli indiani Zuñi è unacosmologia dove luna, sole, stelle, cielo,terra, mare e tutti i fenomeni a essi ine-renti sono correlati in un sistema dicoscienza globale che integra uomini,bestie e piante. I gradi di familiarità eprossimità tra tutti questi elementi dispa-rati sembrano, per gli Zuñi, essere larga-mente determinati, se non in modo quasicompleto, dalle affinità delle immagini eforme, dalle similitudini e rassomiglianze.

In questo sistema il punto di parten-za è l’uomo, il più finito ma tuttavia anchel’infimo tra gli organismi. La sua bassacollocazione gli deriva dall’essere il piùdipendente, il meno misterioso degliesseri. Ogni organismo reale o immagi-

simile all’animale, le cui azioni sembranorappresentarlo più da vicino. Il fulmineacquista quindi la forma del serpentepoiché il suo percorso nel cielo è unatraccia serpentina e colpisce in modoistantaneo e distruttivo, come è propriodei serpenti.

Nella filosofia Zuñi le grandi forzedella natura sono irrimediabilmente lon-tane dall’uomo, come gli dei. Gli animaliinvece gli sono più prossimi e possonoquindi mediare tra uomo, natura e dei.L’uomo quindi sceglie gli animali piùadatti, le somiglianze più idonee per met-tersi in relazione con l’universo dei pote-ri magici che lo sovrasta.

Gli Zuñi, uomini di caccia e guerra,scelgono come feticci animali che liprovvedono di cibo e altri materiali utilima pongono accanto a questi, in posi-zione più nobile, i predatori.

Altri animali di altre montagne/1

Quel leone forse è un diodi BRUNO D’UDINE

nario che gli rassomigli, che gli sia affine,è mortale.

Al contrario, un organismo che abbiaelementi misteriosi è ritenuto distantedall’uomo e quindi più progredito nellascala dei poteri magici, più forte eimmortale. In questa luce gli animali ven-gono pensati come più vicini agli dei cheall’uomo, in quanto misteriosi e caratte-rizzati da istinti e poteri specifici, chel’uomo non possiede.

In questa scala dei poteri magici glielementi e i fenomeni della natura sonoancora più misteriosi, potenti e immorta-li degli animali e quindi ancora più pros-simi alle divinità superiori: le loro manife-stazioni sono infatti spesso simili agli attidegli dei.

Di conseguenza, e attraverso questaconfusione di oggettivo e soggettivo,ogni elemento o fenomeno della naturache si immagina abbia una esistenzapropria, appare dotato di una personalità

I feticci più pregiati sono quelli dove,senza molti interventi umani, l’animalesembra emergere naturalmente, raffigu-rato in modo appropriato per forma ecolore, dal materiale prescelto; ossiadove la somiglianza spontanea è più evi-dente. La spiegazione di questo atteg-giamento si trova nel lungo poema epicodella cultura Zuñi che l’antropologo ame-ricano Frank Cushing raccolse alla finedell’altro secolo dopo aver vissuto permolti anni con gli Zuñi e raggiunto livelliavanzati di iniziazione.

Fu un curioso personaggio che siassimilò molto alle tribù Zuñi. Giravavestito con una versione un po’ da dandydel tradizionale costume Zuñi, eccessi-vamente ricoperto di fregi d’argento,tanto da ricevere il nomignolo di “MoltiBottoni”.

Secondo questo poema, una IliadeZuñi, all’inizio del mondo gli uomini eranosegregati in quattro caverne nelle regioni

una complessa cultura.Gli Zuñi sono gli scultori e i creatori

più raffinati di feticci che ricavano dallefonti più diverse. Conglomerati di pietre,materiali derivati da piante o animali,conchiglie importate dalla costa delPacifico, sassi, legno, tutto può esseretrasformato in un feticcio, il cui scoporesta comunque immutato, ossia assi-stere l’uomo, la più vulnerabile di tutte lecreature, secondo la tradizione Zuñi, nel-l’affrontare i diversi compiti della vita.

Un feticcio può essere posseduto daun individuo, da un clan, una societàsegreta o essere proprietà dell’interatribù. La potenza di un feticcio vienevista come qualcosa di vivente ed èquindi necessario che esso venga accu-dito con cura e nutrito con un precisorituale.

I feticci, quando non vengono evoca-ti, sono riposti in piccole giare e conside-rati sacri. Servono a scopi plurimi: per la

I ghiaioni della Zelnarica (Valle dei Laghi)

Alpinismo goriziano - 3/2001 5

inferiori nel ventre della Terra. Era unmondo buio e affollato da cui gli uomini ei loro figli volevano fuggire. Il Padre-Solecreò allora due suoi giovani figli chemandò sulla Terra per riscattare gli uomi-ni, dopo averli dotati di un coltello e unoscudo magico.

Con il coltello aprirono il ventre delnostro pianeta e successivamente, sup-plicati dai sacerdoti e dagli uomini,costruirono una scala per portarli dallaprima e più profonda caverna alla secon-da, che era un po’ meno buia. Le suppli-che dei bimbi li convinsero a condurli poiattraverso le altre caverne fino alla lucedel Sole.

A quel tempo però la superficie ter-restre era ricoperta d’acqua, tormentatada terremoti, abitata da mostri e animalida preda. Per aiutare l’uomo, i due fan-ciulli immortali, mandati dal Padre-Sole,rassodarono la superficie del pianetacon il loro scudo magico.

Però ora che la Terra era asciutta, glianimali da preda, potenti e simili agli dei,avrebbero potuto facilmente divoraretutti i figli dell’uomo, inermi di fronte azanne e artigli. I due figli del Sole decise-ro quindi di colpire gli animali da preda,ogni qualvolta li incontravano, con fulmi-ni che si irraggiavano dal loro scudomagico. I loro fulmini trasformavano ipredatori in pietre.

A questi animali dissero: “Vi abbiamotrasformati in pietre affinché non siatepiù una minaccia ma un aiuto per l’uomo.Attraverso i poteri magici della preghiera,attraverso il cuore che comunque bat-terà per sempre entro di voi, servite l’uo-mo invece di divorarlo”.

Fu così che quando la superficiedella Terra divenne permanentementesolida ogni sorta di creature viventi sitrovò trasformata in pietre. È per questaragione che gli uomini nelle pietre ritro-vano le forme di molti animali, talvoltadistorte e rimpicciolite, altre volte con leloro misure reali.

Gli Zuñi cercano quindi nelle pietre enelle rocce le rassomiglianze con questecreature magiche per poterne portarecon sè, attraverso il riconoscimento delleimmagini, i poteri che all’origine delmondo gli dei avevano dato alle singolespecie.

I cuori dei predatori pietrificati conti-nuano infatti ancora a battere e possonoinfluenzare i cuori delle prede che vivonooggi sulla Terra. Il potere che emana daifeticci di pietra può così frantumare i lorocuori, irrigidirne gli arti e confonderne isensi.

Il leone di montagna ha un postounico tra i feticci animali. È un predatoreche vive di sangue, il “fluido della vita”per gli Zuñi, e ha poteri speciali. È ilpadrone del Nord, il punto cardinale chedomina tutti gli altri “antichi sacri spazi”.È la più potente di tutte le divinità di pre-datori e di tutti gli animali in generale. Alui vanno gli onori maggiori durante lecelebrazioni del solstizio di inverno.

Il cacciatore che ne porta con sé ilfeticcio, appena è sulle tracce dellapreda, lo estrae dalla custodia e pone leproprie labbra davanti alle narici delfeticcio. Ne inala così il magico alito delDio della Preda che risoffia in direzionedelle tracce dell’animale che insegue,usando il potere magico del feticcio direndere più debole e facile da catturarela preda.

Una volta che il cacciatore l’abbiacolpita, prima che lo Spirito della Vitalasci l’animale ferito a morte, dovrà porrele sue labbra sulle narici della predaabbattuta cercando di inalarne l’essenza.Squarterà poi subito l’animale per berneil sangue, ne mangerà una piccola por-zione del fegato ringraziando a voce altal’ucciso. Questa è la tradizione di cacciadegli Zuñi, con i suoi rituali magici e ilprofondo rispetto per i poteri degli ani-mali.

I leoni di montagna nel NuovoMessico sono cacciati dai rancheros cheproteggono, con eccessivo zelo, le loromandrie. Manca una tutela di questosplendido felino e il numero di esemplaripotrà avvicinarsi nei prossimi anni rapi-damente a quello che ne segnerà l’estin-zione. Nuove strade attraversano laselva, gli impianti nucleari di Los Alamossono vicini.

Gli indiani della valle di Jemez parla-no del leone di montagna ancora comedi una creatura magica, uno spirito delluogo come apparve a Lawrence. Ciassicurano che di notte può scenderecon i coyotes al fiume vicino a cui sonole casette che ci ospitano.

La cultura indiana e il destino delleone di montagna nella valle sembranoseguire sentieri paralleli anche sotto l’in-calzare della forte immigrazione diesperti in tecnologie raffinate nella vicinaAlbuquerque, i quali sempre più numero-si e rumorosi vengono tra queste monta-gne per il fine settimana.

Davanti all’edificio che ospita il con-vegno ci sono le rovine della più anticamissione francescana nel NuovoMessico. Fu edificata nel 1617; è uno deipiù antichi edifici costruiti dagli europeinel Southwest, ma andò presto distruttodurante una rivolta degli indiani Jemez.

