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Atti Convegno 30 Novembre, Roma, Auditorium di Via Rieti Sì alla Riforma Costituzionale Per una democrazia che decide, trasparente e vicina al popolo.

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Atti Convegno 30 Novembre, Roma, Auditorium di Via Rieti

Sì alla Riforma Costituzionale Per una democrazia che decide, trasparente e vicina al popolo.

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Interventi

Presentazione Alberto La Cognata

1) Introduzione lavori: Maria Medici, Presidente del Comitato Roma Sì

2) Onorevole Goffredo Bettini, eurodeputato

3) Giuseppe Vacca, Presidente del Comitato regionale per il Sì

4) Claudia Mancina, docente di Etica presso la Sapienza di Roma

5) Pietro Reichlin, economista, docente all’universitàLuiss di Roma

6) Senatore Mario Tronti, filosofo e intellettuale

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Alberto La Cognata

Buonasera a tutti,

Solo due questioni organizzative e poi passo la parola a Maria Medici per iniziare la riunione che

abbiamo convocato oggi.

La prima è questa: il lavoro che abbiamo svolto negli ultimi giorni è qualcosa di molto importante.

La battaglia è in salita, il quadro di difficoltà lo conosciamo tutti anche se nell’ultima settimana

vediamo che nel paese c’è un clima migliore. Questo perché stiamo lavorando di più.

Siamo più in contatto con la gente, vediamo che c’è più facilità di rapporto e di convincimento.

E cresce l’interesse per il Sì spinto da ragioni diverse. La domanda di stabilità politica relativa a

fattori economici e l’esigenza di contrastare il fenomeno delle destre e dei cinque stelle, è un’esi-

genza che sta emergendo con grande forza nell’area della sinistra. Quindi c’è un clima diverso su

cui dobbiamo lavorare, questo clima migliore lo percepiamo anche a Roma. Tanti comitati per il

Si stanno lavorando, ci sono parecchie iniziative anche ora. Cito tra le più importanti quelle che

abbiamo fatto: quella con il Presidente Zingaretti e i ministri Calenda e Martina con una forte

partecipazione di forze produttive e sociali, l’iniziativa del Ministro Boschi all’Eliseo e l’iniziativa

di Renzi alla Nuvola.

C’è la possibilità di fare un lavoro importante per lavorare sugli indecisi: si tratta di avere un

contatto diretto con gli elettori, si tratta di telefonare, di mandare email, di lavorare sulla rete. Noi

abbiamo fatto un volantino che ci pare utile con dieci motivi per dire Sì, uno strumento efficace

da distribuire. Invito tutti quando andate via a prendere un po’ di volantini da distribuire, da dare

nei propri condomini, nel proprio bar. C’è da fare un lavoro in profondità.

La seconda questione è la sottoscrizione.

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Ultimo punto è la descrizione della platea. Questa iniziativa è stata organizzata dal Comitato

RomaSì, il cui presidente è Maria Medici e dal Comitato Roma per il Sì.

Grande lavoro in città per preparare questa iniziativa. A questa assemblea hanno contribuito

parecchie forze: persone dei circoli del Pd, di sinistra. Ci sono stati vari appelli. Si sono mobilitati

comitati e associazioni territoriali, esponenti di sinistra: qui abbiamo il presidente Zingaretti che

si sta adoperando molto e Sandro Gozi, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che ci hanno

dato una mano.

Oggi non siamo qui per discutere del merito della riforma ma per discutere del referendum in re-

lazione alla grande urgenza di superare la crisi del paese che si esprime nel rapporto tra politica,

Stato e popolo, un tema decisivo per sconfiggere la deriva di destra e populista che investe il nostro

paese. Su questo noi abbiamo fatto un documento che abbiamo distribuito.

Lascio la parola a Maria

Grazie

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Maria Medici

Buonasera a tutti e benvenuti a questo evento.

Sono Maria Medici, presidente del Comitato Roma SI, e sono onorata di far parte di un consesso così

autorevole e prestigioso. Insieme al Comitato Roma per il SI abbiamo organizzato questo evento

per sottolineare l’importanza di una riforma che vuole rendere le nostre istituzioni più semplici,

operative, meno costose e più vicine ai cittadini. Oggi, oggetto della discussione saranno i

contenuti del documento dal titolo “SI alla riforma costituzionale. Per una democrazia che decide,

trasparente è vicina al popolo”. Il comitato che presiedo in questi mesi ha lavorato molto sulla

città per colmare una richiesta di informazione – non di propaganda – sul valore della Costitu-

zione e sul significato della Riforma. Ci siamo quindi occupati dei contenuti e della presenza sul

territorio, raggiungendo un numero elevatissimo di cittadini romani.

Oggi, a pochi giorni dal referendum, siamo soddisfatti – ma non completamente, non ci si

accontenta mai! – del risultato di essere riusciti a coprire tutto il territorio, municipio per

municipio portando con un linguaggio semplice ma chiaro e rigoroso le ragioni di una riforma che

può davvero cambiare il paese.

È stata un’attività intensa, quotidiana con il supporto di tanti giovani volontari, molto

preparati e molto motivati, una vera speranza per una nuova classe politica di cittadini

consapevoli ed impegnati.

Vi presento gli ospiti di questa sera:

l’onorevole Goffredo Bettini, eurodeputato;

Giuseppe Vacca, intellettuale, storico e parlamentare;

la professoressa Claudia Mancina, docente di Etica presso la Sapienza di Roma;

il professor Pietro Reichlin, economista, docente all’universita Luiss di Roma;

e infine abbiamo il senatore Mario Tronti, filosofo e intellettuale.

Ci siamo dati delle regole per dare spazio a tutti. Prego i relatori di restare nel tempo stabilito e

do la parola all’on. Goffredo Bettini, che introduce i lavori. Prego.

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Goffredo Bettini

Nonostante i sondaggi diano il NO in vantaggio, sono fiducioso.Monti ha detto che, in una consul-

tazione di questo tipo, è del tutto naturale un esteso trasversalismo.

Giusto. Se fosse un trasversalismo sul merito. In verità è successa una cosa ben diversa: il

trasversalismo si è realizzato in una raccolta arlecchinesca di motivazioni del tutto diverse che

hanno spinto spezzoni della politica e della società, assai lontani tra di loro, a creare un blocco

unico di resistenza alla riforma.

Si sono mischiati antichi conservatorismi, nuovi populismi, ideologismi, consueti riti divisivi e

autolesionisti nella sinistra, manovre tattiche di politica “à la carte”. Non è stato un bel vedere.

Si è detto, da molti, sull’errore di Renzi per un’eccessiva politicizzazione.

Magari!

Di vera politica se n’è vista poca.

Brandelli di senso politico e di contenuto sono stati utilizzati come clave per rimettere in scena le

consuete lotte di potere, di partito, di fazione.

La centrifuga della spettacolarizzazione non ha permesso di depositare altro che pochi elementi di

crescita culturale e civile degli italiani.

Si è sprecata una grande occasione.

Ecco perché noi, al contrario, fino all’ultimo cerchiamo di ragionare, approfondire, dialogare.

Come stasera.

Se si va al puro e semplice merito direi che ho scelto di votare Sì perché in un paese lento,

burocratico, arzigogolato nel quale, come scrive Galli della Loggia, il sistema politico vive una

normale incapacità di funzionare normalmente, ogni passo in direzione della semplificazione, di

una maggiore trasparenza e rapidità, dell’efficienza e responsabilità va condiviso e sostenuto.

Superare il bicameralismo, definire meglio le competenze dei livelli di governo, eliminare

strutture tanto elefantiache quanto inutili, attivare forme nuove di partecipazione diretta dei

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cittadini, sono scelte che aiutano a smuovere un po’ l’immobilismo italiano.

Nulla di rivoluzionario: solo prime, modeste, ma significative, stazioni di un lungo percorso.

Anche l’allarme di un pericoloso combinato disposto tra la riforma costituzionale e l’Italicum,

dopo l’accordo nella commissione istituita nel Pd, non ha più ragion d’essere.

L’eliminazione del ballottaggio, il ritorno ai collegi, il premio alle coalizioni stemperano ogni

timore di una possibile svolta centralista e di una tendenza autoritaria.

Come se, poi, i pericoli di autoritarismo possano venire da un governo legittimato democrati-

camente e messo nelle condizioni di operare meglio e con maggiore libertà, e non invece dalla

paralisi delle istituzioni che da anni gonfiano le vele dell’astensionismo, del leghismo, del

grillismo, del nuovo fascismo europeo.

Ma l’accordo, solenne e rappresentativo, dato le personalità che lo hanno siglato, è stato considerato,

dal fronte del NO interno al Pd, carta straccia.

Appunto: la politica non c’è più.

In campo operano fazioni diffidenti. D’altra parte l’andamento delle cose è dimostrato dallo studio

sugli orientamenti dell’elettorato svolto da Nando Pagnoncelli.

