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Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Politiche Giuridiche e Studi Internazionali Atti del Seminario Persona vulnerabile e progetto di sostegno Le misure di protezione come “strumenti di realizzazione” 29 aprile 2016 Aula Nievo, Palazzo Bo, Padova Dipartimento di Scienze Politiche Giuridiche e Studi Internazionali Centro di Ateneo di Servizi e Ricerca per la Disabilità, la Riabilitazione e l’Integrazione Centro di Ateneo per i Diritti Umani

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Università degli Studi di Padova Dipartimento di Scienze Politiche Giuridiche e Studi Internazionali

Atti del Seminario Persona vulnerabile e progetto di sostegno Le misure di protezione come “strumenti di realizzazione”

29 aprile 2016

Aula Nievo, Palazzo Bo, Padova Dipartimento di Scienze Politiche Giuridiche e Studi Internazionali

Centro di Ateneo di Servizi e Ricerca per la Centro di Ateneo Disabilità, la Riabilitazione per i Diritti Umani Amministrazione e l’Integrazione

di sostegno

Dipartimento di ScienzePolitiche Giuridiche e Studi Internazionali

Centro di Ateneo di Servizi e Ricerca per la Disabilità, la Riabilitazione e l’Integrazione

Centro di Ateneoper i Diritti Umani

Persona vulnerabile e progetto di sostegnoLe misure di protezione come “strumenti di realizzazione”

Atti del seminario, Padova, 29 aprile 2016

Introduzione di Mariassunta Piccinni p.5

Universa Universis Patavina Libertas: Questioni di inclusione di Laura Nota

p.13

Inventario per angeli laici di Paolo Cendon p.23

Spunti per la discussione

Spunti di interesse geriatrico introduttivi al tema giuridico dell’amministrazione di sostegno di Alberto Cester

p.27

Riflessioni sul tema giuridico dell’amministrazione di sostegno nell’ottica dei servizi per la salute mentale di Carla Cremonese e Paolo Santonastaso

p.31

Il punto di vista del medico legale clinico di Daniele Rodriguez p.39

Il ruolo dei servizi sociali e del volontariato nella procedura di amministrazione di sostegno di Francesca Succu

p.43

La difesa tecnica ed il procedimento di amministrazione di sostegno di Sergio Trentanovi

p.49

Relazioni

L’amministrazione di sostegno: uno strumento che ha rivoluzionato la cassetta degli attrezzi della salute mentale di Gemma Brandi

p.57

Dipendenze e amministrazione di sostegno: un’occasione di riflessione di Sara Costanzo

p.65

L’amministrazione di sostegno: uno strumento di promozione dell’autonomia e di protezione della persona di Barbara Schiavon

p.71

Pubblicazione a cura di Cristina Pardini

Impaginazione: Anna Donegà, Marta Flauto - CSV Padova

Il volume è stato pubblicato con il contributo del CSV della Provincia di Padova

Il Seminario è stato organizzato con il contributo del Progetto Prat 2014 “Dalla protezione alla promozione delle persone vulnerabili: l’amministrazione di sostegno come risorsa nei contesti di cura?”

Finito di stampare nel mese di maggio 2017.

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Persona vulnerabile e progetto di sostegno

Introduzione

di Mariassunta Piccinni

È nella veste di responsabile del Progetto di Ateneo “Dalla protezione alla promozione delle persone vulnerabili: l’amministrazione di sostegno come risorsa nei contesti di cura?”1 che vorrei avviare i lavori dando conto del contesto in cui si inserisce questo Seminario e della direzione che ci piacerebbe prendesse la discussione qui, ma soprattutto dopo ed oltre questa (speriamo prima) occasione di incontro.

Incontro che nasce, anzitutto, dalla necessità, avvertita dal gruppo di lavoro padovano di cui sono parte, di un confronto esterno con esperti impegnati nel fare funzionare l’amministrazione di sostegno nei diversi contesti di cura, in modo adeguato rispetto alla realizzazione degli interessi del beneficiario. In questo senso ringrazio tutti i relatori anche per la disponibilità a costruire insieme il contenuto di questo Seminario. Permettetemi, però, un grazie particolare al Professor Paolo Cendon, per essersi subito reso pienamente disponibile a favorire questo incontro, ed alle persone che ruotano attorno all’Associazione “Persona e danno”, che hanno aderito con entusiasmo all’iniziativa, molte delle quali sono qui presenti sia come relatori, che come partecipanti.

Come gruppo di lavoro abbiamo, poi, voluto cogliere un’altra opportunità: inserirci in un contesto culturale e di pensiero più allargato anche all’interno dell’Ateneo: si tratta delle iniziative sull’inclusione promosse dall’Università di Padova2.

E di questo devo ringraziare anzitutto la dott. Francesca Succu, che, anche

1 Si tratta del PRAT 2014-2016, “Dalla protezione alla promozione delle persone vulnerabili: l’amministrazione di sostegno come risorsa nei contesti di cura?”, finanziato dall’Università degli studi di Padova, promosso dal Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, con la partecipazione del Dipartimento di Medicina molecolare e del Dipartimento di Neuroscienze della stessa Università.2 V. il sito http://www.unipd.it/inclusione/azioni-vantaggio-dellinclusione.

L’amministrazione di sostegno presso il Tribunale di Padova. Alcuni spunti di riflessione di Francesco Spaccasassi

p.83

Appunti al termine del convegno di Paolo Benciolini p.89

Materiali

Un «progetto di sostegno» per la realizzazione del beneficiario. Documento di lavoro condiviso, a cura di Mariassunta Piccinni e Cristina Pardini

p.93

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Cendon5 risultavano già tratteggiati tutti gli aspetti principali della riforma che ha dovuto attendere il 2004 per venire alla luce.

L’idea nuova che, finalmente, ha trovato anche conferma normativa è quella di “sostenere” la persona non sufficientemente autonoma.

Ragionando con Paolo Cendon rispetto al titolo di questo Seminario, ci veniva in mente il concetto di ”empowerment”. Ci siamo sforzati di cercare l’equivalente in italiano: si tratta del tentativo di dare potere, nel senso di sostenere le potenzialità che ciascuno ha.

E vi propongo un’immagine mitologica a cui sono affezionata: Achille piè veloce, il grande guerriero, che ha la sua vulnerabilità proprio nel suo punto di forza.

Ora, tutti siamo più o meno guerrieri (in senso metaforico) e più o meno vulnerabili6, ma l’idea che mi sono fatta, grazie alle testimonianze dei (diversamente) “pratici” - professionisti sanitari e del sociale, giudici, avvocati, ma anche persone con disabilità e loro familiari - è che maggiori sono i problemi di autonomia di una persona, maggiore è la necessità di farsi “guerrieri”, cioè di “lottare”. Si potrebbe dire, in prima approssimazione: di lottare per l’esercizio dei propri diritti: ma questa mi pare una prospettiva un po’ stretta. Preferisco l’orizzonte più ampio della prospettiva “costituzionale”; lottare, dunque, per la realizzazione della propria persona: per ottenere risposta ai propri “bisogni ed aspirazioni” (art. 410 c.c.) o per la valorizzazione delle proprie “capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni” (come ha affermato

della trasformazione, Napoli, Esi, 1988. Sono di quegli anni anche altri importanti scritti, tra cui lasciatemi ricordare il contributo del Prof. Renato Pescara nel Trattato Rescigno, la cui I edizione risaliva al 1982, e che è ancora pietra miliare nello studio sulle “tecniche privatistiche” per la promozione dei diritti delle persone non autonome (v. R. Pescara, Provvedimenti di interdizione e inabilitazione e tecniche protettive dei maggiorenni incapaci, nel Trattato Rescigno, 4, tomo III, Persone e famiglia, Torino, Utet, 1982, 693 ss.; e Id., Tecniche privatistiche e istituti di salvaguardia dei disabili psichici, ivi, II ed., 1997, 755 ss.).5 La bozza è pubblicata in Pol. del dir., 1987, 653 ss., con introduzione di P. Cendon, Infermi di mente ed altri “disabili” in una proposta di riforma del codice civile. Vi veniva citato, a memoria di antiche consuetudini di dialogo tra Padova e Trieste (e non solo), il circolo di Venezia, di cui facevano parte, tra i presenti, oltre a P. Cendon, R. Pescara e P. Zatti.6 Per Lévinas: “L’uomo da capo a piedi, fin nelle midolla delle ossa, è vulnerabilità” (E. Lévinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova, 1985, 143).

in qualità di Presidente dell’Associazione regionale “Amministrazione di sostegno”, è stata ed è tenacissima nel lavorare alla costruzione di reti e ci ha spronati a metterci in contatto con il Centro di Ateneo per la Disabilità e l’inclusione e con il Centro di Ateneo per i Diritti umani.

E ancora un grazie alla Professoressa Laura Nota, al Professor Marco Mascia ed alle dott.sse Carla Tonin e Graziella Lunardi, che ci hanno dato la possibilità di condividere questo spazio dell’Ateneo: e non solo per averci ospitato nell’insieme di interessanti momenti di riflessione promossi dall’Ateneo in questi giorni, messo a disposizione i luoghi, e supportato logisticamente: mi riferisco soprattutto all’opportunità di essere parte di un percorso culturale e progettuale in evoluzione.

Infine, e poi termino con i ringraziamenti, grazie alla dott.ssa Cristina Pardini, per l’essenziale supporto nell’organizzazione che è sempre più complessa di quanto si preveda. E a tutti voi qui presenti come relatori e come partecipanti.

2. Venendo ai contenuti di questo incontro, permettetemi una precisazione sulla scelta del titolo.

L’idea tradizionale rispetto alla “tutela giuridica” delle persone non autonome era quella di – per usare un termine generoso rispetto alle esigenze sociali che gli ordinamenti giuridici del passato si prefiggevano di tutelare – “preservare” la persona c.d. “incapace”. La conseguenza era comunque, inesorabilmente, quella della esclusione, dell’emarginazione.

Emerge nei vari ordinamenti a noi limitrofi, ed anche in Italia fin dalla fine degli anni sessanta, e soprattutto negli anni settanta del secolo scorso, un’idea nuova3. Non posso non citare il Convegno triestino organizzato nel 1986 dal Prof. Cendon “Un altro diritto per il malato di mente”: io ne ho letto, come credo molti degli odierni addetti ai lavori, le memorie, ma alcuni di coloro che sono qui oggi presero parte attiva ai lavori triestini4. Nella c.d. prima Bozza

3 V. già la riforma francese del 1968; le riforme degli anni ottanta in Austria e Spagna, e le modifiche apportate sin dal 1990 al BGB tedesco. Il legislatore italiano, nonostante la spinta basagliana rispetto alla legislazione manicomiale, è rimasto inerte rispetto all’impianto civilistico degli strumenti a tutela della persona non autonoma fino alla l. n. 6/2004. 4 V. P. Cendon, a cura di, Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti

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di doveri rispetto alla realizzazione degli individuati bisogni del beneficiario.

Se non c’è un adeguato progetto di sostegno, oltre che un adeguato amministratore, l’amministrazione di sostegno può diventare uno strumento alla meno peggio inutile, alla peggio pericoloso.

4- Permettetemi a questo punto un cenno finale al progetto che stiamo conducendo nell’ambito dell’Ateneo di Padova e al quale ho fatto cenno in apertura.

Se l’amministrazione di sostegno ha suscitato molte ritrosie anche per l’applicazione all’ambito patrimoniale, la sua applicazione all’ambito personale è stata ancora più difficoltosa. Oggi non si discute più del se l’amministrazione di sostegno possa essere uno strumento anche per la cura della persona, ma è aperto il problema del come. Ed in questo senso il tema della sostituzione o dell’accompagnamento nelle scelte sulla salute o nelle scelte abitative è forse tra quelli più attuali.

La domanda pratica che ci ha guidato, quando ci siamo trovati con il prof. Daniele Rodriguez ed il prof. Paolo Santonastaso a pensare a questo progetto, è stata questa: come “prendere sul serio” l’amministrazione di sostegno nei contesti di cura? O, in altri termini: in che modo l’amministrazione di sostegno può essere davvero risorsa, prima di tutto per la persona beneficiaria, nei contesti di cura? Io avevo in mente la richiesta del dott. Luca Cecchini, medico rianimatore-anestesista romano, che, dopo un Convegno molto partecipato di qualche anno fa organizzato con il Prof. Paolo Zatti8, mi chiese: ma come faccio a fare in modo che a Roma l’amministrazione di sostegno sia applicata in terapia intensiva? E non mi chiedeva (solo) rassicurazioni teoriche, ma buone prassi da poter “sperimentare”: ed io avevo davvero poco da offrire... Da allora le cose sono, per fortuna, molto cambiate, ma molte sono le criticità.

Abbiamo ritenuto necessario costruire un gruppo di lavoro composto da diversi livelli di competenze ed esperienze, quello “accademico”, quello

8 Si tratta della giornata di studi “Per un diritto gentile alla fine della vita”, svoltasi a Padova il 25.10.2013 presso l’Auditorium San Gaetano, promossa dal Dipartimento di Scienze politiche giuridiche e studi internazionali e dalla Società Italiana di Cure Palliative (per i materiali, v. https://undirittogentile.wordpress.com).

riguardo al minore dapprima l’art. 147, dopo la riforma degli anni settanta; v. anche gli artt. 315 bis e 316 c.c.) e, infine, per la soddisfazione dei propri interessi nell’ordinamento giuridico, con il superamento degli ostacoli che distanziano le persone non abbastanza autonome da quelle tendenzialmente autonome (art. 2 e 3 Cost.).

3- Riprendendo la metafora di Achille, per assolvere all’impegnativo compito di “costruire calzari adeguati” a sostenere le persone nei loro più o meno scoperti punti deboli, è fondamentale “il progetto di sostegno”. Il dott. Sergio Trentanovi si accorse da subito della centralità del “progetto di sostegno” rispetto ad un adeguato funzionamento della misura di protezione privatistica7.

Perché il progetto sia costruito e funzioni in modo adeguato ci sono tre protagonisti necessari, ai quali si affiancano tanti attori che possono essere mere comparse o diventare rilevanti nel compito di coadiuvare i tre protagonisti: dai familiari, ai vicini di casa, alla più ampia “rete di prossimità”, agli operatori dei servizi socio-sanitari coinvolti, ai vari professionisti ed ai terzi con cui si relaziona il beneficiario.

Primo protagonista è – sempre bene rammentarlo – il beneficiario, con le sue potenzialità da sostenere.

È, poi, centrale il ruolo del giudice tutelare. È l’organo giudiziario che sceglie se attivare o meno la misura di protezione; in caso positivo, stabilisce i compiti dell’amministratore di sostegno in relazione a “bisogni ed aspirazioni” del beneficiario; vigila sulla persistenza della necessità della misura e sul suo adeguato funzionamento; provvede, infine, al suo adattamento rispetto all’evoluzione di bisogni ed aspirazioni del beneficiario.

L’altro protagonista necessario è, ovviamente, l’amministratore di sostegno. La figura si avvicina a quella del “volontario”, ma con una rilevante differenza. Con l’assunzione dell’incarico è attribuito un ufficio: all’amministratore di sostegno sono, dunque, conferiti specifici poteri funzionali all’assolvimento

7 V. S. Trentanovi, Protezione delle persone prive di autonomia: rapporti tra amministrazione di sostegno e interdizione/inabilitazione. Profili processuali e organizzativi, in Riv. di diritto delle professioni sanitarie, 2004, fasc. 7, 10 ss., e per un’applicazione pratica Trib. Venezia, 13 ottobre 2005, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 579.

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culturale, quello organizzativo e quello delle prassi applicative. È necessario un rinnovamento a ciascuno di questi livelli per un definitivo abbandono di pratiche spesso più sbrigative ed “efficienti” ancora in diverso modo “interdittive”, in favore di più complesse e difficoltose pratiche integrate di sostegno alla persona, secondo la richiamata logica della realizzazione del beneficiario. La stessa riflessione tecnico-giuridica sull’applicazione dell’istituto deve essere volta ad una costante vigilanza sull’adeguatezza dello strumento rispetto a tale più globale fine.

“professionale-operativo” e quello “istituzionale”9. L’idea di base è quella di affrontare il tema nell’ottica del necessario raccordo tra gli uffici giudiziari ed i diversi servizi socio-sanitari coinvolti nell’applicazione della misura, attraverso la mediazione dell’Università.

Gli obiettivi che ci siamo posti sono i seguenti: 1- individuare criticità e potenzialità dell’amministrazione di sostegno in alcuni selezionati contesti clinico-assistenziali; 2- elaborare procedure condivise con le istituzioni coinvolte per un «adeguato» utilizzo dell’amministrazione di sostegno nei diversi ambiti individuati; 3- promuovere un osservatorio regionale per il monitoraggio dell’applicazione dell’istituto e la comparazione con esperienze di altre realtà (regionali ed europee).

Siamo a metà del percorso e per procedere con i lavori ci sono sembrati essenziali un’apertura ed un confronto con l’esterno.

5- Ecco, in definitiva, le ragioni del Seminario odierno. L’obiettivo è di discutere sul come facilitare un «progetto di sostegno» della persona che risponda alle sue effettive «esigenze di cura», valorizzandone le potenzialità e le risorse di contesto, attraverso il confronto con esperti di diverse discipline.

Permettetemi un’ultima considerazione: mi pare sempre più urgente riconoscere, sia a livello accademico che nella pratica quotidiana, la necessità di lavorare contemporaneamente su più fronti: quello in senso più ampio

9 Il progetto è dunque promosso da tre Dipartimenti dell’Ateneo di Padova (il Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali, per gli aspetti giusprivatistici, il Dipartimento di Medicina molecolare, per gli aspetti medico-legali clinici, ed il Dipartimento di Neuroscienze, per gli aspetti psichiatrici e neurologici); vi partecipano, inoltre, professionisti diversamente coinvolti nell’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno (magistrati svolgenti le funzioni di giudice tutelare in alcuni Tribunali della Regione, inclusi magistrati onorari; avvocati impegnati anche come amministratori di sostegno; professionisti socio-sanitari collegati a diversi contesti di cura: dalla geriatria, alle residenze sanitarie assistenziali, dalla psichiatria alla neurologia, alle cure palliative); a livello istituzionale è coinvolta l’Azienda ospedaliera di Padova, la U.l.s.s. 16 (ora U.l.s.s. 6), il Dipartimento interaziendale di salute mentale di Padova; l’Associazione Amministrazione di Sostegno Onlus, che dal 2008 è in prima linea nelle attività di promozione dell’istituto a livello regionale e locale, ed, infine, il C.C.S., Consorzio di Cooperative Sociali, che comprende diverse cooperative che si occupano di disabilità, distribuite in quasi tutte le province venete.

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Universa Universis Patavina Libertas: Questioni di inclusione

di Laura Nota

Tempi sfidanti

Il XXI secolo porta con sé una serie di segnali di consistente novità rispetto al passato, e non tutte positive per diverse parti del mondo (Nota & Rossier, 2015). Di fatto la nostra società può essere decritta ricorrendo a poche ed emblematiche parole che sono ormai entrate nel linguaggio comune grazie anche alla loro utilizzazione frequente da parte dei nostri mass media: globalizzazione, rischio, diversità, velocità, cambiamento, transizione, competizione, precariato… La cosiddetta globalizzazione se da un lato sembra avere ridotto almeno apparentemente la distanza tra i continenti, dall’altro sembra aver accentuato lo iato tra paesi e, al loro interno, la forbice esistente tra ricchi e poveri e tra coloro che sono o non sono in grado di fronteggiare le sfide che il futuro propone anche sul versante della salute e della qualità dell’esistenza.

I nostri tempi presentano aspetti di super-diversità e di complessità che fino ad ora non abbiamo mai sperimentato. Le differenze sono legate ad una serie di variabili, quali etnia, stato socio-economico, esperienze di povertà, religione, orientamenti sessuali, età, presenza di disabilità, e intersezione fra queste. Il dare attenzione solo al binomio “integrazione e disabilità” viene ormai considerata una pratica obsoleta in quanto la menomazione rappresenterebbe una componente estremamente ridotta delle eterogeneità che potrebbero essere interessate dalla tematica dell’inclusione (McLeskey, Waldron, Spooner, & Algozzine, 2014).

Tutto questo viene sovente associato all’incremento di svariate forme di disagio, difficoltà e vulnerabilità. Le vulnerabilità possono essere incrementate dalle difficili condizioni socio-economiche e di incertezza per il futuro che caratterizzano i nostri tempi, dal restringimento della classe media, in grado di limitare attese e aspettative, anche in termini di speranze e possibilità per il futuro, dalla riduzione nella linearità con cui si possono costruire percorsi

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Così, da un lato, le persone in difficoltà si sono trovate sempre meno frequentemente nelle necessità di dover abbandonare le proprie comunità per andare alla ricerca di ambienti e servizi in grado di rispondere adeguatamente alle loro necessità, e, dall’altro, si iniziò a considerare il diritto ad una vita di qualità di tutta la popolazione e non solamente di una piccola minoranza. Si cominciò a far sì che le persone che erano tradizionalmente chiuse fuori dalla comunità potessero rimanervi e prenderne parte in modo attivo e partecipativo e a considerare i contesti comunitari come luoghi in cui si vive con, si fa e si decide assieme per debellare ogni forma di emarginazione e per favorire la crescita e la partecipazione di tutti (Shogren & Wehmeyer, 2014).

Sulla base di ciò oggi si tende sempre più spesso a sostituire il termine di integrazione con quello di inclusione.

Se per parlare di integrazione è stato necessario superare il concetto di inserimento e andare oltre le pur necessarie e positive condizioni che lo hanno reso possibile, per parlare di inclusione diventa necessario operare un ulteriore salto culturale che ci deve condurre a considerare strumentale e scorretto parlare della stessa se ci poniamo in difesa solo di qualche ‘bisogno speciale’.

Parlando di inclusione, infatti, si dovrebbe poter percepire, sin da subito, che non ci si sta focalizzando sulla presenza, in una comunità, in una università, di persone con menomazioni e difficoltà aventi livelli marcatamente diversi di funzionamento, né di professionisti e di studiosi di diagnosi e valutazioni, né di esperti e specialisti, né di una particolare tipologia di utenti, di genitori e cittadini (Soresi, Nota, & Wehmeyer, 2011).

L’inclusione non riguarda più questa o quella categoria di cittadini: non ha più senso parlare di inclusione di persone con disabilità, con problematiche psichiatriche, di persone immigrate e così via… questo si poteva fare parlando di inserimento e di integrazione e poteva avere qualche senso nel secolo passato quando i movimenti per l’inserimento e l’integrazione muovevano i loro primi passi. Oggi è preferibile ribadire che l’inclusione si riferisce ad una serie di importanti condizioni che debbono caratterizzare i contesti di vita di tutti affinché vengano rispettati i diritti e considerate con attenzione le aspettative, necessità e richieste di tutti, anche per evitare che vengano rimesse

di vita e professionali, e dalla crescente percezione di scarsa equità per i dislivelli e la forbice economica che caratterizza le nostre società, in grado di aumentare le sensazioni di impotenza delle persone, siano esse studenti che lavoratori (Nota & Rossier, 2015). Pace (2015) facendo riferimento allo status dell’integrazione si è trovato a dire che l’Europa sembra ‘sull’orlo di una crisi’ di nervi: la presenza di momenti di recessione, le sensazioni di difficoltà e insicurezza, la paura di perdere il benessere economico conquistato, stanno facendo aumentare il numero di persone convinte che nella ‘casa comune’ non c’è più la possibilità di vivere insieme e non c’è più spazio per qualcuno.

Appare evidente che la complessità, le sfide, le caratteristiche della società in cui viviamo e a cui abbiamo fatto riferimento richiedono per essere fronteggiate di costrutti di riferimento, procedure e strumenti diversi da quelli del passato. Sulla base di ciò sono ancora più necessari ancoraggi alla biodiversità, allo sviluppo ecosostenibile, al pluralismo, all’intercultura, alla solidarietà, alla cooperazione educativa, alla ‘co-costruzione di storie, eventi e contesti’ (Nota, Ginevra, &Soresi, 2015). È necessario dare enfasi alla molteplicità di differenze presenti nei tessuti sociali, quale via maestra per la crescita dell’individuo e della collettività. Il contesto, l’insieme di circostanze che caratterizzano l’ambiente di vita e il funzionamento delle persone, sta diventando il perno delle riflessioni, tanto che è ritenuto scorretto concentrarsi solo sul singolo e si invita a considerare coloro che popolano le comunità di riferimento (Wehmeyer, 2013; Nota e Soresi, in press).

L’inclusione del XXI secolo

Un’analisi dell’evoluzione dei processi di integrazione avvenuti nel tempo ci porta a riflettere sul fatto che, concettualmente, nelle società occidentali si è registrata una evoluzione nella cultura dell’integrazione che, pur prendendo le mosse e rimanendo almeno in parte legata al binomio inclusione-disabilità, è andata via via allontanandosi da queste posizioni, ‘centrate sul dove e in favore di chi’, per dare spazio a visioni più globali, interessate all’analisi della qualità delle esperienze educative e comunitarie e alla partecipazione effettiva di tutti i soggetti e, tutto questo, in nome di un generale diritto all’uguaglianza e del rispetto delle differenze (Soresi & Nota, 2004; Nota et al., in press).

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sembrano caratterizzarsi per maggiori difficoltà nelle interazioni con i colleghi e i datori di lavoro, minori esperienze di crescita professionale, minore presenza nei momenti informali propri dei contesti lavorativi. Le menomazioni, le storie di apprendimento, le minori risorse psicologiche disponibili, la necessità di dover fronteggiare più compiti e azioni rispetto alle altre persone, facilitano lo sperimentare le difficoltà elencate e una percezione di minori livelli di qualità della vita.

Peraltro ci si è soffermati sul fatto che le cause contestuali più spesso citate in relazione a quanto sopra sono forme di etichettamento, che comportano la de-individualizzazione e la distanza sociale, atteggiamenti tendenti al paternalismo e ad una svalutazione delle possibilità, una maggiore frequenza di microaggressioni, l’insufficiente presenza negli altri di capacità sociali utili alla gestione di interazioni complesse, professionisti poco preparati, la scarsità di servizi di supporto in grado di ristabilire le risorse personali erose dalle difficoltà e di costruire ambienti facilitanti interazioni composite e centrate sull’eterogeneità (Sue, 2010; WHO, 2011).

Oltre alle indicazioni presenti in letteratura, ha attirato l’attenzione anche ciò che viene realizzato presso le cosiddette Top Ten Universities, ovvero quelle che la Academic Ranking of World Universities considera come le migliori a livello internazionale. In esse spicca l’investimento in servizi per ‘Diversity and Inclusion’ e l’attenzione alla eterogeneità quale mezzo per stimolare la crescita individuale e sociale e per favorire forme di ‘intellectual cross-pollination’.

Azioni significative e routinarie sono:

Azioni di promozione e accoglienza centrate sulla diversità (video, materiali, training per gli studenti, curati e precisi)

Servizi di supporto (mentoring and mental health programme) con competenze sui gruppi sottorappresentati e capacità di coinvolgere gli studenti con modalità ‘non intimidating’;

Report periodici sulla discriminazione (finalizzati a creare l’idea che l’Università è interessata ad una cultura contro le discriminazioni e che disapprova comportamenti inadeguati a questo riguardo);

in discussione alcune importanti conquiste. Se un contesto, in altri termini, risulta accogliente, tollerante o solidale solo nei confronti di alcune persone, tende di fatto ad essere poco rispettoso delle differenze e, proprio per questo, non può definirsi inclusivo. Asante (2002), uno dei leader di New African Voices, ci ricorda che l’inclusione richiede e comporta il riconoscimento dell’interdipendenza e della condizione umana universale e, di fatto, consiste nel riconoscere che siamo “una sola cosa”, anche se non siamo tutti la stessa cosa (p. 1).