Accanto alle rovine della chiesa e delpueblo c’è un piccolo museo dedicatoalla loro cultura; è allestito con amore epassione. Ospita modesti oggetti dellavita quotidiana; semplici didascalieaccompagnano il visitatore. In una diqueste è scritto: “ ...non dobbiamolasciarci intrappolare dai risultati di unasocietà super-efficiente, che si muoverapidamente, a una velocità e in una dire-zione che per la maggior parte degliIndiani rappresenta il panico”.

Cose d’altri tempi

Un “B29” in montagna...ricordi di guerra in Canal del Ferrodi CARLO TAVAGNUTTI

Verso la Sella del Vogel (Tolmino)

Negli anni ‘70 il ritrovamento for-tuito, tra le ghiaie del Fella neipressi di S.Rocco a Pontebba,di un bracciale consumato dalle

intemperie, con un nome ed un numeroappena leggibile (Jesse M.Gallagher -13030396), aveva fatto riaffiorare, nellamemoria di qualche pontebbano, ricordidi tempi lontani…quasi dimenticati.

Un febbraio freddo con tanta nevequello del ‘44 in Canal del Ferro…eraforse l’ultimo inverno di guerra! Le for-mazioni di bombardieri americani sorvo-lavano giornalmente le Giulie e leCarniche per portare i loro carichidistruttivi sul territorio tedesco. La rottaseguita, partendo dagli aeroporti delCentro Italia, passava proprio sulla diret-trice del canale tra lo Zuc del Bóor e loJof di Dogna. Gli abitanti dei paesi e deiborghi della Val Fella e delle valli lateralivivevano in uno stato di costante preoc-cupazione per i continui allarmi e per inumerosi bombardamenti che subiva lazona di Dogna per il famoso ponte ferro-viario, l’importante obiettivo strategicoche, per la particolare ubicazione tra imonti, i cacciabombardieri non riusciva-no a colpire. E c’era anche una munitis-sima batteria antiaerea da “88” tedescadislocata a Ponte di Muro che interveni-

va, con numerose salve di sbarramento,ad ogni passaggio di aerei alleati…l’ecodegli scoppi rimbombava sinistro traquei monti. Per l’azione della contraereaun quadrimotore “B29”, di ritorno dallamissione, era stato colpito sulla vertica-le di S.Leopoldo e stava precipitando suPontebba.

Perdendo quota, il rombo dei moto-ri si era fatto fortissimo…poi lo scoppioin aria e l’aereo era caduto a pezzi. Tantiragazzi d’allora ricordano ancora lo“spettacolo” di quel lontano martedì 20febbraio 1944. Parte della fusoliera infiamme era piombata in un prato a valledel paese vicino alla caserma dell’arti-glieria…le munizioni delle mitragliere dibordo erano scoppiate a lungo sul luogodell’impatto. I motori erano caduti un po’più avanti, vicino alla chiesa di S. Roccoed altre parti delle strutture si eranodisperse nei boschi della Veneziana.

Di tutti i componenti dell’equipaggiodel “B29” se n’era salvato soltanto unoche si era lanciato con il paracadute.Due meno fortunati, ai quali non si eraaperto il mezzo di salvataggio, eranoprecipitati, finendo uno proprio all’inter-no del cimitero, l’altro nei pressi dellaCasera Poccet. Altri quattro infine eranorimasti intrappolati nella fusoliera in

fiamme. L’unico superstite era scesodondolando lungo le pendici boscosedella Veneziana ed aveva toccato terraoltre il Fella nei pressi delle Case delBuric. Pontebba era presidiata da unreparto di “SS” ed alcuni avevano rag-giunto velocemente il luogo di atterrag-gio dell’americano.

Di quelle giornate sono ancora vivis-simi tanti ricordi come racconta l’amicoCarlo; il prigioniero fu portato nella piaz-za del paese prima di essere trasferito inaltra località…lo ricorda benissimo nellasua tuta imbottita e con il paracaduteraccolto tra le braccia.

I morti furono sepolti nel piccolocimitero di S. Antonio a Pontafel. La car-cassa di lamiere contorte dell’aereoinvece rimase là per lungo tempo e,dopo la partenza dei tedeschi, divennela meta frequentatissima dei ragazzi allaricerca di qualche oggetto interessante!A distanza di anni, su quei tragici segniche ricordavano la guerra è ricresciutal’erba e tanti fiori colorati!

All’inizio degli anni ‘60 sembra chel’americano del “B29” sia ritornato in ValFella per rivedere i luoghi che lo viderofortunato protagonista nel lontano feb-braio del 1944 e per ricordare i suoicompagni caduti.

6 Alpinismo goriziano - 3/2001

Pagine di diario

Ventisei anni fa…di BRUNO CONTIN

È da pochissimi anni che la stradadel Pramollo viene “sgombrata”d’inverno, ed il termine mi sem-bra appropriato viste le condi-

zioni su cui anche stavolta la “500”, gra-zie alle gomme chiodate, è arrancata sultratturo ottimisticamente definito “vali-co transitabile”. Parcheggio alla bell’emeglio contando sullo scarsissimo traf-fico ed in breve, alle cinque in punto,siamo pronti a superare la muraglia dineve che il bordo della strada ci opponecome primo ostacolo.

Dalla caserma della Guardia diFinanza non provengono rumori e ciritroviamo in breve assolutamente solinella notte gelata a forare la crostasuperficiale del manto nevoso che rico-pre la stradina del Winkel.

Immersi nei pensieri più intimi, ma ditanto in tanto, sollecitati dall’oppressio-ne che portano con sé, li esterniamo inreciproche conferme sull’opportunitàdella meta che ci siamo prefissi.

Saremo all’altezza di tale cimento?Ne usciremo in giornata? Su questopunto, in particolare, ci siamo impostiassolutamente di riuscire, contando sualternative di discesa che possanoscongiurare un bivacco. Ma i dubbi per-mangono. A parte la “ferrata Contin”, dicui conosco le caratteristiche, nes-sun’altra via a Nord è stata percorsad’inverno, quindi non abbiamo idea deitempi necessari: dovremo valutareattentamente quelli intermedi ed ade-guare le successive scelte.

L’avventura è assicurata, esaltatadall’isolamento e dalle particolari condi-zioni e si presenta come un’esperienzaunica che rimarrà indelebilmenteimpressa tra quelle ricercate e vissute inmontagna, anche se, nel confronto conaltre imprese degli ultimi tempi, potreb-be far sorridere. Ma è la nostra espe-rienza, vissuta sulla nostra pellaccia eche vogliamo sia senza compromessi.

La forzata scelta dell’amico di pro-cedere nell’avvicinamento senza sci,che mi ha costretto mio malgrado adadeguarmi, ci fa perdere molto tempoed energie preziose. Ho anche deciso,per limitare il peso, di non portare lapesante macchina fotografica, ma neglianni me ne pentirò; infatti oggi nondispongo, come per altre importantioccasioni, di alcun documento.

Siamo più volte sopraffatti dalla fati-ca di un’andatura penosa, alternata apochi metri dove la neve sembra miglio-rare, dandoci una breve tregua. Ormaila pila non serve più e riusciamo ad indi-viduare un percorso apparentementemigliore che ci porta alla base dellagola.

È la zona che al mattino riceve alcu-ne ore di sole che ha compattato laneve e ci permette finalmente una pro-gressione ottimale fino all’attacco.Entusiasti per il dislivello superato, ciapprestiamo a legarci quando all’amicosfugge la piccozza che, fra le maledizio-ni del caso, scivola indisturbata verso ilfondo del vallone del Winkel.

Passano una quarantina di minutiprima che egli ritorni e nel frattempopreparo con comodo una sosta conalcuni chiodi ed ingollo qualcosa, guar-dando con apprensione l’inesorabilescorrere del tempo.

Siamo un po’ fuori orario, ma anchenelle condizioni di decidere per ilmeglio, che si traduce nell’assaggiodella prima lunghezza di corda.

La neve, sufficientemente compattae molto abbondante, ha stravolto total-mente le caratteristiche a noi note, mapermette all’amico di portarsi senzagrosse difficoltà a far sosta sotto il pas-saggio chiave che si presenta effettiva-mente molto delicato. Tralascio il per-corso solito estremamente vetrato e

spostandomi a destra, sfruttando con iramponi delle rigole ghiacciate e delleasperità scoperte, mi alzo di qualchemetro. Tento dapprima con i guanti, masi attaccano al ghiaccio dandomi laspiacevole sensazione di sentire lamano sfilarsi, per cui devo decidermi adusare le dita libere. Cesellando ognidecimetro, mi alzo con circospezionepuntando alla zona superiore piùappoggiata ma stracolma di neve, doveriesco ad allestire una buona sosta.

Confortati dall’aspetto della golache ci sovrasta, e scartata l’idea dirinunciare, proseguiamo alternandocisu ripidi pendii non difficili. La tempera-tura gelida ora s’è alleata ad una cappadi fitta nebbia che ha preso possessodegli ultimi 150 metri della parete, ma lasituazione appare stabile.

Non è purtroppo così per la neveche essendo rimasta in questo trattosempre in ombra si presenta soffice eprofonda. Dopo la traversata verso sini-stra ci sorgono forti dubbi se riusciremoa proseguire forando fino al petto il ripi-do pendio. Il disappunto è pesante,dopo la parte inferiore superata relativa-mente bene, anche se più tecnica.

Scegliamo una linea diretta edaspettando come una liberazione ilturno di sosta, procediamo con sforziimmani nel crearci una specie di trinceaverticale che raccordi qualsiasi spunto-ne affiorante che ci possa permettereuna sosta relativamente sicura. Lapaura di smuovere una grossa slavina ciraggela e ci sprona, ma il lavoro neces-sario a proseguire non ci permette diessere veloci come vorremmo.