All’inizio il SI alla riforma era più ampio, variegato, indipendente.

Via via ha prevalso l’ordine dei partiti, il richiamo ideologico, la propaganda faziosa dei leader.

Vedremo. Ci giochiamo la partita in un fazzoletto elettorale di modeste dimensioni. Naturalmente,

la spettacolarizzazione ha nascosto ai più il cuore politico della battaglia referendaria.

Decisivo: pur nei limiti delle concrete proposte di modifica della Costituzione.

Il SI e il NO alludono a due Italie diverse. Rispondono in modo antitetico alla domanda su dove

vuole andare l’Italia.

Non mi meraviglio affatto che un esito positivo per il NO sia accompagnato da un gran parlare

circa il ritorno di un proporzionale spinto, di governi tecnici, di larghe intese.

Di tutto quello che in definitiva ha contribuito grandemente al disastro italiano.

Lo scontro, d’altra parte, in questi ultimi anni di governo Renzi, si è giocato su questo confine.

Debbono tornare a comandare le vecchie oligarchie, i riti di sempre, lo stile paludato sia nella

versione democratica sia in quella moderata, centrista e di destra o si può tentare, al di là di limiti

e difficoltà che non mancano, una politica manifesta, generosa e coraggiosa, trasparente e che si

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carica di responsabilità?

Il quesito ha una certa valenza storica: da dove vengono la crisi abissale di rappresentanza e il

conseguente divampare di un demagogico populismo?

Dove si nascondono i pericoli di una restrizione delle libertà e di uno strisciante autoritarismo?

Zagrebelsky l’ha detto chiaro, definendo l’anima del NO.

Vengono da una riduzione delle articolazioni istituzionali, dei controlli, dei mille bilanciamenti,

da una compressione della lentezza dell’azione di governo.

Per Zagrebelsky le elezioni non servono per decretare chi ha vinto, ma per definire una mappatura

della rappresentanza e degli orientamenti.

Solo nelle istituzioni, nella libertà degli eletti, nella cerchia delle èlite si compone il soggetto che

ha il compito di decidere e governare.

La sola via per procedere è il compromesso. La democrazia consiste esattamente nel costruire le

garanzie, nelle istituzioni, per impedire la dittatura della maggioranza espressa nel voto popolare.

Questa visione, forse, poteva avere un senso subito dopo la guerra; in un paese fragile negli orien-

tamenti e nelle istituzioni, diviso dal conflitto comunismo-occidente, alla prima prova del gioco

democratico, con partiti e corpi intermedi corposi e aggreganti; oggi davvero, a mio parere non ha

senso e coloro che la ripropongono, mi domando, che Italia vedono e conoscono.

Oggi l’insieme delle istituzioni sono poco rappresentative, chiuse in se stesse, screditate, attaccate,

obsolete.

Si è consumata una rottura. Definitiva nel ‘92. Al crollo del vecchio, la sinistra non seppe proporre

il nuovo. Un nuovo canale di trasmissione tra il potere e il popolo, dopo che i gloriosi grandi partiti

di massa, costruttori della Repubblica, avevano rovinosamente e tardivamente lasciato il campo.

Si è aperto un vuoto che è diventato un cratere. Non è solo un tema italiano.

Ma in Italia si può più facilmente tramutare, qui davvero vedo un pericolo autoritario, in un dissolvi-

mento della Repubblica. La sinistra dal’ 92 si è posta un obiettivo politico; e in parte l’ha centrato:

sperimentare per la prima volta l’alternanza nel governo del Paese.

Tuttavia non si è posta, e dunque ha mancato, un obiettivo storico: nel passaggio di crisi della

Repubblica, durante e dopo Tangentopoli, reinventare il soggetto politico trasformatore e

riannodare l’impianto istituzionale per svolgere, nel mondo nuovo che veniva avanti, quell’azione

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di trasmissione e collegamento tra l’alto e il basso della società, praticata in modo geniale

innanzitutto dalla DC e dal PCI.

Oggi, così, insieme ad un acuirsi delle ingiustizie sociali, prevale la disperazione individuale, la

solitudine, lo sfarinamento.

Ogni discettazione riferita alle prerogative delle èlite, agli equilibri di vertice, alla disposizione

funzionale dei vari poteri, è considerata (al di là del merito) come un gioco oligarchico.

Ogni apparato è percepito come un’astronave lontana, imprendibile, estranea.

Questa è la tragedia dell’oggi.

Non vederla è puro sonnambulismo, che dura da troppo tempo.

Penso davvero tutto il contrario rispetto a Zagrebelsky.

Lo dico con rispetto. Ma ripeto: davvero tutto il contrario. La nebulosa di oggi va rotta tentando di

nuovo la via della decisione; decisione politica, ma decisione.

Il panorama così devastato che si apre di fronte a noi va cambiato più che rappresentato in una

statica fotografia del prodotto umano, sociale e materiale che hanno lasciato sul campo i nostri

errori del passato e i nostri cedimenti politici e culturali.

La decisione, democratica e legittimata, è la sola cosa eticamente giusta che va cercata e prodotta.

La decisione è trasparenza, onestà, responsabilità.

È la prima forma di vera rappresentanza di coloro che hanno votato, determinando una maggioranza.

Le maggioranze non vanno ostacolate nell’azione di governo, vanno aiutate a manifestarsi e ad agire.

Le garanzie, anche molto più ampie di quelle di oggi, vanno poste sulla possibilità del ricambio,

dell’alternanza, della legittima volontà dell’opposizione di diventare nel futuro maggioranza.

La decisione è il succo, prima ancora della democrazia, di ogni forma di politica.

Che ha un senso se trasforma, produce il nuovo, determina un ordine diverso.

Altrimenti tutto si riduce ad apparato burocratico e amministrativo.

La decisione costringe tutti ad uscire allo scoperto.

La non decisione favorisce la manovra oscura, il trasformismo, il cinismo irresponsabile, le rendite,

la promozione dei peggiori. So bene che la nostra è un’epoca senza profeti; e anche senza utopie.

Esse sono state declinate nel ‘900 talmente male da consumarsi in un progressivo disfacimento.

Le utopie volevano, con Bacone, utilizzare le scienze per costruire la nuova Atlantide.

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Sono state, invece, inghiottite dagli apparati tecnico-scientifici che pare dover dominare ogni

processo umano. Eppure noi come sinistra esistiamo solo se resta in gioco una qualche speranza.

Intesa, appunto, come negazione del presente e come immaginazione di un futuro alternativo.

Se rimane in gioco una qualche politica. Non è un’illusione; la pratica sociale, quando si tenta,

svela che dentro la solitudine di oggi e la rabbia non c’è solo l’accettazione di una sconfitta.

C’è anche una diffusa disponibilità a prefigurare qualcosa di diverso e a liberare un deposito di

energie, insopprimibili nell’essere umano, che rifiutano il semplice stare; e che cercano i semi di

una vera libertà. Naturalmente, queste energie vanno cercate e riattivate. Persona per persona.

Nessuno più prepara precotti, facili da digerire e orientare. Ecco perché accanto ad istituzioni che

nelle sfere apicali decidono e a leader forti che si assumono le responsabilità, occorre un nuovo

soggetto politico “terragno” in grado di gettare reti tra le monadi umane disperse.

Altro che correnti, ditte, vecchie sezioni. Servono luoghi aperti, agorà per l’incontro, il confronto e

la decisione tra le singole persone nell’esercizio delle loro responsabilità individuali.

Direzione e decisione dall’alto e partecipazione, decisione alla base della piramide dagli esiti

imprevedibili, esposta all’incompletezza e problematicità del materiale umano di oggi.

Due livelli che debbono collaborare, confliggere, intersecarsi in processi autentici, perché reali.

Questa l’idea di partito per tentare di riprendere a fare politica tra i cittadini, a partire dalla loro

nuda vita. Per produrre un esodo dal presente alla conquista di una condizione migliore.

L’Europa è stata il centro di questo tentativo e di questa ambizione umana.

E in questo si sono intrecciate e rincorse teologie religiose e politiche.

Il “moderno” ha racchiuso questa tensione al miglioramento e alla “redenzione”.

Il deserto attuale non può portare nulla di buono. Ecco perché i tecnocrati stanno diventando i

primi nemici dell’Europa. Rappresentano per noi europei un ossimoro.

Mentre nel resto del mondo lo sviluppo capitalista, nella sua forma globalizzata, sovraordinata a

tutto, supertecnologizzata, si sposa con regimi e culture che hanno sempre considerato poca cosa

l’impresa umana individuale. E la libertà come un pericolo. La Cina vale come esempio per tutti.