Parlando di inclusione non ci si può riferire solo alle persone che hanno delle difficoltà più meno chiaramente certificate. L’inclusione richiede che si consideri con attenzione ‘i contesti’ in cui le persone si trovano a vivere e che, nella stragrande maggioranza dei casi, influenzano la qualità della loro esistenza e partecipano, se non proprio determinano, alla co-costruzione delle loro difficoltà.

L’investimento dell’Università di Padova per la costruzione di una comunità inclusiva

L’Università di Padova ha deciso di considerare che le differenze sono legate ad una serie di variabili: etnia, stato socio-economico, esperienze di povertà, religione, orientamenti sessuali, età, presenza di disabilità, e intersezione fra queste. L’eterogeneità, e la possibilità di sperimentarla positivamente nel contesto universitario, viene considerata una delle vie maestre per la crescita del pensiero complesso (Morin, 2008).

Inoltre è consapevole che, agli studenti con disabilità e vulnerabilità l’Università dovrà continuare a dedicare in modo prioritario le sue attenzioni in quanto è innegabile che essi manifestano, in modo più consistente, difficoltà nella gestione efficace del passaggio dalla scuola secondaria di secondo grado all’Università, nella costruzione in tempi brevi di modalità di studio autoregolate, e nella messa a fuoco di traiettorie professionali soddisfacenti. Queste problematiche possono comportare ritardi, rinunce, abbandoni degli studi, con ulteriori conseguenze personali, psicologiche e sociali.

Nello stesso tempo si prende in considerazione che i lavoratori con disabilità

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della didattica, della ricerca e dei servizi;

I servizi, nei contesti complessi, devono avere un ruolo agentico e devono essere in grado di attirare le persone, così come devono risultare in grado di manifestare l’efficacia del loro operato;

Sono necessari servizi e sforzi a vantaggio del benessere socio-emozionale e dell’investimento nella formazione universitaria e che favoriscano una rivisitazione del modo di pensare allo studio, al lavoro e alla progettazione professionale.

In linea con queste linee programmatiche si sono attuate una serie di azioni. Qui si ricordano il desiderio di dare particolare attenzione ad un linguaggio inclusivo. Siamo infatti consapevoli che nonostante le prese di posizione ufficiali da parte di organismi internazionali e il diffondersi di nuove visioni a proposito delle disabilità, permane il ricorso ad un linguaggio obsoleto e persino offensivo che continua, soprattutto quando lo si ritrova nelle leggi, nei documenti amministrativi e nelle indicazioni che dovrebbero regolare l’inclusione e l’accesso a dispositivi e supporti di cui alcuni cittadini avrebbero diritto, ad influenzare negativamente la ‘rappresentazione sociale’ di persone e gruppi e a veicolare immagini stigmatizzanti e visioni distorte. Così con la collaborazione di molti si è cominciato ad operare al fine di rendere documenti, siti, materiali e le modalità di parlare attorno alle tematiche della disabilità in sintonia con espressioni considerate rispettose e maggiormente corrette.

Con la collaborazione e il supporto di colleghi e personale di tutto l’Ateneo, in ottica interdisciplinare, sulla scia di quanto stanno già realizzando le migliori università di altri paesi, è stato istituito un ‘General Course’ per l’a.a. 2016/2017, denominato ‘Diritti Umani e Inclusione’. Il corso, ‘trasversale’ per gli studenti dei corsi di laurea triennali e magistrali, è aperto a chi è interessato alle diversità del nostro tessuto sociale, ai diritti umani, e all’impegno morale di destinare alcune proprie e professionali energie in favore di una società maggiormente inclusiva per tutti.

Facendo seguito ad alcune iniziative, fra cui la giornata di studio dedicata alla Cooperazione internazionale, ai diritti umani e all’inclusione, si è deciso di dare vita ad un gruppo di lavoro e di confronto per la messa a punto di un

Azioni di supporto (anche tramite gli studenti) nelle residenze universitarie;

Centri e spazi multiculturali (finalizzati a trattare argomenti sulla diversità, sviluppare conoscenze, competenze e leadership interculturali – tramite attivismo, advocacy, mobilitazione);

Esami sulla diversità nei diversi corsi di laurea (per creare una cultura della diversità).

Alla luce di tutto questo l’Ateneo ha voluto creare un ancoraggio rigoroso ad una visione inclusiva delle società in cui viviamo in quanto capace di aiutare a riflettere e compiere scelte attente alla qualità della vita e ai diritti di tutti ad una piena partecipazione e ad un lavoro decente, in sintonia con la Convenzione dei diritti delle persone con disabilità ratificata dal Governo Italiano nel marzo 2009, la strategia 2020 dell’Unione Europea, l’agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, le raccomandazioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO), tanto per citare alcuni documenti riconosciuti. Tale ancoraggio può segnare la via per la costruzione di un pensiero complesso che vada oltre semplici dialettiche orientate al facile guadagno a breve termine, ancorate alla logica del profitto, o a makiage superficiali di innovazione, per la sperimentazione di modelli sociali innovativi attenti al bene di tutti e ancorati a virtù civiche che considerano di fatto la sostenibilità, la biodiversità, l’eterogeneità e l’unicità, dei valori imprescindibili.

Le riflessioni principali effettuate alla luce di quanto sopra sono le seguenti:

I contesti complessi, come le grandi università, dovrebbero dare attenzione all’eterogeneità, attuando azioni specifiche e di ampio respiro allo stesso tempo;

Si dovrebbe puntare su una cultura dell’eterogeneità e della diversità, a diversi livelli, con azioni culturali, di controllo e monitoraggio;

Vanno incrementati servizi di qualità, centralizzati e periferici, coordinati nel loro agire, con personale preparato e aggiornato, e con la collaborazione dei diversi soggetti presenti nel tessuto comunitario (studenti, docenti, dipendenti);

Vanno implementate azioni nei diversi settori della vita universitaria, quello

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Riferimenti bibliografici

Asante, S. (2002). What is inclusion? Toronto: Inclusion Press.McLeskey, J., Waldron, N.L., Spooner, F., & Algozzine, B. (Eds.) (2014). Handbook of Effective Inclusive Schools: Research and Practice. New York, NY: Routledge. Morin, E. (2008). The reform of thought, transdisciplinarity, and the reform of the university. In B. Nicolescu (Ed.), Transdisciplinarity: Theory and practice (pp. 23-32). Cresskill, NJ: Hampton PressNota L. e Soresi S. (in press). Counseling and coaching in times of crisis and transitions: from research to practice.London:Routledge PublisherNota, L., Di Maggio, I., Santilli, S., & Soresi, S. (in press). Inclusion in Italy. In M. L. Wehmeyer, & J. Patton (Eds.), Handbook of International Special Education. Santa Barbara: Praeger.Nota, L., & Rossier, J. (2015). Handbook of Life Design. From practice to theory and from theory to practice. Göttingen: Hogrefe.Nota, L., Ginevra, M. C., & Soresi, S. (2015). Tutti diversamente a scuola. L’inclusione scolastica nel XXI secolo. Padova: Cleup.Pace, V. (2015, Giugno). Coraggio: il punto di vista della sociologia. Comunicazione orale alla Giornata di studio sul “Coraggio: Riflessioni, ricerche, e nuove prospettive per il counseling”, Padova.Shogren, K.A., & Wehmeyer, M.L. (2014). Using the core concepts framework to understand three generations of inclusive practices. Inclusion, 2(3), 237-247.Soresi, S., & Nota, L. (2004). School inclusion. In J. Rondal, R. Hodapp, S. Soresi, E. Dykens, & L. Nota (Eds.), Intellectual disabilities: genetics, behavior, and inclusion (pp. 114-156).London: Whurr Publishers Limited.Soresi, S., Nota, L., & Wehmeyer, M. L. (2011). Communityinvolvement in promoting inclusion, participation, and self-determination. International Journal of Inclusive Education, 15, 15-28.Sue, D. W. (2010). Micro-aggressions in everyday life: Race, gender, and sexual orientation. Hoboken: NJ: John Wiley and Sons.Wehmeyer, M.L. (2013). Handbook of positive psychology and disability. Oxford, U.K.: Oxford University Press.World Health Organization-WHO (2011). Impact of economic crises on mental health. Copenhagen: WHO Regional Office for Europe.

‘Manifesto per l’Inclusione’, composto da docenti, studenti, personale tecnico-amministrativo, rappresentanti di enti e istituzioni territoriali, accomunati dalla sensazione che attorno all’inclusione si stanno registrando preoccupanti ripensamenti e minacce anche a causa della recente crisi economica e della crescita del fenomeno dell’immigrazione. I lavori sono ancora in corso, e si desidera fortemente ampliare i coinvolgimenti, ma si è già ribadito il desiderio di promuovere una comunità nella quale siano presenti molti ‘difensori dell’inclusione’, che oltre a considerare i diritti umani, segnalino la presenza di barriere di diverso tipo che riducono la partecipazione e l’inclusione.

Riflessioni conclusive

La nostra società sta cambiando e cambierà ancora, ma non tornerà quella che era una volta. Sta a noi decidere se vogliamo in qualche modo essere degli agenti che cercano di evitare virate brusche e manovre inadeguate e che si danno da fare affinché si costruiscano dei contesti originali e capaci di dare spazi e possibilità nuovi alle persone, qualsiasi sia l’intreccio di aspetti che le caratterizza.

L’inclusione può aiutarci in tutto questo, essendo essa un progetto, una strada da costruire, con strumenti diversi da quelli del passato.

Pensando ai contesti universitari, studenti, personale tecnico-amministrativo, docenti, e decisori molto probabilmente sono accomunati dal desiderio di avere una vita e un futuro di qualità per se stessi e per i propri figli… a meno che non si pensi che tutto ciò rappresenti un diritto solo per qualcuno e non per altri. E per questo sono i contesti in cui ci si trova a vivere, a lavorare, a studiare che debbono essere di qualità. È questa, in sintesi, la matrice dell’idea di inclusione del XXI secolo: il contesto nella sua complessità e grazie alla sua complessità deve essere in grado di dare la possibilità a tutti di sperimentare crescita, possibilità, miglioramento.

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Inventario per angeli laici

di Paolo Cendon

Debolezza come inDebolimento

- No ad approcci commiseratori/paternalistici dell’operatore nei confronti di chi si trova in difficoltà;

- Ogni essere umano come portatore di una propria combinazione esistenziale, creatura che sogna, progetta ed ha aspettative come tutti;

- Soltanto, un essere che “non ce la fa” (stanti alcuni impedimenti biologici, culturali, anagrafici, istituzionali …) a realizzare quelle attese da solo;

- Chi viene abbandonato viene per ciò stesso “indebolito”, chi viene sostenuto diventa invece come tutti, diventa se stesso.

agenDa, rigoglio

- Felicità come fecondità, lievito, realizzazione;

- Quando ci si sveglia che cosa si pensa, aspettative, aspirazioni;

- Si giace ma si sogna, si protesta, si immagina;

- Centralità del momento del “desiderio”;

- Nodi da sciogliere, opportunità, chances, vertenze e prospettive di liberazione dal male, dalla collera;

- Fioritura, concretizzare spinte a, decisività del momento progettuale;

- Motivo della rimozione degli ostacoli, secolarità, territorio;

- Dovere (giuridico) di sostegno, art. 3 Cost., sanzioni, responsabilità per chi non ha fatto (art. 404 ss. c.c.).

no abbanDono

- Sei tu che mi fai impazzire, tu che mi ha lasciato cadere (“Mi uccido perché non vi ho amato, perché non mi avete amato, la mia morte resterà su di voi

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come una macchia indelebile”: Drieu La Rochelle);

- Riflessioni darwiniane sul rapporto della mente dell’uomo con gli ostacoli; - Parlarne al di là e al di qua del danno;

- Presa in carico, verso quale welfare, scelte tragiche (Calabresi) dell’autorità amministrativa e sanitaria, buone pratiche.

no fatuità

- No antipsichiatria da salotto, sì al presidio della dignità, sovranità, ronzio affettuoso, diversità, rispetto;

- Sì alla tutela per i vari noccioli idiosincratici dell’individuo, no all’eclettismo, no disinvoltura gestionale, no spregiudicatezze compiaciute, no fatuità negli elogi della follia;

- No morte conclamata della famiglia, no incitamenti eleganti allo sballo;

- No paura di decidere (ragazza anoressica che domani morirà, che fare?).

fare

- Identità come fare, come relazionalità attiva, bandolo, battito coerente;

- Voglia di compattezza, saldezza come esigenza profonda;

- Occidentalità laboriosa, valori forti, il cuore ha le sue ragioni … che “tengono insieme” le cose;

- Fare/essere;

- Fabbrica/campagna; industria/cooperativa;

- Scomparsa dell’artigiano manutentore e problema della manutenzione degli affetti.

unità leonarDesca

- Insopportabilità (anche) degli esseri deboli rispetto a ogni frantumazione, polverizzazione;

- Palpiti rinascimentali, “senso” della vita come realtà unitaria;

- Riconducibilità a un centro;

- Io sono questo, nome, onore, immagine, affetti, paure, spazio;

- Passato, radici, gratitudine, appartenenza, doveri, compiti.

remix

- Setaccio, rilancio, hic et nunc, svolta, ricomposizione;

- “Altre voci, altre stanze” (Truman Capote), dinamismo dell’operatore; - Vendere quello che non serve, all’assistito, perché occorrono i soldi per la dentiera, la badante, l’infermiera di notte;

- Riciclaggio della letteratura, del teatro, di tutte quelle forme di rappresenta-zione in grado di produrre intelligenza e teoria e che oggi rischiano il folklore o la discarica.

Piccole leggi, granDe cielo

- Filo conduttore per la persona scopertasi (dopo gli affluenti anni 60) indifesa e incapace di salvaguardarsi da sola;

- Riscontro unitario per tante piccole/grandi leggi speciali approvate in Italia dalla metà degli anni ’60 in poi, come nella poesia ‘Inventario’ di Jacques Prévert (quella degli orsi lavatori), Leitmotive specifici da evidenziare attentamente, complessivamente;

- Costituzionalizzazione del diritto privato;

- Giusta causa, Adozione e affido, Statuto dei lavoratori, Maggior età a 18 anni, Riforma diritto di famiglia, Diritti dei carcerati, Fine manicomi, Aborto, Handicap, Volontariato, Transessuali, Cooperative sociali, Cure palliative, Trapianti, 328, Fecondazione assistita, Amministrazione di sostegno, Donazione di organi, Abolizione OPG;

- Mezzo secolo di normative “speciali” da ricucire, sfide, linee d’ombra, ritorni, rimbalzi tematici.

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misteriosità

- Non sappiamo bene cosa siamo, l’operatore, il giudice, l’interprete spesso non sa bene chi ha dinanzi;

- Si va a tentoni, siamo nella grotta di Platone, vediamo solo ombre che passano, possiamo avere solo ipotesi, l’unica certezza è quella del bagaglio denso e insondabile che ci portiamo addosso;

- Siamo i vettori costanti del grande nostro bacino occulto, in cui guizzano probabilmente mostri marini, madeleine, fondi di una tasca di monello, baci perduti, brutture rimosse, vacanze in montagna, parenti morti;

- Solo ogni tanto il sacco si apre, lascia trapelare qualcosa, ma è con quello che bisogna lavorare, quindi il destino è fare i conti a scrivere, a parlare, sempre, di ciò che non si sa, che c’è ma non si rivela che capricciosamente, confusamente.

contagiosità

Contagiosità interna - Impossibile, in “debolologia”, pensare di limitarsi a intervenire su un braccio, su un ramo, e basta;

- Se si comincia non si potrà poi non continuare, dopo il braccio verrà la spalla, poi il petto, poi il collo, poi le gambe, poi il dentro (cioè, se di un “matto” cominci a studiare i problemi della responsabilità, dovrai poi continuare e affrontare anche le questioni del lavoro, poi della famiglia, della giustizia, della casa, dei contratti, della malpractice medica …).

Contagiosità esterna - Impossibile parimenti, in debolologia, pensare di poter studiare soltanto i bambini, le cose che si scoprono ci appariranno subito dotate di un retrogusto e significato più ampio, talora universale, si passerà ben presto a dover applicare certe indicazioni statutarie o metodologiche anche agli infermi di mente, poi ai morenti, poi ai disabili fisici, poi ai gay, poi a lavoratori demansionati.

no moDelli PanmeDicalistici

- La malattia esiste, la fragilità non nasce però solo dalle malattie;

– Così nel lavoro, nel processo, così per gli adolescenti, i detenuti, le vittime di un disastro ambientale;

- Sì all’assumere una versione “relazionale” della fragilità, la difficoltà per l’interessato è sempre quella di un insufficiente tasso di comunicazione/partecipazione rispetto alle proprie potenzialità;

- L’idea chiave resta quella dell’ostacolo, anche il danno biologico non è la lesione in sé, non è il fatto morboso-anatomico, bensì il riscontro dei riflessi metropolitani, dei contraccolpi familiari, lavorativi, un tratto esistenziale insomma.

Diritto Dal basso

- No ad approcci protocollari dall’alto, in cui lo statuto per la persona appare come un quid definito dal legislatore una volta per tutte, destinato ad essere applicato a ciascun destinatario nell’ identico modo, con una sorta di stampone a ripetizione (effetto fotocopia, come nell’interdizione, dove gli interdetti sono tutti omologati, clonati in serie, indistinguibili catastalmente)

- Sì invece ad approcci “dal basso”, con un sistema per cui lo statuto per ciascun destinatario viene distillato volta per volta, dal giudice, dall’operatore, dal medico, da tutti insieme magari;

– Coralità come garanzia di trasparenza, privacy e casa di vetro insieme;

– Ascolto, colloquio, mitezza dello scambio;

– Sovranità da salvaguardare ogniqualvolta possibile, salvo pericoli gravi.

Piccoli Diritti

- Valorizzazione dei piccoli diritti, nelle case di riposo, delle buone atmosfere, microtrasgressioni negli orari, garbo, premura, tocchi delicati, indulgenza;

- Capacità di restare zitti, a sentire cosa vien detto, empatia, complicità, stare dalla parte di;

- Cura della persona, buon odore, passamanerie ottocentesche, capelli ben pettinati, biancheria in ordine, cassetti propri con la chiave.

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sentieri selvaggi

- Incontri non inamidati, non compiaciuti, non deputati a trasmettere certezze assolute o slogan istituzionali;

- Momenti di freschezza, sorgività, far parlare persone che stanno investigando su qualcosa;

- Viaggiatori, irrequieti, che s’interrogano in pubblico, che lasciano sbirciare il proprio bloc-notes;

- Parlare di quello che non si sa, che non c’è ancora, da artisti;

- Confessioni, ipotesi, congetture, perplessità, emozioni, supposizioni, crona-che inutili, timidezze, sciamanesimi - Inventario di “no”, più che di sì;

- Dove non si vuole andare, no alla stupidità, sì alla moralità profonda, virtù da recuperare;

- Altri peccati, quali orizzonti, verso quale parte della rosa dei venti;

- Racconti sempre incompleti, rozzi, semilavorati magmatici, che coprono soltanto il 50% del dicibile - Destinati a essere comunque fruiti/interpretati/integrati/inverati/completati da chi ascolta, il quale farà la sua parte, doppio monologo, gioco di soliloqui - Anche il primo 50% è tratto dalla pancia di chi ascolta, amatorialità, dilettantismo, circuito, rashomon;

- Esplorazione (di lande selvagge e talora inospitali) che richiede, oltre al coraggio e al gusto per l’avventura, anche attenzione, metodo, rigore, precisione;

- Altrimenti l’esploratore è destinato a smarrirsi o a soccombere “into the wild”.

Spunti di interesse geriatrico introduttivi al tema giuridico

dell’amministrazione di sostegno

di Alberto Cester

La popolazione italiana residente al 1° gennaio 2014 è di 60.782.668 persone. Uno dei paesi più vecchi al mondo. Con una percentuale importante di popolazione rappresentata da soggetti > 65enni (prevista sopra il 35 % della popolazione al 2050) e dai cosiddetti oldest old, cioè soggetti che abbiano superato le soglie della quarta decade di vita (previsti oltre 180.000 ultracentenari solo in Italia, sempre al 2050). L’indice di vecchiaia della nostra popolazione (il rapporto percentuale tra il numero degli ultrasessantacinquenni ed il numero dei giovani fino ai 14 anni) è per il 2016 di 161,4 anziani ogni 100 giovani. L’indice di natalità risulta di 8 nascite per mille abitanti e l’indice di mortalità è in media di 10,7 morti ogni mille abitanti; facile da questi dati prevedere il futuro degli interventi sanitari e sociali dei prossimi 30 anni, se non vi fossero trend di variazione indotti anche dalle migrazioni. Valutiamo l’implosione della famiglia nei nuovi modelli di famiglie allargate, le nuove solitudini che ne deriveranno e la condizione degli anziani del futuro, seppur migliori negli aspetti fisici e prestazionali, grazie a nuovi modelli di vita (prevenzione, cura, stili di vita corretti).

Nel nostro paese 21,4% dei cittadini ha più di 65 anni, rispetto a una media Ue del 18,5%, e il 6,4% ne ha più di 80, contro una media di 5,1%.

Lo scenario per chi si occuperà di aspetti sociali e giuridici collegabili alla condizione anziana sarà questo. Ma quali saranno le difficoltà e i temi da affrontare in tema di protezione delle nuove fragilità geriatriche? Non si tratterà solo di impatto della disabilità acquisita con le polipatologie (comorbilità), incremento del ricorso alla ospedalizzazione e all’incremento dei costi delle cure (terapie e assistenze), vi saranno altre fragilità intrinseche alla condizione umana dell’essere vecchi, cioè ad esempio il ridotto potere di acquisto derivante dalla mancata indicizzazione delle pensioni, specie minime,

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un nuovo social welfare di cui ancora non intravvediamo i contorni definitivi, ma che sarà certamente meno premiante per le categorie non produttive, si incrementerà ulteriormente quindi il rischio di nuove povertà.

La condizione anziana rappresenta già spesso una condizione di svantaggio sociale in una società altrettanto spesso pensata solo per i giovani (barriere culturali, architettoniche, mancanza delle necessarie protezioni ambientali, carenze nell’accesso ai servizi, ai trasporti, alle città, ecc.). A questa sorta di ageismo strisciante dovrà fare da contraltare una nuova e più efficace solidarietà generazionale e una maggiore attenzione appunto dei servizi dedicati e di tutela della terza e quarta età. La sanità dovrà dotarsi delle apposite strutture, ma soprattutto dovrà formare meglio le categorie assistenziali dedicate agli anziani, iniziando dai medici, fino alle figure di riferimento sociale, per sostenere e supportare le decisioni dei giudici e le modifiche che gli stessi regolamenti di accesso ai servizi e di tutela della cittadinanza anziana dovranno affrontare.

I tempi delle decisioni dovranno essere agili e dovranno esistere PDTA (pia-ni diagnostico-terapeutico-assistenziali) di facile applicazione che rendano il più rapidi possibili i passaggi tra i vari setting di servizio per la tutela degli anziani, siano essi accessi alle cure ambulatoriali, ospedalieri, domiciliari, di post acuzie e di residenzialità nelle sue varie forme ed applicazioni. Le cure dovranno essere di facile accessibilità, non può più esistere l’ospedale come azione di parcheggio per problematiche assistenziali di altra natura, l’ospeda-le è il luogo della cura e della stabilizzazione dei processi assistenziali, poi l’accesso ai vari servizi deve essere rapido e agevole, dotato di tutte le tutele necessarie di counseling e di supporto alle decisioni, dovremo creare una vera “filiera” delle prestazioni per gli anziani, una rete credibile con maglie di inter-cettazioni delle problematiche di salute e socio-assistenziali adeguata, rapida, efficace. Gli Amministratori di Sostegno dovranno interagire più facilmente e con un timing molto più rapido e diretto con le varie figure della rete dei ser-vizi socio-assistenziali. Le UVMD (Unità di Valutazione Multidimensionale) non dovranno agire in modo burocratico, non dovranno essere solo la zona di passaggio formale dei piani assistenziali per l’anziano, ma lo strumento della vera presa in carico collegiale tra le varie figure professionali, divenendo tutti

attori di un team di processo. I problemi legati alla sfera cognitiva, data la mole impressionante di aumento di incidenza di queste patologie, saranno lo scoglio maggiore per attuare un piano di programma assistenziale e di tutela del singolo che veda l’anziano ancora protagonista della sua condizione fin-ché le condizioni cognitive glielo permettano. La graduazione nell’intervento del giudice e delle decisioni che ne conseguano, financo alla nomina dell’Am-ministratore di Sostegno qualora se ne configuri la necessità, dovranno pla-smare il livello di intervento in maniera “sartoriale”. In questo la magistratura dovrà agire, rapidamente, con competenza e conoscenza del caso, in linea con l’avanzamento delle neuroscienze. Pertanto formazione ed informazione sulla condizione del pianeta anziano dovrà essere oggetto costante di attenzione sociale, epidemiologica, sanitaria, giuridica e mass mediatica. Si auspica in proposito un osservatorio della terza età permanente in Regione, fuori dalle ottiche lobbistiche, ma al servizio dei cittadini che analizzi la condizione dei vecchi, con le dovute competenze e con le conseguenti presenze professionali al suo interno.

Si deve sempre partire dall’analisi conoscitiva della domanda, anche in termini di valutazioni che optino per un interesse giuridico nella tutela degli aspetti di salute e socio-economici per i singoli anziani. La valutazione non potrà che essere quindi, seria, coerente e documentata, per analizzare qualsiasi processo di cura e di assistenza a tutela della salute pubblica, che esuli dalle possibili decisioni individuali, specie quando si esamini la fragilità della condizione anziana e si debba rendere il Giudice garante delle decisioni assunte e l’Amministratore di Sostegno reale entità di supporto e controllo decisionale.

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Fonti bibliografiche essenziali

www.istat.it

Quaderni del Ministero della Salute: n. 6 Criteri di Appropriatezza Clinica, Tecnologica e Strutturale nell’Assistenza all’Anziano (novembre-dicembre 2010); n. 8 La Centralità della Persona in Riabilitazione: nuovi modelli organizzativi e gestionali; n. 23 (marzo-aprile 2011) Criteri di Appropriatezza Clinica, Tecnologica e Strutturale nell’Assistenza del Paziente Complesso (settembre-ottobre 2013).

“Piano nazionale della cronicità” Ministero della Salute, Accordo tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano del 15 settembre 2016.

Riflessioni sul tema giuridico dell’amministrazione di sostegno

nell’ottica dei servizi per la salute mentale

di Carla Cremonese e Paolo Santonastaso

Introduzione

Come psichiatri che prestano servizio nei Centri di Salute Mentale (CSM) e in ospedale, ci dobbiamo spesso confrontare con i problemi delle persone che presentano difficoltà nella gestione delle loro autonomie personali, a causa della loro psicopatologia. In questo campo, la nascita dell’Amministrazione di Sostegno (ADS) ha rappresentato un grande passo in avanti nel processo di sviluppo e mantenimento delle restanti autonomie delle persone interessate.