Ormai siamo immersi nella cappalattiginosa che appiattisce ed ovatta ilpaesaggio e solo la perfetta conoscen-za dell’itinerario ci aiuta a scegliere ilpercorso senza ulteriori perdite ditempo. I segni sono naturalmente sot-

terrati e passiamo alti, a fianco di rocceche non riconosciamo, ma alla fine ilnoto canalino ci guida tra gemiti di fati-ca all’ultima cornice che precede l’am-pia vetta della Creta di Pricot.

È fatta! Dopo la prima invernaledella via dedicata a mio Padre, questa èla realizzazione della via che abbiamovoluto per Fausto Schiavi, mio inse-gnante e poi amico di montagna.

Ma è solo un fugace pensiero, per-ché la fatica ed il momento non permet-tono cali di tensione. La nebbia è tal-mente fitta da falsare ogni rapporto, percui ci dirigiamo legati per non perderciverso il Cavallo, con ben in mente lecaratteristiche del percorso che cisepara.

Vado avanti io, forte della trentacin-quesima presenza in vetta, e barcollan-do e sprofondando in tratti che s’alter-nano a zone spellate dal vento, seguen-do soprattutto la memoria, verifico l’an-damento delle pendenze che dovrebbe-ro condurci alla depressione tra le duecime. Ma questa discesa sta durandotroppo! Siamo frastornati e solo undebole chiarore ci induce a proseguireoltre, quando una folata di vento civiene pietosamente in aiuto rivelandocifugacemente che abbiamo deviato pianpiano verso Sud e che quella che si apresotto di noi è la conca di Pricot!

Ora lo sconforto e la rabbia stannosuperando la fatica e la fame e si misce-lano ad una buona dose di preoccupa-zione per le ore che stanno volando, manon c’è altra alternativa che ritornareesattamente sui nostri passi fino all’u-scita della via e da lì, cospargendomi ilcapo di cenere, guadagnare ansimandol’ampia cima del Cavallo.

La tormenta, che la sta spazzando,ci consiglierebbe di cercare un riparo,abbassandoci in luoghi più “cristiani”,ma la debolezza è troppa e, anche se in

Creta di Pricot d’inverno

piedi, dobbiamo mangiare qualcosa.Dieci minuti di sosta ci sembrano

una concessione generosa alle pocheore di luce disponibili, per cui imbacuc-cati e gelati ci dirigiamo velocementeverso la ferrata “E. Contin”.

Come d’altronde sospettavamo, lecose non sono minimamente finite. Lecorde fisse, naturalmente sepolte, cicostringono a sicurezze aleatorie ed èmotivo di soddisfazione l’unico pezzet-to di cavo affiorante che ci aggancia perpoco alla parete.

Dobbiamo contare sulla luciditàresidua che ognuno deve ricercare persé stesso e per il compagno, ma anchequesto ha un termine ed il rotolare,inciampare, sprofondare sui pendii sot-tostanti non è più motivo di preoccupa-zione, anzi. Ora è il momento del rilas-samento, della consapevolezza, dellasoddisfazione e poco importa se perraggiungere la macchina dobbiamoriaccendere le pile, perché a gennaioalle cinque di sera è già buio.

L’indomani, dalla Madrizze, como-damente raggiunta con gli impianti dirisalita, scivolo facilmente a riguardarela nostra traccia incisa nella ripida pare-te.

In breve sparirà sotto l’ennesimanevicata e con lei la fine visibile diun’avventura.

Un solco profondo che si è già tra-sferito nei nostri cuori. Un evento ormaiconsegnato ai ricordi ma che sarà diffi-cile sradicare anche al più devastanteoblio degli anni.

Creta di Pricot - Cavallo (Alpi Carniche)1° Invernale alla via “Fausto Schiavi”12/01/1975Bruno Contin - Fausto Buzzi(CAI Pontebba)

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MontiFilm

Cinema dell’animadi MARKO MOSETTI

Ruderi della Planina Laøca (Val Tolminka)

S i svolgerà in sei martedì successi-vi tra il 6 novembre e il 18 dicem-bre, saltando il 27 novembre, lanona edizione della rassegna di

cinema di montagna, avventura, esplo-razione e di incontri con i protagonisti“MontiFilm-Cinema e montagna”, orga-nizzata dalla sezione goriziana del ClubAlpino Italiano in collaborazione conUISP-Lega Montagna di Trieste. Nelleprecedenti otto edizioni abbiamo assi-stito ad un progressivo innalzamento dilivello delle serate proposte e parallela-mente ad un affinamento di gusto di unpubblico sempre più numeroso. Benconsci di questo, con gli onori ma ahimèanche gli oneri che ciò comporta, inConsiglio Direttivo e con gli amici SergioSerra e Giuliano Gelci di Trieste si è stu-diato e meditato a lungo prima di licen-ziare il programma di questa edizione.Possiamo dire che l’indirizzo della ras-segna di quest’anno si può riassumerein due parole: curiosità ed esplorazione.

Curiosità perché è questo il motoprimo che ci spinge verso orizzontinuovi, inesplorati, sconosciuti. Ma l’e-splorazione nel corso delle nostre seratenon si limiterà solamente ai luoghi altri elontani ma entrerà anche nell’animo del-l’uomo, nei suoi sentimenti, nelle suepaure e potenzialità, nelle semplici gioiedel vivere nella natura.

L’incontro e la serata con FrancoMichieli sarà uno dei momenti simbolicidella rassegna. Il pensiero che guida leavventure del nostro è delineato chiara-mente nel suo articolo in un’altra parte diquesto numero del giornale. Qua non ciresta quindi che presentare brevementeil personaggio per quei pochi che anco-ra non lo conoscessero.

Nato a Milano e residente in ValCamonica, Franco Michieli è laureato inGeografia. Fotografo e scrittore, è redat-tore della Rivista della Montagna maanche apprezzato conferenziere nonchéautore di guide e, come geografo, sioccupa di ricerche sul turismo alpino. Lasua attività più significativa e originale ècostituita dai grandi viaggi a piedi su ter-reni difficili, di cui è, in Italia, sicuramen-te il principale esperto. Oltre a unmigliaio di ascensioni alpinistiche, gitescialpinistiche ed escursioni sulle Alpi,ha effettuato le traversate a piedi delleprincipali catene montuose europee e dialcune aree montane extra-europee,spesso lungo itinerari ideati personal-mente e con caratteristiche alpinisticheo esplorative, o comunque prive di sen-tieri e punti di appoggio e con notevolidifficoltà di orientamento. Proprio nelcampo dell’orientamento ha ottenuto irisultati più straordinari e pressochéunici nella nostra epoca, imparando a“tenere la rotta” attraverso territori sel-vaggi e a lui sconosciuti senza far uso dimappe, bussola, orologio o altri stru-menti. Poco interessato ai risvolti sporti-vi delle sue avventure, tiene invece asottolineare il valore dell’esperienzaumana e gli aspetti culturali e ambienta-li del contesto.

L’altra serata simbolo sarà quelladedicata alla proiezione del film che all’i-nizio dell’anno ha vinto il premio dedica-to a Luigi Medeot nell’ambito del con-corso “Alpi Giulie Cinema”. Organizzatoda UISP-Lega Montagna di Trieste egiunto alla sua settima edizione si rivol-ge alle cinematografie di montagna,avventura ed esplorazione delle regionialpine contermini di Carinzia, Slovenia eFriuli - Venezia Giulia. Hong Gui Wang èil titolo del lavoro di Cristian Furlan sutesti di Marco Cernaz, girato nel corsodella spedizione alpinistica in Cina orga-nizzata nel 2000 dalla sezione del CAI diTrieste XXX ottobre. Si tratta di un docu-mento sulla vita d’alpeggio di un malga-ro nella Valle del doppio ponte, a 3800metri di quota. Uno straordinario saltoindietro nel tempo attraverso il qualemolti riconosceranno gesti e modi di vitacomuni solamente pochi decenni fa

anche sulle nostre montagne. La serata,alla quale parteciperanno gli autori delfilm, sarà completata dalla proiezionedelle diapositive che riguardano la partealpinistica della spedizione.

Anche la serata dedicata all’alpini-smo non guarderà con i soliti occhi. Ledue pellicole scelte alla prestazione tec-nica antepongono sicuramente l’aspettoumano. Rozjdestvensky Sindrom è unfilm kirghiso che racconta di un gruppodi alpinisti che si ritrovano anno dopoanno durante le vacanze invernali, allabase della terribile parete del Free KoreaPeak nel Tien Shan del Kyrgyzstan. Nonsono mai riusciti a portare a termine la

simo “MontiFilm”. Due i lavori in proie-zione, entrambi austriaci. Il primo è ImReich des Steinadlers di MichaelSchlamberger, regista già noto al pub-blico goriziano che lo ha potuto apprez-zare per il suo film Soœa - The emeraldriver dedicato alle trote dell’Isonzo.Stavolta è l’aquila ad essere seguitanella dura lotta per la sopravvivenza checoinvolge tutti in montagna, predatori eprede.