Che cosa deve accadere ancora per smettere di ragionare in Europa sui decimali del debito

pubblico, sul rigore burocratico, sui piccoli interessi di parte, sugli equilibri tra istituzioni ormai

arrivate alla frutta, sui muri da erigere in un disordinato “si salvi chi può”, su un unanimismo

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paralizzante, che fa sì che una piccola regione del Belgio, la Vallonia, possa bloccare la decisione

di un accordo commerciale (quello con il Canada) approvato da tutti e importantissimo per le

nostre imprese e la nostra economia?

Dobbiamo accettare lo sfarinamento dell’Europa senza combattere? Ormai non c’è più tempo.

Non è l’ora dei piccoli passi. I prossimi mesi presentano appuntamenti decisivi; a partire dal 60°

anniversario dei Trattati di Roma. Occorre dare una sferzata forte e concreta sui temi vitali.

La vera occasione mancata l’Europa l’ebbe nell’89. Allora finì davvero una intera epoca: il crollo

del comunismo, la fine della guerra fredda e dell’equilibrio del terrore. Sarebbe stato il momento,

per il Vecchio Continente, di uscire da quella subalternità verso gli Stati Uniti ben più lunga e

ingiustificata rispetto alla gratitudine che noi dobbiamo loro per il ruolo avuto durante e dopo la

seconda guerra mondiale; di ricercare un ruolo più autonomo, di terzietà, di iniziativa e dialogo a

tutto campo, di orgogliosa riproposizione delle proprie radici culturali e della propria ispirazione

sociale, di una autonoma funzione di pace, di soluzione dei conflitti, di deterrenza (con una propria

forza) nell’uso della forza in campo internazionale.

Non è stato, purtroppo, così. Si è continuato a combattere una sorta di guerra fredda, in assenza

di ogni fondamento politico e storico per continuare a combatterla. Non solo l’Occidente, dopo il

crollo del comunismo, non ha aiutato la Russia, in un passaggio drammatico e rischioso per la sua

stessa integrità statuale; ma non gli ha riconosciuto neppure lo status di potenza regionale; quando

essa, prima, per decenni, aveva dominato la metà del mondo.

Un errore pratico e psicologico: per nulla estraneo all’ascesa di Putin e al suo ritorno ai simboli di

una antica grandezza russa e, anche, di una più recente fase comunista e sovietica.

Lo stesso allargamento a Est dell’Unione europea è stato realizzato più per ragioni geopolitiche,

per costruire un cuscinetto territoriale tra l’Occidente e la Russia, piuttosto che per un’autentica

maturazione di una integrazione sociale, economica, culturale, istituzionale.

Il nostro compito verso la Russia doveva essere quello di far prevalere in essa la profondità del suo

contributo all’Europa. Pietroburgo contro Mosca: in questa tensione politica e spirituale il popolo

russo ha prodotto il meglio del pensiero, dell’arte, della cultura europea.

Ha interpretato in anticipo la crisi della modernità: Puskin, Gogol e soprattutto il gigantesco Do-

stoevskij. E poi: Stravinskij, Šostakovič, l’Akhmatova e tantissimi altri. L’89 doveva superare nel

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cuore dell’Europa il contrasto storico tra Francia e Germania, che aveva insanguinato il secolo:

unificando nella democrazia la terra tedesca; e nello stesso tempo, tuttavia, doveva riassorbire la

Russia, post comunista, all’anima del nostro continente. Strapparla al suo isolamento asiatico, che

iniziò con Stalin. Impresa difficile, ma da tentare: in assenza della quale, inevitabilmente l’Europa

vivrà sotto un dominio, seppure pacifico e democratico, della Germania.

Ci sono grandi responsabilità della sinistra nella rinuncia, da parte dell’Europa, a un ruolo diver-

so. La più grande è quella di Blair, che ha voluto, in asse con Bush, scatenare in Iraq una guerra

ingiusta, non motivata, che ha lasciato sul campo mezzo milione di civili innocenti, determinando

un cedimento politico, ma perfino morale, del profilo complessivo delle forze socialiste.

Così oggi, soprattutto dopo la vittoria di Trump, ci troviamo più deboli, senza un’Europa credibile,

minata all’interno e, seppure ampia, sfilacciata nella sua coesione, con una sinistra in difficoltà.

Soprattutto, ci troviamo isolati: allo stato attuale senza una amichevole sponda americana, in con-

flitto con la Russia, in competizione con la Cina, assediati dalle guerre mediterranee e invasi dagli

immigrati che da esse tentano di sfuggire in ogni modo.

Occorrerebbe una nuova legittimazione democratica delle istituzioni europee; un ruolo centrale

del Parlamento; la costituzione di un nucleo aperto, ma da subito operante, di stati che scommet-

tano ora su una fortissima integrazione politica, economica, fiscale, sociale, culturale e di difesa.

Nucleo capace di dialogare, rapportarsi, interagire con un cerchio più ampio di paesi europei

amici, solidali, sinergici, seppure non pronti ad un’accelerazione della velocità dell’Unione. Tra

questi paesi non può non esserci la Russia. D’altra parte, è proprio il rinnovato nazionalismo di

Trump a spingerci in questa direzione. Ma, al di là di tutto e soprattutto, c’è da affermare qualcosa

che mobiliti le coscienze e l’orgoglio di una funzione di civiltà: una sorta di vero e proprio patriot-

tismo europeo aperto al mondo. Ci sarà una classe dirigente all’altezza?

Hollande è in crisi. La Merkel è prigioniera della sua logica e incapace di un’egemonia ampia.

L’SPD è in ombra rispetto alla leader tedesca; gli inglesi sono andati via; i socialisti spagnoli sono

divisi: la novità, oggettivamente, può venire proprio dall’Italia. Da un’Italia coraggiosa, europei-

sta, democratica e riformatrice. Ma che senso ha, allora, anche in questa battaglia referendaria

indebolire Renzi? Tornano ancora le ragioni del Sì.

Ripeto: sono fiducioso; anche se la battaglia va combattuta fino all’ultimo

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Beppe Vacca

Quando insieme a Maria Medici e pochi altri amici all’inizio abbiamo costruito un Comitato per il

Sì al referendum era il mese di Gennaio 2016. Vi riepilogo molto sommariamente i dati delle in-

dagini demoscopiche del 2015 su quale fosse il rapporto dei cittadini italiani con la Costituzione.

L’11% della popolazione italiana dichiarava di aver letto la Costituzione ricordandone tuttavia per

sommi capi il contenuto. Il 21,9% dichiarava di averla solo sfogliata conservandone un ricordo

vago, il 15,2% sosteneva di averla letta senza riuscire ad indicarne neppure un articolo mentre il

51%, la maggioranza del campione dichiarava di non averla mai letta.

Sulla base di questi dati, noi ci proponemmo e poi abbiamo potuto seguire su questa linea dopo

la Costituzione in giugno, del Comitato regionale del Lazio per il Sì dal quale ho ricevuto l’onore

di una richiesta di coordinamento, di fare di questa campagna referendaria una Costituente del

popolo italiano. Informare, far conoscere la Costituzione riformata e quindi la vecchia e spiegare

le ragioni del Sì.

Devo dire che questo lavoro è incominciato con notevoli difficoltà ma è entusiasmante aver vissuto

via via il passaggio dalle diffidenze, dal rifiuto al coinvolgimento, all’interessamento e via via alla

fiducia e sicuramente alla partecipazione. E se oggi nessuno stima che andrà a votare meno del

50% degli aventi diritti oso dire che l’obiettivo di fare di questo referendum una Costituente del

popolo italiano per quel poco che abbiamo potuto ma insieme a tanti altri comitati per il si che in

Italia si sono mossi alla stessa maniera qualche risultato l’abbiamo raggiunto.

Questo è un elemento basilare perché il popolo italiano non ha mai avuto la possibilità di discutere

la sua Costituzione, ha avuto straordinari momenti di entusiasmo e di retorica sulla Costituzione

più bella del mondo ma per nostra fortuna e paradossalmente per nostra fortuna la Costituzione

repubblicana fu figlia di un’Assemblea Costituente che sebbene spezzata temporalmente in due

tempi, fra il tempo della collaborazione antifascista tra il tempo internazionale ed italiano e il

tempo della contrapposizione e della guerra fredda riuscì a condurre in porto questa Carta, i cui

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risultati, la cui tenuta, la cui validità nei principi e nei valori, la cui lungimiranza nel prevedere

la possibilità e la necessità di essere adeguata nel tempo attraverso gli strumenti della democrazia

parlamentare hanno dato prova lungo 70 anni a tutti gli italiani.

E questa è la ragione che abbiamo guadagnato crescente fiducia nelle ragioni che siamo andati

proponendo e diffondendo in questi non brevi mesi, dal contatto diretto ai mercati, ai banchetti,

alle assemblee, ai confronti. Devo dire aver, dopo dieci anni di pausa, avuto l’occasione di un im-

pegno politico così intenso e motivato a quasi 80 anni è stata una bellissima esperienza.