L’ADS si è rivelata come una possibilità duttile e innovativa per rispondere alle specifiche esigenze delle persone con ridotta autonomia psicofisica. Ci sono certamente ancora difformità nei modi in cui questa figura viene utilizzata e punti problematici che si incontrano nell’esperienza clinica in seguito alla nomina dell’amministratore di sostegno. Su questi aspetti intendiamo focalizzare queste osservazioni perché, al fine di predisporre i possibili miglioramenti, riteniamo utile e necessario riflettere sui problemi che la pratica clinica ha progressivamente evidenziato.

Il Dipartimento Interaziendale di Salute Mentale di Padova dove operiamo, nel cui territorio abitano circa 500.000 persone, ha in cura circa 7.000 utenti distribuiti nei tre CSM del territorio. Una rapida inchiesta condotta nei tre CSM del dipartimento nel 2015 ci dice che sono stati avviati direttamente dagli assistenti sociali, in accordo con gli psichiatri e le equipe multidisciplinari coinvolte, 22 ricorsi per nomina di amministratore. Altri 19 sono stati avviati privatamente, per iniziativa dei familiari, con il frequente supporto di una relazione socio-sanitaria da noi redatta. Il dato non deve considerarsi del tutto esaustivo perché l’informazione relativa all’avvio di un ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno da parte di avvocato interpellato dai familiari non viene fornita regolarmente agli operatori del CSM.

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Condizioni del paziente e/o del contesto familiare che possono richiedere l’applicazione della misura dell’amministrazione di sostegno.

Nell’ambito del lavoro nei centri di salute mentale si pone il problema dell’applicazione della misura dell’amministratore di sostegno quando ci si trova di fronte ad una condizione psicopatologica che determina una limitazione di abilità/competenze e una riduzione nell’autonomia della persona, tale da far presumere che la persona necessiti di una guida nella gestione dei propri interessi patrimoniali e talvolta anche dei propri bisogni di cura.

Per quanto riguarda l’aspetto patrimoniale, i pazienti per i quali chiediamo questa forma di sostegno possono presentare situazioni economiche molto eterogenee.

Alcuni possono trovarsi con un ingente patrimonio familiare, ma senza le necessarie competenze e validi supporti (cognitivi o familiari) per poterlo gestire. In particolare, nei casi in cui si presenta il problema della trasmissione di un’eredità, è necessario prevedere il sostegno e l’aiuto di una persona che abbia la capacità, la competenza e l’equilibrio necessari ad occuparsi di questi aspetti. La maggior parte delle volte si arriva a questa decisione collaborando con la famiglia che si fa carico di avviare le pratiche presso un avvocato di fiducia.

C’è un consistente numero di pazienti che hanno piccole somme di denaro da amministrare e, in ragione di una psicopatologia che determina una certa tendenza alla prodigalità o ad acquisti compulsivi, vanno incontro a spese anche cospicue, che comportano notevoli difficoltà nell’arrivare alla fine del mese. Si tratta di persone che vivono sole o hanno poche e scarne relazioni familiari, spesso anche a causa di preesistenti e durature conflittualità. In questi casi possiamo procedere con la richiesta della nomina di un ADS, eventualmente specificando l’opportunità che non sia un familiare. Questa scelta a volte incide positivamente sui rapporti familiari, riducendo le tensioni legate alle ingerenze economiche. Altre volte i familiari si oppongono, chiedendo di essere nominati loro stessi amministratori di sostegno, per poter operare più direttamente una funzione di controllo. È evidente, in casi come questi, quanto possa essere delicata e difficile la scelta di una persona come

amministratore di sostegno e quanto questa possa influire sugli equilibri delle relazioni familiari, soprattutto quando sono in gioco interessi economici, anche indipendentemente dalla rilevanza delle somme in questione.

Nella pratica clinica

Per dare un’idea più viva di quanto accade nella realtà clinica, relativamente a questi problemi, può essere utile il racconto di un caso che abbiamo incontrato negli ultimi tempi. Si tratta di una signora di 54 anni che vive da sola in una casa che fino a qualche anno condivideva con la madre. La signora lavora a tempo parziale in un albergo ed è seguita da diversi anni dal CSM del suo territorio per un disturbo psichiatrico di lunga durata, che presenta una sintomatologia eterogenea, caratterizzata da scarsa cura e autonomia personale, variazioni del tono dell’umore, alterazioni del rapporto con il cibo, eccessiva reattività all’ambiente, comportamenti “strani” nel lavoro (es: noncuranza rispetto agli orari), attaccamento eccessivo nei confronti di alcune figure mediche che ha avuto occasione di incontrare per diversi accertamenti e controlli a cui ha dovuto sottoporsi. Poiché la signora aveva ripetutamente manifestato la tendenza a spese eccessive e una complessiva incapacità di gestione della propria economia quotidiana, lo psichiatra che la segue al CSM ha suggerito alla paziente e alla sorella sposata (che la aiuta nella gestione della casa, le paga le bollette etc.) di fare richiesta di nomina di un amministratore di sostegno nella persona di un avvocato. La sorella, che lavora presso lo studio di un avvocato, si è adoperata in diversi modi ed è riuscita lei stessa ad ottenere la nomina ad amministratore di sostegno. Da questo momento in poi i rapporti tra le due sorelle si sono progressivamente deteriorati e la paziente sostiene che la sorella vuole controllarla in tutto e per tutto, anche nelle sue minime spese quotidiane, e persino negli appuntamenti con il dentista o altri medici: afferma di non sentirsi più libera di fare alcunché e di non poter tollerare ulteriormente queste gravi limitazioni. Di questo ha parlato con lo psichiatra che la segue al CSM esprimendogli l’intenzione di rivolgersi ad un avvocato e chiedendo di essere sostenuta nella sua richiesta di revocare la sorella dall’ufficio di amministratore e di sostituirla con un’altra persona.

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Non sempre sono problemi di ordine economico quelli che ci spingono a considerare l’opportunità della nomina di un amministratore di sostegno: in alcune situazioni il motivo principale è il bisogno di cura del paziente, la necessità di condividere la definizione di un programma terapeutico con qualcuno che possa essere di aiuto nel creare le condizioni ambientali che rendono possibile la continuità e la regolarità della cura (es.: l’assunzione regolare dei pasti e/o di un trattamento farmacologico continuativo, la cura e la pulizia della persona), nel medio e nel lungo termine. In questo ambito, una problematica specifica e talora molto complessa, riguarda i casi in cui è opportuno coinvolgere un amministratore di sostegno nella definizione di un programma riabilitativo che vede la necessità di inserimento del paziente in una struttura residenziale psichiatrica (sanitaria o socio-sanitaria), oppure presso Istituti o Case di Riposo. In questi casi, un interrogativo che dovrebbe essere sempre sollevato è questo: fino a che punto l’amministratore di sostegno può spingersi nel cercare di convincere o nel condizionare un paziente non consenziente ad accettare l’inserimento in una struttura residenziale riabilitativa? Non sempre è facile rispondere a questo interrogativo, che pone il problema dell’obbligatorietà della cura in contesti diversi da quelli dell’urgenza, in cui, in mancanza di consenso da parte di un paziente psichiatrico, si ricorre abitualmente alla procedura di un trattamento sanitario obbligatorio (TSO).

Proprio in un contesto maggiormente caratterizzato da situazioni di urgenza, come quello ospedaliero, possono manifestarsi problemi in cui si pone una scelta alternativa tra l’intervento per stato di necessità (quando il paziente, per motivi diversi, manifesta un’incapacità, anche temporanea, di esprimere un consenso) e l’intervento con una procedura di TSO (quando esistono gravi problemi psichiatrici che richiedono urgenti interventi terapeutici non accettati dal paziente). Quando l’incapacità di esprimere un consenso si prolunga oltre la contingenza dell’urgenza, l’intervento per stato di necessità richiede la nomina di un amministratore di sostegno.

Anche in questo caso il racconto di un caso clinico verificatosi alcuni anni fa può far apparire con maggiore chiarezza i termini del problema.

Si tratta di una paziente, all’epoca di 35 anni, ricoverata in un reparto internistico

dell’Azienda Ospedaliera di Padova per uno stato di gravissima denutrizione, al peso di 21 kg (Indice di Massa Corporea 10,7) a causa di un’anoressia con esordio molto precoce (all’età di 11 anni). La paziente era già seguita da molti anni dal Centro Regionale per i disturbi del comportamento alimentare di Padova, con una scarsissima collaborazione ai programmi terapeutici proposti dai curanti, ma esprimendo comunque agli stessi una domanda continua di cura, di accudimento e di assistenza. Nei mesi precedenti c’era stato il peggioramento notevole di una condizione medica peraltro sempre molto precaria e per questo, con molte difficoltà, la paziente aveva accettato il ricovero. Gli accertamenti eseguiti e gli esami ematochimici indicavano l’assoluta necessità di un intervento urgente di supporto nutrizionale attraverso un sondino nasogastrico che la paziente non accettava.

Il medico psichiatra e il medico legale, chiamati in consulenza dai colleghi internisti, dopo un’attenta valutazione della storia clinica e dopo aver parlato ripetutamente con la paziente e con i familiari, hanno concordato sull’opportunità, in questo caso, di intervenire sulla base di uno stato di necessità. La paziente è stata pertanto trasferita in rianimazione, sedata e le è stato applicato il sondino nasogastrico. I colleghi della rianimazione, avendo osservato dopo qualche giorno che la paziente, pur non avendo mai messo in atto alcun tentativo di togliersi il sondino, manifestava ancora apertamente la sua opposizione al trattamento, hanno fatto richiesta al giudice della nomina urgente di un amministratore di sostegno. Tale nomina è stata successivamente effettuata dal giudice, su indicazione dei familiari, nella persona del fratello maggiore. In seguito alla dimissione, dopo circa 20 giorni, hanno cominciato a manifestarsi i primi problemi tra la paziente, il fratello, gli altri familiari e i curanti: la paziente sosteneva che il fratello non aveva alcun diritto di condizionare le sue scelte relative al modo di curarsi e rimproverava ai curanti di aver permesso che il fratello potesse decidere al posto suo; il fratello si sentiva terribilmente responsabile di tutto quanto potesse accadere, talvolta appariva condizionato dalle richieste della paziente, talvolta più condizionato dai genitori e dalle loro preoccupazioni spesso divergenti; questa situazione lo metteva in evidente difficoltà e gli ha reso molto difficile, se non impossibile, la collaborazione con i curanti e la condivisione di un programma terapeutico.

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Tutti questi problemi, che si sono ridimensionati solo qualche mese più tardi con la revoca dell’ADS, hanno reso molto più difficile e problematica la delicatissima fase del post-ricovero, in cui si doveva cercare di recuperare la collaborazione della paziente ad un programma di trattamento minimale, che consentisse almeno di stabilizzare la condizione medica della paziente a livelli di equilibrio meno precari di quelli che c’erano nel periodo precedente.

Queste considerazioni inducono a ritenere, a posteriori, che la scelta di intervenire adottando una procedura di TSO sarebbe stata forse più problematica nelle fasi iniziali, ma non avrebbe certamente implicato i seri problemi di trattamento determinati dalla nomina dell’amministratore di sostegno, che abbiamo molto brevemente cercato di descrivere.

Il percorso di preparazione.

Arrivare ad una richiesta di nomina di ADS per un paziente è sempre il risultato di un lavoro di equipe. Il pensiero nasce dal rilievo delle difficoltà riscontrate nella vita del paziente o della paziente e dalla consapevolezza di aver provato i vari percorsi possibili nel campo dell’autonomia, del recupero e/o del mantenimento della stessa. La discussione e il confronto coinvolgono progressivamente il paziente e i famigliari, quando presenti, con la prevalente partecipazione del medico e dell’assistente sociale. La finalità è quella di arrivare ad una richiesta che sia il più possibile condivisa. Qualora i tempi per la richiesta siano brevi, possiamo anche sfruttare i tempi per la convocazione per condividere ulteriormente con il paziente le riflessioni che ci hanno spinto in questa direzione.

Il nostro intento è quello di arrivare all’udienza con il giudice avendo l’adesione, almeno parziale, da parte del paziente, ma in taluni casi il colloquio con il Giudice si è rivelato come decisivo e ha consentito l’importante esito di far rientrare del tutto le preoccupazioni e le perplessità espresse dal paziente e/o dai suoi famigliari.

Rapporto tra i servizi psichiatrici e la Procura della Repubblica.

Esiste un terreno che presenta alcune criticità, ed è quello del rapporto tra i servizi psichiatrici e la Procura della Repubblica. I rapporti tra questi due

soggetti non sono sempre fluidi, anche perché possono esserci rilevanti differenze di procedure tra Procura e Procura e tra servizio e servizio. Ma il punto che in questa sede ci sembra importante sottolineare, che coinvolge in modo significativo la realtà padovana, riguarda il tempo protratto che in molti casi intercorre tra la domanda effettuata dal servizio e la risposta da parte della Procura: negli ultimi anni questo periodo poteva superare largamente i sei mesi. Tale tempistica nella gran parte dei casi non coincide con i tempi richiesti dalle necessità della cura del paziente e dal programma terapeutico definito dal servizio.

Non esiste, inoltre, un canale istituzionale per così dire ‘privilegiato’ che consenta adeguate comunicazioni tra servizio e Procura: accade pertanto che il servizio non sia in grado di avere un’idea precisa della tempistica in merito ai ricorsi avviati e che non possa esplicitare chiaramente alla Procura in quali casi esistano condizioni cliniche e ambientali particolari che richiedono una risposta urgente, in tempi molto ristretti.

Un’altra criticità è rappresentata dalla impossibilità di sapere se eventuali relazioni di aggiornamento inviate all’attenzione del G.T. che sta già seguendo la posizione di quel determinato paziente, siano arrivate a destinazione o meno, sempre per la mancanza di un canale istituzionale preventivamente concordato.

Un ultimo punto: anche quando è il Servizio promotore della domanda di ricorso per ADS, il Servizio non riceve il Decreto del Giudice, per cui, qualora l’ADS non sia solerte nel contattarci, possono trascorrere ulteriori mesi prima che avvenga un primo incontro di conoscenza tra l’ADS nominato ed il paziente.

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Altre difficoltà da segnalare

Il problema dell’”equa indennità”

Un aspetto al quale i pazienti mostrano grande sensibilità è quello relativo al “pagamento” per le prestazioni svolte dall’ADS. Non è sufficientemente chiaro se si debba corrispondere una sorta di rimborso spese e con che modalità queste vengano calcolate. Come Servizio rileviamo inoltre le difformità nelle procedure e nelle richieste tra i diversi amministratori di sostegno, senza avere capacità e competenza per affrontare queste tematiche.

Convocazione all’udienza ed esigenze di riservatezza

La convocazione all’udienza viene inviata a tutti i parenti, anche qualora non sussistano rapporti significativi con il paziente, il punto critico è che nella convocazione sono contenuti ampi stralci di relazioni psichiatriche, con diagnosi per esteso. Tali dati riteniamo dovrebbero essere trattati con maggior riservatezza, in quanto possono compromettere la fiducia del paziente nei confronti del Servizio e dei curanti.

Il punto di vista del medico legale clinico

di Daniele Rodriguez

Nella mia qualità di “medico legale clinico”, operante all’interno di una azienda ospedaliera pubblica, sono chiamato ad offrire la mia consulenza a professionisti sanitari e sociali e/o ad intervenire in merito ad alcune scelte concrete di fronte a persone con ridotta autonomia e non in grado di provvedere a tutti i loro bisogni. Da questa esperienza professionale traggo alcuni spunti di discussione circa questioni che hanno particolare rilievo nell’attività pratica.

1. La prima serie di spunti di discussione riguarda i presupposti per l’applicazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

1a. In caso di persona con ridotta autonomia ed in presenza di una famiglia sollecita ed accudente, è necessario attivarsi per promuovere l’amministrazione di sostegno?

Il comma 3° dell’art. 406 c.c. recita: «I responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’articolo 407 o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero.» Comunque siano da identificare i «responsabili», se cioè del «servizio» inteso come struttura o come prestazione (preciso che aderisco a quest’ultima soluzione), è evidente che su costoro grava l’onere della valutazione se fatti a loro conoscenza rendano opportuna l’apertura del procedimento. L’obbligo di una delle due segnalazioni contemplate nell’ultima parte del comma sussiste solo se questa valutazione porti a concludere per la sussistenza dell’opportunità. La presenza di una famiglia sollecita ed accudente può far venir meno questa opportunità, pur in presenza di una ridotta autonomia della persona?

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1b. Come è possibile affrontare la questione dell’amministrazione di sostegno in caso di riduzione di autonomia connessa a condizioni particolari, quali: detenzione, indigenza estrema, clandestinità?

Un passo della presentazione del disegno di legge al Senato della Repubblica (XIV legislatura, n. 375) evocava alcune condizioni di ridotta autonomia non necessariamente riconducibili a condizioni patologiche: «Basta pensare alle situazioni che si producono nello stadio terminale della vita, all’isolamento di persone socialmente deteriorate, alla cecità totale o parziale, ai portatori di handicap fisici, ai lungodegenti, ai carcerati, a episodi di alcoolismo non gravissimo, a forme di prodigalità per scarsa dimestichezza col mondo delle operazioni economiche, a situazioni di vita disordinata, a certa incapacità senile, e similmente.» L’art. 1 della legge 9 gennaio 2004, n. 6 non specifica, e quindi non limita, le possibili cause della riduzione dell’autonomia: «La presente legge ha la finalità di tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente». Il comma 1° dell’art. 404 c.c. identifica le cause della ridotta autonomia nella infermità o nella menomazione, fisica o psichica: «La persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nella impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno, nominato dal giudice tutelare del luogo in cui questa ha la residenza o il domicilio». Quest’ultimo disposto sta ad indicare la limitazione dell’istituto dell’amministrazione di sostegno a bisogni scaturenti da condizioni patologiche e l’imprescindibilità di una valutazione medica?

2. La seconda serie di spunti di discussione è relativa al “buon” funzionamento dell’istituto dell’amministrazione di sostegno.

2a. Sussiste il problema dell’adeguata preparazione degli amministratori di sostegno: mi riferisco sia ai casi in cui un familiare si trovi a svolgere la funzione di amministratore di sostegno, magari senza averlo previsto, in

genere senza avere consapevolezza del proprio ruolo, sia ai casi in cui la funzione venga affidata ad un volontario formato in appositi corsi. In sintesi: quali norme disciplinano la formazione degli amministratori di sostegno (già nominati o aspiranti tali)?

Parallelamente vi è anche il problema che, ad oltre 10 anni dall’approvazione della legge sull’amministrazione di sostegno, questo istituto è poco conosciuto tra i professionisti sanitari e sociali. Manca evidentemente una formazione sistematica, sia universitaria di base sia post-base, che permetta di sensibilizzare i professionisti su questo istituto, quale strumento di tutela della persona e, nel contempo, di facilitazione al raggiungimento dei rispettivi obiettivi professionali.

2b. Non sono infrequenti i casi in cui l’amministratore di sostegno non rispetta i bisogni del beneficiario. Nascono evidenti responsabilità dei professionisti che ne sono a conoscenza. Il comma 2° dell’art. 410 prevede: «In caso di contrasto, di scelte o di atti dannosi ovvero di negligenza nel perseguire l’interesse o nel soddisfare i bisogni o le richieste del beneficiario, questi, il pubblico ministero o gli altri soggetti di cui all’articolo 406 possono ricorrere al giudice tutelare, che adotta con decreto motivato gli opportuni provvedimenti»; i soggetti di cui all’articolo 406 sono i già menzionati responsabili dei servizi sanitari e sociali.

Quale è l’evoluzione di questi «ricorsi» al giudice tutelare?

2c. Avendo nella pratica verificato procedure anomale, ritengo di interesse sviluppare una riflessione sulle procedure da tenere quando il professionista sanitario che ha in carico il beneficiario intenda proporre un suo progetto di intervento. Mi riferisco a casi in cui l’amministratore di sostegno ha il mandato di sostenere il beneficiario (non di sostituirsi a lui) in materia di tutela della sua salute. Il professionista si rivolge solo all’amministratore di sostegno? Oppure interpella entrambi? In caso di pareri difformi sulle scelte da operare, fra amministratore di sostegno e beneficiario, come è opportuno che si comporti il professionista?

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Il ruolo dei servizi sociali e del volontariato nella procedura di

amministrazione di sostegno

di Francesca Succu

Nell’applicazione della legge sull’amministrazione di sostegno, un ruolo imprescindibile è svolto senza dubbio dai servizi socio sanitari e dal volontariato, rispetto ai quali è necessario evidenziare potenzialità e criticità attuali.

Innanzitutto, il volontariato è “modello fondamentale” dell’azione dell’individuo che, gratuitamente e liberamente, offre proprie prestazioni a favore di altri individui o della collettività; esso costituisce la più diretta realizzazione del principio di solidarietà sociale posto dalla Costituzione tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico e partecipa della natura dei diritti fondamentali. Rispetto all’applicazione dell’amministrazione di sostegno, il volontariato può assolvere almeno tre funzioni:

- diffondere la conoscenza e accrescere la consapevolezza nelle persone, nella famiglia e nella comunità della possibilità di ricorrere alla misura di protezione, ove necessaria;

- collaborare con istituzioni e servizi nella progettazione e gestione degli interventi di sostegno;

- formare, aggiornare e sostenere gli amministratori di sostegno nell’esercizio permanente della loro funzione.

Dall’altro lato, i servizi sociali e sanitari, nell’arco del loro sviluppo, sono diventati istituzioni che rappresentano un insieme di ruoli, valori, norme e regole organizzate che servono a dare risposte adeguate ai bisogni di cura, di assistenza e di tutela delle persone nei momenti di difficoltà.

A fronte di compiti simili che la normativa attribuisce in risposta ai bisogni, diritti e aspettative delle persone, i servizi sono organizzati in modo differenziato nei diversi ambiti territoriali.

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La loro affermazione è connessa ai processi di sviluppo umano ed essi fanno parte delle opportunità e risorse organizzate offerte per accrescere il benessere individuale e sociale, finalizzato al miglioramento complessivo della qualità della vita.

In generale ai servizi è fatto obbligo di ricevere la domanda di aiuto, valutare il bisogno effettivo della persona al di là delle richieste espresse, agire perché le soluzioni ai problemi possano venire dalle stesse persone e famiglie che li vivono, dare il supporto più adeguato ed appropriato per superare la difficoltà, ripristinare la condizione di benessere sviluppandola in modo positivo e generativo. I servizi, presenti e diffusi nel territorio, sono a contatto con le persone che hanno bisogno di aiuto, ed hanno l’obbligo di erogare prestazioni, previste nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), definiti a livello nazionale e integrati a livello regionale, che siano collocate all’interno di un progetto rispetto al quale la persona che ne usufruisce deve essere considerata protagonista nella sua globalità e specificità.

Per i servizi percorrere la strada dell’integrazione, nella modalità del lavoro di rete, costituisce un’esigenza che nasce a fronte della complessità di molti bisogni e richiede capacità di erogare risposte fra loro integrate in aree diverse e in particolare in quella socio sanitaria.

La prima domanda che si pone rispetto al ruolo dei servizi nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno è come favorire l’inclusione della persona beneficiaria e dell’amministratore in una rete di collaborazioni e responsabilità condivisa dai servizi che hanno in cura la persona. Inoltre, è necessario interrogarsi su come i servizi – ma anche il volontariato – possano avere un ruolo di vigilanza attiva affinché l’amministrazione di sostegno diventi una risorsa importante e significativa nella realizzazione di un progetto di sostegno che sia parte di un progetto di vita della persona beneficiaria. Come afferma la legge 328 del 2000 (Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali, art.1 comma 5°), infatti, alla gestione e all’offerta degli interventi alla persona provvedono i servizi pubblici nonché, in qualità di soggetti attivi nella progettazione e nella realizzazione concertata degli interventi, gli “organismi non lucrativi di utilità sociale, organismi della cooperazione, organizzazioni di volontariato, associazioni ed enti di

promozione sociale, fondazioni, enti di patronato e altri soggetti privati”. Inoltre, il sistema integrato di interventi e servizi sociali ha tra gli scopi anche la promozione della solidarietà sociale, con “la valorizzazione delle iniziative delle persone, dei nuclei familiari, delle forme di auto-aiuto e di reciprocità e della solidarietà organizzata”.

In questo contesto, è opportuno fare riferimento all’art. 14 della legge 328 del 2000, all’interno del quale si prevede che per realizzare la piena integrazione delle persone con disabilità “di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nell’ambito della vita familiare e sociale, nonché nei percorsi dell’istruzione scolastica o professionale e del lavoro”, i comuni, d’intesa con le aziende unità sanitarie locali, predispongono, su richiesta dell’interessato, un progetto individuale che comprende, oltre alla valutazione diagnostico-funzionale, “le prestazioni di cura e di riabilitazione a carico del Servizio sanitario nazionale, i servizi alla persona a cui provvede il comune in forma diretta o accreditata, con particolare riferimento al recupero e all’integrazione sociale, nonché le misure economiche necessarie per il superamento di condizioni di povertà, emarginazione ed esclusione sociale. Nel progetto individuale sono definiti le potenzialità e gli eventuali sostegni per il nucleo familiare”.

È evidente che esiste un filo rosso che lega il “progetto individuale” con il “progetto di sostegno” ex artt. 404 c.c. e ss., volto ad integrare lo strumento privatistico della misura di protezione con gli strumenti pubblicistici, secondo la prospettiva della sussidiarietà indicata dalla Raccomandazione No. R (99) 4 del Consiglio d’Europa, che esorta gli Stati Membri a garantire che le misure di protezione siano applicate solo se strettamente necessarie alle esigenze di tutela della persona.

In alcune leggi regionali in tema di promozione e valorizzazione dell’amministrazione di sostegno, peraltro, è esplicito il raccordo tra la misura di protezione privatistica e il sistema integrato di interventi e servizi socio sanitari (così, ad esempio, la l. reg. Emilia Romagna n. 11/2009 e la l.r. Regione Liguria n. 2/2015).

C’è da aggiungere che, stante il disposto dell’art. 344, comma 2°, del Codice Civile, il giudice tutelare può chiedere l’assistenza degli organi della

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pubblica amministrazione e di tutti gli enti i cui scopi corrispondono alle sue funzioni. Dunque, nel coadiuvare il G.T., i servizi socio-sanitari possono curare l’attuazione dei provvedimenti; redigere relazioni psicologiche o informative; predisporre con la persona beneficiaria e/o con la famiglia un piano individualizzato d’intervento al quale il G.T. può fare riferimento nel costruire il progetto di sostegno; indicare la disponibilità di un amministratore di sostegno; svolgere il ruolo di vigilanza sull’effettivo esercizio della funzione di protezione giuridica dell’amministratore di sostegno.

Rispetto a queste linee generali, emergono con evidenza alcuni temi di rilevante problematicità. Il primo riguarda l’individuazione certa della persona cui compete la responsabilità e i compiti della predisposizione del progetto individuale, data l’obbligatorietà prevista all’art. 14 della legge 328/00.

Rileva, in secondo luogo, la questione della vigilanza sulla effettiva realizzazione di tali progetti.

Con riguardo, inoltre, alla facoltà del G.T. di includere, nella stesura del decreto, anche le linee attuative del progetto personalizzato (di cui all’art.14 della legge 328/00), appare necessario chiarire in che misura l’amministratore di sostegno è vincolato all’osservanza di tali indicazioni.

Un altro tema nodale concerne la possibilità di concertare forme di valutazione integrata e periodica tra Servizi, amministratore di sostegno e Tribunale sugli esiti del progetto personalizzato.

In questo contesto assume rilievo anche la funzione di collegamento tra Tribunale e Servizi territoriali; funzione che potrebbe essere opportunamente svolta da un ufficio-sportello territoriale, nell’esclusivo interesse della persona beneficiaria.