Il secondo Impression of Tirol èun’autentica ode al Tirolo con immaginistraordinarie e per colonna sonora ilTirol Concerto for Piano and Orchestracomposto da Philip Glass ed eseguito

nella tecnica cinematografica ma anchenei luoghi e nei tempi in cui il regista ciaccompagna, paesaggi, villaggi, cittàtanto belli quanto misteriosi, ricchi diarte, storia e storie. Suggestioni che ciaccompagnano come sulle ali del vento,da Alì Babà al Deserto dei Tartari. Lachiusura della rassegna è affidata, comeogni anno, alla proiezione delle più belleimmagini scattate dai soci della sezionenel corso dell’anno trascorso e raccoltenell’Immagindiario. Va ricordato ancorache ci sarà un’interessante anteprimaalla rassegna di MontiFilm il giorno 16ottobre, quando Renato Candolini pre-senterà Silenzi in concerto, multivisione

salita e forse non sono troppo convinti dipoterlo fare, ma si ritrovano egualmente,anno dopo anno, e ci provano solamen-te per il gusto dell’amicizia e di stareassieme. K2 il grande sogno del registavaldostano Carlo A. Rossi ci porta inve-ce nel pieno di un dramma umano nellazona della morte sulla seconda monta-gna più alta della terra.

È una montagna a volo d’uccello laprotagonista di un’altra serata del pros-

dall’orchestra da camera di Stuttgart,montati mirabilmente dalla regia diGeorg Riha.

L’esplorazione ci porta a dorso dicammello attraverso i deserti dell’Iran.Hamrah-E-Rad del regista ManoochehrTayyb è quasi un film d’altri tempi, fattodi inquadrature e movimenti di macchi-na un po’ più lunghi dei pochi secondi aiquali oramai i film video-clip ci hannoabituato. Un salto indietro (o avanti?)

dedicata alle Alpi Giulie. Autore e titolosono gli stessi del bel volume fotografi-co dell’editore B&V. Nella proiezione tro-viamo in più i testi tratti dagli scritti diCelso Macor. Non una semplice seratadi belle immagini delle nostre montagnequindi, ma un omaggio a quello che conJulius Kugy viene considerato il Poetadelle Alpi Giulie.

L’appuntamento è sempre per le ore21 all’Auditorium di via Roma.

8 Alpinismo goriziano - 3/2001

Novità in libreria

Gorizia: quel che c’è sottodi LUIGI BARBANA

GOORRIIZZIIAA SSOOTTTTEERRRRAANNEEAA:: eraora che uscisse il libro! Moltice l’hanno sollecitato più voltenel corso delle varie visite nei

misteriosi cunicoli della città. Sicu -ramente i più ansiosi avranno quasiperso ogni speranza, qualcuno si saràrassegnato a custodire gelosamenteimmagini e ricordi irripetibili, ma ciauguriamo che l’attesa non sia statavana. E poi una promessa, seppur nonsottoscritta e concordata con la citta-dinanza, va pur mantenuta.

Il volume è stato realizzato grazieanche al contributo del Comune diGorizia, della Provincia di Gorizia edella Fondazione Cassa di Risparmiodi Gorizia.

Il sindaco, Gaetano Valenti, nellaprefazione al libro sottolinea il caratte-re di importante apporto alla cono-scenza della città, particolarmenteattenta, nell’anno del Millenario, avalorizzare la sua storia. Ringrazia ilgruppo speleologico e apprezza lacollaborazione data dall’UfficioTecnico Comunale.

Il presidente della provincia,Giorgio Brandolin, si sofferma sulmodo originale di portare alla luce unaGorizia “nascosta” e sconosciuta aipiù, da parte degli speleologi animatidal gusto per l’esplorazione, motoreirrefrenabile della voglia di “andar pergrotte”.

Il presidente della FondazioneCassa di Risparmio, Franco Obizzi,esprime soddisfazione per i risultatifrutto dell’impegno di lavoro e ricercavolto a far conoscere la città e le sueorigini.

L’editore, Marino De Grassi, defini-sce il libro “speciale”, prodotto ditanta fatica che si condensa nelleimmagini, carte e rilievi che le paginedel volume riproducono. Fotografieche, seppur senza ambizioni artisti-che, riescono a trasmettere suggestio-ni forti e coinvolgenti.

Le Edizioni della Laguna vannoelogiate per essersi assunto il rischiodi questa impresa editoriale in un’epo-ca che, malgrado le apparenze,nasconde comunque molte insidie edincertezze di successo, soprattutto inalcuni settori commerciali come quellolibrario.

Dal nostro punto di vista non pos-siamo che essere contenti e fiduciosi:si pensi che dalle prime ipotesi in cui siprospettava un volume sulle 80, mas-simo 100 pagine, nel quale si potesse-ro raccogliere una cinquantina-ses-santina di fotografie, delle quali poi unterzo circa o comunque non più dimetà a colori, si è passati via via asoluzioni più azzardate che hannovisto un crescente coinvolgimento edinteressamento dell’editore contagiatodal proficuo lavoro di équipe (speleo-logi, storici, grafici, impaginatori…)fino al punto di sbilanciarsi: “Fazemotutto a colori e po bon!”. Risultato fina-le: il libro si presenta con una brillanteveste grafica, copertina cartonata e sicompone di 144 pagine con circa 200foto a colori!

Dopo le prefazioni di cui sopra, vi èun saggio introduttivo di MarinaBressan, a carattere storico, dal titolo

no per qualche strana ragione restainalterato nel tempo, si colgono e rivi-vono, naturalmente in maniera nonidentica da persona a persona, sensa-zioni differenziate. Purtroppo, omeglio, per fortuna del lettore, leimmagini non trasmettono gli odori,anche se, solo in alcune circostanze,questi mettono a dura prova il livello disopportazione di ciascuno. In ognicaso curiosità e passione per l’esplo-razione fanno mettere in secondopiano qualsiasi difficoltà o problema.

Gli episodi più o meno divertentioccorsi all’interno della grapa sonoper loro natura piuttosto singolari: èsuccesso, per esempio, di dover esse-re molto rapidi o scegliere i tempi giu-sti per attraversare un tratto della gal-leria senza essere investiti dagli spia-cevoli spruzzi che improvvisamentescaturivano da un pertugio laterale.

Una volta ci è capitato di notarequalcosa di rigido pendere dalla volta:avvicinatisi ci siamo accorti trattarsi diun palo in ferro con punta ricoperto dauno strato di ruggine, che si riveleràcorrispondere a un segnale stradale.Chissà l’incredulità e lo stupore deglioperai impegnati nel battere il paloche scende progressivamente senzaincontrare grossa resistenza…

In un’altra occasione, quando era-vamo intenti ad osservare la strutturamuraria interna, un improvviso quantofortissimo e acuto fischio echeggiantenella galleria ci fa voltare di scattospaventati: puntiamo il faro e notiamoa una cinquantina di metri la sagomascura di un grosso ratto che, puntatoin avanti, in atteggiamento minacciosoe per nulla intimorito, reclama la pro-prietà del luogo, avanzando di qualchemetro. Ci guardiamo e pensiamo: 4contro 1, 300 chili contro 5, almenosulla carta dovremmo farcela.Avanziamo anche noi, cauti ma decisi,di un paio di metri, in formazione com-patta. Dopo una fase di studio, carat-terizzata da piccoli avanzamenti, la“pantegana”, fatti evidentemente ipropri conti, batte in ritirata.

Le pagine finali della trattazionespeciale sono dedicate alla canalizza-zione artificiale del torrente Corno cheè stato percorso, non senza difficoltàper il superamento di salti d’acqua eper la scivolosità di molti tratti, in tuttala sua lunghezza, sfruttando per quan-to possibile i periodi di portata magra.

Seguono alcune pagine dedicate aVilla Coronini e Villa Ritter.

In conclusione vi è un capitolocurato da Alfio Bertoni dal titolo “Unalettura della pianta di Gorizia diGiuseppe Vintana” che rappresentauna guida a questa carta della cittàrisalente al 1583, la più antica cono-sciuta.

La nostra speranza è di aver resocosa gradita ai concittadini e portatoun significativo contributo alla cono-scenza di Gorizia.

Un unico appunto dobbiamo fareal bel lavoro del nostro GruppoSpeleo. Non sappiamo dove si sianoperduti, se nei meandri bui percorsi otra i tipi dell’Editore, ma va segnalatala mancata presenza sulla copertinadel volume dei due simpatici uccelliche segnano in qualche maniera lapaternità e l’appartenenza dell’opera:il pipistrello e l’aquila. Un segno d’i-dentità e di orgoglio per gli speleologie per la sezione tutta (N.d.r.).

d’Austria ci si preoccupa per la puliziae per lo smaltimento dei rifiuti; la grapadiventa un canale sotterraneo per ildeflusso delle acque e vengono siste-mate alcune fontane (le più famose, acaratterizzare le attuali Piazza Vittoriae Piazza de Amicis).

Un capitolo introduttivo dal titolo“Le ragioni di una ricerca” esprime lavoce del Gruppo Speleo “L.V.Bertarelli” ripercorrendo sinteticamen-te l’attività di speleologia urbana intra-presa a cominciare dal 1993, con tuttele sue implicazioni e sviluppi. I risultatisono oltremodo soddisfacenti e le fasidi ricerca si sono estese dalle inizialiesplorazioni volte alla documentazio-ne e ricostruzione del tracciato dellagrapa, alla ricerca di cripte, cameresepolcrali e sotterranei di origine reli-giosa sviluppatisi significativamente inrelazione all’insediamento dei Gesuiti

ze. La parte del leone, per così dire, lafanno comunque le immagini correda-te da didascalie, offrendo quell’imme-diatezza, completezza dell’informazio-ne visiva, carica emozionale e fascinosuggestivo che rendono interessantee piacevole anche il semplice sfogliareil libro.

Proprio per lasciare massima flui-dità e scorrevolezza alle pagine si èdeciso, inoltre, di raggruppare i datitecnici e i rilievi costituiti da planime-trie, spaccati e sezioni dei diversi trat-ti del canale della grapa e di alcunealtre cavità artificiali alla fine dell’inte-ra trattazione.