Il 2017 se come penso avrete ascoltato con attenzione le parole di Goffredo Bettini è un’anno per

molti aspetti positivi per l’Europa. Una premessa: le riforme fondamentali di cui anche l’Italia ha

bisogno, di cui oltre quelle regolative e costituzionali su cui andiamo ad esprimerci, le riforme

fondamentali sono al tempo stesso italiane ed europee, non c’è possibilità di una ripresa vera della

crescita in Italia se questo problema non viene sbloccato in Europa.

Ma nella legislatura attuale del Parlamento europeo molti passi sono stati compiuti, con l’iniziati-

va del Governo italiano soprattutto, l’agenda della Commissione europea, l’agenda delle istituzioni

di Bruxelles, l’agenda del Parlamento europeo è venuta lievemente, lentamente ma significativa-

mente cambiando.

È merito prevalentemente dell’Italia e dei suoi parlamentari, innanzitutto quelli del maggior

partito europeo, oggi il partito democratico in Europa, aver promosso e spinto e portato abbastanza

avanti il completamento del governo della moneta attraverso il disegno di un’unione bancaria,

attraverso l’aver spinto la ricerca di convergenze sui regimi fiscali per temperare la competizione

nei processi di integrazione sovranazionale, aver spinto con forza, aver contribuito con forza a

porre nell’agenda come ordine del giorno il problema della difesa europea per bilanciare indirizzi

della Nato che altrimenti sembrano costruiti sulla sindrome polacca, come angolo di visuale dei

rapporti auspicabili e possibili tra la Russia e l’Occidente.

E questo è stato un grande lavoro di cui sono stati protagonisti alcuni dei vostri rappresentanti al

Parlamento europeo, a cominciare da Roberto Gualtieri oltre che dal qui presente Goffredo Bet-

tini. Questo anno 2017 è decisivo perché ricco di appuntamenti elettorali dal cui esito dipenderà

la possibilità di implementare e portare avanti questa agenda di riforme europee. Come comincia

quest’anno elettorale? Comincia dall’Italia.

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Non sono elezioni politiche ma sono un referendum determinante, di valore politico persino

maggiore di elezioni politiche ordinarie perché i Governi passano ma le Costituzioni restano e

diventano l’abito flessibile o rigido, utile o soffocante della vita nazionale. Ci possiamo permettere

di cominciare questo ciclo delle elezioni europee, già il 4 con l’elezione del referendum c’è il

ballottaggio per la presidenza della Repubblica in Austria dove a confronto ci sono in presenza

di un governo socialdemocratico un candidato verde e un candidato fascistoide e xenofobo

e poi ci saranno le elezioni francesi dove la partita sembra doversi giocare tra la Le Pen tra un

conservatore illuminato, semi, neogollista e pure neonazionalista che cmq però non porterebbe la

Francia in rotta di collisione con l’Europa e poi ci sono le elezioni tedesche in Germania, decisive

dopo che abbiamo avvertito tutti io penso, gli scricchiolii del sistema politico germanico, tedesco.

Se pensiamo che nelle elezioni politiche della regione di Berlino si è riconfigurata l’idea di una

rielezione del sistema dei partiti tedesco ben oltre il sistema del bipolarismo in quattro partiti che

stanno in un reso di dieci punti tra il primo e il quarto e poi in mezzo le elezioni olandesi con un

partito che forse vince e prospetta subito un referendum per l’uscita dell’Olanda dall’Europa.

Possiamo noi che ci troviamo all’inizio di questa catena bocciare una riforma che rigetterebbe

l’Italia nel panico, nel conflitto degli spread e se non trovassimo una soluzione governativa anche

se mi pare che la soluzione governativa cmq la troveremmo. Il ripresentarsi dello specchio del

commissariamento come nel 2011, perché il Governo Monti fu un commissariamento. A noi ci

dettero la possibilità della cosmesi, perché pensiamo la Grecia ma un commissariamento fu. Non

c’era la Troika, c’era il commissario. Noi non possiamo permetterci questo.

Noi abbiamo una responsabilità nazionale ed europeistica eccezionale in questo passaggio e questa

è se volete la ragione più alta per votare Sì. Un’ultima considerazione che riguarda particolarmen-

te voi cittadini romani, dico voi perché io vivo a Roma ma non sono residente a Roma, non riesco

a tagliare il mio viscerale rapporto con la mia terra. Io vivo a Roma dal 1980 ma sono residente a

Bari. Perdonatemi.

Oggi il Corriere della Sera pubblica un interessante indagine dal quale risulta, è un indicatore

significativo almeno del modo in cui in questo decennio ma in un periodo più o meno più lungo si è

svolta la divaricazione territoriale, la segmentazione del nostro comune patrimonio nazionale della

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nazione italiana. L’area metropolitana di Milano con circa 10 milioni di abitanti concentra il 30%

del Pil. Ha un tenore di vita superiore alla media italiana ed europea, ed è il principale polmone

attrattivo di risorse non solo dall’esterno ma dall’interno.

Cosa è avvenuto della nostra capitale? Anche mia, anche se non sono romano perché io credo che

l’Italia debba avere una capitale. Sento la necessità che per essere governata come questa riforma

può consentire di fare torni ad avere un centro.

Ha perso il 10% del Pil. Non ha manutenzione, e vede una crisi del sistema politico e del sistema

partitico tra seconda e terza repubblica che ha nella capitale il suo epicentro.

Questo referendum e il Sì è fondamentale per ridare un’impalcatura politica che renda governabile

il Paese, anche perché gli restituisce un centro e quindi la dignità e l’importanza di Roma capi-

tale. E questo sta nelle nostre e nelle vostre mani. Infine io ho visto in questi tre mesi crescere il

dibattito tra i giovani, al di là delle fasce iperideologizzate e quindi depoliticizzate che manipolano

i social. Crescere la presenza discorsiva e riflessiva alle nostre iniziative, crescersi ed affermarsi

l’iniziativa delle donne, in nome di ragioni che esse aiutano tutti noi a vedere.

Non avevo visto prima dell’appello delle donne per il Sì, il punto più straordinario di questa ri-

forma: l’introduzione in Costituzione per la prima volta in un paese occidentale della norma della

parità di genere.

Cresce infine il tono e la dignitosa rivolta del Mezzogiorno a sentirsi dire che quelli comunque

votano no. L’esperienza dei referendum dice che da questo punto di vista almeno dagli anni 70

l’Italia è unificata. IO ho fiducia e penso che come me, ognuno di noi, di voi deve lavorare sodo

negli ultimi giorni per chiedere aiuto ai cittadini italiani a farla questa riforma che non poteva

essere fatta solo dal Parlamento per ragioni ovvie.

E con questa fiducia vi saluto, invitandovi a lavorare bene nello spirito di chi ha l’Italia nel cuore.

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Licia Conte

Perché il mio sì alla Riforma Costituzionale?

Risposta: la aspettavo da sempre.

Due le ragioni che mi hanno più motivato. Ma naturalmente mi convincono tutte quelle che sono

state qui espresse. Torno alle mie due:

la prima: l’Italia è un Paese piccolo in un mondo grande. Ma il nostro è un Paese piccolo con

una grande storia e una grande cultura. Penso che questa storia e questa cultura vadano spese in

Europa e nelle altre aree del pianeta. E gli italiani devono farsene carico.

Ma ci sono gli italiani? O siamo ancora prevalentemente lombardi, pugliesi (io mi qualifico sempre

tale) siciliani...?

Da metà Ottocento ci diciamo: “Fatta l’Italia, facciamo gli italiani”, ma chi davvero ci ha provato?

Uno scrittore fine Ottocento? La TV bernabeiana? Si si, il tentativo più serio è stato proprio quello

di quella Rai. Dimentico: ci aveva provato anche qualcun altro nel famoso Ventennio, ma in modo

retorico e anche un po’ lugubre.

È perciò necessario riprendere il filo del discorso lasciato a metà dalla Rai, ridandole questa

missione. Ed è necessario dare un colpo al regionalismo. E la Riforma dà un colpo a questa

ventina di staterelli, che confermano identità radicate ma ormai non più produttrici di civiltà come

fu secoli fa. Le istituzioni che sopravvivono a se stesse alimentano la frammentarietà quando non

diventano ricettacoli di improduttività e corruzione.

Fare gli Italiani, motivarli, farli sentire protagonisti in Europa e nel mondo. Il Premier batte molto

su questo tasto. Insomma, un giovane leader, un pugno di giovani donne e di uomini, stanno

provando a “far squillare le nostre campane”. Incontrano naturalmente resistenze notevolissime.

Hanno a che fare queste resistenze con il fatto che la spinta viene da gente ancora “nuova”?

I giovani ci piacciono davvero o ci piacciono in astratto? Le donne possono governare? O se sono

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giovani, e magari belle, non sono poi così legittimate?