Fondamentale appare, infine, la questione dell’obbligatorietà o meno della segnalazione di una situazione in cui emerge evidente il bisogno di protezione giuridica. La legge 6 del 2004 indica tra i soggetti che sono tenuti a proporre ricorso o a fornire comunque notizia al pubblico ministero (art. 406 c.c.) “i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno”. Da questa

disposizione della legge emergono due situazioni particolari che possono presentare criticità. La prima riguarda l’obbligo di segnalazione dei servizi anche in presenza di posizioni oppositive da parte dei familiari. La seconda evidenzia la necessità di stabilire quale sia il servizio cui spetta la responsabilità della segnalazione nei casi in cui la persona fruisca, contemporaneamente, di trattamenti assistenziali o terapeutici da parte di più servizi. Appare prioritaria, in queste situazioni complesse, l’esigenza di evitare il rischio di omissioni.

Un rilievo non secondario riveste, infine, la questione relativa a quali situazioni i servizi territroriali sono tenuti ad indirizzare il ricorso al G.T. o a presentare segnalazione al Pubblico Ministero.

In conclusione, con riguardo alle articolate tematiche esposte, si evidenziano alcune linee di indirizzo.

Appare, innanzitutto, l’opportunità di individuare percorsi omogenei in area vasta, allo scopo di superare il rischio di frammentazioni localistiche che possono essere fattori di rilevanti disuguaglianze tra i cittadini. In questa logica, è possibile prospettare modalità uniformi di comportamento nei processi di segnalazione, ricorso, nomina dell’amministratore di sostegno e di gestione della funzione di sostegno per l’intero territorio regionale o, quantomeno, per aree territoriali omogenee. In tali ipotesi, gli stessi rapporti tra Tribunale e Servizi territoriali potrebbero trovare una opportuna regolazione unitaria mediante un unico strumento convenzionale, proposto da un intervento regionale, invece di possibili intese locali.

In ogni caso, risposte risolutive ai numerosi interrogativi posti non possono prescindere da un prioritario criterio guida che pone al centro dell’azione di sostegno e dell’operato dei servizi e del volontariato la persona e la promozione della sua autodeterminazione e autonomia nell’esprimere aspirazioni, desideri, sogni e bisogni.

L’idea di fondo è quella di perseguire un duplice obiettivo: da un lato, creare le condizioni propizie all’inclusione della persona nella famiglia e nel contesto di vita, rimuovendo ogni forma di ostacolo e, soprattutto, valorizzandone i contributi e le capacità; dall’altro, di riconoscere il giusto valore di testimonianza sociale e civile a tutte le risorse umane operanti nel

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contesto integrato della rete di protezione finalizzata all’esclusivo benessere della persona beneficiaria.

Si rende necessaria un’ultima considerazione sulle modalità di accesso ai servizi.

Il diritto a fruire dei servizi e interventi socio-sanitari integrati è riconosciuto a tutti i cittadini, su base di parità ed uguaglianza di trattamento, ma l’accesso ai servizi è selettivo. Ciò avviene sulla base del riconoscimento dei bisogni di cura e assistenza della persona che vi ricorre, da parte di singoli professionisti (MMG, A.S) o gruppi di valutazione multidimensionale e multidisciplinare (es: U.V.M.D). Ciò a volte rende difficile il percorso di cura della persona e anche il raggiungimento degli obiettivi di salute e benessere previsti.

Es. di percorso di accesso ai servizi socio-sanitari.

La difesa tecnica ed il procedimento di Amministrazione di

sostegno

di Sergio Trentanovi

Mi è stato chiesto di esprimere le mie valutazioni sulla problematica della “difesa tecnica”, dopo undici anni di applicazione della legge 6 del 2004, in base alle esperienze vissute quale Giudice Tutelare coordinatore a Venezia, nei primi anni di applicazione della legge, e poi a Belluno dal 2010 al 2014, quando sono andato in pensione. In particolare, a seguito di orientamenti spesso difformi di GT, tribunali e Cassazione, diversamente restrittivi della possibilità di proporre ricorso introduttivo senza il tramite di un avvocato, mi è stato chiesto se non fosse il caso di rivedere l’interpretazione liberalizzante che avevo sponsorizzato già nel convegno organizzato dal CSM a Roma nel 2005, in una relazione basata sul primo anno di applicazione della legge.

La difesa tecnica è pretesa da alcuni GT sempre e/o talora in situazioni diversamente riguardanti i cosiddetti “diritti essenziali” della persona del beneficiario. Può darsi che non riesca ad essere adeguatamente analitico, ma mi pare francamente difficile riuscire ad individuare questi diritti senza farci rientrare pressoché tutto; altrimenti si proporrebbero del tutto irragionevoli. La difficoltà persiste e si aggrava addirittura utilizzando i diversi parametri offerti dai giudizi della Cassazione che si sono succeduti sul punto per la definizione stessa di questi diritti.

Il procedimento per AdS è strutturalmente un procedimento semplificato, improntato a principi di massima rapidità, semplificazione, non onerosità, sburocratizzazione, elasticità, servizio alla persona. Tali principi, ricavabili da tutto il complesso delle disposizioni procedimentali, sono correlati funzionalmente alle esigenze di valenza costituzionale (artt. 2-3 Cost.) che sono fondamento dello strumento dell’AdS, volto ad espandere, non a comprimere le potenzialità/capacità del beneficiario.

Poiché l’istituto è per natura al servizio della persona in difficoltà, ritengo

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corretto che non vengano creati in via interpretativa ostacoli formali ed economici all’utilizzo di questo strumento, al di là ed al di fuori (quando non contro) le stesse disposizioni di legge; e comunque in contrasto con la sistematizzazione dell’istituto e la logica delle sue disposizioni.

Ritengo che nessuna ragionevole interpretazione (al di là di quelle pur autorevoli della Cassazione) della legge sull’AdS possa prevedere la necessità che il ricorso venga presentato attraverso procuratore o con il ministero di un avvocato.

Ovviamente non è vietata (anzi talora, soprattutto ove la situazione del beneficiario sia “gravata” da problematiche economiche e giuridiche rilevanti, è assai utile) l’assistenza di un tecnico (in primis di un avvocato) “partecipe”, che possa redigere il ricorso valorizzando le possibilità di un progetto di sostegno adeguato e condiviso (rete), ma escludo di poter mutuare la logica di una risposta a favore dell’obbligatorietà della difesa tecnica dalle soluzioni offerte dalla giurisprudenza in relazione al procedimento di interdizione o dalle sentenze della Cassazione, solo apparentemente uniformi sul punto.

Anzi, all’interno di un’interpretazione sistematica e correttamente orientata ai principi costituzionali (tra i quali va sottolineato quello di “ragionevolezza” conseguente al principio di eguaglianza di cui all’art. 3 della Cost.), ritengo di dover confermare, nonostante le indicazioni parzialmente contrarie delle diversificate pronunce della Cassazione succedutesi negli ultimi dieci anni, ancor più convintamente, le considerazioni sul punto espresse al Convegno organizzato dal CSM a Roma nel 2005.

In sintesi, al di là di quanto sopra premesso in adesione ai principi sistematici e costituzionali, indici univoci della non obbligatorietà della difesa tecnica sono ricavabili, a mio avviso, anche dai seguenti argomenti “testuali”:

1) Il procedimento è promosso con ricorso al GT: nessun ricorso al GT “deve” essere presentato tramite procuratore/avvocato; il ruolo del GT, del resto, non è giurisdizionale.

2) Il procedimento non ha natura contenziosa, a differenza di quello di interdizione, perché realizza lo scopo fondamentale della legge 6/2004, che non è affatto quello di vietare, interdire, dichiarare incapaci di provvedere ai

propri interessi (art. 414 c.c.), ma, all’opposto lo scopo è quello di “tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’esercizio delle funzioni della vita quotidiana mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (art. 1 legge 6/2004). Anche quando il GT adotti, nel contesto del decreto, provvedimenti “limitanti” la capacità di agire del beneficiario ex art. 411, 3° comma c.c., essi sono giuridicamente e culturalmente funzionali non a “vietarne” a tempo indeterminato l’esercizio, ma a recuperare – anche attraverso la rappresentanza gestionale, tendenzialmente sempre provvisoria, per atti giuridici – le più ampie possibilità esistenziali e di espressione/realizzazione delle aspirazioni e dei bisogni della persona.

3) Il procedimento di AdS è destinato a concludersi con un decreto sempre revocabile, modificabile, integrabile anche d’ufficio e non certo con sentenza definitiva. Esso “segue” l’evoluzione della condizione umana del beneficiario, il modificarsi delle sue esigenze e la variabilità delle sue scelte, delle sue necessità, delle sue aspirazioni in un progetto di sostegno esistenziale. Non mi sembra possibile sostenere che il procedimento per ottenere dal GT provvedimenti di questo tipo debba esser ammesso solo se il beneficiario-ricorrente – o chi di lui “si prende cura” – presenta le sue richieste attraverso un difensore tecnico.

4) Già sulla base di queste considerazioni mi pare evidente che non ha alcuna rilevanza contraria il richiamo procedimentale dell’art. 720 bis c.p.c. all’applicabilità degli artt. 712 – 713 – 716, che è espressamente limitato dalla riserva “in quanto compatibili”; infatti, il procedimento di AdS si rivela per la sua natura incompatibile con quella parte delle disposizioni richiamate che, in relazione al procedimento di interdizione, sono state lette come obbliganti alla difesa tecnica.

5) È prevista l’obbligatorietà della promozione del ricorso, nella concorrenza delle condizioni, da parte dei “responsabili dei servizi sociali e sanitari” di cui all’art. 406, 3° comma, c.c. È evidente che tale doverosità – che riguarda, tra l’altro, non solo strutture pubbliche, ma anche private di cura ed assistenza delle persone (v. art. 344, comma 2°, c.c., nonché l’intero sistema delle prestazioni sociosanitarie) – fa carico non ai vertici delle strutture, ma

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ai singoli responsabili dei servizi di cura/assistenza a favore di specifiche persone; tale obbligatorietà è sostanzialmente inconciliabile con la tesi per cui sarebbe necessario un difensore tecnico per presentare il ricorso;

6) La previsione procedimentale dell’art. 407, 1° comma, c.c., per cui si devono indicare nominativo e domicilio dei componenti della famiglia “allargata” solo “se conosciuti”, contrasta culturalmente con l’ipotesi che il ricorso debba esser necessariamente presentato da difensore “tecnico”.

7) La previsione di rilevantissimi poteri “ufficiosi” di intervento anche diretto del GT, che vanno dalla modifica/integrazione delle decisioni assunte con il decreto (408, 4° comma), alla dichiarazione di cessazione per sopravvenuta inidoneità dell’ads (413, 4° comma, c.c.), alla proroga del termine dell’ads (405, 6° comma), all’adozione di provvedimenti d’urgenza (art. 405, 4° comma, c.c.) anche prima dell’ascolto del beneficiario, contrasta insanabilmente con l’obbligatorietà della difesa tecnica. Sebbene la normativa debba esser letta anche alla luce del principio di sussidiarietà, è certo che, per il carattere solidaristico del sistema delineato dalla legge 6/2004, il GT non è limitato dal principio della domanda né nell’individuazione del progetto di sostegno (che può essere, nell’interesse esclusivo del beneficiario, più ampio, più ridotto e/o diverso a quello proposto), né nel modo di adozione dei provvedimenti ex art. 405 c.c., che possono anche esser “diretti”, senza l’utilizzazione (in tutto o in parte) dello strumento costituito dall’incarico all’amministratore di sostegno.

8) La stessa legge 6/2004 sottolinea, nel 3° comma, dell’art. 411 c.c. – cioè addirittura nella disposizione che consente la maggior limitazione della “capacità di agire del beneficiario”, dal momento che rende possibile estendergli “effetti, limitazioni o decadenze previste da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato” – che il ricorso relativo all’applicabilità di effetti interdittivi può esser “presentato anche dal beneficiario direttamente”. È incontestabile, credo, che l’espressione “direttamente” indica univocamente la non necessità di tramiti tecnici. Ciò premesso, sarebbe all’evidenza assurdo che potesse essere presentato senza patrocinio di avvocato un ricorso che, per le caratteristiche della disposizione del 3° comma dell’art. 411 c.c., è correlato ad un non banale tecnicismo giuridico e che invece non si potesse presentare allo stesso modo, direttamente, il ricorso di base, volto ad ottenere

interventi di sostegno che partono dall’opposta logica del superamento degli ostacoli che impediscono in tutto o in parte l’autonomia della persona. In realtà, anche il ricorso introduttivo del procedimento ex art. 407 c.c., come esplicitamente prevede l’art. 406 c.c., “può essere proposto dallo stesso soggetto beneficiario”: è evidente che l’espressione “lo stesso” equivale a “personalmente” o “direttamente”. Su queste premesse, come potrebbe esser ritenuto in via interpretativa possibile che, invece, un ricorso presentato da persone diverse dal beneficiario (siano i familiari o i responsabili dei servizi sanitari e sociali), ma con lo stesso scopo di realizzare interventi di sostegno a suo favore, sia invece “penalizzato” dall’obbligo di presentazione attraverso il difensore tecnico?

9) Osservo che non mi pare corretto contestare il principio della possibilità di presentare personalmente e senza difensore tecnico il ricorso con l’osservazione secondo cui la delicatezza del procedimento, incidente sullo status della persona, esigerebbe un difensore tecnico. L’osservazione potrebbe avere un qualche senso solo se nel sistema fosse prevista una difesa d’ufficio “necessaria” per il beneficiario. Ma poiché nessuno potrebbe avanzare legittimamente, nella attuale situazione normativa, tale tesi, non avrebbe alcun senso prevedere la necessità di un difensore tecnico per il ricorrente (che nel 99% dei casi non è lo stesso beneficiario) e non prevedere la necessità di difensore d’ufficio (o di una diversa assistenza tecnica “qualificata”) per il beneficiario, sul cui status soltanto può incidere il procedimento (peraltro in maniera molto diversa e con logica contraria rispetto all’interdizione). Se è dei “diritti essenziali” del beneficiario che si parla (o di quelli che vengono ritenuti tali, con riferimento alcune volte alla complessità della situazione economica, altre volte alla tipologia intrinseca dei diritti esistenziali o patrimoniali) e si ritiene che, per questo, occorra un “difensore”, è a lui, al beneficiario, che il “difensore” dovrebbe essere assegnato e non certo a chi, in una visione “contradditoriale” dell’ads (che contrasta con la logica essenziale dello strumento e del ricorso al GT) viene “scorrettamente” identificato nella sua controparte.

10) Il richiamo agli artt. 82-83 c.p.c., relativi ai procedimenti giurisdizionali (giudizio = sentenza), appare in questo quadro del tutto fuori luogo. Per questo

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non ritengo né necessario né utile scendere alla minuta analisi degli argomenti offerti da assai tecnici decreti di giudici tutelari che hanno individuato profili di doverosità sistematica della difesa tecnica in base a richiami a principi dei procedimenti camerali di cui agli artt. 737-738-739 c.p.c. ed ai principi delle impugnazioni.

Constato, in definitiva, l’assoluta incompatibilità del modus operandi culturalmente e giuridicamente rivoluzionario dell’ads (che mira ad affiancare il beneficiario sotto il profilo delle possibilità di agire e non ad annullarlo nelle sue relazioni economico-giuridiche con un giudizio totalizzante di incapacità di agire) con la previsione dell’obbligo di difesa tecnica per il ricorrente. Anche una sommaria indicazione dei possibili “beneficiari”, tra cui appaiono persone quali soggetti in coma o portatore di alzheimer in forma grave, o soggetti in grado di comprendere ma non di esprimersi (si pensi, ad esempio, alla sindrome di locked-in), rende evidente che per onerosità economica, tempi necessari a munirsi di avvocato e, soprattutto, funzione sociale (si pensi alla promozione del ricorso da parte dei responsabili dei servizi sociali o di un lontano parente o di persone economicamente o magari culturalmente disagiate), ove si imponga l’obbligo di difesa tecnica, lo scopo solidaristico e personalistico del ricorso rischia di essere frustrato.

Al di là di tutto, quel che resta effettivamente illogico e contraddittorio è pretendere che il ricorso sia presentato dal ricorrente attraverso un avvocato quando l’unico diretto interesse che deve essere protetto è quello del beneficiario, cui non è prevista l’assegnazione, d’ufficio e senza onerosità, di alcuna assistenza tecnica.

Quello di cui si discute riguarda la sua (del beneficiario) progettualità esistenziale, lo svolgimento delle sue funzioni della vita quotidiana, i suoi bisogni, i suoi interessi, le sue aspirazioni, le sue scelte, nel cui ambito si muove la progettualità solidaristica, nel diversificato intrecciarsi di privato e pubblico, di condivisione e di partecipazione, ma anche di rispetto e di non invasione delle scelte e dei bisogni/aspirazioni del beneficiario. È il ruolo coordinatorio del GT e le sue responsabilità/possibilità di impulso nel procedimento a garantire per il beneficiario un’autentica “progettualità condivisa” (per lui, con lui, mai contro di lui).

Ritengo che i diritti essenziali e tutti gli altri diritti esistenziali del beneficiario, che devono “espandersi” attraverso l’ads, meglio si espanderebbero se – anziché imporre la difesa tecnica del ricorrente – si rafforzassero e specializzassero gli uffici del GT e se ne apprezzasse maggiormente l’essenziale attività; valorizzandola adeguatamente, anche dal punto di vista della professionalità, come prevedono le Convenzioni internazionali e le linee di intervento dell’Osservatorio Nazionale sulla condizione delle persone con disabilità (art. 3 l. 18/2009 e DPR 4 del 2013):

“1. al Ministero della Giustizia si chiede di assicurare omogenea applicazione dell’attuale normativa sull’amministrazione di sostegno per tutto il territorio italiano vigilando soprattutto sul rispetto dei tempi di emissione del decreto di nomina e sull’assegnazione di adeguate risorse umane (giudici, operatori di cancelleria) e tecnologiche alle Sezioni della volontaria giurisdizione. Tale azione potrà attuarsi attraverso verifiche ispettive dedicate specificatamente a tali aspetti, intervenendo su situazioni patologiche ed emettendo periodiche circolari ministeriali ricognitive anche di buone prassi nella gestione dei suddetti Uffici;

2. al Consiglio Superiore della Magistratura si chiede di implementare, anche attraverso la Scuola Superiore della Magistratura, formazione ad hoc per magistrati, non soltanto per le procedure di emissione del decreto di nomina dell’ads, ma anche per tutto il controllo giurisdizionale e le modifiche da porre in essere in corso di amministrazione. A tal proposito, può essere utile dotare i giudici della Volontaria Giurisdizione anche di alcune nozioni in merito alle relazioni giuridiche ed amministrative che le persone con disabilità si trovano quotidianamente a dover vivere, ma soprattutto di come interagire rispetto ai vari attori del progetto individuale che la persona con disabilità può richiedere ai sensi dell’art. 14 legge n. 328/00. Si chiede al Ministero della Giustizia di operare in ordine ai coordinamenti interministeriali ed interistituzionali per il raggiungimento di tale fine.

3. la formazione potrà anche essere aperta ad altre figure professionali, quali assistenti sociali, avvocati, medici legali, affinché si crei un continuo scambio di esperienze multidisciplinare”.

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L’amministrazione di sostegno: uno strumento che ha

rivoluzionato la cassetta degli attrezzi della salute mentale

di Gemma Brandi

Anni or sono mi è capitata tra le mani la bella intervista ad Alberta Basaglia, comparsa sulle pagine di un noto quotidiano. Alberta, la figlia di Franco Basaglia che la scienza aveva definito cieca, rende chiaro come per il fautore della Legge 180 la sfida fosse cominciata in casa, una sfida all’handicap di Alberta. Mi è capitato di presentare Franco Basaglia come l’inventore di una risposta non semplificata, quale il manicomio era, a un problema complesso, quale la sofferenza psichica è sempre stata. I problemi complessi non si affrontano in maniera semplicistica, esigono soluzioni composite e una dose non comune di trasgressione creativa. Alberta Basaglia aggiunge un ingrediente a questa lettura della svolta basagliana della invenzione della salute mentale, che è poi un misto di armoniosa interdisciplinarità e audacia nello sfidare il nuovo che avanza tanto nei travestimenti della sofferenza che nelle conseguenti risposte. Ella sostiene che ci fosse, nello spirito del fondatore della 180, la capacità/volontà di rendere possibile l’impossibile e di andare oltre ogni separatezza, anche quella tra squilibrati e accorti. E sottolinea come la riforma non sia la favola bella che certa ideologia, soprattutto di sinistra, volle far sua, e neppure l’eccidio acritico che un’altra ideologia, soprattutto di destra, proclama. Dietro vi fu un movimento pieno di contraddizioni, e io aggiungo di peccati originali, che però servì a dimostrare che i folli potevano essere assistiti anche fuori del manicomio: venne attraversato il Rubicone e tratto il dado.

Chi ha dunque raccolto il testimone di Basaglia? Dubito che siano quelli che, quarant’anni dopo, non hanno smesso di ripetere i suoi aforismi. Certo potrebbero essere quanti, memori della spallata basagliana, sostengono la emancipazione del soggetto che soffre e/o fa soffrire, la sua “guarigione sociale”, sempre pronti a rinvenire risposte adatte al perenne trasformarsi della domanda. Tra questi i fautori della Legge sulla Amministrazione di sostegno

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[AdS] e i suoi utilizzatori, chi ha inventato il dispositivo e chi ha imparato a usarlo, tramandandone le virtù. E poiché il diritto e la cura appartengono alle arti di leonardesca memoria - distinguendosi in ciò dai mestieri: nella capacità di scrivere intorno alle proprie pratiche - occorre che lo strumento in sé e le sue applicazioni siano descritti e diventino materia di insegnamento, che ne sia depositata la teoria. Così anche i riottosi e gli accidiosi potranno prima o poi attingervi, e gli uomini di buona volontà delle generazioni a venire non soffriranno di una ignoranza di ritorno per non avere trovato maestri in grado di trasmettere la conoscenza del funzionamento di questo prezioso arnese, cosa che capita al povero muratore costretto a reinventare “l’archipendolo” dal niente.

L’odierno Seminario indaga le possibilità applicative dell’istituto della AdS per affrontare i problemi che emergono nei vari contesti di “cura” della persona, a dodici anni dall’entrata in vigore della legge 6/2004. Tenterò quindi di mettermi al servizio di questo obiettivo, incastonando la norma in un avvertito bisogno di innovazione in salute mentale, descrivendone le scontate virtù nella risposta di aiuto alla sofferenza psichica e facendo cenno ai suggerimenti che la sua applicazione ha introdotto.

Per attualizzare i percorsi di salute mentale sono oggi necessarie alcune azioni: dei rinnovati piani formativi che assegnino valore all’ascolto del soggetto sofferente, fuori da ogni riduzionismo biologico che non fa meno male dei legacci manicomiali; la individuazione di percorsi terapeutici basati sulla gradazione monitorata dell’intervento, su filiere in cui trovi posto l’autonomia possibile dell’individuo, rinunciando alla presunzione di alzare o abbassare il filo a prescindere dalle speranze espresse dall’interessato e da un giudizio clinico non pregiudiziale; il riconoscimento della utilità del sistema delle coazioni benigne, di cui a buon diritto fa parte l’AdS insieme con:

il ricorso disciplinato ad Accertamenti e Trattamenti Sanitari Obbligatori [ASO e TSO];

le alternative a detenzione e internamento giudiziario del portatore di una sofferenza psichica autore di reato;

la sempre più raffinata, colta e coraggiosa “forensizzazione” dei servizi

territoriali, nel senso di una diffusa conoscenza al loro interno degli strumenti giuridici che sono di aiuto alle persone delle quali si prendono cura;

la capacità di contenere i fenomeni del bullismo in ascesa, cui fa eco lo stalking in impennata;

attese invenzioni che consentano di restituire libertà ai figli a tal punto contesi nelle separazioni complesse da rendere dicibile l’indicibile: “meglio orfani che contesi”;

il progressivo ingresso della AdS in carcere, a favore dei reclusi incapaci che di frequente attraversano la detenzione senza che sia data risposta al bisogno di sostegno che li affligge.

La scelta di lavorare sia nei servizi territoriali che nella istituzione penitenziaria ha permesso, a chi scrive e ad altri, di cogliere per tempo la necessità di coltivare la coazione benigna che, nel sistema della salute, si inscrive nel solco della crescita di un “diritto mite” in ambito penale e partecipa dell’avanzare verso una sempre più agile azione interistituzionale. Intrecciare il sistema delle coazioni benigne è il compito di una salute mentale ormai liberata dal timore di semplificare del passato e quindi in grado di proiettarsi verso una integrazione né astratta, né ideologica.

Quando la coazione è benigna? Tutte le volte che punta a trattenere la caduta libera di qualcuno privo di bussola, immerso in una sorta di disorientamento esistenziale, incapace di sottrarsi alla perdita di sé. Tutte le volte che contribuisce a difendere, un soggetto debole, da aggressioni vuoi pure inconsapevoli auto e/o eterolesive. Tutte le volte che si configura come disposizione di alleggerimento della coazione stessa. Per conseguire questi risultati occorre che l’imposizione non sia gratuita, generica, crudele, autoreferenziata, bensì necessaria, individualizzata, umana, interdisciplinare. È in questa prospettiva che un ASO e un TSO non vanno a detrimento della cura; che ben monitorate misure alternative alla pena diventano lo strumento per restituire il reo a una smarrita competenza sociale; che disposizioni dell’autorità giudiziaria a tutela del minore conteso da genitori separati evitano che sia fatta strage della sua individualità; che una accusa portata con fermezza e benevolenza insieme può non ferire, bensì educare.

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Ma non sono forse quelle elencate le caratteristiche della AdS? Ecco perché la norma è il rappresentante per antonomasia della coazione benigna, mentre la interdizione e la inabilitazione appartengono al sistema delle coazioni maligne: la seconda in quanto inadatta a tutelare un incapace, la prima perché esclude senza motivo capacità conservate, segue un profilo standard, mai modellato sul bisogno attuale, produce un umiliante annichilimento del soggetto debole, non offre sponde a un controllo reciproco - tra organi della cura e della assistenza e organi della giustizia, ad esempio - dell’esercizio della forza. Tali vetusti strumenti erano a tal punto dannosi che gli operatori della salute mentale preferivano, per non abbandonare il soggetto in balia della sua spinta autolesiva, trasformarsi nei suoi illegittimi amministratori di sostegno [ads] ante litteram. Per capire meglio come stessero le cose, basterebbe osservare che un quartiere di settantamila abitanti di Firenze contava nei primi mesi del 2004 diciannove tra interdetti (tredici) e inabilitati (sei) per problemi psichici, oggi diventati diciassette (dodici e cinque rispettivamente) a causa della morte di alcuni soggetti in gran parte provenienti dalla vecchia manicomializzazione. La stessa area urbana, in dieci anni ha accumulato settantacinque AdS ed è in attesa di decisioni su altre tre. Non solo, ha promosso, contro il parere del tutore del tempo, che si è per questo dimesso dal ruolo, un procedimento di revoca di una delle residue interdizioni, offrendo una consulenza tecnica di parte a costo zero all’interessato.