Si parte proprio con il canale dellagrapa, così vario nei diversi tratti, dapresentare caratteristiche, aspetti econnotazioni a volte anche notevol-mente contrastanti. Anche nei nostriricordi, riguardando le foto il cui fasci-

Ricovero presso la confluenza del torrente Corno con l’Isonzo

“I sotterranei di Gorizia fra leggenda erealtà”. Riuscendo ad essere piacevol-mente scorrevole ci accompagna, nondisdegnando puntuali citazioni abil-mente estrapolate dalla ricca biblio-grafia, attraverso l’evoluzione storicache caratterizza lo sviluppo della cittàsenza mai perdere d’occhio correla-zioni e implicazioni con i misteriosisotterranei, spesso affascinanti per ilconnubio fra paura e curiosità. Dinotevole interesse le riproduzioni didocumenti d’archivio, spesso inediti.

Particolare attenzione viene dataalle problematiche legate all’igienepubblica e alla nettezza urbana paral-lelamente alla crescita della popola-zione fin dal ‘500, che comporterannoprovvedimenti e pene sanzionatorienei secoli a venire; sotto Maria Teresa

in città, all’individuazione dei rifugiantiaerei dislocati in maniera strategi-ca nel territorio comunale, alla mappa-tura dei pozzi presenti nei vari quartie-ri cittadini e in particolare di quelli dipiù antica fattura, ubicati in BorgoCastello dove la ricerca si è spinta allaperlustrazione della struttura e del fon-dale grazie all’apporto degli speleo-sub, alle verifiche ed esplorazionilungo il tracciato della canalizzazioneartificiale del torrente Corno, ecc.

Dopo questa prima parte, il libroentra nel vivo affrontando la cosiddet-ta parte speciale, nella quale vengonodescritti i singoli tratti di sotterranei,cunicoli e cavità, permettendo al letto-re di avere una comoda localizzazionedella zona esplorata grazie a una car-tina indicativa con i nomi di vie e piaz-

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Note alpestridi GIORGIO SAMAR

Al polo a piedidi FLAVIO FAORO

Sullo sfondo la Økarlatica dal M. Mangart

A cura del Centro Documen -tazione Alpina di Torino, nellacollana dei Tascabili è statopubblicato nel mese di novem-

bre del 2000 «La Musica delle Mon -tagne», Musicisti e alpinisti tra vette epentagrammi, di Andrea Gherzi. Divisoin sedici capitoli, comprende vari appor-ti, da articoli pubblicati dall’autore sullarivista Alp a precedenti passi inclusi nelvolumetto Itinerari musicali del 1991. Illavoro è il frutto di lunghi anni di studio edi ricerche e si presenta come il piùcompleto attualmente disponibile sul-l’argomento.

A prima vista può sembrare, anchevisto il formato decisamente “tascabile”,un lavoro breve dedicato ad un argo-mento di poca rilevanza, ma nel corsodella lettura si scopre che sono statianalizzati con precisione non solo lecomposizioni espressamente dedicatealla Montagna, ma anche le esperienzemontane di grandi e meno noti musicisti,i loro rapporti con l’ambiente e l’influen-za delle espressioni della tradizione edel folklore sulle loro opere.

Il linguaggio adottato è abbastanzaabbordabile anche da chi non ha segui-to studi musicali, però, per poterapprezzare compiutamente una buonaparte del lavoro di ricerca svolto dall’au-tore, sono pressoché indispensabili unadiscreta conoscenza della Storia dellaMusica e soprattutto l’avere a disposi-zione una discografia ampia e comple-ta. Infatti moltissime sono le citazioni dicelebri e meno note pagine scritte siada grandissimi compositori, comeRichard Strauss, Gustav Mahler,Ludwig van Beethoven, Vincent d’Indy,sia da autori non celebri al grande pub-blico, come Joseph Joachim Raff,Gustave Charpentier, Eugéne Bozza etanti altri di cui sono indicati con preci-sione titoli, motivazioni e periodi dicomposizione della loro produzionededicata al mondo della Montagna.Ovviamente un discorso così ampio edapprofondito, sprovvisto di una ade-guata base d’ascolto, almeno di quantoinciso delle musiche degli autori piùnoti, può risultare più difficile, ma ancheun ottimo incentivo per poter ampliarela propria discografia e con essa le pro-prie conoscenze musicali.

Partendo dall’analisi delle musichetradizionali delle montagne, Ranz desvaches, Alphorn, Jodel, Lieder eBergerettes il saggio segue passo perpasso la musica dedicata alla Montagnae le influenze dell’ambiente montano suigrandi musicisti del Classicismo,Romanticismo e Novecento tedesco,russo, francese, svizzero, non trascuran-do gli apporti minori di altri musicisti ditutto il mondo e dedicando due capitolimonografici alla musica per pianoforteed a “Le Montagne in Teatro”.

Un capitolo intero è dedicato a EineAlpensinfonie del bavarese RichardStrauss, il grande poema sinfonico op.64 che ripercorre in musica, con unamirabile orchestrazione ed una efficacis-sima strumentazione, l’ascesa in unagiornata ad una vetta, ed il conseguenteritorno a valle. Se lo Strauss era un gran-de compositore, appassionato di escur-sioni a media altezza, il giuliano JuliusKugy, “cantore delle Alpi Giulie” con unapredilezione per la Val Trenta al quale èdedicato un altro capitolo, era invece unottimo alpinista anche ad alta quota, ma

semplice esecutore di musica altrui. Unafigura d’ingegno polivalente, al pari diEttore Zapparoli e Dino Buzzati, che tro-viamo nella sezione, ricchissima di ina-spettate notizie, degli “appassionati illu-stri”, dove figura anche Emilio Comici(suonava il pianoforte).

Due capitoli ricchissimi di citazionisono quelli dedicati ai musicisti russi,dalla musica a programma di Musorgskije Rachmaninov a Stravinskij, per poipassare ad una ampia panoramica sugliautori di tutto il mondo attivi nelNovecento, come Paderewski, Szima -nowski, Berg e Webern, fra l’altro legatialla Carinzia ed al Wörthersee, Martinu,Bax, Bloch e gli americani Strong,Farnell, Piston, Ives, Copland e Hovha -ness.

Nella parte conclusiva è citata anchela musica “non colta”, ovvero i canti alpi-ni tradizionali e il loro percorso nelNovecento in Italia, in particolare adopera del Coro della Società AlpinistiTridentini. Ovviamente col passare deglianni le raffinatezze introdotte ed il livelloartistico raggiunto da quella corale e damolte altre poco avevano a che fare congli originali temi popolari montani, però ilsuccesso e la fama ottenuti hanno fattosì che venissero aperte a questi reperto-ri anche le più esclusive sale da concer-to, così come l’argentino Astor Piazzollaseppe elevare il tango da musica di stra-da a raffinato genere d’ascolto. E comela musica sudamericana è conosciuta intutto il mondo, così i canti delle coraliitaliane sono altrettanto apprezzati edascoltati ad ogni latitudine. Nel saggio èpoco citata la parte orientale delle Alpi,ovvero quella più vicina alle nostre zone,dalla Slovenia a tutti i Balcani, così ricchidi tradizioni ed ancora da analizzare dalpunto di vista musicale.

Non mancano, invece, i riferimenti algiorno d’oggi, con le esecuzioni di musi-ca in montagna, in Italia inserite in vere eproprie stagioni concertistiche, come icitati concerti sinfonici in alta quota nelcuneese, le splendide stagioni de “ISuoni delle Dolomiti” dell’Azienda diPromozione Turistica del Trentino, per ladirezione artistica del clarinettista MauroPedron, alle quali possiamo aggiungerenoi gli Incontri Musicali presso i Rifugidelle Alpi Orientali delle stagioni «Note inRifugio», giunte alla quinta edizione, rea-lizzate fra l’altro con la collaborazionedella Sezione goriziana del Club AlpinoItaliano.

Il libro si conclude con un’ampia edettagliata descrizione della musicaNew Age, sorta a partire dalla metà deglianni Settanta fra Germania e Stati Uniti,sia nei due influssi più marcati,“ambient” e “techno”, sia nell’ambitodelle sue contaminazioni con la musicaclassica, quella elettronica, il jazz e ilblues. Il capitolo, che cita innumerevoliautori e loro composizioni, si riferisceparticolarmente all’utilizzo della musicadella Nuova Era, in particolare come ras-sicuranti colonne sonore di filmati edocumentari dedicati alla montagna.

In definitiva un saggio frutto di annidi ricerca e molto dettagliato dove pos-siamo fare un solo appunto, al quale laovvia risposta è determinata dalla sceltaeditoriale del formato tascabile: in unafutura edizione sarebbero molto graditil’indice degli argomenti, quello degliautori, la bibliografia e la discografia.

Quanti sono i volumi di avventurepolari in questo ultimo paio d’an-ni in libreria? E quanti lettori licomprano, visto che la trama – il

“plot”, come si dice – è fatalmente simi-le, con un robusto cocktail di freddo, fati-ca, rischio in spazi sconfinati e, oggetti-vamente, indescrivibili a chi legge alcaldo di un salotto? Beh, la risposta è“tanti” per entrambe le domande. Saràche dopo i decenni di libri con avventurealpinistiche il lettore tipo si è un po’ stan-cato di marce di avvicinamento, campibase e corde fisse, vette tempestose eritirate drammatiche. Sarà che splendidivolumi come Endurance: l’incredibileviaggio di Shackleton al Polo Sud (auto-re Alfred Lansing, editore Corbaccio)hanno letteralmente creato un genere efatto scoprire questi scenari a legioni dilettori. Sarà infine che questi libri offronol’alibi sottile di godere e soffrire stando inpoltrona, senza sentirsi coinvolti o stimo-lati ad andare (mentre un trekking alcampo base dell’Everest è alla portata ditutti, quanti sono quelli che possono per-mettersi i tempi e i costi di una spedizio-ne sulla banchisa?). Insomma, i titoli nonmancano. Come l’ultimo dell’editoreCorbaccio, A piedi sul ghiaccio, diLaurence de la Ferrière: un volume sipotrebbe dire classico del genere, anchese Shackleton e compagni sono distantianni luce, altro che meno di un secolo.