Le donne. Passo alla seconda ragione forte per dire sì alla Riforma Costituzionale. Riforma che per

la prima volta, e per prima in Europa, introduce attraverso l’articolo 55 della nuova Costituzione

il principio dell’equilibrio per la rappresentanza di genere.

Dicono: ma non basta l’articolo 3? Il glorioso articolo 3?

No. Il principio dell’uguaglianza non basta. Non ci basta. Va bene per altri soggetti, che giusta-

mente mirano all’uguaglianza. Anzi, da parte di questi soggetti si invoca il passaggio dell’articolo

che invita la Repubblica a rimuovere gli ostacoli alla realizzazione della piena uguaglianza.

Noi donne invece siamo, e vogliamo restare, differenti. La nostra non è una condizione transeunte,

anche se c’è chi lo auspica. Noi vogliamo restare donne ed essere rappresentate paritariamente

con la nostra identità, direi il nostro aspetto anche, differente.

Abbiamo sostenuto questo principio con un appello firmato da tante donne e tanto differenti fra

loro (da Susanna Tamaro a Dacia Maraini, da una scienziata come Angela Bracco a filosofe come

Rosi Braidotti, Claudia Mancina, da Francesca Izzo a Cristina Comencini e Serena Sapegno).

Nell’appello si sottolinea che proprio le donne hanno bisogno di istituzioni stabili e di una demo-

crazia che funzioni.

Stabilità ed efficienza del sistema. Si esprimono in questa direzione anche molti docenti univer-

sitari che sottolineano, e cito testualmente: “Nell’attuale situazione internazionale è una riforma

necessaria sia dal punto di vista economico che politico”. La vittora del No, essi dicono, sarebbe

disastrosa per la posizione internazionale dell’Italia.

Questo appello è stato firmato fra gli altri da: Cristina Marcuzzi, Franco Ferrarotti, Beniamino Ca-

ravita, Roberto Antonelli, Marcella Diemoz, Daniele Archibugi, Maurizio Brunori, Andrea Giardi-

na, Renato Guarini, Luigi Capogrossi.

Altre firme: per esempio, Isabella Ferrari, per esempio Marco Bellocchio, o ancora Silvio Orlando,

firme che provengono dal mondo del cinema e dello spettacolo invitano a “sbloccare il Paese” e,

cito dal loro documento, “dallo stallo totale degli anni più recenti”. Senza dimenticare, dicono

gli artisti, che “obiezioni ai singoli punti della Riforma sono fondate e vanno rispettate” ma essi

annotano “la somma delle obiezioni non pare tale da giustificare un No”. E guai, concludono gli

artisti, “a restare immersi nello stallo attuale”. Mai conclusione è stata da me più sentita

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Claudia Mancina

Io penso che tutti abbiano un po’ sofferto in questa campagna referendaria che ormai volge alla

fine. Tutti hanno un po’ sofferto certi toni violenti, volgari e comunque la difficoltà, come diceva

Bettini, che mettesse al centro la riforma e non altri fini politici, legittimi ma non pertinenti a

questa occasione. Tuttavia penso che abbia anche ragione Panebianco quando dice che è normale

che difronte ad una riforma così importante ci sia una divisione del paese.

E quindi hanno tutti questa preoccupazione, questi appelli a non dividere, a ricucire. Forse sono

un po’ fuor di luogo, perché la divisione su temi di questo genere è assolutamente normale e forse è

il segno di una vitalità, di un coinvolgimento vitale da parte di ambedue gli schieramenti. Io credo

e qualcuno quando lo dico, dice che esagero, che questo referendum è storico e importante come

altri due referendum: quello istitutivo della nostra Repubblica, quello del 46 (su Repubblica o

Monarchia) e quello sul divorzio che è stato l’inizio come tutti sappiamo non solo di diritti politici

ma anche di una nuova stagione politica in cui le sorti del paese almeno fino ad un certo punto è

sembrato volgere più nettamente a sinistra.

Credo che questo referendum sia altrettanto storico perché quello che è in questione è come diceva

Bettini: due Italie. Io direi certamente anche due idee di democrazia, due modi di concepire la

democrazia, il rapporto tra popolo e istituzioni, tra cittadini ed istituzioni. E questo è un punto

su cui vorrei fermarmi perché credo che sia importante averlo chiaro, non è forse del tutto è stato

esplicitato; anche se è venuto alla luce in alcuni momenti. Per esempio io credo molto bene che

sia venuto alla luce nel dibattito tra Renzi e Zagrebelsky il quale ha detto che in democrazia non

si tratta di vincere ma si tratta di mettersi d’accordo.

È una cosa abbastanza sorprendente, spiazzante, venendo da un costituzionalista, tra l’altro che ha

un’età e che ha visto come andavano le cose nella prima Repubblica, quando appunto tutti pen-

savano di aver vinto per mezzo punto in più e tutti si mettevano d’accordo. Credo che questa idea

e questa visione della democrazia come qualcosa di lento, di faticoso, di caratterizzato più dagli

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impacci che dalla spinta a decidere. In questa idea di democrazia è presente da un lato l’idea di

una visione ottocentesca del rapporto tra Parlamento e Governo. Per cui il governo era il governo

del re o governo aristocratico che doveva essere controllato dal Parlamento.

Quindi l’idea di due istituzioni contrapposte in qualche modo. Mentre nell’idea democratica delle

istituzioni contemporanee il Governo è espressione del Parlamento, cioè Parlamento e Governo

sono in linea non sono in contrapposizione e quindi certo che il Parlamento deve avere il suo grande

spazio di azione, ma questo spazio ce l’ha non per controllare il Governo ma per attuare insieme al

Governo le politiche che sono state premiate dalle elezioni. Per questo è importante vincere. Per

questo in democrazia quello che conta è vincere. Perché vincere significa avere un consenso su

delle proposte politiche e proprio con il consenso trasformarle in azione.

Questo è il meccanismo della democrazia e della democrazia contemporanea per lo meno, dei regimi

parlamentari contemporanei. Quelli che abbiamo intorno. Quelli dei paesi che ci appaiono più

forti di noi perché noi siamo un paese debole esattamente perché non siamo riusciti a realizzare

questo modello di democrazia. Quello in cui i Governi sono stabili. Durano normalmente per la

legislatura. Solo eccezionalmente accade che un Governo nel Regno Unito o in Germania venga

licenziato prima della fine della legislatura.

Può accadere ovviamente perché il Parlamento è sovrano. Il Parlamento può sfiduciare il Governo

perché sennò non sarebbe un regime parlamentare. Però normalmente proprio perché il Governo

è espressione del Parlamento dura quanto dura la legislatura. Questo come abbiamo ripetuto tante

volte. Perché queste sono cose da cui discutiamo da più di trent’anni.

In varie sedi, nelle Commissioni Bicamerali e sempre nelle aule parlamentari. Io non so da quanto

tempo si dice: questa sarà una legislatura costituente. Da quando io ho memoria si dice questa

sarà una legislatura costituente. Il problema è sempre stato presente all’interno della democrazia.

Però appunto in questo dibattito abbiamo avuto sempre la difficoltà, l’incapacità di realizzare

questo modello contemporaneo di democrazia. Io vorrei citarvi solo tre numeri che sono partico-

larmente significativi secondo me: in 70 anni abbiamo avuto 63 Governi, il Regno Unito 20 e la

Germania 24. Come si fa a costruire un paese moderno, un paese governato in maniera efficace.

Come si fa a fare una politica efficace con questo ritmo di cambiamento dei governi. Il bello è che

qualcuno in questa discussione ha obiettato che noi siamo stati il paese più stabili di tutti perché

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è vero che abbiamo cambiato i governi ma il partito dominante era sempre lo stesso.

Continuando ancora una volta a non capire che il problema è governare. Non avere semplicemente

una maggioranza parlamentare. Avere una maggioranza parlamentare significa governare e

governare significa rispondere ai problemi, significa offrire soluzioni ai problemi di un paese.

Questo significa governare. Governare non è un pericolo che debba essere tenuto sotto controllo.