Quanto accade in un ambito territoriale - per qualsiasi norma, nella fattispecie questa - è davvero troppo condizionato dalla fede nel dispositivo da parte di chi ne ha la responsabilità organizzativa, se la situazione nei cinque quartieri di una città piccola, per quanto non “insignificante”, come Firenze, risulta oggi decisamente diversa. Tale disomogeneità testimonia di uno scarso accompagnamento della legge, che come altre disposizioni emancipatorie degli ultimi anni soffre della diffusa indifferenza che avvolge i problemi scottanti della società. Penso al DL 230/99, che decretò l’ingresso in carcere dei Servizi Sanitari Regionali, e al DPCM 1° Aprile 2008 che ne sanzionò, con nove anni di ritardo, l’applicazione senza investimenti. Tuttavia qualcosa si potrebbe e si dovrebbe fare per stimolare Regioni a Comuni a introdurre nei loro piani formativi obbligatori corsi sulla AdS per gli operatori sociosanitari,

che sono estesamente all’oscuro degli obblighi che la norma pone loro e di conseguenza del rischio omissivo. Nel 2009 il Ministero della Salute propose ad alcune Regioni italiane, tra cui la Toscana, un piano di informazione diffusa sul territorio circa la legge. Capofila di quella iniziativa era il Veneto. La cosa si dissolse alla zitta dopo qualche viaggio a Roma e la presentazione di progetti utili e sostenibili, almeno da parte di Toscana ed Emilia-Romagna, che nessuno finanziò, pur trattandosi di un progetto con un budget tutt’altro che trascurabile.

L’assenza di una volontà statale di accompagnamento della applicazione della legge ha determinato anche una diffusa ignoranza circa le buone prassi nate a macchia di leopardo nel Paese, e anche sulle cattive prassi (per tutte, l’uso invalso in una grande città del Nord di nominare amministratori di sostegno i direttori generali delle locali aziende sanitarie), in altre parole la mancata edificazione di un dibattito sui punti di forza e sui punti deboli della AdS.

Uno dei punti deboli consiste, a mio parere, in quella insistenza sul costo zero della funzione di ads che ha riempito la bocca di coloro che ne sostenevano la beltà assoluta proprio in virtù di un altruismo che nell’immaginario viene a coincidere, troppo spesso, con il bene assoluto. Repetita non sempre iuvant. Quella insistenza, infatti, ha alimentato uno scontro tenace tra l’affermazione del valore volontaristico del ruolo di ads e il riconoscimento di un suo risvolto professionale. A ben guardare, poiché i casi di cui occuparsi non sono omogenei, servono tutte le possibili declinazioni dell’ufficio: non importa che, di volta in volta e in base alle opportunità della singola situazione, l’ads sia un familiare, un volontario, un professionista; conta soprattutto che si tratti di qualcuno disposto a collaborare con i servizi della cura e della assistenza e non incline a introdurre fattori di critica distruttiva in trattamenti che necessitano di composizione e soffrono di ogni forma di conflittualità non necessaria. Lo scontro tra prospettive dissimili ha contribuito, inoltre, a rallentare la costituzione di albi di ads distribuiti per territorio, un territorio che non dovrebbe, a parere di chi scrive, andare oltre quello di competenza del Tribunale: non si potrà pensare di svolgere il compito mantenendosi a una distanza talora assoluta dal soggetto! Mi sono imbattuta di recente, all’interno di una CTU, nel titolare di una curatela ultraventennale, di stanza a Milano,

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che chiedeva la interdizione del soggetto incapace, il quale risiede però a Firenze e non aveva mai incontrato il suo curatore in precedenza: il giudice ha optato per una AdS in luogo dell’interdizione - così i due si sono infine conosciuti - e per l’obbligo di nomina di un coadiutore dell’Ads che abiti dove l’amministrato vive.

Eco della incuria istituzionale per la norma e della conseguente ignoranza, sono anche i travisamenti circa le proprie competenze di assistenti sociali e amministratori, con attribuzioni incongrue della funzione che si è chiamati a svolgere all’altra figura. Queste incertezze, talora opportunistiche, introducono di nuovo il fatidico fattore complicazione nella presa in carico di casi complessi, una attività che può essere solo composita e lucidamente concertata.

Va poi detto come sembri scontato che i familiari della persona incapace godano di un pregiudizio positivo quanto alla nomina di amministratori dei loro congiunti, in tal modo scotomizzando le occasionali difficoltà che tale scelta comporta. Sulla scorta del privilegio appena rilevato è accaduto e potrebbe accadere di nuovo che siano fatte nomine obiettivamente dannose all’interessato.

Inoltre, se l’AdS getta un ponte tra diritto e cura, occorre non trascurarela necessità di interventi giuridici tempestivi a salvaguardia del benessere psichico di una persona. I tempi della giustizia non sono quelli della salute. Si dovrebbero al contrario individuare procedure che rispettino l’urgenza sanitaria di certi provvedimenti, monitorandone l’appropriatezza che discende dalla capacità di uso della legge -di nuovo un richiamo a formazione e accompagnamento della norma.

Vorrei qui spezzare una lancia a favore della introduzione di una figura assai efficace in salute mentale, che abbiamo indicato come “educatore di sostegno”, una figura utile alla costruzione di un consenso vero da parte dell’amministrando. È molto difficile, infatti, che un soggetto relativamente incapace di agire e non compliant, accetti a cuor leggero che ad amministrare parte della sua vita sia uno sconosciuto, per benevolo che appaia. L’esperienza ha dimostrato come sia consigliabile affiancare all’interessato una figura educativa, esterna ai servizi, ma da questi finanziata, capace di stabilire con

lui/lei una relazione e quindi in grado di ottenerne la fiducia. Questi finirà per essere indicato, dalla persona incapace al giudice, come suo amministratore, in tal modo superando due ostacoli: l’opposizione dell’amministrato alla amministrazione e il suo costo che potrà rientrare all’interno della più ampia funzione di sostegno terapeutico, retribuibile dai servizi sociosanitari. E se a un simile aggiustamento si opponesse la regola che impone di non scegliere l’Ads tra coloro che si occupano di assistere e curare il soggetto? Va sottolineato, intanto, che si parla di figure non istituzionali, laddove i servizi restano i titolari di cura e assistenza. E comunque il gioco vale la candela, se porta con sé la magnifica calamità di mettere in condizione di chiedere autonomamente aiuto chi ne ha bisogno, ma ne è inconsapevole.

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Dipendenze e amministrazione di sostegno:

un’occasione di riflessione

di Sara Costanzo

Quando parliamo di amministrazione di sostegno dobbiamo partire da alcune considerazioni tanto scontate quanto complesse: in questo campo, come forse in pochi altri, gli aspetti giuridici si intrecciano inevitabilmente e in un certo senso “indissolubilmente” con la natura degli interessi coinvolti costringendo i magistrati ad un continuo confronto con istanze e valutazioni di tipo extra-giuridico.

Tutto questo discende dalla natura stessa dell’istituto dell’ADS, compresa la visione del diritto che lo ha generato. Troviamo dunque disposizioni normative che lasciano ampi spazi alla sensibilità dell’interprete così che possano adeguarsi con facilità alla molteplicità di situazioni alle quali questa forma di protezione si rivolge. Ne discende che la modalità con cui viene applicata una determinata norma è strettamente legata al bagaglio “esistenziale” (il mondo culturale, emotivo, il contesto relazionale e le esperienze personali) di colui che quella norma deve applicare. Al tempo stesso il substrato normativo è necessariamente costituito dalla tutela di interessi che, anche quando non appaiono tali (ad esempio quelli “solo” patrimoniali) sono sempre legati, in un rapporto di reciproca influenza, al mondo relazionale ed emozionale dei soggetti coinvolti.

Per le stesse e inverse ragioni gli psicoterapeuti si trovano a fare i conti con un mondo (quello del diritto appunto) che ha spesso logiche, linguaggi e sopratutto strade e tempi differenti da quelli legati alla cura. Un mondo spesso ancora poco conosciuto o vissuto partendo da un’idea del diritto diversa da quella che ha portato alla creazione dell’ADS e dunque associata ad un senso di limite o addirittura “intrusione” nelle delicate e peculiari fasi del processo di cura.

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Tutto questo ci porta immediatamente alla premessa di qualunque discussione: il cuore della ADS si trova al centro di un ponte che unisce tutti i partecipanti e questo ponte è la relazione e con essa la fiducia. Dal momento che ogni caso è un unicum, grande importanza hanno le “persone reali” (e soprattutto le relazioni tra le stesse) che tale istituto si trovano ad applicare. Qualunque applicazione deve dunque avere un focus bidirezionale, volto a cogliere l’altro ma anche noi stessi, il processo nel suo complesso ma anche le singole parti di cui esso si compone e le interconnessioni tra le stesse.

L’AdS vista dallo psicoterapeuta

Il rapporto tra esigenze di cura e amministrazione di sostegno coinvolge fondamentalmente due aspetti: l’obbligo giuridico di segnalare previsto dall’art. 406, comma 3°, c.c. (che prevede che i responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura di un procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a porre al giudice tutelare il ricorso o a fornire comunque notizia al PM) e la gestione da parte del terapeuta di pazienti amministrati. Entrambi questi aspetti richiamano (tra gli altri) interrogativi piuttosto complessi e ai quali è difficile (per le premesse su esposte) dare risposte valide in qualunque caso.

Quali sono i fatti tali che potrebbero motivare l’apertura di un procedimento e quale rilevanza hanno? Quando si parla di dipendenza ci troviamo di fronte ad una casistica piuttosto complessa: ci sono dipendenze da sostanze (con conseguenze diverse da sostanza a sostanza) e dipendenze comportamentali, dipendenze plurime e “doppie diagnosi” in cui la dipendenza convive con problemi psichiatrici di altra natura. Pazienti con condizioni psichiche e relazionali più o meno compromesse, con una storia di cronicità più o meno lunga e tentativi di cura più o meno riusciti. Tutto questo per dire che troviamo “fatti” di varia natura che, seppur astrattamente idonei a motivare l’ apertura di un procedimento, sono per cosi dire “ordinari” in questi casi (la mancanza di motivazione alla cura o ricadute frequenti e repentine, il pregiudizio economico del paziente o di altri, la difficile gestione di questo tipo di paziente da parte della famiglia e del contesto sociale di riferimento, la necessità di periodi

ricovero e soggiorni in comunità, incapacità di vario tipo…) e fatti derivanti da situazioni fisiche, psichiche e patrimoniali particolari (compromissioni cognitive importanti, situazioni di particolare fragilità personale, interessi patrimoniali specifici…).

Ma non solo. Dal punto di vista del terapeuta (e dunque del processo che lo vede implicato) c’è da chiedersi quali valutazioni sono alla base del giudizio di opportunità.

Il cuore del processo terapeutico (e dunque ciò che rende possibile il diritto del paziente ad una cura funzionale) è la fiducia. Questo non vuol dire assecondare tout court (e dunque in un certo senso colludere) le istanze di segretezza che spesso il paziente porta in relazione alla sua condizione, ma sostanzialmente avere come punto centrale del proprio intervento (in ogni passo e momento) la cura. È dunque a partire da questa finalità (che è il cuore della fiducia terapeutica) che la valutazione sul segnalare o meno (e soprattutto sul modo di comunicare questa cosa, anche al paziente stesso) dovrebbe essere fatta, tenendo conto che tutto si svolge all’interno di un processo relazionale che ha i suoi tempi e le sue modalità. In questa ottica, la domanda non è tanto quanto questa finalità sia compatibile con gli obblighi di legge ma quale sia la finalità che il terapeuta e dunque il paziente che a lui si rivolge, deve perseguire (anche per legge) in via principale quando protezione e cura non sono compatibili nei modi e nei tempi previsti dalla ADS.

Questa stessa domanda riguarda anche altri aspetti della terapia spesso non immediatamente compatibili con quelli alla base dell’ADS: quando non proteggere il paziente (e non dargli modo di assumersi tutta le responsabilità delle proprie scelte, comprese quelle patrimoniali) è più utile – in un’ottica di cura - che avviare un procedimento per la nomina di un ADS o quando è più utile non far intervenire il sistema giuridico in dinamiche familiari o patrimoniali.

Chi nominare (e soprattutto chi è utile non nominare) come ADS? Senza la pretesa di generalizzare possiamo dire che la maggior parte delle volte la dipendenza è una “malattia” che riguarda tutto il contesto familiare. Non solo

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per le conseguenze che ha sull’intero gruppo familiare ma soprattutto perché molte dinamiche sono comuni a tutti i membri. La maggior parte delle volte il paziente dipende dalla sostanza e i familiari dipendono dal paziente in un meccanismo (che viene definito di codipendenza) che ha il suo punto centrale nel controllo. Soprattutto in procedimenti in cui il servizio di cura non è stato coinvolto, la nomina di un ADS all’interno del gruppo familiare può (non necessariamente deve) rafforzare dinamiche disfunzionali di controllo o all’inverso deresponsabilizzare completamente altri membri e in ogni caso avere ripercussioni sulla cura non trascurabili.

Quando la scelta cade su persone diverse dai familiari va invece segnalata una criticità importante: anche qui senza generalizzare, possiamo dire che la maggior parte dei pazienti che soffrono di dipendenza ha problemi legati alla fiducia. Se appare chiaro il meccanismo quasi paradossale (metter in moto un meccanismo che ha alla base la fiducia a favore di una persona che ha nel campo della relazione i suoi problemi principali) meno chiaro può apparire il rischio: l’amministratore di sostegno può essere infatti non preparato ad entrare in un tipo di relazione che per sua natura è altamente manipolativa con conseguenze anche sulla funzionalità del processo e nei casi peggiori sulla sua stessa salute (dell’amministratore intendo).

Anche per questo interrogativo vale dunque quanto detto nelle premesse: non essendoci ricette universalmente valide (e casistiche troppo diverse) è la relazione, con al centro comunicazione e fiducia a guidare le scelte. Così, se da una parte la conoscenza di dinamiche specifiche di altre discipline (che parte dalla consapevolezza di quanto esse siano rilevanti in questo campo del diritto) può aiutare il giudice a prendere decisioni migliori o semplicemente ad esplorare le aree più utili in tal senso; dall’altra una corretta conoscenza della natura dell’ADS può offrire al terapeuta una possibilità, uno strumento che se “terapeuticamente” utilizzato può essere funzionale alla cura.

In sintesi

Quando si parla di ADS e dipendenze (ma il discorso vale per molte altre situazioni) tutti gli attori coinvolti nel procedimento devono partire da

una considerazione importante: al di là delle personali convinzioni, un istituto giuridico non diviene opportunità per il paziente tout court. Questa trasformazione ha alle spalle (e di fianco) un lavoro (che non necessariamente deve essere fatto con una psicoterapia) in cui il fine ultimo non è il sostegno in quanto tale ma la cura1 e come cuore la fiducia che il paziente ha nel sistema globalmente considerato.

1 In questa ottica la guarigione non esclude a priori la possibilità che il paziente continui ad essere sostenuto in alcune scelte così come la malattia non porta con sè inevitabilmente la necessità di un ADS.

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L’amministrazione di sostegno: uno strumento di promozione

dell’autonomia e di protezione della persona

di Barbara Schiavon

Quando si parla di “amministrazione di sostegno” si discute dell’essere umano nella sua totalità e lo strumento introdotto con la legge 6/2004 ci ricorda i valori fondamentali dell’uomo (la centralità della persona e la sua dignità) e richiama non solo i nostri principi costituzionali, ma anche gli impegni internazionali assunti dall’Italia (Convenzione di Oviedo e Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità).

Ebbene, la mia esperienza in ambito di amministrazione di sostegno è iniziata in Tribunale a Venezia, quando già prestavo servizio come Giudice Onorario e l’allora Presidente di sezione, il dr. Sergio Trentanovi, cominciò a delegarmi la trattazione delle udienze.

Ricordo che inizialmente la casistica dei ricorsi interessava per lo più persone anziane e non fu un caso se l’Ufficio del Giudice Tutelare iniziò una stretta collaborazione con il Comune di Venezia, settore delle politiche sociali.

Ho imparato in quel contesto l’importanza dell’ascolto del beneficiario in primis, ma anche dei soggetti che gravitano attorno alla persona in difficoltà: assistenti sociali, medici, sanitari etc.

Ho apprezzato il valore del confronto con le diverse professionalità traendo spunti di analisi e riflessione che mi conducevano il più vicino possibile alla vicenda umana posta alla mia attenzione e, dunque, il più concretamente possibile ad assumere iniziative mirate alla protezione del destinatario della misura.

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Nelle funzioni di Giudice Tutelare ho cercato di conoscere tutte le singole situazioni nella loro pienezza; dunque non mi sono limitata a verificare se vi

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era la sussistenza dei presupposti ex art. 404 c.c. (infermità, menomazione; totale o parziale) ma ho cercato di capire qual era il contesto “ambientale” in cui viveva la persona interessata dalla richiesta, ritenendo così di poter strutturare o indicare il progetto di sostegno più consono ai bisogni della singola realtà.D’altronde, se è vero che lo scopo della norma è tutelare, con la minor limitazione possibile della capacità di agire… (art. 1) allora è anche vero che il GT deve poter individuare quali siano gli interessi che il beneficiario non è in grado di curare da sé e quali le funzioni da assegnare all’AdS (con rappresentanza o assistenza).Mi sono resa conto di quanto sia importante la scelta dell’AdS; sappiamo che la legge offre al G.T. dei criteri di scelta (art. 408 c.c.) per l’individuazione dell’AdS e sappiamo altresì che la norma ha previsto in dettaglio anche gli obblighi dell’AdS.Tuttavia chi non ha incontrato AdS che, pur non dotati di attitudine personale e/o disponibilità all’ascolto - ovvero limitati da impegni personali e/o professionali - hanno comunque accettato un ruolo che mal conciliava le loro esigenze o le loro personalità con i bisogni del beneficiario? ___

L’esperienza di giudice onorario, preziosissima, ancora oggi mi è di supporto quando assumo l’incarico per avviare un procedimento ex art. 404 c.c. ma anche quando accetto di assumere la funzione di amministratore di sostegno; in entrambi i casi cerco di individuare qual è l’ambito di autonomia del beneficiario, quali le risorse da destinare alla sua promozione e quali alla sua conservazione.

Nel caso l’AdS sia chiamato ad aiutare un anziano che si trova in difficoltà nella gestione di una quotidianità caratterizzata da isolamento e chiusura verso le relazioni sociali (il caffè al bar, la visita dall’amico/a), incapacità di provvedere ai piccoli acquisti (pane, latte, giornale) come alla pulizia ed al riordino della casa (lavare, stirare, spolverare) ed alla cura della persona (lavarsi, alimentarsi), diverse potranno essere le soluzioni e dunque gli ambiti di intervento.

In taluni casi sarà sufficiente assumere una badante, domiciliare utenze o incassi di pensioni, pagare forniture e/o badanti; in altri casi sarà necessario valutare se inserire la persona in un centro diurno (recupero della socializzazione e contatto con altri soggetti, alimentazione corretta, organizzazione della giornata con attività etc.) ovvero se chiedere l’autorizzazione all’inserimento in struttura, sia essa temporanea o a tempo indeterminato.

Nella scelta incide la presenza (come l’assenza) di una rete familiare o amicale su cui poter contare, se il soggetto è (o meno) conosciuto dal servizio.

La nomina può rendersi necessaria in via d’urgenza; pensiamo al caso dell’anziano preso in carico dal servizio perché rinvenuto privo di sensi per strada, perché privo di rete familiare (perché deceduti o assenti o residenti in altre città o Stati) e segnalato dal vicino di casa, dal medico di base, dallo specialista etc.

Quante volte abbiamo letto nei giornali del vicino di casa che allerta il servizio non vedendo più l’anziano o la persona conosciuta per la sua fragilità?

In queste vicende la presa in carico avviene in via d’urgenza, con richiesta che il G.T. possa valutare le circostanze di fatto (e qui sorge il problema di reperire adeguata documentazione sanitaria) al fine di nominare un AdS che esprima il consenso alle cure ed ai relativi trattamenti, scelga l’eventuale riabilitazione ma soprattutto valuti quale progetto di vita possa proporsi per il dopo ricovero, sentendo i familiari, il MGG, i medici della struttura, verificando se vi è possibilità di assistenza domiciliare ovvero necessità di una istituzionalizzazione (anche a tempo determinato).

Talvolta il ricorso per la nomina dell’AdS è proposto dalla struttura protetta: ci sono anche i casi degli anziani che perdono i contatti con la rete familiare (familiari deceduti ovvero che abbandonano il congiunto) e restano privi di assistenza sia nell’ambito delle cure medico-sanitarie che nell’ambito patrimoniale, privati delle risorse necessarie per affrontare i costi della retta (e mi riferisco ai casi di familiari che hanno le deleghe all’incasso della pensione e la trattengono per sé).

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Per quanto riguarda le posizioni del clinico e sempre in base alla mia esperienza posso affermare che i medici hanno la possibilità, ma direi forse la responsabilità, di mettere a disposizione del Giudice informazioni utili a chiarire le problematiche che limitano il soggetto giunto alla loro osservazione.

Le loro informazioni e/o valutazioni sono utili sotto il profilo delle scelte “operative”; non vi è dubbio che le indicazioni provenienti dal MMG - piuttosto che dal sanitario ospedaliero ovvero dallo specialista ovvero dall’AS - soprattutto se si avvalgono di un linguaggio oramai comune spendendo termini come demenza, schizofrenia, sindrome di down o ritardo mentale etc., consentono di raggiungere anche i non addetti ai lavori (ovvero magistrati ed avvocati) facilitando la comprensione delle condizioni in cui si trova la persona, delle sue esigenze e dunque di quali siano le iniziative più opportune.

D’altronde per un operatore del diritto la “classificazione” è uno strumento pragmatico e di pronto utilizzo che ben si presta ad essere valutato dal soggetto che ha come riferimento l’art. 404 c.c. ed i principi ivi dettati; come sappiamo detta norma pone delle condizioni per addivenire alla nomina dell’AdS e richiede una infermità ovvero una menomazione fisica o psichica.

I presupposti normativi li dovrà valutare l’avvocato nella stesura del ricorso e nella richiesta dei poteri da affidare all’AdS, mentre il magistrato li dovrà verificare - in termini di sussistenza - per provvedere con la nomina e con i poteri da affidare all’AdS.

Per gli operatori del diritto è ancora difficile comprendere il linguaggio di una scheda SVAMA e/o di un verbale UVMD, mentre molto più intuitivo è desumere le informazioni concrete dalla relazione sociale ovvero da una classificazione e/o certificazione che agevoli la comprensione delle reali compromissioni e/o riduzioni degli aspetti cognitivi.

Dunque certificazione e diagnosi sono opportune, se non necessarie, per consentire che il G.T. ricavi quelle circostanze di fatto utili ad individuare la fattispecie e quindi la fragilità che consente, ex art. 404 c.c., l’apertura dell’amministrazione di sostegno e, di conseguenza, l’adozione delle misure

che consentano di provvedere ai bisogni della persona.

Tanto per inquadrare la rilevanza ed utilità della classificazione e certificazione, segnalo la difficoltà di dimostrare una fragilità quale la ludopatia; in questi casi, salva l’ipotesi che la persona sia nota ad un SERD e dunque vi sia documentazione che possa essere esibita (ricordiamo le problematiche di privacy) e che attesti la patologia (caso rarissimo), di norma le chances di dimostrare la sussistenza del presupposto ex art. 404 c.c. restano le dichiarazioni dell’interessato in sede di audizione.

Mi risulta che laddove non vi sia certificazione o un principio di prova che riveli la ludopatia … il G.T. resta diffidente verso istruttorie testimoniali ovvero indagini d’ufficio.

Spesso l’utilità dell’audizione domiciliare del soggetto fragile consente di desumere circostanze altrimenti non immaginabili; pensiamo all’impatto visivo di una casa sporca, con le impronte delle dita unte sugli interruttori, le ragnatele che scendono dal soffitto, letti sfatti, oggetti accumulati in quantità inusuale ovvero la presenza di galline lasciate libere all’interno dell’abitazione; gli odori ed i suoni non possono essere colti dalle fotografie né essere “riferiti”.

In genere comunque, per quanto ho potuto verificare nel corso di questi anni, la “traduzione” delle informazioni di carattere medico, siano esse verbali o scritte, fornite dal MMG piuttosto che dal sanitario, sono necessarie al G.T. per contestualizzare gli altri dati, anche di esperienza comune (pensiamo alle circostanze riferite dall’interessato, dai familiari se presenti ovvero dai terzi quali amici, conoscenti, operatori sociali etc.).

Sappiamo che l’amministrazione di sostegno è un “vestito su misura” e che ciascuna vicenda è un caso a sé; dunque ogni audizione è peculiare ed ogni decreto dovrebbe essere diverso perché risponde a singoli e specifici bisogni della persona verso la quale viene richiesto.

Potranno esserci casi simili ma mai identici perché diverso è l’ambito soggettivo d’intervento; pensiamo ad una malattia che interferisca nella relazione con l’esterno (es. decadimento cognitivo) ovvero una fragilità data dall’isolamento e/o dalla solitudine (depressione) piuttosto che da una dipendenza (ludopatia,

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tossicodipendenza, alcolismo) ovvero ancora una situazione di menomazione fisica (sordità); le progettualità saranno evidentemente diverse tra loro.

Quanto più un caso verrà supportato da informazioni provenienti dall’ambiente medico-sanitario e/o da elementi di fatto afferenti la quotidianità (collocazione e condizione dell’abitazione e dunque a quale piano si trova, se vi sia o meno la presenza dell’ascensore, se la persona è ordinata e pulita etc.) tanto più il decreto ed il progetto che ne farà seguito, potrà intervenire specificatamente per la realtà valutata dal GT.

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Dunque il clinico che ha in cura l’anziano, con o senza rete parentale, che conosce lo strumento ex L. 6/2004, può portare all’attenzione del G.T. informazioni utili.

Come?

Attivando il servizio sociale, facendosi parte ricorrente quale responsabile che ha in cura il soggetto ovvero segnalando al Pubblico Ministero territorialmente competente il caso; benché l’esperienza ci insegni che ciascuna di queste iniziative è soggetta a tempi diversi, perché differente è la struttura organizzazione dell’Ufficio al quale va rivolta.

Ed invero mi risulta ancora osteggiato il ricorso alla Procura territorialmente competente che, in alcuni Tribunali, respinge al mittente la segnalazione evidenziando, nel caso di servizi, il rispettivo potere d’impulso.

Certo le difficoltà ci sono, soprattutto sui tempi tra la richiesta al G.T. e l’adozione della misura, talvolta dovute a carenze di organico e di risorse degli uffici, altre volte per la diffidenza verso lo strumento da parte dell’Ufficio.

Ma è anche vero che si stanno diffondendo risposte positive e strutturate: collaborazioni tra Uffici Giudiziari e territorio per promuovere la conoscenza dell’istituto, delle prassi operative (dunque le richieste del G.T.), corsi di formazione per AdS e liste di AdS.

Alcuni tribunali pubblicano nel sito informazioni sui presupposti, sull’ufficio al quale rivolgersi ovvero i modelli di ricorso (comprensivi dell’elenco

documenti da allegare) etc.

D’altronde non possiamo prescindere dalla considerazione che il ricorso ex art. 404 c.c. comporta l’accesso alla giurisdizione e presuppone la pronuncia di un magistrato il quale, laddove disponga di idonea documentazione, potrà esaminare correttamente e velocemente la fattispecie evitando i casi non urgenti, non fondati etc.

Sappiamo che le potenzialità applicative dell’istituto vanno ampliandosi mentre le risorse sono o variate o diminuite sicché è necessaria la sinergia anche all’interno delle Istituzioni.