Dunque, qui una donna da sola attra-versa a piedi l’Antartide, passando per il

Polo Sud e sostando nella base scientifi-ca che trova a metà strada. Anzi, l’ultimaparte la percorre a fianco della pistaseguita dai convogli motorizzati cheriforniscono la base. E ancora, ad uncerto punto, per esigenze di sicurezzadei suoi accompagnatori, deve tornareindietro a bordo di uno di questi mezziper poi ripartire di nuovo con gli sci e laslitta da traino per il tratto finale. Un po’macchinoso e un tantino forzato? Forse,ma la scrittura è robusta e la lettura pia-cevole, la storia è descritta bene, con lesue fatiche e le sue emozioni, non visono cadute retoriche o iperboli cui altrecronache ci hanno abituato (lo avete inmente Mike Bongiorno al Polo, con lamessa in finta diretta televisiva – erastata registrata in una base russa, qual-che giorno prima – e sponsor come sepiovesse?). D’accordo, il libro è un po’“francese” – altro che ironia anglosasso-ne, realismo tedesco o introspezione lati-na – ma le pagine scorrono veloci e ilpersonaggio è in fondo simpatico, con lesue telefonate dal Polo agli amici in ansiae le sue lotte contro i congelamentianche durante il ballo di capodanno allabase del Polo Sud. Anche perché di fati-ca ne ha fatta davvero tanta e le bufere,anche se uno ha il telefono satellitare,non scherzano.

Da leggere, insomma, per gli amantidel genere. Sempre che abbiano giàletto lo Shackleton di Lansing. Altrimenti,molto meglio iniziare da quello.

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Pilastri S.O. del Montasio

Tra deserti e stile alpinodi MARKO MOSETTI

D opo l’attenzione prestata loscorso anno alle grandi mon-tagne dell’Africa equatoriale, ilCentro di Documentazione

Alpina di Torino prosegue nella scoper-ta e riscoperta della letteratura sugliangoli di mondo meno sfruttati dalpunto di vista alpinistico ed esplorativo.Arrivano in libreria contemporanea-mente due volumi dedicati al Sahara. Ilprimo è Il richiamo dell’Hoggar - arram-picate nel Sahara di Roger Frison-Roche, un vero classico che dal 1936,anno della prima edizione in Francia, haacceso la fantasia di intere generazionidi avventurosi. Classe 1906, RogerFrison-Roche è stato guida d’alta mon-tagna professionista, ma la sua famanel mondo è legata al suo essere anchescrittore, ed in particolare al suoromanzo Primo di cordata. Nell’apriledel 1935 Frison-Roche arriva per laprima volta nell’Hoggar con una spedi-zione alpinistica. È uno dei primi alpini-sti che vede le montagne saharianecome terreno sul quale aprire nuove viedi scalata. L’obiettivo primario sonoalcune celebri cime come l’Ilamane, ilGaret El Genun, l’Iharen ed altre torrigranitiche. Il racconto, sempre brillantee, nonostante gli anni trascorsi, estre-mamente attuale (a parte i cammellisostituiti dai ben più puzzolenti fuori-strada), quasi che l’aria secca deldeserto avesse concorso a ben conser-vare anche lo spirito degli scritti diFrison-Roche, alterna descrizioni dellesalite a quelle della vita della carovana,che condotta dalle fidate guide girova-ga per il deserto. Nel periodo che va dal2 aprile al 12 giugno 1935 Frison-Rocheed i suoi compagni d’avventure non silimitano però a scalare per il puro pia-cere della salita ma si dedicano ancheall’esplorazione ed alla ricerca.

Le misteriose ed affascinanti inci-sioni rupestri del Mertutek sono uno deiloro obiettivi. Questa prima avventurasahariana fu per l’alpinista e scrittorefrancese un’autentica rivelazione, ilvirus di una malattia che non lo abban-donerà più. Ritornerà nel deserto per17 volte. Il richiamo della vastità del-l’ambiente, la grandiosa maestà delpaesaggio, la solitudine saranno untarlo sempre presente in lui. Sentimentiche traspaiono così forti anche da que-ste vecchie pagine da farle diventare unclassico per chiunque si avvicini inqualche maniera al Sahara. Milioni dicopie vendute in tutto il mondo, di que-sto e degli altri suoi libri, ne imponeva-no la riedizione italiana, un viatico idea-le per vivere il deserto o anche sola-mente per sognarlo.

Chi del viatico di Frison-Roche hafatto buon uso è stato certamenteLorenzo Marimonti. Milanese, alpinistacon una buona attività, anche su mon-tagne extraeuropee, alle spalle, arrivaper la prima volta in Sahara nel 1956con una spedizione alpinistica nelloHoggar. L’innamoramento è istanta-neo, i ritorni sono ripetuti, sempre piùfrequenti e lunghi. L’esperienza accu-mulata viene messa a frutto lavorandocome guida sahariana, accompagnan-do turisti nei vari angoli del deserto,percorrendo migliaia di kilometri confuoristrada o sulla groppa di un cam-mello. Luci e ombre del deserto ci tra-sporta attorno al fuoco del campo, lasera, quando a turno ci si scambia iracconti. Sono storie vere che si arric-chiscono in qualche maniera delleatmosfere magiche e leggendarie deldeserto. Raccontano di avventure edrammi, di scoperte e incontri. Sonostorie antiche o solamente dell’altroieri, ma sono storie in cui il tempo si èperduto, come gli aerei scomparsi e

ritrovati a decenni di distanza, come icorpi mummificati dei morti di sete. Èl’assenza, la sospensione del tempoche percorre questi racconti, antichi eattualissimi, dove alle lente carovanedel sale si sostituiscono quelle deinuovi schiavi, i clandestini che risalgo-no dal cuore dell’Africa attratti dallaFata Morgana della ricca Europa e, nonè infrequente il caso, vengono inghiotti-ti dal nulla, ombre senza volto, nénome, né età. Tocca un po’ tutte lecorde dei nostri sentimenti Marimonti,dalla sorpresa allo stupore, alla rabbia,alla pietà, alla curiosità. Piste, oasi,nomi leggendari, altri meno noti mafondamentali nella geografia del deser-to si rincorrono tra le pagine e prendo-no vita personaggi quasi leggendari eluoghi fascinosi. Ce n’è veramente pertutti i gusti, attraverso una lettura mainoiosa, anzi così accattivante da arriva-re in fondo fin troppo rapidamente edesiderarne ancora, di storie e dideserto.

Il piccolo libro forse non rendecompleta giustizia a titolo ed autore: Itre ultimi problemi delle Alpi di AnderlHeckmair. Viene ripubblicato oggi infat-ti nella collana “Tascabili” di C.D.A.L’autore, classe 1906 e tuttora vivente,è una specie di monumento della storiadell’alpinismo. Protagonista di numero-se prime ascensioni e salite su cime ditutto il mondo viene ricordato soprat-

tutto per la prima vittoriosa salita dellaparete Nord dell’Eiger. Appunto uno deitre ultimi problemi delle Alpi, con laNord del Cervino e quella delle GrandesJorasses. Heckmair racconta dell’evo-luzione e della risoluzione delle treimprese, un’autentica gara, soprattuttoper quel che riguarda Eiger e GrandesJorasses, tra i migliori alpinisti dell’epo-ca. Un libro di storia dell’alpinismo alquale tuttavia per essere completomanca una parte fondamentale, quellacioè relativa alle spinte e alle influenzedelle nazioni, delle ideologie, della poli-tica dell’epoca anche nelle conquistealpine. Questo però, sebbene fonda-mentale per inquadrare certe scelte ecerte imprese, è materia non da alpini-sti ma da storici. Limitiamoci allora aseguire il racconto di Heckmair chediventa fondamentale nella parte cheriguarda la salita dell’Eigerwand porta-ta a termine direttamente da lui (fu intesta alla cordata dalla base alla vetta)e dai suoi tre camerati. Le vicende ciriportano a quel clima di drammatica etragica competizione che portò nume-rose cordate di giovani coraggiosi aperire tra le insidie di quella che diven-ne la “montagna assassina”, l’ ”orco”.Ben piantati nelle nostre comode ecalde poltrone ci riesce difficile com-prendere certe scelte, accettare ladeterminazione ad affrontare un rischiopalesemente troppo grande. Ma sono

state proprio queste vicende, da uncerto punto di vita insane, a fare gran-de la leggenda dell’alpinismo. Alloranon può che suscitare ammirazione ecommozione vedere, come ci è capita-to un paio d’anni fa, seduti accanto,sotto il tendone del FilmFestival diTrento, i due grandi vecchi, amici eavversari, Heckmair primo sulla Norddell’Eiger e Riccardo Cassin primo sullaNord delle Grandes Jorasses.