Allora tra l’altro dopo la fine della prima Repubblica non abbiamo avuto neanche quel tipo di

stabilità che non era certamente foriera di un buon governo. Allora noi abbiamo oggi una scelta

tra due idee di democrazie: tra una democrazia ancora con i piedi nell’800 e invece una democra-

zia contemporanea, una democrazia europea nella quale non si deve aver paura del Governo. Tra

l’altro va ricordato, forse di passaggio che questa riforma che è stata accusata di mettere un uomo

solo al comando, questa riforma in realtà non tocca nessuno dei poteri del Presidente del Consiglio

a differenza di quanto facevano tutte le proposte di riforma precedentemente avanzate dalle altre

Bicamerali o Commissioni. C’è sempre stata la proposta di aumentare i poteri del Presidente del

Consiglio. Con questa riforma questi poteri non cambiano e il Presidente del Consiglio resterà

il Premier più debole in Europa, cioè il Premier che ha meno poteri rispetto ai suoi omologhi

europei. Devo dire che io personalmente avrei aumentato i poteri del Presidente del Consiglio e

sono felice che non sia stato fatto perché con questa atmosfera sicuramente avrebbe, come dire,

aumentato le difficoltà. Ma la scelta è stata di dare forza ai governi soltanto con l’abolizione del bi-

cameralismo paritario perché è evidente che se c’è una sola Camera in cui si svolge il rapporto tra

maggioranza e governo, questo facilita molto l’azione di Governo e la limpidezza di un rapporto tra

Parlamento e Governo. Non è solo questione di tempi. IO credo che la navetta tra le due Camere

non sia solo un problema di tempi. E’ soprattutto un problema politico perché le maggioranze sono

quasi sempre diverse (sono diversi persino i gruppi parlamentari) tra Camera e Senato e quindi gli

accordi che sono necessari per far passare le leggi devono essere fatti due volte.

E sappiamo che nelle condizioni di questa fase in cui viviamo (la cosiddetta Seconda Repubblica)

che quando ci sono maggioranze risicate bastano due o tre parlamentari per ottenere delle

concessioni per far passare le leggi.

Tutto questo è facilitato dall’esistenza di due Camere e sarà sicuramente asciugato questo aspetto

dalla presenza di una Camera sola. A questo vorrei aggiungere una riflessione sulla questione del-

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la corruzione. Che è una questione gravissima del nostro Paese. Ma io credo che la corruzione non

è un fatto antropologico, non può essere che gli italiani sono corrotti. Tanto meno può essere che

sono corrotti i consiglieri regionali. Evidentemente il punto non è questo. IO credo che la corru-

zione sia uno dei più gravi effetti della debolezza del sistema istituzionale e politico. Uno dei più

gravi effetti appunto di questa difficoltà di governare. Del fatto che non c’è un centro dell’azione

politica che sia trasparente e responsabile difronte ai cittadini perché la responsabilità, il poter

render conto delle proprie azioni è un elemento fondamentale dell’efficienza ma anche del rapporto

tra cittadini e politica e quindi anche della corruzione. La corruzione si annida nella palude,

nell’incertezza, in quelli che sono gli impacci che il nostro sistema istituzionale pone all’attività

di Governo. Io quindi sono convinta che questa riforma porterà anche la possibilità di vedere si-

gnificativamente diminuire quel fenomeno della corruzione ha tanto contribuito a creare quel tipo

di rapporto tra cittadino e politica. Credo di dovermi avviare alle conclusioni: vorrei dire una cosa

riferendomi anche ad obiezioni che vengono fatte. Noi dobbiamo superare la paura di un Governo

forte che poteva essere spiegabile quando fu approvata la Costituzione, in un paese che usciva

dal fascismo ma che oggi non ha più nessun motivo di essere. E dobbiamo anche ricordare che

storicamente sono stati precisamente i governi deboli ad aprire le cosiddette derive autoritarie.

Non sono i governi forti, se sono ovviamente governi democratici (Costituzione democratica) a far

incorrere in derive autoritarie. Sono stati i governi deboli che hanno lasciato crescere il fascismo

in Italia e il nazismo in Germania ma anche rischi seri per la democrazia negli anni 30 in Fran-

cia, perfino un paese democratico che poi ha retto ma che ha avuto un periodo difficile. Noi non

dobbiamo assolutamente cadere in questa trappola del governo forte, dell’uomo solo al comando.

Tra l’altro qualcuno ha detto perché uomo e non donna. Donne e uomini sono quelli che possono

essere soli al comando. Non dobbiamo aver paura di questo perché quello che costruiremo con

questa riforma che come tutti speriamo sarà approvata nel referendum di domenica, sarà non una

democrazia più povera ma al contrario una democrazia più ricca. Una democrazia dove la parteci-

pazione dei cittadini sarà più elevata e sarà più evidente nei suoi risultati perché non c’è bisogno

di mettere il nome del primo ministro sulla scheda. In una democrazia ben funzionante si sa chi è

il candidato di una parte politica e il Governo emerge dai risultati del voto.

Questo è quello che noi speriamo possa succedere se viene approvata questa riforma.

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Pietro Reichlin

Intanto grazie dell’invito. Io vorrei partire da questo, dal fatto che forse l’elemento più sorprenden-

te di questa campagna elettorale è l’amnesia storica.

Come se questa riforma costituzionale fosse un oggetto misterioso imposto dall’alto, caduto dal

cielo anziché quello che è: un prodotto di decenni di progetti che sono stati largamente condivisi,

ultimo dei quali la relazione dei costituzionalisti istituita dal presidente del consiglio Letta nel

2013 e formata da giuristi e personalità di diversi orientamenti. Cioè i principi che sono alla base

di questa riforma derivano dalla necessità di correggere i difetti che furono denunciati già nel

dibattito tra i costituzionalisti nel 47.

Cioè già Dossetti, Mortati e tanti altri criticavano il bicameralismo paritario che fu pensato espli-

citamente come un meccanismo per inceppare in qualche modo il processo legislativo ed impedire

al nemico di attuare un vero programma di legislatura sulla base del mandato popolare.

Il ruolo diverso, diciamo nuovo per il Senato è stato ampiamente discusso nella Bicamerale di

D’Alema e in altri progetti di riforma di quasi tutti i partiti che hanno partecipato alle elezioni negli

ultimi anni e si tratta appunto non di un salto nel buio ma di una riforma relativamente timida.

Una riforma che modifica la struttura del nostro bilanciamento dei poteri in un modo che è quello

fondamentalmente adottato in quasi tutti i paesi a regime parlamentare che sono i nostri partner

europei. La stessa affermazione che il governo sia un vaso di coccio in balia di un assemblearismo

spesso caotico e inconcludente è un’affermazione che risale a D’ Alema.

Governi che cioè sono incapaci di portare avanti programmi di legislatura e quindi di program-

mare, di varare programmi che possono durare nel tempo. E la volatilità dei governi, cioè questa

inaffidabilità della politica italiana è un’accusa che ci è stata mossa da tutti , dalla stampa inter-

nazionale per esempio, dai nostri partner europei.

Fino a qualche mese fa, tutti: i commentatori, gli opinionisti, gli esperti riconoscevano la necessità

di rivedere il Titolo V, di liberarci dei veti che provengono da regioni e comuni spesso su materie

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che sono logicamente di interesse nazionale come una rete elettrica, un gasdotto, un’autostrada.

Cioè materie che in un nessun paese civile sono delegate alla periferia nel modo come è fatto da

noi. Da noi invece sono oggetto di contenziosi continui sulla base di un concetto distorto di fe-

deralismo. È rispuntata negli ultimi giorni della campagna elettorale la nostalgia di una forma di

decentramento assoluto, quello che determina il cosiddetto “effetto nimby”, Not In My Back Yard,

cioè la difficoltà di istituire un’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro.

Il Governo può dare i sussidi ma il Governo non può coordinare le attività che presiedono alla

formazione professionale, alla ricerca di un impiego, al collocamento.

Tutto questo deve essere continuamente contrattato e controllato con le Regioni e da qui proven-

gono i ricorsi alla Consulta, per esempio ultimamente su una legge che ricerca di razionalizzare il

settore delle società partecipate con i miliardi di sprechi che esistono e lo sappiamo tutti a livello

comunale, oppure di introdurre delle norme sul modo in cui si accede ai ruoli dirigenziali.

Tutto questo è messo in discussione e tutto questo ci da una dimostrazione che i risparmi da una

riforma costituzionale non sono quelli che derivano dal fatto di non pagare gli stipendi di qualche

senatore ma sono risparmi che derivano finalmente da una più efficacia legislativa, dalla soluzione

dei problemi che interessano tutti gli italiani.

Si è detto spesso e anche direi con cognizione di causa anche qui e da tutti che le lentezze e i costi

di contrattazione che sono generati dal bicameralismo paritario che sono tra mille tra deputati e

senatori, indeboliscono la capacità del Parlamento di legiferare, spingono i governi a ricorrere in

maniera eccessiva alla fiducia, alla decretazione d’urgenza e cioè svuotano il Parlamento della

funzione legislativa. Basti pensare che si è vero se il Governo vuole approvare una legge ci può

mettere pochi giorni, ma se la legge è d’iniziativa parlamentare ci vogliono 400,500 giorni.

La domanda è: in quale paese vogliono vivere i sostenitori del NO?