A Venezia ad esempio, dove l’accesso al Palazzo di Giustizia è difficile o complesso per taluni soggetti, si privilegiano le udienze “domiciliari” nel senso che, d’intesa con le varie ASL del territorio, il Giudice tiene udienza presso i distretti sanitari dislocati nel territorio così riducendo le difficoltà degli utenti, salvo i casi in cui sia necessario svolgere l’udienza al domicilio (malato di SLA, l’anziano in carrozzina ma anche la persona che si rifiuta di uscire) oppure direttamente in struttura per chi è ricoverato.

Le udienze in struttura sono oramai prassi anche a Treviso e Pordenone.

In alcuni Tribunali la collaborazione tra l’Ufficio e l’utenza si è realizzata per il tramite di associazioni e realtà locali; a Pordenone vi è un protocollo con un’associazione di volontariato per la gestione di uno sportello posto all’interno del Tribunale, dove sono fornite informazioni ed assistenza sul contenuto, sulla procedura e/o prassi etc.

Più diffusa sarà la conoscenza dello strumento (potenzialità ma anche limiti e presupposti), migliore sarà la collaborazione nell’interesse del beneficiario.

Ricordo infatti i rischi legati ad una non corretta interpretazione della norma, quando il beneficiario (e la famiglia) vive come intrusione la presenza dell’AdS.

Questo accade, ad esempio, quando a) non c’è dialogo tra familiari, beneficiario e ads, tra servizi e AdS (una tra le prime iniziative dell’AdS è cercare il contatto con i responsabili che hanno in cura la persona, oltre ai familiari); b) l’AdS non segnala al G.T. il conflitto tra lui ed il beneficiario ovvero tra AdS e servizi (trattamento farmacologico rifiutato dal beneficiario:

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l’AdS non ha competenze tecniche per discutere con il medico, fiducia cieca nel medico e trascurare le lamentele del beneficiario o investire il GT del problema?); c) l’AdS eccede nel suo ruolo (privare il beneficiario di gestire piccole somme da prelevare in banca o di fare la spesa riduce l’autonomia anziché conservarla o implementarla!).

L’interazione tra servizi, familiari e AdS è importante; tutti i soggetti citati all’art. 413 c.c. (con richiamo al 406) hanno potere d’impulso e di verifica affinchè la misura di protezione trovi completa attuazione, nell’ottica di una collaborazione tra tutti e nell’interesse del beneficiario.

Ricordo in particolare ai servizi il loro ruolo; che è attivo non solo per la fase iniziale (“ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’amministrazione di sostegno sono tenuti a proporre il ricorso”), ma anche nel proseguo perché il servizio resta titolare di un’iniziativa di segnalazione al GT che, in definitiva, ha funzione di verifica sull’andamento del progetto.

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Sulle altre questioni sollevate rispondo brevemente.

Per quanto concerne le situazioni d’indigenza, povertà e detenzione ritengo che il testo normativo impedisca il ricorso ex art. 404 c.c., salvo che a queste condizioni non si sommi un’infermità o menomazione che impedisca al soggetto di provvedere ai suoi interessi.

Per quanto concerne la preparazione dei soggetti coinvolti in ambito di procedimento ex art. 404 c.c. ribadisco l’importanza del dialogo e del confronto tra le diverse professionalità.

Sono convinta che la legge 6/2004 richieda formazione e preparazione ma anche umanità e sensibilità perché ci si occupa di persone che si trovano in condizione di fragilità e vulnerabilità.

Dunque importante il ruolo del Servizio, ma anche del soggetto che assume le funzioni di AdS; insieme al beneficiario ed alla famiglia, se presente, devono condividere scelte quali un cambio casa, la sostituzione di una badante, un inserimento in struttura, la previsione di una limitazione alla gestione del proprio patrimonio, il divieto al matrimonio etc.

Ritengo che il servizio mantenga un ruolo importante anche dopo la nomina di un AdS ed in taluni casi sarebbe utile che il GT chiedesse, già con il decreto di nomina, l’invio di una relazione periodica.

Nel mio periodo “veneziano” ricordo una costante attenzione verso i servizi impegnati nella protezione dei soggetti deboli; vi è stata proficua collaborazione nell’individuazione delle modalità operative (modello di ricorso con relativi documenti da allegare), nella disponibilità dell’ufficio a valutare richieste scritte di colloqui o segnalazioni provenienti dai servizi, nell’attenzione a fissare le udienze di audizione degli interessati presso i locali del servizio piuttosto che in tribunale.

Questo è stato possibile grazie a riunioni “operative” tra GT, cancellieri e GOT.

Tuttavia ritengo che in nessun caso possa essere delegata al Servizio l’audizione del beneficiario, né attività assimilabile; l’audizione del beneficiario deve restare affidata al Giudice.

Per quanto concerne il problema economico legato all’iniziativa processuale (assistenza tecnica o meno; stesura e/o compilazione ricorso, copie conformi, notifiche etc.) va detto che il ricorrente (persona fisica) può avvalersi del patrocinio a spese delle Stato laddove il suo reddito sia inferiore ad €11.528,41 (con il problema del cumulo dei redditi degli altri componenti del nucleo familiari).

In alcuni tribunali quando il ricorrente è un familiare, struttura, servizio etc. si autorizza il rimborso dei costi sostenuti nell’interesse del beneficiario (se vi è capienza); noto che per ridurre le formalità si sta diffondendo la prassi di limitare la notifica della copia conforme (e relativa spesa) al solo beneficiario, consentendo agli altri interessati l’invio di copie a mezzo racc. r.r. quando non sia dimessa la dichiarazione di non opposizione al ricorso ovvero di adesione.

Il procedimento ex art. 404 c.c. pone anche dei problemi di privacy. Nel caso in cui il ricorso venga promosso dal servizio, dalla struttura o da un soggetto che non ha legittimazione a disporre dei dati sensibili dell’interessato o che tali dati abbia avuto in via del tutto confidenziale, la soluzione potrà essere quella

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di chiedere al G.T. l’autorizzazione ad ottenere tali dati ovvero a disporre la comparizione in udienza del responsabile del servizio ovvero ancora ad acquisire una relazione dal servizio o dal medico curante.

In altri casi l’utilizzo dei dati sensibili menzionati in ricorso va considerata con riferimento all’impatto emotivo del soggetto destinatario della notifica, all’esigenza di preservare equilibri di confidenzialità e/o fiducia (pensiamo a chi non ha consapevolezza della malattia ovvero la rifiuta); in questi casi ritengo che il ricorso debba essere “delicato” e debba soppesare le parole, facendo riferimento alla documentazione depositata in fascicolo piuttosto che ad una descrizione letterale della natura della fragilità.

Sono utili, soprattutto per il CSM, corsie preferenziali di dialogo tra Servizio ed Ufficio del G.T. per una scelta dei casi più delicati e/o urgenti; quando ero a Venezia è stato fondamentale il supporto dei cancellieri.

Quanto alla questione del rimborso delle spese all’AdS o alla liquidazione dell’equa indennità posso solo portare la mia esperienza di Got prima e di AdS avvocato oggi.

Il sistema prevede e consente sia il mero rimborso delle spese (pensiamo alle copie conformi di decreto e giuramento, alle spese postali, di trasporto etc.) che la liquidazione, da parte del GT, di un’equa indennità.

Liquidazione anch’essa soggetta a valutazioni: sulle effettive condizioni economiche dell’interessato (pensiamo se questi non ha nulla ovvero ha il poco necessario per sopravvivere e magari riceve i pasti dalla Caritas, in tal caso non verrà riconosciuto nulla né l’AdS lo chiederebbe), sull’impegno profuso dall’AdS e sui vantaggi pervenuti al beneficiario.

So bene che non tutti possono comprendere quante risorse (personali e patrimoniali) sono necessarie per svolgere le funzioni di AdS e quanto impegno richieda un beneficiario privo di autonomia ovvero con potenzialità che necessariamente dipendono dall’intervento di terzi; ne sono consapevole.

Ma quando l’AdS è un professionista ed il suo impegno deve conciliarsi anche con una vita personale e privata oltrechè con un lavoro, ritengo giusto e rispettoso che tale disponibilità venga riconosciuta e che non si traduca in un indiscusso vantaggio per il beneficiario.

Soprattutto quando l’avvocato AdS risolve questioni giuridiche a costo zero.

Ma anche se l’AdS è un familiare (magari l’unico che si è fatto carico dell’impegno) o un volontario ritengo equo poter riconoscere, ovviamente sempre se richiesto, un indennizzo per il supporto che egli garantisce alla persona in difficoltà.

Per evitare che l’AdS subisca un pregiudizio economico alcune realtà territoriali hanno previsto l’istituzione di un Fondo dedicato al rimborso delle spese degli AdS (es. copie conformi) regolamentandone il relativo accesso.

Certo l’argomento non si esaurisce con queste mie riflessioni e meriterebbe un’analisi più approfondita.

Sulla difesa tecnica, altro aspetto molto discusso e contrastato, molto ha detto la Cassazione ancorché senza posizione univoca e/o dirimente.

Affrontare l’argomento imporrebbe una riflessione sul soggetto concretamente bisognoso di assistenza tecnica e ritengo che, proprio come nel processo minorile, se di necessità di assistenza si debba discutere, questa non potrà che essere a favore del soggetto nei cui confronti si chiede la misura protettiva.

La prassi rivela quale strumentalizzazione vi sia dell’iniziativa, talvolta diretta a tutelare tutti fuorché la persona che si trova nelle condizioni previste dall’art. 404 c.c. (penso a quei familiari interessati più ad impedire al congiunto la modifica del testamento che alla salute del beneficiario…).

Sotto il profilo dei costi legali e processuali e le difficoltà a sostenerne il peso, come dicevo prima laddove il soggetto che assuma l’iniziativa non possa avvalersi del gratuito patrocinio (pensiamo al familiare ricorrente) potrà chiedere al GT di valutare il rimborso ponendolo a carico del beneficiario.

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L’amministrazione di sostegno presso il Tribunale di Padova.

Alcuni spunti di riflessione

di Francesco Spaccasassi

È un dato di comune esperienza per quanti operano nel settore che la misura dell’amministrazione di sostegno ha avuto nel corso del tempo un notevole incremento relegando le interdizioni a pochi e marginali casi.

Presso il Tribunale di Padova il numero dei procedimenti iscritti relativi all’Amministrazione di sostegno nei vari anni è stato il seguente:

2004 > 18 procedimenti

2005 > 36 procedimenti

2006 > 76 procedimenti

2007 > 164 procedimenti

2008 > 215 procedimenti

2009 > 241 procedimenti

2010 > 286 procedimenti

2011 > 351 procedimenti

2012 > 425 procedimenti

2013 > 488 procedimenti

2014 > 563 procedimenti

2015 > 684 procedimenti

I procedimenti sono quindi quadruplicati dal 2007 al 2015 e l’incremento è stato sempre più accentuato negli ultimi tre anni.

Nonostante la misura di protezione dell’Amministrazione di sostegno sia stata normativamente prevista dal 2004 e si tratti quindi di misura ampiamente

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applicata e rodaggiata, permangono tuttavia alcune criticità interpretative e variegate prassi applicative.

Una prima questione attiene alla difesa tecnica. Va rilevato che il procedimento è di volontaria giurisdizione ed ha natura contenziosa per cui ritenere, come da più parti è stato sostenuto, che occorre la difesa tecnica significa che il ricorso deve essere proposto con l’assistenza di un difensore e che chiunque (lo stesso beneficiando; un familiare) voglia formalmente “costituirsi” deve conferire apposito mandato ad un avvocato. Ovviamente tale impostazione presta il fianco a chi rileva che la misura dell’amministrazione di sostegno è in favore del beneficiando per cui al più è questi che dovrebbe sempre essere munito di un difensore che lo assista. Tale questione la si dirime con un sì o con un no. La Corte Costituzionale prima e la Corte di Cassazione poi hanno invece ritenuto che non possa esserci una regola valida sempre e comunque, ma che la difesa tecnica è necessaria solo se si discute di limiti e decadenze che incidono sui diritti fondamentali della persona (tra altre Cass. 6961 del 2013 “Il procedimento per la nomina dell’amministratore di sostegno, il quale si distingue, per natura, struttura e funzione, dalle procedure di interdizione e di inabilitazione, non richiede il ministero del difensore nelle ipotesi, da ritenere corrispondenti al modello legale tipico, in cui l’emanando provvedimento debba limitarsi ad individuare specificamente i singoli atti, o categorie di atti, in relazione ai quali si richiede l’intervento dell’amministratore; necessita, per contro, detta difesa tecnica ogni qualvolta il decreto che il giudice ritenga di emettere, sia o non corrispondente alla richiesta dell’interessato, incida sui diritti fondamentali della persona, attraverso la previsione di effetti, limitazioni o decadenze analoghi a quelli previsti da disposizioni di legge per l’interdetto o l’inabilitato, per ciò stesso incontrando il limite del rispetto dei principi costituzionali in materia di diritto di difesa e del contraddittorio”).

Altra questione aperta è quella relativa alla necessità o meno dell’attualità delle condizioni di inadeguatezza, attualità che viene desunta dal testo dell’art. 404 c.c. (“ … che si trova nella impossibilità di provvedere ai propri interessi”) e dal fatto che il giudice tutelare deve sentire l’interessato e tenere

“conto dei bisogni e delle richieste” del beneficiando. Sul punto vi è una pronuncia della Cassazione (23707 del 2012) secondo cui l ‘art. 408 cod. civ., il quale ammette la designazione preventiva dell’amministratore di sostegno da parte dello stesso interessato, in previsione della propria eventuale futura incapacità, mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata, è espressione del principio di autodeterminazione della persona, in cui si realizza il valore fondamentale della dignità umana, ed attribuisce quindi rilievo al rapporto di fiducia interno fra il designante e la persona prescelta, che sarà chiamata ad esprimerne le intenzioni in modo vincolato. Evidenzia la citata cassazione che “non è legittimata a proporre il ricorso per la nomina dell’amministratore di sostegno in proprio favore la persona che si trovi nella piena capacità psico-fisica, presupponendo l’attivazione della procedura la sussistenza della condizione attuale d’incapacità, in quanto l’intervento giudiziario non può essere che contestuale al manifestarsi dell’esigenza di protezione del soggetto”.

In previsione del presente Seminario ho esaminato gli ultimi 60 ricorsi depositati presso il Tribunale di Padova annotando l’età del beneficiando. Ovviamente il numero dei procedimenti è esiguo per cui i dati rilevati non possono avere alcuna scientificità sebbene in base alla mia esperienza mi paiono significativi:

Età Numero dei ricorsi %

fino a 25 anni 7 11,5

Da 26 a 64 anni 7 11,5

Da 65 a 75 anni 4 6.6

Da 76 a 85 anni 18 30

Da 86 a 90 anni 14 23.3

Oltre 90 10 16.6

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Oltre il 75% dei ricorsi riguarda beneficiandi ultrasessantacinquenni e quasi il 70% ultrasettantacinquenni. Si tratta quindi di ricorsi per la nomina di un amministratore di sostegno a persone anziane e, per quanto possa valere la mia esperienza, molte già ricoverate in strutture e con deficit cognitivi variamente classificati. Aggiungo che quasi sempre vi è un contesto familiare accudente e di gran lunga inferiori sono i casi in cui manca una rete familiare o vi sono dissidi e contrasti tra i figli o, in assenza di questi, tra i nipoti. La percezione che se ne ricava è che molte procedure sono aperte non per perché il beneficando non abbia chi lo aiuti ad aver cura della propria salute o a tutelare i propri interessi ma perché occorre che l’anziano beneficiario accetti o rinunci ad una eredità, debba procedere ad una divisione, debba avere un proprio conto corrente non più cointestato con uno dei figli, debba prestare un consenso informato.

Alcune amministrazioni di sostegno sono chieste da amorevoli genitori di figli diciottenni con accentuata disabilità (autismo, oligofrenia invalidante) solo perché la pensione di inabilità e l’indennità di accompagnamento a dicembre superano 1000,00 euro e la mensilità non può essere riscossa in contanti alle Poste ma deve essere accreditata in un conto corrente.

Nell’esperienza del Tribunale di Padova il tempo per la definizione di una procedura di Amministrazione di sostegno è di circa tre mesi, a meno che non debba disporsi l’audizione presso il domicilio o la casa di riposo del beneficiando non trasportabile. In questi casi i tempi si allungano, ma dinanzi ad situazione di urgenza o di particolare criticità viene nominato, se richiesto, un amministratore provvisorio purché il contesto familiare sia pacifico e non conflittuale.

In assenza di una rete familiare o in contesti familiari conflittuali si tende a nominare un amministratore esterno al nucleo familiare, di regola un avvocato. Si avverte la necessità sia di ampliare la platea di tali professionisti sia, data la peculiarità dell’incarico, di provvedere ad una adeguata formazione

e sensibilizzazione.

L’equa indennità, se richiesta, va parametrata all’entità del patrimonio e alle difficoltà della amministrazione. Quando il solo reddito del beneficiando è la pensione di invalidità (meno di 300,00 euro al mese) i margini per l’equa indennità sono di fatto inesistenti.

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Appunti al termine del convegno

di Paolo Benciolini

Il programma affidava a me il compito di formulare delle “conclusioni”. Preferisco dare a questo breve intervento un diverso, più corretto, significato: quello di proporre alcune “parole (o espressioni) chiave” che, a mo’ di “appunti“, vorrebbero richiamare i passaggi a mio avviso più significativi del convegno che abbiamo condiviso. In effetti, sarebbe improprio ritenere che il nostro lavoro possa ritenersi concluso. Suggeriscono questa scelta almeno due motivi: da un lato, la ricchezza degli interventi che non si prestano ad essere “sacrificati” negli ultimi minuti di una giornata così intensa, dall’altro, il tema stesso che ci ha fatto incontrare.

La prima parola chiave, allora, è appunto riferita proprio alla natura del tema: un “tema aperto”, in continuo divenire, che non può essere costretto entro statiche definizioni di carattere giuridico, né circoscritto ad alcune ipotesi teoriche, per lo più estranee alle concrete situazioni che la vita presenta. Nonostante gli anni trascorsi dal 2004, abbiamo toccato con mano quanti siano ancora (e per fortuna!) gli aspetti da approfondire, rivedendo anche idee e interpretazioni dei primi tempi di applicazione. Un tema che richiede tempo, per le esperienze sul campo oltre che per le necessarie deduzioni dottrinali.

Detto questo, è evidente che l’espressione chiave ricavabile dal convegno è la tutela della dignità della persona, obiettivo dei provvedimenti indicati dalla legge n. 6/2004. Essa riconduce ai principi costituzionali fondamentali, che comprendono pure quell’ampio concetto di salute che include la dimensione relazionale, e quindi estesa alle competenze e alle responsabilità non solo strettamente sanitarie.

Si è giustamente parlato di demedicalizzazione progressiva dell’ottica che deve presiedere all’attenzione e agli interventi verso persone in condizioni di ridotta capacità e già la valorizzazione del ruolo degli operatori sociali e le loro integrazione con quelli sanitari trova nelle indicazioni della norma

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un forte richiamo (compresa la necessità di reciproca consultazione nelle situazioni aperte all’alternativa tra il dovere di segnalazione all’autorità giudiziaria e una soluzione di carattere amministrativo-sociale). Ma un’altra parola chiave è multidisciplinarietà, comprendente anche competenze di carattere giuridico e amministrativo. Tuttavia, le riflessioni sulla legge 6/2004 non possono nemmeno essere ritenute materia esclusiva dei giuristi, perché troppo intimamente hanno a che fare con le espressioni della salute e della vita stessa delle persone che la norma si propone di tutelare. Abbiamo visto alternarsi nel dibattito medici, psicologi, assistenti sociali che hanno affiancato e integrato i contributi dei giuristi, a loro volta differenziati secondo la diversa visuale (ed esperienza) del ruolo loro proprio. Questo dialogo a più voci propone una ulteriore riflessione: come ogni lavoro che si avvalga correttamente di competenze diverse, anche il convegno di questa giornata non ha visto prevalere figure “dominanti” o emergere ruoli gerarchicamente superiori. Multidisciplinarietà significa concorso e integrazione (paritaria) di tutti gli operatori, ciascuno con la propria competenza (e la propria autonomia professionale), ma anche in grado di condividere l’obiettivo (“decidi sempre quello che è meglio per la persona”) perseguito dalla legge, senza pretese di rivalità.

Si pone, a questo punto, l’esigenza di una adeguata formazione che va peraltro intesa in diverse direzioni: certamente nei confronti di chi sta per assumere, per una scelta propria, la veste di amministratore di sostegno, ma anche di coloro che già l’hanno assunta. In questa direzione sembra particolarmente importante il contatto con un giurista esperto in materia per conoscere le finalità della norma e il rapporto tra il proprio ruolo, l’ascolto della persona da “sostenere” e il giudice tutelare. Interventi di formazione vanno tuttavia pensati anche per coloro (familiari, amici) ai quali viene chiesto di svolgere tale funzione nei confronti di una persona a loro vicina: ritengo che sarebbe particolarmente prezioso accompagnarli in un cammino per essi sconosciuto e del quale potrebbero altrimenti percepire, “subendole”, le implicanze (e le responsabilità) giuridiche. Infine, la formazione non può non riguardare gli operatori che, a vario titolo e secondo le rispettive competenze, sono coinvolti nella faticosa ma indispensabile attuazione di questa innovativa

(rivoluzionaria, ci è stato da tutti sottolineato) normativa. Iniziative in tal senso avrebbero la possibilità di avviare, sia sotto il profilo dell’analisi teorica come per l’apporto di esperienze concrete, quel rapporto di relazione multidisciplinare al quale si è fatto cenno e che, a sua volta, trova oggi, nelle indicazioni scaturite dal convegno, un felice “modello” esportabile per molte altre (forse tutte?) modalità di intervento in ambito socio-sanitario e, più in generale, di tutela della salute.

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Un “progetto di sostegno” per la realizzazione del beneficiario

Presentazione

Il documento che segue è stato predisposto da Mariassunta Piccinni nel marzo del 2016 con l’obiettivo di avviare un dialogo che preparasse il terreno per il Seminario di cui sono qui raccolti gli Atti.

L’idea era di arrivare ad un “documento condiviso” che potesse aiutare a sintonizzare i vari punti di vista rispetto ai problemi posti dalle misure di protezione della persona non autonoma, laddove applicate per rispondere alle effettive “esigenze di cura” del beneficiario.

Fin da subito il documento è stato pensato per risultare accessibile ai diversi soggetti coinvolti nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno: non solo gli studiosi e gli “operatori giuridici” (giudici ed avvocati, in particolare), ma anche gli studiosi e gli “operatori dei servizi sanitari e sociali” impegnati nella cura e assistenza della persona.

Il documento ha poi continuato a circolare, anche dopo il Seminario, tra gli esperti che hanno voluto portare il proprio contributo alla discussione. Cristina Pardini e Mariassunta Piccinni si sono occupate di raccogliere i vari interventi e di armonizzarli nel testo.

Il testo base è stato costruito attorno a tre momenti tecnico-giuridici imprescindibili: quello dei “presupposti applicativi” (quando la misura può/deve essere attivata); quello degli “effetti” (quali sono i possibili contenuti del provvedimento di amministrazione di sostegno); quello delle “procedure” (quali sono le norme procedurali che regolano l’attivazione e poi il monitoraggio dell’istituto).

Attorno ai tre nuclei tecnico-giuridici sono raccolti i dubbi e le preoccupazioni, le esperienze, le aspettative dei diversi soggetti coinvolti nell’applicazione della misura, con una particolare attenzione al contesto sociale, assistenziale e sanitario in cui la persona non autonoma o con ridotta autonomia è inserita.

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Si è scelto di conservare l’attribuzione dei pensieri via via raccolti ai loro autori, perché ci sembra utile che il lettore sappia da che competenza/esperienza nasce la riflessione apportata.

Abbiamo chiesto a chi è intervenuto di contribuire anche fornendo, ove possibile, degli esempi che aiutassero a contestualizzare le affermazioni contenute nel testo base. Il lavoro di condivisione ha aiutato, inoltre, a chiarire i termini della discussione in un dialogo non sempre facile tra saperi, approcci e culture a volte distanti. I punti di vista non sempre coincidono, ma pensiamo che proprio le divergenze di pensiero siano una preziosa occasione per sottolineare le numerose criticità ed invitare tutti (studiosi e pratici) a vigilare per evitare che l’amministrazione di sostegno, pensata come prezioso strumento di valorizzazione delle risorse e capacità del “bene-ficiario”, si trasformi in una pericolosa gabbia per chi finisce per esservi, ancora una volta, “soggetto”.

Gli autori

Luca Cecchini, Medico, Membro della Commissione di Bioetica dell’Ordine dei Medici di RomaPaolo Cendon, Professore di Diritto privato, Università di TriesteAlberto Cester, Direttore del Dipartimento medico, Direttore U.O.A. di Geriatria, Sede ospedaliera di Dolo (VE), Azienda U.L.S.S. 3 SerenissimaGiorgia Ducolin, Specialista in Medicina Legale U.L.S.S. 6 EuganeaAlberto Manzoni, Azienda U.L.S.S. 3 Serenissima – Servizio per le Dipendenze e AlcologiaMarta Massaro, Avvocato e G.O.T. presso il Tribunale di BellunoCristina Pardini, Assegnista di ricerca in Diritto privato, Università degli studi di Padova Mariassunta Piccinni, Ricercatore di Diritto privato, Università degli studi di PadovaBarbara Schiavon, Avvocato ed amministratore di sostegno in Treviso, già G.O.T. presso il Tribunale di VeneziaFrancesca Succu, Presidente dell’Associazione Amministrazione di sostegno Onlus, Regione Veneto

Mauro Tescaro, Ricercatore di Diritto privato, Università degli studi di VeronaSergio Trentanovi, già Giudice tutelare presso i Tribunali di Venezia e BellunoPaolo Zatti, Professore Emerito di Diritto privato, Università di Padova

Documento di lavoro condiviso

La domanda-guida del presente documento può essere così sintetizzata: come facilitare un «progetto di sostegno» della persona che risponda alle sue effettive «esigenze di cura»?

L’obiettivo che ci si prefigge è di contribuire a configurare l’istituito giuridico dell’amministrazione di sostegno come uno strumento operativo che permetta di valorizzare il più possibile le potenzialità della persona e le risorse di contesto.

Rispetto alla opportunità di attivare e/o proseguire la misura dell’amministra-zione di sostegno e al come congegnarla, si pongono i seguenti problemi:

1) PresuPPosti aPPlicativi1 =>

1.1- Problema della “mancanza di autonomia”, data dalla coesistenza di un impedimento fisico o psichico e di una contestuale impossibilità (parziale, totale, temporanea, permanente) di provvedere ai propri interessi – inclusivi dei propri bisogni (art. 404 c.c.)2.

1 Quando si può/si deve applicare l’amministrazione di sostegno.2 Paolo Cendon (P.C.): Il problema deve essere risolto dal basso, in concreto. Dovrà individuarsi un certo bisogno che non può, di fatto, essere adeguatamente soddisfatto dalla persona.

Barbara Schiavon (B.S.): Non è scontata la definizione ed individuazione dei bisogni e degli interessi meritevoli di protezione secondo il 404. Può una fragilità e/o insicurezza e/o sfiducia nelle proprie capacità (tale da impedire o condizionare decisioni o scelte) essere il requisito dell’infermità o menomazione del 404, benché non certificata?