La vita alpinistica e non di RiccardoCassin viene raccolta in Capocordataunendo Dove la parete strapiomba eCinquant’anni di alpinismo e arricchen-do il tutto con parti ed episodi assolu-tamente inediti. “L’uomo rupe” come lodefinisce Fosco Maraini nella brillanteprefazione ci presenta così tutta la suavicenda umana, dalle origini nella cam-pagna friulana, alla dura infanziaschiacciato tra miseria e guerra, traeserciti in rotta e invasori, all’emigrazio-ne e morte del padre nel lontano e favo-loso Canada, alla sua decisiva emigra-zione a Lecco. Esperienze tutte chesicuramente hanno avuto una compo-nente fondamentale nel forgiare ilcarattere di Cassin e nel rendere la suadeterminazione quasi proverbiale. Nonsi spiegano altrimenti imprese iniziate econcluse positivamente nelle situazionipiù avverse. Salite leggendarie, dalleGrigne agli strapiombi Nord della Ovestdi Lavaredo, dalla Nord-Est del PizzoBadile allo sperone Walker delleGrandes Jorasses, dalla spedizione alGasherbrum IV a quella sulla Sud delDenali. Rimangono delle ombre però, odei rimpianti, tra le pagine di questoCapocordata. In un caso è rabbia, mal-celata nonostante il quasi mezzo seco-lo trascorso. La troviamo nelle paginedella ricognizione che Cassin fece conArdito Desio al K2 in preparazione allaspedizione del ’54 che per prima rag-giunse la vetta e dalla quale per motivimisteriosi e con giustificazioni artefattefu poi escluso.

Nell’altro caso è il rimpianto per larinuncia alla Sud del Lhotse, quando ilsuo ruolo era quello di capospedizionealla testa di un gruppo di fortissimicome Messner, Gogna, Piussi; ma forsei tempi non erano ancora maturi, man-cava ancora un quarto di secolo al2000.

Gli episodi che però rimangono piùimpressi di questo libro, al di là delleimprese alpinistiche che sono quindigià abbondantemente note, sono, amio avviso, due. Il primo è la ricercadella tomba del padre nelle foreste delCanada, tentativo fruttuoso solamenteper un Cassin novantenne. Il secondo èil racconto della partecipazione allalotta partigiana di liberazione. Episodiinediti di un Cassin inedito, l’uomo die-tro l’alpinista. Ma “In montagna ci si vaper essere liberi. Senza libertà l’alpini-smo non esiste più” dice il nostro citan-do un altro grande vecchio dell’alpini-smo, Bruno Detassis.

Negli anni fra i ’60 ed i primi ’90Gianni Calcagno, alpinista genovese,ha fatto parte dell’élite mondiale dell’al-pinismo. Il suo non è stato un apportoesclusivamente tecnico all’evoluzionedel modo di salire le montagne, maanche concettuale. È importante alloraquesto Stile alpino - Un decennio discalate che l’editore Vivalda manda inlibreria, a quasi dieci anni dalla morte diCalcagno. Gianni Calcagno è scompar-so nel 1992 mentre stava tentando laripetizione dello sperone Cassin sulDenali, in Alaska. Era una spedizioneleggera, in stile alpino, come quasi tuttele spedizioni extraeuropee che avevaorganizzato o alle quali aveva parteci-pato, ed erano 23. Non è Stile alpinouna semplice raccolta di relazioni di

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tedesco. Era la sua lingua e quelli eranoi nomi usati nella sua epoca. La tradu-zione in termini attuali peraltro dovreb-be tener conto dell’originale, ponendotra parentesi gli altri nomi, sloveno e/oitaliano. Flitsch infatti dovrà tradursi traparentesi Bovec-Plezzo, per rispettareil testo originale e consentire la lettura ela comprensione del racconto in modopiù pronto e completo a tutti.

Tale criterio dovrebbe peraltroessere applicato sempre allo stessomodo, per non confondere il lettore.Ciò purtroppo non avviene nel testo e,fatto gravissimo, avviene in modo sba-gliato e fuorviante soprattutto in uncaso di basilare importanza. Si trattadell’indicazione di Plezzo - Bovec qualetraduzione di Freistritz am Wochein,cioè Bohinjska Bistrica. Confondere ledue località, che si collocano in posi-zioni opposte rispetto al Tricorno, nonconsente al lettore di comprendere ilsenso del racconto, del quale falsa losvolgimento.

Di un tale inconveniente non sipoteva in alcun modo tacere, comepreferisco invece fare per altri rilievi.

Sarebbe peraltro ingiusto gettare lacroce addosso alla traduttrice, senzaevidenziare nel contempo il ben più rile-vante merito di aver portato a termineun lavoro comunque molto gravoso. Ilpoter disporre ora di un’opera cheprima conoscevamo soltanto di nomecostituisce in ogni caso un fatto positi-vo. Il merito resta quindi, anche se con-dizionato.

E un ultimo rimpianto va espressoper le tante stupende foto, che sonorimaste purtroppo negli impianti dell’edi-zione Leykam - Verlag di Graz del 1938!

Paolo Geotti

A lcune cose comunque si dove-vano pur dire, a propositodella recente edizione italianadel 500 anni del Tricorno di

Julius Kugy edito dalla Lint, completan-do il quadro già ampiamente delineatoda Mauro Gaddi, con la sua recensionedegli aspetti positivi del libro. Ecco per-ché desidero rilevare alcuni aspetti emanchevolezze di detta edizione.Anzitutto per il merito che Mario Lonzarha acquisito presso la sezione e i letto-ri, realizzando in qualità di presidente,nei primi anni sessanta, la riedizionedella trilogia kugyana, cioè Dalla vita diun alpinista, La mia vita e Le Alpi Giulieattraverso le immagini. Senza la suadeterminazione ed il suo coraggio nonavremmo avuto già quarant’anni fa lapossibilità di conoscere ed apprezzarequanto lo scopritore delle Alpi Giulieaveva pazientemente trascritto per noitutti.

Il nome ed il ruolo di Mario Lonzardovevano essere citati nella presenta-zione, ricordando anche la pubblicazio-ne che la sezione di Gorizia del CAI,sotto gli auspici di Luigi Medeot, avevarealizzato nel 1978, in occasione del200° della prima salita al Tricorno, cioèTricorno 1778-1978.

Si tratta di un’opera fondamentale eormai purtroppo introvabile, che hacontribuito in modo decisivo allamigliore conoscenza delle nostre gene-razioni del “Regno del Tricorno”.

Poi ci sono delle imprecisioni neltesto, che non consentono una letturafluida a tutti coloro che i luoghi delTricorno conoscono, assieme alla suastoria e geografia. Anzitutto per quantoriguarda il criterio di resa dei nomi, cheKugy nell’originale riporta perlopiù in

La vetta del Coglians con numerosi (forse troppi) segnali e simboli che la snaturano

AAllppiinniissmmoo ggoorriizziiaannooEEddiittoorree:: Club Alpino Italiano, Sezione diGorizia, Via Rossini 13, 34170 Gorizia.DDiirreettttoorree RReessppoonnssaabbiillee:: Fulvio Mosetti.

SSeerrvviizzii ffoottooggrraaffiiccii:: Carlo Tavagnutti.SSttaammppaa:: Grafica Goriziana - Gorizia 2001.Autorizzazione del Tribunale di Gorizia n.102 del 24-2-1975.

LLAA RRIIPPRROODDUUZZIIOONNEE DDII QQUUAALLSSIIAASSII AARRTTIICCOOLLOO ÈÈ CCOONN--SSEENNTTIITTAA,, SSEENNZZAA NNEECCEESSSSIITTÀÀ DDII AAUUTTOORRIIZZZZAAZZIIOONNEE,,CCIITTAANNDDOO LL’’AAUUTTOORREE EE LLAA RRIIVVIISSTTAA..

spedizioni ed arrampicate, ma un verodiario con le riflessioni, le analisi, legioie e le delusioni sparse lungo il corsodi una carriera alpinistica di assolutovalore mondiale.

Le scelte decise, radicali, persegui-te con ferma determinazione, quella deldilettantismo ad oltranza principalmen-te, non possono non generare una seriedi scontri e amarezze. Calcagno ne dàresoconto e confessione puntuale. Èinevitabile che tanta durezza con sestesso non possa essere ritrovata cosìcomunemente anche negli altri suoicompagni di scalate e spedizioni. Èl’eccezionalità della sua personalitàche lo fa, alla fine, scontrare con tuttiquelli che non riescono a mantenere isuoi ritmi, ad accettare i rischi che lui èdisposto ad accettare. Non è una lettu-ra leggera quella di Stile alpino: si vieneattirati nelle pagine, nelle riflessioni, neiconflitti di Calcagno ed è giocoforzaprendere posizione. Sono idee forti,risolute, quasi da integralista, da fanati-co, e possono provocare fastidio. Delresto la carriera alpinistica di Calcagnoera stata costellata da discussioni eamarezze.

Il filo rosso che percorre interamen-te le pagine di questo libro è la genesi elo sviluppo di un concetto basilare del-l’alpinismo extraeuropeo moderno: stilealpino, spedizione leggera di pochicomponenti votati a fatiche e rischi,niente appoggi esterni, estrema velo-cità di azione, operazioni da “comman-do”. Ma quanti, già all’epoca, avevanocompreso pienamente il significato cheCalcagno dava a questo concetto?Forse il solo Guido Machetto; nel 1975furono ambedue protagonisti di un

exploit fantastico sul Tirich Mir nelHindu-Kush.

Se “commando” e stile alpino sonoi concetti del libro, ed è interessante aquesto proposito uno scambio di lette-re tra Calcagno e Tiziana Weiss, la fortealpinista triestina (curioso, Genova eTrieste, città di mare, unite dalla monta-gna), non è di secondo piano la scoper-ta della piolet-traction e dell’arrampica-ta sulle falesie di Finale Ligure. Alla finesi potrà essere entusiasti o infastiditidalla personalità che queste pagineesprimono, ma si dovrà convenire cheè una lettura doverosa.