Cioè che idea hanno del nostro futuro. È impressionante come tutto questo sapere che io chiamerei

sapere condiviso, cioè questa cosa che fino a sei mesi fa sembrava lapalissiana, si sia improvvi-

samente dissolto e rimane solo quasi il Pd e direi quasi neanche tutto a difendere dei concetti

che sembravano fino a pochi mesi fa ovvi. Senza dire che la riforma costituzionale come è stato

già detto non modifica nulla sui poteri del presidente del Consiglio, anzi rafforza le garanzia

costituzionali e gli istituti referendari e si è arrivato ad aggiungere nell’esito politico il concetto di

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combinato disposto tra la riforma costituzionale e legge elettorale.

Ma la domanda è perché allora i nostri padri costituenti non hanno ritenuto che la legge costi-

tuzionale fosse di rilevanza costituzionale e l’hanno ritenuta invece una legge ordinaria? Ci sarà

un motivo. Qual è il motivo per cui avere una Camera invece che due determina un combinato

disposto. Ma perché non è possibile fare un maggioritario che rafforza il Governo a prescindere dal

numero di Camere che uno ha? E perché in Gran Bretagna esiste una Camera?

Esiste un maggioritario? Ma questo problema non è stato posto, quello che sembrava all’indomani

delle ultime elezioni come un’anomalia, cioè il fatto che il Pd avesse conquistato la maggioranza

alla Camera ma non al Senato, è diventata ora secondo la logica di questi critici un difetto diciamo

un argine alla deriva autoritaria. Io credo che chi avanza tutti questi argomenti per contrastare il

Sì illude che la situazione attuale sia la via per conservare una democrazia assoluta, intese come

l’insieme di assemblee elettive che scaturiscono dal voto popolare, ci avete tolto il diritto di eleg-

gere i senatori allora perché non contestare che il fatto che ci hanno tolto il diritto di votare per i

consiglieri provinciali e forse dovremmo aggiungere per qualche altra Assemblea elettiva per fare

in modo che la democrazia si rafforzi.

Ma non è così che la democrazia funziona, non è contando il numero dei deputati che la democrazia

funziona. Quando il processo legislativo si inceppa le Assemblee decidono poco e quindi non fan-

no quello per il quale sono state pensate e quindi che succede?

Si è detto anche questo, i governi politici lasciano il posto ai governi tecnici che sono pilotati

dall’alto ma questo non per un’avventura ma per l’incapacità di portare avanti programmi che

richiedono non sei mesi ma richiedono una legislatura per essere portati avanti.

Cioè l’incapacità di formare degli esecutivi autorevoli. E questa debolezza del modello politico

spaventa i mercati, ci pone in una condizione di debolezza nei confronti dei nostri partner inter-

nazionali, delle situazioni internazionali.

Pensate soltanto al rischio paese che caratterizza l’Italia, abbiamo una moneta comune con gli altri

paesi dell’euro ma paghiamo un tasso di interesse 1, 2 punti percentuali superiori a quello che

pagano gli altri. Questo è il costo della debolezza politica del nostro paese Italia.

E a questo proposito vorrei citare l’editoriale dell’Economist che ultimamente direi in maniera non

unanime, per qualcuno si è pronunciato in favore del No. Perché secondo me dimostra in maniera

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esemplare il livello di credibilità del nostro sistema politico e la necessità secondo me di uno

scatto d’orgoglio anche a questo di perdere una battaglia come questa.

L’argomento dell’Economist è letteralmente questo, traduco parola per parola: il bicameralismo

paritario è qualcosa di peculiare, una ricetta per la paralisi politica e diverso da ogni altro sistema

delle democrazie occidentali ma conviene lasciarlo così com’è perché:

I nostri politici locali, italiani sono corrotti, perché abbiamo avuto Mussolini e perché forse po-

tremmo avere Grillo nel prossimo futuro.

Meglio allora tornare a governi tecnici e aggiungo io sospendere la democrazia, un po’ come si fa

in Egitto o in Turchia.

Questi problemi dimostrano proprio la necessità di intervenire sull’assetto costituzionale per quel-

la parte che riguarda l’organizzazione dei poteri. Certamente sono problemi troppo profondi per

essere risolti con un ritocco della Costituzione ma la riforma ha un profondo significato politico

perché può aiutare a rendere più stabili i governi in un quadro di ampie garanzie ed arginare

l’ondata populista che ha coinvolto l’Italia. Con la perdita di consenso dei partiti tradizionali e

con tre o quattro forze politiche prevalenti di simile peso elettorale la possibilità che si formi una

maggioranza omogenea nei due rami del Parlamento è affidata oggi alla sorte con l’esclusione del

rapporto fiduciario tra Camera e Senato possiamo cercare di limitare i rischi di ingovernabilità e

restituire la dignità al Parlamento che in questi anni ha prodotto e nella quale si annida il potere

di veto dei piccoli partiti.

Cioè la vittoria del NO non avrebbe solo la conseguenza di rinviare per anni le riforme che sono a

lungo attese se largamente condivise ma io credo anche quella di chiudere le porte alla sperana di

dare all’Italia la possibilità di avere un sistema politico caratterizzato dall’alternanza, da un sano

bipolarismo in cui le l’elettore non decide soltanto il partito che corrisponde meglio il proprio

pensiero lasciando poi al Parlamento la scelta del Governo ma decide anche da quale schieramen-

to politico vuole essere governato.

La realtà è che il fronte del No è oggi fortemente condizionato dal movimento che è contrario proprio

al bicameralismo ed è sintomatico che esso sia riuscito a far passare presso qualcuno la tesi che la

riforma costituzionale abbia il significato di introdurre uno strapotere della maggioranza, una iper

maggioritario, cioè questa tesi è funzionale all’obiettivo di tornare al proporzionale come del resto

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è stato detto da esponenti del centrodestra e del M5s negli ultimi mesi.

La vittoria del No ci porterebbe diretti verso un sistema che è basato su coalizioni specialmente in

una fase come questa e tutto ciò che alimenta l’irresponsabilità delle forze politiche perché in un

sistema politico dove non si sa chi governa i Governi sono irresponsabili.

Ora è chiaro non intendo dire che la riforma costituzionale da sola ci porterà fuori da un sistema

bipolare ma la vittoria del NO renderebbe molto più problematica questa scelta e questa prospettiva.

E cioè in altre parole la proposta di abolire il bicameralismo paritario ha svelato il bluff di chi

si dichiara a parole contro i Governi di coalizione ma di fatto preferisce questa soluzione ad un

sistema competitivo e trasparente per il timore di perdere il proprio potere di veto.

Io credo che la vittoria del Si o comunque un risultato positivo per il Si darebbe un segnale

positivo perché dimostrerebbe che il popolo italiano non si rassegna a questa ingovernabilità.

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Mario Tronti

Già molto è stato detto perciò posso limitarmi a brevi considerazioni, intanto da osservare che

questi pomeriggio ha mostrato un modo, una forma di partecipazione ad una campagna elettorale

che potrebbe essere un modello per tutti, cioè ragionando, confrontandosi con le opinioni degli

altri, approfondendo anche i problemi che ci sono di fronte di una competizione di questo tipo

mette in campo e cioè quel fare politica che è il modo migliore da coltivare, anche per ridare alla

politica stessa quella dignità che merita e che forse un po’ ha perduto.

Ecco la Costituzione, vedi Beppe bisognerebbe rifare, dopo questo passaggio, quella indagine

sulla conoscenza della Costituzione, per vedere quanto la campagna elettorale lunghissima e -

troppo lunga - per capire quindi quanta conoscenza è cresciuta quando si è approfondita, anche

se non bisogna dare troppa importanza al fatto della conoscenza del testo Costituzionale perché le

Costituzioni hanno anche un aspetto simbolico, un aspetto mitico, e credo che quello sia molto di

più consistente nella popolazione anche umile che non si mette a leggere i testi costituzionali, noi

abbiamo fatto certe volte una campagna elettorale come se dovessero andare a votare 30 milioni di

costituzionalisti, cioè entrando nel merito di piccoli problemi giuridici, giurisdizionali e così via…

non solo da parte del Si ma anche da parte degli altri.

Invece questo passaggio di grande interesse sul fatto Costituzionale è sicuramente un dato positi-

vo che bisogna poi cercare di mettere a confronto con altri passaggi successivi perché è vero che

dobbiamo prepararci anche a qualche passaggio difficile che poi può venire.

Diciamo che noi ci troviamo di fronte ad un passaggio politico molto delicato e tutto il discorso

sulla Riforma Costituzionale va letto politicamente, va fatto leggere politicamente, nelle sue

possibili conseguenze anche nei suoi reali contenuti.