Alberto Manzoni (A.M.): La mancanza di autonomia può derivare anche da problemi di “performance” o di rete della persona. Per questo motivo, nelle certificazioni di

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Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

1.1.1- Come i professionisti “direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona” possono contribuire ad accertarne la “mancanza di autonomia” [quali sono le professionalità che possono/devono essere coinvolte? Quali le eventuali specifiche competenze richieste al professionista? Come i professionisti possono interagire proficuamente con il giudice (artt. 406, comma 3°; 410, comma 2° e 413; ma anche 407, comma 3° e 405, comma 4°)]? Quali informazioni possono essere utili al giudice per verificare in quali ambiti e se la persona non è sufficientemente autonoma?3

disabilità (ex l. n. 68/99) od invalidità (ex l. n. 104/92) rilasciate dall’INPS si associa, ad una valutazione nosografica “classica”, la valutazione funzionale secondo i parametri ICF (International Classification of Functions) dell’OMS: in questo modo viene valorizzata anche la capacità della persona di relazionarsi ed esplicare la propria personalità pur in presenza di impedimenti nosograficamente classificati.

Mauro Tescaro (M.T.): Dal punto di vista lato sensu politico, mi pare che l’ispirazione più profonda della prospettiva che caldeggia interpretazioni il più possibile estensive dell’ambito di applicazione dell’amministrazione di sostegno nasca dal valore della solidarietà, innegabilmente fondamentale per il nostro ordinamento giuridico. Ma altrettanto fondamentale per il nostro ordinamento giuridico è il valore della libertà, che significa anche libertà di sbagliare, gestendo i propri interessi come si preferisce, sia pure in modo malaccorto, e sia pure in presenza di talune deficienze fisiche o psichiche, senza doversi o potersi trovare sottoposti a una procedura che, nonostante i suoi notevoli pregi (soprattutto rispetto alle procedure tradizionali), è comunque istituzionalizzata, e incentrata sull’intervento di un giudice. Sono giunti alla mia conoscenza casi concreti in cui soggetti che pure avevano convintamente richiesto l’attivazione dell’amministrazione di sostegno si sono poi amaramente pentiti (anche ma non solo in considerazione della difficoltà di ottenere la revoca della misura in assenza di un mutamento dei presupposti che avevano portato alla sua attivazione). Mi è ben chiaro che, secondo l’orientamento assolutamente dominante, l’amministrazione di sostegno potrebbe anche essere persino per nulla incapacitante per il beneficiario. Penso però che il legislatore avrebbe dovuto o almeno potuto contemplare una simile eventualità assai più chiaramente, e che detta eventualità comunque contrasti con le forme di pubblicità previste in termini generali per la misura.

Esempi: B.S.: Una signora sola, rapporti famigliari con l’unica sorella e nipote interrotti, con un’esperienza oncologica ed una depressione alle spalle (dunque non attualità dei presupposti), ma con un presente caratterizzato da paure ed incertezze che la portano a promuovere ricorso per se stessa chiedendo, tra le varie funzioni da affidare all’A.d.S., il compito di aiutarla a decidere se aderire (o meno) al progetto di inserimento in appartamento protetto in fase di costruzione. Il giudice tutelare (G.T.) (al quale è stata prodotta la relazione dell’A.d.S. e della psicologa) ha avanzato dubbi sia sull’attualità che sull’infermità/menomazione.3 B.S.: Ruolo fondamentale dei medici di medicina generale, degli assistenti sociali,

1.1.2- Come coniugare le esigenze tecniche proprie dei diversi linguaggi specialistici - in particolare, le categorie giuridiche (es.: interdetto, incapace, ecc.) e le categorie “nosologiche” (es.: persona affetta da demenza, ecc.) – che incasellano in termini riduzionistici la persona con la complessità e l’unicità dell’individuo (inclusa la necessità di tenere conto della percezione e sensibilità dei soggetti che verranno a contatto con il provvedimento: in primis, il beneficiario e l’a.d.s., ma anche i familiari ed i terzi)4?

degli specialisti; relazioni scritte allegate al ricorso, relazioni su istanza della parte o del G.T.; presenza in udienza; valutazione medico legale; il G.T. può chiedere aggiornamenti ovvero che le relazioni periodiche vengano condivise con il servizio o con i medici che hanno in cura la persona.

Esempi: B.S.: Un utente SERT con diagnosi di ludopatia che ha raggiunto consapevolezza della patologia, ha seguito il progetto di sostegno ed è stato in grado di contenere ed infine eliminare l’impulso compulsivo. In una vicenda del genere le considerazioni del servizio possono essere determinanti per la revoca della misura ovvero per il suo passaggio a misura a tempo determinato e contestuale rimodulazione del decreto per una minor incidenza sulla capacità di agire4 Mariassunta Piccinni (M.P.): Sono emerse nel gruppo di lavoro padovano alcune difficoltà nel dialogo e nel confronto tra diverse culture e approcci. Queste sono forse “fisiologiche” in un momento di passaggio da un modello più “medicale” ad un modello più “sociale” di protezione della persona con fragilità. I parametri medico-psichiatrici devono, infatti, inserirsi in modo armonico in un più ampio quadro che dia spazio alla “soggettività possibile” della persona non autonoma. Ciò richiede lo sviluppo di nuove professionalità e forse anche nuovi linguaggi. Per limitare le incomprensioni mi pare utile distinguere l’operazione logica di analisi del bisogno da quella, conseguente, di costruzione del progetto di sostegno e dunque dalla risposta fornita attraverso il provvedimento giudiziale. L’analisi del bisogno deve essere analitica e specifica: l’approccio del “caso per caso” richiede di partire, anche, da diagnosi e prognosi accurate, che devono essere multidimensionali e specifiche; la risposta deve, invece, essere centrata sulla persona nella sua globalità, ed utilizzare in modo flessibile strumenti più generali che valorizzino le potenzialità relazionali e le risorse di contesto senza incasellare/“stigmatizzare” la persona in categorie precostituite.

P.C.: Bisogna parlare in «sostegnese».

A.C.: È indispensabile mantenere l’unicità della persona al di fuori delle etichette… Ad esempio, per molto tempo il soggetto affetto da demenza mantiene integre alcune funzioni e quindi andranno “personalizzati” ogni trattamento e ogni singola decisione di tutela (il rischio del riduzionismo e delle etichette va quindi ben stigmatizzato …).

B.S.: Per costruire un linguaggio comune (il “sostegnese”) possono essere utili protocolli di intesa; linee guida; corsi di formazione multidisciplinari per sensibilizzare le diverse realtà interessate ed impegnate nel prendersi cura delle persone.

Giorgia Ducolin (G.D.): Sul punto dovrebbe esistere a monte un dialogo tra Giudice e professionisti sanitari per concordare gli ambiti entro i quali entrambi ritengono doverosa l’attivazione della procedura e i contenuti della richiesta. Vedi però i

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1.2- Problema dell’“attualità” del bisogno di protezione5.

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

1.2.1- Come deve essere interpretato il requisito dell’“attualità” rispetto alla nomina dell’amministratore di sostegno (A.d.S.) per rispondere ai bisogni di cura della persona6? Quando è opportuno provvedere alla designazione preventiva, ex art. 408 c.c.7, e quando è possibile/preferibile richiedere

problemi riportati oltre sub 1.3.2.

A.M.: Anche la valutazione di questa rete rileva ai fini ICF-OMS. Questa scala di valutazione potrebbe essere presa in considerazione in associazione alla “classica” Scheda per la Valutazione Multidimensionale dell’Anziano-SVAMA (richiesta ad esempio dal G.T. di Venezia anche per persone non anziane né con diagnosi di disabilità). 5 La giurisprudenza e la dottrina maggioritarie ritengono che, per l’attivazione dell’amministrazione di sostegno, il bisogno di protezione debba essere contestuale al provvedimento e non eventuale o differito nel tempo (v. art. 404 c.c. e Cass. n. 23707/2012). Questa interpretazione convince se intesa non in senso formalistico, ma come necessità di una “ragionevole contestualità dell’insorgenza” delle condizioni che richiedano l’apertura dell’amministrazione di sostegno. Per rispondere ai bisogni di chi voglia premunirsi per il caso in cui si dovesse trovare solo eventualmente e casualmente in stato di incapacità, gli strumenti appropriati sono, invece, la designazione preventiva con eventuali contestuali direttive impartite alla persona designata ex art. 408 c.c. o il conferimento di una procura ai sensi dell’art. 1, commi 40° e 41°, l. n. 76/2016 (v. anche oltre sub 3.8 e 2.2.2.).6 P. C.: L’attualità c’è anche nei casi in cui la persona è magari lucida e autonoma oggi e però 1) è già chiaro che è vicino il momento in cui non lo sarà più e 2) è già alto il pericolo che ciò avvenga all’improvviso.

B.S.: è preferibile richiedere la nomina quando l’interessato, benché mantenga al momento buona autonomia, si trova in una condizione di malattia certamente degenerativa ovvero limitante alcuni aspetti della vita quotidiana (es. decadimento cognitivo lieve, sospetta demenza oppure una condizione di ritardo mentale, con rischio di raggiri o scelte non adeguate). 7 Per designazione preventiva si intende l’atto unilaterale che deve essere espresso nella forma dell’atto pubblico o della scrittura privata autenticata, con cui la persona indica chi vuole sia nominato amministratore di sostegno (A.d.S.) per il caso di sua futura incapacità. In questa ipotesi, non vi è alcun provvedimento giudiziale di amministrazione di sostegno, ma, ove ne ricorrano gli estremi, il giudice provvederà all’attivazione della misura, potendosi discostare dalla volontà del designante solo nel caso di gravi motivi e con provvedimento motivato.

B.S.: Si tratta di un’opportunità poco nota e poco sfruttata.

G.D.: Potrebbe essere opportuno ricorrere alla designazione preventiva nelle prime fasi di patologie degenerative ad evoluzione nota in cui è evidente che si realizzerà

direttamente la nomina, ex art. 404 c.c., dell’A.d.S.8? [v. anche sub 3.8. per il problema della designazione preventiva e sub 2.2.2 sull’efficacia delle disposizioni anticipate di trattamento e della procura/mandati in previsione della propria incapacità per le decisioni in materia di salute]9.

***

1.3. Problema della “necessità” dell’amministrazione di sostegno, come espressione del principio di sussidiarietà delle misure di protezione preventiva di cui agli artt. 404 ss. del codice civile rispetto ad altri strumenti, privatistici o pubblicisti, di presa in carico della persona10.

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura11:

1.3.1- Quando i “responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente

nel tempo la necessità di una nomina di A.d.S.8 In questo caso vi sarà un provvedimento giudiziario che attiva la misura dell’amministrazione di sostegno.9 Esempi: M.P.: Esclusione della nomina per eventuali ed incerte condizioni future (es. eventuale ed imprevedibile SVP, su cui v. Cass. n. 23707/2012); ammissibilità della nomina per il caso in cui l’attuale esistenza di una infermità o un programmato intervento chirurgico facciano prevedere come altamente probabile ed imminente il verificarsi di uno stato di impossibilità a provvedere ai propri interessi (es.: Trib. di Parma, decr. del 2.4.2004).10 P.C.: La chiave sta in chi decide quando l’amministrazione di sostegno serve o non serve: dal mio punto di vista è il G.T. che decide se attivarla o meno, mentre i servizi (che sono obbligati), se non ricorrono sono responsabili … almeno in teoria.

M.P.: A me pare che il problema pratico sia il rischio percepito dalla prassi che sempre – ed in una logica protettiva/difensiva degli operatori dei servizi e non dell’assistito – si richieda l’amministrazione di sostegno anche quando non ce ne sarebbe bisogno (v. ricovero in R.S.A.; qualsiasi intervento medico su persona anche con minime difficoltà relazionali, ecc.). L’assunzione di responsabilità dei servizi può stare anche nel non ricorrere ove non ce ne sia la necessità. V. anche il testo dell’art. 406, comma 3°, che dice che gli stessi devono attivarsi solo quando “a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l’apertura del procedimento di amministrazione di sostegno”.

B.S.: Non è necessario che i servizi si attivino se c’è una buona “rete” familiare e di assistenza, se la persona conserva autonomia ovvero non manifesta opposizione alla cura. Protocolli e linee guida possono essere di aiuto nel comprendere se e quando fare la segnalazione; vari Tribunali hanno sul sito un modello fac-simile di aiuto anche per il servizio (ad esempio: Treviso, Venezia, Pordenone).11 A.C.: Sarebbe opportuno che tutti i contesti di cura potessero essere messi in rete tra di loro e con il Tribunale. Ad esempio, nell’ambito dei soggetti con disturbi cognitivi, gli esistenti Centri per i Disturbi Cognitivi e le Demenze (CDCD) dovrebbero avere maggiori possibilità di scambio e dialogo con il G.T.

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impegnati nella cura e assistenza della persona” (art. 406, comma 3°, c.c.) devono procedere alla segnalazione? Quando NON è opportuno procedere12? Come coordinare i diversi servizi? Chi tra i diversi organi/servizi coinvolti deve assumersi la responsabilità finale della segnalazione13? Con quale modalità (segnalazione al P.M. o g. tut.) [v. anche sub 3.4, per il problema della difesa tecnica]? Da chi è opportuno sia formalmente presentato il ricorso (beneficiario, parenti e altri soggetti legittimati, servizi, ecc.)? Come deve essere fatta la segnalazione (elementi di contesto da inserire/valorizzare, modalità con cui fare emergere i bisogni dell’assistito, competenze da

12 Esempi: M.P.: Il G.T. ha respinto il ricorso avviato dal Centro mentale di una Ausl sul presupposto che, pur trattandosi di persona con diverse disabilità psichiche, non si riscontra “alcuna necessità” di misure istituzionalizzate di sostegno, essendovi già “sufficiente sostegno nella famiglia e nel doveroso esercizio, ad opera di parte ricorrente, dei compiti istituzionali che le sono proprie”. Ad avviso del giudice il ricorso “più che fondato su esigenze protettive e di sostegno della persona, appare causalmente riferito alla inaccoglibile pretesa del Centro sanitario ricorrente di essere coadiuvato e sostituito, in compiti istituzionalmente propri” (G. tut. Modena, decr. 21.4.2008; conf. G. tut. Modena, decr. 6.7.2009 di revoca del proprio provvedimento di nomina, a seguito degli elementi emersi dalla relazione affidata allo stesso professionista nominato come amministratore di sostegno).13 G.D.: Solitamente l’attivazione della procedura aziendale per la nomina di un A.d.S. emerge contestualmente all’esecuzione di una procedura che richieda un consenso da parte del paziente e che non presenti le caratteristiche di urgenza. Questi pazienti si distinguono in due categorie: quelli incapaci di provvedere ai propri interessi con adeguata rete familiare concorde nelle decisioni e quelli senza rete familiare o con accese conflittualità nelle scelte in ordine alla salute del parente. La nomina dell’A.d.S. viene quindi spesso richiesta per ottenere una legittimazione formale della procedura d’elezione proposta, senza che venga fatta alcuna analisi dei bisogni e delle aspirazioni del paziente. I tempi della nomina comportano spesso un rinvio della procedura proposta in elezione fino al momento in cui questa diviene indifferibile vanificando il percorso giudiziario nel frattempo instauratosi.

Nel caso di patologie croniche o degenerative sarebbe opportuno informare preventivamente il paziente della figura dell’A.d.S. affinché possa identificare una persona di sua fiducia in futuro davvero rappresentativa delle sue volontà.

Nelle segnalazioni che avvengono da parte del personale sanitario che assiste il paziente in occasione del ricovero spesso la breve degenza non consente di raccogliere tutte le informazioni di “contesto” necessarie alla nomina dell’A.d.S. maggiormente rispondente alle esigenze del paziente. Sarebbe necessario, quindi, che venissero sensibilizzati maggiormente i medici che conoscono da tempo il paziente e la sua rete familiare (medici di medicina generale). La maggior parte delle segnalazioni da parte del personale sanitario sono infatti finalizzate a evitare ritardi nel percorso diagnostico-terapeutico giungendo ad una rapida dimissione da strutture per acuti (evitando ricoveri inappropriati).

coinvolgere, linguaggio, ecc.)14? [v. anche sub 2.2.1 sulla necessità di una valutazione con finalità prognostica che ricadrà sugli effetti della misura, e dunque sul progetto di sostegno]

1.3.2 Come i “responsabili dei servizi sanitari e sociali direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona” possono/devono monitorare (artt. 410, comma 2°; 413; 405, comma 4°, ecc., c.c.) la persistenza o meno della necessità della misura di protezione, una volta che questa sia attivata15? [v.

14 B.S.: Sul sito dei Tribunali oramai vi sono modelli ed istruzioni (v. ad esempio TV e PN). Sarebbe importante la diffusione dello sportello del cittadino.

In chi fa il ricorso vi dovrebbe essere la consapevolezza sull’importanza delle informazioni offerte al G.T. ai fini del progetto, ma si potrebbe valorizzare un’altra possibilità che viene utilizzata a volte dai G.T.: questi può chiedere al nominato A.d.S. di accertare le condizioni di vita e le risorse del beneficiario al fine di predisporre il miglior progetto di sostegno per il medesimo.

Rispetto al ruolo dei servizi, in taluni casi si deve fare attenzione all’impatto che può comportare l’iniziativa: per l’interessato e per i rapporti tra questo, il nucleo familiare e il servizio (il Centro di salute mentale di VE mi ha ad esempio fatto notare l’importanza di salvaguardare il rapporto utente/famiglia o utente/servizio e la difficoltà di scelta nel sacrificare l’uno o l’altro). 15 Francesca Succu (F.S.): È da segnalare l’assenza/carenza di servizi pubblici preposti a garantire ai cittadini adeguata informazione, consulenza e accompagnamento nelle procedure per la nomina ad A.d.S. e accompagnamento a seguito dei provvedimenti di nomina. Questo è quanto risulta anche a seguito di un’indagine promossa dalla Regione Veneto presso le 21 Aulss e i cui risultati sono stati presentati in un Convegno organizzato dall’Associazione Amministrazione di Sostegno a Maggio 2015.

G.D.: Questo è certamente un aspetto molto critico soprattutto in ambito ospedaliero in cui la breve degenza del paziente non consente di rilevare eventuali criticità. Una eventuale inadeguatezza dell’A.d.S. nominato potrebbe quindi essere più facilmente rilevata nei pazienti in cui è stata attivata una assistenza domiciliare integrata (ADI) o una assistenza domiciliare integrata medica (ADIMED) che consente una presa in carico più idonea ad evidenziare situazioni che meritino la segnalazione al G.T.

A.M.: In ambito ospedaliero, specie in caso di dimissioni “protette” o rientro al domicilio, potrebbe essere importante prevedere un maggior interessamento/coinvolgimento degli SCOT (Servizi Continuità Cure Ospedale Territorio).

P. C.: Problema importante: tutto si risolverebbe puntando sul grande ufficio-sportello cittadino.

B.S.: L’ufficio-sportello cittadino è sicuramente un primo grande passo.

Sarebbe importante, in ogni caso, monitorare la necessità sulla persistenza della misura: se i servizi sono promotori del ricorso, chiamati in udienza e valutato caso per caso, possono partecipare alla valutazione del progetto, inviare relazioni periodiche,

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anche sub 3.4. quanto ai problemi della difesa tecnica e sub 3.6.2 quanto alla procedura di urgenza]

1.3.3 Come coordinare il progetto di sostegno con gli strumenti pubblicistici, ed in particolare con la l. n. 328/2000: a) compatibilità del “progetto di sostegno” con il “progetto individuale” di cui all’art. 14 della l. n. 328/2000; b) rapporto tra giudice tutelare (G.T.) e servizi socio-sanitari pubblici e privati (artt. 406, comma 3°; 410, comma 2° e 413; 407, comma 3°; 405, comma 4°; art. 344, comma 2° e art. 2, comma 3°, l. n. 328/2000); ecc.16.

***

1.4 Il problema dei confini tra amministrazione di sostegno ed interdizione/inabilitazione.

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

Quali sono le procedure attualmente invalse per il passaggio da interdizione–inabilitazione ad amministrazione di sostegno17? È possibile valorizzare il ruolo dei servizi sanitari e sociali?

Ci sono ancora dei casi in cui si ritiene opportuno attivare l’interdizione o l’inabilitazione per rispondere alle esigenze di cura della persona? Ci sono contesti clinici in cui i giudici e/o i responsabili dei servizi socio-sanitari ritengono necessaria l’interdizione (es. SVP; gravi deficit cognitivi, da soli o combinati ad una particolare complessità di gestione della persona e/o del patrimonio ecc.) o l’inabilitazione?

chiedere sin dall’inizio una nomina a tempo determinato (o suggerirla), segnalare al G.T. eventuali criticità ovvero chiedere la loro convocazione per essere sentiti. Ma spesso un buon rapporto ed il dialogo con l’A.d.S. non rende necessarie tali iniziative.16 B.S.: Anche in questo caso lo sportello sarebbe importante.17 B.S.: Nel caso dell’inabilitazione, il passaggio all’amministrazione di sostegno ad esempio si attiva nel momento in cui sopraggiungono esigenze di cura della persona.

2. effetti18 =>

2.1- Problemi legati alle diverse tipologie di sostegno nell’attività giuridica, ed in particolare rispetto a) alla possibilità che il provvedimento contenga poteri sostitutivi19 dell’A.d.S. e/o poteri di assistenza20 e b) alle conseguenze della presunzione di capacità del beneficiario rispetto a tutti gli atti per i quali non sia diversamente previsto nel provvedimento del giudice (v. spec. art. 405 e 409 c.c.).

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

2.1.1- È possibile conferire all’A.d.S. poteri che attengano alla cura della persona? È possibile coinvolgere in una decisione, legata alla cura della persona, un A.d.S. cui siano stati conferiti solo poteri (generici o specifici) di cura del patrimonio? Sono conferibili poteri sostitutivi per il caso di consenso/dissenso a cure mediche21? Ciò vale anche nel caso si tratti di cure

18 Quali sono i possibili contenuti del provvedimento che prevede l’amministrazione di sostegno.19 I poteri sostitutivi sono i veri e propri poteri di rappresentanza. Ciò significa che l’ordinamento giuridico conferisce ad un soggetto diverso dal titolare di un diritto (nel nostro caso all’amministratore di sostegno) il potere e la conseguente legittimazione ad agire nell’attività giuridica in nome e per conto del soggetto rappresentato (nel nostro caso il beneficiario). L’A.d.S. ha il potere/dovere di sostituirsi al beneficiario. Ciò implica che l’atto giuridico posto in essere dall’A.d.S. produce effetti direttamente nella sfera giuridica del soggetto rappresentato. 20 Quando si parla di “poteri di assistenza”, il termine “assistenza” è utilizzato, in senso stretto, per riferirsi a quegli atti giuridici per la cui validità è necessaria, oltre al consenso della persona interessata (nel nostro caso il beneficiario), anche l’autorizzazione dell’assistente (nel nostro caso l’A.d.S.). Il legislatore utilizza il termine “assistenza” anche in un senso più ampio e meno tecnico (v. art. 404 c.c.) per riferirsi in generale ai poteri di “sostegno” affidati all’A.d.S.21 B.S.: La criticità sta in questo caso nel trovare il modo di conciliare, nell’applicazione pratica, un adeguato coinvolgimento del beneficiario nelle scelte che lo riguardano con eventuali contrastanti esigenze di protezione dei suoi interessi.

Esempi: Cristina Pardini: caso di soggetto non più in grado di determinarsi in modo attuale, a causa di una grave compromissione delle funzioni neurologiche: il G.T. conferisce all’amministratore di sostegno il potere di rifiutare interventi invasivi e di consentire alle sole terapie palliative in nome e per conto del beneficiario, attraverso, però, la previa ricostruzione della presumibile volontà e degli intendimenti dell’interessato, da realizzarsi con testimonianze – raccolte a partire dalla rete di persone vicine al malato – sulle sue preferenze, sul suo stile di vita, sui valori morali e religiosi. Come il tutore nel caso Englaro, l’amministratore non ha qui poteri sostitutivi, bensì decide “con” il beneficiario – pur non coinvolgendolo direttamente – con il medio della “volontà presunta” (v. ad es. G.Tut. Reggio Emilia, 24/7/2012).

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salvavita? Sono conferibili poteri sostitutivi rispetto alla collocazione abitativa del beneficiario? Ci sono dei limiti specifici ai poteri sostitutivi dell’A.d.S. quando si tratti di scelte che incidono su aspetti essenziali della sua personalità? Che succede in caso di dissenso espresso e più o meno consapevole del beneficiario22? Come valutare la sua “capacità” di esprimere i propri bisogni e preferenze? Sono conferibili poteri di mera assistenza per il caso di consenso/dissenso a cure mediche? Sono conferibili poteri di assistenza rispetto alla collocazione abitativa del beneficiario? Come scegliere tra sostituzione ed assistenza? È necessario/opportuno distinguere tra atti “ordinari” rimessi alla discrezionalità dell’A.d.S., ed eventualmente del beneficiario, ed atti “straordinari” che necessitino di una specifica autorizzazione giudiziale?23

[v. anche sub 3.5. per la opportunità di differenziare i poteri anche in base a chi sia nominato A.d.S.]

2.1.2- È ammissibile un provvedimento di sostegno “non incapacitante” in

A.M.: I casi problematici sono numerosi. Si pensi, ad esempio, al caso delle dipendenze patologiche, quando non sia in gioco la sopravvivenza fisica. Come regolarsi, ad esempio, nel caso del diniego alla cura da parte dell’interessato, pur in presenza di consenso da parte dell’A.d.S. (ad esempio, il ricovero in comunità terapeutica). Più in generale, è ricoverabile una persona contro il suo consenso, per una cura più psicosociale che strettamente sanitaria?22 Esempi: B.S.: Caso di soggetto seguito da psichiatra; il professionista non si relaziona con l’A.d.S.; l’interessato rifiuta di andarsene dalla casa degli anziani genitori oramai debilitati: che fare? oppure: anziana che, diciamo per sua fortuna, si è rotta il femore e grazie alle esigenze riabilitative dall’ospedale è stata trasferita direttamente in struttura … benché l’A.d.S. avesse ottenuto l’autorizzazione mesi prima della caduta, non era stato possibile realizzarlo prima!23 G.D.: Rispetto alla questione del consenso/dissenso alle cure, risultano problematici quei provvedimenti che circoscrivono il potere dell’A.d.S. nelle scelte di natura sanitaria a procedure non salvavita richiedendo in questi casi l’autorizzazione del G.T. Tali provvedimenti vanificano il ruolo dell’A.d.S. di farsi portavoce delle scelte del paziente proprio nei casi in cui la designazione preventiva aveva come finalità quella di operare all’occorrenza scelte in contrasto con le indicazioni dei sanitari, ma rispettose della volontà del paziente.

ambito sanitario24? Come valorizzare e quando i poteri meramente nunciativi25? Come interpretare in questi casi il requisito della necessità della misura (come, in particolare, decidere quando sia sufficiente la procura volontaria)? In che modo possono essere congegnati provvedimenti che conferiscono all’A.d.S. poteri di rappresentanza solo concorrente o di assistenza solo facoltativa per le decisioni di cura del beneficiario? Come può il professionista socio-sanitario capire chi è legittimato, ed in che termini, a decidere in questi casi?

***

2.2 Problemi legati agli specifici ambiti di rilevanza della misura rispetto all’assistenza nella cura della persona26.

24 Ci si riferisce a provvedimenti di amministrazione di sostegno che “aggiungono” protezione, senza “togliere” capacità. Il giudice, infatti, può attribuire poteri all’A.d.S. senza necessariamente limitare la capacità del beneficiario, in generale o con riferimento ad alcuni compiti dell’amministratore. Ciò si verifica quando i poteri conferiti dal G.T. sono di rappresentanza concorrente e/o di assistenza facoltativa. Il provvedimento conferisce in questo caso un potere di sostituzione o di affiancamento ad altro soggetto, ma il beneficiario può continuare a porre in essere l’atto anche da sé.