Roger Frison-Roche - IILL RRIICCHHIIAAMMOO DDEELL --LL’’HHOOGG GGAARR - ed. C.D.A., pag. 124, Lit. 26.000.-

Lorenzo Marimonti - LLUUCCII EE OOMMBBRREE DDEELL DDEE --SSEERRTTOO - ed. C.D.A., pag. 190, Lit. 32.000.-

Anderl Heckmair - II TTRREE UULLTTIIMMII PPRROOBBLLEEMMIIDDEELLLLEE AALLPPII - ed. C.D.A., pag. 157, Lit. 19.000.-

Riccardo Cassin - CCAAPPOOCCOORRDDAATTAA - ed. VI -VALDA - I Licheni, pag. 392, Lit. 37.000.-

Gianni Calcagno - SSTTIILLEE AALLPPIINNOO - ed. VIVAL-DA - I Licheni, pag. 296, Lit. 35.000.-

AA.VV. a cura del Gruppo Speleologico “L.V.Bertarelli” - C.A.I. Gorizia - GGOORRIIZZIIAA SSOOTTTTEERR --RRAANNEEAA - Edizioni della Laguna, pag. 140, Lit.48.000.-

Andrea Gherzi - LLAA MMUUSSIICCAA DDEELLLLEE MMOONN TTAAGGNNEE-- MMUUSSIICCIISSTTII EE AALLPPIINNIISSTTII FFRRAA VVEETTTTEE EE PPEENNTTAA--GGRRAAMMMMII - Centro Documentazione Alpina,collana Tascabili, pag. 215, Lit. 19.000.-

Laurence de la Ferrière - AA PPIIEEDDII SSUULL GGHHIIAACC--CCIIOO - Corbaccio editore, pag. 200 con foto acolori, Lit. 30.000.-

Lettere al giornale

Ritorniamo sul TRICORNO

Rinnovo delle cariche

O gni Assemblea Generale dellasezione è importante ed ilsocio dovrebbe sentire sem-pre il dovere morale di parte-

ciparvi; quella di giovedì 29 novembrelo è ancora di più perché è convocataalla scadenza del mandato triennaledel Consiglio Direttivo in carica e deglialtri organi statutari (Collegio deiRevisori dei conti e Collegio deiProbiviri) e quindi sarà dedicata anchealle elezioni per il loro rinnovo. Puòsembrare pleonastico ma noi ci sen-tiamo di ricordare egualmente quantoquesto momento sia importante per lavita della sezione, per le varie e molte-plici attività che essa svolge e pro-muove. Cosa si chiede in cambio alsocio, oltre al pagamento del bollino?Semplicemente la partecipazione allavita sociale, a questa importanteassemblea in special modo, dove conil suo voto contribuirà a dare un voltoal prossimo Consiglio Direttivo. Se poiqualche socio volesse partecipare inmaniera ancor più attiva e candidarsialla copertura delle cariche in rinnovonon ha che da farsi avanti.

Foto cercansi

S i avvicina la data del 18 dicem-bre, fissata quest’anno per ilfestoso riepilogo delle attivitàsociali appena svolte. Com’è

consuetudine la serata si svolgeràall’Auditorium di via Roma e proporràoltre all’oramai tradizionale proiezio-ne dell’ ”Immagindiario” anche unpiccolo omaggio musicale da partedel Coro “Monte Sabotino”. Per isoci che desiderassero parteciparecon le proprie immagini alla proiezio-ne si raccomanda di non indugiaretroppo e di consegnarle ai responsa-bili della serata Regina Mittermayr eGiovanni Penko non oltre il 15novembre.

12 Alpinismo goriziano - 3/2001

D opo la più varia attività, fra marie monti e quant’altro, in un’e-state che anche il tempo incle-mente contribuisce a far sem-

brare terminata, ci rincontriamo su que-ste pagine per un momento di riflessio-ne. Le gite sociali sono proseguite inin-terrotte per tutta la stagione; notevole lapartecipazione ed il ricambio di parteci-panti. Sola eccezione la gita di ferrago-sto al Monviso, che ha visto pochissimipartecipanti, forse a causa di personaliprogrammi alternativi o della notevoledistanza della meta. Il programma diattività per il 2002 è quasi pronto ed èincentrato, ove possibile, su gite condoppio itinerario: uno escursionistico euno più impegnativo, di preparazioneall’uscita di Ferragosto. Base necessa-ria di preparazione è stato il Corso diescursionismo, che fornisce ai soci lenozioni e l’esperienza fondamentali perun approccio sicuro, responsabile econsapevole alla montagna; il corso si èsvolto con successo per l’impegno deicollaboratori e per i soddisfacenti risul-tati conseguiti dagli allievi. Non dimenti-co però i giovani, che come ogni anno esenza tanti clamori hanno affollato leuscite di Montikids con soddisfazioneloro e nostra; una recente esperienza,ma non l’ultima, è stata sulle Tofane inun’escursione con pernottamento alrifugio. Un’importante attività, che coin-volge la Sezione, è la segnatura dei sen-tieri, che tutti pretendiamo ben segnatie percorribili, dimenticando però checiò richiede un lavoro non facile: marca-tura della segnaletica, taglio della vege-tazione, consolidamento del fondo dicalpestìo, posa di cartelli segnaletici. Iltutto si riassume in un grande impegnoe ringrazio quanti contribuiscono ehanno contribuito (vedi sentieri delCarso) al mantenimento di questa rete

di comunicazione, che molti ritengonouna realtà dovuta ma che è nostro com-pito curare. L’autunno entrante ci invo-glia alla ripresa di altre attività.Riprendono gli appuntamenti con laginnastica presciistica, nella palestradell’Istituto Pacassi, il lunedì e giovedì.Il primo appuntamento culturale è conRenato Candolini che presenterà il suovideo ‘Silenzi in concerto’ in anteprimaall’Auditorium il 16 ottobre prossimo;l’occasione è unica e da non perdere,come assicura chi l’ha già visto. Si pro-seguirà con il ciclo Montifilm 2001, pro-grammato per novembre, che saràeccezionalmente accompagnato dallaMostra fotografica, su cui trovate noti-zie in queste pagine; per quest’ultimarivolgo un invito a tutti i soci perché par-tecipino con materiale fotografico allariuscita di una manifestazione che è ilcontributo della Sezione al Millenariodella Città. Termino queste note conalcuni promemoria importanti. Dome -nica 28 ottobre si terrà la gita di chiusu-ra al monte Biochia; la gita chiude sim-bolicamente il periodo di attività estivoe verrà seguita dalla Messa e dalla cenasociale con la premiazione dei soci ven-ticinquennali e cinquantennali. Giovedì29 novembre si terrà nell’Aula magnadel Liceo classico l’Assemblea generaledei soci; l’appuntamento è importanteperché vi si fa il consueto punto sullasituazione della Sezione e l’occasioneper proporsi come collaboratori nelConsiglio direttivo. Ci saranno infatti leelezioni per il rinnovo delle carichesociali per il triennio 2002/04 e unapporto di nuove idee e di nuove forze èbenvenuto. Ci sarebbe poi da dire qual-cosa sugli appuntamenti del tardoautunno, ma questo è un altro discorsoe ne riparleremo su questo giornale alprossimo appuntamento.

Lettera ai socidi FRANCO SENECA

I ruderi della stalla di Malga Cimadors

Forca dei Disteis e Torre omonima (Montasio)

Fedeltà premiataNel corso dell’incontro che tradi-

zionalmente riunisce i soci einsieme conclude l’attività esti-va si terrà la premiazione dei

Soci cinquantennali e venticinquennali.Sono soci venticinquennali per il 2001:Paolo Brisco, Dario Cecconi, LorenzoCenni, Annamaria Ceriani, GiovannaChersin, Renzo Cocco, Lorenzo Co -cianni, Andrea Delai, Renzo Demarchi,Tarcisio Drosghig, Alessandro Duca,Carlo Ermini, Dolores Feresin, MariaGuglielmi, Ezio Licinio, Massimo

Maniacco, Michela Maniacco, BrunoMarussig, Paolo Merlo, Enzo Mosetti,Maria Luisa Nesbeda, Fulvia Oblassia,Elisabetta Picech, Mauro Pisaroni,Sandra Pituelli, Francesca Punteri,Fabio Smundin, Giovanni Tuni, WalterTurus. Sono soci cinquantennali: DarioCulot, Franco Gallarotti e Lina Tava -gnutti. Il programma della serata, che siterrà domenica 28 ottobre al terminedella gita sociale al monte Biochia edella successiva Messa, verrà comuni-cato nei dettagli attraverso i consueticanali di comunicazione.

Assemblea generale ordinariaL’Assemblea Generale Ordinaria dei Soci è convocata per giovedì 29 novem-

bre 2001 presso l’Aula Magna del Liceo Classico di viale XX Settembre, alle ore20.30 in prima convocazione ed alle 21.00 in seconda, per discutere il seguenteordine del giorno:

1. Nomina del presidente e del segretario dell’assemblea e di tre scutatori2. Lettura ed approvazione del verbale dell’assemblea del 29 marzo 20013. Relazione del presidente sezionale4. Premiazione dei soci cinquantennali e venticinquennali5. Programma di attività sociale per il 20026. Adeguamento dei canoni sociali7. Bilancio preventivo 20028. Elezione del Consiglio direttivo, dei revisori dei conti e del Collegio dei probiviri

per il triennio 2002/049. Varie ed eventuali.

Il Presidente