È vero che ci troviamo di fronte ad un bivio di indicazione - Goffredo diceva che il Sì e il No

sono due Italie diverse che possono venir fuori da questa consultazione e questo bisogna molto

sottolinearlo. Però, se minimamente vogliamo entrare nel merito dei quesiti istituzionali, credo

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per esempio anche per riprendere i motivi del dibattito che abbiamo fatto qui, ho trovato poco

utilizzato il confronto tra questa riforma costituzionale e gli altri progetti di riforma che ci sono

stati prima, soprattutto quello di Berlusconi bocciato dal referendum o quello della Bicamerale,

famosa, quella di D’Alema abortita, perché li sarebbe stato molto utile, siccome l’argomento fon-

damentale soprattutto da certi costituzionalisti del No è stato questo allarme sullo stravolgimento

della Costituzione, il confronto con quei progetti precedenti mostrava effettivamente ed esatta-

mente il contrario perché lo stravolgimento c’era prima e questa Riforma ha messo fine a quei

tentativi che partivano da lontano.

Non dimentichiamo che la grande Riforma della Costituzione in un senso molto preciso che era un

senso semipresidenzialista è partita da Craxi, e poi gli altri progetti erano molto allineati sul quel

tipo progetto. Aver scelto invece restare nella forma di Governo parlamentare è stata una scelta

molto saggia, perché tutta intera la nostra Costituzione prevede la forma di Governo Parlamentare,

non solo la seconda parte, ma tutta la prima parte presuppone la forma di Governo parlamentare.

L’unico stravolgimento della costituzione che avrebbe colpito la prima parte anche, sarebbe stato

quello appunto di un soluzione semi-presidenzialista o addirittura presidenzialista del tutto al di

fuori della nostra tradizione. La costituzione era una forma di governo parlamentare basata sui

partiti, sulla forma di una repubblica dei partiti, è diventato poi molto difficile continuare

a difendere la forma dal governo parlamentare dentro la crisi dei partiti.

Tutti gli ultimi decenni noi abbiamo vissuto proprio esattamente questa condizione, una certa con-

traddizione tra il voler mantenere giustamente la forma parlamentare e difatti essere invischiati

dentro la crisi dei partiti, di quei partiti che non erano più quelli in grado di supportare questa

forma di Governo parlamentare. E questa è una cosa che bisogna superare, e credo che si possa

superare molto meglio facendo passare questa Riforma che bloccandola perché - lo dirò anche in

un altro modo - Se questa riforma passa noi possiamo metterci dietro alla spalle tutta la tematica

istituzionale o gran parte di essa attraverso i decreti attuativi … e si può passare ad un’altra fase .

Se questa Riforma viene bocciata ricomincia una nuova fase di discorso tutto Istituzionale, il che,

badate, ci mette fuori via rispetto ai bisogni reali che noi abbiamo di fronte che la società moderna,

italiana, europea, occidentale ha di fronte, che sono problemi non precisamente di carattere

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istituzionale, ma sono grandi, enormi problemi di carattere sociale. Badate, noi ci troviamo di

fronte ad una questione sociale di tipo nuovo, che non era descritta dalle precedenti conoscenze

anche sociologiche o economiche, perché dopo la fine del capitalismo industriale, dopo questo

passaggio neoliberista che è incappato in una lunga crisi interminabile, è accaduto qualcosa nel

fondo del sociale che noi stiamo oggi verificando non a livello italiano ma anche a livello europeo

e addirittura mondiale.

Questa onda che si è messa in moto e che fino a ieri sembrava un qualcosa che riguardava alcuni

paesi dell’Europa, quando l’abbiamo vista scatenarsi dagli Stati Uniti, è beh, bisogna iniziare a

pensare seriamente a questa cosa, quando l’onda parte da lì è beh è un’onda grossa, cioè a qualche

cosa che a cui devi trovare in qualche modo rimedio, si sta riorganizzando nel basso del sociale

un nuovo blocco sociale inedito che abbiamo visto dentro il consenso ad un personaggio come

Trump, cioè non solo operai ma lavoratori sia dipendenti , sia autonomi incanalati dal fatto che

non per semplici questioni di reddito ma anche per forti questioni di status che hanno perduto,

cioè un operaio non può sopportare di essere un emarginato, e quando un operaio vede chiusa la

sua industria e diventa un emarginato, lì cresce una rabbia incontenibile proprio perché è no è

abituato ad essere emarginato, il ceto medio, il ceto medio di un certo tipo, non è abituato ad esse-

re impoverito e quando si impoverisce reagisce con la rabbia più alta possibile, noi ci troviamo

di fronte a questa cosa qui e lì bisogna puntare l’occhio.

Allora se passa il Si, noi dobbiamo passare ad un’altra fase anche di Governo cioè affrontare que-

sta questione sociale in termini realistici, crudi, è un problema del Governo, è un problema del

Partito, bisogna rigettare e rimettere il partito in mezzo al Popolo, a questo Popolo che non è detto

che sia per sempre vittima di una opzione cosiddetta populista o antipolitica. Bisogna riscattarlo

da quella condizione ma con una grande operazione politica, con un grande iniziativa politica,

questo si può fare soltanto appunto con la vittoria del Si, abbiamo la possibilità di passare a questa

altra seconda fase.

Voglio dire, in Italia non siamo messi poi così male perché riprendendo le considerazioni che fa-

ceva anche Beppe e lo dico in altro modo - noi abbiamo visto i Socialisti francesi andare a votare

alle primarie della destra insomma noi abbiamo costretto la destra a votare alle primarie del cen-

trosinistra, e che vuol dire questo, vuol dire che noi abbiamo ancora una centralità insomma che

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per esempio i francesi hanno perduto. i socialisti spagnoli si sono accodati ad un Governo Rayoj

e insomma non è una buona cosa. i socialdemocratici tedeschi stanno attaccati alla gonnella o ai

pantaloni della Merkel perché non hanno altra prospettiva. i laburisti sono scomparsi dalla scena

insomma perché c’è questa nuova leadership di conservazione compassionevole come pare di ca-

pire che è anch’essa molto pericolosa.

Quindi noi abbiamo una postazione e in questo condivido quello che diceva Beppe - vogliamo con-

dividere questa postazione che è l’ultima rimasta e che in prospettiva può darci una condizione

di leadership europea ma di leadership no soltanto nei confronti dell’Europa perché è importante

che un possibile vittoria del si sia appunto autorità al Governo italiano ma anche nei confronti

del Partito Socialista Europeo. Ecco li possiamo avere essendo una forza legittimata e ancora in

campo, possiamo pretendere ad una opzione addirittura di direzione o di orientamento di questo

partito socialista europeo che dio sa se ha bisogno di una direzione o di un orientamento vista la

sua assenza praticamente dal contesto generale.

Allora ecco lavoriamo molto su questa direzione preparandoci anche a scenari diversi insomma.

Uno scenario diverso non deve gettarci nel panico, dobbiamo reagire con molta calma con molta

abilità. Vorrei che non si facessero scelte affrettate dal punto di vista anche di Governo, è bene

mantenere insomma in mano quello che abbiamo prima di cederlo anche in seguito ad una possi-

bile sconfitta, perché dobbiamo continuare a gestire noi la situazione, non farcela gestire da altri.

Qui il rapporto Partito Governo diventa fondamentale e su questo direi l’ultima cosa, se è vero

che dobbiamo passare con la vittoria del si o una possibile vittoria del si ad una cosa che riguarda

più da vicino i problemi sociali, subito dopo bisogna passare anche ad una nuova idea, ad una nuo-

va forma, ad una nuova organizzazione politica, di partito, bisogna rimetter in gioco il grande pro-

blema “Partito”, perché questo è indispensabile anche per una e - direi che questo dobbiamo farlo

comunque e indipendentemente dal risultato - perché è un punto strategico, proprio di movimento.

Anche lì in quel senso il problema istituzionale può ritornare se rimettiamo mano all’articolo 49 e

così via, ma teniamo conto che noi abbiamo di fronte una necessità e una urgenza anche di riparare

una frattura che si è realizzata tra quella che si dice ormai, tra élite e popolo, tra establishment e

base sociale e così via, cioè il grande problema di ri-legittimare la politica c’è il grande problema

di riqualificare il ceto politico.

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Questo è un passaggio strategico che bisogna fare comunque, perché è quello che fonda un pas-

saggio futuro. Bisogna, anche quando si ha la fortuna o la sfortuna di governare, sempre pensare

alla durata. Bisogna saper durare, non bisogna ma mettere in gioco - per un passaggio che non

riusciamo a controllare - la provvisorietà della propria presenza , perché saper durare significa

saper approfondire, allargare e creare sempre di più intorno a sé maggiore consenso, allargare

approfondire e tenere bene solido intorno a sé il consenso, toglierlo a chi ce l’ha e riprenderselo

dove lo abbiamo perso, tenendo quello che c’avevamo cioè con una operazione che deve essere

sempre molto lucida e con un forte grado di realismo e anche guardando molto avanti avendo una

visione di dove si vuole arrivare e facendo capire al di là di tutte le difficoltà, facendo capire dove

si vuole arrivare, non qui vicino ma appunto il più lontano possibile da qui, grazie.

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