Qualcosa di analogo accade quando ci sia una procura volontaria. Questa è un atto privato con cui un soggetto conferisce un potere di rappresentanza – cioè un potere di agire in nome e per conto proprio – ad altro soggetto (artt. 1387 ss. c.c.; per la procura sanitaria, ora disciplinata dall’art. 1, comma 40° e 41°, l. n. 76/2016, v. oltre sub 2.2.2 e 3.8).

In entrambe le ipotesi (procura volontaria e decreto di nomina di un A.d.S.) ci troviamo di fronte ad un soggetto investito di un potere di rappresentanza. C’è da segnalare che solo nel caso di un provvedimento di amministrazione di sostegno è garantito il controllo giudiziale dell’operato del rappresentante.25 Si parla di potere meramente “nunciativo” quando il compito conferito all’A.d.S. è solo quello di riferire la volontà espressa dal beneficiario, senza possibilità alcuna di partecipare alla determinazione del contenuto dell’atto da porre in essere.26 Per ambiti di rilevanza si intendono quegli ambiti della vita della persona priva in tutto o in parte di autonomia che possono essere oggetto di un provvedimento di amministrazione di sostegno. In altre parole, quando è possibile intervenire con un provvedimento di amministrazione di sostegno per sostenere la persona priva in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana? Per esempio, sembra sicuro che si possa prevedere un’assistenza rispetto al consenso/dissenso alle cure mediche, anche ove si tratti di decisioni che si inseriscono nella gestione di situazione di fine vita; così, più in generale, rispetto alle decisioni – alimentari, di stile di vita, ecc. – che incidono sulla salute del beneficiario. In base alle peculiarità della situazione di fatto possono porsi problemi specifici circa la necessità ed i limiti dell’intervento dell’A.d.S. e del controllo giudiziale.

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Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

2.2.1- In che modo può il professionista socio-sanitario procedere ad una valutazione diagnostica che contribuisca in senso prognostico/prospettico rispetto al progetto di sostegno27?

[v. anche sub 1 sul ruolo del professionista socio-sanitario nell’accertamento dei presupposti (infatti, gli effetti del provvedimento varieranno in base al diverso atteggiarsi dei presupposti di attivazione in modo che la misura di protezione si adatti ai bisogni del beneficiario)]

2.2.2- Qual è l’efficacia di eventuali disposizioni anticipate di trattamento che non contengano una designazione preventiva ex art. 408 c.c.? Sono direttamente vincolanti ed in che termini nei confronti degli operatori sanitari? La designazione di un fiduciario, indipendentemente dalla nomina giudiziale, ha valore ed in che termini (v. ora l’art. 1, commi 40 e 41, l. n. 76/2016, c.d. l. Cirinnà)? Nel caso di nomina di A.d.S. le direttive sono vincolanti per il giudice e per l’A.d.S.?

[V. anche sub 2.1. e sub 3.6.1. rispetto ai diversi contesti clinici ed assistenziali in cui può funzionare l’amministrazione di sostegno]28

27 G.D.: Dipende evidentemente dal tipo di patologia di cui è affetto il paziente. In alcuni casi è possibile una definizione dell’evoluzione e della prognosi anche se non in termini precisi dal punto di vista temporale.

A.M.: Soprattutto per gli aspetti prospettico-prognostici, sarebbe fondamentale associare alla valutazione diagnostica una accurata valutazione funzionale (ICF-OMS).28 A.C.: Va sottolineato il concetto di fine cura… inteso come percorso di fine vita (end stage di malattie degenerative primitive cerebrali, quali le varie forme di demenza, il Parkinson, la SLA, la Sclerosi multipla, ecc, ma anche fasi finali dello scompenso cardiaco refrattario, insufficienza renale cronica, dializzata o meno, BPCO end stage, ma anche vari stati di coma, ecc.) in rapporto alle singole volontà ed eventualmente alle disposizioni anticipate di trattamento, possibilmente testimoniate da documenti attendibili e non solo da punti di vista di parenti o care giver del singolo caso. In questo senso vi possono essere pareri discordanti tra A.d.S. nominato dal giudice ed altre persone vicine al malato (ad esempio un avvocato e diretti familiari). La tutela nelle decisioni di fine vita è uno dei veri “diritti violati” per molte persone. Troppo spesso tali condizioni sono poco note e valutate e le figure degli A.d.S. devono essere oltre che informate, consapevoli e preparate anche ad accompagnare le decisioni di fine vita.

Luca Cecchini (L.C.): Il “progetto di sostegno” può riguardare la Pianificazione Anticipata delle Cure (che comprende ma estende le “Disposizioni anticipate di trattamento”: quindi un “Progetto di Cura”), essenziale in particolare per la vastità

3) ProceDure29 =>

3.1- Quanto ai soggetti del ricorso (art. 406 c.c.) ed ai problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

v. sub 1.3.1.

***

3.2- Quanto alla configurazione del ruolo dei “responsabili dei servizi sanitari e sociali” direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, sia nella fase prodromica che a seguito dell’apertura dell’amministrazione di sostegno, ed ai problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

v. sub 1.3.2. e 1.1.1

crescente delle persone con cronicità avanzate (insufficienze d’organo). La figura dell’A.d.S. è essenziale quale supporto e “mediatore” nella relazione medico-malato, ma sempre a garanzia della sovranità del malato nelle scelte, per le quali è essenziale l’informazione e l’empatia del medico, al quale però infine l’autonomia del malato è sovraordinata. Mi preoccupa un po’ l’insistenza da più parti sul concetto di “scelte condivise”: e se il medico alla fine non “condivide” le scelte consapevoli del malato? Non è che da qualche angolino spunta “l’obiezione di coscienza dei medici”, sulla falsariga della sciagurata situazione che si è creata per la L. 194?

M.P.: Su questo tema possono richiamarsi il complesso, lungo e a tratti convulso processo legislativo ancora incompiuto (tra gli ultimi atti: il d.d.l. S. 10, relatore Calabrò, poi unificato ad altri, con relatore Marino, della XVI legislatura ed il testo unificato p.d.l. C 1142 e aa., relatrice Lenzi della XVII legislatura, contenente “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”); il recente passo indietro del Codice di deontologia medica 2014 (art. 38), più restrittivo rispetto all’art. 9 della Conv. di Oviedo ed ai principi desumibili dall’ordinamento giuridico. Per alcune indicazioni cliniche ed etiche, si rinvia al documento promosso dalla Siaarti e condiviso da altre 8 società scientifiche: Grandi insufficienze d’organo “End stage”: cure intensive o cure palliative? “Documento condiviso” per una pianificazione delle scelte di cura, del 22.4.2013, in www.siaarti.it.29 Norme procedurali da rispettare nell’attivazione e nel dar seguito alla misura dell’amministrazione di sostegno.

Paolo Zatti: È essenziale la formazione del G.T. Si mette in campo un potere modulato con grande ampiezza e che esige decisioni sulla base di valutazioni di “adeguatezza” di misure di sostegno: con quale competenza viene esercitato? Il che rimanda a un problema più ampio, che è l’inadeguatezza del modello del magistrato che “applica la legge” in una vastissima area di questioni disparate in cui è influente l’analisi e la valutazione secondo saperi non giuridici. Lo schema del Tribunale dei minori in fondo, con molte carenze, riconosceva l’insufficienza della figura del giudice.

A.M.: Aggiungo: lo schema del collegio misto è applicato anche presso il Tribunale di Sorveglianza.

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3.3- Il problema dell’ascolto/audizione del beneficiario30.

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

3.3.1- Come il G.T. può procedere all’audizione dell’interessato quando questi sia impossibilitato a recarsi presso il Tribunale o lo spostamento della persona sia comunque inopportuno31?

3.3.2- Come il G.T. può valorizzare i bisogni e le aspirazioni del beneficiario quando questi abbia una condizione di affievolita capacità di discernimento o difficoltà comunicative32? 30 L’art. 407 dispone che il G.T. nel procedimento per l’attivazione dell’amministrazione di sostegno “deve sentire personalmente” l’interessato. Tale dovere si sostituisce al tradizionale “esame” (per il codice del 1865 “interrogatorio”) dell’interdicendo o inabilitando ex art. 419 c.c. ed è immediatamente riferito alla necessità di “tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei bisogni e delle richieste di questa” (art. 407, comma 2°). Scopo principale dell’audizione non è più quello di accertare la capacità, ma di individuare, attraverso una più complessiva valutazione, i bisogni di protezione. Nello stesso senso, la scelta dell’amministratore di sostegno deve essere dettata dall’“esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario” (art. 408). L’ascolto non si esaurisce nel pur tendenzialmente necessario momento procedurale dell’audizione, ma pare essere un più generale canone orientativo della decisione del giudice. L’adempimento procedurale di cui all’art. 407, comma 2°, è, dunque, in linea con la più generale necessità di confronto costante tra beneficiario, amministratore e giudice (v. in particolare gli artt. 408 e 410 c.c.)31 B.S.: A Venezia, Treviso e Pordenone (almeno per l’anziano in struttura) il G.T. si reca dall’interessato (in ospedale, casa di riposo, abitazione) personalmente o mediante delega al giudice onorario di Tribunale (G.O.T.).

A.M.: A Venezia le udienze del G.O.T. si svolgono anche negli ambulatori dei Distretti Socio-sanitari.32 P.C.: V. i criteri indicati dalla Cassazione nel caso Englaro: tante sono le cose che parlano – certo il grande ufficio sportello può aiutare molto qui il G.T.

B.S.: È importante ascoltare la “rete” (familiari, amicizie etc.) e chi segue l’interessato, affidando all’A.d.S. il ruolo di individuare e tradurre in concreto i reali bisogni e aspirazioni del beneficiario.

Esempi: Persona con disabilità, rimasto orfano a circa 40 anni: buona autonomia grazie agli stimoli continui della madre, molto conosciuto ed amato nel paese di residenza e qui impegnato in biblioteca con un percorso lavorativo seguito dall’ULSS, buone risorse economiche, appassionato di musica, capace di usare un cellullare, un computer, attento fruitore di programmi Sky. Ridotto a raccogliere da terra gli scontrini di caffè e brioches per dimostrare alla zia A.d.S. le voci di spesa ed essere rimborsato, da questa affidato - di fatto abbandonato - alle attenzioni di una badante polacca più interessata alla “cresta” sul borsellino settimanale che a seguire

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3.4- Il problema della difesa tecnica;

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

3.4.1- In quali casi è necessaria la difesa tecnica (es.: dissenso del beneficiario; provvedimento che incida sul consenso al trattamento medico, sulla collocazione abitativa, ecc.)? Quando deve esserci (al momento del ricorso o solo quando nel corso del procedimento emergano possibili esigenze di tutela dei diritti fondamentali dell’interessato)? E chi deve riguardare (il ricorrente e/o il beneficiario)33?

l’interessato, egli ha potuto recuperare una vita dignitosa grazie all’interessamento di due cugine ed alle modalità operative di un A.d.S. avvocato che ascoltava tutti (ma cercava riscontri) facendo visite a sorpresa in casa, accettando un invito a pranzo ed osservando la badante come aveva preparato la tavola, come era disposta a servire e non a condividere, come non si relazionava con l’interessato né provvedeva alla cura della sua persona; chiedendo informazioni ad un abitante del posto, verificando l’inadeguatezza della badante sotto il profilo linguistico rivolgendosi ad un interprete per essere certa che la badante capisse; chiedendo alla psicologa, che da sempre seguiva l’interessato, di vedere l’interessato con maggior frequenza per ottenere in minor tempo un riscontro delle paure, delle ansie e dei desideri inespressi dell’interessato. Avuto conferma che l’interessato non avrebbe patito sofferenza dalla sostituzione della badante, ha chiesto al G.T. la sostituzione della dipendente.

Più problematico il caso del soggetto che ha delle aspirazioni inconciliabili con la malattia. Qui la difficoltà è più per l’A.d.S.

A.M.: Talvolta la “rete” ha bisogno non solo di essere “ascoltata”, ma anche stimolata, se non individuata/creata. Altra questione attiene alla relazione tra Sportello del servizio informativo e Servizi che già seguono la persona (prima dell’A.d.S.). Ed infine, a proposito delle “aspirazioni inconciliabili con la malattia”: è ancora molto poco esplorato il terreno dell’applicazione dell’amministrazione di sostegno nel campo delle dipendenze patologiche (droga, alcol, gioco d’azzardo patologico, ecc).33 F.S.: Dove i Tribunali richiedono obbligatoriamente la difesa tecnica per la presentazione del ricorso alla nomina di A.d.S., i servizi sanitari, socio sanitari e sociali di cui all’art. 406, tenuti a proporre al G.T il ricorso ex art. 407 o a fornire notizia al pubblico ministero, utilizzano prevalentemente la modalità della denuncia/segnalazione al P.M. in quanto l’assistenza tecnica di un legale comporta il conferimento di un mandato ed il conseguente onere che ne deriva.

A.M.: La notizia viene fornita al P.M., dai Servizi, anche per un problema di costi: non solo della difesa tecnica, ma anche delle notifiche. Ad esempio, una ASL non ha un capitolo di bilancio che preveda questi costi per la tutela degli assistiti!

P.C.: Nelle ipotesi sopra richiamate sono in ballo diritti fondamentali, dunque la difesa tecnica dovrebbe essere sempre necessaria.

Sergio Trentanovi (S.T.) e Marta Massaro (M.M.): Non è detto che i diritti

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3.5- Il problema dei criteri per la scelta dell’amministratore di sostegno.

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

3.5.1– Sull’efficacia della designazione anticipata (art. 408) v. sub 3.8.

3.5.2– Chi è opportuno che sia nominato A.d.S. quando si tratti di bisogni di cura [potenzialità e limiti della nomina di un familiare, anche in base alle differenze di contesto (es. tipo di impedimento o di malattia, eventuali conflitti familiari, ecc.); potenzialità e limiti della nomina di professionisti]34?

3.5.3- È possibile/opportuna una nomina plurima35?

fondamentali siano meglio tutelati dalla presenza di un avvocato, anzi!

B.S.: Se parliamo di tutelare l’interessato, la difesa tecnica dovrebbe essere prevista per lui! Se posta a carico del ricorrente non necessariamente si risolve in garanzia di tutela per l’interessato (il rischio che l’istanza corrisponda all’interesse del ricorrente c’è) e qui si comprende quale carico di responsabilità abbia il G.T. nell’individuare esattamente qual è l’interesse dell’interessato e quale quello del ricorrente…curatore speciale?34 M.T.: L’amministrazione di sostegno, per come è stata disciplinata nel Codice civile, non dovrebbe poter costituire, in concreto, una via per trovare nuovi sbocchi professionali agli avvocati, poiché l’amministratore di sostegno dovrebbe essere scelto per quanto possibile tra i familiari del beneficiario, e poiché l’amministratore di sostegno non dovrebbe ricevere un compenso (né un corrispettivo altrimenti denominato, ma con sostanza di compenso). Una diversa impostazione dovrebbe comunque passare attraverso la modifica del Codice civile.

F.S.: Problema della discrezionalità dei G.T. circa la nomina di A.d.S. ex art. 408 di persone non familiari preferendo i professionisti (in particolare avvocati) a persone provenienti da esperienze di volontariato e con formazione specifica sul ruolo dell’A.d.S.

B.S.: Concordo rispetto all’esigenza di ampliare la scelta verso familiari e volontari: il legale deve essere l’ultima risorsa. Affidare la cura della persona al familiare dovrebbe essere la regola; l’A.d.S. esterno viene vissuto spesso come ingerenza se non come vera forma di violenza per l’impossibilità di prendersi cura del congiunto. Raramente come sollievo. Servono corsi di formazione, associazioni referenti del tribunale per l’“affidabilità” dei volontari, lasciando ai legali solo le situazioni più critiche o al più ricorrendo a loro come “ponte” per dirimere una conflittualità.35 A.C.: Meglio evitare confusioni … Già appare difficile dialogare con alcuni A.d.S., figurarsi con nomine di più persone…

M.P.: La nomina plurima riguarda la possibilità, in casi limite, di differenziare i compiti di natura patrimoniale – es.: cospicuo patrimonio con necessità di persona con competenze tecniche - da quelli di natura personale - es.: nello stesso tempo, persona che ha un familiare amorevolissimo, ma totalmente incapace di gestire il complesso patrimonio. Il medico dialogherebbe sempre con un soggetto. Dovrebbe

***

3.6. Il problema dei tempi per l’attivazione e la modifica del provvedimento di amministrazione di sostegno ed in particolare della procedura di urgenza di cui all’art. 405, comma 4°36.

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

3.6.1- In quali contesti clinici o assistenziali e in quale fase dell’assistenza o della malattia può essere opportuno promuovere la nomina di un A.d.S. (es.: malattie degenerative; situazioni programmabili di perdita di autonomia; situazioni di urgenza; situazioni di degenza istituzionalizzata attuale o programmata, ecc.)37?

3.6.2- Quali sono le potenzialità e quali i limiti della procedura d’urgenza ex art. 405, comma 4° (es.: tempi pratici; problema dell’ascolto della persona prima dell’adozione della misura; limiti temporali di durata, ecc.)38?

essere un’ipotesi comunque marginale.

B.S.: La nomina plurima è possibile se gli ambiti d’intervento sono plurimi (personali, sanitari, economici) ed impegnativi (es. rifiuto alle cure, esigenze di assistenza continua e problematiche in ambito patrimoniale); soprattutto se l’A.d.S. non è un familiare. Io sono contraria a sottrarre ai familiari le scelte in ambito di cura, trattamenti sanitari o consenso informato del loro caro solo perché vi sono conflitti di natura economica; diverso è se le divergenze riguardano proprio la cura della persona (come comportarsi se l’interessato rifiuta di sottoporsi a terapia farmacologica sanitaria e chiede di proseguire quella omeopatica? O se non riconosce la sua malattia?).36 F.S.: In alcuni tribunali viene praticato e in altri formalmente previsto l’ampliamento della possibilità di ricorso alla nomina di A.d.S. provvisorio, ex art. 407, comma 2°, c.c., quando ricorrano i seguenti presupposti: a) quando non ci sia la possibilità per il G.T. di effettuare la tempestiva audizione ex art. 407, comma 2°, c.c. presso il domicilio del beneficiario; b) ci siano serie difficoltà di “ascolto” della persona beneficiaria; c) ci sia la necessità di adottare provvedimenti urgenti di cura della persona o di gestione di ingenti patrimoni.37 G.D.: La questione a mio parere può essere risolta solo se si condivide una convergenza tra “condizioni cliniche” e requisiti giuridici per la nomina dell’A.d.S. Ciò consentirebbe di evitare il ricorso all’istituto come forma di legittimazione dell’atto medico nei casi in cui il paziente sia impossibilitato per patologia a formulare scelte in ordine alla propria salute. Questo consentirebbe di evitare il ricorso dei sanitari al G.T. qualora chiamati ad eseguire procedure salvavita, modalità che se da una parte rende lecito qualunque intervento sanitario impedisce il rispetto di volontà precedentemente manifestate da parte dei pazienti, problema che assume particolare rilevanza nel caso di pazienti affetti da patologie neurologiche progressive in cui gli stessi hanno avuto modo di formulare le loro scelte in merito ad eventuali procedure invasive. 38 A.C.: La procedura di nomina deve avere un timing prevedibile e

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3.7- Il problema del seguito adeguato ed il ruolo dei diversi soggetti coinvolti nel “progetto di sostegno” (beneficiario, A.d.S., G.T., responsabili dei servizi sanitari e sociali).

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

v. sub 1.3.1. e 1.3.2.

***

3.8- I problemi legati alla designazione preventiva di cui all’art. 408 (soggetti, forme, contenuti, efficacia).

Problemi specifici rispetto ai contesti di cura:

3.8.1- Quali sono i requisiti di capacità richiesti per la designazione preventiva dell’A.d.S. da parte del beneficiario39? È valida anche la designazione

ragionevole, poiché spesso viene attuata in urgenza durante un ricovero in reparti per acuti che non possono sostenere l’attesa attuale. Essendo molte delle tipologie di malattie degenerative neurologiche progressive (demenze, parkinson, SLA, ecc.) o lo strumento dell’amministrazione di sostegno diviene rapidamente flessibile, oppure con i tempi di nomina attuali, si rischia di rincorrere la gravità evolutiva del quadro del singolo paziente.

B.S.: Grazie alla procedura di cui all’art. 405, comma 4°, si può affrontare l’emergenza in tempi congrui; si deve però essere in grado di garantire un minimo di contraddittorio con familiari/sanitari salvo l’ambito d’intervento risulti da circostanze di carattere documentale: es.: ricovero in ospedale, assenza di rete familiare, esigenza di consenso alle cure - problema peg - o inserimento in struttura.

Talvolta è fondamentale per evitare un pregiudizio: sanitario, economico, ecc., ma ritengo preferibile che sia disposta per funzioni specifiche e supportata da adeguata motivazione e documentazione (es.: per gravità delle condizioni cliniche, valutare il ricovero in struttura e l’accesso al c/c per i pagamenti della struttura).

La risposta del G.T. deve essere rapida. Ovvero il fascicolo deve essere portato all’attenzione del giudice nel giro di pochi giorni e dunque è fondamentale il lavoro del cancelliere (se il ricorso viene appoggiato sopra la “pila” degli altri ordinari è inutile!). Ogni anello della catena deve fare la sua parte con attenzione e responsabilità.39 P.C.: Non serve la capacità – va tutto bene – qualsiasi soffio lega le mani al G.T., salvo i gravi motivi.

M.P.: Il problema è come rispondere a questa esigenza sul piano tecnico. Per esempio, si potrebbe distinguere la formale designazione anticipata ex art. 408 c.c. dal canone generale della “cura della persona e dei suoi interessi” (artt. 408 e 407, comma 2°, c.c.). In quest’ultima disposizione, però, “bisogni e richieste” sembrano contrapposti a “interessi ed esigenze di protezione”. È da capire come il G.T. deve coniugare le esigenze di “protezione etero-determinata” con quelle di promozione dell’“autonomia

avvenuta in udienza? Quali sono i possibili contenuti (es.: disposizioni anticipate di trattamento) della designazione preventiva? Qual è l’efficacia? In che modo se ne può garantire la conoscibilità (es.: ruolo dei medici di medicina generale; sportelli; uffici comunali; ecc.)40?

3.8.2.- Qual è il rapporto tra la designazione anticipata di amministratore di sostegno di cui all’art. 408, comma 1° e la designazione di un fiduciario per le decisioni in materia di salute (secondo il modello previsto dall’art. 1, comma 40°, l. n. 76/2016)?

3.8.3.- In quali ipotesi i genitori possono procedere ad una designazione preventiva di A.d.S. per il figlio? Quale valore possono assumere eventuali indicazioni contenute nell’atto di designazione (progetto di vita, ecc.)? È valida anche la designazione avvenuta in udienza? In che modo se ne può garantire la conoscibilità al giudice al momento opportuno (es.: ruolo dei medici di medicina generale; sportelli; uffici comunali; ecc.)41?

***

3.9.- Questione dei rimborsi e indennità (art. 379 c.c.)42

possibile”. È interessante in questo senso l’esempio inglese del Mental Capacity Act 2004 (v. la definizione del “best interests” con criteri oggettivi e soggettivi).40 Esempi: B.S.: Una signora anziana, benestante, coniugata ma senza figli, sensibile, rispettosa della persona, attenta ai bisogni degli altri (es. marito, sorella e nipoti) temendo, un domani non molto prossimo, di non ricevere analoghe attenzioni da parte dei familiari quanto alla cura ed assistenza (non vuole un inserimento in struttura), provvede a designare un legale di sua fiducia come suo futuro A.d.S. Ma costui non è tra i soggetti del 417 … potrà solo segnalare al P.M. l’esistenza dell’atto di designazione?41 P. C.: “Problemi importanti”, la designazione è una delle basi su cui costruire il dopo di noi, esiste anche il dopo di noi che il genitore può costruire in vita.42 F.S.: È problematica l’autorizzazione al prelievo di “equo indennizzo” per A.d.S. su patrimoni di beneficiari insufficienti per la loro assistenza e già soggetti a integrazione da parte di soggetti obbligati (comuni e familiari).

B.S.: Per un esempio, v. il Protocollo del Tribunale di Varese.

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Persona vulnerabile e progetto di sostegno

Indice degli autori

Paolo Benciolini Presidente del Comitato Etico dell’Azienda Ospedaliera di Padova, già Professore Ordinario di Medicina Legale presso l’Università degli studi di Padova.

Gemma Brandi Psichiatra psicoanalista, Direttore della Salute in carcere IIPP Città di Firenze.

Paolo Cendon Professore di Diritto privato, Università degli studi di Trieste.

Alberto Cester Direttore del Dipartimento medico, Direttore U.O.A. di Geriatria, Sede ospedaliera di Dolo (VE), Azienda U.L.S.S. 3 Serenissima.

Sara Costanzo Psicologa psicoterapeuta, membro dell’Associazione Persona e Danno.

Carla Cremonese Clinica Psichiatrica Azienda Ospedaliera, Università di Padova.

Laura Nota Delegata per il Rettore in materia di inclusione e disabilità, Università degli studi di Padova.

Mariassunta Piccinni Ricercatore di Diritto privato, Università degli studi di Padova.

Daniele Rodriguez Ordinario di Medicina legale, Università degli studi di Padova.

Paolo Santonastaso Clinica Psichiatrica Azienda Ospedaliera, Università di Padova.

Barbara Schiavon Avvocato ed amministratore di sostegno in Treviso, già G.O.T. presso il Tribunale di Venezia.

Francesca Succu Presidente dell’Associazione Amministrazione di sostegno Onlus, Regione Veneto.

Sergio Trentanovi già Giudice tutelare presso i Tribunali di Venezia e Belluno.

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Persona vulnerabile e progetto di sostegno

Indice Autori Documento Condiviso

Luca Cecchini Medico, Membro della Commissione di Bioetica dell’Ordine dei Medici di Roma.

Paolo Cendon Professore di Diritto privato, Università di Trieste.

Alberto Cester Direttore del Dipartimento medico, Direttore U.O.A. di Geriatria, Sede ospedaliera di Dolo (VE), Azienda ULSS 3 Serenissima.

Giorgia Ducolin Specialista in Medicina Legale Ulss 16.

Alberto Manzoni Dipartimento Dipendenze – Servizio per le Dipendenze e Alcologia ULSS 3 Serenissima.

Marta Massaro Avvocato e GOT presso il Tribunale di Belluno.

Cristina Pardini, Assegnista di ricerca in diritto privato, Università degli studi di Padova.

Mariassunta Piccinni Ricercatore di Diritto privato, Università degli studi di Padova.

Barbara Schiavon Avvocato ed amministratore di sostegno in Treviso, già GOT presso il Tribunale di Venezia.

Francesca Succu Presidente dell’Associazione Amministrazione di sostegno Onlus, Regione Veneto.

Mauro Tescaro, Ricercatore in Diritto privato, Università degli studi di Verona.

Sergio Trentanovi già Giudice tutelare presso i Tribunali di Venezia e Belluno.

Paolo Zatti Professore Emerito di Diritto privato, Università di Padova.

Il volume è stato pubblicato con il contributo del CSV della Provincia di Padova

Il Seminario è stato organizzato con il contributo del Progetto Prat 2014 “Dalla protezione alla promozione delle persone vulnerabili: l’amministrazione di sostegno come risorsa nei contesti di cura?”